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POLLACK & REDFORD Destini incrociati 15-29 maggio 2018 Sala Convegni, Palazzo della Gran Guardia

Film in lingua originale con sottotitoli in italiano Ingresso libero fino a esaurimento posti

Tel. 045 8005348 ilpiaceredegliocchi.comune.verona.it

CALENDARIO

Martedì 15 maggio ore 21.00 (Come eravamo, USA, 1973, 118’)

Sabato 19 maggio OUT OF AFRICA ore 16.30 (La mia Africa, USA, 1985, 161’)

Sabato 19 maggio JEREMIAH JOHNSON ore 21.00 (Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, USA, 1972, 108’)

Mercoledì 23 maggio HAVANA ore 16.30 (Id., USA 1990, 144’)

Mercoledì 23 maggio ore 21.00 (I tre giorni del Condor, USA, 1975, 117’)

Martedì 29 maggio THIS PROPERTY IS CONDEMNED ore 16.30 (Questa ragazza è di tutti, USA 1996, 110’)

Martedì 29 maggio ore 21.00 (Il cavaliere elettrico, USA 1979, 121’) Poco più di vent’anni fa, nell’ottobre 1997, atterrava con il pro- prio aereo all’aeroporto Catullo per partecipare alla seconda edizione di Schermi d’Amore. Il festival gli aveva dedicato la prima rassegna integrale europea e lui non solo aveva messo a disposizione tutte le copie personali dei film, comprese le prime regie televisive, ma aveva anche voluto venire a Verona di persona. La nostra città gli rapì il cuore con le sue bellezze artistiche, i suoi cibi e i suoi vini. Ripartì promettendo di tornare. Il destino, però, decise diversamente. Dieci anni fa Pollack fu sconfitto da una dura e lunga malattia, lasciando un vuoto difficil- mente colmabile nel mondo del cinema. Per questo e per ricordarlo nel decen- nale della scomparsa, il Verona Film Festival, organizza una retrospettiva dedica- ta alla sua lunga collaborazione - 25 anni, dal 1966 al 1990 - con uno degli attori simbolo della Nuova Hollywood dell’epoca, che fu, prima di tutto, suo grande amico: . Insieme, Sydney Pollack e Robert Redford, il primo come regista e il secondo come interprete, hanno girato sette film, lasciando un segno indimenticabile nella storia del cinema.

Francesca Briani Assessore alla cultura, turismo, politiche giovanili e pari opportunità Questa rassegna è dedicata a Franco La Polla

Il rapporto professionale e personale tra Sydney Pollack e Robert Redford ha ra- dici lontane. Risale all’inizio degli anni Sessanta, quando Pollack (classe 1934, figlio di ebrei immigrati in Indiana dall’Ucraina) e Redford (di due anni più gio- vane, nato in California da una famiglia di origini irlandesi) si trovarono fianco a fianco nel cast di Caccia di guerra (War Hunt, 1962) di Denis Sanders, incentrato sul conflitto bellico in Corea. Redford vi interpretava il soldato semplice Loomis, mentre Pollack era il sergente Van Horn, chiamato a guidare una difficile missio- ne. I due, non ancora trentenni, erano già sposati con figli e professionalmen- te venivano dalla televisione. Durante le pause tra le riprese, nacque un’amici- zia destinata a durare 45 anni, sino alla morte di Pollack (avvenuta nel maggio 2008). Un legame che consentì loro di fondare quello che sarebbe diventato il più importante festival cinematografico americano (il Sundance, dedicato alle produzioni indipendenti di tutto il mondo) e, soprattutto, di realizzare assieme, l’uno come regista e l’altro come protagonista, i sette magnifici film che propo- niamo in questa rassegna. Iniziarono nel 1966 con Questa ragazza è di tutti, dove vennero scritturati su esplicita richiesta della star Natalie Wood. Fu un successo tale da spianare la car- riera a entrambi. Si riunirono nel 1972 per girare uno dei più bei titoli dell’epo- ca in cui il veniva rivisitato e, qualche volta, rovesciato nel suo assunto epico di fondo. Inno al rapporto tra uomo e natura selvaggia, Corvo Rosso non avrai il mio scalpo rifletteva anche la scelta esistenziale che Redford (trasferitosi a Sundance, nello , al culmine della fama hollywoodiana) aveva fatto nella vita privata. L’anno dopo fu la volta di Come eravamo, un melodramma che riuscì sia a raccontare una grande storia d’amore, sia a restituire l’impatto di un’epoca di grandi speranze e dolorosi tradimenti. Passarono due anni e nel 1975 torna- rono a fare squadra per I tre giorni del Condor, uno dei migliori thriller dal taglio paranoico-complottistico, un genere che negli anni Settanta, dopo l’assassinio dei fratelli Kennedy e lo scandalo Watergate, trovò ampio spazio nella cultura popolare statunitense. Con il successivo Il cavaliere elettrico (1979) ripresero in chiave moderna il tema ecologico della necessità del rispetto dell’ambiente. Nel 1985 proseguirono il cammino con La mia Africa (il maggior successo commer- ciale di Pollack) e chiusero la loro collaborazione nel 1990, l’anno del primo Sun- dance Film Festival, con il crepuscolare Havana. Insieme avevano scritto la storia del cinema americano per un quarto di secolo. Paolo Romano, Giancarlo Beltrame Martedì THE WAY WE WERE (Come eravamo, USA, 1973, 118’) 15 maggio Regia: Sidney Pollack; sceneggiatura: , ; fotografia: Harry ore 21.00 Stradling jr.; musica: ; interpreti: Robert Redford, , Bradford Dilman,

