gian marco griffi

°

VITA A SABBIONE

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A Paola, e a Roby

Avvertenza Non è intenzione dell’autore promulgare in alcun modo il suicidio, né promuover- lo. Egli – l’autore – è profondamente convinto che la vita sia meravigliosa. Pertanto tutto l’infernale, grottesco, fantascientifico mondo che troverete nelle pa- gine di questo libro non rispecchia minimamente (o in modo trascurabile) il no- stro bellissimo Pianeta Terra, ma è frutto di un’immaginazione deviata o, se pre- ferite, di una cattiva digestione prolungata.

g.m.g.

2

Sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone

Dante

3

4 PREGHIERA AGLI EDITORI

Caro Editore,

ormai da dodici anni sono prigioniero di una città chiamata Sabbione. Di questi, gli ultimi cinque li ho trascorsi in un appartamento ammobiliato a scrivere, ad attendere l’uomo dell’Ufficio Turistico e a osservare il vento, ancora e ancora, mentre stimola la bianche- ria, i calzoni, le lenzuola; mentre solletica i bulletti del quartiere, giù in strada, fuori dal bar per fumare; mentre inturgidisce i capezzoli delle ragazzine quando escono dal liceo. Sempre il vento. Mi accompagna. Di tanto in tanto mi stringe. E sempre qui, in questa casa al quarto piano di un condominio lo- goro, sul copriletto che fu di mia madre, dove ho lasciato le mie tracce; macchie perlopiù, di sperma, piscio, sudore vario. I miei aguzzini mi trattano bene, non posso certo lamentarmi, e talvolta mi concedono addirittura brevi incursioni oltre i confini della città. Ma tali incursioni sono esperienze fugaci e non del tutto piacevoli: quasi sempre mi concedono la libertà solo per permettere che io mi occupi di bollette da pagare, del denti- sta da prenotare, di golfisti da far giocare per accaparrare quel tan- to denaro bastevole a pagare le bollette, il dentista, il gasolio che permette alla mia Fiat Bravo di condurmi nel luogo in cui fac- cio giocare i golfisti per accaparrare il denaro. Io sto provando a fare quello che i cittadini di Sabbione mi chiedono: essi pretendono che io li descriva, li narri, li tratteggi, li illustri; bramano che il mondo là fuori si accorga di loro, della loro civiltà, dei loro usi e costumi: per questo motivo mi hanno incari- cato di redigere una serie di resoconti sulle loro questioni. Nello specifico ciò è quanto mi ha imposto l’Ufficio Turistico di Sabbione il giorno in cui mi fece prelevare all'uscita della pale- stra Zerottanta di Asti, in Monferrato, un giorno in cui avevo pra- ticato un’attività conosciuta col nome di pilates.

5 Racconta la nostra terra, le nostre questioni, mi dissero. Ho tra- scorso i primi sette anni a integrarmi con la cultura sabbionassa, con la legge locale, con le ossessioni e le manie dei cittadini di que- sta terra. Non sono questioni molto diverse dalle questioni degli abitanti di qualunque altro posto. Cionondimeno essi si arrogano la presunzione di infrangere l’involucro di immaterialismo che, di- cono, li caratterizza, e di palesarsi per quello che realmente sono. Le questioni dei sabbionassi sono questioni per certi versi assai buffe, per altri assai mostruose, per altri ancora assai ordinarie. Del resto per qualcuno buffa è la vita, per altri la morte, per altri ancora la poltrona di stoffa scozzese e la luce che barbaglia nella stanza accanto a quella degli ospiti, eternamente scura come l’inchiostro. Quella che mia sorella ripulirebbe da cima a fondo, se solo non fosse morta. La ricordo bene, mia sorella, ma non voglio indugiare su di lei. Neppure di quando cagava sul pavimento di mattonelle grigio chiare. E neppure del suo morsicare la gommapiuma con la dentie- ra nuova per testarne la consistenza. Ho le croci su per il culo , diceva, i batacchi per il melograno a tenere su la gonna . Si credeva ebrea, mia sorella, chissà perché. Al diavolo il seder , diceva, il tu-bishvat, gozzovigliate con vino e frutta per poltrire su donnacce e animali, maiali che non siete altro . Era cattolica, ma se ne vergognava. E sgobbava tutto il giorno come un mulo. Io al contrario poltrisco spesso, non me ne vergo- gno affatto, e non ho il dorso come quello di un mulo. Ho le dita putrefatte dal fumo, i calcagni consumati dall’immobilità, un letto con una trapunta ispida e infeltrita come quella dei cani. E ho questo incarico scomodo e raccapricciante: far conoscere Sabbione al mondo intero. Ignoro le ragioni per cui i sabbionesi abbiano deciso di affidare a me un simile oneroso còmpito. Ho cercato di spiegargli in tutti i modi che esistono migliaia di persone più indicate: scrittori, registi, drammaturghi, pittori, fotografi, poeti, tragediografi, commedio- grafi, giornalisti, musicisti, cantautori, radiocronisti. Li ho supplica- ti affinché cercassero di mostrarsi al mondo per mezzo di altre 6 forme, o quantomeno per mezzo di altri uomini o donne più capa- ci di me, ma non c'è stato nulla da fare. L’uomo dell’Ufficio Turistico ripete che il loro cronista devo ne- cessariamente essere io. Passa da casa due volte la settimana a ritirare il materiale. Quando viene a farmi visita non ci salutiamo. Raramente scam- biamo qualche parola. Io gli offro un caffè, fumiamo una sigaretta, gli consegno il materiale. Il materiale sono queste cronache, resoconti, racconti, pam- phlet, volantini pubblicitari riguardanti Sabbione e i suoi cittadini. Io dico “Chiamami Molloy”, ma lui non capisce e continua a chiamarmi come vuole. L’uomo dell’Ufficio Turistico non ha mai espresso un giudizio sul materiale che gli consegno. So solo che non posso smettere di produrlo – il materiale – fino a quando quelli dell’Ufficio Turistico non saranno completamente appagati. Ciò si verificherà nel momento in cui riusciranno a trovare il modo di far leggere il materiale a quanta più gente possibile fuori dei confini di Sabbione. Ritengo che il loro obbiettivo sia quello di stampare un libro contenente tutto il materiale che ho prodotto in questi anni, e che ancora sto producendo, al fine di propagandare il loro territo- rio. Quando saranno riusciti in quest’impresa io sarò finalmente li- bero di tornare a casa da mia moglie, dai miei pochi amici, dal re- sto della mia famiglia. Almeno questo è quanto mi hanno garantito. Nel frattempo sono prigioniero a Sabbione, e ultimamente non ho neppure più il desiderio di uscire di casa. Prendo aria sul terraz- zo, fumo, bevo scotch liscio, guardo quello che succede in strada o nel cortile interno del palazzo. Guardo dalla finestra, a volte dallo spioncino della porta, atten- dendo l’uomo dell’Ufficio Turistico. La meccanica di una porta è apparentemente semplice. Eppure nasconde ingranaggi invisibili all’occhio umano, ruote dentate, spire e concatenamenti inammis- sibili per una mente non istruita. Chi mastica di carpenteria sa di cosa sto parlando. Ma forse quello di cui sto parlando non è la 7 porta. È quello che sta fuori. Case, specialmente, ed esseri umani che si affannano e si arrabattano, discorrono gli uni con gli altri, si sforzano in ogni modo di comunicare, esprimere, riferire. Io, ormai, non provo alcun piacere a parlare. L’ho fatto capire, a chi mi sta intorno, anche se nessuno vuole darmi retta. Continuano tutti a domandare, pretendendo che io apra bocca per comunicare con chiunque: l’idraulico, l’elettricista, il dentista, il falegname, il vigile, il barista, ecc. Ma io mi sono abituato talmente bene nel silenzio, coi miei pensieri, che ormai anche quando penso sono fermamente convin- to di parlare, solo più prudentemente. Ormai fatico a sopportare la mia voce in una stanza o anche in un giardino, o in chiesa, le rare volte che ci vado. E così penso e scrivo. Non che faccia pensieri di chissà quale caratura, questo è vero, tuttavia penso e scrivo. E ho cercato di farlo capire in tutti i modi, a chi mi ronza intorno, che non voglio più pronunciare una sola sillaba. I miei pensieri li potrei paragonare a un bozzolo, un involucro grezzo. Hanno le virgole, i punti. Sono sempre stato molto pignolo su questo genere di cose. E comunque la prontezza di deduzione non è mai stata una mia prerogativa. Ho bisogno di rimuginare sul- le parole, o per meglio dire, sulle ombre delle parole che i pensieri suscitano. Ma questo ormai non è più un problema. Non riesco più a distinguere un aggettivo da un altro, un avverbio da una par- ticella nominale, le preposizioni mi intralciano. Anche i verbi mi danno qualche problema. Ma, mi sono detto, si fottano i verbi. Questo mi sono detto. E poi, chi si dovrebbe indignare? Andate a farvi fottere, mi sono detto. E mi ripugna essere così poco compo- sto, così licenzioso, così poco attento a un certo savoir faire che senza falsa modestia mi ha sempre contraddistinto. Ma ne ho il cu- lo pieno, e la testa, di verbi, pronomi e altre diavolerie lessicali. Alla fine si finisce sempre così, mi sono detto, a piangersi ad- dosso e a lamentarsi di tutto, a pensare oddio sono quel genere di uomo . Questo mi sono detto, o meglio ho pensato, subito dopo aver consegnato il materiale all'uomo dell'Ufficio Turistico l’ultima vol- ta.

8 Cara Paola, cari mamma e papà, cari amici, vi inserisco brevemente nella presente missiva per comunicarvi che a Sabbione, nonostante tutto, mi trattano bene. Non dovete preoccuparvi. Le mie facoltà mentali sono ancora piuttosto buone, e quelli dell'Ufficio Turistico si prendono la briga di mantenere il mio tenore di vita accettabile. Ho perso trenta chili, questo è pur vero, ma si tratta del frutto di una dieta equilibrata e di una sana alimentazione, e non, come qualcuno ha sostenuto, di trascuratez- za o peggio ancora disagio. I capelli grigi, se non sbaglio, li avevo già prima del sequestro, e la barba incolta è un mio vezzo. A Sab- bione operano barbieri eccellenti e professionali, inoltre nei su- permercati posso trovare numerose marche di rasoi, schiume, af- ter-shave. Se porto la barba lunga e i capelli spettinati è perché mi va di farlo. La mia forma fisica, vedete, è ammirevole. Mi permettono an- che di praticare sport. Il mio sport preferito è gettare pietre nella grande fontana sotto la finestra di casa. Le pietre le raccolgono per me i cittadini di Sab- bione. Sono costretti a farlo, dal giorno in cui minacciai l’Ufficio Turistico di non produrre più materiale se non mi avesse procura- to le pietre in qualche modo. La pigrizia, a Sabbione come ad Asti, è la dote che più d’ogni altra mi contraddistingue. Ora, per tornare al mio sport preferito, ne esistono due varianti. La prima consiste nel far guizzare le pietre a pelo d’acqua. Conqui- sta la vittoria chi riesce a lanciare la pietra che riuscirà, mediante uno o più guizzi, a inabissarsi nel punto più distante. Tale variante, per quanto piuttosto celebre, è obsoleta, e mi annoia a morte. La seconda variante consiste nel gettare una pietra in acqua af- finché susciti il maggior numero di anelli. In questa variante, appa- rentemente meno faticosa, sono molto più bravo. Ha regole precise, non si pensi che sia frutto della casualità: bi- sogna reggere in mano la pietra e tenersi a una debita distanza dalla finestra, prima di lanciarla. La distanza non la saprei quantificare in metri o centimetri; è data dalla graffiatura provocata dalla mia seg- giola sul legno del pavimento. È molto importante, la distanza. Gettando da più lontano, infatti, si otterrebbe una maggiore velo-

9 cità, così che la pietra, entrando in acqua più velocemente, suscite- rebbe un maggior numero di anelli. Un’altra regola fondamentale è quella che riguarda la modalità del lancio. Qui le regole non transigono. La pietra non può essere scucchiaiata, trascinata o spinta, ma deve essere lanciata portando in un primo momento il braccio all’indietro, verso l’alto, e successi- vamente gettandolo in avanti e rilasciando la pietra dal pugno chiuso al momento opportuno, con un movimento che ricorda va- gamente quello del giavellotto. Comunque questo è il mio sport preferito. Mi tengo i risultati a portata di mano, proprio qui, di fianco alla mia poltrona, segnati sopra un taccuino dalla copertina nera. Il 27 ottobre ho suscitato 37 anelli col braccio sinistro. Un primato. Il 4 novembre, poi, un lancio perfetto da 38 o 39 anelli almeno, da parte del braccio de- stro, è stato invalidato da un’infrazione alla regola più infranta, quella della corretta modalità di lancio. Insomma, me la spasso alla grande. Ciononostante comincio ad accusare i primi sintomi di una stanchezza, fisica e psichica, difficilmente riassumibile in poche pa- role. Una stanchezza che, mi si conceda il termine, è quasi nausea. Pertanto, caro Editore, mi rivolgo a Lei affinché conceda all'Uf- ficio Turistico di Sabbione il privilegio di veder pubblicizzata la propria terra mandando alle stampe il materiale (o parte di esso) che sono stato costretto a compilare in questi ultimi anni di seque- stro; in tal modo, tra l’altro, potrà compiere una buona azione: re- stituire a un povero diavolo la libertà di frequentare la propria fa- miglia e i propri amici in maniera completa e assidua, perlomeno prima del prossimo, inevitabile, sequestro.

Cordialmente gian marco griffi

10 INDICE VITA A SABBIONE

Giungendo a Sabbione

Partendo dal nostro Paese e andando tre giornate verso ponen- te giungemmo alle porte di Sabbione, città con sessanta torri me- dievali, statue in bronzo di uomini giganteschi, vie lastricate in porfido, un palazzo ottagonale, un tacchino d’oro che urla al tra- monto dalla caditoia d’un bastione. Tutte queste bellezze il visitatore già conosce per averle viste sui libri, o in televisione. Ma la proprietà di avvicinarsi alla città fisicamente è che chi vi giunge per strada in un pomeriggio inoltrato di Luglio, traversan- do il fiume Atanor – ch’è di colori sgargianti e fragranze smisura- te – con il tramonto limpido sulle lontane Alpi, può odorare gli aromi di vitello tonnato e fenolo aleggianti nell’aria, può lambire alberi e siepi di plastica dura appena lucidata, può udire il vociare della gente per i viottoli e le piazze cittadine, dove uomini e donne s’arrabattano all’uscita dalle friggitorie, dai bar, dalle agenzie divi- natorie 1.

1. Citato da Italo Calvino, Le città Invisibili , minime variazioni 2.

2. Ispirato da Marco Polo, Il Milione , minime variazioni 3

3. Ispirato da Donald Barthelme, Paraguay , minime variazioni.

***

Svoltammo a destra seguendo lo svincolo autostradale e ci im- mettemmo in una strada ampia complicata dal traffico automobili- stico; di fronte a noi un grande cartello bianco e sullo sfondo le torri, la sagoma di un palazzo, un temporale distante. Sabbione era discinta di fronte a noi, calda come un pomeriggio caldo d’estate 4. 11

4. Citato da Bruce Chatwin, Che ci faccio qui? , minime variazioni.

Segnaletica Stradale

Il cartello riportante la scritta Sabbione ha dimensioni 234 cm. x 177 cm., è posto all’altezza di 3,33 metri dal terreno. La scritta Sabbione è in carattere Tahoma, maiuscola, nera su campo bianco:

SABBIONE

Non c’è spazio per ornamenti superflui, pedanterie storiche o altre informazioni (es. popolazione , altitudine , latitudine , tradizioni , ecc). È diretta ed essenziale, senza edulcorazioni o impegni (es. ben- venuti a… , la città del… , gemellata con ..., ecc.).

Un comitato di Benvenuto

Fui accolto da un comitato di benvenuto. Mi pareva piuttosto strano che in una città dell’era ipertecnolo- gica, una città in cui il tasso di criminalità è elevato almeno quanto il tasso di criminalità delle altre città dell’emisfero boreale e il tasso di indifferenza è più elevato che in molte delle città dell’emisfero boreale fosse attivo un simile comitato. Eppure c’era. Era lì, di fronte a me, poche centinaia di metri dopo il cartello segnaletico riportante la scritta SABBIONE. Quattro persone in uniforme portavano strumenti al collo e stavano strimpellando una qualche musica che non riconobbi. Un distinto signore dall’aria annoiata teneva un microfono nella mano sinistra; un paio di ragazze erano in piedi accanto a lui.

12 “Benvenuto a Sabbione!”, esclamò il signore distinto dall’aria annoiata. La banda strimpellò qualcosa. Le due signorine avanza- rono verso di me e mi porsero un pieghevole fitto di scritte e no- te. “Grazie”, dissi, poi riposi il pieghevole nella tasca interna della giacca. “Quello è il Libro delle Prime Impressioni su Sabbione”, disse il signore distinto indicando un grosso tomo dalla copertina mar- rone. “Si avvicini e scriva la sua prima impressione”. Nell’arco di cinque minuti ero solo, sull’argine sinistro di un fiume viola, a guardarmi intorno per cercare di trovare una prima impressione da inscrivere per sempre sul Libro delle Prime Im- pressioni su Sabbione. Estrassi la penna stilografica dal taschino e aprii il libro pruden- temente; un paio di ragazzi mi stava salutando (presumibilmente) dall’argine destro del fiume, ma io non me ne accorsi.

Com’è fatta la città di Sabbione (prima impressione)

Da un primo sguardo alla città si ricava un’alternanza irregolare di rumori prodotta da fasci di sintagmi fonetici di forte spessore fonico con leni a far da contrappunto. L’estensione della città (ricavata dalle uscite autostradali, da un’occhiata attenta all’orizzonte) corrisponde all’incirca a settecen- to pagine, riga più riga meno. Le suddivisioni amministrative sono all’incirca sessanta, ognuna recante una sorta di segnaletica vertica- le o titolo . Il Centro, con i negozi e le piazze, ha una struttura evidente per i tratti forti e aspri accentuati dalla divergenza tra idioletto, lingua aulica, esperanto e tecnicismi. Il fatto importante che si evince dalla scalettatura in quartieri (o racconti) è che l’organizzazione complessiva fonetico sintagmatica ha delle cesure omologhe ai momenti principali dell’intreccio. Vien da dire che è il fonema, o il linguaggio, a creare la città. Non esiste una “non città” che viene abbellita con una qualche forma eufonica. Il rapporto di continuità, sintagmaticità e in una

13 parola la concatenazione (metonimia) sono il nucleo poietico della città di Sabbione.

Altre prime impressioni

...una puzza insopportabile...

...territorio bellissimo che è stato gradualmente deturpato...

un magnifico profumo di violetta

...il parapetto pedonale del ponte non rispecchia le misure standard previste dai requisiti di sicurezza stradale...

Non mi viene in mente niente!

Una seconda impressione

Addentrandosi in Sabbione si nota che il cittadino è inizialmen- te non definito, e solo dopo approfondite ricerche viene introdot- to l’uomo come attore, poi ulteriormente specificato come essere umano , che paradossalmente è anche il cittadino. Un narratore produce resoconti senza mai intervenire a parlare di sé, ma in modo impersonale. A Sabbione lo scambio frequente di prospettiva che si crea tra narratore, attore, attante, cittadino, suicida, anziché creare confu- sione o ambiguità, produce un’aurea duttile e vicina al narratario, senza orpelli, descrizioni magnificenti o solipsismi a organizzare le fila del “discorso architettonico della città”, o piano regolatore. In alcuni luoghi deputati (per es. bar, locali, edifici pubblici) la vicinanza tra narratore, narratario, cittadino e città stessa. 14 Sabbione, pur essendo meravigliosa , o fantastica , è allo stesso tempo misurata , sobria , talvolta paratattica . Mai due aggettivi per una strada o una piazza, mai forzature avverbiali dei cittadini. Tutto succede come se tutto fosse normale, usuale, già conosciuto in altre città . La cittadinanza è solita utilizzare registri da logica formale ma anche volgari. Anche il macellaio o il vigile urbano. I lavori necessari a Sabbione – ma superflui in altre città – (es.: agenti di Nettezza Umana, Divinatori) sono comuni e nobili allo stesso tempo. Il Palazzo Ottagonale e la Cattedrale di San Giuda, così come le azioni di molti cittadini sabbionesi, di forme squadrate, cubiche, futuristiche, emergono nel cielo afoso di luglio come una licenza poetica, eppure una licenza poetica non dotta, quanto piuttosto un’infrazione popolaresca. A Sabbione il tempo dei verbi avrebbe dovuto essere sempre al presente, ma l’influsso della tecnologia, le rivendicazioni storiogra- fiche e le esigenze urbanistiche hanno costretto i costruttori a uti- lizzare sovente il passato remoto, l’imperfetto, il futuro/futuro prossimo, ecc.; in qualche rara eccezione anche il trapassato pros- simo. Una colazione in un bar di Sabbione, nei pressi del centro sto- rico, permette al turista una forte vicinanza all’architettura globale.

Un venditore di case sabbionese

Ho conosciuto un venditore di case sabbionese di nome Aver- son. I suoi movimenti erano misurati, senza dar l’impressione di invadere la prossemica dell’interlocutore. Sembra proprio che le serva una casa dove stare, mi ha detto. Può darsi, ho risposto io. Si dà il caso che io abbia precisamente quello che fa al caso suo, ha detto lui.

Conclusione sulle impressioni (prima e seconda)

15 Crediamo di non sbagliarci, anzi, ci siamo fatti via via la con- vinzione abitando in un appartamento del centro di Sabbione, che gli stilemi essenziali della città siano quelli del periodare realistico o verista, e questo a disdoro dell’ambiente bizzarro del contesto cittadino. I procedimenti del realismo, sì son resi asettici anziché essere applicati al mondo popolare, ma mostrano la vita di Sabbione nel- le sue sfaccettature. Il referente parzialmente favolistico, il contesto fortemente strutturato dalle svariate marche metonimiche, un codice vulgato, offrono alla nostra vista una città fortemente realistica, quasi veri- sta.

Esperanto

I cittadini di Sabbione sono - congenitamente - deterministi; il loro linguaggio e le derivazioni del loro linguaggio - religione, let- teratura, metafisica - presuppongono il determinismo. La lingua, per loro, altro non è che un concorso di parole prestabilite e im- mutabili; l’esperanto, secondo gli esperti, soddisfaceva tutti i re- quisiti necessari al determinismo esistenziale – quasi fatalismo, mi verrebbe da dire – dei sabbionassi. Quod scripsi, scripsi (Giovanni 19,22 ). Pertanto fu scelta come lingua ufficiale dal Governo sin dai primi anni ‘30 5.

5. Citato da Jorge Luis Borges, Tlon, Uqbar, Orbis Tertius , in Ficciones, minime variazioni .

A Sabbione ufficialmente non esistono idiomi e dialetti, né tan- tomeno slang o registri linguistici diversi dall’esperanto. I cittadini non conoscono del tutto il vocabolario della propria lingua, di conseguenza quando hanno bisogno di esprimere un concetto del quale non conoscono il correlativo lessicale, essi lo inventano seduta stante. Solitamente, l’interlocutore finge di comprendere e annuisce. Spesso alcuni concetti semplicemente non esistono , non essendo inclusi nel vocabolario esperanto. Anche in questi casi i cittadini

16 architettano parole che per assonanza potrebbero significare il concetto che intendono esprimere.

L’invenzione di parole è totalmente illegale e punibile con san- zioni pecuniarie o detenzione (nel caso di più parole all’interno di una frase); ma poiché i cittadini conoscono solo una esigua por- zione del vocabolario esperanto, nessuno si azzarda a denunciare un concittadino “per aver inventato un vocabolo”, giacché ignora se quel vocabolo esista o meno.

Le prassie verbali a carico di bocca, faringe e laringe a Sabbione sono più stressanti rispetto a qualunque altro posto nel mondo: per tale ragione i sabbionassi sono soliti praticare soventi risciac- quature del cavo orofaringeo, esercitazioni per le corde vocali, ecc. Per esempio: due tizi si incontrano nei pressi di una piazza. Il primo domanda: andiamo a prendere un caffè? ( Ni iru preni kafon? ). Il secondo risponde: sì, ma prima devo passare in ferramenta per comprare una brugola. ( jes, sed unue mi devas iri al la aparataro vendejo por ačeti Allen čosilo ). Il secondo tizio ignora i vocaboli esperanti per esprimere i con- cetti di ferramenta (aparataro) e di brugola (Allen čosilo), perciò inven- ta due parole. È come se dicesse: sì, ma prima devo passare in chizzacheria per comprare una curvachella. Il primo tizio finge di aver compreso, annuisce e si appresta a seguire il secondo tizio.

Qualcuno ha notato che questa inventiva lessicale priva di di- sciplina è precisamente ciò che il Governo vorrebbe evitare, non- ché l’esatto opposto del determinismo, ma a Sabbione nessuno ne se cura.

Per rendere il linguaggio più fruibile, in esperanto le questioni complicate o spinose sono state abrogate. La manifesta inutilità del congiuntivo è stata normata con la soppressione definitiva del- la forma verbale.

17 Per esempio: Credevo che il treno arrivasse sul secondo binario si dice Mi pensis, ke la trajno alvenis al la dua kanto , che letteralmente significa Credevo che il treno arrivava sul secondo binario. Nella forma scritta si aggiunge una virgola per caricare di rile- vanza ciò che il soggetto potrà pensare.

Nella giovane letteratura esperanta sabbionese romanzi, rac- conti, piéces teatrali e poesie sono scritti con utilizzo frequente di vocaboli inventati dall’autore, e pur tuttavia i cittadini di Sabbione li comprendono perfettamente. Quando incontrano un vocabolo oscuro/indecifrabile essi non si curano di comprenderne il significato: semplicemente ne escogi- tano uno. Lo stesso accade per le opere letterarie tradotte da altre lingue. Il traduttore, quando non conosce l’equivalente esperanto di un vocabolo straniero, ne concepisce uno. Nel momento in cui il lettore non riesce a decifrare quel voca- bolo escogita un significato a suo piacimento. Per questa ragione a Sabbione ciascun lettore ha letto storie completamente diverse pur leggendo lo stesso libro. Per il lettore A Dante comincia il proprio viaggio dall’Inferno e lo conclude in Paradiso, per il lettore B lo ha cominciato dal Para- diso e lo ha concluso all’Inferno, ecc. Ecco spiegato il motivo dell’amore dei sabbionesi per Finnegans Wake di Joyce.

Nondimeno, constatate tali questioni riferite al linguaggio espe- ranto, a Sabbione parlano tutti l’italiano.

Politica

Il Gerarca del Sabbionasso non sta simpatico a tutti, ma per dio, nessuno è perfetto.

18 Egli abbonda di attributi manchevoli nella quasi totalità degli esseri umani: la sua arroganza infatti è alterigia principesca, la sua avidità è brama impetuosa e regale, il suo sprezzo per le norme è solenne noncuranza delle questioni popolane. I sentimenti che nell’uomo comune risultano grossolani, volgari, inopportuni, nel Presidente assumono connotati leggiadri e raffinati, impreziositi dalla sua aura autoritaria. In particolar modo il Gerarca è solito ironizzare sui propri di- fetti, valere a dire le orecchie dolcemente appuntite, le spalle ap- pena appena troppo strette, il naso adunco ma armonizzato con l’ovale del volto. Il Gerarca del Sabbionasso è alto all’incirca centocinquantasette centimetri alla spalla, ma grazie al suo incedere eretto (secondo i maliziosi beneficia di qualche artifizio meccanico) i cittadini lo percepiscono alto almeno centosessantacinque centimetri. Le sue marcate occhiaie, di colore bluastro, sono il risultato delle sedute di lavoro sfrenato cui si sottopone, nonostante il parere contrario del suo Psicologo di Palazzo, il quale gli ha consigliato lunghi pe- riodi di relax. Ma il Gerarca abomina il relax, non tollerando la noia, e si con- cede soltanto una passeggiata cittadina durante i fine settimana. Il Gerarca passeggia per le vie del centro ogni sabato pomerig- gio, preceduto dal simbolo Gerarcale per eccellenza, un Grande Fallo Priapesco in legno pregiato trasportato da quattro portatori negri, quattro portatori rumeni, quattro portatori albanesi. La pri- ma cosa che salta agli occhi è l’immenso codazzo, la cui lunghezza complessiva è di tremiladuecento cubiti; esso – il seguito, il corteo, il codazzo – comprende sei mazzieri presidenziali, tre vessilliferi dipartimentali a cavallo condotti da palafrenieri (rappresentano il Corpo dei Verificatori, il Corpo degli Agenti di Nettezza Umana, il Corpo di Igiene Sociale), diciotto tamburini di palazzo, cinquan- ta musici da soggiorno, ventisette balestrieri di reggia, nove con- vogli dell’Ufficio Suicidi & Festività ®, nove convogli militari, nove roulotte attrezzate, una carrozza ristorante, un carro allegorico rappresentante Urano che divora i propri figli. Il Gerarca passeggia circondato da uomini in completo blu di Persia, gli occhi allegri ma inespressivi. Il suo volto solitamente è nascosto da una maschera rituale riproducente un bafometto cen- 19 troamericano. L’atteggiamento del Gerarca è grintoso, buondio, che altro? Grintoso e determinato. Spesso la folla scandisce a gran voce il suo nome, giacché è la folla, il popolo, ad averlo democraticamente eletto. Al momento della loro nomina i Gerarchi debbono ripudiare il proprio nome e assumerne uno che sia confacente al prestigio del- la carica che rappresentano.

I Gerarchi si chiamano (ord. alf.): Anassilao Augusto Cipselo Dario Fortunato Francisco Girolamo Iosif Leopoldo Mahmud Nicolae Periandro Pittaco Policrate Reynaldo Serse

Sussistono numerosi altri nomi, ma questi sono i più apprezza- ti. I possessori di tali nomi garantiscono con il proprio carisma l’ordine e l’uguaglianza, e giurano di sottomettersi alla legge sab- bionassa sulla virilità.

*** Quotidianità. La scrivania del Gerarca a prima vista è sobria, in legno pregia- to. In un angolo una foto ingiallita dei figli e una pila di libri legali, dall’altro una piccola scultura rappresentante Shulpae, grande dio- demone della sterilità. Il Gerarca è appassionato di mitologia e possiede duecentosedici riproduzioni di bafometti, dee-madri, di- 20 vinità oltretombali, demoni. Sa che un popolo appagato è un po- polo che non si oppone. Alle spalle del Gerarca una grande finestra permette alla luce naturale di invadere lo studio, mentre di fronte alla scrivania, so- pra la porta d’ingresso, domina la scena un olio su tela del ‘500, raffigurante un imprecisato vecchiardo colto nell’atto di scudiscia- re un nugolo di donne gravide. Sul lato destro dell’ufficio si trova l’ingresso alla zona massaggi personale, dotata di thermarium e di piccola palestra portatile, una riproduzione delle Terme di Caracalla con materiali originali d’epoca trafugati dalle vere Terme di Caracalla e un enorme bagno. A lato della porta d’ingresso, contro il muro, un archivio con- serva trentanove volumi contenenti i nomi di tutti i dipendenti pubblici passati e presenti (con tanto di fototessera identificativa), ordinati secondo i seguenti impieghi:

Funzionari Ministeriali Responsabili di Reparto Verificatori di primo, secondo e terzo livello Agenti semplici di Nettezza Umana Ispettori di Nettezza Umana Dipendenti del Ministero Suicidi & Festività ® Divinatori Pubblici

Il Gerarca sfoglia le pagine del libro nono, DI – DZ (per esem- pio): egli fissa attentamente le fotografie di un gruppo di dipen- denti scelti a caso; è orgoglioso di compitarne i nomi ad alta voce, poiché, sostiene, in tal modo sente di partecipare ai ben più miseri destini dei propri sottoposti. Egli così rammenta, di tanto in tanto, la sua vita precedente alla nomina, non senza un moto di commo- zione 6.

6. Citato da Niccolò Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini, Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli , alcune variazioni.

“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”

21 Una cosa che si impara subito a Sabbione (è anche scritta nel pieghevole che mi è stato consegnato nel momento in cui ho var- cato le porte immaginarie della città) è che due cose debbono riempire l’animo dei cittadini sabbionassi di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di noi, la possibilità del suicidio dentro di noi. Queste due cose i cittadini di Sabbione non hanno bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del loro orizzonte; essi le vedono davanti a loro e le connettono immediatamente con la coscienza della loro esistenza 7.

7. Citato da Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica , minime variazioni.

Ma il suicidio non deve essere un gesto brado, illecito, vergo- gnoso; esso è regolamentato da precise norme poetiche, artistiche e scientifiche, quali sono le norme della divinazione. Il futuro è scritto, basta saperlo leggere. E se c’è una cosa, soltanto una, cui i cittadini di Sabbione credono fermamente, tale cosa è che un oro- scopo ben stilato, una divinazione scientificamente esposta, sono inconfutabili.

Una passeggiata lungo il fiume

Una passeggiata lungo il fiume che taglia Sabbione può risulta- re un’esperienza...beh insomma...un’esperienza. Specialmente se manchevoli di... Con le scarpe che... I vestiti... Il fiume Atanor, che attraversa il Sabbionasso da nordovest a su- dest, si guadagnò l’ onore di entrare nel novero dei dieci fiumi più in- quinati del mondo a partire dagli anni ’80, quando una fabbrica de- nominata AGCA (Agenzia Gerarcale Coloranti & Affini) iniziò lo sca- rico sistematico di tinture, metalli pesanti, sostanze chimiche e tossi- che nelle sue acque, causando mutazioni dell’ecosistema e determi- nando il caratteristico fenomeno dell’ acqua policroma fosforescente tanto ammirato da bambini e turisti. 22 Nonostante i timidi tentativi di bonificarlo, grazie a fosforo, am- moniaca, nitrati, fenoli, mercurio, contaminanti batterici scaricati quotidianamente nelle sue acque dalla AGCA , ancora oggi, secondo le stime dell’ OMS , l’Atanor conserverebbe la quarta posizione nella classifica dei dieci fiumi più inquinati del mondo, appena dietro il Ci- tarum in Indonesia, il Matanza-Riachuela a Buenos Aires e il Lanz- hou in Cina 8.

8. Citato da Luca Prauer, Scarichi e inquinamento idrico dopo il T.U. ambientale , minime variazioni.

Cosa si fa a Sabbione

Giro l’angolo e qualcuno sta per saltare da un palazzo di dieci piani. Urla: è una bellissima giornata! Una bellissima giornata! Mi saluta come se stesse partendo per un lungo viaggio. Morire è un lungo viaggio? Forse è una questione di punti di vista. Probabilmente si tratta di pochi secondi. Un breve spostamento. Come passare da una stanza all’altra, come passeggiare in strada e incontrare un tipo che si è dato fuoco per qualcosa. Domando: per quale motivo ti sei dato fuoco? Se n’è dimenticato. Domando: come ti è venuto in mente di cospargerti di benzina, tirare fuori dalla tasca dei jeans uno zippo e accenderti come un minerva? Lui non sa o non risponde. Continua a bruciare, semplicemen- te. I brandelli della camicia gli ondeggiano nelle vicinanze come coriandoli, o farfalle. Dico: parliamo un po’. Non mi pare che abbia particolarmente voglia di fare conversa- zione. Tuttavia accetta di accomodarsi su una panchina. Le pan- chine di Sabbione hanno una consistenza ottima, e non sono in- fiammabili. Non prendono fuoco. Di cosa si può parlare con un uomo che sta bruciando? Non ne ho idea.

23 Scusi tanto, dico, ma in questo momento non mi viene in men- te niente. Inoltre ho un appuntamento. Comunque gli stringo la mano vigorosamente, perché mi pare che il suo sia un gesto di notevole profondità. Tra l’altro è anche molto poetico.

È una giornata bellissima. Il sole illumina la città come se fos- simo in una réclame, o in un romanzo che inizia con la frase “era una bellissima giornata di primavera”. E oggi è una bellissima giornata di primavera. Non ci sono neanche i venditori ambulanti, sebbene il toro in- visibile che sovrasta le città di mezzo mondo deve aver eiaculato di fresco, generando centinaia di militari che avanzano lungo i boulevard come alunni in gita scolastica. E sono anche abbastanza ordinati. Ah, l’ordine. C’è sempre ordine laddove ti costringono a fare ciò che non vorresti. Il disordine è una cannonata, nel senso che è magnifico, ma non troppo spesso. Un uomo molto distinto attraversa sulle strisce e grida che il disordine fa schifo, fa schifo, fa schifo! Un altro gli risponde che ha veduto per le strade della città un numero emozionante di stronzi di cane ordinati come in una para- ta militare. Nessuna differenza tra stronzi di cane e militari quando sia i primi che i secondi sono ben organizzati, dice. L’uomo molto distinto torna indietro e sputa in terra. È un atteggiamento deprecabile, specie per un uomo molto di- stinto. C’è una bambina che saltella sul marciapiede e mi fa ciao con la manina. Dico: ciao. Stanno giocando a campana.

Un tre cinc set! M’incontro con Margo (è una valletta, lavora in televisione) al bar che fa angolo da qualche parte.

24 Scendo sette scalini un tre cinc set e sono al tavolo in men che non si dica. Mi sta aspettando coi capelli sciolti, e appena arrivo se li lega con una banda gialla. Domando: perché? Intendo: perché costringere capelli tanto lucidi e vivi a unirsi in un assetto strutturato? Lei ribatte che tutte le cose dovrebbero gioire quando si uni- scono in un assetto strutturato. Sono un po’ affranto. Le domando se anche i nostri corpi gioiscono quando li unia- mo in un assetto strutturato, e lei replica che anche i nostri corpi gioiscono. Penso di proporre un’unione dei nostri corpi in assetto struttu- rato nel mio nuovo appartamento, ma tutto sommato ritengo sia il caso di tacere un’affermazione tanto scontata. Un pazzo entra con una carriola ma non so dirne altro. Cosa c’entra adesso il pazzo con la carriola? Trasporta pezzi di pietra, macerie, qualcosa. Si guarda intorno e parlotta col barista. Curioso. Cosa c’è? Non avete mai visto prima d’ora una carriola?

È una bellissima giornata come quelle delle réclame o come quelle dei romanzi che cominciano con la frase “era una bellissima giornata di primavera”. Da San Giovanni il Precursore sgocciola un liquido denso che non riesco a focalizzare. Mica facile dalla vetrata di questo bar ad angolo. Sembra gelato al mirtillo sciolto al sole. Margo, mi ami? Il silenzio che segue è una cosa molto appuntita conficcata nel mio cuore. Nonostante i tempi sono un uomo romantico. Dimmelo, ti prego. Sono pronto a tutto. Margo sta ponderando la risposta. Sarebbe troppo domandare una carezza? Lei mi guarda e dice: sarebbe troppo. Almeno un pizzicotto, qualcosa che dimostri il tuo affetto. Sempre che affetto non sia una parola troppo desueta. 25 Forse l’affetto non è inesatto, ma è logoro e abusato. Ordino una pèsca e il cameriere mi guarda storto. Ha detto una pèsca? Non avete pesche? Adesso il cameriere pretende che io renda conto della mia scel- ta, che giustifichi in qualche modo la mia voglia di mangiare una pèsca. Non basta ordinare una pèsca? Non basta, dice. Il barista strizza gli occhi poi mi guarda e dichiara: bisogna sempre rendere conto delle proprie azioni. Sono un po’ confuso. Margo ha giustificato in qualche modo il suo cappuccino? E il tipo che trasporta la carriola carica di macerie?

L’altro giorno ho incontrato un uomo incatenato a un semafo- ro. Ho detto: buongiorno. Lui ha detto: non mi slegherò mai. Non avevo alcuna intenzione di slegarlo, mi pareva. Avevo soltanto salutato.

Dunque vediamo. Dovendo giustificare la mia decisione di mangiare una pèsca da dove potrei partire? Non è sufficiente aver appetito di qualcosa in particolare. Biso- gna definire per quale motivo si ha appetito di quella cosa. Mi pare di desiderare una pèsca giacché in questo specifico momento storico dell’umanità considero di aver bisogno del gusto dolce di una pèsca. Non è ancora soddisfacente, ribadiscono. Mentre Margo sorseggia il suo cappuccino mi domando se riu- scirò ad ottenere la mia pèsca. Magari sbucciata? Il contatto delle labbra col pelame della buccia mi procura fa- stidio. Non la ottengo. Mi portano un bicchiere d’acqua minerale.

26 Domando: perché mi avete portato un bicchiere d’acqua mine- rale? Il cameriere riferisce: non siamo noi a dover fornire spiegazioni. Il Potere si manifesta in forme bizzarre. Sono deciso a non sfiorare il bicchiere, preferirei morire piutto- sto che portarmi alle labbra quel bicchiere slavato, poi all’improvviso cedo e con un solo sorso bevo tutta l’acqua minera- le. Questa è la natura dell’uomo. Mi alzo in piedi e urlo: ma ci sono delle eccezioni!

Verso mezzogiorno osservo i cittadini di Sabbione che si spa- rano un colpo alla tempia ritmicamente, uno dopo l’altro, e crolla- no al suolo come tessere del domino, con autoritaria coordinazio- ne, come bandiere abbattute. Certe cose bisogna farle bene, o è meglio non farle affatto. Sono disposti in fila in un piazzale del parco, e si tengono per mano con la sinistra, mentre nella destra impugnano la rivoltella. Gli alunni delle elementari si fermano a osservare attentamente e con impegno: è una questione di educazione. Una bambinetta li saluta sorridendo, e i morituri hanno appena il tempo di ricambiare il sorriso prima di premere l’interruttore e pum. Sono armonizzati come le nuotatrici o le tuffatrici, come cavalli ballerini.

Margo dice che nel mio nuovo appartamento non c’è spazio per tenere le scope. È una casa piccola, dice. Mi schiarisco la voce e a pieni polmoni dico: Margo, non ti crucciare per le scope! Vedrai che tutto si aggiusterà! Lei mi legge l’oroscopo. Il mio oroscopo dice che in casa mia non ci sarà mai spazio per tenere le scope. Non oso reagire. Lungo il fiume è una pacchia. Camminiamo a braccetto e i pescatori bestemmiano per via dell’acqua inquinata. 27 Oggi ha un colore perfetto. Mi pare che sia gialla, o arancione. Si sposa a meraviglia con la banda tra i capelli di Margo. Margo è bellissima, e io le compero una pannocchia fritta. Siamo allegri. La signora che vende le pannocchie dice: signore, perché è così allegro? Io le domando se crede che dovrei essere un po’ più triste e lei risponde sì, dovrebbe.

Sul piano regolatore della città

Non è un mistero che i cittadini sabbionassi adorino uccidersi all’aria aperta, specialmente durante la bella stagione. Lo si legge negli occhi della gente comune: uccidersi in primavera, precipitan- do da una torre romanica (che meravigliosa metafora della morte, e romantica, per di più), o da un tetto prospiciente il Palazzo Pre- sidenziale (la morte fallica, sul baratro della nullità, dirimpetto e sull’attenti nei confronti del Potere Assoluto), impiccandosi a un ciliegio-perennemente-in-fiore Playmobil o a una quercia secolare in plastica aromatizzata (che profumi, che colori!) al Parco Sinteti- co Märklin, lasciandosi travolgere da una decappottabile rossa fiammante lungo i boulevard del Centro Burocratico Futurista pieno di vetrine (la moda, sempre la moda), è molto meglio che uccidersi d’inverno, in un vecchio alloggio pieno videocassette an- ni ‘80, imprecando contro il senso dell’Impero, contro la Famiglia, contro le Forze Armate, ripensando alla buffonesca ilarità di un gesto che qualcuno filosoficamente vorrebbe messaggio indirizza- to all’altro-da-sé, ma che per i sabbionassi è mera legge morale e civile. Eppure si consideri la città di Sabbione nella sua vasta ar- chitettura simil-ventennio, come mitologema urbano sviluppatosi tra guglie affilate, levigati portici e perigliose torri romaniche, ma- gazzini e fabbriche dove si deteriorano capelli di donna e maschie epidermidi, voluttuose sopraelevate che avvolgono semafori atro- fizzanti, palazzi erti nello spazio come glandi priapeschi, piazze geometriche e strade equidistanti, viali circolari, prismici boule- vard, porfidi cubici e mattatoi trapezoidali. Per non parlare 28 dell’architettura sacra, immersa in eventi arcaici di scapestrata bel- lezza, tra gargoileggianti mostri acchiappafemmine e bronzei santi scacazzati al centro di loggiati secenteschi, e dell’architettura fiabe- sca, in cui baldi principi ubriachi s’addormentano nelle taverne fuori porta mentre monotoni antagonisti penetrano innocue mu- raglie difensive, brecciose, stressate, pascolo dello scorpione e del muschio, conquistando portali magniloquenti e parchi pubblici ovali, panchine scrostate e vetrine sbeccate, autobus dal muso rin- cagnato e automobili fiammeggianti, agghiaccianti monumenti fu- nebri e principesse vestite Prada e Dolce & Gabbana. Ecco quindi che il piano regolatore della città, multiforme in- trallazzo di campanili arieggiati e tetti spioventi, doveva assecon- dare i capricci della popolazione, contribuendo a promuovere le attività di suicidio ®, pensando spazi adatti a ogni evenienza, consi- derando in primis la necessità della cittadinanza di contrarre suici- dio ® precipitando da palazzi, ponti e torri, rivisitando barriere ar- chitettoniche quali ringhiere, parapetti e cornicioni, promulgando la piena libertà di slancio da parte degli aspiranti suicidi ®, preve- dendo scivoli sui tetti, scalette per raggiungere la sommità delle torri, passaggi pedonali – per così dire – azzardati, in corrispon- denza di una curva a gomito o tra la sommità d’un palazzo e quel- la del palazzo dirimpetto, balaustre conformi non più alte di ses- santasette centimetri.

Tra le principali varianti al piano regolatore di Sabbione ( gen- naio-febbraio 1967, aprile 1981, gennaio 1989, marzo-aprile 2003 ) poi commutate in progetti urbanistici tutt’ora esistenti occorre men- zionare: autorizzazione a costruire una barriera d’acciaio inossida- bile all’incrocio tra Viale Settima Bolgia e la Quinta Cornice (2003 ), subito divenuto punto di riferimento per gli automobilisti suicidi (a loro il marketing Presidenziale indirizzò la celebre cam- pagna pubblicitaria Ricordati di disattivare l’air-bag! ). Rinforzo per al- beri alla Selva del Futurismo Letterario, unico parco pubblico con vegetazione vera , in seguito alla comprensibile protesta del Comitato Cittadino Autoeliminazione a Emissioni Zero , che lamentava l’indecenza di quattordici tentativi di suicidio ® falliti negli ultimi tre anni a causa di rami spezzati degli alberi del parco. Deviazione delle linee tranviarie A e F, al fine di rendere più agevole un tipo di 29 clausola 99 considerato desueto (gettarsi sotto al tram) e per qual- che decennio addirittura proibito (il Censimento Suicidi Annuale rese noto che nell’ottantatré percento dei casi il suicida falliva la clausola 99, e nel novantaquattro percento dei casi conseguiva fratture e mutilazioni varie), ma che oggi, dopo il varo di mezzi con rostro anteriore e con ruote trancianti certificate dall’Ufficio Suicidi & Festività, è tornato prepotentemente in auge. Costruzione della variante di dislivello che prevede il sommo- vimento, tellurico e acquatico, del moto ondoso del fiume Atanor, all’interno della Selva del Futurismo Letterario, in maniera ch’esso risulti quantomeno impetuoso; troppi candidati suicidi hanno falli- to l’agognata morte-per-acqua nel morbido letto del nostro fiume. L’inserimento di rocce artificiali contribuirà inoltre a facilitare schianti e possibili cause di decesso. Largo Ezzelino da Romano, un tempo vagamente circolare, oggi è a forma di quadrilatero asimmetrico per meglio esprimere il senso degli spigoli (anche se i cittadini lo chiamano affettuosa- mente il cuore nero di Sabbione, tanto per la sagoma quanto per l’enorme mole di traffico, che lo rende uno dei luoghi più inquina- ti della città). È in questo luogo che spesso gruppi di immigrati orientali scelgono di porre fine ai loro disadorni giorni senza gioia e di cercare rifugio in Un Posto Migliore.

Ancora il venditore di case

E mi dica, dice, cosa la porta a Sabbione? Lavoro, dico. Che tipo di lavoro? Mi domanda. Sono un artista, dico. Meraviglioso! Dice lui. Ho un amico artista che infila cavi elet- trici nel culo di maiali vivi per accenderli . Interessante, dico. Le teorie umaniste prevederebbero che non si infilasse un cavo elettrico nel culo di un maiale, dice il venditore di case, eppure di- co io, ma che cazzo, è arte, bisogna fare seduta stante ciò che l’ispirazione impone di fare. È un punto di vista, dico io. 30 Anche se mi stavo chiedendo a cosa serva accendere i maiali, dice lui. L’arte è arte, dico io, non serve a niente. E lei che genere di artista è? Pittore? Scultore? Performer? Io faccio le scenografie degli studi televisivi, dico. Meraviglioso! Dice lui.

Fermodellismo

Il fermodellismo è un passatampo molto diffuso a Sabbione. Anche decapitare tacchini appesi per le zampe è un passatempo molto diffuso a Sabbione, ma è una cosa diversa. Durante la bella stagione i cittadini escono di casa e si recano al Parco Sintetico Märklin, dove ha sede il più grande plastico ferro- viario del mondo. Lì i cittadini di Sabbione si siedono sulle panchine di plastica, rapiti da una sensazione di conquista: perlustrano una sfera rara- mente approcciata. Danno la mano al bambino interiore che li col- lega direttamente a Dio. Mormorano “mi dispiace, ti prego perdo- nami, grazie, ti amo”. È un gradino da cui poggiando il piede, anche dolorante, i cit- tadini di Sabbione ricevono lo slancio per raggiungere tutti gli altri cittadini del mondo. In questo modo essi costruiscono l’abilità di essere artefici della propria felicità 9.

9. Citato da Ihaleakala Hew Len, Ho’oponopono: ripulire il nostro mondo interiore , minime variazioni.

Quando si alzano dalle panchine ed escono dal parco, i cittadi- ni di Sabbione sono soliti bere un doppio scotch nel primo bar che gli capita.

Televisione

Sono dietro le quinte del programma televisivo più famoso di Sabbione a osservare le scenografie che ho disegnato e progettato.

31 Stanno passando la reclame di una crema pelle per rendere i polpastrelli più lisci. Con Glysolid Super Glicerina i vostri polpastrelli sdruccioleranno sulla griglia di Ruzzle come l’olio ! Una voce fuori campo dice: cinque, quattro, tre, due, uno, in onda. Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio. Il pubblico applaude. Il conduttore dice: Bentornati a Ruzzlemania amici telespetta- tori! Lo studio è illuminato come da progetto, le truccatrici hanno appena sistemato il fondotinta ai concorrenti. Il conduttore dice: stiamo per assistere a un evento epocale. Sa- rebbe meglio storico? Memorabile? Una voce fuori campo dice: taglia! Il regista dice: epocale non mi pareva malaccio. I cameramen si grattano la testa. Il conduttore dice: non saprei. Un cameraman dice: ma chi cazzo se ne frega. Il regista dice: epocale va bene.

I concorrenti sono sormontati da due enormi teleschermi sui quali vengono proiettate le griglie di Ruzzle. I teleschermi dicono: Vocabolari Garzanti, parole quante ne volete! Smaltomania Pupa, smalti per unghie, le vostre unghie sempre curate per le partite a Ruzzle in compagnia! Il presentatore dice: o forse no? Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio. Il pubblico applaude. Il campione ha lo sguardo fisso al proprio monitor, dove entro cinque minuti comparirà la griglia del terzo round. Il presentatore dice: vi ricordo che ai fini di Ruzzlemania sono validi tutti i vocaboli della lingua italiana contenuti nel Dizionario della Lingua Italiana Karkoj e Figli , tutti i vocaboli della lingua espe- ranta – che dovrebbe essere la lingua ufficiale di Sabbione e din- torni. Una voce fuori campo dice: taglia! Il conduttore dice: cazzo. 32 La voce fuori campo dice: dovrebbe ? Sei impazzito? Il conduttore dice: Riprendiamo. La voce fuori campo dice: attacca! Il conduttore dice: tutti i vocaboli della lingua esperanta che è la lingua ufficiale del Sabbionasso, arcaismi vari, neologismi gaddiani e manganelliani. È così meraviglioso entrare ogni sera nelle vostre case! Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio. Il pubblico applaude. Il conduttore dice: ricapitoliamo la situazione. Le luci dello studio si abbassano, un paio di occhi di bue in- quadra i concorrenti e i risultati dei primi due turni. Inquadratura sul conduttore. Il conduttore dice: serata complicata per il nostro campionis- simo Autobhanner, ingegnere trentasettenne di Castrocozzo; do- po i primi due round è in svantaggio di quasi tremila punti contro il giovane Skipbrinax99, che viene dalla Romania ma è originario di qui: 6439 punti per il Campionissimo, 9370 per lo sfidante. È la prima volta in duecentosedici puntate che il campione dovrà ini- ziare l’ultimo round in svantaggio. E che svantaggio! Inquadratura sul campione. Il Campione dice: è dura. Ma statisticamente un simile gap è già stato recuperato nell’ultimo round nel 3 virgola 2 periodico dei ca- si. Inquadratura sullo sfidante. Lo sfidante non dice nulla. Il conduttore dice: ma prima veniamo a voi, amici telespettato- ri, e ai vostri video registrati mentre giocate a Ruzzle nei luoghi e/o nei momenti più impensabili. Ahi ahi Missy da Eboli, il tuo video è un po’ troppo piccante, e ohu cos’abbiamo qui? VerryGoll che gioca a Ruzzle sfrecciando ai 211 chilometri orari in autostrada, incredibile! Diamo spazio alla pubblicità, non muovetevi dal divano! La bambina dice: smalto unghie Jub, ideale da sfoggiare / quando qualcuno ti osserva giocare! / A Ruzzle, ovviamente / Il gioco più intrigante! La donna dice: Dizionari Zanichelli, imparerai tante di quelle parole che i tuoi avversari a Ruzzle rimarranno sconcertati!

33 Il libraio dice: tre libri di Gadda al prezzo di uno! La Madonna dei Filosofi, La Cognizione del Dolore e Novelle dal Ducato in fiamme al prezzo di un libro di Giorgio Faletti. Hilarotragedia e Nuovo Commento al prezzo di un libro di Fabio Volo! Offerta imperdibile! La Crema Glysolid Super Glicerina dice: spalmami sui tuoi polpa- strelli, vedrai che scivolamento! Il Professore dice: Pubblicazioni Hobby & Work, le migliori sul mer- cato! In uscita nelle migliori edicole “Crociera nel Mediterraneo di Gad- da VS Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace” , due modi per vivere una crociera narrativa . Una voce fuori campo dice: cinque, quattro, tre, due, uno, in onda. Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio. Il pubblico applaude. Il conduttore dice: E va bene eccoci tornati in studio per que- sta appassionante sfida. Prima del terzo e decisivo round giochiamo con voi, amici da casa. Ecco la griglia di oggi: NI CO Trovate tutte le possibili combinazioni di vocaboli e vincete un viaggio per due persone a Maradagal Studios, il parco tematico dedicato all’Ingegnere! Uno stato narrativo interamente ricostruito in plastica secondo i dettami dei più esimi filologi del Sabbionasso e dintorni! Con escursioni nel confinante Parapagal e pernotta- mento all’Hotel Villa Gonzalo Pirobutirro d’Eltino! Riguardiamo la griglia in sovrimpressione: NI CO Pensate che sia troppo difficile? Naaa, fatevi sotto! Avete due minuti precisi da adesso ! Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio. Il pubblico applaude. Io mi faccio largo tra i cameramen e me ne vado. Fuori Sabbione mi sembra bella, ma forse non è la parola giu- sta.

34 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (1) ______

Averson si presentò al suo Aggiornamento Obbligatorio An- nuale in maniche di camicia e con un cappello panama bianco con tesa dorata. Attese trentacinque minuti camminando avanti e in- dietro nella minuscola sala d’aspetto dell’Agenzia Pubblica e quando finalmente entrò nell’ufficio due divinatori squartarono un maiale vivo di settanta chili con un coltellaccio sterilizzato per leg- gerci nelle interiora il suo futuro. Il futuro di Averson, venditore di case cinquantenne. Le operazioni di squartamento durarono all’incirca dodici mi- nuti, durante i quali Averson osservò i divinatori armeggiare col coltellaccio con la stessa freddezza e precisione con cui un chirur- go adopera un bisturi. Subito dopo i divinatori procedettero alla canonica analisi fi- siognomica: utilizzarono un rinoigrometro e alcuni altri strumenti che un venditore di case non avrebbe mai potuto conoscere; Averson rimase immobile mentre i divinatori procedevano con le misurazioni. Gli fu detto che la forma del suo naso, unitamente alla conformazione delle sue labbra e all’attaccatura dei suoi capelli, mo- strava in modo inequivocabile che egli avrebbe affrontato un anno di stenti economici al limite del suicidio. Pur tuttavia le interiora del maiale, ancora calde e putrescenti di fronte alle sue narici, che egli coprì con un fazzoletto per riuscire a sopportare il fetore, e nello specifico la particolare conformazione e consistenza dell’intestino, sembravano escludere la necessità di un anticipo di morte, palesando anzi una fortunosa coincidenza astrale che avrebbe condotto Averson in una spirale d’inattesa serenità. E poi ci sono le sopracciglia, disse uno dei divinatori. Queste sopracciglia le salveranno la vita, disse. Averson non disse nulla. Ritirò il tabulato con il testo completo della divinazione e uscì.

35

ATACAMA

Quando si accomodarono da Kirch’s lui ordinò un gulasch e una bottiglia di vino rosso, lei manifestò la sua necessità di diven- tare madre.

“Prendiamo ad esempio il marito di mia cugina Sonia, il posti- no”, disse lei, “quello non ha un pene propriamente detto, quello ha un mitragliatore di spermatozoi”.

Lui osservò la situazione da un altro punto di vista, sperando che il semplice fatto di mutare prospettiva potesse rendere lui un uomo differente e quel momento meno insopportabile. “Tre in una botta sola, capisci”, proseguì lei. “Tre gemelli del cazzo”. Lui valutò brevemente le possibili alternative a una risposta secca e concisa. “Credevo che avessimo stabilito di non parlarne a cena”, disse. “Non me ne frega un corno”, disse lei. “Mi guardo intorno e non faccio altro che vedere donne che sfornano piccoli mostri av- volti da gelatina, nient’altro che mocciosi, bambini piangenti, ba- vosi, puzzolenti, arroganti”.

La situazione si aggravò quando il cameriere fece ritorno per domandare se anche la signora gradisse ordinare qualcosa dal me- nù del giorno o se preferisse il menù alla carta. “Come può pensare al cibo”, disse lei, “quando ha di fronte una donna schiava di un marito che non è in grado di renderla madre. Quei quattro spermatozoi che ha non riuscirebbero nem- meno a ingravidare una vacca gravida”. Il cameriere porse le sue scuse e tornò sui suoi passi. “Forse non mi sono spiegata”, berciò lei. “Stiamo parlando di un figlio, caro il mio Ispettore. Un figlio che, se vogliamo dircela 36 tutta e nonostante ripetuti tentativi alquanto pietosi, non sei in grado di generare”.

Lui protese gli occhi verso una tavolata composta da quattro uomini e due donne intenti a brindare per un qualche avvenimen- to. Gli tremava la mano destra, e anche la sinistra faticava a restare immobile.

“Del resto io ho provato a consultare oroscopi, mi sono fatta predire il futuro nella migliore Agenzia Divinatoria della città. Mi sono sbattuta. Tu invece cos’hai combinato? Ti sei fatto una sega in quella clinica sudicia e ti sei seduto ad aspettare i risultati. Io li so già, i risultati. Sei arido, desertico, desolato, sterile”. “Non vuoi ordinare qualcosa da mangiare?”, domandò lui. “Vaffanculo. Sto parlando di perdite sanguigne, cristo, di cicli mestruali, fottuti ovuli che anziché fecondarsi si frantumano dal mio utero e scivolano attraverso i miei peli sottoforma di epistassi fino a inondare il mio tampax. Sto parlando di una vita priva di uno di quei cazzo di mostriciattoli simile a quello di tua sorella, simile a quello di mia sorella, simile a quel fottuto ciccione nano che sta urlando come un ossesso al tavolo alla tua destra. Di que- sto sto parlando. Non di un maledetto intingolo con uova di sto- rione o del tuo cazzo di gulasch”.

Nonostante l’aria condizionata faceva abbastanza caldo.

“Non credo che tu mi stia ascoltando”, disse lei. Lui fissò un punto nello spazio di fronte a sé, un punto che soddisfacesse i requisiti fondamentali della non presenza di donne o bambini. “Vuoi dirmi qualcosa oppure preferisci restartene lì imbambo- lato come un deficiente?”, domandò ancora lei. “Per la puttana, Sara, mi stai facendo venire voglia di rovesciare questo cazzo di gulasch su quella tua cazzo di faccia stravolta dal delirio mestruale da madre-in-potenza ma fottutissimamente infe- conda-in-atto”, disse lui prima di inghiottire un boccone di gula- sch. Si pulì gli angoli della bocca, poi bevve un sorso del suo vino rosso. 37 “Infeconda? Fanculo. Cosa stai sproloquiando? Lo sappiamo benissimo che il problema è quel tuo sperma amarognolo e arido come il deserto di Atacama”, disse lei. Cercarono di ricomporsi. “Il problema è la tua idea ossessiva di generare un figlio”, disse lui. “Io sono perseguitata dall’idea di coricarmi ogni sera accanto a un uomo improduttivo. Cristo, ma lo vuoi capire che la gente ha bisogno di figli? Abbiamo scopato come ricci per mesi e mesi, e il risultato di tanto sforzo qual è stato?”, domandò lei. “Una serie niente male di orgasmi”, rispose lui. “È stato un paio di gonne macchiate da quel tuo ridicolo sper- ma e lenzuola da cambiare”, disse lei. Fece un cenno al cameriere, che arrivò sorridente. “Vorrei ordinare qualcosa”, disse. “Abbiamo uno splendido trancio di tonno alla griglia”, disse il cameriere. “Fanculo il tonno. Forse qui non hai capito la nostra situazio- ne. Portami un brandy, o uno scotch, o un qualunque intruglio imbevibile che mi faccia barcollare mezz’ora prima di costringermi a vomitare anche l’anima”, disse lei. “Come desidera, Signora”, rispose il cameriere.

La sala era piuttosto buia, illuminata da quattro lampadari simili a quelli delle chiese. Quando il cameriere arrivò con lo scotch, lei ne ordinò subito un altro. “Dobbiamo trovare una soluzione”, disse. Lui non disse nulla. “Una soluzione che possa garantirmi una maternità in un breve lasso di tempo”. Lui non disse nulla. Si limitò a seguire con lo sguardo la traiet- toria di un ridicolo ometto con una fisarmonica a tracolla mentre entrava in bagno. “Per esempio potrei farmi scopare a sangue da tutti i tuoi col- leghi. A turno, da lunedì a venerdì, il sabato solo al mattino e la domenica riposo, tanto per essere pronta a ricominciare il lunedì”. Lui si mangiò la pellicina di un’unghia. “Non mi stai minimamente ascoltando, cristo”, disse lei. 38 “No”, disse lui, “non ti sto minimamente ascoltando”. “Vaffanculo”, disse lei, e buttò giù il suo scotch tutto d’un fia- to, seppur con notevole sforzo.

In quel momento lui vide entrare nel locale un uomo distinto in compagnia di una donna e ne seguì i movimenti con lo sguardo. Dal modo in cui stavano discutendo intuì che non avevano una prenotazione. Prima che il caposala li facesse accomodare fuori, lui si alzò e andò dalla coppia. “Volete sedervi con noi?”, gli domandò sorridendo. Sara era già ubriaca. Dondolava la testa avanti e indietro tratte- nendosi a stento dal vomitare sul tavolo. La coppia, dopo un primo momento di comprensibile sorpre- sa, accettò l’invito. Tutti sanno che è impossibile trovare un tavolo da Kirch’s senza prenotazione. Dopo che furono seduti, cominciarono a osservare Sara. La sua condizione era alquanto preoccupante. “Forse ci vorrebbe un po’ di caffè bollente”, disse Doroteo Umbilk sorridendo, “ma prima un altro giro di scotch”. Fece cenno al cameriere che si precipitò con un altro bicchiere di scotch per Sara. “I signori cenano con noi. Per cominciare porta altri tre bic- chieri di scotch”, disse. Passarono alle presentazioni. “Mi chiamo Bernard. E questa è mia moglie Lulu”, disse l’uomo. “Piacere, ragazzi. Io sono Doroteo. E questa qui è la mia deli- ziosa mogliettina Sara”. Scoppiò a ridere.

Il cameriere arrivò con gli scotch, mentre l’ometto con la fi- sarmonica stava iniziando a strimpellarla.

Umbilk era felice di pensare che forse avrebbe potuto cambiare vita. “Potrei cambiare vita”, disse. Bernard e Lulu non furono certi di aver compreso il significato celato in quella frase. Bernard raccontò di essere primario di onco- 39 logia, Lulu qualcosa del genere. Il tipo ridicolo aveva esagerato con la sua fisarmonica, e gli scimmioni di Kirch’s l’avevano sbattu- to fuori a calci. “Questo stronzo è sterile”, bisbigliò Sara, sempre più scombi- nata dall’alcol.

“Mia moglie, signori. Una donna malata di allucinazioni”, disse Doroteo.

Poi entrarono alcuni personaggi imbarazzanti, tra i quali un ti- zio travestito da dracula che si avvicinò al loro tavolo. “È per caso Halloween?”, domandò Umbilk. “O forse sono soltanto io a vedere un tizio alto un metro e novanta travestito da dracula?”. Lulu disse che non era Halloween, ma aggiunse che il tizio tra- vestito da dracula lo vedeva anche lei. “Quello è un gran bel travestimento”, disse Umbilk, “non trovi anche tu, amore?”, domandò a Sara. “Vaffanculo, pidocchio arido”, rispose lei.

Ordinarono un nuovo giro di scotch.

Il tizio travestito da dracula sembrava un ballerino, o qualcosa di simile. Ondeggiava per la sala, tra i tavoli, canticchiando. C’erano altri tizi travestiti da Zio Fester, Mostro di Frankenstein, e un’altra specie di obbrobrio che nessuno riconobbe.

Umbilk era indeciso se desiderare che il Dracula fosse reale o se quello che stava accadendo fosse un incubo. Sara vivacchiava con lo sguardo perso nel vuoto e la camicetta scompigliata. “Stanchezza, disgusto, sono concetti superati”, disse Umbilk. Bernard e Lulu non dicevano nulla. “Prendete quel coglione lì, travestito da dracula. Mi ha ridato la voglia di vivere”.

Bernard abbozzò una risposta. Doroteo lo interruppe.

40 “Preghiamo”, disse.

Ci fu un bellissimo silenzio contemplativo durante il quale Sara emise un gorgoglio, Lulu tossì, Umbilk scoppiò a ridere e il came- riere giunse al tavolo con un altro giro di scotch.

“Mi serve un bambino”, disse poi Umbilk. “Un bambino?”, domandò Bernard.

Doroteo tentò di spiegare a Bernard cosa intendesse con il termine ‘ bambino ’. “Un neonato”, disse Bernard.

Concordarono che sì, ciò che Umbilk intendeva era un bambi- no reale, un vero bambino, un essere umano appena nato in carne e ossa, leggermente sottodimensionato rispetto a un adulto, fre- quentemente immerdato, sbavante, piangente.

“Insomma, un cazzo di bambino”, disse Umbilk.

A quel punto era chiaro sia per Lulu che per Bernard. Sorseg- giarono il loro scotch. Concordarono che per il seguito della serata non aveva importanza quale marca di scotch stessero bevendo.

Dracula prese sottobraccio il Mostro di Frankenstein e im- provvisarono un balletto.

La gente sembrava approvare.

“Che diavoleria sarebbe, questa?”, domandò qualcuno al came- riere.

Il cameriere rispose che si trattava di uno spettacolo popolare negli Stati Uniti, presentato da una compagnia teatrale estrema- mente famosa in America. In esclusiva per Kirch’s, qui, a Sabbio- ne, un gruppo di attori e ballerini di Broadway travestiti da creatu- re orribili stava improvvisando una serie di danze, rivisitazioni tea- trali, gesti scenici. La peculiarità di Kirch’s, oltre al cibo e alla raf- 41 finatezza dei locali, era l’organizzazione di eventi speciali a sorpre- sa che potessero allietare le serate degli stimati clienti.

“Naturalmente a New York questa rappresentazione si tiene a Halloween”, concluse il cameriere. “Naturalmente”, disse Bernard.

Lulu aveva capito che doveva trattarsi di qualcosa molto cultu- rale e romantico allo stesso tempo.

Umbilk estrasse dalla tasca della giacca un tubetto verde. “Signori, vi presento la pomata e l’intruglio imbevibile Sper- mamax™”, scoppiò nuovamente a ridere; “la pomata credo si spalmi, e se va bene dopo tre quarti d’ora vi ritroverete lo scroto infiammato e ricoperto di eritemi. L’intruglio imbevibile invece provoca solo emicranie, nausea, senso di spossatezza, perdita di equilibrio e vertigini, ma in compenso garantisce una maggiore motilità spermatica e un volume di spermea da capogiro”. Il ghiaccio nello scotch si scontrò col bordo del bicchiere producen- do quel caratteristico rumore che fanno i bicchieri quando è pre- sente del ghiaccio al loro interno. “Interessante”, disse Bernard. “Interessante, dici tu”, disse Umbilk, “peccato che procuri sof- ferenze incommensurabili ed esantemi anche peggiori”. Emise una risata isterica che terminò con un violento accesso di tosse. Sara era cotta, praticamente addossata alla spalla di Bernard. “Non sarebbe meglio darci un taglio con le consumazioni?”, domandò Bernard. “Questo deserto dell’Atacama”, disse Umbilk, “dove cazzo sta?”. Bernard e Lulu si guardarono. “In Sudamerica”, disse Bernard. “In Sudamerica”, rifletté Umbilk. “Sta nei tuoi coglioni”, sbavò Sara. Umbilk scoppiò a ridere. “Che succede?”, domandò Lulu. “Mio cugino si è impiccato”, disse Umbilk. “Mi dispiace”, disse Lulu. 42 “Ventisei anni fa”, balbettò Sara. “Quando l’hanno trovato aveva il cazzo duro”, disse Umbilk. Bernard e Lulu si guardarono imbarazzati. “Il medico legale disse che era una reazione bizzarra, ma non inspiegabile”. Bernard fece per dire qualcosa, ma Umbilk lo interruppe anco- ra. “Il prevosto disse che era l’eccitazione per una nuova vita”. Scoppiò di nuovo a ridere. “Lo trova divertente?”, domandò Bernard. “Lo trovo spassoso”, disse Umbilk. “Perché ci sta raccontando questo?”, domandò Bernard. “Perché mi avete annoiato a morte, maledetti ottimisti”, disse Umbilk. Poi si alzò e prese sottobraccio il tizio travestito da Dracula. Finse di ballare con lui fino alla porta d’ingresso del ristorante, effettuò una torsione del busto e abbozzando un inchino al tavolo dove prima era seduto uscì nel buio di Sabbione, che gli sembrò disperatamente simile alla sua esistenza, all’esistenza di tutti, dispe- ratamente simile al deserto dell’Atacama.

43 GLI IPOCONDRIACI OVVERO UNO STUDIO SULL ’IPOCONDRISMO IN RELAZIONE ALLA METEOPORNOGRAFIA

I nostri spassi sono finiti

Dopo pranzo c’è LEI . I SUOI capelli leggermente mossi, lucidi. Il SUO volto simmetrico. Il SUO collo alto, proporzionato. I SUOI seni morbidi. Il SUO corpo filmico. I SUOI costumi da sexy-mamma.

LEI è Giuditta. SUE sono le previsioni meteo. Niente altro ha importanza.

§

Quando arriva l’inverno ci ripariamo come possiamo. Abbiamo coperte calde, dozzine di pacchi di antivirali e una televisione in cinque. Siamo Ruben, Dan, Gad, Efraim e Issachar. Tutte le mat- tine cambiamo il pannolone a Ruben e riempiamo la pera a Dan, imbottiamo di antidolorifici Gad e parliamo del più e del meno. Io e Dan cerchiamo di inspirare con cautela. Per via di certi disturbi gastrointestinali causati da germi stantii nell’ossigeno in cui siamo avvolti. In principio eravamo in dodici in una stanza con dodici letti, un bagno e una televisione. Ma gli altri sono stati dimessi o se ne sono andati. Per farla breve, siamo rimasti noi cinque. 44

Aspettiamo Giuditta osservando i bacilli contenuti in un raggio di luce filtrato dalle imposte. Fuori sembra una giornata luminosa. Un cielo terso oltre a procurare notevole fastidio alle iridi può colmare l’animo dell’ingannevole sensazione che l’essere umano sia perfettibile. Ma noi sappiamo che nella scala verso la perfezio- ne non possiamo fare altro che discendere inesorabilmente. Oltre a tutto ciò, l’insopportabile rifrangersi del sole sulle immense ve- trate dell’Istituto può causare seri danni alla vista. Per questo evi- tiamo di alzare troppo la tapparella e cerchiamo di abituare gli oc- chi alla penombra, ben consci dei rischi che corre la pelle quando subisce una sovraesposizione a qualunque fonte luminosa. Non possiamo accettare che queste lampadine vecchie e impolverate causino seri problemi alla nostra epidermide, impomatata ogni giorno perché risulti profumata, ma anche, nell’eventualità, piace- vole al palmo di una mano che l’accarezzasse. La mano può essere ad esempio quella di Giuditta mentre ci prova la febbre oppure mentre cambia la pera a Dan o aiuta Efraim a levarsi la maglietta intima.

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Spesso abbiamo riflettuto sul fatto che il nostro quadro clinico possa offrire a un osservatore esterno l’ingannevole impressione che la nostra età sia avanzata. Non è così. Il più giovane di noi, Gad, ha quarantaquattro anni. Il più vecchio (Ruben), ne ha cin- quantasette. Nondimeno siamo vessati da problemi fisici che logo- rano la nostra facoltà di ponderazione e ci costringono a lunghe sedute di riabilitazione in questa Clinica da tremila euro a settima- na. Il dr. Robinson sostiene che i nostri disturbi abbiano una natu- ra psicosomatica. Il dr. Mabuse gli attribuisce una struttura ansio- gena. Il dr. Ross ci ha diagnosticato una rarissima patologia i cui prodromi sarebbero da rintracciarsi in una concatenazione di cau- se, la prima delle quali è l’utilizzo da parte del governo di sostanze proibite. Sostanze dannose. Anche la dr.ssa Pompeo concorda con questa analisi. 45 Abbiamo intentato una causa contro il Governo e riceviamo quotidianamente l’incitamento dei nostri innumerevoli avvocati, tra cui: l’Avv. Mason, l’Avv. McBeal, l’Avv. Lomax, l’Avv. McCoy, l’Avv. Dixon.

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Ruben ultimamente è preoccupato per il suo rapporto con Giuditta. In particolare, ogni volta che Giuditta sorride, Ruben rischia seriamente di farsela addosso. Per questo ha bisogno di un panno- lone per adulti. Riteniamo che un pannolone indossato da un adulto possa suscitare una serie di complicanze a livello subcon- scio. Abbiamo discusso a lungo su quali complicanze potesse su- bire la psiche di Ruben. Qualcuno ha sostenuto che un evento edipico primordiale, come il ghigno della baby-sitter a una sua neanche tanto velata incontinenza, potesse aver ingigantito il pro- blema. E che oggi, Ruben, soffre di una forma patologica di ver- gogna, un’insoddisfazione perenne e metafisica rappresentata dalla figura sorridente di Giuditta. Gad non concorda con questa tesi. Lo fa capire tossicchiando qualcosa e subito affrettandosi a butta- re giù un cucchiaio di sciroppo. E comunque abbiamo notato quanto Ruben sia triste. Impedire a Giuditta di sorridere significa sopprimere buona parte della sua propensione umoristica. Perciò Ruben è visibilmente contrariato e depresso. Tutti siamo depressi, ma non come Ruben. Da lui non ce lo saremmo mai aspettato. Ruben è sempre stato solito giocare col rimescolamento del linguaggio, compiendo azioni disarticolan- ti rispetto al gesto quotidiano. Reputavamo impossibile da scalfire il suo distacco ironico, la sua capacità di gelare il sorriso mentre lo provocava, graffiando la crosta della società. Ci sbagliavamo.

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46 Rispondiamo alle obiezioni di parenti e medici snocciolando dati precisi sulla rilevanza delle previsioni meteorologiche sul fisi- co e sulla psiche dell’essere umano. Abbiamo demandato a Issa- char la risposta a ogni obiezione. In lui l’intreccio tra gioco illuso- rio e perturbazione emotiva riesce talvolta a esecrare l’attesa della morte. “Sto guardando fuori dalla finestra”, dice per esempio, “non riesco a comprendere con certezza se il grigio del cielo sia causato dalla nebbia o dalle nuvole. Quello che posso dire con certezza è che si tratta di una giornata di merda”. Ma Issachar uti- lizza freddezza, indifferenza e distacco a fini difensivi. “Ci accusa- no di perpetrare l’erotismo a fini terapeutici, ma non è del tutto vero”, ripete Issachar a chi ci domanda il perché della costante presenza di Giuditta. Abbiamo anche qualche istinto sessuale, chi lo nega, qualcosa di eroticamente scorretto, ma la consapevolezza delle malattie ve- neree è tale che nessuno di noi osa perdersi in pensieri tanto tur- binosi. Tutti tranne Ruben, che ha letto qualcosa a proposito della go- norrea. La gonorrea, dice Ruben, impedisce di pisciare. Sì ma il dolore fisico dove lo mettiamo? Domandiamo noi. Non è forse dolore fisico impedire al mio sguardo di osservare Giuditta mentre sorride? Non è forse dolore fisico celare la mia ironia, il mio ta- gliente sarcasmo nei vostri confronti? Non lo riconoscevamo più, ed eravamo preoccupati.

§

Quando Giuditta entra nella nostra stanza ha un paio di gambe lunghe due metri e un paio di tette da infarto. A tutto ciò siamo abituati, lo accettiamo, anche se dobbiamo inghiottire numerose pillole per lo stress e per la sudorazione ogni volta che la aspet- tiamo. Oggi però ci sembra più sexy del solito, poiché indossa un tailleur grigio e calza un paio di tacchi alti. Porta senz’altro calze autoreggenti, ma non riusciamo ad appurarlo con certezza. Inoltre indossa una camicetta bianca e noi temiamo la camicetta bianca. In una delle sue previsioni meteo-erotiche più frequenti la prota- 47 gonista indossa una camicetta bianca e viene sorpresa da uno scroscio di pioggia, rifugiandosi ogni volta in un appartamento spazioso e confortevole con un negro (talvolta il negro può essere sostituito da uno studente di filosofia o da un attore da filmetti di serie B), per una seduta di sesso selvaggio. Simili espressioni – ses- so selvaggio – ci disturbano non poco, specialmente Issachar e Gad che sono i più sensibili ad aritmie, arterie rimpicciolite, ecce- tera. Preferiremmo espressioni più delicate. Lo facciamo notare a Giuditta. “Gradiremmo che nelle pros- sime previsioni meteo utilizzassi termini ed espressioni più, come dire, cautelativi. Meno invasivi, ecco”. Giuditta ci prega di farle un esempio. “Per esempio, anziché dire: seduta di sesso selvaggio , perché non utilizzare l’espressione fare l’amore liberi da preconcetti ?”, dice Dan. Dan è il più riservato di noi. Giuditta glielo fa presente. “Smet- tila di rinchiuderti in gabbie intellettualistiche ed estetiche prefissa- te, Dan”, gli dice. “Penso dipenda dal mio essere cresciuto nella generazione del dopoguerra”, risponde Dan. “Crescendo si è acui- to lo sbilanciamento tra le prime avvisaglie del benessere e un completo smarrimento morale”. “Come immaginavo”, dice Giu- ditta. LEI ci ha completamente in pugno. Persino Efraim sembra soffrirne la personalità. E dire che lui è figlio di una borghesia che ha perduto nell’ozio incruento ogni va- lore morale. Sebbene sappiamo che per lui sia una ferita aperta, non perdiamo occasione per ricordarglielo. “Efraim, hai perduto i valori morali. Tocchi il bene e il male abbandonato ai capricci di una coscienza in piena bonaccia”, gli diciamo. “Questa, io credo, è una specie di disperazione”, dice Efraim fissando Giuditta seduta sulla scrivania con le gambe accavallate in un atteggiamento super sexy. “Mi sento senza strutture, senza appoggi; sto sperimentando l’inaderenza alla realtà. Ma chissà se mi condurrà alle soglie di una tragedia o se invece mi dirigerà verso il conforto di un’illuminazione morale”. È questa la tortura psichica con cui tutti noi dobbiamo fare i conti.

48 §

In buona sostanza, e per fornire ulteriori informazioni alle pressanti richieste di chi ci viene a far visita, spieghiamo che Giu- ditta ci legge previsioni meteorologiche fornite dall’Aviazione Mi- litare corredate da favole erotiche al limite della perversione. Fa parte del programma per il nostro pieno recupero. In particolare le favole erotiche, dov’è che l’abbiamo letto, favoriscono la circo- lazione sanguigna e aumentano la produzione di endorfine, globuli bianchi, anticorpi naturali, riducendo lo sviluppo di radicali liberi. Giuditta è una brava ragazza. Non ha dimenticato i valori univer- sali che regolano i rapporti tra esseri umani, né manca di puntua- lizzare chi è e da dove viene: è figlia di allevatori con l’unico im- menso sogno di mostrare la sua avvenenza in televisione. È così che l’abbiamo conosciuta, amata, scritturata, la prima volta: su un canale locale. Nondimeno ELLA non ha grilli per la testa. Eppure è in grado di travestirsi da sexy-tennista o da cat-woman con la stessa spontaneità con cui riceve l’ostia la domenica mattina. Il nostro costume preferito è quello da Madre Natura. O perlomeno il preferito da me, Ruben e Dan. Efraim va pazzo per il travesti- mento da poliziotta. Issachar dice di sentirsi male al solo pensiero del vestito da segretaria direzionale con tanto di auricolare. È una brava ragazza.

“Previste precipitazioni di carattere nevoso nelle prossime ven- tiquattro – trentasei ore”, dice Giuditta. Le precipitazioni nevose solitamente sono il campanello d’allarme che indica la descrizione di un’orgia.

Ruben non riesce a trattenere una battuta. A prima vista non sembrerebbe una battuta particolarmente divertente, ma basta a far sorridere Giuditta. Ruben arrossisce. Nessuno di noi sa se è riuscito a non pisciarsi addosso. “Andiamo, ragazzi”, dice Giudit- ta. “Non vi preoccuperete mica per qualche termine fuori posto”. Lo dice con una purezza ottenebrata dalla sua bellezza. Come quando descrive le impronunciabili fasi dell’accoppiamento ma- schio-femmina: pronuncia sempre le parole con purezza, con in- 49 genuità. Ha ventidue anni. “Dove hai imparato queste storie?”, domandiamo spesso. “La natura mi ha dotata di fervida immagi- nazione, e della capacità di elaborare i costrutti che grazie ad essa riesco a formulare”, risponde ogni volta.

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Nelle accoglienti tenebre della nostra stanza ci interroghiamo se sia possibile cambiare argomento. Vogliamo sempre le previ- sioni meteo, ma gradiremmo anche ascoltare qualche favola dell’orrore, oppure qualcosa di sentimentale. Anche se siamo ben consci del fatto che la specialità di Giuditta restano le favole eroti- che. Hanno qualcosa di non so che o non so cosa. Giuditta prefe- rirebbe continuare a raccontare le sue favole erotiche. Sappiamo che preferirebbe continuare a travestirsi da sexy suora o da donna delle pulizie mentre ci illustra la situazione delle isobare sul Medi- terraneo.

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E allora ci riunimmo per discuterne.

“Mi pare che qui si stia scherzando col fuoco”. “Dobbiamo pensare a noi”. “Come facciamo a dirglielo?”. “La nostra salute viene prima di tutto”. “E l’ultima favola è stata davvero troppo spinta”. “Un dottore con una bambina!”. “Una dodicenne non è propriamente una bambina”. “Ah no?”. “Sono d’accordo. A dodici anni ormai sono donne”. “Ma stiamo scherzando?”. “Dobbiamo dirglielo”. “Diciamoglielo”. 50

Incontrammo Giuditta. Nonostante la temperatura interna del- la stanza fosse di circa ventisette gradi centigradi, faceva piuttosto freddo. Indossava un pesante soprabito ma si spogliò quasi subito. Sot- to il soprabito era vestita da Madre Natura. Coscia in primo piano, giarrettiera bianca, calze a rete rosse. Minigonnellino sotto il culo e un top che mostrava il ben di dio di Giuditta. Ruben si trattenne dal pronunciare qualcosa che l’avrebbe certamente fatta sorridere. Disse invece qualcosa a proposito della sua devastante emicrania. Noi non avevamo possibilità di suscitare il suo sorriso. Eravamo antiquari, commercialisti, ragionieri. Ed eravamo letteralmente tar- tassati da dolori articolari che ci impedivano di pensare a qualcosa di ironico. L’unico che riusciva a trovare la forza per costruire una battuta di spirito era Ruben. Nonostante le emorroidi. Nonostante l’ossessione per una leggera forma di diabete mescolata a una strana febbre emorragica del Nilo. Qualcuno si sentì male. Non era una novità. C’era comunque da fare una comunicazione.

Nessuno di noi ebbe il coraggio di profferire parola. Ci guarda- vamo l’un altro, tentennando. Scoprimmo, se ce n’era bisogno, quali drammatici effetti ha la donna sulla salute dell’uomo. Ruben prese la parola. “Vorremmo cambiare un po’ genere”, disse. Non riusciva a guardare Giuditta negli occhi. “Davvero?”, domandò lei. “Davvero”, disse Efraim, seguito da Dan e da Issa- char. “Pensavo che le favole erotiche vi divertissero”, disse Giu- ditta. “Oh, ci divertono moltissimo”, disse Gad. “Ma sentiamo il bisogno, come dire, di prefigurarci una scena priva di adoni e fo- tomodelle. Qualcosa di più terra-terra. Qualcosa di più rocambo- lesco, in cui i personaggi denotino una certa, come dire, tendenza alla normalità. Qualcosa di più come viene viene”, aggiunse Ru- ben. Temevamo che Giuditta potesse prenderla male. Eppure nutri- vamo il desiderio di sprofondare in una banalità accogliente.

“Va bene”, disse lei. “Ma lasciate almeno che vi illustri le isoba- re di domani corredate da un’ultima storiella erotica”.

51 Ci consultammo. Efraim e Gad avrebbero preferito cambiare subito genere, passando a una storia dalle tinte più lievi. Io, Dan e Issachar concordammo sulla necessità atarassica e diuretica di ascoltare un’ultima favola erotica. Decisi di tornare a essere il vec- chio leader che tutti si aspettavano che fossi. Pur conoscendo i ri- schi che correvo levai il pannolone. Avrei accettato la vita in ma- niera più spontanea.

A chi insistentemente ci domandava quale fosse la ragione del nostro comportamento rispondevamo che avevamo paura. Ciò che più ci allarmava del mondo, oltre al nostro quadro clinico del tutto deficitario, era la certezza che qualcuno ci avrebbe derubati, avrebbe stuprato le nostre mogli, incendiato i nostri negozi di an- tiquariato stracolmi di dipinti e candelabri, comò Impero e divani Luigi XIV . E quel qualcuno avrebbe tentato di impoverirci, di ar- raffarci i gioielli, le fedi, i soldi, le monete. E ci avrebbe confinati in recinti buoni per i porci, torturandoci con la corrente elettrica per ottenere la combinazione della nostra cassaforte. “Vada per un’ultima favola erotica”, disse Ruben. “Stavolta sarà più forte. Quasi pornografica”, disse Giuditta. Ci consultammo di nuovo. Decidemmo che per l’ultima volta poteva starci.

§

Giuditta si avvicinò alla lavagna. Avevamo predisposto una splendida mappa delle isobare sulla zona di Sabbione e dintorni. “Stiamo vivendo una tendenza a contesto barico di tipo spic- catamente invernale”, iniziò Giuditta. La sua pronuncia era priva di inflessioni, caratteristica di chi ha frequentato un corso di di- zione. Eravamo molto attenti. “Ci sono i presupposti affinché l’attività vorticosa in sede sub-polare abbia a subire un disturbo per opera di un sollevamento meridiano dell’Alta pressione delle Azzorre verso le latitudini britanniche o nord Europee”, proseguì Giuditta. Ruben sedeva sulla sua poltrona. Io e Gad eravamo in piedi accanto alla finestra. Efraim e Issachar giacevano sui rispet- 52 tivi letti, ciucciando il lecca-lecca d’ordinanza. “La giornata era dunque fredda, invernale”, disse Giuditta. I flashback, congiunta- mente a notevoli oscillazioni temporali futuro-passato, erano spe- cifici del suo metodo narrativo. “Fiona stava ultimando le spese natalizie dalle parti dell’Hofgarten. Adorava quel periodo dell’anno, caratterizzato dalla discesa di aria fredda lungo i meri- diani centrali o centro-orientali col possibile isolamento di un vor- tice semistazionario proprio in area sabbionassa”. Pensammo a quanto fosse un privilegio udire quella voce. Per- sino i postumi di una brutta influenza potevano mitigarsi. Qualcu- no di noi dovette addirittura pensare che il sangue dalle emorroidi fosse un dono di Dio, in quel frangente. Ma tutto sommato non era così. Il suono di una voce, per quanto bella, se protratto lun- gamente, può provocare disturbi alla tromba d’Eustachio. Dan soffriva di questi disturbi. “Fu sorpresa da uno scroscio improvviso di pioggia mista a neve mentre si trovava lungo le rive dello Starnbergersee. Fiona adorava la neve, ma detestava il primeggiare della figura anticiclo- nica di blocco, lungo il cui bordo orientale scendono correnti po- lari. In altre parole detestava che d’inverno facesse caldo e d’estate facesse freddo. Bruno la vide da lontano, scorgendola tra mille volti senza nome. Le portò in dono un mazzo di giacinti”. L’introduzione del personaggio femminile nei racconti erotici d’inizio ‘900 avviene sempre secondo standard prestabiliti, i quali tracciano un profilo spirituale della protagonista a ricalcare quello fisico. Le favole di Giuditta erano molto più dirette. “Una storia simile mi pare di conoscerla. Quantomeno i luo- ghi”, disse Gad. In lui ogni sintomo interno rifletteva la condizio- ne di aridità del mondo esterno, in un continuo gioco di rimandi. Poi Giuditta proseguì. “Fiona e Bruno si ritrovarono nell’appartamento di lui, uno splendido loft di duecento metri quadrati con un morbido letto Queen Size ideale per incontri di questo genere. Si erano incontra- ti due giorni prima al Teatro dell’Opera durante una notte in cui l’alta pressione oceanica trovava terreno abbastanza favorevole per espansioni verso nord, a causa di un forcing sub-polare a largo di Terranova”.

53 Le previsioni meteorologiche ci danno sicurezza. Siamo cre- sciuti in un mondo compromesso da virus, batteri, streptococchi, tossine, insetti e parassiti veicoli di malattie e sciagure anche peg- giori. Viviamo in una società di starnuti al cinema, strette di mano, bicchieri non lavati. In un simile luogo la meteorologia riempie il futuro di certezza e i nostri cuori dell’ambizione di conoscere in anticipo la sostanza degli accadimenti. È una questione di pro- grammazione.

Giuditta proseguì con la sua pronuncia priva di intonazioni: “Si distesero sul letto. L’appartamento di Bruno era caldo e accoglien- te. Un camino emanava un gustoso tepore frammisto a sapori li- gnei. Fuori dalla finestra uno spalmamento verso est dell’alta pres- sione oceanica con induzione a riassorbimento dell’onda stessa, ma con cut-off (isolamento vortice semistazionario in quo- ta) proprio sopra il tetto del palazzo, generava una resezione della saccatura artica. Adesso Bruno monta su Fiona e la bacia, slin- guazzandola tutta”. Il passaggio dal passato remoto al presente indicativo è sinto- matico di un repentino cambio nel registro narrativo. Ruben alzò un sopracciglio. Gad scosse il capo. Giuditta conti- nuò. “Bruno bacia il collo di Fiona, il decolleté, le labbra. Nel frat- tempo il porco struscia il suo cazzo contro l’inguine e le cosce. Fiona nota come sia durissimo e la sua fica inizia a bagnarsi. Né Bruno né Fiona prestano attenzione al fatto che pur palesandosi un taglio all’alimentazione fredda, su Sabbione è presente un’area depressionaria isolata con caratteristiche fredde e con tempo piut- tosto instabile, anche per possibili influenze atlantiche”. Gad interruppe la narrazione per domandare che si facesse ri- torno al passato remoto, o quantomeno all’imperfetto. Il presente indicativo, disse, è troppo coinvolgente, troppo scurrile, troppo diabolico. Concordammo tutti con l’obiezione di Gad. Giuditta acconsentì. Poi domandò: “Come vi pare l’inizio?”. “Troppe parole sconce”, disse Dan. Tentammo di epurare nella nostra memoria le parole sconce secondo un meccanismo di auto- censura del ricordo. Lo usavamo spesso per i dolori che ci assilla- vano. 54 “Che parole suggerite?”, domandò Giuditta. “Sarebbe meglio qualcosa di più figurativo”, disse Issachar. “Più metafore, più allegorie”, aggiunse Ruben. “Non stiamo bene per niente”, intervenne Efraim. “La sessua- lità manifestata tanto esplicitamente potrebbe causare problemi al sistema nervoso”. “Il nostro punto di vista è quello dell’indagatore, dello studio- so”, disse ancora Ruben. Giuditta comprese il nostro punto di vista e cambiò repenti- namente registro narrativo.

“Fiona aveva voglia di sentire l’incursore calvo (Arbasino, A. (1998) Paesaggio Italiano con zombi , Milano, Adelphi, pag. 107 e pas- sim ) di Bruno anche sulla sua fessurina magica, sul suo affare (Volponi, P. (1962) Memoriale , Torino, Einaudi, passim ), sul suo campo di fiori (Poliziano, A. (1814) Rime , Firenze, Niccolò Carli, passim ), così gli allargò le cosce, avvinghiando le gambe attorno al- la sua schiena, proprio mentre un’onda depressionaria più incisiva si faceva strada sull’Atlantico. Lei gli tirò fuori l’uncino (Boccac- cio, G. (1997), Ninfale Fiesolano , Milano, Mondadori, pag. 121 e pas- sim ) e lo prese in mano. Non era superdotato, superava di poco il palmo, eppure era grosso come la testa di un gatto (Aretino, P. (1995) Ragionamento delle Corti , Milano, Mursia, pagg. 103-104 – (1999) Lettere , Roma, Carocci, passim , passim )…Fiona riusciva ap- pena a prenderlo, a chiudergli le dita attorno”. Fummo rapiti con violenza da una sensazione di sconforto. Spesso lo sconforto è scambiato per eccitazione. In realtà si tratta di sconforto. Lo sconforto, in certi casi, è più opportuno dell’eccitazione. “Fiona iniziò a masturbarlo, anche se non ce n’era bisogno perché aveva un cavaliere purpureo (Kramsaseddinsh Virajjakam, M. (1979) Emmanuelle , Milano, Sonzogno, passim ) già molto duro, e intanto lui le aveva abbassato la maglietta e le stava leccando avi- damente i morbidi capezzoli. Sentirlo così rigido…tutto scappella- to…fece venire a Fiona una voglia matta di sentirlo tutto in bocca. Fece distendere Bruno a pancia in su e scivolò su di lui malizio- sa…strofinandogli il cibo d’amore bagnato (Moravia, A. (1968) La Noia , Milano, Bompiani, pag. 199 ) sul suo guerriero atomico 55 (A.A. V.V. (2000) Improvvisamente ho voglia di fragola , Modena, Borel- li, pag. 71 , passim ) e poi scendendo…massaggiandolo su tutto il corpo che ancora era coperto. Fiona non amava spogliarsi tutta, durante l’amore. Le piaceva scoprire solo il necessario, dava l’idea di incontro sessuale molto più trasgressivo e porco. Un uomo ve- stito di tutto punto con la vanga di fuori (Maraini, D. (1963) L’età del Malessere , Milano - 1ª ed. originale con sovraccoperta, Einaudi, passim ), la eccitava tremendamente”.

Giuditta fece una pausa. Efraim si affrettò a porgerle un bic- chiere d’acqua. “Vi sta piacendo?”, domandò Giuditta. “Troppe immagini allusive”, disse Gad. Ruben era messo piuttosto male. Si reggeva lo stomaco. Efraim aveva un’espressione orribile. Cattiva digestione, disse. Dan sem- brava piuttosto eccitato. “Ci vorrebbe qualcosa di meno trascinante”, disse Ruben. “Di più, come dire, scientifico, tecnico”, disse Gad. “Ma le citazioni bibliografiche sono buone”, disse Dan. “Una bibliografia ben curata è fondamentale”, disse Efraim. “Grazie”, rispose Giuditta.

Fu un momento toccante. Poi Giuditta riprese, ancora una volta comprendendo il nostro stato d’animo. È una ragazza straordinaria.

“Mentre il flusso perturbato a carattere freddo si esprimeva con maggiore vigoria sull’est del continente, in corrispondenza delle pianure, Bruno condusse Fiona in bagno, aprì l’acqua nella vasca, la fece appoggiare al lavandino, e all’improvviso introdusse il suo pene in posizione eretta nell’orifizio vaginale di Fiona, fino a raggiungere l’orifizio uretrale. Ci fu un gemito. Bruno afferrò i ca- pelli di Fiona e cominciò a penetrarla violentemente. Questa ope- razione durò all’incirca tre minuti. Nel frattempo le ghiandole di Bartolino di Fiona sprigionarono la loro tipica lubrificazione. L’aumento di apporto di sangue arterioso ai corpi cavernosi del pene di Bruno – per effetto della guaina fibrosa che li avvolge, detta albuginea – era imponente e inarrestabile. Quando Bruno le 56 afferrò i seni e il suo pene raggiunse lo spazio fra la parete anterio- re della vagina e la parete posteriore della vescica, a una profondi- tà di sei-otto centimetri rispetto all’ingresso del canale vaginale – nella stessa zona dove era già nota la presenza di un tessuto rite- nuto essere il residuo di una primordiale ghiandola prostatica femminile –, la vagina di Fiona cominciò ad allungarsi velocemen- te di 8,5 cm (valore medio). Seguirono altri, numerosi, gemiti. “Guardati allo specchio come mi fai godere”, disse Bruno a Fiona. Le sue mani si issarono sui fianchi di Fiona per facilitare la pene- trazione. I gemiti si fecero urla di piacere. Il pene di Bruno rag- giunse la parete anteriore della vagina, nel suo terzo inferiore, lad- dove risiede un manicotto di tessuto erettile cingente l’uretra. A questo punto la vagina di Fiona si gonfiò a mo’ di tenda mentre la cervice si ritrasse. Seguì una secrezione di liquidi. Il tutto mentre una depressione isolata proveniente da nord-ovest avanzava len- tamente verso lo spazio aereo di Sabbione e la temperatura atmo- sferica a livello del mare rimaneva stazionaria. Fine”.

Eravamo soggiogati dalla limpidezza della pronuncia di Giudit- ta. La sua ingenuità era palese. La osservammo mentre ondeggiava sensualmente di fronte alla lavagna. Procedemmo con l’abituale dibattito. È nostra consuetudine dibattere le previsioni meteo e le relative favole erotiche. Un mo- do come un altro per confrontarci.

Chiese Efraim: “Sarebbe questo che ci rimane?” Rispose Gad: “Non ci è stato tolto”. “Ogni cosa si autoelimina, si autoestingue, ci costringe”. “Esiste d’essenza altra e si esprime in sé”. “Le cose non hanno ritegno. Ci sopravvivono”. “On-to-lo-gi-a”. “Por-no-gra-fi-a”. “Il bisogno metafisico dell’uomo è illimitato”. “Stomaco, stomaco, stomaco!” “Tutto è, in memento mori”. “Il regno della parola per un rognone sanguinante!” “Ein Mal ist kein Mal”. “Tò òn. Pragmata. E poi cosa resta?” 57 “Ciò che resta lo istituiscono i poeti”. “Non ci sarà mai più un colloquio”. “Mi fa male il gomito”. “Quello che è possibile accadrà”. “Sarà perché il tempo si sta guastando”. “Quello non è il gomito”. “Nuvole scure all’orizzonte…” “Svaniranno presto”. “…tempesta in arrivo”. “Non pioverà”. “Ma in fondo chi può dirlo?” “Viviamo nel terrore dell’incerto”. “Pioverà”. “Non lo farà”. “E perché mai?” “Perché dovrebbe?” “Sta già piovendo”. “Smetterà”.

Giuditta ascoltava silenziosa i nostri dibattiti. Era solita non domandarci nulla a proposito delle sue performance, ma quella volta, poiché doveva trattarsi dell’ultima, fece un’eccezione. “Allora? Non mi dite nulla? Vorrei sapere cosa ne pensate della favola”, disse. Ci fu un silenzio piuttosto imbarazzato. I nostri erano pensieri vergognosi. Seguì un altro silenzio imbarazzato. “A domani”, disse Giuditta mentre usciva dalla stanza. “Fermati”, disse Ruben. Eravamo in subbuglio. I nostri organi interni non dovrebbero mai essere costretti a subire pressioni tanto forti. Giuditta si voltò verso di noi. Aveva occhi di un blu insupera- bile. “Hai mai frequentato un corso di dizione?”, le domandò Ru- ben fissandola negli occhi. Giuditta sorrise. Ruben si pisciò addosso.

58 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (2) ______

Il ventitré luglio, durante le celebrazioni per la Giornata dell’Atletismo Assoluto Palloncino Saziante Dimagenina ®, alcuni passanti rinvennero un cadavere (che fu identificato come Hans Rugecoj, quarant’anni, commercialista di Sabbione), banalmente impiccato a una quercia nella centrale Via Giacomo da Sant’Andrea. La macabra esecuzione, secondo le testimonianze dei presenti, fu accompagnata dalla riproduzione audio del brano musicale Brigitte Bardot , composto da Jorge Veiga, che fu trasmesso tramite un dispositivo elettronico (che qualcuno identificò come un I-Pod Touch collegato a un altoparlante). Il caso fu affidato all’Ispettore di Nettezza Umana Doroteo Umbilk, il quale constatò che doveva trattarsi di un suicidio abusi- vo per due motivi: in primo luogo non c’erano sulla scena i nastri identificativi del Ministero Suicidi & Festività ®; in secondo luogo il suicida indossava una calzamaglia arancione e aveva lasciato un messaggio piuttosto esplicito. Si trattava del dodicesimo caso di suicidio abusivo in meno di tre mesi, il primo a essere affidato al giovane ispettore. Umbilk osservò l’uomo ciondolante da un robusto ramo dell’albero: alcuni fluidi fuoriusciti dalla bocca avevano insozzato la panchina sottostante, ma per il resto la scena era piuttosto in ordine. Il medico legale disse che la morte era sopraggiunta per asfissia dopo circa un paio di minuti dall’impiccagione, durante i quali il commercialista si era dimenato e contorto, rilasciando i fluidi (per lo più bave e schiume) che avevano imbrattato la super- ficie della panchina. Quattro agenti della Nettezza Umana giunsero sul posto a bor- do dei mezzi in dotazione al Dipartimento e in venticinque minuti ripulirono e disinfettarono la panchina, aromatizzarono la cortec- cia della quercia con un’essenza al pino silvestre, rimossero il ca- davere e lo caricarono sul cassone del loro mezzo di trasporto. L’ispettore Umbilk coordinò le operazioni di pulizia e rimozio- ne e analizzò attentamente la scena del suicidio. Nel biglietto, un

59 cartoncino azzurro, il tizio aveva scritto in stampatello: troppi risto- ranti pessimi. Gloria al Monaco Arancione.

Per tre giorni Doroteo Umbilk indagò sui ristoranti del centro cittadino alla ricerca di una traccia che potesse fornire una spiega- zione al gesto dell’abusivo. Non trovò neppure un ristorante con quel nome. In seguito scrisse il rapporto per il Comando. Nel rapporto, oltre a definirsi sconcertato, Umbilk poneva al- cune domande. Per quale ragione, scrisse, se questo è il migliore dei mondi possibili, un essere umano dovrebbe suicidarsi abusi- vamente? La vita non è già sufficientemente precaria per sprecarla in modo così disgustoso? Quali sono le cause insite in un gesto tanto folle quanto criminoso e illegale? Concluse il suo rapporto sostenendo che i celebri ristoranti sabbionassi, tanto lodati, stessero patendo un inesorabile declino. La risposta del Comando non si fece attendere. In una nota uf- ficiale, il Responsabile delle Comunicazioni Interne, Dott. Julio Vizago, scrisse: Egregio Ispett. Umbilk, le ricordo che non è suo compito indagare le cause materiali e psicologiche di un suicidio abusivo; per quello paghiamo profumatamente un plotone di so- ciologi e psicologi, i quali forniscono statistiche aggiornate men- silmente al Ministero Suicidi & Festività ®. Il suo compito, Ispett. Umbilk, è indagare la dinamica in cui la scena di un suicidio, abusivo o legale, s’imbratta, s’insudicia, s’insozza; coordinare le operazioni di pulizia, sterilizzazione, ras- settamento; investigare sulla setta di maniaci nota come Circolo eccetera e fermare questa successione di eventi insignificanti e sui- cidi incresciosi. Doroteo Umbilk veniva da un posto in campagna, aveva tren- tacinque anni ed era il più giovane ispettore del Dipartimento Net- tezza Umana.

***

60

UFFICIO CAUSE ELEGGIBILI DI SUICIDIO ®

A Sabbione non pioveva da quattro mesi e la polvere sollevata- si dalle strade aveva insudiciato anche le vetrate ai piani più alti degli edifici, aggravando la sensazione di claustrofobia in tutti i di- pendenti del Ministero Suicidi & Festività ® costretti agli straordi- nari per la Settimana dei Pronostici Obbligatori Annuali. I sudici bagliori del tramonto filtravano dalle veneziane illumi- nando a strappi orizzontali le scrivanie di due impiegati al dodice- simo piano del Palazzo Ottagonale. Quando i neon del Palazzo si azionarono automaticamente, i due stavano scommettendo sul motivo che aveva spinto l’uomo seduto in sala d’attesa a inoltrare richiesta di suicidio ®. Cosa mi dici di questo qui? Domandò l’impiegato più grasso. Per me è stato tradito dalla moglie, disse l’impiegato magro. Ma no, disse l’altro. Quelli che sono stati traditi dalla moglie li riconosci subito. Hanno il volto più sommesso, la pelle più con- sumata. Questo mi sembra più un tipo da tracollo finanziario. Ma finiscila, disse il magro. Non lo vedi com’è conciato? Quel- lo i soldi non li ha mai neanche annusati da lontano. Allungò il collo cercando di distinguerlo meglio. Magari è mala- to, aggiunse. Malato quello? Domandò il grasso. Non ci pensare. Quello è sano come un pesce. Forse un lutto in famiglia, disse il magro. L’uomo sembrava dover smaltire i postumi di una sbronza co- lossale. Era seduto sulla poltroncina di plastica della sala d’attesa con un telefono in mano, e lo roteava nervosamente. Il sole aveva esaurito il suo sporco lavoro e nell’ufficio erano rimasti solo i due impiegati di livello C più una segretaria indaffara- ta a battere con violenza sui tasti della tastiera di un computer. 61 Dalla sua posizione l’uomo riusciva a scorgere soltanto le scri- vanie dei due impiegati e un distributore automatico di bevande, una piccola parte dell’immenso scomparto dell’Ufficio Cause Eleggibili di Suicidio ®, il quale contava sessanta scrivanie disposte in file da quattro. L’impiegato magro sollevò la veneziana per guardare fuori e at- traverso la patina di polvere umida che impregnava il vetro scorse un ragazzo e una ragazza seduti su una panchina in fondo alla strada. Il ragazzo avvicinò la bocca all’orecchia della ragazza, e lei scoppiò a ridere. Cosa avranno tanto da ridere? Domandò l’impiegato magro, che teneva sollevata la veneziana con un righello da trenta centi- metri. Sono giovani, disse l’altro. Scommetto che se una guardia li pizzicasse adesso scoprirebbe qualcosa di sospetto e gli farebbe passare un guaio, disse il magro. E perché dovrebbe trovare qualcosa di sospetto? Domandò il grasso. La felicità è sempre sospetta, disse il magro. In quel momento l’uomo si sporse dalla porta mezza aperta della sala d’attesa e richiamò l’attenzione dei due impiegati schia- rendosi leggermente la voce. Quello più magro lasciò ricadere la veneziana di colpo e con un cenno della testa indicò al collega l’uomo sull’uscio dello stanzone. Desidera qualcosa? Domandò quello più grasso. C’è da attendere ancora molto? Domandò l’uomo. Gli impiegati si voltarono a guardare la segretaria, che intanto aveva smesso di violentare i tasti. La segretaria portava una gonna beige, i capelli raccolti in una coda e le unghie curatissime; la sua postazione, più piccola rispetto a quelle degli impiegati e rischiarata con una luce da tavolo, era collocata qualche passo a destra rispetto alle file di scrivanie. Sto finendo di preparare lo stampato, disse la segretaria con tono irritato, sempre se qualcuno ha la compiacenza di lasciarmi lavorare. Chiedo scusa per l’interruzione, disse prontamente l’uomo.

62 Il cielo sembrava ancora azzurro, ma i neon glaciali all’interno dello stanzone stavano prendendo il sopravvento sui barlumi afosi del crepuscolo. Gradirebbe qualcosa da bere? Domandò l’impiegato grasso. Quello magro scoppiò a ridere. Cos’hai da ridere? Domandò il grasso. Niente, disse il magro. Il grasso scoppiò a ridere. La felicità è sospetta, disse il magro ridendo. Anche se questa non è felicità, disse il grasso ridendo. L’uomo non capì. Rimase fermo in silenzio sull’uscio della por- ta indeciso se rispondere alla domanda che il grasso gli aveva po- sto finché l’impiegato magro, sghignazzando, non gli fece un cen- no con la mano invitandolo a tornare nella sala d’attesa. Volete farmi la cortesia di lasciarmi lavorare? Disse la segretaria irritata. Ho un marito e due figli che mi aspettano per cena, e il mio straordinario terminava nove minuti fa. I due impiegati si zittirono, ridacchiando e nascondendo i volti dietro il monitor dei loro computer. L’uomo tornò a sedere sulla poltroncina rossa di plastica. La sala d’attesa aveva i muri verniciati con un colore rilassante. Dalle due finestre si intravedevano le guglie polverose della catte- drale di San Bertran de Born, alle pareti c’erano quattro poster raf- figuranti il Gerarca in posa mentre svolgeva esercizi ginnici o mosse di arti marziali. Il clima era reso piacevole da un paio di condizionatori posizionati sulla facciata antistante la porta d’ingresso. Per una decina di minuti ci fu silenzio, rotto soltanto dal disto- nico picchiettio dei polpastrelli della segretaria sui tasti del compu- ter e dai rumori tremolanti del distributore di bevande. A un certo punto l’impiegato magro lesse qualcosa sul monitor e trasalì. È uno schifo, disse. Cos’è uno schifo? Domandò l’altro. Figurati che vogliono abolire i tacchini vivi dalla Giostra, disse il magro. In che senso? Domandò il grasso. Nel senso che vogliono sostituirli con pupazzi di pezza. 63 E per quale motivo? Perché il sangue dei tacchini decapitati sarebbe inadatto a bam- bini e signore. Inconcepibile. È uno schifo. È davvero uno schifo. In quel momento la segretaria smise di pigiare i tasti, stampò un documento, con camminata decisa si avvicinò alla postazione dell’impiegato magro e lasciò cadere il foglio sulla sua scrivania. Vi saluto, belli, disse. Una di queste sere ti invito a cena, le disse l’impiegato grasso. Ti piacerebbe eh? Rispose la segretaria. Piuttosto di niente, disse il magro sghignazzando. Il solito cafone, si stizzì la segretaria. Mentre usciva fece cenno all’uomo in sala d’attesa che poteva entrare. L’uomo era stempiato, sulla quarantina, la barba di un paio di giorni, e indossava una camicia verdolina con le maniche corte. Quando si sedette di fronte alla scrivania dell’impiegato magro domandò subito se dovesse firmare qualcosa. Un momento, disse il magro alzando un dito e ispezionando il modulo che la segretaria aveva stampato. Ha la marca da bollo? Domandò l’impiegato grasso. L’uomo cercò nel portafoglio, tirò fuori una marca da bollo e la consegnò all’impiegato magro. Molto bene, disse il magro. Poi appiccicò la marca da bollo nell’angolo in alto del documento e appose un timbro. Motivazione? Domandò. Come? Disse l’uomo. Motivazione della richiesta di suicidio, disse il grasso. L’uomo restò in silenzio per un tempo innaturale. Non abbiamo tutta la notte, disse il magro. Stanchezza, disse l’uomo. Cos’è, uno scherzo? Domandò il grasso. Che motivazione sa- rebbe? Anch’io sono stanco, aggiunse il magro. Siamo stanchi in due, disse l’uomo. Mi sa tanto che questo qui è un dritto, disse il grasso. 64 A me sembra un po’ rincitrullito, disse il magro. Non le accorderanno mai l’avallo a suicidarsi per una motiva- zione così stupida, disse il grasso. L’uomo si grattò il mento. Mi pare una motivazione più che sufficiente, disse. L’impiegato magro estrasse una penna stilografica dall’interno della sua giacca d’ordinanza e scrisse sul documento la parola stan- chezza nell’apposita riga corrispondente alla voce Motivazione del- la Richiesta. Contento lui, disse al collega. Contento lui, confermò l’altro. L’uomo non disse niente. Suicidarsi per stanchezza, disse tra sé e sé il magro. Che diavolo di idea. Ha qualche allegato da consegnare? Domandò il grasso. Magari un certificato medico? Aggiunse il magro. Il grasso scoppiò a ridere. Anche il magro rise. È che siamo troppo felici, disse il grasso. L’uomo rimase impassibile. Allora, questi allegati? Domandò il magro. Nessuno, disse l’uomo. Molto bene, disse il grasso. Una firma qui per approvazione e una qui per la privacy, disse l’impiegato magro consegnandogli il documento. L’uomo firmò, lasciò il foglio sulla scrivania senza neppure leg- gerlo, si alzò, salutò e uscì. Stanchezza, bisbigliò l’impiegato grasso, stanchezza. Camperà ancora a lungo, disse il magro. Fosse così semplice avremmo una fila lunga da qui a domani, disse il grasso. Invece gli tocca di campare, disse il magro. Invece ci tocca di campare, confermò il grasso. Alzandosi dalla scrivania, il magro notò una cimice che si tra- scinava intorpidita sul piano morbido che veniva utilizzato per timbrare i documenti. Prese un enorme registro e la spappolò, in- curante del fetore che avrebbe emanato. Che schifo, disse il grasso. 65 Ma il periodo delle cimici non dovrebbe essere l’autunno? Domandò il magro. Cosa sei, un entomologo? Disse il grasso. Hai qualcosa contro gli entomologi? Domandò il magro. E comunque con il clima chi ci capisce ancora qualcosa è bra- vo, sembra di essere ai tropici, disse il grasso. Hai proprio ragione, confermò il magro. Le cimici preferiscono il clima tropicale? Domandò il grasso. E io che ne so, disse il magro, so soltanto che ultimamente ce n’è una quantità industriale. Sono animali schifosi, concluse il grasso. Davvero schifosi, confermò il magro. Prima di richiudere le veneziane sbirciò dalla finestra: a quell’ora l’acqua del fiume Atanor, uno dei dieci fiumi più inquina- ti al mondo, era color turchese fosforescente con venature ottone antico.

66

VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (3) ______

Durante la Settimana dei Pronostici Obbligatori Annuali la questione dei suicidi abusivi si aggravò ulteriormente. Tutti i dipendenti del Ministero Suicidi & Festività ® furono al- lertati e costretti a turni massacranti per sbrigare le pratiche ordi- narie e fronteggiare l’ondata anomala di indeterminazione che in- vestì il Paese a ridosso dei festeggiamenti per la Giostra del Pecca- to, la più importante festività del Sabbionasso. L’ispettore di Nettezza Umana Doroteo Umbilk si recò all’Agenzia Divinatoria Morgau per ottenere il suo Aggiornamento Obbligatorio Annuale, e quando ne uscì fece una sosta in un bar del Parco Sintetico Märklin, situato nei pressi del Centro Storico Veramente Medievale. Dall’ingresso notò il lungo bancone in legno, un’insegna mezza arrugginita sopra la vetrina dei liquori e un grande ritratto del Ge- rarca di Sabbionasso intento a sorseggiare una birra, con tanto di schiuma sui baffi ed espressione compiaciuta. L’insegna diceva:

Un Posto Pulito, Illuminato Bene * *Il nome è un richiamo letterario e non rispecchia necessariamente le condizioni elettrico-igieniche del locale

Umbilk attraversò il pavimento d’argilla infangato a passo len- to, guardandosi attorno. Il locale aveva una forma irregolare, sega- tura dappertutto, boccali di birra e orologi dozzinali appesi alle pa- reti. Il soffitto era un perlinato nauseante che dava l’impressione di mangiarsi tutto l’ossigeno. C’erano sei o sette persone sedute a tavolacci di finto legno decorati con uno spoglio centrotavola. Un negro con un grembiule stava ramazzando l’acqua lercia dagli an- goli, ammucchiando mozziconi di sigaretta, grumi di polvere, car- tacce, maledicendo dio e il temporale della notte prima.

67 Quando raggiunse il bancone, Umbilk si sedette a uno dei cin- que sgabelli, il quarto partendo da sinistra. In quello centrale sede- va un tizio stempiato, vestito con una camicia frusta e un paio di pantaloni troppo pesanti per il caldo di quei giorni; stava discu- tendo col barista molto animatamente, agitando le mani e alzando il tono della voce. Umbilk guardò la vetrata dei liquori; il barista lo salutò con un cenno del capo e gli domandò cosa volesse bere. C’è puzza di vomito stantìo, disse Umbilk. Il tizio stempiato si zittì. Il barista si guardò intorno, poi fissò Umbilk. Hai letto il cartello no, disse. L’ho letto, disse Umbilk. E allora di cosa ti lamenti, domandò il barista. Mi lamento perché questo posto fa schifo, disse Umbilk. Cosa sei dell’Ufficio Igiene, disse il barista. Per tua fortuna no, disse Umbilk. Se vuoi ordinare bene, disse il barista, altrimenti smamma. Un whisky, disse Umbilk. Il barista guardò il tizio stempiato. C’è qualcosa che non hai capito nell’ordinazione? Domandò Umbilk. Direi di no, rispose il barista. Allora cosa aspetti, disse Umbilk. A quel punto il barista collocò un bicchiere consumato da cen- tinaia di scadenti lavaggi sul bancone e voltandosi afferrò una bot- tiglia dalla vetrina sporca di unto e disseminata di impronte digita- li. C’è qualche marca in particolare che preferisci, domandò. Qualunque intruglio va bene. Il barista versò del liquore nel bicchiere e si rimise a discutere col tizio stempiato. Sono in mezzo a noi, attaccò. Hanno quei cognomi del cazzo, Wernikoff , Bumeroff , Krauterkraft . Si comportano quasi come noi, ma non sono noi. Sono ebrei, disse il tizio stempiato. E se gli vai a riferire che loro sono peggio dei nazi ti rispondo- no che sei un ignorante, disse il barista. 68 Proprio così, confermò il tizio stempiato, ma vallo a raccontare ai palestinesi. Porcaccia eva, qualunque cosa gli si dica ti rispondono che sei ignorante, che non conosci la storia, disse il barista. E non mangiano neppure il prosciutto, disse il tizio stempiato. Una cosa ridicola, disse il barista. La nostra religione è la religione di prima scelta, disse il tizio stempiato. Come il bianco è il colore di prima scelta per la pelle, disse il barista. Ci hai proprio preso, disse il tizio stempiato. Non è vero Chopper? Urlò il barista al negro che stava ancora ramazzando il pavimento. Fanculo, disse il negro che stava ramazzando il pavimento. Vedi, disse il barista, gli dai un lavoro e loro ti trattano così. Si misero a ridere.

Umbilk ricevette una telefonata dalla moglie Sara, che gli ricor- dava l’appuntamento al Centro Sterilità. Spinse il bicchiere mezzo pieno in direzione del barista. Quanto costa questa roba, chiese. Meriteresti che qualcuno ti insegnasse le buone maniere, disse il barista. Meriteresti che qualcuno ti curasse l’imbecillità, disse Umbilk. Ma per quella non esiste cura. Appoggiò un paio di monete sul bancone e cinque minuti dopo era in strada, fagocitato dal traffico eccitato della città.

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La Settimana dei Pronostici Obbligatori era la settimana più frenetica dell’anno, a Sabbione e dintorni. Ciononostante i preparativi per l’imminente festività coinvol- gevano tutti. I cartelli fluorescenti sormontavano i muri dei palaz- zi. I venditori di cocomeri strillavano per le strade invase da bran- chi di cittadini, turisti, religiosi. Verso il tramonto questa gente af- follava i portici per i cocktail con i cavalcatori e alcuni dei tacchini selvatici scampati alla corrida impazzavano per le vie fino a quan- 69 do un colpo di pistola, un bastone o un coltello non li abbatteva. Molti Danti Alighieri declamavano l’Inferno su pire artificiali so- verchiate dai vessilli gerarcali, come predicatori ciechi che urlasse- ro al mondo la loro disperazione, carne guasta buona per i corvi, che infatti s’affollavano sulle carcasse dei ratti maciullati. In tutti i bar risuonavano melodie estive, osanna al popolo di Sabbione, i suonatori di strada diffondevano lodi agli eroi della Giostra. Una vaga eccitazione gremiva strade e bar, e i contadini giunti da Piz- zengo e Castrocozzo, da Scurzolengo e Altaforte, s’aggiravano col vestito buono in cerca di puttane lungo il fiume, che in quei giorni afosi assumeva colorazioni che oscillavano dall’ametista al cela- don, dal castagno chiaro all’eliotropo fluorescente.

Umbilk si diresse in collina verso una costruzione che a molti sarebbe parsa un villaggio turistico. Si trattava invece del Centro Sterilità Gerarcale, luogo in cui, da un anno a questa parte, Umbilk si recava almeno una volta a settimana. Da tre anni lui e la moglie cercavano di avere un figlio, e ulti- mamente le cose si erano fatte un po’ tese, soprattutto a causa dell’indolenza con cui Umbilk si era sottoposto al ciclo di sedute e cure presso il Centro. Dopo l’ennesima sequenza infruttuosa di rapporti sessuali, tutti avvenuti secondo il metodo Ferenczi, Sara lo aveva infatti convin- to a partecipare a numerosi incontri e percorsi formativi, tra i quali l’unico corso che Doroteo amava frequentare si rivelò essere quel- lo di transustanziazione neonatale, ogni mercoledì e giovedì (19.30 – 21.30) presso l’aula F del Centro. La prima volta si erano ritrovati in una sala colma di persone mentre un dottore dall’aria saccente snocciolava una serie di ap- puntamenti cui avrebbero dovuto partecipare nei mesi successivi. “Benvenuti al corso di transustanziazione neonatale”, aveva detto. “Qui vi insegneremo a odiare i poppanti in maniera talmen- te profonda che al termine dell’esperienza l’unico vostro desiderio sarà quello di non averne mai”. Il tizio si chiamava Daniel Chopra. “Il vostro desiderio di gra- vidanza si convertirà in disgusto, la vostra aspirazione alla paterni- tà si tramuterà in brama di solitudine; sconfiggerete la sterilità con

70 la stessa arma della sterilità: accentuandola e amandola per quello che è”. Quel corso era progettato per infecondi all’ultimo stadio, gente che aveva già svolto un programma di cure mentali e fisiche senza alcun risultato. Sara aveva sussurrato a Umbilk che probabilmente erano finiti lì per sbaglio. Umbilk aveva risposto che gli sembrava il primo e unico corso che ai suoi occhi avesse senso. A quel punto Sara era uscita dall’aula in lacrime, lacerata da tut- ti i pensieri nefasti che la trafiggevano ormai da troppo tempo; aveva tentato di avere un figlio in trentasette modi diversi, speri- mentando tecniche innovative e dodici inseminazioni, l’ultima pe- raltro quasi riuscita: ciclo ritardato di otto giorni, nausea, voglia di anguria con fritto misto di pesce e umore a dir poco stravolto, prima che tutto sfumasse in un bagno di sangue, il suo, e in un pianto a dirotto al telefono con l’amica Lorna, conosciuta sul fo- rum del sito internet vogliadigravidanza.org e divenuta preziosa con- fidente. Anche Lorna, seppure non avesse un compagno, aveva ripetu- tamente provato a rimanere incinta, prima utilizzando un camioni- sta di Tonco e successivamente un pubblico ministero di Sabbio- ne, anch’egli habitué del sito vogliadigravidanza.org , senza risultati apprezzabili, tanto che si era iscritta al programma Supporta un Vec- chio! organizzato dall’Associazione Non Riconosciuta Gerontofili Sabbionassi, dove trascorreva stuzzicanti serate in compagnia di vecchi semiabbandonati, pervasa da “quell’eccitante sensazione di morte e muffa”, immensamente distante dalla gaiezza bambinesca che ormai la terrorizzava nelle piazze del centro, nei parchi, nelle scuole. Sara aveva provato la stessa sensazione diverse volte; sua sorel- la Maribel aveva avuto due bambini nel giro di un anno e mezzo, un maschio e una femmina, e ognuna delle gravidanze aveva pale- sato un diffuso senso di nausea in Sara, che, successivamente, a ogni pianto dei piccoli, a ogni sussulto, a ogni tenerezza, speri- mentava lo stesso dolore che si verifica quando una lama affilata penetra nella carne accanto al cuore, nel midollo interno, profon- damente, distruggendo quel naturale amore femminile nei con- fronti dei bambini. In fin dei conti perché non ammetterlo in mo- 71 do definitivo, Sara detestava furiosamente quei due marmocchi sbavanti e merdosi e sempre al centro d’ogni attenzione, mentre invidiava la sorella fino al punto di sognare che soffrisse smoda- tamente per i figli; desiderava che, sfuggiti al suo controllo in pie- no centro, fossero investiti da un autobus, che in preda a un rap- tus li uccidesse entrambi a pugnalate, che fossero rapiti, sodomiz- zati, brutalizzati. Avrebbe anche desiderato ucciderli con le proprie mani, sevi- ziarli, soffocarli nel sonno, procurare alla bambina sfregi così pro- fondi che la sua vita sarebbe stata rovinata per sempre. A Umbilk toccava l’ingrato compito di sostenere la moglie, di calmarla, di spronarla a cercare nuovi metodi per aumentare la fer- tilità, possibilmente non invasivi (la pomata Spermamax™ Plus, provata la prima volta durante la Giornata della Paternità- Garantita-Al-Novantaquattro-Percento Spermamax™, aveva pro- curato al povero Umbilk eczemi e fistole dolorosissimi).

Quando entrò nella reception del Centro Sterilità fu accolto come al solito da una dipendente molto cordiale che lo fece ac- comodare nella stanza della terapia di gruppo conosciuta come Motivazione Padri Ipotetici , la quale si svolgeva ogni venerdì pome- riggio dalle 14 alle 16; Umbilk vi partecipava ormai da tre mesi e mezzo. Nonostante fosse un periodo di lavoro frenetico, costellato da suicidi e da suicidi abusivi che si susseguivano con ritmo incessan- te, aveva deciso di non perdere l’incontro, raccontando una balla ai colleghi. Il suo lavoro consisteva nel riassettare aree pubbliche (e dopo l’ultimo decreto legge, anche private) danneggiate o insozzate dalle conseguenze di un suicidio. Pareva un’attività squallida, come spesso gli faceva notare Sara, ma in realtà era molto ben retribuita, e soprattutto faceva di lui un eroe locale, acclamato e onorato da tutta la cittadinanza. Per tali ragioni Umbilk amava il proprio lavo- ro. Aveva studiato duramente per ottenere una promozione a Ispettore, e finalmente, dopo cinque anni di sforzi, era arrivata. Sembrava che tutto procedesse per il meglio: nuova casa in centro città, stipendio più alto, pronostici positivi, la stima di col- leghi e superiori e l’ammirazione dei propri concittadini. Poi quel 72 dannato figlio che non voleva arrivare, quella sensazione umiliante di impotenza e vergogna di fronte alla natura, quella sterilità che tre andrologi avevano scongiurato bollandola come una supposi- zione e nulla più, ma una supposizione che si era rivelata sufficien- te a minare le sue certezze. Non era neppure sfiorato da complessi di inferiorità maschile, tipicamente gerarcali, eppure si sentiva in- completo, incapace di cambiare il corso degli eventi, costretto a boccheggiare in un angolo tenebroso del Continuum Temporale Sabbionasso. Le sedie nella sala erano disposte a cerchio imperfetto; molti giovani uomini sedevano con l’espressione un po’ scarmigliata e vergognosa. Umbilk sedette tra un uomo di mezz’età in giacca e cravatta e un giovane biondiccio con cui aveva scambiato qualche parola dopo l’incontro della settimana precedente; salutò tutti con un cenno della mano, poi appoggiò la caviglia destra sul ginocchio sinistro, attendendo che il relatore facesse il suo ingresso per ini- ziare la terapia.

Dominic Liberatore entrò nella sala dopo un paio di minuti, accompagnato da tre assistenti. Ripetete insieme a me, disse, senza neppure guardare in faccia il proprio pubblico. Ci fu un rumore di sedie spostate sul pavimento. Ripetete: Io desidero intensamente un figlio. Mentre pronunciava quella frase sosteneva la voce con ampi gesti delle braccia e delle mani, quasi scandendo le sillabe una ad una. I padri ipotetici ripeterono. Più forte, disse Dominic Liberatore. I padri ipotetici ripeterono a voce più alta. Dovete motivare il vostro corpo affinché si predisponga alla paternità, disse Dominic Liberatore. Ripetete insieme: voglio che il mio corpo si predisponga ad ac- cettare la paternità. I padri ipotetici ripeterono. Prima che Dominic Liberatore potesse spronarli ad aumentare il tono, i padri ipotetici ripeterono la frase a voce più alta.

73 Bravi, disse Dominic Liberatore. Solo in questo modo il vostro corpo potrà liberarsi dalle paure che istintivamente si annidano nei vostri cuori. Sprigionate il potere generativo che è in voi, disse ancora. Umbilk ripeté quelle frasi idiote un paio di volte, poi si alzò di scatto e uscì dal Centro. Dieci minuti dopo era in auto, dove la radio stava trasmettendo il codice per un suicidio di gruppo ®. Accese una sigaretta e pensò che in una giornata così luminosa niente potesse essere tanto gra- tificante quanto ripulire l’asfalto e i muri della sua città da ripu- gnanti brandelli di cadavere umano. Costeggiò il fiume Atanor con i suoi riflessi luminescenti, ammirò un paio di ragazzini che si sfi- davano in equilibrio sul pontile a pelo dell’acqua e pensò che non avere figli, a questo mondo, era una fortuna sfacciata.

***

74 TEMPO DI UCCIDERE

1.

Siedo alla mia scrivania in pino della California invasa da schiz- zi di disegni, cartelline gialle e ritagli di quotidiano. La mia mano destra afferra stancamente il mouse, la sinistra lambisce la mia so- lita barba del lunedì. Mi trovo in un ambiente luminoso al tredicesimo piano di un palazzo di Sabbione, redazione della rivista di caccia esperantista Tempo Mortigi . Dalla finestra alla mia sinistra noto quattro giapponesi in bilico tra il vuoto e la balaustra conforme (non più alta di 67,9 cm ) sul tetto del palazzo di fronte, intenti a simulare una caratteristica clausola 99 mentre un altro turista (dal tipo di camicia potrebbe trattarsi di un americano, dal tipo di sandali di un tedesco) scatta loro una fo- to ricordo. In strada i soliti agitatori stanno protestando con cartelli e me- gafoni. Un ritratto a colori di Ludwik Lejzer Zamenhof è appeso alla parete dietro la mia schiena, una paratia in polimetilmetacrilato mi isola dagli strepiti del mio collega, Bernard Kranz, della Redazione Uccelli (quaglie, beccacce, tacchini selvatici eccetera); su tutte le pareti spiccano i trofei del nostro direttore e fondatore Truman L. Gerk: due teste di cinghiale, una di cervo, una di capriolo. Sto rivedendo un articolo molto raffinato, molto scrupoloso, dal titolo Il fascino della braccata in relazione alla Provvidenza Divina . Sono tempi di magra, e nei tempi di magra dobbiamo relazio- narci ad altri mondi, ammiccando agli appassionati di culture di- verse, ma soprattutto dobbiamo abbandonare l’esperanto e scrive- re in italiano. “Nessuno la capisce questa lingua del cazzo. Proba- bilmente nessuno l’ha mai capita”. Con queste parole del nostro direttore cinque mesi fa abbiamo messo la parola fine al progetto romantico di una rivista interamente scritta nella lingua di Zamen- hof.

75 Getto fuggevolmente un’occhiata di sotto: una cinquantina di manifestanti sta ingiuriando il buon nome del nostro direttore, al- tri reggono cartelli rudimentali scritti con vernice spray su tavole di cartone. Uno dice: Se vi piace sparare agli uccelli, sparate al vostro! Concludo l’articolo, lo invio a Emma di Impaginazione. Ho un po’ di nausea. Bernard mi chiede di correggergli le bozze. Correggo le bozze di Bernard. Scrive la terza persona presente indicativo del verbo avere senza acca e con l’accento. Possino anzi- ché possano. Aggiungo le h, tolgo gli accenti. Sostituisco le i con le a. ag- giungo qualche virgola; un paio di punti. Mando a Emma di Im- paginazione. Bernard mi ringrazia. Prendo le mie cose, scendo nell’androne. Saluto Brange, l’usciere del palazzo, sbircio fuori dall’ingresso, ve- do i manifestanti sul piede di guerra. Brange non mi rivolge nep- pure uno sguardo. Esco dal retro.

2.

Gerk mi convoca nel suo ufficio. È piuttosto su di giri. Per la puttana, Villanova, dice, credi che i cacciatori siano tutti glottologi del cazzo? Cosa significa allegante? Gaudio ridevole? Paratestuale? Tomismo? Pensi che quei razzolamerda con un fuci- le a tracolla abbiano il tempo di andare consultare un vocabolario del cazzo, mentre leggono gli articoli della nostra rivista? Non so cosa dire. Rifare, dice Gerk. Come rifare? Domando io. Gerk mi guarda col suo unico occhio (l’altro gli fu tranciato di netto da un compagno durante una battuta di caccia al cinghiale). Mi spiego meglio, dice. Riscrivi questa merda di articolo affin- ché i nostri lettori del cazzo capiscano quello che c’è scritto. È chiaro? Chiarissimo, dico.

76 Gerk prende una telefonata, io ripenso ai tempi della Scuola per Aspiranti Scrittori più Famosa della Nazione.

Villanova, razza di scrittorucolo da strapazzo, quando pensi d’inserire una descrizione dei personaggi? E qualcosa di più inte- riore, per esempio un approfondimento psicologico? È sempre stato il suo problema, povero Villanova, alla Scuola per Aspiranti Scrittori più Famosa della Nazione; il ragazzo adopera con raffina- tezza avverbi e talvolta anche gli aggettivi, disse l’Insegnante di Avverbi & Aggettivi. Ma non si applica nell’approfondimento psi- cologico dei personaggi, disse l’Insegnante di Approfondimento Psicologico. E gli incipit sono un disastro, disse l’Insegnante di Incipit. Quel figlio di puttana non ha idea di come cominciare una storia. Del resto non andava meglio con le descrizioni di persone e/o cose e/o paesaggi. Villanova? Ha qualche speranza se non abbon- da con i verbi al passivo e con i condizionali, disse l’Insegnante di Tempi Verbali alla Scuola per Aspiranti Scrittori più Famosa della Nazione. Ed è piuttosto bravo con le parafrasi, le parodie, le cita- zioni, l’insieme di tutto ciò. Ma piuttosto bravo non significa bravo , disse l’Insegnante di Para- frasi & Parodia & Citazione.

Gerk riattacca. Ci siamo capiti? Domanda. Rifare, dico. C’è tempo, dice. Mi è appena stato comunicato che per la Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil si terrà una grande battuta di caccia-con-animali-da-pelliccia all’Azienda Faunistico Venatoria di Sabbione Est. In pratica si tratta di celebrare la conversione spirituale di ermel- lini, visoni, coccodrilli, pitoni, eccetera, che in questa giornata (ma anche in molte altre giornate) subiscono una conversione da esseri viventi in pellicce , borsette e portafogli . E allora? Domando. E allora dopodomani alzi il culo e lo porti all’Azienda Faunisti- co Venatoria per seguire la caccia. Fai interviste, scopri che cosa

77 diavolo c’entra un’industria come la Playmobil con questa giorna- ta, eccetera. Cristo ti devo insegnare tutto? Dice. Certo che no, dico. E allora sparisci, per la puttana, urla. Quando Gerk urla il mio mal di testa raggiunge picchi inimma- ginabili. Torno nel mio ufficio per documentarmi sulla Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil. Siedo alla mia scrivania in pino della California ecc. ecc. Domando a Bernard se durante lo scuoiamento dei visoni è preferibile che i visoni siano ancora vivi. Adesso no, Martin, ti prego, dice, non ho neppure il tempo per andare a pisciare. Il suo reportage intitolato Viva le Tortore assorbe tutte le sue energie. Trovo qualcosa sullo scuoiamento e sul trattamento degli ani- mali da pelliccia su internet. Sbircio di sotto per capire se i manife- stanti sono andati via. Sono ancora lì. Per concentrarmi inserisco la mia cassetta nel mangianastri. Metto le cuffie. Spingo play . Una voce intonata, femminile, molto ben bilanciata e tonica, calda e carnale, pronuncia incessantemente l’elenco governativo delle sopravalutazioni più frequenti. Respirare è sopravvalutato. L’amore è sopravvalutato. Siamo sospesi tra il bene e il male, ma il bene è sopravvalutato. Svegliarsi è sopravvalutato. A parte il corsivo Egmont chiaro e spassarsela tra le lenzuola con una bambola bionda non c’è nulla di meglio di una conversazione brillante, ma ognuna di queste cose è sopravvalutata. Dormire è sopravvalutato. Veder crescere i propri figli è sopravvalutato. Dio è sopravvalutato. Spengo il mangianastri. Scrivo poche righe, le mando a Emma di Impaginazione. Ber- nard mi chiede di correggergli le bozze. Scrive due volte stassera e tre volte superfice . Non è dotato del commercio della punteggiatura. Mette qua con l’accento, da voce del verbo dare senza accento. Tolgo le s di troppo, aggiungo le i. Punteggio qua e là. Tolgo e aggiungo gli accenti. Mando a Emma di Impaginazione. Bernard mi ringrazia. 78 Scendo nell’androne, sbircio fuori, saluto Brange. Lui non mi saluta. Esco dal retro.

