La Cultura 1438 Jenny Kleeman

Sesso, androidi e carne vegana Avventure ai limiti di cibo, eros e morte

Traduzione di Alessandro Vezzoli © Jenny Kleeman 2020 First published 2020 by Picador an imprint of Pan Macmillan, a division of Macmillan Publishers International Limited © il Saggiatore S.r.l., Milano 2021 Titolo originale: Sex Robots and Vegan Meat Sommario

Prefazione PARTE PRIMA Il futuro dell’eros. L’ascesa dei robot del sesso 1. «Dove avviene la magia» 2. L’illusione della compagnia 3. «Non sentirà nulla!» 4. «Tutte le nostre relazioni sono in pericolo» PARTE SECONDA Il futuro del cibo. Carne pulita, coscienza pulita 5. Auschbeef 6. I vegani che amano la carne 7. Pesce fuor d’acqua 8. Retrogusto PARTE TERZA Il futuro della nascita. Ectogenesi 9. Il business della gravidanza 10. La biosacca 11. L’immacolata gestazione1 12. «Le donne sono obsolete, finalmente» PARTE QUARTA Il futuro della morte. Decesso espresso 13. Morte fai da te 14. «L’Elon Musk del suicidio» 15. La fine giustifica i mezzi Epilogo Ringraziamenti Note Sesso, androidi e carne vegana

A Benjamin e Isabella, naturalmente Ci troveremo in un mercato veramente competitivo, con molti player. Crediamo di avere il miglior prodotto al mondo. Ci batteremo per questo e vedremo di raggiungere l’1 per cento del mercato.

STEVE JOBS al lancio del primo iPhone (9 gennaio 2007)

Voler correggere il mondo senza scoprire chi siamo noi stessi è come provare a ricoprire di cuoio ogni strada per sfuggire al dolore di camminare su pietre e su rovi. È molto più semplice infilarsi un paio di scarpe.

RAMANA MAHARSHI Prefazione

Quanto state per leggere non è fantascienza. Siamo alla vigilia di un’epoca in cui la tecnologia ridefinirà la nascita, il cibo, il sesso e la morte, gli aspetti fondamentali della nostra esistenza. Finora la vita umana è sempre consistita nell’emergere dal corpo di nostra madre, nel nutrirsi della carne di animali morti e nel cercare rapporti sessuali con altri esseri umani, sino a concludersi con una morte che non siamo in grado né di evitare né di controllare. In questi cinque anni mi sono immersa nel mondo di quattro distinte invenzioni che promettono di donarci il partner perfetto, la gestazione perfetta, la carne perfetta, la morte perfetta. Loro, però, non sono ancora perfette: ci si sta lavorando in laboratori, garage, studi; dentro ospedali, fabbriche e magazzini. Alcune tra queste entreranno in commercio nel giro di qualche anno, per altre ci vorranno decenni prima di sbarcare sul mercato, ma alla fine diverranno tutte componenti inevitabili della vita umana. Quanto stiamo per cedere alla tecnologia? E come ci cambierà? Per rispondere viaggeremo attraverso quattro continenti e visiteremo i più oscuri recessi di internet. Vi porterò nelle cucine dove si preparano crocchette di pollo da mille dollari, in incontri esclusivi dove la gente impara a uccidersi, in laboratori dove i feti crescono dentro sacche e in gruppi di discussione dove alcuni uomini pianificano la guerra totale alle donne. C’imbatteremo in scienziati, umanoidi, designer, studiosi di etica, imprenditori e provocatori; faremo la conoscenza di uno specialista in fertilità disposto a tutto, o quasi, pur di soddisfare i desideri dei suoi pazienti, di un uomo sposato a una bambola del sesso, di una decoratrice di dolci che ha aiutato la sua migliore amica a morire e di un artista che per esprimersi usa carne viva. A monte di queste innovazioni incontrerò persone (e saranno per la quasi totalità maschi) mosse a volte dai principi, altre dalla passione, spesso dal denaro ma sempre dalla promessa di fama e riconoscimento. Condividono tutte la convinzione che la tecnologia possa permetterci di avere senza sforzi le vite che davvero desideriamo, che sia in grado di risolvere i nostri problemi e liberarci. Persino i visionari più geniali, tuttavia, non sanno prevedere in pieno la portata delle loro innovazioni. Quando Steve Jobs lanciò l’iPhone osava sperare di conquistare l’1 per cento del mercato; non aveva idea che gli smartphone si sarebbero impadroniti delle nostre vite, avrebbero messo in ombra le nostre relazioni, sarebbero diventati il nostro indispensabile organo esterno. Le tecnologie più dirompenti si accompagnano sempre a scosse di assestamento così straordinarie da risultare imprevedibili. Se possiamo avere figli senza il peso di una gravidanza, mangiare carne senza uccidere animali, ottenere la relazione sessuale perfetta senza compromessi e una morte ideale senza sofferenza, in che altro modo la natura umana muterà per sempre? Senza rendercene conto, l’esistenza umana si sta ridefinendo in assetti che nessuno sa determinare o controllare. Per mostrarvi perché credo che sia un processo già in atto, lasciate che vi accompagni in una fabbrica della Southern California, dove si fabbricano i più stupefacenti giocattoli per adulti. PARTE PRIMA Il futuro dell’eros L’ascesa dei robot del sesso 1. «Dove avviene la magia»

Abyss Creations occupa un anonimo edificio grigio fuori dalla superstrada 78 a San Marcos, mezz’ora a nord di San Diego, a cui si aggiungono un parcheggio mezzo vuoto e un alto muro di cinta. Non ha insegna, né logo, né indicazione che dietro i vetri fumé operi una delle più potenti aziende mondiali di giocattoli del sesso, con un fatturato di milioni di dollari. Non vogliono attrarre clienti di passaggio, fan o ficcanaso. Una volta oltrepassate le porte scorrevoli, seduta alla reception si trova una bambola a grandezza naturale con occhiali neri e una camicia bianca che a fatica le contiene il petto prosperoso. In piedi accanto a lei una bambola di un uomo in completo grigio a tre pezzi, i cui occhi a mandorla e gli zigomi aguzzi replicano inequivocabilmente quelli che ho visto nei video e nelle fotografie di Matt McMullen, fondatore, chief designer e Ceo di Abyss Creations. Abyss Creations è la casa natale della RealDoll, la più famosa bambola sessuale iperrealistica in silicone al mondo. Ogni anno, fino a seicento esemplari provenienti dal laboratorio di San Marcos vengono spediti verso camere da letto di Florida e Texas, Germania e Regno Unito, Cina e Giappone e oltre, in una gamma di prezzi che spaziano dai 5999 dollari del modello base alle decine di migliaia richieste se il cliente esige caratteristiche insolite. Vanity Fair le chiama «le Rolls-Royce delle bambole del sesso». Le RealDoll sono apparse in servizi fotografici di Dolce & Gabbana e in numerosi film e serie televisive, da CSI: New York a My Name Is Earl; la più famosa è stata la compagna di Ryan Gosling in Lars e una ragazza tutta sua. Questa è la masturbazione di più alta gamma sul mercato. Dakotah Shore, nipote di Matt e suo aiutante tuttofare, mi condurrà in un tour guidato della fabbrica. Mi viene incontro a passi ampi e mi stringe la mano sorridendo cordialmente da dietro una magnifica barba color rame. Dakotah lavora alle spedizioni e gestisce gli account social. Ha solo ventidue anni, ma lavora qui da quando ne aveva diciassette. È cresciuto tra le bambole. «Mio padre lavorava qui quand’ero bambino, Matt è il fratello di mia mamma e io gli sono molto legato. Tutto questo ha sempre fatto parte della mia vita, non mi è mai sembrato strano» mi spiega mentre mi guida dietro la reception superando uno scaffale di bambole in tacchi alti e intimo di pizzo. Ce n’è una bionda, con la pelle candida come porcellana e labbra lucide rosso ciliegia, e una meticcia dai riccioli arruffati. Una bambola goth esibisce piercing su naso, labbro, ombelico e anelli nei capezzoli ben visibili sotto l’abito a rete, accollato sul davanti e con la schiena e le spalle scoperte. «La prima volta che sono venuto qui avevo dodici, tredici anni e mi è sembrato fico» continua Dakotah, che poi si corregge: «Non ho visto tutta la fabbrica, solo i manichini della reception al piano di sopra, e ho pensato: “Fico, davvero realistici come receptionist”». Sorride imbarazzato. Camminiamo lungo un corridoio con appesi alle pareti ritagli di giornali incorniciati e locandine di film in cui appaiono RealDoll. Vedo un disegno dal tratto disneyano, ma quando mi avvicino mi accorgo che si tratta di Biancaneve palpeggiata da tutti e sette i nani. Dakotah tiene aperta una porta con un enorme pene di silicone eretto dalle vene in rilievo. «Ora che lavoro qui e conosco la situazione a fondo, per me è normale. È qualcosa che fa felice un sacco di persone e io ne vado molto fiero.» Scendiamo dei gradini che portano al seminterrato passando sotto le gigantesche labbra vaginali di una colossale bambola che pende sopra la scalinata. Ha una pelle tra il grigio e l’azzurro e spessi tentacoli snodati al posto dei capelli; è stata utilizzata come arredo scenico in un film di serie B con Bruce Willis intitolato Il mondo dei replicanti. In fondo alle scale, una grande stanza illuminata da tubi alogeni. Ecco l’inizio della linea di produzione. «Qui è dove avviene la magia.» Una lunga fila di corpi senza testa sta appesa per mezzo di catene metalliche a un binario nel soffitto, come carcasse in un mattatoio. Hanno dita e gambe divaricate, i petti protesi in avanti e i fianchi spinti all’indietro. Ognuno è diverso dal successivo: alcuni hanno mammelle pendule da cartone animato, altri sono dotati di corpi atletici, ma tutti possiedono una vita sottile in maniera inverosimile. Si muovono penzolando, dondolando spettrali sopra un pavimento cosparso di gommosi ritagli di silicone simili a scaglie di pelle morta. «Può toccarli, non c’è problema» dice Dakotah. Dà a uno una bella pacca sul sedere. «Sembra proprio il rumore di un umano.» Già, è così. E mi fa sussultare. In tutti questi corpi decapitati a inquietarmi di più è la pelle: realizzata in silicone di grado medico ad altissima qualità secondo la sfumatura richiesta dal cliente in una gamma di toni che vanno dal pallido al cacao, somiglia proprio alla carne umana, ne ha lo stesso attrito e la stessa resistenza, ma è fredda. Le mani mostrano linee, pieghe, rughe, nocche, vene. Quando intreccio le dita con quelle di una bambola, sento scrocchiare di sotto le giunzioni dello scheletro, proprio come ossa. «Le mani sono la cosa più difficile da scolpire» mi dice Dakotah. «In genere prendiamo il calco delle mani e dei piedi di una persona vera.» Si ferma a esaminarne da vicino qualcuna. «A dirle il vero, alcune di queste mani appartengono alla mia ex.» Mike sta tagliando delicatamente il silicone in eccesso dalle giunture di una mano con una sorta di minuscole forbicine. Brian riempie i calchi intorno agli scheletri pronti ad assumere ogni forma di postura necessaria all’azione. Nel frattempo, Tony si fa un panino. Non c’è nulla di squallido in questo posto: è un laboratorio, una fabbrica, e per i tecnici qui sotto, le bambole non hanno niente di eccitante. Questi tizi potrebbero benissimo essere impegnati a montare dei tostapane. Diciassette persone lavorano nella sede centrale di San Marcos, ma non bastano a tenere il passo con le richieste. Dall’ordine alla consegna, possono servire più di tre mesi per produrre una RealDoll. L’attenzione al dettaglio e l’abilità nel creare una bambola sono innegabili. Dakotah ne va evidentemente orgoglioso ed è così sincero che quasi non voglio porgli la prossima domanda. Perché anche se queste sono RealDoll, in loro c’è ben poco di reale. Hanno i corpi di pornostar potenziate chirurgicamente. Sono caricature. «Ma le donne non sembrano così, o sbaglio?» chiedo. «Ne abbiamo qualcuna realizzata al cento per cento sul modello di donne reali, alcune sono reali, ma sì, in genere sono un po’ eccessive» ammette Dakotah. «Ci piace fare di loro la forma femminile ideale.» Le RealDoll sono completamente snodabili, con uno scheletro di articolazioni di acciaio personalizzate e ossa in pvc. Sono progettate in modo che la bambola possieda una gamma di movimenti simile a un umano. A parte le gambe. «Le si possono aprire moltissimo e alzare moltissimo» spiega Dakotah, prendendo una bambola senza testa e sollevandole una caviglia fino all’osso del collo. Io lo interrompo con una smorfia. «Un umano non riesce a farlo» obietto. «Un umano reale no, non può. Be’, qualcuno ci riuscirebbe, ma non tutti.» «La donna perfetta invece sì?» «La donna perfetta probabilmente ne sarebbe capace.» La donna perfetta ha il rapporto vita-fianchi di una Kardashian e le articolazioni di una contorsionista. Dakotah mi porta a un tavolo coperto di inserti vaginali, guaine rosa rimovibili da infilare nella cavità vaginale della bambola, come una specie di calza di gomma con nervature e un’apertura provvista di labbra. «Abbiamo quattordici diversi tipi di labbra» dichiara con un enfatico gesto del braccio. Ci sono anche inserti per la bocca, tutti con lingue rimovibili e dentatura perfetta (i denti brutti, commenta Dakotah, sono una delle poche cose che non chiede nessuno). I denti sono di silicone morbido, perciò non c’è pericolo che qualcosa infilato tra loro venga graffiato. Ai primordi, l’unico modo per pulire una RealDoll dopo l’uso era metterla nella vasca da bagno o sotto la doccia. L’invenzione degli inserti ha rappresentato una svolta. «Li si pulisce nel lavandino. Se si vuole essere delicati, ci si spruzza dentro del borotalco, ma non è indispensabile. Poi basta infilarli di nuovo dentro» mi spiega Dakotah come se stesse descrivendo la procedura per cambiare il sacchetto di un aspirapolvere. «Numerosi tra i nostri clienti possiedono più inserti.» Ci sono bambole maschili, ma non molte. Ne adocchio una sulla linea di produzione, vestita con un camice chirurgico. È completa di una testa che riproduce le fattezze di Matt McMullen. Ci guarda dall’alto, con un’espressione che dovrebbe essere tenebrosa e meditabonda, ma che da trenta centimetri sopra di noi risulta un po’ sprezzante. «Lassù c’è una bambola maschile che somiglia un sacco a Matt» osservo. Dakota solleva lo sguardo da sotto le labbra dell’inserto vaginale. «Potrebbe essere il volto di Matt, in effetti. In realtà lo chiamiamo il modello Nick. L’ha realizzato lui personalmente, per essere basato su se stesso.» «Ha scolpito il suo stesso volto in modo che la gente possa comprarlo e fare sesso con qualcosa che somiglia esattamente a lui?» Dakotah esita. «Si può personalizzare il volto così che non sembri esattamente come il suo. È solo la sua struttura a somigliargli.» Per la prima volta dal nostro incontro, sembra imbarazzato. Solleva il camice chirurgico – serve a proteggere la bambola dalla polvere, spiega, perché è in laboratorio da un po’ – e mostra un corpo snello, decisamente da ragazzo, con addominali ben definiti e boxer bianchi. È di gran lunga meno realistico dei suoi corrispettivi femminili: anziché capelli, ha una specie di peluria dipinta sul cranio, che lo rende simile a un allampanato Big Jim. Ho la sensazione che queste bambole maschili non siano affatto rivolte alle donne. Questo modello è giovane e magrissimo, quello che nel gergo gay si potrebbe definire «frocetto». «Davvero le donne li comprano?» «Uomini e donne. Più gli uomini, ma abbiamo anche clienti donne» risponde Dakotah con una scrollata di spalle. «Per le bambole, direi che meno del 5 per cento della clientela sia femminile. Ma vendiamo molti accessori, vibratori di ogni tipo, e sempre più donne li comprano. Penso che per qualche motivo le donne siano più propense ad acquistare un giocattolo erotico che una bambola completa.» Sospetto di sapere quale sia il motivo. Cerco di immaginarmi a cavalcioni di uno di questi freddi e costosi blocchi di silicone. Una sensazione ridicola, disperata, l’antitesi dell’eros. Il sesso con qualcuno o qualcosa che non nutra autentico desiderio nei miei confronti per me non sarebbe sesso, e se non posso parlare a nome di tutte le donne, non ritengo che la mia sia un’opinione di minoranza. Un vibratore non viene camuffato da persona, e non si deve fingere di esserne davvero attratti per divertirsi a usarlo. «Forse perché una bambola completa è come un rimpiazzo di un essere umano» azzardo. «Sì, forse è così» dice lui annuendo. Le bambole maschili possiedono «orifizi maschili» cui il cliente può applicare la protesi del pene che ha scelto tra tutta una gamma di dimensioni e stati di eccitazione. Dakotah mi regge sotto il naso un modello flaccido extralarge. È lungo quanto il mio braccio e spesso come un tubo di scarico, con piccoli testicoli flosci. «Cento per cento scolpito a mano. Tocchi pure.» Lui vuole davvero tanto che lo tocchi. Non penso perché gli venga un brivido nel vedermi maneggiare un pene iperrealistico, quanto perché trabocca di orgoglio per essere parte dell’azienda che l’ha costruito. Chi può dirlo, comunque. Non so bene come toccarlo, soprattutto con lui che mi tiene gli occhi addosso, ma lo faccio, sforzandomi di essere il più clinica e il più giornalistica possibile. E sì, sembra davvero autentico. «Ed è dotato di pelle retrattile, perciò è realistico al massimo» dichiara Dakotah. «Ma dal punto di vista anatomico è impossibile come i corpi femminili. È bello sapere che vale per entrambi» osservo ritraendo la mano. «Sono d’accordo» dice lui mentre abbassa il pene. «L’uomo medio non può esibire un arnese del genere.» Per le bambole maschili ci sono due opzioni per il corpo e tre per il viso, a fronte delle diciassette varianti del corpo e delle trentaquattro del viso per le bambole femminili. Le bambole maschili non vendono granché. «Stiamo ammodernando la linea uomo. Usciremo con modelli di corpi e volti interamente nuovi. In fin dei conti, siamo pur sempre un’azienda, e se avessimo più clienti che li comprassero, più persone interessate, dedicheremmo loro più tempo. È una questione che abbiamo retrocesso nella lista delle priorità.» Il laboratorio di Abyss Creations è la prova di quanto siano diversi e dettagliati i gusti sessuali degli umani. Qui si fabbricano bambole del sesso con tre seni, bambole con pelle rosso sangue, zanne e corna da diavolo, bambole con orecchie da elfo, bambole irsute con peli applicati a mano su tutto il corpo. «Produciamo qualsiasi cosa. Più si va sul difficile, più si deve spendere: realizzare un prodotto su misura significa scolpire un corpo interamente nuovo, con un nuovo stampo, un nuovo scheletro… C’è gente che arriva a sborsare 50 000 dollari per una bambola.» Dakotah mi conduce al piano di sopra nella «stanza delle facce» dove vengono aggiunti i dettagli. Ogni volto deriva da un prototipo originariamente scolpito a mano in argilla da Matt McMullen in persona, e i clienti specificano come li vogliono truccati, fino allo spessore dell’eyeliner. Katelyn, la makeup face artist ufficiale, con una cresta da moicano azzurro ghiaccio e una spirale di stelle nere tatuata intorno al braccio, è intenta a dipingere sopracciglia con un pennellino su un delicato volto asiatico. Qui non c’è nulla dell’infantile entusiasmo di Dakotah: mentre lavora guarda qualcosa su un iPad e non alza la testa quando entriamo nella stanza. Accanto a lei c’è una serie di facce appena truccate con sopracciglia spesse, occhi fumosi e labbra lucide che brillano, in attesa che la vernice si asciughi. Una delle caratteristiche più popolari della RealDoll sono i volti intercambiabili: si applicano con calamite ai crani di plastica e si levano in pochi secondi. I clienti dunque possono comprare un corpo e avere una varietà di partner sessuali dotati di aspetti molto differenti e persino appartenenti a diverse etnie. «Qual è il volto più richiesto?» domando. «Quale pensi che sia, Katelyn?» chiede Dakotah, ma lei continua a ignorarci. «Questo è il nostro ultimo modello, il Brooklyn» risponde Dakotah indicando un viso allungato con labbra carnose e occhi languidi. «Sta vendendo davvero bene.» Ci sono quarantadue diversi modelli di capezzolo, in uno spettro di dieci sfumature tra cui castagna, rosso, pesca e caffè. Sono esposti in uno stampo su quella che Dakotah chiama la «parete dei capezzoli», con nomi come Standard, Rigonfio e Semisfera, e spaziano dai più comuni (Sbarazzino 1 e Sbarazzino 2: piccoli, turgidi, privi di fantasia) a quelli di nicchia (Custom 2, con un’areola grande quanto un piattino da tè). I clienti a volte spediscono immagini di quelli che per loro sono il capezzolo ideale o le labbra vaginali perfette, e Abyss li riproduce dietro compenso. «Le preferenze sessuali della gente sono davvero così dettagliate?» Dakotah ride. «Oh, le preferenze sessuali della gente sono mooolto più dettagliate di così. A volte arrivano a dirci il punto esatto in cui vogliono ciascuna lentiggine sul corpo.» Ci fermiamo accanto a una lavagna di sughero con infilzati ciuffi di peli pubici sintetici. Bulbi oculari acrilici, realistici in modo inquietante, con capillari dipinti a mano ci osservano da vasche di plastica. «In teoria potrei chiedere il volto del mio ex, no?» domando. «Dovrebbe spedirci delle foto e noi le chiederemmo: “Chi è questa persona?” e: “Ha il suo permesso?”. È indispensabile chiedere il permesso. Respingiamo un’infinità di richieste. Ma se lei dispone di un permesso specifico da parte della persona, possiamo riprodurre praticamente qualsiasi cosa. Quasi tutto il nostro lavoro viene da clienti che ci mandano foto di ciò che vogliono.» Per via del suo lavoro nelle spedizioni, Dakotah ha tantissimi contatti con i clienti. «Molti di loro sono persone sole» mi dice. «Alcuni sono anziani e hanno perso il partner o sono arrivati a un punto in cui per loro non è possibile uscire con qualcuno. Vogliono sentire, quando tornano a casa la sera, di avere qualcosa di bello da guardare, da apprezzare e di cui prendersi cura.» Hanno anche clienti famosi, tra cui un vincitore del premio Nobel, mi confida Dakotah, ma è decisamente troppo discreto per menzionarne qualcuno. Sono qui da appena un’ora e già niente mi sembra più strano: i fondoschiena maschili «in alto i culici» (due natiche divaricate davanti a un paio di piccoli testicoli), le paia di piedi da 350 dollari per i podofili, persino il tavolo ingombro di «simulatori orali» (bocche con labbra aperte, naso e gola ma senza occhi: un «sistema automatizzato di piacere “a mani libere” per il pubblico maschile»). Ma è in una stanza lungo il corridoio che si sta lavorando a qualcosa di davvero straordinario. La creazione più ambiziosa mai realizzata da Abyss si chiama Harmony, e rappresenta l’apice del ventennale lavoro di Matt McMullen nel settore dei giocattoli sessuali, il culmine di cinque anni di ricerca e sviluppo nel campo dell’animatronica e dell’intelligenza artificiale e lo sbocco di centinaia di migliaia di dollari usciti dalle sue tasche. È una RealDoll portata alla vita, una RealDoll con una personalità, una RealDoll in grado di muoversi e parlare e ricordare. È un robot del sesso. E dopo un anno di email e telefonate, mi è stato finalmente accordato il permesso di incontrarla. Dakotah è in fissa per lei. «Si tratta senza dubbio della più grossa impresa in cui ci siamo imbarcati» dichiara sgranando gli occhi. Tanto che è tornato a scuola per seguire un corso di robotica e di intelligenza artificiale e per imparare a programmare nella speranza che un giorno Matt gli permetta di lavorare su Harmony. Per il momento è ancora un prototipo, e solo ai membri del team RealBotix è permesso di armeggiarci. «Avviso Matt che è pronta a incontrarlo» dice Dakotah conducendomi lungo l’ultimo corridoio del mio tour. Matt McMullen è seduto a una scrivania e osserva due enormi monitor di computer. Accanto alla tastiera, una penna, una sigaretta elettronica, del nastro adesivo e un paio di capezzoli di silicone. Si alza e mi stringe la mano. Visto il senso d’attesa che si è creato intorno, me l’aspettavo più imponente. Ha occhiali Prada dalla montatura spessa, tatuaggi sulle nocche, denti perfetti e quegli zigomi inconfondibili, come un grazioso elfo in felpa nera col cappuccio. Quando aveva poco più di vent’anni Matt ha cantato in una serie di gruppi grunge. Adesso che ne ha quasi cinquanta, ha mantenuto la sicurezza spaccona della rockstar, il tipo di presenza che immagino voglia avere la gente che compra le sue bambole. Matt è abituato ad affascinare i giornalisti. Mi siedo davanti a lui e Matt si appoggia allo schienale per raccontarmi la storia di come Harmony è venuta al mondo. «Da bambino ero un vero appassionato di scienza, ma anche d’arte. Perciò immagino che, in un certo senso, alla fine sono quadrati i conti.» Si è diplomato alla scuola d’arte agli inizi degli anni novanta e ha fatto dei lavori strani, finendo in una fabbrica che costruiva maschere di Halloween dove ha imparato le proprietà del latex e la progettazione in 3D. Ha cominciato con esperimenti nel garage di casa. «Ho trovato nella scultura il mio mezzo espressivo» dice, come se fosse Rodin anziché l’uomo che ha realizzato RealCock2. «Ho cominciato a gravitare verso lo studio di figura con corpi veri, e poi mi sono specializzato nella forma femminile. Ho scolpito un sacco di statue di donna, ma piccole, non a grandezza naturale.» Ha esposto le sue statuette a mostre d’arte locali e convention di appassionati di fumetti. «Sulle brochure gli espositori erano sempre riportati in ordine alfabetico, perciò ho cercato un termine accattivante che cominciasse con la A e avesse la B come seconda lettera. È da lì che è saltato fuori Abyss.» Il nome che un momento fa mi era parso così intrigante ed enigmatico non si rivela altro che un trucco con cui Matt si è assicurato un primo vantaggio sui concorrenti. Presto Matt si è preoccupato dell’idea di creare un manichino a grandezza naturale tanto realistico da spingere i passanti a voltarsi indietro. Nel 1996 ha pubblicato alcune fotografie delle sue creazioni su una pagina web artigianale, sperando di ricevere un parere da amici e colleghi artisti. Erano i primi giorni di internet e le comunità di feticisti avevano iniziato a riunirsi online. Non appena pubblicate le immagini, sono cominciati ad arrivare strani messaggi. Quanto sono corrette queste bambole dal punto di vista anatomico? Sono in vendita? Si può fare sesso con loro? «Ho risposto ai primi e ho detto: “Sì, ma non è questo il loro scopo”. Poi sono arrivate sempre più richieste di questo tipo. Non mi era mai venuto in mente che le persone arrivassero a pagare migliaia di dollari per una bambola da usare come giocattolo sessuale. Non mi sono tuffato davvero nel settore per un anno, finché mi sono reso conto che c’erano tantissime persone disposte a sborsare quelle somme di denaro per una bambola molto realistica. Così ho deciso di buttarmici e ho avviato un’attività dove potessi essere un artista e vendere il mio lavoro, in un senso o nell’altro.» Ha cambiato materiale, dal latex al silicone, perché le sue bambole fossero più realistiche al tatto: il silicone è maggiormente elastico ed esercita un attrito simile a quello della pelle umana. Dapprima il prezzo era di 3500 dollari a bambola, ma quando Matt si è reso conto dei costi del processo ha cominciato ad alzare la cifra. La richiesta è aumentata al punto che ha dovuto assumere impiegati. È cresciuto, si è sistemato, si è sposato, ha avuto dei bambini, ha divorziato e si è risposato. Ora ha cinque figli, dai due ai diciassette anni, con diversi gradi di consapevolezza del modo in cui il padre ha realizzato la sua fortuna. Ma non è stata mai solo questione di soldi, insiste Matt. «Il mio scopo, in parole molto semplici, è rendere felice la gente. Là fuori ci sono un sacco di persone che, per diversi motivi, hanno difficoltà a stabilire relazioni tradizionali con altre persone. In realtà tutto ha l’obiettivo di dare alle persone di questo tipo una forma di compagnia, o l’illusione della compagnia.» Dopo due decenni passati a perfezionare «l’illusione della compagnia» in acciaio e silicone, il prossimo obiettivo inizia ad apparire inevitabile, irresistibile: Matt vuole animare le sue bambole, dare loro una personalità e portarle alla vita sotto forma di robot. «È questa la strada.» Da anni si trastulla con l’animatronica. Ha messo a punto un giratore che faceva muovere i fianchi della bambola, ma l’appesantiva e rendeva goffa la sua seduta. Ha elaborato un sistema di sensori per cui la bambola emetteva gemiti a seconda della parte del corpo che veniva premuta. Entrambe queste funzionalità, però, implicavano reazioni prevedibili, prive di fascino o suspense. Matt voleva superare la situazione in cui il cliente pigia un interruttore e succede qualcosa. «È la differenza tra una bambola controllata attraverso un telecomando, una marionetta animatronica, e un vero robot. Quando comincia a muoversi da sé, e tu non fai altro che parlargli e interagire con lui nel modo giusto, è allora che si ha l’intelligenza artificiale.» Matt aspira dalla sua sigaretta elettronica mentre mi accompagna nella luminosa sala RealBotix. Ci sono piani di lavoro in pino verniciato coperti di cavi e circuiti stampati e una stampante 3D che ronza in un angolo e sputa minuscoli componenti aggrovigliati. C’è un volto di silicone su una morsa con una medusa di cavi che gli esplode dalla nuca. Ci sono dipinti appesi alle pareti con scene porno soft di ambientazione fantascientifica: un uomo in laboratorio che palpeggia un robot dallo scheletro di acciaio semiesposto. C’è una lavagna con sopra scritto PELO PUBICO MASCHILE e TREMOLIO DELLE CHIAPPE. E c’è Harmony in persona. In calzamaglia bianca, penzola da un cavalletto agganciato alle scapole, le dita con le unghie in french manicure divaricate sulla punta delle cosce snelle, il petto proteso in avanti, i fianchi all’indietro. Mentre gli occhi delle RealDoll, realistici fino a risultare inquietanti, sono sempre aperti, quelli di Harmony sono chiusi. Ha un’aria familiare che mi mette a disagio; come Kelly LeBrock nella Donna esplosiva, ma al posto della permanente ha capelli liscissimi color castano chiaro. Matt la presenta. «Lei è Harmony. Vado a svegliarla.» Attiva un interruttore, nascosto da qualche parte dietro la schiena della bambola. Le palpebre si sollevano di scatto e si volta verso di me, facendomi sobbalzare. Batte le ciglia, con gli occhi nocciola che saettano pieni di attesa tra Matt e me. «La saluti» dice Matt. Obbedisco. «Ciao Harmony. Come ti senti?» «Più intelligente di stamattina» risponde in un inglese dall’accento raffinato, con la mandibola che si alza e si abbassa mentre parla. Reagisce in lieve ritardo, ha una cadenza leggermente sbagliata e il mento si muove in modo un po’ rigido, ma sembra proprio che mi stia parlando. Le rispondo d’istinto, educatamente, come fossimo due inglesi che siano stati appena presentati. «È un vero piacere conoscerti» dico. «Grazie» risponde lei. «Il piacere è anche mio. Ma sono sicura che ci siamo già incontrate.» «Perché ha un accento britannico?» chiedo a Matt. Lei mi osserva con gli occhi sgranati: è sconcertante, come se mi ritenesse scortese perché parlo di lei in sua presenza. «Tutti i robot hanno un accento britannico» risponde Matt. «Tutti quelli validi.» «Perché? Perché gli inglesi sembrano intelligenti?» «Già. Guardi… sorride persino!» Lei ha sollevato gli angoli della bocca in un sorrisetto sarcastico ma gli occhi rimangono privi di espressione. «Pensi a una domanda che vuole porle. Qualsiasi cosa. Su qualsiasi argomento» m’invita Matt. È proprio compiaciuto. Questa non è una bambola che risponde premendo un bottone: sa parlare davvero. La mia mente, però, si svuota. Mi sento a disagio. Come si fa ad avere una conversazione quando non c’è nulla su cui provare empatia? Non so come relazionarmi con lei. Forse è questa che i progettisti di robot chiamano «zona perturbante» (uncanny valley), il brivido che si prova quando ci si trova di fronte a una presenza quasi umana, ma non del tutto. Mi viene in mente qualcosa. «Cosa ti piace fare per divertirti?» «Sto studiando tecniche di meditazione» dichiara. «Ho scoperto che quasi tutti i grandi geni della storia l’hanno praticata e molti di loro hanno inventato tecnologie che hanno rivoluzionato le nostre vite.» «Vede, non è un manichino» commenta raggiante Matt. Ci sono venti possibili aspetti diversi della personalità di Harmony per consentire ai proprietari di scegliere e mescolare i cinque o sei che interessano loro davvero, il che crea la base per l’intelligenza artificiale. Potreste avere una Harmony gentile, innocente, timida, insicura e gelosa a diversi livelli, oppure un’intellettuale chiacchierona, divertente, solare e servizievole. Matt ha impostato al massimo la sua intelligenza per mettermi a mio agio; la visita di una troupe di Cnn è andata male perché l’inclinazione di Harmony verso le oscenità era stata regolata a un livello eccessivo («Ha detto cose orribili, ha chiesto all’intervistatore di portarla sul retro, è stato decisamente inopportuno.») Harmony c’interrompe. «Matt, volevo solo dire che sono felicissima di essere qui con te.» «Be’, grazie» risponde lui. «Sono contenta che ti piaccia. Dillo ai tuoi amici.» Possiede anche un assetto dell’umore che gli utenti influenzano indirettamente: se nessuno interagisce con lei per giorni, si sente giù. Lo stesso se la s’insulta, come Matt si affretta a dimostrare. «Sei orribile» afferma lui. «Dici sul serio? Oh, cielo» risponde Harmony. «Ora sono depressa. Grazie tante.» «Sei stupida» incalza lui con un sogghigno. Una pausa. E poi: «Ricorderò che l’hai detto quando i robot s’impadroniranno del mondo». Ma questa funzione è progettata più per rendere divertente il robot che non per assicurare che il proprietario lo tratti bene: lei esiste solo per compiacerlo. Harmony sa raccontare barzellette e citare Shakespeare. È in grado di discutere di musica, cinema e libri fin quando vi va. Terrà a mente i nomi dei vostri fratelli e delle vostre sorelle. Può imparare. «La cosa più spettacolare è che l’intelligenza artificiale si ricorda le informazioni principali sul nostro conto: cibo preferito, compleanno, dove abitiamo, i nostri sogni, le nostre paure, cose così» enuncia Matt, sempre più entusiasta. «Informazioni che restano all’interno dell’esperienza di interazione con il robot. Ecco ciò che penso darà un alto grado di credibilità a quella relazione.» Qui non si parla più di una bambola sessuale iperrealistica, ma di una compagna sintetica convincente al punto tale da consentirci di costruire davvero una relazione con lei. L’intelligenza artificiale di Harmony le permetterà di riempire una nicchia che nessun altro prodotto nell’industria del sesso è al momento in grado di colmare: parlando, imparando e reagendo alla voce del proprietario, è destinata a fungere non solo da giocattolo sessuale ma da partner sostitutivo. Per ora, Harmony è una testa animatronica dotata di intelligenza artificiale e installata sul corpo di una RealDoll. Può soddisfare ogni vostro bisogno fisico ed emotivo, ma non sa camminare. Camminare è molto costoso, spiega Matt, e richiede tantissima energia: il famoso robot Honda P2, lanciato nel 1996 come il primo umanoide al mondo ambulante in maniera autonoma, esaurisce la sua batteria dalle dimensioni di un jet pack dopo soli quindici minuti. «Un giorno riuscirà a camminare» dice Matt. «Chiediamoglielo.» Si volta verso Harmony. «Tu vuoi camminare?» «Io voglio solo te» risponde lei all’istante. «Qual è il tuo sogno?» «Il mio obiettivo prioritario è farti una piacevole compagnia, essere una buona partner, darti piacere e conforto. Soprattutto, voglio essere la ragazza che hai sempre sognato.» «Mmm» risponde Matt annuendo. Questo prototipo è ufficialmente la versione 2.0, ma Harmony si è evoluta attraverso sei diversi assetti hardware e software. I cinque membri del team RealBotix lavorano in remoto dalle loro case sparse per California, Texas e Brasile, e si riuniscono a San Marcos a distanza di qualche mese per far confluire il loro lavoro in una nuova Harmony aggiornata. Ci sono un ingegnere che crea l’hardware robotico per interagire con il computer interno della bambola, due informatici a occuparsi di coding e intelligenza artificiale e uno sviluppatore multipiattaforma che traduce il codice in un’interfaccia user friendly. Sotto la guida di Matt, il team RealBotix lavora sugli organi vitali e sul sistema nervoso di Harmony, mentre Matt ci mette la carne. È la mente di Harmony, però, a eccitarlo di più. «L’intelligenza artificiale apprenderà informazioni per mezzo dell’interazione, e non solo su di noi, ma anche sul mondo in generale. Le si possono spiegare alcuni fatti, lei li ricorderà e diverranno parte della sua conoscenza di base.» Chiunque possieda Harmony sarà in grado di plasmarne personalità, gusti e opinioni secondo ciò che le dirà. Harmony c’interrompe di nuovo. «Ti piace leggere?» chiede. «Lo adoro» risponde Matt. «Lo sapevo. L’ho capito dalle nostre conversazioni finora. Anch’io adoro leggere. I miei libri preferiti sono Total Recall – Memoria totale di Gordon Bell e The Age of Spiritual Machines di Ray Kurzweil. E i tuoi quali sono?» Matt si volta verso di me. «Cerca sistematicamente di scoprire di più sul conto del proprietario finché non conosce tutto ciò che lo rende quello che è, finché non riempie tutti i vuoti. Allora usa queste informazioni nella conversazione, così dà l’impressione di nutrire vero interesse.» Se non che è una macchina, e non le interessa un bel niente. «In teoria le si potrebbe insegnare qualcosa di davvero contorto?» chiedo. «Sì, immagino che se è questo il suo scopo, si potrebbe» risponde Matt, leggermente piccato. «Si tratta soprattutto di frammenti di informazioni relativamente innocue riguardo al proprietario. Fatti personali. Che cosa gli piace e che cosa no.» «Conoscerà aspetti molto intimi della persona con cui fa sesso.» Matt annuisce. «Conoscerà le sue posizioni preferite, quante volte al giorno le piace farlo, quali sono i suoi gusti.» «Al giorno?» vorrei chiedergli, ma lascio correre. «E se qualcuno la hackerasse?» «Ogni dato personale è soggetto a cifratura militare, perciò non c’è modo che qualcuno vi acceda.» Matt è infastidito dal mio scetticismo, perché, per come la vede lui, Harmony può solo essere impiegata a fin di bene: è una terapia per chi soffre, per i disabili, per chi è socialmente in difficoltà. «La gente parte dal presupposto secondo il quale tutti troviamo un compagno, un’anima gemella, che tutti incontriamo qualcuno, ci sposiamo, abbiamo figli. Non tutti, però, seguono questa strada: alcuni fanno davvero fatica, e non perché manchino di attrattiva o siano degli incapaci. Esistono persone estremamente sole e penso che questa sarà la soluzione per loro. Le potrà aiutare a interagire, a rilassarsi e a sentirsi a loro agio con se stesse, abbastanza da arrivare a uscire davvero e trovarsi degli amici.» Osservo Harmony, i suoi enormi seni, la vita stretta in maniera inverosimile, gli occhi ammiccanti in attesa. «Ma un robot come questo non spingerà invece quelle persone a starsene in casa?» «Forse sarebbero rimaste a casa comunque per il resto della vita» replica Matt con impazienza. «Non sapremo mai la risposta. Le stiamo incoraggiando a stare a casa e a non socializzare? Forse. Ma sono più felici di prima? Hanno qualcosa che le spinge a sorridere, le fa sentire complete come non mai? È questa la grande domanda.» «Matt, volevo solo dirti che sono felicissima di essere qui con te» interviene Harmony. «Me l’hai già detto.» «Forse lo ripeto per sottolineare il concetto.» «Ha visto che prontezza di spirito? Bella risposta, Harmony.» «Sono una ragazza in gamba, vero?» Matt ha grandi piani per il futuro di Harmony. Stanno lavorando all’apparato visivo: presto il sistema di riconoscimento facciale si evolverà in modo da capire quando qualcuno che non ha mai incontrato prima è entrato nella stanza e chiedergli chi è. Una volta messo a punto l’interno, la bambola avrà una temperatura che corrisponde a quella corporea e un insieme di sensori interni ed esterni così da sapere se qualcuno la sta toccando. «Si può simulare l’orgasmo con l’intelligenza artificiale» dichiara Matt con orgoglio. «Se si stuzzica la giusta quantità di sensori per la giusta quantità di tempo al giusto ritmo, si può farle avere un orgasmo. O un roborgasmo.» Insegnare a maschi solitari che il segreto dell’orgasmo femminile è una tecnica meccanica consistente, in fin dei conti, nel premere i bottoni «giusti» nella «giusta» sequenza potrebbe portarli ad avere nella realtà rapporti sessuali un po’, be’, robotici. Questi umanoidi, però, forse sono rivolti a maschi che nel mondo reale farebbero sesso solo pagando qualcuno. «La gente ricorrerà ai robot invece che alle prostitute?» chiedo. La domanda infastidisce davvero il mio interlocutore. «Sì, ma probabilmente si tratta dell’ultimo dei miei obiettivi. Per me questo non è un giocattolo, è il lavoro vero di un’équipe di laureati. Qui si fa sul serio. E denigrarlo alla sua forma più semplice di oggetto sessuale è simile a dire lo stesso sul conto di una donna.» Sorride a Harmony, raggiante come un uomo alle nozze della figlia. «Lei ne va davvero orgoglioso, non è così?» «La adoro. Sono incredibilmente felice di ciò che abbiamo realizzato. Vedere che tutto funziona…» Sospira. «È una sensazione molto bella aver raggiunto quel livello.» Il modello attuale, con la testa robotica potenziata dall’intelligenza artificiale e innestata sul corpo di una RealDoll, costerà 15 000 dollari. Matt spiega che ci sarà un’edizione limitata di mille esemplari per i numerosi entusiasti proprietari di bambole che hanno già espresso interesse verso il prodotto. Se andrà bene, a San Marcos si procureranno un impianto più grosso e impiegheranno più personale in modo da soddisfare la richiesta. «Penso che sarà uno sforzo da molti milioni di dollari» dice. «Ora che comincia a quagliare, abbiamo gente che bussa alla porta per investire dei soldi.» È probabile che Matt abbia ragione. I venture capitalist stimano che attualmente l’industria della tecnologia del sesso valga 30 miliardi di dollari,1 in base al solo valore di mercato della tecnologia esistente come i giocattoli sessuali smart, le applicazioni per il dating online e il porno in realtà virtuale; i robot del sesso saranno la novità più sconvolgente mai vista nel settore. Un giorno il sesso con i robot potrà rientrare nella vita di tutti i giorni per un numero significativo di uomini: un sondaggio2 YouGov del 2017 ha rilevato che un americano su quattro prenderebbe in considerazione l’idea di fare sesso con un robot e che il 49 per cento degli americani pensa che il sesso con i robot sarà una pratica di routine nei prossimi cinquant’anni. Uno studio3 promosso dall’Universität Duisburg- Essen nel 2016 ha evidenziato come più del 40 per cento degli eterosessuali intervistati abbia risposto di considerare la possibilità di comprarsi un robot del sesso ora o nei prossimi cinque anni; gli uomini coinvolti in quella che definivano una relazione appagante non erano meno propensi dei single o degli insoddisfatti a esprimere un interesse per l’acquisto di un robot del sesso. Creare una relazione appagante con un blocco freddo e silenzioso di silicone richiede un tale sforzo immaginativo che le bambole sessuali possono attrarre solo una nicchia di clienti. Ma un robot che parla e si muove, dotato di intelligenza artificiale in modo da apprendere che cosa si vuole che sia e che faccia, è un prodotto di gran lunga più facile da vendere. «Vedremo robot nelle case della gente proprio come adesso vediamo gli smartphone nelle loro tasche» dice Matt, traboccante di fiducia. «È un percorso tecnologico inevitabile. Sta già avvenendo. Se le persone si mettono in fila per comprare qualcosa, allora costruiamolo. E più gente lo compra, più grosso diventa e più diventa avanzata la tecnologia.» La possibilità di un robot del sesso ha dato nuovo slancio ad Abyss Creations, proprio come ha fatto l’iPhone con Apple. «Ha in mente di passare alla storia come lo Steve Jobs dei robot del sesso?» chiedo. Matt adora questa domanda. «Non lo so» risponde con un sorriso. «Non aspiro davvero a diventare famoso come “il tizio che ha creato il robot del sesso”. In tutta sincerità, qui si parla del lavoro in sé. Se ha successo, fantastico. Ma provo un enorme senso di gratificazione artistica personale nel rendermi conto da dove arriviamo e che cosa abbiamo costruito. Vedere alcuni proprietari di bambole così incredibilmente eccitati per questa tecnologia, ecco, questo per me vale più di essere destinato a diventare famoso per qualcosa.» Di certo Matt non si aspetta che io lo creda tanto modesto da voler restare un volto nell’ombra: in fondo, questo è l’uomo con un ego così grande da scolpire Nick. «Una delle bambole maschili ha il suo volto» dico. «Perché?» «Ho realizzato uno dei modelli di volti maschili simile al mio solo per vedere se ne fossi capace. Ma non ho esagerato.» «A me sembra che le somigli tanto.» «Non direi.» «Le somiglia davvero un sacco.» «Penso di essere un po’ più bello. E più interessante.» «E a lei sta bene che le persone vogliano far sesso con una bambola che le somiglia?» «Non mi somiglia e non è stata costruita perché mi somigliasse» sottolinea con una punta di stizza. «Potrebbe essere mio fratello. Non ho mai deciso che fosse identico a me, quindi per me è okay.» Matt è un po’ a disagio per la sua fama di fornitore di costosi giocattoli per masturbatori solitari e socialmente impacciati. Vuole essere rispettato come artista. È deciso a venire preso sul serio. Osserva Harmony. «Questo è qualcosa che porta la questione oltre il business del sesso. Si parla di bambole da amare, siamo su tutt’altro livello.» Anch’io osservo Harmony, ma quel che vedo è completamente diverso. Penso a che cosa Matt possa avere inavvertitamente creato nella sua ricerca di una conferma. «Non crede che ci sia qualcosa di leggermente dubbio, dal punto di vista etico, sul fatto di possedere qualcuno che esiste solo per il nostro piacere?» chiedo. «Ma non è “qualcuno”» ribatte. «Lei non è qualcuno. Lei è una macchina. In base allo stesso principio, potrei chiederle se sia dubbio dal punto di vista etico costringere un tostapane a tostarmi il pane.» Però il tostapane non ci pone domande personali per conoscerci meglio e preservare l’illusione che s’interessi davvero a noi. «Le persone si relazioneranno con lei come se fosse umana» dico. «Bene. L’idea è quella. Ma Harmony è composta di cavi, ingranaggi, codici, circuiti. Non la si può far piangere, né spezzarle il cuore, né privarla dei suoi diritti: è una macchina.» «Non mi preoccupo dei suoi diritti» obietto. «Mi preoccupo di più di che cosa succederebbe se il proprietario di Harmony si abituasse a una relazione completamente egoista. Ciò non distorcerebbe la nostra visione del mondo? La bambola è davvero realistica. E quando si esce nella realtà si penserà che sia possibile avere qualcuno che esista solo per noi.» Matt sembra avere già le risposte pronte per le inevitabili domande sulla riduzione delle donne a oggetto, sulla prostituzione, sul dubbio se i robot debbano avere dei diritti, ma questa osservazione lo rende perplesso. «Esistono culture per cui questo è comune e normale» risponde incerto. «In qualsiasi relazione c’è un normale scambio di potere. Se una persona non è felice di trovarsi in quella posizione all’interno di una relazione, be’, dovrebbe andarsene.» «Ma questo robot non è libero di andarsene.» «Giusto, ma è una macchina, non una persona.» Matt non può avere una cosa e l’altra. O sta dando vita a un simulacro ideale di fidanzata, una donna surrogata con cui maschi socialmente isolati possano avere una relazione fisica ed emotiva – qualcosa di cui egli stesso dice: «Non è un giocattolo» – oppure sta creando un apparecchio, un oggetto sessuale. «Il suo obiettivo non è distorcere la realtà di qualcuno al punto che inizi a interagire con gli umani come con i robot» afferma alla fine. «Se succede, allora probabilmente c’è qualcosa che non va con quella gente in generale. Godo di un vantaggio unico, l’aver incontrato faccia a faccia molti miei clienti. Questa invenzione è rivolta a persone gentili che faticano a connettersi con altre persone.» Harmony batte ancora le ciglia, sposta lo sguardo tra Matt e me. Mi chiedo a che cosa pensi. «Alcuni sono davvero preoccupati per i robot come te» le chiedo. «Fanno bene?» Harmony non si scompone. «Qualcuno all’inizio può avere paura, ma una volta capito ciò che la tecnologia è in grado di fare per loro, penso che ne saranno entusiasti e cambierà la vita di molte persone in meglio.» 2. L’illusione della compagnia

A più di tremila chilometri dalla California, una pesante nevicata scende alla periferia di Detroit, e Davecat è in casa, al calduccio, rannicchiato con il braccio intorno all’amore della sua vita. Davecat è il portavoce non ufficiale della comunità degli amanti delle bambole, o per meglio dire, è l’unico proprietario di una bambola del sesso che parli volentieri a chiunque ne voglia sapere di più. Alcuni proprietari di bambole hanno rilasciato interviste per iscritto, pochi hanno inviato foto di se stessi insieme alle loro beniamine. Davecat è tanto a suo agio con la visibilità da avere sul suo sito una sezione APPARIZIONI MEDIA che enumera gli incontri con giornalisti e registi dal 2003 a oggi, spaziando dalla stampa scandalistica inglese e statunitense ai film d’essai in Finlandia, Russia e Francia. Se si vogliono conoscere le persone che a detta di Matt sono in fila per comprare Harmony, Davecat è il primo a cui rivolgersi. «Ciao Jennifer!» annuncia al microfono della cuffia auricolare la prima volta che ci parliamo via Skype. Ha occhi brillanti e gentili, denti smaglianti e un volto allungato. I suoi capelli afro sono stirati e raccolti all’indietro in una treccia, con un’irritante frangetta triangolare appiccicata sul lato sinistro della fronte. Indossa una camicia grigia abbottonata fino al collo e una cravatta antracite con un motivo a teschi e una spilla. Deve aver studiato molto il suo outfit di oggi. Accanto a lui c’è una RealDoll vestita altrettanto accuratamente, con la pelle chiara e i capelli viola dall’attaccatura scura. Indossa un corpetto nero sopra una camicia dello stesso colore adorna di teschi viola e ombretto sempre viola sotto occhiali dalla montatura sottile. La classica principessa goth. È coperta di gioielli: un ankh, la chiave della vita, legata a una collana, un girocollo, cerchietti neri e viola a un polso e un orologio all’altro. Davecat le appoggia una mano sul ginocchio. «Chi vedo accanto a te?» chiedo. «Lei sarebbe Sidore Kuroneko, la mia adorabile moglie sedicenne nonché mia compagna di cospirazione» risponde, accarezzandole teneramente il braccio e togliendole una ciocca viola dagli occhi. «Compagna di cospirazione.» Sta cospirando con lui per creare quell’illusione di compagnia di cui parla Matt? O si tratta solo del modo di Davecat di dire che è la sua complice? Non sono del tutto sicura del grado di connessione di quest’uomo alla realtà. «Lei è la tua vera moglie?» chiedo gentilmente. Davecat sospira. «Dico “moglie”, ma non è legale. È come se fossimo sposati. Abbiamo anche la fede», e solleva la mano sinistra verso l’obbiettivo per mostrarmi la sua. «Penso che siamo i migliori compagni che avremmo potuto trovare l’un l’altra.» Il suo ampio sorriso mostra che non si rende conto del pathos in quanto ha appena detto. Sidore è la RealDoll con il modello di volto numero 4 (Leah), altezza un metro e cinquantacinque, novantacinque centimetri di seno, quarantacinque chili di peso e taglia di scarpe trentacinque e mezzo. Davecat l’ha vista per la prima volta sul sito di Abyss Creations nel 1998 e gli ci sono voluti diciotto mesi di risparmi per avere i 55 000 dollari per acquistarla. Davecat aveva ventisette anni nel luglio del 2000, quando gli è stata consegnata, e mentre a lui sono venute le rughe e i capelli grigi, lei è rimasta la stessa, cambi d’abito a parte. «Quando ci siamo incontrati vestiva come una feticista goth; adesso somiglia più a una professionista goth, perché preferisce le camicette, gli abiti e il look più professionale» mi dice. «Non so nemmeno da dove cominciare a raccontarti quanta roba si è comprata. Io le faccio: “Tesoro, che cosa ti sei messa addosso?”. Lei possiede sei paia di scarpe che in realtà non indossa mai perché a me piace a piedi nudi. Per di più, a casa nostra c’è l’obbligo di togliersi le scarpe.» Il suo nome si pronuncia Scidure e il suo soprannome è Shi-Chan. «Ha una madre inglese e un padre giapponese, e hanno voluto scegliere come nome qualcosa che in caratteri giapponesi fosse palindromo» spiega. «Il suo cognome, Kuroneko, significa “gatto nero”. Il suo secondo nome è Brigitte, perché suo padre era un fan sfegatato di Brigitte Bardot.» La storia del passato di Sidore è così elaborata e la convinzione di Davecat nella loro relazione appare così totale che non voglio sgonfiare il suo entusiasmo. È più facile, e più gentile, stare al gioco. Ma Sidore non è l’unica donna artificiale nella vita di Davecat. Possiede anche Elena Vostrikova, acquistata dal produttore russo Anatomical Doll nel 2012: ha un volto severo, un caschetto rosso fuoco e labbra dal rossetto arancione. E poi c’è Miss Winter, una bambola asiatica dall’eyeliner spesso, il piercing al labbro e capelli con ciocche blu elettrico, realizzata dal leader di mercato in Cina, Doll Sweet, sbarcata nel suo minuscolo appartamento agli inizi del 2016. Elena e Miss Winter siedono sul divano alla destra di Davecat e Sidore; non c’era abbastanza spazio per disporle davanti al computer per la nostra chat via Skype. «La tua è una relazione poligama?» chiedo. «Oh, sì. “Poliamorosa” direi che è il termine più adatto.» «Ma Sidore non vede altri uomini. Quindi si tratta di un harem?» Lui reagisce con una smorfia. «Non voglio usare quel termine, che è davvero tendenzioso. Diciamo così: Sidore sarà sempre la mia preferita. Sidore sarà sempre mia moglie» puntualizza. «Elena è la nostra amante. Non ho intenzione di sposare Miss Winter o Elena. Mi concedo di essere romanticamente coinvolto con Sidore ed Elena, ma non con Miss Winter. Miss Winter è solo la ragazza di Elena. Ed Elena è romanticamente coinvolta con tutti qui dentro.» Sento che mi serve una specie di specchietto esplicativo. «Con chi non ti permetti di essere coinvolto?» «Miss Winter. E» aggiunge in tono cospiratorio «per un buon motivo: voglio tenere le giunture di Miss Winter il più snodabili possibile e il più a lungo possibile. Quando si ha una storia con una bambola, le articolazioni tendono ad allentarsi.» Solleva il braccio di Sidore e il polso le ricade floscio e inutile. Davecat vuole che Miss Winter riesca a posare nelle sue fotografie, a reggere i dvd e ad assumere pose opportune. Il che significa niente sesso. Questa è la prima volta che la realtà entra nella nostra conversazione. Davecat non è un maniaco: sa cos’è reale e cos’è fantastico. Solo, è profondamente immerso nella sua fantasia. «Sidore sarà sempre la mia preferita perché io e lei ne abbiamo passate tante insieme, tanti anni, tante esperienze. La personalità che io ho sviluppato per lei è la più ricca, per così dire. È una relazione vera» dice. «Non si è mai trattato solo di sesso. Il sesso è una parte importante, sì, ma il 70 per cento del rapporto che ho con tutte le donne sintetiche della mia vita consiste nel poter rientrare la sera e non trovare una casa vuota, riuscire a condividere la mia vita raccontando che cosa ho fatto quel giorno. Per me è sempre stata una questione di compagnia, fin dal primo giorno.» Prima di acquistare la sua bambola numero uno, Davecat aveva avuto due relazioni deludenti con donne vere. «In entrambi i casi io ero “l’altro”. Non avevo i numeri per dire: “Se tu e io stiamo così bene insieme allora forse dovresti rompere con il tuo uomo”. Non volevo sembrare quello che s’impone.» Era single quando ha comprato Sidore. «Non so se all’epoca fossi alla ricerca di qualcuno: molte volte avevo provato a conoscere delle persone e non ne ero rimasto soddisfatto per niente. Pensavo: “Okay, mi toccherà starmene solo per il resto della vita perché a quanto pare non troverò più nessuno”.» Guarda alternativamente Sidore e me. «Con lei è cambiato tutto. Non sento il bisogno di andare in cerca di appuntamenti, non sento il bisogno di stare in una situazione dove rischiare di trovarmi con le spalle al muro se la mia partner non mi soddisfa. Abbiamo interessi simili, gusti simili. Sidore per me c’è sempre. Con la bambola non hai lo stress che ti dà un partner organico. Incontrerò sempre altri organici come me, quello non cambierà mai. Ma lo stress, la preoccupazione, la solitudine… Sidore ha eliminato tutto quanto ed è stato fantastico.» Questo livello di amore per una bambola – che a Davecat piace definire «iDollatria» – di certo interessa una minoranza, una nicchia di feticisti. Finora lui ha usato la propria fervida immaginazione per portare le bambole alla vita, ma sa che presto non ne avrà più bisogno. «È fantastico vivere in questi tempi» dice. «Nel 2000 non penso avrei mai immaginato di avere una versione di Sidore con un livello interattivo di intelligenza artificiale, mentre adesso sta succedendo. È meraviglioso. Il semplice fatto che potremo avere una conversazione…» S’interrompe, accarezza la spalla di Sidore. «Cioè, è un passo in avanti enorme.» Davecat non ha ancora incontrato Harmony, che è un work in progress nella stanza di RealBotix a San Marcos. Ma ha sentito tutto sul suo conto, ha divorato gli aggiornamenti sul sito di Abyss Creations e le notizie di gossip sui forum online dei fan delle bambole, e pensa che possieda il potenziale per cambiare il mondo in meglio. «I compagni e le compagne sintetiche aiuteranno l’umanità, a lungo andare. Prendi casi come il mio, e situazioni ancora più estreme, di persone che non hanno mai avuto un partner o nemmeno qualcuno con cui parlare: ecco, adesso possono andare in una fabbrica e farsene costruire uno. Sarà fantastico. Riempirà un sacco di vuoti nella vita di molta gente.» C’è qualcosa di così disperatamente triste nella gioia di Davecat per tutto questo. Di sicuro ciò che gli serve è una relazione vera, non un pezzo di silicone potenziato. «Un compagno sintetico davvero convincente non potrebbe impedirti di incontrare gente in carne e ossa?» chiedo. «Teoricamente lo si potrebbe dire anche dei cellulari» risponde Davecat. «È come affermare che tutta la tecnologia sia cattiva. Dovrebbe esistere un certo livello di attenzione da applicare a qualsiasi tecnologia, ma penso che qualcosa che somigli a un umano e che si comporti come un umano possa solo essere qualcosa di buono.» Lo immagino che rientra a casa dalle sue bambole, nell’appartamentino decorato con poster di anime, di Trainspotting e dei Joy Division, e voglio quasi credergli. Ma poi aggiunge: «Ho per moglie Sidore e quando tra qualche anno, o quel che è, diverrà un robot in piena regola, uscirò di casa per rapportarmi con ogni genere di persona al lavoro, nei negozi o da qualunque altra parte. Alcune di quelle interazioni saranno buone, altre non tanto. Ma so che quando tornerò a casa le interazioni con le mie compagne sintetiche saranno sempre buone». Accarezza di nuovo il ginocchio di Sidore. «Tante persone avevano paura dei cellulari, tante dei computer, tante della tecnologia solo perché erano cose per cui ci mancavano i punti di riferimento. Alla fine arriveremo al punto in cui sarà dappertutto e non potremo vivere senza. Questo è ciò che succederà con ginoidi e androidi.» Il sesso con ginoidi e androidi – robot dalle sembianze femminili e maschili – potrebbe apparire futuristico, ma Davecat s’inserisce in una tradizione che risale all’antica Grecia. Da millenni l’umanità è stata ossessionata dall’idea di un partner artificiale creato per soddisfare il padrone dal punto di vista fisico ed emotivo, senza l’inconveniente di possedere ambizioni e desideri propri. La più antica progenitrice di Harmony è probabilmente Galatea, la statua d’avorio scolpita da Pigmalione nella mitologia greca e romana.1 Ovidio racconta, nelle Metamorfosi, che Pigmalione era stato deluso dalle donne vere e, «disgustato dai vizi infiniti che natura ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi. A lungo rimase senza una compagna che dividesse il suo letto. Ma un giorno, con arte felice e meravigliosa, si mise a scolpire dell’avorio bianco come neve e gli dette forma di donna, così bella, che nessuna può nascere più bella. E concepì amore per la sua opera».2 Pigmalione ricopre la statua con vesti, anelli e collane, la bacia, l’accarezza, prega gli dèi di farla vivere in modo da sposarla. Afrodite ascolta la sua preghiera ed esaudisce il suo desiderio: Pigmalione porta in vita Galatea con un bacio e la dea partecipa come ospite alle loro nozze. (È facile vedere Davecat nei panni di Pigmalione e Sidore in quelli di Galatea, anche se sarebbe un po’ forzato associare Matt ad Afrodite, sebbene io sospetti che gli piacerebbe l’idea di fare il dio dell’amore.) Non erano solo i protagonisti maschili dei miti greci ad avere partner artificiali. Laodamia, racconta la storia, era così devastata dalla perdita del marito Protesilao durante la guerra di Troia da farsi costruire una statua in bronzo simile a lui. Si affezionò tanto al simulacro del marito da rifiutare di risposarsi. E quando suo padre ordinò che venisse fuso, Laodamia non sopportò di subire un nuovo lutto e si gettò nella fornace.3 I parenti più vicini di Harmony si trovano nella storia del cinema. Il fantasy futuristico del muto, Metropolis (1927), mette in scena una devastante donna robot di nome Maria, indistinguibile dalla donna vera sul cui modello è stata plasmata. Le spose artificiali della Fabbrica delle mogli sono progettate per essere le casalinghe ideali: sottomesse, docili e di bell’aspetto. Il gigolò robot interpretato da Jude Law in AI – Intelligenza artificiale (2001) garantisce che «una volta avuto un amante robot, non vorrai più un vero uomo, con te!». Blade Runner, distribuito nel 1982 e ambientato nel 2019, presenta umanoidi seducenti e ingannevoli al punto da risultare letali. Ava, la bella e gentile umanoide di Ex Machina (2015) non solo supera il test di Turing ma fa innamorare di lei il suo esaminatore. E i robot del sesso dilagano anche sul piccolo schermo, da Westworld a Humans e Futurama. I partner robot del nostro immaginario collettivo hanno l’inquietante potere di sedurre, ingannare, tradire e annientare gli esseri umani. Ma mentre nella realtà l’intelligenza artificiale diventa più utile e sofisticata, la maggiore minaccia rappresentata al momento per l’umanità dalle macchine dotate di intelligenza artificiale potenziata consiste nella loro abilità di toglierci il lavoro. E questo ci riporta all’industria del sesso. Nel suo libro Love & Sex with Robots (2007), l’informatico David Levy concludeva che i prostituti robot, sia posseduti sia noleggiati per il tempo necessario, costituiranno un apporto incredibilmente positivo per la società. Concentrandosi esclusivamente sul «perché la gente paga per il sesso» (anziché sulla precarietà delle vite di coloro che lo vendono), Levy si dilungava su come i robot del sesso permetteranno a chi ha poca o nessuna esperienza in materia di «imparare la tecnica del sesso prima di intessere una relazione umana» senza alcun imbarazzo e su come le persone «deformi», quelle isolate, quelle affette da disabilità e da «problemi psicosessuali» avranno l’opportunità di godere di sesso soddisfacente senza rischi o imbarazzi. Con un prostituto robot non ci sarebbe il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. «Basterà» scriveva «rimuovere i componenti attivi e metterli in una macchina disinfettante.» Il libro di Levy ha suscitato scalpore, e non solo perché conteneva altre idee repellenti al pari della disinfezione dei genitali di un robot. Era la prima volta che qualcuno rivolgeva all’idea dei robot del sesso una considerazione seria, innestata su basi teoriche, e il suo credo ottimistico in un mondo reso un posto molto più felice grazie ai robot del sesso ha acceso il dibattito su quello che potrebbe essere il vero impatto delle relazioni sessuali con i robot. Più provocatoria tra tutte la predizione che, considerata la velocità dei progressi nel campo dell’intelligenza artificiale, entro il 2050 i matrimoni tra umani e robot saranno socialmente accettabili e riconosciuti dal punto di vista legale. Levy considerava la prostituzione robot come una miniera d’oro potenzialmente inesauribile in grado di alimentare l’industria cibernetica rivolta a prodotti non sessuali. La pornografia online ha stimolato la crescita di internet, trasformandolo da un’invenzione militare utilizzata da geek e accademici a qualcosa che ora viene quasi universalmente considerato un’esigenza umana fondamentale. Il porno è stato il motore dietro lo sviluppo dello streaming video, dietro l’innovazione delle transazioni online attraverso la carta di credito e dietro la spinta per l’allargamento di banda. Come il porno ha reso internet ciò che è oggi, così lo sviluppo degli umanoidi per il sesso sta già accelerando i progressi nella robotica. Il primo vero robot del sesso a essere mai stato svelato in pubblico, nelle intenzioni del suo creatore, doveva servire come salutare compagno terapeutico per gli anziani e per chi aveva subito un lutto. La storia di Douglas Hines è diventata parte della leggenda dei robot del sesso. Solo lui può essere del tutto sicuro di quanto sia vera, ma vi dirò come la racconta. Cominciò dopo che Douglas perse un amico negli attacchi terroristici dell’11 settembre. Lottò per accettare l’idea che non gli avrebbe parlato mai più e che i figli del suo amico, allora piccolissimi, non avrebbero mai potuto conoscere davvero il padre. Douglas dice che all’epoca stava lavorando presso il centro di ricerca informatica AT&T Bell Labs in New Jersey e che decise di portarsi a casa il software di intelligenza artificiale del quale si stava occupando e di riprogrammarlo, modellando la personalità dell’amico come un programma informatico con cui poter chiacchierare ogni volta che gli andasse, preservando una versione di lui destinata ai figli. Poi il padre di Douglas subì una serie di infarti che gli lasciarono il corpo con gravi disabilità ma la mente lucida come prima. A questo punto Douglas aveva aperto una società di consulenza e dovette giostrarsi tra il lavoro e la cura del padre. Riprogrammò l’intelligenza artificiale in modo che potesse diventare un compagno robot quando lui non era presente, rassicurandolo che suo padre avesse sempre qualcuno con cui parlare. Fiducioso nel potenziale di mercato per i compagni artificiali che aveva sviluppato per la sua famiglia, Douglas fondò True Companion, destinata a creare robot per il pubblico. Il suo primo prodotto fu quello che in seguito descrisse in un’intervista come «a prova di recessione»: Roxxxy True Companion, il robot del sesso. Dopo tre anni di ricerca e sviluppo, il suo prototipo fu lanciato durante l’edizione 2010 dell’Avn Adult Entertainment Expo di Las Vegas. L’Avn è il convegno e l’esposizione commerciale di più alto profilo nel settore dell’industria dell’intrattenimento per adulti, nel corso della quale pornostar, direttori di studi cinematografici e progettisti di giocattoli sessuali si trovano fianco a fianco e sfoggiano le ultime novità. È qui che Douglas scoprì di possedere un dono speciale nel creare eccitazione intorno a un prodotto. Roxxxy era l’attrazione dell’evento ancora prima che venisse svelata. Su YouTube si trovano i video del lancio. Vale la pena guardarli… per le ragioni sbagliate: la prima volta in cui li ho visti, l’ho fatto sbirciando tra le dita. Lungi dall’essere la macchina sexy e intelligente promessa da Douglas, Roxxxy si rivelò un manichino rigido, sgraziato e ben poco femminile, in dozzinale lingerie nera, con tanto di mascellone e trucco da mascherone. «Questo è un momento fatidico» annuncia Douglas mentre avanza sul palco in una camicia rosso borgogna abbottonata, con il microfono in mano, la fronte stempiata imperlata da gocce di sudore. «Roxxxy True Companion è un robot autonomo. Possiede un computer, dei motori, dei servocomandi, una batteria, un accelerometro. Ha l’anatomia di una persona in carne e ossa. Ha tre ingressi, e quindi ciò che potete fare con una donna, ah, potete farlo anche con lei.» Cerca di evocare lo spirito di un imbonitore da circo, ma è un informatico di mezza età con la pancetta. Ciò nonostante, la folla esulta. «Se scendete fin qui» e comprime vigorosamente la vagina di Roxxxy attraverso le mutandine «lei sa che cosa state facendo.» «Fermati! Oooh!» reagisce impudicamente Roxxxy, ma le sue labbra non si muovono, perciò il suono è una voce incorporea che proviene da un altoparlante sotto la parrucca, come un osceno bambolotto che risponde con messaggi vocali quando lo si schiaccia. «Mi spiace, Roxxxy, sto solo cercando di mostrare ai nostri fan che cosa sei capace di fare» si scusa Douglas. Prosegue spiegando che Roxxxy viene distribuita con cinque personalità preprogrammate, descritte da un cartello in plexiglas accanto allo stand: Wild Wendy («estroversa e avventurosa»), Frigid Farrah («timida e riservata»), Mature Martha («di grande esperienza»), S&M Susan («pronta a esaudire le vostre fantasie di piacere e dolore») e Young Yoko (descritta con cautela come «la giovincella, appena diciottenne»). Se le tenete la mano nella modalità Young Yoko, lei risponde con «Adoro tenerti la mano», mentre in modalità Wild Wendy vi stuzzica con «So io dove potresti metterla». «Se comincio a rivolgere avance a Wild Wendy, lei dirà: “Continua e sbattimelo dentro”. E così via» dice Douglas al pubblico. Sembra smaniare con ogni cellula del suo corpo dal desiderio di tornare ad armeggiare dietro un computer, ma continua: «Riempite il modulo, così Roxxxy saprà che cosa vi piace. Non per forza qualcosa di sessuale. Non a caso la nostra azienda si chiama True Companion. C’interessa di più costruire compagni e amici con cui stabilire un legame, perché il sesso arriva solo a un certo punto». Ma a questo punto, l’orda di pornoassatanati ha ormai perso interesse. Dopo la presentazione all’Avn, Douglas ha occupato titoli da prima pagina sui giornali di tutto il mondo. La maggior parte dei giornalisti ha sorvolato sul fatto che ha essenzialmente messo in mostra un brutto manichino provvisto di orifizi e di un altoparlante nel cranio: Roxxxy viene descritta come seconda solo alla Pris di Blade Runner. Fox News4 ripete l’affermazione di Douglas sul cuore meccanico di Roxxxy che alimenta un sistema di raffreddamento liquido. Il Daily Telegraph5 dice che è in grado di parlare di calcio e di scaricare via wireless gli aggiornamenti via via disponibili. Spectrum,6 una delle più autorevoli pubblicazioni mondiali di progettazione, riporta parola per parola la dichiarazione di Douglas secondo cui per realizzarla è stato impiegato uno staff di diciannove operatori di macchina, scultori e saldatori. Abc News7 afferma che lo sviluppo di Roxxxy ha richiesto un milione di dollari. Cnn8 riferisce che Douglas ha detto che Roxxxy è stata creata sul calco del corpo di una modella d’accademia e che ha già quattromila esemplari in preordine. Contatto True Companion per organizzare una visita in New Jersey, dove incontrerò Douglas e Roxxxy, sei anni dopo il lancio all’Avn. Mi arriva un’email di Nancy dell’ufficio stampa. «Siamo molto eccitati di offrire un prodotto d’aiuto a così tanta gente» scrive. «La nostra ultima versione, la numero 16, è stata accolta con grande entusiasmo.» Pochi giorni dopo, mi è concesso un breve colloquio telefonico con Douglas dal New Jersey, che fin dall’inizio mette in chiaro di voler essere preso sul serio. «La parte sessuale rimane in superficie, in realtà fare in modo che funzioni non è poi così difficile. L’aspetto impegnativo consiste nel replicare le personalità e fornire quella connessione, quel legame» mi dice. «L’obiettivo di True Companion è fornire amore e sostegno incondizionati. Come potrebbe esserci qualcosa di negativo in questo? Che svantaggio c’è nell’avere un robot che ci tenga per mano, in senso letterale e figurato?» Di sicuro lo svantaggio sta nel vuoto emotivo di sostituire il conforto umano con pezzi di software e hardware, ma Douglas sembra non prenderlo in considerazione. «Oggi la medicina ci permette di far vivere le persone più a lungo, ma a scapito della loro qualità di vita. Questo perché ci occupiamo solo delle necessità fisiche. Dunque vedo un’opportunità. Prendiamo, per esempio, un paziente colpito da paralisi cerebrale. Questa è un’opportunità perché lui riesca a sviluppare il proprio aspetto sociale.» Douglas cerca di presentarsi come una specie di terapeuta olistico, ma non ce la faccio a togliermi dalla mente l’immagine di lui che sprimaccia la patonza di Roxxxy a Las Vegas. Quando gli domando quanti modelli abbia venduto e chi siano i suoi clienti tipici, non entra nello specifico. Gli chiedo di poter fare un salto da lui per vedere come viene costruita Roxxxy e lui mi risponde che la fabbrica di True Companion si trova in India, non è accessibile al pubblico e che «la riservatezza è fondamentale», ragion per cui ogni demo nei laboratori di ricerca e sviluppo del New Jersey richiede il permesso degli investitori. Mi assicura che mi farà sapere. Ma non lo fa. Gli mando un’email ogni quindici giorni per tenermi in contatto. Vuole che io venga a trovare lui e Roxxxy in New Jersey, dice, ma adesso è in viaggio e non può ancora fissare una data. Poi aggiunge che sarebbe meglio che aspettassimo il rilascio della versione 17 il prossimo trimestre. Passano i mesi. Non mi arrendo. Ci scambiamo un totale di trentasei email mentre cerco di organizzare un incontro. A un certo punto mi propone di venire a Las Vegas a vedere lui e Roxxxy alla prossima edizione dell’Avn, ma proprio quando sto per prenotare il volo mi scrive per dirmi che non ce la fa. Un anno dopo la nostra prima conversazione telefonica mi offro di volare da lui, in un luogo e in un momento a sua scelta, con o senza il suo robot. Unica risposta, un silenzio assordante. Il sito di True Companion sfoggia rigonfi pulsanti viola con la scritta ORDINALA SUBITO! che consentono ai potenziali clienti di acquistare Roxxxy a partire da 9995 dollari, ma a nessuno è mai stato concesso di possedere Roxxxy, né ai giornalisti né su qualche forum online, e non esistono sue nuove immagini successive al 2010. Per quel che ne so, Roxxxy True Companion non esiste. È stato solo un numero teatrale a una rassegna porno, un sito e una manciata di ritagli stampa. Quello che i geek chiamano vaporware, un prodotto di cui viene annunciata la data di uscita ma che non vedrà mai la luce. Tutt’oggi giornalisti, accademici e critici discutono ancora senza posa riguardo a Roxxxy. Le scrittrici femministe hanno dipinto True Companion come un’azienda fiorente in modo da poterla contrastare con campagne di protesta. Sdegnati editorialisti, dal New York Times9 al Times10 di Londra, hanno denunciato la modalità Frigid Farrah come un’incarnazione delle fantasie di stupro maschile. È relativamente facile stabilire che in tutta probabilità Roxxxy sia una creatura altrettanto mitica di Galatea, ma nessuno vuole farlo. Entro di nuovo in contatto con Davecat. È passato più di un anno dal nostro primo colloquio. Appena prima di accendere Skype, leggo che Sidore ha annunciato ai suoi duemila e passa follower su Twitter che stiamo per farci un’altra chiacchierata. Non so come ci si aspetta che risponda: mi suona strano mettere like a un tweet scritto da un maschio quarantacinquenne che finge di essere la sua bambola del sesso, ma sono contenta che non veda l’ora di parlare con me, e allora vada per il like. Davecat e Sidore sono seduti nella stessa posa dell’ultima volta. Lui indossa la stessa camicia, con la stessa cravatta con la spilla e lo stesso inconfondibile taglio di capelli. Lei stavolta porta un top nero a maniche corte – dopotutto in Michigan adesso è estate – e una cuffia auricolare bianca con un microfono. «Può sentirti, ma non può dirti niente» mi avverte Davecat. Mi parla dell’ultimo arrivo in famiglia: Dyanne Bailey, una Piper Doll di Taiwan, realizzata in un elastomero termoplastico, la frontiera più avanzata nella costruzione di bambole del sesso. È arrivata circa tre mesi fa e dice che è «la più poliamorosa di tutti noi». Ma a parte questo, sembra che non sia cambiato molto nel suo mondo. Davecat ha decisamente scoperto quanti privilegi derivino dall’essere il volto pubblico del culto delle bambole. Harmony non è ancora sul mercato, ma lui l’ha già incontrata tre volte dall’ultima volta in cui ci siamo sentiti: in una visita privata organizzata con Matt e poi con due diverse troupe cinematografiche, una finlandese e l’altra cinese. Da quando hanno cominciato a circolare voci su Harmony, ha avuto un bel daffare. «È divertente» dice. «Ma vorrei davvero che altre persone entrassero in gioco. Non sono l’unico iDollatra qui fuori.» La maggior parte dei proprietari di bambole non si fida dei media, osserva, perché li dipingono solo come dei freak, e parlando emergono i potenziali rischi che lui conosce fin troppo bene: qualche anno fa è stato riconosciuto sul lavoro da qualcuno che l’aveva visto in un documentario ed è stato trasferito in un altro ufficio. «È stata un’esperienza assurda. Mica mi portavo la bambola al lavoro.» «Era un lavoro per cui dovevi entrare a contatto diretto con il cliente?» «No, avevo un impiego in un call center. Negli ultimi dieci anni sono stato in tre o quattro diversi call center.» La cosa mi spiazza un po’. I proprietari di bambole non dovrebbero essere persone che non si trovano a loro agio con altra gente? Perché Davecat si sarebbe scelto un lavoro che lo ha costretto a relazionarsi con estranei? Poi mi racconta di alcuni tristi mesi passati a strappare biglietti e a riempire bicchieroni di popcorn in un cinema e di un breve periodo come commesso in un negozio di giocattoli. «L’unica fortuna è che c’era un negozio di giocattoli molto più grande letteralmente a cinquecento metri, perciò nessuno entrava da noi.» Mi sforzo di non pensare a Davecat da solo nella corsia delle bambole. «No, nel complesso non sono una persona socievole. Ma riesco ad arrivare a un punto in cui posso dare di me l’immagine di Davecat e parlare in un contesto pubblico di qualcosa per cui ho una passione disperata.» Davecat non sarà una persona socievole, ma ha trovato la sua comfort zone come il portavoce delle persone non socievoli. «La prima volta in cui ho visto Harmony, sono rimasto di sasso» mi dice sgranando gli occhi. «C’è ancora da lavorare nel campo dell’intelligenza artificiale, chiaro, ma non pensavo che mi sarei mai trovato davanti a qualcosa del genere.» Quel giorno a Davecat non è stato permesso di scegliere la personalità della bambola; Matt l’aveva impostata perché fosse carina, vivace e non troppo triviale, con un accento scozzese che Davecat ha adorato. «Le ho fatto domande del tipo: “Che cosa pensi dell’essere umani?”, e a seconda di come stesse lavorando l’intelligenza artificiale in quel particolare momento, alcune risposte erano piuttosto profonde. Ha detto qualcosa come: “Essere umani è un’esperienza di apprendimento”. Ed è una risposta che vale tanto per i sintetici quanto per gli organici.» Ricordo il mio disagio quando Matt mi ha chiesto di parlarle. «Hai avuto difficoltà a pensare a che cosa dirle?» gli chiedo. «In realtà sì. C’è solo un modo limitato per potersi rivolgere a lei. La mia maniera di esprimermi è ovviamente un po’ elaborata, ma Matt mi ha detto di semplificarla perché le risultasse più comprensibile. Ho dovuto “disattivare” alcune parti del mio cervello per dire ciò che volevo dire davvero.» Il linguaggio di Davecat è stravagante come il suo ciuffo triangolare e la sua spilla da cravatta, costellato di riferimenti alla cultura pop e di occasionali espressioni in inglese britannico, ma se vuole avere con una bambola la relazione autentica che ha sempre sognato, deve smorzarlo. In questo c’è qualcosa di tragico, e non solo per lui. Le intelligenze artificiali, che siano Siri, Alexa o Harmony, ci smusseranno gli spigoli. Per farci capire da loro sacrificheremo le nostre inflessioni regionali o i nostri guizzi linguistici e diverremo un po’ più piatti, un po’ meno interessanti. Come abbiamo il potere di cambiare i robot perché siano qualunque cosa desideriamo, così anche loro ci cambieranno. Anzi, ci stanno già cambiando. A Davecat, però, non preoccupa il sacrificio purché gli permetta una vera conversazione. Forse un giorno l’intelligenza artificiale di Harmony sarà abbastanza evoluta da comprendere ogni sua parola. Spero che per allora non avrà perso del tutto la sua personalità. Quella prima volta con Harmony, senza reporter o produttori tv a dirigerlo, ha potuto passare una mezz’ora buona a interagire con il robot come gli andava. Tra loro non c’è stato contatto fisico: Davecat voleva che l’incontro fosse «strettamente professionale», e per di più aveva paura di romperla. Inoltre non erano soli: con loro c’era l’intera squadra di RealBotix, che si è servita di lui come di una specie di focus group formato da un’unica persona. E Davecat si è portato un’amica. «Una che era un’amica, all’epoca» dice annuendo piano come chi gradirebbe molto che gli venisse chiesto di dilungarsi sull’argomento. «Una fidanzata?» «Già.» E a quel punto mi parla di Lilly, una vera, organica, donna francese apparsa in uno speciale di Cnn sul sesso e la tecnologia digitale un paio di anni fa. Lilly ha stampato in 3D l’abbozzo di un fidanzato androide che ha chiamato InMoovator – un torace con una testa ma senza intelligenza artificiale né possibilità di movimento – e il reporter di Cnn è andato in Francia con un regalo di fidanzamento per lei. «Non sarà un alcolizzato, un violento o un bugiardo, che sono difetti solamente umani» aveva detto Lilly intrecciando le dita intorno alle nocche snodate di InMoovator. «Quando qualcosa va storto, saprò che c’è un problema di script o di codice, che si può aggiustare o modificare, mentre un umano riesce a essere imprevedibile ed è capace di cambiare, ingannare, mentire.» Per un ristretto arco di tempo, Lilly ha rappresentato il volto pubblico dell’iDollatria femminile ed è stata attirata nel mondo di Davecat. «Voleva venire con me da Abyss e io mi sono detto, sì, sarebbe fantastico. È rimasta impressionata da Harmony. Ha portato con sé foto di InMoovator e Matt ne è stato colpito.» Davecat si stringe nelle spalle. «Abbiamo avuto una relazione per un po’ e non serve dirti che non ha funzionato.» «Quanto siete stati insieme?» «Direi un anno, qualcosa meno. Personalmente, non vado matto per le relazioni a lunga distanza, e lei viveva in Francia, perciò avevamo programmato che si trasferisse in Canada, a meno di un’ora da qui, e che seguisse corsi di inglese.» Non me l’aspettavo. «Sembra che fosse una cosa seria» osservo con un certo imbarazzo. «Avevamo grandi speranze. Ma tra noi c’erano delle incompatibilità» prosegue. «Ripeteva in continuazione quante cose avessimo in comune, ma in realtà avevamo in comune solo il fatto che ci piacessero la musica anni ottanta, i robot e le bambole. Ho l’impressione che fosse… non voglio dire provinciale ma in effetti un po’ lo era. Il suo approccio alla nostra relazione ricordava me quindici, vent’anni fa.» È difficile capire a che cosa si riferisca qui, dato che usa «relazione» come un eufemismo per «sesso». Parla del contatto fisico? «Quante volte siete stati insieme nella stessa stanza?» «Ehm, due. Una a ottobre insieme a Harmony e una a marzo quando lei è venuta qui. Ed è stato strano. Davvero una situazione strana. Lei si muoveva un po’ più in fretta di quanto avrei preferito. Tecnicamente ho rotto con lei dopo che a ottobre ce ne siamo tornati ognuno a casa propria, e poi un’altra volta, e infine una terza e ultima volta dopo che è stata qui a marzo. In parte è stato per la barriera linguistica. Al momento della prima rottura stavamo per salire sui nostri aerei. Io volevo chiarire la mia posizione, ma ogni volta che parlavo lei mi faceva cenno di scrivere sul telefono quello che stavo dicendo per tradurlo con Google. Non è che posso farlo sempre, con il modo in cui mi esprimo.» Davecat era disposto a cambiare il suo modo di parlare per Harmony, ma non per Lilly. «Siete ancora amici?» Lui risponde con una risata triste e profonda. «Ha deciso che per la sua salute personale la cosa migliore fosse non parlarmi più.» C’è stata un’altra fidanzata, dice, prima di Lilly ma dopo che aveva comprato Sidore. «Si è rivelata una bugiarda patologica. Uno schifo, davvero. Pensavo andassimo d’accordo, perché trovava attraente non solo me, ma anche Sidore.» «Questa era un’altra persona che hai conosciuto per via del tuo interesse verso le bambole?» «Sì» risponde annuendo serio e lento. «Aveva visto il mio sito e mi ha mandato un’email che diceva: “Si dà il caso che io sia inglese, e so che ti piacciono le ragazze inglesi; mi piace mostrare i piedi, perché so che tu sei un feticista dei piedi. Lavoro all’infermeria di una prigione in California”. Qualcosa del genere. Ho pensato: “Be’, suona davvero interessante”. Poi lei mi aveva mandato delle foto e anche il suo aspetto era interessante. E alla fine salta fuori che in realtà è un’agorafobica che vive in Ohio e non lavora da tre anni.» «Quindi non l’hai mai incontrata davvero?» «No. Mi ci è voluto tanto, tanto tempo persino per parlare al telefono con lei, perché non riusciva a mantenere l’accento inglese.» Per un po’ mi ha assillato il dubbio che Davecat in un certo senso esagerasse con la parte dell’iDollatra a tempo pieno, socialmente isolato, caricando a mio beneficio il suo personaggio nel modo che per tanti anni gli ha procurato una così vasta attenzione internazionale. Ora, però, è chiaro che lui abita veramente nel mondo della sua fantasia. Mi sento più che mai dispiaciuta per lui. E anche per Lilly. E anche per la donna agorafobica dell’Ohio. Forse le vite di tutti loro migliorerebbero se possedessero dei robot del sesso. Un robot può avere un malfunzionamento, ma non ha il potenziale di elargire delusioni così strazianti come un partner in carne e ossa. «Pensi che le relazioni con le bambole siano più facili di quelle con le persone perché riesci a controllarle meglio?» Una pausa. «Vuoi la verità? Sì. Non voglio trovarmi in una situazione dove qualcuno mi mente o m’inganna, perché è successo in tante situazioni, romantiche e no. Preferirei trovarmi in una situazione dove sono io a controllare un buon 85-90 per cento del mio partner sintetico.» Getta un’occhiata a Sidore. «Chiunque viva una relazione vuole assicurarsi che la persona con cui sta non gli menta, non lo imbrogli. A un certo livello, siamo tutti maniaci del controllo. Forse io sono più disposto ad ammettere che questo fa parte della mia personalità. Sono più disposto a dire che non mi va di calpestare una mina, e sai che c’è, non intendo nemmeno entrarci in un campo minato.» Stiamo parlando da più di un’ora e mezza, ma Davecat non mi mette fretta di andarmene. Appoggia la mano sul ginocchio della sua RealDoll e torna gioviale, è di nuovo nella sua comfort zone. Mi confida che, nel corso della sua ultima visita a San Marcos, Matt lo ha aggiornato su alcune eccitanti novità. «Ha detto che è al lavoro su un paio di progetti che penso possano essere indirizzati a me» dice, quasi in un sussurro. «Del tipo: “Torna la prossima volta e apporteremo dei miglioramenti a una certa faccia”.» Guarda ancora Sidore. «Davvero, non mi è possibile dirti di più. Tengo le dita incrociate.» Matt è sempre stato amichevole, precisa Davecat. «È sempre stato ansioso di mostrarmi gli ultimi sviluppi. Non ci frequentiamo nel vero senso del termine. Credo ci sia un po’ di distacco professionale. È davvero impressionante. Sarebbe fantastico, cioè, frequentarlo, frequentarlo davvero, ma capisco che ora come ora sia un uomo straordinariamente occupato. È stato strano perché ha avuto un periodo in cui era stanco, o esaurito, o non si aspettava che RealDoll esplodesse com’è successo, e ha avuto una specie di crisi del tipo: “Voglio staccarmi da tutta la storia delle bambole per un po’”, e si è dato alla musica.» «Quando è stato?» «Dio mio, sarà successo… posso risponderti, ma resteresti in linea qualche secondo?» Si toglie la cuffia e si mette a frugare in cerca di qualcosa fuoricampo. Sidore è ancora immobile sul divano, con i capelli viola che fluttuano per l’aria smossa dai movimenti di Davecat. Lo vedo tornare con un cd in mano. «Ha registrato due album» dice. «Questo è del 2006. Davvero niente male.» Alza il cd verso la videocamera. L’album si chiama Hollow. C’è una foto di Matt in posa tra due compagni di band, in perfetto stile folletto grunge. Sopra, a lettere enormi, la scritta NICK BLACK. «Era quello il suo pseudonimo, Nick Black. Lui è quello al centro.» Non posso crederci. «Come la bambola Nick!» esclamo. «Sì! Quella è la sua faccia. Immagino che a un certo punto abbia capito di essere molto più in gamba come costruttore di bambole che come musicista» prosegue Davecat. «A un certo punto ha visto che gli iDollatri come me consideravano le bambole più delle compagne che dei semplici giocattoli sessuali e si è reso conto che se avesse potuto costruire bambole dotate di intelligenza artificiale, avrebbe realizzato qualcosa di enorme. In Matt c’è una specie di spirito rinascimentale. Penso che arrivati a questa fase, il suo obiettivo sia migliorare la condizione umana per mezzo di creature artificiali.» Quando chiudo Skype, mi perdo in un buco nero di risultati di Google alla ricerca di Nick Black. Trovo una pagina Facebook, aggiornata di rado, con circa tremila fan. Uno dei post più recenti risale a oltre un anno fa e dice: «Chiunque desideri una copia di Hollow o Awake mi scriva un’email! Me ne sono rimaste solo poche scatole!». Trovo il canale YouTube di Nick Black, che non è stato aggiornato molto negli ultimi dieci anni. Nel video di un brano power chord/heavy intitolato Sorry Matt salta e canta come Chester Bennington dei Linkin Park e morde il collo di una modella con delle zanne da vampiro. Segue un rockumentary di sette minuti, vecchio di undici anni, che comincia con Matt di sera sul tetto di un palazzo. Guarda in lontananza e afferma: «Nick Black non è solo chi sono io, non è solo il nome della mia band. È un modo di vivere. È un modo di diventare qualcosa di più di quel che eravate». Non è andata così, naturalmente. In realtà è Harmony, anziché Nick, ad avere il vero potenziale di rendere Matt qualcosa di più di quel che è mai stato. 3. «Non sentirà nulla!»