Che cos’è un addio? Ci sono molti modi per lasciarsi. An- sintonia, la regia si accorda, si issa al loro livello e tocca che dopo un incontro, un bacio appassionato, una notte il sublime. Il racconto attraversa venti anni nella vita dei a letto. Forse per questo Come eravamo, nel filone sen- protagonisti, e Pollack utilizza degli elementi di collega- timentale, è tra i film più disperati. Perché non concede mento che permettono di passare, delicatamente, da un tregua, perché nega il futuro già dalle note di The Way periodo – o da un luogo – all’altro. Troviamo quindi, a We Were di Marvin Hamlish – che aveva ottenuto l’Oscar scandire il racconto, inquadrature di ponti o corsi d’ac- – che segna già il tempo del rimpianto, che accentua la qua. Oppure il gesto spesso solo accennato di Katie di nostalgia, che appare come la rappresentazione (all’ini- rimettere a posto un ciuffo di capelli di Hubbell. Oppure zio degli anni ’70) di una Hollywood e un cinema che le quattro parole (“I’ll see you later”) con le quali sempre non ci sono più. si lasciano. E ritroviamo tutti questi elementi nell’amara Un set da vecchio musical, la rappresentazione del mac- conclusione del film, quando Katie e Hubbell, divorziati, cartismo, un viaggio nel tempo da metà degli anni ’30 si incontrano per caso a . Katie sta facendo fir- fino all’inizio degli anni ’60. Con due cuori agli antipodi. mare petizioni per la sospensione dei test nucleari, men- Da una parte c’è Katie Molosky, una militante comunista tre Hubbell scrive sceneggiature per la televisione. La che s’innamora di Hubbel Gardiner, uno scrittore di ta- qualità e l’eloquenza repressa degli sguardi e dei silenzi, lento che poi va ad Hollwood e non riesce a non cedere della banalità degli scambi, dei gesti abbozzati riem- ai compromessi. piono quest’ultima sequenza di una tristezza immensa: La storia d’amore sullo sfondo della Storia come in La quella che si sente ogni volta che due persone sfiorano mia Africa. Sembra un film francese recentissimo. Un qualcosa di grande e di bello; qualcosa che è stato co- Desplechin o Assayas piombati nella Hollywood d’inizio munque a loro portata. La stessa infinita tristezza che anni ’40. Simone Emiliani, Sentieri Selvaggi emerge da quasi tutti gli scritti di Francis Scott Fitzge- rald. E non è certo piccolo il merito di Pollack: aver retto Ci sono, in The Way We Were, momenti molto belli. Il re- fino in fondo il paragone con uno dei più grandi scrittori gista ha saputo mantenere il giusto equilibrio tra i due americani contemporanei, un autentico mito letterario. protagonisti, senza prendere le parti di uno a scapito Claude Benoit, Ecrivain à Hollywood sous McCarthy. Nos dell’altra. E quando i due raggiungono il massimo della plus belles années, Jeune Cinéma Sabato OUT OF AFRICA (La mia Africa, USA, 1985, 161’) 19 maggio Regia: Sydney Pollack; sceneggiatura: Kurt Luedke (dai romanzi La mia Africa di Karen ore 16.30 Blixen e altri testi di Isak Dinesen, Judith Thurman, Errol Trzebibinski); fotografia: David Watkin; musica: , Henry Carey; interpreti: Robert Redford, Meryl Streep, Klaus Maria Brandauer, Michael Kitchen

