Gian Marco Griffi
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gian marco griffi ° VITA A SABBIONE 1 A Paola, e a Roby Avvertenza Non è intenzione dell’autore promulgare in alcun modo il suicidio, né promuover- lo. Egli – l’autore – è profondamente convinto che la vita sia meravigliosa. Pertanto tutto l’infernale, grottesco, fantascientifico mondo che troverete nelle pa- gine di questo libro non rispecchia minimamente (o in modo trascurabile) il no- stro bellissimo Pianeta Terra, ma è frutto di un’immaginazione deviata o, se pre- ferite, di una cattiva digestione prolungata. g.m.g. 2 Sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone Dante 3 4 PREGHIERA AGLI EDITORI Caro Editore, ormai da dodici anni sono prigioniero di una città chiamata Sabbione. Di questi, gli ultimi cinque li ho trascorsi in un appartamento ammobiliato a scrivere, ad attendere l’uomo dell’Ufficio Turistico e a osservare il vento, ancora e ancora, mentre stimola la bianche- ria, i calzoni, le lenzuola; mentre solletica i bulletti del quartiere, giù in strada, fuori dal bar per fumare; mentre inturgidisce i capezzoli delle ragazzine quando escono dal liceo. Sempre il vento. Mi accompagna. Di tanto in tanto mi stringe. E sempre qui, in questa casa al quarto piano di un condominio lo- goro, sul copriletto che fu di mia madre, dove ho lasciato le mie tracce; macchie perlopiù, di sperma, piscio, sudore vario. I miei aguzzini mi trattano bene, non posso certo lamentarmi, e talvolta mi concedono addirittura brevi incursioni oltre i confini della città. Ma tali incursioni sono esperienze fugaci e non del tutto piacevoli: quasi sempre mi concedono la libertà solo per permettere che io mi occupi di bollette da pagare, del denti- sta da prenotare, di golfisti da far giocare per accaparrare quel tan- to denaro bastevole a pagare le bollette, il dentista, il gasolio che permette alla mia Fiat Bravo di condurmi nel luogo in cui fac- cio giocare i golfisti per accaparrare il denaro. Io sto provando a fare quello che i cittadini di Sabbione mi chiedono: essi pretendono che io li descriva, li narri, li tratteggi, li illustri; bramano che il mondo là fuori si accorga di loro, della loro civiltà, dei loro usi e costumi: per questo motivo mi hanno incari- cato di redigere una serie di resoconti sulle loro questioni. Nello specifico ciò è quanto mi ha imposto l’Ufficio Turistico di Sabbione il giorno in cui mi fece prelevare all'uscita della pale- stra Zerottanta di Asti, in Monferrato, un giorno in cui avevo pra- ticato un’attività conosciuta col nome di pilates. 5 Racconta la nostra terra, le nostre questioni, mi dissero. Ho tra- scorso i primi sette anni a integrarmi con la cultura sabbionassa, con la legge locale, con le ossessioni e le manie dei cittadini di que- sta terra. Non sono questioni molto diverse dalle questioni degli abitanti di qualunque altro posto. Cionondimeno essi si arrogano la presunzione di infrangere l’involucro di immaterialismo che, di- cono, li caratterizza, e di palesarsi per quello che realmente sono. Le questioni dei sabbionassi sono questioni per certi versi assai buffe, per altri assai mostruose, per altri ancora assai ordinarie. Del resto per qualcuno buffa è la vita, per altri la morte, per altri ancora la poltrona di stoffa scozzese e la luce che barbaglia nella stanza accanto a quella degli ospiti, eternamente scura come l’inchiostro. Quella che mia sorella ripulirebbe da cima a fondo, se solo non fosse morta. La ricordo bene, mia sorella, ma non voglio indugiare su di lei. Neppure di quando cagava sul pavimento di mattonelle grigio chiare. E neppure del suo morsicare la gommapiuma con la dentie- ra nuova per testarne la consistenza. Ho le croci su per il culo , diceva, i batacchi per il melograno a tenere su la gonna . Si credeva ebrea, mia sorella, chissà perché. Al diavolo il seder , diceva, il tu-bishvat, gozzovigliate con vino e frutta per poltrire su donnacce e animali, maiali che non siete altro . Era cattolica, ma se ne vergognava. E sgobbava tutto il giorno come un mulo. Io al contrario poltrisco spesso, non me ne vergo- gno affatto, e non ho il dorso come quello di un mulo. Ho le dita putrefatte dal fumo, i calcagni consumati dall’immobilità, un letto con una trapunta ispida e infeltrita come quella dei cani. E ho questo incarico scomodo e raccapricciante: far conoscere Sabbione al mondo intero. Ignoro le ragioni per cui i sabbionesi abbiano deciso di affidare a me un simile oneroso còmpito. Ho cercato di spiegargli in tutti i modi che esistono migliaia di persone più indicate: scrittori, registi, drammaturghi, pittori, fotografi, poeti, tragediografi, commedio- grafi, giornalisti, musicisti, cantautori, radiocronisti. Li ho supplica- ti affinché cercassero di mostrarsi al mondo per mezzo di