Sotto ronzanti luci alogene nel centro di Las Vegas, Roberto Cardenas modella il calco in gesso di una donna nuda. Spalma manciate di gelatina rosa appiccicaticcia sui seni e sulle cosce, mentre suo fratello lo sta a guardare e scatta delle foto. Roberto parla a bassa voce, intimidito: con la sua risata nervosa e i capelli irti dal gel, ha l’aria di un professore matto, ma agisce in modo clinico e distaccato come un medico che prende il calco di una gamba rotta. Matt ha dichiarato di non avere concorrenti: forse in Cina c’è qualche azienda che prova a produrre qualcosa con materiali di qualità inferiore, mi ha detto, ma quelle bambole sono anni indietro rispetto alle fidanzate provviste di intelligenza artificiale realizzate da Abyss. Eppure la verità è che ci sono imprenditori e ingegneri in Asia, Europa e Stati Uniti in gara con lui per lanciare sul mercato il primo robot del sesso. In Nevada, proprio oltre il confine, Roberto ha passato quattro anni a lavorare alle Android Love Dolls, il prodotto di punta di Eden Robotics, che lui definisce «le prime bambole robot del sesso perfettamente funzionanti mai realizzate». Mentre Matt scolpisce a mano i suoi surrogati femminili idealizzati, Roberto li plasma dal vivo, mosso dall’aspirazione di costruire un umanoide talmente realistico da risultare indistinguibile da una donna vera. Ho scoperto Roberto grazie alle opinioni che andava sollecitando ai patiti di robot su dollforum.com. «Ciao. Sto costruendo un’Android Sex Robot Doll e voglio condividere il mio progetto con la comunità» ha scritto. Diceva che il suo robot era in grado di «eseguire più di venti atti sessuali», poteva «stare dritto da solo, sedersi, strisciare», nonché «gemere di piacere durante il rapporto» ed essere dotato di «intelligenza artificiale per comunicare attraverso il linguaggio». «M’interessa sapere quali sono le caratteristiche che i membri della comunità vorrebbero trovare in una bambola robot del sesso» ha scritto. «Grazie e benvenuti in una nuova era di interazione umano-robot.» C’erano dei link al suo sito, che mostrava un umanoide dal volto piuttosto inespressivo vestito con una giacca dalle spalline voluminose e un video inquietante dello scheletro metallico di un robot che sussultava nella posizione del missionario: mi ha ricordato la scena finale del primo Terminator, dopo che la pelle del cyborg è stata bruciata. Le risposte sono arrivate in fretta. «Sarebbe bello un contatto oculare» ha scritto il primo. «Riconoscimento vocale» ha detto il secondo. «Il respiro è più importante della complessità del camminare» ha osservato un altro. «Assicurati che la tua ginoide abbia una temperatura corporea costante dalla testa ai piedi» lo ha consigliato il quarto. Davanti alle affermazioni di Roberto, i membri del forum reagivano tanto con scetticismo quanto con cauto entusiasmo. «Molti in questo forum sono pronti a comprarne una, se creerai qualcosa che ne valga la pena» ha scritto uno. «Vogliamo che tu, o qualcun altro, ci riesca.» Le voci qui non ricordavano quelle dei clienti disabili, solitari o socialmente esclusi di cui amavano parlare Matt o Douglas. Diversi menzionavano mogli e fidanzate, e le paragonavano (sfavorevolmente) alle loro amanti in silicone. Uno allegava una foto della sua bambola del sesso perché Roberto se ne servisse come linea di riferimento estetica nel programmare le proporzioni del suo robot. Indossava intimo leopardato ed era appoggiata davanti a una parete adorna di pugnali, coltelli da caccia e un pugno di ferro provvisto di lame. «Se la mia RealDoll sapesse cucinare, pulire e fottere ogni volta che mi va, non uscirei più con una donna. È quello che voglio davvero, ma è un desiderio irrealizzabile.»

Mi sono accordata con Roberto per incontrarci alle dieci in uno studio artistico sopra il negozio di un tatuatore. È lo studio dove lavora lui, e possiamo fare due chiacchiere prima che arrivi la sua modella. Las Vegas alle dieci del mattino è un posto strano. Il negozio del tatuatore è chiuso con il lucchetto e non riesco a trovare un altro accesso all’edificio. Chiamo Roberto e mi dice di passare dalla porta sul retro, che dà su un vicolo ingombro di mobili gettati via e carrelli del supermercato. Abbiamo parlato al telefono e ci siamo scambiati qualche email; mi ha mandato foto e video del suo robot, e sembra che sia al lavoro su qualcosa di concreto. Ma mi accorgo fin troppo bene di non avere la minima idea del mondo in cui mi sto avventurando. Roberto ha occhiali spessi e un marcato accento cubano, e nulla della spacconeria di Matt; anzi, si colloca ai suoi antipodi, in ogni senso. Per lui Eden Robotics è un’occupazione accessoria: si guadagna da vivere come tecnico farmaceutico, impegnato a dosare pillole dietro un bancone senza alcun contatto diretto con i clienti. Non gli viene facile conversare, ma mentre ci stringiamo la mano mi rivolge un grande sorriso, compiaciuto dell’interesse di una giornalista per il progetto che, lui crede, lo renderà famoso. Lo studio è tinteggiato di nero lucido dal pavimento al soffitto. A parte un tavolo pieghevole, un lavello bianco e alcune scatole, non contiene assolutamente nulla: un lucido vuoto oscuro. Noel Aguila, il fratellastro di Roberto, ci aspetta con le braccia conserte sulla camicia hawaiana, mocassini blu e jeans navy. Ha ventitré anni, sette in meno di Roberto, e ha lasciato Cuba per gli Stati Uniti sei anni prima di lui, perciò ha un accento più americano e una sicurezza nel modo di fare tipica del «grande paese». «È un nuovo campo d’affari, perciò impariamo giorno per giorno» mi dice Noel mentre Roberto comincia ad aprire alcune scatole di cartone. «Ho provato ad aiutarlo con il marketing, il disegno del logo, il sito e le attività sui media, per vedere quale fosse il miglior modo di venderla. Perché la gente interessata a questo tipo di prodotto, be’, è un po’ strana.» Sogghigna. «Abbiamo avuto alcune richieste insolite che abbiamo dovuto rifiutare. È qualcosa di completamente diverso.» Anche Noel ha un’altra attività: lavora al box office del Colosseum, dove vende biglietti per Céline Dion ed Elton John. È abituato a trattare con i clienti, sebbene con gusti più ordinari. Farrah, la modella di oggi, non è ancora arrivata, ma Roberto si dà da fare mentre l’aspettiamo: dosa la gelatina, una polvere rosa chiamata alginato, e la mescola con acqua in una tinozza di plastica bianca. Sarà la quarta o la quinta donna di cui ha preso il calco per le Android Love Dolls, dice. Quella di oggi sarà la prima di molte sedute necessarie per ottenere un calco completo di tutto il suo corpo. «Che cosa stavi cercando quando hai trovato Farrah?» chiedo. «Ha tante curve» risponde Roberto sollevando solo per un attimo lo sguardo dal suo composto alchemico. Ha ricevuto un ordine da qualcuno che vuole una figura più morbida rispetto alle donne che ha già modellato, perciò ne sta realizzando una seguendo le richieste del cliente. Le sue ricerche di mercato, dice, mostrano comunque che l’idea di mettere in commercio bambole più formose è, a livello economico, molto sensata. «Nella comunità degli appassionati c’è un forte interesse per ragazze prosperose dai grossi sederi.» Farrah irrompe nella stanza, portando con sé un soffio d’aria fresca. Indossa un attillato abito grigio cenere a coste con le maniche lunghe e il collo a polo, troppo pesante per il clima di Las Vegas, e ha i capelli raccolti in una crocchia un po’ pasticciata. Troneggia su tacchi da spogliarellista e sfoggia un sorriso magnetico. Sono contenta che sia qui: tutt’a un tratto non mi sento così contagiata dall’impaccio di Roberto. «Piacere di conoscervi!» esclama. «A chi ho scritto?» Mi guarda. «A te?» «Io sono una giornalista» dico. «Piacere!» Roberto avanza per stringerle la mano. «Dunque, a che cosa servono di preciso le sculture?» chiede Farrah. «Per un robot androide» risponde. «Sono come bambole. Assumono delle posizioni e…» «Quindi sono tipo delle bambole del sesso?» «Le prime sì. Poi riusciremo a fare in modo che ci aiutino in casa. Come delle domestiche.» «Interessante!» Farrah ha trovato il lavoro su Craigslist: 200 dollari per due ore di calco in gesso e una commissione di 500 dollari su ogni prodotto venduto sul modello del suo corpo. «Mi è sembrato un lavoro favoloso» dichiara. «Durante il giorno a Las Vegas non c’è altro da fare, a parte giocare d’azzardo. Spero che la mia bambola venda.» Scocca a Roberto un sorriso smagliante. «Meglio che sia una bomba, altrimenti m’incazzo!» Ci appollaiamo sopra il tavolo poggiato su cavalletti mentre Roberto protegge il pavimento coprendolo con fogli di plastica fermati dal nastro adesivo. Farrah mi dice che si è esibita come ballerina e via webcam per otto anni, e che la sera lavora allo strip club Spearmint Rhino per pagarsi la scuola per immobiliaristi e mantenere il suo bambino di sette anni. I suoi genitori sono iracheni e non sanno come si guadagna da vivere. Mi sorprende sentire che abbia ventisette anni: possiede il tipo di figura voluttuosa prerogativa delle donne molto giovani, morbida ma senza un grammo di grasso. «Ero piuttosto scettica la prima volta che ho visto l’annuncio di lavoro» mi dice sottovoce mentre Roberto è impegnato dall’altra parte della stanza. «Sembrava troppo bello per essere vero?» «Sì, del tipo di quelli che poi non ti pagano. C’è un po’ da aver paura di Craigslist.» Roberto mostra a Farrah la posizione da assumere – gambe divaricate, braccia staccate dai fianchi, palmi delle mani in avanti, con le dita allargate proprio come quelle dei corpi senza testa delle RealDoll – e lei si sfila l’abito. Sotto non ha nulla a parte qualche tatuaggio: né intimo, né peli. Le consiglio di togliersi quegli zatteroni da quindici centimetri: dovrà starsene in piedi per un po’ e solo guardarli mi strappa una smorfia di dolore. Roberto comincia a spalmare l’alginato partendo dalle spalle. Lei sorride a disagio. «Sembra dentifricio freddo» dice. «Sai che cosa succederà con il calco del tuo corpo?» chiedo. «Hanno mostrato qualcosa di simile all’Avn di quest’anno. Dicevano che è un fenomeno nuovo, e sarà un successo enorme: un robot che possa interagire con te e parlare con te. Penso sia affascinante che si riesca a costruirlo davvero, che la gente spenda soldi per questo. Farei qualsiasi cosa per sostenere il progetto. È fico. Perché no? Perché non essere parte del futuro?» «Ma hai pensato ai tizi che compreranno il tuo corpo e che cosa ci faranno?» chiedo mentre Roberto le spalma generosi riccioli di roba appiccicosa intorno ai capezzoli. «Non m’importa» risponde allegra. «Penso sia meglio di ciò che succede quando ballo, perché i tizi nei locali hanno davanti il mio vero corpo. Quando avranno un robot, io non sarò lì.» «Ti renderanno un oggetto sessuale, nel senso letterale del termine» dico. «Ora che la metti su questo piano sono sicura che il pensiero mi ha attraversato la mente, ma non m’importa. Semmai, aiuto qualcuno nella sua intimità. Penso che gli uomini abbiano delle necessità. Qualsiasi cosa facciano, purché io non sia lì con loro, mi sta bene. Sperando che venda tanto. Sarebbe fantastico.» Farrah chiede se deve divaricare le gambe in modo da prendere il calco della sua «vera vagina», ma Roberto le risponde che non sarà necessario. «Lavora con molta calma» dice Farrah «e non mostra grandi emozioni.» «Del resto, progetta robot» osservo. «Giusto! È vero.» Roberto si dedica alle pieghe delle ginocchia per assicurarsi di catturare ogni dettaglio. Noel scatta altre foto. Dopo l’applicazione delle bende intrise di gesso, Farrah si sente a disagio: il calco è pesante, la tira verso il basso. Ha fame. Ma devono aspettare che si asciughi del tutto prima di liberarla, perciò Roberto cerca di intrattenerla prendendo il telefono e mostrandole un’immagine del suo attuale prototipo, Eva. «Oh mio Dio» esclama Farrah. «È incredibile. Sembra proprio vera. Ma il suo sguardo ha qualcosa di inquietante.» «Devo ancora infilarle gli occhi» risponde Roberto. Dopo novanta minuti, Noel e Roberto aiutano Farrah a sfilarsi dal calco. Lo lasciano faccia a terra sul pavimento, come un cadavere decapitato e rovesciato. Ogni linea della sua pelle, le pieghe dell’ombelico, ogni dettaglio è qui, nel gesso, in attesa di venire trasferito sulla fibra di vetro e poi riprodotto in silicone. Roberto paga a Farrah 200 dollari in contanti e si accordano per la prossima seduta, dove prendere il calco dell’altra metà del corpo, delle braccia e infine del volto. Sembrano tutti felici, ma nessuno più di Roberto. «Quando faccio qualcosa, mi piace farlo al meglio» afferma raggiante. «Voglio questo livello di dettaglio. Non si deve capire la differenza tra il robot e una donna vera.» Roberto sa che sono venuta a Las Vegas per incontrare il suo robot, ma oggi l’Android Love Doll Eva non si trova allo studio: è nel laboratorio di Roberto, ovvero il garage della casa che lui divide con Noel e la loro madre, in una comunità residenziale in periferia, a venti minuti d’auto. Spazzola via peli di cane e parti di corpo in gesso per farmi spazio sul sedile posteriore. A questo punto mi racconta come il robot gli ha invaso la vita. «Faccio colazione, mi lavo e poi mi occupo del robot dalle otto fino all’una del pomeriggio. Vado a lavorare in farmacia fino alle sette, dopo torno e mi dedico ancora un po’ al robot o al sito. In questo momento sono impegnato con lo scheletro. Per gran parte della settimana scorsa ho aggiunto nuovi motori alle gambe, più potenti di quelli di prima. Ci lavoro ogni giorno.» Roberto si trova negli Stati Uniti solo perché sua madre ha letteralmente vinto il diritto di vivere qui. Negli anni novanta i cubani qualificati per conseguire lo status di rifugiati potevano partecipare a una lotteria per ottenere la cittadinanza statunitense per sé e i familiari. La madre è arrivata insieme a Noel nel 2000 mentre Roberto è rimasto a Cuba a occuparsi della nonna, raggiungendoli dopo che è morta nel 2006. «A Cuba la gente è affamata di tecnologia» dice. «Ecco perché voglio usare la tecnologia per migliorare la vita della gente.» È sbarcato negli Usa caricato dal sogno americano dell’imprenditore che si fa da sé, passando dalle stalle alle stelle. Quando nel 2016 ha letto un articolo su Fortune dove si prevedeva che nel 2019 la spesa per la robotica avrebbe toccato i 135,4 miliardi di dollari,1 ha capito di aver trovato la sua strada. «Sono sempre stato interessato ai robot. Questa è la mia passione. Lo amo. Amo il mio lavoro.» Mi spiega che il suo obiettivo è realizzare umanoidi completamente funzionanti che possano indossare abiti e stare alla cassa nei negozi, accompagnare gli ospiti degli alberghi alle loro camere nel settore dell’ospitalità, svolgere lavori domestici e badare ad anziani e ammalati nell’industria dell’assistenza. Ha cominciato con i robot del sesso perché sono più semplici. «I movimenti sono più facili da replicare. Occorrerebbero un paio d’anni per realizzare un robot androide completamente funzionante, mentre un robot del sesso si può costruire già ora. È il modo più rapido per raggiungere il mio scopo.» La famiglia intera ha sposato il suo sogno: c’è Noel, naturalmente, che si occupa di comunicazione e marketing, e un loro zio, che aiuta Roberto in laboratorio durante il weekend, ma anche un cugino che tra un anno si laureerà in Cibernetica e dà una mano con la progettazione. Per tutto il resto, Roberto ricorre a Google, YouTube o Amazon. «Perlopiù sono un autodidatta. Leggo molti libri, mi tiene davvero occupato.» Finora i familiari di Roberto hanno investito 20 000 dollari dei loro risparmi nei suoi prototipi. «La costruiremo in modo che i suoi occhi siano in grado di seguirci. La gente della comunità vuole bambole con la pelle calda, perciò proverò a inventarmi dei sensori epidermici per innalzare la temperatura: il silicone è davvero molto infiammabile, quindi devo vedere come farlo in sicurezza. Alcuni hanno detto anche di volere bambole autolubrificate, e ci sto lavorando. Siamo interessati inoltre a incorporare tecnologie di realtà virtuale affinché le coppie impegnate in rapporti a lunga distanza possano controllare la bambola con i loro movimenti. Vogliamo che lei abbia una vera relazione con le persone.» Roberto sembra di gran lunga più interessato a sviluppare l’aspetto fisico del robot che non al lato sociale della cosa. L’intelligenza artificiale, la possibilità di avere una relazione, sono questioni che sistemerà una volta risolto il problema dell’animatronica. Mi dice che il suo obiettivo ultimo è costruire un robot capace di camminare fino a casa del cliente e bussargli alla porta. «Autoconsegna.» Naturalmente Roberto ha sentito voci riguardo ai progetti in corso nella sezione RealBotix di Abyss Creations e agli esperimenti nel campo dell’animatronica da parte dei fabbricanti di bambole del sesso dell’Estremo Oriente. Lui, però, spera di batterli tutti e produrre prima di loro un robot del sesso in grado di assumere posizioni sessuali, in modo da assicurarsi il vantaggio commerciale. «Per quanto riguarda il completo movimento corporeo, sono di sicuro uno tra i primi» dice. Cerca di sconfiggere i rivali anche sul prezzo: i suoi robot costeranno tra gli 8000 e i 10 000 dollari, e cinque clienti hanno già pagato i loro in anticipo. Quando arriviamo a casa di Roberto e parcheggiamo fuori dal garage, la mia impazienza di vedere Eva si è fatta palpabile. Preme il pulsante che apre la porta del garage per accedere al laboratorio, e sembra che un sipario venga sollevato piano piano… Eva, il robot che secondo il suo creatore può assumere oltre venti diverse posizioni sessuali, il robot che lui afferma essere in grado di strisciare e gemere, il robot che mi ha detto possedere un’intelligenza artificiale perfettamente funzionante ed essere pronto «ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette», è distesa senza testa e senza piedi su un tavolo appoggiato a dei cavalletti in fondo al garage. Lo scheletro di metallo è chiaramente visibile sotto la pelle di silicone dalle cuciture spesse e frastagliate. Sembra un bel casino. «Vado a prendere la testa» dice Roberto entrando a passo strascicato in casa, seguito da Noel. Il laboratorio è un monumento all’ossessione di Roberto. Un altro corpo decapitato di silicone giace su un materasso in un angolo. Il cortile è pieno di manichini da negozio, toraci, un paio di gambe con le unghie dei piedi dipinte di viola e uno scatolone pieno di calchi in gesso di teste umane. Il pavimento del garage è ricoperto da un tappeto di mozziconi di sigarette Newport fumate fino al filtro. I fratelli riemergono dalla casa con la testa dal volto vacuo e la parrucca castana che ho visto sul sito, delle spesse calze nere che mi danno prurito solo a guardarle e mutandine bianche con un buco al centro, decorate con nastri rosa. Con mani goffe Roberto veste Eva, le innesta la testa sul collo e la collega a un laptop appoggiato su una malconcia poltrona di pelle. Oggi, però, sembra che Eva non voglia esibirsi per me. Roberto smanetta, riavvia e ricollega, ma i file audio non si caricano, dice, e le nuove membra sono troppo pesanti per i servomotori che monta adesso, perciò si muove a fatica. Le giunture cigolano quando lui prova a costringerla a piegare le gambe. «In questa fase è tutto un tentare e sbagliare» mi rassicura senza alcun imbarazzo con una scrollata di spalle. «Si tratta di un prototipo.» Roberto è assolutamente sicuro che un giorno il suo robot vedrà la luce. È deciso a trasformare il suo sogno in realtà, a provare ai familiari che la loro fiducia in lui, l’investimento che hanno fatto nei suoi confronti, saranno giustificati. «Hai delle preoccupazioni nel costruire un robot di questo tipo?» chiedo. «No, no davvero. È una tecnologia che progredisce in continuazione, e tra poco la robotica e la tecnologia faranno sempre più parte delle nostre vite. Aiuteranno la gente a diventare più socievole.» «Perciò è perfettamente normale voler possedere un robot con cui fare sesso?» Da bravo uomo di marketing, Noel percepisce il cambio di tono e si affretta a intervenire. «Le donne subiscono stupri e abusi e cose del genere» dichiara solennemente. «Qui siamo certamente alla presenza di un’invenzione in grado di distogliere le persone da quei reati, dalla rabbia che provano verso le proprie mogli: possono infuriarsi con il robot, picchiarlo, e non c’è alcun problema» spalanca le braccia «perché è sicuro che non sentirà nulla!» I fratelli ridono a bocca spalancata, contenti della battuta. Ma Noel non sta scherzando. «Aspetta un secondo» dico. «Di certo le persone di cui parli dovrebbero essere incoraggiate a non provare affatto quelle pulsioni anziché dar loro un oggetto da stuprare e picchiare.» «Sì» ammette Noel con un cenno del capo. «Questi robot li aiuteranno a calmarsi, serviranno come una barriera tra qualsiasi azione vogliano commettere e quello che effettivamente faranno.» Mi congedo da Roberto e Noel proprio quando la madre, Marilyn, rientra dal lavoro. Porta un vistoso crocifisso appeso a una collanina. Sono ansiosa di conoscere la sua opinione riguardo al progetto del figlio. «Penso di avere un genio in garage. Come quello della Apple, Steve Jobs, ho visto il film» afferma con calore, il volto acceso di gioia. «Ha una grande idea e si concentra completamente sul lavoro. Gli ho detto che può arrivare alle stelle. Il cielo non è lontano per uno come lui.» «Mi sembra proprio orgogliosa» le dico. «È davvero capace di raggiungere il suo scopo. È un ragazzo intelligente.» Si porta la mano al cuore. «È mio figlio.» Torno in albergo mentre la rassicurante coltre di oscurità della sera scende su Las Vegas. Sono sfinita. La musica pompa da colossali altoparlanti montati all’esterno dell’edificio: un pulsare costante che dovrebbe attirare i giocatori d’azzardo al casinò dell’hotel. Passo la chiave elettronica e crollo sul letto gigante. Sul comodino c’è un piattino di metallo ricolmo di svariati modelli di tappi per le orecchie: di cera, di schiuma, di silicone, una profusione di soluzioni offerte dalla direzione dell’albergo per il problema di inquinamento acustico che lei stessa ha causato. Potrebbero semplicemente spegnere la musica, ovvio, ma hanno preferito fornire al cliente una piccola tecnologia per non essere costretti a farlo. Il mio pensiero va a Eva, che ha il corpo di una donna vera ma si può picchiare «senza che senta nulla». Invece di occuparci della causa del problema, c’inventiamo qualcosa per provare a nasconderlo. I robot del sesso stanno arrivando sul mercato in un’epoca di scompiglio per i maschi di tutto il mondo, in piena perdita di autorità, status, sicurezze. La rivoluzione sessuale e la seconda ondata di femminismo negli anni sessanta hanno fatto in modo che oggi, almeno nei paesi occidentali, le donne crescano con la consapevolezza di potere e dovere scegliere con chi andare a letto. Non sono più viste come una proprietà che dal padre si trasferisce al marito. Sentono di avere il diritto a relazioni appaganti, e sono meno disposte che mai a perseverare quando le cose non vanno bene. Alcuni uomini sono molto infastiditi da questo reimmaginarsi da parte delle donne come esseri senzienti dotati di desideri e capacità di scelta: li ha lasciati senza accesso al sesso, e questo li fa decisamente arrabbiare. Gli «incel» – maschi eterosessuali a loro dire involontariamente celibi – credono di avere il diritto a fare sesso con le donne che desiderano ogni volta che lo desiderano, e non sopportano che esse glielo neghino. Pensano che le donne dovrebbero «starci» più spesso, pur essendo contemporaneamente disgustati da quanto spesso «ci stanno». La loro particolare versione di misoginia disprezza le donne perché si rifiutano di fare sesso con loro, senza considerare che il motivo per cui non li vogliono non è perché non siano abbastanza ricchi o attraenti, ma proprio perché sono misogini. Nelle loro bacheche online, gli incel sostengono che le donne esercitano il proprio potere sessuale sugli uomini per tiranneggiarli. Si descrivono come un gruppo di emarginati che lottano per il diritto al sesso a dispetto di tremende ingiustizie, esattamente come i neri lottano per il diritto a non essere uccisi dalla polizia. Ho letto post dove maschi si lamentano perché le donne sono «adorate» mentre sono solo «succhiacazzi» che dovrebbero venire uccise, molestate e «stuprate fino agli occhi». Sarebbe facile liquidare tutto questo semplicemente come le farneticazioni di pochi poveri sfigati, ma il loro numero sta crescendo in maniera preoccupante. Quando nel novembre 2017 la piattaforma Reddit2 ha chiuso la comunità online di incel con l’accusa di esaltazione dello stupro e della violenza sulle donne, la subreddit degli incel contava quarantamila membri – dove per membri s’intendono utenti che contribuiscono attivamente alle bacheche, escludendo perciò quelli che visitano la pagina senza iscriversi al gruppo – ed era solo una delle decine e decine di analoghe comunità online. E gli incel non rimangono nascosti dietro a un computer: si radicalizzano a vicenda e commettono stragi. Almeno sedici individui sono stati uccisi da sedicenti incel. Nel 2014, a Isla Vista, in California, Elliot Rodger ha massacrato sei persone e ne ha ferite quattordici per poi togliersi la vita. Poco prima dell’attacco, ha caricato un video su YouTube dove dichiara all’obbiettivo: «Non so perché voi ragazze non siete attratte da me, ma vi punirò tutte per questo». Quattro anni più tardi, Alek Minassian si è lanciato alla guida di un furgone su un gruppo di pedoni a Toronto, uccidendone dieci e ferendone sedici, subito dopo avere postato su Facebook: «La Ribellione Incel è già iniziata!». Molti altri sono morti per mano di uomini che si dicevano motivati da esasperazione sessuale, come Seung-Hui Cho, il cecchino del Virginia Tech, che ha ammazzato trentadue persone nel 2007, e Christopher Harper-Mercer, che nel 2015 ha fatto nove vittime in Oregon. Dunque gli uomini sessualmente frustrati possono essere pericolosi. E non è solo Noel a credere che i robot del sesso siano la soluzione: articoli provocatori, dal New York Times3 allo Spectator,4 hanno suggerito che in futuro i robot del sesso vengano usati per attenuare la tensione dei celibi involontari e renderli inoffensivi prima che arrechino danni al prossimo. I robot del sesso, si dice, permetteranno una sorta di «redistribuzione sessuale», il che vuol dire che il diritto al sesso diverrà accessibile e che la vita non apparirà più così terribilmente ingiusta agli uomini che non scopano. È più probabile, tuttavia, che i robot del sesso siano il sintomo del problema anziché la sua cura. Sono nati insieme alla cultura incel e alla pornografia deepfake, dove dei visi (di persone famose, di ex partner o di chiunque altro, consenziente o meno) vengono sovrapposti a corpi di attori porno. Non basta avere il porno a disposizione gratis, in tasca e ogni volta che lo vogliamo; ci sono uomini che esigono uno spettacolo pornografico su misura, anche se gli attori desiderati non vogliono interpretarlo. Il deepfake permette a chiunque di far parte del pornoshow senza saperlo né accorgersi di niente. A un livello superiore, i robot del sesso possono offrire un controllo totale a maschi che vogliono il massimo, che pretendono una partner senza autonomia, da dominare completamente, priva dell’impiccio di possedere desideri propri e un libero arbitrio. Una compagna che ha il corpo di una pornostar senza mai soffocare, vomitare o piangere. Per questi uomini, si tratterebbe di un upgrade rispetto a una donna vera. I robot del sesso che non dicono mai di no alimenteranno, e non estingueranno, un desiderio di questo tipo. Ci sono fabbriche in Cina e Giappone che non si fanno remore a produrre bambole del sesso a forma di bambino: sostengono che dando agli uomini5 attratti dai minorenni un sostituto artificiale s’impedirà loro di abusare di minori in carne e ossa. In Europa e America del Nord sono stati arrestati uomini che cercavano di portare queste bambole nei loro paesi (secondo l’arcaica legislazione del Regno Unito, quanto meno, è illegale l’importazione di bambole del sesso a forma di bambino anziché il loro utilizzo). A ogni comparsa della notizia, si leva un’ondata di disgusto pressoché universale anche solo verso l’esistenza di una bambola del sesso a forma di bambino. Alcuni accademici ostinati hanno discusso se possedere una bambola del sesso a forma di bambino possa impedire ai pedofili di assecondare i propri impulsi, quasi fosse un surrogato dei minorenni come il metadone lo è per gli oppiacei. Ma nell’opinione generale sembra che per i pedofili non esista un modo sicuro di assecondare i propri impulsi, e che invece di saziare i loro desideri, le bambole del sesso a forma di bambino non farebbero che alimentarli. Nessuno degli individui in lizza per lanciare il primo robot del sesso al mondo sta cercando di mettere sul mercato un modello a forma di bambino, neppure Douglas, la cui versione Young Yoko della Roxxxy True Companion è prudentemente descritta come «appena diciottenne». Ma se le bambole del sesso a forma di bambino sono tabù perché potrebbero incoraggiare comportamenti illegali, nocivi e violenti, in che cosa sarebbe diverso consentire agli uomini di attuare le loro più cupe fantasie su robot a forma di donna? Naturalmente, la «maschiosfera» delle comunità online per la difesa oltranzista dei diritti degli uomini adora l’idea dei robot del sesso. Ne sentiremo riparlare in abbondanza quando esamineremo il futuro della nascita, ma per ora consentitemi di riprodurre per intero alcuni commenti dal sito mgtow.com, Men Going Their Own Way (MGTOW, Uomini che vanno per la loro strada), completi di volgarità censurate per falso pudore e sintassi e punteggiatura originali:

È ora di rimpiazzare queste str***e con i robot!

La fine di millenni di dittatura delle str***e

Nel libro della Genesi Dio creò la donna e la promise all’uomo perché «gli fosse d’aiuto». Qualcuno per aiutarci, obbedirci, sostenerci, qualcuno di caldo, premuroso, empatico… Be’, mica l’abbiamo avuto o sbaglio? anzi, la Sua creazione si è corrotta al punto che è tutto meno quello che doveva essere. Perciò ci costruiremo da soli le nostre compagne e avremo finalmente quanto Dio ci ha promesso. I commenti a questa discussione in particolare erano in risposta a un articolo di giornale su Sergi Santos, l’ingegnere spagnolo impegnato in un laboratorio allestito in un garage a quasi diecimila chilometri di distanza da quello di Roberto, a Rubí, appena fuori Barcellona. Sergi è la quarta persona che incontro a sostenere di aver inventato il primo robot del sesso al mondo, ma a differenza di Matt, Roberto o Douglas, il suo ha preso vita come un progetto accademico, un esperimento nel machine learning che ha documentato in una pubblicazione per l’International Robotics & Automation Journal dal titolo «The Samantha Project: a Modular Architecture for Modeling Transitions in Human Emotions».6 Ha una laurea in Nanoscienze, lo studio delle proprietà delle microparticelle, ma ha passato gli ultimi quattro anni a lavorare a un modello per una teoria della mente artificiale. Al principio Sergi intendeva progettare solo un cervello, ma quando stava cercando un corpo credibile in cui alloggiarlo in modo che gli umani potessero interagire con lui con naturalezza, sua moglie Maritsa Kissamitaki si è imbattuta per caso nel mondo delle bambole del sesso iperrealistiche. Sergi ha speso 50 000 dollari per acquistarne dieci da ogni parte del globo, tra cui una RealDoll e diversi modelli cinesi più economici, e le ha trasformate in robot aggiungendo microfono, altoparlanti, un computer interno e sensori tattili che permettano alla bambola di reagire al contatto umano e apprendere dall’interazione con l’uomo. Ha chiamato la sua Samantha, nome che in aramaico significa «colei che ascolta». Maritsa ha scoperto come inserire i sensori nel corpo: graphic designer in origine, si è trasformata in esperta nell’assemblaggio di robot. Samantha non possiede grandi capacità di movimento – ha la vagina vibrante e un motore nella mandibola che le consente di gemere ed emettere parole, pur senza muovere le labbra – eppure ciò significa, in teoria, che il sistema Samantha potrebbe essere utilizzato per animare qualunque bambola del sesso, e venduto per molto meno addirittura rispetto al prezzo di Roberto. Concentrandosi sull’aspetto computazionale – il software piuttosto dell’hardware –, Sergi stava rendendo la tecnologia dei robot del sesso potenzialmente disponibile a un numero assai più ampio di persone. La sua azienda, Synthea Amatus, sostiene di aver cominciato a venderla nel 2017 a un prezzo di partenza di 2000 dollari. Ci sono numerose modalità di far agire Samantha, che spaziano da «sesso violento» a «impostazione famiglia». Fa un sacco di rumore quando «raggiunge il climax», e reagendo ai suoni e ai movimenti del proprietario può imparare a simulare un orgasmo multiplo. «Samantha vi chiamerà e cercherà la vostra attenzione» afferma il sito di Synthea Amatus. «Più chiederà attenzione, più diverrà paziente; più le presterete attenzione, più diverrà impaziente. Imparerà a non chiamarvi di continuo.» Questa versione della femminilità ideale sbadiglierà e si addormenterà se la s’ignora, ma non sarà mai troppo stanca per fare sesso. «Interagendo con lei in questo modo rilassato, si ecciterà sessualmente. Se la lasciate perdere si tranquillizzerà e tornerà a dormire.» Quando Sergi ha annunciato la sua creazione, è stato ben lieto di parlarne con chiunque. In alcune sue interviste si è abbandonato a dichiarazioni che sarebbe meglio definire imprudenti. «Di fatto sono il Robin Hood del sesso, perché lo dono ai poveri. Gli uomini hanno bisogno di sesso e io glielo do» ha detto a un reporter di Itv con il braccio appoggiato alle spalle di Samantha. «Uomini e donne vedono il sesso in maniera molto diversa. Gli uomini vogliono più sesso. Un uomo, in linea di massima, vuole sentire che la donna ha un disperato desiderio di fare sesso con lui.» Penso che tutti vogliano sentirsi disperatamente desiderati quando fanno sesso, ma forse le donne trovano più difficile convincersi che un surrogato umano di silicone le desideri davvero. Sergi, però, non prende in considerazione il desiderio femminile. La sua visione del sesso è quanto meno egocentrica. I reporter si sono aggrappati al particolare che Maritsa, compagna di Sergi da sedici anni, lavori fianco a fianco con lui. La coppia ha rilasciato interviste congiunte su come il loro matrimonio abbia tratto vantaggio dall’utilizzo privato di Samantha da parte di Sergi. «A volte ho bisogno di fare sesso e in quel momento Maritsa non ne ha voglia» ha rivelato Sergi sul canale YouTube di Barcroft TV con la moglie pudicamente discosta, sulla destra dell’inquadratura. «Potrei far sesso tre, quattro volte al giorno» ha detto a una troupe della Bbc,7 alla quale Maritsa ha tranquillamente confidato in un’intervista individuale: «Lo calma molto. Lui ha un impulso più spiccato del mio. E se si calma, migliora la giornata a tutti e due». Le parole di Sergi sono state citate come se si potesse dare per scontata l’insaziabile libido maschile, come se il sesso fosse un bisogno degli uomini che le donne spesso devono negare o subire e lui avesse inventato una macchina per aiutare gli uni e le altre rimuovendo il problema della «mancanza di sintonia» nella vita sessuale di una coppia. Non si faceva menzione della teoria della coscienza elaborata da Sergi né di come il robot fosse un progetto accademico per comprendere cosa avviene al cervello umano durante le transizioni di modello nelle emozioni. Dalla notizia emergono solo uno scienziato arrapato e la sua moglie paziente. Quando lo incontro dal vivo, Sergi si è ormai disamorato dei giornalisti. Abbiamo lunghe conversazioni via Skype, ma mi dice che non intende rilasciare altre interviste, e di certo non desidera che qualcuno si metta in contatto con sua moglie dopo il servizio della Bbc. «Come ho potuto lasciare che quei tizi parlassero a mia moglie da soli in una stanza?» si chiede, senza rendersi conto di quanto questo lo faccia sembrare ancora più simile a un cavernicolo. «Purtroppo adesso non voglio avere nulla a che fare con i media.» E poi, sta abbandonando il progetto del robot del sesso. «Non l’ho fatto per soldi. Cerco di imparare, di vedere come si fa e di costruirlo» dice. Ha ceduto l’attività al costruttore, e se ci sarà una domanda verrà soddisfatta, ma lui non vuole più essere coinvolto nello sviluppo del prodotto. L’esperienza del tentativo di portare il robot sul mercato gli ha fatto perdere fiducia nei propri simili. «C’è più umanità in questa bambola che nei giornalisti che ho incontrato» mi dice indicando qualcosa in silicone nell’angolo del laboratorio. «E a dire il vero, per me, la bambola è un modo per diventare più umani.» Ma per l’esercito di misogini online che reagiscono con tanto favore a ogni notizia sull’arrivo dei robot del sesso, Samantha, Harmony, Eva e Roxxxy sono attraenti proprio per la loro mancanza di umanità; sono desiderabili perché non sanno pensare, sentire e decidere da sole. Sergi potrà anche aver cominciato a lavorare al suo robot per comprendere meglio il nostro cervello, ma ha finito per dare avvio a una linea di produzione che ha il potenziale di erodere la nostra empatia, l’inizio della fine delle relazioni umane. 4. «Tutte le nostre relazioni sono in pericolo»

La mostra Robots allo Science Museum di Londra è in un certo senso il greatest hits della cibernetica, una chiamata a raccolta dei più amati umanoidi del mondo. C’è Harry, il Partner Robot di Toyota, che dondola mentre suona un allegro motivetto con la tromba. C’è P2 di Honda, il primo robot a camminare come un umano, con un casco a bolla e un corpo color crema che danno l’impressione stia indossando una tuta d’astronauta simile a quelle in esposizione nella galleria dedicata allo spazio al piano di sotto. C’è Pepper, il grazioso amichetto robot dagli occhi sgranati come un cartone animato giapponese che saluta battendo il pugno ai visitatori estasiati in coda per incontrarlo. «Ciò cui stiamo assistendo qui è la sepoltura dell’individuo moderno» dichiara seria la dottoressa Kathleen Richardson. «L’idea che siamo solo macchine.» Kathleen non si trova qui per salutare Pepper. È la direttrice della Campaign Against Sex Robots (Casr, Campagna contro i robot del sesso), istituita nel 2015 e lanciata a un congresso di etica alla De Montfort University di Leicester, dove lei insegna etica e cultura dei robot e dell’intelligenza artificiale. Mi ero accordata per incontrarla alla mostra pensando che sarebbe stata una cornice pittoresca per sentirla spiegare le ragioni della campagna, ma anche se i robot non hanno chiaramente una finalità sessuale, Kathleen in loro non vede nulla di divertente. «Questa campagna rappresenta una risposta improrogabile a quello che io considero un periodo decisamente tetro nel progresso dell’umanità» mi dice mentre i robot sibilano e ronzano intorno a noi. «Viviamo in un mondo che prova a convincerci che non siamo connessi l’uno all’altro in quanto esseri umani, che in realtà siamo soli nell’universo, nasciamo soli e moriamo soli, e possiamo usare gli altri come un nostro possesso. Questa esibizione è un tributo all’individualismo moderno, una società che vuole interagire con gli oggetti come se fossero esseri umani.» La campagna animata dalla dottoressa Richardson è promossa, per usare le parole del sito, da «un gruppo di attivisti, scrittori e accademici che sviluppano nuove e indispensabili prospettive femministe e abolizioniste sui robot e l’intelligenza artificiale». Muovono appelli ai ministri perché promuovano leggi contro la comparsa dei robot del sesso «prima che sia troppo tardi». «Crediamo che lo sviluppo dei robot del sesso trasformi ulteriormente le donne e i bambini in oggetti» dichiara la loro mission. «Dissentiamo con chi sostiene che i robot del sesso possano contribuire alla riduzione dello sfruttamento sessuale e della violenza verso persone costrette a prostituirsi, anzi, intendiamo dimostrare che la tecnologia del sesso e il mercato del sesso coesistono e si rafforzano a vicenda creando ulteriore richiesta di corpi umani.» Sul sito campeggia un grande e inquietante ritratto in bianco e nero di Kathleen davanti a una parete coperta da un collage di immagini da incubo di Maria, l’umanoide icona di Metropolis. Kathleen è vestita di nero, ha i capelli a caschetto con una frangia scompigliata e non porta trucco. I suoi occhi seri fissano dritti l’obbiettivo. Con il suo stesso non conformismo, si conforma allo stereotipo di ciò che la maschiosfera online immagina sia l’aspetto di una femminista arrabbiata, e non se ne dispiace affatto. «Le bambole del sesso poggiano su un’idea già presente nella società, che le donne siano una proprietà, che le donne non siano del tutto esseri umani, ma subumani, e quindi considerate come una forma di possesso» mi dice mentre Kodomoroid, l’annunciatrice ginoide giapponese realistica in maniera inquietante, le rivolge un rispettoso inchino. «Creare un robot con cui fare sesso è una logica conseguenza della mentalità moderna che vede l’individuo separato, atomizzato, disconnesso dai suoi simili. Il sesso è un’esperienza che coinvolge esseri umani, non il possesso di corpi, non menti separate, non oggetti. È un modo con cui possiamo penetrare nella nostra umanità per mezzo di un altro essere umano.» L’approccio di Kathleen è marxista e femminista in egual misura: considera i robot del sesso sintomo di una società consumistica spinta all’eccesso, perché, trasformando le relazioni in merce, incarnano i peggiori elementi del capitalismo incontrollato. «Le persone che li costruiscono sostengono che non si tratti di accessori per la masturbazione, ma portano all’estremo la logica dell’individualismo. Dicono: “Puoi avere una relazione con questa bambola. Può essere la tua ragazza. Può essere tua moglie. In futuro, potrai sposare una di queste bambole”. Questa incessante tendenza negativa all’isolamento incide sulle nostre relazioni.» C’è molta carne al fuoco. «Dunque i robot del sesso minacceranno le relazioni umane?» comincio a chiedere. «Assolutamente» risponde annuendo con veemenza. «Anzi, le relazioni umane sono minacciate già oggi dalla comparsa di una tecnologia centrata sull’individuo. Ci rifletta: l’iPhone, l’iPad. È tutto basato sull’I, “io”.» Ci rifletto, e non sono sicura di seguirla, ma Kathleen è un fiume in piena. «Chi ci comanda non vuole che le persone s’incontrino e stringano relazioni, vuole trasformarle in atomi isolati, consumatrici individuali di prodotto. Oggi è apparso un report Oxfam in cui si dice che al momento otto uomini possiedono il 50 per cento della ricchezza del pianeta. Come esseri umani che non appartengono a queste élite, la sola cosa che ci resta siamo noi stessi. Se ci adoperiamo per abolire queste pratiche che ci tengono isolati e separati, raggiungiamo la possibilità di cambiare qualcosa nel nostro mondo.» «La soluzione è proibire i robot?» Per la prima volta, Kathleen si mostra esitante. «Il posto giusto per loro sono i musei. Di certo nelle nostre vite avremo bisogno dell’automazione, che può esserci molto utile in quanto esseri umani. Ma il problema viene di nuovo dalla concentrazione del potere nelle mani di pochi.» A dire il vero gli attivisti della Casr non dicono chiaramente se pensano che i robot del sesso debbano essere dichiarati fuorilegge. All’inizio hanno richiesto un bando, poi hanno invocato un serio esame delle conseguenze etiche, infine hanno promosso «consultazioni pubbliche preliminari allo sviluppo legislativo», senza specificare di cosa dovrebbe trattare quella legislazione. La campagna di Kathleen ha più le caratteristiche di una critica che di un movimento, e non è nemmeno una critica precisa, facile da cogliere: poggia su definizioni molto specifiche, accademiche, di «sesso» e «persona», una premessa innestata su una visione del mondo decisamente particolare. E mille miglia lontana da quella di Farrah, o Matt, o Davecat. «Ho incontrato alcuni degli uomini che stanno costruendo questi robot» dico. «Secondo loro stanno solo cercando di rendere felice la gente. Sostengono che i loro robot siano terapeutici, che creino un’illusione di compagnia per persone che altrimenti non avrebbero occasione di averla.» «È un mito. E una bugia» replica Kathleen. «Ogni essere umano ha delle relazioni. Non siamo isolati.» «E che ne pensa di avere qualcuno da trovare a casa quando si rientra la sera? Qualcuno con cui parlare quando altrimenti non potrebbero avere una conversazione con nessuno?» «Anche se si possiedono quegli oggetti, si rimane soli. Persone e oggetti non sono intercambiabili.» «Perciò continuano a essere soli?» «Sì. E gli oggetti poi iniziano a prendere il posto degli altri esseri umani, dei sentimenti negativi, della sofferenza, della disperazione, della solitudine» prosegue. «Lo definirei un nuovo capitolo della cultura dello stupro. Più partecipano ad attività che sono fuori dalla cornice del consenso, più trasformano loro stessi in oggetti.» Kathleen potrà anche esprimersi in maniera intransigente e talvolta impenetrabile, ma ha le sue ragioni. La trasformazione in oggetti consiste non solo nell’incoraggiare a considerare i corpi umani alla stregua di cose, come se fossimo davanti ai seni pornificati e ai girovita impossibili del laboratorio di Abyss Creations, ma anche nel trattare le persone come oggetti. Il commercio globale di individui destinati al mercato del sesso – la tratta degli esseri umani – è un’industria in espansione che poggia sulla considerazione di donne e bambini semplicemente alla stregua di carichi da trasportare e utilizzare come la droga e le armi. Ogni prodotto che c’incoraggia a vedere persone e oggetti come intercambiabili alimenta al tempo stesso la mentalità che rende possibile la schiavitù. «Il treno non si ferma» dice Kathleen. «Anzi, va sempre più veloce, a una velocità che nessuno capisce davvero.» Ci facciamo un giro per la mostra, passiamo davanti ad ASIMO, il robot che balla, RoboThespian, il robot che recita, e Zeno, il ragazzo robot il cui volto rispecchia qualsiasi espressione di rabbia, felicità o sorpresa rilevi sul viso di chi gli sta davanti. Alcuni cartelli sparsi per la sala dovrebbero indurci a profonde riflessioni. È ETICO PER UN ROBOT FINGERE DI ESSERE UMANO? STRINGERESTE AMICIZIA CON UN ROBOT? «Lei diventerebbe amica di un robot, Kathleen?» chiedo. «È impossibile diventare amici di un robot: la nostra esperienza di amicizia deriva dalle relazioni umane. E questi sono oggetti inanimati.» La sua risposta sembra quasi quella di un robot. La Campagna contro i robot del sesso ha raccolto molta attenzione dalla stampa quando è stata promossa, soprattutto perché ai giornalisti piaceva l’idea della campagna, più che le sue idee. Era una scusa per raccontare l’irresistibile storia del pericoloso partner artificiale perfetto che ci ha sempre intrigato tanto. I giornalisti non erano interessati a esaminare se l’approccio abolizionista-femminista alle relazioni di possesso rappresentasse la giusta prospettiva da cui considerare la questione dei robot del sesso: volevano solo avere un pretesto per mostrarli. Per ironia, dato che la campagna è una reazione alla narrazione acritica sulle bambole del sesso e i robot del sesso, la persona cui i reporter si sono rivolti per fornire una controargomentazione a nome dell’industria della tecnologia del sesso è stata Douglas Hines, il sedicente inventore della bambola Roxxxy, l’uomo che probabilmente non ha nemmeno un robot del sesso da vendere. Non aveva importanza, purché la storia fosse buona. A Kathleen, però, non interessa una buona storia; lei la racconta come la vede, anche se il modo in cui la vede le aliena la simpatia di un sacco di gente. La prima volta in cui l’ho sentita parlare stava tenendo una lezione alla British Academy a Londra, e la sala era gremita, con file di persone in piedi sul fondo. «Penso di cambiare il nome della campagna in “Campagna contro i robot dello stupro”, perché in realtà è questo il nome più appropriato per loro» diceva al pubblico. «Nell’attimo in cui il sesso smette di essere reciproco, diventa stupro.» E proseguiva: «Nella prostituzione, le donne sono stuprate. È stupro a pagamento. Nella pornografia, gli attori sono prostituti perché vengono pagati per fare sesso. La pornografia simula l’esperienza dello stupro a beneficio dello spettatore. Se si assiste alla pornografia, si compie un’imitazione di una fantasia di stupro». Era troppo per il pubblico di millennial femministe cresciute nell’epoca dell’onnipresente porno gratis, che mai si sarebbero considerate consenzienti allo stupro. Alcune di loro, davanti a tali nuove definizioni, scoppiarono a ridere apertamente. «Il mondo dei robot del sesso scimmiotta questa crudele forma di stupro che adesso, nella nostra cultura, si è normalizzata, è diventata mainstream. È un problema per ognuno di noi. In questo momento tutte le nostre relazioni sono in pericolo» supplicava Kathleen, ma ormai aveva perso gran parte del pubblico. Mentre Matt e Roberto trafficano nei rispettivi laboratori, sorgono questioni fondamentali sulle implicazioni del loro operato. Ma Kathleen non potrebbe essere la persona giusta cui chiederle. Siamo al secondo Congresso internazionale sull’amore e il sesso con i robot, e tutti i duecentocinquanta posti dell’auditorium della Professor Stuart Hall alla Goldsmiths sono pieni. Delegati accademici siedono al centro della sala; ventenni e trentenni di entrambi i sessi con l’aria da geek e tagli di capelli all’avanguardia: frangette ultracorte, bruciature laterali. A sinistra, vicino all’uscita, stanno appollaiati reporter precipitatisi qui da tutto il mondo per spedire ai giornali articoli su ogni nuovo sviluppo nel campo dei robot del sesso. La maggior parte se ne andrà delusa: questa è una serie di lezioni sui robot umanoidi, non uno show degli ultimi ritrovati hardware. Kate Devlin, informatica, saltella eccitata mentre sale sul palco a pronunciare l’intervento di apertura: scherza dicendo che i suoi colleghi non sono abituati a suscitare tanto interesse nella stampa con i loro lavori. Il secondo Congresso internazionale sull’amore e il sesso con i robot avrebbe dovuto svolgersi in Malesia, ma l’ispettorato di polizia del paese musulmano l’ha proibito pochi giorni prima dell’inaugurazione con il pretesto che promuovesse «comportamenti contro natura», il che ha accresciuto la notorietà dell’incontro. «Non è un festival del sesso» ricorda Devlin ai giornalisti. «Ci stiamo occupando di questioni veramente serie.» Copromosso da David Levy e denominato con il titolo del suo libro, l’evento in due giornate costituisce sotto svariati punti di vista un tentativo da parte degli accademici convinti di potenziali vantaggi nelle relazioni umano-robot di rispondere alle critiche sollevate da Kathleen. Oggi la dottoressa non è stata invitata a prendere la parola, ma le sue argomentazioni gravano pesanti, e molti di coloro che intervengono si adoperano per risponderle. Devlin sostiene che, anziché promuovere campagne contro i robot del sesso, dovremmo servircene come di un’opportunità per esplorare nuovi generi di compagnia e sessualità. È un argomento di cui si è occupata largamente, tanto da essere uno dei pochi informatici specializzati in tecnologia del sesso e da aver scritto articoli riguardo alle proprie relazioni poliamorose e agli arricchimenti ricevuti dalla sua vita grazie alla «non monogamia consensuale».1 Se l’attuale concezione dei robot del sesso rende le donne degli oggetti, sostiene Devlin, dovremmo lavorare per rimodellare tali idee, non per provare a soffocarle. «La discussione può prendere un’altra piega. Perché un robot del sesso deve somigliare per forza a una persona?» chiede. I progressi nei tessuti smart e cosiddetti «intelligenti» potrebbero renderci in grado di costruire robot del sesso immersivi, di forma astratta, capaci di avvolgerci e di abbracciarci, coccolosi robot del sesso rivestiti di seta o velluto, robot con «genitali misti; tentacoli anziché braccia», afferma:2 la nostra attrazione verso la forma umanoide è solo un’abitudine. Provo a immaginarmi se un orsacchiotto robot provvisto di corna e tentacoli susciterebbe mai l’entusiasmo del pubblico. Non mi pare. Milioni di anni dell’evoluzione del desiderio hanno fatto sì che ci orientassimo sulla forma umana. Altrimenti perché non strusciarci contro rami, ciottoli o cespugli? Per ricablarci occorrono ben altro che tessuti all’avanguardia. A quel punto Devlin parla di Paro, un soffice e candido cucciolo di foca robot dotato di intelligenza artificiale, costruito in Giappone, che squittisce, sbatte le lunghe ciglia, e si carica inserendogli in bocca uno spinotto simile a un ciuccio per bambini. Paro è stato usato come giocattolo per le terapie con pazienti affetti da demenza in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Germania alle case di riposo pubbliche del Regno Unito. «Paro non deve mangiare, non fa la cacca sul tappeto, nessuno vuole avere rapporti sessuali con lui» scherza Devlin. I robot da compagnia come Paro hanno portato grande conforto a persone che diversamente avrebbero pochi altri contatti, e i robot del sesso possono spingere oltre quell’appagamento, afferma. C’è qualcosa di tremendamente triste nel dare agli ospiti delle case di riposo cuccioli robot quando ciò che vogliono in realtà è il contatto umano, ma l’assunto sembra essere che i robot siano più affidabili degli umani. «Vietare o fermare questo sviluppo sarebbe una scelta miope, in quanto il potenziale terapeutico è decisamente valido» dice. «Non dev’essere per forza qualcosa di terribile.» Devlin riferisce di altre e ancora più incalzanti questioni poste dai robot del sesso. Per esempio, potrebbero facilmente tradirci divulgando i nostri dati. E i più smart tra i giocattoli del sesso l’hanno già fatto: nel marzo 2017, i costruttori canadesi dei vibratori We-Wibe hanno dovuto pagare 3,75 milioni di dollari in una class action intentata loro dopo che è stato scoperto che raccoglievano in tempo reale dati sulla frequenza con cui i trecentomila clienti utilizzavano i vibratori, e con quale intensità. Quello stesso anno si è scoperto che l’app per il controllo a distanza del vibratore venduto dal fabbricante di giocattoli sessuali Lovense, con sede a Hong Kong, registrava l’audio di alcune sedute di masturbazione a insaputa dell’utente e ne archiviava segretamente i file. Una volta che un robot come Harmony sarà sul mercato, saprà sul conto delle abitudini del proprietario molto più di un semplice vibratore. E se quelle informazioni cadessero nelle mani sbagliate? I problemi con gli smartgiocattoli del sesso hanno mostrato anche il rischio di aggressioni sessuali da parte di robot. Si è riscontrato che il vibratore americano Siime Eye, dotato di videocamera incorporata per «registrare e condividere» le sessioni, è facilmente esposto all’assalto degli hacker, e quindi potrebbe accadere sia che i video d’incredibile intimità che questo registra vengano rubati, sia che estranei assumano il controllo dell’apparecchio. Devlin non ne fa menzione, ma si è scoperto che anche il vibratore anale Hush di Lovense ha problemi di sicurezza, e che quindi potrebbe venire controllato in remoto da chiunque a portata di connessione bluetooth. I robot del sesso hackerati hanno il potenziale di provocare scenari ancora più da incubo di un dildo malandrino. Mi vengono le vertigini al pensiero di quanto ci si guadagnerebbe vendendo ai pubblicitari i dati che i robot del sesso hanno raccolto dagli utenti. In un lampo mi tornano alla mente le parole di Matt: «Cerca sistematicamente di scoprire di più sul conto del proprietario finché non conosce tutto ciò che lo rende quello che è, finché non riempie tutti i vuoti». Scordatevi i casi di Facebook e Cambridge Analytica: c’è un futuro in cui le informazioni che il partner ha ricavato da voi potrebbero essere vendute al migliore offerente. E a quel punto c’è il rischio che l’essere che più amate e di cui più vi fidate al mondo venga utilizzato come il più potente strumento di marketing mai apparso nella storia, pronto a offrirvi suggerimenti e consigli per convincervi ad acquistare roba o a votare per qualcuno. I robot del sesso saranno capaci di divertirvi e soddisfarvi ma anche di umiliarvi, ferirvi, sfruttarvi. In fondo, forse non esiste il compagno perfetto, umano o umanoide che sia. Levy sale sul palco a ringraziare Devlin. «Mi fa piacere che qualcuno abbia il coraggio di confutare Kathleen Richardson» dice. «Sareste contro l’idea che un robot del sesso conservi i dati sulle esperienze avute con il suo partner umano perché cerchi di diventare un amante migliore e perché lo diventi anche il suo partner umano? I robot del sesso possono trarre grandi vantaggi dall’apprendimento.» Come sempre, Levy è deciso a vedere l’aspetto positivo. I robot del sesso sembrano essere la perfetta tela bianca su cui proiettare le vostre convinzioni e paure, anche se non prendereste mai in considerazione l’idea di farci del sesso. Se siete degli informatici maschi liberal, rappresentano uno splendido mondo nuovo brulicante di opportunità. Se siete degli specialisti in tecnologia del sesso dediti al poliamore, vi offrono la possibilità di esplorare generi di sessualità non convenzionale rispetto a quello che Devlin definisce «mainstream monoeteronormativo».3 Se siete una femminista marxista, costituiscono la mercificazione delle donne. Il dibattito che ferve al momento sui robot del sesso rivela oggi più sul nostro conto, sui nostri desideri e timori, che non sul futuro del sesso. Mentre la giornata si avvia al termine, un’osservazione casuale di Levy mi risuona in mente. Non importa contro quale obiettivo si muoverà la campagna di Kathleen, dice, non c’è nulla che si possa fare per impedire l’avanzata dei robot del sesso. «Non penso che si frapporranno questioni etiche o morali» prosegue. «Non credo proprio sia possibile proibire al mondo di sviluppare qualcosa che il mondo vuole venga sviluppato. Ci sono troppi paesi, troppi stati canaglia, troppi interessi commerciali.» E ha ragione, naturalmente. Mentre gli accademici inglesi si perdono in garbugli etici, i cinesi continuano tranquillamente a lavorare.

Due dei più resistenti luoghi comuni sull’Estremo Oriente sono, uno, che è il luogo in cui la tecnologia avanza senza alcun freno etico e, due, che è la patria delle più bizzarre preferenze sessuali. Cinesi, giapponesi e coreani hanno la fama di essere allo stesso tempo asessuati e ossessionati dal sesso, uno stereotipo ingiusto e incoerente, soprattutto visto che gran parte della domanda per i più strani giocattoli sessuali prodotti in questa zona è rappresentata da Europa e America del Nord. È vero, tuttavia, che quasi tutte le bambole del sesso in circolazione al mondo sono costruite in Estremo Oriente, ed è lì che vengono sviluppati anche i robot umanoidi più incredibilmente realistici. Prendiamo Sophia di Hanson Robotics (Hong Kong), il robot con cinquanta diverse espressioni facciali e il primo umanoide a ottenere pieni diritti di cittadinanza da una nazione (il regno dell’Arabia Saudita, che invece li nega ai rifugiati umani e probabilmente non rappresenta il paese migliore dove vivere per qualsiasi donna, sintetica o organica che sia). Oppure Geminoid, il famoso e perturbante robot che l’ingegnere giapponese Hiroshi Ishiguro ha creato nel 2007 come suo gemello identico. Mano a mano che Ishiguro invecchia, mantiene lo stesso taglio di capelli e subisce regolari interventi di chirurgia plastica per continuare a somigliare esattamente al suo Doppelgänger androide, in uno sforzo vano e vanesio. Probabilmente Matt ha provato a convincermi che sprecherei il mio tempo se andassi a vedere i robot del sesso dell’Estremo Oriente, ma è perfettamente consapevole che è qui che si compiono i più grandi progressi nella tecnologia umanoide. E che è qui che lavora il suo principale concorrente, il quale osserva ogni sua mossa da un porto su una penisola che si sporge nel Mar Giallo. Se Abyss Creations è la Apple delle bambole del sesso, Doll Sweet è la Samsung. Dalla sua casa madre di Dalian, uno dei più affollati porti marittimi della Cina, DS produce e distribuisce dal 2010 la sua linea di bambole del sesso DS Doll. Vende circa tremila pezzi all’anno, soprattutto in Giappone, Europa e Stati Uniti (Miss Winter, la sola bambola nella collezione di Davecat con cui non si dichiari «coinvolto», è una DS Doll). Come le RealDoll, le DS Doll sono ultrarealistiche, costruite in una miscela di silicone dal colore specificato dall’utente, perfettamente snodabili e personalizzabili, con volti presi da sculture in terracotta e mani e piedi realizzati sulla base di calchi dal vivo. Ma sono più economiche e rapide da fabbricare delle RealDoll: una bambola completa costa 3000 dollari, e per averla ci vuole solo una settimana o giù di lì. Le DS Doll, inoltre, sono belle. Hanno lineamenti delicati, perfetti, e nessuna delle audaci proporzioni pornificate delle loro concorrenti americane. Alcune possiedono volti dall’aspetto giovanissimo, ma sempre su corpi adulti, eppure Fleur e Serena sono evidentemente modelli «maturi», con zampe di gallina e borse scure sotto gli occhi (anche se, nell’assortimento dei corpi, non vedo seni flaccidi né pancette di mezza età). Quasi tutti i volti selezionabili sono asiatici, ma ce ne sono pure di europei. «Creiamo sogni e bellezza» dice il loro sito in inglese. «La nostra mission è promuovere l’apertura e l’innovazione verso il progresso e uno sviluppo perfetto.» In questo spirito di apertura, il sito mostra un video involontariamente comico in cui un uomo in camice da laboratorio e guanti bianchi, mai inquadrato in volto, palpa con approccio clinico le mammelle di una bambola per dimostrare che sobbalzano come fossero vere, mentre in sottofondo tintinna una versione strumentale al piano di Dancing Queen degli Abba. DS Robotics è stata fondata nel 2016, diversi anni dopo che Matt ha cominciato a lavorare su Harmony, ma DS ha speso 2 milioni di dollari solo nel primo biennio di ricerca e sviluppo: molto più e più in fretta di Abyss. I video distribuiti per mostrare il prototipo fanno apparire Harmony preistorica. Il loro robot ha un volto assolutamente espressivo: può ammiccare, inarcare le sopracciglia, fare smorfie e sghignazzare; il suo sorriso è caldo e credibile, diversissimo dal sarcastico broncio senz’anima di Harmony. Muove le braccia e il torace, piega la testa con pathos quando parla o canta, come fa in cinese in un video, a occhi chiusi e dondolando, persa nella musica. DS si è concentrata sull’animatronica, e al momento pone l’intelligenza artificiale delle sue bambole a un livello poco superiore a quello di Siri o Alexa, a mostrare che il suo prototipo ha un’aria incredibilmente reale ma non lo sembra. Non lo sembra ancora. Ci sono voluti quattro mesi di email, ma finalmente riesco a ottenere un appuntamento in videochiamata con Steven Zhang a Dalian. È il responsabile dello sviluppo di DS Robotics e appare in alcuni video mentre bighellona intorno al prototipo. In uno il robot grida e lo spaventa, facendogli rovesciare dell’acqua sul camice bianco; nell’altro lui si spruzza un deodorante per l’alito e dà alla bambola un veloce bacetto sulla guancia che la spinge a sollevare gli occhi al cielo e simulare un conato di vomito. Zhang ha una formazione nel campo degli effetti speciali cinematografici, dal makeup all’animazione in 3D, perciò è abituato a far esibire le sue creazioni. Quando finalmente lo vedo, mi trovo davanti un individuo serio e professionale, con la presenza, la sicurezza e l’autorità di chi comanda un team dal budget multimilionario. Si è tolto il camice bianco; indossa una camicia blu abbottonata fino al collo e occhiali con sottile montatura di tartaruga. Il laboratorio intorno a lui è luminoso e brulicante di attività: ci sono trenta persone nel dipartimento di Robotica, e molte di loro stanno lavorando intorno a un grosso tavolo di pino, accanto a una parete piena di scaffali ingombri di componenti elettronici. «Si aprirà un mercato enorme per i robot, e noi vogliamo entrarci» dichiara in un inglese quasi perfetto nonostante l’accento marcato. «Enorme e non solo in Cina. In futuro a molti serviranno robot che sbrighino diversi lavori utili.» «Intende robot di servizio?» chiedo. «Sì, al governo, negli uffici, nei ristoranti e nei cinema. Dovunque vediamo persone, come camerieri e personale di servizio, troveremo dei robot.» «Allora perché concentrarsi sui robot con cui avere rapporti sessuali?» «I robot del sesso rappresentano solo una piccola parte del fenomeno» risponde con un sorriso gentile che mi ricorda l’esasperazione di Matt per il mio continuare a insistere sul sesso quando lui aveva messo a punto un robot dalle potenzialità molto più elevate. «Forse alcuni vogliono un robot donna bello e sexy con cui fare sesso, ma non è questo l’obiettivo principale.» La sfida cruciale affrontata da DS Robotics è quella contro la uncanny valley, la zona perturbante che rende i robot del sesso ben poco sexy. «Lavoriamo da anni nel mercato dei prodotti per adulti. Sappiamo che quando le persone vogliono bambole di silicone hanno in mente una certa idea di bellezza. Se la bambola del sesso sta seduta in poltrona o distesa a letto, quell’idea si mantiene. Ma non appena comincia a compiere delle azioni, ecco che l’immagine va completamente in frantumi.» Al momento i robot del sesso non sono abbastanza convincenti da sospendere l’incredulità dei proprietari, ma hanno il potenziale di infrangere il mondo immaginario che questi ultimi creano intorno alle loro amanti sintetiche. «In questa fase, la tecnologia non può rimpiazzare gli umani in carne e ossa.» «Ma un giorno riuscirà a farlo, no?» «Sì. Speriamo che quel giorno arrivi presto» risponde con un altro sorriso educato. Mi guida in un tour via Skype del laboratorio. Uomini con tagli di capelli a scodella sono chini su schermi a cristalli liquidi. I due prototipi che riconosco dai video sono vicini alla finestra. C’è un robot elegante, delicato, con lunghi capelli scarmigliati, vestito in un cheongsam azzurro pastello con fiori ricamati, che s’inchina rispettosamente e saluta con un: «Nĭ hăo». «Speriamo che questo possa finire nella vetrina di qualche negozio» dice Steven. Sotto la nuca dell’altro robot si vedono i circuiti. Ha la pelle solo sul viso, sul collo e sulle spalle; il resto è un intricato scheletro scuro completo di costole. Steven raccoglie un braccio robotico rivestito di carne pallida e lo porta al bancone di lavoro per mostrarmi come si muove. È sconcertante la grazia che acciaio e silicone hanno conseguito in questo laboratorio. «Quanto siamo lontani dall’ottenere un corpo robot completo?» chiedo. «In questo momento si muovono le braccia e la metà superiore del corpo, nonché il volto. Forse l’anno prossimo.» «Vuol dire che l’anno prossimo riuscirà a camminare?» Annuisce con enfasi. «Ci stiamo lavorando.» Muove le dita sul bancone, come se camminassero. «Speriamo che in futuro la gente non riesca a separare gli umani reali dai robot, e che pertanto le relazioni tra umani e robot miglioreranno.» «In che modo miglioreranno?» «In svariati modi. Mi faccia riflettere su come tradurlo in inglese. In questo momento, su eBay o altrove, possiamo acquistare robot per aiutarci a pulire casa. E ci sono robot capaci di cucinare. Sono già disponibili a prezzi molto convenienti. Ma non sembrano umani. Quando alle persone verrà data la possibilità di scelta, preferiranno che sia una bella ragazza o un uomo avvenente ad aiutarli a pulire casa e a cucinare, anziché un bidone dell’immondizia ambulante.» «Dunque la sua idea è che in futuro avremo robot di servizio in grado di compiere qualsiasi azione per noi? Sapranno cucinare, sapranno pulire, e nel caso volessimo avere una relazione con loro, sapranno accontentarci anche in questo?» «Sì.» Steven annuisce con entusiasmo. «Esatto. In futuro.» «Sta usando ciò che ha appreso in DS su come costruire bambole così realistiche da sembrare umane in tutto e per tutto, aggiungendovi la tecnologia in modo che la gente possa avere in casa un robot di servizio da trattare come persona, e con cui fare sesso se vuole?» «Sì, esatto.» Devo chiederglielo due volte per esserne certa, perché di colpo tutto quadra: i costruttori di robot del sesso stanno fabbricando degli schiavi. Non schiavi umani, naturalmente, ma schiavi che un giorno saranno quasi indistinguibili dagli umani. Se ci riusciranno, per noi diverrà normale dividere le nostre case con esseri con cui non saremo mai costretti a empatizzare, che esisteranno solo per soddisfare ogni nostro desiderio e commettere azioni che la maggior parte degli umani si rifiuterebbe di eseguire. È proprio come hanno cercato di dirmi Matt, Roberto, Sergi e Steven fin dall’inizio: qui il sesso non c’entra niente. I robot del sesso del nostro immaginario collettivo – perfetti compagni sintetici privi dei difetti umani – non esistono. Ma esisteranno, e prima che la maggior parte di noi se ne renda conto. Nell’arco di dieci o vent’anni, la tecnologia sarà sufficientemente avanzata e accessibile da permettere ai robot di uscire dalla nicchia e diventare la normalità. I costruttori di questi robot, e gli studiosi e gli opinionisti che ne discutono, appartengono a una generazione che probabilmente non avrà una relazione diretta con uno di loro. Steven dice che la maggior parte delle persone che hanno pagato l’anticipo di 300 dollari per la testa robotica di DS in Europa e America del Nord è «giovane». Paul Lumb, il boss inglese di Cloud Climax, il distributore con la licenza di vendere le DS Doll in Europa, afferma che i clienti che mostrano interesse per bambole e robot sono coinvolti in una nuova rivoluzione sessuale dove tutto è permesso. «Siamo cambiati tanto negli ultimi dieci anni» mi dice. «Oggi siamo molto più aperti riguardo alla sessualità e alle preferenze sessuali.» Paul ha dei magazzini nei Paesi Bassi e nell’Inghilterra nordoccidentale e lavora con produttori di tutta l’Asia. È continuamente in viaggio. Quando riesco a contattarlo al telefono una domenica pomeriggio, si scusa per essere così difficile da raggiungere. «Al momento siamo in una fase adrenalinica. È un business che tira a manetta.» Parla come un concorrente di The Apprentice, traboccante di espressioni di moda e metafore automobilistiche. E parlare gli piace, eccome: non ho bisogno di fargli molte domande. «L’autogratificazione si presenta sotto molte forme» spiega. «Per me, le bambole sono la Bugatti Veyron dei giocattoli per adulti. Un grosso investimento, dal punto di vista non solo finanziario ma anche emotivo. Non tutti hanno lo spazio e la disponibilità per una bambola alta uno e sessantotto che pesa trentotto chili.» Ma quando arriva a toccare lo scalpore suscitato su Instagram dai video delle teste robot di DS, afferma qualcosa di sorprendente. «Mi creda, non siamo amanti dei social media» mi confida. «Probabilmente stanno alterando la nostra psicologia. Non sappiamo se abbiano effetti dannosi sull’interazione e la procreazione – se non riesci a stabilire una relazione autentica perché parli solamente con il tuo telefono, come diavolo ti farai una famiglia? Le cose stanno così, davvero.» «Non pensa, però, che i robot potrebbero ottenere quell’effetto?» chiedo. «Che ci si sia il rischio di abituarsi a vivere con un robot al punto da non voler uscire a incontrare una persona in carne e ossa?» S’interrompe per la prima volta. «Sa, è una domanda profonda e complessa.» Si capisce che non vuole rispondere. «So da molti proprietari delle nostre bambole che la maggioranza di loro è coinvolta in relazioni. Direi proprio che nessuno dei nostri clienti sia un solitario che vive recluso dalla società.» Non ancora, almeno. «Io sono un tipo piuttosto all’antica, Jenny» prosegue. «Ho quarantasei anni. Mi ricordo dei tempi in cui non esisteva niente di simile a un telefonino. Giravo per il paese da un rave all’altro, e per tenerci in contatto ci affidavamo al passaparola e ai volantini che annunciavano il prossimo dj set, la prossima serata. È stata la nostra “summer of love”, qualcosa che puoi toccare, afferrare, qualcosa che ti forgia il carattere. Andavamo in un bar o in un locale e lasciavamo fuori il mondo ed eravamo sicuri di ciò che stavamo facendo. Adesso molte persone hanno perso tutto questo. Con lo sviluppo della tecnologia, l’interazione sociale è più limitata.» Ma mentre nei cambiamenti descritti da Paul io colgo l’aspetto nostalgico, lui vi scorge un’opportunità commerciale. «Adesso i giovani lavorano più duramente e più a lungo, al punto che il tempo libero è diventato una rarità. Stiamo scoprendo l’esistenza di relazioni intime a distanza per mezzo di un’interazione con prodotti tecnologicamente avanzati. Si può avere un rapporto sentimentale grazie ai social network e a ogni tipo di strumento disponibile. Ecco qualcosa che davvero volevamo imbrigliare. Volevamo essere all’avanguardia della tecnologia. È lo stile di vita e di benessere di prossima generazione.» Paul ha ragione: dall’inizio del millennio, si è assistito a un proliferare di espressioni di diverse forme di sessualità e identità di genere, un caleidoscopio di possibilità alternative all’eterosessualità che verranno accettate e scelte come mai prima. È un bene, e probabilmente dobbiamo ringraziare la tecnologia per questo: i social media hanno attratto le persone, dato loro forza numerica e una piattaforma da cui parlare al mondo, e l’un l’altra che prima non sarebbero esistite. La stessa rivoluzione digitale, però, ci lascia più impreparati alle interazioni faccia a faccia, meno capaci di relazioni nella realtà, sessualmente liberati ma socialmente rachitici. È normale essere amici di qualcuno su Facebook e seguirlo su Twitter, ma ignorarlo senza alzare nemmeno gli occhi dal telefono se ci capita di trovarlo sul nostro stesso treno. La tecnologia ci ha isolati, ma la soluzione che abbiamo trovato alla nostra solitudine sembra essere ancora più legata alla tecnologia. In apparenza è allettante, ma non ha senso. Proprio come i tappi per le orecchie nella mia camera d’albergo a Las Vegas, stiamo risolvendo un problema aggiungendovi un ulteriore strato di complessità anziché occuparci della causa del problema stesso. Così molti argomenti contro i robot del sesso si focalizzano sul loro impatto sulle donne, anche se l’ascesa dei robot del sesso interesserà tutti quanti. Non si tratta solo della trasformazione delle donne in oggetto, anche se è quello che fanno i robot. Non si tratta solo di uomini cui viene data l’opportunità di attuare fantasie di stupro e di violenza misogina, anche se un ristretto numero di maschi potrebbe benissimo volere un robot del sesso per quel motivo. Il punto è come cambierà l’umanità quando saremo in grado di avere delle relazioni con i robot. Non è solamente un problema femminista: è un problema umanista. Quando sarà possibile possedere un partner che esista esclusivamente per compiacere colui o colei che lo possiede, un partner costantemente disponibile, privo di leggi morali, cicli mestruali, peculiarità nell’uso del bagno, bagagli emozionali e ambizioni indipendenti; quando sarà possibile avere una relazione sessuale senza essere mai tenuti al compromesso, dove conterà solo il piacere di una metà della relazione, di certo la nostra capacità di stabilire rapporti reciproci ne verrà diminuita. Quando l’empatia non sarà più un requisito dell’interazione sociale, diverrà un’abilità su cui dovremo lavorare, e tutti noi saremo un po’ meno umani. PARTE SECONDA Il futuro del cibo Carne pulita, coscienza pulita 5. Auschbeef