3.

Tutti i mercoledì mattina c’è la riunione di redazione in sala riunioni. Al segnale dobbiamo sederci sulle poltroncine disposte a semicerchio. Il segnale è un grugnito della durata di circa sette se- condi che interrompe per sette secondi ogni attività. Andiamo in sala riunioni e ci sediamo sulle poltroncine. Siamo io e Bernard, Emma di Impaginazione, Zora di Ricette di Selvaggina, Cristal di Ungulati e Cervidi, Kevin di Ippica e Corrispondenza, Ferris di Pubblicità e Amministrazione, Beaujolais di Manifestazioni Spor- tive (Venatorie). Gerk è seduto di fronte a noi, su una specie di trono. Dice: datevi da fare coglioni, qui c’è da scrivere una rivista che persuada i cittadini ad amare la caccia; non devono accettarla , bran- co di mezzeseghe, non devono gradirla , devono a-mar-la . Mi sono spiegato, brutte teste di cazzo? Non siete stati assunti per ingozzarvi di baghel ripieni di philadelphia e plumcake alla ca- rota. E trovate inserzionisti, cristo, che il diagramma delle vendite sta precipitando come una quaglia appena abbattuta da un Win- chester. Ci diamo da fare. Discutiamo. Quando imparerai a giustificare il testo dei tuoi articoli? Doman- da Emma a Kevin. Ci perdo delle ore. Da quando in qua gli artisti devono preoccuparsi di giustificare il testo? Dice Kevin. Da quando sei stato assunto in questo giornaletto di merda, fa Cristal di Ungulati e Cervidi. Silenzio. Gerk non dice niente. Sappiamo tutti che se la scopa. Si decidono gli articoli del numero in uscita fra due settimane. Kevin propone il Massacro Equino Liturgico presso le popolazio- ni segrete dell’Amazzonia. 79 Sembra divertente, dice Beaujolais. Beaujolais è il più vecchio della redazione. Ha un passato da ve- ro cronista sportivo per una rivista di Esperantologia e Sport, per cui conosce perfettamente l’esperanto. Molto tempo fa ha scritto un articolo di cronaca sulla Giostra del Peccato che è divenuto giustamente famoso in tutto il Paese. Ha scritto numerosi altri re- portage di fama, premiati e ammirati. Poi senza un motivo preciso ha iniziato a sbronzarsi e a scrive- re articoli sempre più deliranti e mistici, infarciti di omicidi mai avvenuti, sette sataniche e massoniche, religioni mostruose, miti sanguinari. E così eccolo qui alla riunione del mercoledì, apparentemente sobrio, a concertare pezzi sullo scuoiamento dei visoni o sullo sterminio delle foche. Gli fanno schizzare le budella con una lancia imbevuta di cura- ro, gli strappano il cuore e se lo mangiano crudo e sanguinante, dice Kevin. Davvero portentoso, dice Bernard. Uno schifo del cazzo, fa Cristal. E dove li trovano i cavalli, in Amazzonia? Domando io. Chissenefrega dove li trovano, dice Bernard. Sempre il solito rompiballe, dice Emma. Hai controllato le fonti? Domanda Gerk. Affidabilissime, dice Kevin. Procedi, dice Gerk. Bernard lavora al suo reportage sulle tortore. Sto scrivendo un gran bel pezzo, dice. Non è male, conferma Emma. Non vi pare che un massacro rituale di cavalli sia un po’ troppo, come dire, forte ? Domanda Ferris. Gerk lo squadra col suo occhio perverso. Tu pensa a trovarmi degli sponsor, dice. Ferris tace. Non trova uno sponsor da mesi. L’ultimo ha stracciato il con- tratto dopo la pubblicazione dell’articolo di Beaujolais intitolato Morte a Sangue Caldo: perché occorre scuoiare i Cincillà vivi per ottenere un prodotto finale migliore .

80 Neppure i produttori di cartucce e armi ci concedono più un’inserzione, da quando lo stesso Gerk ci fece scrivere l’articolo su come Uccidere Tacchini Selvatici a Bastonate , nel quale sosteneva, tra l’altro, che uccidere qualunque animale a mani nude denota grande coraggio, che poi è il vero spirito della caccia. Cristal si sta occupando di un pezzo sulla caccia ai cervi in Romania. Davvero notevole, dice Bernard ironicamente. Aspettiamo tutti con impazienza il tuo servizio su quelle torto- re del cazzo, dice Cristal. Fatela finita, dice Gerk. Beaujolais sta scrivendo un pezzo sulla storia della Giostra del Peccato. Sarà il nostro cronista dell’evento. A me tocca il servizio sulla battuta di caccia-con-animali-da- pelliccia all’Azienda Faunistico Venatoria di Sabbione Est.

Insomma, si tratta di andare alla riserva venatoria di Sabbione per la descrizione della battuta di caccia, che consiste nel liberare un migliaio tra visoni, ermellini, castori, martore, moffette, pro- cioni e tassi all’interno del Bosco Artificiale da Caccia e divertirsi ad ammazzarli per poi ottenerci pellicce o quel che è. È davvero disgustoso, dice Emma. Tanto comunque sarebbero morti, dice Kevin, mi sembra giu- sto che se la spassino un po’. Guardo fuori. Piove. Torno a sedere alla mia scrivania in pino ecc. ecc. Ascolto i megafoni degli animalisti in strada. Epiteti. Ingiurie. Urla incomprensibili. Poi più niente. Silenzio. Il silenzio è male, poiché in questo modo sono costretto ad ascoltare Bernard che ripete sottovoce la sua lezioncina. Streptopelia turtur turtur , Streptopelia turtur arenicola , Streptopelia turtur rufescens , Streptopelia turtur hoggara , Streptopelia decaoc- to decaocto , Streptopelia decaocto stoliczkae , Streptopelia decaocto xanthocy- clus . La testa mi esplode, gli occhi si socchiudono, la pioggia di Sab- bione invece di stimolarmi mi confonde, mi rende impotente di fronte a una pagina di Word sulla quale non riesco a scrivere nep- pure una parola. 81 Inserisco la cassetta nel mangianastri. Metto le cuffie. Spingo play . Spesso ci sentiamo invasi da una felicità incomprensibile: tale felicità è so- pravvalutata. Le giornate di sole sono sopravvalutate. Trasferirsi in Costa Ri- ca è sopravvalutato. Le trentadue sonate per pianoforte di Beethoven sono so- pravvalutate. Il rumore delle foglie in un bosco a qualcuno potrà sembrare pia- cevole, ma è sopravvalutato. Il gusto del tabacco è sopravvalutato. Gli zucchini impanati come preparava vostra madre sono sopravvalutati. Vostra madre è sopravvalutata. Bernard mi fa un segno. Spengo il mangianastri. Mi ricorda che oggi è la Giornata degli Interrogativi Sibillini Senza Risposta Apparente Toblerone Kraft , e quindi sono invitato/costretto a domandarmi (e a domandare agli altri) cose totalmente idiote del tipo Secondo te, Costantinopoli dovrebbe ancora chiamarsi così? consultan- do tra l’altro un Libretto di Interrogativi per Tizi Senza Fantasia. Un novello Mendeleev ti potrebbe incasellare con precisione in una tavola periodica delle identità, oppure ti ritroveresti un po’ in tutti gli elementi? mi chiede Bernard. Io gli chiedo se la Giornata degli Interrogativi Sibillini Senza Risposta Apparente Toblerone Kraft preveda che agli interrogativi si debba anche fornire una risposta. Questo è un interrogativo tuo personale o fa parte degli inter- rogativi sibillini? Domanda lui. Non so cosa rispondere. Credo sia mio personale, dico. Pensi di rispondere agli interrogativi sibillini che ti saranno po- sti durante la Giornata degli interrogativi sibillini, oppure pensi di non farlo? Domanda Bernard. Ho la nausea. Devo mandare qualcosa a Emma di Impagina- zione, ma non ho scritto niente. Non mando niente. Bernard mi chiede di correggergli le bozze. Sto per vomitare. Non oggi, Bernard, dico. Ci rimane male. Ci butto un occhio. Ha scritto evitare di affliggere i manifesti . Qual- cun altra senza apostrofo. Mette la d eufonica in ogni circostanza: conto nove ad , sei ed , nientemeno che cinque od . Lo mando affanculo. Mi implora. Mi sforzo. 82 Tolgo la l. Aggiungo l’apostrofo. Levo almeno undici d eufoni- che. Mando tutto a Emma di Impaginazione. Bernard è davvero un coglione. Mi ringrazia. Hai una pizza pagata, dice. Scendo nell’androne, guardo fuori. Saluto Brange. Lui non mi saluta. Anche con questo tempo di merda è pieno di manifestanti. Esco dal retro.

4.

È la Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil, per cui mi sveglio presto e vado all’Azienda Faunistico Venatoria di Sabbione Est, che sorge a poche centinaia di metri dal Parco Sintetico Märklin. Il Bosco Artificiale misura all’incirca novanta ettari, dispone di un laghetto artificiale, un ristorante-bar e una vegetazione sintetica fedelmente ricostruita che emana un’invitante puzza cancerogena di gomma andata a male. Per l’occasione la Playmobil ha anche installato cinquecento al- beri di plastica in scala uno a uno con verosimiglianza testata dal proprio Reparto Verosimiglianze Botaniche. Hanno la stessa verosimiglianza che potrebbe avere un pupaz- zo di Teddy Bear con un Orso Bruno Alpino. Qualche albero vero comunque c’è. Un paio di magnolie. Un gruppetto di betulle. Più le innumerevoli piante sintetiche già pre- senti nel Bosco che il sole ha seccato, squarciato, ingiallito. Mi siedo nel patio del bar. C’è una tribunetta sopraelevata per assistere alla battuta di cac- cia. È gremita di gente, per lo più donne e bambini, suppongo pa- renti dei cacciatori. I bambini hanno fucili della Playmobil, archi e frecce della Playmobil, alcuni addetti sono travestiti da omini della Playmobil. Distribuiscono per lo più caramelle e zucchero filato. Assisto alla battuta di caccia. I cacciatori sono travestiti da uomini di Neanderthal e armati di pugnali, asce, accette, arpioni, fionde. Invece dell’acciaio hanno lame di pietra. Per la verosimiglianza. 83 In venticinque minuti fanno fuori venti visoni, trenta martore, diciotto cincillà. Chiaramente non possono utilizzare proiettili, altrimenti dan- neggerebbero la pelliccia irrimediabilmente. Per lo stesso motivo, mentre uccidono con le armi bianche, devono agire con estrema attenzione per non lordare la pelliccia. I cacciatori si aggirano nella boscaglia Playmobil (belli i cespugli viola, le querce azzurre, le foglie gialle e rosse) impugnando l’arma ed emettendo strani grugniti. Braccano gli animali. Qualcuno di loro sguaina pugnali con lame d’acciaio. Quando accoppano una bestiola, questa viene immediatamente trasportata nell’attiguo Laboratorio da Campo Playmobil en plein air (per permettere a tutti di osservare), dove gli operai specializza- ti la scuoiano, ne prelevano la pelliccia, la depongono su appositi ganci. A questo punto un operaio scaraventa il cadavere scuoiato della bestiola all’interno di un macchinario (a forma di enorme cubo Playmobil), il quale inghiotte il cadavere, lo tritura in pochi secon- di ed espelle dall’altra apertura una borsetta, una pelliccia, un paio di stivali, eccetera. Per dimostrare il processo evolutivo dell’animale appena cacciato e scuoiato. Per mostrare, specie ai bambini, la transustanziazione degli animali nella giornata a loro dedicata. Una pelliccia di visone schizza in aria e una delle due hostess Playmobil (travestite da Jane di Tarzan, ma perché?) la afferra al volo e la indossa, improvvisando una sfilata di fronte alla Tenda Playmobil, sulla quale incombe la minaccia di un’enorme beccac- cia di plastica. Si divertono un mondo. La tribuna Playmobil a strisce verdi e rosse si scuote. Gli omini Playmobil viventi incitano i bambini ad applaudire. Sto per vomitare. Mi accendo una sigaretta. Prendo appunti. Del resto sono qui per questo. Una mamma premurosa mi fa spegnere la sigaretta. Non vede che ci sono i bambini? Dice. Chiedo scusa. Dopo un ermellino transustanziato in sciarpa e un castoro transu- stanziato in giacca c’è la pausa pranzo. 84 Ne approfitto per avvicinare un gruppetto di cacciatori. Belli i vostri travestimenti, dico. È una rivisitazione del periodo neanderthaliano, dice quello col pugnale giapponese. Lo riconosco per via del manico intarsiato con ideogrammi. I pugnali giapponesi esistevano già ai tempi degli uomini di Neanderthal? Gli chiedo. Ma guarda, abbiamo un esperto di verosimiglianze preistoriche, dice quello con la scure di pietra. Domandavo soltanto, dico io. Per tua informazione, questo non è un pugnale, dice il primo. Ah no? dico io. No, dice lui. Questo è uno stiletto thailandese a doppia lama. Ah, dico io. E quindi esistevano già stiletti thailandesi a doppia lama nel Paleolitico? Suppongo di sì, dice lui. Se ne va. Dopo un minuto ritorna con un cacciatore travestito da sciamano di Neanderthal. Più che altro sembra un capo Nava- jo. E così lei sarebbe un esperto di verosimiglianze storiche? Mi domanda. Veramente sono un giornalista, dico. Mostro il tesserino. Non poteva dirlo subito? Dice il capo indiano di Neanderthal sprizzando cordialità. Mi spiace, dico. È qui per l’intervista? Domanda. Sì, rispondo. Non mi lascia neppure il tempo di aprire il taccuino. Precisiamo subito, dice, che il processo di transustanziazione può essere cruento. E chi lo nega? Noi no di certo. Ma che cazzo, Gesù Cristo non ha forse dovuto soffrire le pene dell’inferno pri- ma di convertirsi in pura luce, in puro spirito? Non afferro la similitudine, ma prendo appunti. Voglio dire, continua, le bestiole soffrono un tantino, ammet- tiamolo pure, ma grazie alla moda, alla tecnologia, al progresso , ri- sorgono a nuova vita. Hanno un nuovo uso , come si dice. Lei non sarebbe felice se da morto la sua inutile carcassa fosse utile a qual- 85 cuno? Magari per confezionarci una bella pelliccia che servirà per coprire il corpo di una bella signora? Non sarebbe felice se il suo grasso potesse essere utilizzato per produrre lucido per scarpe? O saponette? Una deliziosa cintura di pregevole manifattura? Non particolarmente, dico. Andiamo, dice il capo indiano, noi tutti desidereremmo una nuova vita, una seconda opportunità, una reincarnazione . Il passaggio da essere vivente a pelliccia non mi pare granché come reincarnazione, dico. Temo che abbiano fatto un po’ di confusione per quanto ri- guarda la terminologia. Cosa diavolo c’entra in tutto ciò la transustanziazione ? Doman- do. Basta con le domande, dice il capo indiano, adesso si rilassi e si goda lo spettacolo. La battuta di caccia riprende. Le hostess Playmobil mi offrono un cocktail e mi regalano uno Spinosauro Playmobil con Tana e Veicolo Anfibio. Per suo figlio, dicono. Non ho figli, rispondo. Allora per i suoi nipoti, dice quella con gli occhi verdi. Ha nipoti? Prendo lo spinosauro con tana e veicolo anfibio per mia nipo- te. Sento che la testa potrebbe scoppiarmi da un momento all’altro, così mi alzo e mi avvio in direzione del laboratorio da Campo Playmobil. Buongiorno, dico. Buongiorno a lei, dice l’operaio con casco protettivo giallo. Qual è il significato di questa pagliacciata? Domando. Intendo la battuta di caccia. Non sarebbe più semplice prenderli e scuoiarli senza tanti preamboli? Di solito gli ficchiamo un elettrodo in bocca e uno nel culo, di- ce l’operaio, ma cacciarli è più divertente. Non vede come si diver- tono? In effetti si divertono tutti.

86 Mi regalano la Signora in Vacanza Playmobil. Anche il Fanta- sma Incappucciato e il Bambino-con-Asinello Playmobil. E poi il più gettonato, il Cacciatore-di-Frodo Playmobil. Nel Bosco Artificiale la caccia prosegue. Sento i grugniti dei cacciatori e i latrati dei cani. Un pitone è transustanziato in borsetta da passeggio. Prendo appunti, fumo, bevo cocktail offerti dalle hostess.

5.

Decido di tornare in ufficio. Parcheggio a distanza di sicurezza. Camminando verso l’ufficio vedo il presidio dei manifestanti. Stanno lanciando qualcosa, mi pare siano finte carcasse di agnello imbevute di vernice rossa fresca, contro il muro del palazzo. En- tro da retro. Saluto Brange. Non si può andare avanti così, dice. Se continua così il Signor Delano vi sbatterà fuori a calci in culo. Il Signor Delano è il proprietario del palazzo. E farebbe bene, continua Brange. Non posso neanche più far venire mio figlio a trovarmi, per la vergogna. La divisa blu di Brange è logora sul colletto, si nota subito. Ti capisco, dico io. Eh no, mi sa che non capisci, dice lui. Guardo le carcasse animali. Si tratta di finti agnelli karakul sgozzati. Ho mal di testa. Salgo nel mio ufficio, mi siedo alla scrivania ecc. ecc. Bernard non c’è. Batto il resoconto e lo mando a Emma. Risponde subito: Sei pregato di utilizzare un carattere tradizio- nale e di non aumentare i margini della pagina. Cristo, quante vol- te te l’ho già detto? Emma. Sbircio di sotto. Rispondo a Emma: mi spiace, non accadrà più. Martin. Risponde subito: sarà meglio, porco cazzo. Devo impaginare sette articoli per domani sera. Emma.

87 Vado alla macchinetta del caffè e incontro Ferris. Qualche no- vità? Gli chiedo. Sono in trattativa con un’industria di tosaerba, dice. Secondo te, per quale motivo la Playmobil ha sponsorizzato la Giornata della Transustanziazione Animale? Gli chiedo. Pare che i cacciatori tendano ad acquistare per i figli il doppio di giocattoli rispetto ai non cacciatori, dice. Probabilmente è il senso di colpa. Mi pare una spiegazione talmente idiota che potrebbe essere vera. Datti da fare, gli dico, senza sponsor rimaniamo tutti in mezzo a una strada. Mi offre un caffè. Parliamo del più e del meno. Fumiamo una sigaretta. Mi chiede come va il lavoro alla rivista. Gli parlo delle abitudini della lepre italica. Gli parlo della caccia di selezione per caprioli e daini. Sembra interessato. Mi domanda del mio settore di competenza. Gli racconto le solite cose. Gli parlo della regina del bosco, la beccaccia. Lui mi chiede se è buona da mangiare. Ho la nausea.

Saluto Ferris, salgo a prendere le mie cose cercando di evitare l’ufficio di Gerk. Mi vede. Com’è andata all’Azienda Faunistico Venatoria? Mi domanda. Sono riuscito a non vomitare, dico. Sei una vera mezzasega, dice lui. Confermo. Datti da fare, voglio l’articolo sulla mia scrivania entro domani sera. Farò il possibile, dico. E vedi di non usare le tue solite parole incomprensibili del caz- zo, aggiunge Gerk. Poi mi squadra con l’occhio infuocato. Ci sarebbe un’altra questione, dice. Sono tutt’orecchi, ribatto. Si tratta di questo coglione, come diavolo si chiama.

88 Gerk ha l’abitudine di dimenticare i nomi e di chiamare tutti co- glione . Quel coglione che va in onda per radio. Non ho idea di cosa diavolo stia parlando. Insomma, il nome non ha importanza, dice. Questo tizio ha una trasmissione su Radio Sabbione in cui sostiene di poter parla- re coi morti. Non mi sembra una grande novità, dico. Non m’interrompere, cristo, urla Gerk. Questo coglione dice di poter parlare con gli animali morti. Rimango attonito. In che senso, domando? Che cazzo ne so, Villanova, dice Gerk. Con macchinari, trance, allucinazioni foniche, queste stronzate qui. E comunque voglio che tu e Cristal andiate a trovarlo e ci scriviate un pezzo. Non protesto, anche se lavorare con Cristal è l’ultima cosa che avrei voluto in questo momento.

Vado nel mio ufficio, rifletto sul significato del termine sportiva nella denominazione della giornata. Non mi viene in mente niente. Scendo nell’androne. I manifestanti sono sempre lì. Non hanno niente da fare? Non lavorano? Saluto Brange. Lui mi manda af- fanculo. Ordini di Delano, dice. Esco dal retro.

6.

Quaglie alla salsiccia

Preparazione 45 min., cottura 35 min., difficoltà media

Occorrente: 8 quaglie, 200 g di salsiccia, 3 fegatini di pollo, 4 fette di pancarrè, un pizzico di noce moscata, 1 uovo e il tuorlo, 1/2 bicchiere di brandy, 1/2 bic- chiere di brodo, 100 g di burro, sale e pepe.

Preparativi: 89 per prima cosa divertitevi a cacciare le quaglie. Fatele fuori con rispetto, poiché la quaglia è un nobile animale. Utilizzate un solo colpo per ciascuna quaglia, e che sia mortale. Non fate soffrire inutilmente i volatili autoctoni, che altrimenti se la spasserebbero nei nostri boschi.

Una volta che avete cacciato le quaglie e siete tornati a casa, sventratele (tenete i fegatini), poi fiammeggiatele, lavatele, asciugatele, salatele e pepatele internamente. Per quanto riguarda la salsiccia, essa deve provenire da maiali ammazzati con le vostre mani, possibilmente con un’arma bianca (ma anche un buon fuci- le da caccia va bene). Spellate la salsiccia e sbriciolatela. Lavate i fegatini di pollo (naturalmente un vero cacciatore il pollo se lo accoppa da solo, alla ma- niera sabbionassa, decapitandolo con una sola bastonata precisa) e di quaglia, tritateli e mescolateli alla salsiccia con la noce moscata, l’uovo, il tuorlo, sale, pepe e 3 cucchiai di brandy. Tenete in frigorifero per un’ora. Farcite le quaglie con il composto di fegatini, cucite le aperture con filo da cucina e legatele per tenerle in forma. Fate dorare le quaglie in una padella con 50 g di burro, poi spruzzatele con il brandy rimasto; quando sarà evaporato, salatele, pepatele, bagnatele con il brodo caldo e fatele cuocere per circa 30 minuti. Private della crosta le fette di pancarrè, dividetele in due rettangoli che frig- gerete nel burro rimasto; poi disponetele su un piatto di servizio, adagiatevi so- pra le quaglie, irrorate tutto con il fondo di cottura e servite subito, ben caldo.

Di nuovo alla mia scrivania. Bernard è fuori per il reportage sulle tortore. Cazzeggio su in- ternet, traccio simboli massonici sul mio taccuino, leggo la ricetta di selvaggina del prossimo numero in anteprima. Ogni settimana Zora la copia da internet o da qualche manuale. Del resto lo sap- piamo tutti che non saprebbe cucinare neppure un uovo alla co- que. Chiamo Cristal. Abbiamo appuntamento col sensitivo questa sera, dice. Mi ha chiesto di ascoltare la sua trasmissione che inizia tra un’ora. Puoi farlo tu? Io trovo la radio così noiosa. Passa a prendermi prima di uscire. Rispondo che va bene. 90 Lavoro al mio pezzo cercando di scrivere il più semplice possi- bile. A metà pomeriggio lo finisco. Sostituisco il mio solito baskerville old face con un tradizionale times new roman . Giustifico tutto. Ripor- to i margini della pagina al formato A5. Mando tutto a Emma. Risponde quasi subito: grazie. Emma. Rispondo: prego. Martin. Risponde: che ne dici di una pizza stasera? Rispondo: stasera non posso. Risponde: allora fottiti.

Ho bisogno di rilassarmi, per cui inserisco la cassetta nel man- gianastri. Metto le cuffie. Spingo play . Poi mi ricordo della trasmissione radiofonica e stacco tutto. Accendo lo stereo di Bernard, cerco la frequenza, la trasmissione è già cominciata. Intuisco che la rubrica si intitola Parla con gli Ani- mali Morti . In linea telefonica c’è una donna. Il sensitivo sta ricordando ai suoi affezionati ascoltatori come fa a comunicare con gli animali domestici defunti. Nel Mondo Ulteriore l’energia di tutte le cose si mescola , dice il deejay, ogni essere vivente trasmette un segnale energetico che la mia apparecchiatura è in grado di decodificare e convertire in linguaggio; tutti gli animali trasmettono il segnale energetico, quindi tutti gli animali defunti possono comunicare con noi. Ma come so che sto parlando con il mio Lutero, Signor Wokczginskij? Domanda la donna. Suppongo che Lutero sia il nome di un animale domestico e che Wokczginskij sia il nome del deejay-conduttore-sensitivo. Mi chiami pure Wok , dice Wokczginskij . Un’altra apparecchiatura, che ho chiamato catalizzatore, si assume il compito di stimolare il Mondo Ul- teriore e di ricercare l’energia prescelta. Debbo naturalmente inserire nel cata- lizzatore alcuni dati relativi al suo animale domestico. Entra Bernard. Che cazzo è questa roba? Domanda. Abbasso la radio, gli spiego tutto. Quando hai finito rimetti a posto, dice. Fa per uscire.

91 Se hai tempo puoi dare un’occhiata alle mie bozze di oggi? Ag- giunge. Assento, tanto perché si levi dalle palle. Quando riprendo l’ascolto Wok è già collegato con Lutero. Pur- troppo mi sono perso la parte in cui la donna forniva le informa- zioni sull’animale, per cui non ho idea di cosa si tratti (un cane? Un pitone?). Lutero, rendi partecipe del Mondo Ulteriore noi tutti e soprattutto la tua proprietaria terrena , dice Wok. Mormorio incomprensibile. Era Lutero? Domanda la donna. Non ancora , risponde Wok. Ma ci siamo quasi . Rumore di sottofondo. Sola nel mondo eterna a cui si volve ogni creata cosa in te , attacca Lute- ro, morte si posa nostra ignuda natura lieta no ma sicura dall’antico dolor profonda notte nella confusa mente il pensier grave oscura alla speme al desio l’arido spirito lena mancar si sente così d’affanno e di temenza è sciolto e l’età vote e lente senza tedio consuma vivemmo e qual di paurosa larva e di sudato sogno a lattante fanciullo erra nell’alma confusa ricordanza tal memoria n’avanza del viver nostro ma da tema è lunge il rimembrar che fummo che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome cosa arcana e stupenda oggi è la vita al pensier nostro e tale qual dei vivi al pensiero l’ignota morte appar come da morte vivendo rifuggia così rifugge dalla fiamma vitale nostra ignuda natura lieta no ma sicura però ch’esser beato nega ai mortali e nega ai morti il fato. La voce di Lutero è anfrattuosa, piuttosto roca, intramezzata da ridicole modulazioni in falsetto. Questa era la voce del mio Lutero? Domanda la donna. Esattamente , dice Wok . Qualche secondo di silenzio. Non ho capito niente , dice la donna. Le comunicazioni dal Mondo Ulteriore non sono un sussidiario per le elementari , dice Wok seccato . Poi Lutero ricomincia a parlare: Una ragazza rimorchia un tizio con una fava da cinema così tutta la fac- cenda è una metafora sulla fava grossa o magari parla di una ragazza vulne- rabile perché se la sono sbattuta di sopra e di sotto ma poi incontra un tipo sensibile e no no no no mammoletta queste sono cazzate per turisti 92 non parla affatto di una ragazza sensibile che incontra un bravo ragazzo quella è True Blue sì è così su questo non ci piove e qual è True Blue non co- nosci True Blue cristo è stato un successo allora non segui la Top Ten se non sai nemmeno cos’è True Blue non vorrai mica spappolarmi il cazzo se non so- no un fan di Madonna per me può anche andare a cagare ma che cazzo stavo dicendo che True Blue parla di una ragazza sensibile che conosce un bravo ra- gazzo invece Like a Virgin parla di una figa che scopa come una matta a de- stra e a sinistra giorno e notte mattina e sera cazzocazzo cazzocazzo cazzo- cazzo cazzocazzo cazzo quanti cazzi fanno una marea finché un bel giorno incontra un tipo cazzuto alla John Holmes e allora vai alla grande uno che con l’attrezzo ci scava i tunnel lei ci dà dentro come una maiala finché sente una roba che non sentiva da un secolo dolore le fa male le fa male non dovreb- be perché la strada è bell’e che asfaltata ormai ma quando il tipo la pompa le fa male lo stesso dolore che sentì la prima volta il dolore fa ricordare alla sco- patrice folle le sensazioni di quando era ancora vergine e quindi Like a Vir- gin. La donna riattacca. Segue un lungo silenzio sconcertante. Avete ascoltato le comunicazioni di Lutero, un gattino tigrato investito da un autobus cinque giorni fa , dice Wok. L’appuntamento è per domani sera con un nuovo animale defunto che comunicherà col mondo dei vivi. Musica di sottofondo. Talvolta si verificano alcune, come dire, interferenze, tra il Mondo Fisico e il Mondo Energetico. Tali interferenze, che piacciano o no, fanno parte della vita, o della morte, o di tutte e due. Sorprendentemente i piccoli felini domestici sono attratti da simili contami- nazioni energetiche. Buona serata a tutti voi, ascoltatori affezionati di Parla con gli Animali Morti. Parte la sigla: Pet Sematary dei Ramones. Sono inquieto, ho voglia di vomitare, mi scoppia la testa. Potrei continuare per ore l’elenco dei miei sintomi depressivi.

Sento Gerk sbraitare dal suo ufficio. Dalla vetrata del corridoio vediamo il cadavere di Kevin spap- polato sull’asfalto. Ha lasciato scritto sullo screensaver del suo Mac Fanculo tutti , e si è buttato dalla vetrata del corridoio.

93 Cristal scoppia a piangere. Bernard tenta di consolarla. Ha scritto centinaia di articoli prima che potessero capirlo, dice. E non l’hanno capito. E adesso chi cazzo me lo scrive l’articolo sul massacro rituale dei cavalli? Domanda Gerk. Mi offro volontario. Bravo, dice Gerk. È un abusivo del cazzo, dice Beaujolais, non vale neanche la pena di frignare. Andate affanculo, dice Emma. Piange. Del resto i suicidi abusivi sono stati dichiarati tali pro- prio perché inattesi, veri , angosciosi. Per questo il governo li ha di- chiarati fuorilegge. Vediamo quelli della Nettezza Umana arrivare sul posto a sire- ne spiegate. Per raccogliere i pezzi e ripulire la strada ci mettono tre quarti d’ora. Caricano quel che resta di Kevin sul mezzo di tra- sporto. Lo getteranno via, ma prima denigreranno il suo nome in qualche modo. Se la prenderanno coi suoi parenti. Eccetera.

Vado nell’ufficio di Kevin. Il Mac è acceso. Apro il file sul Massacro Rituale. Il pezzo è praticamente pronto. Non ci trovo nulla da correggere. Devo soltanto concluderlo.

Scrivo: la morte non è di questo mondo. Essa non è un fatto, ma la mancanza d’un fatto. Cionondimeno il suicidio, in quanto attesa consapevole della morte, non è forse il fatto della morte? Non è forse l’ esserci della morte nella vita, pertanto un fatto del mondo, una negazione e un rifiuto categorico di tutti i fatti accaduti e di tutti i fatti ancora pos- sibili? In definitiva, non si tratta forse di un fatto non-fatto, di una tautologia contraddittoria? Lacerti di mondo, avanzi di sopravvivenza, resteranno incastra- ti tra i denti di una dea, il cui nome è Storia; il fine è perseguito, a noi non resta che l’eterna riscrittura dell’assurdo, del grottesco, dell’incerto.

94 Spengo tutto. Vado in ufficio a prendere le mie cose, scendo all’ingresso. Brange mi guarda minaccioso. Non lo saluto. Fuori i manifestanti hanno approntato cartelli su cui c’è scritto: bastardi trucidatori - meno uno . Vorrei davvero uscire dal portone principale, guardare in faccia i dimostranti uno a uno, dimostrare che razza di uomo hanno di fronte, tutelare il lavoro di Kevin. Esco dal retro.

95 UMORI

Richard stava illustrando a Claire la situazione. “Quello che stai desiderando è molto stupido, Claire. Una cosa incredibilmente sciocca, dico davvero. La vita è molto più di quan- to non dicano oggigiorno, è un insieme di umori e di respiri, di battiti cardiaci, di fluidi gastrici e di movimenti spastici dei muscoli. Queste sono tutte cose che non ti sono precluse, Claire, insieme al mestruo e a molte altre attività corporali. Vi sono anche altre attivi- tà, non lo nego, che sembrerebbero esserti precluse, ma dal nostro punto di vista sono assolutamente sopravvalutate”, disse. “Non credo proprio”, rispose Claire. I suoi pensieri erano tra- smessi a un elaboratore e tradotti in parole da una voce robotica. “Eppure è così. Non riesco nemmeno a pensare qualcuna delle attività della vita a te precluse che non sia sistematicamente so- pravvalutata. È tutta propaganda”. “Forse non ti è chiara la mia posizione ”. “La tua posizione mi è chiarissima, Claire”, disse Richard, “non hai cognizione del dolore, della gioia, non puoi provare emozioni, non hai sensazione né del freddo né del caldo, il che se mi è per- messo non è un male a prescindere”. “Guardami”, disse Claire. “Lo sto facendo, Claire. Ti sto guardando”, disse Richard. “Hai un corpo come tutte le altre donne, le gambe, le braccia, un utero perfettamente funzionante e molte altre cose in comune con qua- lunque altra donna. Prendi gli umori. Tu hai umori tali quali a quel- li delle donne e degli uomini di tutto il mondo; non te ne devi ver- gognare, Claire. Certo l’infermità ha, come dire, degenerato alcune parti del tuo corpo, eppure questo lo devi accettare, poiché è stata la natura a importelo. L’etica impone sofferenza. È il correlativo oggettivo dell’esistere. E dunque, Claire, per concludere con la tua posizione , come la chiami tu, essa non è tanto diversa da quella di molte altre persone, di molte altre donne”. 96 “Non credo che le cose stiano esattamente come dici”. “Sto provando a farti ragionare”, disse Richard, “affinché il dubbio e l’angoscia non s’insinuino nei cuori degli altri cittadini”. “Io vocabolo non riconosciuto il dubbio e l’ vocabolo non riconosciuto nei cuori dei cittadini?”, domandò Claire. “Volevi domandarmi se tu insinui il dubbio e l’angoscia nei cuori dei cittadini? È questo che volevi domandarmi, Claire? Preci- samente. Voglio essere molto sincero con te, Claire. Sono pagato per essere onesto e sincero con le persone come te. Tu sei un ve- getale Claire, sei una donna inequivocabilmente e irrimediabilmen- te raccapricciante, la vista del tuo corpo può risultare ripugnante; puzzi, Claire, hai bave che ti fuoriescono dall’angolo della bocca, la tua fisionomia è stata pesantemente deformata e, per dirla tutta, da un punto di vista strettamente sociale sei quasi completamente inuti- le. Qualcuno sostiene perfino che sei dannosa, Claire”, disse Ri- chard, e si sfregò i dorsi delle mani, compiacendosi di quell’azione così semplice e solenne. “Dannosa per il tuo ex marito, per i tuoi legali, per i dottori che ti hanno in cura”. Si accostò al letto di Clai- re. Il letto si trovava in una stanza ammobiliata alla periferia di Sabbione. Faceva freddo, ma il freddo era necessario per il funzio- namento dei macchinari. “Tuttavia non sei ancora morta, Claire, e perciò il tuo corpo e la tua vita non competono a te, bensì a qual- cosa di superiore; in altre parole, Claire, noi non riteniamo che tu sia dannosa, noi riteniamo che tu sia fondamentale ”. “Per l’amor del cielo, Richard”. “È precisamente quel tipo di amore che sto cercando di porre alla tua attenzione”, disse Richard. “quel tipo di amore, Claire, non desidera la morte, ma la vita. Sempre e in ogni caso. Pensa a tutta la gente che fa la fila per venire ad ascoltare le tue divinazioni. Pen- saci, Claire. Lo sai perché sono qui?”. “Per via della lettera?”. “Brava, Claire. Sono qui perché tu hai dettato una lettera al tuo avvocato affinché fosse pubblicata su tutti i quotidiani del nostro Paese. E non solo, Claire. Sono qui per farti cambiare idea, affin- ché tu possa diventare per tutti un esempio di giustizia, non di in- giustizia. Un esempio di moralità, non di dissoluzione”. Richard osservò l’impotenza di Claire e le alzò le palpebre. Il bianco dei suoi occhi era costante, misero, eterno. 97 “Non voglio mentirti, Claire. Questa meravigliosa parte del tuo volto dove nascondi gli occhi è stata completamente corrotta dalla malattia. Ma non progredirà. Resterà tale e quale per anni, forse per sempre”, disse. “Vieni al dunque”, disse Claire. “Bene, Claire. Veniamo al dunque, in altre parole alla tua, come dire, lettera. L’abbiamo letta attentamente. Oh non ti preoccupare, non è molto lunga, non ci ha preso molto tempo. Alla fine abbia- mo convenuto che è piena zeppa di imprecisioni e inesattezze”. “Quali sarebbero queste vocabolo non riconosciuto ?”, chiese Claire. “Hai scritto un mucchio di balle, Claire”. La breve lettera di Claire era stata pubblicata da tutti i maggiori quotidiani. Richard ne aprì uno di quelli che aveva portato con sé e cominciò a leggerne alcuni passi.

“Com’è che hai fatto scrivere, Claire?”, domandò Richard. “L’umiliazione che sono costretta a subire ogni giorno, ogni ora, ogni secondo della mia inutile vita si sta facendo sempre più in- sopportabile. La lucidità dei miei pensieri si affievolisce. Non sento nulla. Ho paura. Vorrei che il mio nome fosse dimenticato per sempre. A tutti voi, alle autorità, a Dio, non chiedo altro che mori- re velocemente, in pace, senza disturbare nessuno. È questo che hai dettato al tuo avvocato, Claire?”.

“È ciò che ho dettato”, sussurrò Claire. “Che accozzaglia di banalità!”, disse Richard. “Hai elencato una serie di azioni sopravvalutate. Il cielo, Claire, è sopravvalutato. E poi questo non ti rende una difforme. Ci sono moltissime persone che il cielo non lo vedono mai. In centro a Sabbione possono pas- sare settimane tra un avvistamento del cielo e l’altro. E in campa- gna, Claire, debbono preoccuparsi di ben altre questioni; il cielo non sanno neppure più cos’è. Parli di mare, Claire, ma non ti rendi conto che ci sono persone che il mare non l’hanno mai visto? Non per questo chiedono di morire. Tu credi di non avere scelta, e ciò potrebbe essere vero, ma puoi immaginare quante persone su que- sta terra non hanno scelta? Loro non chiedono di morire. Pensa a quanto ti ho detto prima, pensa che potresti addirittura generare un figlio!” 98 “Vuoi per caso scopare?”. “Non essere disgustosa, Claire”. “E a cosa mi servirebbe vocabolo non riconosciuto un vocabolo non ri- conosciuto ?”, chiese Claire dopo aver riflettuto. “Non pensi alle donne che non hanno avuto la fortuna di poter generare un figlio, Claire?”, disse Richard, “non ti sfiorano neppu- re gli interessi del tuo popolo, della tua terra? Sei un’egoista. Non puoi parlare, ma puoi comunicare. Io sto comunicando con te, Claire”. “E questo lo chiami comunicare?”. “Certo, l’apparecchio va perfezionato. So che riconosce soltan- to qualche centinaia di parole. Ma che diavolo, Claire, chi usa più parole oggigiorno?”. “Voglio solo vocabolo non riconosciuto , niente altro. Senza disturba- re nessuno”, disse Claire. “Sei un’ingenua, Claire. Sei davvero convinta di non disturbare nessuno, morendo? Ti garantisco che disturberesti qualcuno. Di- sturberesti noi, Claire. Noi che crediamo nelle infinite possibilità di Dio e nei suoi miracoli, noi che crediamo nella Verità della Chiesa e nell’Autorità della Legge. Non pensi a noi, Claire? Noi stiamo pensando a te. Le massime autorità religiose e politiche, il Gerarca in persona, sono tutti preoccupati per te, per la tua vita”. “A loro cosa importa della mia vita?”, chiese Claire. “Non comincerai anche tu con la storiella delle autorità politi- che e religiose dipinte come persone disumane preoccupate di tu- telare esclusivamente i propri interessi? Non ti sembra un tantino, come dire, banale , Claire? È quello che i mediocri vogliono farti credere. Tua madre e il tuo avvocato vogliono fartelo credere, Clai- re, perché loro sono dei mediocri . Ma le autorità, Claire, rappresen- tano la risposta alla mediocrità, altrimenti non starebbero lì a eser- citare il loro potere, cosa che invece fanno. Le autorità sono preoccupate per te sinceramente. Stanno curando i tuoi interessi. Che poi i tuoi interessi, cioè tu, Claire, la tua vita, coincidano con i loro interessi, Claire, beh, Claire, possiamo forse incolparli per que- sta coincidenza? Non lo pensi anche tu?”, disse Richard. “Non lo penso”. “Sei una testarda, Claire. Hai raccontato un mucchio di balle al- la gente comune, e questo è un male. La gente comune è sugge- 99 stionabile ed eccitabile, Claire, si lascia trascinare dalle emozioni. La gente comune è mediocre, Claire. A tredici anni sei finita in ca- serma per uno spinello, non è vero? A diciassette anni ti hanno ac- cusata di aver rubato in una biblioteca. Ti hanno scoperta, Claire, ma hanno chiuso un occhio. Quante volte hai barato agli esami della Scuola di Predizione? Quante volte i professori ti hanno aiu- tata? Sei una bugiarda, Claire. Inoltre il vocabolo che il tuo avvoca- to ha tradotto dall’apparecchio, il vocabolo morire , Claire, non è ri- conosciuto, quindi è impossibile che tu abbia potuto dettarglielo. È stata una sua interpretazione, Claire, una truffa”, disse Richard. “Sono stata chiarissima”, disse Claire. “Chiarissima, Claire? E come? Come possiamo essere certi che tu abbia dettato il vocabolo morire ?”, domandò Richard. “Il vocabolo non riconosciuto sul mio comodino”, disse Claire. “Intendi il libro? Quale libro? Questo libro, Claire?”, disse Ri- chard prendendo il libro dal comodino. “Quel vocabolo non riconosciuto ”, disse Claire. “Il Satyricon”, disse Richard sfogliando il libro, “di Petronio Arbitro. Una lettura inconsueta. Sono stupito. Ti piacciono i latini, Claire? Sono una cannonata, non è vero? Ma non capisco come questo possa cambiare le cose”. “Sono stanca di questa umiliazione”. “L’umiliazione, Claire, è una delle peculiarità di Nostro Signore. Sei forse atea Claire? No che non lo sei. So che non lo sei. Come puoi pensare di esserlo, nella tua posizione?”. “Non sono atea. È uno dei motivi per cui voglio vocabolo non ri- conosciuto ”. “Certo tu ti riferisci alla fantomatica vita dopo la morte, di cui si fa un gran parlare. È questo cui ti riferisci, Claire?”. “La possibilità di un posto migliore”. “Ma quel tipo di posto, Claire, sarà riservato a persone che hanno lungamente sofferto e pregato, a persone che non hanno ri- nunciato a vivere per un capriccio. Pensavi di scamparla così, Clai- re? Non sai cos’è la sofferenza? La passione? Sono cose necessarie, Claire, per aspirare a quel posto migliore”. “Io non posso sentire niente”. “No, tu non puoi più provare la sofferenza. E allora perché morire, Claire? Sai quanta gente soffre? Moltissima. Ci sono diritti 100 umani inalienabili da rispettare. La tua morte contravverrebbe ine- sorabilmente a questi diritti”, disse Richard. “Non ho il diritto di vocabolo non riconosciuto ?”, domandò Claire. “No, Claire, morire non è un diritto, ma un dovere con cui cia- scuno di noi dovrà confrontarsi, un giorno. Ma questo giorno non lo possiamo decidere noi, Claire. Nessuno può deciderlo”. “Sono così da sette anni, pensi che non abbia avuto il tempo di decidere?”. “Brutta mongoloide”, esclamò Richard, “ameba che non sei al- tro. Smetti immediatamente di comportarti in questo modo ottuso e immorale. Hai profondamente deluso tutti gli uomini che credo- no nella possibilità di una grazia, tutti gli uomini che lottano ogni giorno per tornare a casa dalle proprie famiglie, tutti gli uomini che credono nell’autoeliminazione preventiva come a un dogma, non come a una scelta da quattro soldi. Hai deluso tutti, Claire”. “Non ci credo”. “Credimi, Claire. A me puoi credere. Tu devi vivere poiché il tuo momento non è giunto, Claire. È il tuo destino, e una divina- trice professionista come te dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro. Ti abbiamo letto la mano, abbiamo usato tutti i mezzi divina- tori in nostro possesso. Tu credi nei nostri mezzi divinatori, Claire? Sei una buona cittadina?”. “Lo sono stata”. “Devi esserlo ancora, Claire, e a maggior ragione, poiché noi non ti abbandoneremo. Guardami, Claire. So che non puoi vedermi, ma puoi immagi- narmi. Come mi immagini, Claire? Io rappresento i buoni, Claire. A chi ti vuole lasciare morire, importa di te davvero , Claire?”. “Gli importa la libertà”. “Libertà? E che libertà c’è nella morte, Claire?” “Mi sembra che tu sia un po’ troppo superficiale, Richard”. “Certe questioni vanno affrontate con superficialità, Claire, non possiamo essere in ogni momento profondi”. “Non mi pare”. “Ti abbiamo forse abbandonato al tuo destino? Siamo qui, con te, per aiutarti. Per curarti, Claire, poiché tu hai bisogno di noi. La tua divinazione parla chiaro, Claire. Non c’è nulla da temere nel tuo futuro: tutto liscio, calma piatta. Non puoi morire adesso, così. 101 Un giorno potrai morire, ma non adesso. Adesso devi vivere, Clai- re, poiché questa è l’unica alternativa che hai”. “Credo che vocabolo non riconosciuto ci sia eccome, Richard”. “Non parlarmi di alternative, Claire. Il passeggero di un treno ha alternative. Queste alternative prevedono che lui possa andare in una direzione o in un’altra, perché questo prevede la rete ferro- viaria, Claire. C’è in ballo la ragionevolezza. Qui stiamo parlando di vita e morte, Claire, del tuo futuro. Noi abbiamo badato a favorire condizioni ragionevoli per la tua vita, Claire, scongiurando quelle illogiche. In questi termini, la morte non è un’alternativa, te ne renderai conto”. “Mi vocabolo non riconosciuto addosso vocabolo non riconosciuto volte al giorno”. “Qualcuno si è mai lamentato di doverti togliere la merda di dosso?”, disse Richard, “le infermiere sono state scortesi? Le fare- mo sostituire con le migliori a nostra disposizione”. “Le vocabolo non riconosciuto vanno bene”, disse Claire. “E allora perché lamentarsi, Claire? Forse perché le invidi? In- vidi la loro vita, i loro vestiti? Invidi le loro gambe, le loro braccia, la loro vista? Invidi le infermiere, Claire?”. “Non le invidio”. “Potrei portarti un vestito nuovo. Lo comprerò io stesso per te; una gonna a fiori azzurri e gialli. Stiamo andando verso la bella sta- gione. Ti sentiresti meglio. Dovresti truccarti, Claire. Depilarti. Ti crescono i peli, giacché questa è la vita: umori, flussi, peli che cre- scono, capelli che imbiancano”, disse Richard. “Vorrei solo vocabolo non riconosciuto ”, disse Claire. “Morire, Claire, non ti farà stare meglio. Inoltre farà stare molto peggio tutti noi. Pensa al tuo avvocato, ai dottori. Saranno tutti in- dagati, Claire. Accusati e incarcerati. Sei sicura di volerlo, Claire?” “È per questo che ho scritto la lettera. Per cambiare le cose”. “Cambiare le cose, Claire?”, disse Richard, “andando contro i diritti umani? Andando contro la nostra morale, accettata ed eserci- tata dalla maggior parte delle brave persone? È questo che vuoi, Claire? Cambiare le cose in peggio? Vuoi promulgare l’assassinio, Claire? Vuoi diffondere la pratica del suicidio abusivo e selvaggio, non regolato da un programma Gerarcale con tanto di leggi?”. “Vocabolo non riconosciuto ”, disse Claire fermamente. 102 “Sei ingiusta, Claire. Tu devi vivere poiché sei un simbolo, que- sto lo comprendi? I simboli stanno perdendo valore. Sono allegge- riti, insufficienti, controproducenti. Per le persone normali la vita è solo vita. La morte, quando li coglierà, sarà solo morte. Ma per te, Claire, la vita può ancora simboleggiare qualcosa, un’incarnazione di significati, una metafora profonda, limpida. Tu non ti appartieni, Claire, tu appartieni a noi. Appartieni a Dio, questo è certo, ma appartieni anche a noi”. Claire tentò di parlare, ma si sentiva stanca. “Inoltre, Claire, ci sarebbe l’ altra questione. Intendo quella sciocca profezia che continui a ripetere a tutti. Com’è che dici, Claire? Dai morti germoglierà la follia, avvocati e notai ci uccideranno tutti , eccetera. Cosa diavolo vuoi fare, Claire? Non ti rendi conto che stai ingenerando lo sgomento nei tuoi concittadini? È questo che vuoi fare, Claire? Scatenare il panico tra la povera gente? Spingere i semplici cittadini a ribellarsi contro le nostre amate caste e corpo- razioni?”. Claire non reagì. Se ne stava semplicemente immobile, come sempre. Richard si alzò in piedi e appoggiò una mano sul macchinario. Accarezzò il traduttore di parole con quella preziosa parte della mano che contiene il palmo. “Te lo toglieremo, Claire. Entro tre giorni. Abbiamo ritenuto che tu non debba più affaticarti inutilmente. Inoltre le tue parole sono state ritenute, come dire, inopportune . Hai bisogno di riposare, Claire”, disse Richard. “Vorresti piangere, Claire? Puoi farlo, come tutte le altre donne. E lo fai spesso, anche se non te ne rendi con- to. Non sono proprio lacrime, Claire, sono più umori. Sono umori giallicci che solcano quella splendida parte del tuo volto in cui hai le gote”. Ci fu un lungo silenzio. “Arrivederci, Claire”, disse Richard. Claire non disse nulla. Richard la guardò distrattamente negli occhi (nei bulbi oculari), quella splendida parte del volto (dell’occhio) in cui alle altre donne crescono le iridi.

103

UN POSTO IDEALE PER LE FOTOGRAFIE

Nella hall della galleria d’arte c’erano quarantanove espositori e una folla di costruttori, professori, ingegneri, tutti in attesa del ce- lebre architetto Benjamin Staloj, tutti rimpinzati di tartine e pro- sciutti, champagne e cocktail rossi gialli e blu al curacao che è ideale per le donne ma può essere perfetto in tutte le circostanze. Stanislao Juroj, detto Stan, inviato della rivista Arte, rimase in attesa paziente osservando i lavori dei nuovi artisti provenienti da ogni parte d’Europa, bevendo e discorrendo amabilmente con le signore Haveno e Betrojn, due ricche amanti dell’arte contempo- ranea, e con altri giornalisti e fotografi invitati per l’occasione. Quando sentì il telefono vibrare nella tasca sinistra dei pantaloni, un paio di pantaloni grigi in frescolana, era impegnato in una con- versazione eccellente sull’utilizzo dei materiali di recupero nell’arte contemporanea e la signora Haveno aveva appena riferito una bat- tuta divertente su un certo Klonn Kurmoj, uno scalpellista famoso per il recupero delle biciclette arrugginite, che nelle sue mani, so- steneva la signora Haveno, si trasformavano in veri e propri og- getti artistici; l’ultimo di questi piccoli capolavori era un assem- blaggio di quattro o cinque biciclette intitolato atto sessuale , sul qua- le la signora Haveno fantasticò non poco, osservando minuziosa- mente le natiche del giovane artista poco più in là. Stan rise di gusto e i doppi sensi si sprecarono, mentre il tele- fono smise di vibrare. La festa d’inaugurazione proseguì tutta la notte, specie dopo l’arrivo di Benjamin Staloj, il quale tagliò il na- stro della nuova ala dedicata agli schizzi, ai disegni preliminari e ai progetti di realizzazione del celebre Palazzo Ottagonale, nella qua- le si conservavano gli schemi originali di numerosi passaggi segreti (ubicati nei sotterranei del Palazzo) destinati alle fughe del Gerarca in caso di sommossa o pericolo, tutti firmati Marcello Piacentini.

104 L’attenzione di Stan fu immediatamente rapita dalla cosiddetta Mappa Piacentini , un passaggio sottostante l’ala sud-est che attra- verso l’attuale rete fognaria avrebbe condotto il Gerarca nelle can- tine di un altro celebre palazzo degli anni ’30, il Metradòr Building , all’interno del quale oggi sorgeva un hotel. Domandò il permesso (che gli fu accordato) di scattare alcune fo- tografie per il suo articolo. Prima di andarsene ne scattò dodici, tutte della Mappa Piacentini. ~ Quando entrò in casa trovò la figlia Julie addormentata sul di- vano con la televisione accesa. Cercò di sollevarla delicatamente senza svegliarla ma il progetto fallì e Julie con uno scatto aprì gli occhi. “Ciao”, disse rabbuiata. “Che ci fai sul divano a quest’ora di notte?”, chiese Stan. “Ti aspettavo”, rispose Julie, “ti ho chiamato al telefono ma non mi hai risposto”. “Ti ho chiamata due volte prima di entrare alla galleria”. “Sì ma poi quando ti ho chiamato io non hai risposto”, mugu- gnò Julie. “C’era molto rumore ed ero impegnato a osservare le opere d’arte, c’erano la signora Haveno e la signora Betrojn”. “Quelle due non le sopporto, non fanno altro che ronzarti at- torno e sono noiose, non è vero?”. “La signora Haveno ha raccontato una barzelletta”. “Ti ha fatto ridere?”, chiese Julie apprensivamente. “Sì, mi ha fatto ridere. E la signora Betrojn a un certo punto si è messa anche a ballare. Era completamente ubriaca”. “Allora ti sei divertito”. “Abbastanza”, disse Stan, e guardò il volto della piccola Julie turbarsi; “che c’è?” chiese. “Sono triste”, disse Julie. “E perché mai dovresti essere triste?”. “Perché hai riso tutta la sera”. “Ma lo sai che ero là per lavoro. E comunque c’era gente inte- ressante, le opere erano piuttosto buone, lo champagne e le tartine erano ottimi, è stato gradevole”.

105 “Sì ma non mi avrai pensato neppure un minuto, perché ride- vi”. “Al contrario, mi sono divertito perché pensavo a te, e ogni volta che qualcuno diceva qualcosa di divertente pensavo a come l’avresti detta tu, ed ero felice, perché era come se tu fossi sempre con me”. “Anche con la Signora Haveno?”, chiese Julie un po’ seccata. “Quando la signora Haveno diceva qualcosa immaginavo quel- la cosa detta da te”. “E la Signora Betrojn?” “Mentre ballava ho immaginato te intenta a imitarla, facendo ridere tutti, e ho riso di gusto”. Julie non disse nulla e si limitò a sbuffare. “Lo so quanto sei brava nelle imitazioni, cosa credi. Ti ho vista l’altro giorno, mentre mi prendevi in giro facendomi il verso. Eri molto simpatica”. Julie s’imbronciò ma non riuscì a celare un leggero sorriso. “Domani è la vigilia della Giostra del Peccato, e in centro c’è la Corrida dei Tacchini Scartati ”, disse Stan, “non ti ci porto da an- ni”. “Non me lo ricordo”, disse Julie mentendo. “Eppure sembravi così felice di vedere i tacchini correre e af- fannarsi per le vie della città”, disse Stan. “Non me lo ricordo”, disse ancora Julie, “e poi che cos’è la Corrida dei Tacchini Scartati?” “È la giornata in cui i tacchini scartati dalla Giostra del Peccato vengono liberati per le strade della città e hanno l’occasione di tra- scorrere il resto dei loro giorni liberi e felici”, disse Stan, “se rie- scono a sfuggire ai tentativi dei cittadini, i quali tentano in tutti i modi di acchiapparne uno”. “E perché dovrebbero acchiapparne uno?”, chiese Julie. “Perché è tradizione che sia così”. Julie sbuffò. “E che cos’è una tradizione?” “Quasi sempre una cosa stupida, ma piuttosto divertente”. “E perché mi porti a vedere una cosa stupida?” “Te l’ho detto, perché è divertente”. “Che cos’è una cosa divertente?”, domandò Julie. 106 “Adesso è ora di andare a dormire”, disse Stan. “Allora, vuoi andare alla corrida di domani?” “Va bene”. “E sia. Però adesso a nanna”. Era notte fonda, e le luci distanti di Sabbione scintillavano nell’oscurità. “Non devi più ridere quando non ci sono io”, disse Julie, “soprat- tutto con la Signora Haveno”. Stan sorrise. “Promettimelo”. “Te lo prometto Julie”, disse Stan, e la prese in braccio per portar- la a letto. ~ Sabato diciannove luglio la pioggia cessò e un sole meraviglio- so, fresco, sputacchiò i suoi bagliori su Sabbione. Non sembrava un evento strano, poiché era già successo in passato, ma a Stan sembrò diverso da tutte le altre volte. Nonostante fosse una mattina secca e luminosa, di quelle rare da queste parti, nell’appartamento c’era un’oscurità quasi totale. Stan si era svegliato presto e aveva preparato una colazione a base di biscotti e caffèlatte per Julie facendo attenzione a non svegliar- la. In strada c’erano rumori e suoni confusi, risate e urla di ragaz- ze, trombe e fisarmoniche. Stan bevve il caffè e fumò una sigaretta seduto alla sua scriva- nia, nello studio illuminato da una debole lampada. La giornata era stupenda, lo notò appena sveglio dalla finestra della sua stanza, e si promise di essere allegro, almeno per un giorno, di riporre la cognizione delle sue inquietudini e godersi la festa con Julie. Prima di svegliarla passò in rassegna tutti i suoi li- bri, le sue fotografie, i suoi ricordi. “Sei pronta, signorina?”, chiese Stan a Julie quando la vide en- trare in cucina ancora mezza addormentata. “Pronta”, disse Julie sbadigliando, e bevve il caffèlatte inzup- pandovi numerosi biscotti. ~

107 Libera di correre per le strade di Sabbione, Julie finì insieme a Stan nel Centro Storico, dove il gloglottìo dei tacchini era più vio- lento, dalle parti dei vecchi vicoli. Correndo e meravigliandosi Julie si trovò nel cuore della città medievale, dove il reticolo di piccoli cammini e stretti viottoli è simile a un labirinto, pochi istanti prima della liberazione dei tac- chini, che come tradizione sarebbe iniziata alle undici di mattina. Vide le enormi gabbie, trecento o quattrocento, forse più, ricolme di tacchini, vide gli addetti pronti ad aprirle al suono del campanile di San Bertran de Born, vide centinaia di persone vestite da conta- dini, perché questo vuole la tradizione, pronte allo spasso. Nelle stie gli uccelli erano compressi l’uno sull’altro e schiamazzavano tentando di scrollare le piume; le caruncole rosse vibravano all’unisono come diapason o bambini febbricitanti. “Perché non li liberano?”, chiese Julie. “Stanno per farlo”, rispose Stan. “E quando li liberano cosa succede?” “Succede che si riversano per le strade, tra la gente, e tentano di volare. Ma non ci riescono”. “E perché non ci riescono?” “Perché sono troppi. Inoltre perché hanno ali del tutto inadatte al volo. In realtà potrebbero volare, ma hanno bisogno di condi- zioni particolari. Per esempio possono volare quando si trovano in un grande prato e non hanno impedimenti”. “E qui in città?” “Qui in città è quasi impossibile Julie”. “E allora cosa succederà?” “Quando usciranno dalle gabbie cominceranno a correre all’impazzata per i viottoli e i vicoli, per le piazze e le strade, e la gente tenterà di afferrarli per le ali, le zampe, il becco”. In quel momento la campana rintoccò le undici e le gabbie si spalancarono. Un’ondata di piena di tacchini si rovesciò nelle stra- de. “Tienimi forte adesso”, disse tremante Julie, “stringimi e non la- sciarmi andare”. Stan la strinse a sé. I tacchini filavano dappertutto sbatacchian- do le ali, correvano fino a spaccarsi i polmoni, correvano come la- dri di autoradio, correvano come qualcuno che corre per soprav- 108 vivere all’insensatezza degli esseri umani; alcuni sfiorarono il volto di Julie, che ora urlava e rideva, senza panico ma con una grande eccitazione sbigottita. “Ma dove vanno a finire?”, chiese. “Cercano di uscire dalla città per raggiungere le campagne sen- za farsi afferrare dalla gente e conquistare la libertà”, rispose Stan. Quando la prima ondata si disperse Julie restò immobile e in- cantata. “Che cos’è la libertà?”, domandò. “Correre più veloce di quello che ti insegue, Julie”, disse Stan. Non appena fu liberata la seconda ondata Stan prese Julie sulle spalle, per farle vedere meglio lo spettacolo. “Posso provare a prenderne uno?”, chiese Julie. “Provaci”, disse Stan. Julie mulinò le braccia e si sporse quanto più poteva ridendo e urlando di felicità. “Sono riuscita a toccare una zampa!”, urlò soddisfatta. Stan sorrideva e teneva Julie ben salda per le gambe. “Ti stai divertendo?” “Moltissimo”. “Come con la signora Haveno?” “Molto di più”. Quando Stan la fece scendere, Julie si ritrovò in mezzo alla fol- la, non spaventata ma estasiata. “Vieni”, disse Stan. “Dove andiamo?”, chiese Julie. “Ti voglio portare in un posto”. Prese Julie per mano mentre i tacchini si arrabattavano in ogni vicolo e la gente cercava in tutti i modi di afferrarne uno. La seconda ondata di tacchini fu uno spettacolo incredibile di suoni e colori, gli uccelli si dispersero per tutta la città scalpitando e cercando di prendere il volo, era tutto un volare di piume e i cit- tadini, come da usanza, ne catturarono una grande quantità affer- randoli per le zampe o per le ali, a mani nude o con immensi pare- tai, li infilarono nelle stie attrezzate o anche solo in borse della spesa e li portarono a casa, dove era preparata un’uccelliera sul caminetto o un coltellaccio per cucinarli.

109 Stan e Julie s’addentrarono per le vie di Sabbione. Centomila occhi scrutavano dalle inferriate delle finestre, spaventati dal gusto di libertà che si riversava nelle strade: follia oscena, risate, suoni di tromba e oboe e lamenti funambolici, uomini con un occhio solo e su trampoli alti sette metri, mangiatori di fuoco, chiodi, arnesi di vario tipo. “Non facevo un giro così da tanto tempo”, disse Julie. “Anch’io”, disse Stan. “Da quando la mamma mi portò alla fiera. Quella volta abbia- mo fatto un sacco di fotografie”. “Ne faremo molte anche questa volta”, disse Stan. Dopo quasi tre ore di passeggiate e fotografie, durante le quali Julie sembrava davvero felice, salirono sul 67 barrato che fa capo- linea nel quartiere alto della città e scesero in una piazzetta circola- re dalle parti del castello di Sabbione, celebre per essere stato il set di numerosi film e pubblicità. “Ti va un gelato?”, chiese Stan. “Moltissimo”, rispose Julie, “ne ho proprio voglia”. Si avvicinarono al chiosco e comprarono due coni gelato, men- ta e amarena per Stan, vaniglia e nutella per Julie. “Che bello il tuo braccialetto”, disse Julie, “non te l’eri mai messo, è nuovo?”. “È un regalo”, rispose Stan. “Sarà mica un regalo della Signora Betrojn?”, chiese Julie. “No Julie, stai tranquilla, è di un amico che non conosci”. “Dovrei fare una telefonata”, disse Stan. “Non alla signora Haveno, vero?”, chiese Julie. Aveva notato che venti minuti prima, sull’autobus, dopo aver risposto al telefo- no, aveva immediatamente riattaccato. “No Julie, non alla signora Haveno. Resta qui cinque minuti”, disse Stan, e si alzò per spostarsi di qualche metro, prese il telefo- no e dopo qualche secondo cominciò a parlare, mentre Julie, lec- cando il suo gelato, osservò i piccioni contendersi un pezzetto di pane ripensando ai tacchini. C’era un’aria estiva fantastica, e per un momento le sembrò di sentire il profumo del mare risalire le valli e le colline per andarle ad accarezzare il viso.

110 La piazzetta di San Paragorio fu costruita intorno all’anno mil- leduecento e dal grande terrazzo posto a circa trecentocinquanta metri sul livello del mare, cento metri più in su del centro abitato, si poteva godere di una magnifica vista sulla città. Il sole filtrava dagli alberi rischiarando il porfido e la facciata della chiesetta ro- manica. Accanto alla ringhiera dipinta di verde c’era una targa con la scritta Un posto ideale per le fotografie al tramonto . Quando ebbe finito la telefonata Stan tornò da Julie col volto corrucciato. Julie lo fece posizionare accanto alla ringhiera poco distante dal chiosco dei gelati. “Non ti muovere, mi raccomando”, disse, e lo inquadrò con la sua macchina fotografica. “Aspetta lì”, disse, poi andò a cercare qualcuno che potesse scattare la foto. Stan accese una sigaretta e si voltò per guardare Sabbione dall’alto, i tetti rossicci e il cielo al tramonto, già travolto da mille pensieri. Julie tornò con una ragazza per mano, fornì le istruzioni necessarie e corse a posizionarsi accanto a Stan, stringendosi a lui. Stan sospirò e cercò di non pensare a nulla, ma in quel mo- mento uno stormo di pensieri lo trafisse con tutta la sua potenza e fu tentato di urlare o imprecare, trascinando Julie nel suo abisso di paradossi e inconcludenze. Guardò fisso di fronte a lui e vide la giovane ragazza dai capelli raccolti armeggiare con la macchina fo- tografica. Quando la ragazza pronunciò la parola sorridete, Stan ebbe una chiara visione della sua fine, o del suo inizio, e pensò che se una fotografia può mostrare l’anima delle persone il suo volto digitale avrebbe assunto i tratti deformi della brutalità e della barbarie. C’era lì vicino un’indicazione turistica riportante la scritta Ben- venuti a Sabbione, vi trovate a 349 mt sul livello del mare . Julie corse incontro alla ragazza e prese la macchina fotografi- ca, poi tornò da Stan, lesse l’indicazione e lo guardò stranita. “Perché Sabbione si chiama così?”, domandò. “Non lo so, Julie, non ne ho proprio idea”, rispose Stan.

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SULL ’ORIGINE DEL NOME DELLA CITTÀ DI SABBIONE E DELLA RELATIVA INSEGNA POSTA ALL ’INGRESSO DEL CENTRO ABITATO

Il quattordici aprile 1154 gli esploratori svevi che cavalcavano lungo l’attuale provinciale 24, che da Sabbione conduce a Castro- cozzo, si ritrovarono in una terra inospitale, paludosa e accidenta- ta, così lontani da casa che un nero presagio li travolse. Si accam- parono in un piccolo villaggio, il cui nome ignoravano, con casu- pole dal tetto di paglia e una grande quercia sulla cima di un’altura. Verso il tramonto, mentre i suoi compagni si ristoravano, Gerard da Thuile, giovane cronista alsaziano al seguito della missione, uscì dalla capanna che lo ospitava per cercare acqua e cibo, voltò l’angolo e si trovò di fronte agli occhi uno spettacolo raccapric- ciante: un uomo, all’incirca sui trent’anni, oscillava impiccato al ramo di un grosso tiglio più o meno a mezzo metro da terra. Do- veva essere morto da qualche giorno poiché emanava un fetore terribile e centinaia di mosche ronzavano intorno al suo volto or- mai sfigurato. Decise di perlustrare a fondo il villaggio e con gran- de sgomento appurò che altri corpi oscillavano appesi ai rami di diversi alberi, querce e betulle, tigli e magnolie, ciliegi e pruni. Inorridito si precipitò nell’abitazione e avvertì i compagni, che esterrefatti verificarono di persona il racconto. Qualcuno di loro fu colto da spasmi, qualcun altro notò la dimestichezza e la natu- ralezza con la quale i cittadini del villaggio s’accostavano all’orrore degli impiccati. Videro un ometto passare accanto al cadavere di un uomo, poteva esserne il figlio o il fratello, il cugino o un amico, così come si cammina accanto a un passante il sabato pomeriggio in centro, guardando le vetrine in compagnia della fidanzata sma- niosa di far compere, epperò neppure con la stanca inquietudine di chi è costretto a bivaccare interi quarti d’ora al cospetto di lin- gerie, pentolini, vestiti e profumi, ma addirittura con totale e ata- 112 rassica indifferenza. Come vennero a sapere più tardi, quei poveri corpi un tempo alti e belli come loro ed ora sfatti dai mosconi e dall’intemperie, erano suicidi. Gerard e il suo amico e collega Gotfred Hohenstaufen parevano sconvolti, e le informazioni che appresero in seguito, dopo aver interrogato i residenti, li lasciaro- no ancora più perplessi: tutti ammisero che il suicidio presso la lo- ro comunità era pratica abituale. Una donnetta magra e smunta, pallida come la morte quando la morte si manifesta col suo velo bianco fantasmagorico, sembrò nientemeno scocciata e sorpresa da tutte quelle domande, masticate in una lingua a metà strada tra l’austro-ungarico a venire e il latino (che nessuno degli abitanti conosceva); questi mezzi selvaggi (i nostri beneamati progenitori), ai quali gli unni avrebbero potuto offrire lezioni di bon-ton e lin- guistica, o almeno così dissero gli svevi con una disdicevole punta di sarcasmo, preparavano il suicidio come si prepara il paniere per un picnic la domenica pomeriggio, e giunti alla fatal ora, trovato un albero dai rami robusti, con la stessa nonchalance con cui la madre imburra il pane per le figliolette, vi gettavano un cappio al- trettanto robusto, salivano su di un trespolo opportunamente fab- bricato dal falegname locale e giù, si lasciavano cadere verso un mondo di ectoplasmi, druidi e fate malefiche. Senza una causa precisa, senza una ratio o una forza sconosciuta, gli abitanti di quel luogo si toglievano la vita uno dopo l’altro, donne incluse, dopo aver generato un numero di figli non inferiore a due. Era la legge, ripetevano, ma una legge che non avrebbe retto una settimana neppure tra i vichinghi. L’ultimo morto per cause accidentali (schiacciato da un carretto) risaliva a tre anni prima, l’ultimo per vecchiaia addirittura a trentanove anni prima. In quanto al fetore e all’assalto de’ coprofagi, una volta la settimana due necrofori giun- gevano dal vicino villaggio con un carro trainato da muli per far pulizia e posto sugli alberi. Incuriosito quanto agghiacciato Ho- henstaufen decise di restare nel villaggio per studiare il caso; con- gedò i suoi compagni diretti a sud e scrisse una lettera all’Imperatore nella quale narrava con dovizia di particolari “gli or- rori infiniti dell’orribil sabbione”. Quando Federico Barbarossa giunse nel villaggio, mesi dopo, alla domanda con la quale esigeva conoscere in quale luogo fosse capitato il suo primo ministro ri- spose con queste parole, qui rese nella nostra lingua per conven- 113 zione e pigrizia dell’autore: “Questo è il villaggio in cui i nostri esploratori giunsero in aprile, quello in cui si pratica il suicidio come regola e costume, l’orribil sabbione, come lo denominaro- no”. Al che l’Imperatore rispose: “metteteci un cartello e passiamo oltre”. Ancora oggi (sebbene gli abitanti si siano inciviliti e non pratichino più la brada uccisione di sé stessi smodata e priva di controllo, ma si limitino alla ruberia, all’omicidio e alla bestemmia, com’è d’uso in ogni altra città moderna, e la frequenza dei suicidi ® sia stata regolamentata da una legge Gerarcale) all’ingresso della città una targa ricorda l’origine del nome: “Benvenuti a Sabbione, il cui glorioso nome debasi al volere dell’Imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa”. Per i più curiosi ricordiamo che Gotfred Hohenstaufen, cugino di terzo grado dell’Imperatore, morì suicida nel 1157, dopo aver preso moglie e generato due figli.

Postilla storico-antropologica

Intorno al dieci d’agosto (stando ai documenti ufficiali dell’esercito svevo, ritrovati e tradotti da Guillome Samuchard 1), in una notte senza luna soffocata dalla ridda dell’afa e bersagliata dal ghigno delle streghe, una milizia di Svevi che lo storico Ibn al- Athīr nel suo al-Kāmil fī ta‘ ̉ rīkh 2 vuole composta da tre centinaia

1 Uno dei maggiori storici sabbionassi. 2 La perfezione della storia , cap. XV 114 di uomini e proveniente dalla città di Milano, giunse nell’inospitale terra appena scoperta dagli esploratori inviati dall’Imperatore. At- traversarono un ponte di fortuna sul fiume Atanor e galopparono veloci su sentieri battuti dal gracidio dei rospi e dalle diavolerie dell’oscurità (ritmi di tamburi, fuochi e odori sconosciuti, uccelli non catalogati dalla scienza), fiancheggiarono torbiere e burroni che non mancarono di rivelare la loro minaccia (Ibn al-Athīr parla di ventisette decessi tra i soldati nel solo viaggio di andata). Dove- vano portare a termine una missione di vitale importanza e nono- stante ciò nessuno di loro era a conoscenza delle reali motivazioni che spinsero l’Imperatore a decretare l’ordine. Superate le colline bivaccarono presso una radura (corrispondente all’attuale Pizzen- go), dove gozzovigliarono con selvaggina e si ubriacarono con vini rossi, furono allietati da numerosi Minnesänger 3 austriaci, si tra- stullarono con giochi d’armi (e non mancarono neppure in questo caso i decessi, enumerabili, secondo Ibn al-Athīr, in cinque o sei al massimo, tutti imputabili all’ebbrezza) e non si curarono del tuono della campagna, che pareva presagire il loro ignobile incarico. Nacquero amori e sbocciarono tenere amicizie, cullate da canti armoniosi e per nulla di guerra. Scrive al-Athīr che i soldati adora- vano sussurrare le strofe dei più celebri Minnesänger del loro tempo. Slâfest du, friedel ziere? era la più gettonata 4. Poi la terra echeggiò tre volte, presaga dei futuri accadimenti come un gigante furioso, percotendo alberi e fiumi, cavalli e uomini. Nessuno degli svevi, ubriachi fino al midollo, alcuni già colti da profondo sonno, altri barcollanti accanto al fuoco, s’accorse di nulla. L’indomani, quando le luci dell’alba trafissero la terra mentre sette esili pennac- chi di fumo si levavano nel cielo azzurro, tutti gli uomini erano addormentati, chi in ginocchio, chi in piedi, chi scompostamente disteso sulla terra umida; un suono lieve s’alzò profondo nell’aria: pare che fosse così melodioso che se qualcuno dei soldati l’avesse

3 Der von Kürenberg fu quasi certamente tra i numerosi minnesänger presenti alla missione. Alcune cronache dell’epoca rivelerebbero che in quell’occasione compose La canzone del falcone e altre arie molto note, scatenando una sorta di ebbrezza omosessuale all’interno della milizia. 4 Dietmar von Aist non prese parte alla spedizione ma le sue opere fe- cero comunque clamore. 115 udito sarebbe rimontato a cavallo per tornare da dove era venuto, rinunciando all’infausto compito, o peggio si sarebbe gettato in un abisso, sconvolto dalla bellezza inattesa (è noto infatti che la bel- lezza inattesa percuote l’essere umano come e più d’una verga, gettandolo in abissi che l’animo ignora). Il naturalista Maccio, vis- suto intorno all’anno 50 a.c., scriveva nel suo Naturalia Rerum : “esiste un uccello, al nord, capace di ammansire le belve scrollan- do le piume della coda…proviene dalla Trinacria, da dove migrò in massa qualche decennio fa”. Sfortunatamente nessuno dei beo- ni svevi potette udire quel suono armonioso, euritmico ed eufoni- co (che alcuni descrissero come la vera partitura per l’armonia prestabilita, altri come un’infernale e ipnotica danza di suoni) e quando il primo di loro si svegliò, avvertendo i compagni del tra- gico ritardo (avevano infatti progettato di muoversi all’alba), il più anziano della milizia, e quindi per legge capitano, convocò in fretta e furia una dieta presso l’albero più grande e ombroso del territo- rio, che pare fosse un faggio. Ignari della sorte benevola, per quan- to sgorgata dalla stoltezza, cominciarono a scagliarsi accuse reci- proche, coinvolgendo molti in mischie e risse (anche in questo ca- so pare che i decessi siano enumerabili in due o tre uomini).

Gli svevi, storditi dalle risse e irritati per l’inospitalità della ter- ra, decisero di agire quella notte stessa. Erano rimasti in duecento- cinquantatre, un numero più che sufficiente per portare a termine il compito e soprattutto dispari 5; verso il tramonto si misero in marcia. Giunsero prima di sera in uno spoglio villaggio e videro una gran folla in coda presso una grotta naturale nella collina tufa- cea. Al calare della notte entrarono nel villaggio che portava il car- tello col nome affidatogli dai loro commilitoni esploratori: Gran-

5 Il cabalista Musharraf Heimakel giunse alla corte del Barbarossa nel 1137, fortemente voluto dall’imperatore. In pochi mesi si guadagnò la fiducia delle alte sfere sveve, tanto che lo stesso imperatore, poco prima della battaglia di Pavia, quando il contabile gli comunicò che Klaus Munst, un soldato semplice, era deceduto cadendo da cavallo e perciò il numero degli uomini era pari, ordinò che si uccidesse uno dei tredici portavessilli affinché il numero del suo esercito tornasse a essere dispa- ri.

116 vollsand 6 (che divenne poi Sablon in sabbionese e Sabbione in ita- liano). Furono percorsi da un brivido: per la prima volta poterono osservare gli strani frutti pencolanti sull’orrido dai folti alberi della rigogliosa terra sabbionese. Si trattava dei suicidi, in gran numero, che ornavano l’ambiente scorbutico del villaggio. La luna sorse, incandescente. Tentando di tenersi lontani dall’orrore si diressero verso le abitazioni che erano loro state indicate nella bolla imperia- le, dividendosi in gruppi dispari (il cui numero di soldati per grup- po era, ancora, dispari) e fecero il lavoro per cui erano stati scelti fra tutti i migliori soldati. I primi a cadere sotto i colpi degli assali- tori furono i dodici Anziani, depositari dell’antica sapienza della finzione esistenziale, che vivevano in una sorta di comunità; furo- no sorpresi intenti in un povero ma lauto pasto, furono spogliati e trucidati, le loro barbe furono tagliate insieme al loro scalpo. Poi furono uccisi. Nel frattempo anche gli altri gruppi avevano rag- giunto le abitazioni di altri vecchi, che uccisero senza incontrare resistenze. In due ore i corpi di tutti gli uomini a conoscenza dell’antica arte della finzione furono esposti al publico ludibrio, ammassati nella piazza centrale di Sabbione e bruciati; il fumo salì alto per tre giorni, e quando la cenere ridiscese le strade di Sab- bione erano come il letto d’un falò. Nel giro di una settimana o due altri svevi giunsero, s’accamparono, costruirono case e prese- ro in moglie donne locali; i suicidi, dichiarati contrari allo spirito cristiano e imperiale, diminuirono fino quasi a scomparire. Ogni notte, per trecento notti, i sabbionesi si scatenarono in orge, ba-

6 A proposito del nome Granvollsand si legga il brano di Magnus Ech- tofle intitolato Trattatello angustiato sulle manifestazioni terricole , celebre nel ‘700, in cui viene brevemente tracciata l’origine dei nomi Sabbione e Sabbionasso: “E fu così che nacqui e vissi a Sabbione, la Granvollsand dei miei avi, il cui nome significa propriamente Orribile Grande Sabbia, capitale di un territorio che in origine prese il nome di Tullgranvollsand, Cattiva Orribile Grande Sabbia, divenuta prima spregiativamente Sab- bionaccio e successivamente Sabbionasso”. Letteralmente il termine granvoll sarebbe grauenvoll, ma gli stessi svevi erano coscienti di parla- re un tedesco particolare; il loro celebre motto infatti è: Wir können al- les - außer Hochdeutsch (Sappiamo fare tutto – tranne parlare il tede- sco tradizionale).

117 gordi, guazzabugli, intrallazzi, intrighi, feste e parate, per cui ancor oggi sono famosi. Ripresero a lavorare al trecentunesimo giorno, e dal trecentodecimo tornarono a sorridere, a parlare, a provare l’orgasmo, ad approntare trimalcionici banchetti, a fingere di reci- tare, a cantare, urlare, gioire, maritarsi per amore, copulare anche tre volte al giorno, pregare, eccetera. Nessuno seppe dire con certezza se fu un bene o un male7.

7 Successivamente, pur mantenendo vivo lo spirito festajolo, e venendo meno lo spirito religioso, l’usanza del suicidio sistematico fu reintrodot- ta e divenne una legge Gerarcale, nota col nome di clausola 99 . 118 IL PROGRAMMA

Davvero premuroso il Governo a varare un Programma Au- toeliminazione Esseri Umani. È stato il Gerarca a omologarlo (non quello di adesso, un vecchio Gerarca), per far rivivere i fasto- si tempi della fondazione originaria del nostro glorioso Paese, prima che gli Svevi rivoltassero tutto e imponessero il loro stile di vita. Almeno questa è una delle motivazioni. Un’altra potrebbe es- sere quella secondo cui gli uomini sabbionassi sarebbero i migliori tra gli uomini e le donne sabbionasse sarebbero le migliori tra le donne. Discorso che vale anche per i bambini, gli animali, gli stor- pi, eccetera. L’ultima motivazione risulta da documenti dichiarati top secret dai servizi segreti Gerarcali, secondo cui troppa gente influisce negativamente sullo sviluppo dei cittadini sabbionassi, che naturalmente sono i migliori cittadini tra tutti i cittadini. E al- lora ecco che è stato varato questo Programma Gerarcale (non adesso, molti anni fa, quando la gente poteva ancora pensare in grande), spiccatamente popolare ed eroicamente democratico. Che cos’era il Sabbionasso! Il Gerarca passeggiava per le strade senza scorta e canticchiava strofe occitane di poeti provenzali. Poi usci- va dal terrazzo del suo Palazzo e leggeva ad alta voce i provvedi- menti all’ordine del giorno. “Aumenteremo la tassa sulle seconde case, ma ne beneficere- mo tutti”. Oppure: “L’uomo sabbionasso è chiamato a contrastare l’essere gettato nel mondo (atto involontario) con un atto volonta- rio che vada a definire la sua esistenza come una voluntas supre- ma”. Leggeva i comunicati con voce stentorea. La gente ascoltava a tutt’orecchi (erano altri tempi, i microfoni non li usavano). Infi- ne il Gerarca deliberava (sempre con voce stentorea). “Solo la Vo- luntas Suprema è degna d’essere sabbionassa, perciocché si decre- ta con effetto immediato che – a questo punto la voce si faceva roboante – : tutti i cittadini sabbionassi che abbiano superato il diciottesimo anno d’età dovranno anticipare la morte mediante autoeliminazione del dasein (o esserci) allorché sentano sopraggiungere fattori che possano minare la volon- tarietà della morte stessa, quali si ritengono essere vecchiaia, malattia, pericolo 119 estremo, eccetera. A chi anticiperà la morte sarà riservato un biglietto di sola andata verso Un Posto Migliore ”. Che cos’era il Sabbionasso! Poteva essere il ’32, o il ’33 8. Ma come si potevano conoscere in anticipo questi fattori mi- nanti la volontarietà della morte? E soprattutto, com’era fatto que- sto Posto Migliore? Era davvero Migliore, o volevano solo farci credere che lo sarebbe stato? Ci si poneva molte domande. Erano domande fondate sull’eccitazione. In altri termini, come si poteva conoscere il proprio futuro? A questi e ad altri interrogativi diede risposta il Responsabile del Gabinetto Igiene Sociale (non quello di adesso, uno di quei tempi). Per prima cosa, abbiamo registrato il marchio dell’unità lessicale e di tutti i suoi derivati, poiché il no- stro suicidio ® è diverso dal semplice suicidio, selvaggio e abusivo, frutto di impulsi inferiori e mediocri debolezze. Vi abbiamo co- struito delle Agenzie di Divinazione in tutta la città, disse. Altre sorgeranno nelle campagne molto presto. In questi posti, luminosi e puliti, dal vago profumo di terra fresca e limoni, una moltitudine di specialisti seri e competenti reclutati dal nostro Gabinetto di Collocamento leggeranno la mano, scruteranno i fondi del caffè, squarteranno animali per leggerci nelle interiora, analizzeranno il volo degli uccelli e le loro migrazioni, proveranno stati ipnotici subcoscienti e insomma faranno tutto quello che c’è da fare per predirvi il futuro. Il loro motto è “ NECESSITANT , NON INDICANT ”. Voi crederete a ogni loro parola perché questo è il senso della legge. Se non crederete ai nostri specialisti non crederete nel Gerarcato di Sabbionasso e nelle sue leggi, per cui sarete punibili con reclu- sioni e/o fucilazioni. In fondo non abbiamo inventato nulla, pro- seguì; c’è un istinto profondo che fa parte del bagaglio genetico dell’umanità, e del popolo sabbionasso in particolare: è l’istinto a uccidersi. Cercatelo nel profondo della vostra coscienza, lo trove- rete senz’altro. Quest’istinto è presente e vivo, anche se assopito; il compito del nostro Programma è di risvegliarlo e codificarlo. Avete bisogno di qualcuno che regoli l’istinto, non vogliamo che diventiate dei selvaggi. Per questo c’è il Gerarca e tutti i suoi Ga-

8 Il discorso ivi riportato fu pronunciato dal Gerarca di Sabbionasso Leone Marziano Prunèt il 13 maggio 1933. Il Programma Autoelimina- zione Esseri Umani entrò in vigore il 27 maggio di quello stesso anno. 120 binetti, per gestire gli impulsi naturali e incanalarli nei condotti della legge 9. Che cos’era il Sabbionasso! Un luogo in cui c’era una risposta a tutto. E infatti a quelli che chiesero se i sogni premonitori fossero buoni fu risposto di sì, a quelli che chiesero se i presentimenti del- la moglie fossero buoni fu risposto di no. Non fate i furbi, minac- ciò il Responsabile del Gabinetto Igiene Sociale. La macchina or- ganizzativa è in movimento da prima che voi nasceste; due uomini qualificati e altamente addestrati verificheranno l’attendibilità della vostra Autoeliminazione Preventiva e controlleranno che ognuno degli articoli del Programma sia rispettato. Riporteranno tutto in un modulo azzurro che consegneranno a chi compete. E giacché vogliamo alleggerire la burocrazia, non appesantirla, abbiamo pen- sato di non aggiungere un Ministero Ufficiale ma di integrarne uno pre-esistente: per questo il Ministero delle Festività, il nostro organo più inutile, si accorperà al nascente ministero e prenderà il nome di Ministero Suicidi & Festività ®. Gli uomini preposti al controllo si chiameranno Verificatori. Ne abbiamo già reclutati più di cinquecento; un numero comunque destinato ad aumentare. Restava da dirimere la questione del Posto Migliore. Andrete in Un Posto Migliore, disse ancora il Responsabile del Gabinetto Igiene Sociale, statene pur certi. Lo hanno decretato anni fa la Chiesa Cattolica, la Chiesa Ortodossa, la religione Mussulmana, quella Ebraica, quella Induista. Hanno aderito all’idea che dopo l’autoeliminazione preventiva si finisca in Un Posto Migliore i Bat- tisti di Betlemme, gli Avventisti del Settimo Giorno, la Chiesa del- la Rivelazione Oscura, la Chiesa dei Santi Apostoli e degli Amici degli Apostoli, la Chiesa di Tutte le Anime, di Nostra Regina Vit- toriosa, di Nostra Regina Misericordiosa, gli episcopali, quelli di San Paolo e di Scientology. Chi siete voi per dubitare ancora? Nel

9 Scrive l’antropologo Max Liederkreutz: “Per il popolo sabbionasso il suicidio non è più una costrizione imposta dalla legge. Esso si è evoluto nel corso dell’ultimo secolo, divenendo, propriamente, un atto morale di autocostrizione insito nella natura umana, una massima per la quale ogni cittadino può e vuole che assurga a legge universale”, Max Liederkreutz, Freitod und Stimmung, Berlino - 1999 . 121 giro di qualche telefonata aderiranno anche i Testimoni di Geova e i filo-buddhisti. Poi non avrete più scuse. Il Programma Autoeliminazione Esseri Umani partì alla gran- de. Era un programma profondamente romantico e fortemente coinvolgente, nonché, come fece notare qualcuno, straordinaria- mente democratico. Entrò a far parte del bagaglio culturale della gente e nel giro di pochi anni ogni cittadino sabbionasso fu trasci- nato ad eseguirlo spontaneamente, senza bisogno di costrizioni, allo stesso modo in cui gli animali hanno l’istinto di procreare. D’altronde l’esempio dei progenitori non era l’unico. Non esisteva forse una pratica simile tra gli antichi popoli della Siberia? Cacciatori che in vecchiaia sarebbero stati un intralcio per i giovani e null’altro. Meglio allora uccidersi, sommamente e glo- riosamente, per il bene proprio e della popolazione. E non era forse una pratica comune tra i culti iscariotici del milletrecento che dedicavano la loro esistenza all’Unico Vero Dio Giuda Iscariota, presso i quali era usanza imprescindibile quella di terminare la propria vita similmente all’Unico Vero Dio? Che cos’era il Sabbionasso, quando le leggi venivano rispettate, quando non ci si trovava di fronte a un branco di dissidenti a ogni angolo, quando non si manifestava per il diritto alla vecchiaia a ogni trepperdue. Il Programma si estese a macchia d’olio. Se n’ammazzarono più a Sabbione negli anni ’30 che nella Divina Commedia. Poi la fre- quenza dei suicidi ® s’attestò su cifre più ragionevoli . Il Codice delle Norme Gerarcali , la bibbia costituzionale e spirituale dei sabbionassi, riportò un’aggiunta rilevante alle 98 clausole canoniche. L’Autoeliminazione Esseri Umani divenne la novantanovesima clausola canonica e finì che presero tutti a chiamarla Clausola 99 . I cittadini lo trovavano un nomignolo affettuoso. Erano anni strepitanti. Certo non mancarono i dissidenti e chi si schierò apertamente contro il Programma (almeno all’inizio, quando l’istinto non era ancora stato del tutto risvegliato). I soliti cattolici, soprattutto. Il Portavoce dei cattolici parlò alla gente. Aveva un’aria opulenta e il viso abbronzato, era appena tornato da una settimana in montagna. Questo nuovo programma è uno scandalo contro l’umanità. La vecchiaia è sofferenza e pentimento, disse, e tutti hanno il diritto di soffrire e pentirsi prima di andare 122 in Un Posto Migliore, altrimenti, aggiunse, non sarà Un Posto Mi- gliore, ma Un Posto Molto Peggiore. Sofferenza e pentimento so- no due cardini della religione cattolica. Il Gerarca tagliò i fondi de- stinati alla chiesa cattolica e nel giro di tre giorni il Portavoce cam- biò registro. È tutto nelle Scritture, disse. Da qualche parte. Cerca- te il Programma di Autoeliminazione Esseri Umani nelle Scritture e leggetene tutti. Vi sarà molto utile. Naturalmente a quei tempi non lo chiamavano così. Ma statene certi che lo troverete. Il Posto Molto Peggiore era solo una favoletta per bambini cattolici, non ci avrete per caso creduto. Poi tornò in montagna per un mese di re- lax. Che cos’era il Sabbionasso! Stamparono decine di migliaia di copie di un opuscolo intitolato Compendio Tascabile sulla Clausola 99 , che divenne un best-seller. Conteneva gli articoli più importanti del Programma. Registrarono una casistica minuziosa e una serie di norme ben precise. Emanarono trentatré articoli che disciplina- vano il Programma.

La gente fece altre domande. La gente è solita domandare mol- tissimo. Che succede se ci rifiutiamo di ammazzarci? Che succede se moriamo naturalmente, in un incidente o cadendo dalle scale? Se non troveremo alcun Posto Migliore, potremo tornare indietro? Saremo tutelati? 10 In men che non si dica formarono un Sindacato a tutela dei diritti dei suicidi ® in potenza, ma durò poco. Il Dipar- timento Igiene Sociale sciolse il sindacato dopo due mesi. A cosa vi serve un sindacato? Domandò l’Addetto Stampa del nuovo Mi- nistero dal terrazzo Gerarcale. Avete l’Amministrassione. Vi ab- biamo mai deluso? Non mi pare proprio. La nostra organissasione funsiona a meraviglia. Risponderemo a tutte le vostre domande. Aveva qualche lieve difetto di pronuncia. Ci sarà un periodo di prova, durante il quale l’attuassione della clausola 99 sarà facoltati-

10 Ecco alcune delle domande più frequenti, un tempo inviate via posta ordinaria e oggi raccolte nel sito internet ufficiale del Programma Autoe- liminazione Esseri Umani ( www.clausola99.gs ): Se una divinazione prevede la mia morte nei prossimi tre anni, ho comunque tre mesi di tempo per espletare la clausola 99? Come faccio a riconoscere un divinatore ufficia- le? Qual è la percentuale di errore valutata in una divinazione? Perché sia valida, una clausola 99 necessita della volontarietà assoluta dell’esecutore? Posso praticare l’autoeliminazione preventiva anche se non ho ricevuto una divinazione di morte? 123 va; tenete presente che se sceglierete di non attuarla sarete mar- chiati come dei dispressabili, dei contro natura, alla pari, che so, degli omosessuali. Al termine del periodo di prova cambierà tutto: se rifiuterete di adattarvi al Programma sarete incarcerati. Se tente- rete di fuggire vi troveremo e vi incarcereremo. Se avrete delle contestassioni vi incarcereremo. È la legge. Se morirete all’improvviso vi incarcereremo, poiché avrete mancato di rivol- gervi a un ufficio divinatorio autorissato, cosa che secondo la leg- ge dovrete fare una volta all’anno. Comunque vada finirà che sare- te incarcerati. Se morirete accidentalmente nello spazio di tempo tra una divinassione e l’altra (caso improbabile, dato che avrete ri- cevuto una divinassione) avrete altre opsioni, tutte riportate nell’opuscolo esplicativo del Programma. Stabiliremo una settimana particolare al termine di quello che chiameremo Anno Previsionale. In questa settimana, che verosi- milmente collocheremo nel mese di luglio, tutti coloro che non si saranno sottoposti a divinassione (o Aggiornamento Annuale) avranno modo di farlo: la chiameremo Settimana dei Pronostici Obbligatori Annuali. Gli scienziati e gli imprenditori (tra cui si inserivano a pieno ti- tolo commercianti, banchieri, padri di famiglia disillusi, politici, economisti, docenti, eccetera) protestarono. Non abbiamo tempo da perdere con queste idiozie, dissero. Dobbiamo occuparci dell’economia e del futuro della nostra terra. Furono presi da parte e gli fu fatto un discorso. Gli emissari del Gerarca sono piuttosto bravi coi discorsi (anche quelli di allora, ma quelli di oggi anche di più). Lasciate che del futuro della nostra terra si occupi chi di do- vere, comunicarono nel discorsetto. Gli scienziati e gli imprendi- tori non accettarono le visite di divinazione. Questi materialisti sono una vera rottura di coglioni, si lamentò il Gerarca. Bandì il materialismo. Convocò una conferenza stampa (già allora si usava convocare conferenze stampa) e di fronte ai giornalisti di tutto il Sabbionasso dichiarò: Siate pure cinici, feroci, boriosi, superbi, al- teri, vanagloriosi, mettetela in culo a chi vi pare, siate egoisti e avi- di, sprezzanti e arroganti, guadagnate montagne di soldi nei modi che desiderate, non sarete puniti per questo. La nostra società non punisce questo genere di crimini, ammesso che di crimini si tratti. Occupatevi di fisica, chimica, economia, elettronica, politica spic- 124 ciola, filosofia, commerciate in sigarette, alcolici, plastica, tirate su fabbriche e fabbrichette, fate quel che vi pare. Ma il Programma Autoeliminazione Esseri Umani non si tocca. Provate a contestarlo e vi tolgo tutto, dai laboratori agli uffici ai fondi, dichiaro il cinismo fuori legge e bandisco le sigarette e gli alcolici, vi rovino, vi paralizzo l’economia, scateno una recessione. In altri termini quando un mio Gabinetto, uno qualunque, delibera qualcosa, qualsivoglia cosa, voialtri non rompete i coglioni. A proposito, vi ricordo che dal prossimo mese l’esperanto sarà la nostra lingua ufficiale. Naturalmente il nostro esperanto si distin- guerà leggermente dall’esperanto canonico. [...] Cominceremo la traduzione completa del vocabolario nei prossimi giorni. [...] Ac- corperemo talune espressioni, taluni vocaboli, in maniera da alleg- gerire il compito ai cittadini: compresi i tecnicismi, l’italiano conta circa duecentocinquantamila lemmi. Mi sembrano un’esagerazione. A cosa servono tutte queste parole? Faremo un po’ di piazza pulita. Le parole giudicate volgari, sconce, inappro- priate, saranno tradotte in maniera elegante, pudica, appropriata. [...] Le parole che non troveranno corrispondenza nel passaggio dall’italiano all’esperanto ce le inventeremo di sana pianta; stiamo già pagando una marea di glottologi per questo. [...] Il nostro espe- ranto sarà una lingua immutevole, statica, inalterabile. [...] L’utilizzo forzato della nuova lingua sabbionassa entrerà in vigore a partire dal primo gennaio millenovecentoventotto. [...] Avrete tempo tre mesi per tradurre i vostri banalissimi cogno- mi in esperanto, servendovi della traduzione letterale quando pra- ticabile, di una parola simile per assonanza quando impraticabile. Al termine dei tre mesi sarà l’Ufficio Anagrafe a sostituire il vostro cognome con un improperio esperanto. A quel punto non lamen- tatevi se vi tocca un cognome come mezzasega o cazzomoscio. Così è deciso per volere del Gerarca, Evviva Noi!

Che cos’era il Sabbionasso. Era un qualche giorno di settem- bre, il Programma raccolse il favore di tutta la popolazione e noi fummo mandati a spiegare la questione dei suicidi ® in tutte le scuole della città. Avevano varato un programma-scuole parallelo, una specie di informativa per bambini e ragazzi. Cominciammo da una scuola elementare, dove incontrammo i bambini in una gran- 125 de aula piena di disegni. Disegni che rappresentavano case, giardi- ni, fiori. Erano bambini fortunati. Mi piazzai di fronte a loro, nei pressi della cattedra, per iniziare a spiegare ciò che ero venuto a spiegare. I bambini sembravano impazienti. Notai che la classe era molto ordinata e composta di sei file da quattro banchi. Nessun assente. Dissi che non avrebbero dovuto dar retta a ciò che si sentiva in te- levisione. Dissi che in televisione – la televisione nazionale – avrebbero ascoltato le solite, convenzionali, prese di posizione contrarie al suicidio ®. Dissi che le tradizioni sono importanti al- meno quanto la vita stessa, e che per una consuetudine si può e si deve morire. Dissi che un giorno sarebbero andati in Un Posto Migliore, ma non ora. Domandarono, perché non possiamo andare in Un Posto Mi- gliore da bambini? Dissi, perché adesso il vostro posto è qui, coi vostri genitori e con la vostra insegnante. Domandarono, e perché i grandi non decidono di andare tutti in un Posto Migliore, se dav- vero credono che ci sia un Posto Migliore? Risposi, perché i gran- di devono sacrificarsi per i bambini, restare qui e contribuire a rendere questo posto un po’ più simile a Un Posto Migliore. I bambini cominciarono a infastidirsi reciprocamente in un modo all’apparenza tradizionale, lanciandosi foglietti accartocciati e im- bevuti di saliva, colpendo nelle reni il vicino di banco, ecc. Do- mandarono: ma cosa spinge un uomo a suicidarsi? Risposi: oltre al fatto che è un istinto irrinunciabile? Dissero: al di là della favoletta dell’istinto. Risposi: come recita la campagna pubblicitaria del Programma, più segreti degli angeli sono i suicidi ®. Non parvero molto convinti. Dissi, so che alla vostra età può sembrare difficile da accettare, ma un giorno lo comprenderete e lo accetterete. A quel punto una bambina dai capelli rossi con una bellissima t-shirt azzurra di Hello Kitty alzò la mano e disse: la politica pre- tende l’attuazione di un tale Programma al fine di esplicitare sur- rettiziamente una formidabile arma di controllo di massa, non è vero? Risposi che la politica, come altre cose, deve fare il suo corso, ma per farlo è necessario che ogni ingranaggio funzioni a meravi- glia, e modestamente la nostra politica funziona davvero bene. 126 Un altro bambino dall’espressione quasi stizzosa intervenne e disse: bene, parliamo di questa nostra politica che funziona davve- ro bene. Dissi, una politica che funziona davvero bene è un vantaggio per tutti. Qualcuno sostenne che forse la nostra politica che funziona davvero bene ultimamente ha preso qualche decisione sbagliata, ma per fortuna una tale opinione non accolse il favore della classe. Dissi, avanti, bambini, non potete negare che le cose procedo- no per il meglio: i vostri padri hanno auto di lusso, le vostre madri possono permettersi la parrucchiera una o due volte la settimana. Domandarono, anche papà e mamma si suicideranno? Risposi: naturalmente, bambini, come tutti; ma quando ciò accadrà an- dranno in Un Posto Migliore, inoltre molti di voi non avranno più bisogno di loro. La classe prese nuovamente a rumoreggiare. Poi uno dei bambini domandò: il suicidio in genere è un atto contro natura? Risposi: vivere senza un significato è un atto contro natu- ra, ed è il suicidio ® che dà significato alla vita. Domandarono: ma togliersi la vita non è un atto di estrema vigliaccheria? Replicai: no bambini, togliersi la vita è un atto di estremo coraggio. Alle pareti c’era un gran numero di disegni, molti dei quali rap- presentavano il Gerarca in un prato, con fiori e animali. I bambini cominciarono a eccitarsi. I loro sguardi e le loro parole si caricaro- no di eccitazione. Ci fu un silenzio seguito da un altro silenzio, più breve, durante il quale una leggera brezza fece vibrare i fogli appe- si alle pareti.

Domandarono: anche Ramona (la loro insegnante di disegno) si suiciderà? Risposi: sì bambini, Ramona un giorno si suiciderà; ma non temete, quando ciò accadrà probabilmente non sarà più la vostra insegnante di disegno. La classe rumoreggiò ancora. Poi qualcuno disse: noi vorremmo assistere al suicidio ® di Ramona adesso . Ramona guardò in direzione della finestra, sfilandosi un braccialetto dal polso. Dissi ma come, non volete bene alla vostra insegnante di disegno? Rispose uno dei bambini: Ramona ha già provato a suicidarsi tre volte con una calibro 22 che porta sempre con sé, ce l’ha raccontato lei. Aggiunse un altro: aveva un bambi- no piccolo. Un altro ancora: in altri termini, perché impedirle di 127 andare in Un Posto Migliore subito , se lo desidera tanto? Ramona si accarezzò il vestito, una gonna scura con fiori azzurri e abbozzò un’occhiata alla classe. Dissi: il suicidio ® è una questione terribil- mente intima, bambini, e non dovrebbe usarsi mai, o quasi mai, a scopo dimostrativo o come un’esibizione di morte. Ramona guar- dò la sua borsetta. I bambini dissero andiamo, Ramona, fallo ora . Lei infilò una mano dentro la borsetta ed estrasse un rossetto luci- do e succoso. Mi avvicinai fino a sfiorarle il vestito, poi dissi: bambini, in qualche circostanza anche non suicidarsi è un atto di estremo coraggio. Ramona si passò il rossetto sulle labbra e un con un bel sorriso sensuale chiarì ai suoi alunni il valore della vita.

128 VITA FELICE DI BUTIRRO CIAROFF

Lo chiamavano ebete, patatucco, ‘sto scimunito, e addirittura la madre nana, il padre beota (ma ebreo), tanto che all’età di dodici anni gli era stato chiamato il Rabbino Rosterlig “affinché gli to- gliesse la sciocchezza”. Ma quello per tutta risposta sentenziò le seguenti parole (riportate con scrupolo dalla cugina Lea): “non c’è niente da fare. In nome di Dio nessuno può essere venuto al mondo tanto felice, neppure il Mashìach in persona”. Gli rimase così la sciocchezza.

Biografia spicciola – S’ingobbì, il Butirro, verso i sedici. E si ritro- vò con una scalogna che gli rendeva le mani simili a quelle di un cadavere rimasto a mollo per tre mesi in uno stagno. Ma appariva ai più, e a chi lo aveva sempre tra piedi, specie agli amici e ai cugi- ni, avvolto da un’aura di serenità imperforabile, un acciaio inox che lo teneva al riparo da quel senso di profondo malessere che un ben vigliacco dio ci ha donato in quanto razza superiore (sic). Una malattia che lo rendeva inviso a tutti i Polipettoj e a tutti i Koru- moj di questo lurido mondo, abituati a smignottare dalla mattina alla sera per guadagnarsi un gruzzolo degno di questo nome, tal- mente ossessionati dai soldi, questi figli di nomenclature retro- stampate o di errate corrige, da schifarsi per ogni forma di felicità improvvida (specie se derivante da sentimenti puri come nel caso del Butirro). Cercavano di vivere, i miserabili, con la goccia di feli- cità che cade insieme alla rugiada di dio una o due volte l’anno, ri- servandosi di gustarla solo nelle feste più importanti, quelle che consentivano la sveglia alle dieci del mattino e un pranzo con la migliore bottiglia di vino. Ma il Butirro. Lui era il male. Così infer- nale, condannato a provare gioia per un cielo stellato, per le nubi temporalesche, per cirri e cumulonembi, per gli animali da fattoria e da grondaia, amante degli insetti dei coleotteri degli scarafoni e persino dei raffreddori (che ti fanno restare a casa di fronte al ca- mino a pregare, a guardare i film dell’orrore e a giocare a ruba- mazzo). E patatuccava avanti e indietro mangiandosi le unghie, 129 con lo sguardo da patarasso per cui tutti ormai lo conoscevano (e i più lo evitavano come la peste, tanto che fu difficile trovargli un lavoro che gli permettesse di campare). Ma Butirro Ciaroff era davvero un ragazzo d’oro, talmente buono e disponibile che a venticinque anni si era già convertito sette volte: lui, ebreo per nascita, era stato due volte cattolico, due volte iscariotico, due volte testimone di Geova e una volta, anche se per due sole settimane, ateo. Possedeva la tessera di otto partiti politici e pregava cinque volte al giorno, non solo banali tefillòth, vigorosi modè anì lefanèkha al mattino o stanchi hashkivènu la se- ra, ma padri nostri a ripetizione, atti di dolore ed eterni riposi infi- niti, uno per ciascuna delle persone passate a miglior vita che ave- va avuto la fortuna di conoscere. E santificava tutte le feste, il Na- tale, San Bertran de Born Conquistatore e il Rosh Hashanà Laila- nòt, celebrato specialmente dai contadini ebrei insediatisi nei din- torni di Pizzengo. Insomma magnificava la grandezza del Creato, il Ciaroff, in tutte le sue manifestazioni. Ma più che altro celebrava e rispettava lo zio, il rabbino di Pizzengo Carlo Josef Cia- roff, l’uomo che lo aveva fatto circoncidere a quattro anni, l’uomo che era rimasto zoppo nella sala del teatro di Scurzolengo (adibita a sinagoga) quando il 10 di Tishrì del ’77 un castrocozzese non gradì un suo sermone e gli spappolò un ginocchio con un shofàr. Erano anni che Padre Ciaroff soggiogava al suo volere il mal- capitato nipote, umile e costernato per ogni volta che aveva com- messo peccato, lui che si aspettava dal regno dei cieli pace e bene per tutti gli uomini di buona volontà, imponendogli digiuni che lo avevano reso più secco di una ramazza e costringendolo a priva- zioni che avrebbero incarognito il più santo degli uomini. Povero Butirro, e dire che era provvisto d’un ottimismo illimitato, aveva una fede salda e irreprensibile. Anche il giorno in cui il Dottor Calcoj gli trovò una colonia di piattole disseminata tra i peli del pube e sotto le ascelle: a guardarlo c’era da non crederci, così in- namorato della natura e delle sue creature da non dar peso ai pru- riti che lo costringevano a raschiarsi la pelle, alla vergogna cui fu sottoposto, all’ostracismo delle ragazze, alle maldicenze dei giova- ni di Castrocozzo, peraltro più luridi di lui, che non si facevano pregare per deriderlo. Era stata quella puttana della Carla, si mor- morava, ad attaccargliele, lei che di piattole ne gestiva un alleva- 130 mento. Ma il Butirro niente. Neppure un leggero moto di ribellio- ne, una smorfia. Neppure un capello fuori posto o un nervo scos- so. Aveva preso a prestito una piccola lima dal Vanni poiché le unghie ormai non gli bastavano più, e passava il tempo a grattarsi, scrostandosi la pelle e lodando la magnificenza della terra. Amava i temporali, il Butirro, e sovente fuggiva sulla collina più alta della zona, dove si sentiva libero, per lunghe camminate o ripide discese da far impallidire gli scalatori professionisti. E a quelli che gli chiedevano sempre cosa detestasse lui rispondeva Amo i recinti e i boschi, le darsene e i mattugi, i pastori e i libri, amo mormorii not- turni e bisbigli che mi destano nel cuore della notte e amo gli alambicchi e le mattonelle di casa mia, i crogioli gli essiccatoi e le cannelle dardifiamma, amo la carta sì ho molta carta, telata oleata pergamenata filigranata vergata e zigrinata e amo i cappelli le re- clame e i necrologi davvero tantissimo mi fanno impazzire e amo la goffratrice l’offset e la policilindrica sì amo anche Fortran Co- bol Ada e Pascal come farei senza di loro e m’innamoro di tutti gli artropodi che conosco sì conosco migliaia, milioni, di odonati me- galotteri e dermatteri e miliardi di planipenni e lepidotteri e ano- pluri e strepsitteri, che grande compagnia mi fanno, almeno credo, e amo gli alberi piegati dal vento, il vento, gli alberi da frutta e i lo- ro frutti e per ciascuno di questi le singole parti, ‘al ha’etz we’al borè perì ha’etz, almeno quelle che conosco vediamo amo molto il pericarpio la polpa borè perì ha’etz la scorza il mallo e il picciolo e amo i verbi imbozzacchire bacchiare e imbacare e mi piacciono i vasi cribosi e legnosi e il felloderma e l’alburno e senza dubbio apprezzo moltissimo il gettamento l’esserci e la vecchiezza, si pro- prio la senescenza e stravedo per i denti i denti i denti e ho perfino fotografie di appendiabiti palloni orpelli perché amo anche loro e godo dell’odore del refrigerio e dell’ombra, ripulisco caldaie teg- ghie pentole e piattelli perché amo tutti questi oggetti e onoro mio padre e mia madre specie quando li sento mugolare nella stanza a notte fonda se pensano che stia dormendo, e amo dormire, sve- gliarmi, andar dal dentista, ho la collezione completa di Tex, Dy- lan Dog e Martin Mystère perché amo i fumetti specie della Bo- nelli ma in fondo li amo tutti, perché amo anche templi e pagode e le cattedrali delle quali poi amo pèrgamo sacello lunetta e cappella e non potrei non amare i campanili e ancora pinnacoli ventarole e 131 campane di montagna soprattutto dove ci sono il ranuncolo la po- tentilla e il mirtillo orecchia d’orso insieme al maggiociondolo al non-ti-scordar-di-me o miosotide che-dir-si-voglia e all’achillea borsa di pastore eccetera eccetera. Insomma fin da quando era bambino era stato costretto a subi- re l’onta del culto, le privazioni della religione e le angherie di uno zio tanghero e rabbino. Poi aveva aiutato nel podere degli Umbilk, dopo la morte di tutti i suoi famigliari, tra tacchini e trattori. Ma adesso tutto era cambiato. Ora che si era trasferito a Sab- bione e aveva un lavoro coi fiocchi al Ministero Suicidi & Festivi- tà ®, viveva di un panteismo superiore che lo ergeva al di sopra di ogni meschinità umana. Sospirava per le nascite e le morti, passava le giornate a spedire verificatori sulla scena di un suicidio ® e le notti a caccia di temporali. Ah il superiore potere della natura! I lampi, i tuoni, la grandine che sfracella al suolo squarciando l’asfalto, generando pozze cui la primavera donerà vita! Questa è la nostra terra, la nostra religione! Che m’importa della libertà, se dio è in ogni cosa? Quando mi viene da piangere rido! Perché mi resteranno da vivere cento, centoventanni al massimo, e voglio vi- verli alla grande, con lo sciroppo per la tosse nella tasca dietro.

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“T UTTI SAPEVAMO COME ANDAVA A FINIRE ”

Ovvero della vicenda (Kafkiana? Orwelliana? Borgesiana? Altri suggeri- menti?) che travolse Butirro – Una mattina Butirro Ciaroff, impiegato presso il Reparto Immagazzinamento e Notifica Clausole 99 del Ministero Suicidi & Festività ®, ricevette una busta inviata da una ricca vedova di nome Catherine, la quale per ringraziarlo della sua premura (organizzò una splendida clausola 99 al marito) gli fece dono di un biglietto per la Giostra del Peccato del mese successi- vo. Butirro, manco a dirlo, adorava i cavalli, i cavalcatori, il gusto del terriccio lordato di sangue; ma adorava anche i tacchini selvati- ci, i contestatori, i rappresentanti e addirittura gli informatori far- maceutici, coi quali peraltro non ebbe mai nulla a che fare. Non fu dunque turbato quando il suo diretto superiore del Reparto Ispe- zione Immagazzinamento e Notifica Clausole 99, tale Hubertus, gli confiscò il biglietto adducendo diritti di anzianità e preminenza nella scala gerarchica dell’Ufficio. Hubertus Liveroj, caporeparto di cinquantasette anni, tenne il biglietto nel taschino della sua ca- micia d’ordinanza all’incirca un quarto d’ora, fino a quando il suo diretto superiore del Reparto Controllo sui Regali a Dipendenti non minacciò d’intentare un procedimento per corruzione nei suoi confronti. Il meschino Hubertus consegnò senza indugio il bigliet- to e si giustificò facendo il nome di Butirro Ciaroff, il quale fu convocato d’urgenza dallo staff interrogatori del Reparto Control- lo sui Regali. Uscito dal suo gabinetto (uno stambugio tre metri per due con vista sul cortile interno), Butirro dovette salire otto rampe di scale, percorrere nove corridoi e quattro disimpegni pri- ma di giungere a destinazione. Nonostante gli piacessero l’attività fisica, il sudore, la spossatezza dei muscoli, non poté fare a meno di notare l’enormità del palazzo: la Torre Ottagonale (che altri chiamano Palazzo del Ministero Suicidi & Festività ®) si compone infatti d’un numero indefinito, e forse infinito, di piani esagonali, con vasti ballatoi di ventilazione nel mezzo, orlati di ringhiere in- tarsiate a mano. Da qualsiasi piano si possono soltanto immagina- re i piani superiori e inferiori, accessibili mediante ascensori ma- 133 novrati da addetti specializzati (essi manovrano non soltanto ver- ticalmente, ma anche obliquamente e orizzontalmente). La distri- buzione dei dipartimenti, dei reparti e dei settori nei piani è varia- bile. Nella maggior parte dei piani novantanove gabinetti, in ra- gione di quindici per lato tranne quello più a nord, che ne conta nove, coprono tutti i lati meno uno; ogni piano, pur mantenendo fede alla propria geometria, ha una disposizione particolare e ca- ratteristica, variando rispetto agli altri per altezza e decorazioni. Il lato libero dà su una serie innumerabile di corridoi che portano a un altro piano, identico e invariabilmente diverso da tutti gli altri. A destra e a sinistra di ogni corridoio vi sono due stanzini. Uno è lo stanzino dei moduli; l’altro è quello dei timbri. Allo stesso modo per ogni piano i ballatoi variano di numero, e le scale di forma architettonica, risultando a spirale in un piano e a rampe elicoidali in un altro, in altri ancora a chiocciola oppure a gradoni sfalsati, ecc. In quel luogo caotico Butirro faticò non poco a trovare l’ufficio nel quale doveva recarsi, ma alla fine ci riuscì: era l’ufficio del Ca- po del Reparto Controllo sui Regali a Dipendenti, tale Norbertus Walser. Questi lo fece accomodare su una sedia in finta pelle e parlando con voce monotona dall’altra parte di una scrivania, so- pra la quale si stagliava un ritratto del Gerarca, disse: “Mi dica, Ciaroff, stiamo parlando di corruzione?”. “No, signor Caporepar- to”, rispose Butirro. “E di cosa stiamo parlando?”. “Un semplice dono per la gentilezza con cui è stato trattato un cliente, Signore”. “Si spieghi meglio, Ciaroff”. “La signora aveva fatto alcune richieste particolari e io ho fatto in modo di accoglierle”. Il caporeparto Norbertus sfregò una ma- no sull’altra, con tono solenne. “Che genere di richieste?”, do- mandò. Butirro rispose prontamente: “Una poesia. Una poesia di Ezra Pound con accompagnamento di contrabbasso”. “Ma bene. E per quanto riguarda i costi?”, domandò il capore- parto. “Ho inviato il verificatore Jonah Bumeroff, musicista a tempo perso, buon contrabbassista, per risparmiare sulla diaria di un mu- sicista esterno. Ho procurato io stesso il libro di Ezra Pound con- tenente la poesia richiesta”, disse Butirro.

134 Il caporeparto Walser prese una lunga boccata d’aria e iniziò a scuotere il capo. “Dipendente Ciaroff, contrassegno ottomilaventinove, le ri- cordo che il suo compito è quello di inviare numero due verifica- tori laddove è richiesta la loro presenza per la verifica di una clau- sola 99. Il suo compito non è quello di accogliere richieste partico- lari. Cosa sono queste stronzate? Poesie e contrabbassi? Per que- ste scemenze è attivo il Reparto Richieste Eccezionali, e a quanto mi pare di capire non è stato interpellato. Il collega ne sarà piutto- sto seccato, poiché a loro piace organizzare quel genere di spetta- colini in punto di morte, mentre agli altri reparti, a quanto mi ri- sulta, non piace affatto. E allora per quale ragione lei si è preso la briga di organizzare uno spettacolino per dementi in punto di morte? Forse allo scopo di ottenere un biglietto di tribuna per la Giostra del Peccato, Ciaroff? Forse perché un pezzente come lei non potrebbe altrimenti permetterselo? Non risponda, Ciaroff. Non aggravi la sua posizione, la prego. Ricapitoliamo, Ciaroff: la sua mansione al Ministero Suicidi & Festività ®, Reparto Smista- mento Verificatori e Notifica Clausole 99, è quella di inviare nu- mero due verificatori laddove è richiesta la loro presenza per la ve- rifica di una clausola 99. Quando il lavoro è stato fatto, lei deve accertare che tutti i documenti siano in regola, con tanto di firme, timbri e quant’altro, e redigere un rapporto che girerà al reparto superiore al suo, che è il Reparto Ispezione Notifica Clausole 99. Lei non deve assolutamente preoccuparsi della soddisfazione del cliente, non deve assolutamente dimostrare di fare o di poter fare neppure un grammo di lavoro in più di quello che è pagato per fa- re. Ci siamo capiti, Ciaroff?”. “Ci siamo capiti, caporeparto Walser”, disse Butirro. In quel momento un buffo addetto al recapito comunicazioni consegnò un foglio di carta al caporeparto. Norbertus impiegò un tempo innaturale per leggerlo, e alla fine alzò lo sguardo verso Bu- tirro. “Ci sono tutte le peculiarità per un’accusa di corruzione”, disse. Butirro non sembrò capire. “Ad ogni modo qui dice che questo biglietto dev’essere immediatamente consegnato al reparto Controllo Ispezioni Interne”. Il buffo addetto prelevò il biglietto con una pinzetta, lo introdusse in una busta bianca e uscì dalla stanza. “E anche lei, Ciaroff”, proseguì il caporeparto. “Deve pre- 135 senziare istantaneamente al reparto Controllo Ispezioni Interne, settore interrogatori, gabinetto quattordici”. Butirro tentennò, come non sapesse di preciso cosa fare. “Istantaneamente è già passato, Ciaroff”, disse il caporeparto indicando la porta a Butirro, il quale si alzò dalla comoda sedia e si ritrovò sbatacchiato nel gorgo di corridoi e ballatoi del Palazzo Suicidi & Festività ®. Ado- rava il viavai dei dipendenti che fuoriuscivano dagli uffici per ri- versarsi negli ascensori, nei corridoi, negli androni. Era una sensa- zione di velocità che rispecchiava magnificamente la filosofia futu- rista del Gerarc ato. L’androne nel quale si fermò brulicava respon- sabilità, ergonomia, efficienza. Lì vide uno che conosceva e dopo averlo cerimoniosamente salutato gli disse: “Devo salire al reparto Controllo Ispezioni Interne, settore interrogatori, stanza quattor- dici, sai dove si trova?”. L’uomo non sembrò riconoscere Butirro, inoltre sembrava molto indaffarato, ma decise comunque di per- dere qualche minuto per fornirgli l’informazione. “Il piano dei Gabinetti Gerarc ali delle Comunicazioni si trova dalla parte oppo- sta del ballatoio nove, proprio laggiù, dietro l’angolo. A ovest c’è il Gabinetto delle Decisioni, il quale risulta attiguo al Gabinetto dei Risarcimenti, costituito dal Gabinetto dei Reclami e dal Gabinetto dei Legali. Salendo al piano superiore si incrocia il Gabinetto dell’Economia e proseguendo per otto corridoi ti ritroverai di fronte al Reparto Cause Eleggibili di Suicidio ®. Quattro piani a est si trova l’ascensore numero trecentoquarantaquattro: prendendo quello e scendendo di sette piani sarai sparato direttamente nel cu- lo del Reparto Controllo Ispezioni”, disse. “Grazie”, disse Butirro. Ma in quel momento un tizio pelato con bretelle rosse e verdi in- tervenne dicendo: “Siete pazzi! Intanto il ballatoio laggiù è il di- ciannove, non il nove. Inoltre la via migliore per il Reparto Con- trollo Ispezioni è passando per il Gabinetto Spedizioni! Si prende l’ascensore e si esce al dodicesimo piano di fronte al Distaccamen- to del Dipartimento Nettezza Umana, si percorrono cinque corri- doi in direzione sud sud-est e si svolta a sinistra seguendo le indi- cazioni per il Reparto Igiene Morale. A questo punto si trova l’ascensore trecentoventuno, lo si prende, si scende di due piani obliquamente e ci si ritrova proprio di fronte al Reparto Controllo Ispezioni!”.

136 Butirro era piuttosto confuso. Lasciò il suo conoscente e l’uomo dalle bretelle a discutere e cominciò a percorrere il corri- doio, finché raggiunse il ballatoio diciannove. Lì voltò a sinistra e si ritrovò di fronte a un Banchetto Informazioni Clienti. Era affa- scinato dalla bellezza delle hostess e dal profumo che proveniva dalle loro divise. Credette di riconoscere fragranze di violetta e la- vanda, ma forse si trattava di lavanda e basta. Non domandò la via migliore per raggiungere l’ufficio nel quale lo stavano attendendo poiché vide le giovani donne indaffarate a laccarsi le unghie; deci- se così di non disturbarle. Quando infine raggiunse il Reparto Controllo Ispezioni le nu- vole si erano prese il cielo, e una giornata che era iniziata con un sole luminoso prometteva un temporale straordinario. Nel frat- tempo il suo orario di lavoro era terminato da qualche minuto, ma non se ne curò. Il lavoro prima di tutto! Si disse. Fu accolto da due giganteschi uomini in completo scuro. Entrò nell’enorme ga- binetto e notò la raffinatezza degli arredi: quadri fiamminghi alle pareti, poltrone foderate in tessuto pregiato, pavimento di legno, ecc. Ciononostante non lo fecero accomodare in quel piccolo pa- radiso. Dal lato ovest del gabinetto si aprì una piccola porta, che attraverso un’angusta galleria conduceva in una stanza attigua, molto spaziosa e interamente vuota. Gli uomini in completo scuro richiusero l’entrata e Butirro rimase solo; era davvero rapito dalla solitudine che quelle pareti trasmettevano, si meravigliò di quanto un locale vuoto possa sembrare vuoto quando è davvero vuoto, ovvero spoglio di ogni cosa. Si interrogò se almeno l’ossigeno e gli acari della polvere, i microbi o i virus avrebbero potuto coloniz- zarlo, ma non seppe rispondersi. Tutte le pareti della stanza, com- presi il pavimento e il soffitto, erano di un colore che non seppe distinguere. Aveva qualcosa del grigio o del bianco sporco. Era fe- lice di essere lì, poiché pensò che l’oppressione è ciò di cui un es- sere umano ha bisogno per sperimentare la libertà. Dopo un quarto d’ora circa, durante il quale Butirro pensò alla bellezza del nulla come un utero pronto a essere fecondato, entra- rono nella stanza due uomini. Il primo, sulla cinquantina, portava la giacca del Reparto Controllo Ispezioni; il secondo aveva un aspetto duro e indossava guanti di pelle, un particolare che Butirro notò subito (era infatti giugno). 137 “Vuole sedersi?”, domandò quest’ultimo a Butirro. “Ne sarei molto felice”, rispose Butirro. “Del resto anche restare in piedi non mi dispiace affatto”. Fecero portare una sedia. “Ciò che noi facciamo”, disse l’uomo del Reparto Controllo Ispezioni, “è controllare le ispezioni che i reparti a noi inferiori ef- fettuano sui reparti a loro inferiori. Qualcuno a noi superiore si occupa di controllare le nostre ispezioni, ma questo a lei non inte- ressa”. “In questo caso”, disse l’altro uomo, “abbiamo scoperto che lei ha ricevuto un bene privato in cambio di un servizio pubblico”. “In realtà”, disse Butirro, “ho fornito un servizio pubblico e succes- sivamente ho ricevuto un bene privato a titolo di riconoscenza”. I due si consultarono. “Non ti pare che sia la stessa cosa, Jeff?”. “Mi pare davvero la stessa cosa, Monk”. Butirro cercò di interve- nire ma uno dei due uomini gli intimò di tacere. “Tra l’altro mi pa- re, Jeff, contraddicimi se sbaglio, che, essendo la stessa, anzi la stessissima cosa, l’imputato abbia confermato pienamente di aver ricevuto il bene privato in cambio di un servizio pubblico”. “In pratica confermando le accuse, Monk”. Fecero ancora cenno a Butirro di tacere. “Nello stesso tempo è chiaro che questo bigliet- to”, disse l’uomo dallo sguardo duro estraendo coi guanti il bigliet- to dalla busta, “trascende la nostra giurisdizione e autorità”. “Sono perfettamente d’accordo con te, Monk”, disse l’altro. “Dal momento che l’imputato conferma l’accaduto non ci ri- mane che passare la pratica al Reparto Questioni Delicate”. A quel punto entrò di nuovo l’uomo buffo con la pinzetta, pre- se il biglietto, lo introdusse nella busta e uscì dalla stanza. “Buona giornata, Signor Ciaroff”, disse il tizio con l’espressione dura. “Buona giornata a voi”, rispose Butirro piuttosto confusamente. “Al Reparto Questioni Delicate la stanno aspettando”, disse l’altro tizio. “Scusatemi per tutto”, disse Butirro. Questa semplice afferma- zione procurò nei due uomini uno sconvolgimento impensabile. Fecero cenno a Butirro di non uscire dalla stanza e iniziarono a confabulare tra loro. Si domandarono se fosse il caso di chiamare un religioso, o almeno un filosofo, per comprendere il significato profondo di quell’asserzione apparentemente banale. “La sua af- fermazione cambia le cose”, disse uno dei due uomini. “Ma il re- 138 parto di competenza rimane lo stesso”, disse l’altro. “Penseremo noi a comunicare questa nuova informazione all’ufficio competen- te”. “Vada pure”, conclusero. Butirro uscì dalla stanza vuota e fu risputato nel caos dei corridoi. Il temporale si stava avvicinando. Poteva scorgere gli alberi frustati dal vento attraverso le trentatré finestre (una ogni tre gabinetti) del piano ottagonale in cui si tro- vava. Sperò di concludere la questione in tempo per correre in ci- ma a qualche collina e ammirare i fulmini. Impiegò circa un’ora a trovare il Reparto Questioni Delicate. I soliti due uomini in completo scuro (non gli stessi di prima, altri due), lo fecero entrare nel Gabinetto Centrale Questioni Deli- cate e accomodare su una pratica poltroncina rossa. Ad attenderlo c’era un uomo distinto, sulla quarantina, capelli brizzolati, vestito elegantemente. “Il problema è che lei, Signor Ciaroff, si è assentato dal lavoro per quasi cinque ore”, disse subito, senza neppure guardarlo. “Quattro ore e cinquantadue minuti”, disse la segretaria dell’uomo distinto, una bella ragazza in tailleur blu e camicetta bianca. “Bene, Corinne”, disse l’uomo distinto; “comunque il suo diretto superio- re Robertus, Dagobertus, Herbertus…”. “Hubertus”, intervenne la segretaria. “Hubertus. Bene, Corinne”, disse l’uomo distinto, “come diavolo si chiama non ha importanza; ciò che importa, ec- come, è che questo Heribertus, il suo diretto superiore, nel rappor- to di metà pomeriggio ha comunicato al Reparto Competenza Orari Lavorativi, il quale lo ha comunicato a Corinne, la quale lo ha appena comunicato a me, che lei oggi ha lavorato soltanto quattro ore”. Butirro cercò di parlare, ma l’uomo distinto gli fece cenno di tacere. “Non dica niente, Signor Ciaroff. Il problema è che questo biglietto, che lei ha ricevuto in cambio di una presta- zione lavorativa non di sua competenza e oltretutto non autorizza- ta, adesso è qui, sulla mia scrivania. Mi sembra una questione ab- bastanza delicata, e perciò è di competenza di questo reparto, ac- centuata dal fatto che lei ha ammesso, in presenza dei colleghi del Reparto Controllo Ispezioni, la sua presunta colpevolezza”. Anco- ra Butirro cercò di parlare e ancora l’uomo distinto gli fece cenno di tacere. “Siamo in un bel guaio”, disse. “Un guaio consistente nel fatto che la presenza di questo biglietto è una grave trasgres- sione al codice del nostro Ufficio. Sa cosa dovrò fare? Dovrò in- 139 viare il biglietto al Gabinetto Annulli, il quale lo girerà al Gabinet- to Valutazioni, il quale lo manderà al Gabinetto Incenerimenti, il quale finalmente lo distruggerà sotto gli occhi dei Commissari Speciali e del Magnifico Rettore, i quali sono gli unici al di sopra di ogni sospetto, a parte il Magnifico Gerarca, s’intende. Sa quanto tempo ci vorrà? All’incirca tre mesi”. Butirro tradì un’espressione di stupore. “Si stupisce, Ciaroff? Stiamo parlando di un provvedi- mento d’urgenza”, disse l’uomo distinto. Poi comunicò per mezzo di un computer con la segretaria, e di lì a un minuto entrò ancora il buffo uomo delle comunicazioni, che afferrò il biglietto con la solita pinzetta, lo introdusse nella solita busta e lasciò la stanza. “Ma in fondo, quello che più ci sta a cuore”, proseguì l’uomo distinto, “non è tanto il biglietto, quanto la sua posizione, signor Ciaroff”. “Beh…”, disse Butirro. “Oh, non si deve assolutamente preoccupare”, intervenne l’uomo distinto; “del resto la pratica di mia competenza si è già risolta nel momento in cui ho preso l’unica decisione possibile riguardo al biglietto (distruggerlo, natu- rellement ). La pratica inerente alla sua posizione non mi riguarda minimamente. Il Reparto Orari Lavorativi avrà già aperto un fa- scicolo a suo nome per l’assenza ingiustificata dall’ufficio, mentre il Reparto Gestione Comportamenti avrà senz’altro aperto un fa- scicolo a suo nome per l’appropriazione del biglietto e per la sua indebita richiesta di perdono, la quale è una strepitosa aggravante al suddetto reato”. La segretaria intervenne e disse: “Signor Ciaroff, è atteso al Re- parto Gestione Comportamenti per un processo immediato. Ecco la ratificazione”, porse un modulo a Butirro. “Che ci devo fare?”, domandò Butirro. “Una firmetta qui e una sul retro, qui”, rispose la segretaria. “Buona giornata, signor Ciaroff”, disse l’uomo distin- to. “Buona giornata”, disse Butirro; poi fu accompagnato in corri- doio dai soliti tizi in completo scuro. Il temporale era già finito. Dalle finestre vide squarci d’azzurro e alcuni mezzi del Diparti- mento Nettezza Umana sfrecciare in strada. Provò un moto di grande ammirazione per gli agenti della pulizia umana, che con il loro duro lavoro contribuivano a rendere luminosa e profumata la città. Salì un paio di rampe, prese tre ascensori e dopo qualche imba- razzo riuscì a trovare il Reparto Gestione Comportamenti. Quan- 140 do entrò nel gabinetto-tribunale si trovò di fronte nove pretori in altissima toga cerimoniale e parrucca ufficiale. Un usciere scianca- to gli spiegò che le operazioni di giustizia interna richiedevano il supporto di almeno nove pretori. Lo stesso usciere lo fece sedere di fronte al banco dei pretori, e per qualche istante la sala fu invasa da un silenzio carico di immaginazione. Butirro immaginò molte cose, tra cui le splendide sere di mezza estate trascorse sulle mura del castello di Sabbione in compagnia dell’amica Eileen. Poi il fragore di un martello sbattuto sul legno del banco inter- ruppe ogni immagine e annunciò l’inizio dell’arringa dei pretori. “Per quanto riguarda l’assenza dal posto di lavoro”, disse il primo giudice, “riteniamo che essa sia del tutto ingiustificata”. La sua voce era piuttosto esile, quasi bianca, e avrebbe suscitato l’ilarità di chiunque. Ciononostante Butirro pensò che con una vo- ce simile avrebbe potuto senz’altro fare il cantante. “Per quanto riguarda la richiesta di perdono avanzata”, disse il secondo pretore, “riteniamo che essa sia stata inidonea ai dettami dei codici del Ministero Suicidi & Festività ®. Siamo stati costretti a interpellare un esponente della Dottrina Cattolica sul Perdono per avere ragguagli sul suo esatto significato, che noi non conosciamo. Poiché il chiarimento dell’esponente cattolico ci è sembrato insuf- ficiente siamo stati costretti a convocare d’urgenza un esponente dell’esistenzialismo contemporaneo. Questi ha tirato in ballo dot- trine che non ci sentiamo di condividere. In tutta franchezza, Si- gnor Ciaroff, noi di questo perdono non ci abbiamo capito nulla; ma il fatto di non averci capito nulla è sufficiente a farci conside- rare l’ipotesi che si tratti di una cosa contraria alla condotta proto- collare del collegio da noi presieduto e di conseguenza contraria alla legge morale, civile e sociale del Gerarcato di Sabbionasso”. I nove giudici restarono in silenzio per qualche attimo. “Per quanto riguarda la questione dell’appropriazione di un be- ne privato in cambio di un servizio pubblico”, disse il terzo preto- re, “riteniamo che il fatto sia di rilevanza massima, di gravità supe- riore, di interesse giudiziario”. “Pertanto”, disse il quarto pretore, “deliberiamo quanto se- gue”.

141 “Il dipendente Butirro Ciaroff”, disse il quinto pretore, “sarà soggetto a Ostracizzazione Ufficiale per condotta contraria allo spirito del Gerarcato di Sabbionasso”. “Ora può tornare a casa”, disse il sesto pretore. “Dovrà pre- senziare tra nove giorni alla lettura pubblica della bolla d’ostracizzazione, la quale verrà redatta dai nostri compilatori uffi- ciali di documenti”. “Nel frattempo potrà continuare a lavorare”, disse il settimo pretore. “Naturalmente rinunciando al salario”, disse l’ottavo pretore. “Buona giornata”, disse il nono pretore. “Buona giornata a voi”, disse Butirro. “Tutti sapevamo come andava a finire”, disse l’usciere scianca- to a Butirro, “ma bisogna pur concedere qualcosa al protocollo. Il protocollo, alle volte, è uno spasso”. Butirro lo guardò, sorrise e fece per uscire. “Non dimentichi la copia della sentenza”, disse la dattilografa. Butirro prese una copia della sentenza e fu un’altra volta risuc- chiato dai corridoi del Palazzo, tra gente che procedeva spedita, telefoni che squillavano, uomini in soprabito, ecc. Rovistando nella tasca della giacca trovò il cartoncino colorato che accompagnava il biglietto per la Giostra. C’era scritto: “Gentile Signor Ciaroff, ha mai assistito dal vivo alla Giostra del Peccato? È deliziosa! Tacchini decapitati da nobili cavalcatori, una sontuosa parata con carri allegorici e magnifici costumi. E poi il Gerarca in persona a inaugurare le celebrazioni! Sono certa che gradirà questo piccolo omaggio: è il biglietto di tribuna centrale numerata (a pochi metri di distanza dalle autorità e dai divi della televisione!) che la Massoneria Rotariana Sabbionassa dona ogni anno a mio marito per la sua lunga militanza nell’associazione. A lui, evidentemente, non serve più. Sua, Catherine Julie Chamach de Nouveau Chateaux”.

