Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2011

SICUREZZA E STABILITÀ DEMOCRATICA NELL'ADRIATICO: allargamento Nato e cooperazione regionale nella prospettiva di una Strategia europea per la macro-regione Adriatico-Ionica

Direttore della Ricerca Dott. Andrea CARTENY

Indice

Introduzione p. 4

Cap. I – Democratizzazione, interdipendenza e stabilità dopo la fine della Guerra fredda I.1. Definizione dei concetti-chiave dell’analisi p. 7 I.2. Dal bipolarismo ad una redistribuzione di potere e prestigio su scala regionale p. 14 I.3. Quale ruolo per l’Alleanza Atlantica dopo il 1989? P. 19

Cap. II – La partnership Nato-UE nei Balcani occidentali II.1. Ruolo delle strutture euro-atlantiche nei Balcani occidentali p. 24 II.2. La Nato nei Balcani: cooperazione e integrazione p. 30 II.2.1. L'allargamento della Nato all'Albania p. 38 II.2.2. L'allargamento della Nato alla Croazia II.3. L’Unione Europea nei Balcani: cooperazione e integrazione p. 46

Cap. III – I Paesi Partner Nato III.1. Il Consiglio di Partnership Euro-Atlantica (EAPC) p. 50 III.1.1. Bosnia-Erzegovina III.1.2. Serbia III.1.3. Kosovo III.1.4. FYROM III.1.5. Montenegro III.2. Gli ultimi dieci anni: tensioni e conflitti p. 70 III.2.1. Kosovo – Serbia III.2.2. Kosovo – FYROM III.2.3. Serbia – Bosnia-Erzegovina III.2.4. FYROM – Serbia III.2.5. Serbia – Albania III.2.6 FYROM.– Albania

2 Cap. IV – La Strategia europea e la macro-regione Adriatico-Ionica IV.1. Strategie e policies europee p. 84 IV.2. Le macro-regioni p. 86 IV.2.1. Azioni regionali comunitarie nell’area danubiana e baltica prima e p. 89 durante il processo di allargamento dell’UE IV.3. La Strategia europea per la macro-regione Adriatico-Ionica p. 91

V – Conclusioni V.1. La sicurezza, l’UE e la NATO p. 95 V.1.1. Turchia V.1.2. Russia V.2. Prospettive di stabilità p. 107

Biblio-sitografia p. 111

Appendice

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Introduzione

Affrontare un argomento complesso quale “Sicurezza e stabilità democratica nell’Adriatico: allargamento NATO e cooperazione regionale nella prospettiva di una Strategia Europea per la macro-regione Adriatico-Ionica” significa delineare uno schema macro-regionale, avente come assi cartesiani la NATO e l’UE, in cui i punti sul piano indicano – posizionati più o meno vicini allo 0 – indicano il livello di integrazione euro-atlantica raggiunto da ogni Paese della regione balcanica e adriatica. La necessità di valorizzare la dimensione della cooperazione “regionale” (oltre quella globale, NATO, e continentale, UE) suggerisce di concepire una terza dimensione di “profondità” in cui si rifletta il processo di interdipendenza dei Paesi della regione tra loro e in relazione agli altri Paesi già membri euro-atlantici. Questo stesso schema suggerisce di utilizzare per il presente studio l’applicazione di schemi interpretativi strettamente aderenti alle specifiche condizioni che ogni Paese ha presentato nel suo sviluppo storico nei confronti del processo d’integrazione euro-atlantica all’interno del contesto regionale, come principio metodologico di ricerca. Le fonti di riferimento sono naturalmente le analisi, i reports e gli studi pubblicati – in volumi e riviste, cartacee e on line – da differenti prospettive su ogni Paese, sulle problematiche storico-nazionali specifiche, sullo stato del processo d’integrazione nazionale e sullo sviluppo della cooperazione nel contesto geo-strategico regionale, mentre per l’approfondimento e la critica degli elementi analitici è fondamentale l’utilizzo di contributi e concepts di comprensione quali elementi per la costruzione di chiavi di lettura dei fenomeni in corso. È necessario dunque un primo generale inquadramento a livello teorico e concettuale sul tema della sicurezza e della democrazia in funzione dei cambiamenti intervenuti nel sistema internazionale dopo la fine della Guerra fredda. In virtù delle nuove condizioni emerse con il trionfo del blocco occidentale e del suo modello politico-economico (democrazia rappresentativa e capitalismo) sul modello proposto dal blocco sovietico (democrazia popolare e collettivismo), l’analisi di questi tre concetti, che costituiscono da sempre un oggetto privilegiato di riflessione per la disciplina delle Relazione internazionali, deve essere integrata con quella di un numero più ampio di key-concepts. Sono stati presi in considerazione, oltre ai concetti “classici” della disciplina, anche quelli che le evoluzioni della politica internazionale ha imposto negli ultimissimi anni all’attenzione della ricerca: interdipendenza, diritti umani, ingerenza umanitaria, regime change e preventive strike.

4 Questi termini sono divenuti irrinunciabili per una piena comprensione delle dinamiche politiche che prendono forma nella dimensione spaziale presa in considerazione da questo studio, la macro-regione Adriatico-Ionica. Sciolti i nodi relativi ai significati da attribuire alla terminologia che risulterà ricorrente all’interno della ricerca, viene analizzato il rapporto tra stabilità politica, sicurezza e interdipendenza degli attori internazionali. Questo framework può essere applicato sia al sistema internazionale nel suo complesso che a singoli ambiti regionali, come quello della macro-regione Adriatico-Ionica. Il presente lavoro intende dunque descrivere la cornice nell’ambito della quale il ruolo dell’Alleanza Atlantica e i suoi obiettivi specifici nell’area dell’Adriatico vadano ad inserirsi. Unipolarismo, egemonia, multipolarismo e sorgere di nuove potenze sfidanti rappresentano idee ormai dibattute anche a livello di opinione pubblica, ma che, se intese in senso tradizionale, non riescono a spiegare efficacemente la natura dell’attuale sistema internazionale. Viene così posta in evidenza l’ipotesi di una progressiva regionalizzazione delle dinamiche della sicurezza: nel sistema internazionale che ci troviamo ad analizzare, infatti, non appare più determinante la scala geografica mondiale, ma assume un’importanza maggiore per le scelte strategiche quella regionale. La scomposizione del sistema internazionale in aree geopolitiche regionali distinte nella dimensione del potere, del prestigio e della vicenda performativa della politica, ha posto all’ordine del giorno dei Paesi fondatori dell’Alleanza Atlantica la riflessione sul numero dei suoi membri, sulla ridefinizione dei suoi obiettivi e sul ruolo da svolgere affinché l’organizzazione continui ad avere ragion d’essere. È pienamente in gioco dunque la dimensione territoriale regionale (e “macro-regionale”) come medium con tra quella locale e quella globale. Difatti uno studio sulla macro-regione Adriatico-Ionica deve prendere in considerazione sia Stati che presentano al loro interno regimi pienamente democratici (Italia, Croazia, Grecia, Slovenia) che Stati i quali, pur avendo raggiunto uno stadio di democrazia procedurale (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia), ancora registrano le fasi di assestamento del processo di democratizzazione. La membership atlantica, che affronta la questione della “sicurezza, risulta così un fattore strettamente legato alla membership europea, su cui si articola la questione della “stabilità”. L’adesione alla NATO per i Paesi appartenenti ad un’area strategica come quella balcanica costituisce una condicio sine qua non per scoraggiare la minaccia di instabilità regionale e diminuire in maniera consistente le possibilità che gli equilibri interni ai vari Stati possano essere messi in discussione. L’Alleanza Atlantica ha come obiettivo l’integrazione all’intera area balcanica anche per permettere ai Paesi della regione di

5 condividere quei comuni valori di democrazia, stabilità, pace, tutela dei diritti umani e libero mercato, propri dell’area euro-atlantica: la membership atlantica risulta dunque il viatico migliore per il completamento del processo di integrazione europea, con l’implementazione da parte di ogni Paese dell’acquis comunitario negli ordinamenti nazionali e con lo sviluppo della cooperazione regionale. Nell’ottica della nuova strategia per il continente europeo, nota come “Europa 2020”, si dà grande rilievo all’azione delle politiche regionali di “coesione territoriale”. Questo obiettivo rafforza l’idea di una politica regionale più integrata, che valorizzi ogni effettivo e potenziale ingresso nell'UE ma anche il giusto spazio ai “club” marco-regionali come garanzia di sicurezza e stabilità nei prossimi anni.

6 Cap. I - Democratizzazione, interdipendenza e stabilità dopo la fine della Guerra fredda

I.1. Definizione dei concetti-chiave dell’analisi

Un approccio scientifico a tematiche complesse e in costante evoluzione come quelle inerenti alle relazioni internazionali, intese come «come il complesso degli eventi politici che scaturiscono dall’interazione fra unità politiche all’interno del contesto internazionale»1, presuppone una piena padronanza teoretica dei concetti orientativi di un’analisi di tipo empirico. Tanto più se l’analisi in questione pone al suo orizzonte l’ambizioso obiettivo di coadiuvare i decisori politici, diplomatici e amministrativi nella loro difficile attività. Una strategia di politica estera che voglia cogliere con più sicurezza e nel minor lasso di tempo possibile i suoi frutti, d’altronde, deve essere messa in atto avendo chiaro il significato più intimo dei suoi obiettivi, le conseguenze che questi dovrebbero o potrebbero generare e le modalità per inserirli all’interno di un circolo virtuoso capace di auto-consolidarsi. I termini chiave da analizzare nella loro accezione teorica in queste pagine sono ormai unanimemente considerati “classici” nel vocabolario della disciplina delle Relazioni internazionali (sicurezza, potere, interdipendenza e democrazia), in parte si sono imposti al centro del dibattito scientifico, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, trovando applicazione concreta nelle vicende politiche che hanno coinvolto i Paesi dell’area Adriatico-Ionica (diritti umani, ingerenza umanitaria, preventive strike, regime change). Lo stesso concetto di “macro-regione”, però, va sinteticamente delineato, risultando sempre più citato sia nel dibattito politico e accademico, tanto da essere ormai familiare nella dialettica dell’opinione pubblica. È possibile utilizzare il termine “macro-regione” per indicare un insieme di regioni che nel corso dei secoli hanno sviluppato una fitta rete di interdipendenze politiche, economiche e sociali, traducendosi in una storia comune che ha generato la percezione dell’esistenza di un’area omogenea. Il riconoscimento ufficiale dell’effettiva esistenza di una macro-regione Adriatico-Ionica da parte dell’Unione Europea è previsto per il 2014, durante la presidenza di turno italiana. Passando ad analizzare i concetti che abbiamo inserito nella categoria dei “classici” per gli studi internazionali, appare d’obbligo prendere le mosse da quello della “sicurezza”, tradizionalmente considerato nella disciplina delle Relazioni internazionali, in particolare

1 Cfr. C.M. Santoro, Relazioni internazionali, Treccani, Enciclopedia delle Scienze Sociali, in http://www.treccani.it/enciclopedia/relazioni-internazionali_(Enciclopedia_delle_Scienze_Sociali)/ 7 dalla scuola realista, come il bene primario per eccellenza che tutti gli Stati, con metodi e possibilità diverse, perseguono. L’azione degli Stati, sia a livello interno che internazionale, troverebbe proprio nella riduzione dell’insicurezza (la probabilità che la sovranità di uno Stato sia messa in discussione) e dell’incertezza (l’imprevedibilità del rispetto degli accordi internazionali e dei patti interni) il suo scopo elementare: quando uno Stato non assicura il bene primario della sicurezza ai suoi cittadini verrebbe meno la precondizione per realizzare qualsiasi altro progetto e si rischierebbe il pericolo di un suo “fallimento”, con tutti gli effetti negativi di carattere transnazionale che questo comporta2. La condizione “anarchica” del sistema internazionale imporrebbe, secondo i realisti, ad ogni Stato di attenersi al principio del self-help, ossia a preoccuparsi costantemente della propria sopravvivenza attraverso la continua “accumulazione di potenza”3. Nel Novecento, tuttavia, il pensiero “liberale”, o “istituzionalista”, ha sostenuto che la sicurezza può più essere assicurata stabilmente dell’opera dei singoli Stati, ma solo attraverso un’azione “collettiva”4, tanto che i diritti delle comunità risulterebbero garantiti solo in presenza di un impegno attivo da parte di un ampio gruppo di Stati nell’arginare i comportamenti aggressivi e l’infrazione delle norme che regolano la convivenza internazionale. Questa prospettiva ha trovato la sua realizzazione nella costituzione della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La nascita di una NATO, Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord, invece, si trova a metà strada tra queste impostazioni, per via di due elementi che convivono al suo interno. Da un lato può essere considerata un’alleanza militare in senso tradizionale, in quanto generata dalla percezione da parte di un gruppo di Stati (quelli del blocco occidentale durante la Guerra fredda) di un pericolo comune (la minaccia dell’allargamento della sfera d’influenza sovietica ad ovest) che poteva essere fronteggiata solo grazie ad una spinta controbilanciante. Dall’altro lato a differenza dei sistemi di alleanza classici, la NATO si è dotata di una struttura istituzionalizzata, dunque stabile e permanente, che le ha permesso di ovviare alla clausola implicita ad ogni trattato del pacta sunt servanda, rebus sic stantibus, e di superare l’idea alla base di ogni alleanza militare del “è la missione a dettare la coalizione”, trasformata in quello di “è la coalizione che detta la missione”5, che le ha

2 Cfr. V.E. Parsi, Sicurezza, in AA.VV., Relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 175. 3 Si veda M. Cesa, Le ragioni della forza. Tucidide e la teoria delle relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 1994; H. Morghentau, Politics among Nations, Knopf, New York, 1948. 4 Si veda I.L. Claude, Swords into Plowshares. The Problem and Progress of International Organization, Random House, New York, 1956; H. Kelsen, Collective Security and Collective Self-Defense under the Charter of the United Nations, in “The American Journal of International Law”, vol. 42, n. 4/1948. 5 Si veda M. Clementi, La NATO. Dal mondo diviso in due alla minaccia del terrorismo globale, Il Mulino, Bologna, 2002. 8 permesso di sopravvivere fino ai giorni nostri nonostante le condizioni strutturali che ne avevano causato la formazione siano venute meno. Occorre soffermarsi sull’altro concetto centrale per gli studi di Relazioni internazionali, quello di potere, per comprendere quale delle sue tante declinazioni risulti più significativa ai fini della presente ricerca. Adottando una prospettiva più crudamente realista è possibile farlo corrispondere all’idea weberiana di potere-potenza (Macht), ossia alla possibilità di far valere entro una relazione sociale la propria volontà anche in presenza di un’opposizione6. Si rischia, tuttavia, di interpretare qualsiasi devianza rispetto alle prospettive e agli interessi della NATO alla stregua di una crisi profonda dell’organizzazione stessa. Assumendo la prospettiva istituzionalista appare più utile il concetto di potere-autorità (Herrschaft), ossia la possibilità che un comando determinato trovi obbedienza presso i soggetti verso cui è rivolto7. Quest’ultimo, da parte sua, può essere utilizzato solo in relazione ai Paesi membri della NATO, ma non nei confronti degli Stati che popolano il suo spazio di azione e verso i quali è orientata l’azione dell’organizzazione. Al contrario nella prospettiva di questo studio, che considera la NATO quale organizzazione che ha determinato un parziale superamento della totale libertà degli Stati-membri in relazione ad un teatro di azione limitato ma senza alcuna velleità di portare alle estreme conseguenze tale sviluppo, sembra più rilevante una definizione “ecologica” del potere. In altre parole il potere nella dimensione internazionale si traduce nella capacità di un insieme di attività o “nicchie” di stabilire le condizioni in cui le altre unità devono funzionare8. Tale definizione appare più rilevante perché la NATO all’interno dei contesti regionali in cui opera, che nel primo decennio degli anni Duemila spaziano dall’Europa al bacino del Mediterraneo passando per il “Grande medio oriente”9, riesce a creare le condizioni affinché quasi tutti gli attori in campo rispettino alcune regole minime di condotta, non solo attraverso il ricorso o la minaccia della violenza, ma anche grazie al suo soft power e al suo know how nei campi del peace keeping, dello State buiding e del nation buiding. Se i concetti di sicurezza e potere hanno comunque ricevuto maggior enfasi da parte della scuola realista, quelli di interdipendenza e democrazia si sono imposte quali core issue del

6 Cfr. M. Weber, Economia e Società, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, vol. II, pp. 51-52 7 Ivi, pp. 248-250 8 Cfr. O. Duncan, L. Schnore, Cultural Behavioral and Ecological Perspectives in the Study of Social Organization, in “Journal of American Sociology”, n. 65, settembre 1959, p. 139 9 Si veda Z. Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and It’s Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York, 1997. 9 pensiero liberale10. Il primo concetto rappresenta il tratto distintivo di tale prospettiva, secondo cui nel sistema internazionale possono convivere sia relazioni conflittuali che cooperative tra gli Stati, tra i quali le considerazioni in merito alle questioni di sicurezza sarebbero relativamente importanti in quanto affiancate dagli interessi di ordine economico11. La cooperazione tra gli Stati, che esisterebbe solo quale semplice “possibilità”, dovrebbe essere costruita utilizzando due strumenti al tempo stesso diversi, ma complementari. Il primo è quello dell’interdipendenza economica, in quanto la progressiva integrazione dei mercati e l’allargamento delle aree di libero scambio favorirebbero la diffusione di politiche pacifiche tra gli Stati (teoria della “convergenza armonica”)12. Il secondo è la creazione di istituzioni, chiamate anche “regimi internazionali”, da intendersi quali «principi, norme, regole e procedure decisionali, impliciti o espliciti, attorno ai quali le aspettative degli attori convergono in una data area delle relazioni internazionali»13, che permetterebbero la parziale sostituzione dell’anarchia con il dominio della legge. In questa prospettiva l’interdipendenza “complessa” di fattori di ordine economico e giuridico, anche nella macro-regione Adriatico-Ionica, potrebbe innescare un circolo virtuoso in grado di scoraggiare il ricorso alla forza militare nella risoluzione delle controversie internazionali14. Nella prospettiva liberale, inoltre, non minore enfasi è stata attribuita alla convinzione secondo cui esistono regimi politici capaci di determinare un comportamento internazionale più pacifico dello Stato e regimi politici, al contrario, considerati maggiormente “bellogeni”15. Se la scuola realista ha sottolineato la sostanziale invariabilità degli obiettivi e dei metodi cui gli Stati fanno ricorso nella dimensione internazionale e, di conseguenza, l’incapacità della sfera domestica di incidere significativamente sul comportamento esterno di uno Stato, la scuola liberale, viceversa, non ha esitato ad affermare l’intima interazione tra i due livelli, domestico e internazionale, tanto da

10 Si veda G. Natalizia, La geopolitica e le relazioni internazionali, in C. Mongardini, Pensare la politica. Per un'analisi critica della politica contemporanea, Bulzoni, Roma, 2010. 11 Cfr. F. Andreatta, Interdipendenza economica e politica internazionale, in AA.VV., Relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 131. 12 E. Siberner, La guerre et la paix dans l’histoire des doctrines économiques, Sirey, Paris, 1957. 13 L. Bonanate, Osservazioni sulla teoria dei regimi internazionali, in L. Bonanate, A. Caffarena, R. Vellano, Dopo l'Anarchia: Saggi sul superamento dell'immagine anarchica delle relazioni internazionali e sul rischio di ricadervi, Franco Angeli, Milano, 1989, p. 19 14 Si veda R.O. Keohane, J.S. Nye, Power and Interdependence. World Politics in Transition, Little, Brown, Boston, 1977. 15 Si veda M. Clementi, Politica interna e pace democratica, in AA.VV., Relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 156-171; A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino, Bologna, 1997. 10 elaborare queste idee nella cosiddetta “teoria della pace democratica”16. Questa riflessione risulta, peraltro, collegata direttamente con quella precedente. La storia, infatti, ha dimostrato che sebbene l’economia di mercato risulti più spesso sovrapporsi alla presenza di regimi democratici, è capace di convivere anche con regimi non democratici. Ciononostante il conseguimento di un elevato standard di benessere solitamente porta alla richiesta di un numero sempre maggiore di diritti, fino ad arrivare alla rivendicazione del diritto di poter partecipare alla formulazione delle decisioni politiche, che costituisce la premessa della democrazia17. Il problema principale per quanti ritengono efficace una simile impostazione, che nel nostro caso di studio comporterebbe l’assunto per cui se nella macro-regione Adriatico-Ionica tutti gli Stati avessero un regime democratico i loro rapporti sarebbero caratterizzati da una crescente cooperazione e da un ricorso via via minore alla violenza, è comprendere quante sono le possibili forme che l’idea di “democrazia” può assumere. Una visione idealistica, ma scarsamente descrittiva, presenta la democrazia come «l’unico modo di pacifico mutamento scoperto finora dall’uomo»18 o come «un regime caratterizzato dalla necessaria corrispondenza tra gli atti di governo e i desideri di coloro che ne sono toccati»19. È possibile, tuttavia, offrire una definizione “procedurale” di democrazia, tanto da sganciarla da un’impostazione prescrittiva che appartiene più all’approccio politico che a quello scientifico20, per cui la democrazia «è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare»21. Riprendendo una simile impostazione la democrazia è stata definita in Italia come «un sistema etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere di minoranze concorrenti che l’assicurano»22 o come «un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati»23. Le definizioni “descrittive” del concetto di democrazia permettono di cogliere l’elemento centrale della forma di governo democratica, che va