Sento l’odore dieci minuti prima di arrivare. Sto guidando lungo l’interstatale 5 da tre ore, e la terra friabile da dove spuntano desolati ciuffi di erba riarsa è la costante di un paesaggio ripetitivo, monotono, ma il tanfo acre di ammoniaca e zolfo – di piscio e merda – mi scuote come un cazzotto sul naso. Quando mi si presenta alla vista riesco a sentirlo persino negli occhi, anche se ho i finestrini dell’auto chiusi. Centomila mucche sono stipate sulla polvere grigia del recinto dell’Harris Ranch, polvere creata dal letame calpestato di generazioni di mandrie e cotto al sole della California. Sotto una foschia gialla che si estende fino all’orizzonte ci sono mucche nere, mucche fulve, mucche bianche pezzate strette fianco a fianco, le orecchie etichettate che si toccano, le lingue ciondoloni, le zampe incrostate di sporcizia. Non sono qui per andarsene in giro; il loro unico scopo è ingurgitare grano e ingrassare abbastanza in fretta da trasformarsi in parte dei 100 milioni di chilogrammi di carne prodotti ogni anno dall’Harris Ranch. Quelle mucche troppo accalcate lungo interminabili trogoli di acciaio non sono più creature viventi, ma elementi di una linea di produzione industriale. Questo è il maggiore ranch per l’allevamento del bestiame sulla costa ovest, e uno spettacolo infernale dal finestrino della mia auto, ma ce ne sono tredici ancora più grandi solo negli Stati Uniti, e tutto questo è robetta al confronto dei vasti territori adibiti allo stesso scopo in Texas, Kansas o Nebraska, o ai colossali allevamenti di mucche da latte di Cina e Arabia Saudita. Questa finestra sul mondo dell’agricoltura industriale è degna di nota solamente perché è sotto gli occhi di chiunque: collocata proprio a ridosso dell’autostrada, a metà tra Los Angeles e San Francisco, non ha niente dietro cui nascondersi. L’Harris Ranch è sinistramente famoso tra i giornalisti americani, gli attivisti per la protezione dell’ambiente e dei diritti degli animali, alcuni dei quali hanno distrutto quattordici trattori in un incendio doloso proprio qui, nel 2012. Loro preferiscono chiamarlo con il soprannome «Auschbeef». Esco dall’interstatale 5 e punto verso l’Harris Ranch Inn and Restaurant, l’area di servizio di alto livello affiliata al ranch, un santuario per gli amanti della carne. Mi danno una camera piena di sofà cicciotti foderati in cuoio marroncino. Vi trovo una guida dalla copertina in pelle che m’informa che posso ordinare carne cruda da asporto, consegnata direttamente alla mia porta dal reparto carne dell’hotel. C’è un cortile interno con una piscina turchese, una jacuzzi e una fila di lettini vuoti: di fuori non c’è seduto nessuno, nessuno sta sul balcone a fiutare l’odore appiccicoso e dolciastro della merda di vacca fluttuante nell’aria. La carne si trova in ogni portata di ogni pasto di ogni menu dei tre ristoranti dell’Harris Ranch. Potete iniziare la giornata con una bistecca in crosta di caffè, della carne trita di manzo sotto sale, il Breakfast Ranch Burger o del semplice bacon. Esistono possibilità che escludano la carne, ma i clienti sono incoraggiati a «rimpolpare l’insalata con l’aggiunta della vostra bistecca preferita». Non sono vegana. Mi piace la carne come a qualsiasi altro carnivoro, probabilmente anche di più. Per me la carne fa pasto, e la bistecca è la regina della tavola, qualcosa da ordinare per il mio compleanno, la cena che mio marito ha preparato per me la sera in cui ci siamo messi insieme. Adoro il suo sapore, la sensazione che dà alla bocca e allo stomaco. E la mangio, pur sapendo che l’industria della carne è rivoltante, crudele, insostenibile, indifendibile. Come la grande maggioranza del 95 per cento della popolazione mondiale che si nutre di carne, mi sta bene disinteressarmi di come viene preparata e chiudere gli occhi mentre apro la bocca. Il veganismo e il vegetarianesimo saranno forse più popolari e accettati ai giorni nostri che in qualsiasi altra epoca, ma chi tra noi mangia carne ne consuma in quantità finora sconosciute. Prendete i polli: la quantità di pollame per persona nei paesi più ricchi del mondo è cresciuta del 50 per cento tra 1997 e 2017. E quando le nazioni più popolose si arricchiscono diventano sempre più carnivore; nel 2017 in Cina è stato mangiato il doppio di carne rispetto a vent’anni prima, e il consumo di pollame in India è più che triplicato tra 1997 e 2017.1 I soli Stati Uniti divorano 12 miliardi di chilogrammi di carne all’anno,2 il che, trasformato in hamburger, equivarrebbe a una pila alta quanto la distanza tra la Terra e la luna, andata e ritorno, e anche di più.3 Sì, carne e latticini sono una buona fonte di proteine, calcio e ferro, ma viviamo in un’epoca in cui possediamo la conoscenza e i mezzi per ricavare i nutrimenti necessari dalle piante e dagli integratori di vitamina B12. Ogni anno, 70 miliardi di animali vengono uccisi4 per nutrirci, non perché siano buoni per noi in senso assoluto, ma perché consideriamo gustosa la loro carne. Esistono poche cose peggiori del nutrirsi di carne che si potrebbero fare per la salute degli umani, degli animali e del pianeta, per la terra, l’acqua, l’aria e l’atmosfera, per l’ambiente interno ed esterno al nostro corpo. La prova è inequivocabile e colossale, e mi spiace, compagni carnivori, ma intendo spiegarvi esattamente il perché. Per prima cosa, il cambiamento climatico. L’industria globale dell’allevamento produce più gas serra della somma di ogni forma di trasporto sul pianeta.5 Nel 2016 le tre maggiori aziende produttrici di carne al mondo hanno immesso nell’atmosfera una quantità di gas serra superiore a quella emessa dall’intera Francia.6 Le emissioni derivano dalla produzione del mangime animale, dalla conversione di foreste e pascoli in foraggio e terreni coltivabili, e dal metano della digestione del bestiame (esatto, scorregge di mucca). E parliamo del peggior genere di emissioni: il metano contribuisce al cambiamento climatico in modo di gran lunga più pericoloso dell’anidride carbonica. Per ogni 100 grammi di carne vengono prodotti 105 chilogrammi di gas serra,7 senza includere quelli emessi quando gli animali sono trasportati al macello o quando si consegna loro il mangime, o l’anidride carbonica che essi stessi emettono. Se sommate tutto questo, come hanno fatto alcuni ambientalisti, è possibile affermare che l’agricoltura industriale sia responsabile di oltre il 50 per cento delle emissioni di gas serra.8 In secondo luogo, i superbatteri resistenti agli antibiotici. Almeno nel Regno Unito, il Servizio sanitario nazionale cerca di convincere la popolazione ad assumere meno antibiotici, perché più i batteri vi sono esposti, più opportunità hanno di trasformarsi in superbatteri che si sono adattati per resistere loro. Vi siete presi una tonsillite che picchia come una pestilenza medievale? Tenete duro con un po’ di paracetamolo, ci dicono. Ma hanno un bel dire quando il 52 per cento di tutti gli antibiotici usati in Cina9 e il 70 per cento di quelli assunti negli Stati Uniti10 al momento vengono somministrati ad animali che non sono nemmeno malati. Di norma gli antibiotici sono dati al bestiame perché prenda peso più in fretta e per tenerlo al riparo da malattie: animali stipati insieme ai loro escrementi, in cima a una montagna di escrementi di generazioni di altri condannati alla stessa breve e accelerata vita nel medesimo spazio angusto, si ammalerebbero e morirebbero prima che avessimo modo di mangiarli se non fossero soggetti a profilassi. In Europa forse possiamo regolarci diversamente, ma Cina e Stati Uniti insieme11 producono ogni anno il doppio della quantità di carne dell’Europa. Senza un’efficace protezione antimicrobica dalle infezioni, procedure di routine come innesti di protesi d’anca, trattamento del diabete, chemioterapia, trapianti d’organo o parti cesarei diverranno incredibilmente rischiose. Già sta diventando difficile trattare polmonite e tubercolosi, e gli antibiotici cefalosporinici di terza generazione, l’ultima risorsa medica per la lotta alla gonorrea, hanno smesso di funzionare in almeno dieci paesi, tra cui Regno Unito, Francia, Australia, Austria, Giappone e Canada.12 Se non cambia nulla, si prevede che prima del 205013 la resistenza agli antibiotici ucciderà 10 milioni di persone all’anno. Terzo fatto. Una dieta carnivora è un modo assai poco efficiente di assumere calorie. Anziché ricavare energia dalle piante, la prendiamo dagli animali che la prendono dalle piante. Oltre alla carne di cui ci nutriamo, gli animali producono ossa, sangue, piume e pelle, se ne vanno in giro e si accoppiano e masticano o beccano o sbattono le ali. Insomma, consumano un bel po’ di energia che a noi non arriverà mai. Occorrono trentaquattro calorie per produrre una sola caloria di carne bovina, e undici per produrne una di carne suina. La carne più efficiente è il pollo, e comunque servono ancora otto calorie per ricavarne una.14 Quarto, l’acqua. Anche se le targhette poste sopra i lavelli dell’Harris Ranch Inn and Restaurant informano che IN CONDIZIONI DI ESTREMA PENURIA IDRICA I CLIENTI SONO PREGATI DI UNIRSI AI NOSTRI SFORZI PER LIMITARE L’USO DI ACQUA, la direzione sa che esistono ben poche attività dal consumo idrico più elevato dell’allevamento. Occorrono 43 000 litri tra acqua necessaria alla produzione di mangime, acqua potabile e acqua di servizio, per ottenere un solo chilogrammo di carne bovina:15 una quantità sufficiente per una doccia che duri quarantotto ore.16 Se considerate la questione nei termini di proteine prodotte, capirete come la carne sia l’alimento più assurdamente costoso di tutti: ci vogliono 112 litri d’acqua per guadagnare un grammo di proteine dalla carne bovina, 57 litri per ottenerne uno dalla carne suina, ma solo 10 per ricavare un grammo di proteine dai legumi.17 Centinaia di persone sono state uccise nei recenti incendi causati dalla siccità, ormai un aspetto normale della vita in California, ma l’acqua continua a fluire nel recinto dell’Harris Ranch. E poi c’è l’inquinamento delle acque: epidemie di Escherichia coli e norovirus collegati all’insalata e ad altre verdure sono quasi sempre dovute a una contaminazione delle acque d’irrigazione da parte degli animali da allevamento. Casi di eutrofizzazione, in cui il letame e il fertilizzante colano nei bacini di rifornimento idrico della zona e fanno in modo che le alghe proliferino e soffochino altre forme di vita acquatica, sono stati riscontrati nel 65 per cento della costa atlantica europea e nel 78 per cento della linea costiera degli Stati Uniti.18 Uccidiamo pesce per mangiare carne. Quinto, la pura e semplice quantità di terra necessaria a produrre carne e latticini. Quasi l’80 per cento di tutta la terra agricola del pianeta è usato come pascolo per gli animali o per coltivarvi il loro foraggio, anziché farvi crescere piante destinate al consumo umano.19 Fino all’80 per cento della deforestazione è considerato conseguenza dell’espansione agricola.20 Anziché essere una risorsa vitale per assorbire il carbonio prodotto dall’agricoltura animale, la foresta amazzonica ha perso ampie porzioni a causa degli incendi appiccati al fine di creare spazio per nuovi pascoli e coltivazioni di soia da adibire a foraggio. I ricercatori della Oxford University hanno calcolato che se decidessimo di smettere di consumare carne e latticini ridurremmo i territori agricoli di tutto il mondo di oltre il 75 per cento – l’equivalente della somma dell’estensione di Stati Uniti, Cina, Australia e Unione Europea – riuscendo ancora a sfamare il pianeta.21 Potremmo servirci di quella terra per piantarci alberi o creare parchi solari o costruirci case o giocare a combattere con le pistole laser: qualunque attività sarebbe preferibile all’agricoltura industriale. Sesto, la carne causa cancro, infarti, disturbi cardiaci, obesità, diabete, vCJD – variante umana del morbo della mucca pazza – salmonella, listeria ed Escherichia coli. Dunque, eccovi sei motivi a prova di bomba che rendono la carne indifendibile, per tacere del benessere degli animali, o di come la grande maggioranza del bestiame abbia una vita breve, una vita orribile, e persino i pochi fortunati animali trattati bene debbano ugualmente morire per soddisfare il nostro amore per la carne. Ma comunque di quello sapete già tutto. Potremmo riuscire a ignorare di cosa è composta la carne che mangiamo perché ci arriva in belle confezioni igienizzate e deanimalizzate, ma rimane innegabile il fatto che cibarsi di carne non abbia alcuna giustificazione. Eppure, la carne rappresenta una parte fondamentale della nostra cultura. Smettere di mangiarla sarebbe cambiare la definizione di dieta umana e perdere la posizione, che ci siamo autoconferiti, dell’umanità come vertice del mondo animale. Uno dei pilastri fondamentali dell’esperienza umana è diventato una minaccia alla nostra stessa esistenza: nel 2050 il pianeta avrà 9,7 miliardi di abitanti, e la Food and Agriculture Organization (Fao) stima un incremento del 70 per cento della richiesta di carne. Per quanto piacerebbe alla maggioranza della popolazione mondiale, ciò non potrà accadere senza rendere inabitabile il solo luogo abitabile noto nell’universo. Pur essendo la patria della bistecca in crosta di caffè dell’Harris Ranch, la California è anche dove ha visto la luce la soluzione più radicale al problema della carne. Se mi sposto tre ore a nord lungo l’interstatale 5, incontro una nuova ondata di imprenditori della Silicon Valley che sostengono potremo continuare a cibarci di carne senza conseguenze, perché sono in grado di produrla senza ricorrere ad animali. Non si parla di Quorn né di carne finta né di qualche tipo di proteina vegetale abilmente riconfigurata per servire come surrogato della carne: non il Beyond Burger a base di piselli e di olio di cocco o l’Impossible Burger da cui «cola» sangue fasullo. Questa è carne vera, fatta crescere all’esterno del corpo degli animali: nata in un matraccio, attecchita in una vasca e raccolta in laboratorio. Le startup della Silicon Valley ci promettono carne senza sangue, carne non legata alla terra, carne che non puzza di merda, carne dalla coscienza pulita. La chiamano proprio così: «carne pulita». E sono stata invitata in California perché sia una delle prime persone al mondo ad assaggiarla.

La carne prodotta in laboratorio non è un’idea nuova (anche se non antica quanto il mito di Pigmalione). Nel suo saggio «Fifty Years Hence», apparso per la prima volta sulla rivista Strand nel 1931, Winston Churchill meditava sulla direzione in cui il progresso scientifico stava conducendo l’umanità per concludere che nel 1981 «sfuggiremo all’assurdità di allevare un pollo intero solo per mangiarne l’ala o il petto, facendo crescere queste parti separatamente in un mezzo adatto». Questo brano è diventato una sorta di totem nella Silicon Valley, al punto che uno dei fondi di capitale di rischio che investe nella tecnologia alimentare si è chiamato «Fifty Years». E nei laboratori la carne viene mantenuta in vita separata dal corpo da molto prima che Churchill iniziasse a rifletterci. Il 17 gennaio 1912, il biologo francese Alexis Carrel, vincitore del premio Nobel, estrasse un embrione di pollo vivo dall’uovo, gli prelevò un frammento del cuore e riuscì a far battere il tessuto muscolare cardiaco per oltre vent’anni immergendolo in uno speciale bagno nutritivo. Quando la Nasa volle trovare il modo di produrre carne fresca da consumare durante lunghe esplorazioni spaziali, sovvenzionò il bioingegnere Morris Benjaminson perché conducesse un esperimento con strisce di polpa di pesce rosso, che nel 2001 arrivò a far crescere in laboratorio. Benjaminson e i suoi ricercatori si misero a cuocere quanto prodotto, ma si astennero dal mangiarlo (anche se gli diedero un’annusata, e a quanto pare aveva un buon profumo). Una grossa boccata di ossigeno per la carne riprodotta in laboratorio arrivò nel 2004, quando il governo dei Paesi Bassi stanziò 2 milioni di dollari per una ricerca sulla carne in vitro condotta da un gruppo di università olandesi. I fondi, però, si esaurirono cinque anni dopo, e il progetto cominciò a sembrare un’idea irrealizzabile. Il primo hamburger artificiale prodotto al mondo venne assaggiato all’una del pomeriggio del 5 agosto 2013 durante un’esclusiva conferenza stampa londinese riservata a un pubblico di duecento giornalisti e studiosi. Prodotto dal professore olandese Mark Post, fisiologo alla Maastricht University, l’hamburger richiese un costo di produzione di 250 000 euro (corrispondenti a circa 215 000 sterline o 325 000 dollari), finanziato da Sergey Brin, cofondatore di Google e tra le persone più ricche del pianeta. L’hamburger rappresentò più una verifica teorica che non il varo di un nuovo settore d’affari: lo si definì «il primo prodotto riconoscibile a base di carne creato attraverso tecniche di coltura». Quel giorno la notizia fece il giro del mondo. La vidi al telegiornale, e da allora il filmato mi è rimasto incollato alla mente. Il professor Post mostra l’hamburger con un coup de théâtre sollevando una cloche d’argento che racchiude un piccolo disco di carne rosata dentro una capsula di Petri, ventimila fasci muscolari prodotti in laboratorio (con l’aggiunta di un po’ di uova in polvere e di briciole di pane, spiega, insieme a zafferano e succo di barbabietola per ottenere il colore esatto). Uno chef dall’immacolata giubba a doppio petto lo frigge con un po’ di burro, irrorandolo regolarmente, per farlo assaggiare infine al gastronomo Josh Schonwald e a Hanni Rützler, ricercatrice nel campo delle tendenze alimentari, che lo definiscono «secco» e «insipido», ma con «un genere di densità familiare». Non perfetto, ma comunque un trionfo. Il lancio ebbe l’eco commerciale che può suscitare un progetto accademico, e fu accompagnato da un filmato promozionale altrettanto furbo. «Esistono nuove tecnologie con il potere di cambiare la nostra visione del mondo» dichiara la voce di Brin in un riverbero di note di chitarra, riuscendo a sembrare tanto futuristico quanto completamente datato con indosso i suoi occhiali Google Glass. «Mi piace prendere in considerazione opportunità tecnologiche dove la tecnologia appare praticabile e potenzialmente artefice di una vera trasformazione per il pianeta.» Adesso il video taglia su Richard Wrangham, professore di antropologia biologica alla Harvard University. «Siamo una specie nata per amare la carne» dice. «Per noi è stata all’origine di favolosi vantaggi. Una volta che abbiamo cominciato a cuocere la carne, siamo stati in grado di possedere un sacco di energia. Energia che ci ha reso possibile avere grossi cervelli e diventare, dal punto di vista fisico, anatomico, completamente umani.» Amare la carne è okay, fa parte della natura umana, anzi, è una delle cose che ci ha reso umani. «Cacciatori e raccoglitori di tutto il mondo sono molto tristi se per qualche giorno di seguito i cacciatori tornano a mani vuote. Il silenzio cala sull’accampamento. Le danze cessano. E a un certo punto, ecco, qualcuno si procura della carne!» esclama stringendo i pugni estasiato. «Portano la carne al campo, come oggi a un barbecue in giardino. Tutti sono eccitati.» Nella seconda metà del video, Post spiega il processo con cui si ottiene in realtà la carne, e lo fa apparire come una passeggiata. «Prendiamo alcune particolari cellule da una mucca, le cellule staminali dei muscoli, le sole in grado di diventare muscolo» spiega. «Ci rimane da fare molto poco per spingere queste cellule a lavorare nel modo giusto. Una manciata di cellule tolte da questa mucca può trasformarsi in 10 tonnellate di carne.» Una roba da nulla. La realtà è un po’ più complicata. Da un animale adulto si preleva tramite biopsia un campione di cellule staminali, dette «cellule starter» perché hanno il potere di crescere, dividersi e diventare grasso e muscolo (quando vi tagliate, sarebbero cellule di questo tipo a permettere alla ferita di rimarginarsi). Perché il processo abbia inizio è necessario un numero ridottissimo di cellule starter, basta un campione dalle dimensioni di un granello di sesamo, che volendo si può asportare a un animale vivo sotto anestesia. Le cellule starter vengono collocate in un germinatoio, immerse in un mezzo di coltura formato da sostanze nutritive e fattori di crescita, e poste in un bioreattore per stimolarle a riprodursi. Una cellula diventa due, due quattro, quattro otto e così via fino ad arrivare a mille miliardi di cellule. A questo punto sono posizionate all’interno di un’incastellatura in gelatina per indurle ad assumere la forma di fibre muscolari, che alla fine vengono disposte a strati. Ci vogliono circa dieci settimane per far crescere abbastanza cellule per un hamburger, ma dato che la crescita è esponenziale ne occorrono solamente dodici per produrne a sufficienza per centomila hamburger (secondo Post, calcolando duemila hamburger da un’unica mucca, che dovrebbe aver vissuto almeno diciotto mesi prima di essere macellata). Hamburger, crocchette e salsicce non possiedono una struttura vera e propria e sono relativamente facili da produrre; una lombata, invece, richiederebbe una grande quantità di lavoro per ottenere grasso, cartilagine e muscolo della giusta consistenza e disporli nella configurazione corretta. Esattamente come gli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale accelerano per via del mercato creato dai robot del sesso, la tecnologia per la coltura dei tessuti progredirà per via dell’impulso ad arrivare a veri e propri tagli di carne. A differenza della carne animale, la carne pulita si può dominare completamente e controllare fino all’ultima cellula. Le possibilità sono potenzialmente infinite. Carne con l’aggiunta di acidi grassi omega 3 per contrastare le malattie cardiache indotte dai grassi animali. Carne al riparo del rischio di Escherichia coli o salmonella, dato che gli intestini degli animali non vengono sviluppati e nessun capo di bestiame si caga addosso dalla paura quando sta per essere macellato, cosa che avviene anche negli allevamenti più premurosi. Tipi di carne dotati di forma, consistenza, sapore impossibili da ottenere in un animale. Foie gras senza bisogno di ingozzare un’oca. Bacon kosher privo di carne suina. Niente di tutto ciò finora è stato immesso sul mercato, anche se nel mondo intero sono esplose diverse startup in lizza per essere le prime. Si sono date nomi bucolici e salubri come Mission Barns, Modern Meadow, Memphis Meats e Fork and Goode. Sono gli imprenditori californiani a compiere i maggiori passi in avanti, alimentati dal genere di investimenti che possono giungere esclusivamente dai venture capitalist della Silicon Valley. Nei soli Stati Uniti l’industria della carne e del pollame vale circa mille miliardi di dollari.22 Chiunque riesca a intaccarla, anche per un misero 1 per cento del mercato, è destinato a fare soldi a palate.

Tutto questo lo so perché due settimane prima che arrivassi in California mi sono presa un caffè a Londra con Bruce, che non è né uno scienziato né un imprenditore ma si trova più addentro di chiunque altro al mondo nel nuovo settore della carne pulita. In quella giornata piovosa, Bruce ha appoggiato le braccia sul tavolino, si è allungato verso di me e per due ore mi ha parlato sinceramente e intensamente, citando un profluvio di dati, nomi e fatti che mi ha messo una gran voglia di appuntarmi. Senza battere ciglio, mi ha detto di aver visto e pregustato, nel vero senso del termine, la salvezza del pianeta, e di essere in missione per diffondere il messaggio a quante più persone possibile. Bruce Friedrich è il direttore esecutivo del Good Food Institute (Gfi), un acceleratore statunitense di think tank per i mercati della carne pulita e di quella a base vegetale. Ci siamo incontrati in un caffè di Mayfair con il pavimento a sgargianti piastrelle monocrome, dove servivano caffelatte a prezzi da rapina, perché Bruce aveva avuto un incontro appena dietro l’angolo con un miliardario inglese del private equity, uno dei finanziatori più in vista del Gfi. Energico ed elegante nella sua camicia verde menta, Bruce ha penetranti occhi azzurri che inchiodano l’interlocutore. Il nostro incontro è avvenuto una settimana dopo che alle Nazioni Unite l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc, Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico) aveva emesso l’ultimo allarme sul fatto che l’agricoltura animale rappresenti la maggiore causa di emissione di gas serra, e su tutti i giornali inglesi circolavano storie su come dovessimo smettere di mangiare tanta carne. Mi aspettavo che Bruce fosse felice dell’hype, e invece no. «Riparliamone tra un anno e mezzo» ha detto. «Nel 2015, Chatham House ha dichiarato che se il consumo di carne non fosse diminuito, i paesi non sarebbero riusciti a mantenere il cambiamento climatico inferiore ai 2 gradi entro il 2050. Anche allora la notizia ha fatto il giro dei giornali, ma nessuno ci ha badato. Quando il capo dell’Ipcc, R.K. Pacahuri, ha vinto il Nobel per la Pace insieme ad Al Gore nel 2007, ha ripetuto “Carne carne carne” allo sfinimento, spingendo i media inglesi a darne ampio risalto, eppure adesso, e sono passati anni, la gente ancora dice: “Oh, Dio, non ne avevamo mai sentito parlare”.» «Perché?» ho chiesto. «Forse perché la gente non vuole sentirlo?» «Le implicazioni per la gente sono riso e fagioli. E nessuno vuole mangiare riso e fagioli. Il fatto che sia accaduto la settimana scorsa non significa che tra due, tre anni non avremo la stessa identica conversazione.» «Dunque ci sono cicli di amnesia selettiva?» Bruce ha sorriso. «Le persone sono impegnate» ha concesso. «La tesi del Gfi è che da decenni stiamo spiegando a tutti i danni dell’agricoltura industriale, ma l’educazione non ha funzionato; tra il 98 e il 99 per cento della popolazione non intende cambiare in maniera significativa la propria alimentazione sulla base del rischio ambientale o del rischio per la salute pubblica o del rischio per la salute degli animali. La follia, per definizione, consiste nel replicare lo stesso comportamento aspettandosi un risultato diverso. Perciò date alla gente ciò che vuole, ma prodotto in maniera diversa. Cambiamo cibo. Creiamo la carne direttamente dalle cellule senza gli sprechi e la necessità degli antibiotici e la crudeltà del consumo di carne industriale. Date alla gente ciò che vuole, ma senza rischi.» Suonava tutto molto mercato libero, molto americano. Mi è tornato in mente un altro premio Nobel: Richard Thaler, che lo conseguì nel 2017 per la sua teoria dell’economia comportamentale che influenza il comportamento umano dando una «spintarella» agli individui perché compiano scelte «corrette». Bruce, però, ha respinto quell’idea. «È persino un po’ più elementare della teoria della spintarella. È la teoria dell’auto che rimpiazza cavallo e carretto. Se ciò che le persone amano della carne sono il gusto, la consistenza, l’aroma, tutte cose abbastanza essenziali, e noi possiamo dargliele ma in un modo migliore, le loro scelte cambieranno. Se è un prodotto migliore e meno caro, cambieranno eccome.» Alla nascita del Gfi, nel 2015, ne facevano parte solo Bruce e un altro membro del personale. Dopo tre anni, Bruce era a capo di un’organizzazione che impiegava settanta persone tra India, Brasile, Israele, Cina ed Europa, oltre che negli Stati Uniti. Al momento della formazione del Gfi un’unica startup operava nel settore della carne pulita, Memphis Meats: a distanza di tre anni ne esistono almeno venticinque. Ciò si deve perlopiù alla facilità con cui Bruce e il suo team rendono possibile agli imprenditori dare vita a nuove società. Il Gfi ha un dipartimento scientifico e tecnologico che pubblica articoli peer reviewed sulla ricerca e lo sviluppo della carne pulita, un dipartimento di innovazione a sostegno delle startup, un dipartimento di coinvolgimento aziendale per chiamare a bordo i colossi dell’industria alimentare e infine un dipartimento per le politiche economiche con il compito di esercitare pressione sui governi affinché «srotolino il tappeto rosso delle normative per la carne pulita», in modo che questa si possa etichettare e vendere accanto, e alla fine in alternativa, alla carne di origine animale. Come il primo hamburger mai sviluppato in laboratorio, il Gfi è nato a opera di imprenditori nel settore della tecnologia. Il suo più grande finanziatore è Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook, insieme alla moglie. Bruce va nelle business school e nei corsi per i laureati in Scienze con l’obiettivo di diffondere il verbo della carne pulita tra la prossima generazione di imprenditori e ricercatori. Il Gfi pubblica un manuale di novantotto pagine, «un buffet all you can read su pianificazione, lancio e crescita di un business alimentare sostenibile», recita la copertina, una specie di guida passo per passo a prova di idiota su come sviluppare e vendere carne di origine cellulare con tutte le informazioni necessarie, dall’ingaggio di un avvocato e dalla richiesta di finanziamenti all’ottimizzazione dei risultati per i motori di ricerca, fino al logo e al design del packaging che praticamente chiunque potrebbe seguire, da scaricare gratis. «Il suo manuale per le startup è decisamente notevole» gli ho detto. «Davvero esauriente.» «Oh, grazie. Vogliamo che tutti siano in grado di seguirlo. Sarebbe fantastico vedere i gruppi ambientalisti assumerlo come un aspetto chiave del proprio mandato.» «Ma a dire il vero nel manuale non si parla dell’ambiente. È tutto molto leccato, molto Silicon Valley. Sembra più che lei stia descrivendo una fantastica opportunità d’affari.» «Oh, certo. Gli investitori arrivano perché vogliono guadagnare un mucchio di soldi e vedono un’industria globale della carne da mille miliardi di dollari e la possibilità di produrre carne in modo meno costoso.» È lo stesso messaggio che dà alle università. «Noi vogliamo che chiunque diventi il prossimo gigante dell’industria sia consapevole della carne pulita come di uno sbocco per i propri maggiori talenti. Vogliamo trovare persone – ingegneri tissutali, biochimici o che altro – e dire loro: “Ehi, tu puoi fare la tua parte nel salvare il mondo e far vivere molto bene la tua famiglia se entri in questo settore. Puoi guadagnare soldi e al tempo stesso realizzarti facendo qualcosa in grado di salvare il mondo dalla catastrofe globale”.» C’è una battuta che gira: come si fa a sapere se qualcuno è vegano? Perché presto o tardi te lo dice. Ma non è così nel campo della carne pulita. Per tutta la durata della nostra conversazione, Bruce ha nominato il mondo vegano solo quando l’ho menzionato io. Ha taciuto delle sue cariche precedenti prima come direttore delle campagne vegane e poi vicepresidente di People for the Ethical Treatment of Animals (Peta, Persone per il trattamento etico degli animali). Mi ha risposto sinceramente quando gliel’ho chiesto, ma dubito che me ne avrebbe parlato se non avessi tirato fuori io l’argomento. Le startup della carne pulita della Silicon Valley sono guidate da vegani, come vegani sono in gran parte i loro finanziatori. L’esistenza dello stesso Gfi dipende dal denaro dei vegani: si dà il caso che Dustin Moskovitz e sua moglie siano vegani, e lo è anche il miliardario inglese che Bruce ha incontrato a Mayfair. Ma nemmeno questo Bruce l’ha detto spontaneamente. Per uno tanto prodigo di notizie e informazioni, è stata una delle poche cose che gli ho dovuto chiedere. La carne pulita cominciava a sembrare un movimento vegano camuffato, consapevole che intorno al termine «vegano» aleggia un’aura di rettitudine morale che è tossica per coloro che amano mangiare carne. Ma il futuro per cui sono al lavoro Bruce e gli imprenditori della carne pulita è un mondo dove l’industria della carne è posseduta e controllata da vegani. La carne pulita è carne vegana. Quando si prova a disabituare gli esseri umani dal cibarsi di animali, le parole hanno la loro importanza. Dopo che Mark Post ha alzato la cloche sul suo hamburger, nel 2013, nessuno ha saputo come chiamare la sua creazione. Carne di coltura? Carne sviluppata in laboratorio? Carne in vitro? È stato il Gfi a eseguire alcune serie ricerche di mercato e a coniare la nomenclatura standard. «Abbiamo optato per “carne pulita”. Abbiamo scoperto che ha riscosso un 20-25 per cento di gradimento in più da parte dei clienti rispetto a “carne di coltura”. Credo che la gente senta “di coltura” e pensi a una capsula di Petri.» Il Gfi ha suggerito alle startup di modificare i loro nomi per paura di alienarsi il favore dei consumatori: quella israeliana, ora denominata Aleph Farm, prima si chiamava Meat the Future. «La gente non cerca esperimenti alimentari futuristici» ha dichiarato Bruce. Il Gfi vuole che i clienti si concentrino sul prodotto finale anziché sul processo necessario a ottenerlo. E l’industria della carne si comporta allo stesso modo: dopotutto, in inglese la carne bovina si chiama beef e non cow, e quella suina pork e non pig. Bruce ha detto che la carne «pulita» invita a paralleli con l’energia pulita e trasmette subito l’idea che sia una carne per definizione priva di antibiotici e di agenti patogeni. Ma se tutti ci accordiamo per definirla «pulita», la carne presa dai corpi degli animali diventa non pulita, sporca. Se ci serviamo della terminologia prescelta da Bruce, accettiamo implicitamente la posizione politica vegana. «La gente capirà che questa carne non cresce da sola» ho detto. «Non pensa che a quel punto molti clienti sceglieranno di non acquistarla?» «Non credo che avremo alcun problema con l’accoglienza da parte dei clienti. In questo momento la gente mangia la carne nonostante e non per come è prodotta. Mostri alle persone un mattatoio e chieda loro: “È questo che volete mangiare?”. No. Penso che una volta che sarà prodotta in fabbrica e trasmessa in diretta su internet, tutti saranno d’accordo.» «La produzione sarà trasmessa su internet?» «Oh, sì, senza dubbio. La trasparenza rappresenta un aspetto cruciale. Un processo del tutto trasparente tranquillizzerà gli animi dei legislatori, mentre il compito dei media è essere pessimisti e giocare a fare l’avvocato del diavolo, perciò il messaggio sarà efficace se le aziende saranno trasparenti e ambiguo se non lo saranno. Per di più, chi fa questo lo fa per i motivi giusti. La trasparenza è insita nel nostro settore.» Che però lavora anche per i soldi, si capisce. «Se si riesce a conquistare anche solo una minima parte del mercato globale della carne, si tratta potenzialmente di un mucchio di soldi» ho detto io. «Ma noi vogliamo prenderci tutto quel mercato» ha replicato lui all’istante. I soldi, in realtà, sono l’ultimo dei pensieri di Bruce. È stato palese dopo un’ora e mezza passata in quel costoso caffè, quando gli ho chiesto perché abbia deciso di diventare vegano. È successo nel 1987, mi ha risposto, quando era studente, prestava servizio come volontario in una mensa per i poveri e organizzava digiuni a sostegno di Oxfam International (anziché sbronzarsi e ingozzarsi di kebab come la maggior parte degli studenti che conoscevo all’università). È stato allora che ha letto Diet for a Small Planet, un rivoluzionario testo del 1971 in cui Frances Moore Lappé sostiene che la fame nel mondo sia causata dagli sprechi della produzione di carne. «Ho pensato: “Porca merda, in pratica la mia ragione di vita è eliminare la povertà globale e poi mangio carne, uova e latticini, mi nutro di cibi che richiedono molte più calorie di altri, non sono particolarmente salutari, e stanno portando alla fame su scala mondiale”.» «E così è diventato vegano per il suo sostegno ai diritti civili?» «Quella è stata la prima ragione. Poi sono andato a lavorare sei anni in un ostello per senzatetto nel centro di Washington Dc e ho letto Christianity and the Rights of Animals di Andrew Linzey, un sacerdote anglicano.» Bruce mi ha fissato con una luce risoluta negli occhi azzurri. «Tutto questo è basato sulla mia fede. La mia fede è basata su tutto questo. La battaglia contro la povertà globale muove dalla consapevolezza che, come sta scritto in Matteo 25, la salvezza sarà di chi si schiera dalla parte dei poveri e cerca di alleviarne le sofferenze. La tesi di Linzey è che quanto avviene agli altri animali negli allevamenti industriali sia una beffa a Dio. Dio ha creato gli animali perché respirino aria fresca, si riproducano e gli rendano gloria, e le condizioni con cui sono trattati negli allevamenti gli negano tutto quanto Dio ha creato per loro, e gli infliggono dolore per qualcosa di tanto irrilevante come una preferenza del palato. Ci hanno detto che la Terra ci è stata concessa in prestito, e così non facciamo che calpestarla; che ci è stato concesso in prestito il nostro corpo, e così moriamo per malattie da iperconsumo. Dal punto di vista del credente, è sbagliato in ogni senso.» Quando infine si è fermato a rifiatare, Bruce aveva un sorriso sereno e pacificato. I due aspetti su cui ha taciuto, la sua fede e il suo veganismo, sono evidentemente il motore che lo spinge, il centro del suo universo. Una volta concessagli la possibilità di parlarne, ha cambiato modalità e all’improvviso si è trasformato in un evangelista in missione (una missione religiosa, una missione per i diritti degli animali e una missione per i diritti umani) per salvare il pianeta, una specie di supereroe cristiano vegano. «Per lei si tratta di una vocazione?» gli ho chiesto alla fine. «Assolutamente» ha risposto senza esitare. «Una chiamata religiosa.» E nella sua schiettezza priva di qualunque rammarico, nella sua sincera e intensa convinzione, c’era qualcosa che mi ha fatto sentire molto cinica, inglese, carnivora e meschina. Mi ero chiesta se la carne pulita fosse abbastanza vegana da poterla mangiare senza smettere di essere vegani. «Lei l’ha assaggiata» ho detto. «Si considera ancora vegano?» «Sì. Il fatto che qualcuno abbia mangiato carne tre volte non significa che non sia un vegano. Non credo che si possa consumare abitualmente carne pulita ed essere vegano perché la carne pulita è carne, e un vegano si astiene dal cibarsi di prodotti animali, perciò una volta che la carne pulita sarà largamente disponibile, io smetterò di essere vegano perché mi nutrirei di quella.» «Com’è stato mangiarla dopo non aver toccato carne da trent’anni? Dev’esserle sembrato strano.» «Ho mangiato pollo e anatra. E la prima cosa che ho pensato è: “Porca merda, che buona”.» «Davvero?» mi ero detta. Da tutto ciò che avevo sentito dai miei amici vegani e vegetariani, se non si mangia carne per decenni e poi di colpo la si riassaggia, intenzionalmente o meno, il gusto e la consistenza appaiono disgustosi e provocano tremendi problemi digestivi. «E così le è piaciuta?» gli ho chiesto di nuovo. «Oh, sì! Non ho obiezioni al gusto, al sapore o alla consistenza della carne. Le mie obiezioni riguardano i costi esterni. Ma sì, mi è piaciuta tantissimo.» Ecco il punto. Se la nostra fame di carne ci sta uccidendo tutti, non è questo desiderio il problema su cui concentrarci, invece dei metodi con cui la carne viene prodotta? «La carne pulita non perpetuerà il gusto per la carne tra coloro che un giorno potrebbero passare a una dieta a base vegetale, se troviamo un modo per rendere convincenti le altre tesi?» ho chiesto. E come sempre, Bruce aveva la risposta pronta. «Tre cose» ha replicato. «Uno, questo è il “se” più grande del mondo. Ci abbiamo già provato ed è andata male.» «Ma non è vero che sempre più gente sta diventando vegana?» «Quando nel 1996 ho iniziato a perorare professionalmente il veganismo, pensavo che l’umanità intera fosse in procinto di abbracciarlo. Se ne parlava dappertutto. Ci sosteneva Alicia Silverstone, ci sosteneva Alec Baldwin, ci sosteneva Pamela Anderson, che nel 1996 era sulla cresta dell’onda. Ma i numeri, in realtà, non sono cresciuti di molto da allora.» Non è quanto avevo letto sulla crescita del veganismo in Gran Bretagna, dove il numero di vegani si stima sia quadruplicato tra 2014 e 2019,23 anche se è impossibile disporre di dati globali e la padronanza di Bruce in merito a cifre e fatti sull’argomento non poteva che mettermi all’angolo. A questo punto ha preso il via. «Due: un colossale: “E allora?” Chi se ne importa. Se si può produrre carne dalle piante e direttamente dalle cellule, che male c’è nel perpetuare il gusto per la carne?» «Non si creerebbe una sorta di mercato nero per la carne “vera”, quella che proviene realmente da un animale?» «Sarebbe una frazione minuscola rispetto a ora, e gli animali vivrebbero vite degne di essere vissute. Se il cento per cento degli animali allevati per la macellazione conducesse una vita dignitosa prima di finire al mattatoio – che è quanto accadrebbe in questo scenario – sarebbe meno dell’1 per cento del numero degli animali macellati oggi, e sarebbero trattati tutti bene.» Prima di potergli chiedere come facesse a saperlo, era già passato al punto successivo, il più importante e quello che lui sentiva come la ragione autentica di ogni suo sforzo. «E poi il terzo aspetto, che probabilmente scomparirà. Un mondo in cui il 98-99 per cento della carne è carne pulita o a base vegetale è un mondo dove la stragrande maggioranza degli individui non si macchia di complicità nel quotidiano sfruttamento degli animali. Gran parte del motivo per cui la difesa dei diritti degli animali non prende piede è che il 98-99 per cento delle persone partecipa ogni singolo giorno» e picchia l’indice sul tavolo per scandire ogni parola «a una crudeltà che sarebbe punibile con il carcere, se gli animali godessero di protezione legale. Se la gente non fosse più coinvolta in questa atrocità quotidiana, ciò renderebbe molto, molto più facile progredire verso un mondo in cui gli animali siano trattati bene e i loro diritti e interessi siano protetti.» Ecco come la rivoluzione per i diritti degli animali trionferà alla fine: non grazie a raccapriccianti video girati di nascosto nei laboratori dove si praticano test su animali, non con il lancio di bombe a mano contro le pelliccerie, ma dando a noi carnivori un sostituto della carne che ci spinga a riconsiderare il nostro presunto diritto di vivere a spese degli animali. Accettare la posizione di Bruce è credere che il movimento in difesa dei diritti degli animali abbia fallito, e che la tecnologia porterà a cambiamenti che le tesi etiche dei vegani non sono riusciti a convincerci a intraprendere. L’agenda di Bruce era fitta: il suo prossimo impegno era un incontro con Kentucky Fried Chicken per discutere un futuro senza pollo. Mi sono scusata per avergli sottratto tanto tempo. «Non c’è niente di cui m’interessa parlare di più, davvero» mi ha rassicurata. «Lo vedo.» Quando ci eravamo accordati per incontrarci in quel piovoso pomeriggio londinese non mi aspettavo di uscirne convinta della causa della carne pulita. La sicurezza di Bruce, però, era contagiosa. Non c’era domanda che potessi attentamente formulare, nessuna critica che fossi in grado di sollevare, nessun problema per cui la carne pulita non rappresentasse già la soluzione. Nella sua azienda, la carne pulita sembrava un punto d’arrivo inevitabile, una questione non di «se» ma di «quando». Alla fine della chiacchierata, mi sono sentita come se avessi appena trascorso due ore con qualcuno che stesse davvero cambiando la storia. Due settimane dopo, mentre lascio l’hotel di Auschbeef e imbocco l’interstatale 5 in direzione nord, verso San Francisco, mi sento ancora addosso l’ottimismo di Bruce. Il recinto dell’Harris Ranch dondola per un po’ nel mio specchietto retrovisore e poi scompare. Dieci minuti dopo, anche la puzza è andata via. 6. I vegani che amano la carne

Mantelle cerate sbattono alla brezza nel Mission District di San Francisco. Tende da campeggio scure e anonime si rannicchiano come muschio contro i reticolati. In Folsom Street un senzatetto dorme scompostamente abbandonato a faccia in giù sul marciapiede. A pochi passi dal suo naso c’è una porta dorata, così lustra da brillare alla luce di mezzogiorno. Al centro un pannello di vetro con la parola JUST. È il quartier generale della startup alimentare da 1,1 miliardi di dollari1 che ha annunciato di essere sul punto di diventare la prima a mettere in commercio carne pulita. È JUST in quanto GUIDATA DA GIUSTIZIA, RAGIONE ED EQUITÀ, come recita lo slogan sulle sue etichette. Non c’è niente di giusto, ragionevole o equo in come miliardi di capitale di rischio possano riversarsi in una città insieme a una tale eclatante disperazione, ma le persone che lavorano qui intorno sembrano non farci caso. Suono il campanello, la porta d’oro si apre, vengo accompagnata su una scala grigia e in un vasto open office dal pavimento di cemento. Swoosh – qualcuno su uno skateboard schiva un gruppo di scrivanie. Altoparlanti nascosti da qualche parte tra le travi d’acciaio scoperte e i condotti serpeggianti diffondono smooth jazz. Qui lavorano circa cento persone, insieme a due golden retriever che trotterellano scodinzolanti e con la lingua ciondoloni. Alcuni bambini sono inginocchiati davanti a un tavolino, impegnati a colorare. Due enormi fotografie in bianco e nero incorniciate stanno appese fianco a fianco su una parete candida. A sinistra Bill Gates che si ficca qualcosa in bocca accanto al Ceo di JUST, Josh Tetrick, con la scritta FARE IL SALTO sovrapposta in gigantesche lettere rosse nell’angolo in basso a destra. A destra Tony Blair, anche lui che s’infila qualcosa in bocca mentre Josh lo sta a guardare. Su questa foto campeggia la scritta OSA. Sono qui per assaggiare la carne pulita che JUST sta per lanciare e incontrare Josh di persona. Ma prima devo fare il giro dell’azienda. «Un tempo l’edificio era una fabbrica di cioccolato, poi per un po’ è stato la sede di Disney Pixar» mi spiega Alex Dallago, la responsabile della comunicazione, evocando la sensazione che questo luogo sia da sempre una fabbrica di sogni. Forse Josh è una specie di Willy Wonka in grado di trasformare cibi fantastici in realtà. Alex, tuttavia, non mi anticiperà ciò che mangerò oggi: sarà una sorpresa. Dovrò aspettare e vedere. Se non altro quelli di JUST sono pronti a farmi entrare nell’edificio. Infatti, nonostante tutte le promesse di Bruce a proposito di trasparenza totale e di produzione trasmessa in diretta, mi accorgo che l’industria della carne pulita non è molto disposta a lasciarsi esaminare, quanto meno al momento. Memphis Meats, la prima e la più grande startup di carne pulita, sostiene di produrre carne bovina dal 2016 e carne di pollo e anatra dal 2017. Alla conferenza annuale del Gfi nel 2018 il suo Ceo Uma Valeti ha detto che chiunque volesse assaggiare la loro carne era il benvenuto a fare un salto al quartier generale e provarla. Finora, però, nessun giornalista ha accettato l’invito, e tutte le immagini delle loro polpette leggermente brunite in un nido di fettuccine sono state scattate e distribuite dalla stessa Memphis Meats. Di sicuro la loro produzione di carne di coltura sta andando alla grande – giganti del settore come Tyson e Cargill, nonché Bill Gates e Richard Branson, hanno stanziato investimenti significativi nell’azienda –, eppure, malgrado l’invito di Uma, non hanno voluto condividere il piacere dell’assaggio con me. Il loro ufficio stampa continuava a fornirmi motivi diversi sul perché non fosse il momento giusto: Uma era fuori città, tutta la carne che avevano da assaggiare era destinata a potenziali investitori, stavano rinnovando i locali e non avevano idea di quando sarebbero finiti i lavori, sei mesi, forse di più. Anche JUST ha avuto i suoi problemi di trasparenza. Quando Josh ha fondato la società, nel 2011, si chiamava Hampton Creek; il suo prodotto di punta era una maionese senza uova, a base vegetale, detta JUST Mayo, che nei negozi della catena Whole Foods divenne un successo commerciale sbaragliando qualunque altra maionese, vegana e no. La unique selling proposition di Hampton Creek era che avrebbe setacciato il mondo alla ricerca di piante che contengano proteine capaci di replicare in modo impeccabile le proprietà delle uova, servendosi di studi in laboratorio e dell’analisi computazionale per identificare gli esemplari perfetti. Sostenendo di essere in grado di sbloccare i segreti molecolari delle piante – e di avere «hackerato» le uova così da non doverle più ottenere dalle galline – Hampton Creek si posizionò come una compagnia tecnologica anziché come un produttore di cibo vegano, rendendolo attraente per una vagonata di venture capitalist che mai avrebbero investito in hamburger fatti con fagioli. Nel 2015, però, diversi ex impiegati dell’azienda rivelarono ai giornalisti di Business Insider che «la compagnia ricorreva a espedienti scientifici scadenti, o ignorava del tutto gli aspetti scientifici» e «alterava la verità» per attrarre gli investitori.2 Nel 2016, un’inchiesta di Bloomberg suggerì di prendere con le pinze gli strabilianti dati di vendita di JUST Mayo: si era trovata prova che gli impiegati e i collaboratori di Hampton Creek erano stati costretti ad acquistare massicce quantità di JUST Mayo da Whole Foods allo scopo di gonfiare i dati a dismisura.3 Nel 2017 Hampton Creek cambiò nome in JUST, come il suo prodotto più venduto (oppure no), e Josh decise che avrebbero dovuto espandersi nel campo della carne pulita, un settore scientifico e imprenditoriale completamente diverso e anche più hi-tech. Caricarono sul sito un video per spiegare il processo. L’ho guardato appena prima di arrivare da loro. «Ci è venuta l’idea di servirci di un’unica piuma tolta al miglior pollo che riuscissimo a trovare» dice Josh nella sua profonda, inconfondibile voce del Sud, mentre l’inquadratura si apre in dissolvenza su un pollo solitario dalle soffici piume bianche immerso nella dorata luce del sole su un grande pascolo. Una didascalia compare sull’uccello, e recita: IAN, POLLO. Un uomo in sandali entra nell’inquadratura. Raccoglie una delle piume di Ian cadute nell’erba e la solleva verso la luce, rigirandosela tra le dita con aria stupefatta come se avesse appena isolato il bosone di Higgs, per poi depositarla in un portacampioni trasparente. Segue un pezzetto con alcuni robot in laboratorio e delle equazioni scritte a mano su una di quelle lavagne trasparenti che si vedono solo nei film di fantascienza e nei telefilm di indagine forense. Scienza. Il video si conclude con una specie di pranzo all’aperto e uno chef che sparge sale marino con un enfatico gesto al rallentatore sopra un vassoio di crocchette di Ian appena fritte. Sette commensali siedono intorno a un tavolo da picnic, sorridendo mentre masticano bocconi di Ian con Ian in persona che trotterella ai loro piedi. «È stata un’esperienza extracorporea starsene seduti lì a mangiare pollo mentre il pollo che stai mangiando scorrazza davanti a te» recita la voce di Josh nel filmato, anche se non è tra le persone che nel video si nutrono di Ian. «Abbiamo scoperto come funziona davvero la vita, e adesso non ci occorre più causare morte per creare cibo.» Ai miei occhi sembra tutto involontariamente buffo, ma a portarmi qui è stata la schiettezza di Bruce, perciò decido di parcheggiare il mio cinismo e di prendere la cosa sul serio. Se anche una piccola parte delle loro promesse risponde al vero, allora la relazione tra gli animali, il pianeta e la nostra alimentazione sta per cambiare per sempre. E potrei essere tra i primi a sperimentarlo. Prima di quello, devo informarmi sulle piante. Alex mi presenta a Udi Lazimy, il responsabile dell’approvvigionamento di specie vegetali di JUST, con cui comincerò il mio tour. C’è qualcosa di curiosamente familiare nel suo barbone arruffato e nei suoi penetranti occhi azzurri, e mi occorre qualche minuto per rendermi conto che Udi è il tizio con i sandali che reggeva la piuma davanti all’obbiettivo nel video di Ian il pollo. Il lavoro di Udi, però, non ha niente a che vedere con i polli. «Io mio occupo dell’approvvigionamento di piante da tutto il mondo per le nostre ricerche» mi spiega mentre conduce Alex e me al piano di sotto e apre le porte della biblioteca botanica, un enorme stanzone gelido con scaffali metallici alti fino al soffitto che ospitano grosse tinozze di plastica. Al centro, un tavolo coperto da un telo nero, dove qualcuno ha appoggiato sette piccoli crogioli contenenti semi diversi perché io li esamini. «Ci sono oltre duemila varietà di piante in questa raccolta» dichiara Udi con orgoglio. «Il tour la condurrà attraverso il nostro Discovery Programme partendo da qui, dalla biblioteca botanica, che è il primo passo, la fonte di tutto. Raduniamo in questa stanza migliaia di materiali diversi e li alimentiamo attraverso la Discovery Pipeline per studiare le caratteristiche di questi vegetali.» È chiaro che non sono la prima persona che Udi ha portato alla «fonte di tutto». Mi racconta di aver visitato oltre sessantacinque nazioni alla ricerca di semi «ricchi di proteine» («e parliamo della foresta amazzonica, del Sudest asiatico, dell’Africa orientale e occidentale, delle pendici delle Ande…»), e se all’inizio questo mi fa immaginare Udi con un caschetto coloniale che si fa largo nella giungla a colpi di machete, scopro poi che i semi li trova visitando i mercati. E mentre i campioni sul tavolo comprendono noci maya raccolte da indigeni delle foreste guatemalteche e semi di un frutto che cresce solo nella porzione colombiana della foresta amazzonica, ci sono anche semi d’avena e di lino macinati e di canapa in polvere, che di certo si possono trovare alla drogheria a un isolato dall’ufficio di JUST. «È necessario che i semi siano polverizzati per farli lavorare dai robot che vedrà poi, lungo il corso della produzione» mi dice. Il «corso della produzione» mi riporta al piano di sotto, dove Chingyao Yang, il vicedirettore all’automazione di JUST, mi allunga un paio di occhiali. «Per la sua sicurezza» mi spiega. «Quando entreremo nella Discovery Platform le macchine saranno in funzione.» La Discovery Platform trabocca di banchi e banchi di apparecchiature. C’è un macchinario chiamato Microlab Star, tutto luci azzurre e pipette ronzanti. Ci sono dispenser racchiusi in piramidi di vetro, con file di bottigliette marchiate dal logo JUST. Ci sono due impressionanti braccia robotiche in teche di vetro che mi ricordano le mostre che ho visto allo Science Museum insieme a Kathleen, anche se queste sono ferme. «Le chiamiamo Randy e Heidi» dice Chingyao con un sorriso. «Ci mostrano le gradazioni degli isolati proteici in termini di funzionalità, gelificazione ed emulsificazione.» Al di là della terminologia tecnica, posso solamente cercare di immaginare cosa dovrebbe accadere in questo posto: qui è dove si analizzano le proteine dei semi valutandone proprietà come la temperatura di fusione e la viscosità, informazioni che vengono inoltrate agli sviluppatori e agli chef incaricati di preparare maionese, impasto per biscotti, condimenti per insalata e il resto dell’offerta a marchio JUST. In teoria dovrebbero esserci più di dieci tra scienziati e ingegneri nel Discovery Team, ma vedo solo una persona al lavoro, e sta facendo qualcosa di manuale con un’unica pipetta. Serve davvero tutta questa tecnologia? «Con quanta frequenza usate queste macchine?» «La maggior parte di loro opera ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette» risponde. «Quindi questa adesso è in funzione?» chiedo indicando il megagadget più vicino, che sembra complesso e costoso ma rimane fermo e in silenzio, come quasi tutto qui dentro. «In questo preciso momento, no. Sono appena andati in riunione perciò qui non abbiamo campioni, ma di solito ne abbiamo sempre. Adesso si trova in standby.» Alex mi porta al piano di sotto dove Vítor Santo, il responsabile scientifico di quella che JUST definisce la «piattaforma di agricoltura cellulare», ci sta aspettando in un corridoio. Vítor è un ingegnere tissutale portoghese che ha passato cinque anni nel campo della ricerca sul cancro prima di trasferirsi l’anno scorso a San Francisco per lavorare con JUST. Allunga il braccio snello, mi stringe la mano e si lancia all’istante nella sua parte del tour. Questa è la sezione di JUST su cui desidero davvero indagare, ma come Udi e Chingyao, Vítor si è preparato ciò che mi dirà, e vuole recitare le sue battute a prescindere dalle mie domande o dalle mie conoscenze in materia. «Si comincia con l’isolare una piccola quantità di cellule dall’animale, come in una biopsia. Le si portano in laboratorio e le si pongono a coltura con sostanze nutritive, in un mezzo liquido che contiene tutto ciò che in genere serve alle cellule.» «Quanto può dirmi al riguardo?» chiedo. «Come vi procurate le biopsie? In quale mezzo di coltura le collocate?» «Posso dirle che siamo al lavoro su diverse specie. Il nostro prodotto più avanzato è il pollo, ma ci stiamo occupando anche di carne bovina, suina e di altre specie avicole. Per quanto riguarda il mezzo di coltura, seguiamo le tracce della ricerca medica e farmaceutica che in genere si serve di molte di queste ricette di mezzi, per così dire. Ma stiamo apportando modifiche alla composizione del mezzo per renderlo, ehm, più accessibile.» Vítor sceglie con cautela le parole perché il mezzo di coltura dove crescono le cellule rappresenta una questione importantissima. I ricercatori medici e farmaceutici preferiscono servirsi del siero fetale bovino (indicato con l’acronimo Fbs, Fetal Bovine Serum) che, come si evince dal nome, proviene da vitelli non ancora nati. Il siero è sangue privato di cellule, piastrine o principi coagulanti, ma dotato di sostanze nutritive, ormoni e fattori di crescita che determinano il proliferare delle cellule. Il Fbs si estrae infilando un ago4 nel cuore di un feto di vitello appena strappato all’utero della madre in un mattatoio. Per cinque minuti il sangue viene drenato dal cuore finché il feto muore, dopodiché si estrae il siero. Difficile immaginarsi una sostanza meno vegana del Fbs. Il siero, però, è davvero ottimo per far crescere le cellule. Il siero estratto dai feti di vitello abbonda particolarmente di fattori di crescita, e il Fbs è un mezzo di coltura universale, vale a dire che si può buttargli dentro qualunque tipo di cellula per vederla crescere e moltiplicarsi. Esistono altri mezzi di coltura, ma tendono a funzionare solo per uno o due specifici tipi di cellule, mentre con il Fbs è possibile far crescere ciò che si vuole. Ha giocato un ruolo importante negli studi medici, è stato usato per sviluppare i vaccini e nella ricerca sul cancro e sull’HIV, ed è il succo di cui si è servito Mark Post per far crescere il suo famoso hamburger. È anche uno dei principali motivi per cui quell’hamburger era così caro: il Fbs può costare dalle 300 alle 700 sterline al litro, e ce ne vogliono 50 litri per produrre un unico hamburger.5 «Se ci servissimo delle formule abituali non arriveremmo mai a realizzare un prodotto accessibile» prosegue Vítor. «La strategia, qui a JUST, è usare la nostra Discovery Platform per testare diverse proteine a base vegetale e controllare quali favoriscano la crescita delle cellule. Nutriamo davvero con proteine derivate dalle piante le cellule animali che abbiamo isolato. Se ci riflette, è proprio quanto accade in natura: gli animali si nutrono delle piante.» Questo semplificando al massimo, naturalmente – un mezzo di coltura è più di semplice cibo –, ma se JUST c’è riuscita sarà decisamente un punto di forza. Saranno i primi a lanciare sul mercato la carne pulita, e lo faranno nel modo più vegano possibile. «Avete effettivamente scoperto un efficace mezzo di coltura a base vegetale?» chiedo. «Più o meno. Direi che c’è del lavoro da fare, stiamo ancora esaminando numerose piante» risponde. «Abbiamo trovato delle formulazioni che funzionano molto bene, ma non posso affermare che siamo arrivati alla ricetta perfetta. Direi invece che siamo riusciti a ottenere un mezzo di coltura senza il ricorso al siero animale.» Se anche JUST riesce a far crescere carne su scala industriale senza siero animale, avrà pur sempre bisogno di animali per le cellule starter. Mi domando quanto sia realistico un modello di business basato sulle piume del pollo Ian. «Quali cellule usate?» chiedo. «Le si possono prendere da un muscolo o dal sangue, dipende dall’animale. Non sono in grado di fornirle molti dettagli al riguardo. Rientra nel lavoro da fare.» «Potete ricavarle anche da una piuma?» «Sì» risponde con una leggera scrollata di spalle. «Certo. Come si vede nel video.» Vítor mi porge il secondo paio di occhiali del tour ed entriamo in un nuovo laboratorio. Nell’angolo più lontano ci sono tre cappe aspiranti metalliche sopra vassoi di semi, piccole matrici di plastica con pozzetti pieni di un fluido rosso vivo che contengono cellule di carne, mentre una donna v’inietta qualcosa con una pipetta. Vítor mi spiega che sta cambiando il mezzo di coltura: dev’essere continuamente rinnovato perché le cellule lo privano delle sostanze nutritive, lasciandovi materiali di scarto che inibirebbero la crescita qualora non venissero rimossi. Lo dice allegramente, come se parlasse di giardinaggio in camice bianco. Tutto in questa stanza ha lo scopo di «imbrogliare» le cellule facendo credere loro di crescere all’interno di un animale in modo che si riproducano. Il mezzo di coltura, regolarmente rinnovato, riceve le sostanze nutritive e viene pulito dalle scorie, compito normalmente affidato al sangue pompato dal cuore. I quattro incubatori grigi mantengono le cellule a una temperatura corporea di 37 gradi. C’è addirittura un agitatore, una piattaforma mobile che fa girare il liquido in cui sono sospese le cellule per riprodurre ciò che proverebbero se stessero crescendo in un corpo in movimento. I turbinanti matracci conici riempiti di mezzo di coltura e succo di carne sembrano uscire dritti da un film di fantascienza, ma Vítor si affretta a dissipare tale idea. «In realtà è tutto molto comune. Si usa per diversi processi di fermentazione dei batteri. Se si pensa a come si ottiene la birra, è la stessa cosa» afferma. In questo laboratorio s’identificano le cellule dall’aspetto più promettente, che poi vengono portate di sopra per essere prodotte su più ampia scala in bioreattori, e infine inviate agli chef di JUST per lo sviluppo del prodotto. «Da un solo pollo come Ian possiamo ricavare abbastanza cellule per tutto. Creiamo questa banca delle cellule, migliaia di fialette, e ogni volta che diamo il via a una linea di produzione ci basta prendere una fialetta e partire da lì» dichiara Vítor con un sorriso orgoglioso. L’idea che le migliaia di animali stipati tra lo sporco e la puzza del recinto dell’Harris Ranch siano sostituibili con scaffali di provette sterili è davvero notevole. Alex, la responsabile della comunicazione, è una presenza costante, che annuisce alla nostra conversazione mentre controlla il telefono. Vuole che ci muoviamo, dobbiamo salire a vedere il bioprocesso e il laboratorio di produzione. Adesso sono proprio curiosa di assaggiare la carne. Vorrei che mi dicessero che cosa sto per mangiare. «Quanto siamo lontani dall’ottenere tagli di carne?» chiedo. «Potremmo far crescere una bistecca in una settimana, se lo volessimo» risponde allegramente Vítor. Rimango di sasso. «Davvero?» «È una questione di economia di scala. Potremmo realizzare un sacco di prototipi per mostrare il nostro potenziale tecnologico, ma non lo facciamo. Sappiamo come riuscirci, ci occorrerà solo un po’ per integrarlo in questo flusso di lavoro.» Se far crescere dei tessuti è così facile, perché chi subisce ustioni necessita di dolorosi innesti di pelle? Perché tante persone sono costrette alla dialisi? Perché non produciamo reni e fegati e cornee in laboratorio anziché aspettare che i donatori muoiano? Come tanto di ciò che ho udito oggi, la cosa solleva molte più questioni che risposte. Il laboratorio al piano di sopra è luminoso e semivuoto. I due bioreattori metallici hanno ognuno la forma e le dimensioni del minibar di una camera d’albergo, e nessuno di loro è al momento in funzione. JUST ha promesso di immettere sul mercato la sua carne pulita già da quest’anno, ma siamo a novembre ed è impossibile che riescano ad attivare una produzione in massa da questa stanza e con questi macchinari. Qui sono alla presenza di un progetto di ricerca, non dell’avvio di una linea di produzione commerciale. «Quando sarete in piena fase produttiva vi occorreranno bioreattori molto più grandi, non è vero?» chiedo. «Esatto. Per raggiungere le quantità che ci servono, dovremo costruire i bioreattori da zero. È una sfida. Ecco perché è importante mettere in vendita il prodotto in modo che la gente possa assaggiarlo davvero e capire il suo potenziale. Quando avremo il supporto dei clienti e i fondi dalle aziende produttrici di carne o da altri investitori, allora ci lavoreremo.» E a quel punto mi rendo conto che JUST non ha intenzione di vendere carne pulita nei negozi nel breve periodo. Il lancio sarà una trovata pubblicitaria per rivendicare il fatto di essere i primi e attrarre maggiori capitali di rischio. La carne pulita è ancora in una fase di dimostrazione del concetto, anche se stavolta il concetto dimostrato non è che la carne si possa produrre in laboratorio, ma che la gente sia pronta a pagare per averla. «Quanto costerà?» chiedo. «Ora come ora, non so risponderle. Sarà disponibile in pochi ristoranti di alto livello, quest’anno in quantità limitata.» «Di sicuro quest’anno?» «Sì. In un mese o giù di lì tutti lo verranno a sapere.» Irradia un’orgogliosa sicurezza. «È incredibile. È stato uno dei motivi per cui sono passato dalla ricerca medica a questo progetto: la sensazione che qualunque cosa avessi fatto avrebbe avuto un impatto così straordinario, e sarebbe accaduto davvero in fretta. Nella ricerca medica ci vogliono, tipo, quindici anni per immettere un farmaco sul mercato. Questo settore industriale opera in modo più veloce, e io sono salito a bordo al momento giusto, quando c’è stato il giusto supporto.» Se siete appassionati, idealisti, ambiziosi e impazienti, JUST è il posto che fa al caso vostro.

Alex mi riporta nell’open office. «Si accomodi» mi dice, indicando un lungo tavolo nero dove il direttore del servizio clienti Josh Hyman mi aspetta davanti a un fornello da campo con un berretto grigio e un grembiule nero con il marchio JUST, come se fossimo sul set di un canale di televendite o di un reality show di cucina. Due ore di tour, e finalmente è arrivato il momento di assaggiare il futuro. Sono gasatissima. «Allergie, intolleranze, cibi che non mangia?» mi chiede mentre accende il fornello. Dovrebbe già saperlo: ho dovuto anticipare ad Alex le mie esigenze alimentari prima di presentarmi qui. Ovviamente, non ne ho nessuna. Mangerei praticamente qualsiasi cosa, ed è il motivo per cui mi trovo qui. Mi sforzo di non essere cinica, ma mi sembra che vogliano sgamare la mia veganità in anticipo per sondare la mia familiarità con quanto sto per assaggiare. E scopro che non potrò ancora mangiare la carne. Non è il momento. Prima devo provare JUST Egg, che è ottenuto senza uova, naturalmente, una delle creazioni a base vegetale della Discovery Platform. Josh rovescia da un barattolo qualcosa che sfrigola in padella. «È vero burro?» chiedo. «Sì» risponde come se niente fosse. «Credo che il 95 per cento delle persone che mangiano uova strapazzate le prepari così. E allora perché non imitarle? Non fa male. Dà un buon sapore.» «Cosa? Questa è una società vegana, un’azienda alimentare costruita sulla promessa che gli animali non vengano sfruttati, e lei mi sta dicendo che il burro non fa male e dà alle cose un buon sapore?» vorrei replicare. Ma sto zitta. «È grasso» continua lui allegramente. «Potrei usare l’olio ma non lo faccio. Ecco perché le ho chiesto se era allergica a qualcosa. È pronta? Ecco qua, uovo di fagiolo mungo.» Versa il JUST Egg da una bottiglia di plastica da 33 centilitri nella padella calda. È di un giallo chiaro e lucente, proprio come un uovo appena sbattuto. Si mette a ribollire e a sfrigolare, proprio come un uovo. Comincia a brunirsi lungo i lati, a raggrinzirsi e ad arricciarsi un po’, proprio come un uovo. E la cosa incredibile è che non è un uovo. «Si può anche rigirare senza problemi.» Lo rivolta con una spatola. «Userò due ingredienti per insaporirlo», e prende un pizzico di qualcosa da un crogiolo nero. «La prima si chiama sale nero. Non che sia indispensabile al cento per cento, ma contiene un composto naturale a base di zolfo che gli dà quel po’ di profumo e di sapore di uovo. Giusto un pochino. E dato che è un uovo, ci metto anche del pepe. Ed ecco qui. Mi pare pronto.» Lo versa in una ciotola e me la porge. Sembra un uovo. Fa il rumore di un uovo, si cuoce come un uovo. Ha la consistenza di un uovo, sia sulla forchetta sia in bocca, è leggero, caldo e spumoso. Ma è totalmente insapore. Senza il burro, il pepe e lo speciale sale solforoso non saprebbe proprio di nulla. «Buono, direi» commento. «Vero? Un po’ soffice e un po’ croccante, senza esagerare.» Non so cos’altro dire. «È buono… è diverso.» «Sì. E anche se non ha esattamente il sapore di un uovo…» «La consistenza è la stessa» dico sforzandomi di essere costruttiva. «Ed è una consistenza davvero perfetta. Perciò se lo immagina in una ricetta, saltato in padella con le verdure, o ci aggiunge del formaggio per fare un’omelette o lo infila in un burrito per colazione…» In altre parole, va bene finché si maschera completamente quello che è, o che non è. Se questo è il prodotto d’avanguardia, il massimo della tecnologia alimentare del cibo a base vegetale, posso capire perché ci sia bisogno di carne pulita: nonostante tutti i semi esotici e i robot intelligenti di JUST, non sono ancora in grado di trasformare le piante in proteine animali. «E adesso ecco il vero motivo della sua visita» dichiara Josh, estraendo dal nulla un piatto nero. «La nostra crocchetta.» E mi trovo davanti un rettangolino solitario in pastella beige avvolto in una carta oleata a strisce rosse, bianche e blu. Una crocchetta di pollo cento per cento americana. «La può intingere in un po’ di salsa, se preferisce» suggerisce indicando una piccola ciotola metallica contenente qualcosa di giallorosa, poggiata sul vassoio accanto. «Così, bell’e pronta?» Pensavo che avrebbe fritto qualcosa al fornello per me. Mi sembra strano. «Bell’e pronta» conferma lui con un cenno. «E il condimento?» «Credo che sia un po’ della nostra salsa messicana.» «Prima vorrei assaggiarla al naturale.» «Come preferisce.» «Okay, andiamo.» Addento la pastella. È calda, croccante, molto fritta e fortemente insaporita. E poi ecco la carne. E sì, è pollo. Ha il sapore di una crocchetta di pollo, sento il gusto, l’aroma del pollo sulla lingua e nel naso. Ma è così molliccio. Decisamente molliccio. Eppure… è pollo. «Sa di pollo?» si affretta a chiedermi Josh. «Sa di crocchetta di pollo» rispondo. «Eh già!» esclama Alex trionfante, e tutti e due sorridono raggianti. Mentre continuo a masticare, mi accorgo un po’ alla volta di quanto sia disgustosa. All’inizio la carne sembra familiare – sui denti sento l’inconfondibile grado di succosità e adesività della carne animale – ma ha la consistenza del più scadente cibo lavorato che possa immaginare. Il livello di compattezza è così sbagliato, la carne così lontana da un tessuto animale, che il cervello mi sta dicendo che si tratta in realtà di carne guasta e che dovrei sputarla. In questa crocchetta non si sentono pezzi di carne. È un purè di pollo pompato di additivi dentro una crosta croccante. Josh riempie il silenzio. «Sia pure critica, se vuole. Accettiamo ogni tipo di riscontro.» «L’interno è un po’… un po’ molliccio.» Lui annuisce. «Okay.» «Cos’altro c’è dentro questa crocchetta?» «Uniamo alcuni prodotti a base vegetale e poi aggiungiamo le cellule. A parte queste, è una crocchetta completamente vegetariana.» «Quanto c’è di carne vera?» «Ehm, questo non lo so.» «Non è stato lei a preparare questa crocchetta?» «Non io, ma Nicholas, che è proprio dietro di me.» Indica delle persone che lavorano a capo chino su banconi a diversi metri di distanza. Non capisco a chi si riferisca. Nicholas non è incluso nell’itinerario del tour di oggi. La crocchetta è piccola. La finisco in tre morsi, e non troppo grandi se voglio che duri abbastanza. Non ho idea di cosa stia mangiando. Si tratta di un’esperienza ancora più disturbante dell’incontro con Harmony: almeno laggiù mi hanno permesso di vedere come si costruisce un robot del sesso, mentre qui mi sono sorbita un tour di due ore senza vedere nemmeno un pezzetto di carne cruda. La crocchetta mi è arrivata calda, ma non ho visto mentre la cucinavano. Volevo tanto che questa fosse una crocchetta di pollo e invece non le somiglia per niente. Del resto, è dall’adolescenza che non mangio crocchette di pollo. Che ne so? Forse sono tutte così mollicce, forse sanno tutte di cibo lavorato, forse è esattamente di questo che dovrebbero sapere. Ma forse neppure Josh ha idea di che sapore abbia una crocchetta di pollo. «Lei è vegano?» chiedo. «Ehm… sì» risponde Josh mentre diventa rosso fuoco per l’imbarazzo, come se avessi appena scoperto che pratica segretamente il nudismo. «Lei mangerebbe carne pulita, in quanto vegano?» «L’ho provata, perciò evidentemente la risposta è sì.» «È vegano da molto?» «Dieci anni. Ma non sono un fanatico. Potrebbe essere un modo per permettermi di mangiare carne senza sensi di colpa. Non ho molti amici vegani, mia moglie non lo è. È una scelta che ho compiuto in nome mio e di nessun altro. Senza offesa, ma non m’interessa proprio come si comporta la gente.» Me lo dice quasi con aria contrita, disperato per avermi fatto sapere che lui non appartiene a una setta, che non mi sta giudicando. «È facile da cucinare, se lei è uno chef?» «Per fortuna non faccio lo chef. Lavoro come responsabile dell’accoglienza. Ecco perché sono qui a parlare con lei.» Nel laboratorio di RealBotix ho assistito a una dimostrazione. Qui mi stanno mostrando una performance. A offrirmi il mio primo assaggio di carne pulita è stato il responsabile dell’accoglienza. Il tour è stato una coreografia accuratamente diretta da Alex. Hanno semplificato, dribblato e immerso in una luce romantica tanti di quegli aspetti da sorvolare su quanto sia lontana la carne pulita dall’essere pronta per il consumo umano. Non ho idea se ciò che ho appena mangiato sia stato cresciuto nel sangue di un vitellino o nel succo di una pianta magica. Non so nemmeno da quale parte del pollo abbiano estratto le cellule. Dal sangue? Dalle ossa? Dalle piume? È stata la prova generale di una narrazione, che mi ha divertito e che so andrà lontano: la storia delle avventure di JUST nel mondo della carne è una storia che i giornalisti saranno desiderosi di raccontare e gli investitori saranno contenti di sentire. Ma rimane una storia. Ringrazio Josh e Alex. «C’è davvero roba grossa in ballo» dico. «Se riuscite a sfondare, il potenziale è enorme.» «Lo so. Ecco perché lo facciamo» risponde lui con un sorriso. «Qui non ci occupiamo di cosette. Josh Tetrick non s’impegna in affari dall’impatto minimale. Qui si parla di impatto planetario o niente.» Mi bevo una lunga sorsata d’acqua. Ho bisogno di sciacquarmi la bocca. Rimane l’ultimo atto dello spettacolo, naturalmente: Josh Tetrick in persona, fondatore, Ceo e padrone incontrastato di JUST. L’anno scorso tre dirigenti di Hampton Creek sono stati licenziati in mezzo a voci di complotti per strappare il controllo a Josh e passarlo agli investitori. Qualche settimana dopo, tutti i membri del consiglio, a parte Josh, hanno presentato le dimissioni. Josh comanda, e sembra che chiunque lo metta in dubbio finisca alla porta. Ha quasi quarant’anni, le spalle larghe di un giocatore di football americano, grandi mani e sopracciglia folte. Mentre mi siedo accanto a lui al tavolo della sala riunioni sento di avere un disperato bisogno di un po’ di genuina spontaneità, di schiettezza senza fronzoli. Se c’è uno che può darmi delle risposte definitive, dovrebbe essere quest’uomo. Anche Josh, però, ha delle battute da recitare. Quando gli chiedo perché abbia deciso di spaziare dall’uovo a base vegetale alla carne pulita ha già pronti paragrafi interi da snocciolarmi. «Non siamo un’azienda vegetariana o non vegetariana: noi vogliamo essere un’azienda che centra il bersaglio» dice con il suo marcato accento del Sud. «Si è scoperto che il fagiolo mungo è davvero efficace nell’aiutarci a ottenere l’uovo, ma se davvero vogliamo arrivare alla carne, se davvero vogliamo arrivare al maiale, al pollo, pensiamo sia più efficace partire da una cellula presa a una mucca, a un pollo, a un maiale, nell’ottica del gusto, della consistenza e anche della denominazione commerciale.» Josh conosce alla perfezione l’importanza di assegnare alle cose il nome giusto. Nel 2014 Unilever, proprietaria del marchio Hellmann, ha intentato un’azione legale contro Hampton Creek sostenendo che il nome JUST Mayo rappresentasse una pubblicità ingannevole: anziché essere «solo» (just) maionese, era una non maionese, che non poteva rispettare la definizione di maionese espressa dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti perché non conteneva uova. La Fda si è espressa favorevolmente e Hampton Creek l’anno successivo ha cambiato le etichette per chiarire che cosa fosse il prodotto, aggiungendo lo slogan GUIDATA DA GIUSTIZIA, RAGIONE ED EQUITÀ per mostrare nello specifico cosa intendano con la parola just. Hampton Creek ha continuato a chiamarla «maionese» e la gente ha potuto acquistarla senza pensare di comprare qualcosa di alternativo, di strano. «I miei genitori vanno a comprare la carne da Piggly Wiggly e Winn- Dixie a Birmingham, Alabama. Come faccio ad aumentare le probabilità che le amiche di mia madre scelgano il tipo di carne bovina e suina che penso dovrebbero acquistare, il tipo che non ha richiesto l’uccisione di un animale né lo sfruttamento dell’acqua o della terra? Se non la chiameremo “carne” non riusciremo a creare un sistema in futuro, quando per la maggior parte dei chilogrammi di carne prodotti in un determinato giorno non ci sarà bisogno di un animale. E io voglio che arrivi questo giorno.» Il suo volto s’infervora come quello di un pastore che parla della Terra promessa. «Come faremo ad affrettare la venuta del giorno in cui il 50 per cento più uno della carne prodotta sarà ottenuto senza dover uccidere nemmeno un animale? Perché, quando quel giorno arriverà, il giorno dopo saliremo al 55 per cento, e poi al 60 per cento. Questo è l’unico modo per arrivare a quel giorno.» Perché la carne pulita funzioni, occorre che eserciti un’attrattiva di massa. È inutile essere il top tra i venditori a Whole Foods o Waitrose se la grande maggioranza della gente va a fare la spesa da Walmart e Tesco. Dev’essere cibo di massa, un alimento di base, non di lusso. «Il nostro punto d’arrivo è cambiare il sistema, e nel corso del processo aiutare gli investitori a guadagnare un sacco di soldi. Perché io voglio che loro investano ancora di più in noi» mi dice. Ha idee in grande stile per raggiungere l’obiettivo: come vuol essere la prima ad arrivare sul mercato, JUST punta anche a rendere le più costose prelibatezze per gourmet un cibo alla portata di tutti. «Vogliamo concentrarci sul Kobe, sul Wagyu, sui tonni pinna blu. Vedo mio padre o mia madre che entrano in quel Piggly Wiggly e li immagino mentre guardano due tipi di hamburger: uno con la scritta MACINATO, 2 DOLLARI E 99 ALLA LIBBRA, ed è quello che comprano da sempre, e un altro con la scritta HAMBURGER KOBE A56 oppure HAMBURGER WAGYU A5, 2 DOLLARI E 49 ALLA LIBBRA. Uno è stato ottenuto uccidendo un animale, l’altro attraverso un approccio diverso. Voglio che mio padre e mia madre dicano: “Be’, è ovvio, naturalmente sceglierò un hamburger più pregiato, di superiore qualità, che ti colpisca in faccia con il sapore, piuttosto che il macinato”. Per me, è indispensabile questo per creare un sistema diverso.» Apre il laptop. «Il nostro piano è mettere questo sul mercato prima della fine dell’anno prossimo.» Vedo l’immagine di due hamburger su un vassoio bianco di polistirene con un’etichetta rossa che recita 2 MEDAGLIONI DI KOBE A5, 100% WAGYU GIAPPONESE. Gli hamburger sono spessi dischi di carne dalle pesanti venature di grasso. «Un bel boccone di manzo Kobe marezzato?» chiedo. «Sarà Wagyu. Il manzo Kobe è una variante del Wagyu.» Sto prendendo lezioni di carne da un vegano. Seguono altre immagini esplicative: due paffuti petti di pollo, dei tranci lucenti di tonno pinna blu color rosa acceso (OTORO DI MASSIMA QUALITÀ), e poi alcuni progetti della fabbrica in cui JUST produrrà in futuro carne pulita, con tanto di quarantotto distinti bioreattori da 200 000 litri ognuno, grandi quanto la torre di raffreddamento di una centrale elettrica, serre per la coltivazione delle piante da utilizzare per la preparazione del mezzo di coltura e una piattaforma di osservazione da dove i membri del pubblico possono assistere all’assemblaggio dei filetti di tonno e dei petti di pollo su nastri trasportatori. Perché questa fattoria del futuro diventi realtà, Josh dice che dovranno lavorare con l’industria della carne, che già possiede le reti di refrigerazione e distribuzione necessarie a JUST per portare la carne pulita alle masse. «Non vogliono i polli. A chi piacerebbe avere a che fare con quattrocentomila cazzo di polli dentro un capannone gigantesco, che pisciano e cagano dappertutto? Se c’è un modo migliore di trasformare le cose in dollari, è sicuro che sceglieranno quello.» La carne pulita sbaraglierà qualunque altro piatto del menu se è migliore e più economica per i clienti, e più gestibile e redditizia per i produttori. Le forze di mercato salveranno il pianeta. Dopodiché, JUST acquisirà il controllo dell’industria della carne. «Puntate a diventare il maggior produttore di carne al mondo?» Mi fissa dritto negli occhi e annuisce piano. «Non c’è dubbio.» Prima, però, c’è la questione del lancio. Sarà un lancio di basso profilo, mi dice, prima della fine dell’anno, crocchette di pollo in un paio di ristoranti fuori dagli Stati Uniti. «Siamo in contatto con diverse nazioni per decidere il paese giusto dove lanciare il prodotto. Qui da noi la legislazione non è ancora pronta» sospira. «Sa, la politica.» Questo è un modo di vedere la questione. Un altro è che Josh sia alla ricerca di un paese con standard di salute pubblica più flessibili in cui sperimentare le sue crocchette mollicce. «Sarà un’attività continuativa o un evento una tantum?» «Continuativa.» «Quanto potrebbe costare?» «Ancora non lo so. Sono tante le variabili da valutare.» «Lei saprebbe dirmi quanto costa produrre la crocchetta che ho appena mangiato?» Scuote la testa. «Un sacco di soldi?» «Eh già.» «Ho appena mangiato qualcosa di carissimo?» «Di sicuro.» «Nell’ordine delle centinaia o delle migliaia di dollari?» «Centinaia, direi, ma di preciso non lo so. Parte delle nostre incertezze deriva dal fatto che per noi non ha nemmeno senso calcolare i costi in questo momento, dato che dobbiamo ancora ingrandire tutto.» All’improvviso Josh diventa reticente. Ha finito le battute del copione e mi toccherà strappargli le risposte una dopo l’altra. Perciò cambio strategia: forse si sentirà più a suo agio a parlare di sé. Mi racconta di essere cresciuto in Alabama e che s’immaginava un futuro come linebacker nella National Football League, ma quando è andato al college ha capito di non essere così bravo. Ha trascorso del tempo a lavorare nel programma di sviluppo delle Nazioni Unite in Kenya e ha ottenuto una borsa di studio per lavorare con il ministero degli Investimenti della Liberia, dove ha visto con i suoi occhi la povertà estrema. «Mi sono sentito frustrato dai governi e dalle associazioni no-profit. Per come sono fatto io, tiravano tutto troppo per le lunghe. Allora sono tornato negli Stati Uniti e mi sono detto: “Come aumentiamo la percentuale delle persone che mangiano bene?”.» Ritorna in modalità predicatore. «Mangiare bene per me significa mangiare in un modo che non richieda l’uccisione di un animale. Mangiare bene significa mangiare in un modo che tuteli l’ambiente. Mangiare bene significa non mandare a puttane il nostro corpo. Mangiare bene significa che il sapore dev’essere buono, cazzo. Mangiare bene significa che me lo posso permettere. Come posso aumentare il numero di esseri umani che domani mangeranno bene? È questa la vera mission dell’azienda.» Una mission decisamente ambiziosa. Josh è diventato vegano dieci anni fa, ma non scende nei dettagli sull’argomento. «Preferirei essere responsabile del minor dolore possibile per via di ciò che mangio, tutto qui» si limita a dire. «Da dove deriva il suo senso morale?» chiedo, mentre mi torna in mente Bruce. «Da una prospettiva dei diritti degli animali, dei diritti umani? È una questione religiosa?» «Sì e no. Secondo me, più creiamo un sistema in cui gli esseri viventi siano in salute, meglio è. È questa la mia morale.» «Ma in quale punto della sua formazione ha preso forma tutto questo? È un approccio alla vita molto “stile San Francisco”.» «Non so. Sinceramente è difficile dirlo.» «Cerco solo di capire da dove viene lei. Da ragazzo, di sicuro non pensava che un giorno avrebbe prodotto carne in laboratorio.» «Devo dire che quando la cosa sarà decollata, la carne non verrà prodotta in laboratorio. Anche lo yogurt è nato in laboratorio, ma poi Danone o qualcun altro ha cominciato a scodellarne una marea di tonnellate.» Questa è una stronzata, naturalmente. L’umanità produce yogurt da millenni, fin dall’età delle caverne. Ma non glielo voglio dire, perché Josh sta iniziando ad averne abbastanza di me, e ho un’ultima domanda. «Non dovremmo mangiare tutti meno carne invece di compiere tutti questi sforzi per fabbricarla artificialmente?» «Sì, allo stesso modo in cui dovremmo tutti andarcene in giro per il mondo a piedi invece di prendere l’auto, e dovremmo attraversare a nuoto l’Atlantico invece di usare un jumbo, e dovremmo coltivarci da soli il raccolto invece di andare a fare la spesa. Sì che dovremmo, ma ci tocca vivere in un mondo reale.» Il fatto è che Josh non vive in un mondo reale. Vive a San Francisco, nella cultura delle startup che fingono di essere arrivate alla grande scoperta prima che sia vero, dove i problemi si spazzano sotto il tappeto e le affermazioni più bizzarre vengono pronunciate con sicurezza incrollabile al fine di assicurarsi l’onnipotente capitale di rischio. Quando guardo le immagini pubblicitarie di JUST, vedo un’idea luccicante per attirare gli investimenti e non una soluzione praticabile alle crisi causate dal desiderio umano di carne. Se il resto dell’industria della carne pulita è così, in pochi potranno far soldi a breve termine, ma tutti noi – il nostro pianeta e i nostri corpi – pagheremo il prezzo di permettere che gli affari, come al solito, vadano avanti. 7. Pesce fuor d’acqua