142

Notifica d’Ostracizzazione 11

Oggi, Giornata delle Esperienze Superflue IPhone 4 G, alla pre- senza del Sostituto Gerarca ovvero Magnifico Reggente, dell’Arcivescovo di Sabbione (essendosi l’imputato dichiarato in un’ultima battuta cattolico, nonostante il cognome chiaramente ebreo), del Notaio, di numero sette miliziani Gerarcali, del procrastinato- re, del dottore, del traduttore, dell’ostracizzando Butirro Ciaroff di anni quarantaquattro, residente a Sabbione in Viale della Terza Cerchia, impiegato presso il Ministero Suicidi & Festività ®, Dipar- timento Accertamenti, Settore Inoltri, Reparto Smistamento Veri- ficatori e Notifica Clausole 99, del di lui avvocato d’ufficio e di un numero imprecisato di parenti del suddetto, tra i quali si contano un padre, uno zio e alcuni cugini, procedo alla lettura e alla notifi- ca della Bolla Gerarc ale d’Ostracizzazione numero 777636/67 nei confronti del suddetto Butirro Ciaroff di età già menzionata, resi- dente a eccetera, nato a Castrocozzo, giudicato reo di essersi ille- gittimamente impossessato di un bene privato (individuato dalla Giuria in un biglietto di tribuna centrale per la Giostra del Pecca- to) abusando del proprio incarico pubblico, risultando tale fatto di gravità massima secondo l’inappellabile e insindacabile Collegio Penale del Gerarca:

– Por la aŭtoritato da Eldonejo Extremissimum en la persono unu kaj unu sole da Super Imponega Hierarko da Sablàs,

11 Mantengo qui per completezza d’informazione la notifica di ostraciz- zazione nell’originale in esperanto, dacché naturalmente tutte le notifiche d’una certa rilevanza effettuate nel Gerarcato di Sabbionasso hanno mantenuto la dicitura esperanta – tenendo presente che l’esperanto sab- bionese varia in alcuni vocaboli e costruzioni fraseologiche rispetto all’esperanto canonico. I corsivi si riferiscono agli Atti Ufficiali del pro- cesso sommario per ostracizzazione avvenuto alla presenza dell’ostracizzando e di altre figure. 143 « Per l’autorità dell’Editore Ultimissimo nella persona una e so- la del Magnificentissimo Gerarca del Sabbionasso, »

– de la princoj, de la baronoj, de la grottoj, de la ĉampio- noj, de la dukoj kaj la ĉefdukoj, de la episkopoj, de la ataŝea al la krizo, ministroj, ĉevalo preparoj, cantonoj, kancelieroj, de ĉiuj che- ruboj kaj la anĝeloj, de la preĝantoj de Kopros, de la rabenoj kaj multaj aliaĵoj produkte, ne kre, de la sama substanco de la Patro,

« dei principi, dei baroni, dei grottaferrati, dei paladini, dei du- chi e degli arciduchi, dei vescovi, degli addetti alla sicurezza, mini- stri, palafrenieri, cantonieri, cancellieri, di tutti i cherubini e gli an- geli, degli adoratori di Kopros, dei rabbini e di molte altre cose generate, non create, della stessa sostanza del Padre, »

« Un momento », disse l’avvocato, « E i conti dove li mettiamo?» « I conti », disse il notaio, « sono stati usurpati nell’anno millenovecento- settantanove dal nostro Beneamatissimo Gerarca, insieme ai re, agli industria- li e ai sindacati, indi per cui – i conti – non hanno diritto ad alcuna forma di autorità ». Sembrava molto seccato per l’interruzione – il notaio – ma sen- za battere ciglio riprese a declamare la bolla.

« Per l’autorità di tutti quanti aventi diritto » proseguì il notaio,

– ven pren li de la gorgo de ĉiu patologio sciata kaj klasifik en la Sablàs Enciklopedio de la malsanoj infektaj, ne infekta, de la sama substanco de la morb.

« venga egli preso dal gorgo di ogni patologia conosciuta e clas- sificata nell’Enciclopedia Sabbionassa delle Malattie infettive, non infettive, della stessa sostanza del flagello. »

– Ni ĝi dejectumus kaj de la sojlo de la Oktagono Palaco tuj kiam restarig en ĝia antikva grandiozeco la ostrakamus de ĉiu domo, vojeto kaj palaco, de ĉiu malplenaĵo, truo kaj naĝejo, de ĉiu keletaĝo, arbo kaj rivero,

144 « Noi lo deimmunizziamo e dalla soglia del Palazzo Ottagonale appena restaurato nel suo antico splendore lo ostracizziamo da ogni casa, vicolo e palazzo, da ogni interstizio, buco e pozza, da ogni sotterraneo, albero e fiume, »

– de ĉiu publika kvadrata, vojo kaj vinberujo, de ĉiu con- dominio, duĉambro kaj monolocal, de ĉiu kontraŭleĝa subtegmen- to, kabano kaj streĉ Kanada, de ĉiu pliiĝ, monteton kaj inund, de ĉiu slargo, arbovico avenuo kaj bulvardo,

« da ogni piazza, strada e vigna, da ogni condominio, bilocale e monolocale, da ogni sottotetto abusivo, capanna e tenda canadese, da ogni monte, collina e palude, da ogni slargo, viale e boulevard, »

– de ĉiu drinkejo, botego kaj kino, de ĉiu biblioteko, pu- blika ĝardeno kaj vendejo, de ĉiu ofico, stacio kaj loko de sekto de la Teritorio Hierarkio da Sablàs, ĉar li povas suferi turmentojn de la eterna kaj konstanta ekzilo.

« da ogni locale, bottega e cinema, da ogni biblioteca, pubblico giardino e negozio, da ogni ufficio, stazione e luogo di culto del Territorio Gerarc ale di Sabbionasso, perché possa patire i tormen- ti dell’esilio eterno e perenne. »

« Quindi », disse l’avvocato, « una cuccia per cani non sarebbe proibita. » « Assolutamente proibita, » disse il notaio, « in quanto compresa nel no- vero dei monolocali. » « Un marciapiede? » « Proibito in quanto compreso nel novero delle strade, o dei vicoli.» « Una cantina? » « Proibita in quanto compresa nel novero dei sotterranei. » « Una tomba? Una bara? Un sarcofago? » « Proibito tutto, in quanto compreso nel novero dei buchi. » « Una bara non è un buco. E neppure un sarcofago. » « Proibito in quanto compreso nel novero delle costruzioni giacenti su ter- reno sabbionasso, al pari delle latrine Gerarc ali, le discariche Gerarc ali, i lo- culi Gerarc ali, le tane di citello, salamandra, talpa o grillotalpa, e ancora tutte 145 le torri, le palafitte, le grotte, i pied a terre, i boudoir, i bordelli, i manicomi, i nosocomi, gli ospedali, i canili, i gattili, le stie, le aie, le gabbie, gli zoo, i cara- vanserragli e qualunque forma di ristorante, osteria, bar tavola calda, bar ta- vola fredda (già peraltro abbondantemente compresi nel novero dei locali), di locanda, albergo, ostello, rifugio, riparo, pensione, meublè, hotel, cascina, ca- scinale, agriturismo. » E una casa colonica? Compresa nel novero delle abitazioni. Una villetta schiera? Compresa. Un trilocale? Un quadrilocale? Compresi. Un cottage? Compreso. È tutto compreso? Tutto. E una dispensa? Compresa, compresa! È compreso tutto!

A questo punto intervenne il Sostituto Gerarca ovvero Magnifico Reggente, che intimò di proseguire. Il notaio riprese a leggere con tono solenne.

– Ni ĝi la ostrakamus de ĉiu de ĉiu drinkejo, botego kaj kino, de ĉiu biblioteko, publika ĝardeno kaj vendejo, de ĉiu ofico, stacio kaj loko de sekto de la Teritorio Hierarkio da Sablàs, ĉar li povas suferi turmentojn de la eterna kaj konstanta ekzilo.

« Noi lo ostracizziamo da ogni locale, bottega e cinema, da ogni biblioteca, pubblico giardino e negozio, da ogni ufficio, sta- zione e luogo di culto del Territorio Gerarcale di Sabbionasso, perché possa patire i tormenti dell’esilio eterno e perenne. »

– Kaj ekde la Tero rotacir sur si kun senĉesa moviĝo, sekve ĝi vol dev esti senĉesa ĉiame vaganta por la abismoj de la mondo ĉiame kaj por, krom se ili ĉiuj mortigas la tridekok melea- groj de la Tago de Peko, estanta li restebla kulpo de la unio de ĉiuj kaj tridekokjara la mortigaj pekoj establis de Nia Super imponega Hierarko kaj ankaŭ Eldonejo Extremissimum por la aktuala jaro, 146

« E come la terra ruota su se stessa con moto incessante, così avrà d’essere incessante il suo peregrinare per gli abissi del mondo sempre e per sempre, a meno che non vengano decapitati tutti e trentotto i tacchini votivi della Giostra del Peccato, essendo la sua colpa passibile dell’unione di tutti e trentotto i peccati capitali sta- biliti dal Nostro Magnificentissimo Gerarca nonché Editore Ulti- missimo per l’anno in corso, »

– ducenti duodecimus fasti Hierarkio, bis-millesimus ter- tium fasti gregorianorum, bis-millesimus tertium et menses quat- tuor fasti iscarioticorum, ter-millesimus quadrigentesimus fasti judaeorum, sescenti septuaginta duo milies ducenti vigenti septi- mus et menses novem fasti coproliticii, sexes milies centina milia quadringenti centies miles quingenti quinquaginta quartus praeter plerique menses fasti qui deos esse negat, ne en uzi de quinquagin- ta jaroj sed teno en todos officiala dokumentoj da pariigiton de nia Superbenamatejo Hierarko.

« dugentoduodecimo del calendario Gerarcale, duemilaterzo del calendario gregoriano, duemilaterzo e mesi quattro del calen- dario iscariotico, tremilaquattrocentesimo e mesi sei del calenda- rio ebraico, seicentosettantaduemiladuecentoventisettesimo e mesi nove del calendario coprolitico, sei miliardi quattrocento milioni ottocentosettantanove mila e cinquecentocinquantaquattresimo più svariati mesi del calendario Ateo, non in vigore da settantadue anni eppure mantenuto in ogni Bolla Ufficiale d’Ostracizzazione per volere del nostro Beneamatissimo Gerarca. »

– Meti en ekzilo ĉiuj malbonokazoj eldiris de ĉiuj magii- stoj, ĉiuj profeta iuj, la fattukioj, la klarvidkapabla, la divinatoj, la rava iuj kaj la negromantoj, ĉiuj transmet, la mallards, la harpies kaj la ammaliioj, ĉiuj stregoni, la legantoj de mano kaj la evocatori de morto, kun la kondiĉo ke ili ekzerc almenaŭ blanka, ruĝa, nigra magio, ritoj voodoo, satanismaj ritoj kaj vario malbenojn,

« Si porti appresso in esilio tutte le iatture proferite da tutti i maghi, tutti gli indovini, i fattucchieri, i veggenti e i chiaroveggenti, 147 i divinatori, gli incantatori e i negromanti, tutte le streghe, le ma- liarde, le arpie e le ammaliatrici, tutti gli stregoni, i lettori di mano e gli evocatori di morte, a patto che esercitino almeno magia bian- ca, rossa, nera, riti voodoo, riti satanici e maledizioni varie, »

– kaj al met poste la mikroboj kaj la parazitoj tio, ke mul- tiĝ sur la Teritorio Ke mi ne dezir mi povas nomon pli en ĉeesto de la pariigita; estas infekt de la tuta rondo de la venereal malsanoj, ĉiuj lebbronoj de Marituba, ĉiuj formoj de malvarma, sinusito, la- ringito por ke povus pripens lia malmodera peko.

« e si porti appresso i germi e i parassiti che proliferano nel Territorio ch’io non nomino in presenza dell’ostracizzato; lo con- tagino tutta la cerchia delle malattie veneree, tutti i lebbrosi di Ma- rituba, tutte le forme di raffreddore, sinusite, laringite e faringite affinché possa riflettere sul suo smodato peccato. »

– Gi forgesas la turojn de Sablòn, Sankta Bertran de Born kvadrata kaj la vojoj tio, ke tie ili renkont, ĉiuj pelvoj de la rivero Atanor, ĉiuj montetoj, la kornicoj, la porcelano, kaj forges la viri- noj kaj la viroj, la infanoj, la hundoj kaj la katoj kaj la bekamortoj sablàs,

« Dimentichi per sempre le torri di Sabbione, Piazza San Ber- tran de Born e le vie che ivi confluiscono, tutti i bacini del fiume Atanor, tutte le colline, i cornicioni, le porcellane, e dimentichi le donne e gli uomini, i bambini, i cani e i gatti e i beccamorti sab- bionassi, »

– ĝi forges la koloroj kaj la gustoj, la odoroj, la radiado produktita de sepdek naŭdekdu ripetiloj, la voĉoj, la sonoj, kaj forges la tramoj, la trejnistoj, la aŭtoj, la ĉaroj de la frukto, kaj ĝi forges la akvomelonoj, la melonoj, la tomatoj, la zukinoj, la flor- brasikoj, la karotoj kaj ĉiu alia speco de legomoj tio, ke kresk sur la fekunda kaj plej riĉa teritorio de Sablàs.

« dimentichi i colori e i sapori, gli odori, le radiazioni prodotte dai settecentonovantadue ripetitori, le voci, i suoni, e dimentichi i 148 tram, gli autobus, le automobili, i carri della frutta, e dimentichi i cocomeri, i meloni, i pomidori, gli zucchini, le verze, i cavolfiori, le carote e ogni altro tipo di verdura che cresca sul fertile e ricchis- simo territorio di Sabbionasso. »

– Ĝi forgesas la nomojn de la vojoj kaj landoj, la nomo de la ĉefurbo ke mi ne estos citi prefer la forgeso ĝis de ĉi tiu mo- mento, la nomoj de la preĝejoj, de la diino, hospitaloj, kaj ĝi forge- sas la flowerbeds, la floroj, la fagoj kaj la sloes kaj la magnolias kaj la oak arboj kaj ĉiuj aliaj arboj tio, ke trov nutranta sink la propraj radikoj sur la teritorio super menci, kio Mi vol evit de ĉi tiu mo- mento menci al prefer la forgeso ĝi flanken de la de la pariigita.

« Dimentichi i nomi delle vie e dei paesi, il nome della capitale ch’io non citerò più per favorirne l’oblio fin da ora, i nomi delle chiese, degli dei, degli ospedali, e dimentichi le aiuole, i fiori, i fag- gi e i pruni e le magnolie e le querce e tutti gli altri alberi che tro- vino nutrimento affondando le proprie radici nel territorio sopra menzionato, ch’io eviterò da ora di menzionare per favorirne l’oblio da parte dell’ostracizzato. »

– Kio estas li infektis de la influo birdejo kaj de la herpes zoster, la poliomjelito kaj kun la epatite A, B kaj C.

« Che sia egli contagiato dall’influenza aviaria e dall’herpes zo- ster, dalla poliomielite e dall’epatite A, B e C. »

– Estas okupita de la fajro de Sankta Antonio, severe de gorĝo, kun la apendicito, kun la brucio da stomo kaj kun la mal- bona al ĉiuj dentoj, muela dento kaj caninoj, incisoroj kaj de la juĝo, kun agarikoj de la haŭto, ĉagrenoj, angino kaj ischema.

« Venga preso dal fuoco di Sant’Antonio, dal mal di gola, dall’appendicite, dal bruciore di stomaco e dal male a tutti i denti, molari e canini, incisivi e del giudizio, da funghi della pelle, irrita- zioni, angina e ischemia. »

149 – Estas okupita de tricomonio, sifilizon, clamidio, blen- norrhoea, gonorrhoea, gastrito kaj devas, kaj estas infekt de in- somnia, senpoveco, rosilio, reŭmatismoj, sulkoj, scabio kaj sarso, scolio, stitiero, diarrea kaj gastrito, alopeco, astmo, bronka kataro kaj dermatito.

« Venga preso da tricomoniasi, sifilide, clamidia, blenorragia, gonorrea, gastrite e gotta, e sia contagiato da insonnia, impotenza, rosolia, reumatismi, rughe, scabbia e sars, scoliosi, stitichezza, diarrea e gastrite, alopecia, asma, bronchite e dermatite. »

– Estas okupita kun emorruoj, sciatico, neurosis, obeze- con, ortika, Parkinson, Alzheimer kaj Gaerig, mitochondria, mio- peco kaj menstruoj.

« Venga preso da fortuna (questo termine fu in principio tradotto ma- lamente, poiché in esperanto sabbionese fortuna si può anche dire emorroj, ma fu subito corretto dal traduttore) , volevo dire venga preso da emorroidi, e venga preso da sciatica, nevrosi, obesità, orticaria, paranoia, Par- kinson, Alzheimer e Gaerig, ipocondria, miopia e mestruazioni »

– Estas okupita de aphtha epizooica, nodular dermatosi, pesto bovoj, ovinoj, equinoj kaj malsano de Fendiĝo Valo, fiuloj brucello, fiuloj cysticerco, encefalomielo, atropo rhinito, blua mal- sano, trichinello, bonamiaso, aplosporidio, marteilio, mikrocyto, perkinso .

« Venga preso da afta epizooica, dermatosi nodulare, peste bo- vina, ovina, equina e malattia della Rift Valley, brucellosi suina, ci- sticercosi, encefalomielite, rinite atrofica, morbo blu, trichinellosi, bonamiasi, aplosporidiosi, marteiliosi, mikrocytosi, perkinsosi. »

– Kaj estas okupita, ole, kun acido putran, antracno, origitan flavescenzo, filosso kaj infekta muskolaro, rusto kaj fu- maggo, apopleco, griza muldilo, induratio peniso, balanopostite.

« E venga preso, anche, da marciume acido, antracnosi, flave- scenza dorata, filossera e maculatura infettiva, ruggine e fumaggi- 150 ne, apoplessia, muffa grigia, scabbia, induratio penis e balanoposti- te. »

– Povas la malbonon de nia amata Hierarkio kaj ĉiuj ĝiaj nenombreblaj dioj eterna ellasi ĉiuj ĉi tiuj malbonokazoj kaj multaj aliaj ne kovrita en ĉi tiu veziko por la bonfarto de mallongeco. Do ĝi estas decidita, Hurao la Hierarko, Hurao Ni, ĝi estas, faris la vo- lon de la Hierarko! Hurao Ni! Hurau Ni!

« Possa la ferocia del nostro amato Gerarcato e di tutti i suoi in- numerevoli numi imperituri scatenargli contro tutte queste sventu- re e molte altre non contemplate nella presente bolla per amor di brevità. Così è deciso, evviva il Gerarca, Evviva Noi, così sia, sia fatta la volontà del Gerarca! Evviva Noi! Evviva Noi! ».

151 MICHEL PETRUCCIANI CONTRARIO ALLA NATURA

Pioppi. E tamerici, peri, meli, ciliegi. Quando la sterile nube gonfia d’elettricità si dissolse il reveren- do Kok appoggiò la valigia sull’erba secca della bordura. Aveva una foglia aggrappata alla giacca. Guardò la corriera allontanarsi sulla camionale determinando il balbettio ferramentoso di una rin- ghiera arrugginita. Si voltò verso il vialone che per gli indigeni significava l’arditezza della gioventù e la baldoria delle serate spensierate. I detestati pioppi. Squadrò il boschetto che vietava la vista della vallata. I pioppi erano dappertutto. A file, a schiere, a drappelli, da ornamento per le vigne, l’uno pareva sorreggere l’altro, come i soldati d’una trup- pa che fossero stati chiamati sull’attenti. Pioppi a perdita d’occhio, insomma. E le libagioni che si facevano, all’ombra di quei pioppi! E le divinità prevaricatrici che s’erano ammansite alla vista di quei pasciuti villanzoni ricoperti di pelame e privi dell’idea di Dio! Die- de ancora uno sguardo abbattuto all’insieme del cortile, al bo- schetto, alle vigne, ai campi marci d’acqua. Si fermò a fissare il trogolo. Poi si diresse verso la piazzetta con passo svelto. Ed eccola, la chiesa, barocca come un incisione del Piranesi o una veduta del Canaletto, stagliarsi nel cielo ozonizzato del Sab- bionasso; la canonica gli sorgeva addossata, dimessa. Ora sembra- va implorare una rinascita, una nuova linfa. Ma prima c’era da ri- metterlo a nuovo, quel parrucchino di casa, posticcio e maleodo- rante, simile a un’armatura cinquecentesca, pesante e disperante. Era stato il celebre reverendo Kokloj, barocchista ed emerito teologo, a disegnarne gli interni, in combutta con qualche demo- niaco architetto.

152 Kok passeggiava, lento, nel grande parco. Un vento vigoroso dalle montagne gli sferzava il volto e costringeva gli occhi alle la- crime. Vicino al pozzo, tra il passadizzo e lo stagno, poco distante dal porcile, una folla di parrocchiani s’era accalcata all’esterno della palizzata, fremente di conoscere il nuovo sacerdote. Scrutò il muro di cinta come se fosse un corazziere di ritorno dal fronte arabo: un tempo robusto e impenetrabile, armato di fili spinati e tensione elettrica da incenerire un cinghiale, oggi non era altro che un muro mezzo sbreccato, più che altro un bastione da passeggio per lucertole, le quali gorgogliando silenziose uscivano dai buchi incicciati d’erba per zigzagare obliose e ruvide come car- ta vetro tra i cocci di bottiglia al colmo del muro, quasi smussati, logori, che ormai non servivano a repellere manco il più fesso dei ladri. Si diresse velocemente verso la cappella che conteneva i poveri resti dei sacerdoti che lo avevano preceduto, nove in tutto, e si fermò in preghiera: ora la struttura giaceva a meno di tre metri da lui, circondata da gramigna e ortiche. Il rinzaffo del di dentro ave- va generato un microcosmo d’insetti, vermi e formiche. Più in al- to, sopra il marciume della porta, il crocifisso di ferro battuto pa- reva arrugginito, storpio come il ramo di un albero in cancrena. Sotto, tra l’erbacce, una bisciotta di campagna strascicava tra i ciottoli dipinti a mano, in tutto felice dell’appoggio artistico, gioio- sa di sbavare sui resti d’un’antica gloria. S’indignò scalpicciando in direzione della canonica, dove si produsse in tonanti lamentele col sacrestano, un tizio zoppo e sdentato che sembrava completamente privo del commercio della parola. Infatti non disse nulla. Il reverendo fu colto da un tuffo al cuore. Com’era stato possibile, si chiese. Come, Gesù Santo. Finire nell’immondezzaio della religione, nell’inferno della periferia, in quel ruvido paesucolo di allevatori da quattro soldi che avrebbero scambiato la trinità per un forcone arrugginito. E tutto per quell’innocente vezzo di intrattenersi con bambinetti e bambinet- te. Tutto un malinteso, un sottile tranello che il demonio gli aveva teso con l’inganno e l’astuzia. Lui che aveva studiato duramente, 153 che era stato a un passo dalla tonaca vescovile, che amava la bib- bia. E dopo tutto Gesù Cristo non aveva forse detto lasciate che i bambini vengano a me? Luca, 18, 16. Le stesse parole che anche lui aveva pronunciato al solo scopo di proteggere quelle innocue creature dagli orrori della vita adulta. E non era forse una pena sufficiente l’attrazione sessuale che si costringeva a reprimere nei confronti delle bambine? Era un tor- mento insopportabile. E se magari anche Gesù dovette convivere con quel cruccio? Del resto era un uomo come tutti, pisciava e ca- cava come gli altri uomini, giacché quello era il senso dell’incarnazione: la tremenda prova dei bisogni e delle passioni. La necessità di mangiare e bere, quella di dormire, l’urgenza di emettere rumori imbarazzanti dalle chiappe. E seppure il peto di Gesù Cristo doveva essere un peto sacro, era pur sempre un peto! Pensò alla piccola che lo aveva sedotto pochi mesi prima del suo trasferimento forzato. Non era successo nulla. Nemmeno un’innocente carezza. Eppure al vescovo era bastato scrutare nei suoi pensieri impuri per sancire il suo immediato allontanamento. Per quale ragione nessuno riusciva a capire che il demonio lo ave- va messo alla prova, e lui era riuscito a divincolarsi? Aveva sentito l’urgenza di masturbarsi per allontanare Satana, non per provare piacere! Successivamente aveva provato a comporre una melodia per pianoforte, ma non era riuscito a cavarci granché. L’aveva intitola- ta L’urgenza della tentazione .

La perpetua entrò nella sua stanza col caffè senza bussare. Si- gnore, pensò, in questo posto non c’è la benché minima privacy. Scese dal letto in punta di piedi, infreddolito. Durante la notte non aveva chiuso occhio, e appena riuscito a trovare un po’ di pace quella squallida donnaccia era furtivamente penetrata nella sua in- timità per servirgli quella brodaglia schifosa. Non disse messa per dodici giorni. Durante quel periodo il sa- grestano non batté le campane perché, disse, non aveva ricevuto istruzioni. 154 Che diavolo ci va a suonare una campana, domandò il reveren- do quando la perpetua gli presentò le lamentele dei cittadini. Il tempo è sempre quello da cento milioni di anni. Anche di più, disse la perpetua. Il sagrestano non diceva niente. Kok lo percosse. Poi diede istruzioni dettagliate affinché allo scoccare di ogni ora il sagrestano si adoperasse per battere le cam- pane. Allo scadere di ogni singola ora avrebbe dovuto afferrare la corda che pendeva dal culmine del campanile, e allo scadere di ogni singola ora avrebbe dovuto tirarla, e sempre allo scadere di ogni singola ora avrebbe dovuto verificare che l’ora fosse corretta, cioè avrebbe dovuto tirare la corda tante volte quante erano le ore trascorse dall’inizio del giorno. I giorni iniziano a mezzanotte anche quaggiù? Domandò. Non ebbe risposta. Gesù, sono tornato al medioevo, si disse. Santo Signore ti pre- go, mi scarnificherò, porterò il cilicio un mese intero esclusi i lu- nedì se mi allontanerai da questo posto immondo dove non esiste neppure un meccanismo automatizzato per le campane. Pregò dodici ore filate guardando il cielo, bellissimo, pieno di scorie e al- tri ammennicoli, elaborando mentalmente una sonata che intitolò Cielo distante di periferia . Non disse messa per altri nove giorni. Li trascorse invece ad ascoltare Live at the Village Vanguard (vol. 1 e vol. 2) di Michel Pe- trucciani. Quando la perpetua gli domandava cosa stesse ascoltando ri- spondeva che il sublime non ha forma, e anche il più storpio e immorale degli esseri viventi può essere dotato da Dio di grazia e armonia. Che ascoltasse Petrucciani, per la miseria! Aveva pensato di diffondere Le Bricoleur de Big Sur tramite gli altoparlanti della cappella. Tuttavia la perpetua non era interessata al jazz. Gli comunicò che il sindaco di quel lurido paese desiderava conferire con lui.

155 Signor Reverendo, signore, disse il sindaco. Ricordi che questo è il paese del celebre poeta Pavlo Eugheno Zuberoj! Morto impic- cato al campanile di questa stessa chiesa ed esposto alla carezza delle intemperie per tutto un inverno. Pavlo Eugheno Zuberoj. Scandì ogni singola sillaba del nome e del cognome. E chi diavolo è? Pensò Kok. L’ennesimo barbaro imbastardito villoso e prepotente. E per di più impiccato. Ciononostante, anche se il solo pensiero gli procurava emicra- nie e tremori, decise che era giunto il momento di conoscere i par- rocchiani. Lasciò che la perpetua gli servisse la consueta tazza di caffè, poi imboccò uno dei vicoli che dalla chiesa conducevano verso il cen- tro del paese. Le file di case seguivano percorsi casuali lungo le strade rattop- pate e regnava un silenzio quasi perfetto, interrotto solo dallo sgocciolio di alcuni vasi sistemati sui balconi più alti. Tuttavia a Kok quello parve un rumore fastidioso, quasi insopportabile. Os- servò le persiane: il sole tagliava le case in due metà oblique. Il primo individuo che incrociò era un tizio sporco che si por- tava appresso la moglie come si portano a spasso i buoi. L’individuo vide Kok ed esclamò: Questo è il paese del grande Pavlo Eugheno Zuberoj! Poi rifilò un colpetto alla chiappa della moglie e la condusse lontano dallo sguardo di Kok. Si trovavano in una piazzetta semicircolare invasa dalle mo- sche. Qualcuno aveva conficcato nel terreno un uomo di pietra con baionetta in spalla e un soldato ferito in groppa: il tempo ave- va provveduto a trasformarlo in un mostro deforme e sporco co- me un metalmeccanico. Della baionetta non restava che una flebile traccia da ricostruire filologicamente, e il tizio ferito che l’uomo di pietra stava traspor- tando si era raggrumato sulla schiena, tanto che pareva una gobba obbrobriosa. Kok pensò alla mostruosità di Petrucciani e si con- vinse a odiarlo.

156 Un branco di bambinetti si rincorreva schiamazzando attorno a un pozzo al centro della piazza.

Kok camminò cogitabondo per centinaia di metri senza che il suo sguardo incontrasse anima viva, e infine notò un drappello di immondi indigeni accalcati attorno a una primitiva costruzione di pietra grezza. Decise di avvicinarsi. In questo luogo sono morte generazioni di piccioni, gli disse un tizio. Per qualche motivo tutti i piccioni del posto si recavano pro- prio tra i muri pericolanti di quel cubicolo per morire. In quel momento c’era un piccione moribondo che si arrabat- tava nel guano, e quaranta uomini ne stavano scrutando ogni sin- golo movimento. Si può sapere cosa succede? Domandò Kok. Studiamo la morte, disse un agricolo col muso impiastricciato di grasso. I dettagli sono importanti. Passò un trattore con rimorchio carico di carcasse maleodoran- ti. Qualcuno gli spiegò che si recava a spargere resti animali sui campi. Non pioveva da dieci mesi, dissero. Ogni settimana nubi grandi come tre giornate di vendemmia avvolgono il paese, spiegò un ti- zio, il cielo tuona che pare la fine del mondo, ruggisce, scorreggia fulmini e lampi. E alla fine non piscia neppure una goccia d’acqua. Niente di niente. I campi hanno bisogno di concime. Non poteva credere alle sue orecchie, ai suoi occhi. Quei rozzi si esprimevano come scimmie, e la sua patria era divenuta un luo- go di feroci depravazioni. Dov’era adesso quel dio benevolo che si era costretto a pregare? Dov’erano la moralità e la saggezza? Il trattore cambiò marcia, e uno sbuffo di gasolio lo stordì.

157 Una donna scheletrita gli si avvicinò e utilizzando una voce la- cerante come una sirena disse: Quando pensa di dire messa, reve- rendo? Kok montò su tutte le furie. Si rivolse ai bravacci che stavano ancora ammirando inebetiti il piccione moribondo e tuonò il primo sermone da quando aveva messo piede in quell’inferno: Tremate zoticoni! Lui arriva! L’ombra della notte cade su di voi! Voialtri fittavoli e voialtre arpie cattoliche da quattro soldi, non pensiate che basti farfugliare una preghiera o sbrodolare retti- tudine ciondolando la vostra zucca vuota verso un tempio per in- gannare il Mashìach. Non vi basterà far tintinnare i vostri rosari o intonare canti d’eterno riposo quando si tratterà di entrare nel Malkhùth Shaddài. Egli sa tutto. Egli sta arrivando per giudicarvi! Egli Arriva! Arriva! Arriva! E voi, miserabili pezzenti, contadinacci e braccianti, miserevoli tutti, impomatati e brillantinati, voi spian- tati che vi sciogliete per un alito di vento e siete pronti a ricacciare la testa nel peccato appena girato l’angolo, voi laggiù in coda per un posto sul banco del pianto, voi che frignate per uno stramale- detto piccione, proprio per voi laggiù Egli ha già pronta una lezio- ne coi fiocchi: sarete i primi a essere spediti in villeggiatura tra le sabbie dell’Inferno, quando si accorgerà dell’errore che ha com- messo il giorno in cui vi accordò il privilegio della vita! Gli abitanti rimasero immobili. Qualcuno nonostante tutto per- severava nel gettare l’occhio in direzione del piccione moribondo, che nel frattempo era stramazzato sul cadavere di un altro piccio- ne.

Malkhùth Shaddài? Domandò qualcuno.

Quando gli montava la rabbia, Kok era solito tirare fuori ter- mini ebraici. Nei periodi di serenità si esprimeva in cattolicese, nei periodi di frustrazione in ebraico. Altre volte, quando si sentiva particolarmente giù, gli saltavano fuori termini propri dei Testi- moni di Geova, o addirittura dei bruti musulmani.

158 Regno di Dio , specie di sozzi ignoranti, disse. Poi prese a camminare velocemente in direzione del torrente che tagliava in due il paese. Desiderò che il suo Dio fosse un Dio tremendo e vendicatore, che fosse il Dio di Sodoma e Gomorra. Ma no. Il suo era un Dio mansueto, era il Dio del Perdono e della Comprensione. Era quello stesso Dio che aveva concesso il dono del sublime a Michel Petrucciani, quello stesso Dio che gli aveva infuso una passione erotica irresistibile per le seienni con le guan- ciotte e le trecce ai capelli. Un Dio impostore! Mi farei schiacciare da cento meteoriti infuocate, pur di poter ridere sulle macerie di questo luogo, pensò. Quando giunse in riva al torrente, lungo la passeggiata logora, due pescatori tentarono di attaccare bottone, ma Kok non li de- gnò neppure di uno sguardo; camminava a passo spedito cercando di modulare Three forgotten magic words , e si imbestialiva per il fatto di non riuscirci.

Un vecchio fissava il vetro sbreccato di una pensilina, roteando la testa e gli occhi dal centro della ragnatela fino ai bracci, ripeten- do il movimento incessantemente. Kok dovette trattenere l’impulso di schiaffeggiarlo.

Capitò nel cortile di una casa diroccata. Un cartello indicava che quella era stata la casa natale di Pavlo Eugheno Zuberoj. Udì battere le quattro. Subito guardò il suo antico orologio da taschi- no, dono di suo nonno a suo padre e di suo padre a lui. Le undici. Pensò che quel luogo avrebbe dovuto sprofondare nelle forre de- gli inferi il prima possibile. Una vecchia sbirciò dalla finestra della casa, poi richiuse le ten- de. Kok non se ne curò; lesse l’iscrizione sulla lapide intirizzita e scheggiata al centro della corte:

Nella stagione morta nessuna certezza o morire come poeti di ferro arrugginito 159 o vivere come uomini di cartapesta. Sulle rovine di questo impero di fiori e di lune ho seminato la mia sterile anima.

Pavlo Eugheno Zuberoj

Questi poeti da quattro soldi, pensò. Tornò sui suoi passi per la stessa stradaccia. Il vecchio stava dondolando, o barcollando, di fronte al vetro della pensilina. Kok superò i due pescatori che di nuovo tentarono di attaccare bottone e di nuovo non furono degnati di uno sguardo. Fece una sosta per scrutare l’orizzonte, i campi brulli, le tartufaie infinite. Vide un trifolao mentre camminava accompagnato dal proprio cane. Tumori degli alberi! Esclamò. Questo sono i tartufi. Maledetti mangiatori di tartufi! Immediatamente dopo una violenta nausea procurata dalla lon- tananza dei palazzi di Sabbione, delle automobili, del traffico, gli salì fino alla bocca. Dovette chinarsi per vomitare. Superò il luogo dove andavano a morire i piccioni. Era deserto. C’erano due o tre piccioni freschi e mucchietti di ossa, piume amalgamate col guano, ali spezzate e minuscole biglie nere che un tempo erano occhi. I piccioni hanno più dignità nella morte di questi vigliacchi paesani, pensò. Abbozzò un improvvisazione per pianoforte inti- tolata La morte del piccione , e cercò di immaginare come l’avrebbe composta Petrucciani, ma non ci riuscì.

Quando entrò in chiesa si gettò ai piedi di un crocifisso e pregò che Dio Padre Onnipotente allungasse una mano e disfacesse tut- to. Che un peto celeste spazzasse via case e campi. Che un angelo sterminatore si facesse largo tra i campagnoli seminando zoppie e ascessi.

160 Dopo cinquanta minuti di preghiere si alzò. Tirò fuori l’orologio dal taschino, si avvicinò alla fune campanaria, la afferrò con entrambe le mani e cominciò a tirarla con tutta la forza che aveva. Sentì la schiena crocchiare, i muscoli indolenziti. La perpetua entrò in chiesa. Per l’amor del cielo, disse, cosa sta facendo? Chiamo a raccolta i cittadini, rispose Kok. Ma oggi? A quest’ora? In questo momento.

Si avvicinò all’altare, aprì il tabernacolo, afferrò un’ostia, la spezzò e la lanciò tra i banchi vuoti. Quando tornò in canonica la ditta di traslochi aveva consegna- to il suo Steinway. Si guardò le mani. Dio mio, mi hai donato dita robuste come radici di quercia, eppure il pianoforte pretende dita fragili, ossa che si spezzano quando patiscono il confronto coi suoi denti; esso è un dio greco eretico e lascivo, angelesco, ma di un’angelologia infernale. Guardò lo Steinway. Ora pareva che ridesse. E rideva di lui! Lo spolverò minuziosamente, fece come per incominciare a suonarlo, poi decise di no. Accese il concerto al Village Vanguard, si distese sul letto.

Non disse messa per altri ventuno giorni.

161 EIACULAZIONE GADDIANA

Dopo un quarto d’ora il regista urla di aumentare la velocità e io ci provo, ad aumentarla, anche se c’ho la minchia che mi va in fiamme. Il regista si chiama Ron Auard (è un nome d’arte). Tieni, urla Ron Auard, tieni, tieni, cazzo, tieni, mi incita, e io ci provo a tenere, penso alla mia vicina di casa senza tre denti davan- ti e a mia nonna con le gambe gonfie. Penso alle guerre nel mon- do. Penso ai cimiteri, alla morte, ai lutti. Penso alle cosce devastate dalla cellulite della mia vicina di ombrellone al mare. Sto tenendo. Aumenta la velocità, urla Ron Auard, tieni, tieni, e io ci provo, ci provo davvero. Studio mentalmente la griglia di Ruzzle nella parti- ta Gokhan contro Easy77. Tosante, cretosa, presto, isotera, tose- rai, osterai, tosata, cretosi. Sto tenendo. Tasterai, cisterna, tastiera, citiso. Poi non ce la faccio più. Apro gli occhi e vedo i reggicalze di Sandra Sbullok (è un nome d’arte) e non ce la faccio più. Vengo all’istante.

Porcozio! Urla Ron Auard. Porcozio! È la terza volta in tre scene, cristo. Sandra Sbullok sembra perplessa. Tom Cruiser (è un nome d’arte), conosciuto anche col nome di Labrador, se la ride. Ron Auard urla porcozio. I tecnici delle luci scuotono le loro teste di cazzo. Uno dice: se avessi io una nerchia come quello lì ste troiette me le ingropperei quattro ore di fila. Un altro gli risponde: chi ha il pane non ha i denti. Un uomo distinto dice: state muti voi due, andate a farvi un giro. Vanno a farsi un giro. Bambi Love (è un nome d’arte) in un angolo scuote la testa.

Questo giro sono venuto dopo novantasette secondi. Al primo tentativo ero venuto dopo trentuno. Al secondo dopo quaranta- nove. Tra la prima e la seconda eiaculata sei minuti e mezzo. Tra la seconda e la terza nove minuti e cinquantasette secondi, con 162 l’aiuto di un paio di succhiatrici. Totale, anche stavolta una figura di merda, Labrador che se la ride, Ron Auard che si smarrona, Bambi Love che corre a rifarsi il trucco, Sandra Sbullok che si la- menta dello sperma sulla schiena. Il produttore, poi, è tutto un porcozio di qui una vaccaboia di là. Mi accendo una sigaretta. Ci riproviamo? Chiedo. Ci riproviamo un cazzo, risponde Ron Auard. Ho le succhiatri- ci che mi hanno perso sensibilità alla lingua. La rumena scogliona- ta, la bielorussa depressa. Io sono depresso. In sostan- za vaffanculo, fuori tutti dai coglioni, dice, ci vediamo domani. Labrador se la ride. Ha una nerchia che sarà la metà della mia, ma dura dieci volte. E tu vedi di spalmarti il gel ritardante, cristo, che l’ho fatto ar- rivare dall’America apposta, o domani sei fuori. Ma mi procura bruciori insopportabili, dico. Per me potrebbe anche incenerirtelo, cazzo, dice Ron Auard. Non m’interessa se ti diventa viola o blu, m’interessa avere un at- tore che non mi spruzzi dopo dieci secondi. Temo sia colpa della mia educazione cattolica, dico. Ha presen- te la paura del peccato? Ma vaffanculo te e il peccato, dice Ron Auard. Non me ne fre- ga un cazzo che sei andato a catichismo o che ti hanno inculato i preti, dice. Me ne frego se la tua maestra dell’esilo ti faceva venire nelle mutande leggendoti cappuccetto rosso, dice. Si dice asilo, dico io. Togliti dai coglioni entro tre secondi, dice Ron Auard. Ti sem- bra grammaticalmente comprensibile toglierti dai coglioni in tre secondi, che poi è il tempo che ci metti solitamente a sborrare? Mi tolgo dai coglioni. E spalmati quel gel del cazzo sul cazzo, urla Ron Auard mentre esco.

Se non fosse per il mio pene sovradimensionato mi avrebbero già preso a calci da tempo. Faccio l’attore porno da un anno e mezzo, da quando cioè mi sono presentato a un provino in città e mi hanno immediatamente scritturato appena ho abbassato le mu- 163 tande. Mai vista una vanga del genere, è stato il commento del se- lezionatore. Ci sarebbe da essere soddisfatti. Solo che il mio sogno non è certo quello di trascorrere le giornate con il pene infilato nei per- tugi di estoni e bielorusse.

Il mio sogno è partecipare al raduno per Epigoni di Gadda che si tiene durante la Giornata dell’ Incestasti Isola del Pneumatico (a giugno) presso il Centro Polivalente Culturale Ruzzlemania, ed en- trare a far parte della prestigiosa Accademia Mondiale Gaddiana Ruzzlemania, costola della celebre Associazione Epigoni Gaddiani di Sabbione. Durante la Giornata dell’ Incestasti non si deve possedere la so- rella o la madre sessualmente, come molti erroneamente credono, ma si deve giocare a Ruzzle fino a quando non si sia riusciti a compilare la parola incestasti , dopo di che occorre ripeterla a voce alta fino a caricarla di nuovi e più pregnanti significati, oppure fino a destituirla di ogni significato (ipotesi più plausibile). Che Gadda sarebbe stato un fenomenale giocatore di Ruzzle non vi sono dubbi, come recita una targa posta all’ingresso dell’Associazione: “Carlo Emilio Gadda, scrittore brianzolo, a Ruzzle avrebbe stracciato tutti”.

Tornando alla Scuola di Scrittura Gaddiana *: ho quasi finito il testo necessario per l’ammissione, e dopo che lo avranno valutato sono certo che riceverò una bella lettera con su scritto Benvenuto a bordo! o qualcosa del genere, magari in una forma più gaddiana.

* La Scuola di Scrittura Gaddiana, voluta da un gruppo di membri dell’Edinburgh Journal Of Gaddian Studies per allacciare un ponte tra la sterilità della nostra lingua ufficiale esperanta e la ricchezza della vecchia lin- gua italiana, comprende, ma non si limita a, le seguenti lezioni: terminologia gaddiana; scelte lessicali manzoniane stravolte; aggettivaziòne fisiognomico-descrittiva dei personaggi; tecnica dell’assenza di trama; brianzolità; comica malinconia; 164 ironica tristezza; scapigliata sgrammaticatura; ingegneria applicata alle lettere; neologismi; collage, pastiche e (rudimenti di francese); dialettologia; caoticità universale; tecnica del guazzabuglio.

Insomma, un giorno o l’altro saluto tutti e me ne vado a stare da solo, vicino alla sede della Scuola di Scrittura Gaddiana, in un bell’appartamento col parquet, la televisione satellitare e una libre- ria con i controcazzi. Ma per adesso devo inculare a sangue estoni, rumene e bielorusse, sperando di tenere, e condividere una casa di merda con mia madre, mia zia, mio fratello, mia cugina e mio nonno.

Quando arrivo a casa è prima del solito per cui trovo mia cugi- na Tere che si spacca la testa ascoltando Cesare Cremonini. Mia madre è in cucina che sfornella. Mia zia, in sala ad ascoltare Cesare Cremonini mentre legge una rivista di gossip. Mio fratello in ba- gno ad ammazzarsi di seghe. Mio nonno sul divano rincoglionito sta provando a capirci qualcosa, è magro come una scopa e ha tutti i capelli sparati a de- stra. Sei già a casa? Chiede mia madre. Sono già a casa, dico. Ciao tesoro, dice mia zia. Poi mia madre comincia a piangere, come ogni giorno da quando ha scoperto il mestiere che faccio. Che palle mamma, dico. Ma quella continua a piangere. Mio nonno non capisce un cazzo, mi allunga la mano per pre- sentarsi. Sono tuo nipote, dico. Buonasera, dice lui. Ma vaffanculo, dico io. Non trattare così il nonno! Urla mia madre. 165 E non urlare, dice mia zia. Un figlio zozzo, mi è capitato, dice mia madre. Un figlio che almeno porta a casa qualche quattrino, dice mia zia. Non come quella debosciata di mia figlia che sta chiusa in casa tutto il giorno a fare un cazzo. Ti sembra il caso di usare quella parola? Dice mia madre. Quale parola? Dice mia zia. Quella parola, dice mia mamma. Intendi dire Cazzo ? Chiede mia zia. Ci risiamo. Dovresti vergognarti, con quasi settant’anni, dice mia madre. Quasi settant’anni un cazzo! Urla mia zia. Brutta vecchia rin- secchita. Per tua info: io non ho quasi settant’anni. Ne ho sessan- totto a novembre, cazzo. Ho detto: cazzo, dice mia zia. Mia madre piange. Un figlio zozzo, dice. E pensare che sei andato al catechismo. Ah perché i preti non sono zozzoni? Dice mia zia. Lascia stare i preti, dice mia madre. Ma se sono i primi a far le zozzerie, dice mia zia. Non ti osare, urla mia madre. Mia cugina emerge da uno stato catatonico e mi saluta. Com- plimenti, dice, una mia amica mi ha fatto vedere un tuo film. Grazie, dico. Hai una minchia notevole, dice mia cugina. Tere! Urla mia madre. Ma come ti salta in mente? Mia zia se la ride. Che ho detto? Chiede mia cugina. È quella svergognata di tua madre che ti insegna queste parole? Chiede mia madre. Con venticinque anni non ha certo bisogno che gliele insegni io, certe parole, dice mia zia. Oh Signore Santo, dice mia madre. Cosa fai bestemmi? Dice mia zia. Stai scherzando, dice mia madre. Secondo me hai bestemmiato, dice mia zia. Vero che ha be- stemmiato? Chiede. Mi sa di sì, dice Tere.

166 Cosa state farneticando? Dice mia madre. Signore Santo ti pare una bestemmia? Mi pare una bestemmia, dice mia zia. Vado in bagno e mentre ci vado incontro mio fratello che mi dà un cinque e dice come vorrei essere al tuo posto, le sfonderei quelle topolone. Sei ancora troppo giovane, gli dico. Ma ho una voglia di scopare pazzesca, dice lui. A volte mi vie- ne persino voglia di scopare Tere. Che cazzo ti salta in testa? Vuoi far morire tua madre di crepa- cuore? Gli dico. Mi dai una sigaretta? Chiede. Gli do una sigaretta. In bagno è uno schifo senza senso, capelli grigi ammucchiati in un angolo e assorbenti dappertutto, il cerchione del water sporco di piscio. Torno in cucina. Tere ha un provino da parrucchiera o qualco- sa del genere e sta martoriando i capelli di mio nonno. Andiamo a casa? Chiede il nonno. Ma sei già a casa, nonno, dico. I pasticcini? Dice lui. Che pasticcini? Dico io. Voglio tornare a casa, dice lui. Sei già a casa, cazzo, dico io. Non rivolgerti così al nonno, urla mia madre. Mamma guarda che il nonno non capisce più niente, dico io. Poveretto, dice Tere, mi ricorda i mongoloidi. Cosa c’entrano adesso i mongoloidi, dice mia madre. Volevo dire i deficienti, dice Tere. Ma non ti vergogni di quello che dici? Dice mia madre. E cosa ho detto? Chiede Tere. Mia zia se la ride. Tere mette i bigodini a mio nonno. Ha ancora un sacco di ca- pelli. È proprio necessario? Chiedo io. Domani ho il provino, dice Tere. Mio nonno allunga la mano per presentarsi. Buonasera, mi dice. Che cazzo, dico io. 167 Mia zia se la ride. Come parrucchiera fai davvero schifo, dice a sua figlia. Vaffanculo mamma, dice mia cugina. Che cosa ho fatto di male, dice mia madre. Poi è l’ora della preghiera quotidiana di ringraziamento per cui mia madre ci fa mettere seduti e attacca col suo Padre Nostro quotidiano. Dobbiamo farlo tutti i giorni? Si lamenta mio fratello. Dio va ringraziato tutti i giorni, dice mia madre. E per cosa? Dice mia zia. Zitti tutti! Urla mia cugina. Sullo sfondo la voce di Cesare Cremonini. Mamma quanto m’intrippa sta canzone! Una figata pazzesca! La voce di Cesare Cremonini investe la casa. Mia cugina canta. Mia zia se la ride. Aaaaah da quando Senna non corre piùùù. Mia madre mi guarda e pensa a suo figlio che è uno zozzone. Oooooh da quando Baggio non gioca piùùù. Mio nonno ha due occhi grandi come due palle da tennis. Chi sono io? Gli domanda mia zia. Andiamo a casa? Dice mio nonno. Mia zia se la ride. Chi sono io? Una stronza, dice mia madre. Ma sentila, la suora, dice mia zia. Allora, questa preghiera, dico. Veloce, dice mio fratello. Momento! Urla mia cugina. Non è più domenicaaaaa. Abbozziamo un padre nostro sul tavolo della cucina con co- lonna sonora di Cesare Cremonini. Quando è tutto finito filo in camera vedo il gel ritardante e decido di non spalmarlo. Mi metto al lavoro per limare il testo da presentare all’Associazione Epigoni Gaddiani. Lo rileggo ad alta voce, senza pause, come un’eiaculazione liberatoria, gaddiana, per sentire l’effetto che fa:

“Non prendeva sonno. E i mobili, vecchi e muffiti, parevano impallidire al suo passaggio, quasi come se fosse uno spettro o altra oscura figura a strascica- re gli zoccoli sull’ammattonato; una candela ammollata giaceva sullo scrittoio del marito, presaga d’un futuro d’ansie e dolorî che le pizie avevano già iscritto sul brogliaccio della sua vita. Un tempo era la guerra. Ma dopo un anno, a 168 Castrocozzo, i sibili erano cessati, cessate le ostilità e i ribelli tutti perseguitati; le rimanevano poche fotografie archiviate nella credenza e un marito con un moncherino invece d’una gamba, la sinistra, presa attanagliata dallo scoppio d’una granata. Non prendeva sonno: quella mattina s’era scordata dell’esame del figliolo, un bravaccio cialtrone da du soldi, e l’aveva lasciato uscire senza caffè, il caffè che con amorevole cura gli preparava da vent’anni, vent’anni! L’agonia si faceva lancinante mentre la notte, fuori, prillava i suoi strepiti con un tremito di labbri, mentre la luna e i pianeti tutti davano sfogo a la lor gi- razione, con gran furore d’andare e rivolvere, ch’ella conosceva bene. Guardò dalla finestra: il frugnolar de’ grilli e lo sbrillantar delle lucciole, le coppie d’innamorati capovolti nelle vetture tra le forre e i cespugli, di lontano, come lumicini di pescherecci a largo, nel giallore alfine di quella tremula campagna c’agli occhî si mostrava come prossima alla tenebra, non fosse stato per uno spiraglio lunare ridisceso e rifranto dalla tettoia della rimessa. Il cortile, deser- to e arso, cigolava nell’austero auspicio d’un prossimo temporale, ne’ fasti de’ vecchi flagelli tumultuosi e piovosi, regno del vuoto desolante c’altri chiama so- litudine del mondo. E lei era, per l’appunto, sola. E l’invidioso sgomento per la sciatteria del marito, che mariteggiàndo dormiva profondamente, aumentava il suo malanimo, imbarbarito dalla mestizia del paesaggio. Il sabbionasso. Alti tremolanti cipressi e pioppi dirancati dal vento, ville e villette di svizzeri e milanesi, tombe efferate e trombe di scale vertiginose proiettate sul terreno bru- ciato; le vigne, pasto degli evi ormai dilapidati, mortificati dal tempo che tutto sotterra, parevan biancastre in controluce, spettrali fulgori ringalluzzivano i gatti, gongolanti sul balcone accanto ai gerani fioriti. Un tempo aveva mansio- ni, giù ne’ vasti campi che conducono alla città, e per un po’ il ripulir sangue e il rattoppar gambe e fronti, il cambiar garze e bende, il curare, il cucire e il ri- cucire la tennero occupata. Ma ora più alti e ombrosi sagrìn l’accaneggiàvano, straziandola e dimettendola dalla gioia che mai l’investì per intero; e sì ch’era stata donna e madre, sposa e infermiera, e di notti n’aveva passate più di mil- le, ad aggrottarsi sui tormenti dell’esistere. Più alti oltraggi s’accumulavano, come chicchi l’uno sull’altro, nel suo senno malato, e il suo animo prendeva a violentarsi, cavillando su tutte cose, fossanche l’acqua nel bacile o ‘l foco che talvolta appariva come fatuo sul crinale ovest, financo l’abbrillantar de’ tratto- ri nell’umida valle, in lontananza; il suo respiro si faceva affannoso, ogni zuf- fo d’aria ch’emetteva come un tonfo di rimbombo signoreggiava nel vuoto della camera, echeggiando sui muri: e via di seguito con singhiozzi, convulsioni e borborigmi rauchi e strazianti eppur composti, ovvero esalati senza mutar di tono, affinché potessero confondersi col panorama degli attigui accordi campe- 169 stri. E comunque bastavano a ottenebrare la debole spemuccia che di tanto in tanto tendeva a insinuarsi sottoforma d’effluvi melanzananti, caroteggianti, tomaticheggianti, rievocanti cioè il cuore de’ suoi amati pasti, semplici com le piaceva di farli, in compagnia de’ figli. N’aveva messi al mondo due, e un ter- zo le era nato morto. Ma quei disgraziati! Trattava i momenti della loro fan- ciullezza come cimeli, e ora? Dov’erano, i suoi due tesori, mentre lei agonizza- va, sola, in quella stanza che mai, in passato, le era parsa tanto squallida? Intanto sul colle qualcuno aveva acceso un focherello, e il suo timido bagliore si faceva sempre più vicino; credette perfino di sentire il tepore della fiamma sulla pelle, mentre crepitando sprizzava spari di faville sulla terra; quei figli fara- butti, prole meschina e traditrice, impegnati a gozzovigliare in qualche localac- cio fuoribordo, un si sarebbero ricordati della madre nemmanco si fosse stata lì lì per crepare. Questo era solo uno de’ tanti malevoli pensieri ch’ella ricoglieva e rivoltava e rimuginava come frutto di una inesausta centrifuga. Non prende- va sonno, e il cielo, così adombrato sulle rare nuvole, la travolgeva come un fia- to d’orrore all’udir fantasmi di fastose risatine: s’era fatta festa, in città, e i rimasugli del bagordo ristagnavano nel vento notturno come rinzaffi svaporati e risbuffati dagli aliti della gente festante. Il marito, col moncherino appoggiato sulla sedia, l’orinatoio svuotato da poco, cominciò a russare. L’osservò con re- ticenza, mentre rimovendo il ciuffo di capegli dal viso ammirava il riverbero della campagna, la forra punteggiata d’esuli cumuli di vita, ridondando chiari- tà ormai dissolte nella notte buia. I varî profumi della sua terra l’assalivano teneramente, gelsi e violette, creme e olii, anco vinacce e piumaggi d’oche, anitre e gallinacce. Un clacson dalla camionale la fece sobbalzare, come presa d’un improvviso guizzo d’energia, mentre camminava avanti e indietro sminuzzan- do pensieri come ceneri d’un falò. Poi un altro rumore, monotono, dalla casci- na: un ometto la cui figura si stagliava, fumosa, nello strale della notte, inaz- zurrita, ordiva quietamente un quinale, torreggiando sulle cime degli alberi e sulla dentatura de’ monti. Ma questo è il Sabbionasso: bagliori lontanissimi moruscavano i cirri fibrillando l’aria, e tutti i rumori della stanza moltiplica- vano la sua ansia e la predestinazione al dolore che fin da piccola l’avevano seguita. Una policroma intensità d’emozioni la sconquassava, infamando i suoi tentativi di prender sonno; il precipitare della notte la rendeva stizzosa e il vento, penetrato dalla finestra, gelava la sua bianca vestaglia, quasi una gel- làba con tanto di merletti e pizzetti ricamati a mano. Poi il silenzio, come se tutto il Sabbionasso si fosse svuotato di vita, la colse colla sua lama tagliente, prepotente persuasore d’ogni spirito. Perfino i gatti, sfiniti, avevano smesso di miaulare, e anche il lungo ronzio della caldaia finì per arrestarsi. Faceva caldo 170 in campagna, e le strade del centro erano deserte, screpolate come labbra d’asino. Immaginava i tetti dei palazzoni e un sipario color vermiglio che frangeva la tenue brezza del tramonto. Immaginava la sera lucida come la pa- vimentazione d’una chiesa, le giovani donne sculettavano tremando come cigli e saltabeccando eccitavano i balordi. Si coricò, attenta a non svegliare il marito, delicata e rapinosa come ai tempi de’ fasti guerrafondai, quando la limpidezza della sua pelle era specchio dei barbagli più diversi e le dita, or incavatici di vecchiezza, lungheggiavano smaltate a fendere l’aria turbinosa degli aprili ri- voltosi. Si sentiva senza scampo, perduta nei gorghi dell’infinita uggia, irrepa- rabilmente votata all’inadeguatezza, alla moribonda delusione. Or la stagione fiorifera pareva stanca, allungata nel suo romitaggio, e le sue palpebre a pam- pineddra parevano lentamente dischiudersi come l’hangar d’un aeroporto. In- tanto l’immenso fuori aveva ripreso a essere e le cime degli alberi più alti sem- bravano rapite dalla vasta ellissi del sole. Finanche lo stagno assumeva un aspetto gradevole, circoscritto da licheni e fogliame sparso, aggraziato dal chia- ror dei fuochi accesi dai ragazzotti, e si diceva, in notti come quella anche gli orchi facevano all’amore. Si lasciò dileggiare ancora un poco dallo strimpellìo degli uccelli notturni, del resto avrebbe voluto soffrire ancora delle guerre, delle prigionie, delle ingiustizie…avrebbe voluto gridare a perdifiato libertà! liber- tà!…avrebbe voluto e voluto e voluto…ma il sonno sopraggiunse, e quel ch’erano i suoi dolori, i pallori della sua negazione, s’acquietarono nel nulla del mattino sommersi da un amarulènto brividìo .

Meglio che continui a chiavare le bielorusse, dice mio fratello sulla porta della mia camera. Vaffanculo, gli dico io, che cazzo entri senza bussare. E non usare quelle parole. Poi mi spalmo il gel ritardante Eiaculatio Longer Pleasure e fumo una sigaretta sul balcone.

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QUALCHE ATTIMO D ’INCOMPRENSIONE E DUBBIO

L’odore di plastica andata a male del Parco Sintetico Märklin Inc., il più grande spazio pubblico di Sabbione, gravava come l’inquietudine che ci accompagnò durante il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Quando la sua automobile si fermò per un guasto lungo le mu- ra gommose del Parco, Gad capì immediatamente dove si trovava. Era a pochi metri dall’ingresso sud del Parco Sintetico Märklin Inc., afoso, molecolare, gremito di betulle in poliuretano espanso e di minuscoli uccelli azzurri e verdi appoggiati sui rami petroliferi di querce artificiali scolorite dal sole. Rammentò le volte che sua madre lo aveva accompagnato lungo i sentieri plastici del Parco per distendersi sull’erba di polipropilene trattata con raggi ultra- violetti. “Che meraviglia accarezzare le fibre di polipropilene dipinte di verde!”, esclamò. Al culmine del risentimento per la madre gli tornarono in men- te le domeniche trascorse al Lago Artificiale Policarbonato Peren- nemente Pattinabile e l’inquietudine cessò. I cittadini di Sabbione, dopo otto ore trascorse in uffici e fab- briche, si riversavano tra le siepi in resina poliuretanica gialla e rossa, si avvolgevano in sgraziate posizioni amorose sulla soffice consistenza delle aree attrezzate in polietilene monofilo bicolore, conducevano passeggini contenenti nuove creature in carne e ossa lungo i sentieri in pvc, osservavano animali dalla pelle in nitrato di cellulosa mentre abbozzavano falsi grugniti d’approvazione e gioia. Stupendo Parco Sintetico! Con i tuoi boschi policarbonici, coi tuoi acidi polilattici, ti ho amato dal primo giorno che calpestai la tua resina acrilica arancione in compagnia della mia compagna di classe Annabel Ross, all’uscita dal cinema! Trentacinque anni fa! Non ricordo il film. Anche se forse l’attore era quel tizio col naso grosso, il cui nome mi sfugge. 172

La prima persona che Gad incontrò fu un simpatico signore in livrea, che si presentò come rappresentante dell’Organizzazione del Parco Sintetico Märklin. “Benvenuto! Uomo maturo in giacca a righe e cravatta abbina- ta ai pantaloni beige! Benvenuto nel Regno della Plastica per Fa- miglie! Parla la mia lingua?”. “La parlo”. “Stupendo! Un inizio di conversazione stupendo! E non è stu- pendo festeggiare la Giornata dell’Amicizia Quadratica Bridgesto- ne in compagnia dei suoi concittadini? Proprio qui, al Parco Sinte- tico Märklin? Ha già avuto modo di sperimentare alcuni esempi calzanti di amicizia quadratica?”. “Sono appena entrato”. “Ma non le è bastato respirare l’odore della plastica bruciata dal sole e marcita dalla pioggia per provare una sensazione di stupore nei confronti del mondo che la circonda? Si guardi intorno! Am- miri i banchetti Bridgestone e Mattel, dove le nostre ragazze - ab- bigliate come la famosa Barbie Assistente di Volo - stanno conse- gnando palloncini e piccoli pezzi di plastica grezzi modellabili. Non è eccezionale?” Gad percorse i resistenti sentieri del Parco Sintetico Märklin, il più grande parco pubblico di Sabbione, la sua città! Aveva la testa piena di idee contrastanti riguardo la sua terra e la plastica. Uno sterminato plastico Märklin occupava lo spazio di duemi- laseicento metri quadrati; convogli ferroviari militari, merci, pas- seggeri, transitavano senza sosta su ventidue chilometri di rotaie. “Noto delle rugosità sul suo volto”, gli disse il Rappresentante dell’Organizzazione vedendolo titubante. “Se il suo amore per la plastica comincia a subire i prodromi di una flessione, le consiglio di rivolgersi al Centro Consultazioni sull’Amore per la Plastica”, “Niente di più falso”, disse Gad. “Adoro la plastica in ogni sua manifestazione! Tranne forse quando assume la forma di quei dannati involucri che rivestono i compact disc o i libri; non mi rie- sce mai di aprirli. Ma il mio amore nei confronti della plastica resta immutato!”

173 “Sbalorditivo!” Esclamò il rappresentante. “Un uomo che ama la plastica incondizionatamente è un uomo degno di amicizia qua- dratica!” Gli strinse la mano e lo abbracciò. “Si goda questa splendida giornata in compagnia dei suoi con- cittadini”, gli disse salutandolo affettuosamente. Gad ricambiò il saluto e si avviò lungo i sentieri osservando con crescente stupore le effigi umanoidi siliconiche rappresentanti Barbie ®, Ken ®, Bitty Baby™, Max Steel ®, eccetera. La vegetazione di plastica emanava aromi naturali ogni venti- cinque minuti. Gad si avvicinò a un cactus di plastica per odorarne l’aroma. Fu investito da una violenta zaffata di acacia mista al sa- pore di plastica usurata. D’improvviso notò tre giovani sporgersi dalla sommità della verosimile Torretta d’Avvistamento Mattel, fedele riproduzione di una torretta d’avvistamento della guerra civile americana. Li guar- dò mentre si lasciarono precipitare di testa, mano nella mano, da un altezza approssimativa di diciotto metri, e si schiantarono sulla superficie sottostante, appositamente costruita in polietilene lavo- rato affinché potesse definirsi dura come l’acciaio. La plastica ! Pensò Gad mentre osservava un verificatore pren- dere nota del sopraggiunto decesso di tutti e tre i suicidandi ®, que- sto è certo un paese che ama la plastica! Il Sabbionasso! Per un momento fu molto orgoglioso della sua Terra e dell’efficienza dei dipendenti pubblici. Si avvicinò a un chiosco e ordinò due pannocchie ben abbrustolite e una Pepsi in lattina. Scherzò qualche minuto con la commessa, una giovane sabbio- nassa come lui, una giovane e bella commessa sabbionassa dagli occhi verdi e il sorriso delizioso. Poi la salutò e rimase qualche attimo ad ammirare gli agenti della Nettezza Umana al lavoro, mentre ripulivano la plastica. Tra tutte le superfici imbrattate da fluidi umani, pensò, la pla- stica è senz’altro la più facile da ripulire. Mentre constatava la relativa facilità nella pulizia delle superfici in plastica udì alcuni colpi d’arma da fuoco. “Da dove provengono questi spari?”, domandò a un cittadino impegnato in una corsa lungo i sentieri alberati del parco. “Sup- pongo sia l’Azienda Faunistico Venatoria Playmobil”, gli rispose il

174 cittadino sbuffando per la fatica del footing. “È attigua al Parco Sintetico Märklin”. “Bene, cittadino”, disse Gad, “grazie per l’informazione!”. “Non c’è di che”. Poiché si celebrava la giornata dell’amicizia quadratica, Gad ri- cevette un caloroso abbraccio da parte dell’atleta. Mentre si allontanava costeggiò gli argini del Lago Artificiale Policarbonato Perennemente Pattinabile e si arrestò per ammirare i pattinatori e le pattinatrici. “Che splendida giornata!”, pensò esclamativamente stringendo la mano a un signore sulla settantina e a una ragazzina in bicicletta. Sulla superficie del lago c’erano alcune barchette di plastica e molti giovani operai che stavano procedendo alla manutenzione ordinaria degli argini in plexiglass e del suolo, rigato dai solchi dei pattini da ghiaccio. “Buona giornata!”, urlò agli operai, i quali risposero al saluto con un cenno del braccio. Sulle rive del lago c’erano quattro soldati in licenza che bighel- lonavano sgranocchiando qualcosa e si gustavano lo spettacolo delle pattinatrici. “Buongiorno soldati!”, esclamò Gad avvicinandosi a loro. “Buongiorno a lei, signore”, rispose uno dei soldati. Avrà avuto venticinque anni. “Come ci si sente a servire eroicamente il proprio Paese?”, domandò Gad. Una pattinatrice gli sfrecciò accanto con muscoli da pattinatrice. “È una faticaccia”, rispose quello che sembrava il più anziano dei quattro. “Specialmente per la noia”. “Non vi sentite virili a sufficienza coi vostri mitragliatori e i vo- stri cappelli militari?”, gli domandò Gad. “Naturalmente morire in guerra è considerato da tutti un eroi- co surrogato della Clausola 99”, disse il soldato. “Ma si guardi un po’ intorno: guerre ce n’è sempre meno, i pacifisti dilagano, diritti umani a go go, le missioni di pace si contano sulle dita di una ma- no, le occasioni per crepare valorosamente si sono ridotte all’osso”.

175 “Capisco”, sussurrò Gad. Un’altra pattinatrice si fermò nei pressi dei soldati e uno di loro fece un apprezzamento piuttosto appropriato. “Un tempo era facile anticipare la morte in modo glorioso, combattendo per nobili ideali, ma oggi”, proseguì il soldato. “Oggi non ne parliamo che mi viene da piangere”. “Su con la vita, soldato!”, esclamò Gad. “Per questo ritengo che il Programma sia più attuale che mai; dà la possibilità a qualunque smidollato di fottere la morte antici- pandola eroicamente in un epoca in cui eroismo, onore e gloria sono concetti superati. Vuole provare una sigaretta da uomini ve- ri?”. “Grazie, soldato, non ho mai fumato in vita mia, ma per l’amicizia che mi sento di volerle dimostrare accetterò volentieri”. Il soldato estrasse una sigaretta da un pacchetto mezzo accar- tocciato e la porse a Gad. “Normalmente non offrirei le mie sigarette a uno sconosciu- to”, disse, “ma visto che stiamo celebrando la Giornata dell’Amicizia Quadratica faccio un’eccezione”. “Bene”, disse Gad aspirando il fumo della sigaretta militare e tossichiando, “buona giornata!” “Buona giornata a lei, signore”. Dal Centro Accoglienza provenivano gli strepiti dei numerosi cittadini impegnati in un corso di Trasformazione della Plastica Grezza. Gad si avvicinò al banchetto posto all’ingresso, dove tre magni- fiche hostess lo attendevano con splendidi sorrisi sabbionassi. Ammirò l’imponenza del plastico Märklin in tutta la sua fluore- scenza: 370.000 led, 15.000 vagoni, 4.000 scambi, 1.900 segnali, oltre 1.300 treni, 300.000 figurini e più di mezzo milione di luci colmarono Gad d’orgoglio patriottico. “Dove posso trovare la Foresta Vergine Mattel?”, domandò. Le hostess, dai corpi suadenti, plasticosi, erano impegnate a distri- buire piccoli portachiavi di plastica e a far compilare moduli az- zurri della Bridgestone. “Vuole partecipare al grande concorso Bridgestone?” gli do- mandò la hostess. “In palio c’è una scorta decennale di pneumatici da neve”. 176 “Volentieri!” esclamò Gad, e compilò il modulo. “Stasera durante la Festa dell’Amicizia Quadratica si procederà al sorteggio”. “Grazie, stupenda hostess. Ora può amichevolmente indicarmi in quale direzione si trova la Foresta Vergine Mattel?”. “Mi rincresce dirle che la Foresta Vergine non è più tale da quando, nel millenovecentonovantanove, il Governo decise di in- stallarvi un complesso residenziale, le cui ultime unità abitative sono state consegnate l’anno scorso. Il nuovo nome della Foresta Vergine Mattel è Foresta Abitabile Edison, e si trova in quella di- rezione”. Gad la ringraziò e pensò che era trascorso davvero molto tem- po dall’ultima volta che aveva messo piede al parco.

Nella Foresta Abitabile Edison, che era goffa e imponente, Gad intravide numerose ville costruite in Moplen nascoste nella vegetazione di plastica, che comprendeva numerose specie tropi- cali rivisitate, serpenti artificiali movibili, scimmie sintetiche, ecce- tera. Alcune case erano state costruite in cima a gigantesche sequoie in metacrilato. L’aria era difficilmente respirabile. Il gusto era acre, una leggera polvere bianchiccia svolazzava da tutte le parti. Si faceva davvero fatica a respirare. S’imbatté in numerosi cittadini in giacca e cravatta che rientra- vano rapidamente nelle loro casette dopo la giornata di lavoro. “Buonasera, cittadino!”, esclamò a uno di questi. Il cittadino lo osservò brevemente, poi s’infilò nella vegetazio- ne, oltre la quale c’era la porta d’ingresso della sua dimora. Com’è possibile che un cittadino non risponda a un garbato sa- luto? Pensò Gad. Proprio qui, nel Regno della Plastica. Proprio oggi, nel pieno svolgimento della Giornata dell’Amicizia Quadra- tica. Vide numerosi altri cittadini rientrare nelle proprie villette resi- denziali in tutta fretta. Tentò ripetutamente di parlare con qualcu- no. “Voglio comunicare con qualcuno!”, gridò. Infine riuscì a comunicare con uno dei residenti frettolosi.

177 “Che succede?”, gli domandò Gad. “Intendo dire, perché tutta questa fretta? Non è magnifico passeggiare nel cuore della Foresta Abitabile Edison dopo una giornata di lavoro?”. “Non del tutto”, disse il cittadino; “non da quando un gruppo di ambientalisti ha intrapreso una violenta protesta nei confronti della riconversione dell’ex Foresta Vergine Mattel”. Mentre rifletteva, Gad fu raggiunto da alcune frecce di plastica scagliate da un gruppetto di uomini appostati sul ramo di un gi- gantesco bagolaro in moplen. Il residente fuggì. “Per quale ragione state maleducatamente lamentando il vostro disagio esistenziale mediante comportamenti deplorevoli e gesti selvaggi?”, domandò Gad. “Esprimiamo la nostra rabbia per questi nuovi edifici che han- no corrotto l’aspetto della foresta vergine”, disse uno degli uomi- ni. “Spiegatevi meglio”, disse Gad. “Per sopportare l’aria opprimente della Foresta di Plastica han- no installato centinaia di climatizzatori. I loro scarichi scolorisco- no la plastica degli alberi e delle foglie”. “Mi pare un problema più che comprensibile”, disse Gad. “Qui l’unico problema è che l’insediamento umano sta usuran- do il polipropilene con cui fu originariamente costruito il terreno; in questo modo nel giro di pochi anni il degrado sarà totale. Molti alberi hanno raggiunto una percentuale di crepe a dir poco intolle- rabile. Per non parlare degli animali artificiali con riproduzione temporizzata del verso: più della metà è andata a farsi friggere. Siamo certi che i residenti abbiano disattivato la funzione vocale per dormire indisturbati. Un tempo la notte era tutto un gracidìo e un gridìo, ora non resta che un impercettibile gorgheggio”. “E guardi quella zona laggiù, tra i rami del baobab: hanno addi- rittura seminato una pianta vera . Le radici squarceranno la plastica, sarà la fine”. “Credevo fosse proibito installare piante vere all’interno del Parco Sintetico Märklin”, disse Gad. “La speculazione immobiliare ha cambiato tutto; per tali ragio- ni affrontiamo i residenti con le armi della rabbia e dell’odio, an- che nella giornata dell’amicizia quadratica. Poiché tutti sappiano

178 che a un’amicizia quadratica può corrispondere una rabbia simme- trica”. “A proposito, lei è un residente?”. “No, sono solo di passaggio”. “Meglio così”. Al culmine della tensione un manipolo di hostess si presentò nella foresta reggendo tra le dita palloncini reclamistici dei nuovi pneumatici invernali Bridgestone. “Una sfilza di gambe femminili del genere dovrebbe placare ogni sintomo di rabbia simmetrica”, disse Gad agli ambientalisti. “Non per noi”, disse uno di loro. Scagliarono banchi di frecce che distrussero i palloncini e co- strinsero le hostess a fuggire. Gad pensò che era davvero un peccato aver riconvertito una Foresta Vergine di Plastica in una Foresta Abitabile, ma ancor di più essersi lasciati sfuggire sei hostess in tailleur nero, graziose e disponibili. Si addentrò nella brughiera di cactus fosforescenti (prima di sera brillavano di azzurro, viola, giallo, in un multicolo- rato tramonto plastico). Circumnavigando il Lago si ritrovò dalla parte opposta, dove molti cittadini erano distesi sulla Spiaggia Sinterizzata. I polimeri di polistirene espanso sbriciolati, induriti e lavorati, riproducevano meravigliosamente i granelli di sabbia. Da qualche anno il Gerarca aveva anche acconsentito all’installazione di una piscina con acqua vera. Gad si entusiasmò. Notò alcuni banchetti Bridgestone sui quali erano presenti numerosi poster del Gerarca. Sebbene il suo spirito lo guidasse verso una profonda anarchia, non poté fare a meno di sentirsi fiero di essere Sabbionasso. Poi, dalle parti dell’uscita nord-ovest, mentre telefonava al car- ro attrezzi, si trovò di fronte all’ingresso di un bar il cui nome lo incuriosì: l’insegna riportava la dicitura Un Posto Pulito e Illuminato Bene* (*Il nome è un richiamo letterario e non rispecchia necessariamente le condizioni elettrico-igieniche del locale ). Quando entrò si sentì invaso da un’ondata d’incomprensione e dubbio, ma durò soltanto il tempo di sedersi al bancone, ordinare un cuba libre con rum Botrán Añejo e mettersi comodo per gu-

179 starsi uno dei tanti diverbi tra avventori, scatenati dall’imminente Giostra del Peccato.

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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (4) ______

Thorveld era seduto al tavolo del Postoristoro al quarantacin- quesimo piano del Grattacielo e stava fissando con disgusto la cal- zamaglia arancione che avrebbe dovuto indossare per lanciarsi di sotto nell’ora di punta della fiera. La cameriera servì tre panini, due birre e un’acqua naturale. Thorveld alzò lo sguardo, incontrò quello di Gad. Perché con te deve sempre essere tutto così grottesco? Do- mandò. Gad addentò il suo panino, bevve un sorso di birra. Definisci grottesco, disse. Anabel si guardò in giro per controllare che nessuno stesse fic- cando il becco nei fatti loro. Insolitamente deforme e innaturale, disse Thorveld. Gad diede un altro morso al panino, bevve un altro sorso di birra. Abbiamo un glottologo fatto e finito, disse. Vaffanculo, disse Thorveld. Quattro anni prima era stato congedato con disonore dal corpo dei Vigili del Fuoco per aver scelto di salvare le proprie chiappe piuttosto che quelle di un dodicenne divorato dalle fiamme. Qual è il problema? Domandò Anabel. Ne abbiamo già discus- so decine di volte. Thorveld. Ne discutiamo ancora, disse Thorveld. Abbiamo tutto il tempo, disse Gad. Allora rispondi alla domanda, disse Thorveld. Gad ordinò un’altra birra. Guardati intorno, disse. Il deforme, l’innaturale, sono l’unica arma che ci rimane. Che stai dicendo, disse Thorveld. Sto dicendo, disse Gad, che se avessi un bel mongoloide da far saltare giù da un tetto indossando una calzamaglia arancione sa- rebbe un colpo da cinema.

181 Un mongoloide che si suicida gettandosi dal quarantacinquesi- mo piano di un grattacielo indossando una calzamaglia arancione ti sembra grottesco? Domandò Thorveld. Estremamente grottesco, rispose Gad. Tu sei malato, disse Thorveld. È una questione di punti di vista, disse Gad. Thorveld bevve un sorso di birra. Non credo di volerlo fare, disse. È fuori discussione, disse Gad. Che ti succede, disse Anabel. Thorveld. Io, disse Thorveld. Io mi sono innamorato, disse. Oh cristo santo, disse Gad. Thorveld, disse Anabel.

Thorveld non disse niente. Si alzò, si diresse verso la scala an- tincendio, percorse le due rampe di scale che conducevano al bel- vedere del grattacielo e rimase lì a guardare la propria immagine ri- flessa nella vetrata.

***

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I VERIFICATORI

Il tabaccaio guardò fuori dalla serranda mezza chiusa e vide un’auto parcheggiare nella piazza di fronte alla sua drogheria. Sce- sero due tizi in soprabito scuro, entrambi con una sigaretta accesa in mano. Il paese era sovrastato da centinaia di forbici tridimensio- nali proiettate in cielo. I due parlottarono fra loro e osservarono i numeri civici delle case attorno alla piazza, poi telefonarono a qualcuno, parlottarono ancora fra loro e si diressero verso il vec- chio edificio su tre piani in tardo stile imperiale. Entrarono nella drogheria uno dopo l’altro, alzando con un braccio la serranda. “Stavo chiudendo”, disse il tabaccaio. “Abbiamo riaperto”, disse Mack. Il tabaccaio guardò le scarpe dei due individui: erano nere, inna- turalmente lucide, con tacco e punta rinforzati. “Cosa desiderate?”, domandò. I due si guardarono. “Sigarette”, disse Nagg. “Sigarette”, disse Mack. “Che marca?”, chiese tabaccaio. “Che marca?”, chiese Mack a Nagg. “Molli”, disse Nagg. Una lampada azzurra illuminava il negozio. Un ragazzino spun- tò dalla dispensa e salutò cortesemente gli avventori. “Marlboro rosse molli”, disse Mack. Il ragazzino salì su una scaletta, prese le sigarette e le porse cor- tesemente a Mack. “Quattro e dieci”, disse. “Siamo ufficiali Gerarcali”, disse Nagg. Mostrò una tessera del Ministero Suicidi & Festività ® del Gerar- cato di Sabbionasso. Uno dei due portava una valigetta di pelle. “Siete Verificatori?”, chiese il tabaccaio. 183 “Un tabacchino davvero sveglio”, disse Nagg a Mack. “Che cosa fa un verificatore?”, chiese il ragazzino. “Un verificatore accerta che una clausola 99 sia rispettata e por- tata a compimento secondo le dovute procedure”, disse Mack. “Cos’è una clausola 99?”, chiese il ragazzino. “Di che t’impicci?”, disse Nagg. “Come diavolo sono sistemati i numeri civici in questo posto? Sapete dove si trova il numero 37?”, chiese Mack. “Poco più avanti, dopo la ferramenta”, disse il tabaccaio. “Si tratta di Albert Nordhal?”, continuò. “Che il diavolo ti porti vecchio, fatti gli affari tuoi”, disse Nagg. “E poi si chiama Albert Stanislaus Nordhal”, disse Mack. “Per tutti è Albert”, affermò il tabaccaio. “Non per noi”, dichiarò Nagg. “Talvolta la sera riceve amici o conoscenti”, disse il tabaccaio. “Stasera no”, disse Mack. “È un artista, ha spesso ospiti”. “Non sono problemi nostri”, disse Nagg. “E comunque non stasera”, disse Mack. “Stasera è a casa solo”. “Problemi con una divinazione?” “Di cosa t’impicci, vecchio?”, rispose Nagg. “I problemi dei nostri clienti non ti riguardano”, aggiunse Mack. “Ma come”, iniziò a dire il tabaccaio. “Basta”, lo interruppe Nagg. “Facciamola finita”, continuò Mack. Entrò una signora. “Buongiorno signora Kovjala”, disse il ragazzino, “desidera?”. “Ho visto la luce ancora accesa e mi sono permessa di entrare. Ci sono le mie riviste?”, chiese la signora. Il ragazzino salì sulla scaletta, prese tre riviste e le porse alla si- gnora. “Sette e cinquanta”, disse il ragazzino. La signora prese le riviste, fece quello che doveva fare e uscì. “Che schifo di posto”, disse Mack. “Com’è che si chiama?”, chiese Nagg. “Nosarengo vicino al Fiume”, disse il ragazzino. “Che razza di nome sarebbe?”, disse Nagg. “C’è il fiume, signore”, disse il ragazzino. 184 “E’ ancora più schifoso di quanto l’avessi immaginato”, disse Mack. “L’acqua del fiume ha un colore diverso ogni due o tre ore”, disse ancora il ragazzino. “Ma la puzza di morto è sempre la stessa”, disse Mack. “State all’occhio”, disse Nagg sul punto di andarsene. I due Verificatori uscirono e camminarono fino al numero 37, oltre il negozio di ferramenta, finché si trovarono in faccia una porta massiccia di un buon legno scuro. Suonarono il campanello. Albert Nordhal aprì la porta e li fece entrare. I lampioni dell’antica piazza di Nosarengo vicino al Fiume illuminavano delicatamente il soggiorno penetrando dalle finestre. Albert Nordhal aveva prepa- rato una fune agganciata al soffitto. Era un ragazzotto magro e smunto coi capelli corti ma scapigliati che ricadevano senza trama sulla fronte; il suo viso era pallido, liscio, senza un filo di barba. Avrà avuto venticinque anni. “Sono quasi pronto”, disse Albert Nordhal, e filò in bagno. “Impiccamento”, disse Nagg tra sé e sé, e lo segnò sul taccuino. “Se non altro sembra un tipo veloce”, disse Mack. “Se non altro”, disse Nagg. “Negli ultimi tempi sono stati veloci”, disse Mack. “L’ultimo non ci ha dato neppure il tempo di misurare l’altezza della finestra. Per sua fortuna rientrava nelle misure”, disse Nagg. “Per pochi centimetri”, disse Mack. “Come si chiamava quel posto?”, chiese Nagg. “Era uno schifo di posto come questo, ma senza il fiume”, dis- se Mack. Dalla camionale giunse un fragore di foglie; un trattore fece tremare i vetri. “Controlla la corda”, disse Nagg. Mack controllò la corda. “E’ robusta”, disse Mack. Nagg si accese una sigaretta. Albert Nordhal era ancora chiuso in bagno. Nagg aspirò profondamente. Mack guardò le fotografie alle pareti; alla televisione c’era un fermo immagine d’un musicista di strada dall’aspetto trasandato mentre imbracciava una fisarmonica seduto su una cassetta per la frutta; alle sue spalle un muro scalcinato e bombole del gas, cassonetti, cartacce. Un vecchio giradischi saltava in continuazione nell’angolo, sopra un mobiletto. Udirono dei mugugni. 185 “Non comincerà mica a frignare eh?”, chiese Nagg. “L’ultimo ci ha fatto perdere tre ore, coi sensi di colpa, ma que- sto mi sembra deciso”, rispose Mack. “Ma poi cos’avranno da lamentarsi?”, disse Nagg. “E chi lo sa”, disse Mack. “Controlla il gancio”, disse Nagg. Mack controllò il gancio. “Buono”, disse Mack. “Modello?”, chiese Nagg. “Gancio occhiello in acciaio forgiato”, disse Mack. Nagg anno- tò i dati sul suo taccuino. Poi passeggiò per la stanza, infilò una mano nel cappio e lo tirò bruscamente, ci si appese con le braccia facendosi reggere con tut- to il peso del corpo. “Quanto peserà?”, chiese Nagg. “Settanta sì e no”, disse Mack. “Settanta più o meno, sì”, disse Nagg. Anche Mack si fece reg- gere alla corda con tutto il corpo e la tirò bruscamente. “Vuoi pesarlo?”, chiese Mack. “È così magro che basterebbe un filo di spago”, disse Nagg. “Comunque il soffitto mi sembra buono. Mica come all’ultimo, che ci è venuto giù in testa”, disse Mack. “Controlla la sedia”, disse Nagg. Mack controllò la sedia minu- ziosamente. Era una stupida sedia di legno con uno schienale fode- rato piuttosto spesso e molto alto, ideale per questo genere di cose. “La sedia è a posto”, disse Mack. La stanza era pulita; di solito le case di chi sta per procedere secondo clausola 99 sono sempre pulite. Ci tengono a lasciare tutto in ordine; ma questa era davvero pulita a fondo. Luccicante. “Mai vista una casa così pulita”, disse Mack. “Ognuno ha i suoi tormenti”, disse Nagg. “Perché dovrà uccidersi, questo?”, chiese Mack. “Non ci riguarda”, rispose Nagg. Mack passò un dito su una mensola. “Neppure un grano di polvere”, disse. Albert Nordhal uscì dal bagno in pigiama. C’era profumo di mandarini, o di arance. “Posso vedere i vostri tesserini?”, chiese.

186 Nagg e Mack mostrarono i tesserini. C’era scritto “Ministero Sui- cidi & Festività del Gerarcato di Sabbionasso ® – Verificatore ”; il tesserino da verificatore è plastificato e porta il nome del verificatore e una sua fotografia. “Volete da bere?”, chiese Albert Nordhal. “Che hai?”, chiese Mack. “Gazzosa, chinotto, orzata”, disse Albert Nordhal. “Che schifo di posto”, disse Mack. “Com’è che si chiama?”, chiese Nagg. “Nosarengo vicino al Fiume”, disse Albert Nordhal. “Che schifo di nome”, disse Mack. “Una gazzosa”, disse Nagg. “Non ho né birra né rhum, mi dispiace”, disse Albert Nordhal, giustificandosi, quasi scusandosi. Albert Nordhal prese due gazzose dal frigorifero e le porse ai Verificatori, poi si avvicinò a un angolo della stanza e si inginoc- chiò. “Il tipo religioso”, disse Nagg. “Quelli religiosi non li sopporto”, disse Mack. “I materialisti neppure”, disse Nagg. “Neppure i materialisti”, disse Mack. “In fondo sono tutti uguali”, disse Nagg. Albert Nordhal cominciò a gesticolare, pregando più forte. “Hei cocco, non abbiamo tutta la sera”, disse Nagg a voce alta. “Abbiamo altro lavoro. Lavoro da uomini”, disse Mack. Albert Nordhal s’interruppe. Osservò il soffitto, poi riprese a pregare. Erano preghiere strane, quasi sembravano poesie, o can- zoni. “Qui facciamo notte. Vogliamo darci una mossa?”, disse Nagg. “C’è una donna che mi aspetta a casa”, disse Mack. Albert Nordhal era ancora accovacciato rivolto al muro e mor- morava frasi senza senso. “Il mio universo di discorso è diverso dal vostro universo di di- scorso”, disse Albert Nordhal. “Il mio…cosa sono queste cazzate?”, chiese Nagg. “Forse intende dire che il suo universo è l’universo dei bastardi che stanno morendo e il nostro universo è l’universo dei bastardi che non stanno morendo”, disse Mack. 187 “Falla finita”, disse Nagg. I due Verificatori bevvero parte della loro gazzosa. “Sono pronto”, disse Albert Nordhal alzandosi. “Era ora”, disse Mack. “C’è qualche formula particolare?”, chiese Albert Nordhal. “Niente che debba preoccuparla”, rispose Nagg. “Non volete sapere qualcosa di me?”, chiese Albert Nordhal. “Non era precisato nel modulo di richiesta. Molti prima di pro- cedere alla clausola 99 vogliono parlare o fumare, ridere o piange- re, fare ginnastica, altri vogliono raccontare fatti generalmente ignobili oppure pratiche del tutto impronunciabili della loro vita. È consentito, purché si inoltri una richiesta nelle dovute modalità. In questo caso non ci è pervenuta alcuna richiesta. Nessun racconto o pratica innaturale o confessione. Niente. Se avesse voluto raccon- tarci chi è stato o che lavoro ha fatto e dove lo ha fatto, se ha ucci- so qualcuno e perché, se avesse voluto confessare le sue fantasie erotiche represse, svelare segreti di stato, oppure se avesse voluto semplicemente dirci “io sono un povero cristo cui le interiora di un putrido maiale hanno predetto una morte violenta entro i prossimi tre giorni”, avrebbe dovuto inoltrare una richiesta secondo le mo- dalità, che di certo il call center del Ministero Suicidi & Festività ® le avrà ricordato. Senza richiesta lei non è tenuto a parlare, noi non siamo tenuti ad ascoltare. Se avesse inoltrato la richiesta probabil- mente non avrebbero mandato noi. A noi non piace ascoltare”, disse Nagg. Albert Nordhal avrebbe voluto fumare, recitare antichi versi d’addio, volteggiare al centro della stanza consumando gli ultimi attimi in preda al delirio. Ma rimase immobile, simulando una pre- ghiera, con gli occhi socchiusi e le gambe rigide come l’ombra di un morto. “Allora, è tutto chiaro?”, chiese Mack. “Chiaro”, rispose Albert Nordhal. Mack aprì la valigetta ed estrasse il modulo bianco e verde da utilizzarsi nei casi di impiccamento. “Lei ha scelto di procedere alla clausola 99 per mezzo impicca- mento, è esatto?”, chiese ufficialmente Nagg. “E’ esatto”, rispose Albert Nordhal.

188 “Questo è il modulo clausola 99 barra 7, dove il 7 sta per im- piccamento”, disse Mack. “Che ci devo fare?”, chiese Albert Nordhal. “Una firma qui e qui”, disse Nagg. Albert Nordhal firmò. “Quando avremo concluso apporrò un timbro qui, dopo di che io e il mio collega ce ne potremo tornare a casa. Nel giro di tre o quattro ore passeranno i becchini assegnati a questo buco di posto e sarà tutto finito. Lasceranno la casa in ordine e pulita, il suo cor- po sarà messo a disposizione dei famigliari per qualunque tipo di rito funebre loro abbiano scelto, iscariotico, ebraico, musulmano o cristiano”, disse Nagg. “Il dossier afferma che lei è stato inserito nei nominativi da ve- rificare in seguito a una segnalazione dell’Ufficio Divinatorio di Sabbione Centro, Agenzia dodici, che l’ha spinta a inoltrare richie- sta”, disse Mack. “E’ corretto?”, chiese Nagg. “Corretto”, rispose Albert Nordhal. “Volete sapere cosa mi ha pronosticato l’Ufficio Divinatorio?”, chiese. “Se è una cosa breve”, rispose Mack. “Taci. Non è stato inserito nelle richieste”, disse Nagg. “Se avesse voluto dichiarare la causa del suo procedimento di clausola 99 avrebbe dovuto inserirlo nelle richieste. È chiaro?”, disse Nagg. “Chiaro”, rispose Albert Nordhal. “Benissimo. Poiché non sono state avanzate richieste di alcun genere quali per esempio musica o declamazione di versi direi che siamo a posto”, disse Nagg. “Potrei richiedere la declamazione di un verso?”, chiese Albert Nordhal. “Non è stato richiesto”, disse Mack. “Ma per dimostrare la nostra flessibilità la accontenteremo”, aggiunse Nagg. “In effetti l’articolo trentasette del manuale autorizza una certa flessibilità al verificatore. Uno spazio entro cui muoversi, capi- sce?”, disse Mack. “Conoscete Dylan Thomas?”, chiese Albert Nordhal. “Non esageriamo”, rispose Nagg. “Abbiamo una trentina di versi standard per casi come questo; se lei avesse inoltrato richiesta 189 potrebbe sceglierne uno di suo gradimento. In questo caso, poiché è uno strappo ai regolamenti, sarà la sorte a decidere”, concluse Nagg. Mack estrasse dalla valigetta un libro con la copertina marrone, simile a una bibbia, lo aprì a caso e iniziò a leggere: “Viviamo in tempi infami dove il matrimonio delle anime deve suggellare l’unione dei cuori; in quest’ora di orribili tempeste non è troppo aver coraggio in due per vivere sotto tali eccetera eccetera”. “Che significa?”, chiese Albert Nordhal. “Che viviamo in tempi da cani”, rispose Nagg. “Vorrei rifletterci un po’ su”, disse Albert Nordhal. “Cos’è questa storia? Muoviamoci”, disse Mack. Albert Nordhal si passò una mano fra i capelli. “Allora, ci siamo?”, chiese Nagg. “Cominciamo”, disse Albert Nordhal. “Era ora”, disse Nagg. “Mani legate o libere?”, chiese Mack. Albert Nordhal non capì. “E’ provato che nel settantasei per cento dei casi d’impiccamento con mani libere il soggetto esegue un tentativo di aggrapparsi con le mani alla corda”, disse Nagg. “Per salvarsi”, ag- giunse Mack. “Lo chiamano istinto di sopravvivenza”, disse Nagg. Albert Nordhal rifletté. “Allora, legate o libere? Facciamo una cosa veloce”, disse Mack. “Libere”, disse Albert Nordhal. “Libere”, confermò Mack. “Procediamo”, disse Nagg. “Potete aiutarmi?”, chiese Albert Nordhal. “Impossibile”, disse Nagg. “Secondo le disposizioni in merito alla clausola 99 il verificatore è tenuto a non interferire in alcun modo con la procedura, pena l’annullamento della procedura stessa e il licenziamento del verifi- catore”, disse Mack. “E radiazione dall’albo dei Verificatori”, aggiunse Nagg. “Se avesse scelto l’impiccamento con mani legate uno di noi avrebbe potuto stringerle il cappio. Con mani libere no”, disse Mack. 190 I due sedettero sul divano della stanza, un bel divano comodo foderato in tessuto scozzese, sorseggiando la loro gazzosa. Albert Nordhal si tolse le calze e salì sul robusto schienale della stupida sedia, infilò la testa nel cappio e strinse il nodo. “Controlla il nodo”, disse Nagg. Mack controllò che il nodo fosse stretto al punto giusto e che avvolgesse il collo di Albert Nordhal in maniera valida secondo le disposizioni regolamentari della clausola 99. “Il nodo è a posto”, disse Mack, e tornò a sedersi sul divano foderato in tessuto scozzese sorseggiando la sua gazzosa. “Avrei solo voluto morire da solo”, disse Albert Nordhal. Poi iniziò a piangere. Impercettibilmente, ma profondamente. “Cosa gli passerà per la testa prima di farsi secchi?”, domandò Mack. “Ma le solite stronzate banali”, rispose Nagg. “Respirano e pensano che è l’ultima boccata d’aria. Guardano la cucina e pensa- no che è l’ultima volta che sentono il lamento del frigorifero, ri- cordano l’ultimo pranzo, rivivono l’ultima volta che hanno bevuto, dormito, giocato a carte. Robe così. Si è tutti tremendamente bana- li poco prima di tirare le cuoia”. Albert Nordhal non disse nulla. Trascorsero sette o otto secondi di silenzio. Sentirono voci dalla strada. Ragazzini. Albert Nordhal rovesciò con i piedi lo schienale della sedia e piombò verso il pavimento, un bel parquet chiaro sfa- villante. I due Verificatori restarono in silenzio e immobili tre mi- nuti e diciotto secondi. Nagg cronometrò il tempo. È il tempo sta- bilito nelle disposizioni regolamentari della clausola 99 per i casi di impiccamento. Se la morte sopraggiunge per soffocamento il cor- po si contorce e può continuare a farlo per tre minuti circa. Il cor- po di Albert Nordhal non si contorse, ma il regolamento va rispet- tato rigorosamente. “Controlla il corpo”, disse Nagg allo scadere del tempo. Mack si avvicinò a Albert Nordhal e controllò che fosse andato. “E’ andato”, disse Mack. “Soffocamento o rottura del collo?”, chiese Nagg. “Rottura del collo”, disse Mack. Nagg annotò i particolari della procedura sul taccuino. “Ho fame”, disse Nagg. “Mai vista una casa così pulita”, disse Mack. 191 C’erano voci in strada. Nagg compilò il modulo clausola 99 e vi appose il timbro del Ministero Suicidi & Festività ®, oltre alla sua firma in qualità di controllore. Mack passeggiò per la stanza pen- sieroso, fumando. Nagg collocò due biglietti accanto al corpo di Albert Nordhal e li siglò. “Cos’hai, problemi con l’igiene domestica?”, chiese Nagg. “No, è che”, chiese Mack. “Muoviamoci”, lo interruppe Nagg aprendo la porta e infilando nella propria valigetta ventiquattrore l’ultimo modello di notebook della Apple. “Non sono mai riuscito a tirare il pavimento così a lucido”, dis- se Mack rovistando tra i dischi di Albert Nordhal e raccattandone un paio da regalare a sua figlia. “Prova a chiedere al prossimo”, disse Nagg. “Perché lasceranno sempre la casa così pulita?”, si chiese Mack passando ancora il dito ai bordi della libreria. “La sporcizia è dentro”, disse Nagg gettando la sigaretta sul pa- vimento brillante della casa di Albert Nordhal e calpestando il mozzicone. “Schifosi maniaci”. E uscirono.

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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (5) ______

Davvero uno spasso trovarsi nella sala d’aspetto del Centro Sterilità Prometeo durante la Giornata della Geometria Sessuale Procreativa BoingBoing Gadgets. In particolare: magnifico sedere su una poltrona bianca confor- tevole, circondato da uomini di mezza età e donne dall’aspetto ge- nericamente procace. Stimolante stare seduti di fronte a un esperto d’infecondità nel Reparto Deficit Spermatozoico rimuginando sulla parola Arido . Molto creativo partecipare all’esperimento proposto, che con- siste nel ripetere per quarantacinque minuti la parola Arido, al fine di prosciugarne ogni contenuto, al fine di renderla vuota, vacua, priva di significato.

Arido arido arido arido arido arido arido arido arido arido arido eccetera.

Istruttivo ricopiare la parola su un quaderno a quadretti, rimar- candone le possibili accezioni:

Arido : che ha mancanza d’umore. Lat. aridus . Dan. Inf. c. 14 . Lo spazzo era una rena arida, e spessa. Per conseguenza STERILE. Lat. sterilis, infoecundus . Pet. Son. 49 . Che gentil pianta in arido terreno Par, che si di- sconvenga. G. V. 1. 61. 3 . E quivi ridotti in arido luogo, e non provveduti di vettovaglia. Per iscarso. Lat. tenuis, mediocris . M. V. 2. 44 . Dove s’aspettava ricolta fertile, e ubertosa, fu ge- neralmente, per tutta Italia, arida, e cattiva. Per metaf.

193 Pass. c. 81 . Tanto bea la mente lagrime di compunzione, quanto ella conosce d’esser divenuta arida, e partita da Dio, per la colpa. Sterile: Che non genera, non fruttifica; contrario di fecondo, e di fertile. Lat. sterilis . G. V. 10. 122. 6. Egli è di natura sterile, e ‘l segno del lione ste- rile. Collaz. S. Pad . Tutte le cose divengono infruttuose, e sterili. Espos. Vang . Il sesto mese della sua gravidezza, di quella, che è stata chiamata sterile. E appresso : E non aveano figliuoli perché Lisabetta era sterile.

C’è un ventaglio di possibilità, mi si dice: Inseminazione Intrauterina (I.U.I); fertilizzazione in vitro con trasferimento dell’embrione (FIVET); iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI); composti cremosi-gelatinosi, pillole, supposte, per aumentare la motilità degli spermatozoi; rapporti sessuali mirati .

Impagabile tornare a casa dalla propria moglie con una solu- zione ai nostri problemi, cospargere il pene con una crema bian- chiccia al profumo di cocco e mandorla ( Spermamax Plus Ver. 7.3 ), spassarsela a letto consultando Time Cube Creator, l’orologio da polso che illustra le figure geometriche più adatte alla procreazio- ne, sagomare un trapezio isoscele, un semicerchio, un triangolo rettangolo, e poi fare l’amore, fare l’amore, fare l’amore ***

194 STETSON ! TU CHE ERI CON ME SULLE NAVI A MILAZZO

I primi a germogliare furono i cadaveri più giovani, di sei o set- te mesi. Il fenomeno si verificò nei pressi del cimitero cattolico di Sab- bione un giovedì mattina di aprile intorno alle undici; circa settan- ta cadaveri sepolti nella terra cominciarono a buttare , producendo fiori di numerose varietà tra le quali orchidee e tulipani, papaveri e fiori di campo azzurri e gialli. Alcuni dei presenti raccontarono che i fiori germogliarono e fiorirono rigogliosi in meno di dodici minuti, accompagnati dallo stupore della folla silenziosa. Dopo circa quindici minuti si verifi- carono i primi casi d’isterismo: un bambino scoppiò a piangere e un’anziana signora a urlare tenendosi il capo tra le mani. Gli ad- detti alle tombe, sconcertati, alzarono i telefoni e chiamarono chi di dovere; nel giro di un’ora arrivarono i primi medici, la polizia, le guardie Gerarcali. Fecero venire dei botanici. I botanici osservarono il fenomeno e stesero un rapporto di diciotto pagine che finì su tutti i giornali. In breve, termini come sporangio, gametofito e ciclo diponte entrarono nel vocabolario dei cittadini sabbionassi. Scoprirono che i gas rilasciati al momento dell’autolisi e della decomposizione erano alla base della formazione dei vegetali, i quali attecchivano nelle ossa e da lì si generavano secondo un processo cleistogamo. Dopo il primo caso ne seguirono molti altri. Alcuni cadaveri buttarono piante come magnolie e betulle. Le piante squarciarono bare e loculi ed emersero in superficie dal terreno riesumando i cadaveri da cui si erano generati. Qualcuno riconobbe un parente o un amico. “Il vecchio Kreskajoj ha buttato una magnolia, un pesco e quattordici papave- 195 ri da oppio”, diceva qualcuno al bar. “Mia zia Ester ha germoglia- to uno splendido bouquet di tulipani gialli e orchidee selvatiche del Brasile”, diceva qualcun altro dal barbiere. Dopo qualche tempo si giunse persino a premiare il cadavere germogliato più bello. La Deutsche Orchideen Gesellschaft con- segnò i suoi ambitissimi riconoscimenti a tre cadaveri di ventidue anni circa. Eravamo allibiti. Nel giro di una settimana più di cinquantamila cadaveri germo- gliarono, originando un vero e proprio groviglio botanico di spermatofiti, boccioli, fiori e piante ornamentali. All’inizio il fe- nomeno si manifestò solo in prossimità dei cimiteri, ormai ridotti a invalicabili giungle; in seguito, per via della particolare confor- mazione di Sabbione, costruita su decine di necropoli, si estese a tutta la città. Le piante iniziarono a farsi luce attraverso i condotti fognari e fuoriuscendo dai tombini spaccarono il bitume delle strade e il cemento dei palazzi, stringendo in una morsa imperiosa perfino il palazzo Gerarcale, avvolto da liane ed edere rampicanti. Non mancarono le ripercussioni. I cattolici, che inizialmente presero le distanze dai fatti, arrivarono a sostenere una sorta di predeterminazione nella fioritura dei cadaveri; una costola del cul- to cristiano fondò una sorta di teologia botanica, della quale pub- blicò un breviario; in sintesi il testo emanato sosteneva che le azioni compiute in vita avrebbero generato un determinato tipo di fiore da cadavere. Ma ben presto la popolazione cominciò a subire le conseguen- ze di quella fioritura: i fiori puzzavano tremendamente e la puzza col passare dei giorni si fece insopportabile.

Tornammo a casa dopo il lavoro e c’incontrammo in cucina, come spesso accadeva. Insegnavo metodi innovativi e sicuri di smaltimento delle carcasse animali a un gruppo di lavoratori extra- comunitari; erano marocchini, egiziani, un paio di turchi. “Potremmo seppellire mio padre in giardino”, disse Laura. Suo padre era morto pochi giorni prima. Io non dissi nulla e accesi la televisione. Le telecamere inqua- dravano il cimitero monumentale ventiquattrore su ventiquattro per documentare la crescita delle piante in tempo reale.

196 Il Governo fornì delle maschere anti-gas a parte della popola- zione. Ma le maschere non bastavano per tutti. C’erano circa mil- lecinquecento, duemila maschere, buone per il due percento della popolazione. Dopo un mese Sabbione era avvolta da fiori di ogni varietà, più simile a un giardino botanico tropicale che all’informe massa di palazzine e tetti rossi che ci eravamo abituati a vivere. La puzza dei fiori era tremenda, e il fenomeno tanto eccezionale da dar luo- go a curiose manifestazioni. Enrichetta Brumoj, un vecchio cada- vere femmina di quarantasette anni, buttò alcune piante carnivore giganti delle montagne Tepui che terrificarono un intero quartiere e, si dice, inghiottirono alcuni barboni. Laura avrebbe tanto desiderato una fioritura di suo padre e cominciò a pregare. Teneva sul comodino il breviario di teologia botanica e ogni notte lo leggeva e rileggeva. “Pensi che mio padre butterà un rododendro? O forse un non- ti-scordar-di-me? Il non-ti-scordar-di-me non mi dispiacerebbe. Neppure a mamma credo. Anche un semplice mazzo di margheri- te andrebbe bene. Ho sempre adorato le margherite”, disse. “Com’è potuto succedere?”, domandai io. “La bocca di leone”, disse lei. “Secondo la teologia botanica germoglia solo dai cadaveri che hanno avuto una vita esemplare”. Mi accesi una sigaretta. “Credi che mio padre butterà una bocca di leone?”, chiese. “Non ho dubbi”, risposi. Prima di andare a letto mi masturbai. L’odore di fiori mi stor- diva e io ribadii il mio odio nei confronti del mondo vegetale, con- fermando la mia instabilità emotiva. Mi scagliai contro le due pian- te del mio soggiorno, insultandole, schernendole, sputando sulle loro foglie morenti e sul loro fusto rinsecchito. Presi l’annaffiatoio e versai qualche goccia d’acqua nella terra. Volevo che soffrissero, quelle figlie di puttana, e le dileggiai ancora con oltraggi e sputi.

Molte persone patirono disturbi intestinali, nausee, conati. La protezione civile distribuì tonnellate di scopolamina; furono ap- prontati dei punti di distribuzione nelle vie e nelle piazze di Sab-

197 bione e dei maggiori paesi sabbionassi, ma ben presto le scorte di scopolamina si esaurirono. Quando esaurimmo le scorte di scopolamina si scatenò una lot- ta selvaggia per procacciarsi le poche confezioni rimaste.

La scopolamina è un farmaco alcaloide allucinogeno ottenuto da piante della famiglia delle Solanaceae. Ha un effetto anti vomi- to e agisce come anti-spastico sulla muscolatura gastrointestinale. Fu un dottore di Pizzengo a consigliarla attraverso un programma televisivo assai noto. Dapprima fu prescritta e consigliata da tutti i medici ma poi, quando l’uso divenne smodato, la situazione sfuggì di mano. Le grandi case farmaceutiche fecero di tutto per inviare sempre nuove scorte di medicinale, ma le ultime derrate furono bloccate e confiscate dal Governo.

Ottenemmo i permessi necessari e seppellimmo il padre di Laura in giardino un mercoledì di fine giugno. La notte prima era piovuto come in tutto il cenozoico, e adesso si stava come nell’hararet di un hammam; il caldo nebbioso acuiva la percezione di un lento strangolamento e l’oppressione vegetale si stava facen- do sempre più gravosa. La pioggia nefritica contribuì ad accelerare la germogliazione dei cadaveri e a poco servirono i tentativi di bloccarla dalla nascita, estirpando prima i boccioli e poi, ancora più radicalmente, i cadaveri. Qualcuno propose di approntare un’enorme pira nel mezzo della piazza più grande di Sabbione, ma tutti i cadaveri, o quasi tutti, avevano parenti e amici che si oppo- sero con fermezza a questa soluzione.

Laura cominciò a recitare una preghiera per suo padre. Io sca- vai un fosso profondo due metri e gettai il corpo nella terra avvol- to da un sacco di plastica. Mentre ricoprivo la fossa ascoltavo la radio, non faceva altro che ripetere notizie sui cadaveri germoglia- ti. A Scurzolengo, nelle colline sabbionasse, l’intero cimitero aveva germogliato un’unica, immensa, vigna, i cui pampini e acini ema- navano un violento lezzo acidulo e cadaverico. In breve ci isolarono. Le televisioni non ne vollero più sapere. Un’intera città era allo sbando, la sua popolazione era ridotta alla stessa stregua di un gruppo di universitari dopo una colossale 198 sbronza; i miasmi, i conati, le allucinazioni, i barcollii della gente che non si reggeva in piedi, le splendide donne sabbionasse ridotte a femminucce anoressiche, erano tutti fattori che tenevano lonta- na l’attenzione della gente.

Accompagnai Laura nella zona alta della città, in collina, dove l’aria era più respirabile e il lezzo meno nauseante. Mi chiese di portarla al Luna Park. Ci fermammo ad ammirare i neon impolverati, le luci rosse, l’immenso clown dalla bocca spalancata che pareva sbadigliare nella noia d’estate. Il luna park era deserto; sebbene alcune giostre fossero funzionanti nessuno ci veniva da settimane. La accompa- gnai sulle montagne russe e per un momento credetti che si stesse divertendo, l’aria fresca ci accarezzava il viso e le alte velocità co- privano il fetore della vegetazione. “Mio padre mi portava spesso sulle montagne russe”, disse. “Ne ero terrorizzata. Gli chiedevo di tenermi stretta, ma lui diceva che dovevo crescere, che un giorno non avrei avuto nessuno a cui stringermi, che avrei dovuto sbrigarmela da sola”. Del grande Luna Park di Sabbione restavano quattro o cinque giostre funzionanti e un solo chiosco di mais abbrustolito, peraltro deserti, oltre alla tenda della Maga Vulshok, una novantenne mo- ribonda mascherata da fattucchiera. Laura volle entrare. La maga mi sembrò in uno stato di ipnosi, o catalessi, e tuttavia non pareva particolarmente turbata dagli eventi. Indossava una vestaglia scura sulla quale spiccavano motivi celesti e sedeva su uno sgabello marcio che faticava a reggerne il peso. “Vogliamo conoscere il futuro”, disse Laura. “Il futuro di chi?”, chiese la fattucchiera mostrando il suo uni- co dente brillante al centro della bocca. “Il futuro di tutti”, replicò Laura. La vecchia era ridotta piuttosto male. Aveva una specie di bar- ba sul viso pallido, traballava sullo sgabello, ciocche di capelli le si staccavano dalla testa e cadevano sul pavimento ricoperto di gia- cinti. “Questi giacinti sono tutti i miei morti” disse con un filo di vo- ce, “osservate i giacinti che sono i miei morti”; scostò la tenda 199 scura che aveva alle spalle, strappò un giacinto e lo porse a Laura, poi tornò nel suo stato di trance, quasi in coma.

Tornammo a casa con le braccia pesanti e gli occhi annebbiati, e Laura mi sembrò bellissima con il giacinto infilato tra i capelli madidi. Le strade di Sabbione erano avvolte da una nebbia miste- riosa e l’asfalto era ricoperto di terriccio scuro, humus, fanghiglia. Le radici delle piante più grandi squarciavano le strade ovunque, arrampicandosi sui palazzi, attorcigliandosi ai semafori e ai lam- pioni. Macerie di pietra avvolte da erbe infestanti ingombravano le vie d’accesso agli ospedali e alle scuole.

I pesticidi furono inutili. I cadaveri continuavano a germogliare più rigogliosi che mai. Ci fecero notare che i cadaveri ebrei e mu- sulmani, così come quelli di altri culti, non attecchivano. Gli unici ad attecchire erano i cattolici. Nessuno seppe spiegare di preciso perché, ma dal momento che la gente non sembrava interessata a questo aspetto della vi- cenda nessuno se ne preoccupò. Al quinto mese l’Osservatorio Medico Legale del Sabbionasso giudicò il fenomeno insolito e stilò un rapporto di trecentoquaranta pagine, consultabile presso l’Archivio cittadino.

Pensammo di andarcene, ma nessuno voleva lasciare la città, io ero così attratto e tormentato dalle piante che un pomeriggio tra- scorsi diverse ore a odorarne le emanazioni. Tiravo avanti a sco- polamina tagliata e a esalazioni fetide. Di notte vagavo per bar e locali cercando persone, gente che come me si aggirava per la città a caccia di una nuova specie tropicale, di un germoglio appena sorto, ossessionata dalle esalazioni fetide ed equipaggiata di scopo- lamina. Nei bar ormai si servivano siringhe anziché bibite. I pochi locali chiudevano presto, rigettando nelle strade invase dai vegetali tutti gli intossicati ormai strafatti di esalazioni e scopo- lamina. Vagabondai lungo il fiume in cerca di piante migliori, più grandi, dal gusto diverso e mostruoso. Le prostitute avevano la- sciato quei luoghi ormai da tempo: la chiatta era invasa da poten- tille e un numero imprecisato di piante da spezia, pimenta racemo- sa, cinnamomum zeylanicum, camellia sinensis. 200 Ormai mi spostavo sempre con un grosso manuale illustrato di botanica nello zaino. Lo avevo studiato minuziosamente. Il fiume trascinava materiale di ogni genere, ma lungo le sue ri- ve non c’erano più pescatori, né i soliti adolescenti notturni in ve- na di sballi, non c’era nessuno. Mi fermai presso il terrapieno che segnava l’argine, ora ricoperto da una gigantesca Bougainvillea Spectabilis; la teologia botanica spendeva parole dure per i cadave- ri che buttavano quel genere di arbusto. Odorai a lungo e profondamente, sentendomi vibrare il più in- terno midollo delle ossa. Le mie narici, ridotte a una sottile cartila- gine, erano lacerate, le ginocchia mi sorreggevano a fatica. Pensai di gettarmi nelle acque sudice e sconvolte del fiume e subito dopo svenni.

Laura volle tornare in collina. Dall’alto il panorama della città era incantevole. Fiori multicolore addobbavano i palazzi e le stra- de, i lampioni, le panchine. E poi boccioli, gemme, alberi ad alto fusto, alberi da frutto. Mi sedetti rivolto alle montagne e piansi.

Poi venne Shiv Wiratchant. Shiv Wiratchant era un biologo ipovedente originario dell’India, o della Thailandia, che produsse e coltivò un particolare parassita in grado di eliminare l’odore. Un parassita che si nutriva di esalazioni fetide. In sostanza incrociò una forma di lepidottero tropicale con comuni afidi succhia linfa e li bombardò con radia- zioni ionizzanti. Ne produsse a milioni, forse a miliardi, e li rilasciò in città. Nel giro di due settimane, disse, avremmo ottenuto dei risultati. Tutti attendemmo i risultati. Solo che fu un fallimento. I parassiti assimilarono le esalazioni dei fiori ma non bloccarono la crescita delle piante. A quel punto la città sembrò esplodere in una bolla di qualunquismo. Qualcuno non riuscì a ritrarsi dalla dipendenza alla scopolamina e fu imme- diatamente alienato, ma alcune persone ne uscirono. Prima di andarsene Wiratchant ripeté centinaia di volte una so- la frase nella sua lingua, soltanto una, ma nessuno la comprese.

201 Poi successe qualcosa. Qualcosa che era già successo in pas- sato, quando ci battezzarono, quando ci costrinsero a combattere, quando scoprimmo la morte. La gente ricominciò pigramente a rubare, rompere, uccidere, fare l’amore.

Tornai alla sardigna municipale e qualcuno dei miei apprendisti mi spronò a discutere con loro della questione. Mi chiesero, che significato hanno? Le piante, i fiori, i morti, le radici. Risposi, nessuno può saperlo. Dissero, eppure qualcuno dovrà saperlo. Risposi no, non necessariamente. Domandarono, non stiamo forse soggiornando nel bel mezzo di un profondo atto simbolico? Risposi probabilmente sì, ma il simbolo presuppone un’acquisizione dell’essenza del significato. Dissero, eppure se si- gnificato e significante coincidessero, non staremmo parlando di un atto di Dio? Risposi, qui non si tratta di un mero atto singolo, ma di un processo costantemente progredente di determinazione che dà la sua impronta all’intero sviluppo della coscienza. Do- mandarono, non sei convinto che sia stato Dio a fare questo? Ab- bozzai una risposta, ma a quel punto ci consegnarono una partita di cani randagi morti e fummo costretti a riprendere il lavoro. Dissero, spesso la morte manifesta la vita. Risposi, può darsi. Dissero, ci sembri provato, prenditi una vacanza. Dissi, ci rifletterò.

Venne l’inverno e i fiori cominciarono ad appassire. I cittadini usarono i cadaveri germogliati per abbellire i palazzi; li misero sui terrazzi, sui tetti, nei parchi, costruirono orti e giardini pensili. I parassiti andarono in letargo, o comunque sparirono dalla circola- zione. La neve ricoprì la città. Portai Laura in montagna e fabbri- cammo uno splendido palazzo di ghiaccio. Era un palazzo molto grande. “Quassù mi sento libera”, disse Laura distendendo i suoi capelli lunghi e neri. Abitammo qualche settimana nel nostro palazzo, scrivendo canzoni e poesie, facendo l’amore e traducendo antichi libri san-

202 scriti, cibandoci di bacche e carne, pregando un po’. Laura pregò molto e cantò diverse canzoni. Suo padre non germogliò mai. Disse, perché è successo? Risposi, nessuno lo sa. Disse, perché mio padre non è germogliato? Risposi, non lo so Laura, nessuno può saperlo. Disse ancora, eppure qualcuno dovrà saperlo. Risposi no, non necessariamente.

Quando tornammo in città i fiori erano avvizziti e le strade profumavano di disinfettante industriale.

203

È TUTTO ASCIUTTO

Averson, poiché era all’incirca disoccupato, per raggranellare qualche soldo decise di sfruttare la sua particolarità presentandosi a una selezione per cavie di uno studio sull’emotività umana seguì- to ventiquattrore su ventiquattro da un’equipe medica altamente qualificata. La particolarità di Averson, cinquantenne venditore di case fal- lito, era quella di non riuscire, o meglio di non potere, piangere, avendo presumibilmente l’apparato lacrimale poco o per nulla svi- luppato (o almeno così credeva).

Rispose a un annuncio che diceva: “ stiamo cercando persone la cui emotività non riesca a esprimersi mediante lacrimazione per studiare scientifi- camente le conseguenze dell’incapacità umana di manifestare le emozioni nell’era della collettività virtuale e della solitudine reale. Lo studio sarà con- dotto da un’equipe medica all’interno del Laboratorio Analisi sulla Sensibili- tà Umana di Sabbione Centro e in ogni altro luogo in cui gli esperti riterran- no opportuno condurre analisi o osservazioni. Durata cinque giorni, pagamen- to in contanti, metà subito l’altra metà a lavoro ultimato ”. Averson si presentò al laboratorio un mercoledì pomeriggio, attese un’ora in una sala profumata dopo di che fu accolto da una certa dott.ssa Hansen, la quale gli strinse la mano, gli mise sotto al naso un piatto pieno di cipolla appena tagliata e gli domandò: “da quanto tempo non palesa il fenomeno secretomotore caratterizza- to dall’effusione di lacrime da parte dell’apparato lacrimale senza alcuna irritazione per le strutture oculari?” Averson non disse nulla. “Insomma, da quanto tempo non piange, signor Averson?”. “Più o meno da quarantacinque anni”, rispose Averson. Poi cominciò a piangere, per via della cipolla. “Meraviglioso”, disse la Dott.ssa Hansen. 204 “Sono scartato?”, domandò Averson. “Per nulla!”, esclamò la dottoressa Hansen, “il fatto che lei ab- bia pianto a causa della cipolla dimostra che il suo non è un pro- blema fisico, ed è precisamente ciò che cerchiamo”. Lo scritturò immediatamente per i test. “Ero l’unico candidato?”, domandò Averson. “Ce n’era un altro, ma lo abbiamo scartato dopo dieci minuti, non ha superato il test della cipolla”, disse la dott.ssa Hansen. “Come procediamo?”, domandò Averson. “Cominciamo domani. Deve trasferirsi qui in laboratorio per cinque giorni”, disse la dott.ssa Hansen. “Porti solo lo stretto ne- cessario, uno spazzolino e tre o quattro paia di slip. Per il resto le forniremo noi gli abiti adatti”.

Il giorno dopo Averson si ritrovò seduto di fronte a tre profes- sori e cinque telecamere indossando una tuta bianca recante un’etichetta con la scritta cavia . “Negli ultimi quarantacinque anni ci sono state occasioni per cui, secondo il pensiero comune, avrebbe dovuto manifestare la sua emotività mediante lacrimazione?”, gli domandò la dott.ssa Hansen. “A parte qualche lutto, un paio di incidenti domestici, cinque o sei cani morti, ho perso quasi tutti i capelli e non vendo una casa da quindici mesi; sono pieno di debiti e mia moglie si è portata via le mie due figlie adottive, che amavo come figlie naturali. Non vo- levo figli, ma ammetto che quelle due bambine…”. Ci fu una pausa durante la quale la dott.ssa Hansen temette che Averson potesse cominciare a piangere, invece non lo fece. “Inol- tre l’altra mattina camminando scalzo ho sbattuto il mignolo del piede destro contro lo spigolo del letto”, disse. “E non ha lacrimato?”, domandò il dr. Pompoj. “No”, disse Averson fermamente. “Stupefacente”, disse il dr. Krug. “Signor Averson, risponda a una domanda”, disse la dott.ssa Hansen. “Lei è triste?”. “Moltissimo”, rispose Averson. “Questo è un bel modo per cominciare”, intervenne il dr. Krug. 205 “E si sente alienato?”, chiese il dr. Pompoj. Averson osservò brevemente le sue scarpe, poi cercò di trovare una risposta adatta alla domanda. “Insomma”, lo anticipò la Dott.ssa Hansen, “trova che il suo modo di manifestare le emozioni sia in qualche modo, come dire, una diretta conseguenza dei tempi che stiamo vivendo? In altri termini, la virtualità opprimente cui siamo sottoposti può condur- re un uomo a essere completamente incapace di piangere? O, per dirla ancora in un altro modo, si sente arido ?”. Averson non capì completamente la domanda, cionondimeno annuì. “Nei prossimi giorni la sottoporremo ad alcuni esperimenti scientifici approfonditi”, disse uno degli studiosi. “Naturalmente se lei è d’accordo”. Averson si disse d’accordo e ricevette un assegno di cinquecen- to euro. Inoltre gli applicarono decine di sensori per monitorare il battito cardiaco, la frequenza elettromagnetica, la pressione arte- riosa, ecc. “L’assenza di lacrimazione le ha procurato o le procura disturbi fisici, Signor Averson?” “Ho la pressione bassa e il colesterolo alto”. “Molto bene”, disse la dott.ssa Hansen, “le piace il cinema?”. “Sì”, rispose Averson, “anche se è da quasi tre anni che non ci vado”. Prima di cominciare la dott.ssa Hansen informò Averson che durante il periodo degli esperimenti avrebbe dovuto inghiottire una dozzina di pastiglie al giorno, a orari prestabiliti. “Di che si tratta?” domandò Averson. “Niente di cui preoccuparsi”, disse la dott.ssa Hansen, “più che altro ansiolitici o antidepressivi sperimentali”. “Non si era parlato di farmaci”, si lamentò Averson. La dott.ssa Hansen lo convinse aumentando la paga del dop- pio, inoltre gli comunicò che aveva diritto a una telefonata al gior- no, subito prima di cena.

Averson chiamò il suo commercialista. “C’è qualche novità?” “Nessuna”. 206 “Per quanto riguarda quell’alloggio in centro…” “Non lo venderai mai. Dove ti trovi?”. “Ho deciso di fare la cavia per un esperimento scientifico”. “Che vergogna”, rispose il suo commercialista, “era proprio necessario sminuirsi in questo modo?”. “Assolutamente necessario”, rispose Averson. “Ti faranno male?”, chiese il commercialista. “Ho bisogno di soldi”, rispose Averson, “se voglio mangiare”. “Finirai per farti avvelenare il sangue”, disse il commercialista, e riattaccò. Poiché gli restavano ancora quaranta minuti prima di cena, Averson poté dedicarsi al suo secondo hobby preferito (dopo il modellismo ferroviario): comporre sciocchi esercizi di stile privi di vita e passione da indirizzare alla propria ex moglie mediante rac- comandata postale; ne aveva scritti circa centoventi, tutti riferiti al- le proprie caratteristiche somatiche (per es. caviglie, attaccatura dei capelli, polsi, sopracciglia, mento, ecc). Quel giorno si osservò allo specchio, osservò le sue sopracciglia abbastanza dense, ne misurò la distanza con uno strumento di fortuna e compose un esercizio di stile freddo e caustico a cui diede il titolo “ Sopracciglia ”.

Il cinema era completamente deserto. Averson fu lasciato libe- ro di scegliere il posto che preferiva, e quando si fu accomodato una voce gli domandò se era perfettamente a suo agio e se deside- rasse qualcosa, come per esempio una coca-cola o un bicchiere di popcorn. “Sono a posto così”, rispose Averson, e inghiottì il primo far- maco, una pasticca gialla di forma trapezoidale. Il primo film che proiettarono suscitò alcune chiose da parte degli studiosi. In particolare essi non riuscivano a concordare su una questione centrale, cioè se i film trascelti potessero effettiva- mente procurare un’emozione manifestabile attraverso la lacrima- zione, oppure no. Il film in corso era Philadelphia , con Tom Hanks. “Non capisco per quale ragione un tizio malato di AIDS do- vrebbe suscitare un’emozione manifestabile attraverso il pianto”, disse il dr. Pompoj piuttosto commosso.

207 “Un tizio malato di AIDS suscita lacrimazione nel cinquanta- nove percento dei tester, un tizio licenziato dal lavoro in quanto malato di AIDS suscita emozioni manifestabili mediante lacrima- zione nel novantasette percento dei tester”, disse il dr. Krug asciu- gandosi le lacrime con un fazzoletto di carta e spulciando una car- tellina rossa. Avevano stilato un elenco di film lacrimosi sottoponendo un campione di centoquaranta maschi adulti alla visione solitaria di quarantanove film, e Philadelphia era in cima alla lista, seguìto da Qualcuno volò sul nido del cuculo , Titanic e Braveheart . Ciononostante, anche nelle scene classificate come strappalacri- me , Averson (che aveva una telecamera puntata addosso in modo che gli studiosi potessero controllare in tempo reale le sue reazio- ni), non pianse neppure un po’. Il suo volto traspariva una certa afflizione, o contrizione, pur tuttavia il suo apparato lacrimale non produsse una sola lacrima. “Proviamo con Titanic ?”, domandò la dott.ssa Hansen terribil- mente commossa dalla morte di Tom Hanks. “Che ne dite invece di Fuga per la vittoria , o della finale dei mondiali di calcio 1982?”, suggerì il dr. Krug. Alla fine decisero di abbandonare il cinema e sottoporre Aver- son a un nuovo test.

“Signor Averson, lei è cattolico?” domandò la dott.ssa Hansen. “Non propriamente”, rispose Averson. “Ma la sua cultura è cattolica?”. “Sono andato a catechismo”. “E perché ci è andato, signor Averson?” “Mi costringevano a farlo”. “Non avrebbe preferito andarsene in giro per i prati, oppure a fumare con i suoi amici?” “Può darsi”. “Nonostante ciò è andato a catechismo lo stesso”. “L’ho fatto”. “E durante gli anni del catechismo non ha maturato coscienza del suo cattolicesimo?”. “Direi proprio di no”. “È davvero sicuro di non essere cattolico?” 208 “Sicurissimo”. “Inghiotta il farmaco”. Averson inghiottì una pasticca rossa e blu di forma ovoidale. “Lei è cattolico, signor Averson. Non adesso, forse. Non anco- ra. Ma lo è stato, e lo sarà ancora. Siamo tutti cattolici”. “Io non lo sono”, tagliò corto Averson.

Cionondimeno, visto che il programma dei test lo prevedeva, decisero di procedere ugualmente con l’esperimento religioso, che consisteva nel rinchiudere Averson in uno stanzino completamen- te vuoto a eccezione di un crocifisso appeso alla parete. Del resto uno studio dell’università di Harvard aveva dimostrato che alcuni soggetti, definiti cattolici sopiti, anche dopo aver giurato di non ri- tenersi cattolici, manifestavano violente reazioni lacrimali se sot- toposti, in solitudine, alla visione prolungata di un crocifisso. Dopo tre ore Averson si addormentò, e l’esperimento fu inter- rotto.

Il terzo giorno fu svegliato da una musica che non riconobbe, gli fu servita un’ottima colazione, inghiottì una pasticca marrone chiaro di forma tondeggiante, fu accompagnato nell’ufficio della dott.ssa Hansen. “Signor Averson, lei a cosa tiene?” gli domandò la dott.ssa Hansen. “Voglio dire, c’è qualcosa a cui tiene particolarmente ?”. “Tutto ciò che mi rimane è un gatto”, rispose Averson. “Un gatto?” “Un gatto a cui tra non molto mancheranno il latte e i croccan- tini”. “Niente altro?” Averson osservò la scrivania della dott.ssa Hansen. “Una cosa ci sarebbe”, disse poi. “Si confidi con me”, disse la dott.ssa Hansen. “Il mio plastico ferroviario, ci ho lavorato trentacinque anni”. “Stupendo, signor Averson, non deve vergognarsi di avere un hobby, avere un hobby è meraviglioso”. “Trova che sia meraviglioso?”, domandò Averson. “Trovo che sia una cosa molto dolce”, confermò la dott.ssa Hansen. 209

Immediatamente dopo condussero Averson in una sala illumi- nata a giorno per sottoporlo all’esperimento dell’umiliazione. Questa volta non fu fatto sedere. Restò in piedi al centro della stanza, trafitto da una luce abbagliante che per quanto ne sapeva avrebbe potuto procurargli un’ustione agli occhi.

“Signor Averson, non sente di aver sbagliato tutto?”, gli do- mandò improvvisamente una voce che riconobbe, era quella della dott.ssa Hansen. “Beh..” “La sua situazione non le ha spalancato le porte dell’insensatezza e dell’angoscia? Non si sente inadeguato?” “Insomma..” “Lei è inadeguato, signor Averson. Lei è un mediocre venditore di case, un mediocre marito, un mediocre padre. Non è neppure in grado di badare a un gatto”. “Ci ho provato, mi creda.” “Ma non ci è riuscito. Il suo gatto attende una ciotola di croc- cantini che lei non può permettersi di procurargli”. “Mi sento mortificato”. “Fa bene a esserlo. Non è riuscito neppure a vendere un mise- ro alloggio” “Sono tempi di crisi..” “Sciocchezze. Lei non riesce a vendere case semplicemente perché è un venditore incapace. Questa è la verità, Signor Aver- son”. “Il mercato è fermo..” “Pensi al suo gatto, signor Averson; non sarebbe meglio lascia- re che di lui si occupi qualcun altro? Magari una clinica per gatti? Magari qualcuno con un reddito fisso, che possa permettersi di acquistargli una scatola di biscotti?”. “Ci sono affezionato”. “Ma lui è affezionato a lei ?” “Sembra di sì..” “Lo lasci andare, signor Averson. Deve ammettere che per il bene del suo gatto sarebbe meglio che una vera famiglia lo acco- gliesse”. 210 “È un gatto terribilmente affettuoso..” “Lei, signor Averson, non è una famiglia”. “Sto benissimo anche da solo”. “Parla così solo perché è stato abbandonato dalla sua famiglia”. “Non dica così”. “Sta per piangere, signor Averson?” “Probabilmente vorrei, ma non ci riesco”. “Inghiotta la pasticca viola”.

Quando si spense la luce Averson notò una televisione appesa alla parete di fronte a lui. Il poveraccio rimase in silenzio, indeciso su cosa fare; la sua espressione era contrita, quasi disperata. Pensò brevemente al suo gatto, poi cominciò a mangiarsi le unghie. Dopo circa quindici minuti sullo schermo apparvero le imma- gini di un luogo che Averson conosceva bene, essendo l’interno del suo seminterrato, dove egli custodiva il suo plastico ferrovia- rio. Le inquadrature in diretta spaziavano su numerosi treni Mär- klin, sulle colline fedelmente ricreate, sui ponti, sulle strade e sui dettagli curatissimi delle stazioni ferroviarie, del porto, della cre- magliera. Osservando quello spettacolo Averson ebbe un moto d’orgoglio. “Qualcosa di buono l’ho fatto”, disse; “questo plastico è in- dubbiamente l’opera di un uomo che possiede delle qualità”.

Mentre Averson fissava il monitor riflettendo sul frutto del proprio lavoro, cinque uomini travestiti da pompieri fecero irru- zione nel suo seminterrato e cominciarono a distruggere il plastico utilizzando quelle che apparentemente sembravano mazze da ba- seball, giacché erano , mazze da baseball. Averson soffocò un grido. Il primo colpo sfasciò la riproduzione di una stazione ferrovia- ria di montagna che gli era costata un mese e mezzo di lavoro nel millenovecentonovantuno. I binari si frantumarono e la polvere si levò fino al soffitto. Averson rimase paralizzato. 211 “Fermi!”, urlò. Il secondo e il terzo colpo raggiunsero il porto e la cabinovia del Monte Bianco, che Averson aveva edificato nel maggio mille- novecentosettantanove. “Cosa vi ho fatto di male?” Un altro colpo distrusse la centralina per lo smistamento dei convogli, che egli progettò a più riprese dal settantasette in poi. “Fermatevi!”, urlò ancora Averson. Il colpo più tremendo fu inferto alla riproduzione di un con- dominio con meccanismo temporizzato per l’emissione di piccoli gemiti, rumori di stoviglie, luci accese/spente, sciacquoni del wa- ter, ecc., che Averson riteneva giustamente il fiore all’occhiello del suo plastico, l’esempio concreto della sua meticolosità nel definire anche e soprattutto i dettagli più insignificanti. “Questa deve essere la punizione per aver accettato una cosa umiliante come far da cavia in un esperimento scientifico, la puni- zione per essere stato un pessimo padre e un pessimo marito, la punizione per non essere stato un buon cattolico”, disse tra sé e sé, farfugliando e urlando. Altri colpi frantumarono la riproduzione di una ferrovia del far west con treno a carbone e quella di un Minuetto delle Ferrovie dello Stato che Averson aveva ricevuto in dono dalla figlia più grande tre Natali prima. “Il Minuetto no!”, gridò Averson. Con altri, innumerevoli, colpi, gli uomini travestiti da pompieri frantumarono il plastico ferroviario di Averson. Egli rimase impie- trito a osservare lo scempio per un tempo innaturale, con il volto a cinque centimetri dallo schermo. Provò a toccare i resti del suo la- voro, ma i polpastrelli non potevano oltrepassare il vetro dello schermo. Se ne rese conto e chinò il capo, ma non versò neppure una lacrima. Rimase fermo e in silenzio per venti minuti. “Lei è un uomo buono, signor Averson”, gli disse tramite in- terfono la dott.ssa Hansen. “Il mio plastico..”, sussurrò Averson. “Quella che ha appena visto è finzione, una ricostruzione ren- derizzata della distruzione del suo plastico, se mi passa il gioco di

212 parole. Stia tranquillo, quando tornerà a casa lo troverà perfetta- mente integro”. Averson si sentì investire da un’ondata di benessere e gioia. Gli portarono un whisky e una pasticca grigia di forma quadra- ta, e quando si fu calmato un’infermiera lo accompagnò alla bi- blioteca del laboratorio, dove lo fece accomodare presso una po- stazione ben illuminata. Dopo qualche minuto la dott.ssa Hansen si scusò per la fac- cenda del plastico, offrì ad Averson un caffè e gli porse un quoti- diano. “Credevo di prendere un infarto”, disse Averson. “La sua frequenza cardiaca è sempre stata sotto controllo”, dis- se la dott.ssa Hansen. “Riteniamo tuttavia che la sua disfunzionali- tà lacrimale possa maturare una propensione a stati depressivi an- che gravi” “Lo crede davvero?”. “Signor Averson, apra il quotidiano alla pagina che preferisce e cominci a leggere le notizie”.