16 Si veda M.W. Doyle, Kant, Liberal Legacies and Foreign Affairs, in “Philosophy and Public Affairs”, vol. I-II, n. 12/1983, pp. 205-235, 323-353; Z. Maoz, B. Russett, Normative and Structural Causes of Democratic Peace, 1946-1986, in “American Political Science Review”, n. 87, 3/1993, pp. 624-638; R.J. Rummel, Power Kills. Democracy as a Method of Nonviolence, Transaction Publishers, New Brunswick, 1997. 17 Cfr. A. Panebianco, Il potere, lo Stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 94. 18 F. Von Hayek, La società libera, Vallecchi, Firenze, 1969, p. 132. 19 J.D. May, Defending Democracy. A Bid for Coherence and Consensus, in “Political Studies”, vol. 26, n. 1/1978, p. 1. 20 Cfr. P. Grilli di Cortona, Come gli Stati diventano democratici, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 10. 21 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas Libri, Milano, 2001, p. 279. 22 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1957, p. 105. 23 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1995, pp. XXII-XXIII. 11 rintracciato proprio nelle modalità elettorali di trasmissione del potere che garantiscono la maggiore approssimazione possibile all’espressione della volontà popolare24. Occorre notare che uno studio sulla macro-regione Adriatico-Ionica deve prendere in considerazione sia Stati che presentano al loro interno regimi pienamente democratici (Italia, Croazia, Grecia, Slovenia) che Stati i quali, pur avendo raggiunto uno stadio di democrazia procedurale (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia), ancora registrano le fasi di assestamento del processo di democratizzazione, ossia della trasformazione da un regime non democratico ad uno democratico che «inizia con l’attenuazione dei rigori repressivi e con aperture pluralistiche e liberalizzanti che lasciano prevedere una direzione democratica del cambiamento, fino poi all’edificazione di un regime democratico vero e proprio»25. Dopo aver sinteticamente affrontato i concetti “classici”, cui si fa ricorso all’interno di questo studio, è necessario analizzare, altrettanto brevemente, una serie di nuovi concetti altrettanto utili che devono la propria formulazione in buona parte a causa degli avvenimenti che hanno preso forma nella macro-regione Adriatico-Ionica nel corso degli anni Novanta. Il primo è quello di “diritti umani”, ossia quei diritti che nel corso del Novecento sono stati riconsiderati come collegati alla nascita stessa dell’uomo, in quanto derivanti da bisogni fondamentali e irrinunciabili, e ai quali, di conseguenza, è stata attribuita una natura inalienabile. Prendendo spunto dall’idea di diritti umani è stata elaborata una critica sostanziale al diritto internazionale “classico”, che ha considerato titolari di diritti soltanto gli Stati, ed è stato sostenuto il conferimento di diritti di carattere internazionale anche ai singoli individui. L’affermazione di tale prospettiva determinerebbe il superamento definitivo dell’esclusività dello Stato quale attore del sistema internazionale. Si tratta, quindi, di una questione filosofica dalle rilevanti ricadute giuridiche e politiche che ha ricevuto ufficialmente una prima progressiva estensione con la Dichiarazione Universale dell’Onu del 1948, per poi essere riportata al centro dell’attenzione mondiale, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, con le tragedie del Rwanda, della Bosnia- Erzegovina e del Kosovo26. A quest’idea è strettamente collegata quella del principio di “ingerenza umanitaria”27, che si fonda sulla rivendicazione del diritto all’intervento di un gruppo di Stati, quelli democratici, nel ripristinare la pace e garantire la salvaguardia dei diritti delle popolazioni

24 Cfr. G. Pasquino, Nuovo corso di scienza politica, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 315. 25 P. Grilli di Cortona, op. cit., p. 33. 26 Cfr. L. Cedroni, Diritti umani, diritti dei popoli, Aracne, Roma, 2000, pp. 5-12. 27 W.J. Clinton, Clinton Says U.S. Interests at Stake in Kosovo, February 26th 1999, in http://edition.cnn.com/ALLPOLITICS/stories/1999/02/26/clinton.foreign.policy/ . 12 civili laddove le crisi politiche interne ad uno Stato, solitamente non democratico, permettano il verificarsi di palesi violazioni nei loro confronti28. Risulta evidente, quindi, come il principio di “ingerenza umanitaria” contraddica quello di “non ingerenza”, che si basa sulla rinuncia ad intervenire in questioni politiche relative alla sfera domestica di altri Stati per impedire l’estensione dei conflitti e dell’instabilità. Il nuovo principio è stato formulato per legittimare sotto un profilo politico e giuridico l’operazione Allied Force con cui la NATO intendeva arrestare la pulizia etnica messa in atto dall’esercito serbo ai danni della popolazione albanese dell’allora regione jugoslava del Kosovo (24 marzo-10 giugno, 1999). Sotto il profilo militare il principio di ingerenza umanitaria è risultato associato a quello del pre-emptive strike, con cui è stata indicata ogni azione militare contro uno Stato (o un gruppo di Stati) in procinto di sferrare un attacco o di arrecare danni rilevanti agli interessi della comunità internazionale29. Sia il principio di ingerenza umanitaria che il pre- emptive strike sono stati messo in pratica dalla NATO nei confronti della Serbia, quando nel 1999 fu considerata una minaccia immediata non solo per la sopravvivenza della popolazione kosovara, ma per l’intero equilibrio della regione balcanica. Non è possibile dimenticare, tuttavia, che nel 1999 il principio di ingerenza umanitaria ha servito non solo un obiettivo di breve termine, la salvaguardia della vita dei kosovari di etnia albanese e la stabilità dell’area, ma anche un obiettivo politico di medio termine: il regime change. Con l’idea di “cambio di regime” è stata indicata la richiesta dell’instaurazione di una democrazia in quegli Stati che fanno da teatro alla violazione dei diritti umani o che rappresentano una minaccia per l’ordine internazionale a causa del loro regime interno, autoritario o totalitario, che può essere perseguito sia grazie la moral suasion che attraverso operazioni militari. Un simile mutamento politico produrrebbe l’effetto virtuoso di creare un nuovo ordine sia nei singoli contesti regionali, che a livello globale, secondo quanto predetto dalla teoria della pace democratica. La politica del regime change si è scontrata con il principio di sovranità, sancendo la possibilità che la natura interna di uno Stato venga decisa da autorità esterne allo Stato stesso. Questa prospettiva, nonostante fosse stata formulata dal think tank neoconservatore Project for the New American Century30, è stata fatta propria dall’amministrazione democratica di Bill

28 Cfr. D. Brinkley, Democratic Enlargement: The Clinton Doctrine, in “Foreign Policy”, n. 96, Spring 1997, pp. 111-127; I.H. Daalder, M.E. O’Hanlon, Unlearning the Lessons of Kosovo, in “Foreign Policy”, n. 116, Autumn 1999, pp. 128-140. 29 G.W. Bush, State of the Union Address, June 29th 2002, in http://edition.cnn.com/2002/ALLPOLITICS/01/29/bush.speech.txt/ . 30 Si veda http://www.newamericancentury.org/iraqclintonletter.htm . 13 Clinton in relazione alla richiesta di un cambio sia nella classe dirigente che nella forma di governo dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia31.

I.2. Dal bipolarismo ad una redistribuzione di potere e prestigio su scala regionale

Nonostante permangano alcuni dubbi sull’effettività del ruolo costituente svolto nel sistema internazionale dall’imprevista, sia per quanto riguarda i tempi che i modi, conclusione della Guerra fredda, sembra possibile affermare che gli eventi intercorsi in Europa nel triennio 1989-1991 costituiscano un punto di svolta per la vita politica internazionale. La caduta del muro di Berlino, la riunificazione delle “due Germanie”, il crollo dei regimi socialisti nell’Europa centro-orientale e l’implosione dell’Unione Sovietica hanno avuto un impatto tale da sostenere, in un numero cospicuo di macro-regioni, il verificarsi di una serie di importanti eventi politici: 1) l’incremento del numero dei regimi democratici; 2) la polverizzazione degli Stati multietnici e multiculturali; 3) il sorgere di nuovi Stati fondati su base etnica; 4) lo svanire del pericolo della mutua distruzione assicurata in concomitanza con le crisi internazionali; 5) l’ampliamento della libertà di circolazione di beni, servizi, capitali e persone. Questo andamento ha suggerito a Francis Fukuyama l’idea della prossimità della “fine della storia”, intesa come sopraggiunta impossibilità di applicare la prospettiva della dialettica hegeliana del confronto tra una tesi ed una antitesi chiaramente definite per interpretare la politica internazionale32. L’effettività di tali sviluppi è apparsa innegabile per alcune aree, in particolare negli ex Stati satellite dell’Unione Sovietica e in quelli sorti dalla disgregazione della sua “periferia”, o per alcuni segmenti sociali, soprattutto tra i ceti che meglio di altri hanno saputo inserirsi nelle dinamiche economiche e culturali di tipo transnazionale. In altre macro-regioni, al contrario, ha iniziato a farsi largo l’idea che l’affermazione dei modelli occidentali, invece di garantire il sorgere di sistemi politici connotati da maggiore equità e capaci di interagire pacificamente, permetta di reiterare il primato dell’Occidente sul resto del mondo e non costituisca una panacea contro la conflittualità tra le unità del sistema. È necessario, infatti, evidenziare un errore di fondo commesso da molte teorie formulate negli anni Novanta: la convinzione che ad un incremento dell’integrazione della società transnazionale, «che è tanto più viva quanto

31 Si veda J. Muravchik, Exporting Democracy. Fulfilling America’s Destiny, American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington D.C., 1992. 32 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992, pp. 7 e ss. 14 maggiore è la libertà di scambio, di migrazione o di comunicazione e quanto più forti sono le credenze comuni, più numerose le organizzazioni non nazionali, più solenni le cerimonie collettive»33, corrisponda necessariamente un aumento della cooperazione a livello politico, foriero della definitiva eliminazione degli elementi di disordine della vita internazionale. Tale impostazione ha caratterizzato il pensiero liberale nel periodo in questione, trovando la sua maggiore espressione nella teoria di Fukuyama. La prova empirica, al contrario, ha dimostrato che la presenza di un sistema internazionale “eterogeneo”, ossia popolato da unità fondate su principi di legittimazione contrastanti, è in grado di dividere irrimediabilmente la società transnazionale e che il rapporto tra gli spazi politici e gli spazi economici non è univoco a dispetto di quanto sostenuto34. Una condizione simile si era già verificata con lo scoppio della Prima guerra mondiale, che aveva posto fine al periodo della belle epoque, quando la società transnazionale aveva registrato un consolidamento mai conosciuto prima tanto da far prospettare una lenta risoluzione di tutti i problemi umani grazie al progresso tecnico-scientifico. Lo stesso abbaglio si è ripetuto negli anni Novanta, come provato durante il triennio 1999-2001, che ha costituito la dimostrazione del carattere utopistico delle previsioni legate a vario titolo all’idea della “fine della storia”. Nel corso di questo breve, ma significativo, periodo il mondo ha assistito al divampare della violenza in Kosovo, all’inizio della Seconda guerra russo-cecena e all’attacco terroristico dell’11 settembre35. È possibile sostenere, dunque, che l’ideologizzazione del concetto di “globalizzazione”, secondo cui ad una maggiore integrazione economica degli Stati corrisponderebbe anche una loro maggiore interdipendenza culturale e politica, ha fatto perdere di vista come, viceversa, sia stato il XX secolo quello che, più di ogni altro, ha prodotto una profonda globalizzazione della politica. Basti pensare all’affermazione in ogni continente del modello di organizzazione amministrativa statale, alla diffusione universale delle grandi ideologie (nazionalismo, fascismo, liberalismo, comunismo), passando per la creazione di organizzazioni internazionali (Società delle Nazioni, Organizzazione delle Nazioni Unite, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale), fino ad arrivare all’analisi di qualsiasi tensione politica attraverso un metodo interpretativo condiviso (lo scontro tra i regimi liberali e i suoi antagonisti) e alla minaccia dello scoppio di guerre capaci di coinvolgere ogni angolo del pianeta (Grande guerra, Seconda guerra mondiale, Guerra fredda). Il

33 R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970, p. 136. 34 Cfr. A. Colombo, La disunità del mondo, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 74-81. 35 L. Bonanate, La crisi. Il sistema internazionale vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, Bruno Mondadori, Milano, 2009, pp. 5-25. 15 1989, invece, ha segnato il riflusso di questo trend “globale”, come dimostrato dal mancato emergere di una vicenda narrativa in grado di spiegare attraverso un paradigma comune le dinamiche emergenti in contesti politici e territoriali diversi, dall’incapacità delle guerre locali di assumere una dimensione globale (Rwanda, Ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Caucaso) e dalla delegittimazione subita dalle organizzazioni internazionali36. L’ipotizzata cristallizzazione delle relazioni internazionali in un’imperante e duratura pax americana è stata rapidamente smentita da un lato dal coinvolgimento degli Stati occidentali in numero crescente di teatri d’operazione, dall’altro dal riemergere di conflitti locali alimentati da agenti del passato solo apparentemente sopiti, come i nazionalismi, gli etnicismi ed i cleavages religiosi: il mondo, liberato dalle costrizioni della Guerra fredda, ha assistito al germogliare dei semi di una nuova stagione di violenza37. Le nuove problematiche sono state ampiamente analizzate da un cospicuo numero di saggi volti alla ricerca di nuovi paradigmi con cui declinare ed indagare le possibilità di mutamento della natura del sistema internazionale e i suoi nuovi elementi di criticità. Tra la tesi più influenti e citate nel dibattito accademico e politico, occorre ricordare Out of Control di Zbignew Brzezinski38, The Clash of Civilization di Samuel P. Huntington39 e The Coming Anarchy di Robert Kaplan40. L’11 settembre, in questo senso, può essere considerato come il momento di realizzazione del cosiddetto “fattore fenice”. Questa definizione è stata utilizzata da Ken Organski per indicare l’esaurimento di quel periodo di circa quindici anni durante il quale la potenza vincitrice di una “guerra costituente” ottimizza i frutti della sua vittoria41. Una situazione che richiama la possibilità dell’emergere di nuove fonti di contestazione all’egemonia americana, associate al permanere di una condizione di forte turbolenza nella politica internazionale42. Nel breve termine, infatti, la scomparsa di uno dei due poli della Guerra fredda e l’assenza di un antagonista emergente aveva causato la concentrazione del potere nelle mani dell’unica superpotenza rimasta sul campo, ma nel medio termine ha incoraggiato l’emergere di sfide eterogenee portate avanti sia da potenze regionali, che da attori non statali, ma che solo l’attacco alle Torri gemelle e al

36 Cfr. A. Colombo, La disunità del mondo. Dopo il secolo globale, Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 180-240. 37 S. Minolfi, Dopo la Guerra Fredda: geopolitica e strategia della NATO, in «Giano», n. 34, 2000, pp. 5-26. 38 Si veda Z. Brzezinski, Out of control: global turmoil on the eve of the twenty-first century, Scribner, New York 1993. 39 Si veda S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997. 40 Si veda R. Kaplan, The coming anarchy, in «The Atlantic Monthly», n.273, 1994, pp. 44-76. 41 Cfr. A.F.K. Organski, J. Kugler, The Cost of Major Wars: the Phoenix Factor, in “The American Political Science Review”, LXXI, 1977, p. 4. 42 Si veda J.N. Rosenau, Turbulence in World Politics. A theory of Change and Continuity, Harvester Wheatsheaf, Brighton, 1990. 16 Pentagono ha reso evidente agli occhi di tutti. Il divario tra i contestatori della pax americana e gli Stati Uniti, tuttavia, è tale che le prime non risultano interessate a mettere in atto vere e proprie strategie di bilanciamento globali, ma solo a quelle relative ad aree geografiche più limitate, mentre i secondi tentano di eludere il divario con la superpotenza sfidandola in nuove tipologie di conflitto che superano qualsiasi tipo di confronto simmetrico e la “forma” delle guerre di tipo tradizionale43. Il dato più eclatante in questo senso, fornito dallo Human Security Report, è che a fronte di una diminuzione del 40% dei conflitti armati registrata tra il 1992 e il 2005, sui circa sessanta ancora in corso nell’anno dello studio il 70% era caratterizzato significativamente da attori e fattori religiosi, etnici e culturali, che in molte aree si sono imposti come fonte di legittimazione politica in sostituzione alle ideologie che avevano caratterizzato il confronto tra i due blocchi, e che, quasi tutti, hanno registrato la presenza di attori non statuali44. La persistenza della tradizionale condizione di incertezza che avvolge la politica internazionale è risultata, quindi, confermata, risultando enfatizzata ben oltre la sua natura effettiva anche per via del dissolversi delle visioni “ottimistiche” che si erano radicate negli anni Novanta sia nella comunità scientifica, che nel mondo politico e nell’opinione pubblica. Nonostante sia inequivocabile la presenza sul campo di una sola superpotenza, gli Stati Uniti, e, di conseguenza, il permanere di una situazione di sostanziale egemonia, anche se non priva di contestazioni e di tendenze controbilancianti, da più parti è stato alimentato il dibattito sulla quantità dei poli di potere presenti nel sistema internazionale e sulla natura stessa dell’attuale sistema internazionale. A differenza della fase della Guerra fredda, quando solo un gruppo ristretto di analisti è giunto a contestare l’idea di bipolarità, ci troviamo oggi al cospetto di un numero consistente ed eterogeneo di posizioni sul grado di “polarità” del sistema. A fronte dei sostenitori del perdurare dell’unipolarità nel sistema internazionale, ritenuta stabile e di lungo corso, altri, pur sostenendola, la reputano una condizione comunque transitoria45. Alcuni, viceversa, parlano del ritorno ad un sistema “multipolare”46 o, quanto meno, ad una situazione di tipo misto in cui si verifica la contemporanea presenza di una superpotenza,

43 Si veda A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Il Mulino, Bologna, 2006. 44 Si veda Human Security Report, Oxford University Press, Oxford, 2005. 45 Si veda C. Krauthammer, The Unipolar Moment, in “Foreign affairs”, vol. 70, n. 1, Winter 1990/1991, pp. 23-33; C.A. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera Americana e geopolitica nel XXI secolo, Vita&Pensiero, Milano, 2003; G.J. Ikenberry, Il dilemma dell’egemone. Gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione imperiale, Vita&Pensiero, Milano, 2007. 46 Si veda S.P. Huntington, The Clash of Civilization?, in “Foreign Affairs”, vol. 72, no. 3, Summer 1993. 17 di alcune grandi potenze e di altrettante potenze regionali47. Per la prima volta nella disciplina delle relazioni internazionali, infine, alcuni autori sono giunti a sostenere l’esistenza di una condizione di “non polarità”48. Alessandro Colombo, dal canto suo, prendendo in considerazione il disallineamento che si sta verificando tra società politica e società transnazionale e le profonde differenze in termini di attori, distribuzione del potere, prestigio, fonti di legittimazione e interessi che contraddistinguono ogni macro-regione geopolitica, ha sostenuto che il dibattito sulla conformazione del sistema internazionale appare sostanzialmente marginale al cospetto di quella che può essere definita una “regionalizzazione” della politica mondiale. In altre parole l’attuale sistema politico globale sarebbe incapace di dare forma ai diversi sistemi regionali, tanto da non riuscire a far emergere una vicenda narrativa comune a tutte le macro-regioni in cui il mondo appare suddiviso. Allo stesso tempo se la stabilità e la sicurezza dei singoli attori prima della caduta del muro di Berlino sembravano dipendere dalla tenuta del blocco di potere globale cui erano collegati, nella fase attuale, viceversa, appaiono più connesse alle risorse, agli interessi e alle intenzioni di alleati e rivali che si muovono nello stesso spazio regionale49. Al livello della struttura del sistema internazionale sembra permanere quel grado “hobbesiano” di anarchia, in cui la tendenza al disordine è più elevata, che già aveva contraddistinto l’epoca della Guerra fredda, ma che in molti avevano creduto destinato a stemperarsi con il sorgere di una comunità internazionale coesa, interdipendente e, di conseguenza, in via di pacificazione. Tra la fase 1945-1991 e quella attuale, dunque, è possibile riscontrare numerose prove di continuità nella presenza di visioni eterogenee e polarizzate della politica, nella delegittimazione del ruolo delle organizzazioni internazionali e degli Stati e, in taluni casi, della sfida de facto lanciata sul piano militare ai soggetti statali da quelli non statali. Al livello delle unità operanti nel sistema, invece, ricorre una cornice all’interno della quale risulta esasperata la contestazione di alcuni Stati e gruppi non statali nei confronti dei cardini su cui si è fondata tradizionalmente la politica internazionale, come il principio di sovranità, quello di non ingerenza e il diritto esclusivo degli Stati di ricorrere alla violenza. Si tratta di un fenomeno che era già stato incentivato dall’identificazione tra gli attori internazionali e la forza transnazionale delle ideologie durante tutto il Novecento, ma che oggi si trova ad essere nuovamente rilanciato dall’emergere di altre fonti di legittimazione del potere.

47 Si veda S.P. Huntington, The Lonely Superpower, in “Foreign Affairs”, vol. 78, n. 2, March-April 1999, pp. 35-49; B. Buzan, Il gioco delle potenze. La politica mondiale nel XXI secolo, UBE, Milano, 2006. 48 Si veda R.N. Haass, The Age of Non Polarity, in “Foreign Affairs”, vol. 87, n. 3, May-June 2008, pp. 44-56. 49 Cfr. A. Colombo, L’ordine globale e l’ascesa della grandi potenze regionali, in “Quaderni di Relazioni Internazionali”, n. 14, 2011, pp. 4-15. 18

I.3. Quale ruolo per l’Alleanza Atlantica dopo il 1989?

