STEPHENIE MEYER NEW MOON (New Moon, 2006)
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STEPHENIE MEYER NEW MOON (New Moon, 2006) A mio padre, Stephen Morgan. Nessuno ha mai ricevuto un sostegno più affettuoso e incondizionato di quello che tu hai concesso a me. Anch'io ti voglio bene. Queste gioie violente hanno fini violente. Muoiono nel loro trionfo, come la polvere da sparo e il fuoco, Che si consumano al primo bacio. ROMEO E GIULIETTA, atto II, scena VI Prefazione Mi sentivo intrappolata come in uno di quegli incubi terrificanti in cui, per quanto corri e corri finché i polmoni non ti scoppiano, non sei mai ab- bastanza veloce. Più cercavo di farmi strada tra la folla impassibile, più le gambe sembravano lente, ma le lancette della grande torre campanaria non accennavano a rallentare. Vigorose, indifferenti e spietate, giravano ineso- rabili verso la fine... la fine di tutto. Però non era un sogno, e nemmeno un incubo in cui correvo per salvare la mia vita: in gioco c'era qualcosa di infinitamente più prezioso. Quel giorno, della mia vita m'importava poco. Secondo Alice avevamo molte probabilità di morire entrambe. Forse il nostro destino sarebbe stato diverso se la luce del sole non l'avesse impri- gionata. Soltanto io ero libera di attraversare di corsa la piazza luminosa e affollata. E non ero abbastanza veloce. Perciò non m'importava che fossimo circondate da avversari straordina- riamente pericolosi. Al primo rintocco delle campane, che rimbombavano nel terreno sotto i miei piedi spossati, capii di essere in ritardo, lieta che ad aspettarmi ci fosse un nemico assetato di sangue. Perché, se avessi fallito, avrei rinunciato a qualsiasi desiderio di vivere. Ecco un altro rintocco, mentre i raggi del sole picchiavano dal centro e- satto del cielo. 1 Festa Ero sicura al novantanove virgola nove per cento che fosse un sogno. Ne ero certa perché, innanzitutto, ero illuminata da un raggio di sole - accecante, limpido, impossibile a vedersi nella piovigginosa Forks, la cit- tadina dello Stato di Washington che mi aveva adottata - e poi perché guardavo in faccia mia nonna Marie: era morta da sei anni, perciò anche quella era una prova decisiva. Non era cambiata granché; la ricordavo proprio così. La pelle era morbi- da e rugosa, solcata da migliaia di piccole increspature che correvano deli- cate sul velo di pelle affondando fino alle ossa. Come un'albicocca avvizzi- ta avvolta in una nuvola di capelli folti e bianchi. Sulle nostre labbra - le sue erano una piega raggrinzita - comparve lo stesso sorriso, sorpreso e appena accennato, nel medesimo istante. Forse la mia apparizione era una sorpresa anche per lei. Ero sul punto di farle una domanda: ne avevo tante - cosa ci faceva nel sogno?, come aveva trascorso gli ultimi sei anni?, il nonno stava bene?, si erano ritrovati, dovunque fossero? - ma appena tentai di parlare lo fece an- che lei, e preferii tacere per non interromperla. Anche lei restò in silenzio ed entrambe sorridemmo di quel leggero imbarazzo. «Bella?». Non era la nonna a chiamarmi e insieme ci voltammo a guardare chi si stava aggiungendo alla nostra piccola riunione di famiglia. Ma non avevo bisogno di vederlo per sapere chi fosse: quella voce l'avrei riconosciuta ovunque; la riconoscevo sempre con emozione, che fossi sveglia, addor- mentata... persino da morta. La voce per cui ero disposta a camminare nel fuoco, oppure, senza esagerare, a sguazzare per una vita intera sotto un'in- terminabile pioggia fredda. Edward. Benché, consapevole o meno, incontrarlo mi desse sempre un brivido, e malgrado fossi quasi sicura di sognare, fui presa dal panico quando lo vidi avanzare verso di noi sotto la luce abbagliante del sole. La nonna non sa- peva che fossi innamorata di un vampiro, anzi nessuno lo sapeva. Come avrei spiegato i riflessi luccicanti che s'irradiavano dalla sua pelle, simili a migliaia di frammenti iridescenti, come fosse fatto di cristallo o di diaman- te? Be', nonna, ti sarai accorta che il mio ragazzo risplende. Gli capita alla luce del sole. Non preoccuparti... Che intenzioni aveva? L'unica ragione per cui si era trasferito a Forks, il posto più piovoso del mondo, era la possibilità di uscire alla luce del sole senza rivelare il segreto della sua famiglia. Eppure, eccolo camminare ag- graziato verso di me, con il suo più bel sorriso sul volto angelico, come fossi da sola. In quel momento desiderai di non essere l'unica a risultare immune al suo talento misterioso: di solito mi compiacevo di essere la sola persona di cui non percepisse i pensieri come fossero parole pronunciate ad alta voce. Ma ora speravo che si accorgesse dell'avvertimento che gli urlavo tra me e me. Lanciai un'occhiata alla nonna, ma era troppo tardi. Si stava voltando anche lei verso di me, con uno sguardo altrettanto allarmato. Edward - sempre armato di quel sorriso magnifico, capace di riempirmi il