Averson lesse la notizia di una strage da qualche parte, dodici morti. Lesse di una bambina di sette anni stuprata da un ministro di dio. Lesse di un cinese morto ammazzato per questioni politi- che. Lesse della crisi immobiliare. Lesse di undici uomini che si erano fatti saltare il cervello per qualche forma di protesta che non gli riuscì di chiarire. Lesse di uno stato dell’Africa in cui ogni gior- no muoiono tredicimila bambini (ma forse l’articolo si riferiva all’intero continente) e intraprese una serie di conti per scoprire quanti bambini morissero al mese, al giorno, al minuto, al secon- do. Si domandò quanti litri di inutili lacrime versavano ogni minuto i genitori di questi bimbi, poi pensò che gli sarebbe piaciuto, per una volta, provare a piangere, tanto per scoprire l’effetto che fa. Lesse di una fabbrica che inquinava un fiume e una valle, di migliaia di persone malate, poi richiuse il quotidiano. Tali notizie, per quanto lo disgustassero, o lo ripugnassero, sebbene i due impulsi fossero praticamente equivalenti, non pro- dussero in lui alcuna reazione corrispondente alla lacrimazione.

213 Tutt’al più una forte nausea, che lo costrinse a interrompere la let- tura e a rifugiarsi in bagno.

“Lei è incapace di piangere”, disse la dott.ssa Hansen prima di consegnare nelle mani di Averson la seconda metà del compenso pattuito. “Ve l’avevo detto”, disse Averson con una punta di amarezza. “Inghiotta l’ultima pasticca e se ne torni a casa dal suo gatto, signor Averson”, disse la dott.ssa Hansen, “lei rappresenta l’uomo di oggi. La sua aridità lacrimale è un simbolo, solo non sappiamo ancora di cosa. Ma siamo pagati per scoprirlo, e lo scopriremo”. Averson, annuì, inghiottì l’ultima pasticca, ringraziò e mise l’assegno nel taschino della camicia. “Potete spedirmi questa?”, domandò Averson porgendo il suo esercizio di stile intitolato “ Sopracciglia ” alla dottoressa Hansen. “Naturalmente”, disse la Dott.ssa Hansen. “Se ci mettete il vostro timbro può darsi che mia moglie la ritiri e la apra, ho il sospetto che getti via le mie lettere senza neppure aprirle”. “Addio, Signor Averson”. “Addio, dottoressa”.

A casa Averson rovesciò un’abbondante quantità di croccantini nella ciotola del gatto e quando aprì la porta del seminterrato tro- vò il suo plastico ferroviario completamente distrutto, raso al suo- lo, sbriciolato. I treni deragliati e spezzati a metà, l’impianto elet- trico fracassato, la casa del doganiere crollata. Trentacinque anni di lavoro massacrati. Prese in mano i resti di un ponte sospeso perfettamente in sca- la, si mise in ginocchio e guardò l’immagine del suo volto riflessa nei cocci dello specchio frantumato che aveva utilizzato per ren- dere l’ambiente più luminoso.

Averson rimase in quella posizione per quattro ore, durante le quali da un certo punto di vista non piangeva affatto, sebbene da un altro punto di vista piangesse quanto mille genitori africani.

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IL CIRCOLO PARENTI & AMICI DELLA VEDOVA APOSTOLO

La Vedova Apostolo è davvero arzilla: fuma Gauloises e beve rhum scuro invecchiato trent’anni. Ha fondato un club nella sua tenuta di Castrocozzo e ogni giovedì ospita parenti e amici (gli amici sono le personalità più rilevanti del Sabbionasso, dice mia madre) per giocare a scacchi, backgammon e bridge. Al club par- lano di politica e cultura, leggono Giovenale, Marziale e Catullo, recitano Plauto e Terenzio, discutono di Plotino, Aristotele e Marc’Aurelio (la Vedova Apostolo ha una predilezione per gli an- tichi greci & latini), ma soprattutto si dibatte sul mercato dei sexy toys, prima attività dell’Azienda Famiglia Apostolo, fondata dal Commendatore Apostolo, che con vibratori e manette di peluche fece soldi a palate. La Vedova Apostolo ha centoquattro anni, ma li porta magni- ficamente.

Quel giovedì il maggiordomo ricevette l’ordine di accompagna- re gli ospiti in stanza da letto. “Cosa avrà in mente la Vedova Apostolo?”, si chiesero tutti. La trovarono mezza nuda sul letto, con un rosario in mano e le calze strappate, mentre rivolta al sof- fitto farfugliava ingiurie cosmiche. (Ah Vedova Apostolo, che vi- sione desolata). C’erano sul cuscino un grumo di capelli morti e una chiazza di sangue (si trattava di un’emorragia al naso, come si dice, una epistassi). Eppure le riunioni del circolo si tenevano soli- tamente dopo cena, nell’enorme sala del camino, dove si sorseg- giava brandy e si fumavano sigari, sigarette e pipe. Ma eccoci al cospetto della Vedova Apostolo: la guardiamo tutti come se fosse una povera moribonda emaciata e sporca, consumata dall’ambascia. Stasera ha un diavolo per capello, la vecchia, come suggerisce il bisnipote Henry, e lei allora attacca: “Qui bisogna de- cidersi”, dice, “e se non lo fa nessuno devo decidere io per tutti”, e continua a biascicare l’aria nella penombra, distesa come un de- 215 funto (epperò ancora sopra il lenzuolo, non ancora sotto), dice: “come il mio povero Alfredo, che Dio lo abbia in custodia…e il porco demonio se lo prenda, lui e il suo culo secco”. Che la Vedova Apostolo pronunciasse il vocabolo “culo” era evento inimmaginabile, epocale. D’accordo l’asettico “deretano”. D’accordo il più scientifico “parte basso-posteriore del corpo umano”. D’accordo anche il popolare “didietro”, il raffinato “loco ove non batte il sole” o il gentile “fondoschiena”. Ma CULO ! Culo mai e poi mai, neppure nei momenti di sconforto, di dubbio mi- stico, di agnosticismo galoppante. “È un misunderstanding!”, s’affretta a precisare il figlio maggiore, Damon. “Ma quale misunderstanding, ho detto CULO !”, grida la Vedova Apostolo. Mrs Hendrik ha un mancamento. Frank la sorregge, aiutato dal barone Volt. Il vecchio Bold si fa un bicchierino; ce n’è bisogno, ve lo dico io, e infatti anche Frank si versa da bere.

Io sono Frank, e ho davvero un bell’aspetto. Non lo dico per mancanza di modestia, me lo dicono tutti, compresi i maschi. È dai tempi della scuola che le femmine fanno la coda per conqui- starmi: mi chiamano Frank il Bello o Frank il Fusto, specie nei giorni in cui decido di uscire con il mio bandana rosso porpora sui capelli umidi e i muscoli delle braccia in bella vista, con un tatuag- gio grosso così sull’avambraccio destro: rappresenta una corona di spine, in onore di nostro signore Gesù Cristo. Siamo sempre stati molto cattolici. E molto ricchi. Non l’ho detto ma la mia famiglia è proprietaria della Tecnopellet, che esporta gli alberi dalla foresta pluviale amazzonica per ricavarci bancali e mobili, ed è una delle industrie più floride della nazione.

Ora la Vedova Apostolo si vuole sollevare un po’. “Cosa dia- volo fate? Mi alzate oppure volete stare lì a mugugnare per tutta la sera?”, chiede. Lottano per prenderle il cuscino e appoggiarlo al muro, la aiutano a sollevarsi; lei tira una scoreggia sconcertante. “Eh che Cristo, Vedova Apostolo”, fa il maggiordomo, “un po’ di contegno”. (Qui siamo nell’alta società, mi capite, e sono presenti alla cena grosse individualità: industriali, commendatori, politici, alte sfere pubbliche, notai e avvocati, molti accompagnati da signore in pai- 216 lettes e brillantini come si usa negli anni ’80 e tutti alla ricerca di un posto in prima fila agli occhi della Vedova Apostolo). La Vedova Apostolo è magra e discinta, sporca e con la calza destra strappata, sputa sul pavimento e completa l’opera con un nuovo roboante peto che ci fa sobbalzare. La vedova Nurse quasi crolla a terra. Ron Kock, dell’alta finanza, abbozza un parere: quest’anno il mercato dei vibratori schizzerà in cielo come il tappo di uno champagne a capodanno, dice. Stronzate, risponde la Ve- dova Apostolo, mentre il maggiordomo strabuzza gli occhi. Non tutti sanno che il manto vegetale della foresta amazzonica si dispone a strati sovrapposti come se a una foresta se ne sovrap- ponessero altre. Lo strato più basso è formato da un fitto sottobo- sco, fatto di arbusti intricatissimi, di felci giganti, di piante carnivo- re, tra cui i raggi del sole penetrano a stento: tutte queste specie fanno a gara per uscire dalla penombra e conquistarsi un po’ di lu- ce preziosa. Intorno alle radici contorte degli alberi e intorno ai tronchi pendono e si avvolgono liane, piante rampicanti e un nu- mero infinito di piante parassite o semplici epifite, che si appog- giano ad altre piante per vivere, formando un groviglio inestricabi- le. Interessante digressione, no? Dapprima si pensa ai deliri della febbre. Eppure era fredda, ge- lata. Carla Holms (una qualche nipote o figliastra, ma più nipote, essendo figlia di una figlia della Vedova Apostolo, che di figli in tutto ne ha sette) le prese una mano, John Blanchard accese una sigaretta. Ma ecco una specie di improvvisata: tra gli invitati c’è un famoso medico, uno che conosce bene la Vedova Apostolo, uno che sa quanti soldi ha donato alla ricerca, quanti alla politica, quan- ti all’università, quanti al Governo. Il dottor Swanson cammina avanti e indietro e si arrabatta nella stanza con affanno, tra gli strumenti – “servirebbe qualcosa, che so, un infuso alle erbe, una radice terapeutica” – e ausculta il cuore della Vedova Apostolo preoccupato, tenendole aperte le palpebre, la palpeggia, la tocca. La Vedova Apostolo lo lascia fare: “Vuoi scopare, cocco?”, chie- de, e ciò scatena l’immediata reazione del maggiordomo: ma che diamine, Vedova Apostolo, con centoquattro anni! Il maggiordomo è un bravo cristo di settantanove anni, lavora con la Vedova Apostolo da cinquantacinque e qualche volta l’ha anche scopata, infatti c’è chi prontamente maligna: “uno dei sette 217 figli della Vedova Apostolo è praticamente uguale al maggiordo- mo!” : è quasi un urlo sottovoce, tanto che il presunto figlio del maggiordomo (Jerry) sente tutto e interviene: “Se fossi figlio di un maggiordomo pensa che questa sera sarei invitato qui, madamoi- selle? Avec la crème de la crème? Ma guardi il mio doppiopetto, non è magnifico? Très magnifique, oui. E specie vorrei far notare l’eleganza con cui lo indosso. È forse l’eleganza del figlio di un maggiordomo? Oh no, no di certo”. Si trattava davvero del figlio del maggiordomo? Ma guarda la Vedova Apostolo, adesso sembra fare le fusa in direzione di Antony Landon, suo bis bis nipote, che avrà sì e no vent’anni. L’ha chiamato a sé, gli mormora qualcosa nell’orecchio; una dice: “sta facendo la troia!”, ed è proprio quello che sta facen- do. “E con suo nipote!”, dice un’altra. “Col suo bis, bis nipote!”, dice un’altra ancora. Gli deve aver chiesto di metterla in piedi, la simpatica vecchina, perché Antony la prende in braccio e la solle- va. Antony è davvero un bravo ragazzo, è uno studente modello di architettura ed è nella squadra di nuoto della scuola, aiuta i negri e gli albanesi in campagna, lui che è bis bis nipote della più grande possidente terriera del Sabbionasso e forse dell’intero Paese, coi suoi centottantamila acri di terra, le sue mandrie, i suoi cavalli e soprattutto le sue fabbriche di organi sessuali maschili riprodotti in lattice e automatizzati. A proposito, in braccio al giovane nipote come una ragazzina innamorata, come una sposina che non vede l’ora di fare l’amore, la Vedova Apostolo grida: “il mercato dei vi- bratori è in vacca!”, e il Signor Togg, economista di grande fama, s’affretta a contraddirla: “ma no cara Vedova, il mercato dei gio- cattoli sessuali va alla grande, dildo e vibratori che non immagina- te neppure”. Ma adesso alla Vedova Apostolo i sexy toys non inte- ressano più e appoggia il capo alla spalla di Antony. Poi lo solleva di quel tanto che basta per invitare i commensali a seguirla in sala da pranzo. Dice: “sedetevi tutti”, e tutti si siedono. Il tavolo è di puro rovere, sapete? Settantanove posti, neppure una regina ne possiede uno così grande. Tutti si sedettero. Silenzio. Si guardaro- no tutti. Ma che bello vedere la famiglia riunita. Sette figli (tre ma- schi e quattro femmine) con rispettivi consorti e rispettiva prole (in tutto una quarantina di persone, più le alte sfere, economisti e notai e avvocati e medici e politici e insomma quelli che abbiamo 218 già menzionato). Che silenzio. La Vedova Apostolo (che si è sedu- ta accanto al marito della terza figlia, Luis, e se lo mangia con gli occhi) ammicca, e un’altra vecchietta sembra essere particolarmen- te su di giri: si chiama Metilde Umbilk ed è amica della Vedova Apostolo da settant’anni. Continua a ridere e urlare e ancora ride- re, ma di gusto, proprio con quella risata grassa o cachinno o cosa che la rende insopportabile. È una vicina di casa povera in canna, con lo sguardo perso nel vuoto e un podere in rovina. Abbando- nata dai figli, vedova anche lei da tempo immemore, vive con la Vedova Apostolo da cinque anni.

Io mi sono seduto accanto alle figlie della zia Sandra, che son mie cugine. Io sono Frank e ho istinti indomabili, paurosi. Ciascu- no di loro è come un ratto che rode infaticabile le fibre della ra- gione e strascica ripugnante nello sporco del mio recondito semin- terrato, fondale di una preistoria riemersa. Insieme a loro stanno le mie vergogne, nascoste tra le bottiglie di vino e i circoli viziosi del- la mente, le indoli e gli sragionamenti. Si popola di creature miti- che, questa landa: accanto alle cassandre, nella polvere arcadica giacciono gli archetipi della mia razza replicante, l’orribile attitudi- ne al vizio, la materia che assume una forma e tiranneggia: e la mia voluntas è un automa precipitato dal tessuto della sua umanità. Io sono Frank e sono un gran bel ragazzo. Le donne fanno la fila per venire al cinema con me.

Frank si voltò lentamente e cominciò a piangere, prestando at- tenzione a non essere visto. Arrivano gli antipasti, e via col banchetto. Eh che cristo, Vedo- va Apostolo, aspetti almeno che tutti siano pronti. E poi non di- mentica la preghiera? “Che sbadati, stavamo dimenticando la cosa più importante. Dobbiamo pregare!”, urla qualcuno. “Affanculo la preghiera”, dice la Vedova Apostolo, e tutti quelli che avevano già le mani giunte le disgiungono e si avventano sul cibo. C’è un certo abisso che ci inghiotte tutti, quando s’avvicina la morte. Questo lo dice qualcuno dall’altra parte del tavolo, e Frank non poté stabilire chi fosse.

219 “Mr Bregend, ci reciti una poesia”, fa la Vedova Apostolo all’improvviso, mentre l’amica Metilde Umbilk continua la sua ri- sata (Mr Bregend fa il poeta, dice); ecco Mr Bregend: “Tutto fa scempio di me / in questo pomeriggio allegorico / di miti squas- sati dal vento / nella carta del bosco. / Nel fosso delle immagini / solo la pietra a forma di pietra / sembra essere solo una pietra”. “È una merda, Mr Bregend”, dice impassibile la Vedova Apo- stolo, mentre i primi applausi erano già partiti, ora strozzati. “Ma Vedova!”, urla il maggiordomo, “Mr Bregend è uno dei massimi poeti della nostra epoca”. “Non è colpa mia se la nostra epoca produce solo merda”, dice la Vedova Apostolo. “Cristo Santo”, fa il maggiordomo. Poi la Vedova Apostolo dice di affrettarsi perché ci aspetta il clou della serata, che è una sorpresa, e poi via, tutti af- fanculo, ognuno a casa propria. “Oh Gesù, ma chiamate un pre- te!” dice il dottor Swanson, riferendosi probabilmente a quel reve- rendo negro esperto in esorcismi. Teresa Gattoni prova a esibire la sua cultura medica: questo è un caso di Alzheimer bell’e buono, dice. Ma stia zitta, fa il barone Meich, lei non capisce niente. Meno di niente, aggiunge il dottor Swanson. Per me è un caso di demen- za chiaro e lampante, fa la Teresa Gattoni. Demenza! Cosa mi tocca sentire! Sogghigna il dottore. Lasci che le diagnosi le faccia- no i laureati in medicina, gli iscritti all’albo dei medici, gli abbonati alla Medical Review! Io mi rifaccio solennemente e ufficialmente all’autorità del Committee of Geriatrics del Royal College of Phy- sicians britannico, il quale tra l’altro afferma che (cito testualmen- te) la demenza consiste nella compromissione globale delle fun- zioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in prece- denza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle cir- costanze e di controllare le proprie reazioni emotive: tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di vigilanza. La condizione è spesso irreversibile e progressiva (fine della citazione testuale). Le sembra questo il caso? Ma suvvia, amici cari, questo è un com- portamento, per così dire, stravagante, quello sì, ma che diamine, da questo alla demenza ce ne passa! Si scalda, il dottore. E per di più mancano i sintomi classici della malattia, prosegue, come am-

220 nesia, aprassia, anomia, agnosia, disorientamento, acalculia e agra- fia. Tutti concordano. Ma la Vedova Apostolo zittisce tutti, ancora una volta: “è vive- re la morte. C’est a dire, il y a pas de courage, only l’ennui. È la sa- cra speme, il paretaio preso nel becco dal pettirosso, l’urna vuota che Dio non può vedere. Ah miei barbari spettatori, miei profughi dell’anima, giovani bastardi voi sarete i miei persecutori, i miei soli figli e nipoti. Mi chiamerete Medea, Agave. Pretenderete il mio sangue, percuoterete il mio corpo e lo nasconderete senza sepoltu- ra, voi senza dio, figli dell’uomo”. Si guardarono a lungo. Metilde aveva preso a tossire a forza di ridere. E poi andiamo, che c’è il clou. Il clou è l’evocazione del povero marito della Vedova Apostolo, il Commendator Alfredo Aposto- lo, padrone di tutto prima che un bell’infarto unito a un tumore e a un aneurisma lo togliessero di mezzo. Ci mise quasi tre anni a crepare, ma fece un bel botto, perché si lanciò dal tetto del fienile, aiutato a salirci da chissà chi. Entra la Maga, è davvero uno spettacolo: comincia a sussultare ma non succede niente, e la Vedova Apostolo è infastidita. “Vacca boia”, dice, “non succede niente”. “Ma Vedova!”, fa il maggior- domo, e lei continua urlando “Alfredo! Alfredo! Era così bello e in forze che me lo scoperei anche da spirito”. “Ma cosa dite, Vedo- va, con centoquattro anni!”, fa il maggiordomo, mentre la maga sussulta ancora, ma niente succede. “Taci Sigurd”, fa la Vedova Apostolo, “non è che essere il padre di mio figlio ti autorizza a rompermi i coglioni”. Tutti si voltano verso Jerry, che gettato il tovagliolo sul tavolo esce indemoniato, seguito dal padre maggior- domo. La situazione comincia a farsi un po’ tesa, nella sala da pranzo della Vedova Apostolo; ora la maga sussulta, caccia un ur- lo, le esce la voce del Commendator Apostolo. “Porca troia!”, gri- da uno; e “Cielo, il commendatore!”, fa un altro. “Papà!”, dice la figlia più piccola della Vedova Apostolo e del Commendatore Apostolo (che avrà settant’anni e ha già due figli e quattro nipoti). Ma silenzio, che diavolo, fatelo parlare. Il notaio Heblos ha porta- to una bottiglia di scotch e la offre alla maga. “È di prima qualità”, dice. “È questo che intendo, fatelo sapere al vostro dio”, dice. “È venuto giù scarnificato, pestato in volto, lardellato per bene, una 221 volta che la vita mi stava morendo tra le mani come fosse acqua, (il piccolo nano barbuto dei condotti). E adesso lo vedi, una gra- ma volta che avevate portato il bere, stronzetti umanisti (fuori si mettevano nudi come pittori d’idee – il movimento era la noia, l’inerzia – e parlavano di filosofia orientale, di cose da trovare* – ), [*che poi, molte cose meglio perderle che trovarle, ad es. la filosofia orientale ] mi ricaccia in gola il fiato mentre piscio nei pantaloni per queste luride pustole di cancro, mi taglia in due la camicia un rivolo di sangue marcio, lo stesso di mio nonno e di suo nonno prima di lui. E rimango lì spolpato o annullato a brusire, bramare un respi- ro aggrovigliato a quei corpuscoli di vita, quasi coriandoli invisibili che l’aria soffia tra me e me, insensati come animali. Poi se n’è an- dato, il vostro dio, con l’onda calda del niente che l’ha portato via dal mio schifo di corpo, suppurato, addormentato. E adesso chi la toglie la puzza, chi pulisce il piscio sul pavimento?”. Ecco che ha parlato. Ma il mercato dei vibratori? È in ribasso o in rialzo? Chiede l’economista. “In ribasso, idiota”, risponde il Commendatore. Ma lasciamolo parlare, santo cielo, uno arriva dal regno dei morti avrà il diritto di parlare. Frank è spaventato. Si voltò ancora e si mise a piangere. “Brutto stronzo”, fa la Vedova Apostolo riferita al mari- to, “mi hai tradita”. “L’ho fatto”, afferma il commendatore, che ora ha un paio di tette grosse come cocomeri e un gargarozzo da maga cicciona di nome Iris. “Ma è un ricordo tramontato. Soffocato da una presen- za ingombrante - la sua - volto occhi e tutto insieme anche il seno e il culo, che meraviglia di notte agitata. Quando glielo misi sem- brava piangesse perché era sposata da due anni e venne ripetuta- mente tanto che mi fece uscire due volte per i suoi sobbalzi. In fondo. Fu una notte di lotta senza alcuna poesia; pensai alla regola di Goethe “oziare quando non si presenta nessun tema o uno che non si possa degnamente trattare”. Mi rifeci alla sua alta parola pur odiando la sua razza. Caldo soffocante, ero sudato marcio e stranamente non ricordo più. Il profumo delle lenzuola lo sbattere del ventilatore il vento dalla finestra che inondava la stanza la per- cezione dei quadri che sospendeva l’aria nel cervello vuoto. Nep- pure un nome un numero in rubrica un tratteggio nel chiaroscuro delle sensazioni una voce nell’orecchia sporca del rimorso. Solo le 222 particelle del mio cervello a confondersi con quelle del gin e al tri- ste blaterare di Schopenhauer.” Ancora silenzio. La Vedova Apostolo tira un rutto cavernoso. Il maggiordomo non c’è più. Com’è arzilla la vecchia centenaria: con una specie di balzo si scaraventa contro la maga Iris e tenta di strozzarla, mentre alcuni la trattengono. Il dottor Swanson pensò alla morfina, alla stricnina, all’endorfina, all’eroina. “Una volta sì che avrebbero saputo cosa fare. Un bell’elettroshock e via”, disse uno. Il commendatore c’era ancora, nell’involucro della maga, e disse: “Il mercato dei vibratori è in malora, brutte teste di cazzo! Inventatevi qualcos’altro”. “Dev’essere colpa dei musulmani, che ci stanno col fiato sul collo”, mormorò qualcuno. “Ma io l’amavo, quel figlio di puttana”, dice la Vedova Apostolo, “e l’ho aiutato a togliersi di mezzo, quando ha voluto”. Manda tutti al diavolo, la Vedova Apostolo: “andate tutti al diavolo!”. Qualcuno le fa presente che ci sono due divinatori inviati da una delle migliori Agenzie di Sabbione pronti per l’Aggiornamento Obbligatorio Annuale, e lei si surriscalda. “Fuori dalle palle. Per oggi ne ho abbastanza di buffonate”, dice, e lo dice con un tono definitivo, ultimo.

Quando è sola riflette, pensa ancora mi muovo, merda, inaspet- tatamente, come le zampe di un ragno schiacciato, poiché muovo un’ombra senza corpo verso un posto che non m’importa; comin- cia a biascicare le sue ingiurie cosmiche contro il Gerarca Eletto, il Governo, il Calendario, si sbronza con una bottiglia di gin, accen- de lo stereo, balla e stramazza al suolo, abusivamente, sorridente e goduta, verso un posto che davvero non le importa, con un vibrato- re grosso come una zucca infilato tra le gambe. E che cristo, Ve- dova Apostolo, con centoquattro anni!

223 IL MOMENTO PIÙ BELLO DELLA VITA DI KATIA

Per come lo ricordo io il giorno che siamo andati all’Outlet del- la Sposa è finito a schifìo ancor prima di cominciare, quando fa- cendo la retro col Fiorino di mio padre investiamo un tacchino e mio padre s’incazza come una biscia. Ma il problema del Fiorino, dice zio cancro, è che non vedi un cazzo di niente quando fai la retro, e gli specchietti quella volta erano pure posizionati male. E così facciamo la retro e schiacciamo un tacchino e partiamo per l’Outlet della Sposa a vedere se riusciamo a trovare un vestito da sposa per me che devo sposarmi tra un mese esatto, e non un ve- stito qualunque, che minchia, ma un vestito coi controcazzi come quelli delle serie televisive americane sul canale 31 del digitale ter- restre.

Il mio futuro marito ha una mascella fantastica e io si può dire mi sono innamorata della sua mascella, se fossi capace ve la de- scriverei ma mi sa che non sono capace, così vi dovete fidare del mio giudizio quando dico che il mio futuro marito ha una mascella da paura, e non solo del mio giudizio ma anche di quello delle mie amiche Tessa, Ronda e Patti, che sbavano tutte le volte che vedo- no la sua mascella, per non parlare del Dodi, che è un frocio fatto e finito e si masturba pensando alla quella stessa mascella che in- vece è solo e soltanto mia, anche se a zio cancro gli fa schifo, il mio futuro marito, e non lo dice così tanto per dire ma gli fa pro- prio schifo come uomo, dice zio cancro, da quella volta che è ri- masto senza soldi e mi ha chiesto un piccolo aiuto economico e io ho pianto tre giorni di fila per chiedere i soldi a mio padre e gli ho detto pà, ma cosa vuoi che siano tre milioni per te che c’hai i mi- lioni in banca.

E così io e lo zio cancro siamo partiti per l’Outlet della Sposa per comprare un vestito da favola e ho dato appuntamento a Tes-

224 sa, Ronda, Debora e al Dodi, che in fatto di vestiti da nozze c’ha un gusto meraviglioso. Il Dodi si chiama Giorgio e non ho mai capito perché lo chia- mano Dodi, che mi è sempre sembrato un nome di merda, ma se provi a chiamare Giorgio il Dodi quello neppure si gira, e allora se l’è voluto lui, penso, e lo chiamo con quel nome da deficiente anch’io. Zio cancro invece lo chiamiamo così perché ha un cancro dalle parti della prostata, dice, e deve morire o ammazzarsi da quindici anni, solo che non muore e non si ammazza mai, e abita con noi e mangia come un lupo e sembra che sta benissimo, tanto che non lo so mica se il cancro ce l’ha veramente.

Comunque sia l’abito della sposa, io credo, è importantissimo per un matrimonio. E voglio sceglierlo con i controcazzi, davvero figo, dato che sarà l’unico abito bianco da nozze che indosserò in vita mia, e lo indosserò precisamente tra un mese esatto da oggi, sempre che il nonno si decida a crepare entro domani sera, perché se non crepa entro domani sera finisce che mia madre mi costrin- ge a un mese di lutto e mi fa saltare la data del matrimonio, che ho già prenotato la chiesa da un anno e mezzo, cribbio, mandato gli inviti e le partecipazioni, prenotato la Sala Azzurra del Ristorante Ukulele, dove hanno sette sale per sette ricevimenti in contempo- ranea, roba da professionisti veri, e se mi salta la data prenotata mi tocca spostare tutto di un anno o anche più.

E allora il nonno dovrebbe crepare entro domani sera. Cioè, fermi tutti, non vorrei che crepasse, mi dispiace che crepa, sia chiaro, solo che da un mese si sa che deve crepare perché non ne può più, è malato come una merda d’uomo, col cuore mezzo an- dato eccetera eccetera, i tubi e l’ossigeno eccetera eccetera, e allora dico io, se deve crepare, perché tanto deve crepare, e sia chiaro, mi dispiace, mi piacerebbe se crepa entro domani sera, in modo da avere il mese di lutto che mia madre pretende e poi sposarmi due giorni dopo contenta e beata come ho sempre desiderato fare. Perché se invece metti che crepa tra una settimana, ed è un cazzo di lunghissimo mese che i medici dicono domani crepa, domani crepa, e lui non crepa mai perché, dice zio cancro, c’ha la pellaccia 225 tipica della nostra famiglia, dicevo metti che crepa tra una settima- na/dieci giorni, allora non ci stiamo dentro neanche per il cazzo, alla data di nozze, dato che la mamma non transige con questo benedetto mese di lutto e rompe i coglioni che non vi dico; che poi chissenefrega, dico io, se mi sposo una settimana dopo che il nonno è crepato, dico, si fa una festa dopo un lutto, ma la mamma dice che non si può e comincia a piangere e mi urla addosso cose bruttissime tipo che a me non frega niente di suo padre (che è mio nonno) eccetera eccetera, mentre le altre cose ve le lascio immagi- nare perché non mi va di spiattellarvi le continue lagne di mia mamma, come per esempio una è quella volta che voleva accom- pagnassi a Lourdes zio cancro e ci rompeva l’anima con questa storia della Madonna che fa i miracoli e che una sua amica con le gambe gonfie come un pallone è tornata da Lourdes con le gambe che sembrava Kate Moss e allora andiamoci, abbiamo detto, an- che se poi non ci siamo mai andati, perché alla fine basta dirle sì, a mia mamma, poi ci andiamo, poi lo facciamo, che lei è contenta è non scassa più la minchia, e tu hai un po’ di pace e tranquillità, che se invece le dici no mamma, che palle mamma, eccetera eccetera, poi finisce che ti stressa all’inverosimile, ti si attacca come una cozza e non ti molla più con le sue raccomandazioni, commissio- ni, consigli, eccetera, eccetera, che poi ma che cazzo se ne fa zio cancro di andare a Lourdes che son quindici anni che ci tira dietro con sto cancro delle palle, e sta meglio di tutti noi messi insieme.

Vabbè allora partiamo per l’Outlet della Sposa e non siamo an- cora partiti che lo zio si accende una sigaretta sul Fiorino, dove mio padre si era raccomandato di non fumare perché il puzzo di fumo stantio gli fa venire il vomito, tanto che me ne accendo una anch’io e ci facciamo una bella fumata sul Fiorino di mio padre che rompe sempre le palle di non fumare ma il viaggio è lungo, di- ce lo zio, e uno col cancro mica si può fermare ogni dieci chilome- tri per fumare una sigaretta, dice, e non ha mica tutti i torti, penso.

Comunque partiamo per l’Outlet che lo zio mi sembra già un po’ brillo e arriviamo neanche a metà strada che è praticamente sbronzo, secondo me, per via di dodici soste in dodici bar, che a me infatti son sembrate un po’ troppe ma allo zio no, perché dice 226 che col cancro si deve fermare spesso per pisciare e assumere li- quidi. Col cancro che c’ha addosso, dice, gli tocca pisciare spesso, dice, anche se poi non piscia mica mai, e poi cos’è sta storia, dice, uno col cancro deve poter farsi un bicchierino quando vuole un bicchierino, non sono d’accordo? dice, e io dico certo zio, sono perfettamente d’accordo, perché rifletto e dico se uno ha il cancro, dico, deve poter bere un bicchierino quando ha voglia di un bic- chierino.

Ma zio cancro è così, sempre a stressare tutti, come quando siamo andati in campeggio l’anno scorso e tutte le sere guardiamo le stelle perché lo zio c’ha questa ossessione per le stelle che non so perché vuol sempre vedere le stelle, e dagli con ste stelle, guar- diamo le stelle dice, e no, cazzo, dice, fanculo alla luna piena, dice, uno col cancro non può nemmeno più guardare le stelle che ti ar- riva addosso questa luce di luna di merda che non basta averci un cancro, dice, non basta mica, dice, ci vuole anche questa fottuta luna che ti impedisce di guardare le stelle, oltre al cancro, che se ci pensi è un’ingiustizia, dice, non è un ingiustizia? penso sia una bel- la ingiustizia zio, dico, eh puoi dirlo, dice lo zio, non bastava nep- pure un cancro addosso perché mi potessi concedere un po’ di buio per guardare le stelle.

In autostrada zio cancro fuma come una ciminiera che io gli di- co zio, porca troia, va bene una sigaretta ogni tanto ma tu fumi da far schifo, cazzo, poi il papà chi lo sente, ma lui se ne frega perché ha il cancro, dice, e uno col cancro ha diritto di fumare dove cazzo vuole, dice, e quanto cazzo vuole, dice, non trovi? dice, e io dico sì, mi pare, zio, dico, uno col cancro può fumare dove vuole, dico, ecco brava, dice lui, può fumare dove vuole quindi anche sul mer- doso Fiorino di tuo padre, dice, e vergognati per come parli, dice, che parli come in una latrina di Scurzolengo.

Poi mi fa guidare perché uno col cancro non può mica guidare per sempre, dice, e io dico sì, zio, ma non ho la patente, dico, e lui se ne frega che non ho la patente, e dice che se ci fermano raccon- tiamo che lo sto portando all’ospedale perché uno col cancro, di- ce, mica ci faranno la multa a uno col cancro, cazzo, quei fottuti 227 carabinieri, e così mi metto a guidare quello schifoso Fiorino im- puzzato dalle sigarette e lo zio dice di non rompere le palle per un po’, dice, che vuole dormire eccetera eccetera, solo che c’è troppa luce e sbraita che minchia, sbraita, non è mica possibile che sto so- le non ti faccia dormire, sbraita, e che minchia, sbraita, uno col cancro non può nemmeno farsi una dormita, uno c’ha il cancro ma no, col cancro non ti fanno dormire, dice, perché c’è sto min- chia di sole, non pensi, dice, ma, zio, dico, il sole è il sole, dico, mi sa che se ne frega del tuo cancro, zio, dico, ah è così che la pensi, dice, sì è così che la penso, dico, zio, e allora vaffanculo te e il so- le, dice, e poi guidi da far pena, dice, mi viene da vomitare tanto guidi da far pena, dice, e io gli dico sì zio, ma vedi anche un po’ di andare affanculo tu, zio, dico, e lui s’incazza come una biscia e comincia a menarla è questo il modo di rivolgerti a tuo zio, chi ti ha insegnato l’educazione, cristo, ti dovresti vergognare a mandare affanculo uno zio col cancro, brutta stronza, dice, e allora mi fa accostare e si rimette alla guida che mancano ancora centoventi chilometri e non ne posso già più, di questo viaggio sul Fiorino di mio padre con zio cancro che rompe le palle come mia madre moltiplicata per sette.

Dopo un po’ chiedo quanto manca e mi dice ci siamo quasi, ma poi si ferma a una stazione di servizio e io dico che palle, caz- zo, ci siamo già fermati cento volte, dico, e lui per tutta risposta s’incazza di nuovo e comincia a urlare che le macchine vanno a benzina, se non lo so, e che mica ci possiamo pisciare dentro per farle andare avanti, cristo, eccetera eccetera, così finisco per farmi una pisciata anch’io, in quel cesso profumato dell’autogrill, e com- pro un salame da portare a casa per il mio futuro marito, che di- venta pazzo per il salame.

E comunque alla fine arriviamo all’Outlet che non mi ricordo che ore sono ma è già buio e giriamo un’ora per trovare l’albergo, che è davvero un albergo di merda, dice lo zio, e uno che sta cre- pando di cancro dovrebbe aver diritto a un albergo non dico a cinque stelle, dice, ma almeno a tre o quattro non ti pare, dice. Di- co di sì, zio, mi pare che uno col cancro ha diritto almeno a un al- bergo a tre stelle, dico. Quattro, dice lui. Quattro dico io, infatti. 228 Così siamo all’Outlet e ci infiliamo dentro un bar per farci un bicchiere di qualcosa; eh dice lo zio, guarda questi caproni, dice, loro mica hanno il cancro, dice. Magari ce l’hanno, zio, dico. Ma quale cancro e cancro, dice. Dopo un’ora è già fritto dal gin e attacca bottone con una cop- pia di signori per bene seduti al bar, lei sulla sedia a rotelle, che io dico zio, andiamo a letto, dico, ma non rompere le palle, dice lo zio, uno col cancro deve vivere ogni attimo che il merdoso cancro gli concede, dice, concordi? chiede, sì che concordo zio, dico, e lo guardo mentre offre un giro di gin alla coppia seduta al bar, solo che poi sono sfinita e me ne vado per i fatti miei, chissenefrega di zio cancro, me ne vado in stanza e m’attacco al telefono col mio futuro marito e ci diciamo un po’ di porcate, che mi tocco anche nelle parti intime pensando alla sua mascella da sesso che quasi vengo, e fumo una quantità industriale di sigarette e bevo una quantità imbarazzante di mignon di whisky pensando al mio vesti- to del giorno dopo, che alla fine crollo sul letto e mi sveglio alla mattina con la testa che mi esplode.

Incontro Tessa, Ronda, Debora e il Dodi a colazione e ci fac- ciamo qualche urlettino, oh mio dio Katia si sposa con quel pezzo di figo, cinguettano, quel pezzo di figo, starnazzano, che io mi scaldo e dico datevi una calmata o lascerete una pozzanghera di bave sul pavimento, dico, mentre zio cancro ci raggiunge ancora mezzo sbronzo dalla notte prima, secondo me, tanto che quando vede il Dodi gli stringe perfino la mano, cosa che lui i finocchi li brucerebbe tutti, come anche gli ebrei, dice, soprattutto i vicini di casa, dice sempre guardali lì, gli ebrei, sono felici perché hanno pa- tito la scioà, dice, felici come delle pasque, dice, e io dico sempre zio ma che cazzo dici, e lui dice sempre muta tu, che senza Hitler gli ebrei cosa sarebbero, dice, eh? Cosa sarebbero? non sei convin- ta, dice sempre, no zio, dico sempre, non sono mica convinta, di- co, e dice sempre che l’unica cosa che invidia agli ebrei è questa scioà e che per quel che ne sa lui potrebbero andare tutti affancu- lo, gli ebrei, perché i nostri vicini sono ebrei e sa di cosa parla, di- ce, quei fottuti, sempre a piagnucolare e a scrivere dei forni crema- tori e dice me l’hanno fatto a fette con queste storie, mi hanno

229 rotto i coglioni, hai capito, dice sempre, e dico sempre sì, zio, ho capito, anche se devo ancora capire bene cos’è sta scioà.

E allora siamo dentro al negozio, io le mie amiche con zio can- cro e fa un caldo porco, dice lo zio, uno col cancro non ha neppu- re diritto a un po’ d’aria condizionata, cristo, e la commessa dice spiacente l’impianto è guasto, dice, e lo zio dà di matto ed esce subito in strada che non lo vedo più fino a sera, e meno male, pe- rò fa un caldo porco veramente, dico, eh, dice la commessa, eh, dico io, e mi provo il mio primo abito da sposa della mia vita, che però è davvero una merda, penso, e così ne provo altri nove fin- ché il decimo è perfetto, cazzo, che costerebbe settemila euro ma mi fanno duemilacento per via di una bruciatura di sigaretta sulla coda che manco si vede, penso, ma l’abito è davvero una figata pazzesca, non trovate anche voi, chiedo quando esco per farmi vedere dalle mie amiche e aspetto gli urlettini, anche se quelle quattro stronze non urlano mica, cristo, che infatti chiedo com’è sta storia che non fate gli urlettini, chiedo, e loro sempre zitte, cri- sto, che alla fine m’incazzo di brutto e loro sputano l’osso facendo parlare il Dodi, che da buona checca non ha peli sulla lingua, e co- sì vengo a scoprire che secondo loro l’abito perfetto non mi sta bene, cazzo, così mando tutti affanculo e chiedo alla commessa un altro abito, poi un altro e un altro ancora che alla fine ci stiamo sette ore, merdaccia, e zio cancro sarà già cotto fino agli occhi in qualche bar, e in più sto in apprensione per il nonno che se crepa bene, altrimenti sono cazzi acidi, penso, e così è quasi buio che fi- nalmente esco con un abito da seimilacinquecento euro che mi fanno millenovecento per una macchia di vernice che ci metto poi su qualcosa, tipo un fiore e che ne so, e quelle quattro stronze fi- nalmente cominciano a urlettare, ad abbracciarmi, a dare fuori, ec- cetera eccetera fino a quando qualcuno dice s’è fatto tardi, cazzo, ed è tardi davvero, così mi sbrigo a cercare zio cancro tra i bar dell’Outlet e lo trovo dopo mezz’ora che si sgola una pinta di bir- ra, cotto come una pera mentre spara minchiate a raffica con dei tipi grassi e puzzolenti che appena arrivo uno fa per toccarmi il culo, merda, e io gli rifilo una pizza col dorso della mano dove tengo l’anello di fidanzamento, non ti azzardare, dico, testa di un cazzo, dico, e zio cancro mi guarda con una faccia che mi viene 230 voglia di prendere a schiaffi anche lui, poi ricomincia a blaterare di guerra e militari e che cazzo ne so, e dopo un quarto d’ora sono stufa marcia e gli dico andiamo, zio, che è tardi, porca troia, ma lui niente devo finire il concetto, dice, che uno col cancro deve finirli i concetti, prima che sia troppo tardi, dice, e poi vomita anche l’anima sul pavimento del bar, tanto che il barista ci fa smammare e io lo ringrazio, porco giuda, anche se al ritorno mi tocca guidare; ci mettiamo sul Fiorino e zio cancro ricomincia a rompere le palle che guido da far pena e gli torna il vomito eccetera eccetera, e in- fatti mi fermo tremila volte per farlo sboccare a bordo strada, e lui è lì che si lamenta perfino mentre sbocca, cazzo, sputa e si lamen- ta che non c’è la corsia d’emergenza perché quelli col cancro, dice, dovrebbero sempre avere una corsia d’emergenza, sputa e si la- menta che le donne non dovrebbero dargli la patente, dice mentre sputacchia, e dice che tanto il nonno non crepa mica, dice, che il matrimonio col testa di cazzo me lo devo scordare proprio, dice, che a me mi prende una depressione da paura, vi giuro, sono in paranoia totale pensando di dover rimandare il matrimonio e mi prende un groppo in gola che mi accendo una sigaretta dietro l’altra, merda, almeno fin quando non ricevo la telefonata della mamma disperata perché il nonno è morto da cinque minuti, e quello è il momento più bello della mia vita.

231 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (6) ______

Il dodici giugno, Giornata della Paternità-Garantita-Al- Novantaquattro-Percento Spermamax™, alle ore diciassette e trentanove minuti, un tizio alto con una calzamaglia arancione si lanciò di corsa sotto il tram venticinque all’angolo tra Corso Lano da Siena e Piazza dei Gerarchi, determinando un immenso ingor- go automobilistico nel quale si contarono dodici auto tamponate, un paio di pedoni feriti, nove automobilisti ammaccati, l’orologio della Farmacia Braun semidistrutto. Si occupò del caso l’Ispettore di Nettezza Umana Sigfrid Traumerei, che giunse sul posto accompagnato da un amico non appartenente al Dipartimento, un osservatore interessato alle dina- miche lavorative degli ispettori di Nettezza Umana e appassionato di pulizia e bonifica. Il cadavere fu riconosciuto come Aldous W. Fulloj, trentasette anni, idraulico di Brindellamonte, abbandonato dalla moglie pochi mesi prima, che nella tasca del gilet conservava un paio di ricevute e un biglietto in cartoncino azzurro, sul quale era annotata la frase: l’amore ci strazierà. Gloria al Monaco Arancione . Quando giunsero sulla scena del suicidio, Traumerei e l’amico si resero immediatamente conto che doveva trattarsi di un suicidio abusivo. Intanto perché non trovarono i caratteristici biglietti del Ministero Suicidi & Festività ®. Inoltre, come fece notare Traume- rei sfogliando un libro con gli orari dei tram, i suicidi contro o sot- to mezzi pubblici erano consentiti soltanto in determinate ore del- la giornata, proprio per non causare disagi agli automobilisti. Per il resto, la scena del suicidio era un disastro: l’elevata veloci- tà del tram in quel punto aveva fatto sì che l’idraulico fosse travol- to e trascinato per molti metri, rimanendo peraltro decapitato dal rostro anteriore del mezzo pubblico. Il medico legale disse che la morte era sopraggiunta per decapi- tazione. Sul posto furono inviate due squadre di Nettezza Umana, che arrivarono a sirene spiegate facendosi largo con grande fatica tra le altre automobili e impiegarono più di un’ora e mezza a rassettare la scena. 232 Era la terza volta in pochi mesi che Traumerei indagava su un suicidio abusivo, e la cosa gli parve preoccupante. Questo Monaco Arancione, disse buttando giù un sorso di whisky, sta notevolmente rompendo i coglioni. L’amico di Traumerei annuì, e l’ispettore tornò in ufficio per stendere un rapporto dettagliato.

***

233

IL FIUME

Il fiume è sporco e morto e cancheroso ma ci dà da mangiare, porco mondo, provate a chiederlo a Neto Sherpoj, che da quando l’acqua è pitturata ha perso i quattro pescatori rammolliti che ve- nivano a lordare gli argini ma ci ha guadagnato nove turisti al giorno che scattano fotografie a mitraglia. E nove turisti al giorno per l’agriturismo pidocchioso del Neto voglion dire sigarette ogni sera per lui, denti nuovi per sua moglie e una bicicletta per quei poveri diavoli di figli che si ritrova. E allora chi vorrebbe barattare i turisti che vengono per l’acqua che la fabbrica ci pittura di tutti i colori che Iddio ha messo in ter- ra con quattro pesci denutriti manco buoni per venderli al mercato di Pizzengo? Noi no di certo, porco mondo, noi vogliamo tenèrci il fiume pitturato dalla fabbrica anche se ci svegliamo col mal di testa e ci addormentiamo con la puzza di marcio che ti sfonda le narici e col fenolo che dicono ti buca il cervèllo. Ma tanto, dico io, qui di cervelluti non ce ne sono mica, e un buco in più o in meno nella materia grigia non può far più danni che una mano a briscola persa la sera al bar, quando ti giochi mezza vigna, porco mondo. Ce l’ho detto ai tizi che son venuti con megafoni e cartelli ad abbaiare per l’inquinamento, sempre pronti a latrare come cani ba- stonati, c’ho detto fatevi gli affari vostri, porco mondo, che ai no- stri ci pensiamo noi, e il nostro fiume che ci ha cresciuti con le piene e le secche ce lo guardiamo da noi, senza bisogno che se ne interessano i forestieri, porco mondo, ho aggiunto un porco mon- do e ho sputato nella sabbia dell’argine, porco mondo, e quelli per tutta risposta mi han guardato e mi han detto che non sapevo cosa stavo dicendo e si sono accampati per fare i prelievi. Cristo santo, ho detto a mia moglie, adèsso i prelievi li fanno anche al fiume, e lei mi ha dato dell’ignorante, capite? mia moglie 234 mi ha dato dell’ignorante perchè sette pivelli di città son venuti a fare i prelièvi al fiume, manco fosse un malato; così mia moglie ha detto che più che malato il fiume è morto e io mi sono imbestiali- to, porco mondo, perchè in drogheria non si vendeva tanta roba dai tempi della guerra, le ho detto, porco mondo, e se ai turisti piace guardare il fiume pitturato e se i turisti vengono in negozio per comprare sigarette e assorbenti, spazzolini e lampade, allora anche a noi piace che il fiume sia giallo e verde e rosso e viola, an- che se non ci possiamo fare il bagno, che tanto erano dodici anni che non toccavate l’acqua, le dico, e adesso vi lamentate che non ci potete fare il bagno, e allora mia moglie mi ha dato dell’ignorante e io questa cosa che mia moglie mi dà dell’ignorante per colpa di quei pivelli di città mica la faccio passare liscia così, porco mondo, perchè va bene che mi si dà dell’ignorante quando bisogna far di conto o quando si tratta di misurare un terreno o quando mi deridono per la mia pronuncia apèrta da campagnolo, ma sfido chiunque a sostenere che sono ignorante quando si parla del nostro fiume, porco mondo, che ci son praticamente nato, in quelle acque, ci sono nato come son nati i miei figli e come son nati i figli dei miei figli e tutti gli infami di questo porco paese. Ma prendete Garaboj, il pescatore, sempre deprèsso e magro come una lisca ingobbita, che da quando la fabbrica butta la polti- glia colorata nel fiume lascia a casa quelle canne da due soldi e ac- compagna ciccioni tedeschi nelle anse per scattare fotografie, prendete il mio figlio più piccolo, che si è guadagnato un trenino rosso fuoco solo conducendo al vecchio ponte quattro svizzeri con cappelli che sembravano usciti da un altro mondo, porco mondo. E mi si viene a dire che il fiume è cancheroso ma che co- sa ci possiamo fare contro i cancheri che la vita ci tira addosso come piètre, dico io, anche se sputo arancione e starnutisco vèrde, porco mondo, anche se l’acqua potabile è una brodaglia mèlmosa e puzzolente, son cose che si devono accogliere se il negozio è pieno di clienti che comprano mascherine per respirare e batterie per le macchine fotografiche, perchè è il Signore che ci ha manda- to quelli della fabbrica di colori a darci lavoro come se ci avesse mandato la cuccagna, cristo santo, e il Signore non si sbaglia se decide di mandarti un dono impacchettato con le ciminiere e il cemento e tutto il resto, dico io, ma quelli di città mica lo capisco- 235 no, e neppure mia moglie, perchè ormai nessuno riesce a scorgere i doni del Signore neppure se il Signore glieli scaraventa sotto al naso, porco mondo. Per questo ho messo su un gruppo di gente per bene che in- somma può lottare per una giusta causa, voglio dire, finalmente può far sentire la voce senza usarla sempre solo per bestemmiare al bar, e siamo andati a far sentire le nostre ragioni a quelli che ab- baiano contro la fabbrica, che se ci penso mi viene un nervoso nèro, porco mondo, ma quei cani niente, sempre lì a picchettare e a ululare come lupi accanto all’argine, proprio a tre metri dall’acqua pitturata dalla fabbrica che ci porta i turisti e tutto il re- sto, tanto che hanno già messo in guardia le persone di non avvi- cinarsi e le persone son stupide e non si avvicinano, in maniera che i turisti ci scappano come topi per paura di prendersi un mal di pancia o un canchero, e sì che ho messo in vendita le mascheri- ne da respirare a un prezzo più che onesto. Me lo diceva sempre, mio nonno, che il fiume è come una for- nace che ci fa nascere e crescere e se è il caso ci fa anche crepare, ma io non lo so mica cosa voleva dire quando diceva che il fiume è come una fornace, perchè per me il fiume è solo un fosso pièno d’acqua che scorre verso il mare e niente più, e se la gente vuol vederlo scorrere dipinto di tutti i colori che il Signore ci ha voluto regalare, allora tanto vale farglielo vedere, porco mondo, senza contestare le scelte che il Signore ha fatto per noi. È per questo, dico io, che abbiam cercato di far sloggiare quei cani cittadini coi cartelli e le tende e i sacchi a pelo e per un po’ ci siamo anche riusciti, solo che mia moglie ha continuato a darmi dell’ignorante, del rozzo, e porco mondo quanto è vero che il Si- gnore ci ha concesso la donna, io quella donna l’avrei strozzata con le mie nude mani, cristo santo, perchè le donne dovrebbero parlare solo quando interpellate invèce di starnazzare ai quattro venti i loro giudizi da donne. E così le ho urlato che il trenino per nostro figlio senza i turisti ce lo potevamo scordare e che la mo- glie di Sherpoj a quest’ora sarebbe ancora senza quattro denti da- vanti, e lei mi ha risposto che per quello che gliene fregava la mo- glie di Sherpoj poteva anche restare senza neppure un dente in bocca, e che il trenino di nostro figlio era meglio lasciarlo dov’era

236 piuttosto che far giocare il proprio figlio in cortile e lasciarlo lì a inalare i vapori cancherosi del nostro fiume. Porco mondo. Abbiam fatto la riunione su in parrocchia e c’eravamo tutti, i commercianti e gli operai della fabbrica più il prete e il sacrestano e perfino qualche donna, che quelle vogliono sempre mettere il bècco nelle faccende degli uomini ma che diavolo, mica si posso- no chiudere fuori come bèstie; e abbiamo discusso due ore, porco mondo, coi pivelli cittadini e con gli espèrti, così si son presentati, gli espèrti, che ci hanno messo in guardia sui cancheri al culo e ai polmoni che dopo dico io, se poi non muori per un canchero ti devi far saltare il cervello o impiccarti a un ramo buono, porco mondo, quindi tanto vale prenderti un canchero e farti saltare il cervello col canchero addosso e i turisti che vengono nel tuo ne- gozio così almeno tiri su un gruzzoletto, come ha fatto quel dritto del Faust quando il fiume non era ancora pitturato ma il canchero se l’è beccato lo stesso, che vomitava un’ora sì e un’ora no, e l’ha fatta finita con una corda e un albero su al podere degli Umbilk, anche se i maligni raccontano che non avrebbe potuto, che è stato un atto illegale, che non dovevano neppure seppellirlo. Totale si è deciso di tenerci il fiume pitturato e di tenerci la fabbrica che lo pittura e di tenerci i turisti che danno da mangiare all’agriturismo di Sherpoj e al bar di Tungoj e perfino al prevosto che domenica scorsa ha dovuto fissare gli altoparlanti fuori dalla chiesa perchè oltre ai soliti dieci c’erano trenta turisti che volevano sentir messa, porco mondo, che quaranta persone a messa non si vedevano dalla guerra. E quel dannato prevosto ha grugnito nella sua lingua oscura qualcosa sul pescatore che non ha più pesci da pescare; ha detto proprio così: non ci sono più pesci nelle nostre acque, ormai il Pescatore è un vecchio pensionato moribondo , e io ho provato a ri- flettere sul senso di quelle parole, porco mondo, anche per dimo- strare a mia moglie che non sono tanto ignorante quanto dice, e così ho pensato che il prevosto si riferiva al fatto che se Gesù ca- pitasse oggi in questo mondo non avrebbe più neppure un cristia- no che lo seguirebbe, non riuscirebbe nemmeno più a lanciare l’amo, porco mondo, perchè questi schifosi atei pensano solo al loro rendiconto, invece di pregare affinchè dio li salvi tutti.

237 E comunque siamo andati al fiume e abbiamo preso a calci nel- le chiappe i pivèlli cittadini perchè è così che vanno trattati quelli che vogliono mettersi in mezzo tra te e i doni che ti fa il Signore, e oggi io e mio figlio abbiamo guidato quattro norvegesi con le ma- scherine per respirare tra arbusti fogliame e forre fino al vecchio ponte per mostrargli le scintille che fanno i colori quando il sole trafigge il pelo dell’acqua, e a mia moglie ho detto che quando il canchero mi sotterra i soldi dei turisti lei se li sogna, che smètta di aprir bocca e si prepari a sgobbare come un mulo, così mi faccio una risata che non la finisco più.

238 COPPIA DI FIDANZATI E DONNA DOWN ASSASSINATI IN TANGENZIALE PER UN GRATTA E VINCI Ovvero L’ IMPORTANZA DI SCEGLIERE IL BAR GIUSTO (O QUANTOMENO NON QUELLO SBAGLIATO )

Ana Rosa stringeva il biglietto nella mano destra, prestando at- tenzione a non stropicciarlo. Stava seduta dietro nell’auto di suo cugino Peter, una Fiat Brava blu del millenovecentonovantotto. Non sarebbe meglio darlo a me, disse Peter guardandola nello specchietto retrovisore, sarà più al sicuro se lo terrò io. Ana Rosa fece un cenno che non significava niente, ma poteva essere inteso come un no. Se me lo dai lo teniamo nel cruscotto, disse Priscilla, la fidanza- ta di Peter, che stava davanti. Ana Rosa osservò la strada fuori dall’abitacolo dell’auto, poi decise di ficcarsi il biglietto nelle mutande, sotto il pannolone per deficienti, proprio in mezzo alle chiappe, perché la mamma le aveva detto che era una cosa preziosa, e le cose preziose andavano conservate al sicuro. Uno dei posti più sicuri al mondo, diceva la mamma, era sotto il pannolone per deficienti, in mezzo alle sue chiappe mongoloidi. Questa figlia di puttana si è ficcata il biglietto nel culo, disse Priscilla. Cristo, disse Peter.

***

Due giorni prima la mamma aveva mandato Ana Rosa in ta- baccheria per comprare le sigarette e il Gratta e Vinci. Lì Ana Ro- sa aveva comprato un pacchetto di marlboro rosse e il biglietto di una lotteria istantanea che la madre la spronava ad acquistare ogni volta che le rimaneva qualche spicciolo a fine mese. Ana Rosa 239 aveva imparato a grattare la superficie dei biglietti e dopo anni di pratica ormai era un’esperta grattatrice di lotterie istantanee. Aveva appena compiuto trentanove anni, aveva il corpo basso e tozzo e il collo grosso, ipotonia marcata, una discromia cutanea sulla parte bassa della schiena, un’anomalia degli occhi e il cranio particolarmente piccolo, tipico delle persone affette da sindrome di Down. A causa della riduzione delle dimensioni della cavità ora- le non riusciva a mettere insieme quattro parole in fila e sovente si pisciava o cagava addosso, ma riusciva a grattare la superficie ar- gentata di un Gratta e Vinci con una cura davvero insuperabile. Quella volta prese una moneta e grattò con delicatezza, pre- stando attenzione agli angoli, e alla fine, quando come al solito porse il biglietto al tabaccaio, lui le comunicò che aveva vinto due- centocinquantamila euro.

***

Peter smontò dal lavoro alla stazione di servizio e prima ancora di salire in auto ricevette la telefonata della zia. Peter, disse la zia. Peter abitava con sua zia da quando i suoi genitori erano morti. Dimmi zia, disse Peter. Il resto della telefonata fu piuttosto confuso, ma quando Peter passò a prendere la sua ragazza glielo lo raccontò più o meno in questo modo: praticamente quella mongoloide di mia cugina ha comprato un Gratta e Vinci e ha vinto duecentocinquantamila euro. Sticazzi. Appunto. E tu che c’entri. C’entro perché mia zia ha un cancro in gola grosso come un melone e mia cugina è completamente deficiente. E quindi. Quindi mi ha chiesto di accompagnare Ana Rosa a incassare la vincita, assicurarmi che non la freghino, portare tutto in banca, cose così. Mi ha chiesto di aprire un conto a suo nome. Per quan- do sarà rinchiusa in qualche istituto, ha detto. 240 E a noi che ce ne viene. Che cazzo ce ne deve venire, è una questione di famiglia, non ti basta?

***

Quando arrivarono a casa si accomodarono in salotto. Volete un caffè, disse la zia a Priscilla. Perché no, disse Priscilla.

La zia andò in cucina a preparare il caffè. Ana Rosa era appol- laiata in un angolo del divano a scaccolarsi e a giocherellare con una bambola sudicia.

Non pensavo fosse così rincoglionita, disse Priscilla. Sta’ zitta, che cazzo, disse Peter. Poi la zia spiegò che in pratica bisognava portare il biglietto alla tesoreria generale della lotteria, in centro a Sabbione. Si potrebbe incassare anche in tabaccheria, mi hanno detto, ma non mi fido, disse. E quindi? Domandò Peter. Quindi dovete prendere Ana Rosa e andare a Sabbione, alla te- soreria generale; arrivati lì incassate i soldi, vi infilate nella prima banca e aprite un conto a nome suo. La banca che sia la Cassa di Risparmio, non una banca qualsiasi. È tutto chiaro? Tutto chiarissimo, zia, disse Peter.

***

Il giorno dopo partirono per Sabbione a metà mattina. Solita- mente dal posto in cui abitavano ci voleva un’ora e mezza, tuttavia quel giorno Peter decise di fermarsi in un bar che conosceva. Ma che cazzo ti salta in testa, domandò Priscilla. Devo pisciare. Ma non potevi pisciare a casa? Cristo se devo pisciare adesso devo pisciare adesso.

241 Il bar era abbastanza lurido, pieno di operai che smontavano dal turno di notte e qualche camionista di passaggio. Che bevi, disse il barista. Una birra, disse Peter. Che minchia non dovevi pisciare, domandò Priscilla. Prima fammi bere, disse Peter. Il barista guardò di traverso Priscilla. E la mongoloide che prende, disse il barista. Che tatto, disse Priscilla. Ana Rosa si stava gingillando con la salopette di jeans che in- dossava. Bel vestitino, disse uno degli operai vestiti di arancione. Gli altri iniziarono a ridere. Ridete pure, disse Peter. Ma questa mongoloide ha più soldi di tutti voi teste di cazzo messi insieme. Sì come no, disse uno dei tizi. Stai zitto, disse Priscilla. Non rompere sempre i coglioni, disse Peter. Priscilla si diresse verso il frigorifero, prese un cono gelato, lo scartò e lo mise in mano ad Ana Rosa, che subito cominciò a lec- carlo e a sbrodolarsi come una bambina. Davvero un bel quadretto, disse il barista. Questa è piena di soldi, disse Peter. Anche piena di merda, disse un operaio vestito di arancione. Gli altri risero. Che puzza schifosa, disse il barista. Si dà il caso che la sto accompagnando in città per incassare una grossa vincita, disse Peter. Sei un cazzone, disse Priscilla, gli strappò dalle mani le chiavi dell’automobile e uscì. Ma non mi dire, disse il barista. E a quanto ammonterebbe questa grossa vincita? Domandò uno degli operai. Duecentocinquantamila, disse Peter. Il barista scoppiò a ridere. Qualcuno fece una pernacchia. Ana Rosa aveva la faccia completamente sporca di gelato. Qualcuno le si avvicinò e le sfiorò i capelli. Non la toccare, disse Peter. 242 Balla? Domandò uno dei tizi. Gli altri si misero a ridere. Facciamola ballare, disse un altro. Peter tentò di sferrare un colpo a uno degli operai, ma altri due lo trattennero. Non ti scaldare, mezzasega, gli dissero. Nel pieno del parapiglia un tizio distinto con un panama bian- co appoggiò una tazza da cappuccino su ripiano del suo tavolino, si alzò dalla sedia, si avvicinò ad Ana Rosa, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa e iniziò a ripulire il mento e la bocca della donna. Dovreste vergognarvi, disse. Che cazzo te ne frega, disse Peter, spingendolo a distanza da Ana Rosa. Prese per mano Ana Rosa e la trascinò fuori dal bar.

Quando risalirono in automobile Priscilla si accese una sigaret- ta e disse tu sei il re dei coglioni. Peter la guardò e disse ma vaffanculo. Dopo qualche chilometro di silenzio Priscilla disse duecento- cinquanta mila sono una bella somma. Lo puoi dire, disse Peter. Cosa saresti disposto a fare per duecentocinquanta mila euro? Domandò Priscilla. Non saprei, disse Peter. Dopo quarantacinque minuti di strada decisero di intascarsi una piccola parte della somma, ma non subito. Avrebbero fatto in modo che Peter risultasse il tutore legale di Ana Rosa, per poter gestire la somma quando la zia fosse passata a miglior vita. Potresti sposarla, disse Priscilla. Cosa farnetichi, disse Peter. Se te la sposi potrai gestire tutti i soldi. Non sposo questa mongolide neanche da morto, disse Peter. Ma devi sposarla per finta, cretino, disse Priscilla. E ti pare che possa sposare mia cugina così, disse Peter. Sei troppo una mezzasega, disse Priscilla. Fanculo il matrimonio, disse Peter. Portiamola a incassare i soldi e ce ne teniamo una parte, disse. 243 Per il disturbo. Priscilla accese una sigaretta. Ana Rosa si era addormentata. E quanto sarebbe, secondo te, il disturbo, disse Priscilla. Non saprei, disse Peter. Secondo me almeno cinquantamila, disse Priscilla. Duecento- mila le basteranno per fare un vita più che dignitosa. E poi quanto vivono i mongoloidi? Domandò Peter. Non lo so, ma mica tanto, disse Priscilla. Diciamo cinquant’anni? Avrei detto meno, comunque diciamo cinquanta. Totale, sempre che non debba ammazzarsi prima, le manche- ranno all’incirca dieci anni da vivere, disse Peter. Più o meno, confermò Priscilla. Se calcoliamo diecimila all’anno, ma fai anche quindicimila, se campa dieci anni, fa centocinquantamila. Così il nostro disturbo aumenta a centomila, disse Priscilla. Lo disse lanciando la sigaretta dal finestrino.

***

Dopo altri quarantacinque minuti arrivarono di fronte al Palaz- zo della Tesoreria; era mezzogiorno inoltrato, e le strade della città erano screpolate come labbra d’asino. Mangiamo qualcosa? Domandò Peter. Come fai a pensare a mangiare, disse Priscilla. Perché, chiese Peter. Andiamo a prendere questi cazzo di soldi, disse Priscilla. Salirono i sette scalini di marmo del Palazzo e cercarono l’ufficio riscossione vincite. Quando si trovarono di fronte all’impiegato cercarono di estrarre il biglietto dalle chiappe di Ana Rosa, ma non ci fu verso. Cristo, disse Peter. Priscilla provò con le buone, tentando di convincerla a porgere il biglietto all’impiegato. Tira fuori quel biglietto di merda, urlò Peter. L’impiegato stava per chiamare la sicurezza, così decisero di uscire, cercare un locale per pranzo e far ragionare Ana Rosa.

244 Benissimo Ana Rosa, disse Peter a tavola. Ora è assolutamente necessario che tu ti levi quel biglietto dalle chiappe e lo appoggi su questo tavolo. Ana Rosa stava fissando il vuoto. Mi capisci, disse Peter. Questa non capisce un cazzo di niente, disse Priscilla. Portiamola in bagno, disse Peter.

Trascinarono Ana Rosa in bagno. Quando entrarono Ana Rosa cominciò a urlare. Fai la brava, cazzo, disse Peter. Tienila ferma, cazzo! Gridò Priscilla. Peter immobilizzò Ana Rosa e nel farlo probabilmente le ruppe un braccio, perché Ana Rosa attaccò a urlare ancora più forte. Cos’hai combinato, disse Priscilla. Ma se non l’ho praticamente toccata, disse Peter. Le hai rotto un braccio, coglione, disse Priscilla. Oh porca puttana, disse Peter. Mentre Ana Rosa urlava come un’indemoniata, un cameriere en- trò in bagno. Va tutto bene qui, domandò. Va tutto bene, disse Peter. Meravigliosamente, disse Priscilla. Che state facendo, chiese il cameriere. Secondo te? Disse Priscilla. Stiamo cercando di far cagare la nostra cuginetta mongoloide, disse Peter. Vuoi darci una mano tu? Domandò Priscilla. Il cameriere si avvicinò ai pisciatoi, fece una lunga pisciata e uscì senza lavarsi le mani. Che schifo, disse Priscilla. Prendiamo sto cazzo di biglietto, disse Peter. Dovresti rovistare tu nel culo di tua cugina, cristo, disse Priscil- la. Fanculo, disse Peter. Priscilla tirò giù la salopette di Ana Rosa, poi le abbassò le mu- tande. Oddio che puzza, gridò indietreggiando. 245 Ana Rosa stava urlando sempre più forte. Falla stare zitta o la strozzo, urlò Priscilla. Poi tolse il pannolone pieno di merda e tra la merda ci trovò il biglietto. Cristo, sussurrò Peter. Cercarono di ripulire il biglietto come meglio potevano, poi si diressero alla tesoreria. Non dovremmo portarla in ospedale, domandò Peter. Prima i soldi, disse Priscilla. Ce li daranno in contanti? Domandò Peter. Ma sei imbecille? Disse Priscilla, ma ti pare che ci danno due- centocinquantamila euro in contanti. Ce li facciamo mettere sul conto, scemo di guerra. Ana Rosa urlava per il dolore al braccio. Portiamo Ana Rosa in ospedale, disse Peter. Porca troia prima i soldi, disse Priscilla. Cristo io la porto in ospedale, disse Peter. Salirono in auto, imboccarono la circonvallazione. Sei un coglione, disse Priscilla. Tanto i soldi non scappano, disse Peter. Dovettero fermarsi alla prima area di sosta perché Peter dove- va pisciare. Ma quanto sei coglione, ripeté Priscilla. Smettila porca puttana, disse Peter, devo pisciare. Ma che cazzo hai la prostata, disse Priscilla. Fanculo sono agitato, disse Peter. Un’auto grigia entrò nell’area di sosta mentre Peter e Priscilla discutevano. Il tizio distinto col Panama scese dall’automobile e si avvicinò al finestrino di Peter. Bussò. Che cazzo vuoi, disse Peter. Scendi, disse il tizio distinto. Ma guarda questo stronzo, disse Priscilla. Non scendo neanche per il cazzo, disse Peter. L’uomo distinto guardò Ana Rosa sul sedile dietro, le sorrise. Che le è successo? Domandò. Ana Rosa aveva appena smesso di piangere. Era gonfia e rossa. Fatti i cazzi tuoi, disse Peter. 246 Poi scese dall’automobile. Il tizio distinto si scostò di qualche metro. L’area di sosta era deserta e disseminata di ghiaia e pietre. C’era un sole abbagliante. Sono sceso perché devo pisciare, non certo perché me lo hai detto tu, disse Peter al tizio distinto. Gli handicappati dovrebbero avere un posto privilegiato, in questo mondo, attaccò il tizio distinto. Ma che cazzo farnetichi, gli abbaiò in faccia Peter. Ma vaffanculo, disse Priscilla, che nel frattempo era uscita dall’automobile. Questo mondo insensato, disse il tizio distinto, si fonda sulla possibilità che due idioti come voi possano fregare una povera donna handicappata. Il nostro mondo si fonda sulla possibilità che due idioti come voi entrino in un bar, una mattina qualunque, e urlino ai quattro venti che sono in possesso di un biglietto vincen- te di una stupida lotteria. Il nostro mondo si fonda sulla cattiveria, sull’opportunismo, sull’immoralità. Ma che cosa stracazzo stai blaterando, disse Peter. Ana Rosa cominciò a ridere. Rispondi, disse il tizio distinto: questo è un luogo pietroso? Ma fottiti, disse Peter. È o non è un luogo pietroso, ripeté il tizio distinto. Non me ne frega un cazzo se è un luogo pietroso, gridò Peter, chi cazzo se ne frega. Sì, disse Priscilla, è un cazzo di luogo pietroso. Dopo la luce rossa delle torce sui volti sudati, disse il tizio, e dopo il silenzio gelido nei giardini, viene l’angoscia nei luoghi pie- trosi. Peter non riusciva a capirci niente. Ana Rosa rideva sempre più forte. Che cazzo ridi, urlò Peter ad Ana Rosa. Fanculo ai luoghi pietrosi, disse Priscilla. Del resto la passione travolge anche le piccole vite, proseguì il tizio distinto, fiori e insetti non ne sono immuni, ricalcitrando s’accoppiano nascosti dagli scarponi, dall’asfalto, dalle pietre, dai battistrada; inanimate s’intrecciano fra loro, brulicando nei cortili delle case, negli stabbi, nei mercati. Non si amano, non si parlano, si guardano di sfuggita e di sfuggita vanno. 247 Questo è completamente suonato, disse Peter a Priscilla. Ana Rosa sembrava divertirsi un sacco ad ascoltare la litania del tizio. Fu in quel momento che il tizio distinto estrasse una pistola dalla tasca destra della giacca. Che figlio di puttana, disse Peter. Vaffanculo, disse Priscilla. Che cazzo vuoi, domandò Peter. L’intelletto fa il suo corso, disse il tizio con la pistola, coltivan- do radici di follia al mattino quando il sole picchia sul vetro e si ri- flette sul crocifisso della parete, eccitando la mente dopo mezzo- giorno, quando le nuvole portano buio e pioggia e il crocifisso è caduto sul marmo duro, rubando amore e odio la sera, quando le stelle affogano nel fiume e gli uomini s’incontrano a meditare chiusi nelle stanze delle cascine. Di scintilla in scintilla, come goccia nel lago che genera anelli, si tende come corda di arco, scagliando frecce finché la forza lo so- stiene, degenera in follia, stanca elucubrazione, vecchiezza malata e sola, oppure travolge la potenza giovane, la inerme maturità, de- nuda grasse vite fino a spogliarle come rami invernali, le brucia come carne guasta. Priscilla e Peter si guardavano immobili, mentre Ana Rosa con- tinuava a ridere come una pazza. Falla stare zitta porca puttana o l’ammazzo, disse Priscilla. Peter non mosse un dito. Aveva la canna di una pistola con si- lenziatore puntata al naso. Se veniste quaggiù, riprese il tizio, scavando nel sottosuolo, o ritornando di sopra, trovereste piccole vite colme di passione e null’altro, la bacca selvatica, il verme strisciante nello sporco, i ratti sguscianti nelle fogne, piccole vite agitate, contorte, inutilizzabili per risolvere algebra o sistemi comparati, incapaci di pregare o comprendere dio, piccole vite tenute al caldo d’inverno dalla legna umida e dalla terra smossa che brulicano senza degnare di sguardi il mondo cinguettante. Se veniste quaggiù, dove mi trovo io, ci sa- rebbero lunghe angosce striscianti su luoghi pietrosi. Vaffanculo, disse Priscilla. E cosa viene dopo l’angoscia in luoghi pietrosi? Domandò il ti- zio. 248 Peter non rispose. E di’ qualcosa, cristo, urlò Priscilla. Per esempio, riprese il tizio, viene la paura di una mezzasega come te. Oppure l’isterismo di una gallina snervante come la tua fidanzatina, qui. Mi viene da ridere, continuò il tizio distinto, a pensare che ho già visto tutta la faccenda che state vivendo, l’ho già presofferta e gustata, sapevo come sarebbe andata a finire ap- pena vi ho incontrati. E se iniziassi a raccontare la storia di voialtri imbecilli a cento persone, tutte e cento saprebbero dirmi come andrà a finire prima della metà. Bella scena: c’è il ragazzo idiota, la sua fidanzata ignorante e avida, c’è la purezza, che è Ana Rosa, e ci sono i soldi, forse la sola cosa per cui vale la pena di ammazzare qualcuno. E poi ci sono io. E chi cazzo saresti tu, disse Peter. Priscilla si era messa a piangere. Io sono quello che racconta la storia, disse il tizio distinto. Poi sparò tre colpi; i primi due proiettili raggiunsero la fronte e il petto di Peter, il terzo la fronte di Priscilla. Rovistò brevemente nelle tasche dei due, trovò il biglietto senza difficoltà. Si avvicinò ad Ana Rosa. Va tutto bene, le disse. Spinse l’auto di Peter nella boscaglia a lato dell’area di sosta. Va tutto bene, disse il tizio distinto ad Ana Rosa. Prese il fazzo- letto, le ripulì la bava dall’angolo della bocca. Sei una brava ragaz- za. Svitò il tappo del carburante, riuscì a impregnare il fazzoletto di benzina, lo incendiò. Vai nel posto migliore che ti sia mai capitato di visitare, disse il tizio distinto ad Ana Rosa.

E se ne andò.

249 LE REGOLE DEL GIOCO

Le mosche ronzavano intorno a noi insistenti e rabbiose, ogni tanto lo schiocco molle e fioco di un driver contro una palla giungeva da un lontano tee (C. Malaparte, Kaputt)

Il giorno in cui i nemici bombardarono il capanno attrezzi a poche centinaia di metri dalla club house, Osmond Blikfitter fece il primo birdie della sua vita alla buca 7, un terribile dog -leg a destra buono per i mancini dal draw naturale ma disastroso per i destror- si, specie se handicap diciannove come Blikfitter.

Jakob Avejagro stava camminando lungo il confine del campo, accanto al vecchio steccato, ora rimpiazzato con una trincea doz- zinale adornata da un filo spinato rugginoso e tetanico, su cui i gelsomini erano fritti e i piselli odorosi stavano marcendo, quando notò i soci del Golf Club dirigersi verso l’area di partenza della buca 8, un lungo par 4 in salita protetto da un paio di bunker sul primo colpo e da un ostacolo d’acqua attorno al putting green.

Oltre a Blikfitter, pezzo grosso del Governo, vide suo figlio Jerry con la sacca di Blikfitter in spalla, il maestro di golf Gallardo panciuto come un divano, e un altro socio del club che gli parve di riconoscere, tale Eric Tromoj, anch’esso funzionario dell’Ufficio Suicidi & Festività ®. Il primo colpo di Blikfitter dall’area di partenza della buca 8 fu uno slice tra le piante che costeggiavano il fairway su entrambi i lati.

Blikfitter osservò la sua palla addentrarsi in una zona di rough ricca di piante. 250 Cristo, disse. Lanciò il drive in direzione di Jerry, che lo afferrò al volo e lo ripose nella sacca. Dopo di lui giocarono il loro primo colpo il maestro Gallardo e Tromoj. Tromoj piazzò la palla sul tee, si preparò a colpirla, fece un paio di prove, si allontanò dalla palla e si riposizionò. In quel mo- mento sentirono un rumore che era identificabile come uno scop- pio, un’esplosione violenta la cui distanza poteva essere stimata all’incirca in cinquecento metri, massimo settecento, secondo gli approssimativi calcoli di Gallardo. Ha sentito? Domandò Tromoj a Blikfitter. Ho sentito, disse Blikfitter. La guerra durava da un paio d’anni, e l’esercito nemico era alle porte della città. I tre giocatori e Jerry si avviarono verso le loro palle. Cercaro- no brevemente la palla di Blikfitter e alla fine la trovarono tra il labbro squassato e il naso sanguinante di un cadavere disteso tra gli alberi, proprio a pochi centimetri dal tronco di un pino marit- timo scarnificato, mezzo moribondo per l’approssimarsi della sta- gione fredda e per l’assenza del vento umido marino. Che diavolo ci fa questo qui, domandò Tromoj. Non ne ho idea, disse Gallardo. Il tizio era stato freddato con un colpo di fucile alla fronte, aveva sangue raggrumato su tutto il volto; aveva sì e no vent’anni, indossava abiti militari e qualcuno si era già portato via gli scarpo- ni. È la sua palla? Domandò Gallardo a Blikfitter. Tromoj fece per avvicinarsi al cadavere. Non lo tocchi, cristo, disse Blikfitter, o finirà per muovermi la palla. Tromoj non osò fare un altro passo. Jerry si accostò al volto del soldato facendo attenzione a non rimuovere troppe pigne o aghi di pino e quando fu a pochi centi- metri dalla palla, tappandosi il naso, confermò che quella era la si- curamente la palla di Blikfitter. Titleist tre rossa con tre puntini verdi, disse. È la mia, disse Blikfitter. 251 Cristo di un dio, disse Tromoj. Sarà morto? Domandò Gallardo. A te che sembra, disse Jerry. È morto che più morto non si può, disse Tromoj. Questi insopportabili soldati del cazzo, si lamentò Blikfitter; proprio qui doveva venire a farsi ammazzare. E soprattutto mi domando per quale motivo nessuno l’abbia ancora rimosso, si lamentò Tromoj. Probabilmente nessuno lo ha visto, disse Jerry. Hey, caddie, tu parla quando sei interpellato, disse Tromoj. E lei veda di non rivolgersi in quel modo al mio caddie, disse Blikfitter. Sono stato chiaro? Chiarissimo, Signor Blikfitter. Piuttosto preoccupiamoci del mio prossimo colpo, disse Blikfitter. Può spostare la palla, disse subito Gallardo; deve trovare il punto più vicino in cui cessa l’interferenza col cadavere, e da quel punto ha ancora un bastone di buono per dropparla. Ne sei sicuro, domandò Blikfitter. Credo proprio di sì, disse Gallardo. Spostando la palla in quel modo, Blikfitter si sarebbe tolto di mezzo un paio di querce e una betulla, e avrebbe avuto una visua- le perfetta dell’asta della bandiera posizionata corta a sinistra del putting green. Ma nemmeno per sogno, intervenne Tromoj. Non può assolu- tamente spostare la palla, disse. Cosa sta farneticando, sussurrò Jerry. Si spieghi meglio, disse Blikfitter. In quel preciso momento udirono uno scoppio. Dobbiamo domandarci che cos’è quest’uomo morto, disse Tromoj. Cosa vuole che sia, disse Gallardo. È un povero cristo a cui un soldato nemico ha fatto saltare il cervello, disse Jerry. O magari se l’è fatto saltare da solo, aggiunse Gallardo; ho sen- tito dire che qualcuno tra i nostri soldati preferisce farla finita abu- sivamente piuttosto che lasciarsi ammazzare dal nemico. Starai scherzando, disse Blikfitter. 252 Non sto scherzando neanche un po’, disse Gallardo. Mi pare una questione che non si possa affrontare in questo momento, disse Tromoj. Invece la affrontiamo eccome, disse Blikfitter. Il coraggio dei nostri soldati non deve mai essere messo in discussione. E chi lo mette in discussione, disse Gallardo. Ho soltanto detto che qualcuno preferisce farla finita col fai-da-te piuttosto che aspettare che lo faccia qualcun altro. È più eroico morire con una pallottola di casa piuttosto che con una pallottola forestiera? Domandò Jerry. Non vorrei mai farmi ammazzare da una schifosa pallottola fo- restiera! Tuonò Blikfitter. Tuttavia non potrei neppure ammaz- zarmi quando la legge non lo consente. Un bel dilemma, disse Gallardo. Comunque nessuno ha risposto alla mia domanda, disse Tro- moj. E quale sarebbe la domanda, disse Jerry. La domanda era che cos’è quest’uomo morto, disse Tromoj. Mi pareva d’aver già risposto, disse Jerry. È la guerra, disse Gallardo. Intendevo dire, disse Tromoj, che cos’è quest’uomo morto per le regole del golf. Ah intendeva quello, disse Blikfitter. Che diavolo ne so, un soldato morto è un soldato morto, disse Gallardo. Se pensa che lascerò che si sposti una palla senza avere il diritto di spostarla si sbaglia di grosso, dichiarò Tromoj; il golf è il golf. E la guerra è la guerra, disse Jerry. Quando si fa la guerra si fa la guerra, quando si gioca a golf si gioca a golf, disse Tromoj. E allora, disse Blikfitter, non vorrei stare qui fino a stasera. Credo proprio che un cadavere umano sia da considerarsi un impedimento sciolto, disse Tromoj. Questa è proprio bella, disse Jerry. Come sarebbe un impedimento sciolto, domandò Blikfitter. Un impedimento sciolto è un impedimento sciolto, disse Tro- moj. Cristo, disse Blikfitter. 253 Come diavolo si deve procedere in caso di impedimento sciol- to, domandò Gallardo. Proprio un bel maestro di golf, disse Jerry. Gallardo, mi sta dicendo che non conosce le regole del gioco? domandò Blikfitter. Sto solo dicendo che sarebbe meglio consultare il libretto, disse Gallardo; per maggiore sicurezza. Jerry rovistò nella sacca di Blikfitter ed estrasse un vecchio li- bretto azzurro spiegazzato e sporco di fango rappreso. Da’ qua, disse Gallardo strappandoglielo di mano. È capace perfino di leggere? Domandò Tromoj. Gallardo iniziò a consultare il libretto, apparentemente senza risultati. Blikfitter sembrava piuttosto scocciato e spazientito. Un altro scoppio, stavolta più lontano, echeggiò sul prato del campo, scuotendo un poco le foglie degli alberi. Pensi di potercela fare? Domandò Jerry a Gallardo. Ecco qui, disse lui. “Sono impedimenti sciolti”, attaccò a legge- re, “oggetti naturali, inclusi: pietre; foglie; ramoscelli; rami e simili; sterco; vermi; insetti e simili e il terreno espulso o ammucchiato da loro, sempre che essi non siano: fissi o vegetanti; solidamente in- fossati oppure aderenti alla palla”. Fine. Tutto lì? domandò Blikfitter. Tutto qui, disse Gallardo. E come dovremmo intendere il cadavere di un soldato, equipa- randolo a un verme? Disse Blikfitter. O allo sterco, disse Tromoj. Fosse il cadavere di un soldato nemico ...disse Gallardo. Tromoj rise. Cosa c’è da ridere, disse Blikfitter. La mia palla è tra il labbro e il naso di uno stupido soldato che ha deciso di farsi ammazzare nel nostro golf club e la cosa la fa ridere? Ridevo per la faccenda dello sterco e del soldato nemico, disse Tromoj. L’avevo capito, cristo, disse Blikfitter. Forse dovremmo chiamare Korpoff, disse Jerry, lui è un’autorità in quanto a regole del golf. E tuttavia, disse Tromoj, credo proprio che un soldato morto sia quantomeno un oggetto naturale. 254 Ma in questo caso la palla aderisce all’oggetto naturale? Do- mandò Gallardo. Non aderisce un bel niente, disse Jerry. Gli sta solo sopra, confermò Tromoj. E va bene, disse Blikfitter; ammettiamo che sia uno stramale- detto impedimento sciolto, come dovrei comportarmi? Gallardo riprese il libretto azzurro e lo aprì. “Ovviare per un impedimento sciolto:” lesse, “eccetto quando sia l’impedimento sciolto sia la palla si trovano dentro o toccano il medesimo ostacolo”, e non mi pare sia questo il caso, disse, “qual- siasi impedimento sciolto”, riprese a leggere, “può essere rimosso senza penalità”. Per cui siamo a posto, disse Blikfitter. Rimuovo la zavorra e gioco la mia maledetta palla Titleist 3 rossa. Aspettate, disse Jerry riprendendosi il libretto. Che c’è ancora, domandò Blikfitter. La regola mica è finita, disse Jerry. Mi pareva, disse Tromoj. Leggi il seguito, disse Blikfitter. “In qualsiasi posto si trovi la palla”, lesse Jerry, “se il giocatore rimuovendo l’impedimento sciolto provoca il movimento della palla, si applica la regola 18-2a”. Per la puttana Jerry, disse Blikfitter, di cosa diavolo stai parlan- do? Qualcuno può farci la cortesia di leggere la regola 18-2a, disse Tromoj. Regola 18-2a, disse Jerry: “quando una palla di un giocatore è in gioco, se: il giocatore (o il suo caddie) provoca il movimento della palla, egli incorre in un colpo di penalità”. Ah! Esclamò Tromoj, mi pareva! Quindi, disse Blikfitter, se rimuovendo il soldato morto la mia palla si muovesse, e dio solo sa come stradannazione potrebbe non muoversi, incorrerei in un colpo di penalità. Proprio così, disse Gallardo. Tu stai muto, disse Blikfitter. Ciò non toglie che non credo lei abbia molte alternative, disse Tromoj.

255 Non prenderò mai un colpo di penalità, disse Blikfitter. Né tantomeno le concederò questo vantaggio. Cristo Signor Blikfitter, non penserà di giocare la palla dal volto massacrato di quel tizio, disse Gallardo. Falla finita, disse Blikfitter. Poi si rivolse a Jerry e gli chiese se fosse sicuro, in conclusione, che il soldato morto fosse un impe- dimento sciolto. Qui il libretto dice, disse Jerry, che un vitello vivo è un agente estraneo, mentre un vitello morto è un impedimento sciolto. È una distinzione introdotta quando le truppe nemiche hanno co- minciato a mitragliare a tappeto e ci siamo trovati con le mandrie di bestiame mezze bucherellate. E ti sembra che questo stupido imbecille di un soldato morto possa essere equiparabile a un vitello morto, domandò Blikfitter. Per analogia sembrerebbe proprio di sì, rispose Jerry. Nessuna differenza, confermò Tromoj. Andiamo, signor Blikfitter, prenda un maledetto colpo di pena- lità e sposti quella palla da lì, disse Gallardo. Mai! Urlò Blikfitter. Piuttosto ti ammazzo con la mia rivoltella d’ordinanza. Gallardo zittì. Blikfitter osservò la posizione della palla sul volto tumido del soldato morto. Sembrava perfettamente incastrata tra il labbro su- periore e la punta del naso. Qualcosa ne aveva sporcato il bianco- re, ma Blikfitter non sapeva dire se fosse stato il sangue del solda- to morto o chissà cos’altro. Jakob Avejagro nel frattempo era riuscito a penetrare all’interno del perimetro del golf club, tra la vegetazione, sfruttan- do un cedimento nel filo spinato della trincea, e si trovava ormai a poche decine di metri da Blikfitter e gli altri. Aveva raccolto una trentina di palle perse nel profondo rough, dalle parti del fuori li- mite rappresentato dalla trincea, palle che avrebbe poi rivenduto al negozio del club per racimolare un po’ di grana. Guardò suo figlio Jerry tentando di attirarne l’attenzione; avrebbe voluto farlo torna- re a casa immediatamente o che si trovasse in qualunque altro po- sto al mondo, lontano da quella guerra che stava devastando la lo- ro terra.

256 Un rapidissimo fischio squarciò le orecchie dei giocatori, e po- chi attimi dopo ci fu un fragore. Ferro cinque, disse Blikfitter. Ferro cinque? Domandò Tromoj. Che cosa t’importa del ferro che ho deciso di giocare, disse Blikfitter. Jerry prese dalla sacca il ferro cinque e lo consegnò nelle mani di Blikfitter. Gallardo stava osservando la scena a qualche metro di distanza. Ci fu un altro scoppio, più sordo, seguìto da un pennacchio di fumo nerissimo che cominciò a sollevarsi dietro il capannone degli attrezzi. Frattanto le nuvole avevano preso il sopravvento sull’azzurro, e una giornata iniziata con un bel sole ora minacciava pioggia. Signor Blikfitter, disse Gallardo. Taci, disse Blikfitter mentre cercava di individuare un punto tra gli alberi per farci passare la palla. Che c’è? Il ferro cinque è una pessima scelta, Signore, disse Gallardo; se mi posso permettere le consiglierei un ferro con un loft maggiore. Blikfitter si schermì. Afferrò un ciuffo d’erba e lo scagliò in aria per effettuare le considerazioni del caso sul vento. Conoscere l’intensità e la direzione del vento è fondamentale, per fare un buon colpo di golf. Si chinò sulla palla arrivando a trenta centimetri dalla bocca del soldato morto, osservò ancora gli alberi. Ferro otto, disse restituendo a Jerry il ferro cinque. Jerry prese il ferro cinque, lo infilò nella sacca, prese il ferro ot- to e lo consegnò a Blikfitter. Si udì un nuovo scoppio, e anche se pareva a una distanza maggiore dai precedenti, Avejagro si spaventò e lasciò cadere a terra una decina delle palle che aveva trovato. Maledetti siano i soldati, si disse mentre provvedeva a racco- gliere nuovamente le palle. Blikfitter si posizionò con i piedi accanto al fianco sinistro del soldato morto, fece alcune prove del colpo nell’aria, poi effettuò il backswing e riscendendo col ferro colpì la palla. Staccò di netto un pezzo di labbro, un paio di denti davanti e un frammento del naso, che deflagrarono nella calma piatta del golf club; la pallina si 257 incuneò tra un paio di alberi e procedette la sua corsa fino a un punto al centro del fairway, con un magnifico lie per il colpo suc- cessivo verso l’asta della bandiera. Colpo perfetto, disse Gallardo. Può ancora sperare nel par, gli fece eco Tromoj. Blikfitter diede un calcetto al costato del soldato morto e si di- resse verso la sua palla che si trovava al sicuro, nel bel mezzo del fairway, mentre alcuni scoppi rimbombavano alle loro spalle, nel buio del rough, dove milioni di palle da golf giacevano semisepol- te e dimenticate da tutti.

258 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (7) ______

Eccole che arrivano, in fila per tre, nella luce energica del mat- tino estivo: centoventi damigelle, centoventi giovani donne vestite coi colori dell’estate, gonne a fiori lunghe e corte, pantacollant aderenti e natiche in bella mostra, capelli sciolti o legati, divertite e atletiche, mentre una musica pop di quart’ordine inonda la piazza in cui si provano le coreografie per la parata più importante dell’anno. Anche se non hanno nulla di santo o religioso (tranne la fedeltà al potere del Gerarca) le chiamano papa-girls, s’intrufolano nei meandri della sensualità contravvenendo ai richiami dell’erotismo, il volto illuminato da una coscienza sovrastante, tutte impressiona- te dalla forza dell’amore. Hanno un’età compresa tra i diciotto e i ventidue anni, sono perlopiù studentesse amanti della vita e della religione, amanti del Gerarca e della Legge. Procedono secondo una linea retta, prestabilita, dall’ingresso ovest della piazza fino al centro dove sta il monumento a San Ber- tran de Born Conquistatore, si dispongono a semicerchio intorno alla statua, s’ammassano lungo le linee bianche tracciate sul porfi- do. Poi, all’improvviso, iniziano a muoversi senza peso dentro e fuori ogni spazio, situazione, esperienza. L’incanto di colori, le movenze, la trasformazione dei volti che s’increspano e gioiscono a ogni nuovo passo. Si agitano, le splendide damigelle gerarcali, soggiornano nell’assoluto, fuggono, si atterriscono, stanno sedute ad aspettare qualcosa che non arriva e qualcuno che le porterà al- trove. Ridono, piangono, scherzano. Gli istruttori strillano provocazioni e incitamenti attraverso megafoni branditi sapientemente, mentre le giovani papa-girls sciolgono i capelli come se sciogliessero un’anima gaudente, e a ogni balzo pare d’intuire una costellazione nuova e inammissibile. Danzano. Senza peso respirano, danzando sublimano l’angoscia di un ateismo gretto e patetico; sgranano occhi smarriti su un mondo aggrovigliato tra luci e rumori, spento, e lo rianimano con occhi 259 colmi di stupore, immagini, visioni. Si fanno beffe di ogni terrena realtà che non può definirsi se non greve e pungente, intuiscono il lato comico delle cose, guariscono dalla gravosità dell’essere. Si aggrappano le une alle altre come aliti di fumo che s’intrecciano nel cielo terso d’estate, come stormi di uccelli assu- mono configurazioni simmetriche e grovigli inestricabili. Infine si riuniscono al centro della piazza, sibilline, mani nelle mani, trascinando nelle movenze la propria purezza. Esibiscono una conturbante gigantografia multicolore del nostro Gerarca se- guìta dalla raffigurazione di un mastodontico fallo littorio, visibile da ogni recesso delle tribune prefabbricate in acciaio zincato a cal- do con piani di calpestio a tamponamenti verticali poste sui tre lati della piazza.

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260 TROPPO AFFANNO PER LA VITA

– Hurao Ni! – gridò uno degli uscieri. – Fallo stare muto – disse Tacchino Basito. – Hurao Ni! – gridò ancora l’usciere levando il braccio al cielo in segno di vittoria. Portava una divisa blu scolorita e aveva una faccia da imbecille. – Che rottura di coglioni – disse Tacchino Incavolato. – Piantala con questa lingua di merda – urlò Tacchino Depresso all’usciere. – Hurao Ni! 12 – ripeté lui. A questo punto Tacchino Depresso gli rifilò una scalcagnata col culo del fucile sulla nuca mezza pelata, e quello stramazzò a terra accompagnato dagli strepiti impauriti delle papa-girls e da un fiotto di sangue che formò una piccola pozza sul pavimento di finto marmo dell’androne. – E state un po’ zitte, che cazzo – disse Tacchino Incavolato. – Sempre a piagnucolare. Ma cosa siete, delle scrofe? Le papa-girls si ammansirono. Tutte indossavano abiti estivi da ballo o da footing, e qualcuna di loro aveva i capezzoli inturgiditi per l’emozione o lo spavento. – C’è qualche altro usciere eroico? – domandò Tacchino Disgu- stato. Gli altri quattro uscieri dell’androne Est del Palazzo Ottagonale, meglio conosciuto per essere la sede del Ministero Suicidi & Festi- vità ®, rimasero muti e immobili a scrutare i quattro uomini col vol- to coperto da maschere raffiguranti tacchini emotivi, in vendita a cinque euro e novantanove in tutti i negozi di giocattoli, mentre bloccavano l’ingresso verso l’esterno e quello che conduceva ai piani superiori con catene e spranghe.

12 Evviva Noi! in esperanto. 261 – E adesso? – domandò Tacchino Disgustato.

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Sabato 19 luglio Gad Artosius, Henry Makuloj, Tico Zihlai De Gyurgyokai e Remo Korkokageto, decisero di occupare un’ala del Ministero Suicidi & Festività ® per protestare contro l’indiscriminata autoeliminazione preventiva degli esseri umani fondata sulla dubbia teoria del Continuum Temporale Sabbionas- so, e per sostenere le ragioni del libero arbitrio dell’uomo nei con- fronti del totalitarismo determinista imposto dal governo.

Alle dieci di mattina abbandonarono l’appartamento in cui avevano trascorso gli ultimi giorni tra preparativi, riepiloghi, strategie, ecc., e si incamminarono lungo le strade di Sabbione invase da gente che bighellonava, digeriva croissant, camminava a passo svelto in dire- zione delle Agenzie Divinatorie per sottoporsi all’Aggiornamento Obbligatorio Annuale, si radunava per discutere sulla qualità dei tacchini e dei cavalcatori della Giostra del Peccato (si sarebbe svol- ta il giorno dopo, domenica), e si fermarono in un negozietto di giocattoli nei pressi di Piazza delle Dominazioni, dove acquistaro- no quattro maschere di gomma denominate Tacchini Emotivi (tra una vasta gamma di espressioni facciali sintomatiche di eterogenee emozioni scelsero: tacchino basito, tacchino incavolato, tacchino disgustato, tacchino depresso). Fecero tappa a casa di Benni McDougal, collezionista di armi stori- che, dove presero a prestito una rivoltella a rotazione da truppa au- tentica della prima guerra mondiale autografata sul calcio, un fucile con baionetta delle guerre napoleoniche, un moschetto Vetterli uti- lizzato dai carabinieri reali a cavallo e un cosiddetto trombone con canna in ferro in uso durante il Regno di Sardegna, tutte perfetta- mente cariche e funzionanti. Dopo una breve colazione in un bar sotto casa di McDougal, in- dossarono ciascuno la propria maschera da tacchino emotivo e si diressero verso il cuore della città, dove si svolgevano le prove per la parata della Giostra del Peccato. Lungo la strada dovettero subi- re alcuni scherni da parte di sciocchi cittadini cui faceva un certo effetto notare quattro uomini adulti indossare maschere per bam- 262 bini e aggirarsi lungo le strade reggendo armi vecchie di cent’anni. Ciononostante i quattro non se ne curarono, e proseguirono il loro cammino indossando le maschere modello tacchino emotivo e im- bracciando le loro armi storiche. Va detto che le armi non faceva- no paura a nessuno, e molti pensarono semplicemente che i quat- tro fossero un po’ svitati, o strampalati, che si stessero dirigendo verso il luogo di una ricostruzione storica, o il set di qualche fil- metto in costume. Entrarono in Piazza dei Gerarchi all’incirca alle undici, mentre il corpo di ballo dell’Accademia Belle Arti di Sabbione stava provan- do le proprie coreografie (il giorno dopo sarebbero state parte in- tegrante e fondamentale dalla grandiosa parata che ogni anno pre- cede la vera e propria Giostra del Peccato) e subito neutralizzarono i tre istruttori muscolosi con le armi storiche, mentre Tacchino In- cavolato intraprese la sua disquisizione sul Continuum Temporale Sabbionasso. Le ballerine, o papa-girls, si dimostrarono piuttosto seccate dall’improvvisa sospensione della prova generale, ma dovettero pensare che qualche minuto di pausa non potesse fargli male, tanto che si fermarono ad ascoltare le ragioni di Tacchino Incavolato. Per far capire a tutti che facevano sul serio, Tacchino Depresso ri- filò un brutto colpo col suo moschetto all’altezza dello stomaco di un istruttore troppo esuberante (aveva tentato di farsi notare da al- cune guardie che svolgevano una ronda d’ordinanza ai bordi della piazza). L’istruttore si accasciò tra lo stupore delle papa-girls e dei curiosi che dalle tribune stavano ammirando le prove generali della parata. Tacchino Incavolato attaccò col suo cavallo di battaglia, che era l’esempio della palla da biliardo ferma sul tavolo. “Un’altra palla muove rapidamente verso la prima palla”, disse. “Le due palle si urtano e la palla che prima era ferma ora acquista un movimento. Voi siete tanto idioti da ritenere che sia possibile prevedere il mo- vimento della prima palla semplicemente osservando il movimento della seconda; di più, siete così idioti da pretendere di essere in grado di prevedere il movimento della seconda palla. Ciò è impos- sibile. Come è impossibile prevedere ciò che accadrà a qualunque essere vivente”.

263 Le papa-girls sembravano confuse. Certamente non erano in grado di comprendere nulla di quanto Tacchino Incavolato dicesse. Uno degli istruttori domandò: “e quindi voi chi sareste, dei rompipalle o cosa?”, tanto da meritarsi un altro duro colpo, stavolta col fucile di Tacchino Basito. Un tizio dall’aria elegante scese dalle tribune e si avvicinò al centro della piazza. “Così voi sareste contrari all’anticipo di morte?”, domandò. “L’unico suicidio che riconosciamo è quello brado e selvaggio, di- retta conseguenza della vita intesa come insieme di attimi depreca- bili”, rispose Tacchino Incavolato. La sua voce proveniva caverno- sa dall’interno della maschera. Il tizio si presentò come Mikel de L’Obadià, studioso di Continuum Temporale, Storia di Filosofia del Suicidio e dignitario del Ministero Suicidi & Festività del Ge- rarcato ®. “Dimenticate Wittgenstein”, disse. “La morte non è di questo mondo, essa non è un fatto, ma la mancanza di un fatto”. “Abbiamo anche un dottorone”, disse Tacchino Incavolato. “Ma il suicidio, in quanto attesa consapevole della morte, non è forse il fatto della morte? Non è forse l’ esserci della morte nella vita, pertan- to un fatto del mondo, pertanto una negazione e un rifiuto catego- rico di tutti i fatti accaduti e di tutti i fatti possibili? Ancòra, in de- finitiva, non si tratta forse di un fatto non-fatto, di una tautologia contraddittoria?”. “Può darsi”, rispose il dottorone. “Tuttavia l’anticipo di morte è l’unica soluzione ai problemi dell’umanità”. A quel punto Tacchino Incavolato rispose con la sua classica do- manda-citazione, Cui Prodest? che era la classica domanda alla quale, se posta ad un certo punto di qualunque discussione, l’interlocutore non sapeva rispondere. L’orologio del Palazzo Ottagonale segnava mezzogiorno e dieci. Tacchino Disgustato notò che qualcuno aveva avvertito le guardie e fece alcuni cenni agli altri membri del gruppo. Al che Tacchino Incavolato rifilò un cazzotto al dignitario, che crollò a terra imme- diatamente, e ordinò di dirigersi con un gruppetto di papa-girls in direzione dell’ingresso Est del Palazzo Ottagonale. Sequestrarono all’incirca una trentina di ragazze e insieme con loro fecero irruzione nel Palazzo armi in pugno, immobilizzando gli uscieri e dichiarando quell’ala occupata dal Circolo dei Suicidi 264 Abusivi. Tacchino Basito ammainò la bandiera del Gerarca e issò il vessillo arancione del Circolo urlando le parole Libera Morte in Li- bero Stato! A quel punto l’orologio del Palazzo segnava mezzogiorno e trenta- due.

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– Adesso ce ne stiamo qui ad aspettare – disse Tacchino Incavola- to. Tacchino Depresso tentò di allungare le mani su una papa-girl seduta sul pavimento, la schiena appoggiata al muro e il volto im- paurito. – Che cazzo stai facendo? – domandò Tacchino Incavola- to. – Non siamo mica degli stupratori –. – Ma non rompere i coglioni – disse Tacchino Depresso, – Mi an- noio – Tentò di infilare una mano nella scollatura della femmina per tastare la consistenza dei seni. – Leva quelle mani tozze e craciose dalla puledra – disse Tacchino Incavolato. Tacchino Depresso si risentì, ma lasciò perdere il divertimento im- provvisato. – Non mi pare proprio il momento di metterci a litiga- re, brutti cazzoni che non siete altro – intervenne Tacchino Basito. – È che ci annoiamo – disse Tacchino Depresso. – Quando attacchiamo la protesta? – Tacchino Incavolato salì al piano ammezzato per osservare fuori dalla vetrata. – C’è una discreta folla – disse – ma non ancora sufficiente –. – Ma quanta gente vuoi? – domandò Tacchino Basito. – Parecchia – disse Tacchino Incavolato. – Cosa intendi per parecchia? – domandò Tacchino Depresso. – Un bel po’. – disse Tacchino Incavolato. – Un bel po’ non mi sembra granché come risposta – disse Tac- chino Basito. – Ma che cazzo ne so, cristo. Un bel po’, parecchia, cosa volete, un numero preciso? – – Un numero preciso sarebbe un primo passo – disse Tacchino Depresso. – Almeno specifichiamo un grado di riempimento della piazza – disse Tacchino Basito. 265 – E va bene, cazzo. Me li state veramente sfracellando – disse Tacchino Incavolato. – facciamo che quando la piazza si è riempita dai portici del Palazzo Ottagonale fino alla statua di San Bertran de Born possiamo cominciare –. Guardarono dalla finestra. Ci saranno state al massimo una quaran- tina di persone, sufficienti a riempire dieci metri quadrati di piazza. Ai lati alcune pattuglie della Gendarmeria e alcune inconfondibili automobili del Dipartimento Nettezza Umana. – Porca troia – esclamò Tacchino Depresso. – Starai scherzando? – domandò Tacchino Basito. – Ci saranno al massimo trenta persone, cazzo. Ci toccherà aspet- tare tre mesi prima che la piazza si riempia tanto quanto vorresti – disse Tacchino Disgustato. – Senza contare che ci faranno la pelle prima – sentenziò Tacchi- no Depresso. – Fanculo – disse Tacchino Incavolato. Si udirono degli starnazzi provenire dal pianterreno. – Avete lasciato sole le puttanelle con gli uscieri, cristo! – Urlò. – Sentite che casino, sembra un’aia del cazzo – Si precipitarono tutti al pianterreno. Alcune papa-girls attorniavano l’usciere ferito, tentando di curarlo con un rotolo di Scottex e una bottiglietta d’acqua minerale. Altre sbattevano i pugni contro la cancellata d’ingresso, cercando di atti- rare l’attenzione dei passanti. – E vorreste curarlo così, alla cazzo di cane? – disse Tacchino In- cavolato a una delle papa-girl. Le sguinzie si fecero da parte. – Sbattete fuori sto porco esperantista – intimò – Facile che abbia qualche malattia infettiva – – Che cazzo c’entra? – Domandò Tacchino Basito. – Sbattetelo fuori e basta, che cristo. – Urlò Tacchino Incavolato. Tacchino Disgustato aprì il lucchetto della cancellata, Tacchino Depresso e Tacchino Basito afferrarono l’usciere ferito per braccia e gambe e lo trasportarono fuori dall’androne, sotto il porticato, dove, presumevano, qualcuno si sarebbe preoccupato di condurlo all’ospedale. – Fanculo a te e a tutti i tuoi simili – urlò Tacchino Depresso ti- rando uno scatarro sulla divisa già abbondantemente insanguinata 266 dell’usciere. Poi rientrarono, mentre Tacchino Disgustato si occu- pava di richiudere la cancellata. – Legate i furbacchioni alle loro sedie – disse Tacchino Incavolato. Tacchino Depresso e Tacchino Disgustato badarono a legare mani e gambe degli uscieri con una fune che si erano portati da casa. – E svuotatemi sto pollaio – intimò Tacchino Incavolato. Le ventitré papa-girl furono condotte al piano ammezzato. – Veloci, che cazzo, stiamo mica facendo una scampagnata! – urlò Tacchino Depresso schiaffeggiando le natiche sode di una papa- girl ventenne o poco più. – Mica male, le papa-girls – disse Tacchino Disgustato trascinan- done una per un braccio. – Non le toccare, altrimenti Gad s’incazza – disse Tacchino De- presso. – Avevamo detto niente nomi, per la puttana – Irruppe Tacchino Basito. – E cos’ho detto? – domandò Tacchino Depresso – Hai pronunciato un nome, stronzo – disse Tacchino Basito. – Questa storia dei tacchini mi sta sfracellando le palle – disse Tac- chino Depresso. – Vuoi fornire anche indirizzo e codice fiscale, brutto cazzone? – ripeté Tacchino Basito. – Ma lasciami perdere – disse Tacchino Depresso spingendo le gallinelle in fondo al piano ammezzato, in maniera che fossero di- stanti dalla vetrata. Quando le ebbero radunate e fatte tacere con una certa fatica, si appostarono alla vetrata per verificare lo stato di riempimento della piazza. – Che noia – disse Tacchino Disgustato. – Ci saranno quaranta persone – disse Tacchino Depresso. – Quarantacinque al massimo – precisò Tacchino Basito. – Qui finisce che si fa notte – disse Tacchino Disgustato. – Ma che rottura di palle! – esclamò Tacchino Incavolato. – Avete finito di lamentarvi? Sembrate dei marmocchi del cazzo. – Scusa ma perché dobbiamo per forza utilizzare un linguaggio così volgare? – Domandò Tacchino Depresso.

267 – Ancora? Ne abbiamo già parlato. – Rispose Tacchino Incavola- to. – Che noia tutte le volte la stessa storia. – L’esperanto governativo non prevede termini volgari – disse Tacchino Basito. – E una protesta si comincia dal linguaggio – aggiunse Tacchino Incavolato. – Il fatto è che mi sento a disagio – si lamentò Tacchino Depresso. – Però quando era ora di infilare la tua mano nella scollatura della squinzia non ti sentivi a disagio – disse Tacchino Basito. – Non farla tanto lunga, cazzo – disse Tacchino Depresso. – Uh - uh, sentitelo, il chierichetto del cazzo, ha detto cazzo. – Ma fottiti. – E persevera col suo vergognoso linguaggio volgare! Lubrico! – E basta, cristodio – intervenne Tacchino Incavolato. In quel momento udirono dei rumori provenire dall’androne, dove gli uscieri legati mani e piedi stavano facendo un casino nero. – Dovevamo imbavagliarli – disse Tacchino Disgustato. – Bravo così ci crepavano per soffocamento – disse Tacchino De- presso. – Mica ho detto che dovevamo soffocarli, cazzo. Ho solo detto che se li imbavagliavamo a quest’ora non eravamo qui a sopportare i loro piagnistei – disse Tacchino Basito. – Complimenti per la proprietà di linguaggio – disse Tacchino Depresso. – Ma certo, mettiamoci anche a fare lezione di grammatica e orto- grafia – intervenne Tacchino Incavolato. – Non sopporto l’uso distorto dei tempi grammaticali, cazzo, non ce la faccio proprio. E Tico non ne azzecca uno – disse Tacchino Depresso. – Ma guarda che sei un bello stronzo – disse Tacchino Basito. – Hai pronunciato di nuovo un nome, porca puttana – inveì Tac- chino Disgustato. – Abbiamo detto niente nomi, cazzo – berciò Tacchino Incavola- to. – Che cazzo mi è scappato. Non l’ho mica fatto apposta. – Sei una testa di cazzo – disse Tacchino Disgustato.

268 – Devo andare in bagno a levarmi questa maschera altrimenti scoppio – disse Tacchino Depresso. – Puzza da far vomitare. – Sarà il tuo alito merdoso ad averla ammorbata. – Ma fottiti. – Come siamo diventati suscettibili. – Del resto dopo i sette scotch di ieri sera. – Dove sta il bagno? – domandò Tacchino Depresso agli uscieri. Nessuno rispose. – Siete sordi? Vi ho chiesto dove sta il bagno – Poiché ancora nessuno rispose, Tacchino Incavolato estrasse la sua rivoltella originale della prima guerra mondiale e colpì un usciere dietro il collo. – Haltigo, bonvolu! – urlò un altro usciere. – Figlio di puttana – disse Tacchino Depresso, e gli rifilò un colpo all’altezza della mascella, ribaltando la sedia sul pavimento. – Se qualcun altro di voi figli di buona donna ha ancora voglia di parlare esperanto può aprire quelle bocche marce anche subito – disse Tacchino Basito. Uno degli uscieri indicò il gabbiotto. – Non mi sento bene – disse Tacchino Incavolato. – Che hai? – gli domandò Tacchino Disgustato. – Qualcosa di brutto – rispose Tacchino Incavolato. – Falla finita – gli disse Tacchino Depresso prima di andare nel gabbiotto degli uscieri per levarsi la maschera. Tacchino Incavolato si osservò le mani. – Non vi sembra che le mie dita presentino delle malformazioni? – domandò. – Non mi sembra proprio – rispose Tacchino Disgustato. – Le malformazioni alle dita possono indicare un cancro ai polmo- ni – disse Tacchino Incavolato. – Che noia – disse Tacchino Basito. – Ti sembra noioso un cancro ai polmoni? – Noiosissimo. Tacchino Depresso tornò dal gabbiotto. – Non per disturbarvi, ma dalla finestrella del cesso ho visto una marea di porci. –

269 – Cosa intendi per porci? – domandò Tacchino Basito, ancor più basito di quanto non indicasse l’espressione sulla sua maschera. – Ma la polizia no? Gli spazzamorti, l’Igiene Sociale. I porci, caz- zo, i porci! – urlò Tacchino Depresso. – Stanno circondando l’edificio – disse Tacchino Incavolato. – Porca vacca – disse Tacchino Basito. – Non sarebbe il momento di attaccare con la protesta? – do- mandò Tacchino Disgustato. Udirono strepiti e rumoracci provenire dal piano ammezzato. – Cazzo abbiamo lasciato sole le papa-girls – disse Tacchino In- cavolato. Le ragazze stavano di nuovo sbattendo i pugni contro la vetrata, la- trando e schiamazzando. Tacchino Incavolato si precipitò al piano per riportare l’ordine. Tacchino Basito rimase a guardia dell’androne, Tacchino Depresso e Tacchino Disgustato seguirono Tacchino Incavolato. – Via di qui, fighelesse! – urlò Tacchino Incavolato strattonando un paio di papa-girls. – Fatele sloggiare, cazzo. – Portate via il vostro culo rapidamente – intimò Tacchino De- presso schiaffeggiando ancora le natiche di due o tre papa-girls. – Ancora con ste mani? – disse Tacchino Incavolato. – E non rompere i coglioni! Devono imparare – disse Tacchino Depresso. – C’ha ragione – confermò Tacchino Disgustato, utilizzando la stessa tecnica di schiaffeggiamento natiche per allontanare le signo- rine dalla vetrata. Quando le fighelesse furono nuovamente ammassate in fondo al piano ammezzato, distanti dalla vetrata, i tre guardarono fuori. – Non c’è un cazzo di nessuno – disse Tacchino Depresso. – Saranno al massimo cinquanta persone – confermò Tacchino Disgustato. – Aspettiamo – disse Tacchino Incavolato. – E cosa aspettiamo, che gli spazzamorti ci vengano a fare il cu- lo? – disse Tacchino Depresso. – Ci teniamo le papa-girls – disse Tacchino Incavolato. – In che senso? – domandò Tacchino Disgustato.

270 – Nel senso che ce le teniamo qui fin dopo la parata – disse Tac- chino Incavolato. – Così ci fanno la pelle – disse Tacchino Depresso. – Le damigelle del Gerarca sono fondamentali per le coreografie della parata di domani – disse Tacchino Disgustato. – Appunto – disse Tacchino Incavolato. – Si era parlato di una protesta con megafono dal Palazzo del Ministero Suicidi & Festività ®, non di sequestrare ventitré da- migelle papali della Giostra del Peccato – disse Tacchino Di- sgustato. – E secondo te non le abbiamo già sequestrate? – domandò Tac- chino Depresso. Dall’androne arrivò la voce di Tacchino Basito. – Si può sapere cosa cazzo state facendo? – urlò. – E non stritolare le palle, arriviamo subito – urlò in risposta Tacchino Depresso. – Cos’è, ha paura a stare da solo? – Fanculo. Facciamolo – disse Tacchino Disgustato. – Ma sì, teniamoci le pollastrelle per una notte – confermò Tac- chino Depresso. – Avete sentito belle signorine? – esclamò Tacchino Incavolato rivolgendosi alle papa-girls in fondo al corridoio. – Pare che passeremo insieme più tempo del previsto. Le papa-girls reagirono con alcuni gridolini. Poi una di loro si fece avanti. Aveva all’incirca vent’anni, e si presentò come Amber. – Non potete assolutamente tenerci qui – disse – domani dob- biamo partecipare alla parata per la Giostra del Peccato. – Bella scoperta – disse Tacchino Depresso. – Non vi vergognate? Ci sarà anche il nostro amato Gerarca – disse Amber. – Puoi capire cosa ce ne frega! – esclamò Tacchino Disgustato. – Siete delle persone ignobili – disse Amber. – Siamo dei romantici – disse Tacchino Incavolato. – Ci ribelliamo al determinismo del governo per affermare il libe- ro arbitrio – disse Tacchino Depresso. – Guarda che coglioni – disse un’altra papa-girl dal fondo del corridoio.

271 – Ti sembra questo il modo di esprimerti? – disse Tacchino De- presso. – Modo di esprimersi o no, siete comunque dei coglioni – ribadì la papa-girl. – Cazzo, è inaccettabile – disse Tacchino Disgustato. – Farsi trattare così da una puttanella in fuseaux – disse Tacchino Depresso, e fece per afferrarla. – Fermo, cazzo! – lo bloccò Tacchino Incavolato. – Sperate di cambiare le cose con questa pagliacciata? – doman- dò Amber. – Ma in realtà è già tutto previsto. Vi verranno a prendere e vi sbatteranno in prigione, vi terranno in vita in tutti i modi conosciuti dalla scienza, avete capito? Camperete cent’anni! – Urlò. – Ma senti questa rotta in culo – disse Tacchino Basito. – Oh come sono romantici i suicidi abusivi. Calzamaglia aran- cione e per la circostanza perfino una meravigliosa maschera di gomma da tacchino – disse l’altra papa-girl. In fondo al corridoio, le papa-girls ammassate sembravano più in- timorite dalle parole delle loro amichette che non dai sequestratori. – Ci stanno per caso prendendo per il culo? – chiese Tacchino Disgustato. – Mi sa tanto di sì – confermò Tacchino Depresso. – Però la calzamaglia arancione non mi è mai parsa una grandio- sa idea – disse Tacchino Disgustato. – Per non parlare di queste puzzolenti maschere – disse Tacchi- no Depresso. – E le armi, cazzo, queste non sono armi, sono reperti archeolo- gici – aggiunse Tacchino Disgustato. – Che rottura! – urlò Tacchino Incavolato. – Fate ammutolire queste rompipalle, prima che mi scoppi la testa. In quanto a voi, siete peggio delle femmine, cazzo, e la calzamaglia e le ma- schere e le armi. Fanculo, fate stare zitte le galline e state un po’ in silenzio anche voi, cristo di un dio. Dal pianterreno arrivò Tacchino Basito ansimando come una furia. – Che c’è adesso? – domandò Tacchino Incavolato. – C’è che siamo circondati – disse Tacchino Basito. – Gli uscieri chiedono di essere lasciati liberi. 272 – Neppure da morti – disse Tacchino Incavolato. Poi disse di lasciarlo stare per un po’, che ne aveva le palle piene, che doveva riflettere, eccetera. Prese il suo zainetto e se ne andò al pianterreno. – Qui sta andando tutto a schifìo – disse Tacchino Disgustato. – In che senso? – domandò Tacchino Basito. – Nel senso che lasciamo perfino che quattro bambinette depra- vate ci prendano per il culo, ecco in che senso – disse Tacchi- no Depresso. – E la protesta? – domandò Tacchino Basito. – Neanche l’ombra – disse Tacchino Disgustato. – Che cazzo ha? – Domandò Tacchino Basito. – Niente, poi gli passa. – Disse Tacchino Disgustato. – E comunque la novità è che la protesta col megafono non si fa più – disse Tacchino Depresso. – E si requisiscono le bambocce – continuò Tacchino Depresso. – Grazie per aver chiesto il mio parere – disse Tacchino Basito. – Adesso non rompere anche tu – disse Tacchino Depresso. – E comunque mi pare una vera stronzata – disse Tacchino Basi- to – Gli spazzamorti sono dappertutto. – A me l’idea di tenere qui le pollastre per tutta la notte piace non poco. Ce la spassiamo e roviniamo la festa al Governo – disse Tacchino Disgustato. – Appunto – confermò Tacchino Basito. – Sì, ce la spassiamo – disse Tacchino Depresso – ma se Gad non ci lascia fare un cazzo. – Ancora? – strillò Tacchino Basito. – Hai ripetuto un nome ancora? – confermò Tacchino Disgusta- to. – Porca puttana non lo faccio mica apposta – si scusò Tacchino Depresso. In quel momento gli agenti lanciarono un numero consistente di lacrimogeni, alcuni dei quali sfondarono la vetrata del piano am- mezzato e iniziarono a fare il loro sporco lavoro all’interno dell’edificio. Le papa-girls si rintanarono l’una accanto all’altra, mentre i rivoltosi stentavano a comprendere ciò che stava acca- dendo. 273

– Porca troia – gridò Tacchino Disgustato. – Ci sparano i lacrimogeni – disse Tacchino Basito. – Rispondete al fuoco, cristo – urlò Tacchino Incavolato risalen- do le scale dal pianterreno, dove aveva scaricato il proprio ner- vosismo prendendo a calci gli uscieri. – Spara – disse Tacchino Depresso a Tacchino Disgustato. – Cosa intendi dire per spara? – domandò Tacchino Disgustato. – Cristo premi quel cazzo di grilletto no! – urlò Tacchino Inca- volato. Tacchino Disgustato premette il grilletto della sua arma e il proiet- tile esplose all’interno del caricatore. Il rinculo lo sbatacchiò all’indietro contro il muro, la polvere da sparo lo ferì sul collo e sull’orecchio. A quel punto cominciò a latrare come una femmina. – Porco schifo! – urlò – Oh porco schifosissimo che male nero! – Queste fottute armi del cazzo – disse Tacchino Basito. – Secondo me è ora di tagliare la corda – disse Tacchino Disgu- stato. I lacrimogeni cominciavano a fare effetto. Gli occhi lacrimavano e l’aria si stava facendo irrespirabile.

– Hai il progetto? – domandò Tacchino Basito a Tacchino Inca- volato. – Certo che ce l’ho – rispose Tacchino Incavolato. – Mi sembra il momento di tirarlo fuori, cazzo – esclamò Tac- chino Depresso mentre Tacchino Disgustato continuava a pia- gnucolare dal dolore. – E falla finita, che cazzo – gli sbraitò addosso Tacchino Incavo- lato – Ti lasciamo qui con le femmine. – Fanculo – ringhiò Tacchino Disgustato.

Scesero velocemente al piano terra, dove osservarono gli uscieri sanguinanti appoggiati contro la parete. Avevano le bocche tappate da stracci e gli occhi lacrimanti. – Li lasciamo qui? Domandò Tacchino Basito. – Vorresti portarli con noi? Rispose Tacchino Incavolato. 274 – Mi sembrano messi male – disse Tacchino Basito. – E chissenefrega – urlò Tacchino Depresso. – Pensiamo a trovare questo passaggio del cazzo – intervenne Tacchino Incavolato. – Adia ŭo, filoj de ina ĉo – gridò Tacchino Basito all’indirizzo de- gli uscieri, mostrandogli il dito medio. L’orologio segnava le quattordici e venticinque, e la situazione co- minciò a farsi piuttosto confusa; il fumo dei lacrimogeni aveva av- volto tutto l’androne e il piano ammezzato quando i quattro abusi- vi iniziarono la ricerca del passaggio sotterraneo. Seguendo le indicazioni della piantina penetrarono in un vecchio stanzone colmo di quadri elettrici lerci. Cominciarono a tirare calci a scatoloni contenenti cianfrusaglie, lampadine bruciate, pezzi di ri- cambio per strumenti che non seppero riconoscere. Impiegarono all’incirca venticinque minuti a trovare il passaggio che conduceva nei sotterranei. Era bloccato da una vecchia porta arrugginita. Utilizzarono alcune barre di ferro per forzarla e aprirla, e discesero una scala profonda all’incirca sei o sette metri, al termi- ne della quale dovettero forzare un’altra serratura, e finalmente giunsero nella rete fognaria. Tacchino Basito estrasse una torcia elettrica dal proprio zaino e la accese; consultarono brevemente la piantina, poi si misero in mar- cia in direzione ovest.

– Che puzza di schifo – disse tacchino Depresso. – Ti credo, siamo nelle fogne – osservò Tacchino Basito. – Proprio una bella giornata di merda – sussurrò Tacchino Di- sgustato. – La volete fare un po’ finita? – domandò Tacchino Incavolato – Siete peggio dei vecchi, una lamentela continua. – Adesso possiamo smetterla di utilizzare questo linguaggio? – domandò Tacchino Depresso. – Non ci pensare neanche – rispose Tacchino Basito – attenia- moci al programma. – Ma quale programma dei miei coglioni – disse Tacchino Di- sgustato con voce tremante per il dolore – non ne è andata una per il verso giusto. 275 – Sempre il solito disfattista – disse Tacchino Basito. – Ah io sarei un disfattista? Può anche essere. Però non sei tu che hai un orecchio mezzo scorticato dalla polvere da sparo della tua arma del cazzo – inveì Tacchino Disgustato. – Un vetro mi ha scheggiato la mano – rispose Tacchino Basito. – Fottiti, quello è un graffio – disse Tacchino Depresso. – Dovremmo quasi esserci – disse Tacchino Incavolato guar- dandosi attorno e studiando la piantina della rete fognaria. – Almeno togliamoci queste ridicole maschere – abbozzò Tac- chino Depresso. – Le maschere non si toccano – sentenziò Tacchino Incavolato. – Devo trattarvi come bambini del cazzo, cazzo. – Ma guarda che schifo sto posto – disse Tacchino Basito. – C’è da prendersi il tetano – confermò Tacchino Disgustato. – Come minimo – aggiunse Tacchino Depresso – qui c’è da bec- carsi leishmaniosi o leptospirosi fulminanti. – Basta! – gridò Tacchino Incavolato, fermandosi di colpo e guardando verso l’alto.

Avevano camminato lungo la rete fognaria all’incirca un paio di chilometri, fino a raggiungere il punto nel quale affiorava una scala di ferro inserita nei mattoni della parete; sopra c’era una botola che secondo la piantina li avrebbe condotti alle cantine dell’Hotel Me- tradòr. La scala sembrava francamente mezza marcia, e almeno un paio di pioli davano l’idea di non poter reggere il peso di una per- sona adulta. Ciononostante la percorsero senza intoppi, riuscendo poi ad aprire la botola con facilità. Si ritrovarono così in un grande ambiente buio; la torcia elettrica evidenziò numerose scaffalature alle pareti. Quando Tacchino In- cavolato spinse l’interruttore e una quindicina di luci al neon illu- minarono la stanza, ebbero la certezza di trovarsi nell’immensa di- spensa dell’Hotel Metradòr. – Era ora, cazzo – disse Tacchino Basito. – Facciamo un po’ di spesa – suggerì Tacchino Depresso. Cominciarono a prelevare roba dagli scaffali. Tacchino Disgustato cercava qualcosa per disinfettare la ferita ma non trovò nient’altro 276 che un po’ di garza e degli stracci per le pulizie. Tacchino Depresso trangugiò una birra, piantò un rutto, poi si mise a riempire lo zai- netto con brioche e succhi di frutta, barrette di cioccolato e botti- glie di fanta e coca. Tacchino Basito trovò delle fette di pane e le imbottì con camembert e prosciutto crudo. Tacchino Incavolato mangiò salame e bevve vino rosso direttamente dalla bottiglia. – E adesso? – domandò Tacchino Disgustato. – Adesso saliamo in cima al palazzo e facciamo quello che c’è da fare – rispose Tacchino Incavolato. – Che giornata di merda – disse Tacchino Disgustato. Un rivolo di sangue gli scendeva lungo il collo. – Non perdiamo tempo – disse Tacchino Incavolato. I quattro si intrufolarono nelle cucine del Metradòr generando scompiglio tra cuochi e camerieri, si fecero largo a percosse tra i clienti dell’hotel, presero un ascensore che li condusse fino all’ultimo piano. Da lì una breve rampa di scale portava sul tetto del palazzo. Dall’alto la città era meravigliosa. I tetti rossi delle case e quelli scu- ri delle residenze barocche risplendevano sotto i colpi decisi di un sole acceso come un minerva. Quattro tizi avevano appena cele- brato un suicidio di gruppo, Tacchino Incavolato pensò che per poco non erano finiti in bocca ai verificatori. Guardando di sotto videro i corpi sfracellati e una folla che li attorniava. Distinsero i due verificatori e alcuni agenti di Nettezza Umana che si appresta- vano a ripulire l’asfalto e il marciapiede.

– Prepara le tute alari – disse Tacchino Incavolato a Tacchino Basito. Tacchino Basito estrasse la sua tuta alare dallo zaino e cominciò a trafficare. – Come cazzo si usano? – domandò dopo qualche minuto. – Che disdetta non ricordare mai niente – si lamentò Tacchino Depresso – è tre anni che ci esercitiamo. – Allora prego, mister so-tutto-io, accomodati – disse Tacchino Basito lanciando la sua tuta alare a Tacchino Depresso. Tacchino Depresso armeggiò con la tuta e la lasciò cadere a terra. – Fanculo – disse.

277 – Non mi starete dicendo che non siamo in grado di utilizzare le tute alari – disse polemicamente Tacchino Incavolato. – Te lo stiamo dicendo, porca di quella vacca sfondata – disse Tacchino Basito. – Telefona a Stan – disse Tacchino Depresso. – Porco cazzo – disse Tacchino Disgustato – che giornata di merda. Tacchino Incavolato compose il numero di Stan, il membro che aveva fornito non solo le tute alari ma anche le piantine della rete fognaria sottostante il Palazzo Ottagonale. – Perché non risponde? – domandò Tacchino Disgustato. – Aspetta un attimo, cristo – disse Tacchino Incavolato. – Suona libero? – Chiese Tacchino Basito. – Pronto? – disse Tacchino Incavolato. Rimase in ascolto qual- che secondo – Che cazzo non riattaccare eh – gridò nel telefo- no – ha riattaccato. – Porcaccia eva – disse Tacchino Depresso. – È un vero stronzo – disse Tacchino Basito. – È con la figlia – spiegò Tacchino Incavolato – alla Corrida dei Tacchini. – Ditemi che è un incubo – disse Tacchino Disgustato. – Noi siamo qui a cinquanta metri da terra e l’unico in grado di spiegarci come usare queste cazzo di tute alari butta giù il tele- fono perché ha accompagnato la figlia alla Corrida dei Tacchi- ni? – Richiamerà – disse Tacchino Disgustato. – Un corno! – esclamò Tacchino Basito tirando fuori dallo zaino un manuale di volo alare per capirci qualcosa. – Lascia perdere – disse Tacchino Disgustato – prepariamoci al gesto dimostrativo. – A chi tocca? – domandò Tacchino Basito. – Tiriamo a sorte? Disse Tacchino Incavolato. Tirarono a sorte e il prescelto fu Tacchino Disgustato. Si sarebbe calato dal tetto del Metradòr imbracato in una speciale corda elasti- ca e avrebbe comunicato un messaggio, al termine del quale avreb- be proceduto al gesto dimostrativo. – È pieno di gente – disse Tacchino Basito guardando di sotto. 278 – Meglio – disse Tacchino Incavolato. Imbracarono Tacchino Disgustato con la corda elastica. Tacchino Incavolato gli diede la sua rivoltella, caricandola con i proiettili esplosivi che McDougal aveva confezionato per l’occasione. – Non farà cilecca? – domandò Tacchino Disgustato. – Stai tranquillo, ti farà un bel buco – disse Tacchino Depresso. – L’I-Pod ce l’hai? – domandò Tacchino Basito. – Cosa c’è dopo? – domandò Tacchino Disgustato. – Niente – disse Tacchino Incavolato. – Niente di niente – confermò Tacchino Depresso. – E quindi? – domandò ancora Tacchino Disgustato. – E quindi cosa? – disse Tacchino Depresso. – E quindi sarà finito tutto – disse Tacchino Incavolato. – Come staccare una spina – disse Tacchino Depresso. – Una cannonata – aggiunse Tacchino Incavolato. Tacchino Disgustato rimase qualche secondo immobile sul para- petto, provando a immaginare qualcosa che somigliasse al niente . Il sole al tramonto era simile al nucleo terrestre (lo suppongo io, non ho mai visto il nucleo terrestre). C’era un profumo di uova alla coque e gardenie nebulizzate. Un uccello sfrecciò dalle parti del Metradòr, e le sue movenze erano come i remi di una barca a remi. – Ce l’hai l’I-Pod? – domandò Tacchino Basito. – Ce l’ho – rispose Tacchino Disgustato rovistando nel suo zai- no. La sua imbracatura era simile a quella dei tizi che puliscono i vetri dei grattacieli. Un gancio era stato fissato a un robusto piolo di fer- ro infilato nel muro. – Vado? – domandò. – Aspetta, cazzo. Dobbiamo risolvere il problema con le tute ala- ri. Niente tute, niente gesto dimostrativo – disse Tacchino In- cavolato. Tacchino Disgustato restò in bilico sul parapetto all’incirca tre mi- nuti, senza che sotto nessuno si accorgesse di nulla. Poi il telefono di Tacchino Incavolato squillò. Lo sentì imprecare e insultare Stan. In dieci minuti di conversazione fitta riuscirono a preparare le tute alari per il volo. – Buon viaggio – disse poi Tacchino Incavolato. 279 Tacchino Depresso e Tacchino Basito cominciarono a preparare l’apparecchiatura per diffondere la colonna sonora di tutti i suicidi abusivi. Tacchino Disgustato si calò lungo l’edificio, e là sotto qualcuno cominciò ad accorgersi di quella figura sospesa nel vuoto. Impressioni in punto di morte: i nonni in una foto da ragazzi, il Bacino Artificiale di Krasnoyarsk, la caccia al cinghiale in Siberia e l’asserzione 6.431 del Tractatus Logico-Philosophicus. Il monaco buddista che dopo una giovinezza dissoluta si convertì. Ritiratosi in un monastero, fece voto di castità e visse mille anni. Passarono una decina di minuti. Le note di Brigitte Bardot comincia- rono a echeggiare. Poi uno scoppio violento, le grida delle donne. Lo vedete? C’è troppo affanno per la vita, disse Tacchino Basito, o forse era qualcun altro.

280 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (8) ______

Cenni storici sul Circolo dei Suicidi Abusivi in un editoriale giornalistico degli anni ’60 13

È risaputo che i nostri neghittosi cittadini pervengono al gesto apicale – o come si deve dire nei temi delle medie, suicidio ® – go- vernati da un vaticinio, una divinazione, un pronostico: essi indu- giano pazientemente sulla crosta terrestre finché un oracolo grasso e peloso vomita il responso a loro dedicato, e quand’esso risulti contrario alla vita, hanno pieno diritto di perseguire l’assenza sempiterna. È altresì noto che vi sono molti esseri umani che vagheggiano di revocare la propria avvilente presenza a seguito d’una iattura, una depressione, o anche soltanto un capriccio passeggero. Ciò che molti ignorano è che una camarilla di codesti meschini, sfaticati abitanti della vita, teppisti esistenziali, fobantropi imparte- cipanti alle cosucce umane, s’è congiunta com’è proprio delle set- te, congregandosi in cantine umide o in sale da ballo deserte per la chiusura settimanale, alle ventuno e trenta di ogni lunedì, giorno notoriamente fiacco per balli e ubriacature.

13 La prima cellula di un gruppo sovversivo organizzato votato alla con- testazione del Continuum Temporale Sabbionasso e del Programma Au- toeliminazione Esseri Umani si rivelò ai cittadini di Sabbione nell’aprile del 1963, quando un dipendente del Ministero Suicidi & Festività ® (Di- partimento Calendario Ricreativo Promozionale) incendiò la propria au- tomobile e la lanciò a centoventi chilometri orari contro la vetrina della sede distaccata dell’Ufficio Cause Eleggibili di Suicidio ®, ministero che gli aveva negato per quattro volte consecutive la possibilità di procedere se- condo clausola 99 (a seguito di un matrimonio tragicamente naufragato). Dalle susseguenti indagini emerse un fatto del tutto nuovo e inaspettato: il suicida abusivo, che paralizzò il traffico urbano per quasi quattro ore e produsse grande scalpore tra l’opinione pubblica, indossava un saio di color arancione e stringeva nella mano destra un messaggio che, nono- stante il rogo, fu decifrato; esso recitava: la mia fine è il nostro inizio .