Come riflesso diretto dei cambiamenti intercorsi si è affermata la necessità di rivalutare il peso, la convenienza e l’architettura istituzionale delle principali organizzazioni internazionali sorte nei circa cinquanta anni di competizione bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il Patto Atlantico e la NATO ne rappresentavano, sotto il profilo strategico e militare, l’esempio più evidente. Diversamente dalle Nazioni Unite o dalla Comunità Economica Europea, che pur hanno dovuto affrontare le ripercussioni generate dal collasso del socialismo reale, la NATO aveva trovato la propria ragion d’essere originaria esclusivamente nella volontà euro-americana di contenere e contrastare la minaccia sovietica: privata del proprio avversario l’Alleanza ha rischiato di apparire un attore politico obsoleto. La preservazione della NATO ha richiesto un sostanziale “arrangiamento” della sua struttura e delle sue finalità alla mutata cornice politica all’interno della quale opera. Sotto il profilo strutturale è apparso necessario, anche come definitiva dimostrazione della vittoria sulla politica di potenza russo-sovietica, l’ampliamento della membership agli Stati europei che si sono liberati dai vincoli del dissolto Patto di Varsavia, secondo quanto sancito già dall’art. 10 del Trattato Atlantico. Per quanto atteneva le finalità della NATO, gli europei e i nordamericani si sono trovati a dover riformulare nuovi obiettivi condivisi in grado di legittimare l’esistenza dell’Alleanza. Si è trattato, in altri termini, di concretizzare il double enlargement teorizzato dagli analisti strategici americani ben prima del 1989: la NATO avrebbe dovuto inglobare nei suoi confini l’intero continente europeo ed espandere potenzialmente il raggio d’azione della sue attività all’intero globo terrestre, in nome della difesa dei valori democratici e liberali fatti propri, senza eccezione alcuna, da tutti gli Stati membri. Non appare casuale, dunque, che negli anni Ottanta nei documenti e nei comunicati ufficiali dell’Organizzazione ricorrano continui rimandi all’auspicabile stabilizzazione di quel “arco di crisi” che già nel 1978 Brzezinski individuava nell’area tra l’Europa orientale, il Medio oriente e l’Asia centro-meridionale50. Entrambe le direttive evolutive presentavano forti criticità. L’espansione out of area degli interventi militari e la rinuncia al presupposto dell’aggressione quale motivazione per l’attivazione della macchina bellica snaturavano l’identità difensiva della NATO

50 Cfr. R.D. Asmus, R. Kugler, S. Larrabee, Building a New NATO, in “Foreign Affairs”, September/October 1993, pp. 28-40. 19 proponendone la trasformazione in un dinamico strumento organizzativo con cui portare avanti gli interessi geopolitici del mondo occidentale51. Allo stesso tempo la volontà di cooptare la totalità, o quanto meno una parte significativa, degli ex Stati comunisti dell’Europa orientale rischiava di compromettere la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con la Federazione Russa, erede della disciolta Unione Sovietica. Questa, d’altronde, si è dimostrata scarsamente propensa ad abdicare il controllo, seppur meno intenso rispetto al passato, su una porzione del continente tradizionalmente ritenuta parte integrante della sfera d’influenza di Mosca. La ricerca di un modus vivendi condiviso con la Russia ha rappresentato una delle costanti che hanno segnato il processo di ristrutturazione della NATO nel decennio successivo alla fine della Guerra fredda, culminato nel vertice NATO-Russia di Pratica di Mare del 2002. In quest’occasione è stata decisa l’istituzione del principale organo di coordinamento della NATO con Mosca: il Consiglio NATO-Russia (NATO-Russia Council). In questo periodo la preservazione di buoni rapporti con il Cremlino ha condizionato fortemente la road map dell’allargamento dell’Alleanza Atlantica. Sebbene l’ingresso degli Stati dell’Europa dell’Est fosse stato proposto dai vertici dell’Alleanza già nel corso del summit di Londra del 1990, negli stessi ambienti statunitensi tale prospettiva non incontrava un favore unanime52. Figure politiche influenti come Strobe Talbott, Vice Segretario di Stato nelle due amministrazioni Clinton e capo della cosiddetta corrente del Russia First, insieme a personalità autorevoli del mondo accademico sconsigliavano categoricamente la proposta di enlargement. George Kennan, già diplomatico, ambasciatore, professore universitario e uomo chiave delle politica estera americana fin dagli albori della Guerra fredda, nel 1997 giudicava l’imminente spostamento verso est della frontiera europea della NATO come un “errore fatale” di cui gli occidentali avrebbero presto pagato le conseguenze53. L’allargamento della membership è stato proposto nel luglio del 1997 ai Paesi del Gruppo di Visegrad, fatta eccezione della Slovacchia, in quanto Polonia, Repubblica Ceca ed Ungheria sono state considerate politicamente ed economicamente più avanzate delle altre repubbliche dell’Europa centro-orientale. Questo processo è stato portato a termine nell’anno del cinquantenario dalla firma del Trattato, causando, come previsto, forti frizioni

51 Ex art. 5 del Trattato Atlantico l’intervento armato della NATO poteva essere giustificato solamente da un atto di aggressione da parte di stati terzi contro i territori nordamericani ed europei dei membri dell’alleanza. Tale articolo è stato invocato per la prima volta il 12 settembre del 2001 dagli Stati Uniti d’America in seguito agli attacchi terroristici che avevano coinvolto la costa orientale del paese nelle ventiquattro ore precedenti. 52 Cfr. G.B. Solomon, The NATO enlargement debate, 1990-1997, Praeger Publishers, Westport 1998, pp. 10 e ss. 53 Cfr. G. Kennan, NATO expansion would be a fateful blunder, in “The International Herald Tribune”, 6 Febbraio 1997. 20 tra gli Stati Uniti, Europa e Russia. Si tratta di una decisione, infatti, che agli occhi degli analisti di Mosca sembrava svilire la portata dell’Atto istitutivo sulle reciproche relazioni, cooperazione e sicurezza tra NATO e Federazione Russa, siglato il 27 maggio dello stesso anno a Parigi ed interpretato quale segnale della volontà occidentale di preservare lo status quo strategico nella regione. Un ulteriore terreno di scontro diplomatico è stato rappresentato dal sorgere di inarrestabili tendenze centrifughe nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, degenerate a partire dal 1991 in vere e proprie guerre etniche. Le crisi balcaniche hanno visto la NATO impegnata per la prima volta dalla sua fondazione in operazioni belliche su larga scala, quali l’imposizione di una no fly zone sui cieli bosniaci e il bombardamento di bersagli militari nella secessionista Repubblica Srpska (Operazione Deliberate Force, agosto- settembre 1995). Un successivo intervento militare si è concretizzato nel 1999 contro la Serbia, tradizionale alleato della Russia nei Balcani sud-occidentali, accusata dell’esecuzione di una pulizia etnica nella provincia autonoma del Kosovo, dove la componente etnica albanese, favorevole all’indipendenza, era nettamente maggioritaria su quella serba unionista (Operazione Allied Force, marzo-giugno 1999). Diversamente dal primo intervento, quello del 1999 è stato condotto senza un mandato autorizzativo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’aperto dissenso della Russia54. Le guerre nella ex-Jugoslavia e, ancor più, le operazioni belliche che hanno visto impegnata l’Alleanza nel XXI secolo – Afghanistan 2001, Libia 2011 e in misura minore Iraq 2004 e Somalia 2009 – testimoniano il progressivo svincolamento delle missioni NATO dalla logica difensiva dell’art. 5, invocato solo per il caso afgano, e l’espansione del loro raggio d’azione. Parallelamente il numero dei membri aderenti al Trattato è arrivato nel 2011 a contare ventotto Stati, mentre i confini dell’organizzazione sono giunti a lambire le Repubbliche sorte sulle ceneri dell’Unione Sovietica. La ferma opposizione russa all’allargamento della membership è stata mitigata dalla promessa dell’amministrazione Obama di rinunciare al progetto dell’amministrazione Bush jr. di istallare sul territorio della Polonia e della Repubblica Ceca un sistema di difesa balistica attiva, riconvertito poi in un meno aggressivo impianto di missili disarmanti da posizionare a rotazione tra Polonia e Romania. A distanza di venti anni della sconfitta del blocco sovietico la fisionomia e le prospettive dell’alleanza atlantica sono, dunque, mutate radicalmente. La NATO dell’epoca post- bipolare è oggi obbligata a confrontarsi con la realtà di un sistema internazionale che dopo

54 Cfr. S. Minolfi, op. cit., pp. 5-26. 21 un chiaro momento “unipolare” sembra avviato verso un processo di regionalizzazione e redistribuzione del potere su spazi politici limitati55. Cina, India, Brasile e gli altri attori relegati nel secolo scorso in posizioni comprimarie rispetto alle due superpotenze reclamano un peso maggiore nei processi decisionali internazionali, soprattutto nelle loro macro-regioni di riferimento, in quanto legittimati da un’impetuosa crescita politica, economica, demografica e sociale. Si contrappone a questa tendenza il parziale ridimensionamento del peso dell’Europa. La scomparsa della minaccia sovietica e la perdurante recessione economico-finanziaria hanno condotto il nostro Continente ad un significativo taglio delle spese militari: nei due decenni trascorsi dalla fine della Guerra fredda i Paesi europei aderenti alla NATO hanno ridotto mediamente tale spesa del 20%, lasciando al Canada e, soprattutto, agli Stati Uniti l’onere di finanziare più dei due terzi delle attività dell’Organizzazione56. Se il disorientamento prodotto dalla fine della contrapposizione bipolare è stato più o meno efficacemente superato grazie alle strategie del double enlargement, con ogni probabilità, le sfide già poste dal XXI secolo richiederanno ai firmatari dell’Alleanza un ulteriore e risoluto intervento per la revisione delle strutture operative della NATO. Le strade percorribili nella costruzione della nuova NATO sembrano condurre ad opzioni decisamente diverse tra loro. Una prima opzione è identificabile nella progressiva integrazione nella compagine occidentale della Federazione Russa, soggetto fieramente e tradizionalmente autonomo nella conduzione della propria politica estera, ma al tempo stesso, come spesso sottolineato, indiscutibilmente legato da più di cinque secoli alle dinamiche storico-culturali dell’Europa57. L’ingresso nella Russia nella NATO significherebbe la realizzazione di quel disegno spesso accarezzato di un’unità politica dell’emisfero settentrionale da Vancouver a Vladivostok. Tuttavia una simile prospettiva si tradurrebbe in un’implicita rinuncia al pilastro valoriale della democratizzazione quale fondamento imprescindibile dell’Alleanza stessa: nel caso in questione l’etichetta di regime compiutamente democratico, requisito finora rispettato nel processo di allargamento della membership, appare, quantomeno allo stato attuale, una forzatura troppo stridente non solo in relazione al caso russo, ma anche a quello di molti Paesi divenuti indipendenti dopo il 1991. Senza contare che resta incerta, da ambo i lati, l’esistenza della concreta volontà di procedere verso un progetto tanto ambizioso, quanto complesso. Un’altra opzione induce, invece, ad un completo ripensamento della NATO da patto macro-

55 Cfr. A. Colombo, La disunità del mondo…, cit., pp. 14 e ss. 56 Cfr. A.F. Rasmussen, NATO after Libya, in “Foreign Affairs”, July/August 2011, pp. 2-6. 57 Cfr. R.K. Kugler, Enlarging NATO. The Russia factor, Rand Publishing, Westport, 1996, pp. 12 e ss. 22 regionale in alleanza globale tra tutte quelle grandi e piccole realtà statali che condividono e rispettano i valori del pluralismo, della democrazia rappresentativa e della protezione dei diritti umani58. Il dibattito ormai ventennale sulla ricerca di un nuovo equilibrio tra dimensione regionale e globale dell’Alleanza sembra tuttavia aver trovato un punto di equilibrio nella prospettiva strategica dell’attuale decennio al Summit NATO di Lisbona del novembre 201059. Oltre dieci anni dopo il documento del 1999 sull’operatività in regioni out of area, lo Strategic Concept 2010 fissa un punto di bilanciamento tra il principio di alleanza regionale e capacità di intervento per la sicurezza globale, sostenendo l’obiettivo dell’“Open Door” all’integrazione nelle strutture euro-atlantiche dell’intero continente europeo, libero e fondato su valori comuni, e la strategia delle “Partnerships” nel contesto globale per una migliore promozione della sicurezza euro-atlantica60.

58 Cfr. J.G. Ikenberry, America senza rivali, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 10 e ss. Un passaggio che, tuttavia, potrebbe essere compiuto esclusivamente a fronte del rilancio di una politica internazionale, soprattutto da parte degli Stati Uniti, di ispirazione interventista. 59 Cfr. A. Marrone, The Equilibrium of the 2010 NATO Strategic Concept, in “The International Spectator”, vol. 46, n. 3, September 2011, pp. 93 e ss. 60 Si veda lo “Strategic Concept For the Defence and Security of The Members of the North Atlantic Treaty Organisation”, Lisbon, 17th November 2010: http://www.nato.int/lisbon2010/strategic-concept-2010-eng.pdf , p. 8. 23

Cap. II – La partnership NATO-UE

II.1. Ruolo delle strutture euro-atlantiche nei Balcani occidentali

Il binomio NATO-Unione Europea si dimostrato dunque funzionale all’evoluzione dell’Alleanza e dell’obiettivo della “sicurezza” da “Atlantica” a “Euro-Atlantica”: di fatto, nonostante la pratica abbia dimostrato che l’adesione all’Alleanza non è necessariamente una garanzia per l’ingresso nell’UE, nei casi in cui è mancato l’invito a entrare nella NATO – con riferimento a Stati che ne hanno mostrato l’ambizione – si è verificato un rallentamento anche nel processo di integrazione europea. Condividendo valori comuni e interessi strategici, NATO e Unione Europea si trovano sempre di più a lavorare fianco a fianco nella gestione di aree di difficile transizione, come i Balcani, tradizionalmente complesse da gestire e coordinare per la conformazione religiosa, linguistica e culturale. Al vertice di Lisbona del 2010, dunque, gli Alleati hanno sottolineato la volontà di migliorare la partnership strategica già esistente con l’UE e la partecipazione dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Catherine Ashton, al summit dei ministri degli esteri dei Paesi della NATO tenutosi a Berlino nell’aprile 201161 ne è una concreta dimostrazione. Lo stesso documento che delinea il nuovo Concetto strategico afferma che l’Alleanza si dovrà impegnare a prevenire crisi, gestire conflitti e stabilizzare situazioni post-conflitto, anche attraverso una maggiore cooperazione con i partner internazionali come l’Onu e l’Unione Europea. Proprio in riferimento a quest’ultima, il Concetto strategico afferma che se funzionante, l’UE può contribuire alla sicurezza complessiva dell’area euro-atlantica e, specificamente per l’area dei Balcani occidentali, “facilitare” la sua integrazione per rafforzare la pace e la stabilità basata sui “valori democratici, cooperazione regionale e buone relazioni di vicinato”62. Le relazioni tra le due entità sono state istituzionalizzate nel 2001, basandosi principalmente sulle misure prese nel 1990 per promuovere una maggiore responsabilità europea in materia di difesa. Con l’istituzione della Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD)63 nel dicembre 2002 sono stati stabiliti dei principi politici basilari e, a seguito dell’allargamento di entrambe le istituzioni nel 2004, oltre a quello europeo del 2007, NATO e Unione Europea contano oggi 21 Paesi membri in comune.

61 Si veda http://www.nato.int/cps/en/SID-3F6CF985-8894C833/natolive/events_72278.htm . 62 Cfr. “Strategic Concept…”, 2010, cit., p. 10. 63 Si veda http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai0917.pdf . 24 Nel luglio 2003, l’Alleanza e l’UE hanno pubblicato un documento strategico chiamato “Concerted Approach for the Western Balkans”64 che è servito per delineare i settori chiave della cooperazione e sottolineare la visione comune e la determinazione che entrambe le organizzazioni condividono nella volontà di portare stabilità nell’area balcanica. Le attività congiunte più importanti sono state realizzate in Repubblica ex-Jugoslava di Macedonia (FYROM), in Bosnia e in Kosovo. Per quanto riguarda Skopje, il 31 marzo 2003 la Concordia Operation65, sotto guida UE, ha assunto il controllo della missione della NATO precedentemente in atto, l’operazione Allied Harmony66. La Concordia Operation, conclusasi nel dicembre 2003, è stato il primo intervento realizzato in seguito agli accordi Berlin Plus67, in cui è stato garantito all’Unione il pieno accesso alle risorse dell’Alleanza. In Bosnia-Erzegovina, visti gli ottimi risultati raggiunti dalla Concordia Operation, alla conclusione della missione NATO Stabilition Force in Bosnia and Herzegovina (SFOR)68, l’Unione Europea ha dispiegato una nuova operazione denominata Althea Operation69 che si avvale dell’esperienza dell’Alleanza in termini di pianificazione e mantiene un comando operativo anche nel quartier generale euro-atlantico. In Kosovo, la NATO ha condotto una missione di pace, la Kosovo Force (KFOR)70 dal 1999. L’Unione Europea ha contribuito per anni con mezzi civili all’intervento dell’Onu, United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK)71, e ha accettato di prendere in consegna la componente di polizia di questa operazione. L’European Union Rule of Law Mission in Kosovo (EULEX)72, iniziata nel dicembre 2008, è la più grande missione civile mai lanciata sotto la PESD e ha l’obiettivo di assistere e sostenere le autorità del Kosovo in tema di diritto, polizia, magistratura e aree doganali. L’EULEX lavora a stretto contatto con la KFOR, grazie all’impegno congiunto di esperti della NATO e dell’Unione Europea che collaborano con l’inviato delle Nazioni Unite Martti Ahtisaari nei negoziati sul futuro status politico del Kosovo.

II.2. La NATO nei Balcani: cooperazione e integrazione

64 Si veda http://consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/er/76840.pdf . 65 Si veda http://www.concordantia.com/sfm2007/files/Literature/Foreign Policy/fyROM assessment short.pdf 66 Si veda http://www.afsouth.nato.int/nhqs/missions/alliedHarmony/alliedHarmony Mission.htm 67 Si veda http://www.nato.int/shape/news/2003/shape_eu/se030822a.htm 68 Si veda http://www.nato.int/sfor/ 69 Si veda http://www.euforbih.org/ 70 Si veda http://www.nato.int/kfor/ 71 Si veda http://www.unmikonline.org/pages/default.aspx 72 Si veda http://www.eulex-kosovo.eu/en/front/ 25

Al vertice di Strasburgo/Kehl73 dell’aprile 2009, i leader dei Paesi membri della NATO hanno scelto di rinnovare le strategie dell’Alleanza. Al Segretario Generale, Anders Fogh Rasmussen, entrato in carica nell’agosto del 2009, è stato affidato l’incarico della stesura di un nuovo “Concetto Strategico”, un documento, appunto, di orientamento politico e strategico, tramite il quale la NATO ridefiniva la propria posizione e i propri compiti tenendo conto dei mutamenti avvenuti nello scenario internazionale. Il Concetto strategico74, approvato poi al vertice NATO di Lisbona75 nel novembre del 2010, presenta, come in precedenza riportato, alcune innovazioni rispetto al passato. L’ultimo Concetto strategico era datato 1999, e pur rimanendo in parte attuale, troppi sono stati i cambiamenti globali intervenuti da quell’anno: l’11 settembre e la lotta al terrorismo, l’operazione militare NATO in Afghanistan e quella americana in Iraq, l’avanzata della Russia in Europa e la guerra russo-georgiana e, punto che ci interessa particolarmente, l’allargamento della NATO verso est. Il nuovo Concetto strategico, infatti, influisce sul processo di adesione dei Paesi dell’area balcanica e implementa nuove sfide per favorirne l’integrazione. Sul tavolo della NATO d’altronde i Balcani non sono un argomento marginale. Oltre agli Stati già membri della regione, Albania, Croazia e Slovenia, le discussioni per un ulteriore allargamento previsto per i Paesi di quest’area sono sempre in corso, e gli stessi organi direttivi dell’Alleanza hanno sottolineato i passi avanti che la regione ha fatto verso l’adesione definitiva, mettendone in luce anche le ottime capacità di cooperazione. La Bosnia-Erzegovina ha una solida partnership con la NATO – l’adesione al Membership Action Plan ne è una dimostrazione – grazie anche ad una serie di riforme, svolte e ancora in corso, come quella di smaltimento delle armi e munizioni in eccedenza. Sarajevo contribuisce anche all’International Security Assistance (ISAF) in Afghanistan, ma deve ancora lavorare per risolvere una serie di questioni riguardanti la difesa. La FYROM resta un caso piuttosto spinoso: un accordo sulla questione del nome deve essere raggiunto quanto prima, anche perché Skopje è stata messa da parte già nel 2008, quando la NATO invitò ufficialmente Albania e Croazia. La FYROM partecipa attivamente a diverse operazioni dell’Alleanza, in particolare con la KFOR e l’ISAF, e si è dimostrata attiva in politica estera favorendo la cooperazione regionale e restaurando i rapporti con la Serbia dopo il riconoscimento del Kosovo. Nonostante ciò, il tasso elevato di corruzione

73 Si veda http://www.nato.int/docu/pr/2009/p09-008e.html . 74 Si veda http://www.nato.int/lisbon2010/strategic-concept-2010-eng.pdf . 75 Si veda http://www.natolisboa2010.gov.pt/en/cimeira/logotipo/ . 26 presente nel sistema macedone e la bassa qualità dell’apparato giudiziario restano ostacoli sui cui il Paese balcanico deve ancora lavorare. Il Montenegro, come mostrato dalla prima valutazione dell’Annual National Programme, ha messo la lotta alla corruzione come uno dei primi obiettivi rivolti al suo progetto di integrazione. Molto importante sarà anche veicolare il messaggio verso un’opinione pubblica ancora incerta, e in buona parte contraria, sulle necessità di aderire all’Alleanza. Le relazioni tra la NATO e la Serbia sono aumentate notevolmente negli ultimi anni grazie a un dialogo politico che si è intensificato con il tempo. La questione riguardante il Kosovo resta, però, tuttora aperta e priva di una semplice soluzione, nonostante la volontà dell’Alleanza di ridurre drasticamente il numero di soldati coinvolti nella missione KFOR. Determinante sarà comunque il ruolo di Belgrado nel decidere che piega prenderanno le relazioni tra la Serbia e la NATO. Se la Serbia diventasse un membro dell’Alleanza potrebbe risolvere il problema interno della sicurezza e mettere in atto una riforma nella struttura del proprio sistema di difesa, una questione che concerne non solo l’apparato militare ma anche l’influente lobby dell’industria militare serba, tradizionalmente molto legata a Stati come Russia, Cina, Libia e Iraq. Permane un problema di mancanza di fiducia: la NATO non si fida ancora di Belgrado, nonostante gli accordi di partnership esistenti. Anche Belgrado, però, non sembra nutrire particolare fiducia nei confronti dell’Alleanza e questo per due ragioni principali: reminescenze della guerra nell’ex Jugoslavia, in particolare nel territorio bosniaco e croato, dove la Serbia è stata sconfitta dalla NATO e, in secondo luogo, per gli ultimi bombardamenti avvenuti sul territorio serbo nel 1999. L’opinione pubblica in Serbia resta generalmente contraria all’ingresso nell’Alleanza ma, per i benefici che ne deriverebbero, il governo potrebbe decidere di rivedere le sue priorità e porre l’adesione alla NATO anche prima di un’eventuale integrazione nell’Unione Europea. La cooperazione nei Balcani è un obiettivo cui sia la NATO che l’Unione Europea puntano con fermezza per accelerare i processi di adesione e migliorare i rapporti tra i singoli Paesi della penisola. A oggi, grazie anche al lavoro del Regional Cooperation Council (RCC)76 - un quadro regionale di cooperazione per i Paesi del sud-est Europa - si è riusciti da più fronti a promuovere la collaborazione reciproca favorendo, così, l’integrazione europea ed euro-atlantica dell’area. Inoltre nel campo della cooperazione di sicurezza si sono registrate diverse iniziative partite prima della creazione del RCC nel 2008, con le quali il Segretario Generale Hido Biščević ha creato ottime forme di collaborazione. Proprio