Come Karen e Denys cercano una spigolosa serenità fra stilistica dell’autore: i primi dieci minuti contengono nelle colline del Kenya, così gli stili antagonistici di Me- già tutti gli elementi essenziali allo svolgimento del film. ryl Streep e di Robert Redford - il metodo di lei e la con- Lo sguardo retrospettivo della protagonista, la voce del- torta disinvoltura di lui - si scontrano, poi raggiungono la nostalgia, la soggettiva che si getta nell’intrico della un compromesso, infine si compenetrano. Inizialmente, savana, sembrerebbe sulle orme di una famosa frase lo- Redford sembra segnato dal tempo, inquieto, come se seyana, “Il passato è un paese straniero” l’arrivo della pro- si sforzasse di fare un favore a un vecchio amico (è il suo tagonista in questo “paese straniero” (ora più geografica- sesto film con Pollack). Il suo sorriso è più che mai a denti mente che temporalmente), accompagnato dai rarissimi stretti, più che mai distaccato. Strizza gli occhi come se movimenti di macchina traballanti del film, quasi a sin- guardasse perennemente il sole della sua celebrità - il tetizzare una caduta di equilibri precedenti; i suoi timori marchio di un atteggiamento di cautela verso un mondo per le porcellane che porta con sé e su cui gli indigeni, che, dopo averlo visto sullo schermo per un quarto di se- ignari della loro fragilità, camminano con noncuranza; colo, pensa ancora a Robert Redford come al tipico divo l’ironia con cui Denys/Redford risponde a queste paure; hollywoodiano. Richard Corliss, Film Comment lo sguardo attonito che il servitore nero riserva all’orolo- gio a cucù; l’incontro di Karen, alla sua prima uscita, con il Innanzitutto, a dispetto della patina hollywodiana, Out leone, il pericolo sconosciuto e incontrollabile dell’esoti- of Africa è un film profondamente pollackiano, anzi, per co (un leone galeotto, peraltro, che le permette di essere molti versi una specie di summa dell’opera di Pollack. Alla salvata proprio da Denys, il quale le raccomanda, proprio cronaca appartiene la collaborazione con Kurt Luedtke, come quando faranno l’amore, di non muoversi, ovvero che fu già sceneggiatore di (1981), sen- di non fare nulla): tutto ciò introduce in chiara evidenza za dubbio uno dei film più deboli del percorso del regi- il tema fondamentale dello spaesamento, dell’estraneità, sta, uno dei suoi testi più anonimi. Di maggior interesse di una integrazione-omologazione tutt’altro che indolo- è il riconoscere in Out of Africa una di quelle illuminanti re. aperture che Franco La Polla ha già ampiamente messo Giorgio Cremonini, La mia Africa: le due anime del cinema, in luce nel suo Castoro su Pollack come vera e propria ci- Bianco e Nero Sabato JEREMIAH JOHNSON (Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, USA, 1972, 108’) 19 maggio Regia: Sydney Pollack; sceneggiatura: John Milius, Edward Anhalt (dal romanzo ore 21.00 Mountain Man di Vardis Fisher e dalla novella Crow Killer di Raymond Thorp e Robert Bunker); fotografia: Duke Callaghan; musica: John Rubinstein, Tim McIntire; interpreti: Robert Redford, Will Geer, Stefan Gierasch, Allyn Ann McLerie