altre 6 forme, o quantomeno per mezzo di altri uomini o donne più capa- ci di me, ma non c'è stato nulla da fare. L’uomo dell’Ufficio Turistico ripete che il loro cronista devo ne- cessariamente essere io. Passa da casa due volte la settimana a ritirare il materiale. Quando viene a farmi visita non ci salutiamo. Raramente scam- biamo qualche parola. Io gli offro un caffè, fumiamo una sigaretta, gli consegno il materiale. Il materiale sono queste cronache, resoconti, racconti, pam- phlet, volantini pubblicitari riguardanti Sabbione e i suoi cittadini. Io dico “Chiamami Molloy”, ma lui non capisce e continua a chiamarmi come vuole. L’uomo dell’Ufficio Turistico non ha mai espresso un giudizio sul materiale che gli consegno. So solo che non posso smettere di produrlo – il materiale – fino a quando quelli dell’Ufficio Turistico non saranno completamente appagati. Ciò si verificherà nel momento in cui riusciranno a trovare il modo di far leggere il materiale a quanta più gente possibile fuori dei confini di Sabbione. Ritengo che il loro obbiettivo sia quello di stampare un libro contenente tutto il materiale che ho prodotto in questi anni, e che ancora sto producendo, al fine di propagandare il loro territo- rio. Quando saranno riusciti in quest’impresa io sarò finalmente li- bero di tornare a casa da mia moglie, dai miei pochi amici, dal re- sto della mia famiglia. Almeno questo è quanto mi hanno garantito. Nel frattempo sono prigioniero a Sabbione, e ultimamente non ho neppure più il desiderio di uscire di casa. Prendo aria sul terraz- zo, fumo, bevo scotch liscio, guardo quello che succede in strada o nel cortile interno del palazzo. Guardo dalla finestra, a volte dallo spioncino della porta, atten- dendo l’uomo dell’Ufficio Turistico. La meccanica di una porta è apparentemente semplice. Eppure nasconde ingranaggi invisibili all’occhio umano, ruote dentate, spire e concatenamenti inammis- sibili per una mente non istruita. Chi mastica di carpenteria sa di cosa sto parlando. Ma forse quello di cui sto parlando non è la 7 porta. È quello che sta fuori. Case, specialmente, ed esseri umani che si affannano e si arrabattano, discorrono gli uni con gli altri, si sforzano in ogni modo di comunicare, esprimere, riferire. Io, ormai, non provo alcun piacere a parlare. L’ho fatto capire, a chi mi sta intorno, anche se nessuno vuole darmi retta. Continuano tutti a domandare, pretendendo che io apra bocca per comunicare con chiunque: l’idraulico, l’elettricista, il dentista, il falegname, il vigile, il barista, ecc. Ma io mi sono abituato talmente bene nel silenzio, coi miei pensieri, che ormai anche quando penso sono fermamente convin- to di parlare, solo più prudentemente. Ormai fatico a sopportare la mia voce in una stanza o anche in un giardino, o in chiesa, le rare volte che ci vado. E così penso e scrivo. Non che faccia pensieri di chissà quale caratura, questo è vero, tuttavia penso e scrivo. E ho cercato di farlo capire in tutti i modi, a chi mi ronza intorno, che non voglio più pronunciare una sola sillaba. I miei pensieri li potrei paragonare a un bozzolo, un involucro grezzo. Hanno le virgole, i punti. Sono sempre stato molto pignolo su questo genere di cose. E comunque la prontezza di deduzione non è mai stata una mia prerogativa. Ho bisogno di rimuginare sul- le parole, o per meglio dire, sulle ombre delle parole che i pensieri suscitano. Ma questo ormai non è più un problema. Non riesco più a distinguere un aggettivo da un altro, un avverbio da una par- ticella nominale, le preposizioni mi intralciano. Anche i verbi mi danno qualche problema. Ma, mi sono detto, si fottano i verbi. Questo mi sono detto. E poi, chi si dovrebbe indignare? Andate a farvi fottere, mi sono detto. E mi ripugna essere così poco compo- sto, così licenzioso, così poco attento a un certo savoir faire che senza falsa modestia mi ha sempre contraddistinto. Ma ne ho il cu- lo pieno, e la testa, di verbi, pronomi e altre diavolerie lessicali. Alla fine si finisce sempre così, mi sono detto, a piangersi ad- dosso e a lamentarsi di tutto, a pensare oddio sono quel genere di uomo . Questo mi sono detto, o meglio ho pensato, subito dopo aver consegnato il materiale all'uomo dell'Ufficio Turistico l’ultima vol- ta. 8 Cara Paola, cari mamma e papà, cari amici, vi inserisco brevemente nella presente missiva per comunicarvi che a Sabbione, nonostante tutto, mi trattano bene. Non dovete preoccuparvi. Le mie facoltà mentali sono ancora piuttosto buone, e quelli dell'Ufficio Turistico si prendono la briga di mantenere il mio tenore di vita accettabile. Ho perso trenta chili, questo è pur vero, ma si tratta del frutto di una dieta equilibrata e di una sana alimentazione, e non, come qualcuno ha sostenuto, di trascuratez- za o peggio ancora disagio.