76 Si veda http://www.rcc.int/ . 27 Biščević ha rilasciato recentemente un’intervista in cui ha espresso risolutamente la sua opinione da fermo sostenitore del processo di integrazione dei Balcani nei due assi europeo ed euro-atlantico: “I Balcani devono dare risposte tali da fornire argomenti a tutti coloro che, in Europa, sostengono l’allargamento. In altre parole occorre risolvere i nodi regionali e trasformare lo spazio balcanico in una parte affidabile, sicura e stabile dell’Europa. Questo angolo del vecchio continente non può permettersi il lusso di perdere altro tempo. La storia c’insegna, dopotutto, che se i Balcani non vengono agganciati all’Europa diventano un problema, a livello di sicurezza. È per questo che insisto sull’urgenza del momento. Sia l’Europa che i Balcani devono fare di più”77. Grazie a questo impegno congiunto si è riusciti a sviluppare e conservare un più alto livello di fiducia tra i vari Paesi, permettendo così alle varie attività di partenariato di stabilizzarsi ed espandersi. In particolare, uno dei meccanismi più importanti è il South East European Chiefs of Military Intelligence (SEEMIC)78, istituito per sviluppare la cooperazione nel campo delle minacce alla sicurezza e per migliorare la condivisione dell’intelligence a livello regionale. Da segnalare anche il South-East Europe National Security Autority (SEENSA)79, un forum permanente che si occupa della condivisione e della protezione delle informazioni classificate a livello regionale, e il South-East European Counter- Intelligence Chiefs (SEECIC)80, un meeting impegnato in attività di controspionaggio. Tutte queste forme di cooperazione godono del supporto del NATO Office of Security, l’ufficio responsabile di garantire il coordinamento generale della sicurezza tra gli Stati membri della NATO, i Paesi partner e le nazioni del Mediterranean Dialogue81, con i corpi militari e civili dell’Alleanza. L’intensificazione delle attività di allargamento della NATO rende quindi fondamentale ogni progetto di cooperazione e divisione del lavoro, in particolar modo, in aree di conflitto o dagli equilibri instabili come i Balcani. Ovviamente, non mancano sfide e ostacoli di varia natura. Una marcata delineazione delle responsabilità da condividere con l’Unione Europea resta, in certi frangenti, difficile. La crisi economica globale sta obbligando gli Stati membri a introdurre tagli nei loro bilanci della difesa e il reset dei rapporti tra Russia e NATO sembra destinato a fallire dopo le dichiarazioni del presidente russo Dmitrij Medvedev al vertice di Sochi del luglio 201182. Quest’ultimo punto potrebbe risultare fondamentale per spostare certi equilibri nei Balcani,

77 Si veda http://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Balcani-e-tempo-di-cooperare-103669 . 78 Si veda http://www.rcc.int/pages/0/8/security-cooperation . 79 Si veda http://www.rcc.int/articles/0/79/seensa-new-regional-format-of-advanced-protection-of-classified- information . 80 Ibidem. 81 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_52927.htm . 82 Si veda http://www.cdi.org/russia/johnson/russia-nato-missile-defense-contentious-summit-219.cfm . 28 laddove alcuni Paesi potrebbero decidere di schierarsi solo dopo la presa di posizione di Mosca nei confronti dell’Alleanza. La sensazione, quindi, è che l’effetto del post-Lisbona per ora sia relativamente contenuto nell’area balcanica e ancora incapace di eliminare i preconcetti esistenti su ciò che la NATO rappresenta per alcuni di questi paesi. Il fatto che l’adesione susciti alcune preoccupazioni nell’opinione pubblica dei Paesi balcanici deriva da questioni storiche non troppo lontane nel tempo, oltre che dalla scarsa convinzione che l’ingresso in un’organizzazione sovranazionale possa portare dei reali benefici. In Croazia, membro dal 2008, persisteva ancora uno scarso sostegno da parte del pubblico sino a poco tempo fa, principalmente a causa di un’inadeguata campagna informativa effettuata da parte del governo del Paese. Sarebbe necessario, quindi, un dibattito pubblico trasparante ed informato relativo a oneri e benefici che l’adesione alla NATO potrebbe comportare, in particolar modo in Paesi come la Serbia o Montenegro dove il sostegno dell’opinione pubblica resta ancora molto basso. L’adesione alla NATO per i Paesi appartenenti ad un’area strategica come quella balcanica, si presenta come è una condicio sine qua non per scoraggiare la minaccia di instabilità regionale e diminuire in maniera consistente le possibilità che gli equilibri interni ai vari Stati possano essere messi in discussione. L’Alleanza Atlantica ha da sempre puntato all’area anche per permettere ai Paesi balcanici di condividere quei comuni valori di democrazia, stabilità, pace, tutela dei diritti umani e libero mercato, propri dell’area euro- atlantica. La possibilità che i differenti gruppi etnici vengano messi a lavorare in progetti di cooperazione potrebbe favorire un effetto positivo e placare quel sentimento di odio derivante dai conflitti inter-etnici passati. La stessa prospettiva di adesione alla NATO è servita da catalizzatore per tutti i Paesi dell’Europa sud-orientale per intraprendere riforme politiche, economiche e istituzionali, facilitando per altro, anche il processo di integrazione regionale nell’UE. È chiaro che per molti di questi Stati manca ancora una chiara strategia riguardo l’adesione, e questo – in condizioni come quelle presenti nell’ambiente balcanico dove restano ancora aperte questioni in materia etnica, di confine, di terrorismo e di circolazione delle persone – comporta la necessità di predisporre grandi investimenti per sostenere l’apparato militare e di sicurezza. Nonostante le difficoltà, appare evidente che il supporto delle organizzazioni sovranazionali risulta fondamentale per il raggiungimento di un risultato complessivamente soddisfacente. Le stesse risorse a livello di consulenza fornite in tema di intelligence, infrastrutture, informazione e formazione, sarebbero venute meno

29 se questi Paesi non avessero in piedi accordi di partnership con la NATO e l’UE. Sarebbe necessario intensificare anche la diplomazia parlamentare a livello regionale al fine di migliorare i processi di riforma diretti all’integrazione europea ed euro-atlantica, in modo che siano i Paesi stessi, in un’ottica di collaborazione, a sviluppare e coordinare i programmi di cooperazione regionale. Il concetto stesso di cooperazione risulta poi funzionale a prescindere dalla volontà di inserimento nel quadro NATO e UE, in una prospettiva di razionalizzazione dei costi e di stabilizzazione dello sviluppo economico: la cooperazione, infatti, faciliterebbe il successo di progetti che i singoli Stati non potrebbero attuare da soli, soprattutto per la spesa iniziale troppo elevata da sostenere.

II.2.1. L’allargamento della NATO all’Albania83

Considerando che a Tirana le prime elezioni libere si sono svolte solo nel 1991, il processo di adesione dell’Albania alla NATO è stato, per certi versi, estremamente celere, soprattutto rispetto ai suoi vicini balcanici. Già nel 1992, l’Albania è entrata nel North Atlantic Cooperation Council, il precursore dell’EACP. Appena due anni dopo, il 23 febbraio 1994, mentre il resto dei Balcani occidentali era nel pieno di una sanguinosa guerra, l’Albania ha aderito alla Partnership for Peace e ha chiesto ufficialmente di entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica. Non solo. Sempre nel 1994 Tirana ha istituito l’Atlantic Council of Albania (ACA), che riuniva i migliori rappresentanti in campo politico, diplomatico, militare, accademico ed economico. Il Consiglio di ACA è stato fondamentale per il numero record di iniziative condotte dalla sua nascita fino alla piena adesione del Paese all’Alleanza e, nonostante le difficoltà nazionali e regionali, le attività dell’ACA hanno avuto un’importanza cruciale nel promuovere, nella comunità internazionale, la questione albanese e le sue aspirazioni euro-atlantiche. Nel 1995 l’Albania ha sviluppato poi il suo primo Individual Partnership Program (IPP) e nel 1996 è entrata a far parte del Planning and Review Process (PARP). In seguito al vertice di Washington, nel 1999, l’Albania, assieme a Croazia e FYROM, si è unita al Membership Action Plan (MAP), il programma progettato per aiutare i partner NATO a soddisfare gli standard del Patto

83 A mero scopo indicativo si riportano dati e grandezze dell’Albania. Popolazione: 3.6 milioni (stime 2007); composizione etnica: 95% Albanesi, 3% Greci, 2% altri (stime 1989); totale territorio: 28,748 km²; PIL: $ 23,95 miliardi (stime 2010); budget della Difesa: $ 208 milioni (Stime 2007); Forze armate attive: 11,020 2010. Cfr. CIA, “The World Factbook 2009”, in https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/ . Cfr anche The Military Balance 2011, International Institute for Strategic Studies, London, 2011, in http://www.iiss.org/publications/military-balance/ ; si tengano presenti i dati elaborati da “Forecast International”, in http://www.forecastinternational.com . 30 Atlantico in vista di una futura adesione. Gli obiettivi e i requisiti del MAP si sono concentrati in 5 aree principali: politica, difesa economica, finanza, diritto e sicurezza delle informazioni. Nell’aprile 2008, al vertice di Bucarest, l’Albania è stata ufficialmente invitata ad avviare i colloqui per entrare nella NATO. Gli Alleati hanno firmato il protocollo di adesione di Tirana al Trattato Atlantico del Nord il 9 luglio 2008 e, successivamente, è iniziato il processo di ratifica nei Paesi membri della NATO. Il Parlamento italiano ha ratificato l’adesione il 22 dicembre 2008. Il primo aprile 2009 l’Albania, assieme alla Croazia, è diventata a pieno titolo membro della NATO. Tre giorni dopo, al vertice di Strasburgo/Kehl – dove è stato celebrato il sessantesimo anniversario dalla firma del Trattato di Washington – si è ufficialmente aperta una nuova fase qualitativa del contributo dell’Albania alle istituzioni euro-atlantiche. Il Segretario Generale, Jaap de Hoop Scheffer, ha a tal riguardo dichiarato: “La presenza di Albania e Croazia oggi conferma che la porta della NATO rimane aperta ed è la testimonianza del nostro impegno per un’Europa unita e libera […] Albania e Croazia meritano il proprio posto sul nostro tavolo”, mentre il Presidente degli Stati Uniti, si è congratulato con i due Paesi per gli sforzi compiuti: “siamo orgogliosi di avervi come alleati”84 ha affermato Barak Obama. La candidatura dell’Albania è stata valutata dall’Alleanza Atlantica sulla base di alcuni criteri, come ad esempio lo stato delle riforme politico-economiche, l’orientamento dell’opinione pubblica riguardo la membership, le riforme sulla difesa, la capacità di contribuire alle missioni degli alleati e il ruolo del Paese nella regione: criteri che per una giovane democrazia come quella albanese erano tutti da soddisfare. L’Alleanza aveva richiesto, sostanzialmente, un profondo cambiamento di tutte le istituzioni albanesi e l’adesione è stata resa possibile grazie agli sforzi compiuti dal governo di Tirana per implementare importanti riforme come quelle politiche, soprattutto sulla riforma della legge elettorale; economiche in campo di liberalizzazioni e di leggi favorevoli per lo sviluppo della piccola e media impresa; e di difesa, adeguando l’esercito albanese ai modelli NATO. Tutto questo per approntare una più stretta cooperazione in grado di assicurare la sicurezza dell’area a livello nazionale ed internazionale. La riforma della legge elettorale, assieme al rinnovamento delle leggi giudiziarie rappresentano le questioni più critiche85. Il Parlamento albanese ha approvato nuove manovre riguardanti questi due importanti aspetti ma i progressi spesso sono stati lenti e la riforma elettorale è ancora una delle

84 Si veda http://www.nato.int/cps/en/SID-DAD5643A-919C2CBA/natolive/news_52834.htm . 85 “Further Reform Necessary in Albania”, parole del Secretario Generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer, nel corso dell’incontro al quartier generale della NATO tenutosi il 19 Ottobre, 2007, in http://www.nato.int./cps/en/natolive/index.htm . 31 richieste principali dell’opposizione albanese. Anche il sistema di difesa del paese è stato riformato per aderire agli standard funzionali dell’Alleanza. Le Forze armate albanesi hanno adottato un Piano di sviluppo a lungo termine (2000-2020) con l’obiettivo di raggiungere una forza armata moderna, motivata e professionale. L’esercito di Tirana ha contribuito attivamente sia alle missioni a comando NATO che a quelle a comando UE e ha preso parte agli interventi in Bosnia-Erzegovina, Iraq, Iran, Ciad, Afghanistan e Libia86. L’Albania ha dimostrato di avere un approccio molto costruttivo e di guardare anche oltre i confini della propria regione: l’adesione alla NATO ha permesso al Paese di assumersi nuove responsabilità per fare la sua parte nella tutela dei valori euro-atlantici. Il governo di Tirana deve considerare la propria sicurezza come inseparabile dal contesto della sicurezza globale, partecipando in modo attivo alle missioni di pace internazionali con l’obiettivo di promuovere e garantire la sicurezza globale, la pace e la stabilità. La partecipazione albanese alle missioni internazionali sembra essere non soltanto un obbligo derivante dall’adesione alla NATO ma anche un impegno condiviso per la comune responsabilità in tema di sicurezza internazionale. L’integrazione euro-atlantica è stata fin dall’inizio della transizione uno dei principali obiettivi dei governi e dei partiti politici albanesi. Tuttavia, secondo molti osservatori, la decisione della NATO sulla candidatura dell’Albania non si è tanto basata sulla soddisfazione di tutti i criteri imposti dall’Alleanza Atlantica prima dell’adesione, quanto più su un giudizio politico degli Alleati che consideravano l’adesione di Tirana come un contribuito alla sicurezza regionale. In effetti, le sfide principali della candidatura albanese alla NATO, secondo gli osservatori internazionali, sarebbero state principalmente le questioni che riguardavano le sue riforme politiche. L’allora presidente albanese Alfred Moisiu nel 2004 ha scritto che “l’opinione pubblica e politica percepiscono l’Alleanza come un passo fondamentale verso lo sviluppo di un sistema democratico stabile e di un’economia di mercato funzionante”, mostrando che l’integrazione avrebbe portato la stabilità non solo in Albania ma nell’intera regione. Allo stesso tempo, il capo di Stato albanese ha ammesso che il suo Paese non si aspettava di ricevere un invito come una sorta di bonus fedeltà. A riguardo Moisiu ha dichiarato “L’Albania non sarà invitata ad aderire alla NATO semplicemente per l’alto livello di supporto pubblico o per il contributo che ha dato nelle missioni di pace della NATO. Piuttosto […] l’invito sarà per il riconoscimento del duro lavoro e la conclusione positiva di un lungo e completo processo

86 “Il contributo dell'Albania alla sicurezza atlantica”, Intervento del ministro della Difesa della Repubblica di Albania, On. Arben Imami, in occasione del convegno: “Sicurezza e Cooperazione nel Mediterraneo” a Lucano, in www.comitatoatlantico.it 32 di riforma per portare gli standard a quelli dell’Alleanza. Il Paese è determinato a lavorare per soddisfare i criteri di adesione della NATO in particolare quelli militari”87. In ogni caso, l’adesione dell’Albania alla NATO costituisce una storia unica di un rapporto speciale. Ciò appare evidente se si considera che non vi è nessun Paese dell’Alleanza in cui il consenso dell’opinione pubblica riguardo l’ingresso nel Patto Atlantico superi il 96 per cento. Oggi l’Albania è un soggetto attivo nella regione e la sua posizione all’interno dell’Alleanza si sta consolidando. La capacità di contribuire alla tutela della pace e della stabilità ha fatto sì che l’Albania ottenesse un nuovo status e un ruolo di maggiore rilevanza nelle relazioni internazionali. Inoltre, l’ingresso nell’Alleanza Atlantica aumenta l’importanza geostrategica per l’Albania, che rappresenta la porta dei Balcani al Mediterraneo e il crocevia dei condotti che dal Caucaso assicurerà l’approvvigionamento energetico dell’Europa. Tutti i paesi membri della NATO si devono oggi consultare e coordinare sui temi strategici del XXI secolo. Le sfide del futuro, anche quelle che appaiono lontane dai propri confini, si devono discutere insieme e si devono affrontare formando il giusto approccio strategico, in modo tale che nessun Paese possa seguire una politica individualista, ma sia portato a creare le migliori condizioni di collaborazione.

La piena adesione alla NATO dell’Albania ha segnato importanti risultati anche per la stabilità democratica interna del Paese e questo obiettivo è stato raggiunto grazie a un processo di integrazione difficile ma coerente. Di fatto l’Albania comunista si era caratterizzata per 40 anni di isolamento (caso unico anche nel mondo del socialismo reale della secondo dopoguerra) e ancora oggi, nonostante le elezioni libere e multipartitiche, persistono nel Paese forti tensioni e conflitti tra i partiti politici e tra le fazioni all’interno di essi. Superati i critici momenti del 1997, in cui anarchia, caos e criminalità dilagarono per tutto il Paese per il fallimento delle società finanziarie piramidali, oggi l’Albania ha due forze politiche principali: il Partito Socialista (PS) di Edi Rama e il Partito Democratico (PD) del Premier Sali Berisha, al governo dal 2005 grazie a una coalizione con partiti minori88. Presidente dell’Albania dal 1992 al 1997, Sali Berisha, è stato spesso criticato in passato per la sua leadership dura e senza compromessi; tuttavia, negli ultimi anni, e in particolare dopo le elezioni del 2005, questa leadership sembra caratterizzarsi per un maggiore senso di responsabilità per il futuro del Paese. Uno dei maggiori punti critici dell’Albania rimane il mancato dialogo tra le due maggiori forze politiche PD e PS: all’indomani delle elezioni, il candidato al governo perdente di uno dei due principali partiti accusa di brogli e irregolarità i vincitore. Alle elezioni parlamentari del 2009 Berisha

87 The Albanian Dream, in “NATO Review”, Spring 2004, riportato in Historic Change in the Balkans, edizione pubblicata dalla rivista nel dicembre 2004 (pp. 54-55). 88 Si veda A. Biagini, Storia dell’Albania contemporanea, Milano, Bompiani, 2007. 33 ha battuto Rama per un pugno di voti, aprendo una stagione di stallo dovuta al rifiuto del PS di accettare il risultato elettorale, boicottando le sedute in Parlamento e invitando la popolazione a scendere in piazza. Il 21 gennaio 2010, però, durante l’ennesima protesta contro il governo, hanno perso la vita quattro manifestanti: in questo clima di crescente e drammatica tensione, in autunno Rama ha deciso di interrompere il boicottaggio e di tornare in Parlamento. Tuttavia, il leader socialista non ha accettato le condizioni dell’UE di votare le leggi a maggioranza qualificata. Questa decisione blocca, di fatto, la possibilità di mettere in atto le necessarie riforme di cui il Paese ha bisogno e che sono richieste dai vertici di Bruxelles. Proprio l’ingresso nell’UE sembra essere uno degli obiettivi più complessi da realizzare per Tirana. Tra i primi slogan dei manifestanti che protestavano contro il regime comunista vi era “vogliamo l’Albania come tutta l’Europa”. Il desiderio di entrare nell’UE è molto forte e gli albanesi sostengono tutte le politiche di integrazione. Tuttavia, se l’ingresso nella NATO è stato sostanzialmente veloce, la strada per Bruxelles sembra essere assai più complicata. Nel 2007, il governo di Tirana ha firmato lo Strumento di preadesione (IPA). Nell’aprile 2009 la Commissione Europea ha rifiutato la candidatura dell’Albania, sostenendo che erano necessarie maggiori riforme, ma anche il secondo tentativo di Tirana di diventare “Paese candidato” è stato bocciato il 12 ottobre 2011 poiché il Paese non ha raggiunto i 12 obiettivi richiesti da Bruxelles. In base al rapporto semestrale della Commissione Europea sui miglioramenti compiuti dai Paesi dei Balcani occidentali, si legge che l’Albania ha raggiunto importanti progressi nella lotta alla criminalità organizzata, nel miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri e nelle politiche sull’infanzia; tuttavia permane la necessità di riformare il sistema giudiziario, le politiche contro la corruzione, il diritto sulla proprietà e il trattamento della comunità rom. Nel rapporto, inoltre, si legge che ci sono state “significanti irregolarità riscontrate nelle ultime due elezioni” che legittimano una “totale riforma elettorale”. Infine, la morte dei quattro manifestanti lo scorso 21 gennaio “ha aumentato il clima di sfiducia verso le forze politiche e le istituzioni”. In sostanza, il Paese rimane bloccato allo status di “potenziale candidato” e, assieme alla Bosnia-Erzegovina, rimane il fanalino di coda nel processo di integrazione. L’UE ha richiesto che le forze politiche albanesi ritrovino e mantengano un certo livello di dialogo politico e, per raggiungere gli standard richiesti, è necessaria “una stretta collaborazione con l’opposizione”89. Nonostante la pressione internazionale e i ripetuti appelli alla collaborazione, i due partiti politici restano arroccati sulle proprie posizioni e si accusano a vicenda per gli scarsi risultati che il Paese ha raggiunto nel processo di l’integrazione verso l’UE. Mancano, pertanto, i segnali di una vera e propria svolta. Bruxelles suggerisce che “un modo per procedere sarebbe l’approvazione di un patto formale per l’integrazione UE che prevede una congiunta revisione e approvazione del piano d’azione sulla base delle raccomandazioni del rapporto” della Commissione, “ed un programma sulle riforme essenziali, con particolare riguardo all’attività parlamentare e alle elezioni”. Il