Grandissimo western, di respiro maestoso, intriso di ma- conquista, motivata dal modo di essere, dal comporta- linconia. E’ un inno triste alla bellezza e alla impossibilità mento di uno e dell’altro, ma è disponibilità (quindi una della vita libera e selvaggia a contatto con la natura. Il situazione, non un’azione), bisogno universale di affetto, racconto è costruito con una perfetta simmetria, un vero capacità di investire di tenerezza il mondo. Ma è anche, e proprio chiasmo narrativo: nella seconda parte del film proprio per questo, l’avvio di un rapporto immobile, che Jeremiah incontra all’incontrario tutti i personaggi con non può andare oltre la reciproca accettazione e non cui aveva avuto contatti nella prima. Gli indiani sono visti implica nessuno sforzo superiore di conoscenza che sia come una cultura ostile all’estendersi della colonizzazio- modificazione del comportamento proprio e dell’altro: ne, ma non inferiore né negativa, fanno parte della natu- come per lo scontro di civiltà fra bianchi e indiani, la le- ra che l’uomo bianco sfida per costruirsi una esistenza e zione che trarremo dal film sarà quella della tolleranza, un futuro. La distruzione della famiglia di Jeremiah sim- che nasce dall’assoluta incapacità di capirsi reciproca- bolizza l’impossibilità di una fusione tra le due culture. mente. Renzo Trotta Giancarlo Beltrame Un western maestoso e malinconico, che celebra tanto Corvo Rosso non avrai il mio scalpo ha inizio quando Jere- il mito quanto la difficile realtà della wilderness (il vivere miah Johnson, ex soldato (ce lo dicono i suoi pantaloni), liberi e selvaggi in armonia con la natura) mescolando proveniente comunque da un passato non meglio preci- l’avventura al documentario. Rappresenta uno dei con- sato, sbarca ai limiti del mondo civile, compra un fucile tributi più significativi nella condivisione del genere, e se ne va in mezzo alle nevi, lontano da tutti, lontano cominciata a metà degli anni sessanta: gli indiani sono dalla civiltà e dalla storia. In questo segno si svolge tut- ostili ma non appaiono inferiori ai bianchi. to l’itinerario cinematografico di Pollack. (...) La casualità È stato girato nello Utah, e la splendida fotografia si deve dell’incontro fra Jeremiah e l’indiana - una situazione a Duke Gallaghan. “Il Corvo Rosso” del titolo è un’inven- cara a Pollack, che in I tre giorni del Condor farà nasce- zione dei distributori italiani: in realtà l’indiano che per re altrettanto casualmente l’intesa tra Robert Redford e tutto il film fa da antagonista a Johnson è senza nome, - è l’idea di un amore che non è scelta, anche se appartiene alla tribù dei Corvi. Paolo Mereghetti Mercoledì HAVANA (Id., USA 1990, 144’) 23 maggio Regia: Sydney Pollack; sceneggiatura: David Rayfiel, Judith Rascoe; fotografia: Owen ore 16.30 Roizman; musica: ; interpreti: Robert Redford, Lena Olin, Raul Julia, Alan Arkin, Tomas Milian