281 Ma che fanno questi scialacquatori di tradizioni, questi antivivi scalmanati e riottosi che hanno avanzato la romanzesca ingenuità di battezzarsi Setta dei Suicidi Abusivi? Riferiscono l’un l’altro di spose apostate e fidanzate transfughe, impieghi scapitati, frustra- zioni letterarie, scoramenti extraconiugali, frodi, perdite, bisticci, e in generale inneggiano a tutto ciò che rende l’esistenza un nudo fatto organico e desolante, e perciò meritorio d’essere annichilito. Fondatore del movimento fu un monaco iscariotico di cui si favoleggia che durante la vita desiderasse solo porvi fine, inoltran- do ventotto domande al reparto preposto e ottenendo ventotto dinieghi. Né l’adulterio patito né la profonda apatia convinsero i funzionari a concedergli il sospirato ammazzamento, talché il mo- naco, in preda a deliri spasmodici e guise salmodianti, adunò una combutta di cialtroni sempre pronti a manifestare, picchettare, presidiare, rivendicando il diritto d’ogni essere umano di propu- gnare la propria ignìvoma passione, la quale soprintende alle ille- cebre del trapasso. In primo luogo essi si convinsero a enunciare un precetto, o un motto, che dopo penose rassemblaggini e tristi pantomime, dopo botti di vino acetoso e dispense di cibi inscatolati, fu farsescamen- te definito una volta per tutte: meglio cadaveri illeciti oggi che in- censurati anneghittiti domani. Pertanto intrapresero i loro scorrazzamenti per le strade del Sabbionasso, indossando una calzamaglia di color arancione, vòlti a garrire ipotesi schernevoli e asprigne, illazioni sottecchiose e illa- scivìte tesi, magnificando nomi e imprese di celeberrimi ammazza- tòri di sé stessi. La reazione del Gerarca fu intormentita, tanto da sguinzagliare l’intero dipartimento di Nettezza Umana affinché cacciasse senza pietà i delinquenti. E qui dunque urgeva un esempio, affinché si potesse credere plausibile il miraggio d’autoeliminazione liberale; e a chi tocca di fornire esempi, se non al promotore? Egli visse ancora qualche tempo sedotto dagli ammiccamenti della dea avernesca, pronunciando sermoni che nessuno osò udire. Ammazzatosi abusivamente (simbolicamente si lanciò dal tetto del Ministero Suicidi & Festività ®), poterono maledirlo con ceri- monia ufficiale e schernirlo, dileggiarlo, oltraggiarlo, inumarlo se- condo il rito cattolico ch’egli abominava; il suo nome venne di- 282 sperso, l’Averno che tanto auspicò fu convertito in disagevole abi- tacolo con le molle al culo; il suo avello cattolico, esposto al publi- co ludibrio, fu ammicco, salamelecco, stóggio e monito per tutti i ricalcitranti teppistelli della cricca, i quali tetragoni, chiusi, asine- schi, seguitarono nel loro malevolo intento sino ai giorni nostri, sostenendo che perfino un dio riconosciuto, in passato, avesse saggiamente posto fine ai propri giorni, e dunque, perché non lo- ro? 14

Organigramma

L’unica figura di spicco è quella del fondatore del Circolo, det- to Monaco Arancione. Egli ha dettato le norme di condotta per tutti i membri, riportandole in un documento detto Manifesto. Tutti i membri del Circolo, a eccezione del Monaco Arancione, hanno pari diritti e doveri, e sono sulla stessa linea d’importanza.

Un libero cittadino seguace del Monaco Arancione racconta la sua conver- sione al Circolo dei Suicidi Abusivi in un’intervista radiofonica

Era una notte stellata. Avevo appena lasciato mia moglie in una birreria tra sciamannati ubriachi e potenziali stupratori. Non pro- vavo alcun senso di colpa. Mi avevano chiamato d’urgenza dall’azienda. Il mio informato- re mi rivelò che l’Amministratore Delegato aveva avuto un attacco di cuore. In altri termini giaceva riverso su un letto d’ospedale, o meglio ancora stava tirando gli ultimi. L’assemblea durò pochi minuti. Il mio nome fu fatto all’unanimità e divenni il nuovo Amministratore Delegato di una delle aziende più importanti del territorio.

14 Successivamente l’operato della Setta si esaurì e tutti i suoi membri, tra i quali il Monaco Arancione, furono dimenticati, almeno fino all’avvento del nuovo corso attuale (autodenominatosi non più setta , bensì circolo , a volerne sottolineare l’indirizzo laico ed extra-religioso), propugnato da un nuovo Monaco Arancione. 283 Poi uscimmo a guardare le stelle sbirciando tra le lenzuola stese sul tetto del palazzo. Solitamente le lenzuola pulite rivestono il corpo di candore e riempiono la mente di pensieri positivi, ad esempio quelli sessuali inerenti giovani donne sexy e nel pieno del- la fertilità. Mi sentivo felice. Il mondo era bellissimo e io ero a ca- po di un’azienda florida, per quale ragione non avrei dovuto essere felice? Eppure proprio in quel momento, tra le lenzuola stese e la via lattea, compresi che ogni felicità è illusoria, e che la mia gioia non era altro che una caduca e fallata percezione della realtà, obnubila- ta dall’esistenza materiale. Il mio spirito era dedito alla morte.

Un padre suicida abusivo descritto sul blog della figlia tredicenne dopo il ritrovamento del cadavere.

Se mio padre, il mio papà, avesse subito un incidente domesti- co nel quale per disgrazia fosse rimasto ucciso ad esempio da un cortocircuito, o dal precipitare di un lampadario in prossimità della sua calotta cranica, il Sabbionasso, la nostra terra, sarebbe stata un posto leggermente migliore in cui vivere. Eppure non posso nega- re l’evidenza che un beffardo fato mi ha riservato: sono diretta- mente collegata a lui, il mio papà, per via di certe questioni sangui- gne che tramuterei volentieri in sanguinarie. Non posso negare di essere sua figlia, la sua primogenita, nata quando ancora la sua mente non era ottenebrata dai pensieri che poco alla volta lo han- no devastato, investendola di un’aura che non ha assolutamente più nulla di umano. Epperò sono anche un’adolescente appassio- nata di fumetti horror, musica pop inglese/americana e di cospira- zioni internazionali, per cui la mia suprema ambizione è quella di apparire in televisione e di procacciarmi amicizie su internet, ami- cizie che un giorno potranno tornarmi utili per organizzare ad esempio una fuga da questa casa vecchia e oppressiva. Cionono- stante sono anche un’adolescente cicciottella e brufolosa, per quanto abbia incominciato una cura dimagrante e mi lavi la faccia tutte le mattine e tutte le sere con topexan ai frutti di bosco. Ho 284 deciso di aprire una finestra sulla mia vita, una vita costretta nelle sembianze e nell’evidenza di figlia di mio padre, il mio papà, un uomo orribile che non merita più di esistere neppure nel ricordo.

Ingresso nel Circolo dei Suicidi Abusivi

I membri del Circolo dei Suicidi Abusivi non possono in nes- sun caso invitare parenti, conoscenti, amici. Non deve sussistere alcuna relazione precedente tra i membri del circolo. Ciò per tassativo divieto del Monaco Arancione, affinché gli spazzamorti non possano risalire agli altri membri. Un nuovo membro che desidera entrare a far parte del Circolo deve compilare un test detto OCA . Il test è necessario per diventa- re un suicida abusivo (il Monaco Arancione lo ha desunto da qual- che folle religione contemporanea). Un membro appende una foto del Monaco Arancione (dimen- sioni uno e trentacinque per uno) alla parete. Il culto della perso- nalità, dice uno dei membri, è tratto fondamentale del nostro gruppo. Quello che occorre adesso, spiega il supervisore – il membro, tirato a sorte, che durante la cerimonia è il più alto in grado dei tre –, è fare chiarezza sulle parole malcomprese.

A questo punto la cerimonia d’iniziazione può cominciare: si tratta di una cerimonia piuttosto sobria, senza fronzoli. Unica ec- cezione la musica di sottofondo, sempre la stessa, sempre il brano Brigitte Bardot di Jorge Veiga. Un membro estrae dalla valigetta un elettro-psicometro. Il Su- pervisore chiacchiera col novizio, forse per metterlo a suo agio; si misura la resistenza elettrica cutanea del corpo del novizio, scatta l’applauso rivolto al ritratto del Monaco Arancione, si sorride e ci si stringe la mano. Abbiamo rilevato l’intensità delle sue emozioni, dice il Supervi- sore. Lei ora può definirsi un pre-clear. Ripetono insieme una formuletta (il novizio legge mentre gli al- tri enunciano a memoria):

285 Le persone soppressive possono essere private della proprietà o ferite con ogni mezzo. Possono essere imbrogliate, gli si può fare causa, mentire o di- struggere.

Conclusione del rito battesimale: Tu sei un essere spirituale che sei vissuto nel passato e conti- nuerai a vivere nel futuro.

Nessuno ha mai compreso il significato di tali affermazioni, ma nessuno si è mai affannato troppo per comprenderlo.

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286 POLITICHERÌA

Buon Voto, cittadini di Sabbione e dintorni!

Valeroj e Kamil erano stati incaricati di trasferire la grande sta- tua della Democrazia dal Parlamento al Palazzo Civico in tempo per le celebrazioni della Giornata della Ricostruzione Mussoliniana Elettorale, che come ogni anno si svolgeva il giorno prima delle elezioni del nuovo Gerarca, in occasione dell’anniversario della famosa visita di Mussolini a Sabbione. Poiché il tragitto era piuttosto tortuoso, stretto e costituito da viottoli e vicoli, ma soprattutto perché così voleva la tradizione, i due erano costretti a trasportare a mano la Democrazia, come avevano fatto nel corso degli anni tutti quelli che avevano svolto la stessa mansione. Valeroj teneva la statua per le caviglie tozze. Stramaledette siano le elezioni, si lagnò camminando. Non ca- pisco per quale motivo non possano costruire un’altra statua in modo che sia il Parlamento che il Palazzo Civico ne abbiano una. Eh, le tradizioni, sbuffò Kamil impugnando saldamente i polsi della statua. Le tradizioni son sacre! Esclamò, e fece una sosta prestando at- tenzione di appoggiare delicatamente la Democrazia sul porfido. Si trovavano nei pressi del Tribunale, e la giornata era piuttosto fredda. Valeroj guardò l’orologio contapassi. Ne avevano fatti set- tecentosette. Kamil alzò il bavero del cappotto, si levò i guanti da lavoro e soffiò sulle mani. Mancavano seimilacinquecentoundici passi al Palazzo Civico. Valeroj premette un tasto dell’orologio per controllare i battiti cardiaci; verificò che il suo cardiofrequenzimetro in dotazione fos- se posizionato nella maniera corretta. Cristo santo, disse Valeroj appoggiando anch’egli la statua a terra, mi verrà un infarto se non ci beviamo almeno una birra. 287 Impossibile! Esclamò Kamil. Non vorrai lasciare la statua incu- stodita. Io ho bisogno di una birra, tuonò Valeroj dirigendosi verso la caffetteria all’angolo tra la piccola piazza e il Tribunale. Una signora vestita di scuro si avvicinò a Kamil. Buongiorno, Signora, Buon Voto! strillò Kamil. La signora sputacchiò in terra a pochi centimetri dalla statua della Democrazia. Signora, è forse impazzita? Domandò Kamil. La statua giaceva sul porfido come una tartaruga riversa quan- do poggia sul guscio. La pancia della Democrazia, protuberante e lattea, rifletteva la luce del sole e delle insegne lì vicine, già accese a mezzogiorno. La scultura non aveva alcun valore artistico ma pos- sedeva un immenso valore storico e simbolico, giacché era stata benedetta da Mussolini in persona nel trentanove. La vecchietta non disse nulla. Squadrò Kamil dalla testa ai piedi e provò a sputacchiare di nuovo, ma evidentemente aveva finito la saliva, così ne uscì un minuto spiffero e un leggerissimo filo di ba- va che le rimase attaccato al mento vagamente peloso. Signora, dichiarò Kamil, dovrebbe vergognarsi. È questo il modo di trattare una signora? Chiese un tizio che bighellonava accanto alle vetrine. Se la signora scaracchia sulla statua della Democrazia che andrà a impreziosire l’Ufficio Elettorale del nostro Palazzo Civico per la Giornata della Ricostruzione Mussoliniana Elettorale ebbene sì, affermò Kamil, questo è il modo di trattarla. La vecchietta si allontanò con passo lento, mentre alcuni pas- santi si erano fermati a osservare la statua. Eh, le tradizioni, disse un tizio. Il nostro grande Paese si fonda sulle tradizioni! Esclamò Kamil. Poi dato che Valeroj non si decideva a tornare provò ad accender- si una sigaretta, ma non riusciva a tenere acceso un fiammifero per colpa del vento che si era levato e gli intirizziva i lobi e il naso. Chiese cordialmente da accendere a un passante, ma sembrava che nessuno ne avesse. Quando finalmente un giovane gli porse un accendino, Kamil accese la sigaretta e disse: Grazie! E buon Voto! 288 Il giovane bofonchiò qualcosa e se ne andò. Poco distante due addetti all’illuminazione stavano ultimando di sistemare una gigantesca scritta luminosa VOTARE È UN DOVERE da una parte all’altra del viottolo. Porca miseria, stava dicendo uno degli addetti. Porca miseria sì, rispondeva l’altro. Che schifo di lavoro, disse il primo. Kamil li guardò e disse: Buon Voto! Uno dei due si fermò, guardò in basso e disse: buon Voto un corno! Finalmente Valeroj uscì dalla caffetteria e impugnò le caviglie della Democrazia, Kamil impugnò i polsi, sollevarono la statua e ripresero a camminare con andatura abbastanza sostenuta, Valeroj davanti e Kamil dietro. Fate spazio! Urlava Valeroj alla gente che procedeva per i vicoli guardando le vetrine, mangiando castagne arrosto o digerendo caffè al liquore. Fate spazio! In Piazza Bertran de Born i negozi erano tutti illuminati e c’era una gran folla che passeggiava avanti e indietro. Ogni muro era tappezzato con immense fotografie raffiguranti i quattro candidati Gerarchi. Valeroj e Kamil fecero una nuova sosta da un lato della piazza, quello che vomitava continuamente persone dalla bocca del Duomo. Avevano percorso duemilatrecentosedici passi. Fa’ attenzione quando lo appoggi! Urlò Kamil. Valeroj tirò un calciò a una pietruzza, spazzolò il terreno con uno scarpone e fece attenzione che le chiappe della Democrazia si adagiassero delicatamente al suolo. Kamil comprò una copia del quotidiano elettorale all’edicola che c’era lì vicino. Buon Voto! Esclamò all’edicolante dopo aver pagato. Quello non sembrò accogliere l’augurio e non disse niente; stava chinato su alcune riviste e cercava il posto migliore per esporle al pubblico. Ho detto: buon Voto! Ripeté Kamil. Dice a me? domandò l’edicolante. 289 E a chi se no, disse Kamil. L’edicolante scaracchiò nella polvere al di fuori del suo cubico- lo. Signore, disse l’edicolante con tono solenne, io sono iscariotico da tredici generazioni, e se lo ha dimenticato le rammento che l’appartenenza alla chiesa di Giuda Iscariota ci consente di essere superiori alle vostre elezioni. Che il diavolo vi tenga per le caviglie quando tenterete di sca- valcare le porte del Paradiso, disse Kamil. L’edicolante sputò nuovamente in terra e disse: tenetevelo pu- re, il vostro Paradiso. Questi eretici, disse Kamil. Al centro della piazza stavano ultimando gli addobbi del grande Albero Elettorale ai cui rami erano caratteristicamente impiccati per i piedi i suicidi abusivi e i qualunquisti; due agenti di Nettezza Umana stavano procedendo all’impiccagione degli ultimi cinque o sei corpi, che raccattavano dal cassone del loro camioncino; pren- devano un corpo alla volta, uno per le mani e uno per i piedi, lo addobbavano con festoni e file di lampadine e lo riponevano so- pra un argano, il quale sollevandosi meccanicamente grazie a un motorino alzava il corpo; un terzo agente manovrava l’argano, o la gru, per predisporre il corpo in corrispondenza di uno dei ganci sui rami. A quel punto un altro agente saliva sulla scala, attaccava un manifesto elettorale sulla fronte del suicida abusivo qualunqui- sta e fissava il corpo al gancio. Un Maresciallo del Ministero Suicidi & Festività ® in alta uni- forme stava fornendo spiegazioni ai passanti e ai turisti. Vedete cosa vuol dire trascurare la vita politica del nostro Paese, diceva. Ma guardateli, i ribelli, trasformati in addobbi elettorali! Kamil si avvicinò al grande albero e lì vide uno che conosceva. Questo è il figlio della mia macellaia, la signora Humberoj, dis- se. Era infagottato in una tuta rossa che lo faceva sembrare una specie di Babbo Natale. Attorno alla testa portava una corona di luci intermittenti verdi e rosse; un cartello con la scritta VOTA LEONE BAGALO GERARCA gli pendeva dal collo tumefatto. Kamil guardò gli agenti di Nettezza Umana mentre procedeva- no all’impiccagione di una ragazza. 290 Poi si rivolse al Maresciallo. Signore, disse. Maresciallo, lo corresse il Maresciallo. Maresciallo, disse Kamil. Dica, disse il Maresciallo. Come si è ucciso questo ragazzo? Domandò Kamil indicando il figlio della sua macellaia. Non vedo ragazzi, qui, disse il Maresciallo. Valeroj sputò in terra. Cosa diamine sta facendo? Montò su tutte le furie il Marescial- lo. Si crede forse di essere in campagna? Valeroj non disse nulla. Dovrei multarla per lordura del terreno municipale, disse il Ma- resciallo. Valeroj lo guardò brevemente, poi gridò: Evviva Noi! Che razza di gente, bofonchiò il Maresciallo. Espettorare nel bel mezzo della nostra Piazza più bella, ai piedi del Grande Albero Elettorale! Deve scusarci Signore, disse Kamil. Maresciallo! Gridò il Maresciallo. Deve scusarci, Maresciallo, disse Kamil. Stiamo trasportando la statua della Democrazia dal Parlamento al Palazzo Civico. Indicò la statua appoggiata poco distante. Il Maresciallo diede un’occhiata all’albero. Piano con quel qualunquista abusivo! Piano! Urlò all’agente ad- detto al sollevamento corpi. Pesa una tonnellata, disse Valeroj. Dobbiamo per forza fare una pausa ogni tanto, disse Kamil. Siete dei buoni cittadini! Esclamò il Maresciallo. Dei buoni cittadi- ni! Poi si rivolse all’addetto che manovrava l’argano. Più in basso! Più in basso! Ho la schiena a pezzi, si lamentò Valeroj. Tutta la popolazione vi è riconoscente, continuò il Maresciallo. Lo credo bene, disse fiero di sé Kamil, e alzò gli occhi per os- servare le operazioni di impiccagione della qualunquista abusiva. Più a sinistra! Urlò il Maresciallo. A sinistra! Il manovratore fermò l’argano. Più a sinistra, Cristo! Urlò il Maresciallo. 291 Il manovratore spostò l’argano di qualche centimetro a sinistra. Maresciallo cosa fa, bestemmia? Domandò una signora che te- neva per mano un bambino. Il Maresciallo impallidì. Non mi riferivo a, balbettò impacciato. Stia attento, Maresciallo! Gridò la signora. Badi a come parla! Il Maresciallo, visibilmente imbarazzato, alzò un braccio, lo tese ed esclamò: Buon Voto, Signora! La signora si allontanò senza dire nulla. Tutta colpa vostra, razza di imbecilli, inveì il Maresciallo nei confronti degli agenti. Più a destra! Più a destra! Il manovratore spostò l’argano di qualche centimetro a destra. Ancora più a destra! Urlò il Maresciallo. Quando finalmente l’argano fu dichiarato in posizione, uno de- gli agenti si arrampicò sulla scala e agganciò il corpo della ragazza al ramo. Eh, le tradizioni! Esclamò il Maresciallo. La gente camminava avanti e indietro. Molti scattavano foto- grafie del Grande Albero Elettorale. Non è un bellissimo albero? Domandò il Maresciallo. Davvero bello, disse Kamil. Valeroj si voltò dall’altra parte e scaracchiò sul porfido, poi col piede coprì lo sputo. Un vero schifo, disse senza che il Maresciallo potesse udirlo. Guardate, gente! Urlò il Maresciallo ai passanti. Guardate cosa succede a essere irrispettosi della legge! La legge viene prima di tutto! Prima di tutto! Votate! Votate tutti! Il Voto è un dovere! Il Voto è un dovere! Kamil e Valeroj fecero per risollevare la statua della Democra- zia, mentre il Maresciallo correva per la piazza prendendo i nomi di quelli che vomitavano per lo schifo o di quelli che semplice- mente scuotevano il capo alla vista dell’albero; segnava nomi e co- gnomi su un taccuino rosso elettorale. Bisogna fare attenzione, disse il Maresciallo. Attenzione! Ripeté schioccando la lingua. Guardate! Urlò ai due portatori della Democrazia. Mi guardo intorno e vedo gente che scuote il capo, che parlotta, che vomita in un angolo. Che razza di cittadini sono, quelli? Cittadini sull’orlo 292 dell’abusivismo, cittadini inqualificabili, cittadini che bisognerà an- dare a trovare a casa per farci un discorsetto. Per questo prendo le loro generalità. Ci sono due atteggiamenti possibili di fronte al nostro magnifi- co Albero: la gioia stupita e l’indifferenza totale. Indifferenza totale? Chiese Kamil, che aveva già impugnato i polsi della Statua. L’indifferenza totale è apprezzata dal Governo, disse il Mare- sciallo. Per molti versi è molto meglio della gioia stupita. Ma at- tenzione! Aggiunse. L’indifferenza se riferita alle Elezioni del no- stro Gerarca degenera in qualunquismo, e il qualunquismo è male! Chi può rimanere indifferente di fronte a un albero dai cui rami cascano ragazzi impiccati per i piedi? Domandò Valeroj lasciando la presa dalle caviglie della Democrazia. Non sono ragazzi! Tuonò il Maresciallo. Sono suicidi abusivi e qualunquisti, cristo! Come ve lo devo ripetere? Va bene, disse Valeroj. Come dice lei. Perché, avete per caso qualcosa in contrario? Domandò il Ma- resciallo. Adesso che ci penso la vostra reazione non è stata pro- priamente di indifferenza. Ma è stata di gioia stupita! Disse Kamil. Il Maresciallo osservò i volti di Valeroj e Kamil. Se la prossima volta che passate di qui non leggerò sui vostri volti neutralità e indifferenza vi toccherà fornirmi nome cognome e indirizzo. La gioia stupita è ammissibile una volta soltanto. E se uno è gioioso di natura? Chiese Kamil. Ma quale gioioso di natura! Gridò il Maresciallo. La smetta di dire sciocchezze. La gioia è sempre sospetta, se lo ficchi in testa. È ammessa, a piccole dosi, ma è sempre sospetta. Kamil impugnò i polsi della Democrazia. E comunque l’indifferenza è il sentimento più diffuso, disse ancora il Maresciallo. Io osservo i volti di tutti i passanti, uno a uno, e annoto le espressioni di quei volti sul taccuino elettorale che il Ministero mi ha messo a disposizione. Tengo una statistica delle reazioni dei cittadini di fronte all’Albero. L’indifferenza è la reazione che il Governo reputa la migliore tra tutte le reazioni. La gioia stupita è altresì accettata. Scuotimenti di capo, espressioni di- sgustate, conati di vomito, eccetera, sono intollerabili. Di questi 293 prendo nome, cognome e indirizzo. Il giorno dopo due incaricati del Ministero vanno a fargli visita. Per ricordargli le nostre leggi e tradizioni. Alzò lo sguardo verso la statua del primo Gerarca in cima al Duomo ed esclamò: ah! Le leggi e le tradizioni del Gerarcato di Sabbionasso! Subito alla fine di quella frase dei ragazzotti gli fecero una mi- rabolante pernacchia. Il Maresciallo cominciò a voltarsi a destra e a sinistra per cercare di individuare i colpevoli. Valeroj e Kamil ripresero il cammino mentre urlava Sul taccui- no! Nome e cognome! Sul taccuino! Nome e cognome! Dopo altri millecinquecentonove passi dovettero fermarsi per un’altra sosta. Ho la schiena a pezzi, si lamentò Valeroj. E i calli fanno un ma- le cane. Io sono sudato marcio, disse Kamil. Un uomo aveva predisposto un presidio elettorale nei paraggi. L’uomo stava fermando i passanti, ma notando i due portatori della Democrazia si rivolse a loro, chiedendogli: bisogna o non bi- sogna portare fuori i cani a fare i bisogni? Kamil e Valeroj non sapevano cosa rispondere. L’uomo del presidio si schiarì la voce e disse: signori, questo è un sondaggio. I cittadini debbono portare fuori casa i propri cani a fare i bisogni, oppure no? Qual è l’alternativa? Domandò Kamil. Per esempio insegnargli a fare pipì in casa, rispose l’uomo del presidio. Gli si avvicinò un vigile. Oggi ho staccato dodici multe, disse. Dodici multe? Domandò Valeroj. Dodici multe per lordura di suolo pubblico, disse. Merde di ca- ne. I nostri concittadini sono terribilmente arretrati, disse l’uomo del presidio. È uno scandalo, confermò il vigile. E il mio compito è quello di condurli sulla retta via. Portare la luce dell’igiene laddove risiede l’oscurità della sozzeria. Staccando multe, disse Valeroj. 294 Staccando multe, confermò il vigile. Piuttosto, disse indicando la statua della Democrazia, oggi è la grande giornata eh? Stiamo cercando di raggiungere il Palazzo Civico in tempo uti- le, disse Kamil. Il vigile guardò l’orologio. Quanti passi vi mancano? Duemilaseicentoottantasei, disse Valeroj guardando il display del suo orologio al quarzo in dotazione. Uhm, disse il vigile, bisognerà che vi sbrighiate; avete ancora poco più di un’ora e mezza. A quest’ora Mussolini sarà appena sceso dal treno. Ma potete ancora farcela. Non dubito, disse l’uomo del presidio. Ma potreste rispondere al sondaggio? Può ripetere la domanda? Chiese Kamil. L’uomo del presidio lo guardò dritto negli occhi, impugnando una biro nella mano destra e una cartellina nella mano sinistra: bi- sogna portare fuori i cani a fare i propri bisogni o bisogna inse- gnargli a fare pipì in casa? Dipende, disse Kamil. Dipende? Chiese l’uomo del presidio. Da cosa dipende? Chiese il vigile. Non abbiamo previsto nessuna risposta in tal senso, si affrettò a dire l’uomo del presidio. Dipende dal fatto se il padrone del cane è attrezzato per ripuli- re il bisogno del suo cane, disse Kamil. Avete previsto una simile risposta? Chiese il vigile all’uomo del presidio. No, disse quello con una punta di sconforto. Bisognerà correggere i moduli, disse il vigile. Mi attiverò al più presto, confermò l’uomo del presidio. Beh, disse Valeroj impugnando le caviglie della Democrazia, Mussolini sarà già in taxi. Si starà già dirigendo al Palazzo Civico, disse Kamil. Prima c’è la sosta alla Fabbrica di Transistor, disse il vigile. Non esiste più da trentacinque anni, disse Valeroj. La ricostruiscono solo per oggi! Esclamò il vigile. Come, non lo sapete? Bisogna che la Giornata sia ricostruita perfettamente! L’Ufficio Verosimiglianza è uno dei distaccamenti più zelanti del 295 Ministero Suicidi & Festività ®. Non come l’Ufficio di Pulizia Civi- ca, che ci costringe a indossare queste penose uniformi. Gli scese una lacrima. Sarà il caso che ci affrettiamo comunque, disse Kamil impu- gnando i polsi della Democrazia e sollevandola. Duemilaseicentoottantasei, sbuffò Valeroj mettendosi in cam- mino. Il sagrato davanti all’ingresso principale del Palazzo Civico era invaso dalla folla. Tre guardie aprirono un varco per farci passare Kamil e Valeroj con la statua della Democrazia. Transitarono tra gli applausi degli elettori ed entrarono all’interno del palazzo, dove la folla era ancor più numerosa e impaziente; si diressero lungo la navata di sinistra, al fondo della quale gli addetti alla verosimi- glianza avevano predisposto l’Ufficio Elettorale con le statue dei quattro candidati Gerarchi e di altri personaggi minori precisa- mente nello stesso modo in cui erano state predisposte nel mille- novecentotrentanove. Tra le statue c’era la poltrona del Presidente del Seggio, un paio di Urne e in fondo la Grande Cabina Elettora- le in legno di pino, attorniata da altre quattro cabine, due per lato, dette Piccole Cabine Elettorali. Kamil e Valeroj percorsero gli ultimi quarantacinque passi e giunti alla Grande Cabina sistemarono con cura la Democrazia sul basamento marmoreo sotto gli occhi attenti del segretario e di un paio di scrutatori.

Gli fu consentito di partecipare alla ricostruzione storica. Am- bedue erano distrutti, col fiatone e le ossa rotte. Un dottore li accolse stringendogli la mano. Controlliamo per l’ultima volta il battito cardiaco, disse. Non vogliamo che tra un’ora vi venga un coccolone, vero? Kamil e Valeroj si levarono il cardiofrequenzimetro, lo riconse- gnarono allo stesso dottore che quella mattina, quasi otto ore pri- ma, li aveva forniti della dotazione moderna (unico strappo alla Ricostruzione Storica Ufficiale). Abbiamo dovuto introdurre il cardiofrequenzimetro sette anni fa, disse il dottore, dopo che uno dei due portantini fu preso da infarto e ci lasciò le penne. La statua della Democrazia crollò al suolo e le si staccò un mignolo. Un mignolo! Il governo fu co- 296 stretto a convocare la riserva in fretta e furia, ma soprattutto fu costretto a far intervenire uno scalpellista-scultore per restaurare la statua. Dovette fare il lavoro in movimento, lungo il tragitto, per- ché non c’era tempo. Kamil e Valeroj si guardavano intorno mentre un gruppetto di infermieri procedeva a provargli la pressione arteriosa. Da allora i portantini vengono dotati di un cardiofrequenzime- tro, in modo da permetterci di monitorare l’elettrocardiogramma in tempo reale. Mi sembra una cosa stupenda, disse Kamil. Ce lo avete già detto stamattina, disse Valeroj. Repetita iuvant! Esclamò il dottore. Due minuti dopo entrò Mussolini; dietro di lui De Bono, Balbo e De Vecchi, accompagnati dal Gerarca Uscente e dal Vescovo di Sabbione. Il figurante che impersonava Mussolini aveva una maschera la cui verosimiglianza con l’originale era stata valutata pressoché per- fetta. Anche gli altri tre erano ricostruiti con tutti i particolari. Specie i baffi di De Bono, fece notare qualcuno. Mussolini avanzò in direzione della Grande Cabina Elettorale grattandosi la gamba sinistra all’altezza del femore. Si grattò dietro la schiena. La gente rimase in silenzio. Kamil e Valeroj si sistema- rono accanto al sacrestano. Mussolini si fermò, si grattò il collo. Uno scrutatore gli porse la Scheda Elettorale di colore verde smeraldo. Mussolini la guardò, la annusò, si grattò il mento, la restituì allo scrutatore. Perché si gratta? Domandò Kamil. Il segretario inorridì. Cristo santo ma non siete andati a scuola? Domandò. Non co- noscete la Storia? Kamil e Valeroj si strinsero nelle spalle. Quando Mussolini fu a pochi passi dalla statua della Democra- zia giunse le mani, imitato da tutti i presenti. Si grattò l’inguine. Fece il segno della croce, imitato da tutti i presenti. Si grattò la scapola e poi, più intensamente, il petto. Afferrò la Scheda Elettorale. 297 Che diavolo, disse Kamil. Ma che cos’ha, le piattole? Domandò Valeroj. Siete due ignoranti, disse il segretario. Mussolini si grattò la chiappa destra. Il vescovo si fece passare un aspersorio dal chierichetto alla sua destra. Quello alla sua sini- stra gli passò un secchiello di zinco con l’acqua santa. Mussolini si grattò la schiena, o tentò di farlo. Il giorno in cui Mussolini venne in visita ufficiale a Sabbione, spiegò il sacrestano a Kamil e Valeroj, soffriva di una terribile ma- lattia esantematica. Poi esclamò: Era il dieci dicembre millenovecentotrentanove. Una malattia esantematica? Domandò Kamil. Una terribile malattia esantematica, disse il sacrestano. E tuttavia ciò non gli impedì di venire qui, nel nostro Palazzo Civico, per ba- ciare la Democrazia e per benedirla personalmente con l’acqua santa. Che uomo fantastico. Una terribile malattia esantematica? Domandò Kamil. Perché, Mussolini non può essersi ammalato di scarlattina? Disse il sacrestano. Nessuno sa con certezza di quale malattia era affetto quel giorno. Mussolini si grattò il costato destro. Ecco, ha sbagliato, disse il segretario. Cristo! In che senso ha sbagliato? domandò Kamil. Nel senso che ha sbagliato la sequenza, miseria. C’è un ordine ben preciso, s’affrettò a dire il segretario. Non è che possa grattar- si dove vuole e quando vuole. L’ordine è importante. Dopo la chiappa destra e il tentativo appena accennato alla schiena bisogna che si gratti l’inguine, e solo successivamente il costato. O pensa- vate che Mussolini si grattasse così, a caso? Il segretario guardò Kamil e dichiarò: Mussolini non lasciava niente al caso. E come fate a saperlo, voi? domandò Valeroj. Tzè, disse il segretario. Per decenni segretari e scrutatori si so- no tramandati scrupolosamente l’ordine delle zone in cui Mussoli- ni si grattò durante i quindici minuti di visita al nostro Ufficio Elettorale; il segretario dell’epoca, il lungimirante Furkoj, le anno- tò tutte a margine del Vangelo di Luca. Lunga gloria a lui! Evviva noi! Urlò Valeroj. 298 Qualcuno si voltò verso di loro. Zitto! Disse il segretario portandosi il dito al naso. Perché grida così, è impazzito? Non disturbi la Ricostruzione! Kamil notò tre tizi nascosti nell’oscurità, invisibili alla gente, che tenevano alzati dei cartelli illuminati da un occhio di bue sui quali c’era scritto: COLLO IN BASSO, CHIAPPA DESTRA, INGUINE, TENTATIVO SCHIENA, INGUINE, COLLO DIETRO, STOMACO, COSCIA SINISTRA, RETRO COSCIA DESTRA, SOPRACCIGLIO DESTRO. Era evidente che l’attore avesse dovuto studiare molto atten- tamente i gesti da svolgere, e dopo l’errore riprese a grattarsi nei punti giusti non lasciando trasparire la minima espressione di sconforto. La libertà è più grande di qualsiasi malattia! Esclamò il Gerarca Uscente. La libertà è più grande di qualsiasi malattia! Esclamarono i pre- senti. Mussolini si grattò il sopracciglio destro. Ricevette l’aspersorio dal vescovo; si grattò in rapida successione dietro l’orecchio destro e dietro l’orecchio sinistro; impugnò l’aspersorio saldamente con la mano destra. Con la sinistra si grattò il ginocchio destro, poi risalì la gamba e andò a grattarsi quella zona che sta tra il testicolo sini- stro e il retro della coscia; immerse l’aspersorio nel secchiello di zinco, si grattò la guancia destra, benedisse solennemente la De- mocrazia. Tutti i presenti applaudirono. Mussolini fece un passo in avanti grattandosi l’interno dell’orecchio sinistro, si avvicinò alla Cabina Elettorale, si grattò il mento, baciò la fronte della Democrazia, si grattò sotto il naso, si voltò verso la gente, tese il braccio destro, con l’altra mano si grat- tò rapidamente sotto il gomito e disse: evviva la Democrazia! Tutti i presenti ripeterono: evviva la Democrazia!

299 CRITICA DELLA VITA QUOTIDIANA A SABBIONE E DINTORNI AI TEMPI DEL MERCATO AZIONARIO

Samanta aveva bisogno di una frusta da cucina perché una delle sue più grandi ambizioni era mescolare composti cremosi. Jean, amore mio, disse Samanta, ho insufflato aria in questo composto per renderlo spumoso e leggero e credo che ora sia pronto. Jean stava leggendo Le Monde sul tavolo in cucina, fumando un sigaro. Samanta domandò, cosa ne pensi del mio pan di spagna? Jean as- sodò che Hong Kong era scesa di uno virgola sette e volò a Lon- dra, o a Parigi, lasciando il pan di spagna sulla credenza della loro villetta a schiera, accanto alla copia stropicciata di Le Monde. Nel frattempo Samanta tentò di preparare panna montata e meringa, meditando sulla sua emancipazione come donna e come moglie. Jean tornò da Londra, o da Parigi, con una splendida frusta da cu- cina Inox. La lampo di Jean fece uno zip caratteristico durante le operazioni di abbassamento. Poi Wall Street schizzò a più due vir- gola due e Samanta era incinta. Aveva deciso di rinunciare alla propria emancipazione in cambio di una vita moderatamente agia- ta. Durante la gravidanza soffrì di alcune emicranie e sporadiche perdite dello zero virgola cinque sul Nasdaq che la costrinsero a utilizzare sempre meno frequentemente la frusta da cucina e sem- pre più i bicchieri da cocktail La Rochere che Jean portò da Bru- xelles, o da Amsterdam. Madrid piombò in un baratro di meno tre virgola otto e molti amici e parenti si affollarono nella villetta di Jean e Samanta e i balloon o i margarita diventarono una necessità, al pari di uno splendido esemplare di verre à mélange à bec indi- spensabile per allestire cocktail più freschi, poiché nel frattempo era maggio, o giugno, e gli ospiti gradivano qualcosa di fresco. Mi sento un po’ limitata, disse Samanta, in quanto alla preparazione di cocktail, e Jean tornò da Francoforte con uno stop loss e un libro intitolato i cento migliori cocktail a base di martini. Un bagliore d’eccitazione sconquassò gli occhi di Samanta, che infatti preparò immediatamente un Lady Laura, composto da Martini dry, vodka 300 Sermeq alla pesca e Asti Martini per le sue migliori amiche. Certo questo prato inglese, disse Samanta, avrebbe bisogno di qualcosa. Non so che cosa, disse Samanta, ma di qualcosa avrebbe certamen- te bisogno. Jean tornò dalla città con una piscina, o il progetto di una piscina. Basta con le piscine classiche rettangolari, disse Sa- manta. Jean tornò in città e disse basta con le piscine classiche ret- tangolari, voglio qualcosa di più moderno, qualcosa di più coinvol- gente. Il Nikkei s’impennò a due virgola uno e lui si presentò a ca- sa con una splendida oasi rocciosa composta da due vasche irrego- lari, una pozza per l’idromassaggio e tre cascate. Poi Samanta era diventata mamma. Una splendida mamma, disse Jean, e Samanta sembrò arrossire per la lusinga. Disse Jean mi piacerebbe possede- re una macchina per il caffè, così potrei preparare il caffè per te e per il piccolo quando sarà un po’ più grande, oppure per i nostri amici quando verranno a trovarci. La moka non andava bene, era troppo lenta. Jean volò a Tokyo ed ebbe notevoli problemi con la sua coscienza dopo essere finito a letto con una stagista australia- na. Mentre Londra subiva una flessione di mezzo punto percentua- le Samanta cuciva le maniche della camicia di Jean e portava il pic- colo nel passeggino lungo i viali alberati del centro residenziale in collina. Jean tornò da Tokyo, o Seoul, con una Bialetti Deluxe e un baby chef della Mulinex e chiese sei felice? Sono felice, rispose Samanta, ma avrei bisogno di cucire più in fretta, il piccolo piange sovente e non credo riuscirò a consegnarti le camicie con le mani- che accorciate prima di mercoledì prossimo. Jean andò in città e tornò con una splendida rumena di ventitré anni; Samanta, questa è Sara, disse Jean, la nostra baby-sitter. Festeggiarono a lungo in stanza da letto, dove Samanta aveva fatto installare un impianto di raffreddamento a muro costituito da elettrodi sensibili al calore esterno e Jean aveva un monitor aggiornato in tempo reale sull’andamento del Nasdaq Biotechnology Index. Poi Samanta era di nuovo incinta, e Jean ebbe numerosi scrupoli prima di portarsi a letto Sara, soprattutto viste le conseguenze che quel gesto avrebbe potuto avere sull’economia della sua famiglia. Acquistò azioni per un valore compreso tra i due e trecentomila e partì per Riyad, o Doha. Samanta e Jean si ritrovarono a cena e Samanta chiese Jean mi ami? Jean disse certo che ti amo, e brindarono con champagne nelle nuove coppe da champagne che Jean aveva comprato nel 301 nord della Francia durante una battuta di caccia. Poi disse Sara questi sono due biglietti per Honolulu e un’assicurazione sulla vita. Sara disse mi sembra un’idea meravigliosa, Jean, e partì per Hono- lulu con la sorella, dove rimase un paio d’anni a spese di Jean. Poi Jean rientrò a casa con una Singer e una Necchi e disse eccoti la macchina da cucire amore mio, scegli quella che vuoi. Sembrava che la Necchi funzionasse meglio con le camicie e la Singer fun- zionasse meglio con i pantaloni. In seguito erano attorno alla loro oasi rocciosa e avevano lasciato il piccolo dai nonni e si guardaro- no lungamente negli occhi. Ci fu un bel silenzio carico di erotismo, durante il quale il Kospi sprofondò a meno tre virgola nove. Jean telefonò agli amici e disse oggi non venite. Poi volò a Lisbona, do- ve incontrò Carl insieme alla fidanzata Stella, cenarono insieme mentre Samanta nella loro villetta si dava da fare per cucire l’orlo dei nuovi pantaloni di Jean, un paio di pantaloni con le pence color cachi, o pesca. A parte una impercettibile diminuzione del Dow Jones Samanta non ebbe particolari problemi durante la seconda gravidanza, così gli amici tornarono ad affollarsi ai bordi dell’oasi rocciosa, a chiacchierare e a gustare alcuni splendidi cocktail prepa- rati da André, il barman d’occasione che Jean si era procurato a Rio de Janeiro insieme a Haidi, la nuova baby-sitter brasiliana, mentre il Bovespa schizzava a più quattro virgola otto. Carl disse credo che tu abbia qualche problema col rimorso; Jean disse tutt’altro, nessun problema, e tornò a casa con una bellissima doc- cia idromassaggio per quando desiderava fare l’amore con Samanta in un posto diverso dal solito letto a tre piazze extra-king-size ac- quistato un mesetto prima a Louisville, Kentucky, durante una flessione di Tokio. Un fantastico coro d’opera risuonava dalle cas- se del loro impianto stereo Bang & Olufsen quando Jean si avvici- nò al frigorifero per prepararsi un club sandwich ricco di carboi- drati e calorie. Il Nabucco è magnifico, disse Jean a Samanta; tutti dovrebbero poterlo ascoltare mediante le casse di un BeoSound 9000. Certo pochi possono permetterselo, ma il problema della povertà e della ridistribuzione della ricchezza andrebbe affrontato da chi se ne intende, e io non me ne intendo. Samanta disse credo che il piccolo abbia bisogno di compagnia. Jean lucidò il suo fucile da caccia, ripose alcuni libri rari nella biblioteca di famiglia, conte- nente dodicimila volumi, e consultò le quotazioni. 302 Mi sento un po’ giù, disse Samanta, e fece notare a Jean le sma- gliature sulla pelle dei suoi glutei. Jean tornò dalla città con due tes- sere della palestra e disse non ti preoccupare amore, ho pensato a tutto io, la palestra è ottima per rilassarsi e ristabilire il tono mu- scolare, specialmente dopo un paio di gravidanze. Così Samanta era di nuovo mamma e la piccolina era una splendida bambina. Samanta andò in palestra per qualche tempo ma poi disse mi pia- cerebbe restare a casa con i piccoli, soprattutto adesso che stiamo vivendo una fase così importante e delicata della loro crescita. Jean stava guardando un programma di automobili sul suo schermo Samsung a 32 pollici. Disse ma certo tesoro, è un tuo diritto, e par- tì per il golfo del Messico, o la Baia della California, dove sviluppò alcune tecniche di miniaturizzazione dei composti tecnici della la- vastoviglie e subì una perdita di quattrocentomila causata dal crollo di Singapore. Samanta rinunciò alla tessera della palestra e per compensare all’assenza di un allenamento costante e armonico piazzò un paio di cyclette in soggiorno, accanto a un vaso in por- cellana decorato a mano e a un fitness cube di ultima generazione. Pensi che possa bastare? Domandò Samanta a Haidi. Haidi rispose che no, non poteva bastare, e che per sfruttare ogni centimetro della stanza occorrevano anche un tapis roulant e un elettrostimo- latore. Il Colcap volò alle stelle e Jean tornò dalla Colombia con un crosstrainer e una poltrona zen di origine himalaiana ma di tecno- logia giapponese. Mi sento davvero fortunata, disse Samanta, e ba- ciò Jean sulla fronte prima di accomodarsi sulla poltrona zen te- nendo la piccola in braccio. Eppure sento che c’è qualcosa che non va, intendo nella nostra vita famigliare, qualcosa che non so spie- garmi ma che se fosse presente potrebbe migliorare le nostre vite arredando al contempo la casa. Jean prenotò una cena per due e Samanta dimenticò tutti i problemi. Sarebbe utile conoscere qual- che lingua straniera, disse Samanta, specialmente per i piccoli; il francese, forse, o il tedesco. L’inglese è abusato. Jean volò a New Orleans e quando tornò stava tenendo in braccio un cucciolo di épagneul nano continentale papillon bianco con orecchie nere. Ec- co, disse, questo sarà perfetto per i piccoli, ma anche per noi. I piccoli furono entusiasti e per festeggiare Samanta preparò un fan- tastico pan di spagna, mentre Jean si fece cullare dalla poltrona zen ascoltando la Carmen di Bizet. Avrei bisogno di altri utensili da cu- 303 cina, disse Samanta a Jean. Così potrei cucinarvi ogni sera piatti di- versi, invece di affidarmi al solito ricettario scontato. Jean partì per Johannesburg, o Pretoria, e Samanta trascorse qualche giorno di depressione insieme ai piccoli e alle solite amiche, intorno all’oasi rocciosa, fumando sigarette cento’s e bevendo alcune bottiglie di acquavite. Jean ebbe numerosi appuntamenti di lavoro e a causa di una perdita secca dell’Euronext fu costretto ad acquistare il mini- mo necessario: tornò comunque a casa con un walnussoffener di bigiotteria, uno chef’s quad-timer professional oltre a numerosi al- tri utensili quali wok, asparagiera e termometri vari, per cioccolato, yogurt e a infrarossi. Noto con dispiacere che non sei riuscito a trovare uno sguscia gamberi, disse Samanta, lo sai quanto tempo mi ci vuole per prepararli. E a proposito dell’apprendimento del francese? Ordinarono un corso per corrispondenza in francese, utile soprattutto mentre si pedalava sulla cyclette. Jean rientrò da una serata con gli amici e disse Samanta, mi pare che la casa sia un po’ in disordine. Samanta sembrò affranta. Non dico che sia colpa tua, ma forse sarebbe necessario che tu dedicassi più tempo alle faccende domestiche, magari prima della lezione di pianoforte del mercoledì pomeriggio. Non mi pare una grande idea, disse Samanta, così assunse un direttore famigliare per mandare avanti la baracca quando Jean era in viaggio per affari. Il suo nome era Tomi. Qui occorre sviluppare una nuova idea di famiglia, disse Tomi, un’idea paragonabile all’organizzazione di un’azienda. Samanta era molto annoiata. Si fece preparare da Tomi un bel programmino settimanale per tener- si occupata oltre alle lezioni di pianoforte del mercoledì pomerig- gio e a quelle di golf del giovedì mattina. Lunedì! Corso di potatura; martedì! Corso di pasticceria; merco- ledì! Corso di intaglio su legno; giovedì! Corso di francese; venerdì! Corso di pittura; sabato! Corso di autostima, lesse Tomi ad alta vo- ce nel salotto della villetta, proprio accanto al camino in muratura. Samanta sembrò rivitalizzarsi e quando Jean tornò da Bangalore, o Singapore, si fece trovare sexy come non mai nella loro stanza da letto finemente arredata dai migliori architetti d’interni di New York. Poi protestò, fumando una cento’s, per il fatto che i corsi settimanali le impedivano di vedere i suoi programmi preferiti alla televisione. Jean andò al primo centro commerciale e portò a casa 304 un videoregistratore multifunzione. Ecco, disse, questo dovrebbe risolvere buona parte dei tuoi problemi. Sono estremamente felice, disse Samanta, ma ti ho mai parlato della volta in cui andammo in campagna per comprare quello struzzo e ti dissi di lasciare perde- re, che costava troppo e non avremmo avuto tempo di accudirlo? Bene, disse, mentii. Non so per quale ragione lo feci. Forse quello era un periodo della mia vita in cui ero più indirizzata a una tipo- logia di consumo tecnologica tralasciando i valori e le virtù inequi- vocabili della natura, ma da qualche giorno mi sono resa conto della mia vera inclinazione. Jean incaricò Tomi di tornare in cam- pagna per trattare l’acquisto dello struzzo. Tomi tornò a casa con due struzzi africani subsahariani alti due metri e disse ai piccoli piaceranno moltissimo, ma bisognerà trovare qualcuno che li curi. Jean disse perché, Tomi, non lo puoi fare tu? Tomi rispose, con tutto il rispetto io sono venuto qua per fare il direttore famigliare, non per sporcarmi la livrea con la merda di uno struzzo. Trova qualcuno, disse Jean prima di partire per Stoccolma, e raccoman- dati che sia capace di fare il suo mestiere alla perfezione. Inoltre, disse Jean a Tomi, gradirei che d’ora in avanti misurassi il tuo lin- guaggio in maniera che sia più consono a un ambiente domestico, ci siamo intesi? Tomi rispose che sì, si erano intesi. Shanghai perse il tre percento, e a Stoccolma Jean si trovò a letto con Amanda, dubitando che quel fatto potesse in qualche modo mettere a re- pentaglio la sua relazione con Samanta. Ad ogni modo cercò di rimuovere il profumo di Amanda acquistando un set di oli e cre- me al mango per Samanta e un pc portatile per i propri figli. Quando arrivò a casa venne accolto da Tomi il quale disse ho una brutta notizia, uno dei due struzzi è morto e i piccoli sono dispe- rati. Com’è potuto succedere, domandò Jean, ma a questa doman- da nessuno seppe rispondere. Fece venire il veterinario e doman- dò com’è potuto succedere? Era vecchio, disse il veterinario, al- meno vent’anni, forse più, è naturale che sia successo. Jean pretese di conoscere dettagliatamente la causa del decesso. Arresto cardia- co, rispose il veterinario. Qualunque essere vivente, tranne forse i vegetali, muore per arresto cardiaco, disse Jean, io voglio sapere cosa ha causato l’arresto cardiaco. Vecchiaia, disse il veterinario. Non mi basta, disse Jean, non vede quanto sono sconvolti i picco- li? Esiste una cosa che spesso giunge senza motivo, chiamata mor- 305 te, disse il veterinario, a cui i piccoli farebbero bene ad abituarsi. Jean pagò il veterinario e lo mandò via. Non preoccupatevi, picco- li, non accadrà più, disse Jean. Poi tornò a casa con un cucciolo di porcospino e disse a Samanta, mi hanno garantito che questo vi- vrà più a lungo. Samanta era molto felice e per festeggiare il nuovo arrivo diede un favoloso party invitando tutti gli amici di Jean. Prima però dobbiamo pensare ai gazebo, disse Samanta, altrimenti gli invitati quando si accomoderanno attorno all’oasi rocciosa avranno come la sensazione di trovarsi in un ambiente spoglio, raffazzonato. Sono d’accordo, disse Tomi, e così Jean fece portare cinque gazebo di legno con vetrate e doppi ingressi per gli ospiti del party. Per primi giunsero gli amici di Jean, frastornati dalla bel- lezza della villetta, poi le amiche di Samanta, vestite di rosa, vol- teggiando sulle drammaturgie della gioventù, coi loro pensieri da femmine. Infine Jean partì per Bangkok e Samanta si rinchiuse nella palestra della villetta per un’ora di yoga in compagnia di una personal trainer americana. I piccoli giocavano con lo struzzo, col porcospino, con l’épagneul nano continentale papillon, finché si stancarono e pretesero qualcosa di più divertente, per esempio un ottovolante o un autoscontro. Non mi pare fattibile, disse Jean, a meno che non trasformiamo la nostra vigna in un luna park, e ciò mi pare fuori discussione. Andiamo, sono i tuoi figli a chiedertelo, disse Samanta. Inoltre non mi pare che il tuo vino sia tanto buo- no, mi vergogno perfino di offrirlo alle mie amiche. Jean si oppose fermamente e i piccoli caddero in una depressione assoluta, tanto che lo struzzo e il porcospino, abbandonati, si ammalarono e Jean fu costretto a restituirli. Inoltre c’è quella storia del videoregistra- tore, disse Samanta. Si tratta di tecnologia superata, ormai mi oc- corre un lettore dvd. Jean comprò cinque lettori dvd recorder, uno per ciascuna delle televisioni della villetta, e si accomodò sulla sua poltrona zen per ascoltare qualcosa. Ai piccoli serve compagnia, disse Samanta. Jean li portò al luna park e quando fu ora di torna- re a casa i piccoli piansero. Hanno bisogno di compagnia, disse Samanta. Credo tu abbia ragione, rispose Jean. Poi presero un bambino in affidamento. Ultimamente mi sembri un po’ distratto, disse Samanta a Jean. Ci fu un silenzio inquietante, rotto soltanto dall’ingresso del piccolo adottivo, che strillando mostrò un ginoc- chio sbucciato. Jean partì per Pechino, o Hong Kong, col groppo 306 in gola, e quando tornò si mise seduto nel bunker della villetta, dove conservava alcuni capolavori barocchi e numerosi acquerelli del primo novecento. Ho sbagliato qualcosa? Domandò a Tomi. Non hai sbagliato niente, rispose Tomi. Adesso smetti di commi- serarti e vieni di là, c’è la questione della nuova sala-giochi da di- scutere. Non credo che in questo momento mi vada di occuparmi della sala-giochi, disse Jean, e si fece un lungo bagno caldo nella sua Jacuzzi blu mare con vista sulle colline del Sabbionasso Alto. Londra scese dell’uno virgola tre e Samanta si lamentava per l’educazione del nuovo figlio adottivo, così si convinsero a resti- tuirlo. Non ho mai sentito un bambino piangere così rumorosa- mente, disse Samanta, non lo sopporto. Se almeno fosse nostro figlio, disse. In cambio del figlio Jean portò a casa un’unità cibernetica robotiz- zata raffigurante il colonnello Kurtz/Marlon Brando. È sempli- cemente fantastica, disse Samanta, sapevi della mia passione per la guerra del Vietnam e per Conrad. Se premi il pulsante dietro all’orecchio sinistro ripete interamente il monologo finale di Apo- calypse Now, disse Jean premendo il pulsante dietro all’orecchio. Il colonnello Kurtz disse : Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei, ma non ha il diritto di chiamarmi assassino . Voglio tenerlo sempre acceso, disse Samanta, ventiquattro ore su ventiquattro. Poi i piccoli cominciavano a crescere e Samanta pre- se a leggere romanzi in francese dell’800. Jean tornò da Mogadi- scio con altri utensili da cucina e alcune maschere di legno inta- gliate a mano che trovarono posto sopra lo scaffale nordovest del- la libreria, al fianco di una riproduzione della Dama con l’Ermellino. Samanta leggeva romanzi e Jean sostituì il BeoSound 9000 con un BeoSound 5 digitale. Il colonnello Kurtz disse: Erano venuti i Vietcong e avevano tagliato ogni braccio vaccinato. Erano in un mucchio, un mucchio di piccole braccia. Inoltre, disse Samanta, la poltrona zen ultimamente dà qualche problema, la pelle è sdrucita. Regalarono la poltrona ai vicini e la sostituirono con un bagno turco sagomato a camino di fata che Jean portò a casa da Goreme, Cappadocia, conseguenza di un au- mento del quattro percento su Istanbul. Oh Jean, sembra che tut- to proceda meravigliosamente, disse Samanta mentre osservava i ragazzi giocare con un nuovo esemplare di bull terrier, acquistato 307 in sostituzione del vecchio épagneul nano continentale papillon. Accarezzare il nostro nuovo gatto del lago di Val è una cosa molto piacevole, disse, e si spogliò per fare l’amore. Poi uscì per fare la spesa mentre Jean volò a Sydney, o ad Alice Springs. Quando tor- nò andarono a fare una gita in battello lungo il fiume Atanor se- guita da un’escursione tra le colline con il loro monovolume. Non sono fantastiche le colline? Chiese Samanta. Sono fantastiche, dis- se Jean, e c’è un’infinità di occasioni per chi sa coglierle, come per esempio quel casolare, o gli oggetti di quelle bancarelle. Fecero in- cetta di oggetti d’artigianato, si fermarono a prendere un gelato al caffè Un Posto Pulito, Illuminato Bene di Montemagno e torna- rono a casa per cena, Tomi e Haidi avevano un giorno di libertà e Samanta preparò antipasti, primo e secondo seguiti da un delizio- so pan di spagna. Poi Jean partì per Santiago del Cile, o lì vicino, Wall Street soffrì le conseguenze di una guerricciola in Mali, o in Sudan, e il colonnello Kurtz disse: L’orrore ha un volto, e bisogna farsi amico l’orrore. Fine.

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SMALTIMENTO CARI ESTINTI

OVVERO AMORE ALL ’OMBRA DEL BOLLITORE INDUSTRIALE PER CADAVERI

L’ottantasette è stato l’inizio della fine. Dal millenovecentotrenta fino al giugno dell’ottantasette le cose marciavano che era una meraviglia. Sai come funzionava? Intendo prima dell’ottantasette. Ma cosa diavolo vuoi sapere tu, ragazzo. Tu hai fatto la tua domandina d’assunzione e sei capitato quaggiù. Beh te lo dico io come fun- zionava prima dell’ottantasette. Tanto per cominciare i cadaveri si decomponevano regolarmente, secondo i ritmi naturali, come il Signore ha voluto. E non t’azzardare a contraddirmi perché sono pronto a tirarti un cazzotto sul grugno. Comunque dopo trent’anni non puzzano più. Sono quelli più recenti che ti stendo- no. Quello là, guarda quello, codice GMR81554HJ, tredici anni di giacenza, femmina. Scoperchiò l’ennesima bara. Una volta dura- vano al massimo un otto, nove anni, prima di decomporsi del tut- to. Oggi apri una bara e sei capace di trovarci dentro un paio di tette in silicone perfettamente integre. Robe da matti. E pretendo- no che sia Isaia Wernikoff, a smaltirle. Fanculo, dico io, che ven- gano loro a prendere in mano queste schifo di tette ammuffite. Guarda un po’ che schifo del cazzo, ragazzo. Almeno ci dotassero di un paio di guanti davvero impermeabili. Passo due ore al giorno a disinfettarmi le mani. Mostrò le mani. Vedi queste mani? Sono mani da becchino. Mani infestate dai germi della morte, porcaccia boia. Tre ore di vita, mi ci vuole, per strofinarle. Indicò le protesi siliconiche col suo enorme indice, poi tornò in direzione della bara già aperta e caricò sulla carriola i resti del cadavere da smaltire. Scalciò un ratto, o qualcosa del genere. Questi fottuti ratti, disse. E non sono neppure il peggio; l’anno scorso ci siamo ritrovati muso 309 a muso con un procione. Io e Mec. Non è vero, Mec? Finse un montante al mento di Mec, il quale si scansò senza aprire bocca. Racconta al ragazzo di quando ci è capitato il procione. Mec non aprì bocca. Non parla più da un anno e mezzo. Ci ha fregati tutti, questo figlio di cane. Comunica solo scrivendo su pezzi di carta rancida. Tanto per quello che c’è da dire. E comunque stavamo tirando fuori i cadaveri da smaltire e non ci salta fuori un cazzo di procio- ne? Prova a vedere i denti di un procione, ragazzo; affilati come lame giapponesi, porcaccia schifosa. Ci abbiamo messo un’ora, per prenderlo; sembrava un demonio, che cristo, un demonio peloso e schifoso. L’ho fatto secco a badilate, ti ricordi Mec? Tre o quattro mi pare, non voleva saperne di tirare le cuoia. Mec l’ha smaltito nel bollitore insieme ai cadaveri. Ma ti assicuro, ragazzo, che un procione da queste parti non s’era mai visto. Si accese una sigaret- ta continuando a ripetere la parola badilate . Cos’hai combinato, tu, per ritrovarti in questo posto di merda? Non rispondere, ragazzo; a che serve rispondere? Gli agenti di Nettezza Umana hanno tutti i privilegi, l’attrezzatura, e noi cos’abbiamo? Fece una smorfia, si pulì le mani sulle braghe putride, scatarrò in terra. Noi abbiamo una carriola e un piede di porco mezzo arrugginito; e un distribu- tore automatico di intrugli schifosi che si ostinano a chiamare be- vande. Fece cenno di seguirlo verso il distributore automatico di caffè. Sai quanti cadaveri può ospitare il cimitero gestito dalla no- stra Azienda? Non ne ho la minima idea, ma più dei vivi, ragazzo, questo è sicuro; eppure lo spazio non basta mai, e dopo un po’ bi- sogna pur smaltirne qualcuno. Del resto di questi cadaveri non gliene frega più niente a nessuno; trascorso il periodo di giacenza gli rifilano un calcio in culo e li sbriciolano come grissini, oppure li bollono come una rapa muffa. E chi glielo deve dare, il calcio in culo? Chi li deve sbriciolare come grissini o bollire come rape del cazzo? Sempre noi, ragazzo: tu, alla tua fottuta postazione compu- ter, Mec e il sottoscritto a sporcarci le mani in mezzo alla fanghi- glia. E per di più ci tocca prendere in mano quelle cazzo di tette di gomma. I tempi delle tette di Sabrina Salerno sono finiti, ragazzo. Sai cosa succedeva ai tempi delle tette di Sabrina Salerno? Ma cer- to che non lo sai, eri ancora impegnato a scaccolarti. Di sicuro all’epoca non avresti pensato che un giorno ti saresti ritrovato in 310 mezzo a questi zombi del cazzo indossando quella camicia a qua- dretti. Stai tranquillo, ragazzo, ci sono qua io. Fece una pausa per inserire la propria chiavetta all’interno del distributore di caffè. La cercò brevemente nella tasca della giacca. La estrasse e la inserì nell’apposita fessura. Sul display comparve la scritta credito residuo 2,33 . Questa fottuta tecnologia, disse. Premette il pulsante del caf- fè nero senza zucchero e il distributore fece le sue tipiche opera- zioni da distributore. Prese il bicchiere di plastica e iniziò a sorseg- giare il caffè. Ai tempi di Sabrina Salerno succedeva che le tette si decomponevano in quattro e quattrotto, e finché erano montate su una donna viva era un piacere palparle, che cazzo. Mec soste- neva che le tette di Sabrina Salerno erano di gomma. Porca putta- na ti rendi conto di quel che sosteneva sto figlio di cane? Finse di tirare un destro a Mec, che si scansò senza dire una parola. Figu- riamoci. Buttò giù un sorso di caffè. Questo caffè è sempre la soli- ta merda; ogni volta spero che come per magia durante la notte un ipotetico genio del caffè sia penetrato nel distributore aumentan- done la gustosità, ma ogni volta non faccio altro che constatare che è irrimediabilmente identico al giorno precedente: una vera merda. Un caffè deve possedere alcune caratteristiche indispensa- bili di cremosità e viscosità. Non credo sia tanto complicato intui- re che un buon caffè aumenta le capacità di concentrazione di chi lo beve; ma i vertici dell’Azienda se ne fregano. Sono stati svolti studi scientifici che provano senza ombra di dubbio che un caffè gustoso aumenta le facoltà dei dipendenti del trentuno percento. Stesso discorso vale per le tette delle colleghe: tette vere più ar- monia, tette di gomma più tensione. Ma tanto a me tocca bere questa brodaglia insulsa e lavorare con voi due teste di cazzo. Fece una pausa per continuare a bere il caffè. E vuoi saperne una, ragazzo? Il giorno dopo la faccenda del procione si presenta qui un tizio e mi chiede se abbiamo visto il suo procione. Ma non lo chiede a me, capisci, lo chiede a quell’idiota di Mec. E sai cosa fa quel troglodita di Mec? Annuisce. Capisci, ragazzo? Ammette di averlo visto, e mi costringe a rac- contare la faccenda. Quella bestia demoniaca era un animale do- mestico, capisci? Così ci tocca passare un guaio per colpa di un procione del cazzo. Ma ti pare che una persona normale possa te- nersi a casa un procione? Morale, il tizio ha fatto causa 311 all’Azienda, l’Azienda ci ha aperto il culo e trattenuto un mese di paga, io ho mollato un gancio sulla mascella a Mec, perché dico io, non si può essere tanto imbecilli, non ti pare, ragazzo? Fece una pausa, andò nei pressi di un cespuglio di buganvillea, tirò fuori l’arnese e fece una pisciata. Sabrina Salerno con le tette finte, disse. Solo un rozzo come Mec poteva sostenere una roba del genere. Tornò in direzione delle bare da smaltire, ne scoperchiò un’altra col piede di porco, fece una smorfia, si coprì la bocca e il naso con il lembo della camicia. Guarda qui, ragazzo. Lesse la targa sulla bara. HJK1928G81FF, in giacenza dal millenovecentoerotti. Indicò l’interno della cassa. Quando le casse da morto sono difettose il risultato è questo. Vermi, orcoìo, vermi e larve. Ziocristo mi viene il voltastomaco. Se devi vomitare fallo lontano da me, ragazzo, che mi suggestiono. Afferrò la vanga e la introdusse nel groviglio di vermi avvoltolati sopra le ossa. Guarda qui che schifìo, si sono ciucciati fino all’ultimo cencio di tessuto. E poi pretendono di trovarci l’anima, in mezzo a questo disgu- sto, orcomondo lurido; l’anima è un groviglio di vermi che squar- tano la carne, ragazzo, prendi nota, accamaiala. Vermi onesti, vermi dotati di spirito santo: eccola qui, la vostra anima. Chiamò Mec perché venisse con l’antiparassitario. Mec ne spruzzò una quantità industriale. Spruzza, catroia, spruzza. Sto prodotto non è buono manco per i pidocchi, cristo. A noi solo prodotti di secon- da scelta. Non funziona più niente, ragazzo. L’anima la estirpiamo io e Mec con l’antiparassitario, ragazzo, è per questo che in paradi- so si sente profumo di pulito, porcaccia vacca schifosa. Altro che fiori, sto parlando di disinfettante al pino silvestre e gardenia ne- bulizzata, ristosanto. Più segreti degli angeli sono i suicidi. E va bene, orcoìo, ma che poi finisci in questo schifo di posto mica te lo dice nessuno; mica te lo raccontano che il paradiso è un bollitore industriale che ti spedisce dritto nel culo del nulla, accaéva impestata. Mi capisci, ragazzo? Più segreti degli angeli sono i suicidi. Ma gli angeli si fan- no gli affari loro ragazzo, mica possono perdere tempo con gente come noi. E allora se la gente potesse vedere lo schifo che li aspet- ta, malora boia, ci penserebbe due volte prima di crepare. Si met- 312 tono lì a pregare, a supplicare, ma alla fine è un buco nell’acqua. E dell’anima cosa rimane, poi? Un grumo di vermi di merda rimane, ecco cosa, risto schifoso. Mec spruzzò il disinfettante. Quando le cose funzionavano, in questa dannata azienda, e mi riferisco a prima del fatidico millenovecentoottantasette, c’era un archivio cartaceo sul quale si scrivevano le date di smaltimento ca- daveri, così sapevamo che oggi toccava a uno, domani all’altro, ec- cetera. Alle volte si accumulava un po’ di lavoro, ma mai come adesso. Facevamo una telefonata in Sede e l’azienda ci conferma- va lo smaltimento del dato cadavere. Le cose funzionavano a me- raviglia, ragazzo; fatta eccezione per il caffè, quello è sempre stato una merda. Terminò il caffè, poi lanciò il bicchiere in direzione del cestino. Lo mancò. Disse: catroia. Si chinò per raccogliere il bicchiere, poi si accese una sigaretta. Nel giugno del millenovecentoottantasette un tale di nome Grandét, quel figlio di buona donna, un cornuto di dipendente del Settore Informatico, propose la sua invenzione ai piani superiori. La sua invenzione , come la chiamava. Quel povero coglione. E così inventò il fottutissimo Metodo di Trasmissione Telematico che ancora oggi crea sconquassi nell’organizzazione del nostro lavoro. In pratica dal giugno di quell’anno buono soltanto per il disco d’esordio di Sabrina Salerno uno schifido calcolatore incamera i dati e in base calcoli imbecilli ci invia i codici dei cadaveri da smal- tire. Ma questo lo sai già, ragazzo, dato che sei appena stato assun- to per ricevere i dati schifidi di quello schifido calcolatore. Ne so- no passati tanti, di ragazzotti rincoglioniti con le camicie a qua- dretti, prima di te. D’altronde io non ci ho mai capito una mazza di computer, e Mec non ne parliamo. Ma te lo vedi Mec al compu- ter? Non saprebbe neppure accendere una televisione, quel rozzo. È solo capace a scarabocchiare su quei foglietti idioti. E comunque ogni volta che c’è un po’ di traffico pum, salta tutto. Il Computer Centrale va in tilt e noi dobbiamo sorbirci turni massacranti per ovviare alle lacune della telematica. E va a finire che ci fanno smaltire cadaveri che non erano da smaltire. Cos’era, il duemila o giù di lì. Un avvocato di grido, mi sfugge il nome, ma il caso ha fatto scalpore. 313 Spense la sigaretta nel portacenere del cestino, ne accese mec- canicamente un’altra. Beh, questo tizio, l’avvocato di grido, ha una moglie che si im- picca. Fin qui niente di straordinario, dirai tu. Le fanno una sepol- tura con i controcazzi, ragazzo, chiedi a Mec se non ti fidi, e la tumulano nella terra, come aveva chiesto. Se non fosse che dieci giorni dopo quel cazzo di calcolatore invia tredici codici per altret- tanti cadaveri da smaltire. Uno dei codici era il 331B47RF, me lo ricorderò finché campo. E allora io e Mec cosa facciamo, secondo te? Diede una lunga boccata alla sigaretta. E cosa vuoi che facciamo, abbiamo preso il piede di porco, i guanti, la vanga e siamo andati a scoperchiare le bare per smaltire i cadaveri. E secondo te a quale cadavere corri- spondeva il codice 331B47RF? Hai già capito, ragazzo. Proprio al- la fottuta moglie del fottuto avvocato. Appena scoperchiamo la bara me ne accorgo subito, per la puttana, mica siamo idioti; be- stemmio un quarto d’ora, poi mi attacco al telefono. Dico qui ci deve essere un errore cristo, il codice 331B47RF è stato seppellito dodici giorni fa. E lo sai cosa mi rispondono in Sede? Catroia ma- ledetta, sai cosa mi rispondono? No che non lo sai. Si bloccò. Te lo dico io; mi rispondono primo veda di non bestemmiare, secon- do moderi il linguaggio, terzo pensi a fare il suo lavoro. Orcoìo ragazzo, ti rendi conto cosa mi rispondono? Pensi a fare il suo la- voro. E io gli dico se volete venire a smaltire un cadavere seppelli- to da quindici giorni prendete un paio di guanti e venite voi, ac- camaònna di una eva sfondata. Dico proprio così. Chiedi a Mec se non ho usato precisamente queste dannate parole. Vide un paio di nutrie. Queste nutrie fottute. E comunque quello della Sede, in- tendo quello al telefono, mi risponde può attendere in linea, e io attendo in linea. Ascolto musica per ragazzi strafatti all’incirca per un quarto d’ora, che avevo l’orecchio destro in fiamme. Poi mi ri- sponde una voce femminile e mi dice qual è il problema. Voleva sapere qual era il problema, capisci ragazzo? Il problema è che c’è un cadavere di quindici giorni che il vostro cervellone del cazzo ha indicato come da smaltire, vacca boia, ecco qual è il problema. Sai cosa mi risponde la voce femminile? Mi risponde primo moderi il linguaggio, secondo il calcolatore centrale non può sbagliare, con- trollate che il codice inviato dal calcolatore centrale coincida con 314 quello riportato sulla bara in questione e, se coincidente, procede- te allo smaltimento. Se coincidente? Ragazzo, cosa potevo rispon- dere a una che ti parla di codici coincidenti? A una che come mi- nimo avrà avuto le tette di plastica, altro che Sabrina Salerno. Se- condo te cosa potevo rispondere? Le ho risposto di fottersi, che venisse lei a controllare i codici, e, se coincidenti, venisse lei a smaltire un cadavere seppellito da neanche quindici giorni. Ho riattaccato e mi sono fatto un panino con Mec; quel vecchio ca- vernicolo prepara dei panini che sono la fine del mondo. E così ci siamo mangiati i panini e abbiamo riflettuto su quel calcolatore del cazzo. Mec ha anche controllato per scrupolo che i codici fossero coincidenti. E coincidevano, accamaònna, coincidevano come due gocce d’acqua. Così ci siamo messi a smaltire gli altri dodici cada- veri, e mentre smaltivamo il penultimo sentiamo il telefono squil- lare. C’era una voce maschile. Dice lei è il signor Wernikoff? Dico sì, sono io. Ci è stato comunicato che c’è un problema inerente lo smaltimento di un cadavere, precisamente del cadavere 331B47RF; il 331B47RF dai nostri archivi risulta femmina, in gia- cenza da trentanove anni e sei mesi, per cui da smaltire entro oggi mediante bollitore industriale per cadaveri. Merda secca, rispondo, statemi bene a sentire, caproni elettro- nici: il 331B47RF risulta femmina anche a me, ma è in giacenza da due settimane, cristo. Praticamente è ancora caldo, catroia male- detta. Le informazioni a nostra disposizione presso l’archivio telema- tico indicano che il cadavere codice 331B47RF è in giacenza da trentanove anni e sei mesi. Ora, dice quel calibano imbecille, se la targa posta in basso a sinistra della bara riporta il codice 331B47RF significa che il cadavere contenuto in quella bara è da smaltire entro oggi, senza ulteriori discussioni. Le chiedo, mi chie- de quello stronzetto, la targa posta in basso a sinistra della bara ri- porta il codice 331B47RF? Che cosa avrei dovuto rispondergli, ra- gazzo? Il codice corrispondeva, così ho risposto sì, catroia male- detta, la targa posta in basso a sinistra della bara riporta il codice 331B47RF. E sai cosa mi sento ribattere dall’altra parte? Primo, dice lo stronzetto, moderi il linguaggio; secondo, aggiunge lo

315 stronzetto, procedete allo smaltimento. Hai capito cosa mi dice quel collo di bue? Procedete allo smaltimento. Ci sono notti in cui perfino questo campo cadaverico puzzo- lente sembra immagazzinare l’energia della bellezza. La notte in cui abbiamo prelevato il 331B47RF e lo abbiamo ficcato nel bolli- tore cadaverico era una notte fantastica, ragazzo. Mec ci ha pure scritto una poesia. Come l’hai chiamata, Mec, la poesia? Amore all’ombra del bollitore industriale per cadaveri . Il titolo è da perfetti idio- ti, ma la poesia non era malaccio. È crepuscolare, come dice Mec, qualunque cosa significhi. Parla di due ragazzini che vengono a fa- re le loro zozzerie qui, al cimitero, proprio sotto al Bollitore. Ci pensi, ragazzo? Scopano nel campo di decomposizione, accanto al bollitore. E la cosa peggiore è che si tratta di una storia vera: sai quanti ne becchiamo, di questi pervertiti? Un’infinità. Diglielo, Mec, quanti ne hai già beccati. Ma mica solo ragazzini eh; porco cazzo abbiamo beccato anche donne e uomini sposati, se capisci cosa intendo. Ma cosa vuoi capire, ragazzo, tu ti rinchiudi ancora in bagno per farti seghe dalla mattina alla sera; chiudi a chiave la porta, quando ti smanetti qui a lavoro, non voglio sorprenderti con il pisello in mano. Sarebbe imbarazzante, ragazzo, capisci? Accese una sigaretta, si avvicinò al distributore automatico di bevande. Voglio offrirti un caffè, ragazzo. La verità è che nessuno ha rispetto del nostro lavoro, disse. Credono sia facile ramazzare il marcio da sotto il tappeto. E comunque quando il marito del 331B47RF venne quaggiù per cambiare i fiori sulla tomba e al posto della fotografia della moglie ci trovò quella di un camionista di Scandeluzza morto il giorno prima, prima chiese spiegazioni, poi, quando vuotai il sac- co, si incacchiò di brutto. Dovevi vederlo, ragazzo. Non toccare mai i morti ai cattolici. Toccare i morti dei cattolici è una gran brutta faccenda. Io lo sapevo, e anche Mec lo sapeva. Non so quanti soldi è costato all’azienda lo smaltimento di quella povera donna; ben gli sta, ragazzo, per quanto sono imbecilli gliene avrei fatti spendere anche di più. Spense la sigaretta, fissò il ragazzo negli occhi, gli porse il bic- chierino col caffè. Ma tu sei troppo giovane, ragazzo. Tu certe co- se non puoi mica capirle. Si avvicinò a una bara, notò qualcosa che fuoriusciva dall’intercapedine del coperchio, lì per lì non comprese 316 di cosa si trattasse. Che cazzo è sta roba? Sembra...sembra...un germoglio. Cristosanto, guarda queste bare schifose comprate per due soldi, ragazzo, gli cresce dentro perfino l’erbaccia. Chiamò Mec perché venisse con il disinfestante. Questa non si era mai vi- sta, un germoglio che spunta da una bara. Fece cenno a Mec affin- ché cominciasse a spruzzare il disinfestante. Spruzza, orcoìo, spruzza. Fanculo all’erbaccia. Fece per accendere un’altra sigaretta, poi decise di no. E fanculo alle tette di plastica. Prese il caffè del ragazzo, bevve un sorso. Ma come cazzo fai a bere questo caffè merdoso? Lanciò il bicchiere in direzione del cestino. Lo mancò, e dovet- te chinarsi per raccoglierlo. Fanculo, disse, torniamo a lavoro, e accese una sigaretta.

317

PRESIDIO

Doroteo Umbilk si sottoponeva a sedute di analisi ogni giovedì dalle nove alle dieci di mattina. Quando si stendeva sul lettino Thonet del Dott. Moebius, ge- neralmente se ne stava taciturno ad ascoltare musica per dieci mi- nuti, poi iniziava a parlare della prima cosa che gli veniva in men- te. Quel giorno gli venne in mente il suo corso di grafologia.

“Per impegnare le mie serate”, disse, “(quando non ho la repe- ribilità al lavoro e quando mia moglie non mi costringe a seguirla in quel maledetto Centro Sterilità) frequento un corso di cucina con cadenza quindicinale, ogni tanto un corso di spagnolo, un corso di propedeutica alla semiotica l’ultimo mercoledì di ogni mese. Ma il corso che più d’ogni alto mi impegna e mi appassiona è senz’altro quello del giovedì, quando con la Signora Karto ĉa, una simpatica settantaduenne dall’aspetto austero e dai modi affa- bili, quasi aristocratici, assimilo l’arte della calligrafia e della grafo- logia. La grafologia, come ci insegnano anche al Corpo di Nettez- za Umana, è utile quando voglio sondare le profondità della mia coscienza: prendo un foglio e una penna e inizio a scrivere. Non ha importanza cosa scrivo, ma come lo scrivo. Studio la mia calligra- fia per ore e ore, durante le quali imparo molto sulla mia persona- lità e sugli aspetti reconditi della mia natura. Il gambo delle g, mol- to lungo e premuto, indica un ardente desiderio sessuale soffoca- to; dall’altezza e dalla larghezza dell’occhiello delle d o delle q sono risalito alle caratteristiche della mia indole, almeno sul mio piano di realtà: è emerso che sono dotato di intelligenza profonda e ra- zionale, capacità di elaborare le idee, concentrazione mentale, pro-

318 fondità sentimentale, capacità scientifiche. Ma va aggiunto, per es- sere onesti, che la scrittura fluttuante (la mia scrittura è spiccata- mente fluttuante) è proiezione di instabilità emotiva, di stati d’animo alterni, di oscillazione tra senso di sicurezza e depressio- ne, e in definitiva di una innata disposizione all’interpretazione musicale e teatrale, cosa peraltro assolutamente vera, almeno dal mio punto di vista. Tra l’altro, da un altro punto di vista, lo studio della grafologia mi è stato molto utile per smascherare i soliti imbroglioni acco- vacciati ai semafori con comunicati scritti su pezzi di cartone, op- pure per cacciare quei tipi che in pizzeria tentano di abbindolarti millantando forme di sordità e handicap del tutto fasulli. Lo si de- sume facilmente dalla loro calligrafia. Ma dicevo del sogno ricorrente. Sono imprigionato sul rimor- chio di un tir e scrivo cartoline alla Signora Kartoĉa, scusandomi per il fatto che non sarò presente alla prossima lezione. Scrivo co- se del tipo:

Cara Signora Kartoca,

le scrivo per avvertirla che la prossima settimana mio mal- grado sarò assente alla lezione di calligrafia, poiché un corteo di persone cose e animali sta trasportando il mio corpo verso un luogo che non mi è dato conoscere al fine di concedermi il privilegio della paternità. La paternità, dicono, è un privilegio. Non so se lei ritenga che la paternità sia un privilegio, o se invece ritenga come me che sia una perdita di tempo, ma tant’è, non ho scelto io questa strada. In queste ore la mia vi- ta sembra piuttosto inutile. Ma cinismo, materialismo, bra- mosia e cupidigia non sono peccati punibili da questa società; l’immaginazione, al contrario, è passibile di punizione, dico- no, e come tale va punita. Chi non vorrebbe essere padre, Si- gnora Kartoca? Tutti vorrebbero. Tuttavia reputo che la pater- nità vada elargita, e a piene mani, alle persone che ne hanno

319 effettivamente urgenza. Io non ne ho alcuna urgenza, Si- gnora cara, ma non riesco a dimostrarlo.

A questo punto del sogno un’orda di neonati si stringe a me e mi impedisce di scrivere con la mia calligrafia impostata, appresa nelle lezioni con la Signora Karto ĉa, per cui comincio a scrivere h che sembrano b, p che sembrano q. Imploro i neonati che mi cir- condano di lasciarmi lo spazio necessario per scrivere con una cal- ligrafia corretta, ma questi anziché spostarsi si stringono ancor più, soffocando la mia scrittura, distruggendo il simbolismo delle mie h e delle mie maiuscole . Urlo, li imploro, chiedo il perdono della Si- gnora Karto ĉa, ma questi continuano a ripetere che devo essere padre, padre, padre. Non fanno altro che ripetere quella parola. Poi mi sveglio, sudato, e annoto tutto quanto è successo nel sogno. Ho una calligrafia mutante, ogni volta sembra diversa, sep- pure bella e artistica come vorrebbe la Signora Karto ĉa”.

Quando Umbilk uscì dallo studio del Dott. Moebius, come al solito con nuovi dubbi e incertezze, il fiume Atanor riluceva di un verde primavera scuro chiazzato di bianco titanio. Un gruppo animalista aveva collocato un presidio di fronte all’ingresso sud-ovest del Palazzo Ottagonale, in corrispondenza della Biglietteria Ufficiale per la Giostra del Peccato, mentre la gente camminava distrattamente avanti e indietro lungo le strade bighellonando, entrando e uscendo dalle agenzie divinatorie, guar- dando vetrine, leccando gelati o praticando altre attività per nulla rilevanti. Il presidio era composto da un tavolo pieghevole in pla- stica blu del Bricocenter, quattro sedie Ikea – anch’esse pieghevoli – e da un paio di piante ornamentali – anch’esse di plastica –. Le piante ornamentali erano state una felicissima intuizione di Katia, l’unica ragazza del gruppo; esse, infatti, oltre a dare un toc- co di verde al presidio, avrebbero certamente suscitato uno spon- taneo moto d’agio e famigliarità nelle persone che procedevano sulla strada, apparentemente disinteressate ai problemi dello ster- minio dei tacchini. Faceva inoltre parte del presidio una grossa stia contenente tre splendidi esemplari di tacchino selvatico che Go- mez, il più giovane dei quattro, aveva rimediato da un allevatore di Castrocozzo. Subito dopo pranzo avevano aperto il tavolo e le se- 320 die, disposto le piante ornamentali ed estratto dalla valigetta venti- quattrore di Alan un plico di volantini ideati da Fil e fotocopiati da Gomez. Erano ancora caldi ed emanavano il classico profumo della car- ta appena uscita dalla fotocopiatrice. Gomez aveva preso dal baule della sua auto un pupazzo indossabile modello tacchino felice che qualcuno di loro, nonostante il gran caldo, avrebbe dovuto indos- sare. Solitamente tiravano a sorte, ma quel giorno Fil si era sentito di dover fornire un esempio alla truppa e si era infilato il pupazzo di sua iniziativa. Aveva indossato l’enorme testa e abbozzato un glo- glottìo che aveva fatto sorridere gli altri membri del presidio. For- se non sarebbe neppure il caso di sottolinearlo, ma era davvero ri- dicolo. Quando Umbilk si accorse di loro, i quattro avevano appena esposto alcune lenzuola alla ringhiera del piccolo parco posto di fronte al Palazzo del Ministero Suicidi & Festività. Sulle lenzuola, tra l’altro, c’era scritto:

Non c’è bisogno di divertimento! Meglio pensare che cacciare! Tacchini decapitàti, umani condannàti! Perché odiamo i tacchini? Rinunciate allo sterminio! Tacchini di pezza alla Giostra del Peccato!

Umbilk accese una sigaretta e si fermò su una panchina nelle vicinanze, dalla quale poteva osservare e udire tutto quello che ac- cadeva al presidio; adorava stare seduto a guardare la propria città mentre moltiplicava il suo brulichio incessante di uomini e cose. Qualcuno si avvicinò al presidio e si accomodò sulle sedie pie- ghevoli dell’Ikea per constatare il significato delle scritte sulle len- zuola. Alan e Walter appoggiarono sul tavolo una trentina di copie del libretto di Fil intitolato Relazioni tra Giostra del Peccato e fine del mondo . Con delle mollette stesero a uno spago decine di foto raffigu- ranti le atroci decapitazioni di tacchini che anche quell’anno, come ogni anno, si sarebbero ripetute durante la Giostra del Peccato. 321 Inoltre misero giù quattro bicchieri e servirono dell’ottimo whisky ai presenti. Una donna incinta, che rifiutò cordialmente il drink, si dimo- strò molto impressionata dalla violenza con la quale i tacchini ve- nivano uccisi per il piacere della folla. “Cosa volete dire?”, domandò. Fil le fornì tutte le informazioni del caso, spiegando tra l’altro che la vita selvaggia era un diritto di ogni animale, e il rispetto del- la natura un dovere di ogni paese civile. “In pratica siete contrari alla decapitazione dei tacchini?”, do- mandò la donna. “L’odio con cui sterminiamo i tacchini durante la barbara gio- stra del peccato è inaccettabile”, disse Fil dall’interno del pupazzo. La sua voce giungeva cavernosa, e il rotacismo che lo perseguitava rendeva le sue affermazioni molto buffe, ancorché tremendamen- te serie. A questo punto Gomez e Katia comunicarono per mezzo di un megafono l’appuntamento della settimana seguente con la con- ferenza di Fil:

“Vi annunciamo che per far fronte agli sforzi di sovracompensa- zione dovuti alla sensazione d’inesistenza personale , alla voracità inibente della società moderna, alla spregiudicatezza dell’euforia e, in parte, all’ inesorabile avvizzimento della problematicità ontologica , il dr Fil Davi- doff terrà una serie di conferenze dal tema “la decostruzione della reificazione e l’educazione all’amore animale in relazione all’imminente fine del mondo: come comportarsi” tutti i sabato mattina sotto la sede della rivista di caccia Tempo Mortigi, durante le quali, oltre a contestare tramite lancio di uova-vernici-ortaggi contro l’edificio che ospita la sede della rivista, si dimostrerà in- confutabilmente che il mondo come lo conosciamo finirà entro pochi anni, a meno che non si prenda tutti insieme un certo nu- mero di accorgimenti – seguiranno letture di testi di narrativa, afo- rismi e poesie, suggellati dalla distribuzione di bibite e tranci di pizza”. Al termine della comunicazione distribuirono numerosi volan- tini ai passanti, molti dei quali erano attratti dal pupazzo indossato da Fil. 322

Un tizio brufoloso emerse dalla coda che si era formata per l’acquisto dei biglietti e si avvicinò al presidio per porre alcune domande. “Avrei alcune domande da porvi a proposito dei tacchini”, dis- se mentre si accomodava sulla sedia Ikea col suo biglietto di tribu- na numerata in mano. “Ma certamente”, rispose Fil, “siamo qui per questo”. Alan gli offrì un bicchiere di scotch. “Come dovrebbe svolgersi, esattamente , la Giostra del Peccato senza tacchini?”, domandò il tizio brufoloso. “La nostra proposta è quella di utilizzare pupazzi di pezza raffi- guranti i tacchini”, attaccò Gomez. “In fondo cosa cambierebbe? Risparmieremmo la vita a quelle povere bestiole e la giostra po- trebbe svolgersi comunque”, disse Alan. “E il divertimento dove sta?”, domandò il brufoloso. “In che senso?”, domandò Fil. “Senza il sangue, senza la violenza, senza la sensazione di mor- te che pervade la piazza quando un uomo lancia un cavallo a tutta birra per staccare di netto con un bastone la testa a un cazzutissi- mo tacchino selvatico che si contorce per evitare il colpo, il diver- timento dove sta?”, spiegò il brufoloso. “Mi sembra un bel problema”, disse un altro tizio che si era fermato al presidio mentre era in coda per l’acquisto di un bigliet- to per la Giostra. In quel momento la coda alla biglietteria sarà stata formata da venticinque o trenta persone. “Un fottuto problema del cazzo”, disse un altro tizio con un cappello da baseball in testa; il tizio aveva già acquistato due bi- glietti e li mostrava spocchiosamente a quelli ancora in coda. “Trovate che sia divertente staccare la testa a un povero anima- le drogato e incattivito, ma soprattutto indifeso?”, domandò Katia. “Mi sembra divertente!”, esclamò il brufoloso. “E tu, Andi, non trovi che sia divertente?”, chiese cappello da baseball a un amico. “Trovo che sia un vero spasso”, confermò Andi.

323 “Specie quando il tacchino si dimena e spera di fottere il caval- catore, mentre lui lo evita e fa schizzare la testa di quel fottuto fin sulle tribune”, disse un altro. “E poi vuoi mettere le risate quando il sangue schizza addosso alle signore delle prime file? Ne ho viste parecchie vomitare anche l’anima”, disse cappello da baseball. “Una cannonata”, disse Andi. “Non sapete cosa state dicendo”, gridò Fil. La sua voce, proveniente dalle viscere del pupazzo, era profon- da e oggettivamente comica. “Un tacchino decapitato è garanzia di divertimento”, disse cappello da baseball, suscitando un moto di repulsione sul volto della giovane donna incinta. “Avete capito, gente? Questi fighetti vogliono sostituire i tac- chini della nostra giostra con pupazzi di pezza”, disse ancora cap- pello da baseball rivolto alle persone in coda alla biglietteria. Umbilk pensò che quando si appronta un presidio è normale aspettarsi insulti, sputi, sbeffeggi, ecc. Ciononostante gli sembrò che i quattro ci rimasero piuttosto male. “Perché le cose stanno andando così?”, domandò Gomez ad Alan. “Non lo so, Gomez”, rispose Alan. “Forse perché delle femminucce come voi dovrebbero rimane- re a casa a grattarsi il culo smanettando la playstation”, disse cap- pello da baseball. Poi, fortunatamente, decise che ne aveva avuto abbastanza e alzò i tacchi. Al contrario la donna incinta sembrò persuasa della validità del- la proposta, acquistò una copia del libretto di Fil e promise di pre- sentarsi a una delle conferenze, se la sua condizione di donna inci- ta gliel’avrebbe permesso. Nel frattempo anche alcuni studenti si erano fermati dalle parti del presidio, chi per acquistare un biglietto per la Giostra, chi per farsi un bicchiere, chi semplicemente per scocciare, simulando svenimenti o improvvisando una break dance sul pavé dello spiaz- zo – peraltro tenendo la musica a un volume più alto del soppor- tabile –.

324 “Chi siete, voi? Delle specie di rompiballe o cosa?”, domandò uno degli studenti. Avrà avuto al massimo diciassette anni. “Puoi definirci critici della società che perpetra lo sterminio degli animali a fini di entertainment”, rispose Alan; al che un altro ragazzotto lo interruppe, dicendo: “Sono finocchi!”. L’esternazione suscitò l’ilarità dei presenti e di alcuni tra i passanti, mentre Alan e gli altri mantennero un contegno davvero apprezzabile. Qualcuno prese un bastone e cominciò a simulare la decapitazione di Fil, scate- nando commenti di ogni genere e molte risate.

Umbilk stava rimuginando sui tacchini e sulla sua condizione di apparente sterilità. Quei fottuti tacchini merdosi, pensò, gli basta eiaculare mezza volta e pum, il mondo è invaso da uova di tacchi- no selvatico. Non aveva idea delle modalità di accoppiamento dei tacchini.

Altri avvenimenti notati da Umbilk durante la sua permanenza sulla panchina furono: a) Un uomo dall’aspetto cordiale, vestito con una giacca a coste di velluto marrone, si presentò al presidio e disse di esse- re davvero dispiaciuto che al mondo esistessero ancora perso- ne che non davano valore al divertimento della folla, alla tradi- zione della propria terra, e perseveravano con idee assurde e bambinesche su temi animalisti del tutto superati. Quelle per- sone erano, evidentemente, Fil, Katia, Gomez e Alan. “Siete ridicoli”, disse il tizio. “Chi lo dice?”, gli domandò Fil. Il tizio elencò una serie di motivi per cui la Giostra del Pec- cato non sarebbe mai stata cambiata, non ultimo il fatto che i tacchini selvatici erano animali inutili, sovente allevati al solo scopo di essere utilizzati nella Corrida e nella Giostra del Pec- cato. Affermò che le carneficine erano necessarie , e che loro – Fil e gli altri – erano dei pappamolla e delle mezzeseghe (uti- lizzò proprio questi due termini). Ciò detto si mise in coda per l’acquisto di un tagliando.

b) Un reverendo cattolico, pur non condividendo la visio- ne dei quattro ragazzi, si disse davvero confortato nel vedere 325 che i giovani d’oggi potevano impegnarsi in un progetto, qua- lunque esso fosse, e li spronò a pregare per il mondo e per tut- ti noi. Fil gli fece notare che le preghiere sarebbero servite a poco, dal momento che un dio buono e giusto non avrebbe mai permesso una simile strage calcolata di animali indifesi. Il reverendo farfugliò qualcosa e se ne andò. Forse aveva già ac- quistato un biglietto, ma Umbilk non riuscì ad appurarlo.

E ancora:

c) “Praticamente che cosa volete dire, voialtri?”, chiese un tizio dall’aria scanzonata che stava per mettersi in coda con una donna molto grassa. “Vogliamo far valere il nostro diritto di protestare contro l’uccisione di animali indifesi”, disse Alan. “E come proponete di passare le domeniche pomeriggio?”, domandò il tizio. “Per esempio organizzando passeggiate in collina con la propria famiglia, oppure gite al mare, in montagna, al lago”, disse Katia. L’uomo dapprima sembrò vagamente preoccupa- to, quasi convinto a rinunciare alla Giostra, poi senza dire una parola cinse la robusta vita della fidanzata e si avviò verso la coda per acquistare i due biglietti.

d) Altri passanti ridevano, ridicolizzavano il presidio, dige- rivano rumorosamente, esprimevano a chiare lettere il proprio dissenso verso i tacchini, qualcuno inveendo nei confronti di Fil, bersaglio soprattutto dei bambini, i quali, muniti di bastoni giocattolo, tentavano di emulare i propri eroi colpendo il tac- chino gigante ripetutamente. Fil li lasciava fare, ben consape- vole che una serena accettazione dei soprusi è l’unica arma contro la violenza. Comunque le bastonate non erano sferrate rabbiosamente e non gli avrebbero lasciato lividi, soprattutto grazie all’imbottitura del pupazzo.

e) Un giovanotto si presentò al presidio per incoraggiare i quattro; superò la sua visibile timidezza per instaurare una qualche forma di conversazione. “Pensate che la decapitazione 326 dei tacchini alla Giostra del Peccato sia una grave piaga della società contemporanea?”, domandò. “Crediamo sia necessario decostruire ogni forma di carneficina nei confronti degli ani- mali per investirla di un nuovo significato”, rispose Gomez con un sorriso. “Mi pare uno dei problemi più incombenti del- la nostra epoca”, disse il giovanotto mangiandosi le pellicine delle unghie. “Occorre attivare un processo secondo il quale l’essere umano deve astrarsi da se stesso, dal senso della sua umanità, per considerarsi come semplice animale tra gli anima- li”, disse Katia.

f) Il giovanotto se n’era già andato quando un tipo con una camicia viola mezze maniche si avvicinò e disse a chiare lettere che il loro atteggiamento lo innervosiva. Lo disse in modo ru- de, alzando la voce. Disse che avrebbero fatto meglio a dro- garsi, invece di rompere le palle alla gente tranquilla che voleva acquistare i biglietti per la più grande e sfarzosa manifestazio- ne del mondo (disse proprio così, mondo , forse un po’ esage- rando) o passeggiare in centro leccando gelati, guardando ve- trine, fumando, ecc. Era chiaramente sarcastico. “La nostra sensibilità ci impedisce di disinteressarci del problema”, disse Gomez. Il tizio con la camicia mezze maniche, con un atto davvero increscioso, si levò la sigaretta dalle labbra e con una certa vio- lenza la lanciò addosso ad Alan, il quale per scansarla finì con- tro una delle due piante ornamentali, rovesciandola e spezzan- done alcuni rami. Poi il tizio aggiunse che erano dei gran co- glioni, che avrebbero dovuto ritenersi fortunati perché in una giornata normale li avrebbe presi a calci tutti e quattro, soprat- tutto il buffone dentro al pupazzo, che era stufo di questi anarchici comunisti animalisti del cazzo, e così via. Poi se ne andò insieme a un buffo turista americano con una bandana in testa e l’espressione stordita.

g) Un tizio in blue jeans si sedette su una delle sedie pie- ghevoli, assaggiò il whisky e domandò: “pensate che in una simile società abbia davvero senso preoccuparsi per la sorte dei tacchini?”. Se ne andò prima di sentire la risposta di Katia 327 e Alan, che comunque avrebbero avuto moltissime spiegazioni da fornire. Subito dopo qualcuno lanciò un paio di palloncini d’acqua all’indirizzo del presidio; in realtà Katia e Gomez scoprirono loro malgrado che il contenuto dei palloncini non era acqua, bensì piscio. Fu un fatto molto spiacevole. Un altro fatto mol- to spiacevole fu notare che numerosi bambini, fomentati dagli studenti, si presentavano al presidio gridando offese e cercan- do di colpire Fil. Fil sarà stato sudato fradicio all’interno del pupazzo modello tacchino felice, ma riusciva chissà come a restare calmo. “Che fastidio vi diamo?”, domandò Gomez a uno degli studenti. Questi studenti avevano una divisa classica composta da una camicia azzurra ben stirata e da una giacca blu con lo stemma della propria scuola ricamato sul taschino. “Esistete”, rispose lo studente. “E in quanto rompiballe, animalisti del cazzo e finocchi, state infastidendo tutti”. “Che cosa avete contro i tacchini?”, domandò Fil al ragaz- zo. “Ci diverte decapitarli e osservarli mentre scorrazzano privi di testa sul terriccio della piazza”, rispose lui. “Sono davvero dei froci”, disse un altro, un tipo coi capelli castani a caschetto, lo stesso che impugnando un coltellino svizzero multiuso tranciò la catenella della gabbia dentro la quale c’erano i tre tacchini, che liberarti cominciarono a im- perversare per la strada. A questo punto, c’era nell’aria un pro- fumo di limoni acerbi e kebab, i presenti improvvisarono una rudimentale corrida, adoperando un paio di bastoni da passeg- gio concessi da due distinti signori. Molte persone che in coda si annoiavano cominciarono a scommettere su quanto tempo ci avrebbero messo a staccare il collo ai tre tacchini, su dove sarebbe schizzato il sangue e quale figura allegorica avrebbe disegnato (nella tradizione della Giostra del Peccato ogni schizzo di sangue dei tacchini decapitati rappresenta un presa- gio), ecc. Alan, Gomez e Katia tentarono di intervenire, ma furono bloccati da alcuni bulli dall’atteggiamento molto scontroso e antipatico. 328 Quando uno degli studenti decapitò l’ultimo tacchino ci fu un grande boato d’approvazione, lodi, applausi, ecc., e tutti i ragazzi cominciarono a urlare frasi del tipo: “decapitiamo an- che quello grosso”, “stendiamo il falso-tacchino-vero- finocchio”, “facciamo fuori il re dei tacchini”, riferiti a Fil, il quale trascorse alcuni minuti molto tristi: cinque persone lo fecero cadere a terra e dopo averlo fatto rotolare per quindici metri sulla strada lo decapitarono simbolicamente, smasche- randolo e sferrando calci alla testa da tacchino del suo pupaz- zo. Tutta la gente in coda applaudì e contribuì a rimuovere il presidio, rovesciando le piante ornamentali, le sedie e il tavolo pieghevole. I ragazzotti incendiarono anche i volantini, mentre Fil era a terra attonito.

h) Quando Umbilk si alzò dalla panchina e si avvicinò a Fil, qualcuno tra i presenti pensò che intendesse aiutarlo a rial- zarsi. Invece, giunto a pochi passi dal poveretto a terra, l’Ispettore di Nettezza Umana gli rifilò un violento calcio nelle palle e restò lì, appagato, ad assaporare la vista di un coglione che si contorceva per il dolore, mentre molti dei presenti urla- vano all’indirizzo degli animalisti maleducati epiteti, tra i quali il più frequente era: cazzi mosci .

329 LA GIOSTRA DEL PECCATO

“Se non fossi franto qui mi limiterò alla pura e sem- dall’emozione comincerei questo plice cronaca. E allora alzatevi le pezzo con un ditirambo giambi- gonnelle, signore, dacché si va co, poiché la Giostra del Peccato all’inferno: il primo sussulto è anche musica di parole che scuote la marea d’uomini e fem- suonano come poesia. E conti- mine alle 18.30 circa, quando sul- nuerei con grande sfoggio di ipal- la piazza già addobbata da paggi lagi e poliptoti, iperboli e proso- dorati e putti irroranti acqua tinta popee, sinestesie e allitterazioni, di rosso e verde fanno il loro in- probabilmente concludendo il gresso le massime autorità locali, tutto con epifonemi degni d’un il Gerarca con gran gessato grigio Matteo Maria Boiardo. Certo cor- tardi anni ’30 e il Sindaco con ba- rerei il rischio che la mia passione stone Gerarcale falliforme ben elegiaca sottraesse spazio al reso- stretto nella mano destra, a dimo- conto dell’evento, e questo voglio strare, se mai ce ne fosse biso- davvero evitarlo. Chi vi scrive, gno, la saldezza dell’Autorità sul infatti, tradito dalla vena procla- territorio. Il tutto introdotto dalla matoria che, ahilui, lo sta trainan- banda musicale di Castrocozzo, do a produrre cartelle su cartelle, già prima classificata al festival è convinto che questa edizione annuale delle fanfare, e dallo del grandioso Tago da Peko ( gio- spettacolo degli sbandieratori del stra del peccato in esperanto, ndr ), la rione Sant’Uccello, che per ardi- Giostra del Peccato in Piazza San menti aerei non hanno eguali al Bertran de Born, per una volta mondo. Sul palco il complesso liberata dalla giungla delle auto- de’ Melodici, che allieta ogni in- mobili, dai banchi del pesce, dai gresso con stacchi musicali. tavoli dei brumisti, sia stata una L’onore più grande tocca al Pri- delle migliori di sempre. Ma vo- mo Cittadino: tocco felpato av- glio lasciare le considerazioni volto dal rollio dei tamburi et personali ai senatori e alle fem- voilà mesdames et messieurs, ec- mine da parrucchiere, poiché io co la nuova statua di San Bertran 330 de Born, opera dello scultore progresso per il Gerarca, che os- svizzero Hans Georg Novitzki; serva dalla sua balconata con aria un ammasso di bronzee increspa- inebetita eppur sicura. Ora mi ture di bracci e orecchi e peni che terrorizza l’idea che qualcuno si dimenano nel cianotico gavoc- debba scorrere un giorno questo ciolo del cielo di Sabbione. Un articolo senza capire né poco né indicibile furor skopadèo coglie il punto come si sia svolta la me- parterre, che si lancia in un ap- morabile giornata di domenica 20 plauso da sperticar le mani. Poi luglio. Tratterrò dunque a stento, inizia la sfilata: i primi a entrare lo confesso, l’istinto di celebra- sono gli ignavi nel tradizionale zione che la mia natura ambireb- nude look, i lussuriosi e i golosi be manifestare, e attaccherò con (centro della parata è la ricostruzione la cronaca della parata che ha “storico-letteraria” dei peccatori sab- preceduto la Giostra, la più gran- bionesi, che devono completare un giro de e scenografica, questo conce- della piazza, ndr ). La festa del no- detemelo, degli ultimi trecento, stro amato patrono ha avuto ini- trecentocinquantanni. Soffoco i zio. Com tradizion vuole sfilano miei sentimenti di Fiero Cittadino utensili e macchinari Sabbionesi, Sabbionese con una feroce auto- il coltro e lo sgürinèt, il barroccio censura che mi farà tacere delle e la brusca, lo zipolo e il calami- splendide acconciature della Ge- stro con cui le nostre nonne rarca Moglie e della Sindaco Mo- s’arricciavano i capelli in cucina, i glie, due splendide sessantacin- lavoratori sul trabüch, la mordac- quenni che avranno certamente chia per ferrare i cavalli, la nava- impiegato poco tempo ad assu- scia col vino che pare embriacare mere l’aspetto impeccabile e im- tutti prima del gran finale: la sfila- balsamato (sia detto, questo ter- ta dei mezzi pesanti, mietitrebbie mine, nella migliore e più positiva & trattori a non finire, falciatrici, delle accezioni che conoscete) lame per trincia & vomeri per che presentavano sul palco Auto- scavabietole, trinciapaglia & fo- rità. Armiamoci di entusiasmo, raggio e il nuovo Hürlimann XL dunque, e addentriamoci nella 180.7, vanto e orgoglio del Paese parata. Va da sé che tutti adorano tutto, capace di sprigionare la le parate. Con il tradizionale forza di dugento buoi e/o di tre- sfoggio di variopinti pavesi, le centoventi muli. Che spettacolo soavi blandizie delle majorette, le di potenza e che dimostrazione di arcobaleniche divise militari dei

331 rifulgenti alamari, i fantasmago- per un inciampo o una scivolata, rici carri mangiasfalto, esse ride- oppure svenuto per i miasmi ap- stano quella naturale e spontanea pestanti, subito un altro paggetto angoscia insita in ciascuno di noi. lo sostituisce giungendo da chissà Ma la parata per la festa di San dove, come apparito dal gorgo Bertran ha qualcosa di più. Già masticante della folla. Evviva noi! dopo un quarto d’ora Errori ne abbiamo commessi, ca- dall’ingresso in piazza dei suona- ri concittadini, che più non se ne tori di zucca di Ventraglio la folla poteva, ma che diamine, siam qui comprende che il clima è partico- apposta per correggerli. E infatti lare. Entrano nella piazza le cen- alle 18.57, puntuali come orolo- toventi damigelle papali, che con giai di Berna, con gran batticuore perfette coreografie stimolano gli e suspanse, introdotti da suoni istinti religiosi dei cittadini. Dopo trombeschi che avrebbero fatto iracondi, epicurei e violenti sfila impallidire un Miles Davis, fanno la sempre commovente selva dei il loro ingresso le due legioni per suicidi, che nei bellissimi vestiti la gran Batracomiomachia tradi- arborei (curati dalla Sartoria Bal- zionale. Sul campo di battaglia, dak, una delle più antiche di Sab- come avvenne nella guerra de li bione) ardono al sole come il loro Sabbioni, le fazioni di Sabbione e progenitore e dio Giuda ( gli isca- di Pizzengo. Dopo la formula riotici adorano Giuda Iscariota come tradizionale, declamata dal Gran vero dio e salvatore dell’umanità, ndr ). Cerimoniere Notaio Mario Gia- Poi come satrapi saltabeccanti nuzzi ( “antica lite io canto, opre lon- entrano i trampolieri di tane, la battaglia dei topi e delle rane”, Sant’Eustachio trainando i tac- ndr ) ecco lo zampillar di sangue chini votivi di Tonco e i sacri subito lavato dai giullari di Piovà manzi di Frinco, i cui copiosi Massaia e accompagnato dagli ur- escrementi vengon raccolti con lettini delle frigide sacerdotesse di alacrità inappuntabile dai paggetti Giuda; ah il cozzare di spade di Scandeluzza, giovani paladini contro spade! Alla fine il bilancio biondicci che vegliano sul manto è stato di appena settantanove bituminoso della piazza, altri- feriti e nessun morto, ma tanto menti lordato dalle divine deie- sarà bastato a dare il buon esem- zioni. pio storico a bambini e ragazzot- L’organizzazione è perfetta: ti. Evviva noi! I Melodici attacca- quando un paggetto cade a terra no una polka infuriata e qualcuno

332 già balla. Ma è ancora presto per clamata con voce imperiosa dal festeggiamenti e giubili. Scendo- Notaio Giansemoj. Entrano i no in piazza i barellieri, i be- cinquantacinque tacchini votivi stemmiatori e i giusnaturalisti, se- nella piazza, trattenuti al guinza- guiti dagli adulatori e dai ruffiani. glio da vergini zeppe di fiori e co- Poi cala il silenzio. Ci pensa Mi- rone e abiti di seta bianca, simili a rella Andujar a squarciare il velo beatrici dantesche ma più aggra- d’ovatta, la grande Mirella, la su- ziate. Subito a ruota i due piccio- prema Mirella; entra e canta ni reali spiccano il volo. l’inno del Gerarcato con quella All’unisono un gran vocio si leva voce melodiosa e sottile che par dai palchi alla piazza: entrano i celare la stazza imponente, i gros- cavalieri. Poco dopo tutti in pie- si seni e lo smisurato deretano. di: fanno visita al popolo Non passano dieci minuti ed ec- l’Arcivescovo, il Gran Rabbino e co entrare il Gerarca Figlio ac- il Proconsole ( massima carica dei compagnato da uno stuolo di bal- giudeisti , ndr ) che intabarrati negli lerine che paion rubate di bella abiti celebrativi benedicono le posta al Bolscioj, tale è la loro bestiole e i nobili cavalieri. Di se- farfallesca leggiadria: suadenti ne- guito ecco entrare i Grandi Giu- gli striminziti abiti per i quali an- dici e il processo comincia: il che il Gerarca e il Sindaco tradi- Primo Giudice elenca le colpe scono un sussulto, s’impongono delle bestie e di seguito il Secon- alla maraviglia de’ la folla per in- do Giudice dal suo pulpito pro- terminabili piroette e paté brulé clama la sentenza di colpevolezza volanti. Sicuro sulla sua auto ca- per tutti i tacchini. È l’ora del te- briolet, il Gerarca Figlio pare Fe- stamento: sono i tacchini a parla- tonte sul cocchio dorato mentre re uno dopo l’altro (magistral- lentamente volta il viso ora mente doppiati dai membri della nell’una ora nell’altra direzione, Scuola di recitazione di Vinchio), sganasciando sorrisi alla folla, pa- ammettendo i vari peccati com- rendo un faraone o un paraplegi- messi dalla popolazione co allo stato terminale. Passano (quest’anno come detto stabiliti ancora i barattieri, gli ipocriti, i nel numero di cinquantacinque), simoniaci, i cordiglieri con cam- dei quali ognuno degli animali si melli e gnu e tutto è pronto per il fa carico. Tra i ricorrenti men- clou della serata. Sono le 19.30 zioniamo l’adulterio, circa quando la giostra viene pro- l’ubriachezza, la razzia di ortaggi

333 e bestiame, la pedofilia, la con- che gareggia per i colori di Bron- cussione e la lordatura del suolo co: la testa del suo tacchino ri- pubblico per mezzo di cicche, mane appesa al collo per un filo cartacce e rifiuti vari, oltre natu- di pelle che gli nega la perfezione ralmente al noto Ultimo Peccato della vergata. Resta lì, il tacchino, (citato più avanti nell’articolo, ndr ). oggetto degli scherni dei più ac- Repentinamente si procede calorati, zampillando sangue co- all’enpicada: i tacchini vengono me una fontanella, mentre quelli appesi per le zampe al Gran Cor- di Rango, storici nemici dei done, quest’anno in nervo di bue bronchesi, esultano dalla balcona- (in breve: i contendenti o cavallerizzi ta a loro preposta. Maumè si ri- devono colpire al volo la testa dei tac- trae contrito sul proprio puro- chini decapitandoli con una mazza det- sangue, avvolto dai bracci de’ ta staja; ad ogni decapitazione corri- cortigiani, paragonabile a un Lao- sponde la remissione del peccato relati- coonte epperò con buona pace di vo , ndr ). C’è da compiacersi, e Priamo ed Ecuba. Soffre, il pluri- questo sia detto senza celebra- decorato cavallerizzo, come un zione, del lavoro fatto dagli alle- Filottete socratiano, ora a terra vatori di questa edizione, i Ma- fissando il suo tacchino penco- giukoj e gli Umbilk di Castrocoz- lante dal Cordone, consapevole zo: i loro sono tacchini di tren- che per quest’anno i bestemmia- ta/trentacinque chili con carun- tori non avranno una completa e cole vermiglie da far invidia ai soddisfacente assoluzione. Si ventagli andalusi delle nobili ba- prosegue. Tocca a Joselito Maera, ronesse comodamente sedute sui un tracagnotto di Moransengo, palchetti, per non parlare del che cavalcando assai rapidamente piumaggio, degno d’un pavone o riesce a pittare ( cioè preparare la sta- anche più. Tutto è ormai pronto. ja al colpo, ndr ) e a vergare con una I primi tacchinacci gorgogliano e violenza mai vista: testa staccata si dimenano sulla corda mentre i di gran carriera, sangue a fiotti e cavalieri, montati i purosangue, piena remissione per tutti gli dispensano bouquet di primule e adulteri e tutte le adultere, seguita viole alle signorine della tribuna dal boato della folla che subito d’onore. I cavalcatori scelgono la attacca a lanciare cardi gobbi e staja sull’ali dei boati della folla. asparagi sulla piazza ( una delle La prima tornata è un insuccesso massime manifestazioni di approvazio- per il gran favorito, Gillo Maumè, ne accordate a un cavallerizzo, ndr ),

334 forse pregustando un nuovo an- invero scorticato di netto. Buon no di amplessi clandestini. Che per il grosso gallinaceo, che è sta- giornata di sport. Le teste di tac- to applaudito per tempismo pri- chino tranciate subito finiscono ma d’essere fiondato nel Pento- nel pentolone del Gran Bollito, lone bollente, un bel fallimento dove tra caruncole, zampe, petti e per il piccoletto di Moransengo, e cosce più tardi si procederà alla soprattutto una cocente delusio- grande abbuffata storica. I bam- ne per tutti i masturbatori, che bini, festanti, giocano al pallone non hanno ricevuto remissione. con le teste dimenticate Lo ‘Slavo’, Ferzan Illovich, auto- sull’asfalto bruciante, i peccatori re di una piroetta attorno al tac- son quasi tutti sgravati delle loro chino prima di finirlo con una colpe, i Contestatori sono tutti vergata funambolica e precisa, e bloccati, scaraventati nei colom- Malvestito, all’anagrafe Adolfo biroli cittadini, mai così zeppi. Bricaroj, sono pur’essi ancora in Entrano gli indovini e i maghi, gara sebbene quest’ultimo sia in- idoli dei più piccoli, i ladri, gli sci- corso col suo secondo tacchino smatici, i consiglieri fraudolenti e nella penalità 11 della Giostra, i falsari, che corrono atleticamen- non riuscendo ad accoppare la te nel cerchio della piazza. Siamo bestiola, che si è sbattuta e dime- quasi all’ultima tornata. Maumè nata sul Cordone per sette o otto ha recuperato, con una spettaco- minuti, costringendo i boja ( prepo- lare cavalcata da far impallidire sti all’uccisione del tacchino nel caso in Wagner ha tranciato una testa e cui non venga finito dal cavallerizzo, rimesso il peccato dell’accidia con ndr ) ad intervenire per finirla con una roteazione magistrale di un colpo secco in testa. Eccola, braccio e polso, in piedi sul suo l’ultima tornata, ovvero la Gio- cavallo. La folla impazzisce stan- stra vera e propria ( nella quale gli camente, ma solo all’apparenza, ultimi quattro cavallerizzi si scontrano poiché nel suo cuore s’infiamma l’uno contro l’altro, contendendosi la la scintilla della gioja. Joselito testa del tacchino, mentre i turni prece- Maera ha mantenuto un buon denti, in cui i cavallerizzi combattono punteggio nonostante il penulti- da soli contro il tacchino, servono oltre mo tacchino, ritorcendosi come che per la remissione dei peccati per sti- un verme sull’amo, sia riuscito a lare una classifica che forma la griglia tenersi la testa attaccata al collo, delle semifinali, ndr ), quella in cui ricevendo la vergata sul becco, salgono sul cordone i tacchini più

335 ribelli e scontrosi e in cui bisogna prodotta in una grande eruzione redimere i tre peccati più gravi e di vomito, prontamente ripulito diffusi. Cala il silenzio, la tensio- da due paggetti di Scandeluzza. ne è altissima. Il caldo intanto è Grande prova inficiata però dal insopportabile, trentasette gradi e Comitato: pare che il sabbionese ottantotto per cento d’umidità. avesse usato una verga con anima Entrano sulla piazza gli ultimi di ferro, tassativamente proibita carri de’ la parata, i giganti, gli ar- dalla regola 1, pena la squalifica, ringatori, i traditori vari e i dissi- peraltro prontamente pronuncia- denti politici, che trascinano ta. Nell’altra semifinale Joselito grosse teste di pietra del Gerarca aveva invece introdotto una va- come vuol la tradizione. La ban- riante nella sua pittata, sferrando da riprende una marcia trionfale; un colpo micidiale e perfetto di è il segno che l’ultima tornata sta rovescio e all’indietro, tranciando per cominciare: ora ogni memo- di netto la testa e ricevendo un ria di combattimento si desta, gli lancio di cardi gobbi da parte del- animali oscillano sul cordone so- la folla. Ora la finalissima si di- gnando forse la libertà, sotto di sputa tra i due cavallerizzi e ver- loro il sangue cauterizzato dalla gatori più forti, non v’è dubbio. temperatura dell’asfalto profonde E quando Joselito riesce, dopo il fantasma della morte e della dieci minuti di spettacolari caval- salvezza. La folla strilla, s’abbuffa cate e di vergate parate e sferrate, con pane e salsiccia, beve vino a a colpire il cavallo di Maumè fa- fiumi. Si parte e per conto mio cendo cadere a terra il campione, partirò dalla fine, cioè dalla finale: tutti, compreso chi vi scrive, so- Maumè e Joselito infatti si con- no già pronti a celebrare Joselito, tendono l’ultimo tacchino, ovve- tutti sono già pronti a invidiarlo ro l’onore di essere il Gran Re- per la notte amorosa da trascor- missore del peccato più grave e rere con le sette vergini di Giuda diffuso (e pericoloso): (ulteriore ricompensa per il vincitore, l’improperio al Gerarca. Nella ndr ). Ma Maumè è campione di semifinale con Maumè, Illovich razza, già quattro volte trionfato- aveva fatto schizzare il cervello re della giostra. E proprio mentre del suo tacchino sul vestito giallo il tarchiatello sta per sferrare la di Alberta Maperos, figlia del sua ultima vergata, quella della Commendator Odorico Maperos, Gran Remissione, s’inventa il ca- la quale s’era istantaneamente polavoro: scaglia la sua verga

336 colpendo il polso dell’ispanico, il ancora una volta, resteranno illi- quale ora urla per il dolore e per- bate: il Maumè è infatti omoses- duta la staja si accovaccia su se suale dichiarato. Che giornata in- stesso. Il tacchino oscilla, farfu- dimenticabile, gentili lettori. La glia, freme e, c’è da immaginarlo, popolazione ha dimenticato non s’aspetta la fine. Che invece l’anniversario della tragedia che prontamente arriva: Maumè scat- colpì la città molti anni or sono ta sul suo cavallo, cavalca per (il mattino del 19 luglio 1986 fu ritro- cinquanta metri e anch’egli di ro- vato il cadavere sfigurato di un uomo vescio e all’indietro, parodiando il nel lago Val, uno stagno a sud-est del precedente colpo dell’avversario, capoluogo, ndr ). E ora che la notte decapita l’animale tra le urla e il s’è presa Sabbione i cittadini bal- lancio di asparagi e peperoni ver- lano il Brando per le strade ( ballo di e gialli della folla in delirio, già tradizionale sabbionese, ndr ), candidi pronta a ingiuriare l’amato Ge- come bambinette, mentre una rarca (naturalmente quello nuo- parte del pubblico rimane al pro- vo, poiché questo, hailui, tra prio posto per assistere alla rap- qualche giorno sarà fertilizzante presentazione di una popolare per gli splendidi prati sabbionas- telenovela, portata in scena dalla si) per un altro anno, forte di una compagnia dell’Arcicoso, già ce- completa assoluzione per l’anno lebre in tutto il mondo meno che trascorso ( nel 1992, allorché l’ultimo da noi. Per conto mio non ho se- tacchino non fu decapitato e il peccato guito l’opera teatrale: troppe non fu rimesso, l’allora Gerarca Giu- emozioni si sono accavallate nel seppe Ercole fece incarcerare settecento- pomeriggio e nella sera di dome- trentadue persone, comminando più di nica 20 luglio che l’unico rimedio, quarantasettemila multe, ndr ). Sono dopo la tradizionale abbuffata di le 21 e 53 e Maumè è stravolto tacchino, è una buona dormita, dalla fatica ma felice: il Trionfato- peraltro serena: fremevo per tren- re e Gran Remissore è ancora lui. totto peccati ( al momento del proces- Ancora una volta il Gerarca con- so ogni cittadino sabbionese è solito at- segna nelle sue mani la Verga tribuirsi i peccati che ha commesso sti- d’Oro e il documento firmato nel lando una lista sul pizzino, un foglio di quale certifica che tutti gli impro- carta da tenere vicino al cuore, e di con- peri sofferti sono condonati, an- seguenza a tifare per la decapitazione cora una volta il Cappellano con- dei tacchini corrispondenti, ndr ), e dei segna a lui le sette vergini che, miei trentotto tacchini trentadue

337 sono stati magistralmente decapi- tati, quattro parzialmente decolla- ti e gli appena due che han serba- to la testa non sono bastati a gua- starmi il sonno, con buona pace dei malpensanti e di quei là d’oltre confine.”

338 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (9) ______

Non lo so. A volte rifletto su questa faccenda dei suicidi abu- sivi e penso che in fondo non me ne importa niente, dei suicidi abusivi. Penso che se uno vuole farsi saltare il cervello perché gli va di farsi saltare il cervello, dovrebbe essere libero di farlo. Un giorno camminavo per strada e ho incontrato un tizio. Non so perché sono finito a parlarci. So solo che abbiamo cam- minato un’ora per la città, e prima di salutarci mi ha offerto una sigaretta e ha detto: credo che l’idea del suicidio abusivo sia l’unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze. Sovente domando a mia moglie se è sicura di voler crescere un figlio in questo posto assurdo, e lei ogni volta risponde che que- sto posto non ha niente di assurdo, è un posto come un altro. Non lo so. L’altro giorno parlavo col mio collega Urs. È tutto così assurdo, gli ho detto. Cosa, ha chiesto lui. Questo posto in cui abitiamo, ho detto io, mi sem- bra completamente assurdo. Cosa intendi per assurdo, ha detto Urs. Prendi per esempio il branco di rinoceronti che ha fatto irru- zione in quella cittadina in Francia: i rinoceronti hanno comincia- to a caricare le persone, le persone hanno provato a fuggire ma non c’era scampo, i rinoceronti continuavano a braccare uomini e donne, vecchi e bambini. Ti rendi conto, un branco di animali selvaggi in piena città. E il bello è che questi rinoceronti hanno iniziato a travolgere la gente, ma le persone anziché ferirsi o mori- re si sono tramutate in rinoceronti a loro volta, tipo una malattia, la rinocerontite; era, com’è che si dice, una specie di metamorfosi. E così è successo che l’intera popolazione della città si è trasfor- mata in un branco di rinoceronti. Ecco cosa intendo per assurdo, ho detto a Urs. Urs mi ha guardato. Stava guidando. E cosa significa, mi ha chiesto.

339 E perché dovrebbe significare qualcosa, ho detto. So solo che è successo davvero, l’ho letto da qualche parte. Mi sa che ho capito cosa intendi per assurdo, ha detto Urs. L’ho guardato. In realtà non lo so mica se ha capito cosa in- tendo quando dico che questo posto in cui abitiamo è assurdo. Quando gli abitanti di un posto assurdo cominciano a riflettere sulla propria assurdità, l’assurdo si trasforma in qualcos’altro. Non so in cosa di preciso, ma sicuramente in qualcosa di diverso. Penso che i rinoceronti non abbiano riflettuto su cosa li avesse trasformati in rinoceronti, si sono ritrovati a esserlo punto e ba- sta. Urs si è acceso una sigaretta. Stavamo andando a rassettare la scena di un suicidio di gruppo. Prendi il tizio di ieri, che si è fatto saltare il cervello perché gli è morto il cane, ha detto Urs. Oppure il tizio dell’altro ieri, che si è ammazzato perché non aveva i soldi per pagare la scuola ai figli. Questo, mi ha detto Urs, è assurdo? No Urs, gli ho detto, quello è semplicemente triste. E le cose tristi non sono mai assurde. Poi siamo scesi dall’auto, abbiamo preso l’attrezzatura, ci sia- mo iniettati una dose di scopolamina e abbiamo cominciato a esaminare il parcheggio di un supermercato dove quattro tizi, due uomini e due donne, avevano parcheggiato la loro auto, si erano salutati, avevano premuto un pulsante e si erano fatti saltare in aria, semplicemente perché dovevano farlo. ***

340 UNA CITTÀ DI EROI , RIBELLI E SUICIDI

Ogni sabato mattina Patrick consegnava croissant con ripieni vari al distretto di Nettezza Umana. In cambio quelli della Nettez- za permettevano a Patrick di assistere alle loro travagliate giornate alla ricerca di marciapiedi da candeggiare, palazzi da disinfettare, cassonetti da svuotare. Certe persone trovano bello e giusto rom- persi l’osso del collo, saltare da un ponte o un palazzo, schiantarsi a centoquaranta contro un cartellone pubblicitario. Altre persone adorano osservare gli spazzamorti mentre disinfettano le fermate dell’autobus o raccolgono pezzetti di cervello dal pavimento di una latrina pubblica. La chiamano adrenalina dell’orrido . Quando Patrick entrò al distretto l’ispettore Traumerei era ca- ratteristicamente seduto alla sua postazione con le gambe appog- giate sulla scrivania, fumando qualcosa. “Buongiorno Patrick!”, esclamò. “Buongiorno Ispettore!”, esclamò Patrick. “Dal profu- mino che sento ritengo che anche questa mattina, come ogni sa- bato mattina, tu ti sia presentato con gli splendidi croissant di tua madre”. “So quanto i croissant di mia madre piacciano a tutto il dipar- timento”. Il Dipartimento di Nettezza Umana è una Grande Istituzione del Territorio. Fu un commissario lungimirante a fondarlo, quan- do gli spazzini della città si rifiutarono di raccogliere i rifiuti uma- ni che lordavano le strade e i parchi pubblici. Fu un momento molto brutto per tutti. Ma poi fondarono questo dipartimento, mirabilmente attrezzato e altamente qualificato; cominciarono le operazioni in una giornata d’estate, col caldo che spaccava l’asfalto imbrattato di resti umani: si trattava di raccogliere un gruppo di omosessuali che si era lasciato precipitare dal quindice- simo piano del Pirelli Building. 341 Fu una grande giornata. “I croissant di sua madre sono insuperabili”, disse l’ispettore Catwoj. Patrick era stato scartato dalla Commissione Valutativa per i Requisiti Psico-Fisici del Corpo di Nettezza Umana, ma aveva conservato una grande passione per il lavoro degli ispettori e degli agenti. Aveva conosciuto l’ispettore Traumerei in circostanze del tutto fortuite. “È bello che ogni sabato mattina tu venga a farci visita, Pa- trick”, disse Traumerei. “Il sabato mi pare la giornata più interessante della settimana”, disse Patrick. “Specialmente in questo periodo dell’anno”, disse l’ispettore Traumerei. “A proposito, anche il commissario Ricàrd adora i croissant di tua madre”. “Ne sono lieto”, disse Patrick. S’incamminarono verso l’ufficio del commissario per conse- gnare i croissant. Patrick udì la radio del distretto trasmettere un codice che gli sembrò di riconoscere, era il codice per un inter- vento rapido di pulizia e sterilizzazione. “Se ne occuperà Fro- ston”, disse l’ispettore Traumerei, “sento che oggi potrebbe suc- cedere qualcosa di più interessante”. Poi raggiunsero l’ufficio del commissario. “Buongiorno Signor Commissario”. “Buongiorno a voi”, disse il commissario. “Il nostro amico Patrick ha portato i croissant di sua madre”, disse Traumerei. “Quei meravigliosi croissant con marmellata di prugne e crema pasticcera?”, doman- dò il commissario. “Precisamente, signor Commissario”. “Piacere di conoscerla, signore”, disse Patrick. “Il piacere è mio”, rispose Ricàrd. “Purtroppo Patrick non ha superato la valutazione psicofisica per l’ammissione nel Corpo”, disse Traumerei. “È per via delle croste in faccia?” domandò Ricàrd. Fin dall’adolescenza Patrick era affetto da una forma acuta di dermatite seborroica che ne deturpava il volto, o quantomeno lo alterava pesantemente.

342 “Già”, confermò Traumerei; “malgrado ciò è un grande ap- passionato di interventi di nettezza umana”, disse l’ispettore Traumerei. “Bravo figliolo!”, esclamò il Commissario mangiuc- chiando un croissant ripieno di marmellata alle prugne, o albicoc- che. “Questa è marmellata di albicocche?”, domandò. “Quelli con lo zucchero a velo sopra sono alla crema pasticcera”, disse Pa- trick, “quelli scuri hanno la marmellata di prugne e quelli legger- mente più ambrati hanno la marmellata di albicocche”. “Dica a sua madre che la marmellata di prugne è imbattibile”, disse il Commissario. “Non mancherò”, disse Patrick. Poi si mise a os- servare la fotografia di gruppo del dipartimento nettezza umana con tanto di attrezzatura, macchinari e armi d’ordinanza. “Mi pa- re di capire che siete un gruppo molto unito”, disse. Molti degli uomini nella foto indossavano la divisa del Dipartimento Nettez- za Umana. Sintesi descrittiva della divisa: Scarpe nere. Pantaloni color aviazione. Cinta di canapa bianca. Camicia azzurra. Giacca verde di cotone con bande orizzontali catarifrangenti e distintivo del Corpo. Berretto da alta uniforme con stemma del Corpo e soggolo. Alamari, fibbie, simboli, ecc. Sintesi descrittiva dello stemma: Partito semitroncato: nel primo, d’argento, al decusse di rosso; nel secondo, troncato di verde e di bianco, al monogramma di Giuda impiccato sotto un sole risplendente; nel terzo, di azzurro, ai tre cedri di verde, frustati al naturale, nodriti nella strada di gri- gio lindo. Il tutto sovrastato da un berretto d’alta uniforme, con cordoni a venti fiocchi, pendenti, dieci per ciascun lato, di colore verde. Parte inferiore con cartiglio recante il motto del Corpo: Servus Per Mundus . In tal senso lo stemma non è dissimile rispetto a quello dell’altrettanto celebre Corpo dei Verificatori, nel quale il sole so- pra Giuda risulta nero , i cedri sono sostituiti da sequoie , il berretto ha cordoni a trenta fiocchi e il cartiglio reca il celeberrimo motto Sic transit gloria mundi .

343 “Dobbiamo essere un tutt’uno”, disse il Commissario. “Que- sta foto fu scattata il giorno del suicidio di massa ® al Parco Sinte- tico Märklin”. “Lo ricordo bene”, disse Patrick. “Indimenticabi- le”, disse Traumerei. “Ma per quale ragione girate armati?”, chiese Patrick. “Il motivo è molto semplice. L’equipaggiamento all’inizio consisteva in una mascherina antibatterica, la fornitura mensile di antiemetici, il whisky e tutto il necessaire per la pulizia, spazzoloni, detergenti, disinfettanti, ecc.; ma lei non può sapere quanti pazzi depravati sbroccano sulla scena di un suicidio ®”, disse il Commis- sario. “In che senso?” “I masturbatori sono i più fastidiosi, anche se per lo più si li- mitano a spargere il loro seme per mischiarlo col sangue dei sui- cidi ®. Quei pazzi drogati maniaci si eccitano osservando il sangue di chi si ammazza, capisce? Sperano che cresca qualcosa! Solo l’ultimo mese ne abbiamo pizzicati venticinque”. “Ventisette!”, esclamò Traumerei. “Ventisette. Capisce? I miei uomini devono pur difendersi da questi individui immondi”, disse il Commissario. “Non avrei mai creduto”, disse Patrick. “E non è tutto. Ci sono anche le sette sataniche, le sette reli- giose, i predicatori, i parenti, i mitomani, i curiosi, i giornalisti, i fotografi. Si figuri che qualcuno paga lautamente fotografi profes- sionisti affinché immortalino i propri resti umani o quelli di un parente. E poi preghiere, messe nere, gente che chiacchiera, i ve- rificatori. Lavorare in simili condizioni può risultare davvero pro- blematico”, disse il Commissario. “Senza citare il nostro nemico numero uno: il Monaco Aran- cione, fondatore della setta nota come Circolo dei Suicidi Abusi- vi”, disse Traumerei. “Ne ho sentito parlare”, disse Patrick. “Quella dannata setta”, disse il Commissario, “si arrogano il diritto di cospargere il seme del disordine nell’organigramma pre- stabilito del nostro mondo, turbando l’armonia di ciò che è de- terminato con azioni inconcepibili e impreviste, sporcando strade e palazzi coi loro fluidi morti, imbrattando panchine e fermate del tram con i loro pirotecnici suicidi abusivi. Ma li fermeremo”.

344 “Comunque lasci che le dica una cosa: siete i miei idoli” disse Patrick. “Sin da piccolo nutro un’ammirazione senza riserve per gli agenti di Nettezza Umana. Guardavo dalla finestra i vostri au- tomezzi sfrecciare per le vie del centro e già immaginavo che al loro interno ci fossero uomini di infinita perspicacia, dotati di un senso del dovere fuori dal comune, al tempo stesso soccorritori e sacerdoti, uomini in grado di intuire con un’occhiata gli aspetti reconditi e magici della città, guardie e operatori ecologici, uomini da consultare come divinatori. E non solo perché intelligenti, ma perché capaci di redimere con la pulizia e il candore la morte di chiunque, di restituire un bagliore di luce all’oscurità”. “Lei ci lusinga, Patrick. Mi dispiace che il suo problemino le abbia impedito di sostenere il Concorso d’Ammissione, ma con- tinui a portarci questi meravigliosi cornetti e assisterà a delle im- prese davvero movimentate”. Il Commissario Ricàrd strinse vigorosamente la mano di Pa- trick. “Pronto a uscire?”, domandò l’ispettore Traumerei. “Non ve- do l’ora”, disse Patrick. “E allora cosa state aspettando?”, disse il commissario Ricàrd assaggiando un croissant con lo zucchero a velo, “facciamo vedere a questo ragazzo come si rassetta la scena di un suicidio ®!”. Patrick e Traumerei scesero negli hangar del dipartimento per decidere il mezzo di trasporto più adatto. “Ho sentito che ultimamente avete parecchio lavoro”, disse Patrick. “In origine il Corpo di Nettezza Umana si chiamava Distretto di Pulizia Urbana Suicidi ®, e si occupava della pulitura e della di- sinfezione di tutti i luoghi pubblici imbrattati dalle conseguenze di un gesto suicida ®. Poi con l’aumentare del prestigio e del lavoro il Dipartimento ha inglobato le forze dell’ordine tradizionali, e noi siamo stati costretti a occuparci anche di omicidi, incidenti e mol- to altro”, disse Traumerei. “Che genere di incidenti?”. “Per lo più stradali. Ma anche qualcuno domestico e sul lavo- ro”. L’hangar del dipartimento di nettezza umana fu illuminato da centinaia di neon sfrigolanti.

345 “Questo posto è fantastico. Non immaginavo che il vostro parco macchine fosse tanto grande”. “Per essere grande è grande. Ma molte di queste vetture sono reperti archeologici”. Avanzarono tra i mezzi parcheggiati. Patrick scrutò numerosi apparecchi di cui ignorava il funzionamento. “Che automobile prendiamo?”, domandò Traumerei. “Non lo so, Sigfrid, la scelta spetta a te”, rispose Patrick. “Va bene, cosa abbiamo qui?”, Traumerei si inoltrò tra le file di automezzi. “Non riesco mai a decidermi tra la macchina auto- matizzata per la pulizia a ultrasuoni e l’idropulitrice. Senza conta- re la spazzatrice stradale”. “Non saprei davvero quale scegliere”. “Credo sia il caso di prendere l’idropulitrice. La spazzatrice ha un problema allo sterzo”. Uscirono con l’idropulitrice avanzata. Si trattava di una Daiha- tsu Materia color prugna accessoriata appositamente per il Dipar- timento. Poteva risultare leggermente ridicola, ma essendo la vet- tura degli ispettori di nettezza umana era considerata una vera sciccheria.

Sintesi descrittiva dell’idropulitrice avanzata : L’idropulitrice è montata direttamente sulla Daihatsu Materia. Essa è formata da: pompa dell’acqua ad alta pressione, motore endotermico indipendente, tubo per acqua ad alta pressione, lan- cia con ugello. Sintesi descrittiva del funzionamento dell’idropulitrice : Il motore elettrico fa girare una pompa ad alta pressione, la quale, per mezzo di pistoni in ceramica o acciaio, mette in pres- sione l’acqua. Un’apposita valvola di regolazione consente di re- golare il rapporto fra pressione e portata d’acqua. L’acqua in pressione viene scaldata attraverso la serpentina di una caldaia montata a bordo macchina. L’acqua ad alta pressione percorre tutto il tubo e la lancia per fuoriuscire da un ugello con un orifizio del diametro di 0,7 milli- metri circa. Fine delle sintesi descrittive.