89 Si veda http://www.balcanicaucaso.org/ita/Tutte-le-notizie/Crisi-in-Albania-l-UE-presenta-il-conto-104407 . 34 suggerimento europeo è stato ben accolto dall’opposizione, che ha avanzato un “Patto per l’Europa”, un documento di dieci punti che mira a “superare l’impasse politica e a consentire al Paese di progredire nel suo cammino dì integrazione”. Tuttavia, la proposta è stata respinta dalla maggioranza. Berisha, dopo aver definito il “Patto per l’Europa” un “elenco di ultimatum” si è detto disponibile a collaborare solo per la riforma elettorale e per qualche modifica al regolamento parlamentare. Il secondo rifiuto della Commissione Europea a Tirana era abbastanza scontato e gli stessi albanesi si aspettavano questo risultato. Sulla vicenda è intervenuto il Presidente della Repubblica che ha parlato di un “clima pieno di tristezza che sta sfiorando l’assurdo”. Se nel 2013 la Croazia entrerà nell’Unione Europea, l’ingresso dell’Albania sembra dunque ancora molto distante, fattore che mette in evidenza come i processi di integrazione nella NATO e nell’UE non sempre seguono una strada del tutto congiunta. L’ingresso dell’Albania e della Croazia nell’Alleanza Atlantica ha segnato, a ogni modo, un nuovo capitolo per i Balcani occidentali e può aprire la strada per un futuro più stabile e sicuro. In effetti la regione sta vivendo un momento di forti mutamenti e ricerca non solo una pace duratura, ma anche sicurezza, libertà, dignità, democrazia e uno sviluppo economico sostenibile. Dopo gli sconvolgimenti degli anni Novanta, segnati dai contrapposti nazionalismi etnici, i Balcani occidentali sembrano determinati a seguire i principi guida dell’Alleanza e a rispettare il preambolo del Trattato del Patto Atlantico che sancisce che tutti i Paesi membri restano “decisi a salvaguardare la libertà dei propri popoli, il proprio retaggio comune e la propria civiltà, fondata sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sul predominio del diritto, desiderosi di favorire nella regione dell’Atlantico settentrionale il benessere e la stabilità, decisi a riunire i loro sforzi per la loro difesa collettiva e per il mantenimento della pace e della sicurezza”. Diventa, pertanto, fondamentale la cooperazione regionale e in questa ottica il ruolo di Tirana è sicuramente cruciale. L’Albania non ha questioni territoriali in sospeso con i suoi vicini e la sua posizione geografica strategica rappresenta un vero e proprio ponte tra l’oriente e l’occidente. Tirana è quindi chiamata ad assumere una maggiore responsabilità per la stabilizzazione dei Balcani occidentali. L’analisi della comunità albanese delinea un aspetto piuttosto peculiare: l’Albania è l’unico Paese al mondo i cui confini sono circondati da una popolazione che condivide la stessa nazionalità (degli oltre 6 milioni di albanofoni, solo 3 milioni e mezzo sono cittadini albanesi). Gli albanesi che vivono in Kosovo o nella FYROM possono dare anch’essi un grande contributo per garantire la sicurezza e la cooperazione nell’intera regione. Per favorire l’ingresso dei Balcani occidentali nell’UE, nell’ottobre del 1999, al vertice europeo di Tampere, è stata lanciata l’Iniziativa Adriatico-Ionica (IAI)90, un programma che – come si vedrà in seguito nel presente studio – associa gli stati dei bacini Adriatico e Ionico (Italia, Grecia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Albania, Serbia e Montenegro) e punta a costituire, sotto l’egida UE, una macroregione che potenzi la cooperazione

90 Si veda http://www.unep.org/gc/gcss-viii/Slovenia%20IWRM.pdf . 35 tra i Paesi aderenti. In tale club l’Albania gioca un ruolo centrale per la riuscita dell’iniziativa regionale. L’Albania ha giocato un ruolo cruciale nel sostenere le operazioni degli Alleati per porre fine alla tragedia umanitaria in Kosovo e nel garantire la sicurezza nella regione in seguito al bombardamento NATO della Serbia; inoltre, è stato uno dei primi Paesi a riconoscere il Kosovo quando l’ex provincia serba si è dichiarata indipendente il 17 febbraio 2008. Tale scelta ha aumentato le tensioni nei rapporti con la Serbia ma i leader albanesi hanno ripetutamente detto che Tirana non ha alcuna intenzione di unirsi con il Kosovo o con la maggioranza etnica albanese che vive nella FYROM e non vuole creare una “Grande Albania”. Sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea hanno spesso lodato Tirana per la sua posizione moderata sulle dispute territoriali dei vicini. La Delegazione Italiana Esperti (DIE) ha dato un forte sostegno e contributo all’adesione dell’Albania nella NATO. La DIE è stata istituita il 28 agosto 1997, al termine della missione italiana “Alba”, nel quadro del protocollo d’intesa firmato dai ministri della Difesa italiano e albanese. Grazie alle sue attività di tipo concettuale, formativo e logistico, la DIE ha svolto in Albania operazioni di cooperazione bilaterale e ha fornito supporto alle forze armate albanesi per l’adeguamento delle proprie strutture ai modelli della NATO. Per esprimere la gratitudine verso il lavoro svolto dalla DIE, nel 2006 il presidente albanese Alfred Moisiu, su proposta del ministro della Difesa, ha decorato il Generale Salvatore Gravante, che ha guidato la DIE dal 2004 al 2006, con una onorificenza: “Per il prezioso contributo fornito al processo di ammodernamento delle forze armate della Repubblica d’Albania”. Tale riconoscimento è stato direttamente consegnato dal ministro della Difesa Fatmir Mediu. La Delegazione Italiana Esperti testimonia la proficua collaborazione stabilita nel settore militare tra i due Paesi. Inoltre, anche gli scambi commerciali tra Albania e Italia aumentano regolarmente di anno in anno. Oggi l’Italia è il primo partner commerciale di Tirana. Il 35% del commercio albanese, infatti, si svolge con l’Italia che, tra l’altro, è il principale donatore91 e il primo investitore in termini di numero di aziende. Negli ultimi anni l’Albania è cresciuta molto, non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto il profilo dell’integrazione euro-atlantica. La storia, la popolazione, la cultura e la posizione geostrategica dell’Albania offrono l’immagine di un Paese particolare che, dall’instabilità politica e istituzionale che lo caratterizzava negli anni Novanta, è diventato oggi una garanzia di sicurezza in grado di contribuire in tutto il mondo alle maggiori operazioni di pace della NATO e dell’Unione Europea. La libertà e i valori occidentali sono diventati due concetti fondamentali e l’Albania, superati gli “errori giovanili”92, è intenzionata a guadagnarsi un posto di rilievo all’interno della comunità internazionale. Il Paese, pur conservando la propria cultura, è sempre stato

91 Per dati commerciali più approfonditi consultare il sito dell’Istituto per il Commercio Estero www.ice.goc.al . 92 “Albania and NATO: Achievements and Perspectives”, intervento del Segretario generale del Comitato Atlantico Italiano, F.W. Luciolli, 13^ Conferenza Internazionale del Consiglio Atlantico Albanese, Tirana, 20 marzo 2009, in www.comitatoatlantico.it . 36 profondamente orientato verso ovest. Le antenne satellitari in tutte le città albanesi testimoniano il desiderio di una formazione libera e pluralista; inoltre, a differenza dei suoi vicini, l’Albania ha sempre garantito la libertà di religione ed è molto tollerante con le diverse fedi, mai considerate come una minaccia o un fattore di divisione. I gommoni pieni di clandestini provenienti dalle coste albanesi sono ancora impressi nell’immaginario collettivo ma oggi, l’Albania non è più il Paese dell’emigrazione illegale e del traffico di esseri umani e la lotta contro gli stupefacenti, la corruzione e il contrabbando sta dando i suoi risultati. Il governo di Tirana sta puntando al consolidamento delle istituzioni democratiche e dello stato di diritto, all’aumento delle capacità doganali, del controllo delle frontiere e della sicurezza interna e marittima.

Il ministro della Difesa, Arben Imami, ha esposto, in un’intervista, il ruolo che l’Albania ricopre all’interno dello scenario geostrategico della NATO. Egli ha dichiarato che i Paesi dei Balcani “hanno ormai raggiunto i migliori livelli di sicurezza, stabilità politica e sviluppo sociale” e oggi danno un “valore aggiunto” alla sicurezza fornita dalla NATO. Pur essendo Paesi con un numero limitato di abitanti, rispetto agli altri Alleati, contribuiscono con i loro eserciti alle missioni di pace nei diversi teatri. Tuttavia, Imami ha ricordato che la situazione dei Balcani occidentali presenta diverse difficoltà e una piena integrazione nell’Alleanza migliorerebbe sostanzialmente il livello di sicurezza e stabilità politica nella regione. Il ministro ha sottolineato che l’Albania può essere un fattore stabilizzante per tutti i Balcani occidentali: “Non è più come 20 anni fa” perché oggi Tirana registra “una costante crescita degli investimenti pubblici, in particolare nei settori della comunicazione, delle infrastrutture stradali, dell’energia e, soprattutto, del turismo”. Con l’ingresso dell’Albania nella NATO, il Paese “è ormai un alleato serio” che dimostra una responsabilità matura nell’assumere pienamente il ruolo per “la pace e la sicurezza indivisibile globale”. Tirana collabora con i vicini e gli Alleati alla lotta contro le minacce terroristiche ed è pienamente integrata nei sistemi di difesa. Per rispondere alle nuove richieste della NATO e alle nuove realtà del mondo circostante, le forze armate albanesi stanno subendo una profonda ristrutturazione per quanto riguarda le strategie, gli obiettivi e le procedure. Perni principali di questo fondamentale rinnovamento sono la riqualificazione professionale e l’addestramento del personale militare, in quanto l’efficacia di un esercito deriva dalle “capacità di ufficiali e soldati” e non dalla “potenza dei mezzi”. Una completa ristrutturazione dell’esercito albanese verrà completata in circa dieci anni. Il primo obiettivo è riuscire a creare, entro il 2012, delle forze speciali interoperabili con le migliori forze analoghe dell’Alleanza. I reparti di fanteria verranno riorganizzati per consentire una maggiore partecipazione alle missioni di pace internazionali e verrà

37 riformata la Marina militare, equipaggiandola con navi guardacoste per garantire la vigilanza costiera. “Al centro dei nostri impegni” ha dichiarato il ministro “vi è il contributo dell’Albania in Afghanistan” considerato “uno dei contributi più importanti fra tutte le nazioni coinvolte” nella missione internazionale, in rapporto alla popolazione e al Pil del Paese. Il livello di prestazioni delle truppe albanesi finora è stato ottimo e l’integrazione con gli altri reparti non ha presentato nessun problema: “Ho visitato i nostri uomini, che sono sotto comando italiano, e ho visto come tutti, italiani e albanesi, condividessero fraternamente i rischi e le difficoltà del conflitto, con lo stesso desiderio di superare ogni problema per portare al successo la missione della NATO. La stessa collaborazione l’ho vista per le nostre truppe speciali che sono integrate nei reparti statunitensi”93. L’Albania si dimostra, quindi, un Paese estremamente consapevole della propria funzione e delle proprie capacità all’interno dell’integrazione euro-atlantica. Nonostante la recente bocciatura europea e lo stallo politico che persiste da ormai due anni, grazie all’ingresso nella NATO, Tirana ha acquisito un importante ruolo per garantire all’intera regione dei Balcani occidentali un futuro più stabile e sicuro.

II.2.2. L’allargamento della NATO alla Croazia94

Nel 1994, mentre era ancora in corso la guerra tra Belgrado e Zagabria, molti diplomatici croati hanno manifestato pubblicamente il forte interesse di aderire all’Alleanza. Nel 1999, durante la guerra in Kosovo, la Croazia ha fornito l’uso del suo spazio aereo per l’operazione Allied Force, la campagna di attacchi aerei, condotta dalla NATO, contro la Serbia di Milošević, e ha dato un importante supporto logistico alla KFOR, la forza militare internazionale responsabile di ristabilire l’ordine in Kosovo. L’anno successivo, in seguito alla visita di un team di esperti NATO e dell’allora Segretario Generale, Lord Robertson, la Croazia si è unita all’Euro-Atlantic Partnership Council (EACP) e alla Partnership for Peace (PfP) accettando il suo primo Planning And Review Process (PARP), un ciclo biennale di consultazioni sulla difesa che ha visto poi la creazione di una serie di

93 Si veda http://www.agenzianova.com/speciali/18/il-ruolo-di-tirana-nella-nato . 94 A mero scopo indicativo si riportano dati e grandezze della Croazia. Popolazione: 4.49 milioni (stime del 2007); composizione etnica: 89.6% Croati, 4.5% Serbi, 5.9% altri (2001); totale territorio: 56,542 km²; PIL : $ 50.96 miliardi (stime 2007); budget della Difesa: $ 875 milioni (2007); Forze armate attive: 17,660. Cfr. CIA, “The World Factbook 2009”, in https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/ . Cfr anche The Military Balance 2011, International Institute for Strategic Studies, London, 2011, in http://www.iiss.org/publications/military-balance/ ; si tengano presenti i dati elaborati da “Forecast International”, in http://www.forecastinternational.com . 38 Partnership Goal (PG) con l’obiettivo di creare cooperazione tra l’esercito croato (CAF) e quello della NATO. Nel 2001, Zagabria ha presentato il primo Individual Partnership Programme (IPP) concentrato su alcune necessità quali consultazione, dottrina militare, politiche di difesa e strategia, educazione e formazione linguistica, e comando e controllo, priorità che includeva anche i sistemi di comunicazione informazione. La prospettiva di un ingresso nel breve periodo è divenuta chiara nel 2002, al vertice di Reykjavik, quando il Paese ha accettato di aderire al Membership Action Plan (MAP), il programma di sostegno, consulenza e assistenza della NATO, strutturato in base alle specifiche esigenze dello Stato che desidera aderire all’Alleanza. Per aderire al MAP, la Croazia ha dovuto soddisfare alcuni criteri quali il miglioramento del sistema militare, la maggiore democrazia, il rispetto dei diritti umani entro i propri confini e il rispetto della sovranità fuori dai propri confini. Nel 2003 le forze armate croate hanno partecipato all’International Security Assistance Force (ISAF), l’operazione a guida NATO in Afghanistan; il contingente è stato poi aumentato nel 2007. L’anno seguente, al summit di Bucarest del 3 aprile, la Croazia è stata invitata ad iniziare i negoziati di ingresso. L’allora Presidente americano, George W. Bush, ha commentato questo traguardo in una visita ufficiale a Zagabria: “se in futuro il vostro popolo sarà minacciato da qualsiasi pericolo, l'America e la NATO saranno al vostro fianco. E nessuno potrà togliervi la libertà”95. Il 9 luglio 2008 gli Alleati hanno firmato i protocolli di adesione del Paese balcanico al Patto Atlantico. Il primo aprile 2009 la Croazia, assieme all’Albania, è entrata nella NATO. Il governo di Zagabria ha rispettato i parametri richiesti: molto buone sono state giudicate le riforme politiche ed economiche, il sistema giudiziario è stato rinnovato e sono state messe in atto iniziative per combattere la corruzione. Notevoli progressi sono stati compiuti nel campo della difesa, facendo sì che le forze armate possano contribuire alle missioni alleate96. Considerando che la Croazia è stata coinvolta in una sanguinosa guerra terminata appena 16 anni fa, i progressi di Zagabria sono stati davvero notevoli. Il ministro degli Esteri, Gordan Jandroković, nel Forum del Consiglio di Sicurezza della NATO del 2009, ha dichiarato che “sicurezza, stabilità e prosperità nel Sud-Est europeo sono una responsabilità che la Croazia condivide con gli alleati della NATO e gli altri partner nella comunità euro-atlantica”97. La priorità del governo croato, secondo Jandroković, è la creazione di un sistema di difesa collettivo in grado di salvaguardare l’unità e la stabilità

95 Si veda “A tutta NATO” in www.osservatoriobalcani.org, Aprile 2008. 96 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_31803.htm / 97 Si veda G. Jandrocovic, 2009, and Southeast Europe in NATO, Discorso del ministro degli Esteri croato all’Atlantic Council Forum, 12/09/2009, in www.acus.org / 39 del Paese. Anche il generale Drago Lovrić, rappresentante militare della Repubblica croata presso la NATO, ha espresso la sua soddisfazione per l’ingresso della sua nazione nel Patto Atlantico: “In questo momento storico la Croazia sta diventando un buon e credibile alleato, sia nel bene che nel male”98. Parole che hanno trovato conferma in quelle espresse dal generale Karl-Heinz Lather il Capo dello staff SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe): “L’allargamento ha accresciuto l’influenza globale dell’Alleanza, ha portato una maggiore legittimità nelle azioni promosse e ha accresciuto la democrazia in tutto il continente europeo che conduce ad un’idea di Europa intera e libera. Le nazioni che sono entrate nella NATO oggi, si sono unite ai Paesi fondatori in una comunità di democrazia costruita su valori, ideali, condivisione ed impegno nella sicurezza collettiva ” 99. A livello politico, c’è stato sin da subito grande consenso da parte di quasi tutte le fazioni all’adesione del Paese nella NATO. La maggior parte della coalizione di governo, guidata dal partito Unione Democratica Croata (HDZ), ha fortemente supportato l’ingresso del Paese nell’Alleanza. HDZ, a partire dal 2000, si è trasformato da un partito nazionalista a un partito più democraticamente orientato e promotore di una maggiore europeizzazione. Anche l’opposizione, il Partito Socialdemocratico (SPH), ha appoggiato l’ingresso nel Patto Atlantico. Importante è stato anche il sostegno da parte dell’opinione pubblica. Nel 2007 il 43% dei cittadini si dichiarava favorevole all’ingresso della Croazia nella NATO mentre, nel corso del 2008 tale percentuale ha raggiunto il 67%; un simile aumento di consensi, in un così breve periodo, è stato spiegato dagli analisti con la paura dei croati per l’instabile e potenzialmente esplosivo ambiente circostante, dovuto principalmente alla proclamazione d’indipendenza del Kosovo.