Redford non ha più la bellezza volitiva di un tempo, ep- della mafia e della CIA negli affari cubani. (...) La trama pure resta il ragazzo della porta accanto, che qui ci cor- alla Casablanca è evidente, ma il film riesce a evocare teggia pavoneggiandosi con scrollate di spalle e muo- un’atmosfera di tramonto di un’epoca, molto distante dal vendosi con spavalderia. Il suo viso, segnato dal tempo fervore ideale del film interpretato da Humphrey Bogart, e solcato come un paesaggio lunare, risalta a fatica nella che è comunque un attore dal fascino asciutto, differen- cacofonia dell’Avana, una città divisa tra lo scintillio tin- te dalla mitologia sentimentale che circonda Redford e tinnante di fiches dei casinò della mafia e la realtà e l’ac- che qui si espande. Giuliana Muscio cortezza dei nascondigli dei ribelli di Castro. Redford è Jack Weil, il Peter Pan del poker. Un temerario giocatore Leggendo il soggetto, si potrebbe pensare che Havana d’azzardo, per il quale la vita non è nient’altro che un ca- possegga tutti gli elementi tipici di un archetipo roman- stello di carte con polli da spennare e donne facili, giunto tico, un po come Casablanca, il mitico film di Michael a L’Avana nelle ultime ore del regime di Batista, per una Curtiz. L’esito è, in realtà, diametralmente opposto. Ha- partita dalla posta molto alta. Rita Kempley vana è la copia negativa di Casablanca, in quanto svela la dimensione nascosta del cinema classico d’amore e Havana è un bel film. Mette a fuoco sia la trasformazio- avventura. Ed è proprio su questo aspetto che Pollack, ne di Redford in un personaggio in grado di pronunciare che sembrava essere rimasto l’ultimo dei conformisti ro- battute assai più sentimentali che nel suo cinema prece- mantici di Hollywood (con The Way We Where e Out of dente, sia lo spazio che la pellicola concede al contesto Africa) riesce a sorprenderci. Ci aspettavamo un Havana storico e alla posizione di Jack, l’americano cinico che lirico o nostalgico a seconda delle esigenze, invece ci tro- acquista coscienza politica attraverso la maturazione dei viamo di fronte all’opera certamente più algida e priva di suoi sentimenti: quasi un film sovietico, contrariamente glamour del cineasta (insieme forse a Three Day’s of the a quel che si può leggere in molte recensioni che accu- Condor, che però era un thriller). Vincent Ostria, Cahiers sano il film di non prendere posizione sul castrismo. Il du Cinéma dialogo racconta con insolita sincerità il coinvolgimento Mercoledì THREE DAYS OF THE CONDOR (I tre giorni del Condor, USA, 1975, 117’) 23 maggio Regia: Sydney Pollack; sceneggiatura: Lorenzo Semple Jr, David Rayfiel (dal romanzo I ore 21.00 sei giorni del Condor di James Grady); fotografia: ; musica: Dave Grusin; interpreti: Robert Redford, Faye Dunaway, ,

La posta in gioco nel film non è in effetti rappresentata che lui, ora, sa cosa vuol dire sentirsi male in casa propria. né dal petrolio del Medio Oriente né dalla sorte delle isti- Michel Henry, Sydney Pollack ou la vérité du mensonge, tuzioni americane, ma dalla possibilità che un sognatore Positif superi una simile prova: vediamo un ragazzo ingenuo, impegnato suo malgrado in un conflitto più grande di I tre giorni del Condor non è un film sulla CIA, né tanto lui, essere a poco a poco dominato dalla paura e dalla meno “politico”. È un film sulla solitudine, sulla provviso- diffidenza, prendere coscienza del fatto che i suoi supe- rietà dei valori, sulla precarietà degli affetti, sull’indoma- riori erano pronti a distruggere il sistema di valori che bile vittoria dell’istinto di conservazione, sulla forza della pretendevano di difendere; ma impariamo anche come volontà individuale di fronte alle difficoltà e al pericolo, si sopravvive in un universo dominato dalla violenza e dal sulla crisi della fiducia e sul sorgere del sospetto assoluto, potere della tecnologia. Joubert, l’esperto, non sottolinea sulla colpa stessa dell’esistere. Il mondo in cui Joe si muo- forse che Turner deve la propria sopravvivenza proprio ve è quello, astratto, disumano, della meccanizzazione. al fatto di essere un dilettante? I suoi spostamenti, con- La prima inquadratura è esplicita: un computer che batte trariamente a quelli di uno specialista, sono imprevedibili freddamente dati e informazioni. Pollack è sempre stato – proprio come il suo breve incontro con la giovane don- affascinato dalla figura della macchina. Da bravo uma- na, sola e subito complice, grazie alla quale può smettere nista osserva i prodotti della tecnica, li aborrisce e se ne di fuggire e cominciare a rispondere colpo su colpo. Si lascia ammaliare. Più ambiguo di un Pakula, più incerto programma la politica delle nazioni, si può programmare di un Sarafian, Pollack non cerca verità politiche, ottiche persino il tempo ( “Pioverà alle 10 e 12” ), ma non si pos- granitiche da proporre a uno spettatore che ne sa quanto sono ancora programmare le emozioni e i sentimenti. I lui. La verità che ha da comunicare riguarda la condizio- romantici hanno forse ancora, malgrado tutto, un futu- ne del singolo, la sua desolata battaglia contro il mondo, ro roseo davanti a sé? Esattamente come Pollack, Turner che si ammanta delle forme classiche del genere (thriller, non pensa certo all’esilio: non è particolarmente attacca- gangster, western, ecc). Franco La Polla, Il Castoro Cinema to alla sua patria, ma è uno di quelli che sentono più di altri la nostalgia di casa. Possiamo scommettere che an- Martedì THIS PROPERTY IS CONDEMNED (Questa ragazza è di tutti, USA, 1996, 110’) 29 maggio Regia: Sydney Pollack; sceneggiatura: Francis F. Coppola, Fred Coe, Edith R. Sommer ore 16.30 (da un atto unico di Tennessee Williams); fotografia: James Wong Howe; musica: Sam Coslow; interpreti: Robert Redford, Natalie Wood, Charles Bronson, Kate Reid, Mary Badham