346 “Toglimi una curiosità, Sigfrid”, disse Patrick. “Certamente, Patrick”. “Tra i vostri compiti c’è anche la pulitura e disinfezione delle abitazioni private?”. “Solo in casi eccezionali. Solitamente dobbiamo occuparci di strade pubbliche, parcheggi, centri commerciali, arene, palazzetti dello sport, grattacieli, grandi vetrate, stazioni ferroviarie, uffici postali, ecc.”. “Capita spesso di rassettare gli uffici postali?”. “La scorsa settimana un tizio s’è fatto saltare le cervella nell’atrio delle Poste Centrali”. “E com’è andato l’intervento?”, domandò Patrick. “Uno schifo che non ti dico. Pezzettini di cranio sparsi ovun- que. I verificatori non muovono un dito; si limitano a chiamare noi, che dobbiamo arrivare con l’attrezzatura e rassettare ogni co- sa. Siamo stati costretti a raccogliere i pezzetti uno ad uno, per non parlare della cosiddetta materia grigia, che, detto tra noi, puz- za da far schifo”. “Credevo aveste apparecchiature adeguate per questo genere di lavori”. “Sfondi una porta aperta, Patrick. Ma è un periodo nero. Il la- vasciuga mobile ha problemi al cambio e l’aspiratore non è indi- cato per i rimasugli di cranio, si attaccano al pavimento e lasciano grumi di cervello dappertutto. Ti andrebbe un hamburger per pranzo?” “Mi farebbe molto piacere, Sigfrid”. “Conosco un posto che è una cannonata”. Traumerei si iniettò qualcosa in vena. Passarono rapidamente dal marciapiede sottostante il Palazzo Ottagonale per supervisionare il lavoro di alcuni agenti concentra- ti a spazzolare e asciugare il cemento. Due tizi avevano celebrato un suicidio d’amore ® lanciandosi dal tetto del palazzo. “La gerar- chia del Dipartimento Nettezza Umana è inequivocabile: il Commissario è il capo, a ruota vengono gli investigatori o ispetto- ri, infine gli agenti semplici”, disse Traumerei, “anche se alla fine ci chiamano tutti indistintamente spazzamorti, e la cosa non mi fa

347 molto piacere. Mi pare un soprannome un tantino degradante, se capisci ciò che intendo”. “Su che cosa investigate, precisamente?”, domandò Patrick. “Principalmente sulle modalità con cui i luoghi si sporcano. C’è una sottile differenza tra il modo di lordarsi di una strada, di un palazzo, di un marciapiede o di una panchina. La superficie fa la differenza. Noi investighiamo sulle ragioni del sudiciume, sul modo in cui si propaga; scopriamo se gli schizzi di sangue seguo- no una traiettoria angolare o retta, se i frammenti di osso si spez- zano o si frammentano, ecc. Inoltre dobbiamo considerare tutte le possibili conseguenze di una pulitura oltremodo frequente delle molteplici superfici; una panchina non può essere disinfettata troppe volte, altrimenti la vernice si sfalda, un marciapiede im- brattato di sangue umano richiede ore di lavoro perché sia ripri- stinata la circolazione dei pedoni. Dobbiamo essere scrupolosi. Forniamo ogni mese una dettagliata analisi al Settore Statistiche del Ministero Suicidi & Festività ®. Tuttavia negli ultimi anni abbiamo dovuto direzionare le no- stre indagini nei confronti di quella maleodoranti cricca che passa sotto il nome di Circolo dei Suicidi Abusivi. Metà del nostro tem- po dobbiamo dedicarlo alle indagini sulle loro malefatte. In tutta franchezza, Patrick, le nostre investigazioni sono un vero caos”. “Mi pare proprio”, confermò Patrick. “E non è tutto”, proseguì Traumerei, “buona parte del nostro lavoro consiste nel prevenire le lamentele dei cittadini. Quando un cittadino si lamenta per la sporcizia di una proprietà pubblica per noi è una grande sconfitta. Per tale motivo investighiamo le cause più frequenti di rimostranza da parte dei cittadini, cerchia- mo di scoprire i luoghi più indicati per suicidarsi e di giungere sul luogo nel minor tempo possibile. Il problema è che il lavoro è in- tenso e i mezzi a disposizione sono gli stessi di quarant’anni fa, quando questo dipartimento fece la sua gloriosa apparizione nella schiera dei dipartimenti di polizia”. “Un bel guaio”, disse Patrick. “Il sogno di noi tutti è quello di camminare su strade pulite, Patrick. Un marciapiede lindo riempie il cuore di gioia e accresce il sentimento di ammirazione nei confronti del Potere. Se manca

348 la pulizia, almeno nei quartieri dove questa è richiesta, manca la fiducia nel Potere. Ciò di cui noi tutti siamo coscienti, Patrick, è che il nostro non è un lavoro, ma una missione. Disinfettare una panchina grondante sangue misto a vomito potrà sembrare un la- voro orribile, ma se consideri per un solo istante la soddisfazione di vedere quella panchina ripulita, disinfettata, nuovamente utiliz- zata da una mamma e un figlio o da una coppia di fidanzati, allora ti sarà chiara la nostra missione”. “Magnifico, Sigfrid. La mia ammirazione per il vostro lavoro sta aumentando a dismisura; qualcuno sostiene che i pompieri siano i veri eroi del nostro tempo. Ma in fondo cosa c’è di eroico nel salvare vite umane? Niente di niente, almeno io credo. I veri eroi sono gli agenti della nettezza umana, Sigfrid, siete voi ! Voi non salvate vite umane, Sigfrid, voi contribuite a rendere migliore l’esistenza dei cittadini, vi occupate della loro igiene e del loro ol- fatto, raccogliete ciò che rimane di una vita che ormai non c’è più. Voi siete i veri eroi, Ispettore Traumerei, Sigfrid, amico mio”. “Ben detto, Patrick!”, esclamò Traumerei. “Sono davvero orgoglioso di essere all’interno di questa Dai- hatsu Materia color prugna e superaccessoriata con un ispettore della nettezza umana!”. “E il bello deve ancora arrivare: sapevi che abbiamo quindici diverse fragranze per detergere e smacchiare il sangue umano? Spesso la gente crede che la fragranza sia dettata dal caso, ma si sbaglia. Per ogni luogo, per ogni stagione, per ogni momento del- la giornata, scegliamo con cura la fragranza più appropriata. Gel- somino notturno o primula selvatica, cielo australe o campo di papaveri”. “È davvero fantastico, Sigfrid. Non credevo che foste tanto at- tenti ai gusti della popolazione”, disse Patrick. “Lo siamo. D’altra parte, come chiaramente espresso nella cir- colare cinquecentoquattordici del Ministero Suicidi & Festività ®, l’olfatto è uno dei sensi più importanti, in regime di dittatura, al- meno pari alla vista e al tatto. Gusto e udito, almeno nella mia personale classifica, sono un gradino sotto”. “Sono d’accordo con te, Sigfrid”.

349 Poi Patrick udì provenire dalla radio una voce che gli sembrò famigliare, si trattava della voce di una centralinista affetta da una leggera forma di rotacismo. Comunicò che era necessario l’intervento per una precipitazione abusiva da un palazzo affaccia- to sul Parco Sintetico Märklin. L’ispettore Traumerei afferrò ca- ratteristicamente il microfono della radio e comunicò che sarebbe stato lui in persona a recarsi al parco per rassettare. Premette un pulsante sul quadro dell’automobile, un vano si aprì, prelevò una siringa e si iniettò qualcosa in vena. “Le precipitazioni abusive sono frequenti?”, domandò Patrick. “Sì, alla gente piace osservare il panorama, prima del grande sal- to”, disse Traumerei. “Capisco”, disse Patrick, “mi sembra inte- ressante”. “Il problema è che quando devi rassettare la scena di una precipitazione il raggio di pulizia si allarga a dismisura, in base all’altezza dello schianto, e quei dannati suicidi abusivi tentano in ogni modo di renderci il lavoro impossibile”, disse Traumerei. “Ti dispiace se ci fermiamo per un drink?”. “Affatto, Sigfrid”, disse Patrick. Entrarono in un bar confortevole e si sedettero al bancone per bere qualcosa. “Pensavo aveste in dotazione una scorta di whisky”, disse Pa- trick sorseggiando il suo drink. “Il whisky in dotazione è disgu- stoso, Patrick. I sindacati sono riusciti a ottenere soltanto un be- verone di sottomarca. E per sopportare lo schifo a cui siamo co- stretti ci vuole qualcosa di davvero buono”. Traumerei bevve con due sorsi un Port Ellen liscio invecchiato quindici anni e salutò la barista con un caratteristico cenno della mano. In auto si iniettò qualcosa in vena. Quando raggiunsero il luogo della precipitazione Patrick si trattenne dal vomitare; si trattava di una poltiglia multicolore, sangue schizzato sulle vetrine dei negozi, sui muri caldi, sulla strada, le panchine, il marciapiede. Traumerei osservò la situazio- ne in maniera molto professionale. Poi ingollò un po’ del whisky di sottomarca in dotazione. “Alle volte è necessario”, disse. Sul posto c’era già una squadra del dipartimento di nettezza umana. Dal punto dello schianto saliva una lieve bava di fumo azzurro- gnolo, una muffa vellutata giaceva sul sangue non ancora rappre-

350 so. “Bisogna lavar via il sangue prima che si raggrumi”, disse Traumerei, “altrimenti siamo fritti”. Diede disposizioni agli agen- ti. Patrick pensò che quelli erano davvero gli eroi dei nostri tempi. Qualcuno utilizzò il braccio meccanico dell’idropulitrice avanzata per iniziare le operazioni di pulizia dei muri. L’ispettore si infilò i guanti e accese una sigaretta. Poi cominciò a ripulire la panchina sottostante da alcuni fluidi organici. “È estremamente importante che l’odore sparisca del tutto”, disse Traumerei. “Il movimento dello spazzolone deve essere cir- colare, vedi? In questo modo, procedendo per cerchi concentrici, i microbi vengono neutralizzati. Un movimento dall’alto verso il basso rischierebbe di compromettere la totale disinfezione della scena”. “Che tipo di prodotto stai usando, Sigfrid?” “Si tratta di un prodotto segreto utilizzato esclusivamente dal dipartimento nettezza umana. I suoi effluvi possono essere ine- brianti, è magnifico. Lo teniamo segreto. Non vogliamo che le massaie di mezzo sabbionasso si perdano in panegirici immagina- ri su mondi inesistenti dopo averlo sniffato. Questo prodotto, Pa- trick, non copre gli odori, li elimina. In realtà ti confido che di tanto in tanto una sniffatina la diamo anche noi; serve a farci scordare le peggiori scene a cui dobbiamo assistere”. Patrick osservò la squadra di agenti della nettezza umana lavo- rare con grande organizzazione e suprema efficienza. “Devo sti- lare il rapporto, ma ci vorranno ancora un paio d’ore prima che il posto sia rassettato”, disse Traumerei. “Prima però andiamo a pranzo, è quasi mezzogiorno”. “Ben detto”, disse Patrick. Si ritrovarono in un chiosco di periferia, dove ordinarono hamburger e patatine fritte. “Cosa mi puoi dire dei tizi in calzamaglia arancione che salta- no abusivamente dai palazzi, Sigfrid?”, domandò Patrick adden- tando il suo panino. “Sono dei malati, Patrick. Malati addestrati dal Monaco Arancione per creare scompiglio nella nostra orga- nizzazione. Molti di loro precipitano tentando di leggere Centuria di Manganelli, è una nuova moda lanciata da un appassionato di letteratura italiana: ci si deve buttare da un luogo sufficientemente

351 alto da consentire la lettura di almeno uno dei cento racconti con- tenuti in quel dannato libretto”. “E qualcuno ci è riuscito?” “A fare cosa?” “A leggere almeno un racconto prima di sfracellarsi al suolo” “Non che ci risulti. Ad ogni modo nessuno può saperlo con certezza, ti pare?”. “Ma certo, che sciocco”. “Per tornare a noi: la prima cosa da sapere, relativamente a chi salta da un palazzo, è che egli finge di non avere alcuna paura di morire”, disse Traumerei. “Ma è solo quello che vorrebbe farci credere”, continuò. “In realtà ha una paura fottuta di rimetterci le penne”. “Buono a sapersi”, disse Patrick. “Inoltre, essi solitamen- te si persuadono di agire in nome di un’ideale che neppure loro hanno compreso fino in fondo”, disse l’ispettore. “Cosa signifi- ca?”, domandò Patrick. “Significa che sono il paradigma della contraddizione. Significa che gli ideali ti condizionano, quando si tratta di portare a compimento un’azione simile. Senza ideali sa- rebbe molto più semplice. Gli ideali sono freni inibitori”. “Lo credo anch’io”, disse Patrick, “Cosa sapete di questo Monaco Arancione?”. “Sappiamo che è un individuo spregevole, Patrick”, rispose Traumerei; “le nostre indagini ci conducono a credere che abbia avuto un’infanzia tranquilla in una famiglia religiosa della media borghesia, nel quartiere residenziale. Quando divenne mo- naco restò certamente deluso dalla vita religiosa, si sposò, fu tra- dito e abbandonato dalla moglie, tentò il suicidio in più circostan- ze, ma fallì sempre. E sappi che chi fallisce un suicidio non vuole veramente suicidarsi. Le autorità gli diedero la caccia per molto tempo, ma sparì dalla circolazione. Indossò la sua calzamaglia arancione e girovagò per Sabbione alla ricerca di altri delinquenti pronti a seguirlo. La sua setta di squilibrati si fece viva all’inaugurazione del Palazzetto dello Sport: durante il Discorso Gerarcale tre suicidi abusivi si lasciarono cadere impiccandosi alla copertura dell’edificio, pencolando abusivamente nel vuoto per ventisette minuti, inorridendo gli spettatori. In quell’occasione il Monaco Arancione diede prova di tutta la sua malvagia vena ri-

352 belle, leggendo un comunicato che fece rabbrividire tutti. Da allo- ra gli diamo la caccia”. “Avete già abbozzato un identikit della sua personalità?”, do- mandò Patrick. “Certamente”, rispose Traumerei, “secondo i no- stri esperti in campo mitologico e fumettistico egli incarna gli aspetti più reconditi dell’animo umano: per accidia tende ad as- somigliare al torturatore d’anime Geppo, per superbia a Zanardi, per ira a Magneto, in quanto a nemesi della giustizia incarna or- rendamente Joker, Vega, Lex Luthor, Dottor Octopus, Xabaras, Skotos, Venom, Goblin, per spirito ribelle i suoi modelli sono sta- ti individuati in Kurt Kobain, Che Guevara, Hart Crane, Ernest Hemingway, Guido Morselli. Puoi immaginarti che gran casino di persona può essere”. “Mostruosa e affascinante”, disse Patrick. “Mostruosa e affascinante”, confermò Traumerei. “Ripren- diamo il giro?”. “Molto volentieri!”, rispose Patrick. Ma proprio in quel mo- mento Traumerei si accorse di avere una macchia sulla sua cami- cia d’ordinanza; non era chiaro se si trattasse di ketchup, senape oppure di qualche fluido organico sconosciuto. “Questa proprio non ci voleva”, disse. “Una vera seccatura”, confermò Patrick. “Come pensi di procedere, Sigfrid?”. “Sono cose che succedono, Patrick. Siamo preparati a simili imprevisti”, disse Traumerei. “Intendi dire che hai uno smacchia- tore per camicie?”. “Intendo dire che nel vano posteriore F 3 della Daihatsu c’è una camicia di riserva, Patrick”. “Un’organizzazione perfetta!”, enfatizzò Patrick. Quando Traumerei prelevò la camicia di riserva si rese subito conto che era un tantino stropicciata. “Quella camicia mi pare molto stropicciata!”, esclamò Patrick. “Credo che tu abbia ragio- ne, amico mio”, confermò l’ispettore, “è il caso che gli dia una stirata”. Patrick sembrò stupito. “Avete un ferro da stiro in dota- zione?”. “Si trova nel vano F 6, mentre l’asse da stiro componibile è nel vano H 11”, rispose Traumerei. “Ma è straordinario”, affermò Patrick. “È la politica del Dipartimento: un individuo coi vestiti in di- sordine, stropicciati e sporchi, non può che manifestare un disor-

353 dine interiore. Il disordine interiore manifesta una patologia an- siogena. L’ansia, in definitiva, è un campanello d’allarme che av- verte il mondo esterno di uno stravolgimento interno”. “Ben detto, Sigfrid!”. Traumerei e Patrick estrassero dal vano F 6 un ferro da stiro Rowenta e dal vano H 11 l’asse da stiro componibile. Montarono l’asse da stiro senza alcun problema, ma si trovarono in difficoltà quando fu il momento di utilizzare il ferro da stiro. “Credo che dovremmo leggere il manuale d’istruzioni”, disse Patrick. “Mi sembra una magnifica idea, Patrick”, disse l’ispettore. “Da dove cominciamo?“. “Beh, intanto propongo di cominciare con qualcosa di proprio terra-terra”. Sigfrid dispiegò il foglio con le istruzioni. Se c’era una cosa in cui gli ispettori del dipartimento di nettezza umana erano insupe- rabili era l’interpretazione delle istruzioni d’uso di un apparecchio elettrico. Patrick cominciò a leggere.

a) Connettere il ferro alla presa di corrente. Traumerei collegò il cavo alla presa da auto della Daihatsu. b) Verificare che i led siano funzionanti e accesi. Parrebbe tutto a posto, Patrick. c) Prepararsi a riempire il ferro con acqua distillata. Traumerei armeggiò per qualche secondo col quadro comandi dell’automezzo, schiuse il vano anteriore B 9 della Daihatsu ed estrasse un recipiente pieno di acqua distillata. d) Per riempire il ferro disconnetterlo dalla presa di corrente. Traumerei scollegò il cavo alla presa da auto della Daihatsu e riempì il ferro con l’acqua distillata. e) Posizionare completamente il vapore variabile al minimo. Diversamente il ferro può perdere acqua. f) Inclinare leggermente il ferro. Questo eviterà fuoriuscite d’acqua direttamente dall’apertura di riempimento causate dalle bolle d’aria. L’acqua fluirà rapidamente e il ferro si riempi- rà velocemente.

354 g) Posizionare l’asse da stiro alla giusta altezza. Si può verifica- re poggiando il palmo della mano sull’asse: il braccio e la spalla non devono piegarsi. Riconnettere il ferro da stiro alla presa di corrente.

- Selezionare la giusta temperatura. Consultare i consigli indicati sull’etichetta dei tessuti. Per i tessuti misti, scegliere la temperatu- ra più delicata.

Traumerei seguì queste ultime indicazioni alla lettera e in breve il ferro fu pronto per essere utilizzato.

- Manipolare e usare il ferro in modo appropriato. Cominciare a stirare dal centro verso l’esterno. Ciò non richiede una forte pres- sione, soprattutto quando si usa il vapore – È la potenza del va- pore, non il peso del ferro, che fa il lavoro.

- Prestare maggiore attenzione con alcuni tessuti. Stirare la seta al rovescio. La seta coltivata va stirata ancora umida, ma non si deve spruzzare per inumidirla perché si macchia; la seta greggia deve essere stirata asciutta. Velluto, acrilico, velluto a coste, capi rica- mati e pelle sintetica devono essere stirati al rovescio. Posizionare sopra un panno per evitare che il tessuto si lucidi.

“Ritengo che per quanto tali nozioni siano di interesse univer- sale, forse dovremmo preoccuparci di procedere oltre, magari sal- tando al punto in cui è illustrato il modo in cui è possibile stirare una camicia”, disse Traumerei. “Mi pare che tu abbia ragione, Sigfrid”, disse Patrick.

Per stirare una camicia

Ricordarsi sempre di stirare in su e giù, in quanto con movi- menti circolari il tessuto si può danneggiare.

Nel dettaglio:

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1. Collo : iniziare dalla parte inferiore, lavorare dall’esterno verso il centro;

2. Spalle : stirare una spalla alla volta partendo dal centro verso l’esterno. Ripetere sull’altro lato;

3. Polsi : stirarli prima all’interno e poi all’esterno;

4. Maniche : stirare ogni manica, iniziando da ogni polso e aprendo- lo in seguito;

5. Corpo : stirare il corpo della camicia, iniziando con una parte frontale e continuando con un’altra;

6. Collo : una volta stirata l’intera camicia, ripassare la parte supe- riore del collo.

Al termine delle operazioni l’ispettore Traumerei indossò la camicia di riserva, profumata e perfettamente stirata. “Sono soddisfatto del lavoro svolto”, disse. “Fai bene a esserlo, abbiamo fatto un lavoro magnifico”, gli fece eco Patrick. Traumerei si iniettò qualcosa in vena. “Scusa se te lo chiedo”, disse Patrick, “ma cos’è quella roba che ti inietti tanto sovente?”. “Scopolamina”, rispose Traumerei. “Fa parte della nostra do- tazione. Serve per prevenire sintomi quali nausea, vomito, diarrea, vertigini; tutte patologie che flagellano chi fa il nostro lavoro”. “E dovete farne un uso così abbondante?”, domando Patrick. “In effetti ultimamente mi sono un po’ lasciato prendere la mano”, rispose Traumerei, “il fatto è che tra gli effetti collaterali ci sono la perdita di coscienza e qualche stadio di piacevole allu- cinazione a cui francamente è difficile rinunciare. A chi non pia- cerebbe concedersi una vacanza, seppur breve, dalla propria co- scienza e dalla propria volontà?”. “A nessuno”, disse Patrick.

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Poi Traumerei ricevette una chiamata urgente per un caso nei pressi di Largo Ezzelino da Romano, dove si era da poco conclu- sa la tradizionale Corrida dei Tacchini Scartati, che si svolgeva ogni anno alla vigilia della Giostra del Peccato. Il codice era quel- lo di un suicidio di gruppo ® da parte di quattro broker di Borsa. “Un cazzo di lavoro”, sussurrò Traumerei. “Ci sarà un traffico infernale”, disse Patrick. “Non preoccuparti, Patrick, conosco un trucchetto per evitar- lo”, disse Traumerei premendo un pulsante sul quadro comandi dell’Idropulitrice Daihatsu. Subito partì il lampeggiante. “Strepi- toso, Sigfrid!”, esclamò Patrick. Lungo il tragitto fecero una breve sosta in un bar sulla tangen- ziale, dove Traumerei bevve il suo caratteristico whisky, un Laga- vulin invecchiato vent’anni. Poi, quando giunsero sul luogo del suicidio di gruppo ®, trova- rono il marciapiede e i muri dei palazzi sporchi di sangue, fluidi, ecc. Sul posto c’era già una squadra di nettezza umana all’opera, sotto la stretta sorveglianza dei due Verificatori che avevano certi- ficato la Clausola 99.

Schema operativo della squadra di Nettezza Umana

AGENTE 1 i cadaveri per prima cosa AGENTE 2 presto, i cadaveri AGENTE 3 caricare i cadaveri AGENTE 1 sono laggiù, sul marciapiede AGENTE 4 e sulla strada AGENTE 2 ai sensi della legge in vigore preleviamo i cadaveri AGENTE 1 e ripristiniamo le condizioni igieniche AGENTE 4 tergendo i fluidi AGENTE 3 lavando l’asfalto AGENTE 1 raccattando i resti AGENTE 3 garantiamo cremazioni e imbalsamazioni AGENTE 1 ma la specialità della ditta è l’interramento in sac- chi AGENTE 2 una vera specialità

357 AGENTE 4 di cui non vi pentirete AGENTE 1 ora dicano, signori ( riferendosi ai verificatori ), inten- dendo per i vostri clienti: AGENTE 2 impagliatura, cremazione, cassonetto o sacco? VERIFICATORE 2 bisogna leggere il modulo pre-compilato VERIFICATORE 1 qui c’è scritto sacco AGENTE 3 con etichetta di riconoscimento AGENTE 1 o senza? VERIFICATORE 1 modulo VERIFICATORE 2 senza…con…non è specificato AGENTE 2 una scelta migliore non poteva esser fatta AGENTE 3 portantina (si dirigono verso i cadaveri) AGENTE 1 sollevare (i quattro agenti sollevano la lettiga) AGENTE 2 questo è il momento dei pianti o dei gemiti o delle urla strazianti AGENTE 3 avete tre minuti. Calare! (Posano la lettiga) VERIFICATORE 1 (legge il modulo pre-compilato) pianto AGENTE 1 ci pensiamo noi, signoricari! Mettetevi pure como- di AGENTE 2 Afflictio! Avanti! (una prefica esce dalla Daihatsu, si posiziona accanto alla lettiga) AGENTE 3 sollevare! (Sollevano la lettiga) PREFICA muovendo il capo, pianto e singhiozzi AGENTE 3 Passo! (Si avviano verso la Daihatsu, molto lentamente, a passi sincronizzati). PREFICA solo singhiozzi e agita fazzoletto AGENTI ripetono l’operazione per gli altri quattro cadaveri abusivi PREFICA pianto e gemito FOLLA applaude e manifesta la propria approvazione in molti modi AGENTE 3 alcool etilico AGENTE 2 chiavi AGENTE 1 aspiratutto AGENTE 4 strofinio AGENTE 1 acqua ossigenata AGENTE 4 impugnare i rulli AGENTE 2 (guida la Daihatsu) accensione idropulitrice AGENTE 3 mantenere direzione

358 AGENTE 2 spazzole rotanti! AGENTE 1 spazzolatura manuale di supporto AGENTE 4 mantenere velocità AGENTE 2 fuoriuscita liquido disinfettante AGENTE 1 mantenere altezza spazzole rotanti AGENTE 2 spargimento sodio ipoclorito AGENTE 4 rullare! FOLLA ammirazione e incanto AGENTE 2 avvio Gran Tifone AGENTE 3 attenzione! AGENTE 1 state indietro AGENTE 4 vortice perfettamente riuscito AGENTE 1 asciugatura ultimata AGENTE 2 accensione raggio asettico gamma AGENTE 3 ripulitura scena completata FOLLA grandi applausi, braccia al cielo, bambini urlanti, gioia.

Quando ebbero finito, e prima che rientrassero al Dipartimen- to, Patrick si avvicinò agli agenti posti accanto all’hotel Metradòr. “Buongiorno agente!”, disse Patrick. “Buongiorno, signore”, disse uno degli agenti, “anche se il mio nome non è ‘agente’; mi chiamo aquila rapace ”. “Che razza di nome sarebbe?”, domandò Patrick. “Il mio nome di battaglia”, rispose l’agente, “abbiamo voluto omaggiare i grandi capi tribù degli indiani d’America, una popola- zione barbaramente trucidata, sottomessa e ubriacata dall’egoismo e dalla boria protestante”. “Non le pare che aquila rapace sia un pleonasmo, o quanto meno una ridondanza?”, domandò Patrick. “Non credo proprio”, rispose l’agente speciale risentito. “Che fine fanno i cadaveri?”, domandò ancora Patrick. “Dipende dalla condizione dei cadaveri”, disse Aquila Rapace. “Quelli meglio conservati – e non mi pare questo il caso, dopo un volo di quaranta metri – vengono caricati sul nostro camion supe- raccessoriato e trasferiti al Magazzino di Riciclaggio, dove gli or- gani buoni vengono mantenuti e riciclati. Gli altri, come per esempio questi, vengono trasportati al Magazzino di Smistamen-

359 to, dove gli addetti li impacchettano nella maniera consona alla religione prescelta e li inviano a destinazione, camposanto, disca- rica o quanto diavolo altro”. “E gli abusivi?”, chiese Patrick. “Gli abusivi”, disse Aquila Rapace, “non possono essere rici- clati per legge. Del resto, chi vorrebbe continuare a vivere con un polmone, un fegato, un cuore di un meschino abusivo? Gli abusi- vi sono carcasse da macello. Nella quasi totalità dei casi vengono macellati e trasferiti alla Porcilaia Gerarcale, dove i maiali gerarcali fanno ciò va fatto”. In quel momento Traumerei interruppe la conversazione. “Non vorrei interrompere la vostra amabile conversazione, ma qui mi pare sia stato fatto tutto quanto era in nostro potere, e noi abbiamo un rapporto da stilare, Patrick”, disse. “D’accordo, Sig- frid”, disse Patrick. Fu in quel momento che un tizio in calzamaglia arancione, il volto coperto da una maschera raffigurante un tacchino, si lanciò dal tetto del Metradòr Building imbracato in una sorta di elastico, giunse a pochi metri dal suolo, eseguì una torsione, si mise in pie- di sull’asfalto. “Buongiorno signore”, disse Patrick stupito dall’abilità del ti- zio, “quella che porta è una calzamaglia arancione?”. “Per la precisione si tratta di una calzamaglia arancione fiam- ma ”, disse prontamente il tizio in calzamaglia. Seguirono alcune osservazioni sulla calzamaglia arancione fiamma, specie da parte di alcune donne presenti sul posto. “Se mi permette l’osservazione”, disse una delle donne “l’abbinamento dei colori è orribile: calzamaglia arancione fiamma , stivali gommagutta , cappello borsalino arancio cadmio , panciotto arancione internazionale , cravatta arancione Fantini . Inoltre la cal- zamaglia, ancorché inflazionata e sufficientemente ridicolizzata, è una scelta quantomeno azzardata. Per non parlare della maschera. Oscena”. Il tizio in calzamaglia arancione si difese come poteva, fornen- do un’esaustiva spiegazione delle motivazioni che portarono il Circolo dei Suicidi Abusivi alla decisione di adottare una calzama-

360 glia arancione come uniforme, ricordando le molteplici proprietà simboliche del colore arancione (in tutte le sue sfumature). “Come vi permettete di farvi vedere in centro città?”, doman- dò Traumerei. “Ho un messaggio del Monaco Arancione”, disse il tizio. “Il Monaco Arancione è un abusivo, un meschino, un vigliac- co”, urlò Traumerei disgustato. “È sicuro di stare bene?” domandò Patrick notando una brutta bruciatura sulla parte destra del collo del tizio in calzamaglia. “Sto benissimo”, rispose il tizio sfiorando la bruciatura col palmo della mano. “Vedi di levarti immediatamente quella ridicola maschera e di identificarti”, intimò Traumerei. Il tizio si sfilò la maschera. Il suo volto pareva stanchissimo, come di chi non avesse dormito da giorni. Aveva segni di polvere da sparo sugli zigomi, la bruciatura era più vasta di quanto non sembrasse, comprendendo anche parte dell’orecchio. La zona in- feriore del labbro era squarciata, un rivolo di sangue rappreso gli rigava il mento. “Cosa diavolo le è successo?”, domandò Patrick. “Che cavolo ve ne frega”, rispose il tizio. “Non sono qui per discutere del mio aspetto, sono qui per comunicare un messaggio del Monaco Arancione”. Patrick e Traumerei incrociarono gli sguardi. “E va bene”, disse Traumerei, “Comunichi questo messaggio”. “Ho buttato giù qualche appunto”, disse il tizio in calzamaglia. “Addirittura”, disse Patrick. “Cerchiamo di fare una cosa rapi- da”, disse Traumerei, mostrando le manette e facendogli capire che aveva intenzione di arrestarlo quanto prima. Il tizio estrasse un bloc-notes dalla tasca del panciotto e lesse: “Sono qui di fronte a voi vestito con una calzamaglia arancio- ne affinché essa simboleggi quanto di positivo e onorevole esiste nella vita umana, poiché qualcosa nella vita umana di onorevole deve esistere, non trovate? Ebbene, purtroppo la gente bestem- mia. Purtroppo la gente priva continuamente della libertà altra gente. Purtroppo la gente massacra animali per il proprio sollaz- zo, o per estetica, o per nutrirsi. Purtroppo la gente fuma, beve,

361 uccide, distrugge. Purtroppo la gente si ammala. Purtroppo la gente stupra bambine seienni al solo scopo di provare un quarto d’ora di piacere sessuale. Purtroppo la gente scatena guerre. Pur- troppo taluni esseri umani vivono una condizione di sterilità che gli impedisce di generare figli. Come sto andando? Sono solo ap- punti”. “Narrativamente parlando non è un granché. In particolare, non trova di aver fatto un uso eccessivo della parola purtroppo ?”, domandò Patrick. “Lo pensa davvero?”, domandò il tizio in calzamaglia. “Mi dispiace, ma è ciò che penso”, disse Patrick crudelmente. “Sfortunatamente”, proseguì il tizio in calzamaglia, “io non sono in grado in nessun caso di porre un freno a queste abitudini. Non sono in grado di esistere e al contempo essere felice. Per tali ragioni mi sono iscritto tredici mesi fa (all’incirca) a questo Circo- lo altamente democratico e assai romantico”. “Sfortunatamente suona meglio”, disse Patrick. “Grazie”, disse il tizio in calzamaglia. Infilò una mano all’interno dello zainetto aderente arancione che portava dietro le spalle, ne estrasse un paio di altoparlanti wireless, armeggiò qual- che secondo con un I-Pod nano, premette alcuni pulsanti, girò alcune rotelle, oppure si districò semplicemente con lo schermo touch screen. Dagli altoparlanti tutti poterono udire il caratteristi- co brano intitolato Brigitte Bardot , nella versione originale di Jorge Veiga datata millenovecentocinquantanove (non la cover di Dario Moreno del millenovecentosessantuno). Tutti restarono attoniti ad ascoltare la canzone. Il tizio in cal- zamaglia arancione la canticchiava con gli occhi chiusi. Esattamente al secondo cinquantotto del motivo musicale estrasse dalla tasca dietro una rivoltella e si fece saltare il cervello. Seguirono attimi di trambusto. La particolarità del proiettile utilizzato era, per così dire, esplosiva, e la testa gli saltò letteral- mente in aria. Frammenti di cranio sul marciapiede, sangue sull’asfalto, pezzettini di cervello e altre cartilagini disseminate ovunque, un inferno di sporcizia che ebbe come prima conse- guenza molte urla femminili e lo sconforto di Traumerei.

362 Qualcuno si premurò di interrompere l’esecuzione della co- lonna sonora. “Questo è un affronto intollerabile al sistema politico, antro- pologico, morale e culturale del Sabbionasso”, disse. “Hai perfettamente ragione, Sigfrid”, disse Patrick. Dalla sommità del Metradòr Building (altezza cinquantadue virgola tre metri, vale a dire cento cubiti ebraici, centosettantuno virgola cinque piedi del sistema imperiale britannico, ventinove virgola quarantaquattro orgìe greche, diciassette virgola sessanta- sei pertiche romane – si stava celebrando la Giornata della Con- versione delle Unità di Misura Texas Instruments) si dispiegò un vessillo lungo all’incirca quindici metri (ovvero eccetera eccetera), naturalmente arancione, riportante la scritta Circolo dei Suicidi Abusivi. Alcuni uomini in calzamaglia arancione esultavano sul tetto del palazzo. “Questo è solo l’antipasto, ci rivedremo presto”, disse uno di loro attraverso un altoparlante. Un altro altoparlante trasmetteva Brigitte Bardot a volume molto elevato. “Per questo genere di reato c’è la condanna al Nulla Eterno”, disse Traumerei, freddamente. “Correremo il rischio”, disse un altro. “Vi agguanteremo”, gridò Traumerei. “Provateci”, gridò uno degli uomini in calzamaglia arancione. Poi, preceduti da un ghigno beffardo, sparirono lanciandosi dal tetto con una specie di deltaplano, o parapendio, o comunque una qualche stronzata tecnologica che Traumerei e Patrick non seppero riconoscere. “Si tratta di una tuta alare”, disse uno degli agenti. “Perché sono sempre l’ultimo ad essere informato sui nuovi ri- trovati della tecnologia?”, domandò Traumerei piccato. Qualcuno lo delucidò sul funzionamento della tuta alare. “Ne vorrei possedere una anch’io, sembra avvincente”, disse Traumerei. “Prima occorre trovare e consegnare alla giustizia i membri del Circolo dei Suicidi Abusivi”, disse Patrick. “Temo che tu abbia ragione, Patrick”, disse Traumerei.

363 Gli agenti che accorsero sul tetto del Metradòr vi trovarono: tre convertitori elettronici Texas Instruments fracassati; diverse cartacce di tegolini Mulino Bianco; una dozzina di Peroni mezze vuote; un Manuale di Aerodinamica Phoenix Fly; un flacone di Xanax incellofanato. Nessuna traccia che potesse condurli al nascondiglio del Mo- naco Arancione. “Non mi darò pace finché non troverò fino all’ultimo suicida abusivo”, disse Traumerei. “Questo ti fa onore, Sigfrid”, disse Patrick. “Mettiamoci subito al lavoro”, disse Traumerei con vigore. “Splendido!”, esclamò Patrick. “Ti spiace se prima ci fermiamo in un bar per un drink?”, disse Traumerei. “Mi sembra una magnifica idea, Sigfrid”, disse Patrick. Prima di mettere in moto l’auto, Traumerei si iniettò una dose di scopolamina. Il sole di luglio lacerava lo strato più interno dell’atmosfera, al- cuni uomini inneggiavano alla decapitazione dei tacchini selvatici e le strade di Sabbione non erano mai state così abbaglianti e pro- fumate. Traumerei ingollò un doppio whisky e disse: i miei figli cresceranno in una città sgombra dalla pazzia e dal sudiciume. Ecco, pensò Patrick, il senso di una vita eroica.

364 EFFETTI COLLATERALI DELLA SCOPOLAMINA

Sono uscito a fare due passi per le strade della mia città e mi sono ritrovato in un luogo che non era propriamente la mia città. Insomma, quest'altra città non è la città che esiste sulle carte stradali. Non è la città situata in un’area geografica cor- rispondente al sud Europa; non è una suddivisione ammini- strativa della Regione Piemonte, né l’ente locale autonomo e indipendente con una popolazione di settantatremila nove- cento settantré abitanti (dato Istat), celebre per lo spumante e la parata del Palio. Questa città è una nuova città fondata e sorta altrove.

Indice generale delle cose di città

Gli alberi, in questa città, sembrano più alti, anche se di poco. Le specie non sembrano dissimili da quelle esistenti nella mia città; tuttavia profumano in maniera differente. Non saprei stabilire con certezza tale diversità. I parcheggi non offrono apprezzabili differenze. L’asfalto e il porfido delle strade, nella città che esiste al- trove, accolgono suole di scarpe e pneumatici con la stessa frequenza della mia città; lo stato di erosione, se mi si può passare il termine, o di usura, del manto bituminoso e dei sampietrini, pare identico. I semafori rispettano le usuali regole cromatiche in vigore in qualunque altra parte del mondo.

365 Umidità

Non ho notato apprezzabili variazioni al tasso di umidità tra la mia città e questa città che esiste altrove. Anche in questa città l’umidità relativa dell’aria supera abbondante- mente i valori medi di una situazione di benessere.

Cimitero

Cammino in direzione del cimitero. La collocazione dei principali edifici e dei monumenti è identica. Tuttavia il cimi- tero della nuova città è molto più grande rispetto a quello della mia città. Sterminato. L’ingresso è enorme, costruito affinché possa transitare il cadavere di un gigante. Le tombe sono collocate secondo una disposizione prestabilita, se- guendo l’ordine cronologico. Non esistono cappelle fami- gliari. I fiori della città che esiste altrove sono più profumati rispetto ai fiori della mia città. I cognomi delle persone mor- te sono tradotti in una lingua che non conosco.

Lorna Bosch

All’uscita dal cimitero sono avvicinato da una bella donna con i capelli scuri, vestita con una gonna colorata. “Buongiorno”, mi ha detto; non conosco la lingua nella quale mi sta salutando. Sono stato condotto in un bar, e suc- cessivamente in una camera d’albergo. Gli alberghi della città che esiste altrove sono costruzioni leggermente meno con- fortevoli rispetto agli alberghi della mia città. “Mi chiamo Lorna Bosch”, ha detto la signorina vestita con gli abiti piuttosto colorati. “Piacere di conoscerla, Lorna Bosch”, ho detto io. A quel punto non riuscivo a compren- dere quale lingua stessimo parlando, né se la scena si stesse svolgendo in quel momento o in un passato prossimo e im- perfetto.

366 “Faccio una doccia”, ha detto Lorna Bosch. La pressione dell’acqua, al rumore, sembra identica alla pressione dell’acqua della mia città. Quando è uscita dalla doccia, completamente nuda, av- volta in un dozzinale asciugamano bianco in dotazione all’albergo, ho cominciato a domandarmi se tradire mia mo- glie nella città che esiste altrove fosse una grave mancanza di rispetto nei confronti dei vincoli matrimoniali. Mi sono do- mandato se i vincoli matrimoniali potessero vincolarmi, tec- nicamente, anche in una città che non è la mia città. Ho chiesto a Lorna se fare l’amore nella città che esiste altrove fosse una cosa stupenda come lo era nella mia città. “Non saprei”, ha risposto, “ho fatto l’amore soltanto in questa città”.

Prendere un caffè e fumare una sigaretta

Prendere un caffè nella nuova città non sembra un’operazione complicata. Ogni singolo gesto, dall’atto di ordinare a quello di mettere due cucchiaini di zucchero a quello di girare lo zucchero nella tazzina a quello di bere il caffè sono perfettamente identici sia nella mia città che nella città che esiste altrove. Il gusto del caffè è leggermente di- verso; più penetrante e forte in questa città rispetto alla mia città. Allo stesso modo i cittadini della città che esiste altrove fumano con maggiore voluttà, come se stessero davvero go- dendo la propria sigaretta.

Una panchina nel parco

Noto una panchina nei pressi di un parco cittadino. Il parco mi sembra identico a quello della mia città, se non fosse per la panchina. Da lontano sembra una panchina di

367 legno dipinto, con alcune scritte prodotte dai ragazzini della città che esiste altrove. Da vicino si rivela esattamente ciò che sembra da lontano: una panchina di legno dipinto. Nella mia città non potrebbe trovarsi una panchina in quella parti- colare posizione. Mi siedo e tocco con le dita la superficie per tastarne la consistenza; la consistenza delle panchine, nella città che esiste altrove, è completamente diversa dalla consistenza delle panchine nella mia città.

Vedute di una donna che piange

Dalla mia posizione riesco a scorgere una donna, seduta su una delle panchine del parco. Sta piangendo. A una prima grossolana analisi pare che stia piangendo esattamente nello stesso modo in cui piangono le donne della mia città. Mi avvicino. A una veduta più approfondita mi sembra che stia pian- gendo in modo diverso dal modo in cui piangono le donne della mia città; i brevi intervalli, il singhiozzare, c’è qualcosa di indubbiamente estraneo alle posture tipiche delle donne della mia città quando piangono sole sedute su una panchina del parco. A pochi centimetri dal suo volto posso apprezzare la dif- ferenza sostanziale tra le lacrime di una donna che piange nella città che esiste altrove rispetto alle lacrime di una don- na che piange nella mia città. È una questione di compattez- za e corposità. Il tragitto che le lacrime seguono in questa città è più diretto; scendono dagli occhi e si scaraventano al suolo direttamente, senza scivolare lungo le guance e rag- giungere le parti del naso o le labbra; sono sicuramente la- crime più pesanti, di una composizione chimica diversa ri- spetto alle lacrime delle donne nella mia città, simili forse al mercurio, ma rimbalzano al tocco col suolo, trasformandosi in minuscole biglie matte che compiono traiettorie imper- scrutabili. Osservo le lacrime rimbalzanti dirigersi verso luo- ghi misteriosi, in silenzio.

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Le mamme caricano in auto i bambini che escono da scuola

Le mamme caricano in auto i bambini che escono da scuola in maniera molto più ordinata nella città che esiste al- trove rispetto alla mia città; anche qui sono per la maggior parte giovani e carine, guidano automobili di una certa cilin- drata e si muovono con fattezze piuttosto aggraziate. Forse si potrebbero trovare differenze a proposito della cilindrata delle automobili. Le uniformi dei vigili che permettono ai bambini di attraver- sare la strada per raggiungere i sedili delle automobili mater- ne sono completamente diverse dalle uniformi dei vigili che svolgono la stessa importante mansione nella mia città. Sono uniformi perfettamente lustre. Pulitissime. Saluto un bambino mentre attraversa la strada e lui ri- sponde al mio saluto. Questo fatto mi porta a sospettare che gli alunni della città che esiste altrove godano di un’educazione maggiore (meglio somministrata) rispetto agli alunni della mia città.

Misurazione degli ANGOLI

Col termine ANGOLO si intende una porzione di piano delimitata da due semirette aventi origine comune. L'am- piezza di un ANGOLO è rappresentata dalla rotazione ORARIA di una semiretta intorno all'origine, fino al so- vrapporsi all'altra semiretta (cit. da Hans Helmander, Corso di Topografia e Trigonometria per Corrispondenza ). La piazza più importante della città che esiste altrove, allo stesso modo di quella della mia città, ha forma triangolare; ma gli angoli della piazza triangolare più famosa della mia città non coincidono con quelli di questa città. Gli angoli, nella città che esiste altrove, hanno un am- piezza inferiore di circa zero virgola otto gradi, cioè sono più

369 acuti rispetto agli stessi angoli presenti nella mia città. Tale maggiore spigolosità degli angoli nella città che esiste altrove mi turba e suscita in me numerose domande a proposito del carattere e della predisposizione d'animo dei costruttori stes- si della città.

Sugli ANGELI

Il Centro Congressi della città che esiste altrove è situato esattamente dove è situato il Centro Congressi della mia cit- tà. Gli alberi (leggermente più alti) che lo circondano muo- vono al vento in modo più uniforme rispetto a quanto non muovano al vento nella mia città. Un lungo viale alberato conduce al Centro Congressi; ai lati del viale sono poste al- cune panchine (di consistenza differente rispetto a quelle della mia città), e alti pali di color verde (nella mia città sono di color marrone), recano enormi stendardi pubblicitari ri- portanti la conferenza in corso al Centro Congressi. Il titolo della conferenza è: Sugli ANGELI . C’è da essere davvero orgogliosi di vivere in una città che si premura di fornire ai propri abitanti risposte circa questioni tanto spinose quali esi- stono gli ANGELI ? Che forma hanno ? Hanno fattezze umane ? Qual è il loro scopo ? Perché dovrebbero esistere ?

Una conversazione al bar

Lei è orgoglioso di vivere in una città che si premura di fornire risposte circa questioni spinose quali esistono gli ange- li ? Che forma hanno ? Hanno fattezze umane ? ecc. Crede che dovrei esserlo? Credo proprio che dovrebbe. Allora credo di esserlo. Il nome del bar è Un posto pulito, illuminato bene e sono con-

370 vinto che tutti i clienti di un simile posto hanno a cuore la tematica riguardante gli angeli. Mentre sorseggio un caffè nello stesso identico modo in cui sorseggerei un caffè nella mia città mi avvicino a un signore con folta barba, una camicia a quadri. I tizi con barba e ca- micia a quadri hanno un volto molto cordiale nella città che esiste altrove, mentre hanno un’espressione scortese nella mia città. Sa che lei ha un volto molto cordiale? Dovrei saperlo? Credo dovrebbe saperlo. Allora sì, lo so. Gli angeli sono come gli uomini, in un certo senso , dico. È tutta una questione di purezza e contaminazione, dice lui. Purezza e contaminazione sono elementi comuni della vita umana, dico io. Ma nella vita umana c’è un grado di purezza inferiore alla contaminazione, mentre nella vita angelica c’è un grado di purezza superiore alla contaminazione, dice lui. Purezza e contaminazione sono quantificabili? Domando io. Credo di sì, risponde il tizio con barba e camicia a quadri ordinando una birra. Ecco un sintomo di civiltà: un uomo con barba e camicia a quadri che sostiene una conversazione sugli angeli. Nella mia città probabilmente mi avrebbe mandato al diavo- lo. E quindi esiste un’unità di misura della purezza e un’analoga unità di misura della contaminazione? Domando ancora. Sì, risponde lui. Contaminazione è contrario di purezza? Contaminazione è la vita umana, purezza è la vita angelica. Non crede che la purezza allo stato puro sia consonante con la follia? Non esiste una purezza che non sia allo stato puro. Pertanto crede che la purezza equivalga alla follia? Adesso credo che vorrei bere la mia birra in santa pace, dice l’uomo con barba e camicia a quadri.

371 Non gli do torto, e lo saluto cordialmente. Posso offrirle la birra? Chiedo. Preferirei di no, risponde lui. Uscendo dal Posto pulito, illuminato bene non mi volto indietro a guardare l’espressione del tizio con barba e camicia a qua- dri, ma sicuramente sarà stata un’espressione molto cordiale.

Il Palazzo più grande della città

Il palazzo più grande della città sorge su un lato della piazza più importante della città. Esso è completamente diverso nella città che esiste altro- ve. Ha forma ottagonale, mentre nella mia città è squadrato. Ha numerosi piani aggiuntivi rispetto a quello della mia città. È altissimo, come se avessero disposto uno sopra all’altro quindici palazzi della mia città. Mi fermo impressionato a contemplare un palazzo tanto alto.

Amare la vita

Anche nella città che esiste altrove ragazzi e ragazze amano la vita. Sorridono, ridono, si scambiano baci e carez- ze. Tuttavia c’è qualcosa, nella maniera in cui sorridono i ra- gazzi della città che esiste altrove, qualcosa, nei loro baci e nelle loro carezze, qualcosa, nelle loro occhiate fuggenti e furtive, qualcosa che davvero non saprei descrivere, eppure qualcosa di profondamente diverso dalle azioni omologhe che si verificano continuamente nella mia città. Amate la vita? Domando a un gruppo di ragazzini appol- laiati su un muretto poco distante dalla cattedrale che esiste in entrambe le versioni della città. Nessuno mi risponde, e io rimango tormentato dal mio dubbio.

372 Il nostro lavoro e perché lo facciamo

Apparentemente la gente della città che esiste altrove la- vora allo stesso modo della gente nella mia città. Piccoli mi- nuscoli omini entrano ed escono da officine e uffici. Più sporchi e trasandati i primi, più puliti e ordinati i secondi. Ma perché lo fanno? Le motivazioni che conducono piccoli minuscoli uomini (dalla mia prospettiva sono piccoli e minu- scoli, mi trovo all’ultimo piano di un palazzo dotato di risto- rante panoramico con vetrate cielo terra, identico sia nella città che esiste altrove che nella mia città) a entrare e uscire da luoghi adibiti al lavoro possono essere terribilmente, tre- mendamente, diverse in questa città rispetto alla mia città. Motivazioni nobili, prevalentemente, ma anche basse, popo- lane. Sostentamento. Libertà di espressione. Ordino un piat- to di qualcosa e questa cosa, che mi viene servita da un ca- meriere più sorridente in questa città rispetto alla mia città, è una cosa indubbiamente uguale, cioè, che possiede lo stesso nome sul menù in questa e nella mia città, eppure il suo sa- pore è impercettibilmente diverso.

Una bambina viene verso di me portando fiori

Un simile evento mi stupisce tanto nella città che esiste altrove quanto mi avrebbe stupito nella mia città. Non so che genere di fiori stia tenendo in mano la bambina. Co- munque viene verso di me sorridente, con le trecce ai capelli, un vestitino rosso e verde. Nella mia città avrebbe sicura- mente indossato un vestitino giallo e avrebbe portato fiori diversi. Quando è a meno di due metri da me mi chino, sorriden- do; lei aumenta la velocità della corsa (una velocità diversa da quella che avrebbe tenuto nella mia città, un’andatura in-

373 dubbiamente più sostenuta), mi supera col suo bellissimo sorriso da bambina e gli occhi pieni e grandi delle bambine e mi supera ancora, se tale fatto è fisicamente possibile, come se adesso procedesse al rallentatore. Mi volto; vedo che si getta tra le braccia di un uomo che nella mia città non potrei essere io, ma che in questa città che esiste altrove forse avrei potuto esserlo; i fiori sono in terra, sul porfido consumato in egual misura in questa città e nella mia città, e l’uomo che non potrei essere io prende in braccio la bambina come si prenderebbe in braccio una bambina nella mia città. Riman- go a guardare l’uomo e la bambina che si allontanano; i fiori sono in terra, non li raccolgo.

Questioni climatiche

Nella città che esiste altrove è una bellissima giornata di sole non dissimile da una qualunque bellissima giornata di sole che potrebbe capitare nella mia città. Eppure in questa particolare giornata, oggi, questa bellissima giornata di sole è una bellissima giornata di sole diversa da una qualunque bel- lissima giornata di sole che potrebbe capitare nella mia città. Se paragonassi le ombre degli edifici, delle persone, alla stessa ora in questa città e nella mia città, riuscirei a dimo- strare che le ombre delle persone sono più lunghe di qualche centimetro in questa città rispetto alle ombre delle persone nella mia città. Il sole filtra tra i cornicioni di due palazzi in modo trasversalmente disuguale. Non è soltanto una que- stione di punti di vista, bensì anche qualcosa di più, più pro- fondo, ma non saprei dire cosa.

Persone che aspettano altre persone

374 Nella città che esiste altrove le persone aspettano altre persone con un atteggiamento più propositivo rispetto alle persone che aspettano altre persone nella mia città. Guarda- no l’orologio, fumano, discorrono con altri passanti, si ripa- rano dal sole sfruttando le rientranze dei palazzi o cercando di ottenere il massimo vantaggio dalle pensiline degli auto- bus. Mi sono quasi convinto che aspettare una persona in centro città, nella città che esiste altrove, sia quasi un’esperienza piacevole, a differenza della mia città, dove aspettare qualcuno anche per pochi minuti è una vera rottu- ra.

Scaraventarsi di sotto dal cavalcavia dell’autostrada

Camminando sulle rive del fiume, a poca distanza dall’autostrada: una figura indistinta passeggia sul cavalcavia; la saluto, e lei risponde al mio saluto (cosa che non avrebbe fatto nella mia città); il sole è ancora abbastanza alto, in un modo che potrei definire simile ma non uguale al modo in cui il sole è abbastanza alto nella mia città (quando nella mia città il sole è abbastanza alto); la figura indistinta si ferma, annusa l’aria; è un annusare tipico di questa città che esiste altrove; la figura indistinta si leva le scarpe, sale sul guard-rail; ci so- no altre persone che passeggiano lì vicino; comincio a intuire qualcosa sulle intenzioni della figura indistinta; nessuna delle persone che passeggiano a poca distanza si avvicina alla figu- ra indistinta in piedi sul guard-rail scalza; perché nessuno fa niente? Che razza di città è una città in cui nessuno fa un passo per salvare la vita di un’altra persona? Non saluto più la figura indistinta; il mio respiro è affannoso come potrebbe esserlo soltanto nella mia città; mi sbraccio; la figura indistin- ta mi saluta; mi sbraccio con maggiore insistenza; la figura indistinta si scaraventa di sotto, sull’autostrada (perfettamen- te uguale sia nella città che esiste altrove sia nella mia città). Si odono frenate di automobili, ma sono frenate meno con- vinte e decise delle frenate che si potrebbero udire nella mia

375 città in un simile contesto; non sono frenate isteriche e di- sperate, sono frenate abitudinali. Mi sforzo di produrre la- crime per scoprire se anche le mie lacrime risultano lacrime di densità diversa in questa città rispetto a quelle della mia città. Comincio a piangere, e anche le mie lacrime rimbalza- no sul terreno (indubbiamente dotato di maggiori proprietà elastiche rispetto a quello della mia città) come piccole biglie impazzite; rimbalzano, rimbalzano, e si dirigono verso luo- ghi misteriosi, in direzione dell'imperscrutabile, dell'ignoto, mentre le osservo in silenzio.

Incontro con gli angeli

Noto due angeli avvicinarsi al luogo in cui si è gettata la figura indistinta. Mi avvicino. Nessuno sembra accorgersi di loro. Posso vederli soltan- to io? Sembrerebbe di sì. Buongiorno, dico. Buongiorno a lei, dice l’angelo con la divisa blu. A prima vista hanno fattezze umane. I loro occhi sono occhi umani. Non hanno ali, o io non riesco a vederle. Qual è il vostro compito, qui? Domando. Gli angeli sono interdetti. Intendo con il cadavere del suicida. Prelevate la sua ani- ma, lo benedite, robe così? Constatiamo, dice l’angelo con la divisa blu. L’altro angelo sta annotando qualcosa su un taccuino dal- la copertina rossa. Constatate? Domando io. Precisamente, risponde l’angelo che sta scrivendo sul tac- cuino. E cosa constatate?

376 Questo, dice l’angelo con la divisa verde indicandomi il ca- davere. Fatto, dice l’angelo che stava scrivendo sul taccuino. Arrivederci, mi dice l’altro angelo. Tutto qui? Domando io. Il compito degli angeli è quello di constatare quello che succede agli uomini? Solo le cose sgradevoli, dice l’angelo con la divisa blu. E quelle gradevoli? Domando io. Non c’è bisogno di constatarle, risponde l’angelo in divi- sa verde. Dunque la constatazione di cose sgradevoli fa parte del vostro lavoro? Domando. No, risponde l’altro angelo lasciando un biglietto da visita sul corpo del suicida, la constatazione di cose sgradevoli è precisamente il nostro lavoro.

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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (10) ______

Quando Tjutcev Olexej Petrovic, licenziato dal Ministero Sui- cidi & Festività ® di Sabbione perché una giovane vedova l’aveva sedotto ottenendo protezione dopo che le era stata pronosticata una clausola 99, tornò nella sua casa al 37 di Via della Settima Bolgia, si sentì relegato nei profondi abissi della città come mai gli era capitato. Appoggiò il cappotto sulla poltrona in soggiorno e sedutosi di fronte alla finestra meditò a lungo e profondamente. Tjutcev Olexej Petrovic esercitava il mestiere di verificatore: per diciannove anni, da quando era emigrato dalla Russia con la ormai ex-moglie sabbionassa, sulla sua scrivania, ogni lunedì mattina, aveva trovato una busta gialla col timbro del Ministero Suicidi & Festività ® di Sabbione contenente il dossier dei candidati suicidi ® della settimana. Ma ora si sentiva perduto, defraudato, il suo cuore s’era fatto duro, la sua pelle grinzosa; ripensava mordicchiandosi le unghie all’ultimo caso da lui sventato, la tentata frode di tre vecchi nascosti in un gerocomio abusivo che favoreggiava le morti natu- rali. Aveva un ufficetto sul lato sud-est del Palazzo Ottagonale, a sette piani e tre facciate dal Reparto Notifica Clausole 99, dove si recava ogni sabato mattina per il rapporto periodico ai superiori e da dove osservava la passeggiata settimanale del Gerarca per le vie del centro; tutti i sabati, per quasi vent’anni, aveva osservato la stessa fastidiosa scena: un’automobile ferma a bordo strada atten- deva col motore acceso, in seguito le automobili si facevano più numerose, così come la folla dei curiosi, le guardie del corpo, i fo- tografi, i giornalisti. Poi, come un improvviso disturbo intestinale, dall’angolo tra Piazza Acheronte e il Gran Viale de’ Gerarchi ve- deva apparire la sagoma del Gerarca, quasi sempre vestito di scu- ro, saldamente impugnando il falliforme bastone Gerarcale nella mano destra, passeggiando sul ciottolato che conduce a Piazza del Minotauro, dove alla folla era consentito d’accedere per salutare il Gran Politico; e allora era tutto un turbinio di voci e di pellicce d’ermellino, visone e volpe, di capelli rosso fuoco e di svenimenti femminili; i barbazzali d’argento e le fibbie dorate rimandavano

378 bagliori che investivano di un’aura maestosa perfino i membri dei servizi Gerarc ali. Da verificatore Tjutcev Olexej Petrovic aveva ricevuto molti onori, e molti ancora avrebbe potuto riceverne; co- nosceva il manuale meglio di chiunque altro e amava il suo lavoro, aveva imparato perfettamente la lingua della gente e il linguaggio rude dei verificatori, tanto che nessuno avrebbe potuto dire che fosse un forestiero. Era solito partecipare a tutti i party dell’Associazione, dove in compagnia dei colleghi e di splendide fanciulle noleggiate dall’Ufficio si beveva Château Lafite del ’27 e si mangiavano uova di storione, paté de fois gras, funghi porcini e tartufi grossi come pompelmi. E adesso l’orrore! L’insondabile vuoto, l’orrida solitudine. Il volto già si deturpava, simile a una tovaglia raggrinzita, i capelli, finora scuri e possenti, cominciavano a diradarsi: ecco la vecchiaia! A soli quarantacinque anni! La sua stanza, di solito illuminata dal riflesso del lampione in strada, giaceva ora nel buio completo. Pensò che forse, dopotutto, fosse giunto il momento per la sua clausola 99, spettacolare e scenografica, una di quelle che sarebbe- ro restate a lungo nella memoria degli ex colleghi. Si recò all’Ufficio di Divinazione più vicino a casa e si rivolse al divinatore in modo implorante. “Non c’è nulla che io possa fare”, gli disse il divinatore. “Il volo degli uccelli è propizio, le interiora non mo- strano alcun avvenimento tragico, persino l’oroscopo le è favore- vole, e come lei saprà benissimo l’Autoeliminazione Preventiva senza una divinazione che la supporti è totalmente contraria alla legge”. La domanda ch’egli aveva preventivamente inoltrato al Reparto Cause Eleggibili di Suicidio ® fu respinta con una breve nota espli- cativa: nessuna causa eleggibile, nessuna motivazione plausibile, siamo per- tanto impossibilitati ad accogliere la sua richiesta . Tjutcev Olexej Petrovic tornò a casa e pensò che tutto gli gira- va contro, dannatamente, maledettamente, ecceteramente. Tutti i suoi progetti erano falliti, i suoi pensieri sconvolti; sedette a con- templare la città e una forza sconosciuta lo serrò sulla poltrona mentre leggeva uno dei suoi amati libri gialli. Di getto compose una poesia e attaccò il foglio al frigorifero, come gli capitava di fare per la lista della spesa.

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Io sono lo sconosciuto, il baro morto da sempre e mai risorto, sono il granello di sabbia, il nero che tallona la sciagura del parto.

Io prego nell’orto di Nessuno fra schiocchi di merli e frusci di serpi e brucio come l’erba nei prati che il vento dissecca in estate.

Io sono il re del tredicesimo, l’annegato, il trombettista sulla nave dei pazzi che invoca la tempesta e uccide il grido

delle sirene. Si potrebbe anche dire: io fei giubbetto a me de le mie case per beffare chi volle che io fossi.

Fu ritrovato due giorni dopo in fondo al ponte Federico II, sul fiume Atanor, suicidatosi per l’impossibilità di suicidarsi ®.

Il caso fu affidato all’Ispettore di Nettezza Umana Claudio Kess, il quale dopo alcune ore d’indagine accertò che, sebbene fosse chiaramente abusivo, il suicida non faceva parte della mal- famata cricca cui il Dipartimento stava dando una caccia spietata. Si trattava invece di un poveraccio individualista come capitava di trovarne di tanto in tanto. Il cadavere di Petrovic, martoriato, gonfio, sbocconcellato dai pesci e bruciato dal sole, fu rimosso da una squadra di Nettezza Umana attrezzata per il Rassettamento delle Aree Ambientalmente Protette, la quale sterilizzò le pietre ove giaceva il cadavere e rila- sciò alcune gocce di Deodorante-Iperconcentrato-Per-Acque- Dolci nel fiume. Poiché non si trattava di un affiliato al Circolo dei Suicidi Abu- sivi e non aveva avuto alcuna relazione col Monaco Arancione, il

380 caso fu chiuso e il suicida abusivo poté essere denigrato secondo la legge tradizionale: la sua anima fu decretata immonda e impri- gionata nell’Antinferno dei Suicidi Abusivi mediante cerimonia so- lenne e pubblica, mentre il suo corpo fu dato in pasto ai maiali dell’allevamento Kubika, di Castrocozzo, dove una piccola folla di esaltati religiosi trascorse il tempo del pasto segnandosi, pregando e scandendo formule che supponevano validi sbarramenti al pote- re oscuro di Satana. ***

381 RICOSTRUZIONE DIALOGICA DELLA VICENDA ESISTENZIALE DI UN VECCHIO DECREPITO ANTIRELIGIOSO

Ufficialmente Bruegel è un vecchio decrepito antireligioso con un bavaglino al collo che dice “ LE RELIGIONI MI HANNO PRIVATO DEI DIRITTI UMANI ”. Da quando quelli dell’Associazione Geron- tofili me l’hanno assegnato, tre mesi e mezzo fa, nell’ambito del programma Supporta un Vecchio! , sta a casa mia, porta un basco in testa e piscia in continuazione. “Devi smetterla di pisciarti addos- so”, dico spesso a Bruegel, ma non mi ascolta mai. Durante quella primavera pensai di comprargli un catetere, ma rifiutò, così gli comprai due rollerblades e glieli apposi al posto delle vecchie, inu- tili, gambe. Mangiammo. “Se ti comporti bene ti porto a guardare le gru”, dissi. Stavo preparando una cena a base di pollo al curry e cardamomo. “Fanculo le gru!”, urlò Bruegel. “Voglio andare al parco a guardare le donne”. Molte delle amiche del forum vogliadi- gravidanza.org mi compativano per la scelta di tenere quel vecchio decrepito antireligioso in casa, ma altre comprendevano le mie ra- gioni. Iniziai a elaborare un programma delle attività, cercando di ap- profondire quelle che potevano galvanizzare e appassionare un vecchio decrepito. “C’è un nuovo cantiere molto interessante in centro. Costrui- scono un grande monumento ai caduti”, dissi a Bruegel. “Fottiti. Non voglio vedere quegli stupidi lavori, voglio peccare”, disse lui. Voleva peccare; era il solo modo che gli era rimasto per protestare contro le religioni. Lo portai al Geko, dove le cameriere sono ca- rine e non si sono mai visti bambini nel raggio di un chilometro. Appoggiai Bruegel sul bancone e ordinai il pranzo. “Fammi tocca- re il culo”, disse Bruegel a una delle cameriere. Mi presi una ra- manzina e la cameriera rifiutò di portarci il pasticcio di pollo in salsa piccante. “Sporca negra”, mormorò Bruegel. “Devi imparare a comportarti”, dissi. Mi scusai con la cameriera e le recitai un so- 382 netto di Agrippa d’Aubigné; la giovane fu molto felice e ci portò il nostro pasticcio di pollo. “Ah se ci fossero ancora le donne dei miei tempi”, sospirò Bruegel. “Ma sono tutte morte. Le ho seppel- lite dalla prima all’ultima, quelle battone”. Ordinammo un martini e un brandy. “Non esagerare con l’alcol”, dissi. “Lasciami bere in pace. Questa settimana mi sono sbronzato solo due volte”, disse Bruegel. “Carino il vecchio decrepito”, disse una cameriera con una minigonna di jeans, “ma sarà lungo un metro”. “Un metro scarso”, dissi. “Da dove spunta fuori?”, mi domandò la cameriera. “Diciamo che l’ho trovato nella spazzatura”. “Ultimamente nella spazzatura di Sabbione si trovano cose interessanti”, fece lei, e ci portò un paio di drink, birra per me e cognac invecchiato trent’anni per Bruegel. Il vecchio bevve il suo cognac con gusto e pisciò tutto quasi istantaneamente. “Sono stufo di questo posto. Voglio andare al parco a guardare le donne”, disse con aria annoiata. Non me ne curai e presi a conversare con la cameriera. “Sto cercando di sur- rogare un deficit personale. È una storia complessa”, le dissi. Ave- va un buon profumo e un tatuaggio che ricordava uno scheletro. “Smettila di importunare le cameriere negre e portami al parco”, disse Bruegel. Lo feci stare zitto infilandogli il bavaglino su per la bocca e continuai la chiacchierata. Do circa un quarto d’ora tolsi il bavaglino dalla bocca di Bruegel e uscimmo dal locale. “Porca femmina schifosa!”, mi urlò in faccia Bruegel. Ci ero abituata. “Ti porto al parco”, dissi, “anche se comprendi quanto la cosa mi faccia soffrire”. “Impossibile comprendere le ragioni di una femmina nevrotica”, sentenziò Bruegel. Salimmo in macchina. “Dove diavolo stai andando? Devi prendere la statale 14, svoltare di fronte al monumento ai caduti e superare San Giovanni il Precursore”, disse Bruegel. “Preferisco prendere la statale 9, girare prima del monumento ai caduti e co- steggiare San Teodosio l’Uticense”, dissi io. “Ma così l’allunghi, razza di idiota. E col traffico del pomeriggio siamo spacciati”, si lamentò. “San Teodosio l’Uticense”, dissi. “San Giovanni il Pre- cursore, Cristo! L’avrò fatta un milione di volte. C’era una ragazza, si chiamava Giulia. Un culo fantastico. Bazzicava dalle parti del parco e per qualche tempo ce la spassammo; portava una gonnel-

383 lina a fiori e i capelli sciolti, come piacciono a me. Era una batto- na”. Girammo l’angolo e ci trovammo di fronte una selva di mo- numenti ai caduti. “Cosa diavolo è questa merda?”, domandò Bruegel. “Questo è il quartiere dei monumenti”, dissi. Stavano costruendo un monu- mento davvero imponente. Enorme. Il monumento ai caduti più grande che avessi mai visto. Numerosi vecchi si accalcavano alle transenne del cantiere. Uomini muscolosi con caschi di sicurezza gialli sullo sfondo del cielo blu. Enormi blocchi di marmo latteo sullo sfondo della terra bruna. Superlative autogru dorate sullo sfondo verde di una pubblicità. “Buongiorno lavoratore”, dissi a uno dei lavoratori, un tipo davvero carino coi capelli castani e un fondoschiena niente male. “Fanculo”, disse Bruegel. Gli ficcai il bavaglino in bocca e non me ne curai troppo. “Il mio nome non è lavoratore ”, disse il lavora- tore. “Mi dispiace, io...”. “Mi chiamo Kirk”, disse. “Buongiorno, Kirk”, dissi. “Cos’è quell’affare che porta con sé?”, mi domandò. “Una specie di essere umano”, dissi. “Curioso”, disse Kirk, “l’avevo scambiato per un animale”. “Cosa state costruendo?”, domandai. “Un monumento ai caduti della Missione di Pace in Ke- babistan”, disse. “ Missione di Pace? ”. “Sì; ha presente quando uno stato sovrano intraprende un conflitto armato nei confronti di un altro stato sovrano al fine di costruire e mantenere la pace?”. “Cioè, in pratica, una guerra”, dissi. “Due anni fa l’appellativo guer- ra fu giudicato desueto e sostituito con un appellativo più fresco, più guizzante, più...come dire, armonioso”, disse Kirk. Moltissimi vecchi faticavano a tenere la posizione eretta con lo sguardo acquoso, il cappello da vecchio, le braccia dietro alla schiena, il dorso della mano destra all’interno del palmo della ma- no sinistra. “E quanti caduti abbiamo patito durante la guerra in Kebabistan?”, domandai. “Vuole dire durante la Missione di Pace in Kebabistan?”, disse Kirk piccato. Mi scusai prontamente, imputando l’errore alla sbadataggine. “Per il momento uno solo”, disse Kirk. “Per il momento?”. “Forse potrà sembrare strano”, disse Kirk, “ma ci sono missioni

384 di pace che continuano anche quando al telegiornale trattano di Kim Kardashian”. “Di chi?”, domandai. “Non ha importanza”, disse Kirk. “Il concetto è che ci sono guerre che continuano anche dopo che abbiamo spento la televi- sione. Al di là della nostra comprensione”. “Guerre ?”, domandai. “Intendevo dire Missioni di Pace”, disse Kirk imbarazzato. “Questi continui mutamenti di linguaggio ogni tanto possono confondere”. I martelli grigi martello si stagliavano sullo sfondo di pantaloni beige pantalone. “E costruiamo un monumento ai cadu- ti per un singolo caduto?”, domandai. “Che cosa consiglia di fare, ucciderne qualcun altro? Non è un bel momento per l’industria delle commemorazioni. Prenda per esempio il monumento alla Missione di Pace in Vietnam. Lo vede? È quello laggiù, tra il mo- numento ai caduti delle Termopili e il monumento ai caduti di Addis Abeba. Versa in uno stato pietoso”. “Anche in Vietnam fu una missione di pace?”, domandai. “Ma è naturale. Il nuovo appel- lativo ha validità retroattiva. Pertanto, potrà notare alla sua destra uno dei monumenti ai caduti più imponenti, quello per i caduti della seconda Missione di Pace mondiale”. “Fanculo voi e la vostra pace di merda”, disse Bruegel liberan- dosi dalla morsa del bavaglino. Glielo rificcai subito in fondo alla gola. “Parla anche?”, domandò Kirk. “Solo ogni tanto, ma non va- le la pena di ascoltarlo”, risposi. “Avrei giurato di avergli sentito uscire delle parole da quella specie di bocca”, disse Kirk. Poi ordi- nò ad altri operai di far sloggiare la colonia di vecchi. “Vi danno molto fastidio?”, domandai. “Dovrebbero vergognarsi di essere ancora vivi”, disse uno degli operai. Qualcuno tra i vecchi abboz- zò una protesta. “Che fastidio vi diamo?”, domandò. “Non fac- ciamo niente di male”. “Sì, ma siete vivi”, disse Kirk, “e rappre- sentate tutto ciò che di pusillanime, pavido e meschino esiste al mondo. I vostri nomi avrebbero dovuto essere iscritti sulla faccia- ta di uno di questi monumenti, vigliacchi fottuti. Tornate nei vo- stri nosocomi a succhiare caramelle alla menta e a sterminare ani- mali liofilizzati che non riuscirete comunque a digerire”. I vecchi furono fatti sgomberare in fila per due. “Ben detto”, dissi, “allora buon lavoro, Kirk, buon lavoro, lavoratori, buon lavoro, buon la-

385 voro! Che l’unico caduto della Missione di Pace in Kebabistan venga commemorato dai cittadini di Sabbione in eterno!”. Tolsi il bavaglino a Bruegel e lo portai al parco. Anche se il parco mi faceva soffrire terribilmente. “Finalmente il parco”, disse Bruegel. “Mi sento di peccare dav- vero molto bene, al parco. Potrei bestemmiare un po’, mastur- barmi guardando una bambina o incendiare uno di quei ridicoli chioschi. Sarebbero peccati notevoli”, disse. Incontrammo gente. Soprattutto giovani madri che portavano a spasso i soliti bambini, di cui è infestato il mondo. “Che carino, cos’è?”, chiese una madre indicando Bruegel, che pattinava chino appoggiandosi al suo bastone. “È un vecchio de- crepito antireligioso”. “Avrei giurato che fosse un nano mongo- loide sui pattini”, disse la madre. “Ehi, sembra proprio un nano mongoloide!”, disse un vigile. “Ma no, avrei stragiurato che fosse un cavolfiore bollito con il basco sul cappuccio”, intervenne un’altra madre. “Invece è un vecchio decrepito antireligioso”, dis- si. “Vuole dire che è un uomo?”, disse un’ennesima madre (il par- co di Sabbione è popolato da un numero sproporzionato di ma- dri). “Più o meno”, risposi. Si stupirono e chiesero una dimostra- zione. Non avevano mai visto prima un vecchio decrepito antire- ligioso lungo un metro scarso che pattinava al parco sbavando die- tro alle giovani madri. Volevano conoscere la storia di Bruegel. “Saremmo molto curiose di conoscere la vicenda esistenziale di un vecchio decrepito antireligioso”, disse una delle madri. “Siete delle battone!”, urlò Bruegel, e cominciò a raccontare la sua vicenda esi- stenziale. Disse che da giovane gli era stato assegnato un incarico. “Un fottuto, prestigioso incarico”, disse. Le madri lo ascoltavano attentamente. Ci eravamo seduti su una panchina accanto al chio- sco quattordici, che vendeva giornali e pannocchie arrostite. “Venne un cardinale e mi chiese di partecipare a una missione per la quale ero la persona più indicata. Accettai. Convissi con un luri- do ebreo in uno scantinato di Castrocozzo per sette mesi. Quel fottuto cagava e scoreggiava in continuazione, era insopportabile. Di notte russava. Ci fecero aprire un’attività; era una copertura. Vendevamo chiodi, bulloni, brugole, viti. Mi fecero leggere docu- menti riservati. Dopo qualche mese tornò il cardinale e disse che

386 non se ne faceva più nulla. Missione annullata, disse. Tenetevi pu- re l’attività, disse. Era una specie di risarcimento. Se vi fosse capi- tato di convivere con un ebreo polacco per cinque mesi capireste che nessun risarcimento può pareggiare la tortura subita. Comun- que mandammo avanti l’attività per qualche tempo. Quell’ashkenazita ammorbante rubava i soldi dalla cassa, pregava di nascosto nel retrobottega, festeggiava feste ignobili. Mi maledi- ceva. Si sistemò in un alloggio di fianco al negozio, vicino al mio scantinato. Copulò con una strega russa mussulmana. Comincia- rono ad avvelenarmi; mettevano acidi e veleni nella mia minestra, sui miei vestiti, utilizzarono raggi x di tecnologia americana; mi prudeva dappertutto, avevo eritemi ed eczemi, l’herpes zoster, un’infiammazione intestinale e il colon distrutto. Il Mossad mi te- neva d’occhio. Anche i servizi segreti vaticani. Soprattutto loro. Fecero venire alcune persone per accendere luce e gas in mia as- senza. Volevano farmi pagare bollette sempre più alte. Volevano costringermi a cedere la mia parte di attività”, disse. “Incredibile, gli crescono ancora i capelli!”, esclamò una delle madri. “Non in- terrompete, stupide femmine!”, urlò Bruegel. Gli dissi di calmarsi e mi mandò al diavolo. “Avevo un incarico terribile e attraente. Quelli del Mossad cominciarono a ronzarmi attorno. Poi il porco ebreo e la sua stregaccia installarono un altoparlante sul tetto del condominio. Cominciarono con le loro litanie islamiche. Quel porco di un ebreo si convertì all’islam. Fornicatore di religioni, si- moniaco, come tutti i suoi simili. Vendette la sua religione per una strega. Tentarono di avvelenarmi altre volte. M’infilai questo car- tello al collo. Quel cane bastardo che mi trovò nella spazzatura me lo tolse per mettermi un bavaglino, ma ci feci ricamare la stessa frase sopra. Chiesi asilo politico in Tunisia. Anche i Gerarchisti intervennero e me lo fecero negare. Questi mezzi negri comunque erano in combutta con loro. Lasciai il mio scantinato e l’attività all’ebreo islamico. Mi trasferii, ma mi fecero pedinare. Telefona- vano nel cuore della notte, settanta volte in una notte. Fecero tra- slocare una parrucchiera di Benevagienna sul mio pianerottolo e cominciarono le fatture, i malefici: il mio corpo cominciò a ritirar- si. Ero alto un metro e ottantacinque”, disse. “E io che pensavo fosse un nano mongoloide!”, disse una madre. “Avrei scommesso

387 che fosse un comunista”, disse il proprietario del chiosco. “È ora di andare”, dissi a Bruegel. “Fermati, voglio vedere il culo delle madri”, disse lui. Guardò il culo di tutte le madri mentre se ne an- davano spingendo i passeggini. C’era tra gli alberi una sensazione di distacco, come di germogli fioriti. “I germogli di questi alberi fanno una puzza tremenda!”, esclamò la donna dello zucchero fi- lato. “Guardiamole il culo!”, disse Bruegel. “Vuoi dello zucchero filato?”, chiesi. “No. Voglio una caramella da succhiare”, rispose. Gli comprai una caramella e la succhiò; era completamente privo di denti. Tornammo al Geko. “Buongiorno ma cherie, un vodka tonic?”, disse una cameriera. “Un vodka tonic, ma cherie”, risposi. “Per me un rhum invecchiato vent’anni”, disse Bruegel. Ci servi- rono i drink. “Questa brodaglia non è rhum invecchiato vent’anni, lurida sgualdrina”, protestò Bruegel. Gli ficcai il bavaglino in boc- ca e bevetti il mio vodka tonic colloquiando con le cameriere e al- cuni avventori del locale. Il Geko è un posto piacevole, ha luci basse e il clima è sempre caldo. C’è un ottimo pasticcio di pollo con salsa piccante, ma quel giorno ordinai un’insalata di patate con rosmarino e cipolle. Per Bruegel ordinai un omogeneizzato. Notai che stava diventando cianotico. Gli tolsi il bavaglino. “Lurida gal- lina ammuffita!”, urlò. “Voglio andare al parco a guardare le don- ne”. Lo misi di fronte al quadro dell’ammiraglio Nelson, nell’angolo del locale. “Non voglio parlare con l’ammiraglio Nel- son, voglio Giordano Bruno. Ho le palle piene dell’ammiraglio Nelson”, si lamentò. Lo misi di fronte al quadro di Giordano Bruno, nell’altro angolo del locale. Cominciò a parlare. “Era un ex ebreo islamico maritato a una russa mussulmana, lo capisce? Quel porco polacco. Mi avvelenava. Le autorità religiose mi hanno reso la vita un inferno. Mi rinchiusero in uno scantinato ad aspettare ordini. Ero al corrente di certi documenti segretissimi. Mi privaro- no di ogni diritto umano”. Entrarono molte persone e Bruegel cominciò a manifestare segni d’irrequietezza, così lo accompagnai fuori. “Voglio andare al parco”, disse Bruegel. “Ti porterò a vedere le gru”, gli dissi. “Non voglio vedere quel- le stramaledette gru”, disse lui. Andammo a guardare le gru. Erano delle gru molto alte. Quat- tro o cinque vecchi ammiravano i lavori dal marciapiede, con le

388 solite mani conserte dietro la schiena. Parlavano di com’era la città un tempo. “Anche Leonardo da Vinci disegnò una gru”, dissi. “Chissene- frega”, rispose Bruegel. “Voglio andare al parco a guardare i culi delle donne”. “Questo sarà un grande palazzo!”, disse uno dei vecchi. “Un meraviglioso palazzo”, disse un altro vecchio. “Non le interessano le gru?”, chiese un vecchio a Bruegel. “Oh no. Lui è un vecchio decrepito antireligioso accompagnato da una donna mentre aspet- ta di guardare i culi delle ragazze. È una testa intronata in spazi ventosi che pattina sui suoi rollerblade”, dissi. “Guarda questi culi rinsecchiti”, disse Bruegel, “è la prova del successo del Vaticano e del Mossad. Hanno irrorato con scie chimiche ogni città del mon- do e il risultato è questo. Smart Dust e morbo di Morgellons, ecco cosa fanno. Vogliamo parlare dell’ HAARP ? O di Echelon?”. “Perché non puoi semplicemente guardare le gru come fanno i tuoi coetanei?”, chiesi. “Sei un’oca rancida infeconda e repressa!”, mi urlò. Andammo a farci un bicchierino da Stock House. Anche Stock House è un buon posto. Pulito e illuminato bene, come de- vono essere i posti buoni, con la targa vietato l’ingresso a cani e bambi- ni attaccata alla porta d’ingresso. “Che cos’è, un cavolfiore con un basco?”, chiese la barista. Si chiamava Joustine. “È un vecchio de- crepito antireligioso”, risposi, e gli cacciai il bavaglino in bocca prima che potesse parlare. “Pensa che il vaticano e Dio stesso stiano complottando contro di lui”, dissi. “Che storia affascinan- te”, disse lei. Le dissi che in un mondo ricolmo di marmocchi smerdazzanti l’unico modo di sopravvivere per una donna single con seri problemi di sterilità era quello di accompagnarsi a un vec- chio decrepito moribondo e scoglionato da tutto, e le recitai un sonetto di Gérard de Nerval. Ne fu molto felice e mi preparò una tequila sunsrise davvero ottima. “È davvero molto vecchio”, disse. “Non è né giovane né vecchio, è come se dormisse dopo pranzo sognando di entrambe le età”, risposi. Non colse la raffinatezza dell’asserzione. “Mi è stato affidato, per così dire”, dissi. “Che te- nero, un vecchio cavolfiore antireligioso con un basco. Davvero una storia commovente”, disse Joustine. “E i pattini?”. “Un’idea che mi ha dato il vecchio Nagg”, dissi. “Ma ai suoi moncherini ho

389 preferito i pattini. Per l’autosufficienza del vecchio”. Bruegel co- minciò a manifestare sintomi di soffocamento; gli tolsi il bavagli- no. “Sei una cagna col culo guasto”, disse. “La sua è una storia struggente”, disse Joustine a Bruegel. “Fammi vedere il culo”, or- dinò Bruegel garbatamente. La barista mostrò il sedere. C’era da ammettere che aveva un gran bel culo. “Voglio peccare! Voglio immensamente peccare!”, urlò Bruegel. Le vene del collo comin- ciarono a pulsare. “Assomiglia anche a un peperone”, disse la ra- gazza. “In effetti ha qualcosa del peperone”, confermai. Versò dello sherry. “Offre la casa”, disse. “Vacci piano vecchio”, dissi. “Lasciami bere in pace. E che cristo, questa settimana mi sono sbronzato solo due volte”, rispose Bruegel. “È davvero grazioso”, disse Joustine, “starebbe bene sul mio comodino. Farei morire d’invidia tutte le mie amiche”. “Mi prudeva dappertutto”, disse Bruegel tracannando il suo sherry, “girai mezza Europa col mio cartello ma nessuno mi diede retta. Respinsero tutte le mie denunce. Bastardi clericali”. “Gli cre- scono ancora le unghie?”, chiese la barista. “Anche i peli”, risposi. “Ma è meraviglioso”, disse lei. “Beh credo che sia ora di andare”, dissi. Bruegel bevve anche il mio sherry. “Buongiorno allora!”, esclamò Joustine. “Buongiorno barista!”, esclamai. “Buongiorno vecchio decrepito!”, esclamò ancora lei. Ci recammo alla biblioteca nazionale, dove due studenti incon- trati in un bar avevano chiesto il permesso di intervistare Bruegel. “Che magnifico esemplare di vecchio”, disse la studentessa. “E cammina?”, chiese lo studente. “Pattina”, risposi. “Quelli sono pattini?”, chiese la studentessa. “Precisamente”. Bruegel utilizzò un tono di voce forbito. “Possiamo accendere il registratore?”, chiese la studentessa. Accesero il registratore. “La parrucchiera. Quella battona. Era in combutta con le suore. Erano carmelitane scalze, o brigidine; mi costrinsero a ricevere le loro vi- site. Volevano insegnarmi una nuova preghiera. Streghe. Ancelle dell’Incarnazione, teatine dell’Immacolata concezione, tutte stre- ghe. Ho le prove mediche che mi avvelenarono trentasette volte. Mi apparvero in sogno e mi costrinsero a sognare la decapitazione di Giovanni Battista per sette mesi di fila; poi fu la volta dell’orto del Getsemani. Mi costringevano a sognarlo. Avevano fumi e va-

390 pori venefici. Acido fenico che mi procurava ustioni e piaghe”. La biblioteca nazionale ha un gran numero di volumi ed è famosa in tutto il mondo per l’odore di muffa. Uscii per fumare. Anche Bruegel volle fumare; mi opposi. “Dammi una sigaretta, brutta scopa secca!”, urlò Bruegel. Lo feci fumare. “Molto interessante il suo approccio sociale”, disse la studentessa. “E tu fammi vedere il filo del perizoma che ti esce dai jeans”, disse Bruegel. La studen- tessa acconsentì, brevemente. “E per quanto riguarda l’aspetto, come dire, antropologico del- la faccenda”, disse lo studente, “ritiene che il peccare sia uno strumento di protesta nei confronti delle autorità religiose?”. “C’è puzza di cadavere”, rispose Bruegel. “Sono i libri a puzzare. Tutta questa carta sprecata. Questo qui è un vero imbecille”. “Si è mai sposato?”, chiese la studentessa. Bruegel pretese un’altra occhiata fugace al cinturino del perizo- ma. “La notte che incontrai Olga piovve tanto che quattro soldati strafatti di anfetamine annegarono. Dopo la pioggia camminam- mo a lungo per strade sconosciute e giungemmo alla spiaggia all’alba”, disse Bruegel, e si mise a piangere. “Non avrei mai detto che potesse piangere!”, esclamò lo studente. “Sono lacrime vere, quelle?”. “Più che altro sono umori”, risposi. “Mi sospesero a sette metri d’altezza in una cattedrale buia”, disse Bruegel. “Dev’essere stato terribile”, disse la studentessa. Bruegel pretese di scrutare il cordoncino del perizoma fucsia della ragazza dodici volte. L’intervista durò un’ora e fu noiosissima. “Fottuti studenti senza palle. Sono noiosi come la morte”, fu la definizione di Bruegel. “Il mondo è noioso”, dissi io. “Il mondo si divide in due: quelli che pur potendo non cede- rebbero il proprio dolore neppure al loro peggior nemico, e di questi fai parte tu; e quelli che potendo cederebbero il proprio do- lore anche al loro miglior amico, e di questi faccio parte io”, disse Bruegel.

391 Ce ne andammo alla Casa del Caffè di Piazza delle Dominazio- ni perché eravamo assetati. Bruegel ordinò un brandy. “Heilà Ju- liette, per me un caffè corretto grappa e un pastis”, dissi. Ci sbronzammo. “Con questa fanno tre”, dissi a Bruegel, che non si reggeva in piedi. Lo portai a casa in braccio come un feto. Era lungo un metro scarso e non mi costò grande fatica. Nel tragitto pisciò due o tre volte. Le mie amiche del forum Vogliadigravidan- za.org dissero che il mio comportamento era terribile, irresponsa- bile, sciagurato, impietoso. Dissero che stavo approfittando di un povero vecchio il cui unico desiderio avrebbe dovuto essere quello di trovare un suicidio dignitoso. Mi consigliarono, quasi mi prega- rono, di restituirlo, o quantomeno di portarlo nel cassonetto sotto casa. Il cassonetto era confortevole, plastica verde infiammabile ma resistente al freddo; si trovava in un vicolo cieco all’angolo del palazzo. “Non è un brutto posto”, dissi a Bruegel, “e prende il so- le tutto il giorno”. Nel vicolo c’era una sorta di euforia, un’aridità che dava il senso dell’abbandono, o della rinascita. “Ti porterò gin e vodka tre volte la settimana, potrai sbronzarti e pisciare quanto vorrai. Anche ripetutamente”, dissi. “C’è puzza di ciclamini e vio- lette”, disse Bruegel, “ma non è davvero malaccio”. “Potrai be- stemmiare anche di notte”, dissi. “Quella stupida troia cattolica della tua vicina non strillerà più quando bestemmierò di notte?”, chiese Bruegel. “Mai più”, dissi. “E ti porterò al parco una volta al mese”. Seguì un bel silenzio privo di significato. “Dio è dappertut- to?”, chiese. “Può darsi”, risposi, “ma non lo sapremo mai”. “Ma qui non verrà, vero?”, chiese. “Ti assicuro di no”, risposi. “L’ho fregato, quel porco!”, esclamò Bruegel trionfante. Sembrò appa- gato. Il camion della nettezza urbana non sarebbe passato fino a mercoledì. Mi chiese da fumare. “Sei una sgualdrinella inconclu- dente lesbica e anorgasmica”, disse accendendosi la sigaretta. Eravamo felici.

392 IL GRANDE RE FETICCIO GRFGMR

Vigilia dell’ultima rappresentazione. L’ultima rappresentazione si tiene a Sabbione, in Sabbionasso. La rappresentazione in ogget- to è la riduzione teatrale di una soap opera celebre in tutto il mondo. Il pubblico è in attesa spasmodica. I sabbionassi vanno matti per le soap opera. Nuvole all’orizzonte. Il sole scalda ancora le quinte dietro al palco in Piazza San Bertran de Born. L’intera compagnia dell’Arcicoso compie i riti scaramantici pre- rappresentazione. Sono presenti tutti. Walter Sturm, interprete di , un uomo ex-affascinantissimo-oggi-quasi- pensionato alto uno e novanta per 120 chili, tiene banco. Per esempio, disse, potreste rappresentarmi, mentalmente s’intende, come un Grande Re Feticcio. Un po’ di subbuglio. In pratica co- me un essere da onorare e venerare? Chiese Robert, interprete di Thorne Forrester. Una punta lieve d’ironia. Precisamente, rispose il Grande Re Feticcio. Portarono i bicchieri di plastica per il brin- disi benaugurale. Imbarazzo. Cos’è questa merda? Chiese il Grande Re Feticcio. Sono bicchieri, rispose Tom, interprete di Clarke Garrison. Impossibile, disse il Grande Re Feticcio. È asso- lutamente impossibile, non accetterò mai di bere in bicchieri di plastica. Non dettero peso alle parole del Grande Re Feticcio e versarono lo spumante nei bicchieri di plastica. Fermi! Urlò il grf. Si fermarono. Un grande re feticcio deve bere in bicchieri di cri- stallo. Come minimo. Disse. Tu non sei un grande re feticcio, dis- se Flòd, interprete di Steve Logan. Sei un vecchio bacucco di dubbia fama e di altrettanto dubbio successo. Il grf trasalì note- volmente e impugnando una metaforica sciabola la fece roteare nel vuoto, minacciosamente. Davvero notevole, disse Sonia, in- terprete di Taylor Hayes. Le fece eco Cloe, interprete di Stephanie Forrester, notevolmente abbruttita e invecchiata per interpretare la parte ma in realtà un gran bel tocco di femmina. Adesso po- 393 tremmo brindare? Brindarono. Coi bicchieri di plastica. Il grf stet- te immobile in un angolo ad ammirare sdegnato la scena, con le mani ben salde sull’ipotetica elsa dell’ipotetica scimitarra, o scia- bola. Questo è davvero troppo, pensò in quel difficile momento. Si passò alla benaugurante consegna dei doni. Numerosi oggetti e pacchi vagarono qua e là per le quinte, passando di mano in ma- no; sembravano felici. Sonia regalò oggetti esplicitamente erotici a buona parte dei membri della compagnia e un grande cappello Stetson al grf. Altro momento di lieve imbarazzo. Cos’è questa storia? Chiese il grf. Com’è che a me non hai regalato un oggetto esplicitamente erotico? Andiamo, rispose Sonia, un vecchio d’una certa importanza come te dovrebbe desiderare un dono più con- facente alla sua persona. Risate diffuse. Il grf si turbò inverosi- milmente e la sua ira non tardò a manifestarsi. Senza manifestare apertamente, almeno in un primo momento, il suo enorme disap- punto, corse da una parte imbufalito. Come prima cosa distrusse tutti i bicchieri di plastica con la sola forza del suo pugno, alcuni sfracellandoli altri schiacciandoli tra le mani, così, come fossero bicchieri di plastica. Poi si diresse verso le bottiglie di spumante e le distrusse con grandi calci. Squartò manichini e bambocci, strappò le budella pagliericce di uno spaventapasseri e frantumò tre sedie, quattro scale, due scenografie di compensato, un telefo- no cellulare, un sacco di sabbia e molti altri oggetti. Gettò a terra il cappello Stetson e gli saltò sopra con una tale violenza che tutta la scenografia già approntata tremò. E insomma, disse il grf, dav- vero non male per un vecchio attore. Sonia era piuttosto ammira- ta. Robert, che aveva tentato di fermarlo, subì un’allegorica scia- bolata sulla fronte, tanto che zampillò sangue paradigmatico da insozzare i reali vestiti dei membri della compagnia. Proprio quando sembrava che si fosse calmato, che l’ira fosse diminuita, il grf prese un tacchino per il collo e lo stritolò, scagliando la testa insozzata di fango e sangue addosso a un tecnico delle luci. Fatto questo ripose la simbolica spada nell’immaginaria custodia, rice- vette una supposta coppa di vino rosso da un eventuale servitore e bevve allegramente. Non mi pare un gran vino, disse il grf. È un vino cileno annata ’99, rispose l’ipotetico servitore, il migliore. So- lo i grandi re feticci, se ce ne fossero altri, e non ce ne sono, pos-

394 sono giudicare la qualità di un vino. La migliore annata dei vini rossi cileni è stata indubbiamente il duemilauno, e questo è certo, poiché solo un grande re feticcio potrebbe contraddire il giudizio d’un altro grande re feticcio, ma poiché io sono il solo grande re feticcio, è naturale che il mio giudizio sia insindacabile. Tom andò a pisciare. Facevano tutti un gran baccano, quasi senza degnare d’uno sguardo il grf. Ora di sedersi a tavola: il grf siede a capota- vola, giacché è il più vecchio e importante. Dall’altro capo siede Robert, in quanto è il fondatore della compagnia. Le donne sie- dono nei posti centrali, i bambini hanno un piccolo tavolo a parte preparato con ogni bendiddio. Dovrei pronunciare un discorso? Chiese il grf al suo allegorico servitore. Mi sembra un’ottima idea, grf, rispose il servitore (ipotetico). Non ci sarà nessun discorso, disse Robert. Ci abbufferemo, ci sbronzeremo e andremo tutti a letto. Ululati di approvazione da parte dei membri della compa- gnia. Oh ma questo è inammissibile, disse il grf; è assolutamente necessario che il grf proceda con un discorso. Attimi di silenzio. Non potremmo concedergli di fare questo discorso? Domandò Cloe. Brontolii. Un discorsetto potremmo lasciarglielo fare, am- mise Tom. Vocio di pietà nei confronti del grf. Ebbene sia, rispo- se Robert, che era il capo indiscusso della compagnia, nonché il fondatore. Un discorso mi pare opportuno in questa circostanza, confermò il vecchio Alfred, interprete di . Detto questo attaccò con il discorso. Un grande re feticcio ha il dovere di comunicare ai propri sudditi ciò che è stato fatto. Segue un grande discorso del grf. Orbene eccomi, con voialtri, e già questo dovrebbe riempirvi d’un certo irrepresso orgoglio, sulla sessantina o forse più, coi reumatismi e una casa in affitto, impenetrabile muro d’ovvietà, bronzea figura imponente e barbuta scolpita sulla gualdrappa d’un mezzo sangue (coi chiodi nelle unghie, e il sangue e il sudore e lo sperma e tutto il resto, feci comprese, affetti dalla malattia vi- ta: ed oggi, ancor più, odo come fosse un cinguettio fitto da orec- chia a orecchia il clangore del martello di Cristo il balbuziente, per cui uccisi). Eccomi a lambire lentamente i contorni di una vecchia che fu mia moglie e a bramare senza tregua una morte artistica, che sia vera morte, dipinto da Munch e Bruegel mentre rincorro

395 galline australiane di fine ‘900 per condurle in guerra. Poi, un giorno, rinchiusi in una soffitta buia tutti gli altri feticci per sfidar- li al gioco e divertirmi un po’. Così, sono cose che si fanno tra fe- ticci. Quella stessa notte osservai il campanile della chiesa cadere giù in un fottio cadere giù in un boato cadere giù e basta. Insom- ma c’erano tutti questi feticci, amuleti, dei, simulacri, idoli. Li guardai mentre agonizzavano, a pane e acqua, e me ne compiac- qui. Gli tolsi anche il pane e l’acqua e tutti i discepoli. Il primo a desistere fu un bafometto, un cazzillo alto una quindicina di cen- timetri e notevolmente meno importante di me, seguito in rapida successione da un simbolo totemico d’accertata omosessualità e dunque sterile, un cristo crocifisso e dunque inutilizzabile e una specie di testa antropomorfa di cui non ricordo l’origine. M’intrattenni amabilmente con Kali, feticcio d’oscurità e violenza, Kokuzhan, simbolo d’abbondanza, un Buddha d’oro che per la mole imperiosa del ventre resistette al digiuno più degli altri, e un tale feticcio brasiliano che non serviva a niente, e non avendo niente da fare o da dire diventò fonte inesauribile d’ispirazione per tutti noi. Il grf si ferma per tossire. Chiede all’immaginario servitore un’immaginaria coppa di vino. Gli viene dato un vero bicchiere di plastica contenente vino rosso. Il grf lo getta via schi- fato. Potremmo cominciare ad assaggiare le tartine, disse Tom. Finisco! Urlò il grf. È per questo che oggi voi siete qui, per cele- brare il grande re feticcio dei grandi re feticci. Non uno qualun- que, badate bene, ma il solo e unico re feticcio. Si fermò. Come sono andato? Domandò con impazienza. Davvero un gran bel ragionamento, grf, disse l’ipotetico e immaginario servitore. Sono stupita e ammirata, disse Cloe. Ma cosa significava la seconda parte del discorso? Domandò garbatamente. Davvero un discorso del cazzo, disse Robert. Il grf si alzò in piedi e cominciò a debor- dare in ogni dove, rovesciando piatti e bicchieri. Rovesciò tredici piatti fondi, quindici piatti piani, sette bottiglie di vino rosso, tre di vino bianco, nove vasetti di mostarda, quattro taglieri di for- maggio, tutto il miele, quasi tutta la senape. Gettò all’aria i tova- glioli, la tovaglia, i cappelli. Hai finito? Domandò Robert. Quasi, rispose il grf. È avanzata della senape? Domandò Tom cercando d’addentare l’agnello sambucano cotto al sangue. Il grf a questo

396 punto si alzò e si fece largo tra i membri della compagnia per cer- care una dimensione più consona alla sua posizione sociale e in- tellettiva. Dove stai andando? Gli chiese Robert. Cercherò una dimensione più consona alla mia posizione sociale, rispose il grf. Vocio e rumore di posate e piatti, che furono portati nuovamente sulla tavola. Il grf ha raggiunto con grande fatica la cima d’una pi- la di ventinove sedie e si è appollaiato sull’ultima, in precario equilibrio, tenendo in scacco tutti dalla sua nuova posizione so- ciale. Dovremmo fare qualcosa, disse Mike, interprete di Con- stantine Parros. Il grf osserva la scena dall’alto. Urla frasi di note- vole spessore, ancorché il significato risulti piuttosto oscuro. Ma essi sono, tu dici, come i sacerdoti del dio vino che andavano di terra in terra nella notte sacra. Dobbiamo fare qualcosa, disse Sonia. Robert, fai qualcosa. Un po’ di silenzio mentre il grf grugnisce. Sempre Robert, disse Ro- bert. Quando c’è da sporcarsi le mani chiamano sempre Robert. Perché non Tom? O Mike? O Emmet? Oppure, ancor meglio, il tecnico delle luci, laggiù. Robert non muoverà un dito stavolta. Segue una fitta discussione tra Sonia e Mike, preoccupati per il grf, ex Walter Sturm. Hai qualche idea? Nessuna. Qualcosa da dire? Niente. Cos’è questo rumore sfrigolante dalla finestra? L’insegna del bar? È questo noioso sfarfallio notturno a darmi sui nervi. Smetti di parlare. Smettila subito. Sono solo una bambina, in fondo. Coi capelli raccolti in un foulard. E il ventre piatto. Non oso ascoltarti ancora. Non oso pronunciare il suo nome senza che il cuore vada in frantumi.

397 L’amore, mia cara, l’amore. Hai qualche idea adesso? Nessuna. E niente che possa dire, o fare. Nemmeno una parola. Non hai qualche parola per me? Come puoi vivere senza un cuore e aspettare che ricresca? Non fare finta di niente, so tutto. Hai qualche idea? Neppure l’ombra.

Il grf osserva la situazione dall’alto. Scendi! Gli urlano. Non scende. Joff, interprete di Dominick Marone, gli si avvicinò, ini- ziando ad accatastare sedie di plastica. Quando la catasta raggiun- se la stessa altezza di quella del grf si arrampicò sulla sua fila di sedie accatastate e disse: vedi? Chiunque può essere un grande re feticcio sul suo trono di ventinove sedie di plastica. Ira del grf. Ghigno diabolico. Sbuffi. Tu non sei niente, disse il grf. Tu sei solo uno che vorrebbe sembrare un Grande Re Feticcio, mentre in realtà sei solo un rozzo emulatore, un seguace come tutti, un eponimo . Silenzio totale. Parole fittizie bisbigliate dal servitore del grf. Ehm, grf, forse volevi dire un epigono . Imperiosa ira del grf. Calcio alla fila di sedie su cui poggia Joff, crollo del poveraccio al suolo. È questo il modo in cui finisce il mondo, tuonò il grf, non già con un piagnisteo ma con uno schianto. Fragorosa risata del grf. E adesso, se qualcuno desidera conferire col grande re fetic- cio, prego, chieda udienza al mio servitore e vedrò se acconten- tarlo, disse il grf. Cloe si fece avanti. Chiese udienza all’ipotetico servitore e il grf la concesse. Mi trovi attraente? Domandò il grf. Abbastanza, rispose Cloe. Eppure tu hai un gran bel culo, disse il grf. Io sì, certo, ma si stava parlando di te. In quanto grande re feticcio io sono al di sopra dell’attrazione, disse il grf. Io sono ciò che più d’ogni altra cosa una donna potrebbe desiderare. E anche oltre. Troppo oltre. Ma sei stato tu a chiedermi se ti trovassi at- traente, disse Cloe. Impossibile, rispose il grf. Un grande re fetic- cio non chiede, ottiene. Silenzio. Robert, sono preoccupata, disse Cloe. Andiamo nella mia stanza, disse Robert. È un’ottima idea,

398 rispose Cloe. Detto questo uscirono e andarono nella stanza di Robert, probabilmente a fornicare. Fatelo scendere da lì, disse Robert agli altri membri della compagnia. Mormorio. Così mentre lui se la spassa con la donna noi dobbiamo fare scendere questo vecchio bacucco da una pila di ventinove sedie di plastica? Chiese Emmet. Blaterio del grf. Chiamiamo i pompieri, suggerì Sondra, interprete di . Grande clamore. Quando arrivarono i pompieri il grf se ne stava impettito sul suo ipotetico trono, im- pugnando un metafisico scettro nella mano destra col capo ab- bassato che non riusciva a sostenere tutto il peso di un’allegorica corona d’oro tempestata di diamanti, rubini e smeraldi. Che cosa abbiamo qui? Chiese il capo pompiere. Non vuole più scendere da lassù, disse Tom. Sono in una dimensione consona alla mia importanza, disse il grf. Scala, disse il capo pompiere. Una lunga scala da pompieri fu trasportata nel retroscena. Cosa state tentan- do di fare? Chiese il grf. Non ho alcuna intenzione di abbandona- re il mio trono. Riponete immediatamente quella scala. Clamore diffuso. Non possiamo costringere un uomo a scendere da una pila di ventinove sedie di plastica contro la sua volontà, disse il capo pompiere. Non un uomo, disse il grf, ma un grande re fetic- cio, simulacro tra gli altri di tutti i pompieri, i vigili urbani, i poli- ziotti, gli agenti di nettezza umana, i verificatori di primo secondo e terzo livello, i carabinieri, gli ausiliari del traffico, le guardie fo- restali, i finanzieri, i marines e qualcuno tra i parà. Perché solo qualcuno? Domandò un pompiere. Alcuni parà onorano e vene- rano un mezzo feticcio di bassa tacca che ho già abbondantemen- te superato in importanza decenni fa, ma, siccome questi soldati hanno una testa dura come il cemento, non vogliono smettere di venerare lui in mio favore. Ne ho già fatti schiantare al suolo più di trentamila. Eppure niente. È difficile convincerli, disse il grf. Impressionante, disse Sondra. Non sapevo che un mezzo attore da teatro di serie b avesse questi poteri, disse Mike. Cosa volete sapere voi, razza di infime creature di quart’ordine? Disse il grf. Voi non sapete niente. La vostra intelligenza è limitata, così come la vostra capacità di apprendimento. I pompieri abbandonarono le quinte. Subbuglio. Ritorno coreografico di Robert. È ancora lassù? Che noia. Adesso basta Walter, disse Robert. Hai stancato

399 un po’ tutti. Mezzo discorso del grf: dopo aver annientato tutti i feticci di questo mondo e di molti altri m’innamorai di una giova- ne donna di Heidelberg. L’amore fu così grande e terribile che la poverina cedette e la follia la ghermì. Le porto ancora mazzi di giacinti alla casa di cura. Ogni anno il quattordici settembre. Scendi da quella dannata pila di sedie di plastica, idiota, esclamò Robert. Voi senza di me cosa sareste? Io vi ho generato, vi ho plasmato, vi ho dato una professione e un futuro. Adesso non rompetemi i coglioni, disse il grf. È un comportamento increscio- so, disse Sonia. Che modi di fare, aggiunse Sondra. Com’è che qui tutti usano un linguaggio volgare e quando lo faccio io vi scanda- lizzate? Forse perché da un grande re feticcio ci aspetteremmo un linguaggio più forbito, disse Sonia. Esatto, disse il grf, ma anche il grf perde la pazienza, e il grf si è rotto i coglioni. Tuoni metaforici nel cielo spastico di Sabbione. Fulmini e lampi (metaforici). Piog- gia di fuoco metaforica. Robert sprona le donne a convincere il grf. Cloe, Sondra e Sonia tentano di convincere il grf. Avanti grf, scendi da quella pila di sedie di plastica, disse Sondra. Solo se mi garantisci che potrò succhiarti l’alluce, disse il grf. Questo lo ve- dremo, disse Sondra. Potrai massaggiarmi i piedi, disse Cloe. E io li massaggerò a te, disse Sonia. Sussulto del grf. Probabile erezio- ne. Fu allora che il grf, in preda a furiosi quanto incontrollabili istinti, fece per scendere dal suo trono, ma fu persuaso a non scendere da un ipotetico ministro. Si tolse la cintura e si legò un polso al bracciolo del supposto trono. Voglio succhiare l’alluce di Sondra, massaggiare i piedi di Cloe e farmi massaggiare i miei da Sonia, gridò il grf. Devo assolutamente slegarmi, pensò. Mettia- mola così, disse il grf a tutto lo stuolo immaginario di allegorici sudditi che, ipoteticamente, lo circondavano, se mi lascerete scendere vi aumenterò la razione di beveraggio. Che cosa bevete? Silenzio. Rum? Ve ne darò il triplo. Gin? Quattro volte. Vino? Otto volte. Vi farò mangiare nei miei piatti dorati e vi farò fare un giro sulla mia nuova Porsche turbo. Silenzio. Non sopporto il trambusto, disse il grf, ma questo è davvero troppo. Se non mi slegate immediatamente annullerò seduta stante ogni razione di cibo e alcol. Sotto di lui, le tre donne confabulano animatamente.

400 Non è assolutamente corretto promettere una scopata al grf in cambio della sua discesa. È una questione etica. Beh potremmo davvero fargliele palpare un po’. Che ci costa in fondo? Una palpatina qua e là. Io ho un fidanzato. Non lo verrà mai a sapere. Eccetera. Decisione repentina. Se scenderai, grf, potrai scegliere una di noi per una serata in compagnia, disse Sondra. E come si svolgerà questa serata, chiese il grf tirando la cinghia di pelle nera legata molto stretta al bracciolo della sedia. Questo è da stabilire, disse Cloe. Comunque non sarà una cosa molto casta, aggiunse Sonia. Il grf sbatacchia violentemente il bracciolo della sedia. Non re- sisto, non resisto! La cintura di pelle nera tiene. Sbuffi e ululati del grf. Bestemmie imperiose. Dietro le quinte arriva Klaus, figlio mongoloide del Produttore Liddel. Il grf distrugge il bracciolo della sedia e si scaraventa a terra, dalle donne. Eccomi, disse, scelgo tutte e tre. Palpeggiamenti. Non qui, disse Sonia, c’è il pic- colo Klaus, che ha venticinque anni. Furore del grf. Da dove spunti fuori tu? Chiese il grf al piccolo mongoloide. Non dovresti essere a letto a quest’ora? Volevo fare il mio discorso benaugura- le, disse Klaus. Più tardi, rispose il grf seccato, ora siamo impe- gnati non lo vedi? Sbalordimento. Per la miseria grf, ti sembra il modo di trattare il figlio del nostro Produttore? Disse Sondra. È un mongoloide, rispose il grf, non lo vedete? Tu hai avuto il tuo discorso, rispose Cloe, ed è giusto che lui abbia il suo. Giungono i membri della compagnia. Robert si siede. Il grf si siede. Tutti si siedono intorno al piccolo Klaus. Lui comincia col suo discorso. Mi chiamano ritardato. Eppure credo di essere sempre stato cortese con quelli della compagnia e anche a scuola davvero non si possono lamentare visto che anche l’altro giorno il mio maestro mi ha fatto i complimenti per la puntigliosità e la produttività ec- cetera eccetera perché sì io ci tengo a queste cose mi sveglio an-

401 che un’ora prima per arrivare puntuale a scuola perché io sono fatto così mi piace fare le cose per bene e un’altra cosa che mi piace è dire la verità e magari qualche piccola bugia la tengo per certe situazioni quando non puoi proprio farne a meno come quel- la volta che Caterina Gigli mi mise una mano nella camicia e io le dissi di non farlo perché avevo una mezza cotta per Eleonora Bassi e allora lei andò a dire a tutti che ero un bambino mongo- loide disse che ero brutto e rachitico e minorato mentale e lo dis- se davvero l’ho sentita con le mie orecchie e disse anche che io e il figlio del benzinaio avevamo una tresca solo perché andavamo insieme su al vecchio santuario a guardare le stelle e quando c’era un temporale lui mi teneva la mano adoro i temporali con i lampi e i tuoni da piccolo la mamma mi lasciava entrare nel suo letto quando c’era un temporale è una bella donna la mamma e spesso quando si sente sola perché papà è uscito viene nella mia stanza a carezzarmi qualche volta le sfioro i capezzoli e la guardo nuda ha un buon odore mia madre una volta credo anche di aver avuto un’erezione anche se lei non voleva e si arrabbiò ma insomma ho venticinque anni ormai e non credo più alle favolette a babbo na- tale all’uomo nero a gesù bambino e a dirla tutta non credo più neppure alla mamma quando dice che chi bestemmia va all’inferno perché bestemmiare è un peccato e chi commette mol- ti peccati va all’inferno ma allora dico io quanti peccati abbiamo commesso noialtri prima di venire al mondo? Silenzio tombale. Grf a braccia conserte. Sono stupita e abbagliata, disse Cloe. Incredibilmente stupita, aggiunse Sondra. Questo è un discorso, disse Sonia. Ma è stata una cagata pazzesca, disse il grf. Sei solo invidioso, disse Sondra. Anche bilioso, direi, disse Robert. Le donne prendono Klaus per mano e lo conducono da qual- che parte. Il grf è davvero seccato. Adirato. Robert cosa mi suc- cede, chiese il grf. Sei invecchiato Walter, disse Robert. Ancora con questa storia della vecchiaia, disse il grf. Si mise da parte e cominciò a ingollare di tutto. Nell’ordine ingollò dodici cicchetti di whisky, nove cicchetti di vodka, sei di succo di pomodoro

402 condito, quattro di rum scuro, tre di porto rosso e quattro di por- to bianco, tredici di amaro, quattro di acquavite, sei di cointreau, nove di pastis. Al settimo cicchetto di blu curacao si fermò. Sem- bro così vecchio? Chiese. Non c’era più nessuno. Si arrampicò per la pila di ventinove sedie di plastica e si addormentò sul suo scettro, mentre alcuni metaforici negri sventagliavano immagina- rie foglie di palma affinché il grf potesse godere dei benefici della frescura e passare una notte dignitosa e degna del suo esclusivo grado sociale.

Giorno fatto. Grandi fanfare, baccano. Sabbione si sveglia con una grande festa da celebrare e la processione per la clausola 99 del suo Gerarca. Odore di cavalli. I cavalieri si allenano nell’enorme piazza. Rumore di galoppo, urla, bestemmie, impre- cazioni, incitamento. Sole piccolo e già caldo, cielo blu elettrico, nessuna nuvola, ventisette gradi centigradi già al mattino presto, umidità accettabile. Che posto di merda, pensò il grf. Sotto di lui un viavai di tecnici, uomini, donne, animali. Tac- chini tenuti al guinzaglio, figuranti per la parata con costumi dan- teschi. Eccetera eccetera. Monologo del grf, rivolto a una figurata platea di spettatori. Ancora questa tortura…perché questa croce? Lasciatemi in pace! Ma dove sono i miei soldati? Dove sono gli uomini, dove le forze della natura? Dov’è il soffio di follia che ci permise di sottrarci al- la vita? Oh che omerico tedio, che fumosa uggia iconoclasta. Vi dedico questi cocci inesistenti, voi inesistenti, voi macchie dipinte su di un buio dipinto, che il vento non scuote. Il mio pregiudizio è la vostra negazione, le temp perdu de ma jeunesse. E tu, noia, mia principessa ipocrita, attorciglia i tuoi fili nelle orecchie spor- che della notte e scordati di me! Non ci posso credere, disse Robert, sei di nuovo lassù. Che, dovrei lasciare il mio trono? Disse il grf. Non ricominciare eh, disse Robert. Ricomincio, disse il grf. Dove sono le rondini? Chiese il grf. Stanno accucciate nei nidi? Stanno preparando per me la loro soave danza crepuscolare? Quanta compagnia mi han- no fatto. Non ci sono più rondini, rispose Robert. Oh autunno,

403 oh foglie vizze, oh rami spezzati, oh giovenca zoccoli all’aria, oh prostitute, contadine, infermiere eccetera eccetera, siate le mie rondini! Arrivarono i membri della compagnia. Tra due ore c’è la prova generale, disse Mike. Chi Interpreterà Ridge? Chiese Cloe. Chi al- tri potrebbe interpretare il ruolo del protagonista se non un gran- de re feticcio? Disse il grf. Scendi immediatamente, intimò Ro- bert. A meno che non vogliate sostituirmi con un piccolo suddito mongoloide, disse il grf. È sempre stato molto permaloso, disse Sondra. Chi ha fatto il discorso migliore, il grf o il psm? Imbaraz- zo. Non è che Klaus abbia fatto un discorso migliore del tuo, dis- se Mike, è che era più, come dire, più sentito. Cosa mi tocca sen- tire, disse il grf. In effetti Mike non ha tutti i torti, disse Cloe. Il tuo discorso faceva schifo, disse Robert. Quello di Klaus era mol- to poetico, disse Sondra. Molto dignitoso, direi, disse Sonia. Vici- no a tutti, aggiunse Tom. Nell’ordine dissero altre peculiarità del discorso di Klaus. Struggente. Immaginifico. Pietoso. Denso. Conciso. Folcloristico. Armonioso. Geniale. Talentuoso. La cosa più incredibile che abbia mai ascoltato. La cosa più forte che abbia mai ascoltato dopo i monologhi di Shakespeare. Meglio del discorso d’insediamento dell’ultimo Gerarca. Notevolmente migliore. Notevole. È così che la pensate? Chiese il grf. È così, rispose Robert per tutti. E allora portate qui il piccolo suddito mongoloide e vi farò vedere io. È una sfida in piena regola. Prima ci sarà una cerimo- nia. Donne in lungo e uomini in tight. Se il piccolo suddito mon-

404 goloide avrà la meglio sul grande re feticcio, il che è assolutamen- te e naturalmente impossibile, allora forse scenderò dal mio trono e reciterò con voi, pezzenti e sudditi, in questa commediola da quattro soldi. Stupore generale. Vuoi davvero sfidare Klaus? Chiese Robert. Naturalmente, ri- spose il grf. È imbarazzante, disse Tom. E a cosa lo sfideresti? Chiese Robert. Ars dialettica, Robert, ars dialettica. Silenzio. Qualcuno va a prendere Klaus. Arriva Klaus. Allora vogliamo cominciare, disse Robert. Prima la cerimonia, disse il grf. Vocio di sottofondo. Ferma, disse Cloe, non si può cominciare né la ceri- monia né la sfida senza il parere di un esperto. Un esperto? Chie- se il grf. Insomma, uno che sappia trattare coi mongoloidi. C’è un comitato che se ne occupa, disse Mike. Un’associazione per gente ritardata. Cosa sono queste cazzate? Chiese il grf. Fai presto a parlare tu, disse Mike, ma c’è gente che soffre. Acclamazione ge- nerale. Mi sembra davvero una cazzata, disse il grf. Fecero venire il presidente dell’associazione ritardati di Sabbione, un uomo tut- to di un pezzo in prima linea nei confronti dell’abbattimento delle barriere architettoniche, nella cura dei mongoloidi e nell’assistenza ai ritardati. Questo non è iscritto alla nostra asso- ciazione, disse il presidente dell’Associazione Ritardati Sabbionas- si, per me potete farne ciò che volete. Stupore. Questo è parlare, disse il grf. Allora possiamo cominciare? Domandò il grf. Ma lei non dovrebbe difendere i diritti di tutti i ritardati? Chiese Cloe seccata. Io curo gli interessi degli iscritti all’Associazione Ritardati Sabbionassi, quasi milleseicento iscritti. La tessera costa settanta- cinque euro più dodici euro per le spese burocratiche. Se il vostro amico, qui, avesse pagato la tessera, vi impedirei di procedere con questa cosa, disse il presidente, ma poiché esistono altre due as- sociazioni di questo genere, e la concorrenza è forte, non posso assolutamente prendermi cura degli interessi del vostro ragazzo. Provate coi presidenti delle altre due associazioni. Marasma. Si prova con gli altri due presidenti. Niente di fatto. Klaus non è iscritto a nessuna associazione per ritardati. Che diavolo vogliamo cominciare oppure no? Chiese il grf. Non ho tempo da perdere, io. Preparativi per il confronto. Il grande re feticcio siede sulla sua pila di ventinove sedie di plastica indossando un ipotetico tight

405 con tanto di metaforici guanti e cilindro. Nella mano destra im- pugna un apparente bastone. Klaus siede su una sedia di plastica al centro del palchetto dietro le quinte. Intorno a lui prendono posto tutti i membri della compagnia. Poco oltre, su tre sedie di- stinte, siedono tre docenti di filosofia dell’Università di Sabbione, fatti venire per la circostanza.

Il confronto:

Grf – mongoloide! Klaus – eh? Grf – omosessuale represso, pedofilo! Robert – che diavolo stai facendo? Grf – scheletro di ratto! Klaus in silenzio, sempre più cupo. Cloe – smettila immediatamente. Grf – triplice estratto d’infamia, collo di bue! A Klaus scende una lacrima. Primo docente universitario – singolare giunzione metaforica, eppure di geniale matrice. Grf – mascella di porco! Fronte d’arachide! Klaus si rannicchia sul pavimento. Sconcerto generale. Secondo docente universitario – desumo una chiara citazione. Davvero notevole. Grf – occhi di donnola! Orecchia di procione! Klaus, ormai rannicchiato, piange sonoramente. Grf – sperma di divinità, catarro di feticcio usurato, testa di cazzo! Terzo docente universitario – abbiamo un vincitore.

406 Fine del confronto

Portatelo via, disse Robert. Le tre donne più alcuni uomini al- zano Klaus, gli porgono fazzoletti e altri beni di prima necessità. Il grf sogghigna dal suo trono. Sei spregevole, disse Robert. Ho vinto, rispose il grf. Dovrei trascorrere una notte con Cloe o Sondra. Va bene anche Sonia. Neppure da morta, disse Cloe. Ep- pure hai un culo che parla, disse il grf. E mi sembra che stia di- cendo: toccami. Situazione tesa. Si prova a riportare un po’ di calma e saggezza. Potresti farglielo toccare, sto culo, disse Robert. Una palpatina così, tanto per farlo scendere. Non ci penso nep- pure, disse Cloe. Prova con Sondra, mi sembra più bendisposta. Sondra acconsente. Il grf scende dal suo trono e palpa gustosa- mente le chiappe di Sondra. Una mezz’ora buona, anche più. A Sondra non sembra dispiacere troppo. Il grf ha un’enorme ere- zione. E va bene, disse il grf, facciamo sta cosa. Andarono in sce- na.

Primo tempo della rappresentazione

Il grf cambia numerose battute dal copione originale, palpa ri- petutamente il fondoschiena di Cloe che interpreta sua madre. Robert, autore della riduzione, è infastidito e contrariato. Il pub- blico sembra gradire. Il grf è su di giri.

Intervallo della rappresentazione

L’intervallo è noioso. Non vale la pena di commentarlo o rac- contarlo.

Gran finale della rappresentazione

407 La scena cruciale è rappresentata dalla morte di Taylor Hayes, quinta o sesta moglie di Ridge Forrester. Viene condotta in scena Sonia, interprete di Taylor, immobile e agonizzante su di un letto d’ospedale.

Battuta conclusiva di Sonia, interprete di Taylor. Oh Ridge, amore mio, restami accanto fino all’ultimo. Euforia del grf. Erezione. Gran soliloquio imperiale screziato da un’esile vena dialogica. Oh meraviglia, tu sarai il primo passo verso la conquista della vita. Quali occhi vorresti vedere in questo teschio scavato dai vermi del tempo? Sconforto del grf. Rispondi per dio! Il grf si rivolge al suggeritore. Non risponde. Suggerimento del suggeritore. Cristo Walter, è morta! Subbuglio dietro le quinte. Cosa diavolo sta facendo quell’idiota? Chiese Robert. Eccitazione del grf. Entra in scena Thorne Forrester, fratello di Ridge Forrester. Eccolo Thorne! Eccolo! Finalmente lo sento! L’amore! Per lunghi anni è rimasto in attesa, come un fantasma nascosto in una nube. E adesso mi ha colpito con una grande scure, e mi ha river- sato alla deriva d’un torrente invernale. Ira notevolmente sboccata di Robert, interprete di Thorne. Per la puttana Walter, cosa cristo stai dicendo? Stupore del grf. Attie- niti al copione, vacca di una eva, stiamo interpretando una soap opera. Il grf non dà minimamente retta a Robert. Risposta contra- stante del pubblico al soliloquio del grf. Ripresa del dialogo con Taylor. Quanti giorni ci attendono, amore mio! Ci bagneremo nelle acque dei fiumi, la brezza subitanea pizzicherà la pelle, una luna candida al perigeo accoglierà i nostri corpi; imeneo delizioso, soa- vi cori di satiri ubriachi saranno la nostra marcia nuziale e tutti i mondi, le vie lattee, gli universi, svaniranno nei nostri cuori come anelli nell’acqua. Vedo innocenza! Oh sublime tela di nubi e soli

408 mattutini, sfilate come modelle, rendete giustizia a quest’anima gioiosa! Risposta tra i denti Sonia, interprete di Taylor. Sono morta, Walter, non faremo nulla. Parlami, femmina sublime, raccontami ancora del tuo cuore che pulsa nel petto, raccontami i tuoi sorrisi, i tuoi occhi mari- ni…perché non mi parli? Parlami! Risate del pubblico. Collera di Robert. Ancora monologo del grf. Oh Eolo, soffia via i ruderi di questo contrasto! Mi scagli con- tro la tua rabbia, colpisci la mia stanza con fiati che sventrano i muri, vuoi che il mio pigiama vomiti zampilli di fuoco! Ma la tua devastante ira è una brezza d’aprile al cospetto del silenzio di donna; parlami, donna! Ogni tuo muto respiro è una bufera che mi scaraventa a terra, sempre più giù, nel baratro del rifiuto. Od- dio sono quel genere di uomo! Parlami, donna, dimmi che mi de- sideri, finché la notte ci avvolgerà attenderò una tua parola.

Silenzio. Sonia rimane immobile. Suggerimenti del suggeritore. Walter, Sonia non può parlare perché il copione parla di morte per arresto cardiaco in conseguenza a un colpo d’arma da fuoco nei pressi del pancreas.

Dunque mi ha rifiutato. Mi ha rifiutato! Ah patetica gioia che dazio non paghi agli uomini idioti, lascia questo cuore per sempre e feconda i mari dell’odio! Uscita di scena del grf, grandi applausi. Qualche lieve conte- stazione. Sipario.

Dopo la rappresentazione

Il grf si aspetta i complimenti dei membri della compagnia. Ar- rivano alcuni riconoscimenti. Alcune ingiurie. Il grf è indispettito e per protesta sale nuovamente sulla sua pila di ventinove sedie di plastica. Un po’ di fatica ma alla fine guadagna la sua confacente posizione sociale. Sotto di lui, i membri della compagnia brindano

409 alla riuscita della rappresentazione. Timidi tentativi di far scendere il grf. Molti uomini iniziano a smontare le scenografie e le luci. I membri della compagnia vanno a sbronzarsi insieme ai cavalieri e ai figuranti. Il grf resta sulla sua pila di ventinove sedie di plastica discutendo col suo ipotetico lacchè. Sono stato grande, suppon- go, disse. Grandissimo, disse il metaforico lacchè. D’ora in avanti esigo che nel pronunziare il mio nome mi si assegnino i miei at- tributi fondamentali, disse il grf; essi sono: genitivo, metaforico, rinascimentale. Sarà fatto, grfgmr , ubbidì il metaforico lacchè. Ma per quale ragione anziché celebrare la grandezza del grfgmr come suggerirebbe lo svolgimento complessivo degli eventi quel branco di idioti è fuggito? Chiese il grfgmr. Sono solo andati a prendere il vino migliore e i bicchieri di cristallo per onorare meglio il grfgmr, poi tornano, rispose il metafisico lacchè del grfgmr. Ah mi pareva, disse il grfgmr. Intanto potrei restare quassù, sul mio trono, e alterare prepotentemente il mio ego, gonfiarlo a dismisu- ra, mutarlo in quello di mille dei, generare altri due o tre mondi, procacciarmi nuovi seguaci con la sola forza del pensiero, disse il grfgmr. Mi pare un’ottima idea, rispose l’allegorico lacchè. Potrei pompare il mio ego per farlo diventare un enorme pallone così da ricoprire tutta la città, disse il grfgmr. Questa è una citazione? Chiese l’ipotetico lacchè. Bella e buona, rispose il grfgmr. Lo vedi quanto sono bravo nelle citazioni? Ho sempre avuto un debole per queste stronzate. E ho una memoria che solo un grfgmr po- trebbe avere. Silenzio. Il grfgmr tenta di pompare il suo ego a di- smisura. L’ipertrofismo si sente, si tocca. Ma quanto ci mettono? Chiese il grfgmr. Dovete avere pazienza, grfgmr, non è che i bic- chieri di cristallo e il vino migliore si trovino così facilmente. Nu- vole gonfie di pioggia nell’irragionevole cielo di Sabbione. Ira e allucinazioni del grfgmr. Anche a te sembra di vedere spettri af- follarsi al mio cospetto? Chiese il grfgmr al suo metafisico servi- tore. Mi pare di no, grfgmr. Eppure ci sono, continuò il grfgmr, li vedo benissimo. Risentimento del grfgmr. Che mi stia rammol- lendo? Pensò il grfgmr. Ah un tempo. Le mie ginocchia indolen- zite si stiravano e viaggiavano per terre sconosciute, come quando Catone si rivoltò a tutti i Cesari dell’inferno fissando il pallore del- le fronti sudate e vagò nomade nelle steppe aurorali. Ebbene io

410 non finirò spirito in Utica e venerando mucchio di ossa sotto un metro di terra. Tono altezzoso del grfgmr. Io vissi le avventure più eroiche che uomo abbia mai potuto narrare. Della storia vidi l’abisso ignoto, della morale rivoltai i precetti, camminai per anni tra le rovine di città e sospirai alla vi- sta delle forsizie che nel vespro dei vicoli – che dal castello ser- peggiano a valle profumando d’immaginazione il mio mondo. Volli scoprire il senso della vita e l’arte della morale persi in frammenti di pensiero fra prostitute dell’est e antinferni di ignavi danteschi uccisi da tafani demoniaci. Perché mi tormentate? Dove siete, dei, in questo cielo cerebrale? Urlate, dei di ogni cielo e tempo, urlate! Io son stanco di gridare, arse ho le fauci e frusti ho gli occhi in attesa del mio Dio. Non verrà Bernardo da Chiaraval- le per condurmi nella luce dell’infinito. Infinito! Dovrei sputarci sopra. Sputo del grfgmr. E alla natura, quel demone sovversivo e atroce! Due sputi del grfgmr. Il tempo, la storia, l’esistere, verità logore. Ma dove sono il linguaggio, la storia, Urizen & Thiriel, to- tem und taboo, la morale? Dove sono il senso e il tempo, la beaux jeunesse, la religione – das Unendliche? La sapete forse voi, morti? Maledetti morti. Voi non sapete niente, salmacce di terz’ordine, cadaveri di serie b, non sapete com’è fatto il mondo di là e non ricordate com’era questo di qua. Beh, ve lo dico io: è uno schifo. Altro sputo del grfgmr.

Viene notte e il Grande Re Feticcio Genitivo Metaforico Rina- scimentale si addormenta profondamente, precipitando. Tutto in- torno a lui il silenzio di Sabbione, fitto e imperscrutabile, interrot- to dai brevi sollazzi estivi di qualche pazzo. Dubbi onirici del grfgmr. Incubo del grfgmr. Domande sottocutanee del grfgmr, nell’ordine di: Qualcuno in mezzo a quel branco di idioti sarà in grado di portare il vino da me ritenuto il migliore? Sapranno come onorarmi a dovere? I bicchieri di cristallo saranno sufficientemente puliti? E resistenti? Quale parte della mia grandiosa prestazione scenica vorranno sviscerare?

411 Vorranno autografi? Fare delle fotografie con me? Mi applaudiranno o preferiranno urlare a squarciagola il mio nome? Sono stanco. Dovrei telefonare al mio agente affinché non prenda altri lavori per almeno un mese o due? Dopo questa grande serata la mia privacy sarà ancora garanti- ta?

412 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (11) ______

Il venti agosto, durante la Maratona di Mezza Estate Red Bull 15 , Carl E. Gotte, medico chirurgo di quarantacinque anni, duecentouno centimetri e centododici chilogrammi, si lanciò dalla terrazza del suo appartamento al dodicesimo piano di un palazzo con affaccio su Corso Federico II indossando una calzamaglia arancione, e schiantandosi sulla pensilina della fermata dell’autobus 44 barrato terrorizzò a morte un’anziana signora e sconvolse la folla di alunni, genitori e cittadini che era assiepata ai bordi della strada per applaudire il passaggio dei maratoneti.

15 La Caratteristica Maratona Cittadina di Mezza Estate è dedicata agli Aspiranti Suicidi Sportivi: si conclude infatti sotto il Metradòr Building, la più alta costruzione di Sabbione, dopo i canonici quarantadue chilo- metri e centonovantacinque metri, gli ultimi quarantaquattro (metri) cir- ca risultando essere la caduta dalla terrazza-tetto del Metradòr. I primi tre classificati hanno dunque l’onore di Suicidarsi Sportivamente, men- tre tutti gli altri debbono fermarsi in cima al Metradòr e accontentarsi di un suicidio più tradizionale, da espletarsi nei successivi tre mesi secon- do le modalità prescelte dall’Aspirante. La Maratona si svolge solita- mente in concomitanza con la Giornata dell’Affermazione della Virilità Red Bull , il cui bugiardino presenta la seguente chiosa: “Stanco di queste femminucce da quattro soldi che sembrano danzare sul manto bituminoso delle nostre strade, anziché marciare come solda- ti sul campo di battaglia? Ogni cittadino è invitato/tenuto ad affermare la propria virilità in questa giornata in cui dovrete distinguervi proce- dendo in automobile a velocità folli, sgommando e tirando freni a mano sul brecciolino delle piazze, ubriacandovi – ma solo dopo aver dimo- strato una percentuale di alcol nel sangue superiore al tre virgola cinque per cento –, partecipando al Campionato Regionale di Braccio di Ferro, denigrando gli infermi, i gay, i religiosi, indossando scarponi militari, picchiando una donna. Dopo che avrete intrapreso una di queste azioni (o durante) potrete riprendere le forze sgolando una lattina di Red Bull negli stand predisposti in venticinque piazze del Sabbionasso. Potete crederci, affermare la propria virilità, per es. picchiando una donna, specialmente in questi tempi, può risultare davvero stancante”. 413 Il sangue del chirurgo schizzò tanto lontano da imbrattare la vetrina del negozio Luis Vuitton, dall’altro lato della strada, alcuni fluidi e pezzetti del corpo si disseminarono nel raggio di trenta- nove metri, lordando tra l’altro un paio di alunni di quarta ele- mentare, un semaforo, l’asfalto della pubblica via, un lampione, una panchina, una betulla e parte del marciapiede. Il caso fu assegnato all’Ispettore di Nettezza Umana Doroteo Umbilk, il quale, giunto sul posto, per la prima volta da quando svolgeva il proprio lavoro, si sentì svenire e dovette dare fondo alla scorta di whisky di sottomarca in dotazione agli ispettori. Il medico legale disse che la morte era sopraggiunta per la rot- tura del cranio, la fuoriuscita del cervello, dodici emorragie inter- ne, la rottura di quattro arti e della spina dorsale, in aggiunta a un arresto cardiaco. Peraltro il cuore del soggetto, fatto assai curioso, schizzò dalla parte opposta della strada, e fu recuperato dopo al- cuni minuti di ricerca da uno degli agenti accorsi sul posto, che impiegarono più di quattro ore per rassettare la scena del suicidio. La calzamaglia arancione, mezza sbrindellata, era in tutto e per tutto identica a quella indossata dai suicidi abusivi che avevano preceduto il medico chirurgo. In una tasca interna del gilet fu ritrovato il solito cartoncino azzurro riportante il messaggio: troppa sporcizia nei cuori degli uomini. Gloria al Monaco Arancione . Doroteo Umbilk indagò per una settimana nel giro di amicizie di Gotte, cercando indizi che lo potessero condurre al nascondi- glio del Monaco Arancione o all’identità di altri suicidi abusivi. Tentò anche di scoprire le cause che avevano portato il tizio a rifugiarsi nel Circolo. Il chirurgo era sposato, in apparenza felicemente, e aveva due figli: un bambino di tre anni e una bambina di sei. Incredibile, pensò Umbilk, che si possa giungere a tanto. Vo- glio dire, pensò, se un padre di famiglia deve ammazzarsi poiché è la legge che glielo impone, poiché la sua tradizione e la sua mora- lità lo reclamano, poiché gli è stato pronosticato un fallimento, una malattia, un’infelicità, allora posso comprenderlo. Ma così è davvero inconcepibile.

414 Tacque queste riflessioni sul rapporto che presentò al Coman- do. Scrisse invece che, grazie alla sua passione per la crittografia, aveva scoperto nell’agenda del chirurgo numerose cifre, le quali indicavano chiaramente date e luoghi in cui aveva incontrato al- cuni individui citati con le iniziali zf (zf1, zf2, zf3, ecc.), probabil- mente altri membri del Circolo. Quando interrogata, la moglie dichiarò che tutti i lunedì suo marito partecipava a un corso di informatica, di cui fornì l’indirizzo e i nominativi dei responsabili. Questi dichiararono di aver ricevuto la quota d’iscrizione da parte del chirurgo, ma di non averlo mai visto a lezione in nessuno dei dodici lunedì del corso. Le indagini successive non condussero a molto, ma tanto bastò affinché il Comando redigesse una nota di merito all’Ispettore Doroteo Umbilk, il quale trascorse un paio di notti al Burundanga Bar, un famoso locale del centro, dove si sbronzò e andò a letto con una puttana bielorussa.