cuore tanto da farlo scoppiare - mi cinse le spalle con un braccio e si vol- tò a guardare la nonna. L'espressione di lei mi stupì. Anziché spaventarsi, mi fissava impacciata, come attendesse un rimprovero. E la sua posizione era molto strana: un braccio goffamente teso a cingere l'aria attorno a sé, quasi abbracciasse qualcuno o qualcosa di invisibile... Solo in quell'istante la visuale si allargò e mi accorsi dell'enorme cornice dorata che racchiudeva la sagoma di mia nonna. Perplessa, allungai la ma- no che non stringeva Edward per toccarla. Lei ripeté lo stesso movimento, come uno specchio. E nel punto in cui le nostre dita avrebbero dovuto sfio- rarsi, non c'era nient'altro che vetro freddo... Con un balzo vertiginoso, il sogno si trasformò in un incubo. Non c'era nessuna nonna. Quella ero io. Io allo specchio. Io: vecchia, rugosa e rinsecchita. Edward era al mio fianco, ma lo specchio non rifletteva la sua bellezza straziante e il suo aspetto da eterno diciassettenne. Sfiorò con le labbra ghiacciate e perfette la mia guancia devastata. «Buon compleanno», mi sussurrò. Mi risvegliai di soprassalto, senza fiato, spalancando gli occhi. Una luce grigia e smorta, il chiarore tipico delle mattine di cielo coperto, prese il po- sto del sole accecante che avevo sognato. Era soltanto un sogno, soltanto un sogno. Ripresi fiato per calmarmi, ma scattai di nuovo al suono della sveglia. Il piccolo calendario nell'angolo del display m'informò che era il 13 settembre. Era stato soltanto un sogno, ma un sogno premonitore. Quel giorno era il mio compleanno. Avevo ufficialmente diciotto anni. Temevo l'arrivo di quel momento da mesi. Durante tutta quell'estate perfetta - la più felice della mia vita, la più fe- lice di qualsiasi vita, e la più piovosa nella storia della penisola di Olympia - questa lugubre data era stata costantemente in agguato, facendo capolino di tanto in tanto, pronta a balzar fuori. E adesso che il momento era arrivato, era anche peggio di quanto avessi temuto. Lo sentivo: ero più vecchia. Ogni giorno invecchiavo, ma oggi era diverso, peggiore, quantificabile. Avevo diciotto anni. Edward non li avrebbe compiuti mai. Andai a lavarmi i denti e fui quasi sorpresa che il volto riflesso dallo specchio non fosse cambiato. Restai a osservarmi, in cerca dei segni delle prime rughe sulla mia pelle d'avorio. Le uniche visibili erano quelle sulla fronte, ma sapevo che se fossi riuscita a rilassarmi sarebbero sparite. Ten- tativo inutile. Le sopracciglia erano bloccate dalla preoccupazione, rigide sopra i miei occhi ansiosi. Era soltanto un sogno, ripetei a me stessa. Soltanto un sogno... ma anche il mio incubo peggiore. Saltai la colazione, impaziente di uscire di casa il più presto possibile. Non riuscii a evitare del tutto mio padre, perciò fui costretta a fingere qualche minuto di buonumore. Feci del mio meglio per dimostrare un en- tusiasmo spontaneo di fronte ai regali che lo avevo scongiurato di non farmi, ma a ogni sorriso forzato rischiavo di mettermi a piangere. Mentre guidavo verso la scuola, tentai di ricompormi. Il volto della non- na - non osavo pensare di poter essere io - non mi usciva dalla testa. Fui invasa dallo sconforto finché non entrai nel familiare parcheggio della scuola superiore di Forks e notai Edward, immobile, appoggiato alla sua Volvo argentata e lucida, come un tributo marmoreo a un oscuro dio paga- no della bellezza. Il sogno non gli aveva reso giustizia. Ed era lì, che aspet- tava me, come un qualsiasi altro giorno. Ogni pensiero cupo sparì per qualche istante, rimpiazzato dalla meravi- glia. Sei mesi insieme, e ancora non riuscivo a credere di meritare una for- tuna così grande. Di fianco a lui c'era sua sorella Alice, anche lei in mia attesa. Ovviamente, Edward e Alice non erano veri fratelli (secondo la versione di Forks della loro storia, i ragazzi dei Cullen erano stati tutti adottati dal dottor Carlisle e da sua moglie Esme, di certo troppo giovani per avere fi- gli adolescenti), ma la loro pelle aveva lo stesso pallore, gli occhi erano della stessa, singolare tonalità dorata ed erano cerchiati dalle medesime occhiaie profonde e simili a ustioni. Il volto della ragazza era bellissimo, come quello di suo fratello. Chi la sapeva lunga, come me, riconosceva in quei tratti comuni la loro vera essenza. Alla vista di Alice, che mi aspettava con gli occhi fulvi accesi di entusia- smo e tra le mani un pacchetto quadrato avvolto in carta argentata, mi rab- buiai. Le avevo detto che non volevo niente, niente, né regali né attenzioni, per il mio compleanno. Ovviamente, poco le importava del mio desiderio. Sbattei la portiera del mio pick-up Chevy del '53, scatenando una piog- gia di briciole di ruggine sull'asfalto umido, e mi avvicinai lentamente ai fratelli in attesa. Alice mi venne incontro, con il suo raggiante viso da fol- letto incorniciato dai capelli neri disordinati.