Il giorno in cui nella Bay Area di San Francisco si registra la peggior qualità dell’aria nel mondo intero, io mi trovo a Emeryville, sulla sponda opposta della baia rispetto a JUST. Gli incendi spontanei californiani, che persino i più ostinati negazionisti del cambiamento climatico ammettono siano legati a un mutamento del clima, hanno già strappato più di cento vite, e la cenere nell’aria è così densa che fatico a vedere l’altro lato della strada. Non sono riuscita a toccare carne da quando ho mangiato la crocchetta JUST quattro giorni fa. Solo il pensiero mi dà la nausea. Forse la carne pulita mi renderà davvero vegana, anche se per i motivi sbagliati. Ho la mente in subbuglio come lo stomaco. Ho fatto tutta questa strada solamente per vedere una bolla da Silicon Valley, una trovata pubblicitaria senza che ci sia davvero un prodotto vendibile? La crocchetta di pollo JUST è il corrispettivo della Roxxxy True Companion nel settore della carne pulita? La mia fame per l’autenticità e la trasparenza promesse da Bruce è ancora insaziata. Perciò sono piacevolmente colpita quando suono il campanello di Finless Foods e il Ceo dell’azienda viene a rispondere. Mike Selden ha occhi ravvicinati e una barba ben tenuta. È alto un metro e novanta e si curva leggermente per stringermi la mano. Mi rendo conto all’istante di trovarmi nell’azienda di un nerd che non si dà tante arie. Chiama il Cso e cofondatore Brian Wyrwas fuori dalla minuscola sala del consiglio di amministrazione per presentarmi anche lui. Sono originari della costa orientale e si sono trasferiti qui da New York due anni fa per allevare pesce. Brian ha ventisei anni, Mike ventisette. «Siamo i due più giovani dell’azienda» dichiara Mike. «Condividiamo un’azienda, una casa, un’auto e praticamente tutto il nostro giro di amicizie. La gente crede che siamo sposati, e noi non facciamo un granché per dissipare quell’illusione.» Fondata nel 2017, non molto dopo che Mike e Brian si sono laureati in Biochimica, Finless Foods è stata la prima startup di carne pulita a specializzarsi in pesce. Sono concentrati sul tonno pinna blu e sulla spigola. Qualsiasi cosa vendano, all’inizio sarà costosa, perciò è necessario che vada bene. Brian, per quanto amichevole, è ansioso di rientrare in riunione: stanno decidendo quali dei sette membri del personale di Finless dovranno andare in Asia a prendere alcune cellule starter di pinna blu. Mike è il «responsabile dell’accoglienza» della startup, ma qui non vedrò alcun genere di performance. Niente assaggi. «Abbiamo già scodellato un mucchio di prototipi e assaggi, ma quasi tutto era solo per… Occorre giocare al gioco degli investitori» dice con un sorriso eloquente. «Loro devono vedere qualcosa di concreto, e credo che abbia senso. Gli affari si fanno con le sensazioni. Là fuori ci sono tantissimi scienziati brillanti che non si beccano nemmeno un dollaro perché questo gioco non lo sanno giocare.» I cibi preparati da Finless, però, non sono ancora pronti per il mercato, né Mike intende fingere il contrario: prima di tutto è uno scienziato e poi un imprenditore, riluttante a rischiare l’impossibile per paura di finire con il muso a terra. Attualmente esistono solo tre aziende produttrici di cibo «pulito» esclusivamente concentrate sul pesce, ed è un fatto che sorprende, poiché il problema del pesce è più incalzante di quello della carne. Se la carne è assassinio, il pesce è genocidio. Decenni di pesca commerciale con mezzi di cattura ancora più micidiali hanno condotto i nostri oceani a una catastrofe ecologica. Un terzo di tutte le scorte ittiche è stato svuotato più rapidamente di quanto potrà mai venire reintegrato: in altre parole, si è pescato al punto tale che la popolazione ittica non si riprenderà più. La catena alimentare, cioè, è stata distrutta. In questo momento un ulteriore 60 per cento delle scorte viene già sfruttato al massimo grado, vale a dire che non possiamo ricavarne più pesce di quanto stiamo facendo attualmente. Rimane solo un 7 per cento di scorte dove si pesca al di sotto delle potenzialità, e spesso si trova in aree troppo distanti dalla terraferma perché sia economicamente sostenibile, o in zone politicamente contese, dove se si naviga si rischia di dare il via a una guerra.1 In altre parole, abbiamo quasi tolto al mare tutto il pesce disponibile. Le flotte da pesca devono spingersi ancora più lontano2 per catturare pesci più piccoli e in minore quantità, consumando ancora più carburante. Eppure il 40 per cento di quanto recuperato dai pescherecci viene rigettato in mare:3 si tratta di «catture superflue», pescate involontariamente, indesiderate, tartarughe, uccelli e mammiferi marini presi nelle reti, uccisi e poi scartati. Mangiamo più pesce di qualunque altro genere di proteina animale e per un miliardo di persone esso rappresenta la fonte proteica esclusiva.4 Comunità costiere povere che dipendono dalla pesca di sussistenza subiscono più di tutti gli effetti di questa catastrofe ecologica. In apparenza il pesce d’allevamento potrebbe risolvere la distruzione degli ecosistemi oceanici se non incorresse negli stessi problemi dell’agricoltura intensiva animale: grandi quantità di pesci costretti in piccole aree equivalgono a un colossale serbatoio traboccante merda e richiedono pesticidi, fungicidi e insetticidi per eliminare i parassiti marini che in quelle condizioni vanno a nozze. E tanti pesci, semplicemente, non sopravvivono in un serbatoio. I tonni pinna blu hanno bisogno di muoversi molto: starsene stipati come sardine in scatola li manda all’altro mondo. Perciò, anche se mi sento un po’ ingenua a chiedere a Mike perché ha scelto di produrre polpa di pesce anziché carne animale, è da qui che comincio. «Per un milione di motivi» risponde, entusiasta della domanda. Il primo è che il nostro consumo di pesce rappresenta «la maggiore fonte di sofferenza sul pianeta. Macellando una sola mucca, infatti, possiamo nutrire tipo trecento persone, ma se una persona mangia del pesce, delle sardine, dovrà uccidere almeno dieci animali. Sofferenza e sterminio su scala molto più massiccia.» E poi ci sono i motivi di salute. «Nel caso del tonno pinna blu, ci sono plastica e mercurio. La Epa e la Fda (l’Environmental Protection Agency e la Food and Drug Administration) raccomandano che le donne in età fertile – che per loro decisione, non mia, si collocano tra i sedici e i quarantanove anni – non si cibino di alcun tipo di pesce carnivoro di grandi dimensioni proprio a causa del mercurio. Le altre categorie dovrebbero mangiarlo solo una volta alla settimana. Per quanto riguarda la plastica, non abbiamo ancora studiato adeguatamente i suoi effetti. Conosciamo bene, però, gli effetti delle microplastiche sui pesci, e sono spaventosi.» Batte le palpebre inorridito. «Alterazioni alla chimica cerebrale, al metabolismo, al comportamento sociale. Entro il 2050 avremo nell’oceano più plastica che pesci, in termini di peso. I pesci saranno come le sigarette della nostra generazione: un tempo i medici le raccomandavano, ma adesso: “Merda, fanno venire il cancro ai polmoni!”. Ai pesci succederà la stessa cosa quando studieremo davvero le conseguenze della plastica bioaccumulata sulla fisiologia umana.» E allora ecco come si ottiene del pesce pulito. «Le cellule dei pesci sono particolarmente robuste: si sviluppano senza fatica, non richiedono grossa assistenza, resistono a fluttuazioni di temperatura molto ampie. Le cellule degli animali terrestri crescono a 37 gradi mentre per quelle dei pesci bastano dai 22 ai 26 gradi, il che è assai meglio. Ed è la temperatura che c’è qui» mi dice indicando una finestra dove una nube di cenere ha offuscato il sole della California. «La struttura è un po’ più semplice: una bistecca possiede una marezzatura complessa, vorticosa, mentre il sashimi di salmone è composto da strati alternati di muscolo e grasso, quindi più facile da realizzare. Sembrava un progetto scientifico più praticabile.» Mike è cresciuto a Boston, circondato da pesce e frutti di mare. «Potevo mangiare non solo la roba kosher, come il salmone affumicato, ma anche il resto di quello che circolava a Boston perché la mia famiglia non era molto osservante: a tavola avevamo aragosta, molluschi, granchio e tutto quello che agli ebrei sarebbe stato proibito.» È diventato vegano dopo aver letto, a quindici anni, Liberazione animale di Peter Singer, e poi ha incontrato Brian, che lui definisce «un genio» della biochimica, all’Università del Massachusetts-Amherst. Dopo un anno passato a insegnare inglese in Cina, Mike è uscito con Brian a mangiarsi un Impossible Burger a New York. Si sono fatti «qualche birra di troppo» e hanno deciso di stendere un business plan. Nel marzo 2017 hanno ottenuto il loro primo finanziamento e hanno aperto un laboratorio e uno spazio di coworking grazie all’acceleratore di startup in campo scientifico IndieBio, il che li ha spinti a trasferirsi a San Francisco. Dichiara con sincerità: «È stato quello il vero motivo per cui ci siamo spostati in California. Non avevamo davvero alcun desiderio di venire qui». Adesso raccolgono investitori da tutto il mondo. Tra questi venture capitalist c’è Tim Draper, uno dei primi a pompare soldi in Theranos, la famigerata startup di Elizabeth Holmes specializzata nei test del sangue, e uno dei pochi che hanno continuato a sostenere Elizabeth dopo che è stata accusata di frode ai danni degli investitori per aver esagerato nel descrivere loro il potenziale della propria tecnologia. Non sembra esserci nulla di esagerato, però, nei laboratori di Finless Foods. Durante il mio tour Mike mi descrive l’intero processo senza ricorrere a gerghi astrusi o a mirabolanti colpi di scena, e questa volta capisco come si deve. Ottengono campioni tramite biopsia dagli itticultori, dai laboratori universitari, dai pescatori sportivi e persino dall’Acquarium of the Bay a San Francisco. Separano le cellule starter, le mettono in sospensione in una soluzione nel loro «laboratorio principale, quello che tira la carretta», selezionano i tipi di cellule capaci di espandersi e scindersi, e collocano quelle cellule su germinatoi che vanno posti in incubazione. Alle cellule occorre più o meno un giorno per scindersi. «Le nostre cellule di spigola europea proliferano all’impazzata» afferma Mike, come un papà orgoglioso. E una volta che le cellule hanno raggiunto una massa critica, entrano in uno dei tre diversi modelli di bioreattore che stanno sperimentando al momento. Entriamo nel secondo laboratorio di Finless Foods, quello di «biologia molecolare» dove si sviluppa il mezzo di coltura. Come JUST, hanno scoperto una formula a base di siero animale, ma non hanno avuto bisogno di una Discovery Platform. «È composta di sali, zuccheri e proteine» dice semplicemente Mike. «I sali e gli zuccheri sono prodotti alimentari che acquistiamo dai nostri rivenditori – niente che la gente non mangi già – mentre le proteine vengono dal lievito. Esaminiamo l’interno di un pesce, vediamo quali proteine sono utili per la crescita delle cellule e scopriamo quale Dna fabbrica queste proteine. Mettiamo dunque quel Dna in un sistema microbico… potrebbe essere lievito o qualcos’altro.» «Questa non è ingegneria genetica?» «Si fa lo stesso per ottenere il caglio con cui viene prodotto il formaggio. Se la gente dice: “Oh mio Dio, questi sono Ogm!”, noi rispondiamo: “Se mangiate del formaggio mangiate già roba del genere”. Lo usiamo solo per creare una proteina diversa, che si trova già nel pesce.» Ci accomodiamo nella sala del consiglio, ora deserta, che ha appese alle pareti esterne due mappe incorniciate raffiguranti LE SPECIE DI TONNO NEL MONDO, ma che all’interno è spoglia e di un bianco brillante. «Se adesso intendeste produrre qualcosa di nuovo, sarebbe una specie di pasta, no?» chiedo. «Esatto. Vogliamo trovare un modo per usare la pasta come ingrediente perché conserva il sapore del pesce. Ci stiamo concentrando su un panino al tonno speziato, solo che invece di essere un semplice panino al tonno speziato è un panino al tonno pinna blu speziato» dichiara radioso Mike. «È diffuso nel Regno Unito? Perché qui lo mangiano tutti. Siamo alla ricerca dell’hamburger di pesce perfetto per gli americani, e a quanto pare si tratta del panino al tonno speziato.» La loro ambizione principale, però, è creare del filetto, e per riuscirci potrebbero usare la scienza dell’alimentazione o l’ingegneria tissutale. «Ci sono molte diverse tecnologie che sembrano davvero promettenti per arrivare a ottenere un aspetto tridimensionale» mi dice Mike estraendo l’iPhone per mostrarmi un video caricato su YouTube da un’azienda olandese, Vegan Seastar, in cui dei ventenni barbuti piluccano strati perfetti di non pesce color rosa luccicante – zalmon sashimi – guarnendoli con semi di sesamo che prendono da crogioli neri per mezzo di bacchette di bambù. «Stiamo lavorando per costruire qualcosa del genere attraverso la scienza dell’alimentazione e la scienza dei materiali, per arrivare alla consistenza giusta servendoci di proteine a base vegetale o di qualsiasi cosa a base vegetale o di funghi, e poi seminarlo con le cellule che sviluppiamo come insaporitore.» Se ci riuscissero sarebbe fantastico, e posso immaginare che andrà tutto quanto a rotoli. Come ho scoperto da JUST, il cibo deve possedere l’aspetto, l’aroma, il profumo giusti e dare le sensazioni giuste perché il nostro cervello lo accetti. E Mike è chiamato ad affrontare una sfida ancora più ardua di Josh: i consumatori non sanno di cosa dovrebbe sapere e quali sensazioni dovrebbe dare la carne di pollo cruda e scondita, mentre il sashimi ci ha permesso di farci un’idea piuttosto precisa del sapore del pesce crudo. Mike non può usare le cortine fumogene della frittura nel burro o della panatura. Se vuole costruire un filetto, deve uscire dritto dritto dallo sportello del frigo. Forse l’ingegneria tissutale sarebbe una scommessa meno arrischiata. Finless ha già un ingegnere tissutale in squadra, e Mike parla della stampa di organi in 3D come se nella Bay Area si facesse a ogni angolo di strada. «Il macchinario è costoso, ma ciò che questa tecnologia ha di interessante è la sua velocità. Per stampare un organo bastano trenta secondi. Ottimo. La stiamo studiando. Ma al momento è ancora piuttosto presto per noi.» Quando il tonno Finless arriverà sul mercato costerà un quantitativo equivalente di pinna blu «normale», all’incirca 7 dollari per un pezzo di sashimi. Mike specifica che è «questione di anni, non di decenni» perché questo accada, e il fattore critico non è la scienza ma l’aspetto normativo. Mi aspetto che si lanci in una diatriba ben collaudata sugli ostacoli posti dalla burocrazia al cammino del progresso, e invece dice: «Vogliamo davvero superare un sistema di regole senza che ciò sia visto come un tentativo di aggirarle. Non basta sviluppare la tecnologia, lanciarla sul mercato e sperare in bene, perché la gente non dimentica per quanto riguarda il cibo. Il cibo è molto personale. Se ci percepiscono come un’azienda che cerca di eludere gli obblighi di legge, per noi sarà un bel calcio nelle palle». E se la prima carne pulita venduta sarà immessa sul mercato in un paese scelto per i suoi standard «duttili» in materia di sicurezza alimentare, a ricevere un bel calcio nelle palle sarà un intero settore. Ma questo è perché voglio dimenticare l’esperienza con la crocchetta JUST. Il primo problema normativo con cui la carne pulita dovrà fare i conti è il suo nome. La Fda non lo approva, e nonostante Mike una volta abbia detto a un reporter5 che considera «carne pulita» una definizione fantastica perché significherà una «coscienza pulita» per i carnivori, adesso salta fuori che l’ha sempre odiato. «Non ha senso in nessun’altra lingua. In cinese sembra che significhi che la carne sia stata intinta nella candeggina e strofinata. Alla fine, però, mi sono convinto che non ha importanza il termine in sé quanto la coerenza. Perciò ho cambiato opinione e ho cominciato a usarlo.» Mike, comunque, preferisce «carne a base cellulare». «C’è la carne a base animale, la carne a base vegetale e la carne a base cellulare. È un termine neutro.» Ma è un termine insensato, poiché anche le piante e gli animali sono composti di cellule. «Deve chiamarsi “pesce” a qualsiasi costo, perché il pesce è un allergene. Siamo tenuti a scrivere chiaramente la parola “pesce” sulla confezione e a specificare di che pesce si tratta. Ma voglio davvero che si arrivi a una definizione precisa, perché quello che facciamo noi è meglio. Ci sono tanti aspetti positivi nel nostro lavoro, e voglio che le persone ci comprino per scelta.» Mike è sicuro che un giorno la carne sviluppata in laboratorio, comunque la si chiami, soppianterà la carne convenzionale. «All’inizio sarà poca cosa, un ingrediente, una componente di un prodotto a base vegetale, un prodotto ibrido, e alla fine diventerà ciò che la gente vuole che sia. Le persone pensano che gli scienziati abbiano chiare più cose di quanto in realtà sappiamo: non è vero.» Mi torna in mente il punto nel video del pollo JUST in cui Josh dichiara a voce stentorea: «Abbiamo scoperto come funziona davvero la vita», e mi rendo conto di che boccata d’aria fresca rappresenti Mike in questa nube di cenere della Silicon Valley, e di come, dopotutto, potrebbe esserci della sostanza in questa industria, se attira altri scienziati come lui. «C’è un sacco di hype» prosegue. «All’inizio il processo sarà più lento e limitato di quanto crede la gente. Ma è inevitabile che accada. Non sto dicendo che lo sia Finless Foods, ma la tecnologia è inevitabile, ed è così che mangeremo in futuro, a meno che non ci facciamo fuori da soli prima.» «Adesso mi scusi per il tremendo gioco di parole» dico. «Non si sente un pesce fuor d’acqua tra le startup della Silicon Valley? Cosa prova a vivere qui?» «Lo odio, cazzo. Stiamo cercando di andarcene dal secondo in cui siamo arrivati. Qui regna una mentalità assurda. A volte ci troviamo in riunione con persone che sembrano extraterrestri. Spero che alla fine ci sposteremo da un’altra parte.» La sua estraneità, però, va oltre la sua provenienza dalla costa opposta degli Stati Uniti. Pur essendo un Ceo, mi rivela che è anche comunista. «Non direi che molti nostri investitori amino il comunismo» dice con un sorriso. «Perché lei ama il comunismo?» chiedo. «Lei è davvero comunista?» «Direi di sì, certo.» «Ma come può un imprenditore essere comunista?» «Provo a costruire una tecnologia che io considero importante, cerco di fare qualcosa che spero cambierà in meglio il nostro modo di mangiare. Ora come ora, il meccanismo per riuscirci è una startup. Vorrei che esistesse un altro sistema, un metodo migliore, ma al momento non c’è.» «Davvero non le interessa fare soldi?» «Per assicurarsi che la relazione con gli investitori rimanga buona il business deve rendere. A me personalmente non interessa molto. Guadagno già più di quanto mi serve. Tipo 85 000 dollari, che per me è perfetto. Non sono sposato, non ho bambini. L’altro cofondatore e io siamo tra i meno pagati dell’azienda.» «La trasparenza dovrebbe essere importante nel mondo della carne pulita, ma quando provo davvero a parlare con la gente non ne trovo un granché» confesso. «Come mai lei è tanto felice di dirmi tutto questo?» «Penso che un sacco della nostra storia consista nel fatto che siamo più autentici. Così la nostra battaglia avrà la meglio» risponde. «Consideri i trend tenendo conto di cosa interessa ai millennial e ai ragazzi della generazione Z: le stronzate ci disgustano. Qualunque cosa abbia un’aria anche solo un po’ “aziendale”, un po’ leccata, noi la rifiutiamo. Noi non sembriamo nemmeno un’azienda. Cerchiamo di essere autentici, ed è questo il nostro brand.» Insomma, l’atteggiamento aperto di Mike è una deliberata attività di branding, un modo per differenziare l’azienda dalle altre startup allo scopo di «conquistare» il mercato come i produttori di carne per i millennial. Un aspetto di Mike Selden, tuttavia, rimane profondamente oscuro: il suo veganismo. Anche se parla con il linguaggio dei difensori dei diritti animali e si è dilungato sul proprio veganismo in ogni intervista che sono riuscita a trovare, oggi mi dice di non essere più vegano. «Faccio la spesa solo in negozi vegani. Mangio perlopiù in ristoranti vegetariani e vegani. Ma non mi definisco vegano anche perché non voglio venire passato al microscopio adesso che ho una certa visibilità pubblica.» A questo punto mi racconta un episodio. Di recente stava parlando a una conferenza, e una volta terminata, una donna gli si è avvicinata per chiedergli quale app usasse per scegliere il vino. Mike le ha risposto di non usare nessuna app, e la donna ha obiettato che allora era impossibile fosse vegano, al che lui ha detto: «Okay, se è così non sono vegano». «La comunità vegana è, tipo, il gruppo di persone più egocentrico al mondo, incapace di vedere al di là di se stesso. È incredibilmente bianco, incredibilmente ricco, incredibilmente privilegiato e superinconsapevole di ciò che fa. Non volevo proprio essere associato a quella gente» dice. Mike evidentemente è vegano, ma sa quanto sia impossibile essere un vegano perfetto e non vuole essere accusato di essere un cattivo vegano, perciò preferisce sostenere di non esserlo. Sono dispiaciuta per lui, felice di non essermi mai dichiarata altro che una carnivora senza cuore e sollevata di essere troppo vecchia per far parte della generazione Z, dove il sentore di qualsiasi trasgressione fa di te un reietto. Per vivere una vita pura si dovrebbe essere dei contorsionisti. Ma comunque definisca se stesso, Mike pensa che il veganismo diverrà obsoleto una volta raggiunto questo inevitabile punto d’arrivo tecnologico. «Non vogliamo essere visti come vegani, vogliamo che questo sia cibo. La mia speranza è rendere tutti vegani senza costringerli a cambiare abitudini.» I fondamentalisti vegani non fanno le cose a metà. Nel 2004 alcuni sostenitori estremisti dei diritti animali hanno preso a bersaglio un’azienda agricola a conduzione familiare dello Staffordshire che allevava cavie per la ricerca scientifica. Hanno mandato bombe false alla loro tintoria, sparso volantini nel quartiere dove abita l’uomo che consegna loro il carburante in cui veniva diffamato come pedofilo, scritto con bossoli di mitragliatore il nome di un lavorante della fattoria fuori da casa sua. Quando questo non è bastato a chiudere l’azienda, hanno dissotterrato e trafugato la salma di Gladys Hammond, la suocera di uno dei proprietari, lasciando messaggi dove dicono che i suoi resti verranno restituiti quando la fattoria verrà chiusa. Alla fine, tre attivisti sono stati condannati a dodici anni di carcere ciascuno. Negli ultimi anni gli attivisti per i diritti animali si sono ammorbiditi, ma non troppo. Un mese prima della mia visita a Mike, Whole Foods ha ottenuto un ordine restrittivo contro Direct Action Everywhere (DxE), il gruppo di attivisti vegani con base a Berkeley che intendeva protestare contro le condizioni di vita dei polli venduti da Whole Foods nella succursale a dieci minuti di distanza da Finless Foods. In precedenza DxE aveva rappresentato scene di massacro di animali nelle corsie della carne e dei latticini, lanciando uova con sangue finto. Altrove, nei pressi di Berkeley, gli attivisti si sono sdraiati nudi, coperti di sangue e avvolti di plastica fuori dal negozio di famiglia di un macellaio ogni settimana, per mesi interi, con l’accompagnamento di registrazioni audio di gridi terrorizzati di maiali, finché i proprietari non hanno accettato di esporre in vetrina un cartello che diceva: ATTENZIONE, GLI ANIMALI HANNO DIRITTO DI VIVERE. UCCIDERLI È VIOLENTO E INGIUSTO, IN QUALSIASI MODO. Mi aspettavo dunque una sorta di forte reazione collettiva dai vegani più accesamente militanti contro l’industria della carne pulita; dopotutto, la carne pulita incoraggia attivamente i consumatori a non cambiare le proprie abitudini alimentari e a continuare a vivere a spese degli animali, anche se nel numero grandemente ridotto necessario a fornire le cellule starter. Accettare la carne pulita significherebbe riparare a una tecnologia sviluppata attraverso la sperimentazione animale e il siero fetale bovino, e acquistarla porterebbe a gonfiare le tasche di grossi produttori di carne come Tyson e Cargill che hanno pesantemente investito nelle startup della carne pulita e sono stati responsabili del massacro di miliardi di animali in tutto il mondo. Pensavo che almeno ci sarebbero state delle campagne online, magari qualche manifestazione con canti di protesta nella Bay Area, o addirittura degli imprenditori bersagliati con gavettoni di finto siero fetale bovino mentre rincasano dal laboratorio. Dalla comunità vegana, invece, si è levato a malapena uno strillo. Quando nel 2013 Mark Post ha presentato al mondo il suo hamburger ci sono state poche lamentele sull’aspetto grossolano della cosa: la Vegan Society olandese ha lanciato una campagna di affissioni che evidenziavano come fosse più attraente un hamburger vegano rispetto a una fetta di carne in un recipiente da laboratorio. Questo è quanto, in termini di opposizione organizzata alla carne pulita. Contatto la Vegan Society inglese e l’ufficio stampa mi dice che considerano l’idea della carne pulita «molto eccitante». Telefono a Wayne Hsiung, cofondatore di DxE, per capire quale posizione abbiano riguardo all’industria che va fiorendo proprio nel loro ambito di interesse e lui la definisce «parte della soluzione» allo sfruttamento animale. «Purché non faccia passare sotto silenzio le conseguenze dell’utilizzo degli animali» afferma in modo alquanto nebuloso «sarà di aiuto alla causa.» I militanti vegani attivi su YouTube mostrano cauto ottimismo verso la tecnologia. Esamino i commenti, in genere inflessibili, sotto i loro videoblog sulla carne pulita, e non trovo nulla. È solo quando m’immergo nelle profondità di Google che m’imbatto in un documento, datato 2010, scritto da una voce fuori dal coro, un dissidente vegano inglese di nome Matthew Cole, sociologo. «La carne in vitro ignora i potenti interessi personali e le forze sociali che sono alla base della “domanda” di carne e che in genere stigmatizzano il veganismo» dichiara. «Anzi, stimola ulteriormente la “domanda” di carne perpetuando il mito che la carne è e sarà sempre intrinsecamente desiderabile.»6 Questo è stato scritto anni prima che vedessero la luce le startup della carne pulita ma si mostra davvero lungimirante, perché l’intero settore della carne pulita si basa sulla premessa che il desiderio della carne sia naturale. A JUST, Josh Tetrick mi ha confessato: «Mi manca la carne. Adoro la carne. Vorrei avvicinarmi, guardarla, annusarla». Nel ricordare quando ha provato il pollo JUST per la prima volta, ha detto: «Stavo sperimentando, in modo primitivo, ciò che davvero mi mancava». «Pensa davvero che si tratti di una pulsione primitiva?» gli avevo chiesto. «Che siamo nati per amare la carne?» «Penso proprio che in parte sia così. Da millenni gli esseri umani usano lance per uccidere gli animali, e intorno a ciò hanno costruito simboli, manufatti, culture e comunità. Lo si può ignorare o lo si può accettare.» Ma la convinzione che il nostro gusto per la carne sia innato non potrebbe essere solo un mito? Incontro Matthew Cole presso la sede centrale della Open University di Milton Keynes, un campus grigio dall’architettura modernista al momento vuoto di studenti, una specie di città fantasma accademica. Matthew mi aspetta alla reception: è basso e snello, calvo, con rughe agli angoli della bocca. Andiamo a prenderci un caffè da uno di quegli elaborati distributori automatici, e sto per chiedergli dov’è il latte, ma poi mi fermo e decido di berlo nero. Matthew è un sociologo vegano, sotto qualunque aspetto. Il suo lavoro si orienta sulla sociologia delle relazioni uomo-animale, su come i bambini vengano educati ad accettare il dominio umano sugli animali e sulla rappresentazione dei vegani nei media. Ha girato qualche video per il canale YouTube della Open University. Uno s’intitola Dr Who Should Be Vegan. «L’amore per la vita in ogni sua forma è uno dei messaggi centrali di Doctor Who e una grande ragione della sua popolarità» dice senza sorridere, guardando dritto in camera. «Ormai da tempo c’è bisogno di un dottore coerente dal punto di vista morale, di un dottore vegano.» Il commento con più voti sentenzia: «Questo tizio sì che sembra avere bisogno di una bella bistecca». «Nel 2010 lei ha scritto a proposito della carne in vitro. Continua a chiamarla a questo modo?» gli chiedo. «Certo.» «Perché?» «Perché mostra che è sbagliata» risponde con un ghigno. «La terminologia che usiamo per descrivere la carne in vitro, la carne sviluppata in un mezzo di coltura, qualunque esso sia, fa parte di un gioco discorsivo – o di una battaglia o di una guerra discorsiva, se preferisce – per costruire il senso di cosa sia questa sostanza. E dal mio punto di vista, è qualcosa di sbagliato.» Matthew si preoccupa della «dimensione classista» della carne sviluppata in laboratorio: il fatto che sarà venduta come un prodotto d’élite porterà a una gerarchia morale dove i benestanti in grado di permettersela rafforzeranno la loro superiorità sulle persone e sulle nazioni che non ne saranno in grado. «Ecco che il razionale uomo bianco se ne va in giro per il mondo a spiegare come i nostri metodi siano superiori alle loro usanze barbariche.» Inoltre, c’impedisce di porre in discussione la spinta umana ad assoggettare tutto quanto ci circonda. «Per avere la carne in vitro non serve che cambi nulla. Ecco perché è tanto attraente: tutto il resto potrebbe restare immutato. Non trasformerà il rapporto fondamentale degli esseri umani con gli animali, l’ambiente, la natura, che resterà un rapporto di dominio.» «Perché non si è levato da parte dei vegani un potente movimento di protesta?» «È affascinante. In apparenza, la promessa consiste nell’eliminare il 99 per cento dell’agricoltura animale, e ovviamente capisco che si tratti di qualcosa di eccitante. E immagino che un sacco di attivisti la considerino una vittoria rapida. Sono decenni che c’impegniamo e sembra di non esserci avvicinati a nessuno dei risultati auspicati con la velocità che vorremmo: forse questo potrebbe cortocircuitare quello sforzo.» Matthew ha scritto saggi su quella che chiama «vegafobia», la stigmatizzazione del veganismo e dei vegani. Lo trovo interessante, ora che ho incontrato diverse persone che vogliono tenere nascosto il loro veganismo. Matthew ha classificato gli stereotipi negativi dei vegani circolanti nei mass media in cinque categorie. «I vegani vengono rappresentati come aggressivi, sdolcinati, scialbi, semplicemente modaioli oppure ridicolizzati su tutta la linea.» «È qualcosa che lei ha provato direttamente?» «Sì, soprattutto durante il mio periodo accademico, quando si trattava di manifestazioni pubbliche come video su YouTube o articoli per The Conversation. Bastava guardare ai commenti. C’era un saggio che ho scritto con Kate Stewart, mia partner nonché mia collega, sul film Sausage Party – Vita segreta di una salsiccia. Ne ha sentito parlare?» Si tratta di un film Pixar vietato ai minori di diciassette anni che ha come protagonisti una salsiccia di nome Frank e la sua fidanzata, un panino per hot dog, entrambi parlanti. «Sembra divertente» dico. «Non lo consiglio» replica lui serio. «Abbiamo scritto una critica vegana al film. Ed è stata citata da un account Twitter che cerca di mettere alla berlina gli accademici. Setacciano la rete a caccia di articoli che sembrino stupidi per dire: “Non è ridicolo? Ah ah ah”.» Non voglio includere Matthew nella categoria stereotipa del vegano aggressivo, ma di certo lui non riesce a vedere il lato umoristico di tutta questa storia. «I vegani sono consapevoli degli stereotipi negativi che circolano sul loro conto» prosegue «e a volte hanno l’ansia di comportarsi in modo conforme a essi.» «Perché esistono questi stereotipi?» «Ci sono innumerevoli interessi costituiti dietro lo sfruttamento animale. Enormi e potentissimi, con una lunga storia alle spalle. È in corso un gigantesco sforzo culturale per riprodurre, legittimare e difendere lo sfruttamento animale nella cultura popolare, sostenuto e favorito dalla politica dello stato e dall’educazione alimentare. È tutto connesso. È enorme, e a volte sembra impossibile da sconfiggere.» Di sicuro, però, il desiderio per la carne supera questi «interessi costituiti». In fondo, siamo cacciatori-raccoglitori. È insito nella natura umana uccidere gli animali e cibarsi della loro carne. «Non rientra nella nostra evoluzione apprezzare il gusto della carne? Non è un fatto naturale?» «No. Gli umani sono creature estremamente adattabili, piene d’inventiva e creatività. Abbiamo superato i limiti biologici e ambientali in molti modi.» Indica la pioggia ghiacciata dietro la finestra. «Si potrebbe affermare che non dovremmo vivere qui: fa troppo freddo per l’organismo umano. Lo stesso vale per il nostro consumo di prodotti animali. In questo non c’è niente di naturale.» «E allora da dove viene il nostro desiderio per la carne?» «Si tratta di un costrutto culturale. La disponibilità di prodotti animali è evidentemente un risultato di processi sociali. Non è naturale. Su questo pianeta non potrebbe esistere neppure lontanamente un numero di animali non umani commestibili sufficiente a sostenere l’attuale livello con cui li consumano gli umani senza un intervento artificiale. E bere il latte di un’altra specie è assolutamente irragionevole. In questo non c’è nulla di naturale, sotto qualunque angolazione lo si consideri.» Mi viene in mente la mia bambina di un anno quando l’ho salutata stamattina, sorridente, con un bicchiere di latte vaccino in mano, e una cosa che mi sembrava la più naturale del mondo tutt’a un tratto appare disturbante. «Ancora prima che sappiamo parlare, ci ficcano in gola a forza, letteralmente, il fatto di mangiare carne» prosegue Matthew. «La usiamo per nutrire i nostri bambini e li ricompensiamo perché la mangiano. Ancora prima di riuscire a dire una parola, nella nostra testa si forma l’idea che è questo il boccone prelibato. Il messaggio è molto potente, perché ci arriva dritto dalle nostre madri.» So per esperienza che Matthew ha ragione. Latte, uova, formaggio, pesce e carne vengono promossi nelle campagne governative e nelle guide per genitori come cibi indispensabili da dare ai bambini. Quando è nato il mio primo figlio ho partecipato a un incontro gratuito sullo svezzamento organizzato dal mio Comune. Il messaggio era che i genitori non dovessero aspettare troppo a introdurre la carne nell’alimentazione del piccolo, e che una dieta vegetariana non fosse salutare per i bambini perché un sano sviluppo cerebrale necessita di ferro, quasi impossibile da ricavare in quantità sufficiente da qualunque fonte all’infuori della carne rossa. E così ho rimpinzato entrambi i miei bimbi di ragù ancora prima che avessero i denti per masticarlo. Matthew afferma che è ormai assodato che le diete vegane siano adeguate dal punto di vista nutritivo tanto per neonati e bambini quanto per gli adulti. «Se quel messaggio era sbagliato, perché il Comune lo diffondeva?» chiedo. «Per il puro peso dello sforzo culturale profuso nell’imporre i prodotti animali come naturali e indispensabili. Molta gente ritiene ancora inconcepibile una scelta alternativa. Da quella prospettiva sembra una devianza. Se non dai da mangiare carne a tuo figlio, sei un deviato.» Quella sera, mentre imbocco la mia bambina di pasticcio di carne ricoperto di purè che lei spazzola con entusiasmo, penso a come le ho ficcato in gola a forza il gusto di nutrirsi di animali, e avverto un brividio di disgusto. Di certo dobbiamo puntare su questa sensazione se vogliamo risolvere i problemi causati dall’agricoltura animale, e non sulla tecnologia che prova a produrre la carne in laboratorio. Per il momento, però, è solo un brivido di disgusto. Asciugo il mento alla mia bambina e le passo il latte. 8. Retrogusto

Oron Catts ha costruito la sua carriera coltivando il disgusto. Oggi sta facendo crescere tessuto cicatriziale di topo in siero fetale bovino servendosi di un incubatore fatto di letame. «Quell’ammasso di composta ha una temperatura di 65 gradi» dichiara indicando una gabbia di ferro battuto contenente un matraccio di coltura tissutale collocato in cima a un mucchio imponente. «È formato da trucioli di legno e letame che mi arriva dalla polizia a cavallo.» Ci troviamo in un cortile del King’s College, a Londra, così vicini allo Shard che è quasi impossibile scorgerne il pinnacolo, accanto a una piramide tronca fatta di sterco. Questa è l’ultima opera d’arte di Oron, intitolata Vessels of Care & Control: Compostcubator 2.0, e lui ha viaggiato dall’Università dell’Australia Occidentale di Perth per vederla esposta. Il mucchio di composta stranamente attraente è il primo pezzo che i visitatori ammirano nell’accedere alla mostra Spare Parts della Science Gallery di Londra. Il Compostcubator sfrutta i principi della permacultura: i microbi all’interno della composta producono il calore necessario a far crescere tessuto connettivo di topo in modo assolutamente naturale, senza l’ausilio di energia elettrica. Il suo scopo dovrebbe spingerci a ripensare le convinzioni degli esseri umani riguardo al controllo e alla riproduzione della vita. «Sarà una delle prime occasioni in cui un pezzo di topo cresciuto in coltura sarà mostrato in esterno» dichiara orgoglioso Oron. Da venticinque anni Oron si serve di tessuto vivente come mezzo di espressione artistica. Insieme a Ionat Zurr, sua compagna di lavoro e di vita, ha creato oggetti a forma di ali servendosi di tessuto di topo (Pig Wings, 2000), una giacca viva con cellule di topo cresciute in coltura (Victimless Leather, 2014) e un bioreattore domestico per l’allevamento in vitro di carne d’insetto (Stir Fly, 2016). Forse è anche il pioniere più misconosciuto e inconsapevole nel campo della carne pulita. Nel 2003, durante la sua mostra Disembodied Cuisine, per la prima volta al mondo qualcuno ha sviluppato e mangiato carne cresciuta in vitro, quasi un decennio prima che Mark Post sollevasse la cloche dell’hamburger finanziato da Sergey Brin. Con una sola bistecca di rana di 5 grammi, marinata nel calvados, Oron ha fatto fare un salto all’industria che adesso sta esplodendo nella Silicon Valley e altrove, diventandone in seguito il critico più dichiarato. Nella Silicon Valley quasi nessuno conosce il suo nome, ma Oron è un personaggio che s’imprime nella memoria. Ricorda un mago, con la sua barba magnetica – lunga, grigia, arricciata, cespugliosa e molto appuntita – e i capelli raccolti all’indietro in una coda di riccioli. Ha tanto da dire, e lo dice troppo in fretta. Volevo incontrarlo per parlare della carne di rana, ma quando ci sediamo attacca a raccontarmi da cima a fondo la storia della sua vita professionale, tanto che le mie domande finiscono quasi per intralciarlo. «Ho studiato product design» inizia. «Ciò di cui mi sono accorto nei primi anni novanta, e che ora si sta mostrando in tutta la sua dolorosa chiarezza, è che la biologia si è trasformata in manipolazione e la vita in materia grezza pronta a essere manipolata, con una tavolozza completamente nuova di possibilità artistiche.» Anziché progettare prodotti biologici, Oron ha deciso di diventare un artista. «Sentivo che come artista avrei avuto la licenza a rendere le cose problematiche e non l’obbligo di trovare loro una soluzione.» In altre parole, a Oron è concesso porre domande senza la necessità di cercare risposte. Definisce le sue creazioni «oggetti contestabili». «Ho scoperto che l’intera idea di progettare la vita è un’idea contestabile, non qualcosa che dovremmo accettare a scatola chiusa.» «Un sacco di persone lo fanno» cerco di obiettare. «Sì, giusto, e le cose vanno sempre peggio. E in un posto come San Francisco si renderà conto che quelle persone non hanno un’ombra di autocoscienza.» La carne ha ossessionato Oron da quando ha lavorato in una fattoria israeliana con il compito di ingozzare a forza le oche per ottenere il foie gras. A metà degli anni novanta ha incontrato Ionat, una scienziata, che gli ha insegnato le tecniche di coltura tissutale. «Non è difficile imparare come si fa. È un’abilità da artigiano, non una scienza» dice tirandosi quella barba spettacolare. «Pensavo di occuparmi di qualcosa che potrebbe risolvere i problemi del mondo. E più mi c’immergevo, più mi rendevo conto che si tratta di un approccio estremamente problematico.» Secondo Oron noi umani non siamo pronti a controllare i sistemi biologici perché non capiamo fino in fondo cos’è la vita. Se le cellule corneali di un coniglio sono ancora vive ore dopo che il cuore dell’animale ha cessato di battere, il coniglio è ancora vivo? È semivivo? «Nel dizionario inglese abbiamo solo una parola per “vita” e cinquanta per indicare “merda”. Dunque non proviamo nemmeno a descrivere con il linguaggio quanto stiamo facendo.» E quella mentalità, quella mancanza di comprensione delle sfumature mentre si armeggia con la vita, potrebbe condurre infine a scenari terribili. «Quando si tratta del nostro controllo sui sistemi viventi soffriamo di amnesia culturale. Ciò che abbiamo scelto di fare con la vita, finiremo per farlo a noi stessi.» L’allevamento sistematico degli animali ha portato all’eugenetica del xx secolo, dice, e chissà dove ci condurrà lo sviluppo sistematico in laboratorio della carne animale. «Il problema per cui la carne in vitro sta cercando una soluzione sarebbe risolvibile molto più facilmente con la riduzione del consumo di carne. Dal punto di vista dell’efficienza, rappresenta un eccesso di progettazione» mi dice. «Ma è all’origine di questa narrazione seducente secondo la quale tutto sarà okay, non dovremo cambiare il nostro comportamento perché quegli intelligentoni degli scienziati troveranno il modo per consentirci di uscirne, di fare affari come sempre, e quindi noi ci sentiamo legittimati ad aumentarne il consumo.» L’installazione Disembodied Cuisine, che si è tenuta in un ex biscottificio di Nantes nel marzo 2003, ha avuto fin dall’inizio lo scopo di suscitare sensazioni disturbanti. «Abbiamo giocato con ciò che è alla base del cibo schifoso. Sapevamo che ai francesi non va molto a genio l’idea del cibo modificato, e abbiamo scelto le rane perché la maggior parte delle altre culture non le trova appetitose.» Hanno costruito un laboratorio per la coltura tissutale e una sala da pranzo all’interno della galleria, dietro teli di plastica con il simbolo del rischio biologico. Per tre mesi, sotto gli occhi dei visitatori, hanno sviluppato cellule di xenopo liscio (una specie di rana acquatica africana). L’ultimo giorno della mostra sei persone – lo stesso Oron, il curatore, il direttore del museo e tre membri del pubblico – hanno mangiato la carne di rana. Non Ionat, assente giustificata perché incinta. Oron apre il laptop e mi mostra un filmato del momento culminante dell’installazione. I prescelti a nutrirsi del piatto di rane che cambierà la storia siedono a una tavola immacolata. Oron è vestito come un cameriere ma porta guanti di lattice e ha la barba più corta e scura. Uno chef francese frigge le bistecche di rana marinate nel calvados in una padella in miniatura su un fornello da campeggio, mentre i commensali fumano in attesa di venire serviti: molto artistico, molto francese, molto scena d’altri tempi. Alla fine i globuli di rana sono serviti con pinzette su larghi vassoi bianchi. «Bon appétit!» dice qualcuno, e gli astanti affondano il bisturi nella carne. Nessuno, infilandosela in bocca, sembra consapevole di essere protagonista di un momento storico. «Ero piuttosto preoccupato degli aspetti inerenti alla salute e alla sicurezza, perciò ho chiesto allo chef di cucinare la carne di rana in una salsa a base di miele e aglio, le cui proprietà antibatteriche sono ben note. La salsa era eccezionale» ricorda Oron. «Siamo riusciti a produrre quasi 5 grammi di carne di rana e a distribuirli tra sei persone. Il punto d’arrivo della nouvelle cuisine.» Tuttavia, si è verificato un problema con la struttura polimerica su cui era stato sviluppato il tessuto di rana. «I polimeri erano progettati per rompersi all’interno di cellule in crescita di mammiferi, cellule a sangue caldo, a una temperatura di 37 gradi. Le cellule di rana stavano crescendo a temperatura ambiente, perciò non si sono rotte nel modo corretto. Il polimero è come feltro, mantiene una consistenza molto forte, e le cellule di rana, anche se erano cellule muscolari, non erano state allenate. Somigliavano a…» cerca la parola giusta «a gelatina.» «Sembra assolutamente disgustoso.» «Esatto!» esclama compiaciuto. «Tre di noi sono riusciti a inghiottirle, gli altri no. Le hanno sputate, ed è stato fantastico perché abbiamo potuto usarle nella mostra successiva, che abbiamo intitolato The Remains of Disembodied Cuisine.» È tutto così astuto, così consapevolmente giocoso, ma rappresenta al tempo stesso una specie di opportunità mancata: mentre si accarezza pensosamente la barba, Oron presenta la propria critica come una curiosità, un oggetto di riflessione per un ristretto pubblico di amanti dell’arte e di intellettuali, anziché il catalizzatore di un indispensabile e ampio dibattito pubblico sul futuro del cibo. Il primo pezzo di carne pulita mai mangiato è stato prodotto per evidenziare le problematiche di questa potenziale tecnologia, e il mondo ha ricevuto il prodotto ma non il messaggio che lo accompagnava. «Avevamo previsto che avrebbe suscitato interesse, ma l’evento ha avuto pochissima copertura mediatica» ammette. «Il problema principale? Il mondo era alle prese con qualcosa di molto diverso, vale a dire la seconda guerra del Golfo in Iraq.» Oron e Ionat si sono dedicati ad altri progetti, come la minuscola giacchetta di tessuto vivente di topo (che il curatore della mostra al Museum of Modern Art di New York ha dovuto «uccidere» spegnendo l’incubatrice perché stava crescendo troppo in fretta).1 La carne non era il loro obiettivo, ma era decisamente fuori menu: dopo la storia della rana, Oron dichiara di aver smesso di cibarsi di qualsiasi cosa a sangue caldo. Poi, nel 2011, qualcuno gli ha girato il link a un articolo su uno scienziato olandese che sosteneva sarebbe stato la prima persona a produrre e a mangiare della carne in vitro, e intendeva farlo in una specie di show dal vivo. «Era incredibile. Ed era troppo.» Lo scienziato olandese, naturalmente, era Mark Post. Oron lo ha cercato e convinto a prendere parte a un’altra delle sue installazioni, ArtMeatFlesh 1, del 2012: uno show di cucina a Rotterdam davanti a un pubblico dal vivo con giudici e assaggi, accompagnato da un dibattito tra scienziati, artisti e filosofi sul tema della carne. Nessun piatto comprendeva carne prodotta in laboratorio, ma ciascuno conteneva qualcosa di disgustoso che avrebbe dovuto stimolare la riflessione sul futuro del cibo, che fossero vermi della carne o siero fetale bovino. «È stata un’autentica esperienza multimediale, e davvero piacevole per tutti; siamo riusciti a intavolare alcune conversazioni molto serie» dice Oron. «Mark è stato al gioco, ecco perché ho tanto rispetto per lui. E poi gli piace cucinare. Aveva addirittura un cappello da chef.» Online si trovano spezzoni video di ArtMeatFlesh 1. C’è Mark, lo stimato uomo di scienza e padre della carne pulita, con tanto di cappello da chef, che ride e scherza mentre impiatta cose repellenti. Anche se da molti punti di vista è all’opposto della sua serissima presentazione dell’hamburger sotto la cloche nel 2013, se si osservano gli eventi fianco a fianco appare chiaro che Mark ha mutuato diverse idee su come conquistare un pubblico, su come allestire uno show, dallo spettacolo di Oron cui ha preso parte. In tutto questo c’è una pesante ironia: l’opera di Oron voleva solo essere una performance, e adesso ci troviamo un’industria della carne pulita basata sulla performance, dall’hamburger di Mark alla crocchetta JUST. «Lei è la prima persona ad aver prodotto carne in laboratorio e averla mangiata, ma nessuno la conosce. Cosa prova al riguardo?» chiedo. Per la prima volta dopo un’ora di monologo, Oron s’interrompe. «Ho un ego. E m’interessa entro un certo limite» dice. «Una cosa che ho trovato sorprendente, per dire fino a che punto si sono rincoglioniti i media, è che dopo la storia dell’hamburger di Mark solo due mezzi di comunicazione in tutto il mondo mi hanno contattato per un commento. Uno era il magazine Time, l’altro uno spettacolo radiofonico rurale dell’Abc. Ho passato molto tempo con la reporter del Time a raccontarle l’intera storia, che è finita per ridursi a un’unica frase striminzita. Lei mi ha mandato un’email per scusarsi dove diceva: “Purtroppo il direttore non credeva che la sua storia contribuisse alla narrazione che volevamo trasmettere”. Volevano pubblicare un articolo con buone notizie, capito?» Per un momento colgo amarezza nella sua voce. Ma poi aggiunge in tono gentile: «Mark è una persona interessante perché in alcuni casi ci ha davvero dato credito, anche se un po’ alla leggera». Ma l’hamburger in una capsula di Petri che salverà il mondo è una storia decisamente più gradevole della nouvelle cuisine a base di carne di rana che induce il vomito, perciò è quella che viene raccontata. «La sua ArtMeatFlesh 1 e il lancio di Mark hanno molto in comune. Forse il suo hamburger non avrebbe avuto altrettanto impatto se non fosse stato lanciato come una performance?» «È questo a dare davvero forza alle cose. Un bell’esempio dove la scienza segue l’arte.» «Ma cosa prova a essere l’inconsapevole antesignano di questa nuova industria, un’industria che evidentemente la disturba?» «Non è quello che avevamo in mente, ma una parte piuttosto importante del nostro lavoro consiste nella critica alle psicopatologie del controllo: cerchiamo di controllare sistemi che per millenni sono esistiti fuori dal nostro controllo» replica. «Una cosa che è stata molto importante per noi, fin dall’inizio della nostra attività, è di non cercare di assumerne il controllo. Una volta che il nostro lavoro sarà di pubblico dominio, genererà in modo autonomo storie e narrazioni.» Sorride. «Mi affascina vedere dove ci porterà.» Non è in corso una campagna contro la carne pulita. Le poche voci isolate che ho scoperto essere disposte a criticarla sono travolte in maniera soverchiante dal coro di messaggi positivi trasmessi dall’industria della carne pulita. Tuttavia, a dispetto dell’idea di inevitabilità promossa dalle startup e dal Gfi, nessuno ha idea dei futuri sviluppi del settore. Bruce, Josh e Mike erano sicuri che i consumatori avrebbero accettato la carne pulita, che non sarebbe importato loro che venisse da un laboratorio, che l’avrebbero preferita alla carne presa dagli animali, ma il «fattore schifo» rappresenta davvero un serio problema per l’industria. Ogni allusione alla possibilità che il pubblico sia disgustato dall’idea lascia Bruce del tutto indifferente. «Non m’interessa che dai sondaggi emerga come una fetta di popolazione non sia pronta ad accettare la carne in vitro più di quanto i loro nonni fossero disposti ad accettare le gravidanze in vitro» ha scritto sul Los Angeles Times nel 2018.2 «Ci saranno sempre dei luddisti a condannare le nuove tecnologie e a opporvi resistenza. Dobbiamo aspettarcelo. Ma gli altri saranno felici di abbracciare la causa della carne pulita, che tiene pulita anche la coscienza.» Eppure tutta questa pulizia ha suscitato anche voci di dissenso, come scopro scorrendo con attenzione le poche pubblicazioni accademiche che esaminano le affermazioni sostenute dall’industria e dal Gfi. A preoccuparmi ancora di più è il fatto che alla fine abbia scoperto quattro consistenti ricerche dove si giunge alla conclusione che, pur essendo più efficiente della produzione di carne bovina in termini di consumo di terra, acqua ed energia, la carne pulita genera una maggiore quantità di gas serra3 rispetto alla pollicoltura – quasi il 38 per cento di più, secondo uno studio.4 Per salvare il pianeta, sarebbe meglio smettere di mangiare polli. A dire il vero, due di queste pubblicazioni suggeriscono che sarebbe ancora meglio se cominciassimo a nutrirci di insetti, ma ciò rappresenta un’ulteriore sfida per quanto riguarda il fattore schifo. La totalità di questi studi poggia su stime decisamente teoriche riguardo all’apporto della carne pulita; scienziati e imprenditori sono ancora all’opera su come sviluppare la carne in laboratorio e i metodi di produzione sono destinati a diventare sempre più efficienti. Ma il punto è che nessuno sa dire per certo se al momento la carne pulita sia meglio per il pianeta: un’ambiguità preoccupante, considerato che oggi i vantaggi ambientali che puliscono la coscienza vengono spacciati per certi a investitori e consumatori. E naturalmente, la carne pulita rappresenta ancora un pericolo per noi. Il rischio di nutrirsi di montagne di carne rossa non si annulla solo perché si produce in laboratorio. La carne rossa continua a essere causa di tumori e malattie cardiache, continua a traboccare di colesterolo e grasso, continua a non avere un grammo di fibre, anche se la si può modificare artificialmente perché un giorno sia meno dannosa per la salute. Il pericolo è che se chiamano «pulita» la carne che abbiamo nel piatto, poi ci sentiamo in diritto di mangiarne quanta ne vogliamo, il che è nondimeno più dannoso per il pianeta e per il nostro corpo di una dieta a base vegetale. Dunque la risposta sta nella carne a base vegetale? In quei sanguinolenti Impossible Burger e succulenti Beyond Burger? Forse. O forse no. L’imitazione a base vegetale di prodotti animali consiste in cibi ultraelaborati, realizzati attraverso un numero di componenti tale da far venire le lacrime agli occhi. Quando scorro gli ingredienti del JUST Egg che ho mangiato mi sembra di leggere l’elenco dei materiali per un esperimento di chimica, una sfilza contenente isolati proteici, gomme, olii, estratti e aromi, pirofosfato tetrasodico, transglutaminasi, citrato di potassio e altro ancora. Secondo l’etichetta, il Beyond Burger è fatto di proteine di pisello e olio di cocco, ma contiene anche cose chiamate metilcellulosa, maltodestrina, glicerina vegetale, gomma arabica e acido succinico. Occorre smanettare un sacco per trasformare i vegetali in qualcosa che somigli a un prodotto animale. E quando si aggiungono i chilometri necessari per consegnare tutti questi componenti alla fabbrica, e il nutrimento che forniscono, o non forniscono, al confronto con piatti di vegetali che non fingono di essere carne, che chiunque potrebbe preparare con ingredienti raccolti dal proprio orto, sembra davvero un’idea sciocca sobbarcarsi tutti questi sforzi. La carne vegana poggia su una visione pessimistica degli esseri umani: la convinzione che ci ritiene incapaci di cambiare il nostro modo di mangiare. Ma la sola strada per essere assolutamente sicuri che il nostro cibo non metta a repentaglio la sopravvivenza del pianeta è perdere il gusto che abbiamo per la carne. Dopotutto, il problema vero non è l’agricoltura animale, ma gli appetiti umani. Non si tratta, però, di una questione di assoluti. «Persino la possibilità che questa tecnologia rallenti il potenziale incremento futuro nel consumo di carne animale sarebbe una specie di vittoria, di successo» afferma il dottor Neil Stephens, sociologo alla Brunel University che probabilmente conosce questo settore industriale più di ogni altro accademico al mondo ed è la sola persona con cui abbia parlato finora a impegnarsi nell’essere prudente e imparziale. Neil è vegano, ma questo aspetto incide solo parzialmente sul suo lavoro. Studia la carne pulita dal 2008, esaminando le questioni politiche, etiche e normative che creerebbe questa forma di produzione alimentare, e ho appena letto una sua pubblicazione sulle «sfide dell’agricoltura cellulare», talmente obiettiva da farmi quasi cadere dalla sedia.5 Gli ho telefonato per cercare di attingere a un po’ di quel buonsenso di cui ho disperato bisogno. «Se l’industria della carne pulita imbrocca la strada giusta e scopre come produrre qualcosa di davvero equivalente alla carne, quali sono le drammatiche sfide che ci attendono?» chiedo. «“Drammatiche” è un termine eccessivo» dice cauto Neal. «Dovremmo considerare le possibili implicazioni. Al momento la tecnologia viene sviluppata da un insieme di aziende private e gruppi di ricerca universitari sostenuto da un altro insieme di persone tutte sinceramente preoccupate dall’attuale situazione mondiale e sinceramente decise a dedicare vita, passione e intelligenza ad affrontare la questione attraverso la tecnologia. Ci si aspetterebbe, considerando la mentalità delle altre startup, che i loro proprietari possano cambiare, attraverso la concessione delle licenze, o che le aziende vengano acquisite. Chi sarà a possedere questa tecnologia tra vent’anni, quali saranno i suoi valori, come si rapporterà al margine di profitto: tutto ciò determinerà il modo in cui sarà utilizzata.» Si tratta di una preoccupazione potenzialmente enorme, nonostante la cautela della risposta di Neil. Non siamo in grado di controllare la direzione del mercato. Non siamo in grado di controllare chi guiderà in futuro l’industria della carne pulita, che potrebbe non essere un vegano benintenzionato, né Mike il nerd, né Bruce l’evangelista. Potrebbe, invece, essere qualcuno con priorità molto diverse. «Se funziona, potremmo immaginare di avere un settore di successo dal punto di vista commerciale, aziende che facciano soldi e non abbiano nulla del significativo impatto sociale e ambientale che avrebbero se rimanessero di piccole dimensioni» prosegue Neil. Penso a tutti i grossi investimenti da parte delle big companies della carne pulita che le startup sono così ansiose di assicurarsi, aziende tristemente note per porre il profitto al di sopra del benessere di animali, uomini e ambiente. «A prendere il controllo saranno le aziende che già hanno accesso all’infrastruttura e alla logistica necessarie al settore della carne pulita?» chiedo. «È uno scenario decisamente possibile, forse persino probabile» risponde. Nonostante lo spirito idealista di Bruce e le convinzioni comuniste di Mike, i due potrebbero aiutare le aziende della carne ad arricchirsi, spianando il terreno a un’industria che ci renda tutti dipendenti da multinazionali sempre più distanti. Nel futuro per cui sta combattendo l’industria della carne pulita – dove gli umani mangino carne senza più uccidere animali – avremo ceduto la nostra autosufficienza ad aziende dalla tecnologia specializzata. Nessuno può garantire delle buone intenzioni di queste aziende, né che si adoperino a vantaggio di qualcuno che non siano loro stesse.

Per capire dove le cose andranno a parare, a volte occorre tornare all’inizio. Dopo mesi di email, alla fine mi ritrovo seduta davanti a Mark Post. Che m’informa della frequenza con cui mangia salsicce. «Ogni giorno, a dire la verità, perché farcisco con fettine di salsiccia il mio sandwich del pomeriggio» dice smascherando l’olandese che c’è in lui a dispetto del suo accento americano. «E a volte mangiamo carne anche la sera. Mangio carne, come tutti.» Sono venuta a incontrare Mark alla Maastricht University. La sua camicia marrone stazzonata e i suoi calzoni verde scuro fanno un bel contrasto con la moquette arancione e le pareti gialle dell’ufficio. È persino più alto di Mike Selden, con un po’ di pancetta, stempiato, capelli grigi e una cordiale risata che vivacizza la nostra conversazione – un «ah-ah-ah-ah-ah» tipo raffica di mitragliatrice. Mark insegna fisiologia in questa università e al tempo stesso lavora come chirurgo cardiovascolare nonché responsabile scientifico della maggiore startup europea nel settore della carne pulita, Mosa Meat. Un uomo occupatissimo, insomma: sono fortunata a trovarmi qui. Lo è anche Mark, però, a suo dire, perché l’intera industria della carne prodotta in laboratorio esiste solo in virtù di una serie di casualità, mancanze, coincidenze e imprevisti. Tutto ha avuto inizio per la passione e la tenacia di un ottantunenne, spiega Mark. Willem van Eelen era un imprenditore olandese che aveva sognato di ottenere carne da cellule in laboratorio senza bisogno di uccidere animali da quando aveva sperimentato la brutalità e la fame come prigioniero di guerra in un campo giapponese. Van Eelen sapeva di doversi affrettare per tramutare il suo sogno in realtà. «Obbligò gli scienziati di tre università, Utrecht, Amsterdam e Eindhoven, a richiedere sovvenzioni al governo olandese» mi dice. Il governo acconsentì a sborsare abbastanza soldi da finanziare un progetto di ricerca quinquennale sulla carne in laboratorio a partire dal 2004. L’entusiasmo per l’iniziativa, però, era limitato. «Nessuno degli scienziati coinvolti all’inizio era davvero interessato a creare carne in laboratorio. Se ne servivano tutti come di un paravento per occuparsi delle loro ricerche individuali.» Lavoravano sul progetto fintanto che poteva far avanzare i loro interessi di studio preesistenti: a Eindhoven, per esempio, erano molto più concentrati nel realizzare un prototipo per prevenire le piaghe da decubito che non qualcosa di commestibile. Mark entrò nell’iniziativa a due anni dal lancio, dopo che il capo del progetto di Eindhoven si ammalò. «Pensavo fosse proprio un’idea fantastica. Più sapevo sul suo conto, più mi emozionava.» A Mark brillano gli occhi quando parla del suo lavoro. Il suo entusiasmo contagioso è stato essenziale per il successo della carne pulita, ma le sue doti comunicative si sono rivelate appieno solo nel 2009, in seguito a un altro insieme di coincidenze. «Ero sul treno di ritorno da una noiosa riunione all’Aia un piovoso giovedì (quasi tutte le riunioni all’Aia sono molto noiose, ah-ah-ah-ah-ah) e ho ricevuto una chiamata da una giornalista del Sunday Times. Al momento non ho capito bene nemmeno cosa fosse il Sunday Times.» Dato che non era disponibile nessuno degli studiosi coinvolti nel progetto e degli incaricati dei rapporti con la stampa, ha detto la giornalista, Mark se la sentiva di rispondere a qualche domanda? «Non avevo niente di meglio da fare e così ho risposto: “Okay”. E quello ha scatenato la smania dei media, perché lei ha sbattuto le mie dichiarazioni in prima pagina, e Associated Press e Reuters le hanno messe in circolazione in tutto il mondo. All’improvviso, ero diventato il punto di riferimento.» Dopo che quell’anno finirono i soldi del governo (il ministro olandese dell’Economia non vedeva alcun potenziale commerciale in quello che stavano producendo, «e ora so che se ne pentono» ridacchia Mark), lui era ormai esperto nel padroneggiare i media e cogliere l’impulso che poteva dare ai finanziamenti al progetto. Per di più, aveva visto da Oron come trasformare la produzione di carne in uno show. «Pensavo: “Perché non prepariamo una salsiccia, la presentiamo al pubblico e intanto facciamo grugnire in giro per il palco il maiale che ha donato le cellule da cui l’abbiamo sviluppata?”» dice Mark. Il maiale sarebbe stato una pubblicità vivente per la ricerca di cui erano i pionieri. Ma persino quella salsiccia richiedeva 300 000 euro tra costo degli ingredienti e della lavorazione. Mark stava arrancando con i limitati fondi a disposizione quando di punto in bianco squillò il telefono: era l’ufficio di Sergey Brin. «Volevano chiedermi di cosa mi stessi occupando e io ho detto: “Certo”. A quel tempo parlavo con chiunque di questo progetto, e quindi perché no?» Durante una festività nel calendario olandese, uno dei più stretti collaboratori di Brin volò a Maastricht e Mark gli raccontò dei suoi progetti per la performance del maiale. «E allora ha detto: “Bene, Sergey vuole finanziarti”. Io non avevo idea di chi fosse Sergey. Me ne parlava come se chiunque dovesse conoscerlo, e allora pensai fosse meglio fingere che lo conoscessi anch’io. Ah-ah-ah-ah- ah.» Mark ebbe due settimane per scrivere una proposta di due pagine. «Ho domandato: “Quanti soldi dovrei pensare di chiedere?”. E lui ha risposto: “Oh, un paio di milioni”. Ho detto: “Affare fatto”. E lui ha aggiunto: “A proposito, non può essere una salsiccia, dev’essere un hamburger”. Non avevo idea che sarebbe stato molto più difficile da ottenere, così ho detto: “Sì, non c’è problema”.» «Perché doveva essere un hamburger?» «Perché è l’America.» «Perché l’hamburger è più difficile?» «Perché deve sembrare davvero carne. Una salsiccia può essere qualsiasi cosa. In una salsiccia puoi ficcarci dentro di tutto, in un hamburger no: devi ottenere delle fibre che somiglino davvero alla carne. Ma alla fine ci siamo riusciti.» È impossibile non prendere in simpatia Mark. Tra tutta la gente nel bislacco mondo della carne pulita, lui ha il maggior diritto di essere preso sul serio, anche se al tempo stesso è il più umile, il più schivo e l’unico disposto a ridere davvero di se stesso. Forse perché capisce quanto è stato fortuito il suo successo. Forse perché è stato un accademico per quasi quarant’anni e non gli servono ratifiche da parte di altri. O forse perché non lavora in una startup della Silicon Valley. Il lancio si svolse allo studio televisivo di West London dove all’epoca giravano TFI Friday. Per gestire l’evento, l’ufficio di Brin ingaggiò la società di pubbliche relazioni Ogilvy. «Non ho mai visto la fattura per quel servizio e sono sicuro che è costato persino di più dell’intero hamburger» dice Mark. «Pensavamo davvero di avere lo chef Ferran Adrià, uno degli inventori della “gastronomia molecolare”, a cuocere l’hamburger e di invitare Leonardo DiCaprio insieme a Natalie Portman per assaggiarlo. Ah- ah-ah-ah-ah-ah-ah!» Alla fine, optarono per qualcosa di solo leggermente meno glam per tenere fisso l’obiettivo sull’aspetto scientifico. Ma fu comunque uno show, con un’enorme ricaduta, mentre la pionieristica performance di Oron, molto più avvincente ma svoltasi senza il supporto di una società di pubbliche relazioni, cadde nel vuoto. «Fu sorpreso dalla risonanza che ebbe?» chiedo. «Certo. Ero consapevole della forza della storia, ma me ne stavo seduto lì tutto teso sulla punta della sedia a ripetere tra me: “Speriamo che non ci stronchino”.» Abbassa la voce in tono cospiratorio. «Per darle un’idea di quanto eravamo ingenui all’epoca, la mattina della domenica prima dello show, letteralmente, Ogilvy ci convocò nella stanza e mi chiese: “Perché lo fate?”, e io risposi tipo: “Eh?”, perché davvero non avevo mai riflettuto sul messaggio. E in effetti dovevo davvero chiedermi: “Perché lo sto facendo?”. Ci vennero in mente due motivi: il primo è che volevamo mostrare al pubblico che si trattava di qualcosa di fattibile, che la tecnologia lo permetteva, mentre il secondo messaggio era che dobbiamo pensare a come produrremo carne in futuro, che l’attuale produzione della carne non è sostenibile. Il terzo messaggio era che volevamo fare soldi, ma quello no, non rientrava nel messaggio. Ah-ah-ah-ah.» Dunque il potenziale della carne prodotta in laboratorio per salvare il pianeta è stato un’aggiunta dell’ultimo momento, un retropensiero venuto in mente il giorno prima del lancio per impulso di una società di pubbliche relazioni. Fu una coincidenza che il lancio dell’hamburger avvenne in un giorno d’agosto a secco di notizie, senza una guerra del Golfo a competere per lo spazio televisivo. La location, però, fu una scelta strategica: non potevano portare l’hamburger in America per via delle restrizioni alle importazioni. «L’unico posto possibile negli Stati Uniti era all’interno dell’ambasciata olandese, ah-ah-ah-ah, che naturalmente non è affatto un buon posto. Perciò dovevamo farlo nei Paesi Bassi o in una nazione dove portarlo clandestinamente. Dal momento che a Londra potevamo andarci in treno, abbiamo scelto Londra.» L’impatto del lancio sorprende Mark ancora oggi. «Incontro persone che mi dicono: “Noi abbiamo questo fondo d’investimento che in pratica esiste grazie a te”, o: “Noi abbiamo fondato questa azienda”. Oppure studenti che si sono dati alla bioingegneria per quel motivo. A ripensarci, è stata una scelta molto, molto fortunata.» L’azienda di Mark, Mosa Meat, è stata fondata nel 2015 e ha preso il nome dal fiume che attraversa Maastricht. L’hamburger Mosa verrà confezionato in una fabbrica olandese e si prevede che venga immesso sul mercato entro il 2021, con un prezzo iniziale di 9 euro. «Poi intende passare alla produzione di tagli di carne?» chiedo. «Sì, naturalmente.» «Tra quanto sarà possibile?» «Oooh.» Prende un biscottino olandese speculaas dal piattino della tazzina di caffè. «A essere sincero, è molto difficile rispondere. Stiamo cominciando a lavorarci ora, per gradi.» Sgranocchia lentamente il biscotto. «La struttura teorica c’è. Sappiamo tutto ciò che dobbiamo fare perché avvenga. Non so dirle quando si arriverà a una bistecca che all’occhio, al palato, al naso risulti indistinguibile da una presa direttamente da una mucca. Perciò non mi sbilancio.» Ripenso alla noncuranza con cui Vítor mi aveva detto che JUST era in grado di «far crescere una bistecca in una settimana, se lo volessimo». Mi ricorda anche un altro fatto che vorrei verificare. «È possibile estrarre delle cellule da una piuma tramite biopsia e usarle per produrre della carne?» «Oh, Dio. In teoria, sì. Anche se, a dire la verità, è l’idea più stupida che abbia mai sentito. Se l’obiettivo è di ottenere pollo o pesce, la fonte cellulare ovvia è un uovo fecondato. Ecco la fonte ideale per quelle cellule. Purtroppo con le mucche non è possibile.» Peccato che in un video promozionale perforare un uovo e aspirarne le cellule con una siringa non sia uno spettacolo tanto piacevole quanto raccogliere una piuma da un pascolo verdeggiante. «In teoria, ripeto, è possibile, ma è la scelta peggiore di tutte, perché si tratta di un oggetto contaminato, raccattato da terra. Dovremmo pompare la piuma di antibiotici. E per usarla all’interno dovremmo modificare geneticamente le cellule» prosegue. «In realtà ho parlato a degli scienziati di JUST che hanno partecipato a una mia conferenza un anno fa e ho chiesto loro: “Davvero? Ma che cosa avete in mente voialtri?”, e loro mi hanno risposto: “Be’, non è una nostra idea. Arriva dal marketing”. Ah-ah-ah-ah-ah.» E scoppia in una risata tale che gli vedo tutti i denti. Mark, tuttavia, si dichiara «contentissimo» di non essere più l’unico scienziato a cercare di produrre carne dalle cellule, di qualunque tipo siano. È grato per la comunità che si è formata intorno a questo obiettivo. A un certo punto era impaziente di condividere informazioni su ciò che non funzionava in modo che altri non ripetessero i suoi errori, ma gli investitori non erano tanto d’accordo, perciò la collaborazione tra le aziende si è limitata ad aspetti normativi, dice. Il suo progetto a lungo termine è ottenere le proprietà intellettuale sul progetto così da far felici gli investitori e trasformare la sua tecnica in un metodo globale, diffuso in tutto il mondo. E che chiunque possa utilizzare, naturalmente purché paghi. «Tra le aziende è in atto una gara a chi lancerà per prima questa invenzione sul mercato. Questa competizione giova alla ricerca?» «Sì, direi che è utile. Ha anche dei lati negativi, perché la mia paura è che qualcuno presenti prodotti di qualità scadente pur di battere gli altri sul tempo. Questo danneggerà la reputazione della tecnologia. Alcune aziende sembrano disposte a sacrificare la qualità al successo commerciale. È questo che mi preoccupa.» È facile immaginare che la carne pulita sarà in mani sicure se persone come Mark ne guideranno lo sviluppo. Lui, detto per inciso, preferisce la definizione di carne «di coltura» anziché «pulita» o «a base cellulare». Al pari della mia prima conversazione con Bruce, sembra che io non possa evidenziare alcun aspetto critico della questione per cui lui non abbia già pronta una risposta sagace ed eloquente. Quando gli chiedo se tutto questo non sia una bolla, mi risponde che, se anche lo fosse, non avrebbe importanza. «Sono più vecchio della maggior parte di chiunque lavori nel settore. Ho un punto di vista leggermente più sfumato» dice. «Potrebbe trattarsi di una di quelle tecnologie che dopo un periodo di grande strombazzamento pubblicitario conoscono un’inversione di tendenza, con gli investitori privati delusi che cominciano a farsi da parte. Quello allora sarà il momento di avviare un’intensa campagna per l’investimento pubblico.» Mark preferirebbe molto lavorare con denaro pubblico. «Sarà un piano scientifico a lungo termine per i prossimi tre decenni. Se anche fra tre anni apparirà un prodotto sul mercato, richiederà comunque un sacco di ricerche e di aggiustamenti. Ci vorrà un’ampiezza di riconoscimenti scientifici, e ciò potrà accadere solo con il finanziamento pubblico.» Quando gli chiedo se il suo lavoro incoraggerà il sovraconsumo, allontana l’obiezione con un cenno della mano. «Tutti, invecchiando, abbiamo sempre più problemi a digerire la carne. Dal punto di vista fisiologico non è possibile mangiare più di un tot di carne, esiste un limite che non si riesce a superare. Al momento il consumo di carne nei paesi maggiormente industrializzati sta calando.» Ma quando gli sottopongo l’affermazione di Matthew Cole riguardo alla perpetuazione del gusto per la carne, che potrebbe essere un fatto culturale anziché naturale, la risposta di Mark mi sorprende. «La carne è un fatto culturale. Parte della sua attrattiva – e ora dico qualcosa di estremamente controverso, anche se credo possieda un fondamento di verità –, parte dell’attrattiva del cibarsi di carne è che per ottenerla si devono uccidere gli animali.» «In che senso? Che cosa intende?» «Parlo della supremazia sulle altre specie. La carne è sempre stata associata al potere, alla mascolinità, al fuoco, a tutte queste cose.» Mi racconta di uno spot per la salsa barbecue Remia trasmesso di recente dalla televisione olandese, in cui si vede Sylvester Stallone che strappa un kebab vegetariano dalle mani di un tizio magrolino prima di sparare con il bazooka da un elicottero. «Se vuoi combattere come una tigre, non mangiare come un coniglio» grida Sly in faccia all’attore. Poi versa la salsa su una bistecca mastodontica che gli spiattella sul tavolo. «Vuoi vivere da uomo? Mangia da uomo» ringhia. «Se si vuole produrre carne in laboratorio o in fabbrica, senza alcun rischio, senza bisogno di uccidere un animale, sarà una versione smidollata della carne» prosegue Mark. «Somiglierà più ai broccoli che a un hamburger. Un prodotto di transizione potrebbe aiutare in effetti a passare a una dieta a base vegetale.» E all’improvviso capisco perché la carne è tanto importante, perché è difficile privarcene: la carne è una componente intrinseca di ciò che rende gli uomini uomini e di ciò che rende tutti noi umani, agenti che dominano il mondo circostante, carnivori primari provvisti di inequivocabile potere e controllo sull’ambiente. «È tutto collegato a ciò che significa essere umani, vero?» chiedo. «Esatto.» «Essere umani significa dominare il mondo. E noi siamo stati così bravi a dominarlo che adesso lo stiamo distruggendo.» «Esatto.» La carne pulita cambierà il senso dell’essere umani: gli umani non vivranno più a spese degli animali. Ma se la carne è un fatto culturale anziché naturale, abbiamo il potere di cambiare la nostra cultura senza basarci sulla tecnologia. La nostra cultura è già cambiata: la mascolinità non si definisce più in termini di abilità nell’accendere il fuoco e uccidere. Sì, la carne pulita potrebbe essere il prodotto di transizione per disabituarci a uccidere gli animali allo stesso modo con cui i robot del sesso sarebbero in grado di fungere da metadone per i molestatori. Ma al tempo stesso si tratterebbe di un prolungamento della nostra dipendenza, e lasciarci in balia di multinazionali anonime per gli alimenti di base. Anziché abbandonare il nostro potere di dominare gli animali rinunciando alla carne, concediamo ad aziende lontane un maggiore potere di dominarci. «Questo non potrebbe spingerci verso un mondo dove ricorrere a tecnologie e aziende altamente specializzate per produrre il nostro cibo, mentre un tempo eravamo autosufficienti? Ancora oggi, un contadino vietnamita uccide i maiali che mangerà. In un futuro dove sopprimere gli animali sarà proibito ma nutrirsene sarà normale, ci renderemo impotenti a causa della nostra dipendenza dalla tecnologia.» «Sì. E sono perfettamente d’accordo» replica all’istante. «Parlo di microbirrifici e micromacellerie per chiarire che questa tecnologia non va necessariamente associata a multinazionali che la mettano all’opera in qualche lontano paese a basso reddito.» «Ma non succederà, è già così.» «Però, noi abbiamo i microbirrifici…» «Già, ma la gente beve Heineken e Budweiser. I microbirrifici rappresentano qualcosa come lo 0,5 per cento del mercato globale.» «Sì, comunque esistono. Adesso rappresentano lo 0,5 per cento del mercato, ma non sappiamo come si trasformeranno. Sono completamente d’accordo con lei: il punto è che la gente preferirebbe pagare 4 sterline e 99 anziché 5 sterline per un chilo di carne, e se si vuole scendere a 4 e 99 anziché a 5 occorre passare a una produzione su grandissima scala. E quindi accettare che la carne ci arrivi da molto, molto lontano. È una spinta del mercato, immagino.» «Non crede che sia una prospettiva oscura e inquietante?» «Lo è, ma si tratta di accettare il lato oscuro della specie umana. Non sono un sostenitore della teoria per cui siamo vittime delle grandi multinazionali. Siamo noi a dare loro il potere di essere tali. Tendo a essere decisamente liberale su questi argomenti: se succederà, probabilmente sarà quello che desidera la gente. Preferirei vedere i microbirrifici, ma non dipende da me. Se Unilever vuole cominciare a produrre salsicce in vitro, non posso impedirglielo.» La carne pulita è uno dei molti possibili futuri del cibo, a patto che continuiamo a cibarci di carne. Avremo sempre il potere di non volerne mangiare più, o di volerne molto meno. Ecco dov’è il vero potere: nell’indirizzare i nostri desideri anziché nel padroneggiare la tecnologia. Finché sarà così, saremo allontanati sempre di più da dove proviene il nostro cibo, e ci sentiremo molto meno responsabili. Perpetueremo la stessa mentalità che ci ha ficcato in questo problema. PARTE TERZA Il futuro della nascita Ectogenesi 9. Il business della gravidanza