***

415 SOSPESI

Me ne andai sul set del mio nuovo film per guadagnare i soldi e garantire a me e alla mia famiglia un tenore di vita adeguato. Avevano dipinto le pareti di rosso durante la notte. E predisposto la scenografia con quattro banchi e una cattedra. Anche una car- tina geografica e alcuni disegni alle pareti, poiché ciò di cui vole- vano rendere l’idea era l’aula di una scuola. In cui una professo- ressa fornicava di continuo con gli alunni. C’erano anche delle alunne. Alunne tutte molto bionde, molto porche, molto alunne. Meglio tirarsi un colpo di rivoltella o impiccarsi al ventilatore in stanza da letto? Ma perché causare motivo di imbarazzo alla donna di servizio? Perché tutto quello spargimento di sangue? Meglio l’impiccagione, dove la sporcizia è ridotta al minimo. Co- munque piacevole trovarsi alle dieci di mattina col pene infilato nella vagina di una estone denominata Bambi Love, in un’aula con le pareti rosse. Con grandi cartelli che dicono METTETEVI A NOVANTA e SCENA DI SESSO ANALE SULLA CATTEDRA . E tutta una schiera di tecnici delle luci, del suono, cameramen, truccatori. Vado come un treno, e devo ringraziare gli interventi delle suc- chiatrici professioniste. Ho a disposizione uno stuolo di nove succhiatrici, ma per questo lavoro preferisco affidarmi a Debby. Lei mi fa venire un paio di volte prima di cominciare a girare e io risolvo il mio problemino. È chiaro che Bambi Love è un nome d’arte. D’altronde anch’io ne ho uno, ed è Brad Pittbull. Nel nostro mestiere il no- me d’arte è fondamentale. E se invece mi lanciassi da un ponte? Il Dipartimento Nettez- za Umana ne sarebbe felice. Molto peggio quelli che si lanciano dai palazzi, i cui resti si spappolano sul suolo pubblico e costrin- gono gli agenti della nettezza umana a veri e propri tour de force di pulizia. Del resto preferisco farlo a casa mia, con i miei oggetti, le mie cose.

416 Nella posizione della carriola. Forse potrei uscire a cena con la vicina di casa. La porterei al giapponese per mangiare tutti quei pesci giapponesi guarniti col riso giapponese e per dessert un bel dolce giapponese col liquore giapponese. Sarebbe certamente una serata piacevole. E giapponese. So che lei adora le popolazioni orientali. Con le mani sulle enormi tette di plastica di Bambi Love durante una posizione complicata del Kamasutra. Per colazione avrei avuto voglia di un’ala di pollo arrosto con una mezza dozzi- na di patatine fritte. La cameriera di produzione non aveva un aspetto incoraggiante. “Non abbiamo pollo arrosto per colazio- ne”, disse. Mi sembrò maledettamente scortese non tenere pollo arrosto per colazione. Mi sono adeguato con una tazza di latte in- tero e tre croissant. Bambi Love me lo succhia con voluttuosità, sguardo fisso alla telecamera, mano destra ben salda sui testicoli, mano sinistra a ta- glieggiare i miei pettorali cremosi con quelle unghie laccate di verde e giallo. La mattina che andai all’agenzia divinatoria incontrai un vec- chio amico che mi domandò cosa facessi per vivere. Io gli risposi che in quel momento il mio unico pensiero era rivolto a come avrei fatto a morire. Simpatico, no? Prendendo Bambi Love da dietro, schiaffeggiandole una chiappa con inscenata cattiveria, mentre il regista urla di darci dentro, che cristo, quella è la mia professoressa di francese, e io sono negato per il francese. Gradevole la tonalità di colore che si sprigiona dalle pareti del set quando i tecnici delle luci adottano un’illuminazione soffusa. In fondo un bel colpo di rivoltella sarebbe un metodo rapido e indolore, a quanto dicono. Sebbene il gas, da questo punto di vi- sta, risulti imbattibile. Ti addormenti e pum, semplicemente non ti risvegli. La raccomandata verde-viola diceva:

Caro concittadino, Come certamente saprai, un divinatore pubblico (o un divinatore privato riconosciuto dal Ministero Suicidi & Festività ®), ha formulato un pronostico secondo cui nei prossimi dodici mesi la Tua esistenza sa-

417 rà compromessa da malattia o decesso, oppure sarà giudicata socialmen- te inutile, pleonastica, deleteria. Pertanto, come da Programma Gerarcale Autoeliminazione Esseri Umani, Sei pregato di comunicarci la data e il luogo del Tuo anticipo di morte – come da clausola 99 del Codice Norme Gerarcali –, affin- ché il gabinetto competente possa provvedere a inviare due Verificatori in grado di certificare la validità del Tuo suicidio ®, il quale, Te lo ri- cordiamo, potrà avvenire nel luogo e secondo le modalità da Te scelte (purché convalidate dal Manuale), ma tassativamente entro mesi tre dal ricevimento della presente comunicazione. Buon Suicidio ®, caro concittadino!

Mentre ci spostiamo per la nuova posizione sto seriamente va- lutando l’ipotesi di iscrivermi a un corso di dattilografia. Suppon- go che una buona dattiloscrittura abbia ripercussioni sull’ispirazione. Ma siamo proprio sicuri che una rivoltellata sia indolore ? Chi l’ha fatto non è più tra noi per raccontarcelo, o almeno credo. Con Bambi Love sopra di me. Devo afferrare i suoi seni di plastica, morderle il collo, dimenarmi come un ossesso. Per pran- zo mangerò senz’altro l’ala di pollo negatami a colazione. In al- ternativa potrei dirottare su una milanese di vitello con patate al forno. Sempre che sia bella sottile e croccante, come la cucinava mia madre. Elimino la rivoltella definitivamente, troppo sangue. Sto riva- lutando l’idea dell’impiccagione. Esistono dei corsi che insegnano a causare la rottura del collo anziché il soffocamento. Quest’ultimo, dicono, è davvero pietoso, giacché costringe il cor- po ad agitarsi per tre minuti buoni, prima che sopraggiunga la morte. Il soffocamento è necessariamente da evitare. Sempre meno piacevole dopo un’ora e mezza trovarsi col pene infilato nell’ano di Bambi Love. Credo che sia addirittura infiam- mato. Lei del resto non ha esattamente l’espressione celestiale che dovrebbe avere una professoressa scopata a sangue dal proprio alunno ribelle. Il copione parla di “godere in francese”, e non è facile. Anche se, ci tiene a sottolinearlo, ha fatto le scuole.

418 Sfogliando l’Orario Aggiornato dei Trasporti Urbani in una pausa nelle riprese. Interessante scoprire gli orari dei tram e degli autobus. Il quattordici barrato passa alle 18.03. Il sette delle 18.19 sarebbe perfetto, forse un po’ troppo affollato. Ma nei festivi, senza pendolari, è molto più tranquillo, al contrario del ventinove, che è preferibile nei giorni feriali. E se mi gettassi sotto il quattor- dici barrato delle 18.39? I tram di ultima generazione garantisco- no il suicidio ® con una probabilità che si attesta al novantasette percento. Il cocktail di farmaci mi sembra fuori discussione. Si sta facen- do sempre più piede l’ipotesi di iscriversi al corso di impiccagio- ne. Penetrando violentemente Bambi Love. Ripete la joie venait toujours après la peine e con lo sguardo punta in direzione della tele- camera. Innaffierei l’ala di pollo con un bel bicchiere di vino ros- so. O sarebbe preferibile del vino bianco? Quando Ann Lee mi domandò se avessi desiderato un bambino le risposi che sì, lo avrei desiderato. E quando Ann Lee domandò se desiderassi con- cedere il mio seme in esclusiva al suo utero io risposi di no, poi- ché non avrei potuto garantirle un tenore di vita dignitoso col mio dottorato di ricerca su San Bonaventura da Bagnoregio. Dove appendere il cappio? Insegneranno queste cose al corso di impiccagione? Un ventilatore a soffitto reggerà il mio peso? Oppure dovrò chiamare un fabbro affinché installi un apposito gancio? Mi piacerebbe farla finita in cucina, anche se non è il massimo dell’igiene. Ci sarà qualcuno disposto a comprare il mio appartamento quando saprà che il precedente proprietario si è impiccato in cucina? Nella loro nuova cucina? Non temeranno che lo spettro di un attore pornografico si possa aggirare per le stanze? Grandi cartelli multicolore si stagliano sulle pareti rosse. Dico- no: SFORZO CONCLUSIVO , ESPRESSIONE AFFATICATA , ORGASMO FLUVIALE . In realtà credo sarebbe meglio fare tutto in camera mia, con un po’ di musica. Quando le domandai se avrebbe anco- ra acconsentito a vivere con me Ann Lee rispose che no, non avrebbe acconsentito. E quando la pregai di restare in quell’appartamento dai muri gialli e col pavimento di legno chiaro

419 lei disse: non avrei mai creduto che saresti stato capace di rovi- narci le vite in questo modo. Spingendo come un forsennato nella vagina di Bambi Love. Credo che a pranzo aggiungerò una coscetta di pollo e che stasera andrò a iscrivermi al corso di impiccagione insieme alla vicina di casa, prima di andare al ristorante giapponese. Dopo che effettivamente una bambina nacque – dopo anni di tentativi – Ann Lee volle che io non fossi il suo papà. Il consulen- te ci fece sedere in un salotto e disse: “cercate di ricordare come vi sentivate quando provavate amore l’uno per l’altra”. Non ci riuscimmo. La bambina aveva proprio l’aspetto di una bambina. Ma occhi azzurri e sorriso da bambina bellissima. Qualcuno la chiamò Julie. Io ottenni di vederla tre giorni l’anno, intorno ai primi di novembre. Dissero che dovevo sentirmi privilegiato. Sentendo sopravvenire l’orgasmo. Esco dalla vagina di Bambi Love, la quale sta effettivamente ululando in francese demotico. Me lo prende in mano e prova a spremere tutto quel che ho da offrire. Celebrando la Giornata della Ginnastica Correttiva Ikea: do- vrei applicarmi di più nello svolgimento di alcuni esercizi fisici, ma mi sento svogliato. L’orgasmo è un vero flop. Solo una misera circolazione di sperma dalle parti botuliniche di Bambi. Quando l’andrologo mi domandò se per caso fossi cresciuto in una famiglia oppressa dai rovinosi tabù della civiltà cristiana io risposi di sì, allora lui disse che l’eiaculazione precoce poteva derivare da un senso di colpa atavico in contrapposizione a un piacere sessuale troppo prolun- gato. Adesso potrò finalmente dirigermi alla mensa e concedermi l’ala di pollo? Sul set si sentono le urla e le imprecazioni del regi- sta, mentre Bambi con un accesso di zelanteria cerca di estrarre tutto il seme di cui necessita. Il suicidio abusivo dei Padri: esso è, a prima vista, un atto di estrema vigliaccheria, ma possedere un pene conduce ineluttabil- mente nel tunnel di una responsabilità che l’uomo non è pronto a fronteggiare. Nel mio appartamento luminoso penso al corso d’impiccagione; stendo il bucato ascoltando Simon & Garfunkel a

420 piedi nudi sul mio pavimento di legno. La pioggia mi rende felice, ma non so perché.

421

VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (12) ______

Il ventitré settembre, Giornata della Morte Apparente Pla- smon, il Comando affidò agli ispettori Umbilk e Traumerei il compito di redigere un documento riportante le statistiche percen- tuali sulla prassi dei suicidi abusivi che la città aveva patito durante gli ultimi mesi. Umbilk non aveva mai lavorato con Traumerei, ma l’idea di in- dagare il malessere umano mediante indagini matematiche lo coinvolse subito. Traumerei, al contrario, riteneva che quell’indagine si sarebbe tramutata in una somma perdita di tem- po. Inoltre non gradiva troppo lavorare con colleghi più giovani e attraenti di lui. Ciononostante i due lavorarono insieme per più di due mesi, ri- tagliando articoli e accaparrando materiale video, setacciando gli archivi del Dipartimento e interrogando nuovamente i parenti dei suicidi, al termine del quale riportarono i risultati in un file Power Point corredato da numerose fotografie e meticolosi grafici (l’elaborazione fu curata da un’amica di Umbilk), che palesarono i seguenti dati:

Tra i suicidi abusivi, il settantaquattro percento ha scelto la pre- cipitazione. Di questi, il settantanove percento si è lanciato dalla sommità di un palazzo, il dodici percento da una torre medievale storica, il cinque percento dalla finestra/terrazzo della propria abitazione, il due virgola cinque percento dalla finestra/terrazzo del posto di lavoro, l’uno virgola cinque percento da un ponte. Il settantacinque percento dei precipitati si è lanciato di giorno, il venticinque di notte. Il sessantotto percento dei precipitati si è tolto le scarpe prima di lanciarsi, il restante trentadue percento non l’ha fatto.

Il tredici percento dei suicidi abusivi ha scelto un colpo d’arma da fuoco in pubblico. 422 Di questi, il novantuno percento ha utilizzato una rivoltella ca- ricata con proiettili speciali, il sette percento ha utilizzato un fucile, il due percento si è fatto esplodere con plastico indossato all’interno di un apposito giubbino.

Il nove percento dei suicidi abusivi ha scelto di gettarsi sotto o contro un mezzo di trasporto pubblico o privato. Di questi, l’ottantaquattro percento si è gettato sotto o contro un mezzo pubblico (sessantuno percento tram di ultima genera- zione, trentadue percento autobus, sette percento taxi), mentre il sedici percento ha scelto un mezzo di trasporto privato (ottantatré percento furgoni e camion, diciassette percento automobili).

Il restante quattro percento dei suicidi abusivi può ascriversi sotto la voce ‘altre modalità’, che comprende l’utilizzo di armi bianche (coltelli, lamette, pugnali, sciabole, in un caso una scimi- tarra), l’annegamento, l’incendio, l’avvelenamento, l’impiccagione.

Per quanto riguarda le professioni, il settantaquattro percento dei suicidi abusivi praticava, professionalmente o come hobby, una qualche forma di arte. In undici casi si trattava di scrittori e poeti di mezza tacca, tutti iscritti a un’assurda (o perlomeno, a Umbilk sembrò assurda) as- sociazione chiamata Confederazione degli Scrittori Che Odiano Almeno Una Specie Animale . Tra quelli che praticavano qualche forma d’arte per hobby c’erano sei liberi professionisti (quattro dei quali avevano abbozza- to almeno un romanzo, gli altri due avevano provato a incidere un disco pop), cinque impiegati pubblici (tre avevano abbozzato un romanzo, due tenevano un blog sul quale pubblicavano quasi quo- tidianamente poesie che Traumerei definì merdose ), tre muratori (uno di essi aveva pubblicato a pagamento un libretto di poesie), sette disoccupati (tutti avevano tentato esperienze narrative e/o pittoriche, con risultati incredibilmente scadenti). Soltanto uno dei suicidi abusivi era uno scrittore professionista (e pure dotato di talento, almeno a quanto appresero dalle ricerche su internet).

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Umbilk e Traumerei presentarono il loro studio statistico un mercoledì mattina, 27 novembre, Giornata dell’Onanismo Disci- plinato Scottex ® (Giornata Solo Maschile™) 16 .

I vertici dell’Ufficio Statistiche del Ministero Suicidi & Festivi- tà ® si dissero molto soddisfatti del lavoro e dopo avergli dato un’occhiata piuttosto distratta lo archiviarono nel vano 27 C del Magazzino 18 A, ubicato nei sotterranei del Palazzo Ottagonale, dove nessuno lo avrebbe mai più ritrovato e letto.

16 L’efferata immoralità con cui i maschi sabbionassi accolsero e - per così dire – sfruttarono , le prime due edizioni della Giornata dell’Onanismo, facendo sfoggio di turpitudini inimmaginabili e di prati- che pornografiche / masturbatorie ai limiti dell’autolesionismo, costrin- sero i compilatori del Calendario Ricreativo Promozionale HCE a modifi- carne la dicitura in Giornata dell’Onanismo Disciplinato , accompagnan- dola da un bugiardino che metteva in guardia da ogni forma di esagera- zione o esasperazione; durante l’ultima edizione il bugiardino recitava così: “durante la [...] ogni cittadino sabbionasso è invitato/tenuto a di- sperdere il proprio seme volontariamente, non soltanto riferendosi all’uso comune contemporaneo del termine onanismo , ovvero tramite la pratica della masturbazione, ma anche e soprattutto riferendosi al suo significato teologico, ovvero tramite la pratica dell’accoppiamento con esseri umani del sesso opposto e la susseguente dispersione del seme”. Seguiva una lunga interpretazione biblica di Er e Onan, figli di Giuda, un commento sulla legge ebraica del levirato e una delucidazione sul coitus interruptus. Infine, ricordava il bugiardino, “tutti i gadget di gior- nata – studiati per stimolare il tema –, distribuiti presso i presidi Scot- tex ® o spediti a casa, recheranno un’Avvertenza che ogni cittadino do- vrà tenere ben presente, poiché un conto è l’onanismo praticato con goduria sfrenata e lubrica sfrontatezza, un altro è l’onanismo praticato con un certo sottile senso di colpa o di rimorso da intendersi quasi, ma non completamente, cattolico”. Quest’ultima considerazione convinse successivamente i compilatori del Calendario Ricreativo Promoziona- leHCE a indicizzare la giornata come Giornata dell’Onanismo Disciplina- to Secondo Canoni Morali Scottex ® (Solo Maschile™).

424 Traumerei finì al Burundanga Bar per un pomeriggio a base di scopolamina.

Umbilk approfittò dell’assenza della moglie per godersi la Giornata dell’Onanismo, gustandosi il gadget che la Scottex ® ave- va inviato a migliaia di famiglie sabbionasse, nonché distribuito in tutti i punti informativi disseminati per la città. Il gadget era un dvd contenente un megamix di scene porno- grafiche tratte dalle più celebri produzioni Hard degli ultimi anni, confezionato in una specie di carta da cucina Scottex® (allegato al gadget vi era anche un rotolo Jumbo di carta assorbente multiuso – 400 maxi-strappi per una maxi-durata). Umbilk inserì il dvd nel lettore, organizzò sette strappi di carta da cucina sul divano e si dispose a celebrare la Giornata da buon cittadino. La schermata introduttiva riportava un’Avvertenza, che Umbilk cercò di saltare premendo il tasto dello scorrimento veloce sul te- lecomando, ottenendo come risposta la comparsa dell’avviso non permesso attualmente . L’attesa prima che l’Avvertenza sparisse fu di dodici minuti, rendendo praticamente impossibile evitare di leggerla.

Cari Cittadini Sabbionassi, Scottex ® ha il piacere di augurarvi una buona Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Mo- rali!

Il materiale che segue e che intendete vedere, avendo voialtri rice- vuto il dvd nell’ambito della Giornata dell’Onanismo Scottex ®, è ricco di quei termini che una buona madre sabbionassa definirebbe disgustosi e di quelle azioni che, sempre una buona madre sabbio- nassa, definirebbe ripugnanti – per quanto io ritenga, ne converrà il cittadino più attento, che i due termini siano sinonimi e anzi, di- rei praticamente equivalenti – e poiché l’autore di questa Avver- tenza non ha alcuna intenzione, lo dico davvero, di passare un quarto d’ora a dare spiegazioni a sua madre o a qualunque altra madre sulla faccia della terra, ritiene, l’autore, di avvertire il con- sumatore che il materiale che segue è ricco di termini disgustosi e 425 di azioni ripugnanti, il che vuol dire che se siete la madre (o il pa- dre) di qualcuno, o se siete un prete o una suora o un qualunque esponente maschio o femmina di una qualunque religione ricono- sciuta, o magari uno studioso di etica, un tipo piuttosto intransigen- te o un americano, insomma se siete una qualsiasi di queste cose, non dovete assolutamente proseguire nella visione.

Se non appartenete ad alcuna di queste categorie e se siete davvero intenzionati a continuare la visione per celebrare degnamente la Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali, op- pure se non ne potete fare a meno, perché per esempio siete seduti sulla poltrona del vostro salottino e avete già preparato la carta as- sorbente (oltre al rotolo Jumbo accluso al presente dvd, Scottex ® vi invita a testare l’efficacia della sua ineguagliabile gamma di pro- dotti Teresita et alia: Scottex ® Casa Cartaspugna con le nuove de- corazioni colorate, Scottex ® Gigante Double Face con lato esterno delicato e assorbente e lato interno studiato per combattere lo spor- co più ostinato, Scottex ® Tovaglioli a Doppio Velo Decorati, con decorazioni tartan, Scottex ® Karitè, l’unica carta igienica con bal- samo estratto dall’albero africano del karité, Scottex ® Fazzoletti, disponibili nei formati P10 , P12 , P36 , P48 , P56 , e moltissimi altri prodotti disponibili sul nostro sito scottex.com ) per una eventuale masturbazione che casomai avreste pensato di praticare, allora di- rei che potete proseguire nella visione, salvo il caso in cui vocaboli come troia o puttana , pompino o leccata di culo vi procurino una spiacevole sensazione di inquietudine, per cause che non sta a me sviscerare, oppure il caso in cui siate una di quelle persone a cui dà profondamente fastidio pensare che la propria ragazza possa civet- tare col proprio fratello, spogliarlo, tirargli un pompino coi fiocchi e dopo averlo già steso solo con la lingua, lo possa amare urlando, durante l’atto cosiddetto sessuale, per ben sette volte il vocabolo scòpami , per quattro il vocabolo fòttimi e soltanto per due, per mo- tivi che non ho ben presente, il vocabolo chiàvami , dopodiché se- gue, credetemi sulla parola, una serie di altre azioni ripugnanti che eviterò di elencare, e tali azioni mentre la persona a cui dà profon- damente fastidio che tutto ciò avvenga è nella stanza di sopra per un curioso attacco di diarrea, o di singhiozzo acuto, o di mal di denti o di appendicite o insomma non lo so, quello che volete voi. Perché il discorso qui è semplice: se siete quel genere di persona che non si fa sconcertare dalle suddette azioni, che io non citerò 426 più perché io non sono quel genere di persona (che siete voi), allo- ra potrete tranquillamente sopportare donne che si lasciano pene- trare da asini e cavalli, vecchie pelose raggrinzite che si fanno alle- gramente sbattere da giovani down e allegoricamente portano un messaggio sociale di gran lunga migliore di tutti quelli a cui voi e io siamo abituati. Devo avvertirvi, concittadini, che l’autore di questa Avvertenza è stato cresciuto da genitori che l’hanno indirizzato all’educazione cattolica, e nella parte che segue troverete espliciti riferimenti ad azioni torbide commesse da membri di questa fenomenale Santa Congregazione; non mi riferisco a stermini o a condanne di varia natura, quelle pur commesse dalla suddetta Santa Congregazione, ma a copule e fornicazioni d’ogni sorta consumate da esponenti al- tolocati di quella famosa associazione di idee, dogmi e rivelazioni. E così vi capiterà di osservare copule di gruppo tra sacerdoti, suo- re, frati, vescovi, chierichetti, e ancora gente che si piscia in bocca l’un l’altra, defeca sul corpo di una donna, punzecchia, brucia, ta- glia e squarta la carne di giovani impiegate di banca bionde o bru- ne, qualche volta (in una circostanza) rosse. Nella migliore delle ipotesi. Perché avrete a che fare con ben altro. E Biancaneve so- domizzata dai sette nani vi sembrerà il passato remoto della porno- grafia al confronto di ciò che vedrete nel materiale che segue, ricco di sirenette transessuali, di principi azzurri assolutamente froci o, se preferite, omosessuali, o se ancora non vi va bene, diversamente intendenti la sessualità comune. Perfino i puffi e i Pokemon! Chi resta ancora da sverginare e inculare, adesso? I santi e i cherubini, i troni, le dominazioni, Iddio stesso? Per tutte queste ragioni i compilatori del nostro amato Calendario Promozionale Ricreativo hanno imposto che io scrivessi questa avvertenza, carissimi cittadini. Il Governo pretende che voi guardiate il materiale che tra pochi minuti comparirà sugli schermi dei vostri televisori, o dei vostri pc, eppure lo stesso Governo vi lancia un ammonimento: chi prosegui- rà nella visione di questo dvd non potrà che rimanere esterrefatto, sconvolto, turbato; chi tra voi non resterà esterrefatto, sconvolto o almeno turbato dovrà reputarsi un uomo cattivo e immorale, e non avrà degnamente celebrato il tema di oggi.

427 Buona Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Mo- rali Scottex ®, Cari Cittadini!

La visione del presente dvd in qualunque giornata diversa dalla Giornata dell’Onanismo Di- sciplinato Secondo Canoni Morali Scottex ® sarà considerata indegna, vergognosa, spregevo- le. Il cittadino che dovesse ritenere opportuno praticare l’onanismo indisciplinato e selvag- gio al di fuori della suddetta giornata sarà giudicato un Cattivo Cittadino, e risponderà della sua scelleratezza davanti a Dio e al Gerarca del Sabbionasso, nei termini e nei modi che sa- ranno definiti caso per caso.

Durante le due ore di proiezione Umbilk dilapidò una quantità di sperma che si calcola avrebbe potuto generare dai diciannove ai venticinque bambini perfettamente sani, ma non se ne pentì affat- to, intuendo di essersi comportato da buon cittadino sabbionasso.

428 UN POSTO BRUTTO , ILLUMINATO MALE

L’addetto si è presentato a casa nostra per riscuotere l’assegno mensile dell’assicurazione proprio nel bel mezzo di un litigio. Non ricordo di preciso quale fosse l’oggetto della discussione, ma non doveva essere niente di che. Barbara ha fatto appena in tempo a tirare su il copridivano da terra ed è corsa in bagno per darsi una sistemata. Io ho aperto la porta e ho fatto accomodare il tizio in soggior- no. Stava per fare buio, così ho acceso la luce. Il tizio non ha detto molte parole. Ha trafficato un po’ con la sua valigetta e si è schiarito la voce come se stesse per dire qual- cosa, ma poi non ha detto niente. Comunque sembrava che filasse tutto liscio. “Prende un drink?”, ho chiesto. Lui mi ha sorriso e mi ha fatto cenno di no. Quando è tornata, Barbara si è seduta al tavolo con noi è s’è messa a rovistare nella sua borsetta per cercare il libretto degli as- segni. Non ha neppure salutato il tizio, che nel frattempo aveva appoggiato una cartellina nera sul tavolo e la stava sfogliando senza dire una parola. Ho provato a fare un po’ di conversazione. “Fa molto freddo?”, ho chiesto. “Non particolarmente”, ha risposto il tizio senza abbassare lo sguardo dalla cartellina. “Oggi sono di riposo e non ho ancora messo piede fuori ca- sa”, ho detto; così, per rompere il ghiaccio. Barbara stava ancora rovistando nella sua borsetta. “Capita sempre così”, ho detto, “quando cerchi qualcosa”.

429 Il tizio ha smesso di sfogliare la cartellina, ha controllato il numero di polizza, ha staccato un tagliandino e ha guardato Bar- bara alle prese con la sua borsetta. “È colpa di questa dannata luce”, ha detto Barbara. Il tizio si è guardato un po’ intorno. “Cosa vuoi dire?”, ho chiesto io. “Voglio dire che questo posto è triste”, ha detto Barbara. “È un posto brutto, con questa luce triste che rende ogni cosa triste”. L’addetto dell’assicurazione ha ritirato la cartellina nella sua va- ligetta ventiquattrore. “Come possiamo pretendere di essere felici quando ogni cosa che tocchiamo è illuminata da questa luce orribile?” ha chiesto Barbara. E poi ha aggiunto: “Quando ogni nostro gesto è illumi- nato da una luce tanto fredda e grigia?”. “Non mi pare il momento di discutere del nostro lampadario, tesoro”, ho detto. “Non è mai il momento per discutere della nostra bruttezza”, ha detto Barbara. Il tizio ha spostato leggermente la sedia all’indietro. Le gambe della sedia hanno sfregato sul pavimento. Non sembrava un ru- more particolarmente fastidioso, ma in quel momento mi è parso intollerabile. “Guardati intorno”, ha detto Barbara. “C’è una ragione per cui niente di tutto ciò funziona”. “E quale sarebbe?”, ho chiesto io. Mi sentivo un groppo in go- la. “Quale sarebbe questa ragione?”, ho ribadito. Barbara è rimasta in silenzio. Mi sono alzato per prendere un bicchiere e qualcosa da bere. “E a cosa ti riferisci quando parli di tutto ciò ? Tutto ciò cosa?”, ho chiesto mentre mi versavo un goccio. “La ragione è il luogo in cui viviamo”, ha detto Barbara. “Nessuno potrebbe essere felice in un simile posto”. “Non ti pare di esagerare”, ho detto. “E tutto ciò sono le nostre vite”, ha detto Barbara. “Tutto ciò di cui abbiamo sempre pensato di non poter fare a meno. Le nostre vite intrecciate insieme. Noi siamo questo soggiorno, siamo que- sto lampadario”.

430 Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare. “D’altra parte non è colpa di nessuno”, ha detto. “Non te ne do colpa. La colpa è del destino”. Ha provato ad accendersi una sigaretta, ma non ci è riuscita. Quel suo accendino dava sempre delle noie. “Sarebbe meglio pagare l’assicurazione”, ho detto io. “Adesso ti interessi della mia assicurazione. Ma quando mi hai umiliata davanti ai miei amici non ti interessava nient’altro che te stesso, come sempre”, ha detto Barbara. “Tesoro, di cosa stai parlando?”, ho chiesto. “Credevi che me ne sarei dimenticata?” ha detto lei; “c’era questa stessa luce orribile. Una luce che ti entra nel midollo del cuore, ti trafigge la carne. Eravamo seduti qui. E mi hai umiliata proprio di fronte ai nostri amici, ingoiando una tartina, bevendo quello stupido vino”. Il tizio dell’assicurazione ha guardato in direzione del lampada- rio. Un’occhiata fuggevole, per non farsi vedere. Poi è rimasto con lo sguardo incollato al tagliandino che aveva appoggiato sul tavolo. Si vedeva che stava provando a far finta di niente. “Il fatto è che qui dentro è tutto orribile. Mi metto un chilo di trucco per sembrare ancora desiderabile, ma non ci riesco, questa casa mi imbruttisce”, ha continuato Barbara. “Non sarà la casa che avresti voluto”, ho detto, “ma è pur sempre una casa”. “Mi vergogno a far venire mia madre”, ha detto Barbara. Poi ha guardato il tizio dell’assicurazione e ha provato di nuovo ad accendersi la sigaretta. “Una volta ero talmente sciocca che questo soggiorno mi sembrava accogliente”, ha detto, “e si guardi un po’ in giro ades- so: sembra la corsia di un ospedale, o la sala d’aspetto di un pron- to soccorso. Non mi viene in mente un solo posto accogliente sulla faccia della terra che potrebbe essere illuminato da una simi- le luce”. Il tizio dell’assicurazione non ha detto niente. Ha annuito, per cortesia, senza proferire parola. “Tesoro”, ho detto.

431 “Non chiamarmi tesoro”, ha detto Barbara. “Guarda il soffit- to, cazzo”. Finalmente è riuscita ad accendersi la sigaretta. Mi sembrava le tremasse la mano. “Che cos’ha il nostro soffitto?”, ho chiesto. “Non lo vedi? È marcio. La luce lo rende marcio. L’umidità ci sta consumando il colore. Perfino la mia voce è roca, con questa luce del cazzo”. “Adesso calmati”, ho detto. “Non mi calmo per niente”, ha detto lei. “Cosa ne pensa di questa luce?”, ha poi chiesto al tizio dell’assicurazione. Si vedeva benissimo che il tizio non aveva neppure un’opinione, sulla nostra luce. Lì per lì ho perfino creduto che volesse alzarsi e andarsene. Avrebbe fatto bene. Invece si è di nuovo schiarito la gola, poi ha detto: “Forse non è proprio il massimo”. Fino a quel punto non avevo notato quanto fosse giovane. Cristo santo, avrà avuto vent’anni. Ho cominciato a pensare cosa potesse passare nel cervello di un giovane di vent’anni alle prese con quella discussione assurda sulla luce del nostro soggiorno. Barbara ha fatto un lungo tiro di sigaretta, poi ha ricominciato a rovistare nella borsetta. Sembrava che volesse piangere, e forse sarebbe stata la cosa più conveniente. “In che modo ti avrei umiliata?”, ho chiesto a Barbara. “Ormai non te ne rendi più nemmeno conto”, ha detto lei. “È questa luce. Ogni cosa che ci diciamo è avvolta dalla sua bruttez- za; è come se la luce si attaccasse alle parole per renderle pesanti”. Il tizio dell’assicurazione ci stava guardando. Non sembrava particolarmente turbato dalla nostra conversazione. Ogni tanto alzava lo sguardo e ogni tanto lo abbassava. Aveva cominciato a giocherellare con una penna a sfera che aveva tirato fuori dal ta- schino della giacca. Mi sono acceso una sigaretta e ho buttato giù un bel po’ di scotch. Laura aveva cominciato a svuotare la sua borsetta sul tavolo. “Ci vorrebbe così poco”, ha detto. “Ci vorrebbe così poco per cosa”, ho chiesto.

432 “Ci vorrebbe così poco”, ha ripetuto. “O almeno è ciò che pensavo. Ma sono i particolari più banali a essere i più difficili da aggiustare”. “Non ti ho chiesto io di venire a vivere in questa casa”, ho detto. “No”, ha detto lei, “è questa casa che ci ha inghiottiti”. Ha spento la sigaretta in una tazzina da caffè. “Questo incessante riverbero smorto si è mangiato la nostra vita”. Ci siamo messi a guardare le cose che uscivano dalla borsetta di Barbara. Sul tavolo c’erano un set di trucchi, una spazzola, uno spec- chietto, il portafoglio, dei kleenex, un pacchetto di fazzoletti, il tubetto del burrocacao, le chiavi della macchina. Ho fatto per fermarla, ma non c’è stato verso. Ha continuato a svuotare quella dannata borsetta sul tavolo, proprio davanti al naso del tizio. “Si può sapere cosa stai facendo?”, le ho chiesto. “Mi svuoto”, ha risposto. C’è stato un momento di silenzio piuttosto lungo. Ho sentito il cane dei vicini guaire, l’ascensore mettersi in funzione. Poi ho cominciato a fissare il lampadario. “L’unica cosa che è davvero illuminata è la nostra ombra”, ha detto Barbara. Non ne potevo davvero più di questa storia. “Se preferite posso passare un’altra volta”, ha detto il tizio dell’assicurazione. Lo ha detto in maniera molto delicata, come se fosse molto imba- razzato. “Certo che no”, ho risposto io. “Guardami le mani”, ha detto Barbara. “Avanti, guardatemi le mani”. Le ha messe in bella mostra, tenendo le braccia distese sul tavolo con i palmi sul ripiano. Sia io che il tizio abbiamo guardato il dorso delle sue mani. “Sono mani consumate dalla bruttezza. La mia pelle fa schifo. Non c’è un solo lembo del mio corpo che non sia invaso dalla banalità di questa luce bianca e sporca”.

433 “Adesso falla finita”, ho detto io. Lei non ha detto niente. Si è versata qualcosa da bere, ha acce- so un’altra sigaretta. Sono andato in camera a prendere il mio libretto degli assegni; avevo una cosa da dire ma non riuscivo a trovare le parole adatte per dirla. Quando sono tornato mi sono fermato a osservare il tavolo del soggiorno, il tizio dell’assicurazione che giocherellava con la penna a sfera, mia moglie che aveva cominciato a piangere. Su di loro gravava il peso di quella stramaledetta luce opaca, ospedalie- ra, che era rimasta la stessa dal giorno in cui avevamo trovato questo appartamento in affitto; il fumo della sigaretta aveva for- mato un secondo soffitto morbido e malleabile, e il nostro sog- giorno non mi era mai sembrato così tranquillo e gelido. “Quanto fa?”, ho chiesto al tizio. “Non voglio che paghi la mia assicurazione”, ha detto Barbara. “Vuoi far restare qui questo ragazzo per cena?”, ho chiesto. “E magari anche a dormire? Credo che abbia voglia di andarsene”. Lei si è alzata, ha aperto il cassetto della credenza, ha tirato fuori il suo libretto degli assegni. L’abbiamo guardata mentre scriveva la data, la cifra, mentre firmava l’assegno. “Adesso vorrei stare un po' per i fatti miei”, ha detto. Il tizio dell’assicurazione ha preso l’assegno e l’ha messo nella valigetta. Siamo usciti insieme. Mentre eravamo in ascensore mi ha chiesto se conoscessi la strada più breve per tornare in centro, e io ho pensato di andare con lui per comperare un dannato lampadario con le lampadine calde e confortevoli. Se fossi tornato a casa con un nuovo lampadario forse da un certo punto di vista le cose sarebbero cambiate, ma da un altro punto di vista non sarebbero cambiate affatto.

434 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (13) ______

Dopo che Efraim espletò la propria clausola 99 annegandosi nel suo stesso sangue alla maniera degli antichi romani, e quando anche Ruben, Dan e Issachar furono dimessi dalla clinica per esse- re tenuti sotto stretta osservazione, Gad scoprì che la solitudine era l’elemento perfetto per analizzare con calma gli aspetti tecnici della sua crociata, che egli reputava, non a torto, romantica e sov- versiva allo stesso tempo. Trascorse due settimane a riflettere sul significato di molte co- se, nessuna delle quali era per lui sufficientemente indubitabile da ritenersi sacra. Non riusciva a comprendere le ragioni per cui si sentiva così inquieto, ansioso, angosciato. Lesse molti libri. Un giorno convocò un ministro del culto iscariotico e, dopo aver dimostrato di essere degno dell’investitura, riuscì a farsi ac- cordare il privilegio della militanza religiosa. Fu nominato monaco con una cerimonia piuttosto sobria, della quale furono protagoni- sti un paio di candele, un cappio e un bonsai. Non possedendo altro che indumenti laici, decise di utilizzare i copriletto arancioni abbandonati dai vecchi compagni di stanza per farsi imbastire un vestito religioso. Quando consegnò la stoffa all’addetta della sartoria che aveva contattato, egli non precisò quale genere di capo d’abbigliamento avrebbe preferito, se un saio o una tunica, se un mantello o uno scapolare. Così, dopo circa due settimane gli fu consegnata una calzama- glia arancione. La indossò immediatamente. Quando si vide rifles- so nello specchio non riuscì a trattenere una sonora risata, seguita da un paio di secondi di sconforto. D’istinto guardò in direzione della pattumiera. Poi pensò che il contrasto tra l’impressione grot- tesca che la calzamaglia arancione conferiva al suo aspetto e il va-

435 lore simbolico e tragico della sua crociata era precisamente quel genere di contrasto che avrebbe voluto palesare ai suoi concittadi- ni. Non rivide mai più Giuditta. Concluse il suo soggiorno alla clinica confessando a un’infermiera delusa che non avrebbe potuto fare nulla per rende- re meno obbrobriosa la vita, ma assicurandole che avrebbe tena- cemente lottato per ottenere la libertà di privarsene quando l’avrebbe ritenuto opportuno. Poco dopo si trasferì nella sua casa in collina, dove trascorreva il tempo ritagliando centinaia di articoli in cui rintracciò molti sog- getti che, dal suo punto di vista, avrebbero potuto accogliere la sua crociata. Pubblicò un annuncio sui cinque quotidiani locali; nell’annuncio faceva riferimento a un non meglio precisato riscat- to umano e fissava un incontro per tutti i cittadini interessati a perseguire una nuova prospettiva esistenziale.

La sera dell’appuntamento, lunedì sette gennaio - Giornata del- la Sodomia senza Peccato Lubricoll - al Posto Pulito e Illuminato Bene, un bar del Parco Sintetico Märklin, si presentarono in sette: cinque uomini e due donne. Gad li fece accomodare sulle sedie di plastica disseminate nella sala e prese posto dietro al bancone del bar, spazio che il proprie- tario gli concesse, seppur malvolentieri.

La prima cosa che mi premeva comunicarvi, disse Gad guar- dando la sua misera platea di ascoltatori, è che questa sera riceve- rete un dono. Niente di materiale, s’intende. Non c’è nessun pacco da scartare. A questo punto fece una lunga digressione sui doni che ricevette durante la sua infanzia, enumerandoli con dovizia di particolari e secondo un ordine ben preciso. Poi si fece preparare un Cuba Libre e riprese il filo del discorso. Il dono che ho intenzione di farvi, disse, è quello della verità; una parola tanto semplice e tanto complessa. Per farlo, consentitemi di raccontarvi qualcosa della mia vita. Detto questo, Gad abbozzò una storia romanzata dei suoi excur-

436 sus tra cliniche, ospedali e numerosi uffici pubblici, tra i quali l’Ufficio Cause Eleggibili di Suicidio ®. L’ultima volta mi sono presentato di persona al dodicesimo piano del Palazzo Ottagonale, disse. Ho chiesto che mi si prepa- rasse il modulo per la richiesta di suicidio. Secondo voi non do- vrebbero tenere dei moduli prestampati? Non sarebbe ragionevo- le? Invece sapete cosa mi ha detto la segretaria? Mi ha detto che non riusciva a trovare i moduli prestampati. Da qualche parte c’erano, ha detto, forse nascosti nell’hard disk del suo computer, ma in quel momento proprio non li trovava. Due impiegati se la ridevano di brutto. Era pomeriggio inoltrato, quasi sera, un giorno della Settimana dei Pronostici Obbligatori Annuali, faceva un caldo torrido e in tutto il Settore Cause Eleggibili di Suicidio ® erano rimasti solo la segretaria e i due impiegati. Comunque niente modulo prestampa- to. Avrei potuto risolvere la questione in cinque minuti. Ma nien- te, i moduli prestampati non saltavano fuori. E allora sapete che cosa hanno fatto? Volete saperlo? Mi hanno lasciato in una sala d’attesa mentre la segretaria riscriveva il modulo per la richiesta. Dall’inizio alla fine. Vi sembra efficiente? Tutto un modulo, dall’intestazione ai campi per la motivazione, il nome, la firma, le clausole conclusive e quelle intermedie, i rimandi al Codice, l’accenno al Programma Autoeliminazione Esseri Umani. Insom- ma, tutto il fottuto modulo dalla a alla zeta. Ho atteso un’ora, pri- ma che la segretaria mi facesse entrare nello stanzone. E a quel punto, volete ridere? Quando ho dettato la motivazione della mia richiesta sapete cosa hanno fatto i due impiegati? Mi hanno riso in faccia. Come se la stanchezza non fosse un motivo sufficiente per inoltrare una richiesta di suicidio. Mi hanno riso in faccia, capite? Mi hanno schernito. È questo che fanno, i nostri impiegati pub- blici? Sbeffeggiano i cittadini? A quel punto fece una pausa per riprendere fiato. Si guardò un po’ attorno. L’acidità di stomaco che mi tormenta da due anni è il chiaro sintomo di un cancro maligno che sta corrodendo gli organi inter- ni, disse. Il problema è che nessun dottore è stato in grado di dia- gnosticarmelo, e nessuno tra quei patetici individui che qualcuno

437 si ostina a chiamare divinatori è stato in grado di pronosticarlo. E sì che ho sperimentato numerose vie previsionali. Bevve un sorso di Cuba Libre, poi elencò tutti i metodi divina- tori cui si era sottoposto negli ultimi cinque anni. I sette uditori parevano interessati. Uno di loro (una donna) tentò timidamente di interrompere Gad per domandare che genere di divinazioni fossero l’apantomanzia e la capnomanzia, ma Gad pregò i presenti di non interromperlo. Anche mentre vi sto parlando, proseguì Gad, sento una fitta al- lo sterno, proprio qui, tra il gozzo e la bocca dello stomaco; molti di voi, sentendo un simile dolore, penserebbero che non sia una cosa grave, e in quel momento commetterebbero un grossolano errore. Una malattia devastante mi sta divorando. Dopo aver pronunciato questa parola, Gad si interruppe e os- servò attentamente ciascuno degli uditori. Si soffermò sulla donna più minuta; aveva un volto delicato eppure magro, ossuto, gli oc- chi piuttosto piccoli e verdognoli, ma di un verde privo d’interesse. I capelli, castani, non sembravano suoi. Gli abiti che indossava erano puliti, nuovi, perfettamente abbi- nati; portava un paio di scarpe costose. Fece un sospiro profondo, dopo di che analizzò minuziosa- mente, con tanto di percentuali, la relazione tra sesso e insoddisfa- zione. Disse che le donne, all’apparenza, sembravano maggior- mente insoddisfatte rispetto agli uomini, ma a un’analisi più ap- profondita si sarebbe scoperto che a essere traumatizzati dalla vita in maggior misura erano gli uomini. Poi tirò fuori dalla tasca della giacca un foglio di carta ed enu- merò una nutrita serie di modelli d’automobile indicati per le don- ne e per gli uomini. Si accese una sigaretta. Per dodici anni ho cercato di comprendere il significato delle mie paure, disse. Esse si riferivano a eventi che avrebbero in qual- che misura potuto intaccare la mia vita, offenderla, deturparla. Ho cercato in ogni modo di aggrapparmi alla speranza che un giorno la vita potesse giungere a un punto fermo, un attimo di lucidità e purezza, ma mi sbagliavo.

438 La vita è il problema. Non c’è nulla che io possa fare per impe- dire che la vita si corrompa. Alcune malattie sono debellabili (se- guì un elenco di malattie debellabili), altre conducono a una terri- bile sofferenza (seguì un elenco di malattie apparentemente prive di cura per cui l’individuo pativa sofferenze insopportabili). Una sola malattia dovrebbe essere in nostro potere, sotto il nostro con- trollo, la malattia mortale per eccellenza: la vita. Il guaio è che la nostra vita non ci appartiene. Siamo stati persuasi che ci appartenga, ma in realtà il Governo detiene il possesso illecito della nostra esistenza. La nostra vita appartiene al Governo, signori. Avrei voluto vivere in un mondo in cui le malattie non esistes- sero, ma così non è: il nostro corpo è instancabilmente corruttibile (seguì elenco delle possibili corruzioni del corpo, dalla carie alla leucemia, passando per il colpo apoplettico e l’appendice infiam- mata). Ogni cosa segue una parabola discenditiva e corruttiva; per quanto ci sforziamo di migliorare, in realtà non facciamo altro che peggiorare, ogni singolo giorno della nostra vita. Ogni migliorìa è un confortevole aggravamento. Pensando che i suoi uditori ritenessero i suoi discorsi banali o superficiali, Gad prese a elencare una serie di luoghi comuni o ba- nalità sulla vita e la morte. Il proprietario del locale, un tizio grosso con una leggera pelu- ria sul mento, si accese una sigaretta e se ne andò sul retro. Uno degli uditori si alzò dalla sedia di plastica e uscì dal bar con espressione disgustata. Non era pronto ad accogliere la libertà, disse Gad. Stasera uscirete da questo bar con la convinzione che è possibi- le porre rimedio alla vita senza sottomettersi alle leggi che il Pote- re ci impone, disse. Con la convinzione che è possibile generare delle ostruzioni nel Continuum Temporale Sabbionasso, delle sacche di casualità nel determinismo più sfrenato, aggiunse. Poi tirò fuori da una valigetta un mucchio di fogli. Disse che si trattava di tutte le richieste presentate all’Ufficio Cause Eleggibili di Suicidio ®. Sono diciotto, disse, tutte respinte. A ogni richiesta, tranne l’ultima, era allegato un referto medico che Gad reputava rivelatore di una malattia incurabile, ma che prima i dottori e in

439 seguito gli addetti delle Cause Eleggibili avevano scientemente tra- scurato. C’è un Giudice, disse, si chiama Nobb, J. K. Nobb. Quel figlio di puttana è diverso da tutti gli altri giudici delle Cause Eleggibili. Gli altri ti rispondono con un precompilato da quattro soldi. Nobb no. Lui ti risponde con una lettera firmata di suo pugno, elencando i motivi per cui la vita è comunque meritevole di essere vissuta. Quel figlio di un cane. L’ho bruciata, quella dannata lette- ra. Subito dopo averla letta. Fece una lunga pausa. Dal retro del locale proveniva il ronzio di un televisore acceso. Ho deciso di fondare un club, disse poi. Un circolo composto di uomini e donne per i quali il Potere è un intralcio, per i quali la vita è una scelta, per i quali non esistono giornate da celebrare o Gerarchi da assecondare: un circolo di suicidi abusivi. Mi avete capito, intendo proprio quello che ho detto: suicidi di frodo. Sono convinto che numerose altre persone si uniranno a noi e si toglieranno la vita indossando una calzamaglia arancione e glori- ficando la nostra idea di democrazia e libertà. Ci fu un lungo silenzio. Perché dovremmo indossare una calzamaglia arancione per suicidarci? Domandò uno degli uditori. L’arancione ha innumerevoli proprietà simboliche, rispose Gad. Seguì una sfilza di attribuzioni simboliche del colore aran- cione, in araldica, in politica, nella religione, nei segnali stradali, eccetera. Addirittura nei segnali stradali, disse ironicamente uno degli uditori. Gad enumerò tutti i cartelli stradali che utilizzavano l’arancione come colore primario. Ma perché proprio una calzamaglia? Perché è comoda, rispose prontamente Gad. Riprenderemo la via spalancata dal nostro padre fondatore, un monaco iscariotico che per primo combatté il determinismo go- vernativo. Trafficò con un aggeggio che ai presenti sembrava una radio riesumata da qualche discarica anni ’90. Premette un pulsante e

440 diffuse un brano musicale che molti dei presenti riconobbero: si trattava del brano noto col titolo di Brigitte Bardot. Che cos’è questa buffonata? Domandò uno. Dobbiamo metterci a fare il trenino? Domandò un altro. Non siate ridicoli, rispose senza indugi Gad. I nostri suicidi dovranno essere scenografici e spettacolari, disse, cosicché l’opinione pubblica possa parlare di noi in termini eroici, romanti- ci, rivoluzionari. I suicidi abusivi non dovranno tagliarsi le vene in un motel sulla tangenziale, ma gettarsi dalla sommità di un palazzo o di una torre medievale, farsi saltare il cervello in pubblico, lan- ciarsi contro un autobus in corsa nell’ora di punta. Il nostro suici- dio dovrà essere un atto simbolico e un messaggio per tutti i nostri concittadini. Altri due uditori si alzarono e se ne andarono. Bene, disse lui, siamo rimasti in cinque. Cinque è un buon nu- mero. Molti altri si uniranno a noi dopo la nostra prima azione pubblica. D’ora in avanti agiremo nell’ombra, secondo codici che imparerete nei nostri successivi incontri. Vi convocherò entro breve. Decideremo chi tra noi avrà l’onore di essere il primo suicida abusivo. Pianificheremo i nostri spostamenti con massima cautela. Nei nostri incontri discuteremo a lungo delle cause che ci hanno condotto a disgustare la vita in maniera così piena e totale. Berremo anche buone bottiglie di vi- no. Non sentite anche voi un brivido percorrervi la schiena? do- mandò. Nessuno rispose. Il brano in sottofondo s’interruppe. Gad terminò il suo discor- so bevendo un altro Cuba Libre e fumando un Havana in compa- gnia dei suoi nuovi compagni, cui avrebbe fornito una calzamaglia arancione entro quattro, massimo cinque, giorni.

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441

LA PIÙ INCREDIBILE WOW EXPERIENCE DI PATRICK

Patrick stava preparando il concorso d’ammissione al Corpo di Nettezza Umana, che consisteva in una selezione preliminare ba- sata su requisiti psico-fisici, seguìta da un complicato test di ottan- taquattro domande. Quando studiava prima di cena, generalmente se ne stava rin- chiuso nella sua stanza, fumando e bevendo qualcosa. Questa vol- ta invece era seduto in salotto, con la madre affaccendata nelle ca- ratteristiche mansioni domestiche: in quel momento stava fasti- diosamente passando un apparecchio rumoroso sul pavimento di legno. “Credo che finalmente ci siamo”, disse Patrick. La madre non rispose. “Credo di sentirmi preparato”. Quando la madre terminò di passare l’apparecchio rumoroso Patrick ripeté: “Credo di sen- tirmi preparato”. Lo fece alzando leggermente il tono di voce. “Questa storia l’ho già sentita troppe volte”, rispose la madre. “Stavolta è diverso”, disse Patrick con un tono di supponenza che denotava una certa sicurezza nei propri mezzi. Si fece interrogare per la dodicesima volta, ottenendo un risul- tato piuttosto buono. La madre sembrava fiera del suo unico fi- glio. “E per il problema alla faccia?”, gli domandò. “Sto intensificando le cure”, rispose Patrick. Aveva un disgustoso problema epidermico, conosciuto col nome di dermatite seborroica, per cui il suo volto (come anche le mani e il cuoio capelluto) era ricoperto di funghi e croste. “Non credo che possa comportare un’esclusione a priori”, sentenziò Patrick. La sua più grande ambizione era quella di entrare a far parte del Corpo di Nettezza Umana del Gerarcato di Sabbionasso. 442 Per questo tentò di curare la propria pelle con zinco piritione, solfuro di selenio, octopirox e altri farmaci sperimentali. Ciononostante la situazione non era migliorata granché, e l’espressione sui volti degli interlocutori di Patrick era sempre la stessa: disgustata e infastidita. Tentò numerose altre cure prima di scoprire che la forma di dermatite seborroica di cui soffriva era di origine psicosomatica. Poiché non sarebbe stato possibile in alcun caso riportare allo sta- to originario i vasi sanguigni atrofizzati, si decise a imbottirsi di psicofarmaci antidepressivi per non peggiorare la situazione.

Il giorno dell’iscrizione alla selezione attitudinale dei requisiti psicofisici Patrick si presentò al Palazzo Ottagonale indossando l’abito che sua madre gli aveva acquistato per l’occasione, compo- sto da pantaloni di velluto marrone, una giacca di velluto a coste marrone, una camicia azzurra e un papillon giallo. Quando arrivò fu subito costretto a sottoporre il suo volto in- vaso da funghi e croste all’attenzione degli altri candidati. Nella sua ottica il primo impatto sarebbe stato decisivo per stabilire se la complicazione epidermica avrebbe potuto compromettere la sua arruolabilità presso il Corpo. Come al solito dovette confrontarsi con una serie disparata di reazioni, suddivisibili principalmente in tre classi: alcuni lo osser- vavano con curiosità, quasi studiassero il suo problema secondo un’ottica medico-scientifica. Altri finsero di non accorgersene neppure, specie quelli con cui scambiò qualche chiacchiera ine- rente le domande del test attitudinale. Alcuni, per la verità non troppi, manifestarono un grado molto elevato di schizzinosità, ed evitarono accuratamente di stringergli la mano o di guardarlo negli occhi, cercando anzi di non entrare in contatto con le zone del suo corpo maggiormente esposte al problema epidermico, forse per paura che potesse rivelarsi conta- gioso. Una delle poche ragazze presenti scambiò con lui qualche opi- nione sulla terza sezione del test, procedure e sistemi operativi , che a detta di tutti era la più complicata. Patrick ebbe l’impressione che

443 la ragazza evitasse accuratamente di fissarlo in volto, sia per di- sgusto, sia per senso di pudore. Non aveva idea di come il suo problema epidermico avesse potuto raggiungere lo stadio di gravità in cui versava in quel pe- riodo. Da piccolo aveva sofferto di una forma lieve di acne, era stato costretto a sottoporsi a lunghe e noiosissime cure a base di un sapone specifico; la malattia era evidente anche durante gli an- ni dell’università, ma niente che fosse anche solo lontanamente comparabile alla fase attuale. Una mattina si era alzato, era andato in bagno e si era accorto che il suo volto era completamente ricoperto da funghi ed esco- riazioni, che col tempo avrebbero generato croste e perdite di pus. Inoltre, come se non bastasse, il corso da parrucchiere cui la madre lo aveva iscritto, e che gli era costato notevoli sforzi in termini di tempo e volontà, aveva accentuato una patologia alle mani, causata probabilmente dai prodotti utilizzati nei lavaggi e nelle tinture, quali shampoo, balsamo e tinte, che gli avevano de- turpato le dita fino a trasformarle in dieci ossa scheletrite impal- pabili e francamente orrende. La ragazza gli domandò se fosse preparato sulla sezione 5, Poe- ti Romantici Anglosassoni , e lui rispose che quella era la sezione su cui si sentiva maggiormente preparato. Snocciolò una serie di dati su Keats, Shelley e Byron che avvalorarono la sua affermazione. ~ L’iscrizione alla valutazione dei prerequisiti si svolgeva al quat- tordicesimo piano del Palazzo Ottagonale, da cui si poteva godere di una splendida vista sulla città – se solo le vetrate non fossero state barricate da impenetrabili tapparelle, pensò Patrick –, in uno studio sanitario enorme e piuttosto caotico. Erano presenti centotrentaquattro candidati, ma nel conteggio di Patrick poteva esserne sfuggito qualcuno. Quando un candidato veniva chiamato all’interno dello studio sanitario dalla porta si poteva scrutare la sala, in cui svariati dotto- ri in camice bianco attendevano dietro un bancone di alluminio che il candidato si presentasse per iscriversi e ottenere l’appuntamento per il tour de force delle analisi mediche.

444 I requisiti necessari per procedere alla fase successiva, ovvero il concorso vero e proprio, erano considerevoli.

Quando chiamarono Patrick fu subito evidente che la dermati- te seborroica poteva rappresentare un serio ostacolo al supera- mento della selezione. Ciononostante, i medici decisero di sotto- porre Patrick a tutte le visite del caso, riservandosi di prendere una decisione soltanto al termine del check up completo, che sa- rebbe durato all’incirca otto ore e si sarebbe svolto nove giorni dopo, in coincidenza con la Giornata Wow Experience Oral-B OxyJet 3000™. ~ Il giorno della visita attitudinale Patrick si presentò in perfetto orario al dodicesimo piano del Palazzo Ottagonale. “Posso considerare la visita come la mia Wow Experience? Per me lo è senza dubbio”, domandò ai cinque medici. I medici si consultarono per qualche minuto. “Dovrebbe fare questa domanda ai responsabili del Calendario Ricreativo Promozionale, noi siamo solo medici preposti alle visi- te di valutazione candidati al Corpo di Nettezza Umana”. Poi i cinque medici lo sottoposero a test psicologici, analisi, esami clinici, radiografie, tomografie assiali.

“Non so”, disse il dottore col camice bianco luminoso, “il caso potrebbe rientrare nel paragrafo cinque sulle malformazioni e gli esiti di patologie o lesioni di labbra, lingua, tessuti molli della bocca, o di malformazioni, lesioni o interventi chirurgici corret- tivi le patologie del complesso maxillo facciale o dell’articolazione tempora-mandibolare che producano gravi di- sturbi funzionali...anche se...”. “Non sono completamente d’accordo”, disse il dottore col camice bianco appena appena meno luminoso; “ritengo che una deturpazione simile affondi le radici in qualche patologia som- mersa”. “Per esempio?” “Per esempio potrebbe derivare da difetti del metabolismo glicidico, lipidico o protidico”.

445 “Intendi diabete mellito di tipo I e di tipo II?” “Non solo. Anche ipercolesterolemie, ipertrigliceridemie, iper- lipidemie miste, fenilchetonuria, alcaptonuria, omocistinuria, os- saluria e simili”. “In ogni caso rientrano nel novero delle cause per cui si deve respingere il candidato”. “Andiamoci piano”, intervenne un terzo dottore; “nello spe- cifico della colesterolemia, vi ricordo che il totale deve essere maggiore a 280 mg/dl. con indicazione al trattamento con statine e/o altri ipocolesterolemizzanti orali”. “Il collega non ha tutti i torti”. “E nel caso della trigliceridemia il totale deve superare i 250 mg/dl”. “Dovremo rivedere tutti i test”. “Scusate se vi interrompo”, disse un quarto dottore, “ma ave- te visto la faccia di quel poveretto? È completamente deturpata da una forma acuta di dermatite seborroica”. “Dovrebbe essere sufficiente a scartarlo”. “La dermatite seborroica è compresa nell’elenco?”, domandò. “Non la trovo”, rispose. “Impossibile, cerca meglio”. “Ti dico che non c’è”. “Ma ci sono le malformazioni e alterazioni congenite e acqui- site dell’orecchio esterno, dell’orecchio medio, dell’orecchio in- terno; e ci sono le malformazioni e alterazioni acquisite del naso e dei seni paranasali, di faringe, laringe e trachea”. “E qui siamo in presenza di una malformazione, o quanto- meno, di un’alterazione del naso e dei seni paranasali, e anche dell’orecchio”. “Mi pare una motivazione alquanto debole”. “Non mi verrete a dire che siamo costretti ad accettarlo”. “Sei pazzo? Se lasciamo che uno con la faccia di questo qui superi la visita attitudinale il Comandante ci esonera in tre minu- ti”. “Ciononostante dobbiamo per forza scartarlo attenendoci al- la Normativa”. “Dobbiamo trovare qualcosa che sia ufficiale”.

446 “Leggete qui”, disse il dottore con il camice verde mostrando l’Enciclopedia delle Malattie alla voce dermatite seborroica, “la forma acuta può causare otite purulenta cronica”. “Mi sembra magnifico”. “Hai centrato il bersaglio”. “Non ne sono ancora convinto”. “L’otite purulenta cronica può causare ipoacusie monolaterali anche permanenti”. “Quanto deve essere la soglia audiometrica media per respin- gere il candidato?”. “Sulle frequenze 500-1000-2000-4000 Hz?”. “Esatto”. “Superiore a 30 decibel”. “La normativa dice così?”. “Devo leggertela? 30 decibel nel caso dell’ipoacusia monola- terale”. “E nel caso di una ipoacusia bilaterale?”. “Non ci spero proprio, comunque nel caso di ipoacusie bila- terali permanenti deve essere superiore a 30 decibel dall’orecchio che sente di meno, oppure superiore a 45 decibel come somma dei due lati (perdita percentuale totale biauricolare superiore al 20%)”. “E nel caso di deficit uditivi da trauma acustico con audio- gramma con soglia uditiva a 4000 Hz, deve essere superiore a 50 decibel (trauma acustico lieve secondo Klochoff)”. “I dati non sono confortanti”. “Ci sente benissimo”. “Per ora”. “Già, per ora. L’ipoacusia potrebbe intervenire in un secondo momento”. “Come a chiunque tra i candidati”. “Com’è possibile che una patologia tanto schifosa non sia contemplata nella Normativa?”. “Che so, sbadataggine, distrazione, negligenza”. “Può capitare a tutti”. “Io dico di ammetterlo”.

447 “Vorrai scherzare? Ricorda che se il Comandante si ritrova un tizio con una faccia simile come minimo ci strozza”. “A denti come stiamo?”. “Gliene mancano un paio”. “Siamo lontani”. “Distanti anni luce”. “Quelli che ha sono tutti sani? Cosa dice la Normativa?”. “Il paragrafo 7 parla di mancanza o inefficienza (per parodon- topatie, carie distraente o anomalie dentarie) del maggior numero di denti, o di almeno otto tra incisivi e canini, e parla di maloc- clusioni dentali con segni clinici o radiologici di patologia denta- le o paradentale”. “Gli facciamo un bel test odontoiatrico?” “Tempo perso”. “Perché?” “Ha allegato il referto del suo dentista”. “E allora?” “E allora, a parte i due denti estratti, gli altri sono in forma smagliante”. “Cristo”. “Un momento. La dermatite seborroica non può essere acco- munata a un’allergia?” “Che stupidi”. “Non direi”. “Come no?” “Leggo sulla Normativa: asma bronchiale allergico e altre gravi allergie, anche in fase asintomatica”. “Com’è andata la prova di funzionalità respiratoria?”. “La cerco”. “Potrebbe essere una soluzione”. “Ecco qui, cattive notizie ragazzi”. “Cristo”. “Valori di VEMS al 76% teorico, e la soglia per superare la va- lutazione sarebbe all’80%, ma il test di stimolazione bronchiale aspecifico con metacolina che avrebbe dovuto dare PD 20% FEV1 < 800 microgrammi è di 973 microgrammi”. “Per poco”.

448 “Già”. “Inoltre al test di broncoprovocazione la metacolina è risultata abbondantemente superiore ai limiti”. “Non ci posso credere”. “Altre analisi?” “Negativo al morbo di Hansen, alla sifilide, all’HIV; negativo per HBV o per HCV accompagnata da epatopatia cronica”. “Peso e altezza?” “Dove abbiamo i dati?” “Non ci saremo per caso fatti sfuggire la cosa più ovvia?” “Altezza e peso sono i primi due dati da prendere in conside- razione”. “Altezza un metro e settantasette centimetri. Rientra nel limite minimo di un metro e settantacinque centimetri”. “Che palle. Peso?” “Sessantadue chilogrammi”. “Quali sono i requisiti per una disarmonia costituzionale?” “La Normativa fissa la gracilità costituzionale con IMC < 20 Kg/m2”. “C’è dentro per poco”. “Dannazione”. “Aspettate un momento” “Che c’è?” “Non ha assunto farmaci per curare la dermatite seborroica?” “Credo di sì”. “Rivediamo la quantità di farmaci nel sangue”. “Buona idea”. “Non c’eravamo concentrati su questo aspetto”. “Comunque c’è traccia di numerosi farmaci”. “Allora siamo a posto”. “In che senso?” “Guarda qui: cinque farmaci diversi per curare la dermatite. Ce n’è abbastanza per una mezza intossicazione”. “Se non altro per allentare i riflessi”. “Tutti questi farmaci stenderebbero un cavallo”. “Abbiamo la nostra motivazione”.

449 Seguì un lungo momento di eccitazione collettiva.

“Lascia che mi complimenti con te”. “Davvero complimenti”. “Stiliamo il referto”. “È stato un caso difficile”. “Sono piuttosto esaltato”. “Brillante risoluzione davvero”.

Quando ricevette la busta gialla della Commissione di Valuta- zione, Patrick stava leggendo un quotidiano mentre la madre era immersa nei preparativi per il pranzo. Patrick osservò lo stemma del Corpo di Nettezza Umana impresso in alto a destra e fu colto da un orgoglio innaturale, solo per il fatto di possedere qualcosa che riportasse lo stemma del Corpo. “Dovrei aprirla subito?”, domandò impaurito alla madre. “E cosa accidenti dovresti aspettare?”, rispose la madre. Stava pelan- do una patata molto grossa. Una patata di dimensioni davvero ec- cezionali. Grande quasi quanto un cocomero di piccole dimen- sioni. “Non potresti aprirla tu?”, domandò Patrick alla madre. “Credo sia ora che tu ti assuma le tue responsabilità”, rispose fermamente la madre. “Il fatto è che sono terribilmente agitato”, disse Patrick. “Smettila di comportarti da femminuccia”, sentenziò la madre. “Non so che fare”, disse Patrick. Appoggiò la busta sul divano e uscì sul balcone per prendere una boccata d’aria. Lei sbuffò, appoggiò il coltello che stava utilizzando per pelare la grande patata sul piano della cucina, si ripulì le mani e afferrò la raccomandata.

“Sebbene il problema epidermico noto come dermatite sebor- roica non sia contemplato nel testo della Normativa per l’Ammissione al Corpo di Nettezza Umana ( NACNU ), dagli esami del sangue si riscontrano tracce consistenti di cinque diversi far- maci utilizzati dal candidato per curare la propria patologia (pato-

450 logia che di per sé non giustificherebbe un’esclusione); tali tracce, combinate tra loro, contravvengono il paragrafo e) comma 1 della Normativa, alla voce alcoolismo, tossicomanie, intossicazioni croniche di origine esogena , in quanto causa di un’evidente contaminazione ematica capace non solo di limitare, ma piuttosto di annullare, le facoltà psicofisiche primarie e secondarie del candidato. Si con- siglia di ripresentare domanda l’anno prossimo e di non assume- re medicinali nei quindici giorni precedenti la visita medica”.

“In pratica mi hanno scartato”, disse Patrick con tono som- messo. “Vai a tavola”, disse la madre, “è pronto”.

451 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (14) ______

Il dodici settembre, Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil, alcuni cittadini telefonarono al Pronto Inter- vento di Nettezza Umana per denunciare il suicidio abusivo di Kevin Cheronne, trentatré anni, giornalista, che si era lanciato da una finestra al tredicesimo piano (dov’era la sede della rivista di caccia per cui lavorava), schiantandosi nello spiazzo sottostante. Il corpo era ridotto a una poltiglia. Il medico legale disse che probabilmente la causa della morte era da attribuirsi alla rottura totale del cranio, con conseguente fuoriuscita del liquido cerebra- le, e più in assoluto, del cervello stesso. Sul posto fu inviata una squadra facente capo all’Ispettore di Nettezza Umana Didìme Benoussy, che notò immediatamente l’abito indossato dal suicida: una calzamaglia arancione ridotta a brandelli e macchiata di sangue. Non c’erano biglietti. Mentre gli agenti rassettavano la scena del suicidio, Benoussy interrogò i colleghi della rivista e perquisì l’ufficio di Cheronne. Nel secchio dell’immondizia, tra cartacce di snack e lattine rin- cagnate, rimediò un indirizzo scarabocchiato su un pacchetto ac- cartocciato di Camel Light. L’indirizzo corrispondeva a una sartoria del Centro Storico Medievale. Benoussy fu colto da uno strano brivido, che lo percorse lungo la spina dorsale e giunse fino alla punta dei piedi; si accertò che la squadra tirasse a lucido la zona e si recò immediatamente alla sar- toria, un vecchio negozio con ingresso in legno e una bella insegna antica riportante la data di inaugurazione dell’attività: 1883. Il commesso dichiarò che qualche settimana prima qualcuno aveva commissionato quindici calzamaglie arancioni con tanto di gilet e camicia, ma che non aveva incontrato il committente, poi- ché l’ordine era stato fatto tramite una mail a cui erano allegati i disegni dettagliati del costume. Quando le calzamaglie furono pronte, disse il commesso, lo comunicammo rispondendo alla mail, e dopo circa due ore un ragazzo in motorino si presentò per ritirare la merce, pagandola in contanti.

452 Naturalmente il commesso non aveva idea di chi fosse il ragaz- zo, né avrebbe saputo riconoscere il modello di motorino. La casella di posta elettronica da cui proveniva l’ordine era in- testata a un alunno di seconda media di Aramengo. Benoussy riferì al comando e ricevette un plauso ufficiale per le sue indagini. Quelli del Reparto Disciplina Sociale fecero irruzione a casa dell’alunno l’indomani dopo pranzo, fracassarono il computer e parte degli arredi della camera, tra cui numerosi poster adolescen- ziali e cd, setacciarono il garage a caccia di un motorino che non trovarono e successivamente, presi dallo sconforto, prelevarono tutta la famiglia e la condussero al Commissariato. Capirono quasi subito che non c’entravano nulla. La madre era una casalinga e il padre un operaio. Non sapevano neppure accen- dere un computer. L’alunno era piuttosto sveglio, ma del tutto ignaro di cosa fosse il Circolo dei Suicidi Abusivi. Non aveva mai posseduto un motorino in vita sua, né mai, da quanto ricordasse, ne aveva guidato uno. Quelli del Reparto Disciplina Sociale approfittarono dell’interrogatorio per fare una ramanzina ai genitori e li rilascia- rono dopo un’ora di ammonimenti gerarcali. L’indagine si concluse con un nulla di fatto.

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453 ALBORI DEL FETICISMO COPROLITICO 17

Noi non offriamo esperienze mistiche ad anime eccezionali ma a notai depravati col chiodo fisso dell’amore masochista e ad av- vocati arricchiti che si lasciano smorfiare l’anima da commesse di- ciottenni. Vendiamo l’unione con dio a gente della peggior specie: per questo motivo siamo un’azienda solida e funzionale, e tutti i colori dei pittori espressionisti gridano per noi.

È domenica mattina e sto controllando lo stato di salute delle colture di virus H7 J39 nel nostro Laboratorio Interno, un virus contemplativo estratto dai tessuti mummificati della testa di San Bertran de Born, che quando sarà ultimato permetterà a tutti di saggiare un’esperienza mistica della durata di dieci-quindici giorni. Sarà una rivoluzione dice il nostro capo ricercatore, una droga

17 Il 27 novembre 1853 Erminio Blom, un contadino di Pizzengo, aran- do i suoi tre ettari di terra rinvenne un fossile, per la precisione un co- prolite. Attorno all’oggetto, secondo alcuni in grado di guarire le malat- tie per via tattile e olfattiva, secondo altri derivante dalla divinità stessa, si scatenarono controversie accademiche e dottrinali. Nei primi mesi del 1920 una congregazione di adoratori del coprolite iscrisse il proprio nome nell’Albo delle congregazioni religiose sabbionasse. L’oggetto su- scitò da parte dei cittadini una vera e propria venerazione mistica, ai quali diedero il nome di Feticismo Coprolitico. Il 12 maggio 1980 la Chiesa Cattolica, con una bolla ufficiale, decretò ammissibile l’adorazione dell’Oggetto dei propri fedeli. Nei mesi successivi ebrei e iscariotici condivisero la bolla cattolica; il feticismo coprolitico fece pro- seliti in ogni dove, sino a diventare il culto più seguito del Sabbionasso.

454 farmacologica, un medicinale drogante. Ci facciamo un bel brindi- si pensando al commercio delle confezioni di virus contemplativo e ai guadagni che porterà nelle casse del parco, oggi più che mai bisognoso di fondi. Ma quando sarà ultimato e pronto per essere commercializzato? È questa la domanda che ci poniamo da quasi tre anni. Il problema principale riguarda la modalità di trasmissio- ne del virus, che al momento è aerea. Impensabile, per chi vuole commercializzarlo. Dobbiamo fare in modo che la trasmissione avvenga per via ematica, altrimenti rischieremmo di dover fron- teggiare un’intera popolazione in preda a spasmi mistici gratuita- mente . A parte questo dobbiamo risolvere qualche particolare lega- to agli effetti indesiderati. Nonostante gli immancabili intoppi stiamo facendo progressi, e gli effetti collaterali accertati sui tester sono passati da: vomito, nausea, dissenteria, tremori, arresto cardio-respiratorio, trombo- flebosi, paralisi totale, ictus, coma irreversibile, morte, a: vomito, nausea, dissenteria, tremori, arresto cardio-respiratorio, trombo- flebosi, paralisi locale, coma vegetativo, morte. La valutazione del rischio è ancora di livello 7 in una scala da 0 a 7 per cui chi entra in contatto con la coltura deve sottoporsi ad analisi accurate e farsi compilare un quadro clinico ogni cinque ore almeno per le quarantotto ore successive all’esposizione, quindi i ricercatori mi consegnano un modulo e una cartellina e dopo la visita d’ordinanza lo compilano in mia presenza.

Battito cardiaco: regolare. Densità sanguigna arteriosa: fluida. Problemi alle articolazioni: nessuno. Attività respiratoria: nella norma. Altre controindicazioni: nessuna. Stato di salute generale: buono.

Sono in perfetta forma e non voglio neppure conoscere i nuovi tester, solitamente marocchini o albanesi, né le idee del Presidente a proposito del virus; voglio soltanto fermarmi al bar e aprire un quotidiano. La scorsa settimana ho passato una giornata allucinan- te a scarrozzare per il parco una giornalista boriosa e frustrata con la promessa di una pubblicità tendenziosa e soprattutto gratuita. A pagina 7 trovo l’articolo. Già il titolo mi fa andare in bestia: il de-

455 clino del feticismo coprolitico e la crisi del Parco Mistico ad esso dedicato. Il succo è anche peggio, una serie di considerazioni pie- tose sullo stato di recessione e decadimento del feticismo coproli- tico. Prendo il telefono e chiamo la giornalista. Chiedo cosa signi- fica quest’articolo? Risponde significa che il vostro è un declino lento ma inesorabile. Dico eppure non mi pareva così disfattista quando le è stata offerta la bistecca di angus, oppure quando le abbiamo devoluto le bottiglie di champagne d’ordinanza. Dice la mia esperienza professionale è stata ottima, effettivamente sono stata trattata con riguardo, ma come avrei potuto guardarmi anco- ra allo specchio se avessi mancato così gravemente e pesantemen- te alla mia deontologia? Sa cosa intendo per deontologia? È quella cosa per cui se trovo un luogo brutto e in decadenza non posso scrivere che l’ho trovato bello e splendente. Spero che mi capisca. Dico ma vaffanculo e butto giù. Penso non ci posso credere una giornalista onesta e cammino verso l’ufficio, dove i miei col- laboratori mi stanno attendendo per cominciare la giornata. Sono il direttore del Parco Mistico del Sacro Coprolite da circa quindici anni, e mai come quest’anno la crisi si fa sentire, pungen- te come il gelo mattutino di gennaio; lo vedo negli sguardi contriti dei dipendenti e dei fornitori, nel giardino inglese ingiallito, negli operai che hanno le pezze al culo e fumano sigarette molli puzzo- lenti, nell’Area Rivisitazione Biblica dove trovo Jerry Haunthouse che raffigura Re Salomone completamente sbronzo e narcotizzato e Milly Hackman (moglie di Lot) che contratta una marchetta con un inserviente. Arrivo in ufficio e aspetto le 10, quando il Presidente si sveglie- rà e leggerà l’articolo sul giornale e immancabilmente mi convo- cherà nel suo loft. Intanto sbrigo alcune questioni e discuto con Rena del bilancio preventivo di quest’anno comparato a quello dell’anno scorso. Rena è la nostra contabile, è una gran rompico- glioni e non la sopporto, specie quando mi guarda col suo muso saccente e dice qui c’è un problema. La blocco prima che possa iniziare la solita solfa sui soci che non pagano la quota, sul Presi- dente che è assente, sugli sperperi delle varie aree eccetera eccete- ra. Alle 10 e 03 arriva la telefonata del Presidente. Dice dobbiamo parlare. Rispondo in effetti me l’aspettavo. Dice tra un quarto

456 d’ora nel mio ufficio. C’è chi dice che il Presidente del nostro Par- co sia un uomo orribile, ma non sono pagato per sbilanciarmi: tut- to quello che so è che ha ereditato il parco dal Fondatore-Suocero, deceduto lo scorso anno, colui che ha creato il Parco Mistico negli anni ’70, quando un parco mistico sembrava un’utopia. E invece eccoci qui, trentacinque anni dopo: milleduecento soci e un mer- cato che fino a qualche mese fa sembrava florido e in continua espansione. Penso ai ricavi dell’ultimo anno e non sono pensieri positivi. Fondamentalmente suggiamo i nostri ricavi da due grandi mammelle: i soci, che pagano una quota di tremila euro l’anno, e i pellegrini (o visitatori esterni) che sborsano un park fee di cin- quanta euro (nei giorni feriali) o di settantacinque (nei giorni festi- vi). Oggi è domenica e come tutte le domeniche ci si aspetta una grande affluenza, attendiamo otto pullman entro mezzogiorno e tre gruppi di stranieri, una ventina di svedesi, una dozzina di sviz- zeri e sette austriaci, più centinaia di soci e numerosi gruppi di pro-loco, oltre ai soliti ospiti del Monastero, il nostro Hotel inter- no. Il presidente in giacca e cravatta con il coprolite ricamato sulla camicia mi fa entrare nel suo loft e dice peccatissimo per l’articolo; ha questa strana insopportabile tendenza a parlare per superlativi. Dice quella stronza di giornalista, e pensare che l’ho anche invitata a cena a casa mia. Non dico niente. Dice non importa, ne invite- remo un’altra più influente la settimana prossima; piuttosto, dice, come sono i dati? Non ci sono ancora dati dico, è troppo presto per i dati. Dice e il virus? Stavo pensando a un lancio in grande sti- le. Rispondo al momento niente virus, troppi rischi. Torna quando avrai i dati mi dice, e mi saluta col suo modo di fare spocchioso. Tutte le domeniche controllo scrupolosamente ogni attività del Parco, è la giornata più importante della settimana e voglio che tutto funzioni perfettamente. Salgo sul mio golf cart e come prima cosa verifico che l’Area Accoglienza delle Festività Ebraiche sia in ordine. In passato ha dato notevoli problemi. Specialmente la sezione del Rosh Hashanà La-Ilanòt non è mai stata il piatto forte dei figuranti: avrei dovuto assumere figuranti ebrei per rendere il tutto più verosimile ma di

457 questi non se ne trova neppure da morti e allora mi è toccato ra- cimolare tre inservienti di Casorzo, un paio di albanesi e quattro egiziani, per di più musulmani. Questa manica di idioti la scorsa settimana ha capito male una parola ebraica (peraltro già tradotta dai nostri traduttori, quindi in definitiva questi deficienti hanno capito male una parola italiana) e anziché segnare ha segato un acero che per poco non finiva in pieno su una scolaresca di Muri- sengo. Do un’occhiata alla zona in cui si festeggia la distruzione del primo e del secondo tempio di Gerusalemme e mi sembra tutto in ordine; i fuochi d’artificio sono piazzati e il capo artificiere è per- fettamente sobrio (l’anno scorso il nostro ex capo artificiere si presentò sbronzo e tranciò di netto l’occhio destro a una profes- soressa ottantenne di Aramengo, fatto che ci costò un’iradiddio di risarcimento). Prendo da parte Miller della sicurezza e gli dico tieni d’occhio i figuranti musulmani; lui mi dice gli stacco il collo appe- na noto un atteggiamento sospetto. Mi tranquillizzo. D’altronde Miller è un ottimo elemento e detesta gli islamici, soprattutto da quando un figurante tunisino ha srotolato un lenzuolo con su scritto morte ai discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe e ha provato a farsi saltare in aria durante un’affollata visita della comitiva autun- nale israeliana. Da allora Miller è un fiume in piena, ha già mozza- to una mano a un libico intento a staccare il pene della statua di Golia e gambizzato due algerini sorpresi a dipingere enormi cazzi sulla facciata dell’Unica Riproduzione Ufficiale Dell’Arca dell’Alleanza. Insomma, Miller è un pazzo maniaco razzista ma sa fare bene il suo lavoro. Do la mia benedizione virtuale e proseguo il mio giro, facendo una breve sosta alla grotta del coprolite. Da queste parti i pellegrini non mancano mai e anche oggi mi aspetto un grande affollamento. Sono tranquillo, sento al telefono la mia ragazza (che tra due mesi diventerà la mia terza moglie) e organiz- zo una cenetta. Mi inoltro nella Tundra delle Grotte, una delle quali, la più profonda e la più fedelmente ricostruita, grazie a ma- gnifiche conformazioni ‘naturali’ edificate dai nostri tecnici sceno- grafi, accoglie la teca del Sacro Coprolite. Non c’è ancora molta gente, del resto di solito quest’area viene visitata per ultima. Saluto la guardia armata e controllo la teca: il vaporizzatore alla base fun-

458 ziona e l’odore emanato dall’Oggetto è proprio quello che voglia- mo, un misto tra violetta e lillà. Un tempo usavamo fiori freschi ogni giorno, ma da quando il vecchio giardiniere è andato in pen- sione siamo stati costretti a rivolgerci a una ditta specializzata che ha creato questo mix di profumi seguendo le indicazioni dei nostri analisti in fragranze. All’interno della teca il coprolite è lo stesso pezzo di sterco fossilizzato di quando cominciai a lavorare nel parco, solo leggermente rimpicciolito per via di un fenomeno che gli esperti definiscono sbriciolamento; in pratica succede che col variare della temperatura, della luce e di altri fattori esterni il co- prolite si sbriciola, impercettibilmente ma costantemente. Per que- sto motivo deve essere sottoposto a trattamenti delicatissimi e i fattori ambientali di luce e di temperatura devono restare quanto più possibile regolari: un’equipe specializzata si occupa ventiquat- trore su ventiquattro di questo compito fondamentale. Chiedo come procede lo sbriciolamento? Mi risponde il responsabile dell’equipe: tutto bene, dice, ventisette grammi di sbriciolamento negli ultimi quindici mesi. È una quantità ragionevole. Lo guardo ancora: quello che noi chiamiamo Sacro Coprolite, l’oggetto at- torno a cui ruota tutto il nostro Parco, è di colore bruno rossastro, perfettamente fossilizzato, con una piccola cavità di consunzione generata dalla sofferenza del tempo. A destra della teca l’insegna recita: Sacro Coprolite, massa 735.95 grammi, misure 18.45 x 9.3 x 7.9 centimetri (in diminuzione), datazione 65 milioni d’anni prima di Giuda Iscariota – 65 milioni d’anni prima di Cristo – 64 milioni e rotti anni prima di Abramo – 65 milioni e rotti anni prima di Maometto – 65 milioni e rotti prima di Buddha. Qui bisogna accontentare tutti, e il successo del feticismo co- prolitico, così come il Cavaliere aveva previsto trentacinque anni fa, deriva proprio da questo geniale assunto di base: il sacro co- prolite è un feticcio sacro comune a tutte le divinità, né invadente né contrastante con gli altri culti sabbionassi (questo principio è stato accolto, nel 1980, dalle maggiori religioni sabbionasse). Salu- to la guardia armata e Joan, la speleologa americana che accompa- gnerà il primo gruppo di visitatori, poi continuo il mio giro. Salto sul mio golf cart verde dotato di vari comfort e passo l’area in cui si svolge il Bio-Tour safari. Nel bio-tour i nostri impiegati, tutti fa-

459 centi parte di un’equipe medica di prim’ordine, accompagnano i visitatori alla scoperta dei parassiti presenti sulla superficie e all’interno di un coprolite sacro, che per sua natura, pur essendo fossile, conserva uno status vegetativo, è vivo (questo è quello che vogliamo farvi credere, naturalmente); la dimostrazione deriva proprio dai parassiti che trovano il loro habitus sulla parete ester- na del coprolite. Il tutto è reso più interessante e divertente dal fatto che i partecipanti del bio-tour hanno l’impressione di essere rimpiccioliti all’interno di un coprolite gigantesco (allo stesso mo- do i parassiti virtuali sono enormi e incredibilmente terrificanti). Una pratica comune (e soprattutto extra fee) è l’Assalto da Pa- rassiti, quelli veri: i visitatori più intrepidi possono provare uno degli step del Percorso Mistico, ovvero l’esperienza di entrare in una vasca apposita in cui vengono invasi da pidocchi, pulci, zec- che, eccetera per circa dieci minuti (il tempo è variabile, c’è chi re- siste anche mezz’ora). Molte di queste esperienze, è chiaro, sono per i pellegrini, i tu- risti di giornata o gli avventori saltuari. I nostri soci hanno uno standard totalmente diverso: il motivo per cui pagano una quota annua di tremila euro è tentare la scalata mistica e dunque l’unione col coprolite prima e con la divinità poi, seguendo l’itinerario che è uno dei nostri fiori all’occhiello: il Percorso Mistico. Il Percorso Mistico si compone di diciotto step, la cui conclusione è data dall’unione mistica con l’Oggetto. Ciascuno step è stato pensato ed elaborato dai Padri della Dottrina, e ricostruisce fedelmente un avvicinamento all’unione con dio. Qualunque dio. Nel nostro caso è rappresentato da un pezzo di sterco fossilizzato. Naturalmente non tutti riescono a raggiungere lo step diciotto. Alcuni soci rie- scono a provare dalle tre alle cinque esperienze mistiche in una stagione (febbraio – dicembre, chiusura lunedì non festivo), altri neppure una. Ogni qualvolta un socio raggiunge l’esperienza mi- stica questo grande risultato si celebra nella Sala delle Premiazioni, dove alla consegna dei premi segue un faraonico buffet offerto dallo sponsor. Col walkie talkie G.F., il mio braccio destro, il Se- gretario Mistico, colui che mi sostituirà quando andrò in pensione, mi avverte che c’è un problema con un figurante all’area Storia Preistorica del Coprolite, una piccola zona didattica di secondaria

460 rilevanza frequentata soprattutto da scolaresche e famigliole. Chiedo via radio qual è il problema e G. F. mi dice il vaccino è il problema. Tiro fuori il cartoncino con lo splendido sermone che il Presidente pretende sia enunciato ai dipendenti quando c’è un problema di qualunque genere, me lo ripasso per bene e arrivo in zona, prendo da parte il figurante e comincio. Avrà diciotto, di- ciannove anni. Dico sondare il clima aziendale è di fondamentale importanza dato che sono proprio le risorse umane, oggi più che mai, a costi- tuire la marcia in più di un’azienda. I collaboratori sono la risorsa più importante. Per questo dovresti sentirti orgoglioso del lavoro che svolgi. Dice sì sono orgoglioso ma stamattina il vaccino non lo faccio. Dico è impossibile e gli chiedo di enunciarmi un breve excursus del suo periodo speso alle nostre dipendenze. Dice tre mesi aiuto facchino, due mesi pizzaiolo, un mese e mezzo idraulico, sei mesi alle pulizie spogliatoi. Da tre mesi il mio ruolo è Adoratore Ufficiale del Sacro Coprolite. Dico molto bene giovanotto, e gli offro una sigaretta. In pratica il compito di questo tizio è quello di indossare un manto di pelle caprina e lasciarsi invadere da pulci, pidocchi e blatte (talvolta anche zecche, che sono considerate come straordi- nario) per testimoniare tutto il suo amore feticistico nei confronti del sacro coprolite (gli adoratori del sacro coprolite – intendo quelli veri, oggi ridotti a poche decine di fanatici – adottano questa pratica sul serio, ritenendo che l’unione con questi parassiti con- duca direttamente all’unione mistica con la divinità); il problema è leggermente più grave del previsto, poiché un Adoratore Ufficiale non ha un’area circoscritta ma può, anzi deve, muoversi per l’intero parco. Gran parte del suo lavoro consiste nel farsi fotogra- fare con le orde di pellegrini, per lo più donne e bambini, che ca- ratterizzano la vera ricchezza e il vero patrimonio del nostro par- co. Gli domando sei gratificato dal tuo lavoro? Risponde a dire il vero sembrerebbe un lavoro pazzesco, come sostiene la mia ra- gazza, ma poteva andarmi peggio: gli uomini scimmia, per esem- pio, galleggiano nelle deiezioni per quattro ore e le altre quattro le trascorrono nelle varie raffigurazioni di caccia e di vita quotidiana preistorica.

461 Dico mi pare una saggia risposta e mi accendo una sigaretta. Chiedo e allora questo vaccino? Niente vaccino dice, sono allergi- co. La parola ‘allergico’ mi spalanca le porte di un mondo cupo e pessimistico. Penso porca puttana ho fatto una cazzata, e comin- cio a riflettere. Mi capite, qui occorre scegliere con grande cura i dipendenti, ma soprattutto è fondamentale indirizzarli alle varie aree del par- co, e questo è il compito principale del direttore, cioè il mio. Se un dipendente soffre di vertigini è escluso che lo indirizzi alla Torre dell’Amore Intellettuale di Dio, se patisce la vista del sangue mai indirizzarlo alla Palestra, e così via (i musulmani, purtroppo, co- stano poco, e devo necessariamente indirizzarli anche in aree con- trastanti, come quelle ebraiche). Ma soprattutto, se un dipendente è allergico a vaccini e medicinali vari, mai offrirgli un posto come Adoratore Ufficiale. Gli Adoratori Ufficiali sono vitali, allo stesso modo dei figuranti gladiatori attorno al Colosseo. Non servono a niente, mi si dirà, ma è un’opinione frettolosa e imprecisa: essi contribuiscono a creare atmosfera e aumentano la possibilità che il visitatore si lasci attirare dal gorgo dei gadget, in primis quello del- le fotografie. Al parco abbiamo ventidue Adoratori Ufficiali più una trentina di Ufficiosi, ma ne servirebbe almeno il doppio. Mi chiedo come possa essermi sfuggito un fatto così conside- revole, mentre il figurante continua a parlare. Dice la mia ragazza ripete che il mio è un lavoro umiliante, ma il suo atteggiamento radical chic non può sminuire di una virgola il mio operato; nel corso dell’ultimo mese mi sono contraddistinto come il migliore nel mio campo sotto tutti i punti di vista, sia per numero di fotografie, circa trecento scatti a cinque euro l’una – soldi freschi che consentono la sopravvivenza del nostro Parco – sia per la resistenza alle malattie trasmesse da pidocchi, pulci, zec- che e ogni altra forma di parassita. È questo il punto: gli Adoratori Ufficiali devono sottoporsi a sedute massacranti nell’ambulatorio del Parco e a trattamenti quotidiani con iniezioni e vaccini pesan- tissimi: è una regola inderogabile. Sedici anni fa un figurante ha seriamente rischiato di mandare sul lastrico l’azienda intentando una causa miliardaria dopo essersi beccato il tifo murino o che so io, prima di schiantarsi contro un palo della luce sulla statale per

462 Sabbione. La resistenza a malattie quali malaria e tifo murino, lo capirete senz’altro, è un requisito fondamentale di ogni buon figu- rante Adoratore Ufficiale del Parco Mistico del Sacro Coprolite. Chiamo Berri all’equipe medica e domando ma non c’è una medi- cina alternativa anti-allergica che ci dia la garanzia di copertura, l’assicurazione che vada tutto bene, insomma che ci pari il culo? Risponde non c’è ma possiamo farlo credere al ragazzo. Dico per- fetto non mi piacciono queste porcate ma c’è la crisi e ho bisogno di tutti gli adoratori, e allora spedisco il ragazzo in ambulatorio dove gli dicono tranquillo ti facciamo una bella iniezione omeopa- tica, ma in realtà la caricano del vaccino-base, quello strapieno del- la sostanza di cui è allergico. Aspetto che torni al lavoro e spero che l’allergia si manifesti a fine turno, non posso permettermi di perdere un adoratore in una giornata come questa; gli dico sorridi sei il migliore tra tutti gli Adoratori Ufficiali e lui sorride, è conten- to come un bambino (e comunque ne ha ben d’onde, prende mil- leduecento euro al mese più le mance, uno stipendio che da queste parti solo il Parco Mistico può garantire). Chiamo la mia ragazza e dico un direttore deve prendere delle decisioni, lei non capisce ma mi dice ti amo tesoro torna presto. Verso mezzogiorno e un quarto un macellaio di Altaforte si sente male durante l’esperienza dell’Assalto da Parassiti. Facciamo firmare a tutti un documento che ci alleggerisce da ogni responsa- bilità (lo chiamiamo teneramente salvazienda) ma verificare di per- sona è uno dei miei compiti e così salto sul mio mezzo e mi dirigo sul posto. Sembra che il problema non sia il classico svenimento ma una puntura multipla di zecca. In questi casi la nostra equipe medica si precipita sul malcapitato e lo trasporta in laboratorio per le analisi e le cure. Al macellaio purtroppo viene un colpo e ci stramazza lì, sul lettino dell’ambulatorio. A questo punto entrano in scena due figuranti travestiti da asceti che volteggiano attorno al cadavere e tentano di trasfigurarlo preparandolo per l’aldilà, che nel nostro caso è una comunione armonica con l’Oggetto, il Fetic- cio, il Coprolite, emanazione di Dio e quindi Dio stesso. A tale pratica sono tenuti a partecipare i parenti o gli amici della vittima, il cui spirito sta per fondersi con quello dell’Oggetto; ho sempre pensato che si tratti di fandonie, ma il mio lavoro non è quello di

463 pormi domande, non è quello di dubitare, è quello di far eseguire ordini. Ad ogni buon conto meglio tenere in fondo al cassetto del- la mia scrivania il curriculum degli asceti: uno dei due era capo idraulico fino a quando il precedente asceta è stato assunto in una banca di Sabbione, l’altro è figlio del pizzaiolo della Vesuvio al Parco Mistico, la pizzeria più celebre del complesso (ce ne sono tre). E comunque i pellegrini se la bevono. Li osservo mentre tifa- no per lo spirito del proprio parente appena defunto per un infar- to procurato da sette punture di zecca e mi sento bene, rilassato, come uno che sa fare il proprio lavoro. I parenti si interrogano sulla fine del proprio caro e qualcuno deve confortarli, abbiamo dodici psicologi e una Guida Spirituale pronta a fornire le spiega- zioni del decesso, sempre permeato da una volontà superiore. Cer- to gli scettici non mancano. Stavolta è un teenager secco coi capel- li dritti che domanda se davvero può essere una volontà superiore a decretare la morte per infarto o se invece non sia stato lo shock per le punture di zecca (è chiaro che le zecche abbiano fatto il loro lavoro, del resto è proprio quello che vogliamo far pensare alla gente: la morte, o la chiamata, o l’identificazione assoluta e mistica con l’Oggetto, si verifica in seguito all’azione dei parassiti che l’Oggetto ha contribuito a generare e a vivificare, tanto da esserne invasi. Le zecche che hanno punto il macellaio di Altaforte in real- tà non sono banali zecche ma sono zecche mistiche, generate dal coprolite e quindi altrettanto sacre). Zittisco il ragazzino con una spiegazione incomprensibile. Ho una scorta di spiegazioni incom- prensibili per ogni evenienza, del resto qualcuno le scrive per noi e questo qualcuno è pagato profumatamente. Solitamente mi limito alla prima parte della spiegazione, anche perché sfido chiunque a memorizzare cinquantacinque pagine di fandonie; il ragazzino pe- rò insiste e mi costringe a convocare P. F. d’urgenza. P. F. passa intere notti a studiare spiegazioni incomprensibili ma verosimili. Odio i teenager, puzzano e sputano, scoreggiano e canticchiano canzoni di Britney Spears, ma soprattutto si credono depositari della sapienza del cosmo. E infatti quando P. F. arriva il rompico- glioni è già pronto a dare battaglia, spalleggiato da una sorellastra grassa e racchia, eppure terribilmente odiosa.

464 - Finalmente qualcuno con cui interloquire, dice il mostriciattolo. - Mi dica tutto, dice P. F. - Non è che tutta questa storia del feticismo si con- clude con una sorta di panteismo? Chiede il teenager. - Il culto coprolitico si differenzia sensibilmente dal panteismo, dice P. F. - Eppure a me pare proprio panteismo! Urla il defi- ciente, eccitato come quando si trovò tra le mani il primo numero di Playboy della sua carriera di segaiolo. - Non è corretto, dice P. F. - Se dio è in ogni cosa, come sostiene il motto sim- bolo del culto, non si tratta forse di panteismo? Chiede il teenager. - Assolutamente no, intervengo io. - E tuttavia sarebbe corretto definire il culto di Ko- pros come una concezione non-teistica della divinità? Do- manda il bambinone. Non posso fare a meno di osservare la sorellastra, rac- chia come una scopa, mentre mangiucchia una specie di pannocchia abbrustolita. - Si potrebbe, risponde P. F. - e allora si tratta di panteismo bello e buono! Urla l’imbecilloide infoiato come un gatto in calore. A questo punto siamo stanchi e P. F. sfodera una delle sue spiegazioni incomprensibili. - Mi permetta di ricordarle che se proprio deve tro- vare un collegamento al feticismo coprolitico esso è già sta- to individuato in una sorta di panpsichismo, e a tal proposi- to le andrò a citare il trattato di Galen Strawson intitolato “Realistic Monism and Coprolism: Why Physicalism Entails Panpsychism” in Journal of Consciousness Studies, 13, Num. 10–11, 2006, pp. 3–31, dice P. F. - Lasciamo perdere, dice il mocciosetto. È quasi fatta, ma P. F., non è soddisfatto. - Inoltre, se dobbiamo sviscerare tutta la dottrina coprolitica, nel 1941 Keith Hamm Stahl ha dimostrato che il 465 sacro coprolite è composto per il settantanove per cento di flogisto essiccato. Il teenager è sotterrato, non ha idea di quel che P. F. dice e ri- mane muto, sbuffando. Gli do una pacca sulla spalla e gli offro un buono per una seduta ascetica corredato da un pacchetto di chewing-gum gusto coprolite senza zucchero. Saluto P. F. e penso che le morti accidentali di quest’anno sal- gono a tre. La prima, a febbraio, è stata una pellegrina particolar- mente entusiasta che è caduta dalla Torre dell’Amore Intellettuale di Dio, sfracellandosi al suolo dopo un salto di settantadue metri – tale è l’altezza della Torre, una specie di surrogato del Percorso Mistico o se volete un percorso mistico per principianti, che con- siste nella ricostruzione dell’omonimo percorso proposto da San Bonaventura, in cui il pellegrino o il semplice turista può vivere realmente e tangibilmente l’ascesa mistica –. La tragedia si è con- sumata all’ingresso del penultimo step della torre, il quale simula una caduta nel vuoto nel caso in cui il pellegrino non riesca a ri- spondere a sette domande sul Coprolite. Per chi risponde bene a tutte e sette c’è un’ora di unione con dio, un’ora di prova dell’Amor Intellectualis Dei, che qui consiste in un sogno virtuale all’interno di una camera di sospensione, avvolti da pensieri so- praffini di mondi inesistenti. La signora, per la cronaca, rispose a sei domande, fallendo la settima per un vizio di forma, e anziché entrare nella capsula di simulazione caduta pensò bene di avven- tarsi sulla finestra e di cadere davvero. Probabilmente un inciden- te, poiché dalle nostre parti suicidarsi in questo modo è fuori di- scussione, e per chi vuole suicidarsi coscienziosamente c’è la Pale- stra. Il secondo decesso accidentale è stato un vecchio pensionato di Frinco, a maggio, stroncato dal Confessore Robotico, un confes- sionale computerizzato che rimanda al mittente i peccati sotto- forma di patimenti. La concupiscenza del pensionato gli costò un viaggetto di passione virtuale sul Golgotha, in realtà un’esperienza piacevole e sperimentata da una moltitudine di bambini, nella qua- le il visitatore si trova a fare i conti con la Passione di Cristo; il fi- nale è noto a tutti: dopo aver sollevato una vera croce di legno a grandezza naturale (cambia solo il peso, e di molto), il visitatore si 466 lancia nella scalata del monte Teschio, fedelmente ricostruito dai nostri scenografi e renderizzato dai nostri tecnici informatici. Pri- ma di raggiungere la vetta però il vecchio cadde e non si alzò più. Ordinaria amministrazione. Vado dal Presidente e lo trovo che fa i solitari al Macintosh. Sono impegnatissimo mi dice torna più tardi. Abbiamo un decesso dico e richiudo la porta del suo ufficio. Allora entra subitissimo dice e mi fa entrare. Racconto l’accaduto. Bisogna presentare una relazione scritta dice e si accende una sigaretta. Mi offre una sigaretta. L’accetto. Chiede ha firmato il salvazienda? Rispondo l’ha firmato e gli por- go il documento. Dice benissimo vai a buttar giù la relazione. Va- do a buttare giù la relazione, ma prima chiamo gli uomini delle Onoranze Funebri Interne per le pratiche di sepoltura, mi accerto della fede del cadavere e prenoto un sacerdote per l’estrema un- zione; infine convoco i barellieri, faccio caricare il cadavere e ordi- no di trasportarlo nell’area della Porta del Supremo Spavento, do- ve ci sta aspettando lo Sciamano Coprolitico, un ex pugile travesti- to mezzo da nativo americano e mezzo da pastore sardo, che con- clude la nostra pratica sul cadavere allestendo la commedia- tragedia del superamento della Porta del Supremo Spavento da parte della carne, per purificarla ed entrare nella Stanza della Tranquillità. La porta è un gigantesco portale in acciaio scolpito da un noto scultore sabbionasso, una vera delizia sulla superficie della quale trovano posto i pensierini degli avventori a proposito della morte e della speranza in un al di là; è frastagliata da gargoil e da simboli massonici, pentacoli e serie di Fibonacci buttati lì per au- mentare l’aura di mistero. Mi mette i brividi. La Guida Spirituale addetta allo stuolo di parenti e amici del macellaio (in tutto nove, una bella congregazione di lacrime e starnazzi) spiega che affinché si possa completare l’unione spiri- tuale con l’Oggetto (solitamente il misticismo o feticismo che dir si voglia riguarda il corpo e lo spirito insieme, ma direi soprattutto il corpo) occorre che anche la carne, per quanto inerme e morta, entri in contatto con l’Oggetto e si purifichi dalla paura della vita terrena. Il tutto dura all’incirca dodici minuti, il tempo per un’altra sigaretta. Solitamente non seguo queste pratiche quando la gente

467 porta qui i propri parenti deceduti fuori dal Parco Mistico (e natu- ralmente ce ne sono molti – per fortuna, visto che tutto il proce- dimento costa duecentocinquanta euro), ma in questi casi ritengo opportuno presenziare, per prevenire qualunque reclamo o per fornire qualche altra spiegazione incomprensibile; in questo caso nessuna rimostranza, i parenti e gli amici del macellaio, compresi il mocciosetto e la sua orrenda sorella, sono comodamente seduti sulle nostre poltrone deluxe e seguono impassibili la scena, co- sternati ma allo stesso tempo eccitati per la sorte del loro caro estinto. Faccio buttare giù la relazione da G.F. perché non sono bravo con queste stronzate burocratiche e chiedo a Rena abbiamo già dati di oggi? Mi dice non ancora ma li sto elaborando. Rena sembra avere un ghigno di sfida stampato sul volto e decido di non addentrarmi in una discussione sui conti del Parco. Invece faccio un salto alla Palestra col mio golf cart superaccessoriato; la Palestra è una vera e propria chicca, e modestamente è stata una mia idea. Nacque nove anni fa dall’esigenza di creare uno spazio adibito all’espletamento della clausola 99 da parte dei soci ma anche degli esterni. Vuoi suicidarti entrando in unione con l’Oggetto delle tue ve- nerazioni? Vuoi dare un senso ultraterreno al tuo ultimo gesto ter- reno? Vuoi scoprire la comodità di una clausola 99 al Parco Misti- co del Sacro Coprolite? Basta con ponti trafficati, automobilisti prudenti che frenano all’ultimo istante, basta col freddo e con scomodi cappi approntati in maniera amatoriale. Da oggi c’è la Pa- lestra, un’area attrezzata per ogni modalità di suicidio ®, dalla ca- mera a gas al ponte, dal salto contro mezzi di trasporto all’iniezione letale. E da oggi lo sgombero del cadavere è gratis! E la sepoltura te la offriamo noi! Cosa aspetti? Corri al Parco Mistico del Sacro Coprolite! Località Marazzi 91 - Pizzengo, Sabbionasso Alto. Certificata dal Ministero Suicidi & Festività ® del Gerarcato del Sabbionasso. Così recitava la pubblicità pensata per il lancio. Un successo mirabile che mi valse un aumento corposo e, ammettiamolo, ben meritato. Scelgo personalmente e accuratamente il personale della Palestra. Moose è il Superintendent, il responsabile di tutta l’area;

468 ha quarant’anni ed è considerato il bello del Parco, tanto che due anni fa una piacente signora di Sabbione rimandò di due mesi la sua clausola 99 per trascorrerli con lui. Gli chiedo come va e mi dice abbiamo tre prenotazioni per oggi e sette per martedì. Dico non un granché ed entro negli spogliatoi, nella sala d’aspetto e in- fine nella Palestra vera e propria. Osservo l’attrezzatura che negli anni è andata affinandosi: un ponteggio alto quarantanove metri simula la morte per precipitazione, la camera a gas permette di re- golare la durata del suicidio ® dai quattro minuti alla mezz’ora, il muso rincagnato di una Porsche Cayenne esce dalla parete sospin- to a cento chilometri orari da un braccio meccanico per chi vuole saltarci contro. Abbiamo dodici forche con altrettanti cappi, per le esigenze di chi vuole impiccarsi e morire per soffocamento o per rottura del collo. Un corpo penzola dal cappio 3, quello che garan- tisce la rottura del collo e la morte istantanea. Il tutto preceduto dall’unione mistica col coprolite e seguito dalla pratica della porta del Supremo Spavento eccetera eccetera. La Palestra è un punto cardine del Parco Mistico, e Moose ha ormai acquisito un’esperienza tale che tra tutte le aree questa sarebbe l’unica che potrei fare a meno di controllare; ci vengo per affetto. Cinque per- sone si prendono cura dell’assistenza ai suicidi ® e due verificatori esterni, inviati dall’Ufficio Festività & Suicidi ® del Gerarcato, sono sempre presenti al fine di certificare legalmente e formalmente l’espletamento della clausola 99. Dico Cristo tre prenotazioni sono una miseria e mentre lo faccio la seconda delle tre prenotazioni, un docente universitario della facoltà di fisica di Sabbione, si fa travolgere dal muso rincagnato della Porsche Cayenne ed è subito coperta e raccolta dagli uomini di Moose. Me ne vado abbastanza sconsolato e mentre rimugino su una nuova campagna pubblicita- ria e sulla possibilità di proporre nuove promozioni mi accorgo che è ora della mia visita. Mi presento per le analisi, faccio le anali- si, compilano il quadro clinico.

Battito cardiaco: regolare. Densità sanguigna arteriosa: fluida. Problemi alle articolazioni: nessuno. Attività respiratoria: nella norma. Altre controindicazioni: pressione alta. Stato di salute ge- nerale: buono.

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Mi fermo a pranzo e i soci sono una lagna continua: l’acqua della piscina è fredda, l’area Disabili & Malati dovrebbe essere a parte, la vista degli storpi e dei malati terminali non favorisce lo sviluppo di un clima sereno tra i soci, nella Valle delle Lacrime il vapore è troppo tiepido e via dicendo. Mi rimangono le patate al forno sullo stomaco, butto giù un caffè, saluto e salgo sul mio golf cart diretto in ufficio. Mentre passo dal Cinema Dinamico incon- tro gli addetti culturali che si lamentano per lo scarso afflusso di gente. Qui raccontano le teorie più accreditate sul misticismo co- prolitico e lo spettacolo, se così possiamo chiamarlo, è di una noia mortale. Nel corso degli anni il nostro Ufficio Delibere, Teorie & Disquisizioni ha svolto un lavoro egregio proponendo ai quattro venti (il che significa con articoli e saggi su pubblicazioni scientifi- che e religiose, presso scuole e università, eccetera) rilevamenti d’ogni genere, disquisizioni d’ogni sorta, dialoghi su massimi si- stemi e analisi sistematiche. L’ultima, venduta ottimamente ma poi abbandonata, indicava il coprolite come risalente al periodo ordo- viciano, circa quattrocentotrentasette milioni d’anni prima di Cri- sto, senza però determinarne la provenienza. Altri raffinati studi lo ricondussero a un periodo più giovane, circa settantamila anni prima dell’Impostore (come chiamano gli iscariotici Cristo), e lo vollero generato da una tartaruga gigante. Fecero così in modo di accendere la disputa anche sull’origine del generatore, che per al- cuni era di conformazione invertebrata: questi eretici affermarono che il coprolite fosse un accumulo di faecal pellets, ma furono presto tacciati di blasfemia e isolati. L’infinito tourbillon accade- mico lo identificò, per un certo periodo, con una costola del gran- dioso coprolite di Saskatchewan, del peso di sette chili, eppure mai venerato. E ancora si discuteva sulla determinazione: era decisiva la composizione chimica del coprolite in sé oppure si doveva risa- lire all’organismo che l’aveva prodotto? Chi era il demiurgo? La pubblicazione di Jerry Todwell, che tentò una teologia negativa pubblicando la tesi dottrinale secondo cui il coprolite non era sta- to generato ma si era formato per accumulo di sostanze scono- sciute, non fu mai accettata dagli accademici. Miglior fortuna ebbe la dottrina del francese Julien Varrel, che sostenne una sorta di

470 duplicità divina del nume: sia l’organismo che lo produsse sia la sostanza in esso contenuta vanno considerate divine all’unisono. Qualcuno arrivò a sostenere, in passato, che il coprolite fosse una reliquia prodotta dall’inoppugnabile Gesù Cristo. Insomma, alla fine la tesi accettata comunemente è quella esposta nella targa di fianco alla teca del Sacro Coprolite. Butto un occhio nella sala e conto: nove persone in una sala da settantacinque posti. Mi preoccupo. Quando inaugurammo il Ci- nema Dinamico, sei anni fa, dovemmo affrontare l’emergenza dei continui sold out e delle richieste disattese. Sento la crisi che mi accalappia la gola sottoforma di un magone irresistibile. Del resto gli ultimi dati forniti dalle più accreditate società di sondaggi han- no rilevato un calo di sette punti percentuali nella popolarità e nell’affezione del feticismo coprolitico presso i cittadini sabbio- nassi. È una questione con cui dobbiamo fare i conti. Decido di fare un salto al Bunker Teorico, l’edificio interrato in cui risiedono i ‘veri’ mistici coprolitici, i padri della dottrina, e nei cui sotterranei giace la reliquia più importante del Sabbionasso, forse del mondo: la testa mummificata del nostro patrono San Bertran de Born; il luogo è off limits per chiunque tranne che per il Presidente e per il sottoscritto, unici depositari del codice d’ingresso oltre all’equipe scientifica che sta elaborando il virus mistico e alle guardie armate che si succedono nel sotterraneo. Qualche anno fa si scoprì che i gas e i batteri emanati dalla testa mummificata del Patrono sab- bionasso sono alla base del virus mistico, così sono iniziate una serie di analisi e la raccolta mensile dei campioni che dopo infinite lotte i padri della dottrina hanno approvato. Tra i padri della dottrina (una ventina in tutto più una dozzina di novizi) ci fregiamo di avere alle nostre dipendenze anche Padre Malachia Osé Espinoza, un novantasettenne che partecipò in gio- ventù alla prima congregazione mistica del coprolite. Mi accolgo- no un paio di novizi alle prese col pasto tipico del feticismo co- prolitico, una serie di cibi avariati che mi fa venire il voltastomaco. Buongiorno, dico. Non vede che siamo impegnati?

471 Stanno cercando di inghiottire qualcosa di simile a uova com- pletamente avariate, mentre altri sono inginocchiati nell’angolo della stanza ed emettono gemiti tenendosi lo stomaco fra le mani. Dobbiamo esercitarci, dice uno dei novizi. Anche perché ci avete aumentato la tassa sugli scarichi, dice l’altro novizio. Il Presidente ha costretto i mistici a un impiego più morigerato di cibo da quando gli è giunta voce che tutti i loro rifiuti umani, sacri per definizione ma terribilmente maleodoranti, impregnava- no i condotti di ventilazione della sovrastante Sala Tv per Soci. In pratica cacavano troppo e troppo frequentemente per le narici dei nostri beneamati soci, i quali non hanno perso tempo per lamen- tarsi a tutto spiano. Gli anziani allora pur di non rinunciare al cibo hanno inserito alcune clausole nella disciplina per far sì che tutti i mistici, soprattutto i novizi, limitassero il numero di cacate quoti- diane, a fronte di sforzi disumani. Stessa quantità di cibo ma meno cacate, è questo che hanno proposto. Il Presidente ha accettato; inoltre mi ha costretto a far montare un filtro all’impianto di venti- lazione. Guardo i novizi mentre inghiottono quel cibo avariato e penso alle sofferenze che dovranno patire. Uno dei due mi dice i Padri sono riuniti per studiare la relazione tra unità divina e morti- ficazione corporale jainista in connubio allo sbriciolamento perio- dico del coprolite. Dico sarebbe meglio che studiassero il modo di uscire dalla crisi. Dice a loro non interessa la crisi. Dico invece dovrebbe, e me ne vado, chiedendo di fissarmi un appuntamento l’indomani mattina. Salto sul golf cart e fumo nervosamente. Torno in ufficio e Rena mi fornisce alcuni dati, dice alla data attuale siamo a quota trentotto soci dimissionari; ha ancora quel ghigno beffardo stampato sulle labbra. Vado dal Presidente e co- munico i dati. Il Presidente è al telefono e sta ridendo di gusto in quel suo modo insopportabile. Mi fa aspettare, molla due baci di- sgustosi al telefono e mi dice mettiamo in manutenzione straordi- naria alcuni lavori; chiedo quali lavori? Risponde il Fico d’India Gigante è in condizioni pietose, ha infiorescenze scolorite e sem- bra mezzo secco. Il Fico d’India Gigante è l’introduzione allo Step 10: i partecipanti al Percorso Mistico devono circumnavigarlo set-

472 te volte completamente nudi prima di poter accedere allo step 10 vero e proprio, il Giardino dell’Eden. Mi sono sempre chiesto se queste contaminazioni tra una religione e l’altra fossero necessarie. Il Presidente mi guarda e dice il fico d’india è fondamentale, mio suocero lo detestava, spiega, e per questo ora deve essere più rigo- glioso che mai. Mi hanno spiegato al Bunker che la pratica della circumnavigazione ha un duplice significato: il primo, derivato dall’islam, di surrogato ai famosi sette giri intorno alla Kabaa, il se- condo, profano, di esaurire la vacuità dell’esistenza terrena, con- cetto espresso da un tale Elliot o una roba del genere; non ci ho mai capito nulla ma va bene così. Dico manderò il giardiniere e l’agronomo oggi stesso. Dice in più stavo pensando di ammantare i partecipanti con un velo, quelli dell’Ufficio Moralità & Igiene mi rompono i coglioni di continuo. Dice mi hanno già fatto passare le Prostitute Fenicie, il Gioco d’Azzardo al Saloon, l’alcol e il ta- bacco, ma adesso vogliono qualcosa in cambio. Dico i padri della dottrina la prenderanno male. Urla vadano affanculo i padri della dottrina, mi costano un occhio della testa e stanno tutto il tempo rintanati in quel buco di cemento a masturbarsi su riviste porno- grafiche, da oggi decido io. Dico servirà un documento bollato. Dice dalla prossima settimana si cambia, butta giù una relazione e modifica il regolamento. Torno nel mio ufficio, spiego la situazio- ne a G. F. e gli dico di buttare giù una relazione e di modificare il regolamento. Mi risponde ma è impossibile i padri della dottrina non accetteranno mai. Dico vadano affanculo i padri della dottrina e pure il Presidente, facciamo quello che ci dicono e chiudiamo il discorso. Rena ridacchia e scuote il capo e io me ne vado per non rovesciarle in testa la scrivania. È incredibile come il Cavaliere ab- bia costruito questa meraviglia intorno a un pezzo di sterco fossi- lizzato e come i suoi eredi stiano cercando di rovinare tutto. Entro nell’ufficio marketing dove pasteggiano a plum cake e cappuccini e urlo diamoci da fare cristo, trentotto dimissioni sono trentotto dimissioni. Mi rispondono c’è il culto di San Tamerlao che ci porta via un sacco di adepti, il Luna Park ci porta via i pel- legrini, il Museo di Storia Naturale del Sabbionasso ci porta via i turisti. Dico non me ne frega un cazzo inventate una nuova cam- pagna pubblicitaria per la Palestra, preparate una bozza di promo-

473 zioni, un pacchetto o che cristo ne so, e insomma sgobbate come muli perché voglio dei risultati. L’ultima campagna pubblicitaria stimolava il cittadino sbandierando i prodigi avvenuti alla presenza di un incontro spirituale e fisico col Coprolite. Negli ultimi due anni, però, si sono verificati solo tre casi di guarigione: due cecità e una paralisi, che come al solito gli scienziati hanno attribuito a cause del tutto naturali o a cure mediche, nonostante la propagan- da dei nostri scienziati. Sono tempi duri. Chiamo la mia ragazza e le dico va bene cibo messicano? Mi risponde perfetto amore mio torna presto. Rigiro una sigaretta tra le dita, me l’accendo, penso dovrei fumare di meno. Poi mi chiamano dal Percorso Mistico e mi dicono serve l’intervento del Direttore in qualità di Giudice Mistico. Chiedo che step? Comunicano step sette. Salto sul mio golf cart e mi sposto al Percorso Mistico presagendo una qualche rottura di palle. Quando c’è la richiesta di un arbitrato ci sono sempre dei problemi. Lo step sette è uno dei miei preferiti: si trat- ta dell’Abbandono del Pensiero; un macchinario appositamente creato nei nostri laboratori agisce sui neuroni e distrugge tutti-i- pensieri-tranne-uno del partecipante per undici minuti; in questo breve lasso di tempo il partecipante per accedere allo step otto (molto più fisico), deve mantenere come unico concetto noemati- co un pensiero degno e puro, imprescindibilmente rivolto all’Assoluto, dunque all’Oggetto, dunque a Dio. Entro, saluto e dico che problema c’è? Il Percorso Mistico si svolge in gruppi da tre, quattro partecipanti. Uno dei tre dice il pensiero di questo qui era una donna in reggicalze e perizoma con un frustino in mano. Dico squalificato e invito gli altri a proseguire. Dice sì ma dove sta scritto nel regolamento che l’Oggetto non può essere attorniato da altre figure? Non capisco. Mi spiegano che nell’Unico Pensiero il frustino ha le sembianze del coprolite sacro. Chiamo G. F. e mi consulto. G. F. conosce il regolamento anche meglio di me. Dice squalificato poiché anche se il frustino ha la forma del coprolite esso viene accostato a un’immagine carnale che inficia senza dub- bio l’unione assoluta con l’Oggetto, mentre l’Oggetto, in qualun- que modo essa venga rappresentato, deve restare unico; sta scritto nel Libro delle Decisioni sul Regolamento del Percorso Mistico. Dico squalificato e mi prendo dell’incompetente; già che c’è non

474 perde occasione per criticare il Ristorante Centrale della Park House. Dice il coniglio è immangiabile. Dico me ne occuperò, e salgo sul golf cart per tornare in ufficio. Sono le sei e dieci e mi chiamano dall’ambulatorio: abbiamo un problema serio dicono. Mi precipito all’ambulatorio. Chiedo che problema serio? Vedo il figurante allergico al vaccino disteso sulla lettiga. Berri dice si trat- ta di shock anafilattico del 3° grado della scala Mueller che ha condotto il paziente al coma. Dico porca puttana questo è un bel problema. Dicono tranquillo se non si rimette in sesto siamo a po- sto; lo trasferiscono al Policlinico. Vado dal Presidente e vuoto il sacco, sta sgranocchiando un chilo di noccioline. Dice hai i dati? Dico trentotto soci dimissionari, settantanove per cento di pre- senze in meno al cinema dinamico, buona affluenza alla Grotta, media affluenza al Percorso Mistico. Dice Cristo devi occuparti dei finanziatori, rispondo mi occuperò dei finanziatori. Dice tro- vami dei gioiellieri, rispondo cercherò dei gioiellieri. Chiedo e per la faccenda del figurante in coma? Dice se non si sveglia chissene- frega, se si sveglia è un problema ma lo risolveremo con un risar- cimento. Sgranocchia noccioline. Sono le sei e tre quarti e fa anco- ra caldo; si avvicina un periodo cruciale per la stagione, quello del- le celebrazioni per la Festa di San Bertran de Born, la crisi incom- be, le presenze diminuiscono, un nostro dipendente è entrato in coma e il Presidente sgranocchia noccioline e si sgranchisce le braccia dietro la testa, mostrandomi l’imponenza del suo corpo crasso e schifoso. Chiede e per quanto concerne lo sbriciolamen- to? Rispondo nella norma Presidente. Vuole che faccia subito un elenco dei soci più chiacchierati, quelli che raggiungono l’Assoluto dopo lo step 18 ingannando o barando; dice becchiamone uno, servirà da esempio. Faccio la lista alla veloce. Me li boccia tutti. Dice ma sei pazzo questi sono soci troppo importanti per rischia- re che se ne vadano o perdano l’afflato, beccane un altro. Mi fa un paio di nomi. Uno è un ex sacerdote di Tonco, un poveraccio che dopo aver perso la fede in Gesù Cristo sta cercando di riacquistar- la attraverso il feticismo coprolitico; dice questo è l’ideale, ha pure dilazionato la quota associativa in tre rate. Dico non mi risulta che abbia mai ingannato. Due settimane fa ha raggiunto lo step 18 ed è stato premiato per la sua Unione con l’Oggetto, tra l’altro dopo

475 aver superato lo step 16, una serie di torture e mortificazioni cor- porali jainiste da brivido, con il massimo dei punti. Dice è lo stes- sissimo se ha ingannato o no, qui serve un esempio, e la Commis- sione di Disciplina Feticistica mi sta col fiato sul collo, mi sono spiegato? Rispondo si è spiegato Presidente, esco e mi fumo una sigaretta nel Peripato della Concupiscenza, step 15 del Percorso Mistico, dove dodici sirene-prostitute costringono gli avventori a sacrifici carnali pietosi (queste prostitute sono state una scelta davvero azzeccata – costrette ovviamente a consumare il rapporto se l’avventore cede alle loro lusinghe; ecco perché lo step 15 ha una percentuale di abbandono del settantanove virgola sedici per cento – accompagnate ovviamente da quattro gigolò per le avven- trici). Penso per un attimo al giovane figurante Adoratore Ufficia- le, telefono al Policlinico per sapere le sue condizioni. Coma irre- versibile dicono. Non so se gioire o disperarmi; decido di gioire e vado a farmi una mezza pinta di birra al Bar della Park House, do- ve naturalmente incontro soci che mi offrono la birra e che mi porgono le loro sottili e raffinate rimostranze. L’Avv. Sunkojn chiede com’è possibile che abbiate rimosso i pisciatoi? Un uomo non può pisciare se non nei pisciatoi. Chiamo G.F. e domando perché abbiamo rimosso i vespasiani? Perdevano piscia e puzza- vano, risponde G.F.; comunico il motivo della rimozione all’Avvocato. Quello sbraita non me ne frega un cazzo, dovete reinstallarli. Dico faremo ripristinare i vespasiani avvocato, e gli offro un bicchiere di barolo. Il Dott. Herzoj mi prende da parte e dice chissenefrega dei pisciatoi, qui il vero problema sono le spine dei cespugli. Chiedo quali cespugli? Risponde quelli attorno al Bo- sco Liturgico; non le pare drammatico, spiega, che i cespugli ab- biano le spine? Mia moglie si è graffiata due volte. Il Bosco Litur- gico è il luogo meditativo di preparazione al Percorso Mistico do- ve i Meister di mistica svolgono lezioni ai soci. Abbiamo cinque meister e due assistenti meister. Dico provvederemo a cavare le spine dai cespugli una a una dottore; dice così si fa, voglio poterci mettere il culo nudo dentro senza graffiarmi, e mi offre un caffè. Chiama la mia ragazza e chiede quando arrivi? Tra non molto dico e vado in ufficio. Rena per fortuna se n’è andata, G. F. sta per far- lo quando chiamano dal Percorso Mistico e comunicano il Notaio

476 Lumoj ha raggiunto l’Unione Mistica con l’Oggetto. Ordino pre- parate la sala premiazioni e leggo gli ultimi dati sulla concorrenza: altri due parchi mistici nei dintorni di Sabbione, più piccoli ma confortevoli e a detta di molti più funzionali. Il primo, inaugurato l’anno scorso, è un parco Iscariotico nel quale si insegnano i rituali di quella stramba religione, ma è quello che più mi preoccupa. Il secondo si è sviluppato attorno alla Sacra Sindone, e sebbene la nostra Contropropaganda sia stata semplicemente micidiale, grazie a studi e analisi che hanno confermato e ribadito più volte la falsi- tà della reliquia, è sempre carico di visitatori. Mentre monto sul cart telefona il Presidente e dice ore 22. Rispondo ore 22 cosa? Dice ore 22 al Centro Studi Termodinamici. Non riesco a capire. Il Presidente è schifosamente eccitato e io nebulosamente preoc- cupato. Mi comunica che alle ore 22 si effettuerà in anteprima il lancio del virus H7 J39 su ‘scala cittadina’. Sono sempre più preoc- cupato. Chiedo cosa intendiamo per ‘scala cittadina’, Presidente? Dice i nostri tecnici hanno imprigionato il virus in contenitori me- tallici, mi segui? Dico la seguo Presidente. Dice bravo, ora questi contenitori metallici contenenti il virus saranno caricati su dodici elicotteri di mia proprietà, mi segui? Dico la seguo Presidente. Be- nissimo, dice, questi elicotteri sorvoleranno la città di Sabbione al- le ore 03.30 di questa notte. Quando si troveranno in posizione, il che accadrà intorno alle ore 04.00, rilasceranno nell’atmosfera i contenitori metallici. Dice se vado troppo veloce bloccami. Dico continui pure, Presidente. Dice, perfettissimo, allora potrai imma- ginare quello che succederà. Dico in questo momento faccio una certa fatica a lavorare con l’immaginazione. Il Presidente gracchia una risata: fa niente, te lo dico io. Albori, mio caro, immagina gli albori di una nuova era. Sono stanco di albanesi e marocchini, vo- glio testare il virus sulla gente. Chiedo su quale gente? Risponde su tutta la gente. Quando i contenitori metallici farciti di virus entre- ranno in contatto con l’ossigeno si disgregheranno liberando il vi- rus nell’atmosfera. Dico stiamo parlando di bombe batteriologiche ? Ride. Dice non essere ridicolo; stiamo parlando di una specie di divertimento in occasione della Giornata del Delirio Mistico Col- lettivo sponsorizzata da noi. Sghignazza. Non faccio in tempo a replicare che mi butta giù il telefono. Intanto in Sala Premiazioni

477 sono pronti, il buffet di oggi è offerto dalla Cravatteria F.lli Bon- juo di Sabbione; sette e quaranta, chiamo la mia ragazza e dico ci vediamo tra un po’, ho la premiazione; risponde cazzo è da un’ora che sono pronta, mi dovrò struccare e ritruccare di nuovo. Cerco di contenermi pensando alle mie analisi e mi dirigo al laboratorio, mi visitano, mi compilano il quadro clinico.

Battito cardiaco: leggermente accelerato. Densità sanguigna ar- teriosa: fluida. Problemi alle articolazioni: nessuno. Attività respi- ratoria: nella norma. Altre controindicazioni: contratture muscola- ri riscontrate nella zona cervicale. Stato di salute generale: discreto.

Dico e per quanto riguarda stanotte? Dicono non siamo re- sponsabili per le decisioni prese dal Presidente di questa struttura. Mi presento in premiazione e appena entro un gruppo di venti o trenta persone è già attorno al tavolo del buffet, qualcuno con tartine ripiene in bocca. Dico signori c’è la premiazione, si ferma- no e applaudono. Mi chiamano dall’ambulatorio e mi confermano che il ragazzo figurante è in coma irreversibile, dicono difficile che passi la notte; per un attimo sono assalito dal senso di colpa, il ve- ro e proprio cancro di chi fa il mio lavoro. Dura poco, anche per- ché devo mostrare un’espressione felice: un nostro carissimo so- cio ha raggiunto la terza Unione dell’anno con l’Oggetto. Prendo il microfono, le casse sembrano funzionare, dico signori benvenuti alla premiazione di oggi; senza indugiare cedo la parola al nostro vice presidente Avv. Franco Combi, che pronuncia due coglionate di circostanza e mi ripassa il microfono per la premiazione ufficia- le. Annuncio: Al terzo posto, step 16, l’architetto Nejromo – ap- plauso. Al secondo, step 18 con caduta virtuale, l’Ing. Ravajo – applauso. Vince con un’eclatante Unione con l’Oggetto il notaio Lumoj! Grande applauso finale e via come maiali al buffet. Saluto cordialmente tutti e torno a prendere le mie cose in ufficio, ma prima vado a presentare il rendiconto quotidiano al Presidente, che sta fumando stravaccato sulla sua poltrona in attesa del mio arrivo. Dico allora Presidente, i dati conclusivi di oggi: una morte accidentale, sessantanove partecipanti al Percorso Mistico offerto dalla Cravatteria F.lli Bonjuo, tre suicidi ® in Palestra, quaranta-

478 quattro Park Fee, stato di sbriciolamento del coprolite nella nor- ma, un dipendente in coma. Irreversibile? chiede. Irreversibile, di- co. Dice perfetto ma dobbiamo rinnovarci capisci? Deve sorgere una nuova era per il nostro Parco Mistico. Mi guarda, sto zitto. Dice d’ora in poi la parola d’ordine sarà rinno- vamento. Fuori dai coglioni tutto quanto è vecchio, abusato, usu- rato, consumato. La crisi ci fa una sega, caro mio, perché qui sia- mo agli albori del nuovo feticismo coprolitico. Mi guarda. Dice e trovami delle gioiellerie. Poi si accende una sigaretta ed esclama cose del tipo Benissimo, Very Goodissimo, Magnifico, a domani, ci siamo intesi? Sussurro ci siamo intesi Presidente. Sono le nove di sera e una penombra azzurra invade le colline. Vado a control- lare le colture di virus contemplativo; abbiamo fatto progressi? chiedo al capo ricercatore. Grandiosi progressi, risponde lui. Gli effetti collaterali sono passati a vomito, nausea, dissenteria, tremo- ri, arresto cardio-respiratorio, paralisi locale, coma vegetativo, in- fiammazione gastro-intestinale, morte. Dico fantastico abbiamo debellato la trombosi, e per quanto riguarda l’infiammazione ga- stro-intestinale? Dice per quindici giorni di esperienza mistica con- tinuativa e coinvolgente un po’ di bruciore al culo è accettabile. Ne convengo e dico cosa prevedete per stanotte? Dice chi può dirlo, gli ultimi test ci offrono una speranza di successo pari al do- dici virgola sessantacinque per cento. Comunque sembra che l’effetto indesiderato più potente non intacchi le cellule vive. Chiedo cosa significa? Risponde per il momento non ne ho idea, ma nelle ultime settimane ho potuto analizzare alcune, come dire, stravaganze. Mi lascia un referto sugli ultimi esami effettuati. Non faccio visite né mi faccio compilare il quadro clinico. Mentre torno a casa ho sulla coscienza un ragazzo di venticin- que anni e penso che forse quella stronza di giornalista non aveva torto, ripenso al Cinema Dinamico semivuoto, al Percorso Mistico offerto dalla Cravatteria F.lli Bonjuo col trenta per cento di parte- cipanti in meno, alla grave crisi che sta coinvolgendo tutte le atti- vità del parco, persino la Palestra; non ne faccio una malattia, con- fido nella nuova era del feticismo coprolitico e penso alla cena con la mia ragazza; la chiamo dico stasera niente cena facciamo doma- ni, dice ma vaffanculo e io vado in un pub a farmi un paio di birre,

479 mi rilasso, gioco a biliardo, penso al giovane in coma ma non rie- sco neppure a focalizzare i tratti del suo volto, rifletto sul virus H7 J39 e bevo un’altra birra. Sono un vero professionista: ho il cuore duro come pietra e il cinismo mi nutre più dell’amore, ma che cri- sto, fa parte del mio lavoro.

480 VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (15) ______

Lunedì 13 ottobre, Giornata della Falloforia Fecondativa Art Attack, J. M. Grosskreutz, impiegato del Parco Mistico del Sacro Coprolite, trentadue anni, si fece saltare in aria inghiottendo una caramella esplosiva al gusto mela nell’atrio della Stazione Centrale dei Treni di Sabbione, causando ritardi e soppressioni degli inter- city in partenza per ogni angolo del territorio, nonché sedici feriti (quattro gravi). Il giovane, che indossava la caratteristica calzamaglia arancio- ne, durante il compimento del suo meschino gesto era riuscito in qualche modo a trasmettere la solita triste colonna sonora (Brigit- te Bardot) collegando il proprio dispositivo I-Pod agli altoparlanti della stazione, e aveva lasciato un biglietto riportante la scritta La Paternità Conduce Necessariamente Al Suicidio . L’incaricato del caso, l’Ispett. Sandro Wuzzkoj, scoprì che Grosskreutz era diventato padre da poco più di sei mesi, e tale evento aveva scatenato in lui una depressione talmente acuta da condurlo a unirsi al Circolo dei Suicidi Abusivi. L’esame dei suoi Aggiornamenti Obbligatori Annuali rivelò che il risultato della sua ultima predizione riportava la formula Svi- luppo Esistenziale Positivo . Wuzz rifletté: lo sviluppo esistenziale positivo era rappresenta- to dalla paternità oppure dalla morte? Il divinatore che effettuò l’Aggiornamento, quando interroga- to, sostenne che la morte, in taluni casi pietosi, può rappresentare uno sviluppo positivo. Quando gli fu chiesto se anche una morte di quel genere, giunta contravvenendo volontariamente alla Legge Sabbionassa, potesse rappresentare uno sviluppo positivo, egli ri- spose di sì: ci sono cose, a questo mondo, che non si possono in- tendere. E quando infine gli fu fatto notare che lo scopo della divina- zione avrebbe dovuto essere proprio quello di evitare una morte accidentale, una vita meschina o una morte volontaria quando non ammessa dalla legge, egli dichiarò che dovevano per forza 481 esistere, nel Continuum Temporale, delle piccole imperfezioni; allo stesso modo il più perfetto determinismo avrebbe dovuto ga- rantire alcune eccezioni, senza le quali, come dimostra il noto proverbio, la regola non può essere confermata.

Subito dopo iniziarono le indagini. Nessuno sapeva le modalità con le quali il Circolo arruolava i propri membri. Umbilk e Wuzz, che si profusero in ricerche ac- curate, giunsero alla conclusione che, a parte un nucleo originario fondativo, il resto dei membri agiva per emulazione, senza alcun contatto col Circolo vero e proprio o col Monaco Arancione. Questo spiegava tra l’altro la ragione per cui tutti i tentativi di in- filtrarsi da parte degli uomini del Corpo di Nettezza Umana fos- sero miseramente falliti. Quando lasciò l’abitazione di Grosskreutz, dove comunicò l’ incidente alla moglie, Umbilk fu colto da una rabbia ancestrale, profonda e incontenibile. In ufficio rovesciò la sua scrivania, negli spogliatoi danneggiò il proprio armadietto sfondandolo con una manata, tornando a casa fece sosta in un bar e si sbronzò riflet- tendo sulla paternità e su cosa comportasse, in questo secolo, es- sere padri. Ripensando al proprio padre non se la sentì di colpevolizzare il sucida abusivo, anche se una domanda gli risuonava in testa rim- balzando come la palla di un flipper: come può un padre rinnega- re l’amore di un figlio con un atto così prepotentemente egoisti- co? L’istinto altruistico che lega padri e figli, si rispose, è una favo- letta che ci raccontano al Centro Sterilità. Il genere umano è legato solo ed esclusivamente da rapporti di egoismo. L’egoismo predomina, e in nessun caso lascia trasparire l’altruismo, che è destinato a rimanere un sentimento in potenza, mai in atto. Umbilk giunse a queste conclusioni dopo sette whisky doppi, che lo costrinsero a chiamare un collega affinché lo riaccompa- gnasse a casa, dove lo moglie lo stava aspettando con espressione terrorizzata.

482 Doroteo Umbilk si era convinto di possedere un animo nobile, ma in quel momento non ne fu più troppo sicuro.

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483 DI COME CONTRIBUIMMO A SALVARE IL FIUME ATANOR

La nostra è una rivista di caccia. In effetti non si tratta di una rivista di caccia pura e semplice; è qualcosa di più articolato, complesso. Per contrastare le continue minacce degli animalisti, il nostro capo ha infatti deciso di strizzare l’occhio agli ambientalisti. Così, insieme ad articoli sulle tattiche più efficaci per uccidere una bec- caccia con un fucile senza tacca di mira o sul metodo migliore per scorticare un procione e ricavarne un paio di caldissime babbuc- ce, da qualche mese pubblichiamo articoli indignati per i ghiacciai che si ritirano, l’inquinamento, la fame nel mondo o le foreste amazzoniche devastate dagli incendi.