Se il clima tipico delle opere di Tennesee Williams sem- (Hollywood! Hollywood! Triste pianura!), quella di Lumet, bra addolcito e la pressione atmosferica meno soffo- Ritt, Mulligan, ma anche di Frankenheimer e, in tempi cante, Pollack riesce comunque a restituire l’atmosfera più recenti, di F.L. Schaffner. Lo aspettiamo. Max Tessier, inquieta e sordamente minacciosa del Sud negli anni Proprieté Interdite, Cinéma Venti, all’epoca della grande crisi: essere corrotti e avidi di guadagno (la madre, interpretata con una sorta di Secondo lavoro di Pollack tratto dall’atto un’unico di naturale volgarità da Kate Reid) in opposizione ad altri Tennesee Williams Forbidden e cosceneggiato anche da ancora abbastanza giovani per desiderare spazi ed eva- Fred Coe e Francis Ford Coppola, il film è costruito come sione, pronti a gettarsi tra le braccia della prima persona un lungo flashback (la sorella della protagonista raccon- che passa – come fa, con evidente buona volontà, Nata- ta a un ragazzo la storia della sua famiglia) che concede lie Wood. Scene come quella in cui Charles Bronson sce- troppo all’universo di William (la decadenza del Sud, la glie la ragazza sotto lo sguardo costernato e incredulo corruzione dell’innocenza, il destino di morte), ma riesce della madre sprigionano una quantità sufficiente di cru- a commuovere nelle scene finali, lascia stupiti per il bel- deltà per riportarci nel mondo del celebre drammaturgo lissimo lavoro sul colore. Paolo Mereghetti americano. Il respiro del film è sereno e la semplicità è una delle sue più intime qualità; gli si può tutt’al più im- Appartengono a James Wong Howe direttore della foto- putare l’abuso di dissolvenze e di corse-a-rotta-di-collo- grafia, le inquadrature folgoranti dei temporali serali, dei sotto-la-pioggia in prossimità di quella che non può che volti illuminati dalle candele, di un abito rosso. Ed è pro- essere la conclusione. In definitiva si tratta di un film prio dentro questo abito rosso - a volte tutta via anche interessante per più di un motivo, certamente degno di al di fuori, in una bianca sottoveste o in una vestaglia di una distribuzione più attenta rispetto all’«esclusività» di seta - che troviamo Nathalie Wood: presenza scintillan- una sola settimana che gli è stata concessa. In quanto te, a metà strada, vale la pena ripeterlo, tra la febbre che a Pollack, speriamo che non ci giochi anche lui il brut- scorre nelle vene e il desiderio elettrico. Roger Tailleur, to tiro della “promettente generazione” di dieci anni fa Positif Martedì THE ELECTRIC HORSEMAN (Il cavaliere elettrico, USA, 1979, 121’) 29 maggio Regia: Sydney Pollack; sceneggiatura: Paul Gaer, Robert Garland (da un racconto di ore 21.00 Shelly Burton); fotografia: Owen Roizman; musica: Dave Grusin; interpreti: Robert Red- ford, , Valerie Perrine,