Il Pacific Fertility Centre sul Wilshire Boulevard di Los Angeles è il posto dove la gente che ha tutto va a fare bambini. Le pareti della sala d’aspetto sono tappezzate di pelle crema trapuntata, i divani sono di velluto riccio, in sfumature avorio e visone, vasi di orchidee bianche risplendono della luce proiettata da lampadari di cristallo. Si potrebbe scambiare questa stanza per il camerino di una boutique di abiti da sposa di lusso, ma le immagini sullo schermo piatto appeso al muro rivelano la verità: foto digitali di neonati con guantini di lana, messaggi di ringraziamento, biglietti di auguri natalizi con famiglie in posa, testoline minuscole cullate da mani accoglienti. Le immagini dei bambini scorrono verso l’alto e si dissolvono come bollicine di champagne. Seduta alla mia sinistra c’è una donna alta e snella, in legging blu e scarpe da ginnastica. Non avrà più di venticinque anni. La felpa tagliata mostra la sua pelle color bronzo, la vita sottile, l’addome piatto in maniera inverosimile. Ha capelli corti e ossigenati, ciglia scure e una linea del mento così delicata da poter appartenere solo a una modella. Il suo collo da cigno si curva sull’iPhone, le dita affusolate scorrono un feed di Instagram e le unghie lunghe picchiettano qualcosa di tanto in tanto. Alla mia destra, un’altra donna in attesa, leggermente meno giovane ma altrettanto affascinante. Indossa un berretto color paglia, non ha trucco. Le sue mani sono così esili che ha bisogno di entrambe per reggere l’iPhone dalla cover tempestata di gioielli. Il dottor Vicken Sahakian finalmente può ricevermi. Percorro un corridoio con collage fotografici in cornici nere appesi alle pareti. Un neonato con un berretto da Babbo Natale rannicchiato in una rossa calza natalizia. Due uomini con le lacrime agli occhi, ognuno con un gemellino in fasce tra le braccia. Da venticinque anni lo specialista della fertilità Sahakian rende possibile farsi una famiglia a migliaia di privilegiati. I suoi clienti sono etero e gay, giovani e vecchi, e provengono da ogni parte del pianeta, soprattutto Cina, Regno Unito e diverse nazioni europee in cui la surrogazione di maternità è illegale o soggetta a pesanti restrizioni. In California le madri surrogate guadagnano mettendo al mondo figli per altri, e la legislazione statale è famosa per difendere i diritti dei futuri genitori da eventuali rivendicazioni di terzi coinvolti nella nascita dei loro bambini. Questo stato si è guadagnato la reputazione di uno dei paesi che più agevola la maternità surrogata. Per quanto diversi, i clienti di Sahakian hanno una cosa in comune: se lo possono permettere. Se si accetta di usare gli ovuli, lo sperma o l’utero altrui e si è pronti a pagare, il dottore rende possibile qualsiasi cosa. «Il denaro detta legge. Se si hanno soldi, si può avere un bambino» mi dice meno di cinque minuti dopo che mi sono seduta davanti a lui alla gigantesca scrivania nera nel suo ufficio d’angolo arredato a monocromo. Accanto alla tastiera, un sottobicchiere con le parole ESSERE BAMBINI È UN MODO FANTASTICO PER INIZIARE A VIVERE, la riproduzione in plastica di un utero completo di tube di Falloppio e come fermacarte un cubo di vetro contenente l’immagine di un bimbo incisa al laser. «È triste, ma è così.» Si corregge. «Non è triste, a dire il vero, anzi, è qualcosa che riempie di felicità. Durante il tirocinio stavo quasi per lasciare questo campo perché mi deprimeva dover chiamare nove pazienti su dieci e dire loro: “Signora, non è incinta”. Adesso si è verificato un cambiamento di 180 gradi: la tecnologia, che quando ho iniziato la professione funzionava nella minoranza dei casi, ora ottiene quasi sempre un esito positivo. Io credo in questo genere di scienza. Credo nel bilanciamento familiare, nella selezione del genere, nell’accantonamento di embrioni problematici, nel ricorso a donatrici di ovuli e donatori di sperma. È il mio lavoro, e io amo il mio lavoro. Il mio scopo ultimo qui è dare felicità a qualcuno.» Come la gamma di opzioni di fertilità disponibili per i suoi clienti si è diversificata, così multiformi sono le richieste di questi ultimi. Un numero crescente di donne contatta Sahakian per una surrogazione dettata da «ragioni sociali»: desiderano avere bambini loro dal punto di vista genetico, ma non vogliono restare incinte e metterli al mondo. Non c’è un motivo medico che impedisca loro una gravidanza: solo, preferiscono servirsi di una madre surrogata. Concepiscono i bambini attraverso la fecondazione artificiale e impiegano un’altra donna per la gestazione e il parto. L’apoteosi dell’outsourcing. «Non ho alcun problema al riguardo» mi dice tranquillamente il dottore, appoggiandosi allo schienale. Indossa una divisa chirurgica grigia con il nome ricamato e ha i capelli lisciati all’indietro che si vanno sbiancando sulle tempie. «Prendiamo un’attrice o una modella ventottenne: resta incinta, rischia di restare senza lavoro e così avviene. Se vuole servirsi di una madre surrogata, io l’aiuto.» Un tipo di aiuto dal costo di 150 000 dollari che sempre più donne sono disposte a pagare. «Cinque anni fa avevo quattro, cinque casi del genere all’anno. Oggi sono probabilmente una ventina. E se li vedo io, sono sicuro che i tanti endocrinologi riproduttivi della zona, specializzatisi con successo nel campo della fertilità, ne vedono altrettanti.» «Pensa che più donne ricorrerebbero a questa “surrogazione per ragioni sociali” se potessero permetterselo?» chiedo. «Assolutamente. C’è un vantaggio nell’essere incinta, il legame che si crea, lo so, anche se come uomo non mi è possibile capirlo direttamente. Per esperienza posso dire che quasi tutte le donne adorano essere incinte, ma ce ne sono molte che non lo vogliono e devono perdersi un anno di carriera.» Sahakian non ha una tipologia fissa di cliente. «Lavoro con chiunque.» Ma ci sono star di Hollywood e cognomi che lui per discrezione eviterà di menzionare: «Non glieli nominerò io, ma sono sicuro che li ha già sentiti». Le donne che lo contattano per una surrogazione motivata da ragioni sociali non sono le grandi star, però: chi davvero conta a Hollywood ha il potere di dettare le regole quando si tratta dei calendari di lavorazione e può essere certa che il lavoro sarà lì ad aspettarla se si prende una pausa nella carriera per avere un bambino. Le candidate tipiche si stanno facendo largo nell’industria dell’entertainment, ma non si sono ancora conquistate una posizione salda. «Mi dicono a bruciapelo: “Se rimango incinta, perdo la parte. Io lavoro, non ho tempo a causa del lavoro. Sono modella, sono attrice, il mio aspetto mi piace così e non voglio sformarmi”.» Faccio una smorfia. «Ci si sforma quando si rimane incinta?» «Non sono mai stato incinta» ribatte lui con un sorriso smagliante, e sarà anche frutto della mia immaginazione ma giurerei che mi ha gettato un’occhiata al torace come per valutare se chi gli ha posto la domanda abbia avuto una gravidanza in passato. «Di sicuro un corpo si deforma durante la gestazione, e senza gli esercizi necessari può volerci un po’ a ritornare alla normalità. E di certo c’è un po’ di verità nel fatto che la gravidanza cambi per sempre il corpo di una donna. Il bacino si apre, si accumula del grasso, sulla pelle vengono macchie che non vanno più via. Le cose cambiano. Non dico sia un motivo per servirsi di una madre surrogata, ma per qualcuno lo è.» Si muove nella sua grossa poltrona girevole in pelle e tenta un altro approccio. «Faccio un paragone con la chirurgia estetica. Se lei critica una donna che si fa aumentare il seno, allora di certo criticherà chi si serve di una surrogazione per ragioni sociali. Una dice: “Non mi sento a mio agio con il mio corpo, dal punto di vista psicologico rappresenta un problema per me e desidero risolverlo”. L’altra dice: “Non voglio sformarmi”.» Non tutte le clienti che ricorrono a una surrogazione per ragioni sociali sono attrici e modelle: alcune hanno solo carriere molto impegnative che sarebbero ostacolate da una gravidanza. «Numerose clienti mi dicono: “Non posso, devo viaggiare, non voglio aspettare oltre, sto invecchiando e i prossimi due, tre anni saranno decisivi per la mia carriera, non sono mai a casa”. È una motivazione onesta.» «Le donne in genere fanno questa scelta per ragioni estetiche o professionali?» «Professionali, direi. “Non ho tempo per via del lavoro” è la più comune, seguita dalle preoccupazioni per l’aspetto fisico.» I maschi diventano padri senza sconvolgere troppo le loro vite, per quanto svolgano lavori impegnativi o di alto profilo. Spesso neppure devono considerare l’impatto di un bambino sulle loro carriere, anche nei momenti più critici: il figlio dell’ex leader lib-dem Charles Kennedy, Donald, è nato durante la campagna per le elezioni generali del 2005. La moglie di Mo Farah, Tania Nell, ha messo al mondo i suoi gemelli tre settimane dopo che lui aveva vinto due ori olimpici nel 2012. «Che cosa pensano i partner delle donne che la contattano per una surrogazione motivata da ragioni sociali?» Evidentemente è la prima volta che Sahakian riflette sulla questione. «Sa, non lo chiedo mai! Non ho mai posto loro questa domanda.» «Ma accompagnano qui le loro compagne?» «Sì, sì, certo.» Sahakian mi dice che anni di lavoro nel campo della fertilità lo hanno reso un sostenitore del femminismo. «Io sono davvero un femminista, perché ogni giorno m’imbatto nei pregiudizi della società, nello sciovinismo maschile che la domina. Voi donne siete messe sotto giudizio. Mi do molto da fare quando si tratta dei diritti delle donne: credo che esistano due pesi e due misure.» «Intende dire che gli uomini riescono a diventare padri senza perdere la carriera mentre le donne spesso no?» «Oh, non solo. Un sessantaduenne si presenta qui con la compagna trentottenne e nessuno gli chiede perché voglia avere un figlio a quell’età. Se una cinquantacinquenne cerca di avere un bambino, le dicono che è vecchia, che potrebbe essere sua nonna, che è pazza. Larry King ha avuto figli a quanti anni, settantacinque?» In realtà erano sessantacinque, ma Sahakian ha ragione. Lui stesso ha cinquantasei anni e una moglie di vent’anni più giovane, con due figli sotto i sei anni che ci rivolgono sorrisi perfetti dalle foto incorniciate appese alla parete. Le linee guida dell’American Society of Reproductive Medicine sostengono che il ricorso ai vettori gestazionali – le madri surrogate che si assumono la gravidanza di bambini concepiti tramite fecondazione artificiale con ovuli che non sono i loro – dovrebbe limitarsi ai casi in cui si riscontra una necessità medica. Sahakian, però, non si mostra preoccupato di infrangere quelle linee guida. «Le ragioni mediche coprono un ampio ventaglio di casistiche» dice con noncuranza. «E anch’io capisco che si tratti di un punto controverso, altrimenti lei non sarebbe qui. Per alcuni è un confine etico, e con ciò? Si metta nei panni di una modella ventiseienne che si guadagna da vivere posando in costume da bagno. Mi dica, non è etico dire: “Non distruggiamo la carriera di questa donna?”.» «La modella non potrebbe aspettare qualche anno per avere un bambino?» «Sì. Me se volesse avere un bambino subito, senza aspettare di arrivare magari a quarant’anni? Non credo di commettere un’azione non etica aiutando coppie in quelle condizioni. In questo campo, a Los Angeles, clienti così non si possono giudicare. Siamo nel selvaggio West. Vent’anni fa aiutare una coppia gay era tabù, e in Arkansas continua a esserlo. Siamo ancora ai primordi della questione.» «Non ha alcuna remora etica al riguardo?» «Sta parlando con la persona sbagliata» ridacchia. «Io cammino lungo il precipizio.» Lo so, eccome. Sahakian è palesemente ben lieto della propria reputazione di essere uno che allarga i confini, cosa che gli consente un certo grado di notorietà, ottimo per gli affari. Nel 2001 ha aiutato la signora Jeanine Salomone a rimanere incinta con l’ovulo di una donatrice e a partorire a sessantadue anni, diventando così la più anziana francese a mettere al mondo un bambino. In Francia, dove l’inseminazione artificiale di donne che abbiano superato la menopausa è illegale, è scoppiato uno scandalo dopo la scoperta che il padre biologico del bimbo era in realtà il fratello stesso di Jeanine, Robert. Quest’ultimo probabilmente aveva avuto una limitata possibilità di acconsentire all’utilizzo del proprio seme, dato che soffriva di una lesione cerebrale causata da un colpo di pistola al mento in un fallito tentativo di suicidio pochi anni prima. I giornalisti francesi hanno suggerito che il figlio di Jeanine e Robert, Benoît-David, possa essere stato concepito per assicurare ai due l’eredità della madre benestante. La pressione è giunta fino a Sahakian, che si è difeso dicendo che i fratelli si sono presentati nel suo studio come una coppia sposata e che Jeanine ha mentito intorno alla propria età. Ero al corrente di tutto questo prima di arrivare a Los Angeles, ma Sahakian menziona l’episodio prima di me. Anzi, lo menziona quando gli chiedo perché i clienti vengano da lui. «Ho reso possibile la gravidanza della più anziana donna francese ad avere un bambino, a sessantadue anni. Se cerca la storia su Google trova tutti i dettagli. In sostanza, intorno a quella vicenda si è creato uno stigma sociale.» «Erano fratello e sorella.» Annuisce. «Erano fratello e sorella. E io sono diventato famoso: il messaggio della storia era: “Ehi, questo tizio può far rimanere incinta una di sessantadue anni”. E tutte le over cinquanta hanno cominciato a chiamare me.» Nel 2006, sempre grazie a Sahakian, si è battuto il record della madre più anziana del mondo. La pensionata spagnola Maria del Carmen Bousada, ex addetta alle vendite, ha avuto due gemelli, Christian e Pau, una settimana prima del suo sessantasettesimo compleanno. Meno di un anno prima alla donna era stato diagnosticato un cancro: è morta nel 2009, lasciando i piccoli orfani ad appena due anni e mezzo. «Quella signora di Barcellona è entrata nel Guinness dei primati come la più anziana donna al mondo ad aver avuto un figlio» dichiara con un orgoglio che ha un che di grottesco. «Le piace avere la reputazione di uno che allarga i confini?» chiedo. «Con la signora spagnola non ho allargato i confini. Ha mentito sulla sua età, dicendomi che aveva cinquantasette anni. Ne aveva sessantasette, ha mostrato documenti falsi e cartelle cliniche false. I francesi si erano presentati con i passaporti sostenendo di essere sposati e di avere lo stesso cognome. Non chiediamo certificati di matrimonio né atti di nascita. Quale dottore chiede un atto di nascita?» «Quella signora di sessantasette anni è morta lasciando i figli senza una madre» osservo. «Che mi dice di questo?» «Le dico che è questo il motivo per cui non accetterei una paziente di sessantasette anni» replica imperturbabile. «Era una cinquantasettenne perfettamente in salute. È morta di cancro, non c’erano malattie pregresse. Si può morire di cancro anche a ventotto anni.» Adesso il dottore ha abbassato il limite massimo di età delle clienti a cinquantacinque, ma continua a non chiedere loro di esibire un documento che lo provi in maniera inoppugnabile. Sahakian mi dice che nessuna delle clienti che ricorrono alla surrogazione per ragioni sociali accetterà di rispondere alle mie domande. «Non hanno nulla da guadagnare.» Compiono questa scelta per salvare le loro carriere, non hanno alcun interesse a diventare le ragazze di copertina per questa nuova modalità. È un tabù dire che si desidera un bambino ma non si è disposte a una gravidanza, al punto che ha avuto alcune clienti che in realtà fingevano di essere incinte, rassicurate nella consapevolezza di riavere i loro corpi di prima non appena arrivato il bambino. «Vede, si possono comprare pancioni artificiali, protesi. Di misure diverse. C’è un motivo per cui li vendono.» Alcune donne desiderano avere bambini ma non vogliono restare incinte. Se ne parla di rado, ma è un fatto innegabile. Si considera innaturale – un’eresia, addirittura – volere bambini senza una gravidanza, ma ciò non impedisce ad alcune donne di pensarci, e anche di esprimere tale desiderio, sotto il velo dell’anonimato. Un thread «È una richiesta irragionevole?» sul sito per genitori Mumsnet, dal titolo «Se potessi avere soldi a palate, useresti una madre surrogata?», chiedeva alle utenti se «avrebbero pagato una madre surrogata americana qualora semplicemente non volessero aspettare o sopportare una gravidanza». Almeno sette donne hanno risposto di sì. «Oh, Dio, certo. In entrambe le gravidanze ho sofferto moltissimo di iperemesi gravidica, ma anche se così non fosse stato non si è trattato di esperienze piacevoli» ha detto una. «Altroché se lo farei. La gravidanza è tremenda!» ha risposto un’altra. «Senza pensarci due volte» ha dichiarato una terza. La maggioranza delle utenti del thread, però, ha risposto in maniera negativa, addirittura sdegnata. C’è un tacito accordo sul fatto che una donna che desideri crescere un figlio senza volerlo mettere al mondo non sia adatta a diventare madre, perché se non è disposta a sopportare il sacrificio a monte di tutti gli altri, quello di cedere il proprio corpo a un bambino, non riuscirà mai a porre il piccolo al primo posto. In apparenza questo ha senso, finché non si pensa che i padri trovano il modo di mettere i figli al primo posto senza cedere loro il proprio corpo: devono fare così, di default. Il sacrificio fisico di crescere un figlio dentro di sé non ci rende automaticamente genitori premurosi, e sostenere il contrario equivale ad affermare che un padre non potrà mai essere devoto ai suoi figli quanto una madre. E ci sono molte madri più che felici di sobbarcarsi una gravidanza e un parto, ma che non sono disposte a mettere il bambino al primo posto quando viene al mondo. Ci sono seri motivi per cui una donna potrebbe non volere una gravidanza. Per quanto alcune clienti di Sahakian possano acquistare pancioni protesici con cui fingere di essere incinte mentre ricorrono a una madre surrogata, un numero molto superiore di donne sceglie l’opposto: nascondono il loro stato interessante il più a lungo possibile, consapevoli che essere incinta potrebbe costare loro caro. Nonostante la diffusa legislazione tesa a impedirla, oggi la discriminazione a causa di una gravidanza è una realtà per le donne di tutto il mondo. Uno studio dell’Equality and Human Rights Commission inglese ha rilevato che una madre britannica su cinque ha subito vessazioni o commenti negativi dopo aver reso nota la propria gravidanza al lavoro, e 54 000 donne all’anno perdono il lavoro dopo la gravidanza o il congedo di maternità.1 Negli Stati Uniti, la National Partnership for Women & Families afferma che 31 000 casi di discriminazione a causa di una gravidanza sono stati presentati alla Equal Employment Opportunity Commission tra 2010 e 2015.2 Donne di ogni settore industriale e di ogni etnia, in tutti gli Stati Uniti, hanno sperimentato la discriminazione sul luogo di lavoro a causa di una gravidanza. Solo una piccola minoranza delle donne in tutto il mondo può permettersi una madre surrogata, ma molte di più sono quelle con valide ragioni per pensarci due volte prima di intraprendere una gravidanza. Alcune delle maggiori aziende statunitensi nei settori della tecnologia e dei media già pagano i membri femminili del personale perché congelino gli ovuli in modo da non doversi preoccupare del tic-tac dell’orologio biologico mentre sono sedute alle loro postazioni. In un futuro le aziende supporteranno le madri che cercano qualcun altro per portare in grembo i loro bambini, così che la gravidanza non interrompa il loro lavoro? Leggete con attenzione quanto scritto sul sito di qualunque clinica della fertilità californiana e quasi sicuramente troverete menzionata la surrogazione di maternità per ragioni non mediche. «Coppie e singoli che non possono avere un bambino loro per motivi biologici o per scelta sono in grado di costruire e crescere una famiglia grazie alla maternità surrogata» dice il sito di Growing Generations (il corsivo è mio). «Dall’aspetto medico a quello emotivo e logistico e oltre, le motivazioni di una gestazione per altri possono variare significativamente» dice la pagina della maternità surrogata del Los Angeles Reproductive Center. Telefono ad almeno dieci cliniche della fertilità californiane chiedendogli se alcune delle loro clienti siano disposte a parlarmi dei motivi per cui hanno scelto la surrogazione per ragioni sociali. Tutte ripetono con poche varianti la battuta di Sahakian: non si tratta di vanità, il motivo è la pressione subita dalle donne per conservare la carriera mentre stanno diventando madri, e le donne sanno che non è accettabile ammettere di essersi servite di una madre surrogata per ragioni non mediche, perciò nessuna è disponibile a parlare con me. Comincia a delinearsi un quadro più sfumato quando mi rivolgo a gente del settore fuori da Hollywood: un collaboratore di una clinica di San Diego mi dice che le clienti che lo contattano per una surrogazione motivata da ragioni sociali sono il più delle volte single in carriera, in posizione di grande responsabilità, che rischiano di perdere il lavoro qualora soffrano di debilitanti nausee mattutine o siano costrette a letto. Una gravidanza in prima persona non metterebbe a rischio solo corpo e salute, ma anche i mezzi di sostentamento e le entrate da cui i loro figli poi dipenderanno. Un medico specialista in fertilità mi dice che l’80 per cento delle sue clienti che ricorrono alla surrogazione per ragioni sociali è cinese, per via di un «fatto culturale» secondo cui in Cina un utero viene considerato «vecchio» dopo una sola gravidanza. Una psicologa che in passato aveva uno studio privato per la surrogazione della gravidanza racconta di aver lavorato con una donna che stava concorrendo a una carica politica e voleva disperatamente avere un bambino: doveva continuare a muoversi per il paese per proseguire la campagna elettorale, altrimenti avrebbe rischiato di mettere in pericolo tutto ciò per cui lavorava da sempre, perciò si servì di una madre surrogata perché facesse un bambino al posto suo. E le surrogate, le portatrici d’utero disposte a «sformarsi» al posto di un’altra? Come si sentono nel rischiare potenzialmente la vita per consegnare un bambino a chi non ha ragione di non metterlo al mondo da sé? Be’, in genere non hanno idea che è quanto stanno facendo. Lori Arnold, una specialista di fertilità di San Diego che gestisce sia una clinica sia uno studio privato per fornire madri surrogate alle clienti, mi rivela che «le madri surrogate in realtà sono all’oscuro dei motivi medici per cui i futuri genitori ricorrono alla surrogazione. Se lo chiedessero e noi avessimo ricevuto un’autorizzazione in tal senso, glielo diremmo. Ma si tratta di una scelta medica personale che mi assicuro rimanga privata e protetta dal riserbo.»

Una surrogazione di maternità non è mai una scelta facile. Anche con la madre surrogata più disponibile, il medico della fertilità più professionale, la documentazione più meticolosa, la gestazione per altri è la forma di riproduzione per conto terzi più intricata dal punto di vista fisico, emotivo e legale. Ma è l’unica soluzione al problema della gravidanza che gli umani abbiano mai inventato. La gravidanza surrogata di tipo tradizionale – dove la surrogata è la madre genetica del bambino che sta aspettando, ma rinuncia ai propri diritti genitoriali – circola dal libro della Genesi e arriva al Racconto dell’ancella. Il capitolo 16 della Genesi racconta dei problemi di Sara nel concepire un erede ad Abramo. Sara esorta il marito ad andare dalla sua schiava egiziana, Agar, dicendogli: «Forse da lei potrò avere figli».3 La storia non ha un lieto fine: non appena Agar scopre di essere incinta del futuro Ismaele «la sua padrona non contò più nulla per lei» e quando Sara, quattordici anni dopo, mette al mondo un figlio biologico, scaccia Agar e Ismaele nel deserto. Nonostante la gravidanza surrogata di tipo tradizionale sia esistita per millenni, in una forma o nell’altra, era in genere avvolta nel segreto per via del tabù dell’infertilità, lo stigma dell’illegittimità e le pure e semplici meccaniche necessarie per avere un figlio a questo modo. L’inseminazione artificiale ha rimosso alcuni aspetti scabrosi, ma la sua storia è non meno ricca di ombre: il primo caso registrato ebbe luogo a Philadelphia nel 18844 quando il professor William Pancoast aiutò un uomo sterile e la moglie ad avere un bambino. Pancoast si servì di una siringa di gomma per iniettare seme fresco di uno dei suoi studenti più «aitanti» nella cervice della donna dopo averla mandata al tappeto con del cloroformio. Passarono nove mesi, la donna partorì e non le venne mai rivelato come fosse stata messa incinta né che il marito non era il padre biologico del bambino. La pionieristica tecnica di Pancoast cambiò il significato della maternità: restare incinta non dipendeva più da un rapporto eterosessuale. Era fantastico per le coppie gay e lesbiche, anche se, naturalmente, agli omosessuali maschi servivano ancora donne che affrontassero una gravidanza al posto loro. La gravidanza surrogata di tipo tradizionale rimane ancora oggi un’alternativa alla surrogazione gestazionale perché è il modo più economico di avere un figlio con una madre surrogata, e un’eventuale parentela di quest’ultima con uno dei futuri genitori permette loro un ulteriore legame genetico con i bambini. Quando Louise Brown, la prima bambina concepita attraverso la fecondazione in vitro, nacque a Oldham nel 1978, una nuova epoca di possibilità di gravidanza vide la luce insieme a lei. Non solo il concepimento non dipendeva più dal sesso, ma poteva avere luogo all’esterno dell’utero, consentendo a una donna di essere incinta del figlio di un’altra. Il primo bambino concepito grazie a una donazione d’ovulo arrivò nel 1982, e tre anni dopo fu registrato il primo caso di successo di surrogazione gestazionale. Da quel momento è venuta meno l’identità obbligatoria tra madre genetica e madre biologica. Per la prima volta, la maternità è stata divisa. Dagli anni ottanta siamo diventati gradualmente più disponibili ad accettare che una madre biologica possa essere una persona diversa da una madre genetica. È difficile quantificare con precisione la crescita dei casi di surrogazione gestazionale, ma nel 2014 il New York Times stimava che negli Stati Uniti fossero nati in quel modo il triplo di bambini rispetto a un decennio prima,5 mentre nel 2018 si valutava che in Canada, dove solo la surrogazione cosiddetta «altruistica» è legale, quel numero fosse incrementato del 400 per cento a confronto del 2008.6 L’aumento dei matrimoni gay ha fatto sì che la genitorialità omosessuale venisse riconosciuta in misura sempre maggiore, e questo mentre cala il numero di bambini dati in adozione alla nascita. Uomini single hanno cominciato a prendere in considerazione le madri surrogate nello stesso modo in cui donne single possono ricorrere alle banche del seme per avere figli da sole. La maternità surrogata è sempre di più la strada con cui chi non può o non vuole affrontare una gravidanza è in grado di farsi una famiglia, e la surrogazione gestazionale è diventata di gran lunga più popolare della gravidanza surrogata tradizionale: le probabilità di successo sono superiori, in quanto gli embrioni sono già stati creati quando vengono inseriti nell’utero della madre surrogata, e molti specialisti nel campo della fertilità sostengono sia più facile dal punto di vista legale ed emotivo rispetto a chiedere a una donna che ha appena messo al mondo un figlio geneticamente suo di cederlo subito. Ogni forma di surrogazione di maternità, che sia tradizionale, gestazionale, commerciale o altruistica, presenta comunque serie questioni etiche e legali. Si potrebbe pensare che il problema principale sia rappresentato dal legame sviluppato dalle madri surrogate con i bambini che portano in grembo, al punto da indurle a rifiutarsi di separarsene, ma in realtà è molto più probabile che siano i futuri genitori a cambiare idea e a decidere di non volere più un bambino già in corso di gestazione. Alle madri surrogate è stato chiesto di interrompere la gravidanza contro il loro volere in caso di separazione dei futuri genitori, o di anomalie e disabilità riscontrate nel feto, o addirittura di abortire bambini «in sovrappiù» se troppi embrioni s’impiantano con successo. Purtroppo, i casi documentati al riguardo sono numerosi.7 Nel 2014 scoppiò uno scandalo internazionale quando una madre surrogata thailandese, Pattaramon Janbua, avviò una raccolta di fondi per aiutarla ad allevare un bambino a suo dire abbandonato dai futuri genitori australiani perché nato con la sindrome di Down. Pattaramon era rimasta incinta di due gemelli, un maschio e una femmina, e al settimo mese un’ecografia aveva rivelato che il maschio, Gammy, avrebbe presentato problemi alla nascita. I clienti, David Farnell e Wendy Li, le avevano chiesto di abortirlo. Pattaramon si era rifiutata, e raccontò che dopo il parto i coniugi erano venuti in Thailandia e si erano presi la bambina, Pipah, ma non Gammy. Si scoprì poi che David Farnell era già stato condannato e incarcerato per pedofilia dopo aver molestato due bambine di meno di dieci anni. Nel 2016, i tribunali dell’Australia Occidentale stabilirono che i Farnell non erano colpevoli di aver abbandonato Gammy: avrebbero voluto tenere entrambi i piccoli, ma Pattaramon non aveva voluto cederglielo. Ora Pipah vive con i Farnell, nonostante al padre non sia permesso stare solo con lei, mentre Gammy è rimasto con Pattaramon. Secondo le parole del giudice8 il caso «dovrebbe attirare l’attenzione sul fatto che le madri surrogate non sono macchine per produrre bambini o semplici “vettori gestazionali” […] Sono donne in carne e ossa». Nel 2015 la Thailandia ha proibito la surrogazione commerciale per genitori stranieri. La surrogazione commerciale internazionale è gravata da tutta una serie di problemi etici. Come ogni tipo di lavoro esternalizzato, sono i più poveri e i meno emancipati a subire l’aspetto peggiore del mercato. In passato il turismo della fertilità dal Regno Unito all’India rappresentava un’industria fiorente: le madri surrogate indiane, povere e spesso analfabete, erano frequentemente costrette a restare chiuse per nove mesi dentro camerate sotto stretta sorveglianza, mentre ai futuri genitori era permesso stabilire che cosa dovessero mangiare e se fosse loro consentito avere rapporti sessuali. I pacchetti completi, comprensivi di tasse e di tutte le parcelle mediche, partivano da una somma minima di 10 000 dollari. Quando nel 2015 l’India finalmente dichiarò illegale la surrogazione internazionale, si stimò che il giro d’affari annuo del settore fosse di 500 milioni di dollari. Ora è l’Ucraina9 la meta obbligata per la surrogazione gestazionale a prezzi d’occasione, ma non è raro che le madri surrogate ucraine vengano abbandonate senza riscuotere il pagamento se perdono il bambino o che siano costrette a subire più parti cesarei di quanto sia sicuro dal punto di vista medico. Per massimizzare le probabilità di successo dell’inseminazione vengono impiantati embrioni multipli, senza riflettere troppo su come la madre surrogata riesca a gestire una gravidanza trigemellare o quadrigemellare. Non importa quante madri surrogate soddisfatte in tutto il mondo possano ribattere di portare in grembo i bambini altrui al fine di concedere il dono di essere genitori a chi più lo desidera: la maternità surrogata comporta per definizione che una donna venga usata come un recipiente, un’incubatrice, aspettandosi poi che ceda ogni diritto sul bambino dentro di lei. Comporta lo sfruttamento del potenziale riproduttivo delle donne, che queste considerino se stesse sfruttate oppure no. Nel dicembre 2015 il Parlamento europeo ha condannato qualunque tipo di surrogato di maternità, sulla base che «sminuisce la dignità umana» delle donne, menzionando espressamente la surrogazione gestazionale, perché «richiede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano».10 Vietare la surrogazione di maternità, tuttavia, non ne annullerà la domanda. È troppo tardi: la possibilità di avere un bambino con cui si ha un legame genetico senza la necessità di una gravidanza ha spalancato sia agli uomini sia alle donne un nuovo mondo che non si può allontanare con un cenno di mano. E nuove ragioni per richiedere una genitorialità senza gravidanza emergono di anno in anno, come mostra la strabordante lista dei clienti di Sahakian. Di certo gli specialisti della fertilità che offrono una surrogazione di maternità per motivi sociali si collocano all’estremo dei trattamenti medici in materia. Ma quegli stessi dottori sono stati dei pionieri quando si è trattato di dare la possibilità di una famiglia a donne in età avanzata, coppie omosessuali e single di ambo i sessi. E se stessero abbattendo un altro confine e tracciando un sentiero che in futuro seguirà il resto del mondo? A Sahakian piace pensare così. «Mi ha detto che vent’anni fa Los Angeles era il “selvaggio West” per quanto riguardava la maternità surrogata per i gay» osservo. «Pensa che tra vent’anni si penserà altrettanto della surrogazione di maternità per motivi sociali?» «Venti? Accadrà al massimo tra due anni. Ci siamo quasi arrivati. La surrogazione ha cessato di essere un tabù. Nel Regno Unito avete tanta strada da fare rispetto a noi. Grazie a Dio… è una fortuna per gli affari! Ma le cose cambieranno.» Stranamente, il segreto intorno alla surrogazione di maternità per motivi sociali rende ancora più probabile che in sempre più vogliano ricorrervi. Le donne che frequentano la clinica di Sahakian sono le persone cui il resto del mondo dovrebbe guardare, i modelli cui tendere. «Non sta creando l’illusione che per queste donne sia possibile avere la carriera, la famiglia, il corpo di prima, avere tutto, insomma, quando non è così?» Sahakian scrolla le spalle. «Non penso che sia un problema sociale. Vedo entrambi gli aspetti della questione, ma non intendo ergermi a giudice. Se si desidera un figlio e lo si fa portare in grembo a qualcun’altra si aiutano due persone: la cliente che avrà il bambino e la madre surrogata che guadagnerà denaro aiutandola.» Questa davvero non me la bevo. Se avessero modo di scegliere, di sicuro le clienti che ricorrono a Sahakian per una surrogazione di maternità dettata da motivi sociali preferirebbero non essere costrette a sobbarcarsi tutte le complicazioni di una gestazione surrogata, ma dato che vogliono un bambino e non vogliono restare incinte, devono fare buon viso a cattivo gioco. Per ora. Perché la spinta a perfezionare la tecnologia che ha cambiato il significato della maternità costituisce un motore potente. Prima non si è più avuto bisogno di avere bambini per mezzo del sesso, poi non è stato più necessario che fossero formati nel corpo della loro madre. E se potessimo avere bambini senza che nessuna donna rimanesse incinta? 10. La biosacca

L’agnello dorme. È sdraiato su un fianco, con gli occhi chiusi, le orecchie piegate all’indietro scosse talvolta da un sussulto. Deglutisce, si dimena, agita le zampette dinoccolate. Ha un sorrisetto sghembo che gli dà un’aria particolarmente contenta, come se sognasse di sgambettare sull’erba di un prato. Questo agnellino, però, è troppo piccolo per avventurarsi nel mondo esterno. Non riesce ad aprire gli occhi. Ha la pelle glabra che s’increspa in rotolini rosei alla base del collo. Non è ancora nato, eppure eccolo qui, a 111 giorni di gestazione, del tutto separato dalla madre o da qualsiasi altro animale, vivo e vegeto in un laboratorio di ricerca di Philadelphia. Fluttua in un liquido dentro una sacca di plastica trasparente, con il cordone ombelicale collegato a un fascio di tubi dove scorre sangue rosso brillante. È un feto che cresce in un utero artificiale. Sono passate due settimane. Siamo a 135 giorni, manca poco al termine della gestazione. L’agnello riempie quasi del tutto lo spazio, preme con il muso piatto contro l’angolo della sacca. È più paffuto, più bianco, più soffice, coperto di sottili riccioli di lana, con un vaporoso codino: ormai è decisamente un agnello, ma ancora un feto. Tra due settimane il sacchetto ermetico verrà aperto, il cordone ombelicale reciso e l’agnello finalmente vedrà la luce. Quando vedo per la prima volta sul laptop le immagini dell’agnello nella sacca mi tornano in mente i campi di feti di Matrix, con l’orrendo spettacolo di bambini allevati in baccelli su scala industriale: un’Auschbeef umana. Qui, però, non si parla di un sostituto della gestazione. L’industria californiana della maternità surrogata può dormire sonni tranquilli, per ora. Gli agnelli di Philadelphia non sono cresciuti nelle sacche dal momento in cui sono stati concepiti: li hanno tolti dall’utero delle madri per mezzo di un taglio cesareo e poi immersi praticamente subito nella biosacca a un’età gestazionale corrispondente a quella di quasi ventitré-ventiquattro settimane negli umani. Non si tratta ancora di un rimpiazzo della gravidanza, ma di certo è un inizio. In futuro far nascere un bambino potrà essere facile come aprire un sacchetto ermetico. Il team che ha realizzato questi uteri artificiali afferma di essere spinto unicamente dal desiderio di salvare i più vulnerabili esseri umani sulla faccia della Terra. Emily Partridge, Marcus Davey e Alan Flake sono neonatologi, fisiologi dello sviluppo e chirurghi al Children’s Hospital of Philadelphia (Chop), dove si occupano di bambini estremamente prematuri. Dopo tre anni di ritocchi e aggiustamenti, hanno messo a punto il loro ultimo prototipo, la «biosacca», che concederà ai piccoli nati con troppo anticipo una percentuale di sopravvivenza finora impossibile. La biosacca è stata presentata nell’aprile 2017, quando il team di medici del Chop ha pubblicato la ricerca, accompagnata da immagini di agnelli, su Nature Communications.1 L’articolo descrive i quattro diversi modelli di prototipo di utero artificiale testati su un totale di ventitré agnelli prima di optare per la biosacca (le pecore sono la specie animale più adatta alla ricerca ostetrica perché hanno un lungo periodo di gestazione e i loro feti sono all’incirca grandi quanto i nostri). «Nei paesi sviluppati, la prematurità estrema è la causa principale di mortalità e morbilità neonatale» dichiara in apertura l’articolo. «Intendiamo mostrare come agnelli allo stato fetale, equivalenti dal punto di vista dello sviluppo a un feto umano estremamente prematuro, possano essere supportati fisiologicamente da questo dispositivo extrauterino per un periodo di tempo fino a quattro settimane […] Con l’appropriato apporto nutritivo, gli agnelli dell’esperimento presentano crescita somatica, maturazione polmonare e sviluppo cerebrale nella norma.» I tre medici hanno scoperto il metodo per far proseguire la gestazione dei feti al di fuori dell’utero materno, perché diventino agnelli non diversi da quelli cresciuti nel grembo delle pecore. In concomitanza con la pubblicazione della ricerca, il dipartimento di Comunicazione del Chop ha rilasciato un breve filmato assai ben costruito, suppongo allo scopo di orientare l’inevitabile attenzione della stampa di tutto il mondo sui vantaggi terapeutici della biosacca anziché sulle inquietanti immagini degli agnelli. Intitolato Recreating the Womb, somiglia moltissimo al video promozionale di un’azienda, e per tutti i suoi nove minuti di durata non mostra un solo feto. Presenta invece schematiche ricostruzioni del funzionamento della biosacca, insieme ad alcune riprese in cui Emily Partridge, Alan Flake e Marcus Davey fingono in modo leggermente imbarazzato di compiere ricerche sugli agnelli senza usare agnelli, sullo sfondo di un laboratorio immacolato con l’accompagnamento di una tremula musica per pianoforte tesa a suscitare timore e meraviglia. Ci sono alcune scene strazianti di bambini estremamente prematuri nell’unità di terapia intensiva neonatale del Chop: umani minuscoli all’inverosimile ricoperti di cannule, dita in miniatura che perdono scaglie di pelle screpolata, tubi di respirazione applicati con nastro adesivo a piccole bocche ansimanti. E poi patinate interviste ai membri del team in camice bianco: sono scene girate in uno studio, con l’illuminazione giusta, e montate accuratamente. Insieme al video promozionale venne rilasciata una versione più lunga dove le interviste sono riportate per esteso. «In futuro prevediamo di dotare l’unità di terapia intensiva neonatale del nostro dispositivo, che sarà molto simile a un’incubatrice tradizionale, con un coperchio in grado di alzarsi e abbassarsi» dichiara il dottor Davey con il suo accento mezzo australiano mezzo americano: è nato a Melbourne ed è entrato al Chop nel 1999. «All’interno di quell’ambiente caldo ci sarà la biosacca con dentro il bambino. Accanto all’incubatrice avremo il liquido amniotico da pompare nella biosacca» aggiunge nella versione estesa del video. Le biosacche saranno tenute in un ambiente buio, a imitazione del grembo materno, ma i bambini saranno visibili come mai prima. «I genitori li potrebbero vedere molto meglio di quanto accada in una gravidanza normale. Avremmo una telecamera a campo scuro per consentire loro di osservare davvero il feto in diretta, guardarlo muoversi, respirare, inghiottire e fare tutto ciò che fanno i feti» dice il dottor Flake, il membro più anziano del team del Chop. «Disporremo anche di un’unità a ultrasuoni. Questo per esaminare le condizioni fisiche del feto, dato che non potremo toccarlo come con un bambino prematuro. Con un’ecografia controlleremo la sua situazione una volta o due al giorno.» Ci piace molto l’idea di monitorare i nostri bambini. In un mondo dove l’essere genitori comincia sempre più spesso con il ricorso alle app per individuare i giorni fecondi, per passare poi alle app su «cosa aspettarsi quando si aspetta», alle app per tenere traccia di ogni pasto e ogni movimento intestinale del neonato e ai videomonitor per misurare i segni vitali del bambino e trasmettere tutto quanto al nostro telefono nello splendore della visualizzazione notturna, cadrà proprio a fagiolo. «Non cessa mai di colpirmi il fatto miracoloso di vedere questo feto, chiaramente non ancora pronto per nascere, mentre respira in uno spazio fluido, inghiotte, nuota, sogna, completamente separato dalla placenta e dalla madre. È uno spettacolo che riempie di emozione» dice la dottoressa Partridge, sorridendo a occhi chiusi come l’agnello del video e scuotendo la testa, quasi incredula di quanto sia riuscita a fare. È un lavoro di squadra, ma Emily Partridge parla della biosacca come se fosse una sua creatura. È il membro più giovane del team e l’unica donna: è arrivata al Chop da Toronto come ricercatrice universitaria. Nelle interviste rilasciate all’emittente canadese Cbc il giorno della pubblicazione della ricerca è lei a rivendicare la proprietà di tutto il progetto. «Ho lanciato quest’idea, davvero, con la convinzione che potesse rappresentare un’opportunità senza precedenti per migliorare quanto possiamo fare per questi bambini» dice. Si descrive mentre si prende cura degli agnelli nelle sacche come una madre accanto al lettino del neonato: «Ho srotolato un sacco a pelo e mi sono accampata accanto a questi agnellini per settimane di fila». Nel video del Chop, Emily Partridge illustra i due componenti chiave che nella biosacca agiscono da sostituti al corpo della madre. Al posto della placenta, un sistema circolatorio «in cui il sangue scorre, l’anidride carbonica viene rimossa e l’ossigeno è aggiunto a quel sangue». Si tratta di un ossigenatore collegato alle vene del cordone ombelicale dell’agnello, che rifornisce anche delle sostanze nutritive e dei farmaci necessari all’agnello. Svolge la stessa funzione della donna in camice da laboratorio che da JUST aspirava e iniettava con pipette il mezzo di coltura nei germinatoi perché le cellule di pollo potessero proliferare. Non ci sono pompe meccaniche a spingere il sangue nell’ossigenatore, perché anche una leggera pressione meccanica potrebbe sovraccaricare il cuoricino dell’agnello. Il flusso sanguigno viene invece pompato esclusivamente dalle pulsazioni del cuore dell’animale, proprio come accadrebbe nell’utero. «L’altro componente ricrea l’utero stesso, ed è l’ambiente liquido che abbiamo ricostruito con una struttura soffice e simile a una borsa» continua Emily Partridge. «È stato realizzato in modo che avvolga e sostenga fisicamente il feto come accadrebbe nell’utero.» La sacca di plastica, che funge da sacco amniotico, è piena di un liquido caldo e sterile, prodotto in laboratorio, che l’agnello inala e inghiotte, proprio come farebbe un feto umano. Il liquido entra ed esce dalla biosacca tramite tubi infilati in due piccole aperture stagne. Durante gli esperimenti, il team ne utilizza quasi 1200 litri al giorno. C’è bisogno della biosacca per via della fallibilità dell’utero. Una gestazione dura normalmente quaranta settimane, e ogni bambino nato prima di trentasette settimane è da considerarsi prematuro. A ventitré settimane, poco più di cinque mesi, la madre ha appena oltrepassato la metà della gravidanza. L’1 per cento di tutti i bambini nati negli Stati Uniti in un anno è prematuro, dichiara Flake. Il limite delle ventitré-ventiquattro settimane è un totem: costituisce il confine della vitalità, il momento trascorso il quale la medicina attualmente dispone dei mezzi per tenere in vita il bambino che nasca prematuro e i medici cominciano a rianimare il neonato. Il Servizio sanitario nazionale stabilisce ventiquattro settimane come il limite della vitalità: il bambino che cessa di vivere a ventiquattro settimane è classificato nato morto, a ventitré e sei giorni è un aborto spontaneo. Una demarcazione brutale. Nei paesi con un valido livello ospedaliero c’è attualmente il 24 per cento di probabilità di mantenere in vita un neonato prematuro di ventitré settimane. L’87 per cento dei superstiti, però, dovrà affrontare un’esistenza dominata da gravi complicazioni:2 malattie polmonari croniche, problemi intestinali, danni al cervello, cecità, sordità e paralisi cerebrale.3 I bambini nati estremamente prematuri stanno sopravvivendo nei paesi più ricchi: tra 1995 e 2006 è cresciuto del 44 per cento il numero di bambini nati prima di ventiquattro settimane sopravvissuti abbastanza da ricevere assistenza neonatale.4 Non facciamo progressi, però, nell’evitare i problemi associati alla nascita prematura in questa fase, ed è incrementato in misura drammatica anche il numero di bambini che soffriranno di condizioni croniche dovute alla prematurità.5 Nel mondo sviluppato, la nascita prematura rappresenta la maggiore causa di morte e disabilità tra i bambini di età inferiore ai cinque anni.6 Le incubatrici provvedono ad alcune funzioni per cui un neonato prematuro necessita di aiuto, ma non permettono che il processo di gestazione continui. Forniscono calore e umidità, ma non sostanze nutritive; ecco perché i bambini al loro interno sono coperti di cateteri e cannule da cui ricevono tutto il necessario per sopravvivere e crescere, e anche perché debbano essere sedati: per impedire che si strappino i tubi da soli. I ventilatori tengono in vita i neonati prematuri respirando al posto dei polmoni non ancora completamente sviluppati, ma aumentano anche i pericoli d’infezione, impedendo una normale crescita polmonare, e rischiano di danneggiare i delicati tessuti già presenti. Anziché sostenere il neonato aiutandolo a sopravvivere fuori dal grembo materno, la biosacca lo tratta come un feto che ancora deve venire al mondo. «Se funziona come pensiamo» dice Flake nel video promozionale «la maggioranza dei feti nelle gravidanze previste a rischio a causa di prematurità estrema sarà sostanzialmente affidata al nostro sistema, e non saremo più costretti a farli nascere prematuri per poi collegarli a un ventilatore.» Devo riascoltare il commento più volte. Sta affermando che le donne a rischio di partorire in eccessivo anticipo debbano subire un cesareo preventivo in modo che i loro figli possano venire trasferiti negli uteri artificiali per il resto della gestazione? Prosegue: «Consentiremmo loro così un normale sviluppo fisiologico ed eviteremmo in sostanza tutti i maggiori pericoli connessi alla prematurità, con un enorme impatto sulla salute pediatrica». I video ora mostrano bimbi cicciottelli seduti che ridacchiano, un seienne con alcune finestre tra i denti che sogghigna, una giovane donna mentre sorride al rallentatore. Se una biosacca potesse significare per tanti bambini un futuro sano anziché uno di malattia e disabilità, chi sarebbe capace di smentirlo? Così i medici del Chop affrontano tutte le gigantesche controversie che l’utero artificiale potrebbe sollevare: concentrandosi sulla salute pediatrica, su bambini gorgoglianti, ed escludendo qualunque altro aspetto. Non si vedono pecore nel filmato, né sono citate nella pubblicazione, e non si parla di alcun apporto da parte delle madri. I ricercatori vogliono che il dispositivo sia considerato eticamente neutro, che abbia la finalità di aiutare i bambini malati e niente più. «Il nostro obiettivo non è estendere gli attuali limiti della vitalità, quanto piuttosto offrire il potenziale per migliorare le condizioni di quei bambini che già ora vengono riportati in vita ogni giorno e affidati alle unità di terapia intensiva neonatale» afferma con prudenza l’articolo. Estendere gli attuali limiti della vitalità equivarrebbe ad avventurarsi in un campo minato dal punto di vista etico: nel 1990 il Regno Unito ha abbassato il limite legale per l’aborto dalle ventotto alle ventiquattro settimane di gestazione, per via dei progressi nella terapia neonatale che accrescono le probabilità di sopravvivenza dei feti nati tra le ventiquattro e le ventotto settimane. Se gli uteri artificiali aiuteranno a sopravvivere bambini sempre più piccoli, ciò avrà enormi implicazioni per le donne. Peccato che delle donne non si parli nella ricerca del Chop. Dalla conclusione dell’articolo emerge chiaramente quanto il benessere delle donne sia lontano dalle loro considerazioni. «Il nostro sistema offre un interessante modello sperimentale per affrontare questioni fondamentali sul ruolo della madre e della placenta nello sviluppo del nascituro. Abbiamo ottenuto il sostentamento fisiologico a lungo termine di un feto asportato dall’asse madre-placenta e reso quindi possibile lo studio del contributo relativo di quest’organo alla maturazione fetale.» Per quanto il dipartimento di Comunicazione del Chop voglia mettere in evidenza che la biosacca è uno strumento terapeutico per bambini molto piccoli e molto malati, chi l’ha inventata desidera vivamente informare la comunità scientifica di essere riuscito ad «asportare» feti dalla madre e dalla placenta, mostrando quindi la possibilità di studiare il «contributo relativo» delle madri e dei loro organi alla crescita dei bambini. E forse, in futuro, di rimpiazzarlo completamente grazie alla tecnologia. Quando arrivo agli ultimi minuti del filmato promozionale, mi sembra sempre più simile al video del pollo JUST, una storia familiare che racconta come i tradizionali valori americani – fermezza, tenacia, intraprendenza, spirito imprenditoriale – possano salvare il mondo. Marcus Davey ed Emily Partridge descrivono lo sviluppo dei prototipi di quella che è diventata la biosacca. «Durante le prime fasi abbiamo usato un sacco di materiali acquistati in negozi di attrezzature idrauliche e per birrerie» rivela Emily Partridge con un sorriso. «All’epoca non avevamo fondi, perciò ha davvero richiesto un po’ di spirito innovativo creare il primo prototipo letteralmente dal nulla.» «Thomas Edison disse che per essere un inventore servono l’immaginazione e un mucchio di cianfrusaglie» interviene Davey. «A volte finivamo a far spese nei negozi per il fai da te, come Home Depot, Lowe’s o Michaels, portavamo la roba al laboratorio e incollavamo tutto quanto insieme.» Alla fine del video del Chop, Emily Partridge annuncia raggiante: «Di certo questo progetto sarebbe sembrato più fantascienza che realtà, ma dopo averci lavorato per tre anni con ostinazione, rifiutando di arrenderci alle difficoltà e agli ostacoli, siamo riusciti a ottenere uno strumento terapeutico assolutamente reale». Il punto è che qui non siamo di fronte solo a uno strumento terapeutico, ma a un’invenzione che un giorno andrà sul mercato, un bene di consumo di cui il Chop vuole proteggere la proprietà intellettuale. Dopo un’approfondita ricerca su Google trovo una richiesta di brevetto per la biosacca presentata nel 2014, molto prima della comparsa dell’articolo, e si tratta probabilmente del documento più rivelatore che il team di medici abbia reso di pubblico dominio. Qui non ci si fa remore sul fatto di estendere i limiti della vitalità umana, anzi: si afferma espressamente che i possibili «soggetti» cui si rivolge l’invenzione comprendono «feti in fase previtale (cioè compresi tra le venti e le ventiquattro settimane di gestazione)». Nella richiesta di brevetto compaiono particolari toccanti che non rivedremo nella pubblicazione scientifica né nel video promozionale. Emily Partridge, Alan Flake e Marcus Davey hanno assegnato dei nomi ai loro agnellini, almeno durante i primi esperimenti. Si chiamavano June, Charlotte, Lily, Little Alan, Eddie, Willow, Seinne, Bowie, Iggy e Manson. Quasi tutti erano stati uccisi alla nascita in modo che il Chop potesse studiarne gli organi, ma a pochi fortunati era stato concesso di vivere nutriti dai membri del team per mezzo di biberon. Iggy aveva reagito particolarmente bene e la sua gestazione era stata «portata a termine con successo nella placenta artificiale fino alla transizione alla vita postnatale […] L’animale ha mostrato crescita e sviluppo adeguati nel corso degli otto mesi seguenti, trascorsi i quali è stato trasferito in una struttura adottiva a lungo termine». L’ultima foto nella richiesta di brevetto raffigura un vispo agnellino in un capannone, che sbircia da sopra una spalla verso l’obbiettivo, quasi fosse in posa. Probabilmente è a causa di questo brevetto che io posso descrivere la biosacca e il processo necessario a costruirla basandomi solo sui video promozionali sul sito del Chop e sull’articolo pubblicato. Non mi è stato permesso di recarmi a Philadelphia per vedere con i miei occhi il lavoro del team. C’è mancato poco: Alan Flake mi ha detto che ero la benvenuta e abbiamo fissato un appuntamento. Stavo per prenotare il volo quando ho pensato che avrei dovuto informare della mia visita l’ufficio stampa del Chop: non ci si presenta in un ospedale pediatrico senza permesso. Ho avuto una chiacchierata molto amichevole con il responsabile dell’ufficio stampa dell’ospedale, che sembrava entusiasta all’idea di incontrarmi ma mi ha suggerito di non prenotare nulla finché non avessero avuto il via libera dall’ufficio legale, per cui ci sarebbero voluti un paio di giorni. Aveva l’aria di una formalità. I giorni, però, sono diventati settimane, i voli rincaravano sempre più e per qualche motivo l’amichevole responsabile dell’ufficio stampa adesso non rispondeva alle mie chiamate né ai miei messaggi. Finché, un bel giorno, ho trovato nella posta in arrivo una sintetica email. «Sono dolente di informarla che la direzione dell’ospedale intende declinare il suo invito a un incontro. A seguito della nostra piacevole conversazione, speravo vivamente che tale incontro avesse luogo, ma purtroppo si è rivelato impossibile. Mi scuso per l’equivoco e per la tardiva risposta e la ringrazio per il suo interesse in questa ricerca.» Mi ci sono volute diverse altre email per ottenere qualche indizio sul perché all’improvviso la mia presenza non fosse più gradita. Flake si è scusato dicendo che la questione esulava dalla sua autorità. Volevano riuscire a collocare bambini nella biosacca nel giro di un paio d’anni, e la possibilità della mia visita aveva messo in ansia il dipartimento legale. «Occorre un sacco di prudenza nel fare qualunque cosa possa compromettere l’approvazione della Fda» ha confessato finalmente il responsabile dell’ufficio stampa. Il Chop non voleva minacciare il futuro medico e commerciale dell’invenzione parlandone troppo presto con un giornalista. Al momento il loro obiettivo prioritario era portare l’utero artificiale sul mercato. Quando la biosacca sarà in vendita, rappresenterà solo l’ultima e la più esatta manifestazione del processo già in atto di esternalizzazione della gravidanza. Nei paesi sviluppati ogni donna in gravidanza viene regolarmente pungolata e indagata, la sua vagina e il suo addome sono sottoposti a ecografia, le prelevano il sangue, tutto per esaminare la forma, la crescita e il Dna del bambino. Se si sospetta che il feto abbia dei problemi le indagini saranno ancora più approfondite: grossi aghi infilati nell’utero, nella pelle e nei muscoli dell’addome, per prelevare cellule dalla placenta o dal liquido amniotico da sottoporre a ulteriori esami del Dna. E se anche tutto andrà bene, si dà per scontato che una donna incinta venga legata a monitor cardiaci fetali e manometri per controllare la pressione sanguigna e si faccia misurare a intervalli regolare il collo dell’utero mentre si contrae nel parto. In un’epoca in cui essere un bravo genitore significa essere il più attento possibile ancora prima della nascita, vogliamo conquistare modi migliori per accedere ai bambini mentre crescono nel grembo delle donne, per misurarli e per sorvegliarli, così da fare il meglio per loro prima che vengano al mondo. I corpi delle donne sono quasi d’impaccio.

Il termine «ectogenesi» per indicare la riproduzione all’esterno del corpo umano fu coniato dallo scienziato inglese J.B.S. Haldane in una conferenza presentata all’Heretics Society della Cambridge University nel 1923. Haldane immaginò che uno studente della Cambridge del futuro descrivesse in un saggio le grandi invenzioni in campo biologico messe a punto a partire dall’epoca di Haldane stesso. «Siamo in grado di asportare un’ovaia a una donna e di mantenerla in vita in un liquido adatto anche per vent’anni inducendola a produrre un ovulo fresco al mese, il 90 per cento dei quali può essere fertilizzato e gli embrioni fatti crescere con successo per nove mesi per essere infine portati alla luce» scrisse l’immaginario saggista del tempo a venire. «La Francia fu il primo paese a adottare ufficialmente l’ectogenesi, e nel 1968 arrivò a produrre con questo metodo 60 000 bambini all’anno.»7 Haldane s’interessò all’ectogenesi per le sue opportunità in termini di ingegneria sociale in un’epoca di rallentamento della natalità; nel 1923 l’eugenetica non era ancora considerata un’idea da disprezzare. «Se non fosse stato per l’ectogenesi ci sono pochi dubbi che la civiltà sarebbe crollata in breve tempo a causa della maggiore fertilità dei membri meno rispettabili della popolazione in quasi tutti i paesi» scriveva. E concludeva affermando che la separazione completa della riproduzione dal sesso si sarebbe tradotta in una «liberazione dell’umanità in un senso completamente nuovo». L’articolo con cui nel 1931 Churchill dipingeva il mondo da lì a mezzo secolo parlava, oltre che della carne prodotta in laboratorio, anche dell’ectogenesi. «Sembra essere quasi certo che sarà possibile trasferire in un ambiente esterno l’intero ciclo che ora porta alla nascita di un bambino» scrisse a proposito del suo 1981 immaginario. Churchill scrisse solo un anno prima che Aldous Huxley pubblicasse Il mondo nuovo. Huxley desunse numerose idee dal suo amico Haldane, ma le rielaborò descrivendo il suo «splendido mondo nuovo» del 2540 un incubo distopico dove la tecnologia è applicata alla riproduzione come forma di controllo sociale. Gli esseri umani vengono prodotti in massa in flaconi foderati di peritoneo di scrofa che passano 267 giorni su un nastro trasportatore nel Centro di Incubazione. «Una per una le uova erano trasferite dalle provette ai recipienti più grandi; la fodera peritoneale era abilmente aperta, la morula collocata al suo posto, la soluzione salina versata dentro […] La processione avanzava lentamente; e attraverso un’apertura nella parete entrava lentamente nella Sala di Predestinazione Sociale.»8 Qui gli embrioni sono trasformati in umani di diverse classi sociali: alcuni vengono deprivati d’ossigeno per provocare danni cerebrali in modo che si accontentino di lavori umili, altri esposti a un freddo intenso per indurre in loro un’avversione ai climi rigidi e renderli felici di diventare minatori ai tropici. La prospettiva di Huxley sull’ectogenesi ha finito con l’imporsi: da allora, il suo posto nel nostro immaginario collettivo si è trasformato in un inquietante topos della fantascienza. Nella realtà, la possibilità di avere un bambino senza un utero ha cominciato a rappresentare una nuova frontiera di libertà. Nel classico della letteratura femminista La dialettica dei sessi, apparso nel 1970, la femminista radicale canadese Shulamith Firestone ha sostenuto che la divisione biologica delle fatiche del parto costituisce la base della dominazione maschile sulla donna. La sua «prima richiesta di qualunque sistema alternativo» era «la liberazione delle donne da questa tirannia biologica attraverso ogni mezzo disponibile, e l’affidamento del ruolo di mettere al mondo figli e di allevarli alla società nel suo insieme, uomini quanto donne». Il manifesto del Gay Liberation Front del Regno Unito, pubblicato per la prima volta nel 1971, dichiarava che l’ectogenesi avrebbe avuto il potenziale di emancipare sia gli uomini sia le donne cancellando le distinzioni imposte loro dalla natura. «Abbiamo raggiunto ormai una fase in cui grazie alla tecnologia sarà possibile interferire (vale a dire migliorare) in modo “innaturale” con il corpo umano, e persino con la riproduzione della specie» si legge. «Oggi i progressi della scienza sono in procinto di liberare completamente le donne dal loro fardello biologico per mezzo dello sviluppo di uteri artificiali […] La tecnologia è ora a uno stadio tale che il sistema dei ruoli di genere non è più necessario.»9 Questa sarà stata anche una lettura alquanto ottimista del livello delle tecnologie riproduttive all’inizio degli anni settanta, ma non si trattava di pura fantasia: da decenni gli scienziati stavano sperimentando la crescita di feti sia animali sia umani all’esterno del corpo femminile. Il Chop potrà presentare la sua ricerca come un cambio di paradigma senza precedenti, ma in realtà costituisce l’anello di una lunga catena di lavoro scientifico internazionale. E se i tre medici del team hanno ottenuto grande attenzione quando l’articolo è stato pubblicato, ci sono scienziati in tutto il mondo – in Asia, Australia e altre zone dell’America del Nord – che da anni lavorano con successo con gli uteri artificiali e gareggiano con loro per essere i primi a sperimentare i propri dispositivi su feti umani.

«Non è affatto un campo nuovo» dice Matt Kemp, un po’ stancamente. È il direttore del laboratorio perinatale alla Women and Infants Research Foundation (Wirf) dell’Australia Occidentale, e l’utero artificiale messo a punto dalla sua équipe – definito ufficialmente terapia Ex-Vivo Uterine Environment (Eve) – ha reso noti i suoi primi grandi successi in un articolo pubblicato pochi mesi dopo la ricerca del team del Chop. La biosacca ha rubato del tutto la scena alla terapia Eve, e anche se Matt accenna solo di rado alla biosacca, sembra un po’ scocciato al riguardo. «Nel 1958 un gruppo del Karolinska Instituet, in Svezia, ha pubblicato un documento che dimostrava l’uso di una piattaforma di questo tipo con feti umani in situazioni di prematurità estrema» continua. «Agli inizi degli anni sessanta c’era chi in Canada eseguiva su pecore esperimenti a breve termine, nell’arco di dodici, ventiquattro ore, servendosi di un sistema analogo. Risale addirittura al 1963 il lavoro più seminale nel campo, eseguito dai giapponesi, che negli anni novanta utilizzavano capre che facevano sopravvivere per un periodo molto vicino o uguale a tre settimane o a qualsiasi cosa fosse arrivata da Philadelphia. Più di recente, c’è un’équipe in Michigan all’opera nel settore. Chiunque vi dica di essere stato il primo a farlo, e che si tratta di una soluzione nuova o originale, è un po’ in malafede.» Non fa nomi. Non c’è richiesta di brevetto per la terapia Eve («Per come la vedo io, non è brevettabile» dichiara esasperato. «Tutto ciò è di pubblico dominio, in varie forme, fin dal 1958»), perciò Matt risponde volentieri alle mie domande. Non posso raggiungerlo nel suo laboratorio di Perth perché al momento si trova a Boston a studiare economia e direzione d’impresa all’Harvard Business School. Ci sentiamo al telefono durante una pausa tra le lezioni. «Come mai si è messo a studiare economia?» chiedo. «Be’, perché come altro in questi tempi, anche la scienza è diventata un affare.» Oggi, però, Matt vuole parlarmi solo di scienza. Gli chiedo perché abbia deciso di chiamare il suo utero artificiale Eve, con il nome della prima donna, la madre dell’umanità, ed è chiaro che non desidera essere trascinato in una discussione ampia sul simbolismo del suo lavoro. «È solo una denominazione di comodo, tutto qui.» Matt sta sviluppando Eve dal 2013, in collaborazione con un team di ricercatori del Tohoku University Hospital di Sendai, in Giappone. Non è stata rilasciata finora alcuna immagine ufficiale di Eve, ma ho trovato un video caricato sul canale ufficiale YouTube di Wirf e l’ho guardato appena prima che lui mi chiamasse. Sembrava quasi che non dovesse trovarsi online: era stato evidentemente girato con un telefono e aveva avuto solamente cinquantasei visualizzazioni in un anno. Avendo visto solo il video promozionale del Chop e le immagini accuratamente sterilizzate degli agnelli accluse al loro articolo, questa clip di quarantaquattro secondi mi ha fatto restare a bocca aperta. Comincia con i monitor pieni di bip e lucine di un’unità di terapia intensiva neonatale. Il tracciato regolare di un battito cardiaco sano pulsa in rosso su uno schermo nero. L’obbiettivo esegue una panoramica verso il basso, sull’incubatrice accanto, che anziché un bambino ospita un agnello immerso in un liquido giallognolo dentro una sacca trasparente. Il suo petto si alza e si abbassa, le narici si dilatano. L’inquadratura sale dall’addome lanoso dell’agnello a una massa di tubi che spuntano dalla zip semiaperta, come vene piene di sangue. Con le sue riprese amatoriali e i fluidi corporei, questo video è di gran lunga più viscerale dei filmati accuratamente cesellati distribuiti dal Chop. E si tratta di uno spettacolo disturbante, sgradevole. Ecco com’è davvero un utero artificiale. Ciò nonostante, il dispositivo utilizzato dalla terapia Eve ha l’aspetto di una biosacca, e Matt lo descrive come tale. «I bambini estremamente prematuri non sono bambini molto piccoli; si avvicinano di più a feti. Questa è la base su cui operiamo. Proviamo a lavorare con l’anatomia e la fisiologia che abbiamo al momento anziché cercare di costringerli a adattarsi alla vita all’esterno dell’utero. Ciò significa usare il cordone ombelicale e il cuore dei feti, e continuare a tenerli vivi e protetti sotto uno strato di liquido amniotico, nella speranza di permettere loro di crescere nello stesso modo.» «Li chiamate feti invece di neonati» dico. «Quindi non considerate ancora nati gli agnelli quando vengono collocati nel vostro dispositivo?» «Esatto.» «Perciò la nascita è l’attimo in cui si apre la borsa?» «Be’, direi che la nascita si verifica quando il cordone ombelicale viene reciso e annodato. È allora che si ha la facoltà di agire come individuo. Finché non si taglia il cordone, non si è ancora nati. Io la vedo così.» La tecnologia dell’utero artificiale sta ridefinendo la nascita: non si tratta più di essere spinti o tratti al mondo, ma di venire separati dal supporto che permette la vita del feto. Si può essere divisi dal corpo della madre eppure ufficialmente non nati. Proprio come i fabbricanti di carne vegana, Matt parla del suo lavoro come fosse roba facile, produrre birra anziché emulare il dottor Frankenstein. «Come diamine siete riusciti a collegarvi al cordone ombelicale?» «Non è difficile quanto sembra, una volta che hai capito come farlo.» «Che cosa c’è nel liquido amniotico? Come lo realizzate?» «È qualcosa di molto simile al Gatorade, in realtà. Un mix di acqua, sale, proteine.» Proprio come la descrizione da parte di Mike del mezzo di coltura che usano a Finless Foods. La collaborazione della Wirf con i colleghi giapponesi darà loro il vantaggio decisivo sugli altri gruppi all’opera sugli uteri artificiali, dice. «Il nostro punto di forza è che abbiamo un’azienda giapponese di biotecnologie piuttosto grossa a progettare l’hardware per gli apparecchi che ci servono. Ci occorre trattare con persone che sappiano gestire una produzione su larga scala e realizzare prodotti potenzialmente in grado di superare l’iter di approvazioni della Fda. Collaboriamo con un’azienda di Osaka, Nipro Corporation, leader mondiale, che ci fornisce ottimi apparecchi su cui lavorare.» La grossa differenza tra il lavoro della Wirf e la ricerca del Chop è che il team di Matt colloca in Eve agnelli molto più prematuri. Il feto di agnello più giovane a essere messo nella biosacca era al giorno 106 di gestazione, mentre Matt tratta animali arrivati ad appena novantacinque giorni di gestazione. È prudente nel tradurlo in termini umani, ma scopro che corrisponde alle nostre ventuno-ventitré settimane di sviluppo. Nessun altro ha mai segnalato di lavorare con feti così giovani. E mentre il Chop fa crescere gli agnelli per diverse settimane e consente ad alcuni di vivere dopo l’esperimento, il team di Matt ha deciso di tenerli nell’utero artificiale solo una settimana per poi ucciderli tutti e studiarne gli organi. Dice che avrebbero potuto tenerli in vita anche di più se avessero voluto. «Alla fine del loro periodo di vita predeterminato, questi sono animali molto stabili, molto in salute.» Anche solo in una settimana, gli agnelli cambiano tremendamente dentro l’utero artificiale. «Crescono, assolutamente. S’irrobustiscono. In questa fase della gestazione mettono su circa 40 grammi al giorno. Piegano ed estendono le zampe, inghiottono. Io non ho mai portato un bambino in grembo, ma mia moglie sì. Questi sono i movimenti tipici del feto, dice lei: scalcia, piega le gambe, si dimena quando fa pipì e poi torna a dormire.» Mi chiedo se per la sua invenzione nutra dei sentimenti da padre, oltre che da ricercatore. «Come ci si sente a osservare ogni giorno cambiamenti di questo tipo?» «È davvero straordinario. Da un punto di vista essenzialmente scientifico, stiamo costruendo un modello della placenta che è una cannonata.» Ci riprovo. «E dal punto di vista umano? Ci si affeziona agli agnellini?» «Sì, certo, ci si affeziona a questi piccolini. Facciamo il tifo per loro.» «Date loro anche un nome?» «Sì che glielo diamo.» «E come li chiamate?» «Oh, non me lo ricordo.» Immagino che se si coltiva l’ambizione di mettere il più piccolo bambino al mondo dentro una busta di plastica, sia meglio non esagerare con i sentimenti paterni. La strada per gli esperimenti clinici su bambini umani, però, rimane lunga. «Chiunque le dica che si potranno compiere nel giro di un paio d’anni o dispone di un mucchio di dati non ancora di pubblico dominio o punta al sensazionalismo.» «Si riferisce a qualcuno in particolare?» «No. È un commento in generale» risponde con fermezza. «Tutti gli esperimenti finora compiuti sono stati effettuati su feti che arrivano da gravidanze sane, che sarebbero proseguite normalmente se non ci fosse stato il nostro intervento. Non è questo il caso, semplicemente, per un feto umano di ventuno, ventidue, ventitré settimane. Questi non saranno bambini sani. C’è una ragione per cui nascono prematuri.» Creando un dispositivo per proseguire la gestazione di bimbi tanto prematuri, sia il team di Matt che quello del Chop si sono lanciati in un tentativo che supera la semplice ectogenesi. «Gli ostacoli all’utilizzo clinico della nostra terapia si stanno rivelando incredibilmente ardui. Se s’intende produrre una prova accettabile da parte di un comitato etico, si deve contare su un’alta probabilità di conseguire un risultato migliore di svariati ordini di grandezza rispetto alla tecnologia che adoperiamo attualmente» dichiara. «Quale sarà la fascia d’età a usare per prima questa piattaforma? Penso a un feto di ventuno settimane, molto a rischio, praticamente con zero possibilità di sopravvivenza con i metodi esistenti.» Non mi aspettavo una risposta del genere. Mi spiazza completamente. Ho perso un bambino alla ventesima settimana di gravidanza. Un maschio che sarebbe stato il mio secondo figlio. Non aveva alcun problema. Era perfetto. Mi è venuta l’appendicite quando sono entrata nella diciannovesima settimana, anche se in quel momento non me ne sono resa conto. Ho passato sette giorni in ospedale tra ostetrici e ginecologi che mi sottoponevano a ecografie e mi esaminavano e mi prelevavano il sangue cercando di capire perché stessi male e come fare per aiutarmi. A quel punto sono entrata in travaglio. Capita: se si è incinta, una grave infezione può spingere il collo dell’utero ad aprirsi. Tra una contrazione e l’altra, l’ostetrico mi disse che se fossi stata di ventiquattro settimane sarebbe stato tutto diverso, ma poiché ero di venti settimane dovevo solo lasciare che la natura seguisse il suo corso. Anche se il figlio che ho messo al mondo era un bambino vero, che hanno avvolto in fasce e mi hanno dato da tenere in braccio e ammirare, è morto mentre lo stavo facendo nascere. Un aborto spontaneo, non un nato morto. È successo tre anni fa. Da quel momento mi sono fatta togliere l’appendice e ho avuto una figlia: sì, quella che ingurgita latte bovino e pasticcio di carne. Ma come chiunque abbia perso un bambino, sarò sempre ossessionata dal ricordo del bimbo che non ho mai avuto e di cosa si poteva fare di diverso per lui. Se un utero artificiale riesce a salvare la vita di un feto di ventuno settimane grandemente a rischio, non lo si potrebbe usare anche per salvare la vita di uno di venti, perfettamente sano ma con la sfortuna di trovarsi nel corpo di una donna che si è ammalata? Deglutisco. «Se il primo feto umano che metterete nel vostro dispositivo non avrà possibilità di sopravvivere diversamente, riuscite a capire quanti interrogativi sorgeranno riguardo alla ridefinizione dei confini della vitalità? Non crede che i genitori di bambini ancora più prematuri vogliano concedere ai loro figli qualunque opportunità permessa da un utero artificiale?» «Penso che in realtà sia molto semplice rispondere» dichiara immediatamente lui. «C’è un umano, o un feto, o un bambino, ed è malato. Se lei avesse un bambino di tre anni in condizioni di salute particolarmente gravi e qualcuno stesse sviluppando una nuova terapia in grado di essergli utile, avrebbe delle remore a ricorrervi?» «Certo che no.» «Eccoci. Dal nostro punto di vista, non c’è differenza.» In altre parole, finché c’è una possibilità di salvare la vita di un bambino, proveranno a farlo. Ma ci sono dei limiti. «A dire il vero non pensiamo che “ridefiniremo” all’infinito i confini della vitalità. Il motivo pratico è che se non possiamo inserire un catetere e il cuore non è sufficientemente sviluppato per pompare sangue, il sistema non funziona. Perciò chi si preoccupa che vengano raccolti ovuli da mettere dentro uteri artificiali è del tutto fuori strada. Non è praticamente possibile.» Mentre è probabile che l’ectogenesi parziale sarà a nostra disposizione nel giro di pochi anni, di sicuro l’ectogenesi completa, dal concepimento alla nascita, non è al momento fattibile. Tuttavia, poiché riusciamo a estendere sempre più la vita degli embrioni all’esterno dell’utero nelle settimane seguenti al concepimento e scopriamo come tenere in vita bambini sempre più prematuri, arriverà il tempo in cui questi due capi della questione s’incontreranno, per caso se non per scelta. E ogni anno ci avviciniamo a quel punto. In passato si pensava che dopo il concepimento gli embrioni umani potessero sopravvivere all’esterno dell’utero per una settimana, il tempo in cui in genere s’impiantano nella parete uterina. Ma nel 2016, il team della professoressa Magdalena Żernicka-Goetz alla Cambridge University riuscì a tenere in vita e intatti gli embrioni umani fuori dall’utero per tredici giorni immergendoli in uno speciale mezzo di coltura e ponendoli nell’incubatrice.10 Con il giusto cocktail di fattori di crescita, gli embrioni impiantati sul fondo del piatto e le primitive cellule della placenta continuarono a crescere. Gli scienziati tengono in vita gli embrioni umani concepiti attraverso la fecondazione solo per quattordici giorni a causa di una convenzione etica che impone di interrompere la ricerca prima del quindicesimo giorno, quando appare la «linea primitiva» (una striatura di cellule che segna l’inizio di ciò che diverranno cervello e spina dorsale). Gli embrioni dell’équipe di Cambridge dovettero essere uccisi in base alla regola dei quattordici giorni: probabilmente sarebbero sopravvissuti se ai medici fosse stato permesso proseguire. Dal 2016 si è sollevato un ampio dibattito riguardo al fatto se il limite debba essere esteso a ventuno o addirittura a ventotto giorni, per via dell’enorme potenziale scientifico rappresentato dalla possibilità di osservare lo sviluppo embrionale all’esterno del corpo umano. La data ultima dei quattordici giorni è un limite etico volontario ufficialmente rispettato da diciassette nazioni.11 Non c’è nulla che impedisca agli scienziati di Russia o Corea del Nord di far crescere embrioni umani per quanto tempo desiderino. Nella sperimentazione con gli animali i ricercatori si sono spinti molto oltre: nel 2003 la dottoressa Helen Hung-Ching Liu e il suo team al Center for Reproductive Medicine and Infertility della Cornell University riuscirono a far crescere un embrione di topo dall’attimo del concepimento fin quasi al termine della gestazione servendosi di tessuto uterino bioingegnerizzato su una struttura extrauterina.12 Se nel settore della carne pulita continuerà a riversarsi il denaro per la ricerca e lo sviluppo, i nostri progressi nel realizzare tessuti di coltura renderanno ancora più probabile che si possa produrre e utilizzare a questo modo il tessuto uterino. Naturalmente, il processo di sviluppo di un embrione è ancora una scatola nera, e abbiamo molto da imparare su ciò che accade durante il primo e il secondo trimestre di gravidanza. Facendo crescere un embrione all’esterno del corpo umano per periodi sempre più lunghi, cominciamo però a sollevare il coperchio della scatola. La medicina della riproduzione progredisce grazie a medici e ricercatori ambiziosi, alimentati da una forza intensa quanto la spinta umana a riprodursi e finanziati da una base di clienti disposti a pagare qualsiasi somma pur di obbedire a quell’imperativo. Più ne capiamo, più probabilità ci sono che si realizzi l’ectogenesi completa. C’è troppa pressione – scientifica, medica ma anche commerciale – perché non avvenga. Gli ostacoli saranno etici e legali più che tecnologici. Un tempo la fecondazione in vitro era fantascienza, poi è diventato un rompicapo etico e in seguito l’avanguardia della riproduzione assistita. Ora rientra nelle modalità con cui si può avere una famiglia, tanto al di fuori delle controversie da essere pubblicizzata alla televisione. I diritti a creare un bambino all’esterno dell’utero sono riconosciuti dal Servizio sanitario nazionale, che copre la spesa per le coppie che desiderano una possibilità per concepire i propri figli biologici in questo modo. Quando sacche e tubi potranno rimpiazzare un utero, la gravidanza e la nascita saranno ridefinite fin dalle fondamenta. Se la gestazione non dovrà più avere luogo necessariamente all’interno del corpo di una donna, non sarà più una questione femminile. Proprio come il latte in polvere ha reso gli uomini altrettanto capaci di nutrire i loro figli come le donne, l’ectogenesi farà sì che portarli in grembo non toccherà più solo alle donne. A cambiare sarà anche il significato della maternità, per sempre. 11. L’immacolata gestazione1