Terminato il periodo dell’assolutismo di Tudjman, il Presidente croato che ha portato il Paese all’indipendenza e morto nel 1999, si è dato inizio a un lento processo di riforme militari poiché, durante gli anni di Tudjman, e soprattutto dal 1995 in poi, le forze armate erano state fortemente politicizzate, fattore che ha portato la Croazia ad essere catalogata come un Paese “parzialmente libero”. Terminata la guerra con la Serbia, Tudjman ha abusato dell’immagine eroica dei militari e creato uno stretto legame tra la difesa e il suo partito, HDZ. Le forze armate sono state completamente assoggettate al suo potere, soprattutto per le questioni riguardanti la sicurezza e i servizi segreti. Morto Tudjman, alle elezioni del 2000 ha vinto l’opposizione di centro sinistra ed è iniziato un costante processo di trasformazione economica e politica, nonché di apertura nei

98 Si veda Albania and Croatia welcomed into NATO at Accession Cermony, in www.aco.nato.int, Aprile 2009. 99 Ibidem. 40 confronti della comunità internazionale. Proprio nel 2000 è stata modificata la Costituzione con l’intento di istituire una forma di governo più democratico. Si è cercato dunque di creare una tripla coabitazione tra il Presidente della Repubblica, il Governo e la Camera, stabilendo, così, il giusto equilibrio tra le tre istituzioni. In questa ottica è stato rispettato il parametro, richiesto dalla NATO, di realizzare un controllo più democratico dell’esercito, introducendo varie misure per garantire la supervisione civile e il controllo dei militari. Il Presidente è il comandante supremo, il gabinetto dirige e gestisce l’esercito attraverso il ministero della Difesa e il Parlamento controlla le forze armate attraverso i suoi comitati. Nel 2003 per rinnovare ulteriormente il sistema di difesa, si è dato inizio al programma Strategic Defense Review (SDR). È stato instaurato un consiglio che comprendeva membri militari, il ministro degli Esteri, quello delle Finanze e i rappresentanti del governo e dell’ufficio del Presidente. Il lavoro del consiglio era, inoltre, coadiuvato, da un comitato di sviluppo. Non vi erano membri della società civile, ma erano in atto molte consultazioni con gli esperti NATO in visita a Zagabria. La SDR è giunta alla conclusione che i maggiori cambiamenti sono avvenuti nella percezione della sicurezza del Paese e dell’intera regione, soprattutto in seguito agli eventi storici che hanno interessato l’area100. Nel piano di difesa a lungo termine (2006-2015) del ministero della Difesa la spesa militare doveva essere incrementata dell’1.8% del PIL nel 2008, per essere portata al 2% nel 2010, come suggerito dalla NATO. Nel 2008, infatti, il budget per le forze armate è ammontato a circa 700 milioni di euro, 72 milioni in più rispetto all’anno precedente. Ad ogni modo a causa della crisi economica che ha investito quasi tutto il mondo la spesa militare del 2011 è stata pari all’1.5% del PIL101. Le forze armate croate sono composte da 18.600 soldati effettivi e 21mila militari in riserva. Nel 2010, 650 soldati croati hanno partecipato alle missioni all’estero e circa la metà è stata inviata in Afghanistan. Nello stesso anno l’8% delle forze di terra sono state impiegate nelle operazioni internazionali. Attualmente, all’interno della missione ISAF, circa 300 croati tra soldati, diplomatici e ufficiali della polizia militare operano in tre diverse regioni dell’Afghanistan e Zagabria ha fatto sapere che è in procinto di mandare un rinforzo di altri 300 uomini. Al momento sono in corso delle trattative riguardanti donazioni croate di armi ed equipaggiamenti militari alle forze armate irachene attraverso la missione di addestramento della NATO in Iraq. Sempre nell’ambito di questa missione, la Croazia si è offerta di fornire formazione alle forze di sicurezza irachene. La Croazia ha anche avuto un ruolo rilevante nelle operazioni di pace delle Nazioni Unite, con contingenti presenti in Sierra Leone, Etiopia, Eritrea, Liberia, India e Pakistan. Queste operazioni suggeriscono la volontà di promuovere la sicurezza anche fuori dai confini del Paese stesso, fattore che è stato molto elogiato dagli Stati Uniti e dall’Europa. La Croazia è sempre rientrata nei piani di allargamento della NATO. L’adesione del Paese balcanico è stata un evento molto significativo poiché la Croazia è diventata, assieme all’Albania,

100 Si veda Croatian Ministry of Defence, Strategic Defence Review, Zagreb, November, 10, 2005 101 Si veda Croatian Ministry of Defence, Long Term Planning and Long Term Defense Strategy, in http://www.morh.hr . 41 garante della stabilità e della sicurezza in una regione decisamente “a rischio”, ma che, comunque, sta facendo grandi passi in avanti. L’auspicio è che l’ingresso della Croazia nella NATO potrebbe creare una sorta di “effetto domino”, vale a dire aprire la strada all’adesione anche degli altri Paesi dei Balcani occidentali, evento che potrebbe, una volta per tutte, risolvere i problemi di quella che è stata definita da più parti “la polveriera balcanica”. L’Alleanza punta a stabilizzare il Sud-Est europeo e Zagabria rappresenta un valido aiuto per raggiungere questo obiettivo, soprattutto per quanto riguarda alcune questioni irrisolte come lo status del Kosovo o la fragilità istituzionale della Bosnia-Erzegovina. Con la Croazia nella NATO, infatti, la zona del Mar Adriatico diventa più sicura. Con l’aumento della stabilità diminuisce automaticamente il rischio di situazioni di conflitto all’interno della regione, mentre a livello geostrategico la Croazia si presenta come un paese centrale, mediterraneo e danubiano, in connessione naturale tra l’Europa occidentale e i Balcani e tra il Mediterraneo e l’Europa centrale, creando, così, una continuità territoriale ininterrotta. Il governo croato pone particolare attenzione ai problemi regionali che influenzano la sicurezza del Paese. In questo contesto, aumenta la necessità di implementare le politiche di controllo delle armi e di lotta contro il crimine organizzato soprattutto nel campo del traffico di essere umani, armamenti e sostanze stupefacenti. Nel 2000 la Croazia e la Germania hanno istituito il Regional Arms Control Verification and Implementation Assistance Centre (RACVIAC), un’organizzazione internazionale indipendente che punta a favorire il dialogo e la cooperazione sulla sicurezza nel sudest europeo, attraverso una partnership tra i Paesi della regione e i loro partner internazionali. RACVIAC punta a promuovere la riforma del settore della sicurezza, il controllo delle armi, l’integrazione europea ed euro-atlantica, una maggiore sinergia con le altre organizzazioni e istituti internazionali come Onu, NATO, UE, Osce, nonché una più intensa collaborazione tra i partner bilaterali. Infine, RACVIAC sostiene il dialogo con i responsabili della società civile, il mondo accademico e l’opinione pubblica102. La Croazia, in collaborazione con la NATO, ha rafforzato il suo piano di gestione delle emergenze civili e dei disastri grazie alla partecipazione alle attività organizzate dall’Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC). La Croazia inoltre è stata una delle prime nazioni a rispondere alla richiesta di aiuto della Slovacchia, inviata tramite l’EADRCC nell’aprile 2006 perché sconvolta dalle inondazioni. Il governo di Zagabria ha inviato a Bratislava materiale e assistenza finanziaria, provando di essere senza dubbio una nazione che contribuisce visibilmente alla sicurezza internazionale e dimostrando che anche un piccolo Paese può essere estremamente utile quando esiste la cooperazione. L’ingresso nella NATO è stato considerato come una sorta di “lasciapassare” per entrare nell’Unione Europea, dato che le trattative tra Bruxelles e Zagabria non sono sempre andate a buon fine. Il cammino della Croazia verso l’integrazione europea è stato, difatti, uno dei più lunghi e faticosi nella storia dell’allargamento dell’UE. Il difficile processo di integrazione, che nel corso

102 Si veda http://www.racviac.org/about/mission.html . 42 degli anni si è arenato in varie occasioni, ha avuto inizio nel 2000, quando, proprio al vertice di Zagabria, la Croazia ha avviato il processo di stabilizzazione e associazione (PSA) e il 29 ottobre dell’anno successivo ha firmato ufficialmente tale accordo. Nel febbraio 2003 il governo di Zagabria ha presentato la sua candidatura all’UE. Tra le condizioni imposte da Bruxelles c’è la cessazione del trattamento discriminatorio nei confronti della minoranza serba. In questo senso, un particolare valore assume il ritorno, nelle loro case, di circa 150 mila rifugiati serbo croati, fuggiti dalla propria terra nel 1995, in seguito all’Operazione Tempesta, la più grande macchina bellica operante in Jugoslavia dallo scoppio del conflitto nel 1991 che ha portato alla fuga di centinaia di migliaia di serbi. Si è trattato del più grande esodo mai verificatosi in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Coloro che hanno deciso di rimanere, per lo più anziani, donne e bambini, hanno dovuto subire le vessazioni delle truppe croate. Hanno perso la vita da 150 a 450 persone. Il ritorno dei rifugiati serbi rappresenta il desiderio di Zagabria di mettersi alle spalle l’era Tudjman e tutte le reminescenze nazionaliste. Nonostante i progressi compiuti, la candidatura della Croazia viene accolta più di anno dopo, nel giugno 2004, quando il Consiglio Europeo accetta la Croazia come Paese candidato. Nel 2005 partono i negoziati di adesione, nella speranza di entrare entro il 2007 assieme a Bulgaria e Romania, le trattative però poi si bloccano. Prima è stato necessario risolvere il problema del veto posto dalla Slovenia per dispute territoriali, poi è arrivata l’accusa di Bruxelles di non collaborare abbastanza con l’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), il tribunale istituito dall’Onu che persegue i responsabili di crimini di guerra commessi nel territorio jugoslavo durante i conflitti degli anni Novanta. Considerando che un anno prima anche la NATO aveva rimandato i negoziati di adesione per Zagabria, lo stop dell’Unione Europea viene vissuto come un ennesimo fallimento. Il 3 ottobre 2005 arriva la svolta: il procuratore dell’ICTY dichiara che la Croazia collabora pienamente con il tribunale e in quello stesso giorno il Consiglio Europeo riapre i negoziati sostenendo che è stata soddisfatta l’ultima condizione posta a Zagabria103. A dimostrazione della collaborazione della Croazia, poco più di due mesi dopo, il 7 dicembre 2005 viene arrestato a Tenerife , il generale croato superlatitante che ha diretto l’Operazione Tempesta. La notizia dell’arresto di Gotovina è giunta a Bruxelles proprio quando era in corso la conferenza sull’integrazione dei Balcani in Europa ed è stata commentata anche dal commissario UE all’allargamento, Olli Rehn come “una buonissima notizia per la riconciliazione nei Balcani occidentali e per il Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia che corona con il successo il suo lavoro. Ora è molto importante che tutti i ricercati siano assicurati alla giustizia”104. Estradato all’Aja, Gotovina, considerato un eroe nazionale in patria, viene in seguito condannato a 24 anni di carcere. Da lì in poi la strada verso l’integrazione è in discesa e il 10 giugno 2011 la Commissione Europea annuncia che la Croazia entrerà nell’Unione Europea il primo luglio 2013. “Oggi è un

103 Si veda http://ec.europa.eu/enlargement/candidate-countries/croatia/relation/index_it.htm . 104 Si veda European Commission, EU Commissioner Rehn welcomes news of Gotovina arrest. 8/12/2005, in http://www.eu-un.europa.eu . 43 giorno storico sia per la Croazia che per l’Unione Europea” ha dichiarato José Manuel Barroso, il Presidente della Commissione Europea “desidero congratularmi con le autorità croate, in particolare con l’attuale governo, per il lavoro svolto negli ultimi anni”. In particolare, sono stati lodati i progressi che la Croazia ha fatto per diventare una democrazia basata sullo stato di diritto e sul libero mercato. Secondo Bruxelles, l’importante passo in avanti fatto da Zagabria “è un segnale anche per il resto dell’Europa sud-orientale” perché dimostra che gli sforzi e le riforme “portano dei risultati concreti”. Barroso si è dunque augurato che Zagabria diventi “una fonte d’ispirazione” per gli altri stati della regione. Appresa la notizia, il capo dello stato, Ivo Josipović, ha voluto ringraziare “tutti coloro che hanno costruito una Croazia europea”. Il Primo Ministro, , ha ricordato che la Croazia è il primo Paese, dopo la Grecia, ovvero dopo il 1982, ad entrare da sola nell’Unione ed è anche il primo “ad entrare in Europa dopo una guerra devastante”. Tale entusiasmo tuttavia non è condiviso dal Partito croato dei diritti (HSP), forza politica di estrema destra. Il Presidente Daniel Srb ha infatti dichiarato: “Chi ritiene che la Croazia abbia risolto qualcosa, o che abbia raggiunto un successo oggi è del tutto fuori strada […] davanti a noi abbiamo ora due anni molto difficili, durante i quali dobbiamo aspettare la ratifica da parte di tutti i Paesi, inclusa la Slovenia, e per fare questo dobbiamo assicurarci la loro benevolenza, processo che richiederà un prezzo da pagare, e potrebbe essere doloroso”, infine, Srb ha sottolineato la necessità della Croazia di "diventare leader nella regione per rafforzare il nostro ruolo, soprattutto tenendo conto che la Serbia non ha ancora raggiunto lo status di Paese candidato, ma riceve già più soldi dall'Unione Europea della Croazia"105. Nonostante le poche voci fuori coro, l’ingresso nel club dei 27 rappresenta un grande traguardo che Zagabria ha raggiunto con non poca fatica. Bruxelles chiedeva maggiori riforme nel campo della tutela dei diritti fondamentali, della protezione delle minoranze e della giustizia, in particolare per rafforzare l’indipendenza della magistratura. L’UE aveva inoltre richiesto più volte un maggiore impegno nella lotta alla corruzione e Jadranka Kosor, ha letteralmente messo in atto una vera e propria “caccia all’uomo” che ha fatto finire dietro le sbarre i più importanti uomini della scena politica croata: l’ex vice premier Damir Polančec e l’ex ministro della Difesa e degli Interni, Berislav Rončević, ma anche molti dirigenti delle più importanti imprese statali come l’Azienda elettrica croata, la Forestale, la Banca postale, le Autostrade e il gigante dell'industria alimentare Podravka. Tuttavia il caso più illustre è stato quello dell’ex premier , arrestato nel dicembre 2010 in Austria per aver sottratto ingenti quantità di denaro pubblico.

Nel rapporto annuale della Commissione Europea, presentato il 12 ottobre 2011, si legge un giudizio estremamente positivo sulla Croazia, ma fino al pieno ingresso del Paese nell’UE Bruxelles controllerà i progressi di Zagabria sulla riforma della giustizia, anche

105 Si veda http://www.agenzianova.com/speciali/2/zagabria-nell-ue-nel-2013

44 attraverso l’invio di lettere di avvertimento. Tuttavia sembra che le sanzioni non dovrebbero andare oltre e un ennesimo rinvio dell’adesione croata, che rappresenterebbe la peggiore delle ipotesi, pressoché da escludere106. L’ingresso nell’Unione Europea della Croazia può dare grandi contributi all’intera regione dei Balcani occidentali. Difatti la cooperazione regionale è un requisito specifico negli Accordi di Stabilizzazione e Associazione che i croati hanno sottoscritto con l’UE. La collaborazione tra i Paesi balcanici è stata inoltre ribadita al vertice di Zagabria, nel 2000, e in quello di Salonicco, tre anni dopo. La Croazia ormai è consapevole che i Paesi dei Balcani occidentali affrontano delle sfide collettive e condividono comuni responsabilità, molte delle quali di natura transfrontaliera. In questo contesto la cooperazione regionale è una pietra angolare della strategia politica dell’Unione Europea per i Balcani occidentali. Gli sforzi dei Balcani occidentali in materia di cooperazione regionale, sono stati apprezzati dai vertici europei e il Commissario Europeo per l’allargamento, Olli Rehn, ha espresso riconoscimento per i risultati ottenuti “per quanto riguarda la cooperazione nelle aree del commercio, dell’energia e dei trasporti” affermando tuttavia che “ulteriori sforzi sono necessari per accrescere la fiducia e rafforzare la cooperazione regionale nel settore della giustizia e degli affari interni. Estendere la cooperazione regionale all’Europa sud orientale è un fattore essenziale a prescindere dal diverso stadio di integrazione dei vari Paesi ed è un criterio importante per il percorso europeo dei Balcani occidentali perché la cooperazione regionale porta in sé la stabilità, la prosperità e la sicurezza nella regione e questi sono dei criteri significativi per l’UE ”107. L’importanza della cooperazione è stata enfatizzata anche dal Presidente croato Josipović in un discorso pubblico pronunciato l’11 febbraio 2010 presso la Harvard Kennedy School, “venti anni dopo la guerra dei Balcani, 15 dopo gli accordi di Dayton, ora dobbiamo chiederci dove ci troviamo. Siamo nello stato di conflitto congelato o dobbiamo avere la forza di spingere i nostri Paesi verso nuove relazioni, relazioni aperte per amicizia, cooperazione e, per un comune futuro europeo, dobbiamo costruire la fiducia nella regione e questo significa che dobbiamo affrontare la nostra storia e cercare di trovare una storia comune […] avremo differenze, questo è normale, ma dobbiamo avere gli stessi valori e promuovere i nostri Paesi alla luce di queste differenze, la Croazia può servire come ponte tra i Paesi dell’Europa orientale e il resto d’Europa”108.

106 Si veda http://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/UE-Balcani-progressi-e-stagnazione-105036 . 107 Si veda European Commission, “Regional cooperation in the Western Balcans, a policy priority for the European Union”, December 2006. 108 Si veda “Regional cooperation part of Croatia's path to Europe” Intervento del Presidente croato Ivo Josipović in Political Science Summer School, September 2010. 45 Zagabria partecipa attivamente a numerosi progetti regionali, come le iniziative con l’Europa centrale, il quadrilatero con l’Italia, la Slovenia e l’Ungheria, le comunità di lavoro “Alpe-Adria” e l’Iniziativa Adriatico-Ionica. Particolarmente importante è il contributo della Croazia al Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale, dove presiede il tavolo di lavoro sulle questioni di sicurezza al South Eastern European Initiative (SEEI). Oggi più che mai la Croazia è chiamata ad affrontare nuove sfide. La straordinaria peculiarità di questo Paese balcanico di essere membro sia della NATO e presto dell’Unione Europea potrebbe portare numerosi vantaggi in tutta l’area del Sud-Est europeo.

II.3. L’Unione Europea nei Balcani: cooperazione e integrazione

Al meeting del Consiglio Europeo tenutosi a Copenaghen nel 1993, l’Unione Europea ha stilato una serie di condizioni, alle quali dovevano attenersi i Paesi dell’Europa centrale e orientale, giudicati potenziali candidati per l’adesione: stabilità istituzionale a garanzia della democrazia, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e tutela delle minoranze; una funzionale economia di mercato in grado di far fronte alle pressioni concorrenziali e alle forze di mercato interne all’Unione; la capacità di assumersi gli oneri derivanti dall’appartenenza all’Unione, come l’adesione agli obiettivi di unità politica, economica e monetaria. Nel 1995, a Madrid, il Consiglio ha implementato i requisiti aggiungendo la richiesta che il Paese candidato debba sviluppare adeguate strutture amministrative che favoriscano l’integrazione. Questi requisiti sono rimasti ad oggi invariati e rappresentano lo standard minimo da raggiungere per i Paesi dei Balcani occidentali che intendono diventare membri effettivi dell’Unione Europea. Il Paese balcanico più vicino all’adesione è la Croazia, la cui entrata nell’UE, a parere della Commissione Europea109, è prevista – a meno di improvvisi ritardi causati dalle titubanze tedesche e olandesi – per il 1° luglio 2013. Candidati all’adesione sono anche il Montenegro e la FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia). La Serbia ha ottenuto da poco l’opinione positiva della Commissione riguardo alla sua richiesta di candidatura110, mentre l’Albania, la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, mantengono per ora lo

109 Si veda http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2011/package/hr_opinion_2011_en.pdf . 110 Si veda “Communication from the Commission to the European Parliament and the Council”, European Commission”, 12-10-2011, p. 27: http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2011/package/strategy_paper_2011_en.pdf . 46 status di potenziali candidati. La stessa Commissione Europea ci tiene a specificare che “il processo di allargamento dell’UE è entrato in una nuova fase”: l’adesione della Croazia “segna il passo della politica adottata in seguito al devastante conflitto balcanico degli anni Novanta, la quale mira a portare pace, stabilità, democrazia e, in definitiva, l’appartenenza all’UE da parte dell’intera regione”. I recenti eventi che hanno colpito il Nord Africa e il Medio Oriente, la crisi finanziaria globale e le difficoltà che sta affrontando l’Eurozona, hanno confermato a Bruxelles la fondamentale importanza per l’Europa di una regione balcanica stabile e democratica, con economie nazionali sane e in crescita e una modernizzazione degli apparati statali in linea con i requisiti di adesione dell’UE. La stabilità della regione balcanica si pone dunque come precondizione per la realizzazione del processo di integrazione in seno all’Unione Europea. In molte regioni balcaniche sono ancora vivide le ferite di quelle violenze e, in alcuni casi, non si sono affatto rimarginate. In Bosnia-Erzegovina le forti tensioni tra le tre etnie principali che la compongono (croati, serbi e bosgnacchi), stanno rendendo la costituzione di un governo effettivo una sfida quasi impossibile. La Serbia continua ad avere contenziosi aperti con gli albanesi del Kosovo per quanto riguarda la situazione delle regioni settentrionali, controllate da Pristina, ma a maggioranza serba. La FYROM, dopo la crisi albano-macedone del 2001, mantiene pessimi rapporti diplomatici con la vicina Grecia, un Paese facente parte della NATO, così come dell’Unione Europea. La stabilità e la cooperazione regionale nei Balcani occidentali è, dunque, un obiettivo cardine della strategia di allargamento di Bruxelles. I problemi di governance, la corruzione, gli insoddisfacenti livelli di libertà dei media, istituzioni statali deboli e la forte presenza di criminalità organizzata, rappresentano altre importanti carenze che destano forti preoccupazioni. La necessità per i Paesi della regione balcanica di fronteggiare questi problemi e la comune volontà di entrare a far parte dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica – Serbia a parte, Belgrado mantiene al momento una politica di semplice collaborazione con la NATO – hanno generato una più stretta cooperazione regionale, sia dal punto di vista politico, sia da quello economico. Strutture come il Southern European Cooperation Process (SEECP)111 o come il Regional Cooperation Council (RCC)112, ne sono degli esempi concreti. Gli obiettivi del SEECP comprendono il rafforzamento della sicurezza e della stabilità politica, l’intensificazione delle relazioni economiche e di cooperazione e l’avvicinamento alle strutture europee ed atlantiche tramite le relazioni di buon vicinato; mentre l’RCC è una struttura di dialogo tra gli Stati dell’Europa sud-orientale

111 Si Veda http://rspcsee.org/en/pages/read/ . 112 Si veda http://www.rcc.int/ . 47 che, operando sotto la guida politica del SEECP, mira a supportare lo sviluppo economico e sociale e a “promuovere la mutua cooperazione e l’integrazione europea ed euro- atlantica” della regione. La cooperazione interna all’area dei Balcani occidentali è vista come un punto di partenza fondamentale dagli stessi Paesi della regione, anche se talvolta rimangono assoggettati alle loro stesse dinamiche interne. La strada per l’integrazione nei processi euro-atlantici è dunque ancora lunga per questi Paesi, e per questo, in un’ottica di crescita dell’attività di partenariato, la cooperazione regionale e la stabilità dei Balcani sono considerati elementi fondamentali per lo sviluppo dell’intera regione così come affermato nel documento della Commissione Europea “Strategia di allargamento e sfide principali 2009-2010”113. In favore delle riforme nei Balcani occidentali, la Commissione ha stanziato quasi 3 miliardi di euro per un piano di finanziamento facente parte dell’Instrument for Pre-Accession assistance (IPA) per il biennio 2011-2013114. Questo fondo verrà assegnato per supportare le riforme della magistratura e della pubblica amministrazione, la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, la cooperazione regionale nel campo dell’istruzione e una ripresa sostenibile dalla crisi economica mediante investimenti in progetti di infrastrutture strategiche, come i corridoi energetici e la rete dei trasporti. La regione dei Balcani occidentali è strategica per molti attori geopolitici. Se i Paesi di questa regione saranno in grado di cooperare per venire incontro ai loro reciproci interessi nel campo della sicurezza, dell’energia e dei trasporti, tutta la penisola balcanica ne trarrà enorme vantaggio e così le istituzioni occidentali come l’Unione Europea e la NATO. Con la firma nel 2006 del nuovo testo del Central European Free Trade Agreement (CEFTA)115, Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, FYROM, Montenegro, Serbia e Kosovo hanno costituito uno spazio di libero scambio volto ad incrementare il commercio di beni e servizi, favorire gli investimenti e creare un mercato di merci e idee più equo e conforme alle norme europee. Nel 2005 i Paesi balcanici hanno firmato con Bruxelles il trattato che costituisce l’Energy Community116, ossia un accordo che mira a stabilire nella regione un mercato dell’energia liberalizzato e integrato a quello europeo. L’importanza di questo accordo risiede sia nell’opportunità di garantire una maggiore sicurezza nell’approvvigionamento energetico dei Balcani, sia nell’utilità per l’Europa, di un nuovo

113 Si veda http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2009/strategy_paper_2009_en.pdf . 114 Si veda http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/11/863&format=HTML&aged=0&language=EN &guiLanguage=en . 115 Si veda http://www.cefta.int/ . 116 Si veda http://www.energy-community.org/ . 48 mercato di riferimento in un territorio strategico per lo sviluppo dei nuovi progetti energetici provenienti dalla regione caspica e del Mar Nero, come per i concorrenti Nabucco e South Stream117. Per quanto riguarda il settore dei trasporti, la Commissione Europea e i Paesi balcanici stanno prendendo in considerazione un progetto di integrazione simile a quello dell’Energy Community, destinato a sostituire l’attuale South-East Europe Transport Observatory118. Il progetto del Transport Community Treaty con i Balcani occidentali prevede una progressiva integrazione del mercato dei trasporti sulla base dell'acquis comunitario nei settori della sicurezza, ambiente e questioni sociali. Di particolare interesse sono i corridoi Trans-European Networks 5 e 8119 che si sviluppano attraverso tutta l’Europa sud- orientale, coprendo l’intera rete di collegamento dall’Italia all’Austria, fino al Mar Nero in Bulgaria, con la regione dei Balcani occidentali coinvolta. Ecco dunque spiegato il perché del nuovo piano d’azione diffuso dalla Commissione Europea nel luglio 2011120 volto al rafforzamento dei collegamenti con i Paesi dell’est e del sud Europa. Con più di venti misure d’intervento, il piano vuole rendere i trasporti più agevoli, sicuri e affidabili, intensificando così il processo d’integrazione dei mercati balcanici e delle regioni limitrofe. Anche nel settore aeronautico la cooperazione tra i Paesi dei Balcani e l’Unione Europea è stata incrementata con l’accordo sulla European Common Aviation Area121, firmato nel 2006 sempre con l’obbiettivo di integrare il trasporto aereo della regione balcanica nel mercato europeo. La cooperazione regionale dell’Unione con i Paesi balcanici rappresenta, dunque, il principale strumento da parte di Bruxelles per aiutare questi Stati a crescere seguendo l’iter tracciato dal processo di integrazione europea. D’altro canto, gli Stati in questione godranno di una maggiore stabilità regionale, crescita economica e facilità di inserimento nei sistemi euro-atlantici.