Nel cinema di Pollack nessuno ha mai la verità tutta in- I rapporti tra Jane Fonda e Robert Redford evocano quelli tera e sempre il rapporto che si instaura tra due persone tra Barbra Streisand e Redford in The Way We Where. Que- (usualmente di sesso diverso) è complementare: l’identi- sto è dovuto alla sua collaborazione con Alvin Sargent? tà di sé è scoperta attraverso l’altro, che noi aiuteremo in qualche modo a scoprirsi nella propria identità. E’ questo «Si, senza dubbio ho lavorato sulle scene d’amore, in par- per Pollack il senso dell’amore, è per questo che una volta ticolare su quella d’addio nel caffè, un addio romantico esaurito il proprio “compito”, le due persone si separano. come piace a Sydney. E, malgrado tutto, ho una predi- Pollack sa benissimo che, diversamente, subentrerebbe lezione per il momento in cui Redford parla con amore un’altra alienazione, terroristica, padronale, violenta, fon- del deserto, dei fossili, della terra dell’Ovest. Benchè sia data sulla sopraffazione personale. Ciò che due esseri si di Philadelphia, Alvin ha scritto il dialogo nelle scene in possono dare, se lo danno. E poi si separano. Franco La cui Redford parla con i compagni di rodeo, dove ha col- Polla, Il Castoro Cinema to mirabilmente lo spirito di questi cowboys decaduti. Inoltre è stato lui ad avere l’idea di inserire America the In questo film non conta la verosimiglianza dei fatti o dei Beautiful e Redford lo ha apprezzato molto. C’è molto an- personaggi. The Electric Horseman non vuole essere che ti-americanismo nel mondo, ma questo non appartiene una favola, un poema allegorico situato fuori dalla realtà. a Redford, anzi è una cosa che lo irrita. È un po’ come se Bisogna vederlo, per il respiro che gli danno la regia di qualcuno se la prendesse con i vostri familiari più stretti, Sydney Pollack e l’interpretazione calorosa e complice di se ne trova già traccia nei Tre giorni del Condor, quando Robert Redford e Jane Fonda; per la sua generosità e il Redford risponde a Max Von Sydow che per nulla al mon- suo utopico ottimismo, per l’aria pura che ci fa respirare. do lascerebbe l’America». Michel Ciment e Michel Henry, L’odissea di Sonny, il cowboy, non sarà mai la nostra. Ep- Intervista con lo sceneggiatore David Rayfiel, Positif pure la condividiamo e la viviamo come una liberazione, perché riecheggia dei nostri vecchi sogni di evasione, di purezza e dignità ritrovate. Jean de Baroncelli, La fable de la Prairie, Le Monde

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www.amiavr.itwww.amiavr.it verona, una città Telefono800-545565 [email protected]@amiavr.it che fa la differenza 045 8063311 www.amiavr.itwww.amiavr.it verona, una città Telefono800-545565 [email protected]@amiavr.it che fa la differenza 045 8063311 SALA CONVEGNI PALAZZO DELLA GRAN GUARDIA Piazza Bra, Verona

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Francesca Briani assessore alla cultura, turismo, politiche giovanili e pari opportunità Gabriele Ren dirigente area cultura e turismo Paolo Romano responsabile programma Maria Pia Mazzi assistente programmazione Maria Luisa Grigoletti, Mara Isolani amministrazione e organizzazione Roberta Bordignoni pagine web Juliette Lasferza tirocinante verona: una città che fa la differenza Giancarlo Beltrame redazione

I film sono presentati in versione originale con sottotitoli in italiano Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti. L’accesso alla sala non sarà consentito a proiezione iniziata verona: www.amiavr.it Telefono Con il sostegno di www.amiavr.it verona, una città 800-545565 una città che fa la differenza [email protected]@amiavr.it che fa la differenza 045 8063311

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