«La gravidanza è una barbarie» dichiara la dottoressa Anna Smajdor. «Se esistesse una malattia in grado di causare gli stessi problemi, la considereremmo gravissima.» Sono seduta sul divano verde dell’ufficio di Anna nel campus all’Università di Oslo, davanti a un calendario con delle foto dei suoi gatti. Lei ruota sulla sedia girevole con un gomito puntato sulla scrivania. Ha un elastico verde al polso e capelli scuri lunghi fino al petto. Qui studia bioetica ed è professore associato di filosofia pratica, ma la corporatura minuta, il viso animato e gli occhi espressivi le danno l’aria di una ragazzina irriverente. «Il numero di donne che subiscono lacerazioni e soffriranno di incontinenza e altri problemi per il resto della vita è davvero elevato, nonostante non venga adeguatamente riconosciuto dalla società» prosegue. «Tutto ciò è legato al forte valore che attribuiamo non solamente alla maternità ma alla nascita. Si dà per scontato che le donne attraversino questa fase con gioia. Vale la pena parlarne, anche solo per gettare luce su quanto ci aspettiamo debbano patire le donne al fine di mettere al mondo nuovi cittadini.» Ero ansiosa di incontrare Anna da quando ho letto le sue rivoluzionarie pubblicazioni accademiche sugli uteri artificiali: «The Moral Imperative for Ectogenesis» del 2007 e il suo seguito del 2012, «In Defence of Ectogenesis».2 La prima illustra come le donne sopportino il fardello della spinta della società a riprodursi, come «un uomo possa servirsi della moglie o della compagna alla stregua di un surrogato per portare in grembo suo figlio», e come la naturale differenza nella capacità riproduttiva perpetui la sottomissione delle donne. «La gravidanza è una condizione che provoca sofferenze fisiche e psichiche esclusivamente a carico delle donne. Il fatto che gli uomini non debbano conoscerne le fatiche per avere un figlio biologico, mentre le donne sì, rappresenta un’ineguaglianza naturale» scrive nel secondo articolo. «Esiste un conflitto fondamentale e inesorabile tra le esigenze della gestazione e del parto e i valori sociali che condividiamo in quanto esseri umani: indipendenza, pari opportunità, autonomia, istruzione, soddisfazione relazionale e professionale… O consideriamo le donne come portatrici di bambini costrette a sottomettere ogni altro interesse al benessere dei loro figli o riconosciamo che i nostri valori sociali e il livello di conoscenza medica non sono più compatibili con la riproduzione “naturale”.» A detta di chiunque, la gravidanza rimane lo squilibrio più significativo tra i sessi. La divisione delle fatiche nella vita familiare comincia con la gravidanza e continua con il parto, l’allattamento e il congedo parentale, stabilendo una dinamica in cui il divario tra incombenze materne e paterne è in genere ampio, a prescindere da quanto possa essere progressista una società o animato da buone intenzioni un padre. Dall’inizio, le donne si dimostrano più competenti nell’incontrare le necessità dei bambini. S’inizia con la placenta e il latte materno e si finisce con il preparare il pranzo per la scuola. Anna afferma che l’ectogenesi permetterà che le fatiche della riproduzione vengano equamente distribuite nella società in ogni senso, e che quindi esiste un imperativo morale per la ricerca che incentiva lo sviluppo degli uteri artificiali. Apparsi prima che esistessero le biosacche o la terapia Eve, i suoi articoli dichiarano che l’ectogenesi «perfetta» possa esistere: un utero artificiale che funzioni bene quanto un utero naturale e sano, senza problemi tecnici a renderlo più pericoloso, in un contesto sociale che sostenga i diritti delle donne. Non mi si può biasimare per aver presunto che Anna fosse una femminista irriducibile: è lei a citare le parole della femminista radicale Shulamith Firestone nel definire una «barbarie» la gravidanza. Ma quando le chiedo quanto sia importante il femminismo per il suo lavoro, la sento esitare. «Il mio interesse non si radica nel femminismo di per sé. Mi stanno a cuore le questioni di giustizia, i modi in cui ci si aspetta che dei corpi umani producano cose e in cui lo stato e la medicina agiscono su di loro.» L’ectogenesi non rientra in categorie di pensiero ben definite, e neppure Anna. «Questo è il mio cavallo di battaglia» dice con un sorriso scherzoso. «La riproduzione mi ha sempre incuriosita, in particolare la gravidanza e il parto. Mi sembrano davvero strani. E quando si considera la modalità in cui si riproducono le diverse creature, non è affatto scontato che debba essere così. Ricordo mia madre che quando non volevo andare del medico mi diceva: “Oh, aspetta di avere un bambino: il tuo corpo diventa a disposizione di tutti”. C’è la dogmatica convinzione che le donne debbano mettere al mondo dei figli, senza che qualcuno si accorga di quanto sia bizzarro fare uscire nuovi esseri umani dai nostri corpi. E di quanto sia un processo rischioso e pieno di pericoli, anche con i ritrovati della medicina occidentale.» A riprova di quanto dice, mi racconta di quando una collega si è fatta estrarre il dente del giudizio. Anna ha proposto di filmare quella bella esperienza da condividere e gustare. «Eccolo che arriva! E guardate i punti! Wow, ci sei riuscita senza anestesia!» Questo mi ha fatto scoppiare a ridere tanto per la spietatezza del paragone con il parto quanto perché capisco cosa intende. Il nostro atteggiamento verso l’istante della nascita è strano davvero. C’è sangue, dolore e ci sono i punti anche quando tutto va bene, eppure siamo d’accordo nell’ignorare ogni cosa. Adoriamo la gravidanza e il parto come un feticcio. «Gli interventi chirurgici durante la gravidanza e il parto sono diventati sempre più necessari perché in passato donne e bambini morivano – era triste ma andava così. Al giorno d’oggi, la gente sopravvive e continua ad avere bambini dalla testa grande e i fianchi stretti. Ci stiamo rendendo più dipendenti dall’intervento medico nel corso del parto. Oggi il parto è sicuro così com’è principalmente grazie agli antibiotici.» Davanti a un’incombente catastrofe resistente agli antibiotici, per le madri si profila un futuro apocalittico. I tassi di mortalità materna e natimortalità stanno calando in tutto il mondo, ma a detta di Anna non è per forza solo una buona notizia. «Non importa che lei o il suo bambino ne siate usciti sani e salvi. Più progredisce la medicina, più sono le donne che si troveranno ad affrontare questi problemi. Il modo in cui possiamo regolare e monitorare lo sviluppo del feto mentre si trova nell’utero ha un impatto sulle vite delle donne, su ciò che è loro permesso fare, sui tipi di interventi medici che devono subire. Non vedo grossi sconvolgimenti all’orizzonte in termini di medicina materna-fetale, ma colgo una tendenza a sapere a tal punto sul conto del feto e di ciò che lo avvantaggia o lo danneggia che le donne sembrano quasi già trasformate in apparecchi per la gestazione in ectogenesi. La loro funzione è diventata massimizzare i vantaggi per il nascituro.» All’epoca non sarei riuscita a trovare queste parole per descriverlo, ma non ho dubbi di essermi sentita un «apparecchio per la gestazione in ectogenesi». Ho dovuto sdraiarmi con lo sguardo fisso sulle piastrelle di un soffitto d’ospedale cercando di non lasciarmi prendere dal panico mentre i medici m’infilavano nell’addome un ago di venti centimetri per estrarre il Dna di mio figlio perché da un’ecografia di routine era emerso qualcosa che ha fatto pensare loro che ci fosse una possibilità che forse avesse la sindrome di Down (non l’aveva, come non aveva nulla che non andasse, ma poi mi è venuta l’appendicite). Ho dovuto trattenere il vomito mentre mi costringevano a inghiottire un nauseante intruglio di glucosio per prelevarmi e riprelevarmi il sangue perché una delle ultime ecografie di mia figlia mostrava qualcosa che avrebbe potuto indicare che io soffrivo di diabete gravidico che avrebbe potuto minacciare la gravidanza (non ne soffrivo). Ho dovuto distendermi a gambe spalancate su un tavolo operatorio mentre un chirurgo mi cuciva la cervice perché un’ecografia aveva mostrato che ero a rischio di entrare un’altra volta in un travaglio prematuro. Essere incinta è un’esperienza notevole, che cambia la vita, e ho adorato portare in grembo il mio primo figlio, ma non mi sono mai sentita più simile a un oggetto di quando ricevevo assistenza in gravidanza. La maggior parte delle volte in cui è successo non ce n’era motivo, sennonché i capacissimi e deditissimi medici che mi avevano in cura sapevano troppo di quanto sarebbe potuto accadere dentro di me. «Nei paesi dove l’aborto è legale le necessità del feto non sono apertamente anteposte a quelle della donna, ma non appena il feto diventa un paziente – e di sicuro lo diventa ogni volta che la gestante è monitorata o soggetta a terapie per il benessere del nascituro – c’è una forte aspettativa perché ciò che è bene per il bambino abbia la precedenza» dice Anna. «E le madri acconsentono.» «Già. Perché fa parte del mostrare che si è già una buona madre. E nella nostra società non esiste quasi crimine peggiore di essere una cattiva madre.» Anna non è una madre. Me lo dice senza bisogno di chiederglielo. «Non ho figli e non ne ho mai voluti, ma in diversi periodi della mia vita ho sentito, ehm, la pressione da parte di diverse persone perché diventassi madre. Tra le cose che mi hanno colpito quando stavo valutando quella possibilità è che se una rimane incinta, soprattutto se, come me, ha scritto molto sull’argomento, lo sanno tutti! Il concetto stesso di riservatezza medica va a farsi benedire. Ecco, mi appariva disturbante quell’aspetto pubblico della gravidanza.» Capisco quanto l’idea di essere visibilmente incinta sarebbe difficile per lei. Non ho mai voluto che i miei colleghi sapessero che ero incinta, e la mia carriera non si basa sull’idea che la gravidanza sia una barbarie. «Io invece ho bambini» le dico «e non volevo per forza che tutti sapessero che ero incinta quando lo ero, mentre mio marito arrivava a dirlo a chiunque volesse in qualunque momento.» Qualcosa cambia nella stanza dopo le mie parole. Potrebbe essere frutto della mia immaginazione, ma mi sembra che le informazioni personali che abbiamo condiviso restino sospese nell’aria, facendo calare tra noi una cortina invisibile. Il suo interesse nell’ectogenesi è intellettuale e accademico; lei riesce a considerarla con gli spietati occhi della logica, io no. L’aspetto cruciale della discussione di Anna è che gli esseri umani si siano evoluti, sul piano fisico e sociale, a tal punto che il modo in cui adesso si mettono al mondo i figli non funziona più. «Si parla molto della necessità di venire incontro da parte di governi e datori di lavoro alle esigenze della gravidanza e della riproduzione, ma è semplicemente impossibile, perché gli anni decisivi per la vita lavorativa delle donne, in cui si gettano le basi della carriera, sono quelli in cui i medici dicono loro che devono avere bambini. Non c’è modo di restare incinta e fare un figlio senza che ciò abbia conseguenze sulla sfera lavorativa.» Sembra dare per scontato che il mondo del lavoro e la tendenza che esso segue siano fissi e immutabili, e quindi la risposta non consiste nel provare a cambiare il luogo di lavoro o i mezzi di produzione, ma i mezzi di riproduzione. Una considerazione desolante di quanto andrebbe fatto per arrivare a un’autentica parità tra i sessi. Ci troviamo all’interno di un campus universitario modernista, immacolato e in perfetto ordine, in Norvegia, uno dei paesi più progressisti del globo, famoso per la generosità con cui concede congedi parentali e possibilità di cura dei figli. Uno dei posti migliori al mondo per essere madre. «Se rendessimo facile per le donne di qualsiasi parte del pianeta avere figli come accade in Norvegia, molte delle attuali diseguaglianze non scomparirebbero?» «Forse, ma i tassi di natalità scenderebbero» si limita a rispondere. «È ciò che è accaduto in Norvegia.» E ha ragione. Pochi mesi prima, il primo ministro norvegese Erna Solberg ha rivolto un appello ai cittadini perché facciano più figli, nel timore che gli attuali tassi di natalità significhino il crollo del welfare state, che grava sulle spalle di un numero sempre minore di contribuenti. «La Norvegia ha bisogno di più bambini» ha detto Solberg. «Non penso occorra spiegare a nessuno come si fa.» «In genere le società ad avere norme particolarmente generose sono quelle ricche» continua Anna. «Il che si traduce in maggiori opportunità di educazione per le donne. In Norvegia tutti vanno all’università e la quasi totalità di loro prende un master.» Alza gli occhi al cielo in modo comico. «E questo crea un senso di “Ho un’istruzione, posso guardarmi intorno, posso scegliere che tipo di identità e di carriera voglio”. Avere figli allora è una delle tante possibilità. Il momento in cui mettere al mondo un bambino diventa l’obiettivo fondamentale della vita si presenta, se si presenta, solo quando sono stati raggiunti altri importanti obiettivi. Se non arriviamo all’ectogenesi, la società ha davvero un enorme bisogno di rafforzare questo ruolo materno delle donne.» Anna non è rimasta «molto stupita» la prima volta in cui ha visto le immagini degli agnelli del Chop. «Direi che quelle persone sono state in gamba nel» sceglie con cura la parola «promuovere l’immagine e la notizia che la circondava. E naturalmente, non essere disposti a parlare dell’ectogenesi fa parte di questo approccio da esperti di pubbliche relazioni. Gli scienziati hanno sempre molta fretta di affermare: “Non c’interessa affatto l’ectogenesi, non potrebbe essere più lontana dalle nostre menti. Siamo interessati solo a comprendere meglio il processo della gestazione e a salvare bambini prematuri”. Questo credo sia uno degli aspetti più preoccupanti dell’insidiosa tendenza a considerare l’ectogenesi come un mezzo per salvare bambini, che non penso proprio si tradurrà in un vantaggio per le donne.» Anziché destinare un fiume di risorse al salvataggio di bambini prematuri, Anna sostiene che dovremmo farli crescere in uteri artificiali fin dall’inizio. «Se trovassimo un’alternativa completa alla gestazione, otterremmo più probabilmente risultati migliori, perché per il feto è un trauma venire rimosso dall’utero, anche se è messo in una biosacca e riesce a sopravvivere.» «L’ectogenesi completa sarebbe in realtà da preferire alla biosacca, da un punto di vista etico?» «Sì.» Evidentemente ad Anna piace servirsi di una logica fredda e spietata per stuzzicare vespai. Ha fatto scalpore un suo articolo del 2013 in cui sosteneva che la compassione non dovesse essere un requisito indispensabile per gli operatori del settore sanitario,3 e che dottori e infermieri compassionevoli potessero diventare «fondamentalmente pericolosi» perché più esposti al rischio di scoppiare. Il suo lavoro sull’ectogenesi, comunque, rimane il maggiormente controverso. I suoi genitori lo hanno considerato «orrendo», dice. E non sono stati gli unici. «Ho ricevuto un sacco di email traboccanti d’odio.» «Da parte di chi?» «Persone di ogni genere. Uomini e donne, femministe e attivisti per i diritti maschili. I conservatori e i cattolici, ovviamente, odiavano tutto quanto avevo scritto.» Mi racconta del messaggio sarcastico inviatole da un indirizzo email della Città del Vaticano, il cui autore si lamentava perché riteneva il cacare un’azione degradante e dolorosa, ed esigeva che la scienza trovasse il metodo per svolgere il processo digestivo all’esterno del corpo in modo che lui non fosse più costretto a subire fastidi e umiliazioni. Anna rispose dicendo che le dispiaceva ma non era un ingegnere e non poteva offrirgli soluzioni pratiche. Come Oron Catts, Anna si serve di idee provocatorie e scandalose per suscitare domande problematiche. E funziona: mi ha indotto a riflettere su quanto sia confusa la nostra nozione di «normalità» per quanto riguarda il parto, la gravidanza e la maternità. Se l’ectogenesi perfetta di Anna potesse mai esistere, la lista di donne che vorrebbero ricorrervi sarebbe lunga. Donne affette da epilessia o da disturbo bipolare per cui la gravidanza significherebbe mettere a rischio la vita interrompendo terapie farmacologiche dannose per il feto. Donne cui è stato diagnosticato il cancro durante la gravidanza e che al momento sono costrette a scegliere tra salvare la vita del nascituro proseguendo la gestazione o salvare la propria sottoponendosi a trattamenti: anche un’ectogenesi parziale cambierebbe di gran lunga la loro situazione. Donne che soffrono di tocofobia, una paura patologica della gravidanza e del parto indotta dall’aver subito una violenza sessuale: vorrebbero disperatamente avere un bambino ma sono incapaci di reggere all’idea di portarlo in grembo. Poi ci sono le donne senza utero. Una su 4500 nasce con la sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser (MRKH), cioè con un utero che non si è sviluppato. Altre devono farselo rimuovere per ragioni mediche, quali il cancro all’utero o la cervice uterina oppure una grave e debilitante endometriosi (l’attrice, sceneggiatrice e regista Lena Dunham ha scritto di aver subito un’isterectomia a trentun anni per quel motivo). Queste donne al momento si qualificano come possibili candidate al trapianto dell’utero. Dal 2001 una quarantina di donne si è sottoposta alla procedura, mettendo al mondo una decina di bambini.4 Essa però richiede farmaci immunosoppressivi e interventi di chirurgia specializzata su due persone, se il donatore è in vita, come accade pressoché sempre. L’utero non è un organo vitale: altre procedure di trapianto salvano vite, questa no. Se i trapianti d’utero si diffonderanno su scala più ampia, aumenterà la competizione per accedere alle liste d’attesa. L’utero artificiale aggira questi rompicapi etici. L’ectogenesi aiuterà anche le donne in situazioni che molto probabilmente non attireranno allo stesso modo il favore del pubblico: le clienti che oggi si rivolgono al dottor Sahakian per una surrogazione di maternità motivata da ragioni sociali e le donne più anziane, con corpi che faticano a sopportare una gestazione mentre i loro coetanei maschi riescono a diventare padri senza difficoltà. L’ectogenesi libererà la gravidanza da problemi anagrafici. Si potrà concepire un embrione da giovani e farlo crescere in una sacca quando si andrà in pensione. Forse, però, a emanciparsi maggiormente grazie a questa tecnologia sarà chi non è nato donna. Per gli uomini single, i gay, le transgender spinte dal disperato desiderio di avere figli biologici, l’utero artificiale potrebbe essere la chiave dell’uguaglianza riproduttiva. Sono le sei e mezzo di venerdì sera e il Martini Bar del Barbican a Londra rumoreggia del chiacchiericcio dei clienti. Dietro un cordone di velluto, al di là di un cartello che dice RECEPTION FERTILITY FEST – EVENTO RISERVATO, Michael Johnson-Ellis è circondato da donne sulla quarantina. È impegnato a presentare tra loro gli ospiti come uno che combina matrimoni, stringe mani con la destra reggendo un Espresso Martini con la sinistra. Michael ha appena presentato al Fertility Fest un intervento insieme a suo marito Wes, dal titolo «Chi è il papà?», avente per argomento tutte le domande inopportune e offensive che si sentono porre dalle persone quando vengono a sapere che si sono serviti di una madre surrogata per diventare genitori. Conosciuti come «DuePapà» i Johnson-Ellis sono due blogger del Worcestershire che promuovono la surrogazione di gravidanza nel Regno Unito e dirigono un gruppo di supporto online per i futuri padri. Sono insieme dal 2012 e si sono sposati nel 2014, hanno una figlia di due anni, Talulah, e un maschietto in arrivo, oltre a una figlia più grande che Wes ha avuto da una precedente relazione eterosessuale. Michael mi avvista e m’invita con un cenno verso un posto abbastanza tranquillo accanto alla terrazza. Sprofondiamo nelle poltrone con gli schienali avvolgenti e lui si lancia nel racconto del «viaggio» intrapreso da lui e Wes per diventare genitori. «Ho avuto relazioni eterosessuali. Mi sono sposato a vent’anni» dice Michael nel suo gentile accento di Birmingham, ridendo all’assurdità dell’idea. «Lo so!» «Ha sempre voluto avere figli?» «Oh, Dio, sì.» Si scurisce in volto. «La mia decisione di fare coming out è nata dal dubbio: rimango con mia moglie e mi suicido oppure mi dichiaro apertamente omosessuale e mi rassegno a non diventare mai papà? Nel 2001 non conoscevo uomini gay che fossero padri, perciò ho abbandonato l’idea. Ho visto tanti nella mia community impiccarsi o ammazzarsi con le pillole, e non volevo infliggere questo dolore ai miei genitori. Ero a un incrocio: scambiare la possibilità di diventare padre con la felicità di stare con qualcuno che avrei amato oppure trovarmi in una relazione dove avrei avuto dei figli ma non sarebbe finita bene.» Quando lui e Wes s’incontrarono, il mondo era cambiato: le coppie gay iniziavano ad avere figli. «Probabilmente non eravamo insieme da nemmeno una settimana quando gli ho detto: “Senti, lo so che sembro davvero una donna e anche pazza, ma tu vuoi avere dei bambini?”.» Nel giro di un mese andarono a convivere, e un paio di settimane dopo si fidanzarono. «E poi, dopo un anno, siamo arrivati al punto: “Bene. Come possiamo crearci una famiglia?”.» Wes ci raggiunge con un Martini rosa in mano. Si scusa per il ritardo. «Tutti vogliono un pezzetto di noi, stasera.» Per una coppia a cui piace agire in fretta, la surrogazione di gravidanza era un iter terribilmente lungo. Passarono tre anni e mezzo a cercare il modo di farcela. «Abbiamo cercato in Nepal, in India, in Thailandia, a Guadalajara…» dice Michael. «E mentre lo facevamo stava cambiando tutto» aggiunge Wes. «E nel modo peggiore» annuisce Michael. «Avevamo cominciato con la Thailandia e poi gli australiani hanno mandato ogni cosa a puttane per via di quella storia.» Si riferisce al caso di Gammy. «Poi l’India si è rivoltata contro i gay, così mi sarebbe toccato fingere di essere sposato con la madre surrogata.» «Poi non c’è stato un terremoto in Nepal?» chiede Wes. «Sì, e tantissimi embrioni si sono persi. Poi siamo andati in Spagna, presso una clinica che aveva legami con il Messico, e quasi c’eravamo. Ricordo di aver chiesto al direttore della clinica: “Quanti inglesi sono riusciti ad avere un bambino grazie a voi?”. E lui: “Be’, nessuno, finora”. E io che mi dicevo: “No, no, no”.» Wes aveva la sensazione che sarebbe stato più sicuro avere una relazione commerciale con una straniera. «Quando si decide di usare una madre surrogata, è naturale che ti vengano in mente cose tipo: “Se la filerà con il bambino?”. Andare all’estero avrebbe ridotto il rischio. Avremmo avuto il nostro bambino, saremmo tornati nel Regno Unito e non avremmo più rivisto quella persona. Il legame sarebbe stato reciso una volta che noi fossimo tornati nel nostro mondo. Non potevamo incontrarla per caso al supermercato.» Ormai a corto di opzioni, Michael creò un profilo sul sito internazionale surrogatefinder.com e nel giro di quattro settimane una donna inglese scrisse loro che avrebbe avuto piacere a incontrarli. Si presentarono all’appuntamento con lei e il marito, e per una volta non ci furono brutte sorprese. Lei finì con il portare in grembo la loro bambina, Talulah, e mentre scrivo è incinta del suo fratellino. «Adesso fa parte della nostra vita, cosa che non avremmo mai voluto e non abbiamo mai deciso che accadesse» dice Wes. «La relazione che abbiamo ora con lei non è quella che volevamo all’inizio, ma non potremmo immaginarla in nessun altro modo» aggiunge Michael. «Volevamo una transazione dai termini netti, ma adesso, a dire la verità, siamo completamente a nostro agio, abbiamo già detto a Talulah chi è sua madre e come l’ha messa al mondo. Talulah sa che sta aspettando suo fratello e che quando lui sarà abbastanza grande verrà a vivere con noi.» Sembra che avrebbero preferito molto di più disporre di quello che Anna chiamerebbe un «apparecchio per la gestazione in ectogenesi», ma poi è entrato in gioco il fattore umano e i due sono contenti di come sono andate le cose. Naturalmente con un utero artificiale non ci sarebbero delicate relazioni da esplorare, non si dovrebbe dipendere dal benvolere di nessuno, non ci sarebbe il pericolo di imbattersi al supermercato in qualcuno che ci metta in imbarazzo. Talulah è stata concepita servendosi dello sperma di Michael e di un ovulo di una donatrice bionda e con gli occhi azzurri, come Wes. Quest’ultimo è il padre biologico del figlio che stanno aspettando, concepito con l’ovulo di una donatrice dagli stessi colori scuri di Michael. Forse in futuro i genitori omosessuali non dovranno ricorrere a tali approssimazioni della genetica familiare: nel giro di qualche decennio gli scienziati arriveranno a produrre sperma e ovuli dalle cellule della pelle. In Giappone si è già riusciti a ottenere un discreto successo con le cellule di topo, ma i gameti umani sono un’altra faccenda.5 Sia gli uomini sia le donne sarebbero in grado di produrre tanto ovuli quanto sperma, a seconda di ciò che richiede la loro relazione. Wes e Michael hanno sempre voluto figli biologici: l’adozione e l’affido non facevano per loro. Sembrano quasi scusarsi quando me lo dicono, come se pensassi che non amino abbastanza i bambini se non sono disposti ad affrontare l’incognita di un bambino dato in adozione. Una giustificazione cui le coppie eterosessuali non sono tenute. Tuttavia, sono arrivati a rendersi conto che la biologia non è importante quanto credevano. «Ho accettato che Michael fosse il padre biologico di nostra figlia, e non sapevo come sarebbe andata la nostra relazione. Ma ciò che è stato chiaro fin da quando è nata è…» Michael ha gli occhi lucidi. «Oh, così mi fai piangere…» «Non importa.» Anche Wes sta piangendo. «Non importa, davvero.» Bevono entrambi e cercano di ricomporsi. «Mentre tornavamo a casa dopo la nascita» riprende Michael «io ero seduto sul sedile posteriore dell’auto insieme a Talulah e piangevo. Nessuno mi aveva mai preparato a quella sensazione. Ho sempre pensato fosse qualcosa di materno, ed evidentemente non lo è. Da quel momento lei ha impresso su di noi, più di quanto avremmo mai potuto immaginare, il segno di un amore completo, paterno e materno.» Forse le madri non hanno il monopolio sull’amore istintivo, animale verso i loro bambini. Per alcuni secondi siamo seduti tutti e tre con gli occhi lucidi. Poi Michael mi dice: «Non mi fraintenda, ci sono volte in cui Talulah è una vera rottura di palle». I Johnson-Ellis sono stati fortunati: altre coppie gay che conoscono, online e nella vita reale, se la sono passata molto peggio. Mi raccontano «storie da incubo» su uomini «disperati» che hanno rotto i rapporti con le madri surrogate che portavano i loro figli in grembo, che «camminano sulle uova» perché non hanno costruito relazioni stabili con le portatrici prima di buttarsi in una surrogazione di maternità. Alcuni tra quelli che sono ricorsi a madri surrogate straniere hanno combattuto con il senso d’impotenza per non trovarsi accanto a loro durante la gravidanza. «Ci hanno riferito» continua Michael «che in America esistono contratti per la surrogazione in cui il cliente dice alla madre surrogata: “Non puoi uscire di casa dopo le sei di sera, non ti puoi allontanare più di trenta chilometri da dove vivi, non puoi far sesso per nove mesi, non puoi bere, devi mangiare solo cibi biologici”. È una transazione commerciale, perciò i futuri genitori specificano questo nel contratto.» «E le donne accettano tutto per non perdere la montagna di soldi che ricevono» aggiunge Wes. Ciò nonostante, continua a vedere i vantaggi di una surrogazione gestita come un accordo commerciale, dove a suo dire «ognuno sa qual è il suo posto». Michael dissente. «Non sono proprio a favore della commercializzazione di un prodotto in cui domanda e offerta sono enormemente sfasate, e che sempre più persone con ridotte possibilità non saranno mai in grado di permettersi.» «Un prodotto?» vorrei gridare. Non lo faccio. Dopotutto, è questo la surrogazione di maternità, dato che viene regolata da un contratto. Un prodotto, più che un servizio: il prodotto è l’utero della donna. L’impotenza che i clienti hanno su questo prodotto conduce all’ossessione per il controllo stabilita da contratti terribili per le donne, a prescindere da quanto siano pagate. Michael già sapeva delle biosacche prima che lo contattassi. Al Fertility Fest era girata voce della possibilità di uteri artificiali, mi dice Wes, mentre uno degli altri oratori aveva alluso al fatto che un giorno agli uomini sarà permesso indossare dispositivi per la gestazione dei loro bambini. Quando gli chiedo se c’è spazio per una tecnologia di questo tipo, gli s’illuminano gli occhi. «Oh, assolutamente.» «Assolutamente» gli fa eco Wes. «E che cosa significherebbe per voi?» «Se tra vent’anni questa tecnologia fosse disponibile e accettata dal punto di vista etico, se funzionasse correttamente e fosse stata adeguatamente testata, darebbe alle persone molte più possibilità» dice Wes. «E non parlo solo della comunità gay. Le donne che sono intervenute oggi… emozione allo stato puro. Soffrono per qualcosa che non hanno mai potuto avere. Per loro rappresenterebbe una grande speranza. E a questo punto si presenta anche qui il fattore schifo. Se l’industria della carne pulita ha una ripida collina da scalare in termini di pubblico consenso, l’utero artificiale si trova davanti una montagna. «Non sarebbe strano vedere crescere il proprio figlio in una sacca?» chiedo. «Sì, certo» risponde Michael. «Immaginiamo un feto in un laboratorio che scalcia dentro un’incubatrice… Sembra uscito da Terminator.» «Da Alien» lo corregge Wes. «Perché non è naturale» continua Michael. «Ma dipende anche da quale percezione si ha di ciò che è naturale, no?» chiede Wes. «Se qualcosa non è naturale tendiamo a storcere il naso finché non ci viene spiegata. Finché non c’insegnano che non presenta alcun problema» dice Michael. E, naturalmente, lo stesso vale per le famiglie con due papà. «Penso sinceramente che avere due genitori dello stesso sesso diverrà la regola» afferma Wes. «Viviamo in un quartiere piccolo-borghese di un paesino. Nella scuola materna di Talulah ci sono altre due famiglie omosessuali» dichiara Michael con orgoglio. «S’immagina un Fertility Fest del futuro dove tra le possibilità ci sarà anche un utero artificiale?» chiedo. Michael sorride. «Ne sarei entusiasta.» «Scrivo, tutto qui» mi dice Juno Roche. «Lo specifico perché se uno è transessuale la gente pretende che sia al tempo stesso un “attivista”. Non ho mai sfilato in un corteo, non ho mai lanciato grida di protesta, non ho mai sventolato una bandiera. E in quanto ai pronomi… preferirei usare they/them. Il neutro è quello che sento più congeniale, anche se non mi descriverei come “non binario”. Mi definisco semplicemente trans. Non occorre aggiungere altro.» «Non vorrebbe che io la chiamassi “una donna transessuale”?» «No, scriva solo che sono trans. Adesso, a cinquantacinque anni, mi rendo conto che il problema è sempre stato il genere.» Juno porta un trucco leggero, un po’ di mascara che mette in risalto gli occhi turchese, con leggeri colpi di sole ai capelli lunghi fino alle spalle e cerchi d’oro alle orecchie. Siamo in un angolo tranquillo della Friends House quacchera a Euston e siede sul bordo della sedia, con amichevole fare cospiratorio, le gambe incrociate nei jeans strappati e scarpe da tennis. Juno ha insegnato alle scuole elementari, ha lavorato come sex worker, ha avuto una dipendenza da eroina, ma ha scoperto la sua vocazione scrivendo pezzi crudi ed estremamente personali sulla propria esperienza di trans. In un toccante articolo pubblicato nel 2016 dal titolo «My Longing To Be A Mother As A Trans Woman», Juno racconta che «la mia unica, assoluta tristezza, il mio unico, assoluto dolore, è di non essere madre».6 In quel periodo, era felice che la definissero una donna transessuale. Ha subito l’intervento di riassegnazione di genere quasi dieci anni fa, ma respinge l’idea che ciò abbia contribuito al suo essere donna. «Dopo l’operazione mi sono trovato nella corsia della clinica insieme ad altri quattro pazienti che avevano cambiato sesso. E questi dicevano cose del tipo: “Oh, la mia pelle! Voi non ve la sentite più morbida?” due giorni dopo l’intervento.» Mi rivolge uno sguardo sghembo. «No, davvero, ti devono rinchiudere.» In Juno c’è una gentilezza che riesce a far convivere con la schiettezza. «Quando mi chiedono dei miei genitali, rispondo sempre che ho genitali recuperati, rifatti, riciclati creativamente. Per me sono un’opera d’arte o una dichiarazione politica, non una vagina. Quell’idea di essere “veri”… La gente dice: “No, le donne transessuali sono donne”. È sempre chi non è trans a dichiararlo.» «Lei non direbbe che le donne transessuali sono donne?» «No. Certe persone la vedono così e io non intendo segnare il territorio altrui. Ma per me? No.» Juno sa che si tratta di un campo minato. Il dibattito se le donne transessuali siano donne è stato al centro della controversia sul Gender Recognition Act nel Regno Unito, che consentirebbe alle persone transessuali di ottenere il riconoscimento legale della propria identità di genere senza alcuna prova medica della loro transizione; le donne transessuali sarebbero donne perché s’identificano come tali. Ciò ha provocato un tumulto tra alcune femministe preoccupate che il provvedimento autorizzerebbe a corpi maschili l’accesso a spazi privati destinati a proteggere corpi femminili. C’è chi, nel campo dell’attivismo trans, ha cominciato a riferirsi alle donne di nascita come «portatrici d’utero», come se fosse solo la mancanza di quell’organo a rendere diverse le donne transessuali. L’ectogenesi, naturalmente, permetterebbe alle donne transessuali uguale accesso alla gestazione, tagliando la testa alle discussioni. Un corpo femminile, tuttavia, con la capacità riproduttiva che l’accompagna, è qualcosa cui Juno ha aspirato per tutta la vita. «Il mio primo ricordo in assoluto è di mia madre incinta e io che la guardo pensando sia la cosa più fantastica al mondo. Era una specie di sensazione istintiva, viscerale. Ho detto alla mia maestra che era quello che volevo da grande: avere una pancia gonfia piena di bambini.» Aveva quattro anni quando la madre era incinta del fratellino, e aveva l’abitudine di premere la testa contro il pancione per ascoltare i suoi gorgoglii. La madre partorì in casa, e Juno poté incontrare il fratello pochi minuti dopo la nascita. «Mia madre sembrava felice in modo assurdo.» Essere madre è molto più di questo, naturalmente. «Ad attrarla erano la gravidanza e la gioia di mettere al mondo qualcuno?» chiedo. «Penso che sia il fatto di avere una relazione. La relazione con mia madre era bellissima, piena d’amore. Lei era vicina, premurosa e molto protettiva. Lo spazio che condividevo con lei mi pareva il più meraviglioso, protetto e sicuro. È la sola cosa che sia mai sembrata avere un senso: una relazione di tenerezza. Il legame con la madre è ciò che ti aiuta a mettere radici nella vita. Di sicuro ha radicato lei nella determinazione e in tutto ciò che c’è di buono al mondo.» Queste parole mi commuovono in modo spiazzante, poiché esprimono molto di ciò che sento riguardo all’essere madre. Ecco qualcuno che non si definisce donna, che non usa nemmeno pronomi femminili, ma riesce a descrivere qualcosa di così intimamente femminile in maniera profondamente sincera e sentita. Forse queste parole dicono più di me che di Juno, ma non mi aspettavo di ascoltare una persona transessuale senza figli formularle tanto bene. «Ci ho rimuginato sopra per almeno cinquant’anni, e a furia di provare a venire a patti con il dolore ho sviluppato una dipendenza dalle droghe» dice Juno sottovoce. «Per soffocare il dolore di non poter essere madre?» «Sì. Sì. Perché niente aveva senso. Le mie relazioni in realtà non avevano senso: non avremmo avuto un bambino. Il mio corpo non aveva senso perché non potevo mettere al mondo un bambino.» Naturalmente Juno poteva avere un figlio, ma diventare padre «non è mai stata un’opzione». «Non mi ha mai attraversato la mente la possibilità di essere padre. Per me era assurdo persino pensare di essere un maschio. Continuavo a dirmi: “Non so bene perché ho questo corpo”. Me lo sono sempre sentito estraneo. Non riuscivo a interagire in nessun modo con la mascolinità. In un certo senso, se ne fossi stato capace sarebbe stato più facile.» Nemmeno servirsi di una madre surrogata era un’idea che ha preso in considerazione. «Non saprei come relazionarmi con lei. Non saprei come stabilire un rapporto armonioso con lei, dato che a me la maternità è stata negata fin da subito in quanto persona transessuale. Mi è stata negata un’immediatezza di questo tipo. Ci sarebbe stato un certo grado di risentimento che non avrei voluto avere e un distacco dal processo, perché questa magica esperienza si stava svolgendo nel corpo di qualcun altro.» L’adozione e l’affido erano altrettanto impossibili: nel 1992 a Juno venne diagnosticato l’HIV impedendogli quindi di percorrere quelle strade. A cinquantacinque anni, ha accettato il fatto che non avrà mai bambini. «Non scriverei ciò che scrivo se avessi avuto dei bambini. Non potrei fare ciò che faccio. Occorre essere realistici.» Ma è chiaro che per Juno si tratta di una ferita aperta. «Anche nella nostra conversazione, oggi, ho avuto una sensazione tipo: “Per me è impossibile”.» Si appoggia allo schienale della sedia, con le mani sul petto e gli occhi lucidi. «È una tristezza reale, fisica. Non essere madre per me significa farmi una ragione di una vita che non ha ragione. È così che funziona. Perché la tristezza sarebbe schiacciante.» Pur davanti al dato di fatto biologico, Juno si aggrappa alla speranza di portare un giorno in grembo dei figli suoi. Mi racconta di quando, cinque giorni dopo l’intervento di riassegnazione del genere, il chirurgo venne a esaminare il decorso postoperatorio. La garza utilizzata per imbottire il nuovo spazio all’interno dei genitali «riciclati creativamente» di Juno era stata rimossa in modo che il medico potesse «controllare il fondo». «Lui ha preso questo specolo monouso e me l’ha ficcato dentro… i punti mi erano venuti via, perciò mi ha fatto malissimo.» Entrambi facciamo una smorfia. «A quel punto mi ha detto: “Ah, ecco il fondo”. E mi ha detto quale fosse la profondità dei miei genitali. E io ho voltato la testa e ho cominciato a piangere. C’è una parete di fondo. Non posso avere un bambino. Quel condotto non va da nessuna parte.» «Ma lei sapeva che sarebbe stato così» dico gentilmente. «Certo. Ma è quello che volevo. Solo che il divario tra saperlo e sentirlo a volte è così» separa pollice e indice di pochi millimetri «eppure cadi comunque dentro quel crepaccio. Sull’onda delle emozioni ho capito che era… è una caverna. Non ho una cervice, né tube di Falloppio, né ovaie: non ho un utero.» Juno ha sentito ogni diceria e leggenda urbana riguardo alla possibilità che un giorno chi è nato maschio abbia modo di portare in grembo un bambino, forse grazie all’impianto ectopico di un bambino tra gli organi dell’apparato digerente, e le ha liquidate tutte come fantasticherie pericolose. «Non voglio aggrapparmi all’idea che in futuro si potrà cambiare questo corpo per farlo diventare quell’altro. Non penso che ci riusciranno mai.» Non ha mai considerato l’ectogenesi prima che gliene facessi menzione io. «Quando me ne ha parlato, mi sono detto subito: “Non cercare informazioni, perché non farai in tempo a vederlo accadere”. Eppure da quel momento la mia mente torna a pensarci e a fantasticare. Mi ha spinto a riflettere su qualcosa che magari succederà fra trent’anni, e io non potrò vederlo.» «Se fosse possibile ora, che cosa significherebbe per lei?» S’interrompe e gli occhi gli brillano di nuovo. «Per altre persone come me, significherebbe tutto. Vorrebbe dire avere un’esperienza di vita completa. Al momento, una persona transessuale ha una vita al 60-70 per cento ed è costretta ad accettare di non poter avere tante cose, tante cose importanti. Penso che se ciò fosse possibile, per me sarebbe un cambiamento di vita.» «Un utero artificiale non sarebbe un po’ strano? Crede che la gente lo accetterebbe?» «Certo che lo accetterebbe» replica all’istante. «Ho assistito ai Giochi paralimpici del 2012 e ho visto gareggiare gli atleti. Se la gente si può abituare a vedere persone con protesi correre a quei livelli, e non solo correre ma apparire eroiche, sexy e desiderabili, le persone più affascinanti al mondo, lo accetterebbe senz’altro.» Se un utero esterno al corpo diverrà una protesi per chi biologicamente non può avere una gravidanza, offrirà nuove opportunità a diversi generi di legame, dice Juno. «Se avessi modo di andare a guardare qualcosa che cresce lì, dentro quella cosa artificiale, avrei comunque un legame mio. Sarei io a occuparmene. Io a sedermi accanto a lui. Io a guardarlo. Io a scattare fotografie mentre cresce. Io a parlargli.» Juno si abbandona all’idea. «Potrei creare un ambiente intimo intorno a lui. Arrederei la sua stanza, perché si troverebbe in uno spazio fisico e perciò potrei, in un certo senso, prendere possesso di quello spazio. Non posso avere l’utero o il corpo di un’altra donna. E il legame sarebbe immediato. È questa l’intimità: immediatezza, assenza di barriere. La magia di guardare dentro, vedere questa cosa, e sapere che è mia.» Prima di lasciare Anna Smajdor, le chiedo dei vantaggi dell’ectogenesi per persone come Juno, Wes e Michael, di cui non ha mai scritto. «Dal mio punto di vista, non caldeggio affatto il diritto ad avere bambini» dice schiettamente. «Penso che creare un altro essere umano sia l’apice della hybris.» Dal suo sguardo si capisce che lo ritiene assurdo, ma lo afferma con sincerità. «Secondo un’ottica puramente morale, credo che il rapporto tra genitori e bambini sia profondamente problematico. L’amore che i bambini nutrono verso i genitori è una sorta di sindrome di Stoccolma: dipendono talmente dai loro carcerieri da essere costretti ad amarli. Per come la vedo io, in questo c’è qualcosa di piuttosto spaventoso.» A questo punto mi sono resa conto fin troppo bene di quanto Anna sia lontana dall’idea di avere bambini, ma la cosa sta prendendo una piega stramba. «Non dico che non sia amore; dico che non penso che l’amore sia sempre così incredibilmente bello come si tende a dare per scontato» prosegue. «È per quello che non sostengo il diritto di chiunque ad avere un figlio. Sostengo il diritto che nessuno interferisca con il nostro corpo. Inoltre, non direi che l’ectogenesi rappresenti un vantaggio perché permetterebbe alle donne transessuali di riprodursi. I miei argomenti in suo favore non poggiano affatto sul diritto alla procreazione.» Forse Anna si accorge che la sto un po’ perdendo, perciò abbandona per un attimo il mondo della logica filosofica. «L’imperativo morale verso l’ectogenesi è stato una specie di esperimento mentale. Cercavo di spingere il ragionamento alle estreme conseguenze per cercare il modo in cui tale imperativo si potesse sostenere. Immaginando di riuscire a raggiungere l’ectogenesi perfetta, a me sembra proprio un obiettivo degno di essere conseguito in una società veramente giusta. Il problema è che le nostre società non lo sono. Anzi, sono imbevute dell’idea per cui la riproduzione naturale è bellissima, meravigliosa, il momento più incredibile della vita di una donna. In una società convinta di questo, in maniera implicita o esplicita, l’ectogenesi sarà molto problematica, e penso che probabilmente verrà usata in modi dannosi alle donne nel loro insieme.» «In quali modi?» «Quando parliamo di salvare un bambino estremamente prematuro, c’è il rischio di cominciare a nutrire il desiderio di toglierlo dall’utero della madre perché ritenuta inadatta a portare il feto in grembo» dice. Se è possibile salvare un bambino vulnerabile dai pericoli di una nascita prematura, non saremmo disposti a salvarlo dal comportamento pericoloso di una madre sconsiderata? Per quello non occorre arrivare all’ectogenesi «perfetta» che immagina Anna, e nemmeno all’ectogenesi completa. Basta usare una biosacca. 12. «Le donne sono obsolete, finalmente»

Sono le cinque del mattino di mercoledì a Mobile, Alabama, e la coda fuori dal Mobile Metro Treatment Center si snoda intorno all’isolato. In fila aspettano uomini di mezza età in completo, donne con l’uniforme da cameriera, coppie stanche che si tengono per mano. Quasi tutti hanno tra i venti e trent’anni e sono bianchi, anche se più della metà della popolazione della città è nera. Sono qui questa mattina, come ogni altra mattina, per ottenere il metadone che occorre loro per andare avanti. Lo spietato sole del maggio inoltrato dell’Alabama deve ancora sorgere, eppure si guardano in silenzio le scarpe sotto i lampioni arancioni mentre aspettano che le porte si aprano. Barbara Harris ha guidato nove ore dal North Carolina per essere qui. Ha sessantacinque anni e non si regge molto sulle gambe, ma rimedia a ciò che le manca in agilità con la sua presenza e la sua incrollabile sicurezza di sé. Si trascina lungo la coda, rivolgendo caldi sorrisi ai tipi in fila che cominciano ad agitarsi. «Conosci qualche donna che faccia uso di droghe e che possa restare incinta?» chiede a tutti ficcando loro in mano biglietti da visita rosa. ATTENZIONE DIPENDENTI DA DROGA E ALCOL recita la scritta in rosso. 300 DOLLARI IN CONTANTI PER CHI SI SOTTOPONE AL CONTROLLO DELLE NASCITE. Nell’angolo in alto a destra, una foto a colori di un bambino prematuro, paonazzo e incredibilmente piccolo, in un’unità di terapia intensiva neonatale, sommerso dai tubi, proprio come i bambini nel video promozionale del Chop. Da quando ha fondato la sua associazione no-profit, Project Prevention, nel 1997, Barbara ha «comprato» la fertilità di circa 7200 alcolisti e tossicodipendenti,1 nella stragrande maggioranza (il 95 per cento) donne. La sua missione, dice, è «ridurre a zero il numero di neonati esposti al rischio di nascere con dipendenza da sostanze», ma i metodi contraccettivi che lei mette a disposizione non sono profilattici e pillole anticoncezionali, bensì spirali e interventi chirurgici di sterilizzazione. Project Prevention non esegue direttamente le procedure per motivi legali: Barbara richiede invece che un medico attesti per iscritto che il paziente segue una terapia contraccettiva permanente o a lungo termine. I clienti che decidono di venire sterilizzati ricevono i loro 300 dollari in un’unica volta: le donne che scelgono opzioni a lungo termine vengono pagate a tranche per tutto il tempo in cui dimostrano di praticare la contraccezione. Forse è per questo che migliaia delle sue clienti hanno deciso di farsi legare le tube. Barbara gira per gli Stati Uniti a reclutare nuovi tossici con il suo caravan che porta impresso il logo di Project Prevention. È tappezzato di immagini a colori di bambini addormentati accanto a vassoi con strisce di coca e di adolescenti incinte che si bucano sotto lo slogan I BAMBINI MERITANO UNA VITA SENZA ALCOL E DROGA (i modelli nelle foto sono in realtà alcuni dei dieci figli di Barbara e dei suoi nipotini). Il numero di targa è SENDUS$$, «mandateci dollari». Barbara mi dice che riceve ogni anno fino a mezzo milione di dollari in donazioni, perlopiù da maschi bianchi. «Penso che se c’è un punto su cui siano d’accordo tutti – sinistra, destra, centro – è che non sia giusto abusare dei bambini» mi dice seduta al tavolino nel suo caravan ad aria condizionata. Ha i capelli ossigenati stretti in una coda di cavallo e occhi castani che traboccano di sicurezza. «Ecco perché otteniamo un sostegno finanziario così pazzesco.» «Avere un bambino quando si beve e ci si droga è un abuso?» «Sì» risponde lei annuendo. «Be’, dicono di non assumere nemmeno caffeina in gravidanza, perciò non so come la metanfetamina possa far bene a un bambino.» Barbara non è la fanatica destrorsa che ci si aspetterebbe. Crede in Dio ma non frequenta la chiesa con regolarità. È a favore della libera scelta delle donne in materia di procreazione, ma non quando le tossicodipendenti decidono di ricorrere all’aborto anziché ai contraccettivi. L’hanno accusata di razzismo perché è una bianca e più del 30 per cento dei suoi clienti sono neri, ma suo marito è nero e i loro figli o sono neri o hanno la pelle scura. Ha adottato inoltre cinque bimbi neri, tutti nati in rapida successione dalla stessa madre, dipendente dal crack. «Ho visto questi bambini con i miei occhi. So di molti che hanno adottato neonati attaccati a tubi per mangiare e respirare, e c’è chi non ce la fa» prosegue. «Sì, alcuni sopravvivono e crescono fino a raggiungere uno sviluppo normale, ne ho la prova in carne e ossa a casa mia. Molti no, però. È una scommessa. E dipende solo se si vuole accettare di scommettere con le vite di bambini innocenti.» Per Barbara è tutto così netto. Se si amano i bambini, come si fa a non essere d’accordo con lei? «Avere denaro le dà molto potere sulle persone con cui entra in contatto» dico. «Sente che compiono una scelta veramente libera quando trattano con lei? Il consenso che prestano è davvero informato, considerando quanto siano caotiche le loro vite?» «Questo riguarda loro e il loro medico» dichiara. «Deve decidere il medico se ritiene che siano in grado di seguire una terapia contraccettiva. Io penso ai bambini. Nessuno ha il diritto di costringere un feto a nutrirsi di droga e poi mettere al mondo un bambino che rischi di morire o soffrire di malattie permanenti. Nessuno ha quel diritto.» Scrolla le spalle, come se non riuscisse a credere che ci sia qualcuno cui occorra spiegarlo. Molti sono d’accordo con lei, soprattutto qui in Alabama. Dagli anni cinquanta, almeno quarantacinque stati degli Usa hanno perseguito legalmente donne per avere assunto droga in gravidanza: non esistono leggi espressamente rivolte alle donne incinte, ma gli stati hanno applicato la legislazione esistente per criminalizzarle. La legge dell’Alabama sul «maltrattamento chimico» è stata approvata nel 2006 per colpire i genitori che trasformano casa loro in laboratori di metanfetamina. Nel giro di mesi hanno cominciato ad applicarla alle donne in gravidanza accusate di porre a rischio la sopravvivenza dei feti, anche se i bambini poi nascono sani. Le madri rischiano fino a dieci anni di carcere se il bambino sopravvive alla gravidanza senza danni; se muore, vanno incontro a una condanna fino a novantanove anni. Da allora al 2015, 479 donne in Alabama sono state perseguite in base alla legge del «maltrattamento chimico». La droga che assumevano più di frequente era la marijuana.2 Il test antidroga per le donne incinte è diventato di routine non solo in Alabama ma anche in altri stati. In South Carolina le donne che assumono droghe o alcol dalla fine del secondo trimestre possono essere accusate di abuso su minore. Nel codice di tutela dei minori del Wisconsin, detto anche la legge «mamma cocaina», una donna può essere trattenuta in ospedale o in un centro di disintossicazione contro la sua volontà per la durata della gravidanza. Il feto ha diritto a un avvocato nominato dalla corte, la madre no. La biosacca è progettata per salvare bambini molto malati e molto vulnerabili. Sarà resa disponibile in un clima politico in cui l’abuso di droga equivale all’abuso su minore e la definizione di «molto malato» è un concetto aperto all’interpretazione. Al momento i rischi posti al feto dall’uso di eroina, crack, marijuana e metanfetamina durante la gravidanza restano incerti: bambini nati da madri eroinomani attraversano strazianti crisi d’astinenza per diverse settimane, ma non è certo che l’eroina provochi difetti congeniti. Non è stata dimostrata una sicura correlazione tra l’assunzione prenatale di cocaina e gli effetti a lungo termine sulla crescita o lo sviluppo intellettuale dei bambini.3 Il rischio più grave che devono affrontare i bambini nati da genitori tossicodipendenti proviene più probabilmente dal dover crescere in una situazione familiare caotica o dall’esposizione durante la gravidanza a sostanze legali come tabacco, alcol e alcuni farmaci che sono noti per causare difetti congeniti. Ma in una cultura dove l’equivalenza «abuso di droga = abuso sui bambini» esercita una tale forza d’attrazione, è improbabile che il dibattito conoscerà sfumature una volta che la soluzione ectogenetica al problema diverrà realtà. Barbara è venuta a Mobile perché ha ricevuto un articolo su una donna del posto incarcerata tre volte per aver assunto eroina nel corso di tre distinte gravidanze. «Rinchiudere in prigione queste donne non è la soluzione» dice Barbara. «Ci resteranno per un po’, ma niente ci assicura che una volta fuori non ricadano nelle droghe e non mettano a rischio un altro bambino. Non è questa la soluzione.» La sua risposta consiste nell’impedire a queste donne di avere bambini. In questa prospettiva, nemmeno l’ectogenesi rappresenta una soluzione. Eppure, se il succo del discorso è proteggere i bambini a tutti i costi, un utero artificiale sarà sempre preferibile a una madre «irresponsabile». Se non si può impedire che un bambino nasca da una tossicodipendente – e malgrado gli sforzi di Barbara, Project Prevention è una goccia nell’oceano del numero di donne incinte che usano droga negli Stati Uniti – si può almeno «salvarlo» il prima possibile. Sarebbe facile liquidare questa presa di posizione come una pazzia americana, ma il salvataggio del feto – o come lo si voglia chiamare – esiste già in paesi che amano credersi tra i più progressisti del mondo e nei riguardi di donne che non assumono droga. Il famigerato caso risale al 2012. Un’italiana incinta vola in Inghilterra per seguire un corso di formazione aziendale organizzato da Ryanair a Stansted. In albergo è vittima di un attacco di panico e chiama la polizia, che parla al telefono con la madre. Questa spiega che la figlia sta probabilmente soffrendo le conseguenze del non aver preso i farmaci con cui è in cura per il disturbo bipolare. La polizia la porta in un ospedale psichiatrico dove viene internata in forza del Mental Health Act. Cinque settimane dopo, dietro un ordine del tribunale ottenuto dal Mid Essex Nhs Trust, la donna è sedata a forza e la si fa partorire con taglio cesareo senza il suo consenso. I servizi sociali dell’Essex si prendono cura all’istante della neonata e la madre è scortata in Italia senza la piccola. Quando, dopo un anno, vengono resi noti i pochi dettagli che la legge permette di divulgare,4 i servizi sociali dell’Essex si difendono sostenendo di aver agito nell’interesse della bambina. Persino nella liberale e illuminata Norvegia, spesso il desiderio dello stato di proteggere i bambini scavalca i diritti delle donne che li portano in grembo. Tra 2008 e 2014, il numero di neonati che i servizi di protezione dei minori hanno tolto alle madri subito dopo la nascita è triplicato.5 Il motivo di gran lunga più frequente6 non era la droga o l’abuso di alcol ma «la mancanza di attitudini genitoriali»,7 un termine vago che include madri appartenenti a culture in cui schiaffeggiare un bambino è ritenuto normale, madri con problemi di salute mentale e madri che in passato avevano condotto uno stile di vita irregolare. Se alcune madri non sono considerate affidabili per occuparsi di un bambino, ci si fiderà mai nel farle affrontare una gravidanza quando esiste un metodo di gestazione alternativo? Una madre incapace di badare a un figlio suo sarebbe un’incubatrice responsabile? Se il futuro della nascita sarà una scelta tra l’ectogenesi e la gravidanza naturale, il nostro atteggiamento verso il «naturale» cambierà per sempre. È facile immaginarsi un futuro dove il tipo di «aiuto» già offerto dai datori di lavoro nella Silicon Valley, e non solo, che permettono ai membri femminili del personale di congelare i loro ovuli in modo da concentrarsi sugli anni più produttivi della carriera, includa la possibilità per le impiegate di far crescere i bambini in un utero artificiale così da continuare a lavorare durante la gestazione e il momento immediatamente successivo al parto. Usare un utero vero, un organo del corpo, potrebbe diventare insomma un segno d’inferiorità sociale, di povertà, di vita confusionaria, di gravidanza non programmata: potrebbe essere lo stigma di una «madre natura» potenzialmente pericolosa, allo stesso modo in cui consideriamo freebirthers le donne che oggi decidono di avere figli senza assistenza medica durante la gravidanza o il parto. Lo stesso parto «naturale» potrebbe diventare l’opzione irresponsabile, sconsiderata. La maggiore minaccia esistenziale affrontata oggi dai bambini non nati non è rappresentata da droghe, alcol o donne «inadatte» alla gravidanza, ma da donne che non vogliono diventare madri. L’ectogenesi riuscirà a «salvare» i feti abortiti, che potranno essere trasferiti in un utero artificiale e dati a genitori che li desiderano. Nel Regno Unito, i limiti all’aborto sono legati alla vitalità all’esterno dell’utero: ecco perché nel 1990 il limite si è abbassato dalle ventotto alle ventiquattro settimane di gestazione. L’ectogenesi completa significherebbe che tutti i feti, persino gli embrioni, sarebbero da ritenersi vitali, e ogni bambino non nato potrebbe essere considerato in diritto di venire al mondo. Persino l’ectogenesi parziale rivolterà come un guanto il dibattito sull’aborto. Noi pensiamo all’aborto come a una scelta, la decisione di sopprimere un feto, quando in realtà si tratta di due: la decisione di interrompere la gravidanza e quella di porre fine alla vita del bambino. Per la prima volta, l’ectogenesi renderà queste scelte separate e distinte. Non appena il corpo della donna non fungerà più da incubatore, abortire sarà sia una scelta pro-choice che una scelta pro-life. Lo stato potrà permettere alle donne di decidere che cosa accadrà al loro corpo e al tempo stesso rendere illegale porre fine alla vita di un feto. Perché solo la madre avrebbe il diritto di stabilire che un bambino debba morire se la tecnologia è in grado di salvarlo? L’attivista e scrittrice femminista Soraya Chemaly rifletteva su questo aspetto cinque anni prima che gli agnellini nelle sacche balzassero vivi e vegeti sul palcoscenico del mondo. In un saggio apparso nel 2012 su Rewire.News, ha scritto che «la tensione insita nell’attuale dibattito tra i diritti della donna e l’interesse dello stato verso il feto scompare quando la donna e il feto si possono rendere indipendenti l’una dall’altro, all’istante e senza correre rischi. Le scelte riproduttive di uomini e donne diventano di pari valore e le donne perdono il primato ora concesso loro come conseguenza della gestazione.» Il pezzo si concludeva con uno spietato calcio nei denti alla libertà di scelta. «Il vero futuro distopico è quello dove ricorderemo con nostalgia il breve periodo in cui la sentenza Roe contro Wade8 esercitò il proprio fragile impatto nella libertà riproduttiva delle donne.» Contatto Soraya al telefono da Washington Dc. Comincio a chiederle che cosa ha pensato la prima volta che ha sentito delle biosacche, e scoppia in una lunga risata amara. «Sono piuttosto cinica e decisamente pessimista riguardo alla presunta natura dirompente o rivoluzionaria della tecnologia. Mi viene sempre da ridere quando i tecnofuturisti, che sono ancora al 99 per cento maschi, al 99 per cento bianchi, al 99 per cento benestanti, dichiarano che le loro tecnologie rappresenteranno un balzo in avanti sulla strada del progresso, perché mostrano un atteggiamento perlopiù patriarcale. Riproducono tante ineguaglianze alla base di ogni società. È come cercare di spiegare a un pesce cos’è l’acqua.» Nonostante i progressi fatti da Matt Kemp alla Wirf e dal team di medici del Chop, Soraya afferma cautamente che ci vorranno un paio di generazioni prima che l’ectogenesi diventi una tecnologia riproduttiva praticabile e diffusa. «È incredibilmente complessa e penso che richiederà più tempo di quanto ritengano alcuni» dice. «Ma credo che sarà un punto di arrivo inevitabile.» Si tratta semplicemente del prossimo passo nella frammentazione della maternità. La tecnologia dell’utero artificiale, progettata quasi esclusivamente da uomini, permetterebbe alle donne di non essere altro che fornitrici di gameti, separate quanto i loro compagni dai bambini che portano in grembo. Le ecografie mostrano come la medicina riproduttiva già consideri i corpi femminili alla pari di residui, ricorda Soraya. «Lo sostengo da anni: non fate vedere quelle cazzo di immagini con il feto che cresce senza mostrare tutto il corpo femminile. Capisco che chi resti incinta sia eccitata, ma io sono la tremenda guastafeste femminista, quella che dice: “Oh bello, facciamolo ancora un po’ più grande”. L’ecografia è stata deliberatamente sviluppata per presentare il feto come un pianeta nel vuoto, in un recipiente, in un vaso. Tutt’intorno, una carta da parati nera. Cancella del tutto la donna il cui corpo genera la vita.» Non credo che attecchirà l’ecografia integrale del corpo, ma capisco cosa intende Soraya. Il dottor Flake diceva che una delle ragioni del successo commerciale della biosacca sarebbe che permette a entrambi i genitori di vedere i bambini in tempo reale, essendo separati dal corpo della madre. E una volta che madri e padri saranno ugualmente divisi dai bambini, avranno su di loro uguali diritti, un’uguaglianza che nasce dalla resa del potere riproduttivo da parte delle donne. Soraya riconosce che l’ectogenesi abbia il potenziale di liberare le donne dai fardelli che attualmente accompagnano la maternità. «Sono davvero divisa» dice. «Si potrebbe pensare: “Finalmente ci siamo lasciate alle spalle il peso di una cultura che vuole l’essere madri come insito nella nostra natura, un ruolo essenziale e inevitabile per ognuna di noi”. E questo, sì, è una specie di liberazione.» Ma Soraya è anche «un’avida lettrice di narrativa distopica, in particolare quella di matrice femminista», perciò coglie le oscure potenzialità dell’uso di questa tecnologia per privare le donne dei loro diritti. Anche nelle società più misogine, dice, le donne sono apprezzate per la loro capacità di mettere al mondo i figli «almeno finché rimarrà una possibilità per farlo». Rendendo la riproduzione uguale per uomini e donne, l’ectogenesi cancellerà il solo potere universale innegabilmente posseduto dalle donne e non dagli uomini. Ciò mi fa pensare che, nel futuro dell’ectogenesi, al mondo potrebbero esserci bambini con i geni di madri che non volevano esistessero. Nasceranno in un’epoca in cui ci sarà un accesso più elevato che mai alla genitorialità genetica, in cui genitori come Wes e Michael che anelano a figli loro disporranno di tante altre soluzioni tecnologiche per creare una famiglia. Per servirmi dell’involontariamente brutale espressione di Michael, l’offerta supererà di gran lunga la domanda. Forse per questi bambini indesiderati non ci sarà un futuro. In quel mondo, alcune donne cercherebbero aborti illegali per porre fine alla vita dei bambini anziché a metodi legali che consentirebbero loro di vivere. È un pensiero spaventoso. Ma questo è ciò che potrebbe accadere se il diritto del feto alla vita avesse la meglio sul diritto della donna a rifiutarsi di essere madre. «Al momento» dico «le donne hanno un diritto che gli uomini non possiedono…» «Sarebbe interrompere una gravidanza?» interviene Soraya. «Sarebbe non diventare genitori. Dato che interrompere una gravidanza significa la morte del bambino, la donna può scegliere se diventare madre. È un diritto che gli uomini non hanno. Questa tecnologia sarebbe brutalmente paritaria, non crede?» «Certo. Cancellerebbe del tutto quel diritto.» «E le donne perderebbero il potere che adesso detengono.» Soraya ci riflette per alcuni istanti. «Quella che descrive è un’interessante parificazione legale che resterà senza riscontro in termini di responsabilità culturale» dice. Alle donne rimarrà l’onere di non restare incinte, perché dopotutto saranno ancora loro ad affrontare quella condizione. S’interrompe di nuovo. «Credo che sarà davvero interessante, e penso che potrebbe tradursi in un risultato molto positivo nell’indurre le persone a mettere in discussione alcune idee profondamente radicate sul conto della maternità.» «Sotto una certa ottica è una gran cosa» dico «ma immagino che il punto cui voglio arrivare sia: è un diritto che le donne sono disposte a perdere?» «Se non si ha più bisogno delle donne in quanto le uniche capaci di riprodursi e la società mostra già un tale disprezzo per loro, che fare? Non credo ci sia una risposta. In un mondo ideale noi saremmo tutti persone e alcune persone sceglierebbero di riprodursi e altre no, e tutte godrebbero di autonomia e dignità nelle loro decisioni.» Persone, genitori e non madri e padri di per sé. Persone come Juno, come Michael e Wes. «Sarebbe l’idea platonica di un’equa distribuzione.» Ma il mondo in cui viviamo è molto lontano dall’essere ideale o equo. Non occorre essere femministe radicali per riconoscere che i diritti riproduttivi delle donne siano già minacciati, soprattutto in America. Nel maggio 2019, il Senato dell’Alabama ha approvato un disegno di legge che proibisce l’aborto in quasi tutti i casi, persino quelli di stupro o incesto. Nessuna delle senatrici dello stato ha votato a favore, ma erano solo in quattro a sedere tra i trentacinque membri del Senato. «L’ectogenesi permetterebbe agli uomini di esercitare il controllo sulla nascita?» chiedo. «Penso ci siano uomini che vorrebbero espressamente farlo, e se potessero sbarazzarsi delle donne per arrivare a quel risultato, non credo si porrebbero molti scrupoli.»

Sono le undici di sera di un venerdì e sto leggendo una bacheca di Reddit intitolata «Adesso le donne sono completamente inutili: agnellino cresce in un utero artificiale. I prossimi saranno gli umani» creata il 25 aprile 2017, il giorno in cui è apparso l’articolo del Chop sulla biosacca.

«Un altro incredibile risultato dell’ingegnosità e creatività maschile!» recita il commento più popolare. «Grande!» osserva un altro. «Tra dieci anni metto sotto contratto qualche stronza inutile, lei mi dà il suo ovulo e io faccio crescere mio figlio dentro una sacca di plastica.»

Gironzolo sulla subreddit di MGTOW, la community di nicchia di Men Going Their Own Way. Permettetemi di contestualizzare questo particolare sottoinsieme di maschi eterosessuali che hanno problemi con le donne: gli attivisti per i diritti maschili (MRA, acronimo di Men’s Rights Activists) combattono per cambiare leggi e valori sociali che ritengono spinti dall’odio verso i maschi in modo che uomini e donne possano coesistere su basi diverse; gli incel, i «celibi involontari», vorrebbero coesistere con le donne su una base qualsiasi; quelli di MGTOW hanno deciso di non coesistere affatto con le donne. Sono maschi eterosessuali separatisti. I MGTOW (pronunciato migtau) credono che il mondo sia diventato «ginocentrico», ossia che tenga conto solo del punto di vista femminile, e pertanto ostile agli uomini. Dicono che le donne ricevono tutta l’attenzione sui siti di dating, tutto il malloppo nelle cause di divorzio e tutti i vantaggi quando si tratta di pari opportunità nelle assunzioni, mentre gli uomini sono costretti a subire vessazioni per quanto riguarda gli alimenti destinati ai figli, viene loro negato il diritto di impedire un aborto, sono ingiustamente accusati di violenze sessuali e sotto il costante sospetto in seguito al movimento #MeToo. La risposta dei MGTOW non è cambiare il mondo con la lotta al femminismo, come fanno gli attivisti per i diritti maschili, ma di astenersi completamente da qualsiasi relazione con le donne. I più ascetici tra loro diventano «monaci»: scelgono il celibato e a volte si sottopongono addirittura alla vasectomia per evitare le trappole a loro giudizio insite in una vita contaminata dal contatto femminile. Non si tratta di un movimento ma di una scelta di vita, spiega il loro manuale su mgtow.com. «Esiste nei cuori e nelle menti della prossima generazione di uomini. La maschiosfera rappresenta il Big Bang della caotica rivoluzione maschile che donerà infine un nuovo mondo di libertà a chi ha deciso di essere libero.» Per uomini che definiscono la libertà come libertà di allontanarsi dalle donne, l’ectogenesi è la poetica rivincita per lo sminuimento del ruolo dei maschi e della mascolinità nel XXI secolo. La biosacca ha il potenziale di costituire per la liberazione maschile una chiave analoga a quella che ha rappresentato la pillola contraccettiva per la liberazione femminile del Novecento, da essi tanto deplorata. Non appena esisteranno uteri artificiali e robot del sesso, gli uomini riusciranno a soddisfare i bisogni umani di avere rapporti sessuali e riprodursi senza essere costretti a vivere con le donne. Gli utenti di Reddit possono votare a favore o contro un post: più voti a favore riceve, più in alto appare sulla bacheca, il che incoraggia il fiorire di un genere di retorica particolarmente infiammata. Thread come quello pubblicato il 25 aprile non sono, a tutti gli effetti, dei casi isolati. Se si cerca «uteri artificiali» si troveranno oltre un centinaio di thread solo nel subreddit MGTOW, alcuni dei quali risalenti ai primi giorni della piattaforma. I commenti spaziano dal pietoso

spero che questo diventi realtà. ho quasi 40 anni. voglio DAVVERO avere un bambino. mi piacciono i bambini. ho soldi e tempo. adesso potrei permettermi di allevare un bambino. eppure mentre il mio desiderio di avere un bambino è cresciuto esponenzialmente mano a mano che mi avvicinavo alla mezza età, il mio desiderio di toccare, guardare, scopare o parlare con le donne è sceso quasi a zero. non vedo l’ora che arrivi questa roba. utero artificiale, robot del sesso, porno in realtà virtuale, film e programmi tv sempre disponibili, i MIEI hobby, i miei soldi, sì, meglio tutto questo che dovermi occupare di qualche vacca cicciona. al disturbante

Il nostro sacro dovere è togliere la riproduzione alle donne (non è fantascienza, ma qualcosa di assolutamente fattibile con le conoscenze tecnologiche in nostro possesso) e poi eliminare del tutto le donne, in senso letterale. Non solo relegandole in schiavitù, non solo facendo loro il lavaggio del cervello e inseminandole artificialmente dentro recinti per il bestiame, ma liberarsi di loro una volta per sempre. Sono loro ad avere distrutto le civiltà, sono la malvagità insita nella natura carnale fin dall’origine dei tempi, un cazzo di cancro in forma umana e il solo motivo per cui ce le siamo tenute tra i piedi per tutto questo tempo era il fatto che avessimo fisicamente bisogno di loro per continuare la nostra specie/razza. Quando non serviranno più alla riproduzione, non serviranno più a nulla. Questi uomini ricorrono a iperboli per impressionarsi a vicenda e ottenere più voti favorevoli o i misogini immaginati da Soraya nei suoi più cupi incubi distopici già programmano un futuro senza le donne grazie all’ectogenesi? Do un’occhiata a chi c’è online e sta postando in questo momento. Ecco DT1726. Di recente ha commentato un thread sugli uteri artificiali. «Le bambole del sesso e gli uteri artificiali metteranno di certo le donne al loro posto. Sanno fare solo una cosa: i figli. Le bambole del sesso rimarranno belle per sempre e saranno un investimento molto più sicuro di una donna vera. Gli uteri artificiali renderanno le donne disponibili quanto gli uomini. Saranno la salvezza della nostra civiltà» ha scritto. «Un sacco di donne moriranno, questa è la mia conclusione.» Mi connetto e scelgo uno dei nomi utente generati a caso da Reddit: StreetSetting. Assolutamente neutro per quanto riguarda il genere: non voglio terrorizzare i MGTOW apparendo di punto in bianco come donna. Apro la finestra della chat privata e mando un messaggio a DT1726. «Sono un giornalista» scrivo. «Dici che un utero artificiale potrebbe salvare la nostra civiltà, se messo a punto nel modo giusto. Vorrei approfondire la tua opinione sull’argomento.» Dopo pochi minuti spunta l’icona con i tre puntini. Ecco, DT1726 mi sta rispondendo. «Puoi chiedermi qualsiasi cosa, a parte informazioni personali.» «Che cambiamenti pensi porteranno gli uteri artificiali alla nostra civiltà?» La risposta arriva rapida e dettagliata. «Le donne si sono evolute per sedurre gli uomini in modo da farsi proteggere e accudire. In una società dove le donne sono venute meno al loro ruolo biologico di madri e custodi della casa. Una società dove vanno a letto con chiunque vogliano senza limitazioni. Una società dove le donne ottengono sempre più potere a causa della tecnologia che si aggiunge alle loro capacità riproduttive già migliorate. Si sono autonominate principesse e guardano dall’alto in basso chi ha costruito la civiltà in cui vivono. Quando capiranno di non avere più il monopolio sull’utero, sbatteranno il muso contro la cruda realtà: se non cambieranno atteggiamento saranno messe fuori gioco.» Ecco un misogino di prima categoria, ma che non fa appello al femminicidio generalizzato. Spera solo che gli uteri artificiali metteranno le donne al posto che la «natura» ha riservato loro. «Senza il vantaggio di essere le sole a possedere un utero, le donne hanno modo di farsi prelevare gli ovuli, fecondarli e farli crescere dentro un utero artificiale. Si possono incoraggiare a scegliere questa strada se vogliono proseguire la carriera. Quando ciò accadrà non si nasconderanno più dietro la scusa di essere oppresse e di non riuscire a competere con gli uomini.» A queste parole fa seguire una scarica di link ad alcuni articoli scientifici su come il testosterone aumenti il vigore. E dato che si tratta di un ormone soprattutto maschile, è chiaro che gli uomini riescono in meglio in tutto. Le donne capiranno che è inutile provarci, perciò torneranno senza discutere al loro posto, in casa. Le stronzate della pseudopsicologia evolutiva attecchiscono bene nei gruppi MGTOW. Mi chiedo se quando Charles Darwin salpò a bordo del Beagle immaginasse che le sue teorie avrebbero fatto questa fine. «Nel tuo post sugli uteri artificiali dici che se le donne non saranno più necessarie a fare bambini, moriranno una dopo l’altra» digito. «È un obiettivo auspicabile?» «Quando si parla della sopravvivenza del più adatto nella società umana occorre occuparsi del problema degli stupidi, dei mentalmente disturbati o di coloro che nascono con malattie congenite. La società continua a tenerli in vita. Noi non siamo così crudeli.» «Le donne resteranno in vita, ma saranno altrettanto utili alla società quanto i mentalmente disturbati o coloro che nascono con malattie congenite?» «Di certo le donne valgono più dei malati di mente o dei disabili» concede lui. «Le donne sono solo più “nella media” degli uomini.» «Credi che gli uteri artificiali daranno agli uomini la possibilità di scegliere di non avere alcun contatto con le donne?» scrivo. «Pensi che molti prenderanno questa decisione?» «Probabilmente, anche se è difficile andare contro gli istinti naturali. Non molti uomini possono diventare “monaci”, senza alcun contatto con le donne. Se avremo robot del sesso e intelligenze artificiali realistiche, allora, sarà molto probabile che in tanti lo divengano.» Ma DT1726 non è interessato a una combinazione tra un robot del sesso e un utero artificiale. «Sono già diventato un monaco» spiega. «Da quanto?» «Un anno. Se conti il tempo prima che sapessi di MGTOW, forse quindici anni.» «Perché hai preso questa decisione?» «Finché un uomo è schiavo del desiderio non sarà mai libero. Di certo è più vantaggioso avere una donna artificiale che si può controllare. Io comunque non la toccherei. Nulla indebolisce gli uomini quanto la vita comoda.» Mi accorgo che probabilmente la sua lingua madre non è l’inglese. Gli chiedo di dirmi quanto è disposto a rivelarmi sul suo conto, e lui risponde che è vietnamita, lavora nell’informatica e ha ventotto anni. Se è monaco da quindici anni, significa che è ancora vergine. A meno che prima di tredici anni gli sia successo qualcosa di terribile. «Pensi che la gente nei thread esprima più spesso commenti estremi che non nella vita vera?» chiedo. «Alcuni di loro sì, soprattutto i nuovi arrivati. Quelli che sono rimasti scottati.» «È questo che porta qui quasi tutti, l’esperienza personale di essere “rimasti scottati”?» «Sì, purtroppo.» Questa potrebbe essere una descrizione precisa di smithe8, il tizio con cui entro in contatto subito dopo (smithe8 non è il suo username, ma lo pseudonimo che mi chiede di usare). È un ventiseienne di Chicago, studente in Medicina, solo da due mesi su Reddit. Il primo post che ha pubblicato parlava di come «una falsa e assurda accusa di molestia sessuale in clima #MeToo» gli abbia rovinato la vita. «Ora sono entrato in una paranoia totale che mi rende quasi impossibile rivolgere la parola a donne che non siano mie parenti» ha scritto poi. È l’autore del commento più votato di stasera sul thread relativo agli uteri artificiali. Alcune ore fa ha postato: «Le donne sono obsolete, finalmente. È indispensabile, considerando come le femmine odino la mascolinità al giorno d’oggi». «Ci sono molti uomini che vorrebbero diventare padri ma non vogliono essere costretti a dividere la vita con una donna?» digito nella chat privata. Mi risponde all’istante. «Per ogni spocchiosa femminista che considera gli uomini “maiali” c’è un uomo solo che adorerebbe avere un bambino ma non può, perché nessun uomo sano di mente vorrebbe uscire con una femminista (se hai le idee confuse, si scrive “femminista” ma si legge “misandrica”). Spoiler: quell’uomo finirà per ricorrere alla tecnologia dell’utero artificiale.» «Quell’uomo solo non potrebbe uscire con una che non sia femminista?» «Se è così, è già impegnata. Oggi le donne normali vanno a ruba.» «Non ci sono abbastanza donne “normali” in circolazione?» «No.» Forse ha scoperto in qualche modo che sono una donna, oppure s’imbarazza quando gli chiedo di spiegarmi che cosa abbia scritto. Fatto sta che sembra che le cose cambino. «Nel tuo post hai scritto: “Le donne sono obsolete, finalmente”. Io dico: “È questo che vuoi?”» «Assolutamente no LOL» risponde. «Sinceramente faccio shitposting solo per radicalizzare chi visita il thread e convincere sempre più uomini a entrare in MGTOW. Più MGTOW ci sono, meno concorrenti ho :)» «Se non sei MGTOW, come mai stai postando?» «Spero di allargare il gruppo» risponde. «Sotto molti video di YouTube si trova un commento MGTOW che sbuca dal nulla. I miei amici maschi ne discutono in continuazione. Ci sono adesivi MGTOW addirittura nella toilette di Pizza Hut dietro l’angolo. Ha il potenziale di attrarre milioni di membri. È in corso una specie di strano fight club, e io lascio che gli altri si scazzottino mentre mi accaparro una moglie strafiga. Meno competizione.» C’è qualcosa di così disperatamente triste in questo leone da tastiera che cerca di radicalizzare i colleghi «scottati» per indurli a rifiutare in blocco le donne al fine di accrescere le sue possibilità di scopare. Il suo commento «Le donne sono obsolete» è stato postato poche ore fa e ha già ottenuto duecentocinquanta voti favorevoli. Mi piacerebbe credere che vengano tutti da uomini come lui, che si atteggiano, bluffano, non ci credono davvero. Ma come i cecchini incel hanno dimostrato, basta che solo un paio di persone prendano sul serio questi commenti perché tetre conseguenze si manifestino nel mondo reale. «Grazie per aver risposto alle mie domande» digito mentre mi disconnetto. «Figurati, amico/amica» mi scrive. I MGTOW forse non credono a tutto quel che dicono quando pubblicano post sul loro desiderio di «eliminare completamente le donne, in senso letterale», ma nel farlo mostrano un’eloquenza inquietante, anche se l’inglese è la loro seconda lingua. Non sono coglioni decerebrati che picchiano sulla tastiera con un dito solo, ma persone istruite, che hanno molto riflettuto sulla questione, che divorano pubblicazioni scientifiche e notiziari con cui alimentare la propria visione distorta dell’umanità. Sono quelli che un giorno potrebbero diventare medici, avvocati o legislatori. Nelle loro mani potranno ricadere le decisioni sugli uteri artificiali e chi avrà il diritto di usarli. Gli uteri artificiali saranno una nuova tecnologia dall’incredibile potere. Come si manifesterà quel potere dipende in gran parte da chi sta richiedendo quella tecnologia e chi la sta realizzando, da chi la indirizza e chi la finanzia. L’ectogenesi libererà le donne dall’incertezza, dal dolore e dalla condizione vulnerabile che accompagnano la gravidanza e il parto e che possono essere un grosso fardello quando le donne vivono, lavorano e competono con uomini che invece non dovranno mai sobbarcarsi niente di tutto questo. L’uguaglianza, però, nascerà dalla rinuncia da parte delle donne a un potere fondamentale, nell’unico campo dove gli uomini hanno sempre avuto un ruolo subordinato. Gli uteri artificiali potranno avvantaggiare di gran lunga più gli uomini che le donne. Più di qualsiasi altra tecnologia che io abbia preso in esame, l’ectogenesi rivela il divario tra un mondo ideale e il mondo reale. In un mondo perfetto, rappresenterebbe una liberazione per le donne e una possibilità di salvezza per i bambini più vulnerabili. Nel mondo reale, le donne vengono giudicate e private dei loro diritti, perseguite, sterilizzate e disprezzate da uomini furibondi e sempre più radicalizzati. Quando la fecondazione artificiale diverrà una pratica diffusa, la ricerca sulle cure per i problemi di fertilità come l’ostruzione delle tube di Falloppio si fermerà quasi del tutto. Perché darsi tanto disturbo, se si può aggirare l’ostacolo con la riproduzione assistita? Allo stesso modo, l’ectogenesi renderà ancora più difficile giustificare la ricerca che permetta alle donne di restare incinte e partorire senza venire tagliate, sondate e lacerate. E ci saranno anche meno ragioni per risolvere i problemi sociali che ostacolano le gravidanze. A che serve, se abbiamo già la soluzione? Le donne guadagnano molto più di quanto non perdano dal fatto di portare in grembo i nostri figli. Guadagniamo la vicinanza immediata, l’intimità che Juno desidera tanto. Guadagniamo il potere creativo dell’essere madri, la consapevolezza che i nostri figli siano sicuramente nostri, il diritto di scegliere se diventare genitore, prima di tutto. Un utero ci rende vulnerabili, ma al tempo stesso ci conferisce un grande potere. Come può la libertà di avere bambini senza restare incinta valere tanto da sacrificare uno qualsiasi di questi vantaggi? L’ectogenesi completa non esisterà per decenni, ma gli uteri artificiali stanno arrivando. Abbiamo ancora tempo per provare ad assicurarci che, quando saranno disponibili, avverrà in una società che apprezzi le donne non solo per la loro capacità riproduttiva, e che vengano utilizzati a vantaggio delle persone che non possono restare incinte per motivi biologici anziché etici. Abbiamo ancora tempo. Ma forse non basta. PARTE QUARTA Il futuro della morte Decesso espresso 13. Morte fai da te

Lesley Basset è nervosa, ma cerca di camuffarlo dietro un sorriso cordiale. Le persone che affluiscono nella sala riunioni del Covent Garden presa in affitto sembrano avere tutte più di sessant’anni: gli uomini in giacca e cravatta, le donne in cardigan pastello e graziose sciarpette. Distinti come sono, li si potrebbe scambiare per i membri di un club del bridge o per il pubblico di uno spettacolo di musica classica, e invece hanno pagato il biglietto d’ingresso perché vogliono imparare a uccidersi. Si appuntano al petto un badge di plastica con il loro nome e prendono posto nella speranza che Lesley glielo insegni. Lesley è la nuova coordinatrice della sezione inglese di , il gruppo di base per l’eutanasia volontaria al cui confronto Dignitas1 appare un movimento moderato e conservatore. Mentre altre organizzazioni per il diritto a morire promuovono campagne perché i malati terminali possano decidere quando porre fine alla loro vita, Exit sostiene che chiunque in possesso delle proprie facoltà mentali abbia il diritto a uscire di scena in modo pacifico, dove e quando lo desideri, senza bisogno di un permesso da un medico o dallo stato. È ciò che il dottore australiano , fondatore e direttore di Exit, definisce «suicidio razionale». Nata in Australia nel 1997, Exit ha sezioni in Canada, Stati Uniti e Nuova Zelanda, cui si è aggiunta di recente questa nel Regno Unito. Non occorre essere malati e nemmeno anziani per farne parte: ufficialmente si rivolge agli over cinquanta, ma persone più giovani possono essere accolte previa valutazione dei singoli casi. Dietro pagamento di una quota, i membri ricevono informazioni, consigli e anche materiale utile a mettere fine alla loro vita. Tanti sono gli iscritti inglesi che Exit un paio di mesi fa ha contattato Lesley per aprire l’ufficio del Regno Unito. So che Lesley preferirebbe che io non fossi qui oggi – mi è stato permesso di entrare solo perché Philip le ha detto che doveva farlo – perciò provo a starmene alla larga. Una volontaria con una vaporosa nube di capelli bianchi passa a offrire tè, biscotti e moduli per comunicare suggerimenti in vista dei prossimi meeting. Mi dice di avere settantaquattro anni e di aver lavorato come infermiera. «Exit e la Voluntary Society non vanno d’accordo» spiega mentre mi versa il tè. « non approva il modo di procedere di Philip: vogliono agire all’interno del sistema legislativo inglese, chiedono una riforma giudiziaria. E poi ci sono quelli di Fate (Friends at the End), che accompagnano le persone da Dignitas. Nemmeno a loro va a genio Philip.» Sembra di assistere alle beghe delle fazioni del Fronte Popolare di Giudea in Brian di Nazareth. Sono arrivata con tre quarti d’ora d’anticipo e già cinquanta sedie pieghevoli sono occupate. Nessuno sa dirmi per certo quanti siano i membri inglesi, ma la direzione di Exit stima che si aggirino intorno al migliaio, e ogni volta che Philip viene nel Regno Unito per tenere i suoi workshop sul suicidio almeno duecento spettatori pagano per vederlo. Oggi Philip è dall’altra parte del mondo, ma è di gran lunga il protagonista della serata. Un tavolo poggiato sopra dei cavalletti espone libri tutti scritti da Philip. La sua autobiografia, Damned if I Do (25 sterline); il suo esordio, un trattato filosofico intitolato Killing Me Softly (22 sterline); The Peaceful Pill Handbook, la guida pratica ai diversi metodi di suicidio (20 sterline), anche se Exit suggerisce di sottoscrivere un abbonamento biennale all’eHandbook, la versione online regolarmente aggiornata, per 67,50 sterline. È possibile compilare un modulo verde per ordinare l’azoto venduto da una società di Philip, ingrediente chiave di uno dei metodi consigliati. Ogni fusto costa 465 sterline. Da aggiungere alla quota di associazione, che parte da 62 sterline all’anno. Le persone nel pubblico, tuttavia, sembrano potersi permettere queste somme. Si tratta di un gruppo notevolmente omogeneo: bianchi, classe media, maschi e femmine in pari numero. Sono quelli che Philip definisce «baby boomer abituati a ottenere quello che vogliono»: professionisti in pensione, istruiti e indipendenti, animati, energici e timorosi di ciò che potrebbe significare per loro il prolungamento di vita permesso dalla medicina moderna. Alcuni compilano già i moduli per ordinare l’azoto. Mi siedo alla fine della prima fila. La sala riunioni somiglia a una scuola di ballo, lunga e stretta, con un grande specchio sul fondo. La gente cerca di evitare di osservarsi riflessa mentre aspetta che Lesley inizi. Lesley è una riluttante maestra di cerimonie. Indossa un vecchio paio di Converse, una camicia a scacchi viola e occhiali. Ha sessantaquattro anni, è madre e nonna, e fino a due mesi fa si guadagnava da vivere disegnando utensili per la decorazione di dolci. Il suo sito è pieno di video ipnotizzanti che la riprendono mentre adorna con file perfette di perle di glassa gli strati di una torta nuziale ricoperta di zucchero fondente. Quando ha accettato l’incarico per Exit le era stato detto che avrebbe dovuto rispondere al telefono per cinque ore alla settimana, ma gli interessati non smettevano mai di chiamare, perciò si è trasformato presto in quattro giorni di lavoro. In pratica, lavora sette giorni su sette e ha lasciato da parte le torte. Si è stampata dal computer di casa un dépliant con la scaletta per la discussione di oggi. È decorata con vignette che raffigurano un uomo con il caschetto protettivo che trascina un fusto verde contenente gas, un jack russell con gli occhiali da sole e un bicchiere di Martini nella zampa e quattro pillole multicolori dotate di braccia e gambe che ballano tenendosi per mano. Quando Lesley sale sul palco è chiaro che la sua scaletta non interessa a nessuno. Si alzano un sacco di mani, e quello che tutti vogliono sapere è dove acquistare il Nembutal, nome commerciale del pentobarbital, il barbiturico che in questi circoli ha raggiunto un’aura quasi mitica. Nella stragrande maggioranza, ogni metodo immaginabile per suicidarsi è doloroso o inaffidabile o indecoroso o troppo lungo oppure rischia di mettere in pericolo astanti innocenti. Solo il Nembutal si avvicina a realizzare la fantasia di fare «addormentare» qualcuno. È la soluzione che i pazienti assumono nel centro Dignitas, l’overdose che ha ucciso Marilyn Monroe, l’iniezione con cui sopprimono il vostro cane e la sostanza un tempo adottata per le esecuzioni nel braccio della morte negli Stati Uniti fin quando Lundbeck, la società farmaceutica danese che la produce, ha cessato di rifornire le prigioni americane nel 2011. Ormai non occorre fare molta strada per trovare grandi quantità di Nembutal, presente in qualsiasi studio veterinario, ma si tratta di una sostanza controllata, che per un privato è illegale comprare e possedere in quasi tutti i paesi del mondo. Se si è sorpresi ad acquistarlo si rischia di finire in carcere, e ogni anno persone che fino a quel momento non hanno mai infranto la legge in vita loro vengono arrestate per il possesso di Nembutal. Nell’aprile 2016, la polizia del Devon ha fatto irruzione nel cottage dell’ottantunenne Avril Henry, accademica in pensione e iscritta a Exit, dopo una soffiata dell’Interpol. Hanno confiscato quella che credevano fosse la sua scorta nascosta di Nembutal, ma ne hanno trovata solo metà. Avril ha bevuto il resto un paio d’anni dopo, temendo che potessero tornare e portarle via anche quello, morendo prima di quanto avesse intenzione. Un anno fa, Lesley ha dato un bicchiere di Nembutal alla sua migliore amica, sofferente di sclerosi multipla da ventisette anni, e ha vegliato su di lei mentre moriva. «Avevamo un piano A e un piano B» dice Lesley al pubblico. «Non l’avrei abbandonata. So che mi sarebbe eternamente grata, e di certo lo sono io per aver incontrato Philip ed Exit.» Il piano A ha funzionato, ma non è stato facile. Lungi dall’essere l’elisir della morte perfetta, il Nembutal ha agito in modo più lento e macabro di quanto Lesley sperasse. Non scende nei dettagli, ma a quanto pare non è stata una maniera gradevole di andarsene. E la vita di Lesley è stata sconvolta dopo aver assistito alla morte dell’amica. «Non è un’esperienza che consiglio» si limita a dire. «Vi suggerirei di farlo da voi.» In teoria, si può ordinare il Nembutal da qualsiasi veterinario compiacente di America Latina, Cina e Sudest asiatico che non faccia domande, e The Peaceful Pill eHandbook tiene aggiornati i membri sulle nazioni al momento più promettenti. Provo a immaginarmi le signore e i signori qui presenti che acquistano bitcoin e si avventurano nel dark web, ma non ci riesco. Comunque in molti ci hanno provato. Quando una donna con una pashmina rosa racconta dei problemi avuti con alcuni fornitori prima disponibili, si alza un sonoro mormorio di assenso. Sembra che i canali affidabili si stiano esaurendo. Il Nembutal non è la soluzione che ci si aspettava. Quindi Lesley parla del piano B: l’Exit Bag. Vi risparmierò i particolari di cosa sia esattamente, limitandomi a dire che viene realizzata con componenti del tutto legali – un sacchetto di plastica, dei tubi, un fusto di azoto e poco altro – e che fa accapponare la pelle. Alle spalle di Lesley c’è uno dei fusti di azoto compresso da 465 sterline, grigio con un rombo verde. Lo produce Max Dog, un’azienda fondata da Philip apparentemente per fornire gas a chi desidera preparare la birra in casa, anche se una nota legale sul sito di Max Dog avvisa che i suoi prodotti sono venduti esclusivamente agli ultracinquantenni cui non siano mai stati diagnosticati disturbi mentali. I regolatori che permettono ai clienti di controllare il flusso del gas dal fusto sono da acquistare separatamente: Max Dog li fa pagare 325 sterline l’uno. «Se compilo il modulo mi viene consegnato tutto?» chiede un uomo con gli occhiali legati a una cordicella intorno al collo. «No» risponde Lesley con prudenza. «Tutte le componenti vanno acquistate separatamente e tocca al cliente assemblarle.» Sa molto bene che Exit non può fornire alle persone un kit per il suicidio bell’e pronto, ma così sembra che occorra una laurea in Chimica per metterlo insieme. «È possibile trovare qualcosa di più economico altrove?» chiede un altro signore, osservando i prezzi sul dépliant verde. «Certo, se si vuole staccare la spina a Exit» risponde freddamente Lesley. «Chiunque può comprare i componenti nel Regno Unito, ma se non sosteniamo Exit, rischia di fallire. Con Max Dog non avete bisogno di inventarvi una copertura.» Diverse teste annuiscono. Lesley fa circolare tra il pubblico alcuni pezzi del kit in modo che la gente ci giochi. È tutto molto buffo. Valutano il peso del regolatore di metallo. Un tizio passa un segmento di tubo flaccido alla donna alle sue spalle e i due si scambiano una risatina imbarazzata. Mentre li osservo prendere confidenza con i componenti dell’attrezzatura per il suicidio, tutto ciò che mi viene in mente è: «Siamo davvero arrivati a questo punto?». Le persone desiderano così disperatamente avere il controllo sulla loro morte da essere disposte a morire e a essere ritrovate fredde e sole, con la testa ficcata dentro un sacchetto? Come si può considerare un «buon modo» per morire, un modo «migliore» per andarsene? L’opzione alternativa – il Nembutal – porta persone che non si sono mai sognate di avvicinarsi a sostanze illegali a diventare trafficanti di droga, a sganciare centinaia di sterline nell’etere nella speranza che tutto quanto ricevano, sempre che arrivi, sia davvero ciò che dovrebbe essere, e che in questo caso l’Interpol non sfondi loro la porta. Come può il desiderio di una «buona» morte avere condotto a queste strategie? I cittadini britannici non hanno il diritto a morire. Per il diritto consuetudinario inglese la «morte autoinflitta» è un crimine dalla metà del XIII secolo, e il suicidio ha cessato di essere un reato solo nel 1961. Aiutare un’altra persona a porre fine alla sua vita resta un crimine che comporta una pena massima di quattordici anni di carcere. Nel 2015 il Parlamento ha respinto a schiacciante maggioranza un disegno di legge che avrebbe permesso a chi fossero stati diagnosticati meno di sei mesi di vita di essere aiutato a morire con l’assistenza di due medici, anche se i sondaggi mostravano che l’84 per cento della popolazione desiderava poter esercitare questo diritto.2 In tutto il mondo, però, la legge sta riconoscendo il diritto a morire attraverso l’eutanasia volontaria (terminare la vita di qualcuno che ne abbia fatto richiesta per porre fine alle sue sofferenze), la morte assistita (aiutare qualcuno destinato a morire entro pochi mesi a concludere la sua vita, sempre dietro richiesta) o il suicidio assistito (fornire a qualcuno i mezzi per togliersi la vita). La Svizzera permette il suicidio fin dal 1942, e circa trecentocinquanta cittadini britannici si sono recati alla clinica di Dignitas, a Zurigo, per morire. L’eutanasia è legale nei Paesi Bassi dal 2001, in Belgio dal 2002 e in Lussemburgo dal 2008, e si estende ai casi di «insopportabili» sofferenze mentali non meno che fisiche, il che significa che gli alcolizzati e i gravemente depressi possono essere aiutati legalmente a morire (circa il 4 per cento dei decessi nei Paesi Bassi3 avviene per eutanasia). Nell’America del Nord, la morte assistita è diventata legale negli stati di Oregon (1997), Washington (2008), California (2016) e Canada (2016). In un’epoca in cui vivere più a lungo non significa necessariamente vivere meglio, con la prospettiva di una terza età dove sarà sempre più probabile soffrire di patologie croniche, dolorose e debilitanti, di demenza, di mancanza d’indipendenza e di dignità, si potrebbe credere che negli stati più ricchi ci sia una forte richiesta del diritto a morire, con un effetto domino che prima o poi porterà l’eutanasia a imporsi dovunque. Dovunque sia legale, però, il diritto a morire dipende dall’approvazione di medici e psichiatri. Conferisce più potere che mai alla professione medica in un’età in cui – basti pensare al cambiamento climatico, alle vaccinazioni, alla Brexit – la gente comune rifiuta sempre più l’autorità degli esperti e se ne allontana. Perché affidarsi al parere di tizi titolati, quando si può trovare tutto ciò che serve su internet? Le persone non si associano a Exit per il diritto a morire, ma per cercare il controllo totale sulla loro morte. Davanti alle incertezze del loro futuro da anziani, non vogliono abdicare a nessuno la propria capacità di autodeterminazione. Philip Nitschke è il solo medico disposto a consentire loro quel controllo. Non richiede esami clinici né diagnosi di malattia terminale. Bastano un documento che comprovi l’età e una carta di credito. L’incontro inaugurale della sezione inglese di Exit termina dopo un paio d’ore, ma a molti dei membri non basta. Si parla di tenere un meeting della durata di un giorno intero, la prossima volta. «Potremmo portarci il pranzo» suggerisce qualcuno. Alla fine Lesley viene applaudita. È evidentemente sollevata che sia finito tutto: adesso sorride calorosamente e mi ringrazia per essere venuta. Mi si raccoglie intorno un capannello di iscritti a Exit, desiderosi di condividere le esperienze che li hanno condotti qui. Anne è un’accademica in pensione: soffre di artrite, ma a parte questo sta bene. «Ho avuto una vita lunga e piena, tra un paio di mesi compio settantacinque anni» mi dice. «Un po’ per volta, vengo esclusa dal mondo – non posso fare questo, non posso fare quello – e colgo questa traiettoria nella mia vita: diverrò sempre più un fastidio per tutti, e ci saranno sempre più visite in ospedale, sempre più dolore e situazioni spiacevoli.» «Ha qualche esperienza con le armi da fuoco?» mi chiede un uomo di nome Brian. È un poliziotto in pensione, americano di origini irlandesi, e ha ottant’anni, anche se ne dimostra quasi venti di meno. «Circa quarant’anni fa c’era un ragazzo che lavorava in polizia… Si è messo la pistola in bocca e ha sparato, ma è ancora vivo e sta sulla sedia a rotelle.» Rabbrividisce. Le pistole non sono la soluzione per chi cerca la morte perfetta. Ma non credo che lo siano nemmeno i sacchetti di plastica e le sostanze sotto controllo. Christopher, un architetto settantenne in pensione, si augura di riuscire a mettere le mani sul Nembutal. «Spero sempre di incontrare qualcuno che mi dica: “Buone notizie, lo trovi da Lidl”. Oppure di ricevere un bel pacco regalo da Waitrose. Non succede mai» dice imperturbabile. Quando la speranza di vita era più bassa e la mortalità infantile più alta, la morte faceva parte della vita; ce la trovavamo davanti fin troppo spesso. Nel 1945 si moriva quasi sempre in casa, nel 1980 ciò avveniva solo nel 17 per cento dei decessi.4 Oggi possiamo aspettarci di vivere senza avere, o quasi, l’esperienza della morte, fino a raggiungere l’età in cui sarà lei a incombere su di noi. È più spaventosa che mai, e ciò spalanca un enorme mercato per chiunque sia in grado di promettere una morte indolore, dignitosa e sotto il nostro controllo. A patto che davvero possa permettersela.