117 Si veda http://www.loccidentale.it “Da South Stream a Nabucco, la guerra del gas per ora è tutta sulla carta”, Roberto Santoro, 14 agosto 2009. 118 Si veda http://www.seetoint.org/ . 119 Si veda http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Aree_Geografiche/Europa/Le_reti_infrastrutturali.htm . 120 Si veda http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/11/844&format=HTML&aged=1&language=IT& guiLanguage=en . 121 Si veda http://ec.europa.eu/transport/air/international_aviation/country_index/ecaa_en.htm . 49

Cap. III – I Paesi partner NATO

III.1. Il Consiglio di Partnership Euro-Atlantica (EAPC)

Il Consiglio di Partnership Euro-Atlantica (Euro-Atlantic Partnership Council, EACP)122 consiste in un forum multilaterale di 50 paesi, concepito per facilitare il dialogo e la consultazione su questioni relative a politica e sicurezza comune tra i Paesi della NATO e i Paesi appartenenti all’area euro-atlantica123. L’obiettivo principale dell’EACP è creare e favorire una più stretta collaborazione tra gli Alleati e i Paesi partner. A tal fine, l’EACP si avvale anche dello strumento della Partnership for Peace (PfP)124, un programma che facilita la cooperazione bilaterale tra i singoli partner e la NATO in base alle specifiche priorità e ai bisogni e alle capacità di ciascun Paese. Nata nel 1994, la Partnership for Peace costituisce il primo tentativo di dialogo tra l’Alleanza e i Paesi esterni e ha assunto con il passare degli anni – anche a causa dei continui cambiamenti geostrategici –compiti sempre più importanti e complessi, divenendo così una sorta di “braccio operativo” dell’EACP. L’EACP nasce in seguito al vertice di Parigi il 27 maggio 1997 concretizzando il desiderio di andare oltre i risultati ottenuti con il Consiglio di cooperazione Nord Atlantico (NACC)125, un organismo istituito nel 1991 con l’intenzione di superare la divisione Est- Ovest ed estendere la “mano di amicizia” per creare un nuovo rapporto di collaborazione in grado di comprendere una più ampia aerea geopolitica. Nel corso degli anni, nelle ultime tre tornate di allargamento della NATO, alcuni membri dell’EACP sono entrati a pieno titolo nella membership atlantica. Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno fatto il loro ingresso nell’Alleanza Atlantica nel 1999; nel 2004, con il più grande allargamento nella storia della NATO, sono divenuti membri la Bulgaria, l’Estonia, la Lituania, la Lettonia, la Romania, la Slovacchia e la Slovenia; infine, nel 2009 è stata la volta

122 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49276.htm . 123 “Questo partenariato viene istituito come espressione della convinzione comune che sia possibile raggiungere la stabilità e la sicurezza nell’area euro-atlantica solo attraverso la cooperazione e l’azione comune. La protezione e la promozione delle libertà fondamentali e dei diritti umani, nonché la salvaguardia della libertà, della giustizia e della pace attraverso la democrazia sono fondamentali valori condivisi per il partenariato”.(Partenariato per la Pace: Documento quadro – Vertice di Bruxelles, 10 gennaio 1994). Per una sintesi della storia della politica di sicurezza attraverso il partenariato tra pesi NATO e non si veda il documento “Sicurezza attraverso il partenariato”, NATO Public Diplomacy Division Brussels 2005, disponibile al link http://www.nato.int/docu/sec-partnership/sec-partner-it.pdf . 124 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_50349.htm . 125 Si veda R.F. Simmons Jr, I dieci anni del Consiglio di partenariato euro-atlantico: una riflessione personale, in “Rivista della NATO”, estate 2007, disponibile al link http://www.nato.int/docu/review/2007/issue2/italian/art5.html . 50 dell’Albania e alla Croazia. Ciò indica chiaramente che, al di là della sua dimensione operativa, l’EACP costituisce anche un formidabile strumento per preparare l’adesione di nuovi membri, facilitando l’adeguamento dei paesi esterni all’Alleanza agli standard e alle procedure della NATO. L’EACP, attualmente, è composto da 28 paesi aderenti alla NATO e 22 partner appartenenti all’area balcanica, caucasica e dell’Asia centrale. Ogni Paese partner firma il Documento Quadro del PfP impegnandosi con ciò a rispettare le norme di diritto internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’Atto finale di Helsinki e tutti gli accordi internazionali riguardanti il disarmo e il controllo degli armamenti. Inoltre, firmando il Documento Quadro, ciascun partner s’impegna ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro gli altri Stati e a risolvere le controversie in modo pacifico. Infine, il Documento obbliga gli Alleati a consultarsi con tutti i Paesi partner che percepiscono una minaccia diretta alla propria integrità territoriale, all’indipendenza politica o alla propria sicurezza. Tale meccanismo è stato messo in atto per esempio nel 1999, durante la guerra del Kosovo, su richiesta dell’Albania e dell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia. Le attività dell’EACP e del PfP sono stabilite dall’Euro-Atlantic Partnership Work Programmed (EAPWP)126, un catalogo di circa 1600 attività che copre più di 30 aree di cooperazione tra le quali: la proliferazione delle armi di distruzione di massa, la gestione delle crisi internazionali, il sostegno alle operazioni di pace, il controllo degli armamenti, il terrorismo internazionale, la difesa, politica e strategia, la pianificazione delle emergenze civili, le calamità naturali, la sicurezza nucleare, il coordinamento civile-militare nella gestione del traffico aereo e la cooperazione scientifica. I meccanismi e i programmi di cooperazione, sviluppati nell’ambito dell’EACP e della PfP, sono spesso utilizzati per estendere la cooperazione a Paesi terzi. A tale scopo la NATO mette a disposizione dei Paesi partner una sorta di “toolbox” della PfP, che comprende politiche, programmi, modalità e piani d’azione è messa. Per facilitare la cooperazione tra gli Stati membri e i paesi esterni all’Alleanza, la NATO ha ideato un’ampia gamma di programmi di cooperazione. L’obiettivo di questi programmi è offrire una base di dialogo che aderisca alle esigenze e agli interessi dei singoli Stati, a seconda anche dell’ampiezza che essi intendono dare alla loro collaborazione con la NATO.

126 Si veda anche Ch. Morffew, Partnership for Peace and Security Sector Reform, in “Security Sector Reform in South East Europe - from a Necessary Remedy to a Global Concept”, 13th Workshop of the Study Group "Regional Stability in South East Europe" – Proceedings, February 2007 (http://www.bundesheer.at/english/index.shtml) paper disponibile on line: http://www.bundesheer.at/pdf_pool/publikationen/10_wg13_global-concept_30_morffew.pdf 51 Un primo approccio di partenariato tra la NATO e gli Stati interessati alla cooperazione con l’Alleanza è l’Individual Partnership Programme (IPP), che consiste in una lista di attività specifiche concordate con il Patto Atlantico. Alcuni Paesi hanno scelto di approfondire la propria relazione con la NATO attraverso l’adesione a programmi personalizzati, noti come Individual Partnership Action Plans (IPAP)127. Gli IPAP definiscono chiaramente gli obiettivi della cooperazione e le priorità del Paese partner e garantiscono che i diversi meccanismi di collaborazione siano focalizzati sul raggiungimento delle specifiche necessità. Si tratta dunque di accordi bilaterali fatti “su misura” e in cui la NATO fornisce determinati consigli per attuare le riforme necessarie. Il Planning And Review Process (PARP)128 aiuta a identificare, valutare e sviluppare le forze armate dei Paesi partner che possono contribuire alle esercitazioni e alle operazioni militari della NATO. I PARP, incentivando una riforma del settore della difesa, aiutano i partner della NATO ad ammodernare le proprie forze armate, rendendole più efficaci ed economicamente sostenibili. Questo processo offre infatti ai Paesi partner l’occasione per razionalizzare il comparto della difesa, razionalizzando le spese e l’uso delle risorse. Per garantire l’efficacia dei PARP, questa forma di collaborazione comprende un costante lavoro di monitoraggio; i progressi compiuti dalla difesa del Paese partner vengono regolarmente misurati. Uno strumento legato a doppio filo con i PARP è l’Operational Capabilities Concept (OCC), utilizzato proprio per valutare il livello di interoperabilità e di efficacia militare delle forze armate del Paese partner, in modo tale da garantire la conformità con le esigenze e gli standard NATO. Nel corso degli anni, i requisiti richiesti e i miglioramenti raggiunti sono divenuti sempre più complessi e rigorosi. Di conseguenza, i PARP sono diventati, nei compiti e nelle funzioni, strumenti analoghi al processo di pianificazione della difesa militare dell’Alleanza, con obiettivi di Partnership simili a quelli delle forze NATO, mentre la valutazione effettuata dai PARP ha finito con il rispecchiare il riesame annuale della difesa del Patto Atlantico. Molte nazioni partner stanno riorganizzando le proprie strutture di difesa, mentre alcune sono già in grado di contribuire con le proprie truppe alle operazioni guidate dalla NATO, offrendo a loro volta consulenza, formazione e assistenza agli altri Paesi dell’EACP. Il primo esempio di collaborazione militare tra la NATO e i Paesi partner si è avuto nel 1995 durante l’operazione di peacekeeping in Bosnia-Erzegovina.

127 Si veda http://www.nato.int/issues/ipap/index.html 128 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_68277.htm ; si veda anche il cap. 3, “The Opening Up of the Alliance”, da NATO Handbook, NATO Publications (update: 08-Oct-2002 http://www.nato.int/docu/handbook/2001/hb030208.htm 52 Al vertice NATO di Lisbona del novembre 2010, è stato ribadito l’impegno ad implementare la politica di partnership della NATO all’interno della quale l’EACP e il programma di PfP risultano fondamentali per l’obiettivo di un’Europa unita, libera e in pace129. In particolare, gli Alleati hanno ribadito il loro impegno a sviluppare ulteriormente l’EACP e la PfP come perni centrali del dialogo politico e della cooperazione pratica, anche mediante una maggiore collaborazione militare. A tal fine i membri della NATO hanno sottolineato la loro volontà di rendere il partenariato più efficiente e flessibile, in modo da coinvolgere nel PfP tutti i partner, non solo quelli dell’EACP, ma anche quelli partecipanti al Dialogo Mediterraneo (Mediterranean Dialogue, MD)130 e all’Iniziativa di Cooperazione di Istanbul (Istanbul Cooperation Initiative, ICI)131. Al di là di questi programmi l’Alleanza Atlantica ha mostrato l’intenzione di estendere e approfondire le relazioni con altri paesi, in vista del raggiungimento dell’obiettivo condiviso di un’area di sicurezza comune.

III.1.1. Bosnia-Erzegovina

La guerra in Bosnia-Erzegovina ha rappresentato un‘importante occasione per estendere il ruolo e il raggio di attività della NATO, che, a sua volta, ha profondamente inciso sulle vicende della Bosnia-Erzegovina. Il 1993 infatti segna una svolta epocale nella storia dell’Alleanza Atlantica. È in quella data che la NATO ha realizzato la sua prima missione militare in Bosnia-Erzegovina, con l’ operazione Deny Flight, volta a garantire l’interdizione di voli aerei sui cieli del Paese balcanico. In seguito, è stata proprio la NATO a mettere in atto quei bombardamenti contro i serbo bosniaci che hanno portato alla firma della pace di Dayton132. Con la fine delle ostilità, alla fine del 1995 la NATO ha inviato in Bosnia- Erzegovina un contingente di 60 mila uomini denominato Implementation Force (IFOR),

129 Si veda Lisbon Summit Declaration, issued by the Heads of State and Government participating in the meeting of the North Atlantic Council in Lisbon, Press Release (2010) 155, issued on 20 Nov. 2010, disponibile on line: http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68828.htm?mode=pressrelease e, relativamente all’EACP, il punto 25. 130 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_52927.htm . Il Dialogo Mediterrano fu lanciato nel 1994 dal Consiglio NATO e rilanciato dopo 10 anni per una più forte azione di cooperazione con Paesi non membri della regione mediterranea: include infatti 7 Paesi non-NATO (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco, Tunisia). 131 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_52956.htm. L’Iniziativa di Cooperazione fu lanciata a Istanbul nel giugno 2004 con l’obiettivo di contribuire nel lungo termine all’implementazione del livello e delle strutture di sicurezza regionale e globale con i Paesi del vicino e medio oriente, attraverso accordi bilaterali di cooperazione e sicurezza. 132 Si veda http://www.nato.int/docu/review/2005/issue3/english/history_pr.html . 53 per attuare gli aspetti militari degli accordi di pace, realizzando così la prima operazione in assoluto di peacekeeping effettuata dalla NATO133. L’anno successivo l’IFOR venne sostituto dalla Stabilisation Force (SFOR), sempre a guida NATO, e nel 2004, nel quadro degli accordi di “Berlin Plus”, la responsabilità per la salvaguardia della sicurezza in Bosnia-Erzegovina è passata all’Unione Europea attraverso l’operazione ALTHEA. Gli accordi di “Berlin Plus” rappresentano la base della cooperazione NATO-UE nella gestione delle crisi e consentono all’Unione Europea di accedere alle risorse dell’Alleanza134. La NATO mantiene ancora oggi un quartier generale a Sarajevo per coadiuvare l’UE nello svolgimento della sua missione e per assistere le autorità bosniache nell’attuazione delle riforme nel settore della difesa. La NATO collabora inoltre con le autorità bosniache nelle attività di lotta al terrorismo, raccolta di informazioni e arresto dei sospettati di crimini di guerra. Negli ultimi anni l’impegno della NATO in Bosnia-Erzegovina non ha riguardato solo il mantenimento della pace e la gestione delle crisi, ma ha assunto anche il compito di incoraggiare il Paese verso l’integrazione Euro-atlantica. Al vertice di Riga, nel novembre 2006, la NATO ha espresso il forte desiderio di allargare i propri confini ai Paesi balcanici per raggiungere una “stabilità a lungo termine” e, nel dicembre dello stesso anno, la Bosnia-Erzegovina è entrata a far parte della Partnership for Peace (PfP), accettando il suo primo Individual Partnership Programme (IPP). Nel 2007, il Paese ha poi aderito al Planning and Review Process (PARP) e nell’aprile 2008 su esortazione della NATO la Bosnia-Erzegovina è stata invitata ad aderire all’Intensified Dialogue (ID), un meccanismo di pre-adesione finalizzato ad approfondire determinati temi, come la sicurezza o l’economia, e a conoscere le aspirazioni dei singoli Paesi. Nell’aprile dello stesso anno, la Bosnia-Erzegovina ha accettato il suo primo Individual Partnership Action Plan (IPAP) e nel febbraio 2011 il Paese ha accolto un secondo IPAP. Dopo aver avuto un contingente NATO sul proprio territorio per nove anni (1995-2004), nel 2009 la Bosnia-Erzegovina ha partecipato all’operazione dell’Alleanza International Security Assistance (ISAF) in Afghanistan e ha firmato e ratificato lo Status of Force Agreement (SOFA), l’accordo multilaterale relativo alla situazione delle forze armate straniere durante la loro presenza nel territorio di un altro Stato. Nell’aprile 2010 la Bosnia- Erzegovina è stata invitata a unirsi al Membership Action Plan (MAP), un programma della NATO di sostegno, consulenza e assistenza strutturato in base alle esigenze individuali

133 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_52122.htm . 134 Si veda http://www.nato.int/shape/news/2003/shape_eu/se030822a.htm . 54 dei Paesi che desiderano aderire all’Alleanza Atlantica135. Tuttavia la NATO ha posto a Sarajevo una fondamentale condizione: tutte le attrezzature militari devono essere registrate come proprietà dello Stato centrale e devono essere messe a disposizione del ministero della Difesa136. Il MAP non rappresenta una condizione per l’adesione al Patto Atlantico e la questione della proprietà delle forze armate può rischiare di rappresentare un serio ostacolo per l’ingresso della Bosnia-Erzegovina nella NATO. Già nel dicembre 2009, l’Alleanza ha risposto con un secco “no” alla richiesta di Sarajevo di aderire al MAP a causa dell’ancora carente stato di attuazione delle riforme. Anche dopo l’ingresso nel MAP lo stesso portavoce della NATO, James Appathurai ha dichiarato che, nonostante l’avvenuta adesione della Bosnia-Erzegovina al MAP, il problema della proprietà della difesa “non è ancora stato risolto”137. Il tema delle strutture militari ha da sempre rappresentato una spina nel fianco per il governo centrale di Sarajevo. Terminata la guerra, le forze armate del Paese sono state divise in tre strutture separate, ognuna facente capo a ciascuno dei tre principali gruppi etnici che popolano la Bosnia-Erzegovina (serbi, croati e bosgnacchi). Nel quadro della riforma della difesa messa in atto dalla NATO tra il 2003 e il 2005, si è cercato di costruire un comando unificato e di sviluppare un sistema militare efficace ed efficiente, compatibile con gli standard della NATO. Nonostante gli sforzi, la questione rimane aperta e la proprietà delle forze armate è ancora nelle mani delle entità. Il 14 luglio 2010 il ministro degli Esteri Sven Alkalaj e il ministro della Difesa Selmo Cikotić hanno visitato il quartier generale della NATO e hanno avuto un incontro con il segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, e con il North Atlantic Council. Durante l’incontro gli Alleati si sono congratulati con i due ministri bosniaci per i progressi realizzati e per il contributo dato nell’operazione ISAF, ma hanno anche ribadito l’urgenza del problema della proprietà della difesa. “Siamo ansiosi di iniziare il primo ciclo del MAP con il Paese il più presto possibile” ha detto il segretario generale “ma la chiave di questo processo è nelle vostre mani”138. La questione è di tale priorità che Rasmussen ha nominato il segretario generale aggiunto per la politica di difesa e pianificazione come suo Alto Rappresentante per la riforma della difesa in Bosnia-Erzegovina. Per ottemperare alle richieste della NATO, il governo di Sarajevo ha deciso di distruggere le armi e le munizioni in eccedenza e di ridimensionare il numero dei militari e dei

135 Si veda http://www.nato.int/cps/en/SID-67275D96-A74131B0/natolive/topics_37356.htm . 136 Si veda http://news.bbc.co.uk/2/hi/8638794.stm . 137 Si veda http://www.reuters.com/article/2010/04/22/us-nato-bosnia-idUSTRE63L5H420100422 . 138 Si veda http://www.nato.int/cps/en/SID-0782098F-97553464/natolive/news_64981.htm . 55 funzionari che operano all’interno delle forze armate. Questa scelta, accolta con plauso internazionale, ha poi spinto l’Alleanza a creare un fondo fiduciario per sostenere il reinserimento sociale ed economico delle circa 3 mila persone che saranno licenziate entro il 2012. L’ente che si occupa dell’esecuzione di questo progetto è l’International Organization for Migration (IOM), in collaborazione con il ministero della Difesa. Oltre al fondamentale miglioramento del sistema militare, la cooperazione con Sarajevo prevede altre importanti priorità: il rafforzamento della collaborazione tra l’UE e la NATO, lo sviluppo dello Stato di diritto, il controllo del sistema di intelligence, il miglioramento della gestione delle risorse umane, delle crisi, delle emergenze civili, del sistema di sicurezza e della protezione dei dati ed infine, la riforma del processo giudiziario e istituzionale. Per facilitare la collaborazione, il governo di Sarajevo ha stabilito una missione diplomatica presso la sede della NATO in Belgio, nonché un ufficio di collegamento presso il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE). La NATO assiste il Paese balcanico per migliorare le proprie capacità nel combattere il terrorismo e per permettere un maggiore scambio di informazioni. Sarajevo ha inoltre dichiarato la propria disponibilità nel fornire assistenza e forze armate per le attività del PfP, incluse le operazioni della NATO per rispondere alle crisi. Il Paese, oltre ad assicurare il diritto di sorvolo per gli aerei dell’Alleanza, è pronto a mettere in atto le necessarie condizioni per l’uso degli aeroporti di riserva di Mostar, Banja Luka e Tuzla. La Bosnia-Erzegovina ha creato una serie di strutture per la formazione delle forze armate come il Combat Training Centre a Manjača e il Peace Support Operations Training Centre a Butmir. Infine a Travnik il Professional Development Centre è stato messo a disposizione del PfP. In collaborazione con gli Alleati, il governo di Sarajevo ha messo poi in atto un quadro giuridico per affrontare le emergenze civili e sta attualmente sviluppando un sistema di informazione civile per il coordinamento delle attività in caso di emergenza. Dati i forti rapporti che legano la Turchia alla Bosnia-Erzegovina, l’ambasciata di Ankara è il punto di contatto tra il governo di Sarajevo e l’Alleanza; in pratica la Turchia, essendo già membro della NATO, rappresenta il canale preferenziale per diffondere nel Paese balcanico informazioni sul ruolo e sulle politiche degli Alleati. All’interno del programma della NATO Science for Peace and Security (SPS), la Bosnia- Erzegovina ha ricevuto diversi premi per i suoi progetti di collaborazione riguardanti gli studi sulla riduzione della pericolosità sismica e sugli sforzi legati alla lotta al terrorismo.