Venerdì dodici luglio quelli della rivista mi mandarono al con- gresso semestrale dell’Azienda Gerarcale Coloranti e Affini, nella Terra di Cipperùla, per “raccogliere informazioni e stilare un rap- porto dettagliato” da pubblicare e consegnare a “un certo gruppo ambientalista fluviale” che aveva commissionato il reportage “pa- gando profumatamente”. Insomma dovevo andare a Lazzo e rac- cogliere informazioni su quest’azienda. Prendemmo un appuntamento (che ci fu molto cordialmente concesso) e mi dissero che l’Azienda mi avrebbe messo a disposi- zione una guida. Preparammo una lista di domande precise e mi diedero il compito di tornare con delle risposte precise. Non po- tevo utilizzare l’automobile poiché i giornalisti di Tempo di Uccidere abiuravano le emissioni di particelle ultrasottili in atmosfera, così presi l’autobus delle 15.30 dalla stazione centrale di Sabbione e arrivai a Lazzo alle 16.45. A quell’ora il fiume Atanor – che attraversa il paese da ovest a est – è rosa mountbatten con riflessi ottone antico. Lazzo è così desolato e putrido che l’angoscia ti entra nel cuore e ti sfibra il midollo; non c’è anima viva, e l’unico bar è frequentato dai pochi 484 abitanti che si avventurano nelle strade avvelenate. Le piantagioni sono morte, i pesci presentano ascessi tumorali, i bambini pian- gono. Ciononostante si organizzano gite turistiche per ammirare il fenomeno dell’acqua policroma. Il congresso semestrale della AGCA si teneva presso il centro congressi della AGCA , il quale si trova a meno di cento metri dal luogo in cui il nostro Patrono Bertran de Born sconfisse i cippe- rùli nel milleduecento e rotti, e infatti una statua del condottiero si staglia immensa nel cielo livido. È un gioiello architettonico, di- cono quelli che s’intendono di queste cose. Quando entrai nell’immensa sala conferenze dotata di ogni comfort e di trentotto televisori al plasma da sessantaquattro pol- lici mi ricevette una hostess bionda, elegante, vestita con un tail- leur blu al ginocchio e una giacca bianca con lo stemma della AGCA , che è un sole lisergico entro il quale è riprodotta una scala Pantone completa. La hostess era davvero magnifica. Mi accolse cordialmente e mi offrì un bicchiere di vino. La sala conferenze era gremita di studiosi, ingegneri, imprenditori, chimici; special- mente chimici. Avevano un colorito strano. Qualcuno era oliva- stro, qualcun altro salmone scuro, altri lì per lì non mi riuscì di ca- talogarli. Miliardi di colori invadevano l’ampia sala sfavillando e sfolgorando sugli enormi specchi posti contro i muri e sui soffitti; c’era un profumo buono di vino appena fatto, di mosto. Un uo- mo distinto con occhiali rotondi e la pelle color blu di Persia mi avvicinò e mi strinse la mano. Era la guida che mi era stata messa a disposizione. “Buongiorno!”, esclamò sorridendo. “Sono Tom. Di qualunque cosa abbia bisogno sono a sua completa disposi- zione”. “Mi chiamo Martin e ho una lista di domande precise”, dissi. “Piacere Martin. Sarò lieto di rispondere a tutte le domande precise a cui potrò fornire una risposta precisa”, rispose Tom. “Quello che ha in faccia è il colore della sua pelle?”, chiesi. “Que- sto è uno splendido blu dodger del ’67, e sì, è il colore della mia pelle”, disse. “L’avrei valutato un blu di Persia”, replicai. “Il blu di Persia ha ricami infinitesimali di arancio fossilizzato tra le venatu- re interne; se questo fosse blu di Persia noterebbe il contrasto col rosso cardinale dei vasi sanguigni, il cui risultato sarebbe uno stu- pendo blu Klein striato di verde muschio. Giosuè Brume, il tecni-

485 co delle luci (me lo indicò), ha una pelle blu di Persia, la mia è blu dodger”, disse. “Certo non pretendo che tutti riconoscano la dif- ferenza tra blu dodger e blu di Persia”. Intanto il congresso pro- seguiva nella splendida e modernissima sala congressi dell’ipertecnologico centro congressi. Un uomo stava in piedi sul grande palco e tutta le gente lo ascoltava in silenzio religioso. “Quello è Smith II, il Capo Chimico della Società dei Colori”, disse Tom. “Esiste anche uno Smith I?”, domandai. “Che io sappia no”, disse Tom. Sfoggiava con indifferenza un perfetto sorriso profes- sionale. “Ma chiedetevi:”, stava dicendo Smith II, “qual è la ragione per cui la gente è infelice e irrealizzata?”, a quel punto la sala esplose in un formicolio di fondo. “Non affannatevi, ve la dico io”. A quel punto la sala fece silenzio. “La percezione dei colori circostanti è la ragione”, disse Smith II. La sala esplose in un ap- plauso tonante. Un meraviglioso gioco di luci e colori vivacizzava Smith II, la cui pelle aveva uno splendido colorito Ocra.

A questo punto, mentre Smith II si dissetava e tre hostess gli asciugavano il sudore dalla fronte massaggiandogli le spalle, di- stolsi lo sguardo e cominciai a porre la prima delle domande pre- cise che avevo sulla lista. DOMANDA PRECISA # 1 – “Qual è esat- tamente l’attività della vostra Azienda?”, chiesi. “Produrre colori”, disse Tom, “e blindature per porte”, aggiunse. “Blindature per porte?”, domandai. “Precisamente”, rispose Tom. Seguì la DOMANDA PRECISA # 2, che non era nella lista – “E quale sarebbe il collegamento tra colori e porte blindate?”, chiesi. “Non è evi- dente?”, rispose Tom. “Direi di no”, dissi. “Non c’è alcun colle- gamento”, disse Tom, “è questa la base geniale su cui si fonda la nostra idea. Oggigiorno i cittadini sentono la necessità di proteg- gere quanto di più prezioso possiedono, i propri beni personali, i propri famigliari; il mercato delle blindature per porte è in conti- nua ascesa”. “Così si tratta semplicemente di affari?”, domandai. “Semplicemente ?” disse lui. “Capisco”, dissi. “Sarebbero le blindature gli affini del vostro nome?”, doman- dai.

486 “Non solo”, disse Tom, “produciamo anche altre, come dire, sostanze ”. “Per esempio?”, chiesi. “Sostanze ”, disse Tom. “Bene”, dissi io, “ma per tornare alle blindature...” “Si guardi fuori”, disse Tom con il suo perfetto sorriso profes- sionale. “Le persone comuni percepiscono gli altri individui come potenziali aggressori, maniaci in potenza pronti a introdursi nelle abitazioni private per stuprare, derubare, uccidere”. “Tutti?”, domandai. “Homo homini lupus, Signor Villanova”, disse Tom. “Un co- lore può infondere entusiasmo, sicurezza, fiducia”, disse Tom, “produciamo numerose varianti di blu capaci di scatenare simili suggestioni nei cittadini. Ma per evitare che un figlio di puttana ti entri in casa la notte non c’è niente di meglio che una tripla blin- datura a porte e finestre”. “Indubbiamente”, dissi io prendendo diligentemente appunti sul mio taccuino a quadretti. “Ma per tornare ai colori, come fate a produrre colori capaci di stimolare le azioni dei cittadini?”. “È questo che si racconta in giro?”, disse Tom. “In giro si racconta- no tante cose”, dissi io. “Qualcuno dice che avete prodotto un colore in grado di procurare sterilità alle donne, un altro che ne ripristinerebbe la fecondità e un terzo che causerebbe aborti spontanei nelle partorienti”. “Ah, quella vecchia storia”, disse Tom. “Ci fu un periodo in cui il controllo demografico sembrava ossessionare il Governo”. “Quindi ciò che si racconta corrisponde a verità?”, domandai. “Certo che sì” confermò Tom. “Quindici anni fa il nostro Ca- po Fisico, ovviamente coadiuvato da uno staff competente e qua- lificato – riuscì a produrre un nuovo spettro elettromagnetico. Ciò che esiste in natura noi lo abbiamo ricreato ad hoc. Da quel momento siamo stati in grado di produrre colori di ogni genere”. “E come ci si sente a utilizzare un colore che indurrà una donna ad abortire spontaneamente?”, domandai. “Se è per questo abbiamo anche prodotto una rara versione di giallo zafferano in grado di eliminare completamente i dolori del parto”, disse Tom.

487 “Mi sembra magnifico”, dissi io. “Ce l’hanno fatto ritirare dopo qualche mese. A causa di, come dire, incompatibilità teologiche”, disse Tom. “In che senso?”, domandai. “Genesi 3, 16”, rispose lui. Non ero certo di aver compreso. Mi ripromisi di verificare su internet appena tornato in redazione. “E così producete colori che rendono sterili le nostre donne?”, dissi. “Non più”, disse Tom; “il controllo demografico è passato di moda, ora il Governo pretende che i cittadini sfornino figli a va- langa”. “E per gli uomini?”, domandai. “Naturalmente la sterilità era da considerarsi unisex”, rispose Tom. “Ma per gli uomini abbiamo creato qualcosa di molto me- glio”. “Per esempio?”. “Per esempio abbiamo prodotto un particolare tipo di colore in grado di procurare erezioni pressoché immediate. Basta appli- carlo su un fazzoletto e al momento opportuno fingere di soffiar- si il naso; nel giro di mezzo minuto il gioco è fatto”, disse fiera- mente Tom. “Sarebbe rivoluzionario”, dissi io. “Va da sé che anche questo particolare colore non è stato commercializzato, né lo sarà mai. Ma ci sono determinate circo- stanze in cui il Governo può chiederci di applicarlo su un cartel- lone pubblicitario, o sulla facciata di un edificio”, disse Tom. “E quali sono queste circostanze?”, domandai. “Nel caso di quello specifico colore non è mai successo”, disse Tom, “ma ricordo la volta in cui la figlia del Gerarca fu tradita dal marito”. “Cosa accadde?”, chiesi. “Dopo qualche giorno la signora si sentiva depressa e preten- deva che tutti saggiassero il suo stato d’animo, capisce? Era stufa marcia di vedere gente per strada che rideva, scherzava, si trastul- lava. Fu allora che ci commissionarono il ciano depressione , una par-

488 ticolare variante di ceruleo in grado di causare dolore e sconfor- to”, spiegò Tom. “Incredibile”, dissi. “Ovviamente quando dico dolore mi riferisco al dolore psico- logico, spirituale. Per tutte le varianti di dolore fisico abbiamo una scala di gradazioni sterminata”, precisò Tom. “E come ci riuscite?”, comandai. “È troppo complesso rispondere a questa domanda. Sappia solo che la lunghezza d’onda del ciano, per restare al nostro esempio, è intorno a 480 nanometri. Noi siamo in grado di alte- rarla a nostro piacimento, e di inserire tutti i messaggi che vo- gliamo al suo interno”. “Stupefacente”, dissi, “e posso scrivere tutto questo nel mio articolo?”. “Può scrivere quello che vuole. Se c’è una cosa in cui siamo davvero insuperabili è l’arte della smentita. Inoltre abbiamo avvo- cati di prim’ordine”, rispose lui.

In quell’istante fummo interrotti da una canzone a volume al- tissimo. Tom accennò un passo di danza, poi sfoggiò il suo sorri- so perfetto. “Cosa sta succedendo?”, gli urlai per farmi sentire. “Ha dimenticato che oggi è la Giornata delle Canzoni di Justin Bieber Sparate-a-Palla Fisherman’s Friends?”, urlò Tom. “L’avevo proprio dimenticato”, urlai io. “Prenda, questo è l’ultimo singolo estratto da My world 2.0 ”, gridò Tom, “una delizia per le orecchie”. Mi porse il cd di Justin Bieber. Poi si avvicinò a un banchetto e afferrò qualcosa. “Provi una Fisherman’s Friends Extra Forte”, disse, “una vera bomba”. Misi in bocca la caramella e mi guardai intorno. Chimici e fisici stavano improvvisando passi di danza rap o qualcosa del genere insieme alle hostess. Si divertivano un mondo. “Le giornate a sfondo musicale sono le nostre preferite”, disse Tom, “talvolta la vita dello scienziato può essere frustrante”.

489 Quando la canzone scemò procedetti con la DOMANDA PRECISA # 3 – “Non pensate che la produzione di coloranti, o meglio di colori, come li chiama lei, possa ripercuotersi sull’ambiente? Nel particolare, non pensate che i vostri colori stiano avvelenando il fiume?”, chiesi. “I nostri colori dipingono il fiume, e il mondo”, rispose. “Siamo l’azienda leader nel campo dei colori, abbiamo colori di tutti i tipi, si potrebbe addirittura sostenere che senza i nostri colori non esi- sterebbe il colore”, aggiunse. “Come le ho già spiegato, noi non produciamo coloranti, noi produciamo colori ”. Ci fu un breve silenzio; sullo sfondo si udiva l’intervento di un chimico dalla pelle ametista che citava Kant. “Testate i colori sulla vostra pelle?”, chiesi. “L’azienda crede che la pelle umana abbia un colore troppo semplice, troppo banale”, disse. Un tizio dalla pelle verde veronese salì sul palco. “Quello è Ed Mont, uno dei nostri migliori chimici molecolari”, disse Tom. “Non si faccia sfuggire il colore della sua pelle, un magnifico ver- de oliva scuro ottenuto dalla mescola tra giallo scuolabus e grigio asparago”, disse. “Avrei detto che fosse un verde veronese”, dissi. “Il verde veronese è notevolmente più fluorescente, e la fluo- rescenza è prerogativa del Consiglio d’Amministrazione, dai con- siglieri ai vice-presidenti al presidente stesso, cui è concesso un giallo limone fosforescente, anche chiamato giallo evidenziatore”, disse Tom. “Per quanto riguarda Mont, quattro anni fa ha realizzato un colore invisibile capace, tra l’altro, di causare irritazioni e sveni- menti”. “Un colore invisibile?”, chiesi. “Non è geniale?”, disse Tom. “È stato venduto ai governi dei maggiori Paesi del mondo. Praticamente tutto ciò che vede ha una base di colore invisibile successivamente trattato con altri co- lori, il cui risultato è quello che ciascuno di noi ha sotto gli occhi”. “Siete a conoscenza del fatto che molta gente si è ammalata a causa degli effetti collaterali dei vostri colori ?”, chiesi. “Migliaia di persone si sono ammalate grazie agli effetti dei nostri colori. Ab-

490 biamo prodotto tonalità di rosso capaci di scatenare crisi d’asma, gonorrea, cancro ai testicoli, la maggior parte a fini puramente scientifici. Ma nessuno si è ammalato a causa degli effetti collaterali dei nostri colori. È già stato dimostrato. Abbiamo colori in grado di accecare, altri in grado di avvelenare il bestiame, un altro addirit- tura in grado di bloccare istantaneamente tutti gli apparecchi elet- trici nel raggio di otto chilometri. In ogni caso i colori ammorban- ti non impiegati dai ricercatori non sono stati immessi sul merca- to, ma venduti ad alcune industrie farmaceutiche”, disse Tom. “E ne hanno fatto uso?”, chiesi. “Non mi riguarda”, disse lui. Un’esplosione arcobalenoidale di gradazioni cromatiche mai viste concluse l’intervento di Ed Mont. “L’arcobaleno è un concetto superato”, disse Tom. “Sostituito da moderne tecniche di colorazione delle microgocce d’acqua condensata. Farà il suo esordio il prossimo anno”. Dalle enormi vetrate si intravedeva il fiume; aveva assunto un colore arancione fiamma misto rosso inglese e azzurro Savoia. Una specie di cabarettista salì sul palco; gli ingegneri, i fisici e i chimici cominciarono a ridere, anche quelli dalla pelle verde gor- gonzola o uovo di pettirosso. “È una questione di sicurezza”, disse il cabarettista. Risero tut- ti. Questo mi portò alla DOMANDA PRECISA # 4 – “Siete certi di poter garantire la sicurezza agli operai e ai cittadini di questo pae- se?”, chiesi. “Sfortunatamente non posso rispondere a questa domanda”, disse Tom. “Per le domande inerenti alla sicurezza c’è Helmut, il nostro capo ingegnere addetto alla sicurezza”. Tom mi congedò con una stretta di mano associata al solito meraviglioso sorriso e mi fece accompagnare da una hostess bionda nel luogo in cui avrei potuto incontrare il capo della sicu- rezza. Incontrai Helmut al buffet del secondo piano; era arancione scuro e mi accolse con cortesia. Qualcuno lo aveva avvertito del mio arrivo, poiché non mi domandò chi fossi, dando chiaramente l’impressione di saperlo già.

491 “Assaggi queste lumache bollite in salsa verde e mi dica cosa posso fare per lei”, disse Helmut succhiando una lumaca bollita. “Ho alcune domande precise”, dissi. “Sentiamo queste domande precise”, rispose Helmut. Ripresi così la DOMANDA PRECISA # 4 – “Siete certi di poter garantire la sicurezza agli operai e ai cittadini di questo ridente paese?”, chiesi. “Il problema della sicurezza è centrale nei pensieri del Consi- glio d’Amministrazione della AGCA ”, disse. “Sa quanti soldi sono stati investiti nella sicurezza l’anno scorso?”, domandò. “Non saprei”, dissi io. “Moltissimi”, disse lui. “Non è forse vero che i vostri scarichi tossici finiscono nel fiume?”, chiesi. “Del tutto falso”, rispose. “E come spiegate il colore dell’acqua?”, chiesi. “Lo coloriamo in quel modo volontariamente e coscientemen- te”, disse; “non le sembra che il tradizionale colore dei fiumi ab- bia stufato un po’ tutti? La popolazione, poi, chiede novità in continuazione, i giovani si evolvono, vogliono più colori, più tin- te, e noi gliele forniamo”, disse. Un’altra canzone di Justin Bieber partì a volume insopportabi- le, e i presenti al buffet cominciarono a ballare con le cameriere e le hostess. “Assaggi il tortino ripieno, è fantastico”, gridò Helmut. Il buffet era faraonico. “Non ho altre domande”, urlai a Helmut, che nel frattempo aveva cominciato a ballare con una sventola in tailleur di qualche colore che lì per lì non seppi distinguere. La hostess che mi avevano assegnato mi fece accomodare in un’altra sala conferenze, dov’era in corso un altro buffet; molti tecnici avevano una pelle di un colore orrendo e stavano seduti col capo chino, altri sembrava piangessero. Qualcuno fumava fu- riosamente. Incontrai l’addetto allo smaltimento dei coloranti. Mi presentai e gli dissi le uniche cose che si possono dire a un uomo che co- scientemente permette l’avvelenamento di un fiume, di un paese,

492 di una valle. Gli dissi che i soldi non comprano la vita delle per- sone e altre banalità simili. “Noi crediamo in ciò che facciamo, per questo siamo degli in- novatori”, disse lui. “Abbiamo creato un colore che cura il mal di testa, un altro che fornisce informazioni sensibili sui gusti del ci- bo, un altro ancora che livella dall’interno la lunghezza dell’erba”. “Cioè?”, domandai io. “In pratica le taglia il prato”, rispose lui. “Pensi che stiamo ul- timando un colore in grado di conferire gustosità e valori nutritivi e/o energetici a qualunque alimento, persino alle patatine di McDonald’s”, continuò. Procedetti con la DOMANDA PRECISA # 5 – “Le risulta che l’Azienda produca anche sostanze nocive per l’uomo?”, chiesi. “Questo è innegabile. È il Governo a chiedercelo. Produciamo colori che suscitano vertigini e altri che infieriscono sul sistema nervoso, conducendo alla pazzia. L’ultimo ritrovato è un colore in grado di deturpare la pelle con bolle e croste. D’altro canto so- no utilizzati per scopi che io ignoro. Il nostro lavoro è produrre colori, non preoccuparci delle conseguenze del loro utilizzo. Chi lavora alla AGCA ha ricevuto in dono uno splendido colore e una felicità congrua all’adempimento del suo lavoro”, disse. “E quegli uomini laggiù?”, chiesi indicando la zona della sala in cui avevo visto i tecnici. Avevano colori come blu acciaio, biscot- to, grigio asparago, viola scuro e orribili espressioni angosciate. “Tecnici che hanno sperimentato il giallo cenere esistenzialista, il colore che rammenta all’istante quanto sia insignificante l’essere umano nell’ambito dell’universo. È stata colpa di un set di occhia- li protettivi difettosi, per cui abbiamo già provveduto a citare a giudizio l’industria produttrice”, disse. “La cenere non è grigia?”, domandai. “Nella concezione tradizionale sì, ma all’Agenzia produciamo colori che si impossessano del colorato. Il colorante ingloba il co- lorato. La cenere gialla è ottima per funerali cristiani e mussulma- ni”, disse. Aveva un colorito che giudicai essere un terra di Siena e gli oc- chi rosso sangue raggrumato. Disse che plotoni di psicologi col- laboravano con l’Azienda per la realizzazione di colori sempre

493 nuovi e migliori. L’esercito aveva comprato una dozzina di colori. Il governo un’altra dozzina. Alcuni potevano causare emorragie interne, altri mal di denti, eczemi, ingrossamento delle ghiandole, degenerazione del tessuto. Questi colori erano fuori mercato. Nessuno poteva guardare quei colori perché erano stati acquistati in esclusiva dal governo e dall’esercito. Solo quando il governo o l’esercito, o tutt’e due insieme, avessero deciso di utilizzarli, la gente avrebbe potuto vederli. Guardarli avrebbe potuto significa- re un’arteriosclerosi o un invecchiamento precoce. “Ma abbiamo anche perfezionato un colore inebriante in gra- do di agire sul sistema ghiandolare, una specie di droga visiva che agisce per rifrazione sulla retina e si trasmette direttamente al si- stema vascolare”, disse. Afferrò un gamberetto di fiume e lo inghiottì. Gli dissi che ero sbalordito e che tutto ciò mi portava alla DOMANDA PRECISA # 6 – “La vostra produzione di colori non pregiudica l’ambiente esterno?”, domandai. “È un rischio che dobbiamo correre. Cosa vuole che siano un centinaio di mal di pancia e qualche pesce avvelenato al cospetto di un bene più grande e prezioso?”, disse. Lo guardai gelidamente. “Intravedo nei suoi occhi un sentimento di invidia e rabbia. Non dovrebbe essere così. Si guardi intorno e si lasci cullare dalle proprietà curative di ogni singolo colore”. Mi fecero incontrare un vice-presidente. Aveva la pelle tè ver- de scuro, eppure brillante. Gli dissi che ero lì per avere garanzie e per fare delle domande precise, perché il gruppo ambientalista che aveva commissionato il reportage alla mia rivista aveva biso- gno di garanzie. Gli dissi che trenta milioni di metri cubi di mate- riale inquinante sono un gran bel po’ di materiale inquinante. Mi guardò in silenzio. “Prenda un caffè, si metta comodo”, disse. “Mi potrà fare tut- te le domande che vuole”. Feci la DOMANDA PRECISA # 7 – “Avete intenzione di chiude- re l’Azienda o quantomeno di ridurre, anzi di azzerare l’immissione di sostanze tossiche nel fiume?”, domandai.

494 Rise di gusto. “Le racconterò una storiella”, disse. Raccontò la storiella: “tre anni fa il Gerarca si stufò del cielo di Sabbione, eternamente sbiadito e opaco, un denim chiaro sdrucito che intri- stiva pesantemente sua moglie. Ci chiese di intervenire. Proget- tammo un colore autorigenerante che nebulizzammo nel cielo della città, un cobalto che mescolato a un blu Bondi e a un ciano azzurrescente diede come risultato il magnifico Blu Sabbionese che rende rinomato in tutto il mondo il nostro capoluogo. Non s’è mai accorto dello splendido blu del cielo di Sabbione? È otte- nuto mediante la colorazione artificiale delle microparticelle con- densate d’acqua e ossigeno presenti naturalmente nell’atmosfera. Una volta al mese diciotto aeroplani dell’Azienda si levano in volo per innaffiare il cielo. Avevamo pensato a una sorta di cannone ma i risultati non furono uniformi come avevamo sperato, così tornammo agli aeroplani. Naturalmente siamo in grado di colo- rarlo alla vecchia maniera quando ci è richiesto, oppure con altre e sempre nuove gradazioni. Come può immaginare il Gerarca fu molto, come dire, riconoscente, nei confronti nostri e del nostro lavoro”. Bevemmo un caffè buonissimo. Disse che alte autorità avevano commissionato la colorazione delle campagne. Disse che i colori dell’Azienda avrebbero salvato il mondo. Disse che avrebbero costruito nuovi macchinari capaci di smaltire i rifiuti. Disse che il fiume andava sacrificato, ma che avrebbero fatto tutto ciò che era in loro potere per ucciderlo len- tamente, in modo che gli effetti nocivi sarebbero stati assimilati meglio dalla popolazione. “Vedrà che nel giro di tre o quattro ge- nerazioni gli esseri umani di questa parte del mondo avranno ge- nerato anticorpi in grado di sopportare ogni tipo di veleno che facciamo loro respirare, bere o inghiottire. Ha mai sentito parlare degli scarafaggi?”. Suonò il telefono, mi salutò cordialmente e rispose. Uscii dallo splendido centro congressi indossando la mia t- shirt multicolore con su scritto Celebra con noi la Giornata dell’Idiosincrasia Invernale Pantone! che si festeggiava a metà gennaio. Presi l’autobus delle 18.45 per Sabbione. A quell’ora il fiume Atanor è ceruleo scuro con puntiformi chiazze chartreuse.

495 Consegnai il mio rapporto, pubblicammo il pezzo dopo pochi giorni. La AGCA smentì tutto, e il gruppo ambientalista fluviale prese alcune decisioni; avevano contatti con qualcuno, dissero. Un lunedì notte sistemarono cinquecentotrenta chili di tritolo nei sotterranei della AGCA ; ci fu un gran botto e molti rottami. Nell’articolo scrissi che i sopravvissuti camminavano inciampan- do su corpi giallo banana, bronzo antico, verde foresta, uovo di pettirosso, turchese pallido; c’era una montagna colorata di cada- veri tra le macerie dell’edificio. L’aria era intensa, nocciolata, con un retrogusto tannico. I turisti scattarono numerose fotografie.

496 VA TUTTO BENE , SIGNOR MAKULOJ

Grazie al metodo del dottor Klein ora sono una persona felice

Bertrànd Makuloj, sessantatre anni, esce di casa alle nove e ventitré, un’ora e quarantotto minuti più tardi rispetto a quando era impiegato presso il Ministero Suicidi e Festività ®. Dopo aver tollerato il segnale della sveglia per circa sette minuti ha poggiato sul parquet prima il piede destro, apportatore di buonumore, poi quello sinistro, apportatore d’inquietudine. Ha consultato l’oroscopo di giornata su televideo e udito il pronostico ufficiale mattutino alla radio. Il primo lo ha confortato nella scelta della colazione, il secondo nell’accostamento degli abiti. Da trentanove anni, Bertrànd Makuloj non può varcare la so- glia del suo palazzo se prima non ha annaffiato i vasi davanti alla porta della vedova Iňakirre: se così non facesse dovrebbe imme- diatamente suicidarsi, giacché questo fu il contenuto della prima divinazione della sua vita (in verità piuttosto oscura, ma Bertrànd Makuloj pare d’averla interpretata correttamente), che subì a di- ciott’anni. Da quando la vedova Iňakirre è passata a miglior vita, una dozzina d’anni fa, è lo stesso Makuloj che bada alla conserva- zione e alla disposizione dei vasi, anche se l’appartamento oggi è abitato da due giovani coniugi, piuttosto simpatici e cordiali. Essi lo lasciano fare, del resto anche loro hanno alcune incombenze da sbrigare: prima d’uscire debbono salire insieme sul tetto del pa- lazzo a fumare una sigaretta, diversamente sanno che la loro unione di coppia verrà traumaticamente interrotta. Bertrànd Makuloj bagna i vasi sul pianerottolo della vedova Iňakirre reggendo l’innaffiatoio dal becco lungo con la mano de- stra; la quantità d’acqua utilizzata è centellinata. Terminata

497 l’operazione egli può lasciare il suo palazzo. Uscendo deve svolta- re tre volte a destra prima d’intraprendere qualunque strada. Al bar Bertrànd Makuloj è piuttosto allegro. Ordina un cap- puccino e un cornetto (rigorosamente privo di qualsivoglia ripie- no) e siede al terzo tavolo partendo dall’ingresso (se è occupato attende pazientemente che si liberi), dove consulta con curiosità il quotidiano, badando di leggere attentamente la pagina degli oro- scopi. Bertrànd Makuloj è sagittario ascendente sagittario, e quel- la, pensa col sorriso sulle labbra, è una grande fortuna, poiché se fosse sagittario ascendente toro, per esempio, non potrebbe con- sumare la sua solita colazione, e se fosse sagittario ascendente ariete dovrebbe attendersi una copiosa fuoriuscita di denaro nelle prossime dodici – quarantotto ore. Bertrànd Makuloj esce dal bar alle dieci e quarantanove, dopo aver ritagliato dal quotidiano il proprio oroscopo senza farsi nota- re; in dieci minuti giunge nella grande piazza in cui ogni mercoledì e sabato si svolge il mercato delle religioni. Intanto discepoli toga- ti levatisi dai pulvinari, rabbini e bramini, shivaisti e indù, testi- moni di Geova, manicheisti, imam, shaykh e dervisci mevlevi, pa- dri presbiteriani e venditori di porchetta toscana a rinzaffi e fiotti discendono dalle contrade fin sulla piazza dove sono già appron- tati i banchetti. Bertrànd Makuloj osserva la scena con un pizzico di malinconia; egli deve salutare ciascuno di loro prima di poter proseguire il suo cammino. Poi si avvicina al dispensatore di pre- dizioni e inserisce i propri dati: la predizione è piuttosto nebulosa, ma egli crede di interpretarla nel miglior modo. In seguito si ri- volge a una divinatrice di strada, la quale legge l’immediato futuro grazie a un mazzo di carte. Abbandona il centro , ella dice, senza ag- giungere altro. Forse, prova a intendere Bertrànd Makuloj, la di- vinatrice si riferisce al centro cittadino, che egli non travalica mai, a causa di una vecchia predizione. Ma il suburbio è ricco di tratto- rie, riflette, e magari potrebbe recarcisi per un lauto pranzo. Bertrànd Makuloj pensa allo squallore delle periferie, frigoriferi e televisori fracassati, copertoni e forni e lavatrici abbandonate sui marciapiedi, rari uccelli sui pochi alberi e lampioni arrugginiti ai bordi dei lunghi viali. Il pensiero è breve e non privo di ripugnan- za; ma ora egli osserva il trambusto del mercato: maree di mez-

498 zuzzà e menorah, crocifissi, turiboli e incunaboli d’oro e d’argento, mirre e spezie e incensi di Persia, icone e cartoline e preghiere e maquamat e taleggi e gorgonzole, capperi di Pantelle- ria e capponi di Grottaferrata, scope alte come palazzi e allunga- bili, estraibili, autopulenti, intelligenti, tallìt, spazzoloni da cesso e acchiappasogni indiani in offerta speciale. Bertrànd Makuloj sale sulla cima d’un palazzo, prende un caffè al bar. Dall’alto osserva il fiume di kippà, borsalino e mitre mentre si sbroglia come il delta del Nilo nel grande foro, ascolta le urla e i mercanteggi per vende- re chi un’Havayàh chi uno Zekr, chi un Allàh chi un Buddha, chi un Padre Nostro chi un Giuda Iscariota. Bertrànd Makuloj ha fame. Passa le bancarelle degli induisti, dei chassidisti, degli gno- stici; si ferma di fronte a un grosso camper: enormi rosari di sal- siccia pencolano nel vuoto. Compra un panino e passeggia. Co- stui mangia e solamente avarizia e invidia ne risultano, invece co- stui si nutre e il risultato è la luce dell’Unico. Quest’altro mangia e gliene viene solo impurità, mentre quello nutrendosi diventa luce di Dio. La bancarella dei sufi, nell’angolo sud della piazza. Ber- trànd Makuloj suda, del resto fa piuttosto caldo, e l’umidità si fa sempre più insopportabile. Cerca dell’acqua. Da lontano una fon- tana rimanda una leggera frescura. Bertrànd Makuloj ascolta il fra- stuono della folla, preghiere sussurrate, urlate, canticchiate, canti- lenate. Suoni d’organi e fisarmoniche provengono da ogni dove. Accarezza un crocifisso, un Hannukkià, un cappio; non compra nulla. Con l’acqua beve un altro caffè, fuma una sigaretta. Ora può dirigersi senza timore presso un’Agenzia Divinatoria Ricono- sciuta (sa perfettamente che divinatori di strada, dispenser auto- matici e oroscopi vari non sono conformi alle norme) per il suo Aggiornamento Obbligatorio Annuale. Bertrànd Makuloj sceglie un’agenzia pubblica situata in un viottolo buio del Centro Storico Veramente Medievale, l’Agenzia Sedici. La divinatrice è di buonumore e gli offre la rara possibilità di scegliere tra un paio di strumenti divinatori. Bertrànd Makuloj si decide per l’Alettriomanzia, nella quale si utilizza un gallo e dei chicchi di frumento. Makuloj pensa che le movenze dei divinatori pubblici sabbionassi paiono la parodia di

499 antiche negromanzie politeiste, anche se la loro voce fredda e de- cisa dimostra il rigore scientifico delle loro esibizioni; ostentano grande professionalità perfino analizzando un gallo intento a ca- care, beccare, agitarsi, e pronunciano la predizione con parole si- billine ma inoppugnabili. Va tutto bene, Signor Makuloj, tutto procede nel migliore dei modi , dice la divinatrice, e Bertrànd Makuloj sente un tuffo al cuore, poiché non riesce a comprendere il significato celato in quelle parole. Cosa significa l’espressione va tutto bene ? Bertrànd Makuloj se lo domanda mentre la divinatrice afferra il gallo e lo ripone in una gabbia piuttosto spaziosa. Ricevuto lo stampato della divinazione Bertrànd Makuloj sta per tornare al suo appartamento. Il tragitto di ritorno è costellato da alcune svolte obbligatorie, cui egli deve sottostare per l’accumulo di eventi nefasti succedutisi nel corso della sua vita durante il rientro a casa: attraversamenti di spiriti maligni (perlo- più gatti neri, ma anche i temutissimi tacchini dalla caruncola amaranto), scale collocate sul marciapiede, vetri e/o specchi in- franti, saliere afferrate al volo, carri funebri, suore. Bertrànd Ma- kuloj estrae dal taschino della giacca un Tuttocittà sgualcito; un tempo, quando la memoria lo sorreggeva, non ne aveva bisogno, ma dopo il responso del dispensatore di predizioni di qualche mese prima s’era convinto a utilizzare una cartina per annotare ogni suo spostamento. In che modo potrebbe andare tutto bene? Ciò che Bertrànd Makuloj ritiene bene, è lo stesso bene rilevato nel responso della divinazione? Egli si strugge in questo pensiero, mentre torna col pensiero all’ultima volta che un responso era corredato dall’affermazione va tutto bene . Una volta, molti anni prima, un oroscopo gli aveva prescritto di temere i responsi corredati dall’affermazione va tutto bene . Cosa poteva significare? Ora Bertrànd Makuloj è terrorizzato e indeciso, compie una deviazione non programmata, per quanto consentita, sale le scale di un palazzo enorme, il cui ballatoio riecheggia di un grigio por- tentoso, poiché non può in alcun modo salire sull’ascensore di un palazzo diverso dal suo. Si ferma sul pianerottolo del settimo pia-

500 no, getta un’occhiata fugace alla finestra, prende fiato, si asciuga la fronte; fa caldo, e la camicia comincia a bagnarsi in corrisponden- za delle ascelle e lungo il dorso. La sente appiccicata alla pelle, e questa è una sensazione che, per quanto sgradevole, gli fa tornare in mente i tempi in cui saliva dodici piani di corsa per recarsi in ufficio. Sente il battito cardiaco notevolmente accelerato, tuttavia non teme neppure per un momento che possa prendergli un at- tacco di cuore, giacché almeno tre oroscopi, un paio di pronostici istantanei e una divinazione ufficiale gli conferiscono la certezza che egli non avrà mai un attacco di cuore. Quando arriva al dodi- cesimo piano, Bertrànd Makuloj è stanco; si dirige lungo il corri- doio incrociando lo sguardo di persone indaffarate che non bada- no a lui; nessuno ha mai badato a lui, pensa Bertrànd Makuloj mentre varca la soglia di un piccolo ufficio che fino a qualche tempo prima era il suo. Un tizio sta osservando lo schermo di un computer, una donna sta pigiando tasti su una tastiera. Nessuno dei due sembra interessato alla presenza di Bertrànd Makuloj. Egli procede con cautela, lentamente, fino alla scrivania del tizio; il ti- zio alza il volto e lo vede, gli domanda qualcosa che lui non com- prende, o non ascolta. Il tizio continua a domandare ma Bertrànd Makuloj non ascolta, o non comprende. Dice soltanto questo era il mio ufficio , poi torna sui suoi passi, in corridoio, si appoggia al mu- ro, ha un trascurabile attacco di panico, la vena del collo pulsa, ha sete, prova a fermare un paio di impiegati ma nessuno bada a lui, nessuno lo guarda, nessuno lo ascolta. Va in bagno, si sciacqua la faccia, beve acqua schifosa al gusto cloro e muschio. Bertrànd Makuloj si guarda nello specchio e comprende perché gli specchi sono strumenti abominevoli. Quando esce dal bagno sta ancora pensando all’affermazione va tutto bene . Se l’affermazione temi i pronostici corredati dall’affermazione va tutto bene è vera, allora qualcosa di terribile sta- rebbe per accadere. D’altra parte, l’affermazione va tutto bene dovrebbe escludere la possibilità che possa accadere qualcosa di terribile. Bertrànd Makuloj è in strada, confuso e sensibilmente scosso.

501 Riapre la copia di Tuttocittà e prova a dipanare un tragitto percorribile a quell’ora del giorno, con quella particolare luce me- ridiana e quella caratteristica afa estiva. Finalmente il palazzo di Bertrànd Makuloj. Quando vi entra deve evitare di calpestare il primo gradino dell’androne, poi fi- nalmente può godere della breve corsa in ascensore: è tenuto a salire al quinto piano, fingendo una sbadataggine, e successiva- mente tornare al quarto, il suo, prima di poter entrare nel suo ap- partamento: questa almeno è l’interpretazione che Bertrànd Ma- kuloj ha fornito alla sua penultima divinazione. Al quinto piano, egli apre la porta dell’ascensore, picchia leggermente la fronte col palmo della mano, richiude la porta dell’ascensore e preme il tasto corrispondente al quarto piano. Ora può inserire la chiave nella serratura, può accostare l’orecchio alla porta, può entrare nel suo appartamento. Sono le quattordici e quarantacinque. Bertrànd Makuloj si sveste, s’infila nel letto, dorme profonda- mente un’ora e un quarto. Trascorre il resto del pomeriggio im- merso nella lettura dei classici, attuando brevi pause per sorseg- giare un caffè e fumare una sigaretta. Sono pause quantificate, le quali rispondono a un’esigenza ben precisa; il suo oroscopo odierno infatti gli aveva vietato di svolgere la stessa attività per più di un’ora continuativamente (escluso il sonno). Tutto sta andando bene, pensa, anche se non riesce a ragiona- re sul significato di questa semplice e terribile affermazione. Va tutto bene significa che va tutto come al solito? Oppure significa che un fattore inatteso implicherà mutamenti sostanziali alla sua routine quotidiana? All’ora di cena Bertrànd Makuloj prepara un piatto di tortellini in brodo, che assapora con gusto, e una omelette, ch’egli abban- dona dopo averne mangiato un quarto. A parte l’acqua beve solo vino rosso, che travasa nella stessa bottiglia da ventinove anni. Non può bere altro. Ora deve decidersi tra la lettura e la televisione, di cui peraltro è molto appassionato. Getta fuggevolmente un’occhiata alla divi- nazione del dispensatore, all’oroscopo che ha ritagliato dal quoti- diano, rammenta la predizione udita alla radio: entrambe le scelte

502 sono possibili. Consulta ancora il taccuino delle divinazioni passa- te, certi appunti annotati su tovaglioli, cartacce, pacchetti di siga- rette. Libro o televisione? Tutto lascia presupporre che nulla mu- terebbe nella sua vita in un caso o nell’altro. Bertrànd Makuloj non ne è convinto; siede sulla poltrona all’incirca due ore, va- gliando le probabilità di turbamento o d’appagamento nel caso della lettura d’un libro o della visione d’un film. Sono le ventitré e ventuno. Va tutto bene. Bertrànd Makuloj può lavarsi i denti ed espletare alcune funzioni corporali, poi po- trà coricarsi. Prima deve sfilare il calzino destro, seguìto da quello sinistro, solo in un secondo tempo può appoggiare gli occhiali sul como- dino e simultaneamente inoltrare tre metaforici atti di venerazio- ne a una metaforica divinità. Infine può spegnere la luce della ca- mera. Nel letto egli deve pronunciare mentalmente un’ave maria, un padre nostro e un atto di dolore. Non conosce il significato di quelle parole, che è costretto a ripetere ogni notte per evitare che il telefono squilli annunciando una disgrazia, né comprende fino in fondo la logica di quello strambo segno ch’egli ha l’obbligo di palesare prima d’addormentarsi: ne riconosce l’inutilità, ma è con- fortato dalla convinzione che non può farne a meno. Prima di addormentarsi Bertrànd Makuloj si rigira un paio di volte nel letto, gli viene in mente che un tempo era felice, si rigira altre due volte fino a tornare alla posizione originaria, rimugina sul fatto che non ci sia nulla di peggio, per un essere umano, che ri- cordarsi del tempo in cui ci si sentiva felici, poi si addormenta.

503 SAN BERTRAN DE BORN RIESUMATO E MOSTRATO ALLA FOLLA

Prologo

Questa mattina all’alba hanno riesumato il Santo Patrono di Sabbione Bertran de Born e l’hanno messo lì, sopra una pietra a essiccare, mentre le autorità facevano a pugni per rendergli onore. Del corpo del Santo Patrono resta solo la testa, perché il tronco con il collo le braccia e le gambe e insomma tutto il resto furono trafugati dai contrabbandieri di cadaveri negli anni ’30, quando si usava trafugare i cadaveri. Mio fratello dice che il Santo Patrono di Sabbione Bertran de Born era un uomo cattivo, una vera faccia di merda dice, con gli occhi satanici e lo sguardo maligno; ha ucciso più persone lui della peste e dell’AIDS messi insieme dice, sta die- tro solo al cancro perché il cancro è una malattia fottuta che ce l’ha avuta lo zio eccetera eccetera, e comunque morale della storia il nostro Patrono secondo mio fratello era davvero una bestia. Pe- rò adesso vederlo lì, in televisione, mummificato, che si squaglia al sole di questo splendido pomeriggio di luglio mentre quei vigliac- chi della politica e della chiesa lo sfiorano con le dita inanellate e schifose fa un certo effetto. Ha le labbra ritratte e i denti gialli, il Patrono, ed è veramente smunto e terribilmente nauseabondo, almeno a sentire i commenti degli inviati delle televisioni, che tra un po’ s’infilano una maschera antigas per sopportare la puzza. Inoltre ha un colorito olivastro che sembra un incrocio tra una prugna e un fico. Ho mandato affanculo mio fratello perché lo sanno tutti che Bertran de Born è stato un grande eroe che ha pre- ferito impiccarsi pur di non rivelare il nascondiglio dei cittadini di Sabbione ai tempi della seconda invasione dei cipperuoli, ai quali aveva già infilato su per il culo un bel po’ di pali di frassino o quercia o ciliegio, e quella volta che i prelati cattolici vollero co- stringere tutta la cittadinanza a venerare quel brutto ceffo col rivo- lo di sangue sulla fronte e tutto il resto che gli gira attorno, come le puttane e i sediziosi, Bertran li fece rinchiudere in un recinto 504 pieno di maiali e li fece sbranare tutti. E poi tutti, nel Sabbionasso, amano Bertran de Born, in primis i camionisti che fanno sfoggio del suo volto lacerato e contrito (e leggermente barbuto) in ogni salsa e con immagini di ogni tipo, la più bella delle quali è senz’altro una raffigurazione in neon del viso incappucciato e im- piccato del Patrono, fiero di fronte all’insormontabile destino, che ho visto l’altro ieri in autostrada sul retro di un tir. Aveva molte piaghe, il nostro Patrono, c’è chi dice procurate da acido fenico chi dice da un’investitura elevata, qualcuno sostiene addirittura da Iddio in persona, col quale Bertran de Born ebbe sicuramente una tresca. E oggi la sua misera mummia-testa, il fossile della sua no- biltà, giace sulla pietra marmorea più grande del cimitero Monu- mentale Iscariotico di Sabbione, mentre una folla è accalcata all’esterno delle mura urlando il suo nome e attendendo il proprio turno per sfiorargli le labbra o i capelli un tempo rossi purpurei propri dei guerrieri santi. Il biglietto d’ingresso costa diciotto euro. Ci sono bancarelle con immagini e magliette, cappi, spade e l’immancabile elmo di Bertran in campo azzurro, emblema della sua casata. È davvero una splendida giornata di luglio e tutti stia- mo ammirando alla tv l’ostensione della testa-salma del nostro Pa- trono e io ho mandato affanculo mio fratello perché cazzo, mica si può infangare la memoria di un eroe e di un santo con un muc- chio di fandonie buone per un racconto da giornaletto porno, in- serito così tanto per dare respiro ai lettori tra una fica e l’altra.

E allora sono andato a leggermi il diciottesimo volume dell’enciclopedia Sabbionassa Grolier mezzo imputridito sul dodi- cesimo scaffale est della biblioteca di Sabbione che cari miei è davvero ridotta a uno stato penoso, uno schifo davvero, dopo che il Gerarca ha deciso di restaurare e rimodernare qualcuna delle sue ville e ha tagliato i fondi alla Cultura, che in effetti non serve a niente. Gente, non ce n’è. I cittadini preferiscono non leggere o leggere libri comprati alle bancarelle a metà prezzo o scaricarli da internet. Così il vuoto lentamente si è fatto strada tra gli scaffali e la polvere, questa sì regina assoluta dell’edificio, ti entra nei pol- moni e t’impedisce di respirare. Il posto sarebbe sorprendente, se fosse vivibile. I libri, poi, non parliamone; qualcuno emana un fe-

505 tore che per leggerlo ti costringe a tenere le braccia tese davanti per non doverne respirare i miasmi che alla fine ti arrendi spossato dai crampi e da quelle fottute formiche che ti salgono a frotte per gli avambracci e ti stroncano davvero. Il diciottesimo volume dell’enciclopedia sabbionassa Grolier non era in uno stato simile e riuscii a leggere la voce riguardante Bertran de Born senza crampi e formiche e svenimenti causati dagli effluvi e tutto il resto.

San Bertran de Born principe del Sabbionasso Alto e, dopo la guerra di Cipperùla (1207), anche del Sabbionasso Basso, della Sa- voia e del Palatinato di Risaia, nell’estremo nord del Sabbionasso. Dopo una gioventù trascorsa tra i sollazzi nei possedimenti di fa- miglia coi suoi sette fratelli e i genitori, giovanissimo, nel 1154 all’età di quattordici anni partecipò alla discesa sveva nei territori sabbionassi, di cui si innamorò. Proclamatosi Principe (massima carica dell’allora Principato di Sabbione), fece internare i tre fratelli superstiti, rivoltò la nobiltà e intraprese una serie di imprese belli- che volte all’espansione e alla conquista del Sabbionasso Basso, della cui principessa (d’origine cipperuola) egli s’era innamorato. Sposò Margarita nel 1209, tentando così di unificare le due terre. Con la seconda guerra di Cipperùla (1211) B. sconfisse i cipperuoli scacciandoli dalle terre sabbionasse e proclamò il Gerarcato di Sabbionasso. Celebre è il racconto del suo vassallo Domenico di Tonco, che a proposito del suo arrivo a Sabbione invasa dai Cip- peruoli scrisse:

“Entrò dalla porta principale una notte in cui le immagini sgusciavano come ratti e sentii il popolo imprecare e bestemmiare: la vergine ha perduto pu- rezza, dicevano, la giovenca non ha figliato, l’erba manca nei prati. Gridò: “Collina deserta, il salvatore è giunto. Ucciderò tutti, sterminerò, impalerò; ogni brandello di pelle vomiterà sangue caino e cipperuolo, e quelli che lascerò vivere vagheranno spettrali tra pietre che furono case mentre i miei soldati vio- lenteranno mogli e figlie e io violenterò la vergine principessa”. Uomini divenu- ti come fieno nel campo e come l’erba verde dei tetti, che lo scirocco dissecca; i preti e i tribuni, miserabile schiatta, ghignavano ostentando ricchezza sugli altari incipriandosi il naso e cospargendo il fumo della sepoltura nelle nostre case. Al rogo! Le donne si coprivano il sedere e il seno per pudore, imperversa-

506 vano gl’ideali, le marce, i giardini fioriti e profumati. “Stuprate! Lanciate sterco infiammato nei loro orti!”. I saggi affollavano la piazza e il ciottolato consumato dalle suole dei romanzieri non era buono neppure per tenerci su i miei cavalli. Ai balbuzienti, eroi di questo mondo, fu tagliata la lingua, ai poveri fu offerta una morte atroce, ai bambini un lavoro da schiavi. E nel si- lenzio lacustre delle bocche cariate del cielo in attesa di nuovi lampi e nuovi fragori, nessuna rondine traditrice, nessun segno divino, solo un bubbolìo lon- tano bu bu bu bu bu tra il nero di seppia dei monti e la trave gonfia di pioggia del tetto, poi altro silenzio, infine rotto dalla voce del menestrello che implorava la grazia: “Ieu sui Gerard, que plor e vau cantan, fui menestrello di queste terre tra pietre e foglie, schiavi e padroni; io, Gerard, sulla lapide di vento d’una notte assassina iscriverò la tua fine: tu sei la tua prigione”, disse. “A morte! A morte!”, urlavano gli uomini. Non fece in tempo a chiudere gli occhi che fu trafitto dalla possente lama di Sua Maestà. Il castello era caduto, non restava aria al di là dell’incendio che dall’ossigeno fuligginoso sottraeva vite umane come capocchie di fiammifero, all’alba era tutto cenere come il letto di un falò. Sabbione era di nuovo dei sabbionassi. Tra le foglie spazzate dal nord-est Sua Maestà contemplò lo scempio di un paradiso scisso tra ghigno di scimmia e sorriso di donna, uomo immortale sulle rovine della mortalità. Giacque tutta la notte con la bella principessa di Sant’alba di Cipperùla, De- sdemona, stuprandola più e più volte. Quando ebbe finito la fece gettare nella forra della piazza centrale di Sabbione. ”

A questo punto ebbi il tipico eccitamento che mi coglieva a scuola quando la professoressa spiegava la guerra di Cipperùla, quando si faceva un tifo sfrenato per i nostri antenati contro gli invasori brutti e grassi di Cipperùla, le cui case sono più brutte delle nostre, le donne pure, il vino è peggiore ma sponsorizzato meglio, i bambini piangono più dei nostri, i vicini rompono i co- glioni dalla mattina alla sera, le messe sono più lunghe e noiose delle nostre, i santi più pallidi e contriti, non hanno il tamburello a muro, i tetti gocciolano più dei nostri, l’immondizia puzza tre vol- te la nostra e le professoresse hanno le caviglie grosse, non come le nostre che hanno tutte le caviglie sottili e un alito buono e pro- fumato. Poi continuai a leggere dal diciottesimo volume dell’Enciclopedia Sabbionassa Grolier:

507 “Si impiccò dopo aver trucidato la moglie fedifraga, il conte di Verulengo suo amante e tre dei quattro figli. Risparmiò solo la figlia più piccola con cui tentò di generare una nuova stirpe regnante; ma i rifiuti di lei, già promessa in sposa al Barone di Refrancore, e il tradimento del barone stesso, portarono agli avvenimenti tragici che condussero al suicidio del Patrono del Sabbionasso il quale, incarcerato per crudeltà nella Torre di San Vittore in Castrocozzo con una corda già legata al collo, cedette all’impulso e morì la notte di mercole- dì 19 luglio 1215 alle ore mezzanotte e venti. Fu santificato nel 1553 da Papa Cosimando II e proclamato Santo Patrono di Sabbione e di altri nove comuni del Sabbionasso negli anni che vanno dal 1845 al 1866. I sabbionesi festeggiano la ricorrenza della sua morte il 19 luglio, proclamata festa patro- nale, con una parata e una giostra che si dice risalire al suo principato ”.

Così subito mi venne una gran voglia di andare a cercare quelli della Grolier Enciclopedie e di spaccare il cranio a tutti dicendo come vi permettete brutti schifosi di scrivere queste coglionate sul conto del nostro Patrono lui ha ucciso tutti quei parassiti misera- bili di Cipperùla e li ha impalati e impiccati e ha fatto bene ritirate subito tutti i volumi diciottesimi di tutte le vostre squallide enci- clopedie e correggete la voce riguardante Bertran de Born pardòn San Bertran de Born fatelo immediatamente dovete farlo fatelo fatelo. Bertran de Born è un eroe! E che cristo. Ma dopo nell’impossibilità di trovare quelli della Grolier Enciclopedie (che per il resto mi è sempre sembrata una buona enciclopedia e ben fatta) mi sono deciso a tirare fuori diciotto euro e a fare la coda per sfiorare anch’io la testa mummificata del nostro Patrono e così ho fatto, imprecando e bestemmiando tutto il tempo per i gomiti dei miei amati concittadini piantati nelle costole e gli ombrelli pa- rasole delle signore nei capelli sugli zigomi e quasi negli occhi. E poi finalmente dopo un’ora e mezza di bestemmie e gomiti e om- brelli ho sfiorato la testa rachitica del nostro amato patrono che da morto non aveva più le piaghe nelle mani (il Signore te le toglie quando crepi dicono) anche se questo non lo sapremo mai con certezza, dacché le mani del nostro Patrono saranno finite a con- cimare un orto a Castrocozzo o in un allevamento di maiali di Frinco o peggio trapiantate a quel povero falegname di Piovà Massaia che quando ero piccolo si tranciò le sue con una sega cir-

508 colare. Ho sfiorato i capelli del Patrono e mi sono subito sentito meglio. Sono tornato a casa e mi sono rimesso davanti alla televi- sione a guardare la diretta dal cimitero Monumentale Iscariotico.

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509

IL RITO DI IMBOLC

In televisione dicono che il nostro patrono rimarrà esposto tre giorni e allora penso bisogna fare qualcosa cazzo, qualcosa che venga ricordato da questi buffoni come un segno tangibile della grandezza di San Bertran de Born il Conquistatore. Mi scervello per un quarto d’ora provando a concentrarmi ma di questi tempi è mica facile, la concentrazione va e viene così de- cido di rilassarmi sul divano leggendo le riviste imbecilli di mia madre. Leggo la notizia di un culturista morto d’infarto durante la Giornata dell’Affermazione della Virilità Red Bull mentre cercava di trascinare un trattore (con autista) in Piazza delle Dominazioni. Questo povero coglione ci ha rimesso le penne ma ha ricevuto il plauso della comunità gay del Sabbionasso e dell’Associazione Sabbionassa Body-Builder. I parenti, leggo, cattolici e depressi, non c’avevano manco i soldi per seppellirlo, così hanno chiesto una colletta ai cittadini amanti del body-building. Risultato: un pu- gno di vaffanculo e dodici euro in monete da due e cinque cente- simi. Così il tizio rischiava di marcire se non fosse intervenuta l’Associazione Body-Builder a garantire almeno una funzione e un posto sottoterra. Esco. Vago per le strade vuote della mia periferia bucolica , come la definiscono i sociologi, fino al mio solito bar, do- ve il reverendo ha promosso un ciclo di Sermoni Biblici per la Salvezza di noi Poveri Cristi. Appena arrivo mi siedo e chiedo a Tòn e Giùs se hanno visto l’ostensione della salma di san Bertran. “Che cazzo certo che l’abbiamo vista”, risponde Giùs. “Un ve- ro schifo”, aggiunge Tòn. “Uno schifo del cazzo”, fa Giùs. Il sermone di questa sera riguarda le domande fondamentali della bibbia in relazione alla vita quotidiana. “Tutti i cittadini dovrebbero partecipare alle letture della bib- bia”, dice il reverendo. “Altrimenti i loro figli non potranno rice- vere comunione né cresima, i loro nipoti non potranno congiun- 510 gersi in matrimonio, i loro morti non potranno ricevere estrema unzione né esequie, i loro infermi non potranno ricevere conforto, le loro preghiere non saranno esaudite”. Ha fatto stampare tremila opuscoli ciclostilati in cui si tracciava il percorso biblico, considerando Genesi, Esodo, Levitico e Nu- meri, con un accenno al Deuteronomio. “Cazzo non è possibile andare avanti con questo strazio”, dice Tòn, “mi sto addormentando cristo”. “Stai zitto deficiente, se ti sente il reverendo ci fa stare un mese senza comunione”, dice Giùs. “Ma chi se ne fotte della comunione”, dice Tòn. “Dobbiamo fare qualcosa per il nostro patrono”, dico, “che cazzo, non possiamo mica restare qui impassibili”. “Cosa intendi per impassibili?”, chiede Giùs. “Vuol dire senza fare niente, pezzo di cretinoide”, dice Tòn. Il bar è dei genitori di Tòn e si chiama Un Posto Pulito e Illumina- to Bene , solo che il bancone sembra una latrina e l’illuminazione è un neon merdoso da obitorio che scatarra lampi sfrigolanti di luce violacea sui capelli degli sciagurati che si lordano le scarpe nella segatura vomitosa del pavimento. “Con quella testa rinsecchita, cazzo, non posso guardarlo”, di- ce Tòn. “Dobbiamo agire”, dico, e racconto per filo e per segno il progetto che mi è venuto in mente nel pomeriggio e che è ancora in fase di elaborazione. “Porca puttana”, dice Tòn. “Cristo”, dice Giùs, “mi sembra una figata pazzesca”. “Ma è una stronzata bella e buona”, dice Tòn. “Puoi fare a meno di venire”, dico. La cugina di Tòn, Liz, una ragazzina sveglia che ha sentito tut- to sgattaiola vicino a me e dice: “facciamolo, ma a modo mio”; annuisco e penso che ci stiamo cacciando in un bel guaio. Liz è ossessionata da sedute spiritiche, magia rossa e nera, eso- terismo da supermercato e ho già una vaga idea di quale possa es- sere il ‘modo suo’. Decidiamo di agire quella sera stessa. Per restituire al nostro Santo Patrono la stima e il rispetto che merita.

511 “Prima però dobbiamo mollare questa fottuta lezione”, dice Tòn. “Silenzio laggiù”, tuona il reverendo, “piuttosto per la prossima settimana voi tre potreste consegnarmi una tesi nella quale analiz- zerete a fondo le seguenti domande: Uno , è possibile conciliare la reincarnazione con la Bibbia? Due , è possibile aggiungere dettagli riguardanti la Salvezza anche al di fuori della Parola di Dio? Tre , lo gnosticismo è conciliabile con il cristianesimo rivelato? Quattro , Gesù è venuto per dare adempi- mento o per abolire la legge? Cinque , La Bibbia è un libro simboli- co?”

“Sei , la bibbia è un libro del cazzo!”, grida Giùs. Subbuglio ge- nerale. Si levano voci del tipo “inammissibile”, “scandaloso”, “vomitevole”. Altri applaudono e fischiano. Il reverendo rischia lo svenimento. Tanto meglio, approfittiamo della situazione per scardinare la porta e uscire in strada. Saltiamo in macchina e pas- siamo all’officina di Giùs, un’officina in campagna piena di trattori e carrette dell’anteguerra, carichiamo tre seghe e quattro badili; poi passiamo da Liz che entra in casa e torna con uno zaino pieno di libri e ci dirigiamo al cimitero monumentale di Sabbione. “E se ci sono le guardie?”, chiede Liz durante il tragitto in auto. “Che cazzo, figurati se ci sono le guardie”, dice Giùs. “Ma ci sono di sicuro, deficiente”, fa Tòn, “ti pare che lasciano il nostro patrono alla mercé di qualsiasi pervertito senza neppure la protezione delle guardie?”. “Se poi capita che dei delinquenti vogliono prendersi anche la testa cosa facciamo, restiamo senza patrono?”, fa Liz. “Se ci sono le guardie scatta il piano B”, dico. “E quale sarebbe il piano A?”, chiede Giùs. “Sei proprio un bacato mentale”, dice Liz. “Sei totalmente ignorante”, dice Tòn. “Il piano A è scavalcare il muro dal retro del cimitero”, dico.

Arriviamo al cimitero e ci sono le guardie.

“Cazzo le guardie del cazzo”, dice Liz.

512 “Quelle cazzo di guardie”, dice Giùs. “Non puoi fare a meno di essere così volgare in presenza di mia cugina?”, dice Tòn. “Che cazzo tua cugina parla come un merdajolo di Aramengo e io dovrei fare a meno di essere volgare?”, fa Giùs. “So badare a me stessa”, fa Liz, “allora? Che si fa?” “Scatta il piano B”, dico. “E quale sarebbe il piano B?”, chiede Giùs. “Sei proprio uno scemo di guerra”, fa Liz. “Imbecilloide”, dice Tòn. “Il piano B è uguale al piano A, solo facciamo più attenzione”, dico. Andiamo sul retro del cimitero e scavalchiamo il muro senza troppi problemi; in un battibaleno siamo dall’altra parte cioè nell’area pidocchiosa del nostro camposanto, quella dove ci sep- pelliscono i poveri cristi come noi e come il culturista morto d’infarto. “Che schifo”, dice Liz. “Davvero un posto desolato”, dico. “Cosa intende per desolato?”, chiede Giùs a Tòn. “Intende che è una vera merda”, dice Tòn, e scalcia un paio di ratti grossi come procioni. Forse starò esagerando, ma questa parte del cimitero è una co- sa disgustosa, cazzo, neppure una misera cappelletta o una croce di pietra, una lapide o quei fottuti angioletti a far da cornice alle tombe. “Mi sembra l’ideale”, dico. “Ideale un cazzo”, dice Liz, “ma se fa cagare”. “Sì ma è il posto in cui hanno ficcato il nostro uomo”, dico. Cerchiamo attentamente tra le tombe, o quegli schifi che sono, per trovare la tomba del culturista tra quelle dei poveracci sepolti in questa parte del cimitero. Siccome è buio e quella schifosa tor- cia di Giùs non funziona non leggiamo praticamente niente e così andiamo a caso. Ne scegliamo una con la terra che sembra fresca e cominciamo a scavare. “Vuoi dire che dobbiamo scavare lì?”, chiede Giùs. “No, nella tua testa, scemonito”, dice Tòn.

513 “Smettetela e scavate”, dice Liz. Troviamo la bara che più di una bara sembra uno scatolone in- dustriale. “Guardaci dentro”, dico a Giùs. “Neanche per il cazzo”, risponde Giùs, “non ficco una mano lì dentro neppure per una scopata con Pamela Anderson”. Proviamo a convincere Tòn. “Non vedo perché se lui non ficca la mano lì dentro dovrei far- lo io cazzo”, dice Tòn, “e poi siamo in quattro, cristo, fatelo voi”. “Siete due mezze seghe”, dice Liz, e scoperchia lo scatolone. Dentro ci troviamo un tipo vecchissimo mezzo decomposto che fa una puzza da schifo. “Porca puttana”, dice Liz. “Ma non aveva ancora la terra fresca sopra?”, chiede Tòn. “E allora?”, fa Giùs. “E allora dovrebbe essere integro, cazzo, stupido di tacca che non sei altro”, dice Tòn. Poiché il venerando chiaramente non è il nostro culturista de- cidiamo di dividerci e provare con un’altra bara. Ci servono due braccia e due gambe, un tronco e un bacino, eccetera. Il tutto pos- sibilmente integro e del culturista. “Ne ho trovato uno che può essere lui”, dice Giùs. “Sei un deficiente, pezzo d’asino”, dice Tòn guardando la bara scoperchiata da Giùs, “porca puttana non vedi che è una donna?”. “Sentite non è che potete smettere di bestemmiare sulle tom- be?”, chiede Liz. “E da quando in qua porca puttana è una bestemmia?”, dice Tòn. “Porca puttana non è una bestemmia”, conferma Giùs. “Tu stai zitto, pezzo d’asino”, dice Liz. Alla terza bara troviamo il culturista. “Ma come stracazzo l’hanno vestito?”, chiede Tòn. Il nostro culturista era stato seppellito con l’abito da lavoro, per cui porta una specie di salopette aderente sul viola acceso. In pra- tica è mezzo nudo. “Ha ancora l’olio sui muscoli, che schifo del cazzo”, dice Giùs.

514 “L’hanno seppellito ieri”, dice Tòn leggendo la lapide di fianco alla tomba, più un post-it che una lapide. C’è scritto Rubeus Heinze: amato figlio – suicida fallito eppure morto celebrando il Calendario Ricreativo Promozionale HCE . Più in là ci sono quattro fiori in croce e una coro- na col nastro siglato dall’Associazione Sabbionassa body-builder e un biglietto con su scritto Non ti dimenticheremo. Un minuscolo na- stro di stoffa di quart’ordine reca la scritta: I colleghi del Dipartimento Assicurazioni sui Tentativi Falliti di Suicidio . “Questo è decisamente il nostro uomo”, dico. “Guarda che pettorali”, dice Liz. “Cosa fai sbavi per i pettorali di un cadavere?”, fa Giùs. “E perché no? Sono davvero niente male”, fa Liz. “Ma sei disgustosa cazzo, una depravata mondiale”, dice Giùs. “Vaffanculo Giùs”, dice Liz. “Ti sembra il caso di metterti a commentare i suoi muscoli del cazzo, cazzo?”, dice Giùs. “Sto guardando anche i deltoidi, e non oso pensare alle sue chiappe”, fa Liz. “Porca puttana sei un’assatanata”, dice Giùs. “Facciamola finita eh”, dico. “E adesso?”, chiede Tòn. “Tagliamo”, dico. “Starai scherzando”, dice Giùs. “La testa non ci serve”, dico, “per cui è la prima parte che se- gherei via”. “Perché non ci serve la testa?”, chiede Tòn. “Ma perché è l’unico pezzo che ci resta del nostro Patrono, cretinoide che non sei altro”, dice Liz. Cominciamo a segare la testa cercando di tagliare perfettamen- te all’altezza della trachea, proprio nel punto in cui la testa di San Bertran dovrà combaciare col tronco. Segare la testa di un culturista morto è davvero uno schifo del cazzo, ha ancora i muscoli in tensione perché quando è schiattato era nel pieno dello sforzo e la puzza di canfora si mescola a quella di marciume dei fiori, uno schifo portentoso. “Questi fiori puzzano come la merda”, dice Tòn. “Davvero un paragone apprezzabile”, dice Liz.

515 “Adesso la signorina si scandalizza”, fa Giùs. “Cazzo cazzo cazzo”, dice Tòn, “schifo schifo schifo”, dice Liz mentre seghiamo. “Ma taglia con più attenzione, cristo”, fa Tòn a Giùs. “Mi hai preso per un patologo del cazzo?”, dice Giùs, “se vole- vi un cazzone di coloner dei telefilm americani dovevi tagliare tu”. “Si dice coroner , pezzo d’imbecilloide”, dice Liz. “Ci sono punizioni terribili per quello che stiamo facendo”, di- ce Tòn. “Che punizioni?”, chiedo. “Ma come minimo l’inferno cazzo”, dice Tòn. “Se va bene”, dice Giùs, “per me ci sbattono in una prigione piattolosa”. “Ci ficcano in una bolgia a patire le pene per trecentomila an- ni”, dice Tòn. “Cosa intendi per bolgia?”, chiede Giùs. “Intendo che ti mettono in un posto pidocchioso, scemonito, coi ratti e gli scarafaggi e sono cazzi tuoi, mica c’hai le trappole o il DDT ”, dice Tòn. “Sembra davvero uno schifo”, dice Giùs. Dopo una mezz’ora abbiamo finito, siamo attrezzati con guanti di lattice e una sega affilata, per cui prendiamo una carriola ab- bandonata e carichiamo il culturista senza testa. In dieci minuti siamo pronti per attuare la seconda parte del piano. “Guarda quanto ce l’ha piccolo, cristo”, dice Liz sbirciando la salopette del culturista. “Ma allora sei proprio una depravata del cazzo!”, grida Giùs. “E tu un ignorantoide da competizione”, urla Liz. “Volete per caso anche suonare una sirena?”, fa Tòn, “o maga- ri preferite urlare direttamente alle guardie Signore guardie del cimite- ro, siamo quattro coglioni che stanno scarrozzando in giro per il cimitero una carriola con un culturista morto decapitato . Fate silenzio, cristo”. “Abbiamo un corpo coi fiocchi”, dico. “Ma con un cazzo che sembra una patatina fritta smollata nell’acqua”, fa Liz, “non avrei voluto essere la sua donna neppure da morta”.

516 “Ma tua cugina è una porca inaudita!”, fa Giùs. “Ma fai silenzio, pezzo di un deficiente patentato!”, urla Tòn. “Non possiamo ricomporre il cadavere del nostro Santo con un cazzetto minuscolo come questo”, dice Liz. “Ditemi che sta scherzando”, dice Tòn. “Neanche morta”, dice Liz, e si pianta lì in mezzo a quelle tombe pidocchiose, a pochi metri dall’ingresso dell’area monu- mentale del cimitero. “Tanto mica lo ricomponiamo nudo, vacca eva”, dice Tòn. “Una donna sa notare certi particolari anche attraverso i panta- loni”, dice Liz. “Cristo Santo, è malata”, dice Giùs. “Smettetela”, dico, “piuttosto, come lo vestiamo?”, chiedo. Non abbiamo un vestito, così decidiamo di tirare fuori un altro cadavere. Per il vestito. “Mi rifiuto di ricomporre il corpo di San Bertran de Born, Eroe di Sabbionasso, con un cazzo che sembra una pustola sgonfia, porca puttana”, continua Liz. “In effetti è davvero piccolo”, dice Tòn. “Non dici sul serio, vero?”, fa Giùs. “È una questione di virilità”, dice Liz, “pensate a quelli che lo hanno mostrato alle televisioni solo per interesse, a quelli che fin- gono di preoccuparsi della sua santificazione, a quelli che fingono di piangere, quelli della chiesa”. “Quegli stronzi fottuti”, dice Tòn. “Si può dire stronzi fottuti in un cimitero?”, dice Giùs. “E perché no? Mica siamo in oratorio del cazzo”, dice Tòn. “Sì ma è un terreno consacro del cazzo”, dice Giùs. “Consacrato , ignorantoide”, dice Liz. “Comunque secondo me si può dire”, dice Tòn, “è un po’ co- me dire merda, vomito, schifo, merda”. “Hai detto due volte merda”, dice Giùs. “Ma cosa sei un notaio del cazzo? era per fare un esempio no?”, urla Tòn, “vuoi che sostituisca merda? Piscia, piscia piscia piscia, si può dire piscia? Beh io lo dico”. “E comunque mi rifiuto di ricomporre il corpo del nostro pa- trono a queste condizioni”, dice Liz.

517 Liz continua a impuntarsi per la questione del pene per cui siamo costretti a scaricare il tronco del culturista già bello affettato e pronto all’uso. “Dobbiamo trovare un altro corpo”, dico. “Ma non si può segare solo l’affare e sostituirlo?”, chiede Giùs. “Brutto deficiente”, dice Liz, “e poi cosa gli attacchiamo, il tuo?”. “Ti piacerebbe?”, chiede Giùs. “Sì per ricordare il nostro patrono come il Santo dal cazzo mi- croscopico”, dice Liz. Profaniamo tre o quattro tombe. “Vieni a vedere se questo è di tuo gradimento, miss depravata”, dice Giùs. “Quello è più rinsecchito del tuo, mister coglione”, dice Liz, e la ricerca continua. Trovo una bara lunga tre metri e larga due, un legno povero ma robusto. Julio Burgos, amato marito. Scoperchiamo e troviamo un bestione di due metri. “Guarda lì sotto se può andare”, dico a Liz. Stavolta Liz non fa problemi e tira giù i pantaloni al bestione, svelando un pisello di ventisette, ventinove centimetri in erezione, almeno secondo le proiezioni di Liz. “Cos’è adesso facciamo anche le proiezioni ?”, chiedo. “Questo è troppo, cristodio, tua cugina è una maniaca sniffo- mane”, dice Giùs a Tòn. “Ninfomane , frocettoide che non sei altro”, dice Liz. “Con te facciamo i conti dopo”, dice Tòn a Liz, “dovresti ver- gognarti a parlare così, con sedici anni, in presenza di tuo cugino”. “Diciassette, cugino dei miei coglioni”, fa Liz. “Facciamola finita cazzo, vogliamo procedere?”, chiedo. Tiriamo fuori il bestione a fatica. “Ma questo è un mostro”, dice Tòn. “Mai vista una bestia del genere”, dice Giùs. “Gli corre lungo una gamba”, dice Tòn. “Gli arriva al ginocchio cazzo”, urla Giùs “I nostri frocetti hanno un po’ d’invidia?”, dice Liz. “Vaffanculo Liz”, dice Tòn.

518 “Manco il Gerarca ha un cazzo così”, dice Liz. Seghiamo il tronco del bestione e lo ficchiamo nella carriola, buttiamo via gambe, braccia, e testa. Seghiamo il culturista all’altezza dell’ombelico e teniamo gambe, tronco e braccia. “Butta via la parte bassa del culturista”, dico a Giùs. “Ma porta rogna buttare via i pezzi di cadavere”, dice Giùs. “Cos’è quest’altra stronzata?”, chiede Tòn. “Ci mancava solo questa”, fa Liz. “Butta via quel cazzo del cazzo”, gli dico. “Porta rogna!”, urla Giùs. “Fighetta di una mezza sega”, dice Liz, e afferra il bacino del culturista. Si avvia verso il cassonetto e lo getta via. “Avevi dei gran bei pettorali e le chiappe belle sode ma credi- mi, non ho mai visto un cazzo tanto piccolo”, dice Liz. “Ci voleva tanto?”. Abbiamo i pezzi ma non un vestito, perché quello del bestione è enorme, inoltre non possiamo vestire San Bertran de Born con un frac merdoso e pieno di buchi. La seconda fase del piano è la più delicata, poiché si svolge a contatto con l’area in cui giace la testa di San Bertran de Born. Ci muoviamo rapinosi tra le cappelle di lusso dell’area Vip del cimite- ro e avvistiamo la pietra su cui poggia la testa: è nel centro di uno spiazzo rotondo e immenso; la pietra funeraria è abbastanza gran- de da accogliere i nostri pezzi di cadavere. C’è una certa eccitazio- ne serpeggiante. Delle guardie neppure l’ombra. Circumnavighia- mo lo spiazzo, guardiamo fuori dal cancello, nelle cripte, nelle cappelle, niente. Neanche una guardia. “Guarda che fine gli hanno fatto fare”, dice Liz. “Neppure una guardia del cazzo a presidiarlo”, dice Giùs. “Uno si fa un culo a paiolo per diventare santo, stermina chi c’è da sterminare, impala chi c’è da impalare e il trattamento è questo”, dice Tòn. “Dove cazzo sono finite le guardie?”, domando. “Chi se ne frega”, dice Tòn. “Non c’è anima viva”, dice Giùs. “Bella battuta del cazzo”, dice Liz.

519 “Tua cugina è una degenerata”, dice Giùs a Tòn. “Vogliamo fare il lavoro per cui siamo venuti o aspettiamo che vengano coi cani, cristo?”, dico. Scardiniamo tre o quattro cappelle e rimediamo un bel vestito per il nostro patrono. Poi la ricomposizione del cadavere è compito di Tòn, che ha sostenuto cinque esami di medicina. Solo che ci mette una vita. “Qui facciamo mattina, cazzo”, sbotta Liz, “ma cosa ci vuole a ricomporre un fottuto cadavere?” “Ha parlato miss saputella”, dice Tòn. “E miss pervertita”, dice Giùs. “Date qua, mister rincoglioniti”, dice Liz, e in tre minuti ri- compone il corpo che è una meraviglia. “Signore e signori, ecco voi San Bertran de Born”, dico. “Con un cazzo enorme”, dice Liz. “Appena uscito dalla palestra”, dice Giùs scattando una foto- grafia col telefonino.

A questo punto non sappiamo cosa fare.

“Ma raccogliamoci in meditazione, cazzo”, dice Liz, “è il mi- nimo che possiamo fare”. Ci raccogliamo in meditazione fino a quando Liz decide che è ora di cominciare il rito. “Che storia è?”, chiede Tòn. “È la terza parte del piano”, dice Liz. “E cioè?”, chiede Giùs. “E cioè risvegliamo il nostro Patrono dal suo sonno centenario mediante il rito di Imbolc”, dice Liz. “Ossignore schifo santo”, dice Giùs. “Non vorrai fare sul serio questa cazzata”, dice Tòn. “Tappati la bocca, ignorante, l’esoterismo è una scienza”, dice Liz. Discutiamo qualche minuto, mentre Liz tira fuori dallo zaino un lettore cd portatile e lo accende: c’è una specie di canzone in- comprensibile. Faccio notare che potrebbe arrivare qualcuno da

520 un momento all’altro, per cui Liz prende un libro e comincia a leggere. “Il 1° si hanno nove ore e undici minuti di luce solare e il 31 se ne hanno nove e cinquantanove: si perdono quarantotto minuti di buio. La Luna è Piena il giorno 3 e Nuova il giorno 17”. “Per la puttana, è completamente fuori di testa”, dice Giùs. “Silenzio, scemo di guerra”, dice Tòn, “prima cominciamo e prima finiamo”. “Vaffanculo, voi due”, dice Liz, e riprende a leggere. “Il Giorno 20 alle ore 06:16 il Sole lascia il Capricorno ed entra nel segno dell’Acquario”. “Queste cose portano una rogna terribile”, dice Giùs. Osserviamo Liz mentre prepara gli strumenti per il rito. Cande- le bianche e rosse, rametti di sorbo, fiori rossi, incenso di Imbolc, rosmarino, cannella, incenso puro, biscotti alla cannella, marmella- ta di mirtilli, succo di frutta ai frutti di bosco. “Ma che cazzo, tua cugina è una strega coi controcazzi!”, dice Giùs. “Ma stai zitto”, dice Tòn preoccupato. “Zitti e immobili”, dice Liz, “questa è la parte più delicata”. “Porta una rogna terribile, ve lo dico io”, ripete Giùs. “Quando la ruota a Yule giungerà, il ceppo si accenderà e il Cornuto regnerà”, declama Liz. “Cosa intende per Cornuto?”, chiede Giùs a Tòn. “Cretinoide, il porco Demonio no? E chi altri?”, dice Tòn. “O cazzo, cazzo, cazzo”, dice Giùs. “Io sono la Signora delle Maree che fa ritorno al suo Regno su una nave di Fiori”, continua Liz. “Oh cristo”, dice Tòn. “Io sono Giovane ma Vecchia, Vergine ma Saggia”. “Questo è troppo. Ma se è una porca allucinante”, dice Giùs. “Ma stai zitto citrullo, non vedi che è il testo di un rito?”, dice Tòn. “Sì ma dura ancora molto?”, chiedo. “È quasi finito”, dice Liz. “Adesso dobbiamo ripetere insieme questa formula”. Liz apre il libro.

521 “Al tre tutti insieme”, dice Liz. “Tre”. “Gioiamo per il Seme che riposa nella Terra Gioiamo per il Vento che si fa gentile al tocco. Gioiamo per la Luce che nasce dalle Tenebre Gioiamo per l’Orso che fa ritorno al Bosco. Gioiamo per la Rinascita e per il Ciclo Eterno!”

Non succede niente. Rimaniamo immobili a osservare il corpo immobile del nostro Santo. “E allora?”, fa Tòn. “Bella stronzata”, dice Giùs. “Cosa sarebbe dovuto capitare?”, domando a Liz. “Avrebbe dovuto risvegliarsi, cazzo”, dice Liz. Stiamo lì a rimuginare poi sentiamo un’automobile fermarsi davanti alla cancellata del cimitero seguita da altre automobili. “Avete sentito?”, domando. “Arrivano a tutta birra, cristo”, dice Giùs. “È quella Pantera del cazzo”, dice Tòn. “Cosa intendi per Pantera?”, domanda Giùs. “Ma i vigilanti notturni del cazzo, no?”, dice Tòn. “Ma perché il rito non funziona?”, chiede Liz. “Chissenefrega del tuo rito idiota”, dice Tòn. “Scrivi qualcosa con la vernice spray e andiamocene”, dico a Giùs, che tiene in mano la bomboletta. “Cazzo dev’essere la marmellata di mirtilli. Ci voleva quella di more”, dice Liz. “Ma cosa cazzo scrivo?”, chiede Giùs. Cominciamo a correre lasciando Giùs con la bomboletta in mano. Scrive qualcosa e sembra impegnarsi davvero, corre via, ci raggiunge, ci supera, salta il muro di recinzione del cimitero. Quelli della Pantera fanno irruzione nel cimitero monumentale e ci trovano il corpo ricomposto di San Bertran il Conquistatore, con muscoli da culturista e un cazzo da paura. La scritta recita “ il nostro Patrono ha il cazzo lungo da qui a domani ”. Arrivano le televisio- ni, i giornali, nel giro di mezz’ora le immagini di San Bertran Ri-

522 composto fanno il giro del Sabbionasso, forse del mondo. La scritta la censurano coprendola con un lenzuolo bianco, ma ce lo aspettavamo, sono sempre i soliti dai tempi dell’inquisizione. Nel frattempo siamo già da Burger King e ci stiamo facendo un Double Whopper glorificando il corpo ricomposto del nostro patrono; quantunque non sia tornato in vita per punire tutti i falsi profeti noi brindiamo, cazzo, perché siamo certi di aver fatto un bel lavoro. Un gran bel lavoro. Davvero.

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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (16) ______

Il 16 dicembre, Giornata dell’Immedesimazione Bovina Brico- center 18 , un cittadino di Castrocozzo si presentò spontaneamente

18 Ogni cittadino è invitato/tenuto a identificarsi con un bovino adulto, in piena salute, còlto negli attimi immediatamente precedenti al suo ab- battimento mediante la scarica di un chiodo o di un proiettile perforan- te il cranio, o in alternativa mediante sgozzamento in sospensione. L’immedesimando sarà dotato di pelle bovina e condotto in uno dei ventuno mattatoi fedelmente riprodotti nelle vie del centro, dove sarà sottoposto al seguente processo di immedesimazione: a) sarà posto in una gabbia escrementizia e puzzolente, dove gli verrà applicato un ta- tuaggio a fuoco (cancellabile); b) verrà stordito mediante un chiodo a salve scagliato da una sparachiodi di ultima generazione, c) sarà dotato di occhialini 3D; d) verrà imbracato per un piede a una catena, sollevato e fatto ondeggiare su un canale di scolo; d) a questo punto si procederà allo sgozzamento apparente e tridimensionale dell’immedesimando, ri- prodotto tramite psicofarmaci e tecniche cinematografiche di ultimissi- ma generazione; e) l’intelletto sarà a tal punto suggestionato che l’immedesimando avrà la sensazione totale di essere stato veramente sgozzato: comincerà a sentirsi assonnato, vedrà il proprio sangue sgor- gare dalla giugulare (si procede per rapidi tagli verticali) e/o dalla caro- tide e fluire a litri nel canale di scolo; f) la sua coscienza verrà meno, il cuore continuerà a pulsare, la gamba libera, che fino a qualche attimo prima si dimenava tragicamente, inizierà a immobilizzarsi, i muscoli si contrarranno; g) osservando il proprio sangue nel canale di scolo sotto- stante l’immedesimando noterà sulla destra un carrello sul quale è posto un affare molto simile alla propria testa. Un momento: si tratta veramente della testa dell’immedesimando, prima soppesata, poi analizzata e infine gettata in un vascone dove nella melma e nel sangue denso sembreranno galleggiare anche parti di piede, di mano e di naso o orecchia; h) l’immedesimazione terminerà con una siringa contenente un liquido verdastro e un’iniezione. Il cittadino si rianimerà asciutto, perfettamente integro, voglioso di farsi una bella bistecca fiorentina. O magari no. Si utilizzeranno sparachiodi ad aria compressa Brownstone, coltellacci Finkelmann e occhialini 3D di filiera, reperibili esclusivamente in tutti i Bricocenter del territorio e naturalmente, durante la giornata, in tutti i 524 al Dipartimento di Nettezza Umana per rilasciare una dichiarazio- ne. Fu fatto accomodare nell’ufficio dell’Ispettore Doroteo Um- bilk, al quale confidò che circa due mesi prima un manipolo di suoi concittadini aveva scoperto il cadavere di un uomo la cui identità, nonostante i numerosi sforzi attuati per il riconoscimen- to, rimase ignota. Questo tizio, proseguì il cittadino castrocozzese, al momento del suicidio indossava una calzamaglia arancione. Quando Umbilk gli chiese perché non avessero immediata- mente denunciato il fatto, il cittadino balbettò qualcosa a proposi- to di una lotteria. Gli offrirono una birra fresca e una sigaretta. Il castrocozzese la rifiutò. Accettò invece un espresso e dichiarò che, per quanto ricorda- va, il morto stecchito senza nome era identico all’identikit del Monaco Arancione, diramato in quei giorni su tutti i quotidiani a seguito della segnalazione di un barista. Umbilk si accese una sigaretta. Ringraziò il castrocozzese e ri- mase nel suo ufficio qualche minuto a riflettere. Poi comunicò ai vertici del Dipartimento quanto aveva appena appreso. Il Dipartimento Nettezza Umana impiegò numerosi uomini per estrarre il Monaco Arancione dalla fossa collettiva in cui i ca- strocozzesi l’avevano seppellito. Il cadavere fu recuperato dopo quattro giorni di ricerche, du- rante le quali si estrassero dalla fossa cinquantacinque poveri cristi mezzi decomposti. Il barista di Sabbione che aveva fornito lo spunto per l’identikit, un certo Tristòforo Figliodidio, riconobbe il Monaco Arancione con una percentuale d’errore definita trascurabile dai funzionari del Ministero Suicidi & Festività ®. Traumerei si disse molto preoccupato dall’evolversi degli even- ti. Confidò all’amico Patrick che la faccenda non lo convinceva per niente. Anche l’Ispettore Umbilk era molto dubbioso.

presìdi posti nelle principali piazze di Sabbione e dei comuni del Sab- bionasso. 525 Tuttavia, in una conferenza stampa, il Commissario Superiore di Nettezza Umana Jean-Jacques Ricàrd dichiarò che il cadavere del Monaco Arancione era stato trasferito all’Ufficio competente per l’avvio delle pratiche di oltraggio e vilipendio. Disse che non avevano idea del vero nome del Monaco, ma aggiunse che con la cattura del capo riconosciuto nel giro di qualche mese l’intera setta sarebbe stata estirpata. I giornalisti scrissero che la pratica del suicidio abusivo era stata debellata per sempre dal cuore della città. Nei tre giorni successivi si verificarono undici casi di suicidio abusivo. I morti indossavano tutti una calzamaglia arancione. Gli ispettori Doroteo Umbilk, Sigfrid Traumerei e Claudio Kess furono sottoposti a turni massacranti per riassettare le scene dei suicidi.

Il Gerarca, in un discorso tenuto dal balcone del Palazzo Ge- rarcale, affermò che si doveva trattare delle ultime, patetiche, rap- presaglie prima della fine. Senza il leader, disse il Gerarca, qualsiasi gruppo è destinato a sfaldarsi; e vi ricordo che il leader di queste mezzeseghe è stato sbranato e digerito da dodici maiali proprio ieri, in diretta tv.

Qualche giorno dopo, poco prima di Natale, un messaggio vi- deo inviato al Dipartimento Nettezza Umana e trasmesso su in- ternet rivelò a tutti che il Monaco Arancione, ben lungi dall’essersi ammazzato, era vivo, tormentato e latitante nelle cam- pagne sabbionasse, “pronto a perpetrare la propria crociata a co- sto di vivere cent’anni”.

Per quanto riguarda il suicida abusivo senza nome, in un pri- mo momento le indagini condussero a ritenere che potesse trat- tarsi di un vagabondo di Frinco che il Monaco Arancione convin- se ad ammazzarsi promettendogli cure amorevoli per il suo cane, un setter irlandese di quattro anni che ebbe effettivamente una lunga e prosperosa vita. Tuttavia, in seguito ad alcune segnalazio- ni e denunce di persone scomparse, si scoprì che il poveraccio era un giornalista di Sabbione, tale Stanislao Rorìdo, trentanove anni,

526 la cui somiglianza con l’identikit del Monaco Arancione era dav- vero incredibile.

527 SOPRACCIGLIA

Gli studi indicano che la distanza tra le mie sopracciglia, in questa società, è problematica. Il mio amico Tristòforo Figliodidio sostiene che sarebbero ba- stati alcuni millimetri in più e la mia vita sarebbe cambiata in ma- niera inesorabile e vantaggiosa. Cionondimeno, dice il mio amico Tristòforo Figliodidio, la natura percorre strade che l’intelligenza non conosce (sta sicuramente citando qualcuno, ma non so chi), e nessuno sarà mai in grado di aumentare la distanza tra le mie so- pracciglia. Buon dio, quanto è ingenuo.

Ammetto che i miei metodi di stima fisiognomica siano un tantino casalinghi, ma ricordate Lombroso ai primi tempi, quando era ancora studente all’Università di Pavia; ricordate Benedict Lust, che si servì di una semplice lente d’ingrandimento per esa- minare le cellule umane. Io mi sono servito di un righello Maped da trenta centimetri; d’accordo, non sarà il massimo dell’accuratezza, ma date un ri- ghello Maped da trenta centimetri a un uomo dotato d’ingegno e tenacia, e quell’ uomo vi misurerà il mondo.

Insomma gli studi sulle mie sopracciglia hanno rivelato che soffro di una spaventosa malattia mentale: la frivolezza.

Il mio sopracciglio gibboso inoltre palesa che non sono capace di armare un qualsiasi fucile, di preoccuparmi per una crisi eco- nomica o per una violazione dei diritti umani. Se ciò non bastasse, una ptosi della palpebra inferiore mostrava fin dalla prima infan- zia che non avrei mai potuto essere un poeta. Questo e un certo influsso epato-biliare che predispone all’impulsività e alla legge- rezza di mente.

528 I poeti non mi sono mai stati simpatici. Ricordo le rare volte che li ho incrociati, sprofondati su comode sedie con le gambe accavallate, corazzati di un turbamento laconico. Quanto avrei desiderato sedermi nel dehor di un caffè per scrivere poesie, fumare, mangiarmi le unghie. Invece le unghie sono il primo posto dove la gente guarda, e non è facile essere grevi e pensierosi con le unghie curate.

Così ho deciso di riunire un gruppetto di persone – gesù, mi verrebbe da dire una vera e propria banda – la cui distanza tra le sopracciglia era ritenuta problematica. Si trattava di un bel grup- petto, anche se poi uno dei membri ha preso il cancro e un altro è finito impiccato al lampadario di casa. Alla fine sono rimasto solo io, un’individualità malata d’inconsistenza.

Forse è per questo che una serie di combinazioni mi ha fatto incontrare te, affinché potessimo dare il nostro contributo alla conservazione della specie; imbastire una creatura, insomma, la cui distanza tra le sopracciglia fosse soltanto simile (non: identica ) a quella del padre, del suo papà; in fondo pochi millimetri possono rappresentare la differenza tra un figlio iscritto ad Amnesty Inter- national e uno la cui sola passione sono due caviglie ben tornite.

Vedi queste sopracciglia? La loro distanza ha firmato la mia condanna alla riprovazione pubblica. Mi consolo ragionando sul fatto che nessuno può scegliere la propria malattia, tantomeno io; la natura sceglie, anzi, come si dice, seleziona , al posto nostro.

A me non resta che vivere in una stanza tappezzata con ritagli di giornale, cartoline, figurine, fumetti. L’albo originale numero sette di Tex (Il patto di sangue, gen. 1960, copertina di Galeppini) ha una lieve increspatura sul bordo superiore, per il resto è ben conservato, e non intendo privarmene.

D’altra parte, quando mi domandasti la ragione per cui tra- scorressi tanto tempo a consultare fumetti, figurine, libri di fanta-

529 scienza, non avrei mai creduto fosse tua intenzione contattare uno squallido rivenditore di fumetti usati. Per mettere da parte qualche soldo, dicesti. Come se il denaro potesse surrogare una prima edizione intonsa di H. G. Wells.

Il nostro tutore coniugale ci consigliò di confermarci ogni sin- golo giorno la decisione di trascorrere una vita insieme, legati dal sacro vincolo del matrimonio. La volta che ti chiesi di confer- marmi la tua decisione e mi rispondesti di no, non ricordo il gior- no preciso (ma era certamente un giorno terribile, privo di giu- stezza, di quelli in cui il paesaggio si camuffa e mulinelli di insen- sibilità si levano al cielo come esplosi da cannoni sparaneve; la nostra ubicazione era un bar del centro storico, e tu dicesti: te la caverai), non ti nascondo che me la cavai piuttosto male; eppure avrei dovuto sospettarlo, se non altro per via della particolare conformazione del tuo naso, il tuo bel nasino piegato verso il bas- so nella parte inferiore, con punta ipertrofica e alette tese: sapevi che è indice di un grande potenziale emotivo, di una forte suscet- tibilità e di una predisposizione a compromettere rapporti umani e relazioni? Io lo sapevo, ma avrei certo preferito non assodare mai l’attendibilità dei miei studi.

Il ritaglio di giornale cui sono più affezionato è quello riguar- dante la morte della Principessa Grace Kelly, datato quindici set- tembre millenovecentottantadue. Ma c’era un tepore, quel giorno, che un uomo può ricordare solo a patto di un enorme sforzo d’immaginazione. Utilizzai quel ritaglio come ammiraglia della mia flotta di carta, e ancora oggi continuo a smussarne gli angoli affinché assuma perfettamente la foggia di una immensa portae- rei. Ho altri ritagli, che utilizzo da caccia torpedinieri. I più piccoli rappresentano i soldati. La guerra di carta è comoda ed educativa, e i soldati nemici prendono fuoco che è una meraviglia.

Il tutore coniugale aveva previsto la possibilità che dopo mille- centotredici giorni tu non confermassi la decisione presa in una chiesa ben illuminata, colma di persone che non m’interessavano e fiori di campo? Io indossavo un mezzo tight in tinta coi tuoi

530 occhi e avevo le unghie curate. Tu portavi un vestito semplice, e piangesti un poco. Gli invitati non se ne accorsero ma io sì, poi- ché il mio posto era per così dire privilegiato; la mia posizione mi permetteva di vedere il tuo orecchio destro, il tuo bellissimo orecchio destro con le sue caratteristiche irregolarità dell’antielice, ciò che ti distingueva per tenacia, voglia di emergere, egocentri- smo. Non ricordo di preciso cosa ci condusse nello studio di un tu- tore coniugale, ma qualunque cosa fosse aveva certamente a che fare con l’estensione del tuo collo: indica insicurezza e desiderio di essere ascoltati da qualcuno. Fu lui, il nostro tutore dalla cravatta gialla e dal sapore di ta- bacco da pipa, a farci valutare l’idea di diventare genitori. Così, all’improvviso, dopo nemmeno novecentocinquanta giorni di ma- trimonio.

È vero, qualche tempo dopo ti dissi che desideravo ardente- mente non essere padre, ma aggiunsi anche che avrei potuto di- ventare uno zio fantastico, se solo me ne avessi dato il tempo. Fu lo stesso giorno in cui ti confidai che la tua lingua stretta sprigio- nava energia yang, mentre la mia lingua larga emanava energia yin: temo di aver confuso lato della collina.

Ma guardalo, non è meraviglioso nostro nipote? Sembra no- stro, ma non è nostro. Ha il privilegio di non esserlo. Le sue grandi orecchie indicano coraggio. E sto parlando di un bambino di tre anni. Farà grandi cose, il nostro nipotino dalle grandi orecchie e dalle sopracciglia caratteristicamente distanziate. Vedi come sono diritte? Indicano forte realismo. Il mondo ha bisogno di realisti, non di scribacchini.

Il secondo ritaglio di giornale cui sono più affezionato descrive la vicenda di quattro studenti incarcerati perché sorpresi a far lin- guacce (vedi fotografia) alle spalle del Gerarca, durante il comizio d’insediamento. La loro lingua, rossa e sana, mi è sempre sembra- ta la cosa più semplice e bella che il nostro mondo avesse prodot- to negli ultimi mille anni.

531 I due maschi, leggo nell’articolo, se la videro mozzata. Occhio per occhio, lingua per lingua. Viceversa gli aguzzini si convinsero che per i propri scopi pe- dagogici le lingue delle femmine sarebbero state molto più utili attaccate al loro posto, e lì le lasciarono. Tra l’altro quel ritaglio mi fa venire in mente quando andam- mo al cinema (che film davano? Non ricordo) e tu vomitasti la cena in grembo a una donna incinta. Dovetti spiegarti la ragione per cui gli aguzzini preferirono non mozzare le lingue delle stu- dentesse. Sei sempre stata così maledettamente ingenua e pura. Perlomeno fino al giorno in cui decidesti di modificare il tuo na- so.

L’albo numero uno di Tex (La mano rossa, ott. 1958, coperti- na di Galeppini), che tu mi consigliasti di vendere per racimolare i soldi necessari all’acquisto di un completo grigio con cravatta az- zurra, presenta trascurabili fioriture e un piccolo segno di tarlo limitato al margine esterno del titolo, ciononostante è prezioso quanto una guerra nel golfo, o uno tsunami nel mar del Giappo- ne. E poi non ho mai avuto la reale necessità di un completo gri- gio, tantomeno se accostato con una cravatta azzurra. La mia vecchia giacca ha le toppe e mi piace moltissimo, anche se ti è sempre piaciuto trovare qualcosa per cui biasimarmi.

Ricordo quando biasimasti la scelta di iscrivermi a un Corso di Esegesi Nasale (Radice, Setto e Dorso), giacché non riuscivi a comprenderne l’utilità. Eravamo in una stanza bianca al terzo piano di una clinica di lusso pagata con soldi provenienti dal con- to dei tuoi genitori, e ti lamentasti del fatto che i tuoi seni, quei seni delicati che amavo tanto, fossero sottodimensionati rispetto alle misure standard contemporanee. E quando ti domandai sor- preso se per i seni esistessero misure standard contemporanee tu ti rabbuiasti e mi cacciasti dalla stanza bianca, lasciandomi solo sui marciapiedi di una città che non conoscevo, una città distante e forestiera. E sebbene sapessi che un mento quadrato e volitivo indica astuzia, intelligenza, aggressività, vitalità, autorità, decisione, con-

532 tinuai a vagare per le strade di quella città enorme, frutto del lavo- ro di uomini senza dubbio enormi, rimuginando sull’impossibilità di sostituire il mio mediocre mento curvo, o quantomeno sull’impossibilità economica di farlo. Poi decisi di bere un caffè e mangiarmi le unghie, ma me ne pentii subito. Fu quello il momento in cui ti telefonai, chiedendoti ancora conforto nella decisione di iscrivermi al Corso Nasale per scopri- re i segreti reconditi del naso umano, e tu riattaccasti scocciata.

Eppure, lo sapevi che il dorso nasale è lo specchio della perso- nalità? Esso viene così suddiviso:

terzo prossimale = conscio terzo mediale = subconscio terzo distale = tubo digerente, senso del piacere alette nasali = vie respiratorie

Il tuo desiderio di migliorarti il naso è encomiabile, dissi. Ma la nuova struttura del tuo naso, il tuo nuovo setto nasale rettilineo con columella simmetrica che non riconosco più, ha sensibilmen- te modificato la tua personalità, disponendola all’insoddisfazione: non è mai stato da te lamentarti per la cena. E il filetto alla Stro- goff mi era sembrato squisito, cotto al punto giusto. Sono certo che con il tuo vecchio naso non te ne saresti mai lamentata.

Provai a convincerti anche se ormai era tardi, e subito dopo iniziai a studiare la relazione tra naso e religione, dotandomi tra l’altro di un utilissimo rinoigrometro. Trascorsi quattro mesi in un monastero, tra persone ospitali dotate di nasi disorganici e affette da rinorrea. Ma cucinavano meravigliosamente, soprattutto sel- vaggina di sottobanco rimediata da cacciatori occasionali che do- navano lepri e fagiani per alleggerirsi la coscienza.

Vedi il mio sopracciglio sinistro? Indica che sono un carnivo- ro.

533 Al monastero imparai tra l’altro che i rimedi omeopatici più indicati da consigliare a soggetti con naso arrossato sono: Bryonia, Carbo animalis/vegetabilis, Natrium muriaticum, Jo- dum, Chelidonium, Lycopodium. Inoltre mi convinsi che non esiste una relazione certa tra naso e vocazione religiosa.

Solo soletto nella stanza asettica di un centro ricerche mediche con una lampada comperata il giorno del nostro secondo anni- versario mi guardo allo specchio cercando di comprendere meglio il significato del mio volto. Vedi? La distanza tra le mie sopracciglia mi impedisce d’occuparmi di guerre e di bambini africani moribondi, tuttavia mi permette di scrivere un periodo piuttosto lungo, rotondo, il cui scopo è precisamente quello che dovrebbe proporsi un perio- do piuttosto lungo e rotondo quando a scriverlo è un uomo la cui unica brama è alleviare la propria incurabile malattia: chiedere aiu- to a qualcuno.

534 IL NARRATORE ONNISCIENTE MOLTO GIÙ DI CORDA

Martedì. Sono stato a casa sua e il suo domestico mi ha aperto la porta prima che potessi suonare il campanello. Lui mi ha accolto con il suo caratteristico drink in mano, la si- garetta accesa e in sottofondo una qualche sinfonia di Beethoven. La sua abitazione è sontuosa: divani settecenteschi e dipinti a olio, candelabri d’argento e arazzi raffiguranti pale d’altare o uo- mini colti nell’atto del combattimento. Un’ala è dedicata alla contemporaneità, con una copia originale di Nighthawks di Hopper sulla parete a Nord, circondata da figu- re minori dell’Iliade e dell’Odissea. Eppure il Narratore Onnisciente è dannatamente giù di corda.

Mi ci vorrebbe qualcosa, ha detto, qualcosa di non so che. “Qualcosa ?” “Sì, qualcosa ”. Scrutava l’interno del suo bicchiere agitando l’intruglio rossiccio che risiedeva all’interno. La sua situazione è semplice e terribile. Egli sa tutto ciò che accade e che accadrà, conosce nei dettagli i pensieri dei suoi interlocutori, sa come agiranno e perché, sa che ogni abitante della sua città è in attesa che succeda qualcosa. Ma lui ha lo sguardo stanco. Forse si annoia. Ciononostante prova a mettere i suoi ospiti a proprio agio, con domande che qualsiasi uomo non onnisciente potrebbe fare. “Bene, Gim, che hai fatto di bello, qualcosa?”. “Niente di che”. “Tua figlia studia sempre francese?”. “Francese e tedesco. Ma io credo sia più portata per lo spa- gnolo”. 535 “Non credo che lo spagnolo faccia per lei”. “Sì, forse hai ragione. A proposito, cosa stai bevendo?”. “Che maleducato, è succo di pomodoro con vodka e peperon- cino, ne vuoi un bicchiere?”. Ecc.

Mercoledì. Sono nell’immensa cucina, dove mi servono la colazione. Il Narratore Onnisciente arriva con passo tranquillo, avvolto da una voluminosa vestaglia. Calza babbucce arabe. “Vorresti che succedesse qualcosa , vero?” Domanda. Sa sempre quello che ti frulla per il cervello, e questa a dire il vero è la cosa più fastidiosa di tutte. In qualche modo sa già come andrà a finire . Si siede sulla sua poltrona, attacca un qualche disco. Sa be- ne quale disco gradirei ascoltare. Se per caso il disco che suonerà non sarà di mio gradimento, allora saprò che lui l’avrà fatto apposta . Attacca il Requiem in Do minore del Cherubini, e per qualche motivo mi rendo conto che lo detesto. Lui lo sapeva. Forse non gli sono simpatico.

“Speravo che venendo qui potesse succedere qualcosa”, dico. Lui mi guarda un po’ di traverso, si versa un bicchierino. È spaventosamente giù di corda. Rimaniamo silenziosi ad ascoltare il Requiem in Do minore nel suo studio. So che non è per nulla felice. “Vuoi che accenda la radio?”, mi domanda. Non so cosa rispondere. Oggi è mercoledì e il mercoledì solitamente è un buon giorno. Ma non succede niente. Il Narratore Onnisciente si alza, cammina in direzione della radio, fa per accenderla, poi decide di no. “Non è facile tirare avanti quando tutti si aspettano da te una qualche svolta”, dice. “La gente vorrebbe svolte in continuazione, colpi di scena, come si dice, un coup de théatre”. Lo guardo con attenzione.

536 “Ma non è così semplice”, dice. “Spesso le cose vanno avanti così, strisciano semplicemente, si strascicano”. Decido di prendere in mano la situazione. “Forse potremmo … uscire di casa”, suggerisco. Lui mi guarda, poi chiama il suo domestico. “Prepara la macchina”, dice. “La Bentley bordeaux?” “No, oggi mi sento più da Limousine nera”. Durante il tragitto in automobile non dice niente. Si limita ad aprire un vano della Limousine. Si prepara un gin tonic. “Ne vuoi un sorso?”, domanda. “Forse dovresti contenerti”, consiglio. “Una volta non era necessario che smuovessi il culo dalla mia scrivania”, dice. “Bastava che me ne stessi seduto lì, nel mio stu- dio, e le cose succedevano ”. Non me la sento di dissentire.

Siamo in un supermercato. Il Narratore Onnisciente scruta i volti delle persone. Le perso- ne scrutano il volto del Narratore Onnisciente. Sono tutti appesi a un filo. Stanno tutti aspettando qualcosa . Lui si avvicina al comparto surgelati e mette una pizza nel car- rello. “Questa volta ti sei ricordato la tessera dei punti?”, domanda al suo domestico. Il domestico annuisce. “Bene”, dice il Narratore Onnisciente.

Alla cassa la cassiera lo guarda implorante. Il Narratore Onnisciente capisce la situazione al volo. “Cosa vorresti che ti succedesse?”, le domanda con tono sommesso. La cassiera saprebbe molto bene cosa rispondere. Tuttavia non apre bocca. Sorride professionalmente, fa il suo lavoro. Il Narratore Onnisciente la incalza: “Chi sei? Qual è la tua sto- ria? Cosa ti succederà quando uscirai da questo supermercato e camminerai per le strade di questa città?”.

537 La cassiera passa la pizza surgelata sul lettore. “Sono quattro e cinquanta”, dice. “Oddio, come mi sono ridotto”, mormora il Narratore Onni- sciente. “Domandare agli altri di fare il lavoro per me”. “Forse ci sono altri modi”, dico io. “Dopotutto un supermer- cato non mi pare così, come dire, stimolante”. Il Narratore Onnisciente ha un lampo di lucidità, quasi come se gli fosse affiorato un barlume d’idea. “Saliamo in auto”, dice. “Dove andiamo?”, domanda il domestico alla guida. “Svolta sempre a destra”, dice. La città è un po’ morta. “Siamo d’estate”, dice il Narratore Onnisciente. “Un normalis- simo mercoledì d’estate”. “In autunno succedono più cose?”, domando io. “Può darsi”, dice lui. “Continuo a svoltare a destra?”, domanda il domestico alla guida. “È che non so di preciso dove andare”, dice il Narratore On- nisciente. “È una situazione imbarazzante”. Ci fermiamo in un bar lungo la strada. “Questo è l’unico posto in cui mi vada ancora di bere qualco- sa”, dice il Narratore Onnisciente. Beviamo un drink senza dire niente. “E adesso?”, domanda il Narratore Onnisciente. “Beh”, suggerisco io, “per esempio potremmo andare alla cen- trale di polizia. C’è sempre qualcosa da far succedere in una cen- trale di polizia”. “Torniamo a casa”, dice lui. “La centrale di polizia mi fa venire in mente quel povero ragazzo”. “Quale ragazzo”, chiedo io. Lui non risponde. Sta pensando ad altro.

Giovedì. Sul suo scrittoio, in evidenza, c’è un biglietto aereo per le Ha- waii poggiato sopra un libro di Conrad.

538 Il Narratore Onnisciente sembra tentennare, quasi come se fosse ignaro di qualcosa. Afferra una statuina e la scaraventa con forza contro il bovindo. Sono intimorito. Che sia io la causa della sua agitazione? Anche il giovedì solitamente è un buon giorno per far succe- dere qualcosa. Eppure quel qualcosa ci sfugge. Suona il telefono. Il Narratore Onnisciente risponde. Per un momento sono convinto che qualcosa sia successo: un omicidio, un suicidio, qualcosa . Un tempo ogni volta che squillava il telefono c’era sempre un buon motivo. Invece si tratta solo di un sondaggio. Il Narratore Onnisciente ne era a conoscenza, e infatti risponde asetticamente. Ha perso l’entusiasmo.

“Bisogna sempre trovare un modo per fare avanzare la storia”, dice. Tutte le storie. Ingoia un’aspirina. “Mica facile. Non riesco a concentrarmi, è una situazione sgrade- vole. E là fuori le persone tirano avanti facendo semplicemente cose da persone. Bevono, mangiano, lavorano, fanno l’amore. Vorrebbero fare di più, lo capisco. Ma io credo di aver perso il tocco”. Non l’avevo mai visto così giù di corda.

Venerdì. Lo incontro nel suo studio. “Nel complesso”, dice, “la giornata di ieri è stata un vero fia- sco”. Non so dargli torto. “C’è qualche speranza che oggi sia migliore?”, domando. “Ne dubito”, risponde lui. È irrequieto. Armeggia con vecchi ritagli di giornale, osserva i souvenir sul suo scrittoio. “Quel tipo che sognava di entrare in Polizia, ce l’ha poi fatta?”, domando.

539 “Bastava poco, ci era arrivato davvero vicino; si era anche provato il cappello, l’uniforme gli calzava a pennello. Ma no, non ce l’ha fatta”, dice lui. Ha un espressione malinconica. “Vedi, questo è il tuo problema”, dico io. “Non aveva i requisiti, ho fatto tutto ciò che era in mio pote- re”, dice lui. “Avresti potuto fare di più”, dico io. “Forse avrei potuto”, dice lui, “ma non sarebbe stato realisti- co”. Il Narratore Onnisciente si prepara il tradizionale succo di pomodoro con vodka e peperoncino. “Ho preso una decisione”, dice sommessamente. Non lo incontro più per il resto del giorno.

Sabato. Scendo in cucina e faccio colazione. Cerco il Narratore Onni- sciente ma lui non c’è. Che sia partito per le Hawaii? Forse è la cosa migliore per en- trambi. Ma se lo merita davvero? Leggo il biglietto che ha lasciato sul suo scrittoio: “Osservo i cittadini in televisione, dal bovindo del mio studio, li ascolto alla radio. Avrei voluto dare una vita migliore a queste persone. La commessa del supermercato voleva lottare per ottenere un mondo in cui gli animali non vengono barbaramente trucidati per farne pellicce, desiderava un posto di lavoro stabile e appagante, pregava ogni sera per avere un figlio. Per quale ragione non le ho dato quello che sognava? Che cosa mi sarebbe costato? Lo so, non sarebbe stato credibile, ma che cosa mi sarebbe costato ? Perché non le ho lasciato almeno un accenno di illusione che tutto ciò fosse possibile? Il mio ego mi opprime, e opprime queste brave persone. Il male non trionfa sempre, o non trionfa sempre del tutto. Avrei voluto dimostrare che dopotutto la vita è davvero mera- vigliosa.

540 Invece tutto ciò che sono riuscito a pensare per loro è un mondo distorto nel quale vivere. Verosimilmente sono io a non funzionare. È la mia esistenza a essere distorta. La gente vuole credere di poter contare sulla possibilità che il mondo possa subire una perturbazione benevola, di tanto in tan- to. Magari impercettibile, ma vera . Questa gente pretende uno scompiglio nell’impossibilità delle cose, uno sconquasso che le renda possibili. Io non sono stato in grado di donarglielo. Ma posso ancora fare qualcosa. Ci deve essere qualcosa che possa fare, instillare una speranza, illuminare un pertugio, inscri- vere qualcosa di indelebile sulle pietre dei loro cuori. Sì. Qualcosa posso fare. Il groviglio delle loro vite è inestricabile, ma qualcuno che provi a sbrogliarlo c’è sempre, da qualche parte. Qualcuno che riesca a trovare una speranza laddove la speran- za non esiste, qualcuno che superi il controllo della propria im- mutabile esistenza e si ribelli a ciò che era stato predisposto per lui. Qualcuno c’è, ci deve essere. Potrei provare a domandare ai mie follower di Twitter, agli amici di Facebook. Magari loro…”.

Ora so che è partito. Lui ci ha lasciati . E io, cosa ci faccio ancora qui? Sono io il narratore, adesso ? La mia vita striscia semplicemente. Faccio l’amore come tutti, fumo una sigaretta come tutti, sorrido come tutti; ci vorrebbero delle svolte ma le svolte non ci sono; servirebbe qualcuno che fa- cesse accadere qualcosa di bello, qualcuno che conoscesse le no- stre emozioni e i nostri sentimenti, qualcuno che scrivesse le sto- rie di noi tutti. Cionondimeno la gente sfugge, i narratori si infiacchiscono e si annoiano, giacché scrivere storie è tremendamente difficile, e scriverne gli happy end ancora di più.

541 INDICE DELLE GIORNATE DEL CALENDARIO RICREATIVO PROMOZIONALE CITATE NEL LIBRO

9 Giugno: Giornata della Vocazione al Precipizio Nike Sappiamo quanto i cittadini abbiano a cuore l’incoativo chinare, di cosa che abbia in animo il proprio crollo, e l’abbia caro, e a quello intimamente inchini e punti. In tal senso, il suicidio ® per precipitazione è una delle modalità d’espletazione di clausola 99 più amate dai suicidandi ® sabbionassi. Durante la Giornata della Vocazione al Precipizio Nike tutti i suicidandi ® sono invitati/tenuti ad espletare la propria clausola 99 tramite precipitazione, rigorosamente indossando scarpe Nike – il Censimento Suicidi ha verificato che nel novantadue percento dei casi i suicidandi per precipitazione hanno l’abitudine di togliersi le scarpe prima di precipitare. Ciò è profondamente ingiusto nei riguardi del mercato delle calzature ed è veramente pericoloso: si sono registrati infatti numerosi casi di infortunio (tumefazioni, escoriazioni, slogature) che hanno inficiato l’espletazione della clausola 99, in seguito a scivolate – dovute allo scarso attrito del piede nudo su parapetti, ringhiere, coppi, ecc.; in particolare si renderanno conto, negli attimi precedenti alla dipartita, della presa delle nuove suole Air Zoom sul nudo terreno, sui coppi dei tetti, sulle misere balaustrate, eccetera. Tutti i cittadini che non debbono contrarre suicidio sono invitati a collaudare l’esperienza della precipitazione indossando scarpe Nike nei dodici luoghi preposti al test di precipitazione: si tratta di otto palazzi, due ponti, un traliccio elettrico e una torre romanica, nei quali ci si potrà lanciare nel vuoto atterrando su comodi materassi gonfiabili. Per molti anni la denominazione fu Giornata della Vocazione al Precipizio Otis , almeno fino a quando la nota industria di ascensori decise di sponsorizzare la Giornata dell’Amore Intellettuale di Dio, che cade il 21 giugno.

23 luglio: Giornata dell’Atletismo Assoluto Palloncino Saziante Dimagenina ®

12 giugno: Giornata della Paternità-Garantita-Al-Novantaquattro-Percento Spermamax™

12 agosto: Giornata della Geometria Sessuale Procreativa BoingBoing Gadgets

7 luglio: Giornata dell’Amicizia Quadratica Bridgestone

11 settembre: Giornata degli Interrogativi Sibillini Senza Risposta Apparente Toblerone Kraft

12 settembre: Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil

18 luglio: Giornata della Conversione delle Unità di Misura Texas Instruments

542 2 giugno: Giornata del Cionondimeno Isola del Pneumatico

7 giugno: Giornata della Ginnastica Correttiva Ikea Durante le celebrazioni per la Giornata della Ginnastica Correttiva Ikea (7 giugno) i cittadini sono invitati/tenuti a dedicare tre ore della propria giornata all’attività fisica (già peraltro abbondantemente prevista dalla Legge Gerarcale sull’Attività Fisica, che impone un’ora di ginnastica ogni week-end) e agli esercizi ginnici all’aria aperta. Essa è correttiva non solo nel senso di posturale, ma soprattutto se la intendiamo in senso morale. Mens sana in corpore sano non è soltanto una frasetta buttata lì per caso. O pensavate che i latini buttassero le frasette lì per caso? La ginnastica è fondamentale per raggiungere una matura consapevolezza del proprio Da Sein , inoltre studi di rilevanza internazionale hanno confermato che l’esercizio ginnico è un ottimo correttore dell’immoralità nonché un formatore della coscienza. Per l’occasione, Ikea mette a disposizione dei cittadini alcuni prodotti pensati specifica- mente per l’esercizio atletico, in primis i rivoluzionari quadri svedesi per cui l’azienda è divenuta giustamente famosa.

21 giugno : Giornata degli istinti Un Po’ Bestiali Sperauova Maino R009010CC . Stralcio dal bugiardino ufficiale: “Come prima cosa, i cittadini compiano un’attenta analisi ermeneutica dell’espressione “ Un Po' ". Un po’ significa ‘ abbastanza ’, ‘ non del tutto ’, ‘leggermen- te’ , ‘ appena appena ’; se intendevate quindi dar sfogo a ogni sorta di turpitudine questa non è la giornata giusta”. [...] “Riuscite a pensare qualcosa di meglio che sperimentare il piacere animale della nascita, dell’incubazione, della covatura, scevro di ogni implicazione psicologica, psicotica, archetipica, culturale? Auscultare il battito bruto di una nuova creatura nelle profondità amniotiche del suo guscio insieme a vostra moglie/marito, alla vostra compagna/compagno, alla donna o all’uomo della vostra vita, si rivelerà un’esperienza istintuale e indimenticabile; per riuscire a farlo in ogni stand Maino sarà a vostra disposizione il nuovo sperauova R009010CC”. [...] “Sperauova Maino R009010CC, indispensabile e di primaria importanza per una corretta vigilanza dello sviluppo dell’embrione lungo tutto il ciclo d’incubazione! Ideale inoltre per osservare con attenzio- ne vene d’embrioni e anche per tutte le uova degli uccelli esotici! Le uova degli uccelli esotici sono messe a disposizione da Pet Story il vostro negozio di animali esotici (specializzato in ragni, serpenti, uccelli).

Per una corretta celebrazione della giornata troverete il bugiardino completo in edicola, all’interno del Calendario Ricreativo Promozionale, o su internet, all’indirizzo del Ministe- ro Suicidi & Festività ®.

27 novembre: Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali Scottex ® (Solo Maschile™)

7 Gennaio: Giornata della Sodomia Senza Peccato Lubricoll Una commissione qualificata, dopo aver analizzato la struttura etico-teologica della sodomia, ha redatto uno studio in centocinquanta pagine nel quale si risolve l’eterno dilemma del peccato di sodomia; oggi è possibile una sodomia senza peccato, nella quale 543 l’unione carnale tra maschi celebra al contempo l’unione con l’Altissimo. Si invita/si obbliga la popolazione omosessuale a sperimentare il privilegio della sodomia senza peccato e si invita la popolazione eterosessuale a collaudare una pratica sessuale spesso disprezzata o, quantomeno, sottovalutata. Durante la giornata saranno a disposizione dei cittadini numerosi presidi Lubricoll, nei quali sarà distribuito un campione omaggio degli ultimi ritrovati Lubricoll nel campo dei lubrificanti intimi a base acquosa, oleosa o siliconica. In particolare gli specialisti della Lubricoll Inc. consigliano di testare il nuovis- simo Key Gel Tipo G , il quale, applicato sul glande e/o sull’ano, elimina completamente la sensazione di dolore causata dalla frizione – tra l’altro tale lubrificante può risultare utile anche nella Giornata della Masturbazione Ossessiva Maxim, fissata per il 27 novembre. Di lati positivi, nella Sodomia Senza Peccato, ce n’è a bizzeffe, e i cittadini non fatiche- ranno certo a scovarli di propria iniziativa.

29 giugno: Giornata delle Esperienze Superflue IPhone 4 G

8 aprile: Giornata Wow Experience Oral-B OxyJet 3000™ Durante questa meravigliosa giornata, i cittadini sono invitati/tenuti a provare un’autentica esperienza da restare a bocca aperta.

2 luglio: Giornata dell’Autoerotismo Femminile di Massa Lady Chatterley s.p.a. (Solo Femminile™)

3 luglio: Giornata della Mortificazione Individuale & Collettiva promossa dal Convento dei Carmelitani Scalzi.

4 luglio: Giornata dell’Emancipazione dall’Imperialismo Americano Abercrombie & Fitch. Durante questa giornata sarete invitati/tenuti a saggiare la libertà. Sarete liberi di non mangiare hamburger, pretzel, schifose fette di toast imburrate. Sarete liberi di non guardare film prodotti a Hollywood. Potrete prendere a calci, deturpare con vernice spray e incendiare le numerose riproduzioni della Statua della Libertà e del Campidoglio (che per l’occasione saranno esposte al pubblico ludibrio nelle principali piazze di Sabbione). Potrete schiaffeggiare e violentare le modelle volontarie raffiguranti Betsy Ross (sono dei bei mammiferi, tutte fotomodelle offerte dall’Agenzia Elite Model Angels); non sottovalu- tate la gioia inebriante insita nella violenza sua una patriota americana. Sarete liberi di non acquistare armi automatiche, liberi di non testimoniare liberamente la vostra religione, liberi di inneggiare a Sacco e Vanzetti, liberi di non dover fingere di scandalizzarvi per un cunnilinguus, liberi di prendere a calci gli ebrei invece di doverli accogliere a casa vostra. Insomma, sarete liberi, liberi, liberi! Ma mentre lo sarete – liberi – dovrete indossare t- shirt Abercrombie & Fitch, scarpe Abercrombie & Fitch, pantaloni Abercrombie & Fitch, calze Abercrombie & Fitch, cappelli Abercrombie & Fitch, mutande Abercrombie & Fitch, pullover Abercrombie & Fitch. Sarete liberi di scatarrare sulla bandiera a stelle e strisce indossando una bandana Aber- crombie & Fitch!

5 luglio: Giornata dello Svantaggio Esistenziale Ex Disabilità Glen Grant

544 6 luglio: Giornata dell’Etica Dimostrata Con Metodo Topografico Mediaworld

8 luglio: Giornata dell’Equilibrio Emozionale Stabile Power Balance. Intuitivamente un punto di equilibrio stabile è un punto che non risente delle piccole perturbazioni. Il Nirvana buddista, ad esempio, mira a rinchiudere l’essenza spirituale umana, l’esprit de finesse, in una corazza atarassica, capace di ovviare interamente alle petit pertubations provenienti dall’esterno; se ci si sposta poco da un punto stabile il sistema continuerà a rimanere anche in futuro nelle vicinanze di quel punto. L’esempio più semplice è quello di un uomo in meditazione. Se piccole perturbazioni intervengono a spostare il suo punto focale d’equilibrio, la sua essenza spirituale potrà subire oscillazioni ma la sua distanza dal punto d’equilibrio non cambia. Viceversa un punto di equilibrio instabile è tale per cui basta una perturbazione arbitrariamente piccola dall’equilibrio per far allontanare significativamente il sistema dalla posizione iniziale. Un esempio è un uomo gettato nel mondo, come una pallina disposta sulla cima di una collina

Dove x è l’uomo. In questa Giornata i cittadini saranno chiamati a meditare complessivamente otto ore indossando il fantastico bracciale Power Balance.

20 agosto: Giornata dell’Affermazione della Virilità Red Bull

16 dicembre: Giornata dell’Immedesimazione Bovina Bricocenter

13 ottobre: Giornata della Falloforia Fecondativa Art Attack Ogni nucleo famigliare è invitato/tenuto, previa costruzione di un Enorme Fallo Priape- sco – cioè non a riposo – (si consiglia di iniziare i preparativi almeno due settimane prima), a trasportare in processione (al modo degli antichi riti funebri iscariotici e della passeggia- ta settimanale del Gerarca) il proprio lavoro lungo un tragitto che deve necessariamente snodarsi per non meno di cinque virgola sette chilometri. Istruzioni per la costruzione dell’Enorme Fallo Priapesco: il pene o fallo deve essere alto almeno cinque virgola trentasette metri, oppure diciassette virgola sessantuno piedi, composto in ebano d’Indonesia o altro legno similare con venature avorio o altro materiale similare ma non meno pregiato che lo rendano più realistico. Deve pesare come minino trecentoventicin- que chilogrammi, o settecentosedici virgola cinque libbre. Il glande deve essere dipinto di uno scarlatto o vermiglione (in alcuni casi può essere accettato il color melograno), il prepuzio appena accennato (niente esagerazioni), l’uretra lavorata a mano con dovizie di particolari (scientificamente e quindi anatomicamente dimostrabili). All’interno, il meccanismo eiaculatorio deve risultare perfettamente funzionante e perciò altamente elaborato; un tubicino ha da ridiscendere il pene per terminare alla base della portantina, dove l’Addetto Spruzzatore del nucleo famigliare azionerà la pompetta che distribuisce il vino-miele lungo il tubicino e più su all’annaffiatore (posto sull’uretra), irrorando persone e cose quando sarà il momento.

545 12 luglio: Giornata delle Canzoni di Justin Timberlake Sparate-a-Palla Fisherman’s Friends

14 gennaio: Giornata dell’Idiosincrasia Invernale Pantone

18 settembre: Giornata del Nudismo Integrale Artistico Volkswagen

15 marzo: Giornata del Taglio-a-qualcosa-purché-qualcosa-venga-tagliato Viper

30 luglio: Giornata delle Droghe Sintetiche Iniettabili Pic.

10 febbraio: Giornata del Sorriso Professionale Positive Adult Development Inc .

21 marzo: Giornata della Depressione Post-Partum Mulino Bianco

22 marzo: Giornata dei Discorsi Radiofonici Nazifascisti DeAgostini

23 marzo: Giornata dei Libri Erotici da Collezione Chiquita

24 marzo: Giornata del Falò di Primavera sulle Sponde del Fiume Proloco di Castrocozzo

25 marzo: Giornata della Sigaretta Irrinunciabile Gitanes Caporal Tutti i cittadini sono invitati/tenuti a sperimentare l’esperienza di fumare una sigaretta dopo i pasti, dopo il caffè, dopo uno scotch, eccetera (le istruzioni precise saranno pubblicate sul Bollettino Ufficiale del Ministero Suicidi & Festività ®). I non fumatori sono altresì invitati/tenuti a trovare i lati positivi del caso, uno dei quali potrebbe essere per esempio il non doversi preoccupare per l’alito pesante, incolpando il fumo dei vostri inguaribili problemi di alitosi.

26 marzo: Giornata dell’Alimentazione Ipercalorica Burger King

27 marzo: Giornata dell’Autodisgregazione dell’Ego Valtur Siete angosciati dal lavoro? Avete problemi di sesso? Siete soli come cani? Siete artisti incompresi, falliti, distrutti, ma nessun verificatore ha pronosticato un suicidio che avrebbe rimediato a tutto ciò? Buttatevi via alla discarica umana Valtur di Trittengo! I nostri esperti vi studieranno, i nostri mentalisti vi psicanalizzeranno, i nostri storici-sarti- sociologi vi abbiglieranno come ricchi depressi o come scrittori falliti, vi aggirerete tra false tombe e bar-gazebo in cui si consumano margarita e mojito ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Quando sarete entrati qui, vi sarete buttati via. Se lo desidere- rete, dimenticherete il vostro nome e la vostra storia grazie una lobo-memory del tutto indolore (attenzione! la lobo-memory non contribuisce all’oblio del disprezzo che provate intimamente nei confronti di voi stessi, ciò per cui giungerete sin qui, ma anzi lo amplifi- cherà e ve lo mostrerà in tutta la sua formidabile potenza* – *i suicidi abusivi sono tassativamente vietati da legge Gerarcale, lgs 1546 del 27 maggio 1933 –), sarete reperti da laboratorio ma ve la spasserete alla grande, soli in mezzo a un mucchio di altra gente, distrutti dalla solitudine e dall’angoscia eppure felici di non contribuire più alle falle della 546 nostra misera società pan-fagocitante. Avrete a vostra disposizione piscine e personal trainer, palestre e sale cinematografiche, onde artificiali per surf e piste da pattinaggio, eppure non saprete che farvene, poiché nella vostra situazione nulla vi interesserà più. È questo il bello! Vi offriremo corsi di autocoscienza, corsi di meditazione, corsi di appren- dimento delle facoltà mentali remote, corsi di training autogeno, corsi di sviluppo panpsichico, eccetera, ma volete sapere una cosa? Non serviranno assolutamente a nulla! Per chi non avesse intenzione di buttarsi via neppure per un giorno alla discarica umana Valtur si ricorda che durante la giornata ciascun cittadino è invitato/tenuto a consultare uno specialista dell’inconscio (vi saranno numerosi presìdi Valtur sul territorio) che vi condurrà per mano nell’autodisgregazione (provvisoria) dell’ego.

28 marzo: Giornata Ecatombea del Cane Randagio Beretta Anche voi siete stanchi di quei bastardelli pezzati che si aggirano per le strade della nostra città pisciando agli angoli tra i palazzi e sui copertoni delle vostre automobili? Durante questa giornata ogni cittadino è invitato/tenuto a sperimentare un’attività spesso marchia- ta come crudele, ma che al contrario si può rivelare molto utile. Ciascun cittadino avrà a disposizione un solo proiettile per randagio (dalle prime ore del mattino un nutrito gruppo di istruttori sarà a disposizione della cittadinanza all’interno di poligoni di tiro mobili). Avvertenza: i cani randagi azzoppati, accecati, mutilati o gravemente feriti saranno finiti da addetti Gerarcali a colpi di stiletto al costo di euro cinquanta per ogni pugnalata sferrata.

29 marzo: Giornata dell’Individuo Avulso dal Tessuto Sociale Apple Ogni cittadino è invitato/tenuto a provare l’esperienza di alienazione che vivono ogni giorno i barboni, gli zingari, i tossicomani, gli alcolisti, i vecchi, eccetera.

30 marzo: Giornata della Degenza Post-Operatoria Activia Ogni cittadino è invitato/tenuto a nutrirsi con mele cotte e a restare coricato almeno dieci ore al giorno (detta giornata cade in un giorno festivo).

31 marzo: Giornata degli Spiralanti Ecatodentati Periclitanti Zanichelli Per comprendere il significato di questa giornata saranno messi a disposizione dei cittadini innumerevoli punti d’informazione organizzati dal Centro Studi Manganelli. Insomma, cosa debbono fare, i cittadini, durante questa giornata? Intanto scoprirlo.

1° aprile: Giornata della Terapia Mininvasiva della Incontinenza Urinaria Femminile DryNites (Solo Femminile™)

2 aprile: Giornata del Turismo Spazzatura Con-Camicia-Hawaiana Magnesia Bisurata Aromatic

3 aprile: Giornata dei Programmi Televisivi In-Cui-Ci-Si-Insulta-Ininterrottamente Filtro Fiore Bonomelli . Ventiquattrore no stop di programmi televisivi (su tutti i canali) in cui i presentatori ingiuriano gli ospiti, gli ospiti si ingiuriano tra loro, eccetera. Spesso gli ospiti sono 547 costituiti da politici. Per celebrare questa giornata degnamente, il cittadino deve trascorre- re almeno quattro ore davanti alla tv (accesa). Uno dei numerosi lati positivi è che potrà gustare una buona Camomilla Bonomelli durante la visione.

4 aprile: Giornata della Castrazione Chimica Farlutal (Solo Maschile™). I cittadini sono invitati/tenuti a sperimentare l’esperienza di una vera castrazione chimica ottenuta per mezzo di un farmaco grazie al quale gli effetti della castrazione non supere- ranno le ventidue ore (salvo casi particolari). Mettetevi comodi, iniettatevi il siero (lo troverete nei milleduecento banchetti dispiegati sul territorio), attendete qualche minuto e saprete cosa si prova a risultare completamente impotenti. e a gustarsi i lati positivi di una giornata in cui non saranno costretti a dimostrare la propria mascolinità a ogni passante femmina. Non avranno alcuna possibilità di fornicare, e ciò permetterà di concentrarsi maggiormente sugli aspetti interiori delle nostre femmine.

23 settembre: Giornata della Morte Apparente Plasmon Se qualcuno di voi non è ancora pronto al Grande Salto, all’Agognata Fine, al Suicidio ®, questa giornata fa al caso vostro. Tutti i cittadini sono invitati/tenuti a presentarsi ai laboratori della Plasmon per saggiare la bontà di un prodotto che entrerà in commercio tra qualche anno. Il scheintod trabuzolo si presenta come un liofilizzato al gusto di coniglio, tacchino, pollo e agnello, ma in realtà è molto di più: dopo essersi goduto il pasto il cittadino sarà catapultato nella più realistica esperienza di morte apparente che mente umana potrebbe immaginare. Com’è la morte? Cosa c’è dopo? Queste domande potreb- bero avere una risposta in questa circostanza. A ognuno la propria morte apparente.

6 aprile: Giornata della Discriminazione Razziale Gamo Airguns Tutti i cittadini sono uguali? Balle. Non avrete per caso creduto a questa favoletta televisiva, vero? I cittadini sono dissimili, disuguali, molteplici, diversificati, insopportabili gli uni per gli altri, odianti etnie diverse dalla propria, disprezzanti cittadini di paesi diversi dal proprio, abominanti categorie professionali distinte dalle proprie. Durante la giornata della Discriminazione Razziale si invita ogni cittadino a manifestare liberamente il proprio odio, la propria xenofobia, utilizzando i dispositivi generosamente offerti da Gamo Airguns, leader nel mercato delle armi ad aria compressa. Tutte le armi in dotazione durante la giornata, reperibili agli stand Gamo, saranno caricate con proiettili di gomma dura “BB ”, in grado di procurare lesioni anche gravi. Gamo consiglia di provare una pistola ad aria compressa sparante proiettili “ BB ” a ripetizione con motore elettrico. Finalmente avrete una buona occasione per incontrare di persona il vostro vicino di casa! Occorre davvero che qualcuno vi elenchi i lati positivi di una simile giornata?

7 aprile: Giornata delle Ricette Culinarie per Misantropi Bimby

27 giugno: Giornata della Critica Marxista dell’Esistenza Gorilka Assaggiate la Vodka Gorilka ascoltando le audiocassette (o scaricando il file da I-tunes direttamente sui vostri dispositivi apple) incise da una voce sensuale femminile con la Lista Governativa delle Più Comuni Sopravvalutazioni. Scoprirete che alla fine, vivere, perlomeno in questa società, può rivelarsi un fatto del tutto trascurabile. 548

11 aprile: Giornata dell’Adulterio Ragionato Studio Legale Dieter Stropper & Associati Ogni cittadino/a sabbionasso/a coniugato/a o fidanzato/a è invitato/tenuto ad abban- donarsi ai piaceri dell’infedeltà, della tresca, della scappatella. L’adulterio dev’essere ponderato, guardingo, non evidente, in maniera che il partner possa soltanto supporlo, giammai averne la certezza. In giornate simili nessun controllo verrà svolto. Per tutti coloro cui la Giornata dell’Adulterio Ragionato evidenzierà una insanabile rottura col proprio coniuge lo Studio Legale Dieter Stropper & Associati propone una consulenza scontata del 25 %.

13 aprile: Giornata del Sonno Imetec

14 aprile: Giornata della Memoria Lines Petalo Blu Lungo Con Ali

15 aprile: Giornata degli Scrittori Falliti Mentadent Tutti i cittadini sabbionassi debbono presentare un proprio scritto (min. 8 cartelle / max. 120 cartelle) e attendere pazientemente cinque ore in una sala semiriscaldata, in solitudine, con la dotazione di una fetta di Sacher Torte e di un bicchiere di Asti Spumante, che esso venga rifiutato, bocciato, denigrato. In alcuni casi – nella maggior parte dei casi – il cittadino potrebbe non ricevere alcuna risposta. Uno spazzolino usa e getta e un tubetto di Mentadent permetteranno agli scrittori falliti di lavarsi i denti nel bagnetto attiguo.

17 aprile: Giornata del Test Sierologico per la Leishmaniosi Hoffmann-La Roche

18 aprile: Giornata delle Argomentazioni Esistenziali Ballantines

19 aprile: Giornata delle Sensazioni Vagamente Discenditive Nespresso Ristretto Origin India

20 aprile: Giornata dei Luoghi Comuni sugli Handicappati Sega Cittadini, preparatevi a sostenere i vostri migliori luoghi comuni sugli handicappati: non possono fare sesso, hanno una vita grigia e piena di dolore, odiano profondamente le persone normali.

21 aprile: Giornata del Dissanguamento Allegorico (Ma Neppure Tanto) KPMG

22 aprile: Giornata dell’Antisuccesso Sistematico Rasoio Braun Serie 7

23 aprile: Giornata delle Pratiche Sessuali Proibite Tra Moglie e Marito

26 aprile: Giornata del Peccato Originale Rivisitato MBT Shoes Anti-Mal-Di-Schiena Ogni cittadino è invitato/tenuto a rivisitare allegoricamente il peccato originale dando libero sfogo alla propria immaginazione. In tal senso, i cittadini dovranno perseguire la momentanea divisione da dio mediante uno qualunque dei peccati capitali e/o mortali, sperimentando la sensazione originaria che dovettero provare Adamo ed Eva quando

549 furono cacciati dal paradiso terrestre. Durante la giornata i cittadini dovranno indossare scarpe MBT Shoes Anti-Mal-Di-Schiena, disponibili in tre modelli e cinque colori. Attenzione! A causa di possibili, spiacevoli, effetti collaterali, la MBT Shoes consiglia di non indossare le scarpe Anti-Mal-Di-Schiena per più di tre ore al giorno. Tra gli effetti collaterali riscontrati dopo un utilizzo superiore alle tre ore continuative: nausea, epistassi, mal di schiena.

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