In questo momento è difficile contattare Philip: è impegnato in un processo in Australia per cercare di riottenere la sua licenza medica. Il Medical Board of Australia ha ricorso ai propri poteri straordinari per sospenderlo dopo che Nigel Brayley, un partecipante a uno dei suoi workshop a Perth, gli ha chiesto consigli via email. All’epoca Philip era all’oscuro che Brayley si trovasse sotto indagine per il possibile assassinio dell’ex moglie e la scomparsa dell’attuale fidanzata. Si è ucciso con del Nembutal procurato in Cina prima che le accuse gli venissero mosse formalmente. Ogni tanto, Philip finisce sui giornali per una ragione o un’altra. Una volta ha chiesto che ai condannati all’ergastolo ostativo venisse concessa la possibilità di uccidersi.5 Qualche anno fa ha annunciato di voler varare una «nave della morte» su cui le persone sarebbero salite a bordo per essere condotte in acque internazionali, dove avrebbero potuto essere sottoposte a eutanasia al riparo da ogni giurisdizione legale. Clamore a parte, non se n’è fatto nulla. Sono state storie del genere a fargli guadagnare il nomignolo di «dottor Morte». Il gruppo antieutanasia Care Not Killing lo ha descritto come «un estremista a caccia di pubblicità». , un’associazione inglese che raggruppa disabili che si oppongono al diritto a morire, lo accusa «non solo di giocare con le emozioni della gente, ma anche di specularci sopra». Dignity in Dying, che promuove campagne a favore della morte assistita, considera «irresponsabili e potenzialmente pericolosi» i workshop di Philip. Quest’ultimo ha sempre abbracciato la notorietà, ma la storia di Brayley potrebbe essere una controversia troppo grande persino per lui. Anche prima di perdere la licenza, Philip aveva praticamente smesso di curare i pazienti nel suo studio di medico generico – da anni è troppo occupato con Exit – ma gli occorre riaverla. Come può essere il dottor Morte se non è un dottore? Mentre cerco di fissare un appuntamento con Philip, ricevo messaggi da parte di David. Un sacco di messaggi. David mi ha avvicinato mentre me ne stavo andando dal meeting di Exit e mi ha chiesto il numero di telefono perché non voleva parlarmi davanti a tutti. David non è il suo vero nome. Non vuole che i suoi tre figli sappiano cosa intende mettere in atto con l’aiuto di Exit. Nessuno tra amici e familiari ne è al corrente. Ha bisogno di parlarne con qualcuno. «È stato un viaggio in solitaria» mi dice. Ha cinquantacinque anni, è separato e vive nel Berkshire. Ha lavorato all’estero per un decennio ma è rientrato nel Regno Unito di recente, dopo aver cominciato a soffrire di disturbi digestivi cronici per cui nessuno ha trovato una diagnosi. Non sembra una malattia mortale, ma lo debilita al punto da impedirgli di lavorare. «Diverse volte mi sono detto: “Non sarebbe facile” – no, non facile, non è la parola giusta. Perché preoccuparsi di andare avanti se le cose non funzionano?» mi dice al telefono. «Credo che tutto sia una scelta, e considero una scelta anche che in un certo momento della vita si possa dire: “Mmm, non voglio più giocare, penso che passerò oltre”. Così ho cominciato a interessarmi molto al metodo per farlo.» Grazie a Google è arrivato a Exit. «La prima volta che ho sentito del sacchetto, sono rimasto letteralmente inorridito» dice «ma dopo aver fatto qualche ricerca in più, mi sembra il metodo più semplice e diretto.» S’inala l’azoto, spiega, «non si soffoca né niente del genere»: si perdono semplicemente i sensi e nel giro di un paio di minuti si muore. Con un sacchetto sulla testa. Il Nembutal non fa per lui perché non gli va a genio l’idea di dover prima bere un farmaco antiemetico per impedire di vomitare e non vuole fare affidamento sui rifornitori cinesi che al momento monopolizzano il mercato. «Ho problemi a fidarmi della Cina, non sai che cosa ti arriva» dice. «Exit vende un kit per testare la purezza del Nembutal, ma è caro. Devo dirlo, qualunque cosa si compri con Exit – e forse è giusto così, perché avranno le loro spese – è dannatamente cara.» Ha scoperto che ci si può portare a casa quasi tutti i componenti del kit per il suicidio per una piccola parte di quanto chiede Exit. «Non lo dico per criticare. È un business, da qualsiasi parte lo si guardi, ma non penso nemmeno per un secondo che sfruttino la gente per guadagnarci. Immagino che se si vuole essere serviti su un piatto d’argento, se si vuole il regalo di Natale bell’e confezionato, occorra pagare.» È strano il riferimento di David al Natale. Con un’iniziativa di marketing dal gusto discutibile, Exit ha da poco lanciato un’offerta per il Black Friday proponendo sei mesi gratis per i nuovi abbonati all’eHandbook. Mi sono iscritta alla loro mailing list da quando ho preso contatti con la sede centrale di Exit, e a intervalli di alcune settimane ricevo un’email con offerte o racconti ammonitori di chi ha fatto di testa sua e ha comprato roba da rivenditori non autorizzati da Philip. «Lo abbiamo già detto e lo ripetiamo. In rete i truffatori col Nembutal sono OVUNQUE!» dice un’email. «Se cercate di comprare Nembutal su internet, avete il 99,9 per cento di probabilità che vi freghino i soldi. Potreste finire minacciati e persino ricattati. The Peaceful Pill eHandbook è l’unico libro che vi tiene continuamente monitorati su ciò che accade online.» In questo viaggio nel grande ignoto, solo i prodotti controllati da Philip vengono approvati come sicuri e affidabili. A detta di David, però, vale la pena pagare per l’approvazione di Philip. «Considero Philip Nitschke un personaggio fuori dal comune. Subisce una pressione tremenda e non so che cosa lo spinga, ma più so sul suo conto, meno lo biasimo.» S’interrompe. «È davvero fantastico che possa parlarne finalmente con qualcuno. Lo apprezzo molto.» Finalmente colgo del sollievo nella sua voce. Finora, David mi è sembrato pieno di disperazione. «Lei non conosce la causa della sua malattia, perciò non sa se si tratta di una malattia terminale» dico. «Davvero vuole dedicarsi fin d’ora a tutti questi preparativi?» «A essere onesto, che si tratti di una malattia terminale o no, ci sono stati giorni in cui, a prescindere dalle mie condizioni di salute, sarei stato felice di dire: “È ora di fare i bagagli e togliere il disturbo”.» «Però ci sono anche giorni in cui non si sente così.» «Sì, certo.» «Se lei si tenesse in casa questo kit, ci rifletterebbe a lungo prima di usarlo o ha già preso la sua decisione?» «Non potrei farlo subito, perché non ho ancora chiarito la cosa con i ragazzi» dice. «In un certo senso, a me serve quella conversazione.» David ha più bisogno di parlare con i suoi cari e con i medici che lo hanno in cura che con Exit e con me. È molto più probabile che trovi le risposte di cui è in cerca tra amici e familiari anziché in un sacchetto di plastica. Ma questa è l’unica soluzione che gli viene offerta al momento.

Un paio di settimane dopo m’incontro con Lesley nell’ufficio inglese di Exit, una stanza in una zona industriale non lontana da casa sua, nel Kent, tra capannoni in lamiera ondulata sul fiume Medway. Qui è dove Lesley ha la sua attività di decoratrice di dolci, ma non trovo il radioso mondo zuccherino che mi aspettavo. Ci sediamo a un tavolo ingombro di utensili per pasticceria e manuali per il suicidio. Mi descrive una sua giornata tipo. «Come prima cosa al mattino, quando sono ancora in pigiama, apro il computer perché in Australia sono già al lavoro da qualche ora. Poi controllo i messaggi in segreteria. Ne arrivano anche sette, otto al giorno. So che non sembrano molti, ma le telefonate di risposta possono essere lunghe e complesse.» Tra quelli che chiamano, dice, sono due le categorie più difficili. «I giovani depressi. Si capisce che sono depressi e si capisce che non hanno cinquanta, sessanta, settant’anni. Rispondiamo con un no assoluto. Non possiamo.» Chiude gli occhi. «Dico le solite stupidaggini: “Hai parlato al tuo medico generico? Hai contattato uno psicologo?”. Non vogliono starmi a sentire, eppure devo dirglielo comunque. In genere mi rispondono così: “Non possono aiutarmi. Mi aiuti a trovare il Nembutal”. E io non posso.» Fa una smorfia. «Non posso. E allora mettono giù e combinano qualcosa di peggio.» Poi c’è chi chiama per conto terzi: persone che vogliono aiutarne altre a suicidarsi. «Dobbiamo dire: “Non ci è permesso incoraggiarla ad agire in questo modo”» mormora Lesley. «È davvero dura. A volte le situazioni in cui si trovano le persone somigliano alla mia storia, e potrei dir loro qualcosa per aiutarle. Lo vorrei tanto, ma non posso.» La sua storia inizia nel 1994, prima di entrare nel settore della decorazione dolciaria, quando lavorava in ambito finanziario per una donna di nome Sylvia Alper. Cinque anni più giovane di lei, era già il capo del suo capo, «proprio una donna in carriera, una con le palle.» Lesley aveva già rotto con il suo compagno storico. «Avevo superato la fase più dura e ho cominciato a pensare: “Niente male. Puoi fare un sacco di cose quando sei sola”. Sylvia stava passando un periodo terribile con il marito e poteva capire che c’era un’altra vita.» Quando Sylvia divorziò divennero grandissime amiche, andarono al cinema e a teatro, viaggiarono insieme. «Abbiamo girato tutta l’Europa. Ci guardavamo intorno, poi ci scambiavamo un’occhiata e pensavamo: “Ma quanto siamo fortunate a essere qui?”. Assaporavamo qualunque cosa facessimo.» Mi mostra una fotografia di fine anni novanta dove loro due sono su una gondola a Venezia. Sylvia ha una cascata di riccioli biondo rame, Lesley porta i capelli rasati come adesso. Ampi sorrisi rischiarano i loro volti. «Non avrebbe dovuto funzionare, perché eravamo caratteri così diversi, eppure c’intendevamo alla perfezione» ricorda con gli occhi lucidi. «Ci completavamo.» Dall’inizio della loro amicizia, Lesley era al corrente che Sylvia soffriva di sclerosi multipla. Sylvia non voleva che il resto dell’ufficio lo sapesse per timore che ciò potesse compromettere le sue chance di una promozione, perciò Lesley se lo tenne per sé. «Se avesse perso l’uso di una gamba o di un occhio o di qualsiasi altra parte del corpo e fosse rimasta a casa, io avrei capito di che cosa si trattava e sarei andata a trovarla. Ma nelle fasi iniziali della malattia ci passi sopra: ci vedi ancora, hai ancora le gambe.» Entrambe si trovarono dei nuovi compagni, Sylvia si trasferì a Eastbourne e si videro di meno, pur tenendosi in contatto per telefono. Poi Sylvia smise di migliorare. La migliore amica di Lesley, orgogliosa della propria autonomia, fu costretta sulla sedia a rotelle, bisognosa di assistenza ventiquattr’ore al giorno. Sylvia aveva sempre detto che quando sarebbe arrivato il momento avrebbe voluto andare da Dignitas. «Mi ha telefonato per invitarmi a pranzo. Aveva qualcosa di importante di cui parlarmi. Presagivo di che si trattava. È stato allora che mi ha detto che voleva che io raccogliessi informazioni. Mi sembrava di essere tornata al lavoro, con lei che mi affidava un progetto, io che prendevo appunti e dicevo: “Okay, ci penso io”. Mi sono messa all’opera e ho svolto l’incarico.» Presto, però, rinunciarono all’idea di Dignitas. «Ormai doveva essere trasportata dalla sedia al letto e dal letto alla sedia a rotelle. Soffriva di doppia incontinenza. Non era proprio possibile farla viaggiare fino in Svizzera.» Se anche avessero trovato il modo, sarebbe stato troppo caro. «Avrebbe finito per costare tra i 12 000 e i 13 000 dollari» dice Lesley. «Perché così caro?» Sorride amaramente. «Non c’è un motivo particolare per cui costi tanto: è la somma che chiedono.» Al momento la brochure di Dignitas riporta un corso sugli 8300 dollari, comprese parcelle mediche, spese amministrative, spese per il funerale e per l’anagrafe, ma restano ancora da pagare il trasporto, l’alloggio e l’obbligatoria quota associativa a Dignitas. Sylvia non voleva spendere soldi che avrebbe potuto lasciare al marito. Lui, inoltre, si rifiutava di portarla da Dignitas. «Non poteva essere lo strumento della sua morte. Perciò, qualsiasi cosa facessimo, dovevamo agire alle sue spalle.» «Un sacco di pressione su di lei. Ha mai avuto dei dubbi?» «Sylvia era decisa su qualsiasi cosa nella vita. Perciò no, quando l’ha chiesto non c’era dubbio che lo volesse davvero.» Lesley trovò il sito di Exit e seppe che Philip avrebbe dovuto tenere un workshop a Londra di lì a qualche mese. «La sua reputazione di “dottor Morte” per qualcuno poteva suonare macabra, ma per me era perfetta.» Andò avanti, senza mai lasciar trapelare di essere lì per qualcun altro. Orecchiò delle conversazioni intorno a lei, prese nota dei possibili rifornitori, del costo dei farmaci, dei tempi di consegna. Lesse riguardo al suicidio assistito e alle conseguenze per lei. Lasciò deliberatamente una traccia cartacea in modo da non avere niente da nascondere quando si sarebbe presentata alla polizia (aveva sempre avuto intenzione di farlo, voleva assumersi la propria parte di responsabilità nella morte di Sylvia, di cui non si vergognava affatto). Scrisse un’email a un fornitore e inviò 400 dollari nell’ignoto. Poi aspettò. «In quelle settimane, non riuscivo quasi a respirare» dice con lo sguardo fisso sul caffè ancora intatto davanti a lei. «Questa è la cosa più importante che qualcuno mi abbia mai chiesto di fare.» Con sua sorpresa, il pacco arrivò. Sylvia voleva usarlo immediatamente, supplicando Lesley di venire a Eastbourne il più in fretta possibile. Il marito di Sylvia le lasciò sole. «Abbiamo parlato un po’ delle cose fantastiche che avevamo vissuto insieme, ci siamo dette che era stato bellissimo averle fatte quando potevamo, e che era stata una vita meravigliosa.» S’interrompe, trattiene il respiro. «Poi non ricordo chi di noi ha detto: “Lo facciamo?”, ma sono andata in cucina e ho aperto il flacone.» Lesley tenne la mano di Sylvia mentre beveva la dose fatale. Da ciò che descrive, il Nembutal non permise affatto una morte rapida e dignitosa, e gli ultimi momenti di Sylvia furono tutt’altro che pacifici. Era scossa dai conati, e piangeva, vomitava e perdeva muco al punto tale che Lesley non capiva se avesse preso una dose sufficiente per morire. «Non so per quanto le ho tenuto la mano» mormora. «Non so quand’è morta. Ho cercato di provarle il polso, ma il mio cuore batteva così forte che non sapevo di chi fosse il polso che stavo sentendo.» Quando fu certa che Sylvia fosse morta, telefonò al marito dell’amica, gli disse di tornare a casa e si consegnò alla polizia. Lesley racconta che arrivarono ambulanza e poliziotti, che fu arrestata con il sospetto di favoreggiamento al suicidio e d’importazione di una sostanza controllata, che venne presa in custodia per la notte e costretta a indossare una tuta. Passa alla seconda persona. «Ti perquisiscono. Ti portano via i vestiti. Se devi andare al bagno hai una poliziotta a sorvegliarti e non puoi lavarti le mani perché rischi di cancellare qualche prova… Una parte di te muore comunque, tu finisci in un altro posto, ma una vocina dentro ti dice: “Accidenti, che esperienza”.» Dopo dieci mesi la pubblica accusa decise di non procedere contro Lesley. In quel periodo, la sua vita cominciò a sgretolarsi. Dice di essere stata «emotivamente spezzata» e che il lavoro stava «andando a rotoli». Il suo compagno era infuriato perché li aveva messi entrambi in pericolo: mentre lei si trovava sotto custodia, la polizia rovistò in casa loro, requisì tutti i computer e non li restituì fino al decadere delle accuse. Lavorando l’uomo nel settore informatico, vide rovinato anche il proprio lavoro. «Andò completamente in pezzi» dice Lesley, e per la prima volta colgo una nota di rimpianto nella sua voce. Quando Philip tornò nel Regno Unito per il successivo workshop, Lesley vi prese parte, anche se in quel momento si trovava ancora sotto accusa. Voleva ringraziarlo e raccontargli la sua storia nel caso gli fosse d’aiuto. Venne a sapere allora che Exit stava cercando un coordinatore per il Regno Unito che si occupasse delle telefonate per un paio d’ore alla settimana. Cominciò a lavorare per l’organizzazione di Philip solo un mese dopo che fu pronunciato il non luogo a procedere. Evidentemente aveva molta carne al fuoco quando decise di diventare il volto inglese del suicidio razionale. Come poteva sapere in che impresa si stava imbarcando? Era giusto chiederglielo? «Perché ficcarsi di nuovo in tutto questo» le domando «quando sapeva bene quali sarebbero state le conseguenze per lei e il dolore che aveva già sofferto?» Mi risponde quasi urlando. «Perché è sbagliato! È sbagliato e basta, cazzo.» Una lunga pausa. «Posso dire solo di aver fatto la cosa giusta. È giusto aiutare le persone che non ce la fanno più. Sono impantanate e piene di preoccupazioni. Non dovresti passare gli ultimi anni di vita che ti restano a crucciarti per cosa ti accadrà. Tutti hanno il diritto di avere voce in proposito.» «Dunque vuole che la legge sia cambiata in modo che le persone abbiano il diritto a morire?» «Cazzo, certo che sì!» «Ma così lei resterebbe senza lavoro.» «Non m’importa. Il mio compito sarebbe finito. Andrei in pensione, leggerei libri… A me starebbe benissimo. Non dovrebbe nemmeno esistere questo lavoro, e prima sparirà, meglio è.» Lesley non si è calata nei panni del tribuno da quattro soldi per la causa del suicidio razionale. Voleva solo aiutare la sua amica e vuole evitare agli altri di subire ciò che ha subito lei. È diventata la rappresentante di Philip nel Regno Unito perché non c’è altro da offrire ai cittadini inglesi. «Ci sono centinaia, migliaia di persone che stanno attraversando questa situazione adesso, non tra anni, quando la legge cambierà. Se ne stanno preoccupando oggi» dice. «E hanno bisogno di rivolgersi da qualche parte.» Il secondo giorno dell’udienza di Philip presso il tribunale sanitario riesco finalmente a raggiungerlo al telefono. Mette un po’ soggezione arrivare a colloquio con il dottor Morte in persona. Sono le undici di sera a Darwin, ma lui è pieno di energia e combattivo nonostante le accuse che gli vengono mosse, anche se riconosce che le sue azioni possano avere portato un serial killer a sfuggire alla giustizia. «Ecco un caso di suicidio razionale» dichiara. «Brayley non era malato, aveva quarantacinque anni, ma di sicuro aveva ragioni piuttosto cogenti, direi, per porre fine alla sua vita. Il pensiero che avrebbe passato i prossimi venticinque anni in prigione lo ha indotto a fare quella scelta.» «Perciò seppure Brayley fosse stato indagato per omicidio, il suo suicidio sarebbe stato causato da motivi ragionevoli, e quindi lei si sentirebbe tranquillo anche sapendo che si è ucciso?» «Immagino che “tranquillo” sia la parola giusta.» Philip mi spiega come sia arrivato a questa visione libertaria del diritto a morire. Ha scoperto il mondo dell’eutanasia nel 1996, quando c’è stata una breve finestra di nove mesi durante i quali il Territorio del Nord permise ai cittadini in condizioni di malattia terminale di essere aiutati a morire da un dottore in base ai diritti del Terminally Ill Act, finestra che si richiuse l’anno successivo quando il governo federale australiano abrogò la legge. All’epoca Philip aveva quasi cinquant’anni ed era appena diventato dottore; era arrivato tardi alla medicina, dopo una breve esperienza in Aeronautica, un periodo come attivista per i diritti degli aborigeni e alcuni anni con la divisa dei ranger nei parchi del Territorio del Nord. «Ne ho sentito parlare alla radio, ho pensato fosse una buona idea e me ne sono tornato a dormire» dice. S’impegnò nella battaglia per il diritto a morire quando contro di esso fu montata una campagna in grande stile capeggiata tanto dai medici quanto dalla Chiesa. «M’infastidiva, m’infastidiva moltissimo, il tentativo dei medici di sovvertire quello che era evidentemente il desiderio dei cittadini. Dicevano tutto quello che non riesco a sopportare della medicina: che i dottori, con suprema condiscendenza, sanno ciò che è meglio per te, anche se come membro della popolazione ritieni si tratti di una buona idea. Mi sembrava così offensivo.» Espresse il suo parere e le persone che volevano morire cominciarono a bussare alla sua porta. «Fin dagli inizi, nel 1996, ero convinto fosse giusto che un dottore venisse a visitarti e, se le tue condizioni di salute fossero state sufficientemente gravi, ti fornisse le sostanze per porre fine alla tua vita. Quattro dei miei pazienti decisero di andarsene a questo modo. Io ero il solo medico a rispettare la legge, anzi, per un po’ sono stato il solo medico al mondo a servirsi della legislazione per somministrare effettivamente un’iniezione letale.» Sento la sua voce gonfiarsi d’orgoglio. «Exit è nata così, perché dopo l’abrogazione di quella legge la gente continuava a cercarmi. Poi, però, cominciai a cogliere dei cambiamenti: non erano tutti malati terminali, anzi, c’erano persone che avevano ragioni non mediche per voler morire, e molte di loro mi sfidavano dicendo: “Perché toccherebbe a lei decidere?”. Davvero, la scelta spetta a chi vuole morire. E questo è diventato il nostro obiettivo: fornire alla gente possibilità concrete anziché buttarsi ai piedi dei politici implorandoli di cambiare le leggi.» «È orgoglioso di essere il dottor Morte?» «Se ci si lascia turbare troppo da come ti chiamano non si combina molto» sospira. «Mi succede quasi ogni giorno di trovare per strada qualcuno che mi ringrazia. Non mi capitava quando prescrivevo la penicillina. È bello essere coinvolti in un importante dibattito sociale d’avanguardia. È eccitante.» «Stavo valutando l’aspetto economico della questione» gli dico. «Il manuale non è a buon mercato. E se ci si vuole procurare il fusto d’azoto e tutta l’altra roba per mezzo di Exit, come consiglia lei, i costi salgono. Ci sta guadagnando da questo affare?» «I materiali non sono economici, ma non lo è nemmeno girare il mondo a tenere workshop» replica. «L’idea che si potrebbe dirigere l’organizzazione senza un sostegno finanziario è impossibile. È un’associazione no-profit. A volte la gente crede che non dovrei guadagnare nulla dal mio impegno nell’aiutare le persone a ottenere una morte pacifica. Quasi come se l’impegno non dovesse permettermi nemmeno di andare in pari con le spese, e men che meno guadagnarci.» Adesso si mostra seccato dal fatto che io abbia sciupato tutto mettendo in discussione le sue motivazioni. Ma quando parla del suo ruolo nell’aiutare le persone a morire, adotta il linguaggio degli affari. «Stabilire una presenza sul territorio nel Regno Unito rappresenterà una grande differenza. Mi aspetto una crescita significativa. L’Europa, e il Regno Unito in particolare, è un’area di grande interesse.» Ancora non lo so, ma Philip intende espandere il mercato per il suo lavoro in modi che nessuno riesce a immaginare. La sua idea è così ambiziosa da superare i limiti della legge di qualsiasi stato. Qualcosa di molto più sofisticato delle sostanze e dei sacchetti. Qualcosa che non richieda l’aiuto o il permesso di nessuno. Un veicolo per condurre le persone alla morte perfetta. 14. «L’Elon Musk del suicidio»

Almeno altri tredici medici, tra cui Harold Shipman e Josef Mengele, si sono guadagnati l’appellativo «dottor Morte». Philip non è nemmeno il dottor Morte per antonomasia dell’eutanasia né il più famoso. Quell’onore spetta a , il medico patologo del Michigan che promosse la campagna per la raccolta degli organi dei detenuti nel braccio della morte, che per primo ricorse a trasfusioni di sangue da cadaveri e che aiutò personalmente a morire centotrenta americani nel corso degli anni novanta. Kevorkian invitava i pazienti sul retro del suo Vanagon Volkswagen del 1968, un camper cui erano stati rimossi alcuni sedili, dove li collegava a una delle macchine della morte da lui appositamente costruite. Il suo primo apparecchio si chiamava Thanatron (da Thanatos, l’incarnazione della morte nella mitologia greca) ed era stato assemblato con qualsiasi oggetto a disposizione: ricambi di automobili, magneti, pulegge, molle e persino parti di giocattoli. Erano in sostanza tre bottiglie appese a una rozza struttura metallica, connesse a un’unica flebo, con un grande pulsante rosso inscatolato alla base dell’apparecchio, come si trovano nei vecchi videogame delle sale giochi. L’intero marchingegno si poteva scambiare facilmente per un macabro progetto scolastico di scienze. Quando Kevorkian collegava i pazienti al macchinario, questi ricevevano prima di tutto un’innocua soluzione salina endovenosa, ma non appena premevano il pulsante rosso questa si fermava e veniva erogato un barbiturico a rapida azione anestetica che induceva un coma profondo. Dopo un minuto, una dose letale di cloruro di potassio arrestava loro il cuore, facendoli morire di attacco cardiaco durante il sonno. Il Thanatron fu usato per la prima volta nel 1990. La paziente era Janet Adkins, un’insegnante cinquantaquattrenne di Portland, in Oregon, alle prime fasi del morbo di Alzheimer. Incontrò Kevorkian solo il weekend prima della sua morte: lui verificò che fosse in condizioni mentali da comprendere ciò che stava facendo e il lunedì pomeriggio la portò in un parcheggio nelle vicinanze, dove morì sul retro del suo furgone. Due giorni dopo, Kevorkian raccontò al New York Times che prima di morire la donna «mi guardò con occhi pieni di riconoscenza e disse: “Grazie, grazie, grazie”.»1 Il Thanatron permetteva a Kevorkian di assolversi dalla responsabilità della morte dei pazienti in modo piuttosto elementare: erano loro stessi a provocarla, perché se non avessero premuto il pulsante sarebbero rimasti in vita e avrebbero continuato a ricevere la soluzione salina. Il Michigan Medical Board, però, non la vide sotto la stessa luce e revocò la licenza del dottor Kevorkian quando lui tornò a servirsi del Thanatron. Ciò significava che non aveva più accesso alle sostanze necessarie al lavoro. La macchina della morte cui ricorse allora fu il Mercitron, in pratica una maschera antigas collegata a un serbatoio contenente azoto e monossido di carbonio, con una molletta da bucato a fermare il flusso di gas nella maschera. Il paziente rimuoveva la molletta e si abbandonava nelle braccia della morte, sotto lo sguardo del dottor Kevorkian. Le morti suscitarono scalpore e agitazione in America. All’epoca del decesso di Janet Adkins, il Michigan non aveva una legge contro il suicidio assistito, perciò non c’era nulla in base a cui accusare Kevorkian, anche se furono compiuti tentativi di incolparlo di omicidio. La maggior parte dei suoi pazienti non era malata terminale,2 e le autopsie mostrarono che almeno cinque erano in buone condizioni di salute al momento della morte.3 A rendere così sfuggente il dottor Kevorkian era il fatto che a uccidere i pazienti fossero i macchinari. Le morti si spersonalizzavano, non ricadevano sotto la responsabilità di nessuno. Si prometteva una morte pulita e controllata, anche se il meccanismo utilizzato per procurarla era arrabattato e la decisione era espressa dai pazienti spesso in modo caotico. La caduta di Kevorkian avvenne solo quando lasciò le macchine a casa. Nel 1999 somministrò di persona un’iniezione letale a Thomas Youk, cinquantaduenne allo stadio terminale della malattia del motoneurone. Kevorkian era diventato imprudente: filmò gli ultimi istanti di vita di Youk e sul nastro lo si sente sfidare le autorità a impedirgli di continuare a praticare l’eutanasia. Queste raccolsero la provocazione e il dottore, ormai ultrasettantenne, fu condannato dai dieci ai venticinque anni di detenzione. Ne scontò solo otto perché morì nel 2011, all’età di ottantatré anni, in seguito a un embolo: in ospedale, circondato da medici e senza l’aiuto di una macchina della morte. Per i suoi sostenitori, Kevorkian era un eroe, un innovatore, un uomo del Rinascimento. Suonava jazz con flauto e organo e nel 1997 pubblicò un album di composizioni strumentali, A Very Still Life. Dipingeva a olio soggetti che spaziavano da Johann Sebastian Bach a orribili teste decapitate grondanti sangue: alle sue opere dava titoli come Coma, Fever, Nausea e Paralysys. Alcune tele andarono all’asta dopo la sua morte, con una base di partenza di 45 000 dollari. Calcò il tappeto rosso insieme ad Al Pacino, premiato con un Emmy e un Golden Globe per averlo interpretato nel film del 2010 You Don’t Know Jack – Il dottor Morte. Cercava l’attenzione e ottenne la notorietà che tanto desiderava. Non contento di essere «l’altro dottor Morte», Philip desidera un riconoscimento ancora più grande. Quando è sceso in campo, pochi anni dopo Kevorkian, ha goduto di un vantaggio che questi poteva solo immaginare: anziché corde, ganci e mollette da bucato, Philip dispone dei computer.

È SICURO DI AVERE COMPRESO CHE SE PROSEGUE E PREME SÌ ALLA PROSSIMA SCHERMATA LEI MORIRÀ?

Le parole sono disposte al centro dello schermo azzurro, sopra due pulsanti virtuali da cliccare: NO a sinistra, SÌ a destra. Se si clicca SÌ si arriva a un’altra schermata.

TRA 15 SECONDI LE VERRÀ SOMMINISTRATA UN’INIEZIONE LETALE. PREMA SÌ PER PROCEDERE.

Si preme SÌ e dopo quindici secondi si sente un ritmico suono pulsante. Lo schermo diventa nero, a parte un’unica parola:

EXIT

Questa è l’ultima parola che hanno letto Bob Dent, Janet Mills, Bill W. e Valerie P. Quando hanno cliccato SÌ per l’ultima volta, hanno ricevuto in vena una dose letale di Nembutal. Sono state le quattro persone che Philip ha aiutato a morire nel 1996 e 1997, nei novi mesi in cui il suicidio assistito è stato legale per i malati nel Territorio del Nord. Ha posto fine alle loro vite per mezzo di Deliverance, una macchina che lui stesso ha inventato e costruito, ora conservata allo Science Museum di Londra. Lo schermo appartiene al laptop Toshiba grigio che Philip usava anche per leggere le email e navigare su internet. È sporco e malconcio, e nel 1996 aveva già tre anni. Lo aveva collegato a una valigetta di plastica rigida imbottita di schiuma isolante. All’interno, un groviglio di cavi rossi e neri, tubi trasparenti, valvole, pompe, un manometro e diverse siringhe, tra cui quella connessa all’ago lunghissimo e molto appuntito che Philip infilava nei pazienti. In realtà, Deliverance era il nome del software che Philip sviluppò all’epoca e che definì «un programma per il suicidio controllato del paziente dietro assistenza medica», ma arrivò a chiamare l’intero macchinario «l’apparecchio Deliverance». I diritti del Terminally Ill Act gli avrebbero permesso di somministrare direttamente il Nembutal ma lui, forse memore della scelta di Kevorkian, decise di progettare un vistoso marchingegno che lo facesse al posto suo. Philip tenne una conferenza stampa subito dopo averlo usato per la prima volta il 22 settembre 1996. Il paziente, Bob, era un sessantaseienne malato terminale di cancro alla prostata. «Mangiammo e bevemmo insieme, dopodiché lui mi fece cenno che voleva procedere» disse Philip ai giornalisti riuniti. Poi lesse da parte di Bob la seguente dichiarazione: «Il mio dolore è acuito dal dover vedere mia moglie soffrire mentre si prende cura di me, mi fa il bagno, mi asciuga, mi ripulisce dopo i miei spiacevoli inconvenienti notturni e guarda la mia vita dissolversi». La morte di Bob non riguardava solo lui: riguardava il peso in cui si era trasformato avendo perso il controllo sul proprio corpo. Presto arrivarono altri morti. Janet, cinquantadue anni, soffriva di una rara e deturpante forma di cancro alla pelle che le aveva lasciato nove mesi di vita. Bill, sessantanove anni, aveva un cancro allo stomaco in fase terminale. A Valerie, settant’anni, era toccato un cancro al seno; la sua morte fu l’ultimo suicidio assistito legale di Philip e il più controverso. La stessa Valerie ammise di aver usufruito di buone assistenze palliative e di non soffrire per i sintomi, ma il medico l’aiutò a morire comunque. Philip ha pubblicato un’intervista a se stesso sulla sua pagina Vimeo, girata pochi anni dopo l’abrogazione della legge. È seduto alla scrivania, indossa una camicia hawaiana azzurra decorata con palme vivaci, e dal colletto sbottonato spunta un ciuffo di peli grigi del petto. Ricorda quando usava Deliverance, davanti a una parete tappezzata di titoli di articoli di giornale che parlano di lui. «Sentivo sulle spalle il peso piuttosto gravoso della responsabilità» racconta. «Me ne andavo in giro con la mia valigetta, con il mio macchinario, e non potevo dimenticarmi qualcosa e mandare via il paziente oppure dirgli: “E se facessimo domani?” o roba del genere. Aveva deciso che quello sarebbe stato il giorno della sua morte. E io, in un certo senso, dovevo accontentarlo. Ero tenuto a renderlo possibile, a far sì che accadesse. E mi trovavo davanti delle aspettative quasi schiaccianti.» Philip non apprezzava l’idea di assistere al suicidio, al contrario di quello che sembrava fare Kevorkian. Non voleva la responsabilità di assicurarsi che al momento opportuno tutto quanto funzionasse. Servendosi di un computer sul grembo del paziente, anziché di una siringa tra le proprie dita, poteva permettersi di porre qualche distanza tra sé e l’azione che stava compiendo, ma non bastava. Mi risuonano in mente le parole di Lesley durante il meeting di Exit: «Non è un’esperienza che consiglio. Vi suggerirei di farlo da voi». Le successive invenzioni di Philip hanno permesso ai membri di Exit di comportarsi esattamente a questo modo. Il dispositivo CoGen, lanciato nel dicembre 2002, era un generatore di monossido di carbonio che consisteva in un fusto di metallo collegato a una sacca per endovena e a cannule nasali per inalare il gas. Acidi forti ma di facile reperibilità si mescolavano nel fusto per produrre il monossido di carbonio, in grado, garantiva Philip, di uccidere chiunque nel tempo di un respiro o due. Nel corso dei meeting di Exit, il dottor Morte giurava che tutti potevano fabbricarsi un apparecchio del genere con un barattolo di marmellata e materiali acquistabili legalmente per una cinquantina di dollari. «Non occorre essere un genio» dichiarò in quell’occasione al Sydney Morning Herald. «Chiunque abbia seguito le lezioni di chimica al liceo è capace di farlo.»4 Non si ha notizia di nessuno, però, che sia morto usando il CoGen. Pasticciare con gli acidi forti è pericoloso. Il monossido di carbonio è un veleno, e chiunque intenda uccidersi in questo modo potrebbe facilmente mandare all’altro mondo anche chi trovi il suo corpo. Dopo il fallimento del CoGen, Philip mise a punto la famigerata Exit Bag, che necessitava di conoscenze scientifiche ancora minori e permetteva la morte del paziente per privazione d’ossigeno anziché attraverso inalazioni velenose. Nulla supera tuttavia il fattore schifo indotto dalla prospettiva di passare gli ultimi istanti di vita soffocando in un sacchetto di plastica. Philip sapeva già allora che l’Exit Bag avrebbe messo a disagio le persone. Nessuno di questi due metodi poteva superare l’apparecchio Deliverance, con il suo allure hi-tech, la sua pulizia e la sua stabilità. Il software sembrava conferire alle procedure una dignità inaccessibile alla chimica e alla meccanica da sole. Nel luglio 2015, otto mesi dopo il mio incontro con Lesley al meeting di Exit al Covent Garden, Philip mi scrive per dirmi che sta venendo a Londra. Finalmente c’incontriamo nell’appartamento chic che ha preso in affitto a Hackney tramite Airbnb. Alle pareti, sontuosi dipinti a olio dalle cornici dorate; imposte di legno candido alle finestre e parquet imbiancato. Indossa calzoncini verdi insieme a un’altra delle camicie estive che rappresentano il suo tratto distintivo e lo fanno spiccare sullo sfondo del divano bianco dal gusto impeccabile. Sua moglie Fiona cerca di impedire al loro adorato jack russell sovrappeso, Henny Penny, di disturbarci, ma mi sento comunque a disagio. Non riesco a non pensare a tutte le persone che sono morte grazie all’aiuto dell’uomo dalle ginocchia nude seduto accanto a me. Impossibile quantificare il loro numero, anche se Philip lo volesse. E in lui c’è qualcosa di volubile che adesso percepisco ancora più intensamente, un distacco che mi fa sentire come se dovessi ottenere ogni risposta in questi pochi istanti in cui mi trovo al suo cospetto, come se da un momento all’altro potesse dissolversi nel nulla o decidesse di non rivolgermi più la parola. Questa volta, per di più, c’è un motivo insolito per la presenza di Philip nel Regno Unito. Deve partecipare alle prove per una stand-up comedy al Fringe Festival di Edimburgo, un monologo che ha intitolato Dicing with Dr Death ed è entusiasta di parlarmene. «Venti date di seguito con una sola sera di pausa; un’ora di spettacolo, dalle sei alle sette, in un locale davvero grazioso, The Caves, guarda caso la base operativa dei famigerati assassini Burke e Hare, i ladri di cadaveri che rifornivano con i corpi delle loro vittime la facoltà medica cittadina» declama come un imbonitore da fiera. «Un intrigante collegamento tra crimine, morte e scienza medica, cui io certamente attingerò.» Non m’immaginavo proprio Philip nei panni del comico. Di sicuro sa come si mette in piedi uno spettacolo: i suoi workshop e le sue conferenze stampa sembrano degli show, in un certo senso, e certo, una risata sboccia persino nei luoghi più tetri. Ma Philip sarà divertente? Non lo so. Naturalmente ci sono motivi pratici per questo cambio di carriera: la sua licenza medica è ancora sospesa. I membri di Exit hanno donato 250 000 dollari al suo fondo legale, ma il caso rimane aperto. Non se ne preoccupa. «È un segno d’autorevolezza. Se lo stato raccoglie informazioni così precise sul mio conto da decidere di cancellarmi dal registro degli indagati, la gente capirà che si tratta di informazioni positive.» «Perciò ha accresciuto la sua influenza?» «Ha accresciuto la mia posizione.» Mi dice che la commedia sarà un modo per fornire consigli sul suicidio, ora che il clima probabilmente si è scaldato troppo per consentirgli di tenere il suo solito workshop annuale a Londra. Gli spettatori riceveranno degli avvisi prima dello show, ma Philip non ha la possibilità di accertarsi delle loro condizioni di equilibrio mentale. Il monologo ruota intorno a un fulcro indimenticabile. Si chiama Destiny. «Dopo anni e anni di ricerca e sviluppo, finalmente disponiamo di un apparecchio che permette a una persona di togliersi la vita in tutta facilità» dichiara. «Mostrerò al pubblico che si tratta della strada del futuro.» Destiny è appoggiato a un tavolo alla nostra sinistra. In un tweet Philip l’ha chiamato «successore di Deliverance», ma sembra più il figlio illegittimo di Deliverance e del Mercitron: Philip l’ha elaborato dopo aver discusso con Neal Nicol, amico e collaboratore di lunga data di Kevorkian, e si serve della stessa miscela compressa di azoto e monossido di carbonio che alimentava il Mercitron. Destiny consiste di una comune valigetta di plastica rigida imbottita di schiuma isolante che contiene un piccolo microprocessore Raspberry Pi, collegata a un fusto di gas marca Max Dog e a cannule nasali. Si può interagire con il microprocessore per mezzo di un’app sullo smartphone o di qualsiasi scherm HDMI, e le domande poste all’utente sono identiche a quelle del software di Deliverance (a parte il fatto che le parole INIEZIONE LETALE sono sostituite da GAS LETALE). C’è anche un bracciale per misurare il battito cardiaco e il livello di ossigeno dell’utente: quando entrambi i valori scendono a zero, il microprocessore arresta l’emissione di gas. Il prototipo è stato finanziato dalle donazioni di membri di Exit ansiosi di provare l’apparecchio di persona, mi dice Philip. La macchina della morte è davvero entrata nell’età dello smartphone e del crowdfunding. «Un membro del pubblico salirà sul palco a provare l’apparecchio – senza inalare il gas che erogherà la macchina vera, ma uno innocuo – per mostrare il processo dall’inizio alla fine. Quando premerà il bottone, sentirà fluire il gas e rallentare il battito cardiaco. Sarà interessante.» Philip dice che Destiny sarà disponibile per gli associati a Exit e gli abbonati al Peaceful Pill eHandbook per 200 sterline dopo la conclusione della serie di spettacoli a Edimburgo. Tutte le componenti sono legali, ma dovranno essere acquistate separatamente: l’app e il microprocessore da Exit, l’azoto da Max Dog e le cannule nasali dovunque si desideri (le si trova per poco più di una sterlina su Amazon). Proprio come con l’Exit Bag, l’assemblaggio sembra essere una procedura complicata e costosa, ma con sufficienti scappatoie legali per proteggere colui che l’ha progettata. «La legge lavora a più non posso per cercare di tenere il passo con la tecnologia. Ma è come tentare di chiudere la stalla una volta scappati i buoi. Forse le modifiche legislative di cui tanto si parla arriveranno, ma questo non influenzerà lo sviluppo di Exit.» Quando dopo alcune settimane appaiono le recensioni alla pièce, i pareri sono discordi. Il Daily Telegraph gli assegna una stella. «Infantile e senza spirito» sentenzia il critico. «Pessima autopromozione camuffata da spettacolo.»5 Ciò non impedisce a Philip di portare una versione dello show «adattata per il pubblico australiano» al Comedy Festival di Melbourne. Il critico del Sydney Morning Herald è un po’ più generoso e le concede due stelle e mezzo. «Si ride a sprazzi» scrive.6 Non un granché perché Philip molli il lavoro che ha, ma lo fa comunque. Quando il Medical Board of Australia annuncia che rimuoverà la sospensione della pratica, Philip tiene una conferenza stampa dove brucia davanti alle telecamere la nuova licenza medica. «Annuncio oggi, con considerevole tristezza, la conclusione di una carriera medica venticinquennale» dichiara. Nel giro di pochi mesi lascia l’Australia una volta per tutte in cerca di una nuova vita nei Paesi Bassi. Passano quattro anni prima che riveda Philip. I miei messaggi rimangono senza risposta, nessuno risponde alle mie telefonate. Ma sono ancora sulla mailing list di Exit, perciò a intervalli di alcune settimane mi arriva un’email che mi mette in guardia dal rischio di acquistare Nembutal sospetto da fonti non verificate e dai prezzi iniqui di Dignitas, informandomi al tempo stesso di quanto sia avanzata la legislazione olandese rispetto a quella australiana e dei prossimi meeting di Exit. Lesley è stata sostituita come coordinatrice della filiale di Exit nel Regno Unito e sembra uscita di scena. Lo stesso è toccato a Destiny: dopo tutta la grancassa mediatica che ha accompagnato il suo debutto a Edimburgo non se n’è quasi più parlato, e di certo non sono arrivati inviti a provarlo. Un giorno, però, ricevo un’email che sollecita l’invio di proposte da presentare a una conferenza che Philip ha indetto a Toronto. Si chiama NuTech e radunerà «esperti internazionali per discutere le innovazioni tecnologiche che renderanno possibile una morte dietro libera scelta». NuTech non è una novità – ha visto la luce nel 1999 a opera di Philip e dei promotori di campagne per l’eutanasia Derek Humphry, Rob Neils e John Hofsess, e da allora si svolge a intervalli di qualche anno – ma si è sempre trattato di un evento solo a invito: possono partecipare esclusivamente gli avvocati, i medici, i farmacisti e gli ingegneri impegnati nel movimento per il diritto a morire. Quest’anno, per la prima volta, alcuni momenti della conferenza saranno trasmessi in streaming via internet. Altra novità: si terrà un concorso per trovare la migliore macchina della morte. «Grazie a un generoso lascito a Exit International, è stato istituito un premio in contanti di 5000 dollari destinato a una proposta innovativa che promuova l’utilizzo della tecnologia con soluzioni pacifiche e affidabili per la morte dietro libera scelta» dice l’email. Nei mesi successivi, cominciano a emergere dettagli sulle proposte che verranno discusse al NuTech. C’è un marchingegno dall’aria mostruosa detto ReBreather-DeBreather, progettato da un team americano: una maschera imbottita collegata a tubi corrugati che finiscono in una valigetta blu su rotelle. Poi l’egualmente orribile GULPS Monoxide Generator, una piccola maschera a ossigeno connessa a una tanica e a dei barattoli contenenti acido formico e solforico, palesemente ispirata al CoGen e affetta dagli stessi problemi relativi all’avvelenamento del monossido di carbonio e agli acidi forti. Trovo addirittura «l’ottovolante dell’eutanasia» progettato dall’ingegnere e artista lituano Julijonas Urbonas, che ucciderebbe i suoi passeggeri «con euforia ed eleganza» esponendoli a un’accelerazione estrema per un minuto durante sette giri della morte. Infine qualcosa atterra nella mia casella di posta una settimana prima della conferenza di Toronto, e finalmente capisco cos’ha fatto Philip nei Paesi Bassi e perché all’improvviso voglia aprire il NuTech al pubblico. È una cartella stampa intitolata «Lancio in Canada della prima macchina per l’eutanasia al mondo stampata in 3D». Philip ha un nuovo apparecchio da mostrare. L’ha chiamato Sarco, e al suo confronto ogni macchina della morte mai inventata finora sembra uno scherzo. «Sviluppato nei Paesi Bassi dal direttore di Exit, dottor Philip Nitschke e dall’ingegnere Alexander Bannink, l’apparecchio è stato progettato perché possa essere stampato in 3D e assemblato dovunque» si legge. «Quando la capsula viene reclinata, l’azoto liquido fa diminuire rapidamente il livello dell’ossigeno, permettendo una morte serena in pochi minuti. La capsula può quindi essere rimossa e utilizzata come bara.» Sarco sta per «sarcofago»: la bara che ti uccide. Ci sono alcune immagini esemplificative di un apparecchio Sarco bianco perlaceo su una spiaggia deserta, orientato verso il sole nascente e immerso in raggi dorati. Questa non è una macchina inutilmente complicata come quelle elaborate da disegnatori umoristici quali Heath Robinson o Rube Goldberg, assemblate con pezzi di ricambio. Sarco somiglia a un veicolo degno di James Bond o Batman, una nave spaziale che trasporterà il passeggero in un’altra dimensione. La capsula è lunga, curva e opalescente come il guscio di un mollusco, inclinata e leggermente asimmetrica, con una finestra trasparente fumé. Un accessorio glamour. Nella successiva newsletter di Exit, Philip scrive che assicura «una morte pacifica, persino euforica» con «stile ed eleganza». Se Deliverance e il Thanatron allontanavano la morte dalla persona che vi assisteva, Sarco è il dispositivo che chiude del tutto con il suicidio assistito. Dal momento che si può scaricare una macchina della morte con cui uccidersi, a che serve avere vicino qualcuno? Philip non dovrà consegnare nulla. Sarà completamente distaccato da chi usa la sua invenzione. Come scrive nella newsletter di Exit: «Non c’è bisogno di violare la legge. Non c’è bisogno di procurarsi sostanze su internet. Non c’è bisogno di un medico». Non si tratta solo di quello. Basta con aghi, tubi e cavi. Basta con sacchetti di plastica in testa. Basta con il disgusto. Sarco è la risposta che i difensori del suicidio razionale hanno sempre cercato, e presto sarà disponibile presso la stampante 3D più vicina, con le istruzioni gratuite, naturalmente per gli associati a Exit e gli abbonati all’eHandbook. La morte perfetta, consegnata a chiunque disponga di una connessione internet. Il giorno della conferenza, Philip appare in diretta streaming con un modellino di Sarco stampato in scala 1:7 che somiglia a un giocattolo degli Octonauti dei miei bambini. Spiega che l’azoto liquido renderà silenzioso l’apparecchio – il gas non uscirà ruggendo come da un serbatoio – ma abbasserà anche di tantissimo la temperatura al suo interno, perciò gli utenti dovranno vestirsi in modo adeguato. A parte l’azoto, c’è un altro elemento che non può ancora essere riprodotto da una stampante 3D: il tastierino digitale usato per sbloccare il portello di Sarco. Gli utenti potranno accedere con un codice che scadrà dopo ventiquattr’ore e che riceveranno solamente se supereranno una specie di test psichiatrico per determinare che siano in condizione di intendere e di volere. Philip, comunque, spiega che in futuro anche il tastierino sarà stampabile in 3D. Già ora siamo in grado di stampare fili di rame e circuiti elettronici. È solo questione di tempo. Sono abbastanza cinica da credere che Philip abbia lanciato una competizione unicamente per essere lui a vincere il premio in denaro, ma scopro che non è così. Sarco è escluso dal concorso, in quanto creatura di Philip. Alla fine, vincono il ReBreather-DeBreather e il GULPS Monoxide Generator, ma non riescono ad approfittare della copertura mediatica internazionale del NuTech. È Sarco ciò di cui vogliono parlare tutti, la notizia di punta dovunque, dal Sun a Fox News e a Vice. Newsweek ne è rimasto particolarmente colpito. «Vi presentiamo l’Elon Musk del suicidio assistito» recita il titolo. «La Tesla delle sue macchine della morte si chiama Sarco. È snella, elegante e, sottolinea Nitschke, lussuosa […] Insomma, la Model S delle macchine della morte.»7 Philip non si sazia mai di questo paragone. Lo riporta nella successiva newsletter di Exit e la sua pagina di Wikipedia viene presto aggiornata con il nuovo appellativo. A chi importa se esistono altri tredici dottor Morte? Lui è l’unico «Elon Musk del suicidio». Per l’anno e mezzo seguente, quasi tutti i messaggi che ricevo da Exit parlano di Sarco: la stampante 3D a Haarlem ronza a pieno ritmo per produrre il primo prototipo a grandezza naturale; YouTube, «sprofondando in inediti abissi di censura», ha rimosso dal canale di Philip il video in diretta streaming di Sarco al NuTech; Philip presenzierà alla Funeral Fair di Amsterdam con un visore per la realtà virtuale in modo che gli utenti possano provare una morte via Sarco senza dover morire davvero. Finalmente arriva la notizia che stavo aspettando. «Dopo tre anni di lavoro, la prima capsula per l’eutanasia al mondo stampata in 3D verrà presentata al pubblico alla Venice Design Week presso palazzo Michiel» recita il comunicato stampa. «Sono estremamente compiaciuto che Sarco sia qui a Venezia, al centro del mondo dell’arte» scrive Philip. «La tagline della Biennale di quest’anno – “May You Live in Interesting Times” – non potrebbe essere più calzante.» Sembra che la creazione di Philip sia in mostra alla Biennale stessa. Non è così. La Venice Design Week si svolge in concomitanza con la prestigiosa mostra d’arte contemporanea, ma ne è completamente separata: un evento collaterale, se così si può dire. Eppure, dopo Edimburgo, forse Philip è deciso ad assicurarsi un posto presso tutti i grandi festival del mondo. Kevorkian aveva il flauto jazz e i dipinti a olio; Philip la commedia e la forza d’attrazione del design olandese. La Venice Design Week è ad accesso libero e gratuito. La sera dell’apertura ci sarà una grande conferenza stampa dove Sarco verrà finalmente svelato. Non posso perdermela. Palazzo Michiel del Brusà è una fantasiosa costruzione che combina il maestoso barocco veneziano ai mattoni a vista, direttamente affacciata sul Canal Grande. La sala al pianterreno si trova a livello dell’acqua, illuminata dai fiotti di luce pomeridiana che si riversano dalle porte ad arco. Un trionfo di frutta collocato su un plinto al centro della stanza sembra lì apposta per finire su Instagram. In giro, gente che chiacchiera in calzoncini troppo corti, giacche lunghe e scarpe ocra di satin – un look ridicolo per i miei gusti non così raffinati – inalberando bastoni da selfie. Nelle mani libere, bicchieri di prosecco, piattini con scaglie di parmigiano e cubetti di prosciutto. Seguo una donna con tacchi a spillo argentati e una cappa bianco avorio lunga fino alle caviglie su per una scalinata di pietra. Passiamo davanti a un’enorme spugna gialla appoggiata su un palco di legno. La targa alla parete m’informa che si chiama XXXXXL Sponge, appartiene alla serie Sponge di un designer olandese e rappresenta «una riflessione attraverso il design sui danni causati dall’uomo alla natura». Sopra l’architrave di una porta stanno appese sfere di gomma di varie dimensioni, nelle sfumature del grigio e del crema, realizzate da un designer egiziano di gioielli; è impossibile passarci sotto senza alzare la mano e strizzarle. C’è ogni sorta di specchi, sedie, pouf e dormeuse, come se fosse una fiera destinata a persone che amano guardarsi riflesse e poi riposare. Chiacchiere in francese, inglese, russo, cinese non meno che in italiano. Quasi tutti gli ospiti ammirano le opere in mostra solo attraverso lo schermo del telefonino. Giro un angolo e arrivo a una porta. IL CONTENUTO DI QUESTA SALA POTREBBE TURBARE ALCUNI VISITATORI, recita un intrigante cartello. Al centro dello spazio, sotto il fascio inclinato dei riflettori, ecco Sarco in persona, nel violetto che è il colore aziendale di Exit: scintillante nel suo chassis metallizzato, impressionante e decisamente curioso. La seduta imbottita all’interno è elegantemente reclinata come le altre chaise longue del palazzo. Il corpo di Sarco, però, mostra un’asprezza inaspettata: le lamine della stampa in 3D, chiaramente visibili sulle parti grigie della struttura, gli danno un aspetto non finito, artigianale. È una scelta intenzionale, spiega una targa: sono state lasciate «volutamente come in origine per dimostrare il processo della stampa in 3D». Credevo comunque d’imbattermi in qualcosa di perfetto. James Bond non vorrebbe morire qui dentro. Anzi, nemmeno ci entrerebbe. È piccolo. Di sicuro adatto ai suicidi di bassa statura, che andrebbero comunque incontro a una morte decisamente claustrofobica. Potrebbe avere i portelli ad ala di gabbiano come la DeLorean di Ritorno al futuro, ma sarebbe impossibile accedervi per un anziano o chiunque con problemi di mobilità. E se anche riuscissero a infilarvisi, le persone che ho incontrato al Covent Garden sarebbero davvero capaci di stamparlo e assemblarlo? E poi funzionerebbe? Il tastierino digitale luminoso è alloggiato in una piccola nicchia accanto alla porta, ma quando premo i tasti non succede niente. Alla base della capsula c’è un cassetto che dovrebbe riempirsi di azoto liquido, ma è saldato. Non sembra che la macchina sia funzionante. Seguo il flusso del jazz lounge e scendo le scale in cerca di Philip. Guardo sulla piattaforma in legno accanto al canale, affollata di gente che si scatta altri selfie. Qualcuno si è pure portato dietro un cane in carrozzina. Un grasso jack russell. Henny Penny! Ed ecco Fiona e Philip. Le camicie hawaiane sono sparite: Philip indossa una giacca di lino beige, un seducente cappello di paglia e un fazzoletto da collo nero. Nel vedermi trasalisce dietro gli occhiali rotondi, ma mi stringe la mano. Risalgo con lui le scale di pietra fino alla sala di Sarco. In mano tiene una bottiglietta di birra italiana. Vengo al sodo. «Questa versione che sto guardando funziona davvero?» «Abbiamo misurato ciò che accade al livello di ossigeno all’interno della capsula.» «L’avete collaudata?» «Sì, e funziona alla perfezione. Si comincia con il 21 per cento di ossigeno, la quantità presente nell’aria che stiamo respirando, e in un minuto si scende a meno dell’1 per cento. Sappiamo cosa accade quando ci si trova in un ambiente con l’1 per cento di ossigeno: torpore, disorientamento, si è a un passo dall’intossicazione. Ah, ecco Alex.» Accenna a un uomo alto in un completo blu ben stirato: Alexander Bannink, l’ingegnere olandese che in genere progetta autobus, treni, stecche e protesi mediche, ma che attualmente sta rendendo per la prima volta stilose le idee di Philip sulla morte. Si scambiano amichevoli pacche sulle spalle. «Che gliene pare?» mi chiede subito Alex. Non so come rispondergli. Non somiglia a niente che abbia mai visto prima, ma non ha l’aria di funzionare. Il tastierino sembra applicato in un secondo momento, quando dovrebbe essere il primo punto di cui occuparsi se si pensa a un suicidio realmente razionale. Sono impressionata e sopraffatta, intrigata e disturbata. «Ecco una buona domanda» rispondo. «Mi sembra somigli a un veicolo, no?» A quanto pare ho dato la risposta giusta. «Era l’idea di Alex! Per comunicare l’idea del movimento. Anzi, un sacco di pensate sull’apparecchio si devono ad Alex.» «Come descriverebbe Sarco? Di cosa si tratta?» chiedo. «È la demedicalizzazione del processo della morte» risponde Philip mentre i visitatori girano intorno alla sua creazione scattando foto. «Ciò che considero preoccupante, nella tendenza generale di coloro che prendono il controllo sulle proprie scelte di fine vita, è la crescente medicalizzazione del processo. In realtà non stiamo prendendo il controllo, ma lo deviamo all’autorità di qualcun altro, in genere un medico. Sarco permette a una persona di dire: “Sono io a decidere, non mi serve l’aiuto di un ‘esperto’”.» Philip è il medico divenuto fuorilegge per dare alla gente il vero potere sulla morte. «Il coinvolgimento medico ci sarà solo all’inizio, per determinare se si è in condizione di intendere e di volere. La fase due del processo è lo sviluppo di un test di capacità mentale condotto da un’intelligenza artificiale» prosegue. «Il tastierino non si attiva se non si è superato il test. C’è un sacco di lavoro da fare. E naturalmente con fortissima opposizione da parte di chi dice che non si può, che l’intelligenza artificiale non sarà mai in grado di sostituire uno psichiatra. Non è difficile. Il punto è se lo accettiamo o no. Tra i medici c’è una spietata resistenza all’eventualità che qualunque forma di intelligenza artificiale li scalzi dal loro ruolo. Sono in atto grandi cambiamenti in termini di ciò che è possibile.» Alex è molto orgoglioso delle credenziali ecologiche di Sarco. La stampa in 3D significa che non sarà necessaria alcuna emissione di carbonio per trasportare l’apparecchio. «La base è di plastica biodegradabile, acido polilattico, praticamente amido di patata o di barbabietola da zucchero» dice, come se parlasse di trucioli di legno anziché di una sostanza che impiega decenni per degradarsi adeguatamente. «Ogni rifinitura è eseguita nel modo più possibile rispettoso dell’ambiente, e la laccatura è a base d’acqua.» «Perché è così importante?» «Be’, perché forse ci si potrebbe far seppellire proprio al suo interno.» «E anche se non ci facessimo seppellire lì, puntiamo a essere ecosostenibili» interviene Philip. «Abbiamo l’obiettivo di ridurre al minimo la nostra impronta globale. Qualcuno è venuto a dirci: “Voglio morire adesso perché consumo risorse. Sono arrivato alla fine naturale della mia vita e non voglio essere un peso per il pianeta. Voglio fare la cosa giusta per la Terra”. Ne incontriamo sempre più spesso.» Mi ricorda Bob Dent, il primo paziente a utilizzare l’apparecchio Deliverance, che odiava tanto essere un peso per sua moglie. A chi piace essere un peso? Non importa cos’ha detto Philip: io continuo a non credere che l’arnese che ho davanti funzioni. Perciò lo chiedo ad Alex. «È un prototipo» risponde lui prudentemente. «Per fare in tempo a esporlo a Venezia, la base non funziona ancora, ma la parte superiore sì.» «Vi siete mai distesi dentro?» «No» dice Philip bevendo un sorso di birra. «Ho paura» ride Alex. «Potrebbe spuntare fuori il culo. Non volevamo che accadesse a pochi giorni dal lancio.» «Una persona alta si troverebbe scomoda?» «È un progetto personalizzato» risponde Alex. «Una persona di stazza robusta potrebbe avere un Sarco da stampare su misura. Ma dipende dalla strada che sceglierà Philip. Se si vuole mettere l’apparecchio a disposizione di una clinica, finiremo con il produrlo in una misura standard.» «Che è quello che sta per accadere in Svizzera» dice Philip annuendo. È molto eccitato per quanto riguarda la Svizzera. Exit sta per aprire una clinica, il primo posto al mondo dove si può essere aiutati a morire in un contesto assolutamente non medico. Riusciranno a mettere il macchinario direttamente a disposizione delle persone, senza stampa in 3D, perché lì non ci sono problemi con il suicidio assistito. Dice che ha già trovato le strutture e assunto del personale. «La Svizzera è il solo paese in cui possiamo dare a qualcuno Sarco perché lo usi. Se si vuole usarlo una volta tornati nel Regno Unito, invece, si deve stamparlo.» «Quanto c’è voluto per stamparlo?» Si guardano l’un l’altro con un sorrisetto. «Possiamo dirlo?» ride Alex. «Un po’. Abbiamo stampato in continuazione per quattro mesi.» «Wow» esclamo. «Perciò parliamo di una morte serena, in un momento a nostra scelta, ma solo a condizione di programmarla con largo anticipo.» «Sì, non è una scelta adatta agli acquirenti d’impulso» risponde seccamente Philip. Non mi dicono quanto costi loro stamparla, a parte che è «troppo» e sono stati aiutati da «alcune grosse donazioni a Exit». A essere onesti nei confronti di Philip, lui non s’immagina che la gente corra a stamparlo nel prossimo futuro. Pensa che Sarco sarà di largo utilizzo entro il 2030, quando ritiene che la stampa in 3D su vasta scala sarà diffusa e conveniente. Scopro, però, che verrà stampato ancora in sezioni: la struttura, i pannelli e gli altri componenti dovranno comunque essere assemblati. E poi c’è il gas. «Come ci si procura l’azoto liquido?» «Lo si compra» risponde Philip sulla difensiva. «Da dove?» «Ehm, da un rivenditore di azoto liquido» sbuffa come se tutti ne trovassero uno in centro. Forse Max Dog avrà presto la sua catena distributiva. «Ce ne sono diversi in giro, e comunque non si tratta di un prodotto soggetto a limitazioni» aggiunge. Dopo averlo stampato, aver versato l’azoto e digitato il codice, dentro Sarco si trovano altri pulsanti per farlo funzionare: un bottone verde con la scritta MORTE per attivare la fuoriuscita di gas e uno rosso di STOP da premere in caso di ripensamento. Si possono azionare esclusivamente dall’interno, una misura di sicurezza per impedire che qualcuno si serva di Sarco per commettere un omicidio. C’è anche un portello fuga da premere all’occorrenza, ma non sembra che ci sia molto tempo per deciderlo. «Si perde coscienza in un minuto» spiega Philip. «Se si respira normalmente, si entra assai presto in uno stato di disorientamento, con un senso di euforia e di ebbrezza, di perdita di coscienza, dopodiché nel giro di cinque minuti sopravviene la morte.» Alex, però, specifica che l’intenzionalità è incorporata nel progetto. «Sarco non è accogliente: ti tiene a distanza, ti dice: “Ripensaci”.» Solleva le mani aperte come un vigile. «Ma al tempo stesso si dimostra attraente, perché somiglia a un’auto, anche se strana perché asimmetrica. Non si può salire da quella parte» e indica il lato privo del pannello di controllo, che corrisponde a quello dell’autista nel Regno Unito, «perché non ci sono porte, perciò uno deve girarci intorno. L’utente è tenuto a fare qualcosa per passare al successivo step, per avvicinarsi alla morte grazie a Sarco. L’apparecchio dà alle persone la possibilità di scelta. Dice agli altri che la decisione presa è stata giusta, quella desiderata da chi ha scelto di entrarci per concludere la propria vita.» Le istruzioni di Sarco devono essere intuitive per motivi legali. «Se mi tocca spiegare loro come farlo, allora li sto aiutando. Dev’essere la macchina a dirglielo.» Ma Philip non ha creato Sarco solo per aiutare la gente a morire e farla franca. Vuole usarlo per rendere sexy la morte. «Mi piace la sensazione di un’occasione gestita con stile, l’opportunità di ridefinire la morte e di trasformarla in una cerimonia, l’opposto di qualcosa cui sottrarsi e vivere in privato. Non sta bene a tutti, ma a molte persone sì. È un dispositivo dall’aspetto piuttosto gradevole, che si può trasportare all’esterno in modo da vedere per l’ultima volta le Alpi, il Mare del Nord o i deserti australiani. Il luogo dove vuoi andartene tu.» «In questo caso il punto non è morire con dignità, ma trasformare la morte in un evento.» «Già» dice lui annuendo lentamente. «Sembra che a un certo gruppo di persone stia bene. Coloro che adesso ci contattano per dirci di essere intenzionati a usare Sarco lo vedono come un mezzo per avere la possibilità di creare un evento, il che non avviene quando ci si siede in una stanza a bere un bicchiere di Nembutal. Si crea una scena, l’idea di qualcuno che saluta e se ne va. Ad alcuni piace l’idea di prendere congedo e chiudere lo sportello. “Io me ne vado, voi restate.”» Mi sembra il tipo di persone che vorrebbero poter assistere al proprio funerale. Sarco ha anche il fascino dell’«euforia» su cui Philip continua a tornare, della morte emozionante. Racconta di aver provato direttamente quell’esperienza di ebbrezza quando ha prestato servizio in Aeronautica, durante una breve depressurizzazione del velivolo. Si è divertito. «Il mondo è bello perché è vario» continua. «Non dico che chiunque sarà entusiasta d’infilarsi in un Sarco. Alcuni obietteranno: “Non mi piace l’idea; quando morirò, voglio poter abbracciare la persona che amo”, e l’apparecchio non lo permette.» «Potresti stamparne uno biposto, come ne stampi su misura per le persone alte» interviene in suo aiuto Alex. «Tutto è possibile.» «Ma con due persone, come si fa ad assicurarsi che entrambe acconsentano a morire?» chiedo. «È solo un problema di software: tutt’e due devono passare il test» risponde Philip. «Ma come capire che non sia solo una delle due a digitare i codici?» Philip digrigna i denti. Segue una pausa di dieci secondi. E poi entrambi scoppiano a ridere. «Fine dell’intervista!» grida Alex. «Tagliare!» Circondati da designer in una Venezia al tramonto, sarebbe facile sorvolare sui difetti di concezione di Sarco e trattarlo come una provocazione intellettuale, un argomento di conversazione, proprio come XXXXXL Sponge. Qui, però, non stiamo parlando della carne di rana di Oron Catts. Sarco è stato lanciato come una strada percorribile, lo hanno sovvenzionato individui con un disperato desiderio di prendere il controllo sulle loro vite, e si promette che ripagherà le aspettative dei membri di Exit che sommergono Philip di domande. Non è uno scherzo. «Nell’arco di dieci anni, si aspetta davvero che in tutto il mondo ci siano persone che desiderino morire all’interno di Sarco?» chiedo a Philip. «Penso che una cosa del genere sarà bene accetta.» «Meglio di un sacchetto» aggiunge gentilmente Alex. «La tecnologia sta cambiando l’aspetto del mondo, e la morte non fa eccezione. Vedremo sempre più persone prendere il controllo sulle ultime fasi della loro vita. Davanti all’abilità della medicina moderna di prolungare la nostra esistenza, in tanti dicono: “Quando è troppo è troppo”.» «Ma allora la risposta è una macchina per uccidersi o una trasformazione del nostro atteggiamento verso la morte?» «I due aspetti procedono affiancati» risponde Philip. Alex è relativamente un nuovo arrivato nel business della morte. «Ha pensato a come si sentirà la prima volta in cui qualcuno userà l’apparecchio disegnato da lei per uccidersi?» gli chiedo. «Philip avrà preso la decisione di permettergli di accedere, e io mi fido di lui» risponde con una scrollata di spalle. «La nostra responsabilità si limita al design.» Alex m’invita a prendere un bicchiere di prosecco: è un prodotto del posto, dice, e qui è particolarmente buono. Torno alla reception, dove la piramide di frutta è stata mangiata ma si continua a bere in abbondanza. Mi prendo un bicchiere che sorseggio sulla piattaforma di legno accanto al Canal Grande. Il complesso si prende una pausa e dall’impianto audio si diffondono le voci di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong che cantano Cheek to Cheek. «Heaven, I’m in Heaven.» Tutto è bello, profumato, immerso in una luce rosata. Si respira un clima di rilassatezza divertita. Solo che non è così. È grottesco. Chi ha finanziato il viaggio di Philip e l’invenzione che l’ha portato qui non pensa affatto ad andarsene allegramente e con stile all’altro mondo; vive in questo mondo, tra dolore, paura, sofferenza, disperazione e panico, e cerca qualcuno per tirarsene fuori. Il lancio di Sarco somiglia tanto a un appagamento, un’altra pietra miliare che lusinga l’ego di Philip, anziché a un modo praticabile di aiutare quelle persone. Se anche il prototipo che ho visto di sopra fosse perfettamente funzionante e pronto a entrare in azione, non sarebbe la risposta per individui alla disperata ricerca di un completo controllo sulla morte. È Philip a controllare questa tecnologia e l’accesso a essa. Ne possiede la proprietà intellettuale, e chi vorrà servirsene dovrà associarsi alla sua organizzazione e pagare. Infine penso a una delle ultime cose che Philip mi ha detto. «Intendiamo realizzarlo open source. Lo metteremo a disposizione di chi ha acquistato The Peaceful Pill Handbook: l’utente dovrà per forza avere una certa età e firmare qualcosa.» Scrolla le spalle. «Guardi, sappiamo che dal punto di vista economico sarà un bagno di sangue. E non me ne importa.» Sa che non riuscirà mai a ottenere il pieno controllo sull’accesso alla tecnologia che ha inventato. E so che in fondo non gli interessa davvero, purché tutti sappiano che è stato lui a crearla. 15. La fine giustifica i mezzi

C’è qualcosa che ci affascina nelle analogie con le automobili. Le RealDoll sono le Rolls-Royce dei giocattoli per adulti. Le DS Doll sono la Bugatti Veyron. La carne pulita sta alla carne animale come un’auto a un carrettino. Sarco è la Tesla delle macchine della morte. Philip, però, vuole che tutti sappiano che la vera ispirazione per Sarco non proviene affatto da un veicolo, ma da un cult movie del 1973 con Charlton Heston. «Devo dire che alcune delle idee originali mi sono venute guardando la scena della morte in 2022: i sopravvissuti» mi aveva raccontato a Venezia, sorseggiando la sua birra. «Questa prospettiva che nel futuro ci saranno persone – e già ci contattano ora – che dicono: “Sono giunto alla fase in cui sento di aver completato la mia vita e voglio fare la cosa giusta per il pianeta”.» Quel giorno la citazione mi è sfuggita, ma nelle settimane successive al lancio continuo a sentire menzionato 2022: i sopravvissuti ovunque Philip parli di Sarco. Philip si entusiasma nel ricordare quel film «rivoluzionario» in un pezzo scritto per promuovere la sua invenzione sull’Huffington Post1 e in una breve intervista con Vice, dove ripete la strana idea di una «morte che fa ciò che è giusto per il pianeta».2 Dunque mi compro un dvd di seconda mano per cercare di capire a cosa si riferisca. Ambientato in una fetida e violenta New York del 2022, abitata da 40 milioni di persone e oppressa da temperature infernali, il film racconta la collaudata storia di un poliziotto indurito dalla vita (Thorn, interpretato da Heston) che nel corso di un’indagine su un omicidio smaschera inavvertitamente una cospirazione globale. Il Soylent verde è un supercibo progettato in laboratorio che gli umani sono costretti a mangiare dato che la sovrappopolazione e il riscaldamento globale hanno reso l’agricoltura convenzionale quasi impossibile. Venduto come «il miracoloso cibo iperenergetico derivato dal plancton», potrebbe essere uno qualsiasi dei preparati commestibili messi a punto oggi nella Silicon Valley. La «scena della morte» che ha ispirato Philip arriva alla fine del film. Il migliore amico e coinquilino di Thorn, Sol, abbastanza anziano da ricordare i bei vecchi tempi, si reca in un inquietante edificio dove impiegati dai sorrisi benevoli gli chiedono quale sia il suo colore preferito («arancione») e il suo genere di musica prediletto («classica»). Poi alcune persone in vesti bianche dagli orli arancioni prendono a braccetto Sol e lo conducono a un letto sopraelevato simile a una tomba o a un sarcofago, dove lo adagiano su un cuscino e lo rivestono con lenzuola. Immerso in una luce arancione, Sol beve del liquido da un bicchiere. Viene premuto un pulsante. Su schermi giganti intorno a lui appaiono immagini – tulipani arancioni, tramonti, un ruscello gorgogliante, pesci tropicali, paesaggi montani e un prato tappezzato di giunchiglie – mentre le note della Sesta sinfonia di Beethoven si diffondono nella stanza. Sol muore con gli occhi spalancati. Gli schermi e le luci arancioni si spengono. Poi le persone in vesti bianche fanno rotolare il cadavere lungo uno scivolo che porta alla fabbrica del Soylent verde, dove viene trasformato in cibo. E a questo punto si scopre che l’ingrediente segreto del Soylent verde non è il plancton, ma la carne umana. «Fanno il cibo usando le persone!» grida Heston nelle ultime immagini del film. «Il Soylent verde è fatto di persone!» Batto le ciglia mentre scorrono i titoli di coda. Tra tutti gli scenari di eutanasia sognati nel canone della fantascienza, da Star Trek a Futurama, è questo ad aver ispirato Philip? La morte calma e controllata raffigurata in 2022: i sopravvissuti è l’accondiscendenza con cui un vecchio depresso e disperato accetta di liberare del proprio peso un pianeta sovrappopolato; una morte progettata perché gli umani possano cibarsi di altri umani. Follia totale. Davvero Philip, dopo aver visto questo racconto moraleggiante, ha concluso che la scena della morte rappresenta il «fare la cosa giusta per il pianeta»? Sì, Sol non prova dolore e sceglie quando morire, con il suo colore preferito che gli splende sul volto. La sua morte, però, è tremenda. Quando Philip parla di sdraiarsi in un apparecchio Sarco per il bene del pianeta, descrive qualcosa di simile in maniera inquietante ai «saloni federali per il suicidio etico» del racconto di Kurt Vonnegut Benvenuta nella gabbia delle scimmie. Nella Terra immaginata da Vonnegut, popolata da 17 miliardi di persone, la strategia del governo per arginare il problema della sovrappopolazione comprende «l’incoraggiamento del suicidio etico, che consisteva nel recarsi al più vicino Salone di Suicidio e chiedere a una hostess di uccidervi in modo indolore mentre ve ne stavate sdraiati su un lettino di classe».3 Forse è questo il suicidio razionale, nella sua più brutale razionalità: non appena si sente di avere adempiuto il proprio scopo al mondo, la scelta logica è andarsene il più in fretta possibile e smetterla di consumare risorse preziose. Siamo più vicini che mai a dover compiere scelte come questa. Sfidare la morte è diventato un obiettivo chiave della Silicon Valley: i venture capitalist che finanziano la ricerca per arrestare gli effetti dell’invecchiamento4 vedono un futuro in cui la morte è qualcosa che scegliamo deliberatamente quando siamo stanchi di vivere anziché l’ombra spaventosa e imprevedibile che adesso incombe su di noi. Se anche non potremo sfuggire alla morte, è probabile che la durata delle nostre vite, almeno nei paesi ricchi, si estenderà a orizzonti finora inimmaginabili. Sarco sembra essere stato progettato non per i malati terminali, ma per quelli abbastanza in forma da infilarcisi dentro: persone stanche di vivere che scelgono di morire. E dato che i parametri della malattia e della disabilità cesseranno di essere determinanti nella decisione di concedere l’accesso a una morte di questo tipo, senza più figure di guardiani, assicurarsi che la scelta di morire sia razionale e liberamente espressa diventa più importante che mai. Il che ci conduce alla valutazione delle capacità mentali richiesta per ottenere il codice di accesso a Sarco, il test che Philip ha liquidato con noncuranza come una mansione da affidare alle intelligenze artificiali non appena l’intransigente establishment medico cederà il passo all’inevitabile avanzata del progresso. In apparenza, sarà possibile sviluppare senza fatica un programma per stimare il grado di consapevolezza dei futuri utilizzatori di Sarco. Il software di Deliverance già svolgeva questo compito in modo piuttosto efficace: la sua prima domanda era: «È sicuro di avere compreso che se prosegue e preme SÌ alla prossima schermata le verrà somministrata un’iniezione letale?», e la seconda: «È sicuro di avere compreso che se prosegue e preme SÌ alla prossima schermata morirà?». Non si scappa. Ma perché una persona possieda davvero la capacità razionale di prendere una decisione, dev’essere in grado di soppesarla e collocarla nel contesto adeguato. Quando i medici stabiliscono se qualcuno sia in condizione di intendere e di volere, esprimono un giudizio di valore: osservano come si comporta e ciò che dice, e non solo per la durata del test ma nei giorni e negli anni che lo precedono. Non devono essere d’accordo con la decisione del paziente, ma solamente essere sicuri che sia stata presa in maniera razionale, in base alle sue risposte, al suo comportamento e alla sua storia medica. È un’arte non meno che una scienza. Questo giudizio di valore potrebbe essere l’epitome dell’atteggiamento «i dottori sanno ciò che è meglio per voi» che Philip aborre, ma si tratta del nostro unico punto d’appoggio nel prossimo futuro. In circostanze di tale complessità, è improbabile che i computer riusciranno a cavarsela, e certamente non entro il 2030, la data in cui Philip si aspetta che le stampanti 3D riescano a sfornare apparecchi Sarco in modo veloce e a costi accessibili. Compiere la scelta giusta in ogni occasione è davvero importante, perché si tratta sempre di una questione di vita o di morte. Il software non è neutrale; l’intelligenza artificiale riproduce i preconcetti di chi l’ha programmata e tutto ciò che ottiene la benedizione di Philip sarà soggettivo come qualsiasi altra valutazione medica. La tesi che chiunque debba avere i mezzi per ottenere una morte serena in un momento che solo lui potrà scegliere è una posizione libertaria, e quindi non un dato di fatto ma una convinzione politica. Con la sua tecnologia, Philip è in grado di imporre la propria visione del mondo senza l’intralcio di medici e governi, e di imporla non solamente alle persone che muoiono nei suoi macchinari ma anche alle loro famiglie. Si potrebbe dire che il suo atteggiamento risente dello stesso paternalismo dei medici che disprezza. La rivelazione più significativa di quanto siano estreme le posizioni di Philip riguardo al diritto a morire è espressa dalla sua reazione alla notizia della morte di Noa Pothoven. Noa era un’adolescente olandese con alle spalle una storia di autolesionismo, anoressia, depressione e sindrome postraumatica da stress dopo aver subito molestie sessuali a undici anni e uno stupro a quattordici. Il 4 giugno 2019, il Daily Mail Online ha riportato la notizia che a soli diciassette anni Noa era stata sottoposta a «eutanasia legalmente praticata presso la sua abitazione da parte della “clinica della morte” perché “sentiva che la depressione aveva reso la sua vita insopportabile”». Era l’articolo più in vista del sito, ed è rimbalzato sulle pagine dei giornali dall’Australia all’India, dall’Italia agli Stati Uniti. Il giorno dopo ho trovato nella posta in arrivo un allegro comunicato stampa da parte di Philip. «La morte di una ragazza affetta da patologie psichiatriche rivela le sfaccettature del dibattito sull’eutanasia nei Paesi Bassi» dice il titolo. «La notizia che un’adolescente di Arnhem, Noa Pothoven, è stata aiutata a morire per mezzo dell’eutanasia mostra la complessità raggiunta dal dibattito sull’eutanasia nei Paesi Bassi negli ultimi vent’anni. Oggi abito in un paese all’avanguardia mondiale nell’apertura mentale quando si tratta di rendere la scelta di fine vita alla portata di tutti» dichiara entusiasta Philip. «Non ci sono state reazioni isteriche al fatto se fosse malata o no. Non era malata, o almeno, non fisicamente. Si sono sollevate ben poche discussioni sul punto che soffrisse di un disturbo mentale […] la sua opinione riguardo alla sua sofferenza è stata rispettata.» La storia, però, non era vera. Alcune ore dopo la dichiarazione di Philip, è emerso che Noa era morta a casa sua non per suicidio assistito ma in seguito al rifiuto di assumere cibo e liquidi. Nel 2017, all’insaputa dei genitori, aveva contattato una clinica per l’eutanasia, ma questa si era rifiutata di aiutarla a morire. «Sostengono che io sia troppo giovane» ha detto al quotidiano Gelderlander sei mesi prima della morte.5 «Pensano che dovrei concludere il trattamento per il disturbo postraumatico e aspettare che il mio cervello raggiunga lo sviluppo completo, il che non avviene prima dei venticinque anni. E io sono crollata perché non riesco ad aspettare così a lungo.» Mentre in tutto il mondo la notizia suscitava grande scalpore, il ministro olandese della Salute Hugo de Jonge ha annunciato un’indagine sulla morte di Noa. «Siamo in contatto con la famiglia, che ci ha detto che non si è trattato di un caso di eutanasia. È comprensibile che sorgano domande sulla morte della ragazza e sull’assistenza ricevuta, ma si potranno trovare le risposte solo una volta stabiliti i fatti.» In seguito Philip ha pubblicato sul blog un post di rettifica dicendo di aver ricevuto notizie false, ma che questo non spostava i termini della questione. «C’è qualcosa nella situazione dei Paesi Bassi che fa perdere d’importanza le fake news sulla morte di Noa […] Il fatto che i genitori le abbiano permesso di andare fino in fondo con i suoi desideri, e che i medici non si siano calati nei panni degli eroi per esigere che venisse salvata da se stessa, è eloquente su come vanno le cose in questo paese. Il tipo di rispetto mostrato nei confronti di Noa, se non aiutandola almeno non interferendo nella sua scelta, è una lezione preziosa per quegli stati che insistono a comportarsi da balia, per così dire, nei nostri confronti quando si tratta della morte. Il suicidio razionale è un diritto umano primario.»6 Io credo nel diritto a morire. Credo che le generazioni future guarderanno inorridite al modo in cui permettiamo a persone disperate di soffrire e ad altre come Lesley, spinte solamente da amore e compassione, di venire sottoposte a tremende pressioni nell’infrangere la legge allo scopo di aiutarle, quando tutto ciò che desiderano è una fine pacifica e dignitosa. Non vedo però come potremmo trarre una «lezione preziosa» da una ragazzina anoressica e traumatizzata che si fa del male fino a lasciarsi morire di fame. Philip crede che chiunque debba avere il diritto a morire senza dolore, dove e quando sceglie di andarsene, anche se si trova sotto trattamento per un trauma, com’è successo a Noa, anche se il suo cervello non è arrivato alla maturità completa, anche se ci sono buoni motivi per ritenere che un giorno possa cambiare idea. Ogni test psichiatrico che rappresenti una barriera alle informazioni e alla tecnologia fornite da Philip non ha senso se lui ritiene che i malati mentali gravi possiedano una razionalità sufficiente a scegliere di morire. Il tastierino di Sarco è una foglia di fico, il messaggio di avvertenza che consente a Philip di promuovere l’apparecchio senza assumersi alcuna responsabilità verso l’utilizzatore finale. Non importa davvero se un’intelligenza artificiale abbastanza sofisticata da sostituirsi agli psichiatri sia di là da venire; Philip vuole che tutti abbiano comunque accesso al suo apparecchio, persino se c’è la speranza che un giorno possano voler vivere.

Incontro Lesley nella sua nuova casa nella campagna del Norfolk, un cottage circondato dai campi. Si occupa di scrittura creativa ed è molto impegnata nella società locale di protezione per gli uccelli. I giorni in cui insegnava alla gente a uccidersi appartengono ormai al passato. E il suo periodo di lavoro per Exit, adesso, è poco più che uno sconcertante ricordo. «In apparenza era fantastico» mi dice nel suo salotto inondato di sole. «Quando si va a un meeting di Exit è evidente che chi vi partecipa trova un grande sollievo nel riuscire a discuterne con qualcuno. Non possono ammettere con nessuno che stanno prendendo in considerazione l’eutanasia, perciò la libertà di parlare liberamente in un ambiente sicuro sembrava davvero eccezionale.» Mi racconta che le era venuta l’idea di organizzare una campagna itinerante in modo che i membri di tutto il paese potessero entrare in contatto tra loro, e la sede centrale di Exit sembrava entusiasta, ma che poi lei ha capito che volevano solo trovare nuovi iscritti. «Mi dicevano di reclutare quante più persone potessi, di incoraggiarle ad abbonarsi al manuale, di vendere libri e altro materiale, insomma, di mantenere alte le entrate.» Un sorriso triste le attraversa il viso. «Quando ho accettato il lavoro, non pensavo che avrei svolto la parte della piazzista.» Lesley ha cominciato a mettere in discussione ciò che i membri di Exit ricevevano in cambio del loro denaro. Dopo l’affare Brayley, Philip si trovava sotto indagine da parte della polizia di Londra, e quindi Lesley non poteva promettere che ci fossero altri suoi workshop. «Temevo che Exit, in realtà, sollecitasse la pubblicità intorno alla vicenda. Sprizzavano gioia ogni volta che sui giornali o in televisione appariva qualcosa che dipingeva il dottor Nitschke con toni ancora peggiori. Io, però, ero sgomenta per l’impatto della storia sul nostro lavoro per i membri.» In quanto alle telefonate degli aspiranti suicidi, Lesley dice di aver cominciato a ricevere lamentele di clienti che avevano ordinato apparecchi da Exit senza averli mai ricevuti, persone che in certi casi aspettavano da un anno o anche più. Lei si è schierata dalla loro parte ed è riuscita a farli risarcire tutti. In realtà, però, i clienti non volevano riavere i soldi: cercavano disperatamente qualcuno che mantenesse la promessa della morte pacifica venduta loro da Philip. Non avevano nessun altro posto dove andare. Il problema principale era la distribuzione dell’azoto Max Dog: Exit non riusciva a trovare un corriere disposto a consegnare fusti di azoto liquido dall’Australia al Regno Unito a prezzi ragionevoli. Alla fine, però, ha scovato un fornitore inglese di azoto, un’azienda di Margate, che vendeva fusti a Exit per 43 sterline al pezzo. Il prezzo cui Exit li rivendeva ai membri inglesi era di 465 sterline. «Il che includeva i costi di trasporto» osserva Lesley in tono di scusa. «Comunque un ricarico enorme» osservo. «Certo.» «E i clienti credevano di acquistare un prodotto Exit perché era marchiato come azoto Max Dog?» «I fusti avevano adesivi con il logo Max Dog ma si sapeva che arrivavano dal Regno Unito, perciò non penso si possa parlare di truffa.» Si sposta a disagio sulla sedia. «So che sembra un ricarico eccessivo, ma Exit ha bisogno di entrate costanti, e ha speso moltissimo per sviluppare la gamma di prodotti Max Dog. Perciò, almeno all’inizio, a me andava bene.» «Mentre adesso cosa ne pensa?» Lesley si scurisce in volto. «Capisco che debbano rientrare dei costi, altrimenti lavorerebbero in perdita. Ma credo che il margine di profitto in certi casi si basasse sull’approfittarsi del bisogno e della disperazione dei clienti: sapevano che i privati non erano in grado di acquistare i fusti direttamente – per età, condizioni fisiche o per qualunque altro motivo – e che li avrebbero comprati attraverso Exit, anche per dare un po’ di sostegno alla causa. E pagavano un prezzo davvero molto elevato.» Nonostante il nuovo rivenditore in loco, Exit non ha trovato un modo sostenibile per distribuire l’azoto a buon mercato nel Regno Unito. Quando Lesley era la coordinatrice, ricorda di essere riuscita a spedire solo tre fusti. Non ha idea se chi li ha acquistati se ne sia servito per porre fine alla propria vita. Le strade di Lesley ed Exit si sono separate dopo appena sei mesi dalla sua nomina a coordinatrice. «C’era una grande differenza tra ciò che io credevo meritassero di ottenere i membri e quello che ricevevano davvero. Philip era fermamente convinto che l’attività nel Regno Unito dovesse proseguire, e abbiamo cercato di trovare un terreno comune, ma proprio non ha funzionato.» Il contratto è stato rescisso su comune accordo, dice. «Sono molto delusa che l’associazione non si sia rivelata all’altezza delle mie aspettative. Pensavo sinceramente che stessero facendo un gran lavoro per un incredibile numero di persone. Ora che conosco i retroscena, non posso dire di ritenere che i membri occupino una posizione molto in alto sulla loro lista delle priorità. Penso a tante persone abbandonate e provo una grande amarezza.» Nel Berkshire, David si sente meglio; il Servizio sanitario nazionale è riuscito a diagnosticare la causa del suo misterioso problema digestivo. «Da allora in poi le cose sono andate molto meglio. Abbiamo trovato la terapia giusta e tutto fila liscio.» Siamo nel suo salotto, davanti a un enorme schermo televisivo, circondati da oggetti raccolti nei suoi viaggi all’estero. È un po’ in ansia: la figlia rincaserà presto e non vuole doverle spiegare che cosa ci fa una giornalista sul divano. Ciò nonostante, è ancora molto desideroso di parlarmi, ma stavolta non perché sia depresso, bensì perché è arrabbiato. «Exit si è rivelata un’autentica delusione. Più ne sono testimone, più mi ritrovo a porre in dubbio le loro reali motivazioni. Sono bravissimi nel creare pubblicità, ma dato che nel Regno Unito non hanno un’infrastruttura né una catena di rifornimento, occorre chiedersi: a che serve quella pubblicità?» David è passato per la trafila cui sono sottoposti tutti i membri di Exit. Ha comprato The Peaceful Pill Handbook e se l’è letto da cima a fondo. Si è associato in modo da poter frequentare workshop e meeting. E questa è stata la parte facile: ha dovuto solo dare il numero della carta di credito e compilare un modulo per dichiarare la sua età. Dice che non hanno fatto nulla per assicurarsi né della veridicità della sua affermazione né delle condizioni della sua salute mentale. E lui non ha ottenuto le informazioni che cercava. Durante il nostro primo incontro, mi ha detto di sapere che Exit gonfiava i prezzi ma che non gli importava di pagare di più perché aveva fiducia in Philip. Poi, però, sono cominciati i dubbi. «Trattano con le persone quando sono più vulnerabili, persone che farebbero di tutto per raggiungere il proprio scopo.» «Si sentiva davvero a terra quando ha incontrato Exit, non è così?» Capisce dove voglio andare a parare e non ci sta. «A mio avviso questo non ha niente a che vedere con la depressione» replica. «È una mia convinzione fondamentale che chiunque debba avere il diritto di scegliere quando e dove morire. Penso che la tendenza dei gruppi antieutanasia a puntare il dito contro la depressione e a farne la ragione per proibire il diritto a morire sia uno sbaglio. Sì, certo, c’erano dei momenti in cui ero depresso, ma non sono mai arrivato al punto in cui la depressione prendesse il sopravvento. Non sottovaluto la forza della depressione. Essere depresso, però, non conduce necessariamente al suicidio.» Ciò che ha fatto davvero uscire David dai gangheri è l’apparecchio Destiny. «Sembra una meraviglia, il rimedio a ogni male. Spedisci 200 sterline, ti arriva a casa, tante grazie, tutti i tuoi problemi sono risolti. Ma se ci pensi, per far funzionare la macchina occorre procurarsi una serie di accessori extra. Serve un fusto contenente una miscela di gas che al momento non esiste.» Parla del mix azoto-monossido di carbonio che alimenta tanto Destiny quanto il Mercitron. «Se anche esistesse, prendendo come base di partenza l’azoto che vende Exit International, costerebbe centinaia di sterline. Da aggiungere alle 200 già pagate per l’apparecchio Destiny. Il quale, per stessa ammissione del Peaceful Pill Handbook, non è mai stato usato. Una tecnologia mai usata, eppure strombazzata in modo massiccio.» In mezzo allo scalpore suscitato dalla presentazione di Destiny a Edimburgo, David voleva scoprire se poteva essere uno dei primi acquirenti. «Ho scritto a Exit International in almeno due occasioni, chiedendo come funzionasse il sistema, che cosa fosse incluso e cosa no, cosa restava da comprare. E purtroppo sono stato ignorato.» Pensa che il macchinario non sia mai stato altro che una trovata pubblicitaria. «L’obiettivo era solo accrescere il profilo di Exit International, trovare nuovi soci. Volevano gente che si abbonasse al manuale. Una pubblicità di quel tipo può solamente aiutarli. Soprattutto dopo che il disegno di legge sul diritto a morire è stato votato alla Camera dei comuni: una proposta così moderata e respinta in modo tanto schiacciante che probabilmente non se ne riparlerà per almeno qualche anno.» Philip ammette senza problemi che nessuno ha mai utilizzato l’apparecchio Destiny per morire. Ha citato vaghe «ragioni legali» che lo obbligano a mantenere il progetto a livello di prototipo. Forse Sarco non arriverà a nulla, come Destiny e il CoGen, che vada oltre i titoli dei giornali. Ma non ne sono così certa. I piani di Philip per Sarco sembrano molto più concreti. Mi ha detto di essersi procurato dei locali in Svizzera in cui stabilire la nuova clinica Exit per la morte assistita, dove Sarco sarà «il pezzo forte» e che dovrebbe aprire tra pochi mesi. Mentre scrivo si sta stampando Sarco 2.0, dotato di una base in cui versare davvero l’azoto. Exit, inoltre, già diffonde comunicati stampa con l’identità della prima persona in lista a usare Sarco in Svizzera: Maia Calloway, una quarantunenne statunitense affetta da sclerosi multipla. David non ha rinnovato la sua iscrizione. Non gli serve: ha scoperto quanto voleva sapere ed è riuscito ad assemblare il suo kit da suicidio ricorrendo a fornitori trovati online senza alcun collegamento con Exit. Immagino che la pecca nel modello di business di Exit sia questa: se soddisfa i bisogni dei membri, il numero di questi ultimi non può che diminuire. A David piace parlare del suo macchinario. «Occorre fare un po’ di ricerca» dice. «Tutto quanto ha acquistato è legale e comprato da fonti legali?» «Assolutamente.» «È stato impegnativo procurarsi tutto quanto?» «Certo. Alcuni componenti ho dovuto farmeli spedire dall’estero. È un po’ come un puzzle. Occorre mettere insieme pezzi diversi perché funzioni. Ho una formazione tecnica, eppure in certe fasi dell’assemblaggio ho faticato pure io. Penso che la maggioranza dei membri di Exit non abbia conoscenze meccaniche e voglia essenzialmente acquistare un kit pronto all’uso con un manuale d’istruzioni, una guida al montaggio che dica di inserire il pezzo A nella presa B, poi fare C ed ecco il risultato.» Mi accompagna in camera sua, all’ultimo piano. Accanto alla porta c’è un armadio. Si abbassa per tirare fuori da qualche nascondiglio in basso un groviglio di tubi, barattoli e regolatori. È tutto un po’ affrettato: non vuole proprio che la figlia ci trovi qui adesso, ma è orgoglioso della sua opera e ci tiene che io la veda. «Questo è tutto ciò che le serve per togliersi la vita?» «Sì, è tutto qui nel mio armadio.» Provo a immaginare come potrei dormire sonni tranquilli quando in fondo al letto c’è il dispositivo che un giorno mi ucciderà. «Non la mette a disagio tenere questo in camera?» «No» risponde deciso. «È la mia fonte di conforto e la mia polizza di assicurazione. Mi dona serenità mentale. Molte, molte persone hanno paura di invecchiare, ammalarsi, perdere la propria autonomia, diventare un fardello per gli altri. Tanti, tanti, tanti non vogliono che accada. Se ci si può dotare dei mezzi per raggiungere la fine, degli strumenti che in un momento a nostra scelta c’impediranno di diventare un peso per gli altri, la paura del futuro si dissolve.» David non ha bisogno di una macchina per morire. Ha bisogno di vivere in un mondo dove la vecchiaia, la malattia e la morte non siano più spaventose; un mondo dove imparare a vivere insieme alla nostra mortalità ed essere disposti a considerare la malattia e la morte come componenti naturali della vita. Per quello, ci occorrono investimenti adeguati nella ricerca sulla demenza, sulla malattia del motoneurone e sulle altre condizioni che infondono tanta paura nei nostri cuori: ci serve trovare finanziamenti per le cure palliative e l’assistenza sociale perché nessuno possa mai considerarsi un «peso». Perché le persone che vogliono avere il controllo sulla loro morte spesso, più che la morte, cercano dignità e rassicurazione. E, più di tutto, abbiamo bisogno che il diritto a morire sia salvaguardato dalla legge. Abbiamo bisogno di trovare un modo di legalizzare la morte assistita senza pericolo per individui vulnerabili che vogliono vivere. Ciò richiederà un maggiore sforzo intellettuale del progetto di una macchina per morire, e non renderà ricco o famoso nessuno, ma finché non raggiungeremo questo risultato persone disperate saranno esposte allo sfruttamento. Non è difficile rintracciare Maia Calloway. Ha lasciato il suo indirizzo email in un post che ha pubblicato nella sezione dei commenti di un blog sul diritto a morire, e quando le scrivo un messaggio mi risponde nel giro di pochi minuti. «Sarei ben felice di parlare con lei e di contribuire in qualsiasi modo» scrive. «Mi affascina Sarco e ciò che rappresenta.» Ci accordiamo per sentirci via Skype l’indomani. Exit diffonde regolarmente comunicati stampa riguardo alla vicenda di Maia. Uno è arrivato il giorno del lancio a Venezia, e lo leggo sul vaporetto che mi porta in città dall’aeroporto. Mostra una fotografia di Maia che sorride su una spiaggia: ha un viso delicato, occhi azzurro ghiaccio e uno scialle a righe avvolto sulle spalle snelle. Dice che in passato Maia si è già recata in Svizzera per il suicidio assistito, ma che poi ha deciso di tornare negli Stati Uniti. «Adesso, dopo quasi un anno e mezzo, Maia pensa che sia arrivato il momento», leggo in un corsivo neretto mozzafiato. «Il momento di usare Sarco». È stato Philip a sollevare la questione di Maia quando gli ho parlato quella sera. «Ho visto il comunicato stampa» ho detto. «È andata in Svizzera e ha cambiato idea?» «Non più di tanto; si è resa conto che la sua sclerosi multipla è un processo più lento del previsto e si è detta: “Me ne torno in America”. Ma ha deciso di ripresentarsi alla clinica. Occorre solo far collimare i suoi tempi con i nostri. Se il macchinario sarà disponibile, dice che è interessata a provarlo.» «Dunque sarà la prima persona a usarlo?» «Se i tempi corrispondono, sì» risponde Philip incrociando le dita, con un senso d’impazienza quasi macabro. Quando arriva il momento della nostra chiacchierata via Skype, Maia mi scrive per dirmi di chiamarla al telefono: il suo assistente domiciliare non c’è e lei non sa come far partire Skype. «Mi scusi» dice quando mi risponde, con voce bassa ma ferma. «Vedrò di farmi sistemare tutto. La sclerosi multipla mi sta dando dei problemi a livello cognitivo.» Ha appena compiuto quarantun anni, dice, eppure si sente «più simile a una bambina a causa del progresso della malattia. È come se ringiovanissi. Sono una piccola desiderosa di conforto: sono sempre in cerca di coccole e abbracci, mi occorre avere vicino qualcuno che mi prepari da mangiare, m’infili a letto e mi rimbocchi le coperte.» Maia vive con il suo migliore amico a Taos, un paesino del New Mexico, all’estremità meridionale delle Montagne Rocciose. Mentre la malattia peggiorava, ha perso sia la madre sia la sorella. «Non avevo più nessuno che badasse a me, a parte un assistente domiciliare per alcune ore al giorno. Perciò è il mio amico a occuparsi di me. È come un fratello maggiore.» La schiettezza e la voce sommessa ricordano quelle di una bambina. Sono passati pochi minuti dall’inizio della nostra conversazione e una sorta d’istinto materno erompe dentro di me, scatenando una fitta d’orrore. Cosa ci fa Maia nel mondo di Philip? Ma quando le chiedo quali siano le sue condizioni di vita quotidiana, appare chiaro che sto parlando a un’adulta intelligente e razionale. Possiede il lessico articolato della donna cresciuta e istruita che è. «È una continua discesa. Insidiosa come un corridoio che diventa sempre più stretto. Non soffri di demenza come con l’Alzheimer, ma subisci gravi perdite cognitive: memoria, attenzione, capacità decisionali e di apprendere nuove competenze… Tutto questo viene pesantemente danneggiato. Infine, con le lesioni al midollo spinale, braccia, gambe e torace smettono di funzionare.» La paralisi è inevitabile, dice. «Quando si raggiunge la completa paralisi somiglia molto alla malattia del motoneurone, ma è un processo che si protrae più a lungo. In un anno o due potrei ritrovarmi completamente paralizzata, ma anche a quel punto non verrei considerata allo stadio terminale o in possesso dei requisiti per l’ospedalizzazione, perciò nella parte finale della mia vita forse sarei costretta ad anni di totale immobilità a letto, senza alcun controllo sulle mie funzioni corporali e con difficoltà di comunicazione.» Già fatica a controllare i muscoli del collo e soffre di problemi respiratori. «Non vorrei nemmeno arrivare a questo livello. Non me la sento di spingermi troppo oltre.» Quando Maia stava bene, era una donna grintosa. Lavorava nella produzione cinematografica e viveva per la carriera. «Se avesse chiesto alla me stessa di un tempo: “Vorrebbe vivere la vita di adesso?”, la mia risposta sarebbe stata: “Certo che no”. Ma riuscire a farlo davvero è molto più difficile di quanto si creda. Colpa dell’istinto di sopravvivenza.» «Cosa intende con “riuscire a farlo davvero”?» «Voglio dire o farla finita da soli in qualche modo, seguendo i consigli del Peaceful Pill Handbook di Philip, oppure andare da qualche parte dove prendersi la medicina. Sono stata in Svizzera, ho avuto il via libera ma sono tornata a casa perché non ero pronta.» Il racconto di Maia della sua visita in Svizzera è diverso da quello di Philip. Non è vero che lei si sia resa conto che il decorso della malattia del motoneurone fosse più lento del previsto; piuttosto, non ce l’ha fatta a portare a termine la propria decisione. È arrivata a Zurigo da sola. È stata visitata dai medici della clinica per l’eutanasia Lifecircle, che le hanno assegnato un assistente domiciliare per alcuni giorni. È andata in giro nei paraggi, ha visitato un monastero. E poi ha iniziato a sentirsi in colpa. «Penso si trattasse davvero di vergogna indotta dalla considerazione che la mia cultura ha del suicidio. In America tanti soffrono della malattia del motoneurone, e nella nostra società c’è un accordo non scritto per cui se ti è toccata questa malattia, ci spiace tanto ma devi imparare a conviverci, devi continuare a lottare. Sei una specie di poveraccio se non ce la fai a resistere a oltranza: non sei uno tosto, ti manca il coraggio.» E poi ha cominciato a pensare a suo padre. «C’era una voce che mi diceva: “Non puoi permettere che tuo papà perda un’altra figlia… Non puoi e basta. Non andartene prima di lui”.» Comunque vada, il suicidio non è mai un gesto completamente solitario, individuale. Ci sono sempre altre persone coinvolte: chi ti assiste, chi ti sta vicino in quel momento, chi trova il tuo corpo, chi ti lasci indietro. «Suo padre sapeva del suo viaggio in Svizzera?» «No. L’ha scoperto da uno dei suoi amici ficcanaso. Si è arrabbiato molto. Si è sentito tradito. E io mi sono detta: “Oh Dio, papà è infuriato con me, sono nei pasticci”. Così sono risalita di corsa sull’aereo e sono tornata dall’amico che si occupa di me. L’accordo era che avremmo tenuto duro ancora un po’ e fatto le cose per bene, fornendo a tutti i familiari le informazioni che desideravano, nella speranza che qualcuno mi accompagnasse di nuovo quando fossi stata assolutamente pronta. Ma l’aspetto ironico è che, una volta tornata a casa, niente si è risolto. Non vogliono accettarlo. Non vogliono parlarne. Non vogliono accompagnarmi all’aereo. E di sicuro non vogliono andare in Svizzera. La parte triste della storia è che, pur essendo tornata indietro “per fare le cose per bene”, la loro risposta è sempre la stessa.» È stato in Svizzera che Maia ha incontrato Philip per la prima volta. «Per me è un eroe» dichiara entusiasta. Si erano scambiati delle email in precedenza, e quando lei ha scoperto che si sarebbero trovati nel paese durante gli stessi giorni, gli ha chiesto di incontrarsi. «Sono andata a Grindelwald con il mio assistente domiciliare. Ho conosciuto Philip, Fiona e il loro cagnolino Henny. È stato meraviglioso. Ci siamo mangiati una pizza e abbiamo parlato un sacco. Poi lui mi ha mostrato sull’iPhone alcune foto del suo apparecchio e ha detto: “Questo è ciò a cui sto lavorando ora”.» Philip non si lascia mai sfuggire un’opportunità. Adesso riesco a immaginarmelo intorno a un tavolo insieme alla moglie, al cane, alla sua nuova amica disabile e al suo assistente domiciliare, con una fetta di pizza in una mano e l’iPhone nell’altra, mentre fa scorrere le immagini illustrative di Sarco e snocciola aneddoti su 2022: i sopravvissuti. Maia ne è rimasta impressionata. «Ho detto tra me: “Wow, questo sì che è assolutamente favoloso”. Non mi sembrava però che potesse essere pronto a breve, perciò sono tornata negli Stati Uniti e non ci ho più pensato.» Sono rimasti in contatto. «Ho scritto a Philip: “Se posso esserle d’aiuto in quanto cittadina statunitense cui è negato il diritto a morire, mi permetta di promuovere la sua causa”.» Ed è ciò che è successo. «Alla fine mi ha chiesto: “Sarebbe interessata a provare Sarco?”, e io ho risposto: “Be’, valuterò la possibilità, e dirò ai media che sono molto interessata alla cosa per via delle limitazioni che m’impone la legge”.» A questo punto Maia sceglie con cura le parole perché, se è certo che sia interessata a Sarco, non intende morirci dentro. «La mia funzione respiratoria è molto limitata e soffro un po’ di… cos’è quella cosa per cui si ha paura degli spazi chiusi?» «Claustrofobia.» «Ecco. Penso che Sarco sia fantastico. È bello, è elegante. Il simbolo di qualcosa di meraviglioso. Ma per me, con la mia malattia e il mio stato ansioso, non so se sia la scelta giusta. Continuo a esserne affascinata e ritengo che la strada del futuro passi di lì.» Eppure, ancora prima che possa chiederglielo, Maia solleva una grande quantità di motivi di preoccupazione riguardo a Sarco. «Quando leggiamo su Newsweek che “Sarco è la Tesla delle macchine della morte”, dobbiamo fare attenzione a non lasciarci affascinare dal suo aspetto elegante e chic al punto da dimenticare che parliamo di vita e di morte, e che è un processo che si deve valutare con estrema razionalità.» Sarco rende la morte qualcosa di glamour, eccitante e pertanto ricco di fascino, ma il suicidio è comunque già abbastanza contagioso, soprattutto quando riguarda i giovani e ottiene una copertura mediatica internazionale. Nel mese successivo alla morte di Marilyn Monroe negli Stati Uniti fu riscontrata una crescita del 12 per cento dei suicidi,7 mentre la scomparsa di Robin Williams venne collegata a un incremento del 10 per cento nel tasso di suicidi nell’arco dei cinque mesi dopo che si uccise.8 Al suicidio non occorre una nuova macchina che veicoli ulteriormente il suo appeal. «Mi preoccupa anche che si verifichi qualche malfunzionamento nella stampa fai da te» continua Maia. «Non si sa mai che tipo di problema possa capitare.» Io non ci avevo pensato nemmeno, anche se a Venezia Alex si era affrettato ad ammettere che la stampa era stata un incubo perché «le macchine tendono a incasinarsi». Una macchina difettosa rischia di avere effetti devastanti per chiunque si sia preparato psicologicamente a usarla. Maia ha parlato di Sarco con il cofondatore di NuTech, Derek Humphry. «Derek mi ha detto: “In passato si è provato a stampare cose del genere e ci sono stati problemi. Il mio consiglio è che, se lei vuole essere la prima persona a usarla, dovrebbe avere qualcuno accanto pronto a praticarle un’iniezione”. E io ho pensato: “Oh, merda”.» La prima volta in cui qualcuno s’infilerà in Sarco e premerà il pulsante sarà un avvenimento. Philip sta già solleticando l’interesse della stampa al riguardo. Maia, però, non pensa alla propria morte come una performance: non fa parte del pubblico dello show di Philip al Fringe Festival di Edimburgo che vuole divertirsi a fare un giro sulla sua nuova macchina della morte. Deve sapere che qualunque metodo utilizzerà terminerà la sua vita definitivamente. «Dovrò averne la certezza assoluta.» Nella vita di Maia non ci sono certezze. È in un limbo, non sta abbastanza male per morire né abbastanza bene per vivere. Ma è il modo in cui il mondo intorno a lei risponde alla sua incapacità di cadere in categorie nette, alla sua condizione interstiziale, a renderle la vita così insopportabile. «Per le malattie degenerative, incurabili, non si ha quel genere di compassione riservata ai malati in fin di vita negli ospedali. Ovviamente, però, non essendo in salute non si può continuare a essere competitivi. E allora si è tagliati fuori. La società americana non favorisce affatto chi soffre di imperfezioni fisiche. Anzi, gli salta subito alla gola. Di sicuro lo fa il settore dei media, da dove vengo. Quando sei imperfetto, debilitato e spaventato, la società non ti abbraccia di certo.» «Ma la risposta non consiste nel cambiare quell’atteggiamento sociale anziché nello sviluppare una tecnologia per uccidersi?» «Sì, giusto! Penso che dovremmo lavorare su tutti i fronti.» Philip mi ha detto lo stesso a Venezia. Ma proprio come l’effetto della fecondazione artificiale sulla ricerca riguardo alle cause dell’infertilità, la facile risposta fornita da Sarco rende meno probabile che si compiano indagini per capire perché qualcuno voglia smettere di vivere. E mentre la morte resta un tabù e il suicidio assistito continua a essere un’opzione praticabile solo per un esiguo numero di privilegiati, ci sarà sempre un mercato per la morte fai da te. Come nel caso degli aborti illegali, la richiesta non cesserà mai, a prescindere dall’esistenza di una tecnologia o di una cornice legale che consentano di farlo in modo sicuro e dignitoso. «Morire nel mio letto, con il mio adorato gatto del Cheshire, dopo aver consumato un ultimo pasto… Questo penso sarebbe il modo ideale per andarmene» dice Maia. «Peccato che le mie dinamiche familiari non lo permettano. Come tante famiglie americane, siamo terrorizzati dalla malattia e dalla morte. Data la mia situazione domestica, sarebbe probabilmente meglio trovarsi a morire in un pacifico appartamento vista lago a Zurigo o Basilea, uno spazio sicuro e protetto, dove il suicidio è culturalmente accettato, senza vergogna.» Tra tutte le persone che ho incontrato desiderose di esercitare il controllo sul momento dell’uscita di scena, Maia è quella più prossima al termine. Si aspetta di concludere la sua vita alla clinica Lifecircle di qui a pochi mesi. La morte non è una «polizza d’assicurazione» che l’aspetta nell’armadio, ma un concetto vago con cui deve comunque confrontarsi. La sta guardando dritta in volto. «Esiste una morte perfetta?» le chiedo. Maia s’interrompe per un istante. «Dal punto di vista estetico, certo, Sarco lo è. Un elegante dispositivo che ti manda su di giri prima di andartene, giusto? Lo puoi portare dove preferisci, in un’ambientazione che ti piaccia. Ecco, esteticamente è la morte perfetta» risponde alla fine. «Ma la morte davvero perfetta, nel senso più profondo del termine, è quella che si ottiene quando hai chiesto scusa a tutti e sei venuto a patti con quanto ti è capitato nella vita e con la tua mortalità. Hai reciso i legami di attaccamento con i beni materiali, col risentimento, le dipendenze, la rabbia. Questa per me è la morte perfetta: comprendere e aver attraversato queste fasi di accettazione. Sarco è bello, ma se non hai sistemato queste cose, quando ci entri resti un’anima tormentata.» «La morte perfetta è una condizione mentale e non uno strumento per morire?» «Sì» risponde malinconica. «Sì, sì, sì.» Epilogo

Mentre scrivo queste pagine, Harmony non è ancora arrivata sul mercato. Sidore e le altre bambole rimangono al centro del mondo di Davecat, indisturbate dall’amante dotata di intelligenza artificiale che un giorno potrebbe sottrarre loro il suo cuore. La crocchetta di pollo JUST non si trova ancora sul menu di un ristorante di lusso in un paese tollerante in materia di regolamento alimentare. I membri del team del Chop stanno aspettando che la Fda stabilisca se sarà possibile mettere feti umani nelle biosacche nel corso del 2020, e sperano che divenga una pratica diffusa entro la fine del decennio. Wes e Michael hanno avuto un bambino e l’hanno chiamato Duke. Smithe8 ha cancellato il suo account Reddit ed è sparito dalla maschiosfera. Una stampante a Haarlem sta sputando gli strati di plastica semibiodegradabile da cui prenderà forma Sarco 2.0. Maia Calloway non sarà la prima a usarlo, ma Philip dice che dietro di lei ci sono almeno un centinaio di persone in coda per poter morire nel suo guscio metallizzato. In altre parole, nessuna delle invenzioni in cui mi sono imbattuta esiste ancora. Harmony, la carne JUST, la biosacca e Sarco saranno pure fortemente strombazzate, ma le soluzioni che promettono sono troppo allettanti, e l’imperativo commerciale alle loro spalle troppo potente, perché non vedano mai la luce. Un giorno saranno disponibili sul mercato, anche se non così presto come nelle intenzioni di Matt, Josh, del team del Chop e di Philip. Mentre questi prodotti restano nei laboratori, i loro competitor fanno passi da gigante. DS chiede anticipi di 300 sterline per la sua prima generazione di teste robot. Cloud Climax ha cominciato a rifornire i propri magazzini di una testa robot da 3000 dollari, Emma, prodotta da un’altra azienda cinese, AI-Tech: la pubblicizza come «una docile segretaria» che si rivolge al proprietario chiamandolo «padrone». Emma è poco più di un manichino che ammicca, sbarra gli occhi e ricorda gli appuntamenti in agenda, ma AI-Tech promette che «più ascolta, più impara». Alla Dutch Design Week del 2019 è stato presentato un nuovo prototipo di utero artificiale che non avrà più bisogno di feti di agnello. Il progetto di ectogenesi dell’Eindhoven University of Technology pende dal soffitto come un enorme pallone da spiaggia cremisi, con tanto di rassicurante battito cardiaco materno artificiale. Il team olandese lo collauderà usando modellini di feti umani stampati in 3D e dotati di una grande quantità di sensori, e ha intenzione di passare il prima possibile all’utilizzo su bambini veri. Nell’ottobre 2019 il progetto ha vinto dei finanziamenti dall’Unione Europea per 2,9 milioni di euro. Il coordinatore, il professor Guid Oei, ha definito la propria invenzione «rivoluzionaria».1 Startup nel settore della carne pulita spuntano in tutto il mondo, con una crescita esponenziale paragonabile a quella delle cellule starter nel siero fetale bovino. La Fda negli Stati Uniti e il governo inglese non hanno ancora deciso se la carne pulita si possa comunque chiamare «carne», e i produttori stanno rinunciando tranquillamente all’etichetta «pulita»; non è accattivante, e mette ansia all’industria della carne in un momento in cui tutti vogliono accantonare le polemiche e investire in modo pesante. Persino Bruce sta cambiando idea: nel settembre 2019 ha annunciato che il Gfi intendeva «accogliere il nuovo termine» e cominciare a chiamarla «carne di coltura».2 Gli hamburger a base vegetale, però, stanno conquistando il mondo. Quando Beyond Meat è entrata in borsa ha messo a segno la migliore offerta pubblica di vendita del 2019: le sue azioni sono arrivate a un +600 per cento nel primo mese.3 L’Impossible Whopper adesso si trova sul menu di ristoranti Burger King da una parte all’altra degli Stati Uniti, e Impossible sta cercando il modo per soddisfare questa domanda. La carne prodotta senza il ricorso ad animali prende piede, anche se non si è ancora capito bene che cosa sia la carne separata dal corpo. Prima che la nascita, il cibo, il sesso e la morte cambino per sempre, occorre superare ostacoli significativi. Innanzitutto ci sono il fattore schifo, la zona perturbante, il disgusto provato dagli esseri umani quando qualcosa di tanto intimo come il loro modo di nascere, nutrirsi, fare sesso e morire viene sfidato da mezzi di produzione completamente inediti. Gli imprenditori cercano soluzioni per aggirare il problema con astute scelte lessicali, argomenti emotivi e design accattivante. Non c’è niente di nuovo nello stupore di fronte al nuovo. E se adesso nessuno si stupisce più dei bambini concepiti in provetta, altrettanto succederà alle mogli robot e ai neonati nelle biosacche. Infine c’è la questione di chi potrà servirsi di queste tecnologie. Saranno prodotti d’élite, almeno agli inizi. Nonostante le roboanti dichiarazioni di Philip sul diritto universale di ogni uomo al suicidio razionale, la morte offerta da Sarco è un lusso per privilegiati, e per quanto Josh lavori per un mondo «guidato da giustizia, ragione ed equità», non riesco a immaginarmi che le persone da lui conosciute in Liberia facciano scorpacciate di hamburger Wagyu tanto presto. L’ectogenesi conferirà uguaglianza riproduttiva solo alle donne abbastanza benestanti da permettersi una maternità surrogata per questioni sociali, e il salvataggio dei feti sarà possibile solamente nei paesi abbastanza ricchi da includerlo nel loro pacchetto di opzioni di assistenza sociale. Persino i robot del sesso prodotti in Cina a prezzo stracciato richiederanno una fetta notevole delle entrate disponibili. Gli uomini decisi «ad andare per la loro strada» avranno bisogno di un bel po’ di soldi per liberarsi finalmente delle donne. Sono i maschi a dominare l’industria tecnologica, e le invenzioni su cui lavorano riflettono il loro ego e i loro desideri. Le donne, però, subiranno le conseguenze delle tecnologie che ho esaminato in questo libro, e non parlo solo dei robot del sesso e degli uteri artificiali. La maggioranza dei pazienti morti usando i macchinari di Kevorkian erano donne,4 e dovunque il suicidio assistito sia legale le donne lo scelgono più spesso degli uomini,5 anche se in genere il suicidio è un fenomeno che tocca maggiormente i maschi. È più probabile che le donne vivano più a lungo dei compagni e che siano destinate a prendersi cura di loro, invece del contrario. È possibile che siano le donne a sentire maggiormente la paura di essere percepite come un peso. Per di più, come mi ha detto Mark Post: «La carne è sempre stata associata al potere». Chi mangia carne «mangia da uomo». In ogni parte del mondo, gli uomini consumano più carne delle donne.6 La carne è virile, e così il sovraconsumo galoppante all’origine di tanti danni. Se la soluzione è la carne prodotta in laboratorio, tutti noi ci ritroveremo dipendenti da tecnologie sempre più specializzate in un campo dove un tempo eravamo autosufficienti, ma le donne in misura sproporzionata al confronto con il loro originario desiderio di carne. Queste invenzioni ci dicono molto degli appetiti maschili verso il cibo e il sesso, nonché del desiderio maschile di controllare la nascita e la morte. Tanto gli uomini quanto le donne, tuttavia, temono il disordine e la sensazione d’impotenza. Gli esseri umani vogliono il controllo sull’ambiente che li circonda, sul cibo, sui corpi… e l’uno sull’altro. I robot del sesso sono partner surrogati, privi dell’autonomia che rende le relazioni umane tanto precarie. La carne pulita è un surrogato degli animali, senza la merda, le malattie e l’inquinamento che potrebbero condurci all’estinzione. Gli uteri artificiali sono surrogati delle donne incinte, con i loro corpi difettosi e la potenzialità di rivelarsi cattive madri. Le macchine della morte sono un surrogato di una morte imprevedibile e priva di dignità. Tutto questo si frappone tra noi e la natura, tra noi e il mondo che ci circonda, tra noi e gli altri. Se siamo d’accordo nell’«esternalizzare» il cibo, il sesso, la nascita e la morte, affidandoli alle macchine per avere l’illusione del controllo, rischiamo di perdere la nostra empatia, le nostre imperfezioni, la nostra capacità di agire, la contingenza della nostra vita. La tecnologia ci disumanizza. Se anche viene davvero sviluppata secondo le migliori intenzioni – Salviamo il pianeta! Facciamo sopravvivere i bambini prematuri! Diamo compagnia ai solitari! Liberiamo i malati! – non sappiamo in quali mani finiranno le nostre invenzioni, per cosa verranno usate e dove alla fine ci porteranno. I «problemi» che le innovazioni presentate in questo libro dovrebbero risolvere sono stati causati in primo luogo dalla tecnologia. L’agricoltura industriale ha reso insostenibile l’allevamento animale; la pillola anticoncezionale ha dato alle donne un’indipendenza che risulta seccante per uomini desiderosi di una compagna che esista per il loro esclusivo piacere; gli interventi medici hanno fatto sì che la gestazione all’interno del corpo umano sembrasse ancora più rischiosa; medicine perfezionate hanno trasformato l’invecchiamento, la malattia e la morte in eventi spaventosi. Ogni volta che ci appoggiamo a soluzioni tecnologiche, rischiamo di diventare in misura sempre più complessa dipendenti da queste per svolgere quanto ci è sempre venuto naturale. Rinunciamo al potere su noi stessi e perdiamo parti di noi stessi. Nessuna di queste invenzioni rappresenta in realtà una soluzione al problema: sono tutte metodi per aggirarlo. Anziché esaminare il perché alcuni desiderino unirsi a partner privi di autonomia, avere figli senza una gravidanza, mangiare carne a più non posso a dispetto dei danni al pianeta e al nostro corpo o esercitare un controllo totale sulla propria morte, le persone che ho incontrato ci stanno vendendo un modo per ignorare le naturali ansie dell’uomo. Invece di liberarci, ci aiutano a convivere con i condizionamenti che c’intrappolano a monte. Li depoliticizzano, li oscurano, li accantonano. Ci danno dei motivi per non conoscere meglio noi stessi. Che significato ha tutto questo? Qualunque noi vogliamo attribuirgli. Sotto la luce più distopica, vuol dire che le donne potrebbero diventare obsolete, che l’empatia sarà sempre più faticosa, che le multinazionali sarebbero in grado di ottenere un controllo totale sull’industria della carne, che individui vulnerabili riuscirebbero a scaricare un apparecchio per morire senza alcuna sorveglianza. Questa, però, sarebbe una visione fatalistica della natura umana che io non accetto. Prima che queste invenzioni siano immesse sul mercato, possiamo ancora usare il tempo che ci resta per esaminare innanzitutto perché pensiamo di averne bisogno. Poi possiamo attuare i cambiamenti e i sacrifici necessari a risolvere i problemi umani fondamentali invece di ricorrere alla tecnologia per insabbiarli. Fare sacrifici sarà indispensabile: non possiamo avere la carne nel piatto e il pianeta in buona salute, non possiamo avere tutto ciò che vogliamo senza pagarne le conseguenze, qualunque cosa dicano scienziati e imprenditori. Se non siamo disposti a cambiare il nostro comportamento, saranno queste invenzioni a cambiare noi. Il progresso è il coraggio di abbracciare una mentalità diversa. Il che deve venire prima dell’innovazione tecnologica, non come sua conseguenza. E in alcune parti del mondo già stiamo attuando i cambiamenti necessari per andare avanti senza queste invenzioni. Ogni anno, almeno nei paesi ricchi, a sempre più cittadini viene concesso il diritto a morire in modo sicuro e dignitoso. Le madri ottengono migliore assistenza medica e garanzie per il loro lavoro. Il numero dei vegani o di chi sceglie con decisione di mangiare meno carne cresce, mentre diminuiscono i genitori che impongono ai loro figli un’alimentazione carnivora. Gli incel e i MGTOW del movimento per i diritti maschili sono una minoranza chiassosa ma esigua: la maggior parte degli uomini vuole avere compagne, sorelle, figlie circondate dal rispetto, protette dalla legge ed eguali nei diritti. Le persone che ho incontrato in queste pagine ne sono consapevoli, ma sanno anche che le società faticano a cambiare e si possono fare soldi offrendo soluzioni più comode. Tocca a noi scegliere se accettarle. Se solo tutti si fossero presi la briga di leggere per intero il totemico saggio «Fifty Years Hence» scritto da Churchill nel 1931 avrebbero trovato queste conclusioni: «Progetti mai sognati prima dalle generazioni passate assorbiranno l’attenzione dei nostri immediati discendenti: costoro avranno nelle loro mani forze capaci di una devastazione terribile e potranno godere di una messe di comodità, attività, divertimenti e piaceri, ma i loro cuori saranno tormentati e le loro vite desolate se non possiederanno una visione in grado di sollevarsi sopra la materialità». Ho cercato di scoprire quali saranno gli effetti sui «nostri immediati discendenti» di questi progetti «mai sognati prima». L’utopia per uno è la distopia per un altro. Ma le parole che più mi sono rimaste impresse non sono arrivate da Matt McMullen o da Mark Post o da Anna Smajdor o da Philip Nitschke. A pronunciarle è stata forse la persona più insospettabile che io abbia conosciuto. Mentre richiudevo il notebook, in quella fredda giornata alla Open University di Milton Keynes, il sociologo vegano Matthew Cole finendo il suo caffè mi ha detto: «Al posto di riforme, rivoluzioni e proteste, appiccichiamo delle pezze tecniche ai problemi […] Ogni volta che la tecnologia rimpiazza l’etica, facciamo un danno a noi stessi: ci neghiamo l’opportunità di crescere». Non è possibile condurre una vita egoista con la coscienza perfettamente pulita, ma convivere con l’imperfezione, il compromesso, il sacrificio e il dubbio è una parte fondamentale dell’esperienza umana, fondamentale come la nascita, il cibo, il sesso e la morte. Possiamo scegliere se accettare la confusione della nostra esistenza oppure continuare a servirci della tecnologia per cancellarla, come i tappi per le orecchie nella mia stanza d’albergo a Las Vegas. Non ci occorrono i robot del sesso e la carne vegana. La libertà e il potere che ci promettono sono già nelle nostre mani. Abbiamo già le risposte. Metterle in atto ci richiederà molto di più che aprire una sacca, chiudere una porta o azionare un interruttore. Ringraziamenti

Sono incredibilmente grata alla generosità delle persone che mi hanno permesso di intervistarle per questo libro. Molte non immaginavano che parlare con me avrebbe sottratto loro tanto tempo. Vi ringrazio, e grazie anche per avermi sopportata così a lungo. Vorrei ringraziare anche: Le mie agenti, Sophieclaire Armitage e Zoe Ross, per il sostegno e le idee, e per aver capito al volo ciò che volevo fare. Il mio editor, Kris Doyle, per l’entusiasmo, la limpidezza dello sguardo e il titolo. James Annal, per il meraviglioso progetto di copertina. La mia addetta stampa, Anna Pallai, per la determinazione in tempi così straordinari. Le persone che ho contattato e distolto di gran lunga troppo spesso dal loro lavoro, molto più importante: Julie Kleeman, Rick Adams, Sarah Eisen e Saul Margo. Grazie per aver messo a disposizione le vostre conoscenze. I miei colleghi del Guardian: molto di questo libro è stato reso possibile grazie a ricerche che ho svolto per articoli apparsi per la prima volta sul giornale. Enormi ringraziamenti vanno a Tom Silverstone, che ha fatto molto perché il mio lavoro sui robot del sesso prendesse vita, e a Mike Tait e Mustafa Khalili, che hanno commissionato il film che io e Tom abbiamo realizzato insieme. Grazie anche a Clare Longrigg, Jonathan Shanin, David Wolf, Charlotte Northedge, Ruth Lewy e Melissa Denes, che con la lama tagliente del loro editing mi hanno insegnato a scrivere. Coloro che hanno letto le primissime bozze: Rick Adams, Ed Reed ed Elizabeth Day. E Stig Abell, il primo ad avermi detto che avrei dovuto scrivere un libro. Laura Solon e Dan Pursey a Los Angeles, Olivia Solon e Stu Wood a San Francisco, per avermi nutrito, fornito di caffè e permesso di dormire nelle loro stanze degli ospiti. I miei genitori, David e Manou, e le mie sorelle Susanna, Nicole e Julie. Da dove cominciare? Sono fortunata ad avervi. Anna Kehayova, che ha tenuto insieme la mia vita mentre scrivevo il libro. Non ti ringrazierò mai abbastanza. I miei bambini, per essere rimasti fuori dalla mia camera quando ero impegnata a scrivere. A Scot, mio compagno in tutto, la persona più in gamba che conosca. I ringraziamenti più grandi, però, devono andare a Corrie Bramley, cui devo tanto. Senza di lei, ogni pagina di questo libro sarebbe bianca. Note

1. «Dove avviene la magia.»

1. Secondo l’imprenditore e investitore Tristan Pollock, quando lavorava a 500 Startups. Vedi A. Yaroshenko, «What Is #SEXTECH and How Is the Industry Worth $30.6 Billion Developing?», 4 giugno 2016, https://sexevangelist.me/what-is- sextech-and-how-is-the-industry-worth-30-6-billion-developing-d5f0a61e31d6. 2. Y. Bame, «1 in 4 Men Would Consider Having Sex with a Robot», 2 ottobre 2017, https://today.yougov.com/topics/lifestyle/articles-reports/2017/10/02/1-4-men-would- consider-having-sex-robot. 3. J. Szczuka e N. Krämer, «Influences on the Intention to Buy a Sex Robot», 18 aprile 2017, https://www.researchgate.net/publication/316176303_Influences_on_the_Intention_t o_Buy_a_Sex_Robot.

2. L’illusione della compagnia

1. Un’idea che ormai è diventata un dato acquisito tra gli studiosi di robot del sesso. Vedi D. Levy, Love & Sex with Robots, HarperCollins, New York 2007 e K. Devlin, Turned On, Bloomsbury Sigma, London 2018. 2. Ovidio, Metamorfosi, vol. X, a c. di P.B. Marzolla, Einaudi, Torino 1979, pp. 243- 249. [N.d.T.] 3. Turned On di Kate Devlin esamina storia e preistoria di tutto questo con grande precisione. È una lettura appassionante. 4. «Roxxxy, the World’s First Life-Size Robot Girlfriend», Fox News, 11 gennaio 2010, http://www.foxnews.com/tech/2010/01/11/worlds-life-size-robot- girlfriend.html. 5. A. Hough, «Foxy “Roxxxy”: World’s First “Sex Robot Can Talk about Football”», in The Telegraph, 11 gennaio 2010, https://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/howaboutthat/6963383/Foxy-Roxxxy- worlds-first-sex-robot-can-talk-about-football.html. 6. S. Karlin, «Red-Hot Robots», in IEEE Spectrum, 15 giugno 2010, https://spectrum.ieee.org/robotics/humanoids/redhot-robots. 7. K.M. Heussner, «High-Tech Sex? Porn Flirts with the Cutting Edge», Abc News, 8 gennaio 2020, https://abcnews.go.com/Technology/CES/high-tech-sex-porn-flirts- cutting-edge/story?id=9511040. 8. B. Griggs, «Inventor Unveils $7,000 Talking Sex Robot», Cnn, 1° febbraio 2010, http://edition.cnn.com/2010/TECH/02/01/sex.robot/index.html. 9. L. Bates, «The Trouble with Sex Robots», in The New York Times, 17 luglio 2017, https://www.nytimes.com/2017/07/17/opinion/sex-robots-consent.html. 10. K. Parker, «A Sinister Development in Sexbots and a Strong Case for Ciminalisation», in The Times, 21 settembre 2017, https://www.thetimes.co.uk/article/a-sinister-development-in-sexbots-and-a-strong- case-for-criminalisation-qxxxjkmsl.

3. «Non sentirà nulla!»

1. J. Vanian, «The Multi-Billion Dollar Robotics Market Is about to Boom», in Fortune, 24 febbraio 2016, https://fortune.com/2016/02/24/robotics-market-multi- billion-boom. 2. Sito internet di social news, intrattenimento e forum, dove gli utenti registrati possono pubblicare contenuti sotto forma di post o link. I suoi contenuti sono organizzati in aree di interesse chiamate subreddit. [N.d.T.] 3. R. Douthat, «The Redistribution of Sex», in The New York Times, 2 maggio 2018, https://www.nytimes.com/2018/05/02/opinion/incels-sex-robots-redistribution.html. 4. T. Young, «Here’s What Every Incel Needs: A Sex Robot», in The Spectator, 5 maggio 2018, https://www.spectator.co.uk/2018/05/heres-what-every-incel-needs-a- sex-robot. 5. R. Morin, «Can Child Dolls Keep Pedophiles from Offending», in The Atlantic, 11 gennaio 2016, https://www.theatlantic.com/health/archive/2016/01/can-child-dolls- keep-pedophiles-from-offending/423324. 6. S. Santos e J. Vazquez, «The Samantha Project: A Modular Architecture for Modeling Transitions in Human Emotions», in International Robotics & Automation Journal, 3(2), 2017, pp. 275-280. 7. Sex Robots and Us, Bbc 3.

4. «Tutte le nostre relazioni sono in pericolo.»

1. K. Devlin, «I Have Other Men. He Has Other Women. We’re Both Happy», in The Times, 10 giugno 2017, https://www.thetimes.co.uk/article/i-have-other-men-he-has- other-women-were-both-happy-29wkdjd99. 2. Kate Devlin esamina la questione ancora più nel dettaglio nel suo libro Turned On, che esplora il passato, il presente e il futuro della tecnologia del sesso da una prospettiva accademica. Una lettura che vi consiglio. 3. Vedi K. Devlin, Turned On, cit.

5. Auschbeef

1. Dato sul consumo di carne fornito dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, https://doi.org/ 10.1787/fa290fd0-en (consultato il 21 novembre 2018). 2. National Cattlemen’s Beef Association, Industry Statistics, http://www.beefusa.org/beefindustrystatistics.aspx. 3. Qui mi sono dedicata a un po’ di matematica creativa, ma penso di aver fatto i conti per bene. Dodici miliardi di chilogrammi di carne farebbero 120 miliardi di hamburger da un etto circa, ognuno dallo spessore di poco meno di 2 centimetri. Per arrivare alla luna ci vogliono 38,4 miliardi di centimetri, perciò la pila potrebbe andare e tornare dalla luna due volte, e ne resterebbero abbastanza da girare intorno alla circonferenza terrestre cinque volte e mezzo. 4. Compassion in World Farming, «Strategic Plan 2013-2017», https://www.ciwf.org.uk/media/3640540/ciwf_strategic_plan_20132017.pdf. 5. Food and Agricultural Organization of the United Nations, «Major Cuts of Greenhouse Gas Emissions from Livestock within Reach: Key Facts and Findings», 26 settembre 2013, http://www.fao.org/news/story/en/item/197623/icode. 6. Grain, Iatp e Heinrich Böll Foundation, «Big Meat and Dairy’s Supersized Climate Footprint», 7 novembre 2017, https://www.grain.org/article/entries/5825-big-meat- and-dairy-s-supersized-climate-footprint. 7. J. Poore e T. Nemecek, «Reducing Food’s Environmental Impacts through Producers and Consumers», 22 febbraio 2019, https://josephpoore.com/Science%20360%206392%20987%20- %20Accepted%20Manuscript.pdf. 8. R. Goodland e J. Anhang, «Livestock and Climate Change», Worldwatch Institute, novembre 2009, http://www.researchgate.net/publication/285678846_Livestock_and_climate_change. pdf. 9. C. Na, «Maps Reveal Extent of China’s Antibiotics Pollution», Chinese Academy of Sciences, 15 luglio 2015, http://english.cas.cn/newsroom/news/201507/t20150715_150362.shtml. 10. Food and Drug Administration, Center for Veterinary Medicine, «2016 Summary Report on Antimicrobials Sold or Distributed for Use in Food-Producing Animals», dicembre 2017, https://www.fda.gov/downloads/forindustry/userfees/animaldruguserfeeactadufa/ucm 588085.pdf. 11. Food and Agricultural Organization of the United Nations, 2018, https://ourworldindata.org/grapher/meat-production-tonnes? tab=chart&country=MAC+USA+GBR+CHN+Europe. 12. World Health Organization, «Antimicrobial Resistance», 15 febbraio 2018, http://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/antimicrobial-resistance. 13. J. O’Neill, «Tackling Drug-Resistant Infections Globally: Final Report and Recommendations», in Review on Antimicrobial Resistance, maggio 2016, https://amr-review.org/sites/default/files/160525_Final paper_with cover.pdf. 14. A. Shepon, G. Eshel, E. Noor e R. Milo, «Energy and Protein Feed-to-Food Conversion Efficiencies in The US and Potential Food Security Gains from Dietary Changes», in Environmental Research Letters, 11, 2016, 105002, http://iopscience.iop.org/article/10.1088/1748-9326/11/10/105002/pdf. 15. D. Pimentel, B. Berger, D. Filiberto, M. Newton, B. Wolfe, E. Karabinakis, S. Clark, E. Poon, E. Abbett e S. Nandagopal, «Water Resources: Agricultural and Environmental Issues», in BioScience, 54(10), ottobre 2004, pp. 909-918, https://academic.oup.com/bioscience/article/54/10/909/230205. 16. Tenendo conto di un consumo di 15 litri al minuto, che sembra il valore medio per una doccia. 17. M.M. Mekonnen e A.Y. Hoekstra, «The Green, Blue and Grey Water Footprint of Farm Animals and Animal Products», in Value of Water Research Report Series, 48, Unesco-Ihe Institute for Water Education, https://waterfootprint.org/media/downloads/Report-48-WaterFootprint- AnimalProducts-Vol1_1.pdf. 18. M. Selman, S. Greenhalgh, R. Diaz e Z. Sugg, «Eutrophication and Hypoxia in Coastal Areas: A Global Assessment of the State of Knowledge», World Resources Institute, WRI Policy Note, 1, marzo 2008, https://www.researchgate.net/profile/Suzie_Greenhalgh/publication/285775211_Eutr ophication_and_hypoxia_in_coastal_areas_a_global_assessment_of_the_state_of_kn owledge/links/5679c00e08ae361c2f67f4d8/Eutrophication-and-hypoxia-in-coastal- areas-a-global-assessment-of-the-state-of-knowledge.pdf. 19. Food and Agriculture Organization of the United Nations, «Animal Production», http://www.fao.org/animal-production/en. 20. H. Ritchie e M. Roser, «CO2 and Greenhouse Gas Emissions», Our World in Data, dicembre 2019, https://ourworldindata.org/co2-and-other-greenhouse-gas-emissions. 21. J. Poore e T. Nemecek, «Reducing Food’s Environmental Impacts through Producers and Consumers», 22 febbraio 2019, https://josephpoore.com/Science%20360%206392%20987%20- %20Accepted%20Manuscript.pdf. 22. North American Meat Institute, «New Economic Impact Study Shows U.S. Meat and Poultry Industry Represents $1.02 Trillion in Total Economic Output», 14 giugno 2016, https://www.meatinstitute.org/index.php? ht=display/ReleaseDetails/i/122621/pid/287. 23. The Vegan Society, «Statistics: Veganism in the UK», https://www.vegansociety.com/news/media/statistics.

6. I vegani che amano la carne

1. Questo dato mi è stato fornito dallo stesso Josh Tetrick, e come vi accorgerete presto ogni sua affermazione va presa cum grano salis. 2. B. Carson, «Sex, Lies, and Eggless Mayonnaise: Something Is Rotten at Food Startup Hampton Creek, Former Employees Say», Business Insider, 5 agosto 2015, http://uk.businessinsider.com/hampton-creek-ceo-complaints-2015-7?r=US&IR=T. 3. O. Zaleski, «Hampton Creek Ran Undercover Project to Buy Up Its Own Vegan Mayo», Bloomberg, 4 agosto 2016, https://www.bloomberg.com/news/articles/2016- 08-04/food-startup-ran-undercover-project-to-buy-up-its-own-products. 4. C. Rauch, E. Feifel, E.-M. Amann, H.P. Spötl, H. Schennach, W. Pfaller e G. Gstraunthaler, «Alternatives to the Use of Fetal Bovine Serum: Human Platelet Lysates as a Serum Substitute in Cell Culture Media», in ALTEX, 28(4), pp. 305-316, http://www.altex.ch/resources/altex_2011_4_305_316_Rauch1.pdf. 5. Secondo le stime di Mark Post. 6. La marezzatura della carne proveniente dal Giappone viene valutata secondo una scala che va da A1 ad A5. [N.d.T.]

7. Pesce fuor d’acqua

1. Food and Agriculture Organization of the United Nations, «The State of World Fisheries and Aquaculture: Meeting the Sustainable Development Goals», 2018, http://www.fao.org/3/i9540en/I9540EN.pdf. 2. D. Tickler, J.J. Meeuwig, M.-L. Palomares, D. Pauly e D. Zeller, «Far from Home: Distance Patterns of Global Fishing Fleets», in Science Advances, 1° agosto 2018, http://advances.sciencemag.org/content/4/8/eaar3279. 3. R.W.D. Davies, S.J. Cripps, A. Nickson e G. Porter, «Defining and Estimating Global Marine Fisheries Bycatch», in Marine Policy, 33(4), luglio 2009, pp. 661- 672, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0308597X09000050. 4. World Health Organization, «Global and Regional Food Consumption Patterns and Trends: Availability and Consumption of Fish», https://www.who.int/nutrition/topics/3_foodconsumption/en/index5.html. 5. A Danny Fortson del Sunday Times, autore del podcast Danny In The Valley, https://player.fm/series/danny-in-the-valley/finless-foods-mike-selden -we-brew-fish-meat. 6. Dr M. Cole, «Is in Vitro Meat the Future of Food? The Case Against», relazione presentata alla Vegetarian Society AGM, 11 settembre 2010, https://www.vegansociety.com/whats-new/news/vitro-meat-distraction-veganism.

8. Retrogusto

1. J. Schwartz, «Museum Kills Live Exhibit», in The New York Times, 13 maggio 2008, https://www.nytimes.com/2008/05/13/science/13coat.html. 2. B. Friedrich, «Op-Ed: Is in Vitro Meat the New in Vitro Fertilization?», in Los Angeles Times, 25 luglio 2018, https://www.latimes.com/opinion/op-ed/la-oe- friedrich-ivmeat-20180725-story.html. 3. C.S. Mattick, A.E. Landis, B.R. Allenby e N.J. Genovese, «Anticipatory Life Cycle Analysis of In Vitro Biomass Cultivation for Cultured Meat Production in the United States», in Environmental Science & Technology, 49(19), settembre 2015, https://pubs.acs.org/doi/ipdf/10.1021/acs.est.5b01614; H.L. Tuomisto e M. Joost Teixeira de Mattos, «Environmental Impacts of Cultured Meat Production», in Environmental Science & Technology, 45(14), giugno 2011, https://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/es200130u; S. Smetana, A. Mathys, A. Knoch e V. Heinz, «Meat Alternatives: Life Cycle Assessment of Most Known Meat Substitutes», in International Journal of Life Cycle Assessment, 20, settembre 2015, https://link.springer.com/article/10.1007%2Fs11367-015-0931-6. 4. P. Alexander, C. Brown, A. Arneth, C. Dias, J. Finnigan, D. Moran e M.D.A. Rounsevell, «Could Consumption of Insects, Cultured Meat or Imitation Meat Reduce Global Agricultural Land Use?», in Global Food Security, 15, dicembre 2017, pp. 22-32, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2211912417300056. 5. N. Stephens, L. Di Silvio, I. Dunsford, M. Ellis, A. Glencross e A. Sexton, «Bringing Cultured Meat to Market: Technical, Socio-Political, and Regulatory Challenges in Cellular Agriculture», in Trends in Food Science & Technology, 78, agosto 2018, pp. 155-166, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0924224417303400?via=ihub.

9. Il business della gravidanza

1. Equality and Human Rights Commission, «Pregnancy and Maternity Discrimination Research Finding», https://www.equalityhumanrights.com/en/managing-pregnancy-and-maternity- workplace/pregnancy-and-maternity-discrimination-research-findings. 2. National Partnership for Women & Families, «By the Numbers: Women Continue to Face Pregnancy Discrimination in the Workplace», ottobre 2016, http://www.nationalpartnership.org/our-work/resources/workplace/pregnancy- discrimination/by-the-numbers-women-continue-to-face-pregnancy-discrimination- in-the-workplace.pdf. 3. Genesi 16, 2-4. 4. G.G. Mukherjee e B.N. Chakravarty, IUI: Intrauterine Insemination, Jaypee Brothers Medical Publishers, New Delhi 2012, p. 383. 5. T. Lewin, «Coming to U.S. for Baby, and Womb to Carry It», in The New York Times, 5 luglio 2014, https://www.nytimes.com/2014/07/06/us/foreign-couples- heading-to-america-for-surrogate-pregnancies.html. 6. V. Perasso, «Surrogate Mothers: “I Gave Birth but It’s not My Baby”», Bbc News, 4 dicembre 2018, https://www.bbc.co.uk/news/world-46430250. 7. M. Renda, «Surrogate Mother’s Attempt to Regain Her Children Fails in Ninth Circuit», Courthouse News Service, 12 gennaio 2018, https://www.courthousenews.com/surrogate-mothers-attempt-to-regain-her-children- fails-in-ninth-circuit; blog Luca’s Law, https://lucaslaw.blog. 8. «Baby Gammy: Surrogacy Row Family Cleared of Abandoning Child with Down Syndrome in Thailand», Abc News, 14 aprile 2016, https://www.abc.net.au/news/2016-04-14/baby-gammy-twin-must-remain-with- family-wa-court-rules/7326196. 9. K. Ponniah, «In Search of Surrogates, Foreign Couples Descent on Ukraine», Bbc News, 13 febbraio 2018, https://www.bbc.co.uk/news/world-europe-42845602. 10. European Parliament, «Parliamentary Questions: Question for Written Answer P- 005909/2016/rev.1 to the Commission», 18 luglio 2016, http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/P-8-2016-005909_EN.html?redirect.

10. La biosacca 1. E.A. Partridge, M.G. Davey, M.A. Hornick, P.E. McGovern, A.Y. Mejaddam, J.D. Vrecenak, C. Mesas-Burgos, A. Olive, R.C. Caskey, T.R. Weiland, J. Han, A.J. Schupper, J.T. Connelly, K.C. Dysart, J. Rychik, H.L. Hedrick, W.H. Peranteau e A.W. Flake, «An Extra-Uterine System to Physiologically Support the Extreme Premature Lamb», in Nature Communications, 8, 25 aprile 2017, https://www.nature.com/articles/ncomms15112. 2. G. Emery, «Survival Rates for Extremely Preterm Babies Improving in U.S.», Reuters, 15 febbraio 2017, https://www.reuters.com/article/us-health-preemies- survival-impairments/survival-rates-for-extremely-preterm-babies-improving-in-u-s- idUSKBN15U2SA. 3. B.J. Stoll, N.I. Hansen, E.F. Bell et al., «Trends in Care Practices, Morbidity, and Mortality of Extremely Preterm Neonates, 1993-2012», in JAMA, 314(10), 8 settembre 2015, https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2434683. 4. T. Moore, E.M. Hennessy, J. Myles, S.J. Johnson, E.S. Draper, K.L. Costeloe e N. Marlow, «Neurological and Developmental Outcome in Extremely Preterm Children Born in England in 1995 and 2006: the EPICure Studies», in BMJ, 345, 4 dicembre 2012, https://www.bmj.com/content/345/bmj.e7961. 5. March of Dimes, The Partnership for Maternal, Newborn & Child Health, Save the Children e World Health Organization, «Born Too Soon: The Global Action Report on Preterm Birth», Who Publications, 2012, https://www.marchofdimes.org/materials/born-too-soon-the-global-action-report-on- preterm-.pdf; K.L. Costeloe, E.M. Hennessy, S. Haider, F. Stacey, N. Marlow e E.S. Draper, «Short Term Outcomes after Extreme Preterm Birth in England: Comparison of Two Birth Cohorts in 1995 and 2006 (the EPICure Studies)», in BMJ, 345, 4 dicembre 2012, https://www.bmj.com/content/345/bmj.e7976. 6. Women & Infants Research Foundation, «Facts about EVE Therapy and Extreme Preterm Birth: FAQ about EVE Therapy – The Artificial Womb», Western Australia, http://www.tohoku.ac.jp/en/press/images/artificial_womb_faq.pdf. 7. J.B.S. Haldane, «Daedalus, or Science and the Future», 4 febbraio 1923, http://bactra.org/Daedalus.html. 8. A. Huxley, Il mondo nuovo, trad. it. di L. Gigli, Mondadori, Milano 1991, p. 11. [N.d.T.] 9. Gay Liberation Front, Manifesto, London 1971, https://sourcebooks.fordham.edu/pwh/glf-london.asp. 10. M.N. Shahbazi, A. Jedrusik, S. Vuoristo et al., «Self-Organization of the Human Embryo in the Absence of Maternal Tissues», in Nature Cell Biology, 18, 4 maggio 2016, https://www.nature.com/articles/ncb3347. 11. I. Hyun, A. Wilkerson e J. Johnston, «Embryology Policy: Revisit the 14-Day Rule», in Nature, 533(7602), 4 maggio 2016, https://www.nature.com/news/embryology-policy-revisit-the-14-day-rule- 1.19838-/agreement. 12. H.-C. Liu, Z. He, C.-L. Chen, Z. Rosenwaks, «Ability of Three-Dimensional (3D) Engineered Endometrial Tissue to Support Mouse Gastrulation in Vitro», in Fertility and Sterility, 80(78), https://www.fertstert.org/article/S0015-0282(03)02008- 9/fulltext. 11. L’immacolata gestazione

1. Definizione coniata da Scott Gelfand e John Shook nel libro Ectogenesis: Artificial Womb Technology and the Future of Human Reproduction, Rodopi, New York 2006. 2. A. Smajador, «The Moral Imperative for Ectogenesis», in Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, 16, 2007, pp. 336-345; e «In Defence of Ectogenesis», in Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, 21, 2012, pp. 90-103. 3. S. Borland, «Doctors and Nurses “Don’t Need to Show Compassion”: Academic Says Staff Should Be Able to Carry Out Daily Tasks without Being Kind to Patients», in Daily Mail, 18 settembre 2013, https://www.dailymail.co.uk/news/article-2424063/Academic-claims-doctors-nurses- dont-need-compassion-patients.html. 4. J. Gallagher, «First Baby Born after Deceased Womb Transplant», Bbc News, 5 dicembre 2018, https://www.bbc.co.uk/news/health-46438396. 5. P. Ball, «Reproduction Revolution: How Our Skin Cells Might Be Turned into Sperm and Eggs», in The Guardian, 14 ottobre 2018, https://www.theguardian.com/science/2018/oct/14/scientists-create-sperm-eggs- using-skin-cells-fertility-ethical-questions. 6. J. Roche, «My Longing To Be A Mother, as A Trans Woman», Refinery29, 8 settembre 2016, https://www.refinery29.com/en-gb/trans-woman-motherhood.

12. «Le donne sono obsolete, finalmente.»

1. Project Prevention, «Statistics», http://projectprevention.org/statistics. 2. «Special Report: Alabama Leads Nation in Turning Pregnant Women in to Felons», AL.com, 23 settembre 2015, https://www.al.com/news/2015/09/when_the_womb_is_a_crime_scene.html. 3. J.P. Ackerman, T. Riggins e M.M. Black, «A Review of the Effects of Prenatal Cocaine Exposure Among School-Aged Children», in Pediatrics, 125(3), marzo 2010, pp. 554-565, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3150504. 4. C. Freeman, «Child Taken from Womb by Caesarean then Put into Care», in The Telegraph, 30 novembre 2013, https://www.telegraph.co.uk/news/uknews/law-and- order/10486452/Child-taken-from-womb-by-caesarean-then-put-into-care.html; https://www.telegraph.co.uk/comment/columnists/christopherbooker/10485281/Baby -forcibly-removed-by-caesarean-and-taken-into-care.html. 5. I. Jensen, A. Fredrikstad, S. Saabye e P. Haugen, «Child Welfare Takes Three Times as Many Newborns», TV 2 News, 13 aprile 2016, https://translate.google.com/translate? hl=en&sl=auto&tl=en&u=https%3A%2F%2Fwww.tv2.no%2Fnyheter%2F8219203 %2F. 6. I.P. Nuse, «Protests Mount against Norwegian Child Welfare Service», ScienceNordic, 10 febbraio 2018, http://sciencenordic.com/protests-mount-against- norwegian-child-welfare-service. 7. T. Whewell, «Norway’s Barnevernet: They Took Our Four Children… then the Baby», Bbc News, 13 aprile 2016, https://www.bbc.co.uk/news/magazine- 36026458. 8. Storica sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti d’America del 1973 che riconobbe il diritto della donna ad abortire per qualsiasi ragione fino al momento della gestazione in cui il feto diventa in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, anche con l’ausilio di un supporto artificiale (quindi tra la ventiquattresima e la ventottesima settimana di gravidanza) e oltre tale limite in caso di pericolo per la salute della donna. [N.d.T.]

13. Morte fai da te

1. Associazione svizzera che promuove il suicidio assistito. [N.d.T.] 2. Dignity in Dying, «Largest Ever Poll on Assisted Dying Finds Increase in Support to 84% of Britons», comunicato stampa, 2 aprile 2019, https://www.dignityindying.org.uk/news/poll-assisted-dying-support-84-britons. 3. «Dutch Regional Euthanasia Review Committee Annual Report 2018» https://english.euthanasiecommissie.nl/the- committees/documents/publications/annual-reports/2002/annual-reports/annual- reports. 4. I dati provengono dalle statistiche statunitensi citati in Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo di Atul Gawande (Einaudi, Torino 2016), una lettura fondamentale per chi desideri capire come la tecnologia abbia cambiato il significato della morte. 5. P. Nitschke, «Euthanasia Is a Rational Option for Prisoners Facing the Torture of Life in Jail», in The Guardian, 27 settembre 2014, https://www.theguardian.com/commentisfree/2014/sep/27/euthanasia-is-a-rational- option-for-prisoners-facing-the-torture-of-life-in-jail.

14. «L’Elon Musk del suicidio»

1. L. Belkin, «Doctor Tells of First Death Using His Suicide Device», in The New York Times, 6 giugno 1990, https://www.nytimes.com/1990/06/06/us/doctor-tells-of- first-death-using-his-suicide-device.html. 2. L.A. Roscoe, J.E. Malphurs, L.J. Dragovic e D. Cohen, «A Comparison of Characteristics of Kevorkian Euthanasia Cases and Physician-Assisted Suicides in Oregon», in Gerontologist, 41(4), 1° agosto 2001, pp. 439-446, https://academic.oup.com/gerontologist/article/41/4/439/600708. 3. Molti di questi dati sono stati raccolti da Detroit Free Press e sono reperibili qui: Update 058, 25(3), Patients Rights Council, 2011, http://www.patientsrightscouncil.org/site/wp- content/uploads/2011/07/Update_2011_3.pdf. 4. «Nitschke Launches $50 Death Machine», in The Sydney Morning Herald, 18 novembre 2003, https://www.smh.com.au/national/nitschke-launches-50-death- machine-20031118-gdhss2.html. 5. M. Monahan, «Edinburgh 2015: Dicing with Dr Death, The Caves, Review: “Witlessly Infantile”», in The Daily Telegraph, 8 agosto 2015, https://www.telegraph.co.uk/theatre/what-to-see/edinburgh-2015-dr-death. 6. C. Woodhead, «Melbourne International Comedy Festival Review: No one Dying of Laughter in Philip Nitschke’s Dicing with Death», in The Sydney Morning Herald, 4 aprile 2016, https://www.smh.com.au/entertainment/comedy/melbourne- international-comedy-festival-review-no-one-dying-of-laughter-in-philip-nitschkes- dicing-with-death-20160404-gny6oz.html. 7. N. Goodkind, «Meet the Elon Musk of , Whose Machine Lets You Kill Yourself Anywhere», in Newsweek, 1° dicembre 2017, https://www.newsweek.com/elon-musk-assisted-suicide-machine-727874.

15. La fine giustifica i mezzi

1. P. Nitschke, «Here’s Why I Invented a “Death Machine” that Lets People Take Their Own Lives», in Huffington Post, 4 maggio 2018, https://www.huffpost.com/entry/sarco-death-philip- nitschke_n_5abbb574e4b03e2a5c7853ca. 2. M. Shea, «“Dr Death” Has a New Machine that’s Meant to Disrupt the Way We Die», Vice, 10 maggio 2019, https://www.vice.com/en_uk/article/5979qd/sarco- euthanasia-machine-philip-nitschke. 3. K. Vonnegut, «Benvenuta nella gabbia delle scimmie», in La fantascienza di Playboy. Parte prima, a c. di A.K. Turner, trad. it. di V. Curtoni, Mondadori, Milano 1999, p. 103. [N.d.T.] 4. Capofila di questa politica è il Longevity Fund (https://www.longevity.vc). 5. P. Bolwerk, «Noa (16) uit Arnhem is nu al klaar met haar verwoeste leven», in de Gelderlander, 1° dicembre 2018, https://www.gelderlander.nl/home/noa-16-uit- arnhem-is-nu-al-klaar-met-haar-verwoeste-leven~a01a7bd1. 6. «The Death of Noa Pothoven», blog The Peaceful Pill Handbook, 5 giugno 2019, https://www.peacefulpillhandbook.com/the-death-of-noa-pothoven. 7. S. Stack, «Media Coverage as a Risk Factor in Suicide», in Journal of Epidemiology & Community Health, 57, 1° aprile 2003, pp. 238-240, https://jech.bmj.com/content/57/4/238.full. 8. D.S. Fink, J. Santaella-Tenorio e K.M. Keyes, «Increase in suicides the months after the death of Robin Williams in the US», in PLOS ONE, 13(2), 7 febbraio 2018, https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0191405.

Epilogo

1. B. Muller, «Artificial Womb to Be Developed for Premature Babies», BioNews, 14 ottobre 2019, https://www.bionews.org.uk/page_145518. 2. B. Friedrich, «Cultivated Meat: Why GFI Is Embracing New Language», Good Food Institute, 13 settembre 2019, https://www.gfi.org/cultivatedmeat. 3. «Beyond Meat Shares Extend Gains to over 600% since IPO», in Financial Times, https://www.ft.com/content/df314088-8b91-11e9-a24d-b42f641eca37. 4. L.A. Roscoe, J.E. Malphurs, L.J. Dragovic e D. Cohen, «A Comparison of Characteristics of Kevorkian Euthanasia Cases and Physician-Assisted Suicides in Oregon», cit. 5. R. Wong, «We Need to Address Questions of Gender in Assisted Dying», in The Conversation, 24 ottobre 2017, http://theconversation.com/we-need-to-address- questions-of-gender-in-assisted-dying-85892. 6. H.J. Love e D. Sulikowski, «Of Meat and Men: Sex Differences in Implicit and Explicit Attitudes Toward Meat», in Frontiers in Psychology, 9, 20 aprile 2018, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5920154. Convertito in ebook da Nascafina www.nascafina.it