56 L’obiettivo dell’Alleanza è di migliorare la cooperazione scientifica, soprattutto per quanto riguarda le questioni di sicurezza regionale e le iniziative ambientali139. Nonostante le grandi difficoltà, dovute in particolar modo alla riforma della difesa, la NATO ribadisce con forza di volere Sarajevo all’interno del club dei 28. Il 25 maggio 2010 si è svolto un incontro tra il segretario generale e Catherine Ashton, Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE, per rafforzare la collaborazione UE-NATO in Bosnia-Erzegovina. Il segretario generale della NATO Rasmussen ha dichiarato di vedere il futuro del Paese “nelle strutture euro-atlantiche”, ma non ha nascosto una certa “preoccupazione” per “le tensioni etniche e la retorica”140. Durante la sua visita in Montenegro dell 29 giugno 2011, il segretario generale ha voluto sottolineare che le decisioni politiche necessarie a mettere in atto quelle riforme chiave per raggiungere gli standard di adesione della NATO devono essere prese dagli stessi governanti bosniaci. Rasmussen ha quindi rivolto un appello per chiedere “a tutti i leader politici della Bosnia- Erzegovina di compiere ora ulteriori progressi per dimostrare la propria visione, leadership e abilità nel compromesso e di continuare sulla strada delle riforme politiche ed economiche”. Infine il segretario generale della NATO ha affermato che “Il popolo della Bosnia-Erzegovina merita di vivere in pace e prosperità, in una società armoniosa e democratica”141. Un importante passo verso la piena integrazione atlantica della Bosnia risiede nella sensibilizzare l’opinione pubblica. Per migliorare l’immagine della NATO, il Paese balcanico ha sviluppato una strategia nazionale di comunicazione, volta a diffondere presso il pubblico bosniaco le informazioni riguardanti i benefici della cooperazione tra Sarajevo e l’Alleanza Atlantica. Nel complesso, il 70% dei bosniaci sostiene l’adesione alla NATO. Si tratta certamente di un dato importante, tuttavia un’analisi più dettagliata mostra che le simpatie verso la NATO non sono affatto omogenee e risentono dell’appartenenza etnica dei cittadini bosniaci. Nella Federazione croato-musulmana l’89% degli abitanti è favorevole all’ingresso, nella Repubblica Srpska solo il 35% sostiene l’adesione all’Alleanza. Consapevole delle divergenti opinioni suscitate dell’ipotesi di entrare a far parte della NATO, il ministro della Difesa Selmo Cikotić, nella conferenza stampa svoltasi il 20 settembre 2011, ha avvertito che “la strada per entrare nella NATO è pericolosa, ma rimanere fuori lo sarebbe ancora di più”. Il ministro ha quindi precisato che “se vogliamo utilizzare i vantaggi del meccanismo della sicurezza collettiva, prima di diventare membro

139 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49127.htm . 140 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/news_63833.htm . 141 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/opinions_75860.htm . 57 a tutti gli effetti della NATO dobbiamo dimostrare di essere capaci di condividerne i rischi”142.

III.1.2. Serbia

Le relazioni tra la Repubblica di Serbia e la NATO hanno registrano una tendenza verso un costante miglioramento e il governo di Belgrado ha più volte dimostrato e dichiarato143 di voler approfondire il dialogo con l’Alleanza Atlantica. Tuttavia il rapporto rimane complicato e non propriamente chiaro sotto tutti i punti di vista. L’esperienza degli interventi militari dell’Alleanza prima in Bosnia-Erzegovina nel 1995 (operazione Deliberate Force)144 e in seguito in Kosovo nel 1999 (operazione Allied Force)145 rimane vivida nella mente dei leader serbi, mentre molti sondaggi sull’opinione pubblica mostrano che più del 50% dei cittadini si augura di non entrare a far parte della NATO146. I rapporti tra l’Alleanza e il governo di Belgrado sono migliorati in seguito alla gestione congiunta dell’operazione di peacekeeping in Kosovo da parte del contingente KFOR (Kosovo Force)147 e delle forze armate serbe. La volontà di cooperare con l’Alleanza Atlantica e mantenere sotto controllo la situazione nel sud della Serbia, è stata palesata da Belgrado attraverso la richiesta, nel 2003, di entrare a far parte del programma Partnership for Peace (PfP)148. In quell’occasione il Paese, denominato Unione Statale di Serbia e Montenegro, ha presentato la richiesta congiuntamente per le due entità statali. A seguito della dichiarazione d’indipendenza del Montenegro, avvenuta il 3 giugno 2006, il processo di adesione al PfP è andato avanti separatamente per i due Paesi. Durante il vertice di Riga del novembre 2006149, la Serbia ha espresso chiaramente la sua volontà di proseguire e approfondire la collaborazione con l’Alleanza Atlantica, nell’intento di garantire la sicurezza nei Balcani occidentali150; la disponibilità della Serbia è stata accolta con favore dalla NATO. Belgrado ha inizialmente partecipato ai programmi di cooperazione personalizzati e il 14 dicembre 2006 il Presidente serbo Boris Tadić ha

142 Si veda http://www.agenzianova.com/a/4e7c4229474730.12343614/622609/2011-09-20/difesa-ministro- bosniaco-cikotic-pericoloso-entrare-nella-nato-ma-ancora-di-piu-restarne-fuori . 143 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=29111 . 144 Si veda http://www.afsouth.NATO.int/factsheets/DeliberateForceFactSheet.htm . 145 Si veda http://www.NATO.int/kosovo/all-frce.htm . 146 Si veda http://www.euractiv.com/enlargement/NATO-serbia-relations-new-strategies-or-more-same- analysis-500499 . 147 Si Veda http://www.nato.int/kfor/docu/about/background.html . 148 Si veda http://www.NATO.int/pfp/sig-cntr.htm . 149 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=5934 . 150 Si veda http://www.mfa.gov.rs/Policy/Priorities/srb_pfp_presentation_document.pdf . 58 firmato il PfP. Nell’ottobre del 2007 la Serbia ha aderito al Planning and Review Process (PARP)151 e il 1° ottobre 2008 all’Accordo per la Sicurezza dello stesso programma152. All’inizio del 2009 il governo di Belgrado ha presentato un Individual Partnership Programme (IPP) e nell’aprile 2011 il Consiglio dell’Alleanza ha approvato la richiesta serba di aderire all’Individual Partnership Action Plan (IPAP)153. La Serbia, aderendo a questo programma, palesa l’intenzione di intraprendere una serie di riforme e la NATO, così come gli altri Paesi alleati, dà la propria disponibilità a sostenere Belgrado nel conseguimento di questo obiettivo. Attualmente l’Alleanza ha un ufficio di contatto con la Serbia presso l’ambasciata della Repubblica Ceca a Belgrado. Questo punto di collegamento rende possibile non solo il mantenimento ma anche il miglioramento dei rapporti politici e di cooperazione pratica tra la NATO e la Serbia. Sotto il profilo economico i buoni rapporti con l’Alleanza rappresentano inoltre per Belgrado un’ottima occasione di guadagno. L’industria bellica serba è, infatti, in grande espansione e possiede già un suo discreto mercato a livello globale. Nel 2008 la Serbia ha firmato un contratto con l’Iraq per il valore di 235 milioni di dollari e nel 2010 un altro accordo è stato sottoscritto con la Libia154. Se Belgrado manterrà una relazione positiva con l’Alleanza, o dovesse addirittura diventarne membro, l’industria bellica nazionale potrebbe godere dei vantaggi della cooperazione militare anche sotto il profilo economico. Dal punto di vista militare le forze armate serbe cooperano, come già detto, con la missione KFOR, in base al Military Technical Agreement del 1999155. Il governo di Belgrado ha poi firmato nel luglio 2005 un accordo con la NATO per il transito delle truppe KFOR sul proprio territorio. Poco dopo, nel dicembre 2006, l’Alleanza ha inaugurato un ufficio di collegamento militare nella capitale serba, che oltre ad essere garante dell’effettività dell’accordo di transito, ha anche la funzione di fornire supporto pratico alla Serbia nelle attività riguardanti il PfP e nelle sue operazioni di riforma del settore della difesa e della sicurezza. La riforma della difesa rappresenta del resto uno degli elementi fondamentali nella cooperazione tra la Serbia e la NATO. Nel febbraio del 2006 è stato creato un Defence Reform Group (DRG)156, nell’intento di assistere il governo di Belgrado nell’attuazione di quelle misure che permettano di riformare in maniera moderna, democratica e affidabile le forze armate e la struttura di difesa serba. All’interno del

151 Si veda http://www.NATO-pa.int/default.asp?SHORTCUT=1354 . 152 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=14382 153 Si veda http://www.NATO.int/cps/en/NATOlive/topics_50100.htm 154 Si veda la nota n. 24 155 Si veda http://www.NATO.int/kosovo/docu/a990609a.htm 156 Si veda http://www.mod.gov.rs/eng/mvs/partnerstvo_za_mir/hronologija.php 59 programma PfP sono state svolte altre attività di cooperazione come la distruzione controllata di mine e munizioni e un importante progetto per l’assistenza agli ex membri delle forze armate serbe. Il governo serbo ha inoltre fortemente voluto la creazione, presso il quartier generale dell’Alleanza Atlantica in Belgio, di una missione ufficiale con rappresentanti militari di Belgrado, inaugurata nel settembre 2010. L’ufficio militare della NATO a Belgrado svolge anche attività di comunicazione pubblica, diffondendo le informazioni sui programmi di cooperazione tra la Serbia e l’Alleanza; si tratta di un compito molto importante, che può contribuire a ridimensionare la sfiducia dell’opinione pubblica serba nei confronti dell’Alleanza Atlantica. Il Paese ha inoltre aderito al programma Science for Peace and Security (SPS)157 nell’ambito del quale ha intrapreso una serie di progetti e studi riguardanti l’ambiente, la riduzione del rischio sismico, la lotta al terrorismo e il futuro della cooperazione nella regione. I rapporti tra la Serbia e la NATO risultano oggi essere costruttivi, tali da generare un moderato ottimismo sulle prospettive future. Le riforme in senso democratico delle istituzioni, la modernizzazione del settore della difesa e della sicurezza, il contributo allo sviluppo di processi di cooperazione internazionale e di stabilizzazione della regione sono elementi hanno aumentato la credibilità della Serbia, permettendole di assumere un ruolo centrale nella strategia dell’Alleanza Atlantica nei Balcani. Nel primo Security Forum di Belgrado, tenutosi dal 14 al 16 settembre scorso158, il Presidente serbo, Boris Tadić, ha ribadito il pieno impegno del proprio Paese nel sostenere gli approcci multilaterali e regionali per rispondere alle sfide della sicurezza del XXI secolo. Se la Serbia non aspira ufficialmente a diventare un membro effettivo della NATO, Belgrado ha sempre espresso approvazione per le richieste dei vicini Paesi balcanici di entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica e ha comunque dimostrato di voler approfondire il dialogo e la cooperazione, anche e soprattutto in un’ottica di integrazione con l’Unione Europea. L’arresto da parte delle forze di sicurezza di criminali di guerra come Radovan Karadžić, Ratko Mladić e Goran Hadžić159, è segno della volontà serba di mantenere efficaci rapporti con l’Europa e la NATO. D’altra parte il governo di Belgrado ha più volte ribadito che intende perseguire una politica di neutralità militare e che non bisogna aspettarsi una rapida accelerazione del dialogo con la NATO, almeno non entro il 2012, data che segna la fine del mandato del Presidente Tadić. Gli Stati Uniti e i vertici dell’Alleanza hanno però espresso l’auspicio che

157 Si veda http://www.NATO.int/science/index.html 158Si veda http://www.NATO.int/cps/en/SID-5F06BDDC 3C297DC6/NATOlive/news_78217.htm?selectedLocale=en 159 La collaborazione con il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia è stata posta alla Serbia come condizione per l’adesione al programma PfP 60 Belgrado possa quanto prima aderire al Membership Action Plan (MAP), per diventare in seguito a tutti gli effetti un membro della NATO ed entrare a far parte dell’Unione Europea. La Russia, per conto suo, ha fatto sapere che, se la Serbia dovesse diventare membro effettivo della NATO, potrebbe rivedere la sua posizione sulla questione dell’indipendenza del Kosovo160, una posizione, quella russa, di cui la Serbia deve necessariamente tenere conto considerando la storica amicizia tra i due Paesi e il peso del voto di Mosca alle Nazioni Unite.

III.1.3. Kosovo

Il Kosovo rappresenta una delle principali questioni irrisolte dei Balcani occidentali. La crisi del Kosovo è iniziata alla fine degli anni ’80 e tra il 1996 e il 1999 è sfociata in un vero e proprio conflitto militare tra le forze di sicurezza della Repubblica Federale di Jugoslavia e i separatisti albanesi dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo). Di fronte al protrarsi delle ostilità, la NATO ha deciso di intervenire direttamente, schierandosi in favore dei separatisti albanesi. Il North Atlantic Council ha formulato due obiettivi chiave per il ruolo delle forze dell’Alleanza: raggiungere una risoluzione pacifica della crisi e promuovere la stabilità e la sicurezza dei Paesi confinanti, in particolar modo Albania e FYROM. Nell’ottobre del 1998 il North Atlantic Council ha quindi autorizzato il bombardamento del territorio kosovaro e serbo, in seguito al deterioramento della situazione locale e alla costante reticenza da parte dell’ex presidente jugoslavo, Slobodan Milošević, nel cooperare con le forze NATO per riportare la pace nella regione separatista. Dal marzo al giugno del 1999 l’operazione Allied Force ha fatto partire i suoi aerei dalle basi NATO italiane per colpire obiettivi strategici nel sud della Serbia. Questa strategia ha portato ad un graduale aumento della pressione da parte dell’esercito serbo sulla popolazione di etnia albanese, buona parte della quale (circa 700mila persone secondo fonti della NATO161) ha cercato rifugio in Macedonia e Albania. Nel momento in cui il governo di Belgrado ha dovuto cedere il passo sotto i colpi degli aerei dell’Alleanza Atlantica, l’amministrazione del Kosovo è stata posta sotto il controllo diretto della missione internazionale UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo)162,

160 Si veda http://www.nacional.hr/en/clanak/50484/usa-expects-croatia-to-bring-serbia-into-NATO-by-2014 . 161 Si veda http://www.nato.int/kosovo/history.htm#D . 162 Si veda http://www.unmikonline.org/pages/default.aspx . 61 secondo quanto stabilito dalla risoluzione Onu numero 1244163, con la partecipazione congiunta dell’Unione Europea (missione EULEX164), dell’Osce e della NATO (missione KFOR). La dichiarazione di indipendenza dalla Serbia, approvata dal Parlamento di Pristina il 17 febbraio 2008, ha causato ulteriori problemi nel rapporto con Belgrado. In seno alle Nazioni Unite, 84 Paesi su 193 hanno riconosciuto il Kosovo come indipendente, inclusi Albania, Montenegro e Macedonia. Degli altri Paesi confinanti solo la Serbia (affiancata da Cina e Russia, entrambe membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) non ha riconosciuto l’indipendenza di quella che considera ancora una sua regione. Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato che l’indipendenza del Kosovo non è in contrasto con le norme del diritto internazionale165 e, nel settembre dello stesso anno, la Serbia ha presentato all’Onu una risoluzione che prevede l’apertura dei colloqui tra Pristina e Belgrado. In questo momento, tuttavia la situazione del Kosovo non rimane solo invariata dal punto di vista diplomatico, ma minaccia di peggiorare a causa delle forti tensioni nella regione settentrionale di Mitrovica, a maggioranza serba. Nel corso degli anni il netto miglioramento della situazione in Kosovo e la graduale crescita della capacità delle istituzioni locali di assumere compiti di sicurezza, hanno permesso una riduzione notevole delle numero delle truppe NATO166. Dei 50 mila soldati schierati sul campo nel 1999, oggi sul territorio kosovaro sono presenti solo 5.872 unità della KFOR, un contingente formato da 22 Paesi della NATO e da 8 esterni all’Alleanza. La missione KFOR, senza perdere i suoi scopi iniziali (mantenimento della pace; demilitarizzazione dell’UCK; supporto degli sforzi umanitari internazionali; etc.), provvede attualmente allo smantellamento del vecchio apparato di sicurezza, il KPC (Kosovo Protection Corps, composto principalmente da ex guerriglieri dell’UCK) e alla creazione della KSF (Kosovo Security Force167), una nuova forza di sicurezza professionale e a base multietnica. La KSF non sarà un vero e proprio esercito, ma sarà comunque una forza armata con responsabilità e capacità di intervento superiori a quelle della polizia locale, e verrà posta il controllo di un comando civile e democratico. La NATO assisterà questo

163 Si veda http://www.nato.int/kosovo/docu/u990610a.htm . 164 Si veda http://www.eulex-kosovo.eu/en/front/ . 165 N. Ronzitti, Kosovo in mezzo al guado, “Affari Internazionali”, 27/07/2010: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1511

166 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/news_67610.htm . 167 Si veda l’articolo “Cambio di vista” di V. Kasapolli, osservatorio Balcani e Caucaso, disponibile al link http://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Cambio-di-divisa . 62 corpo di sicurezza, fornendo l’addestramento e impegnandosi in attività di supporto e supervisione delle operazioni della KSF. Gli sforzi della NATO per difendere la stabilità kosovara vengono, però, drasticamente frenati dalla necessità di mantenere buoni rapporti bilaterali tra Pristina e Belgrado. I colloqui tra i due Paesi, la necessità di una cooperazione regionale e la riapertura del dialogo rappresentano condizioni essenziali per la sicurezza del Kosovo. In una recente visita nel Paese, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, capo del Military Commitee (MC) della NATO, ha sottolineato come “l’impegno della NATO e dei suoi partner continua a provvedere alla sicurezza e alla protezione della regione”168. Allo stesso modo il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen, ha dichiarato durante la sua visita a Pristina del 15 settembre scorso: “La NATO si impegna per il futuro del Kosovo. Io credo che il posto del Kosovo sia all’interno della famiglia euro-atlantica”169. Nonostante le dispute con la Serbia riguardo lo status giuridico del Paese, l’Alleanza è dunque risolutamente orientata ad assicurare alla regione balcanica un futuro di stabilità e sicurezza. Per il momento non è realistico pensare di integrare il Kosovo nelle strutture euroatlantiche, tuttavia l’impegno costante delle missioni KFOR ed EULEX e il riconoscimento del Kosovo da parte degli Stati Uniti e di numerosi Paesi facenti parte della NATO e dell’Unione Europea, mostrano chiaramente la volontà di mantenere il Paese legato alle istituzioni sovranazionali occidentali, se non di nome, quantomeno di fatto.

III.1.4. FYROM

I rapporti tra la NATO e l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM) risalgono al 1995, quando il Paese, dichiaratosi indipendente nel 1991 dalla Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, ha aderito alla Partnership for Peace (Pfp). Un passo successivo è stato compiuto nel 1997, con il suo ingresso nell’Euro-Atlantic Partnership Council (EAPC). Le relazioni si sono rafforzate nel 1999, grazie al ruolo fondamentale che la FYROM ha esercitato nelle operazioni della NATO durante la crisi del Kosovo. Diversi distaccamenti delle forze alleate sono stati dispiegati nel Paese, per fermare il diffondersi del conflitto ed

168 Si veda http://www.nato.int/cps/en/SID-203A69F8-74781E20/natolive/news_77846.htm?selectedLocale=en . 169 Si veda http://www.nato.int/cps/en/SID-203A69F8-74781E20/natolive/news_78101.htm?selectedLocale=en . 63 evitare che l’afflusso dei profughi kosovari destabilizzasse il precario ’equilibrio politico macedone. In quello stesso anno, inoltre, la FYROM ha aderito al Membership Action Plan, il programma di consulenza, assistenza e sostegno della NATO, strutturato in base alle esigenze individuali dei Paesi che desiderano fare il proprio ingresso nell’Alleanza. Nel quadro del MAP, la FYROM ha esposto i suoi progetti nel contesto del suo primo Annual National Programme (ANP). Tra i punti chiave ci sono riforme politiche, militari e nel settore della sicurezza. Altra priorità resta lo sforzo dell’apparato statale nel raggiungimento degli standard democratici e per garantire elezioni libere ed eque. Nel medesimo contesto rientrano anche la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, la riforma giudiziaria, il miglioramento dell’amministrazione pubblica, oltre a uno sviluppo delle attività per migliorare le relazioni di buon vicinato. Diverse missioni della NATO hanno visitato la FYROM per redigere una relazione sullo stato d’attuazione dell’ANP ed eventualmente formulare raccomandazioni per ulteriori azioni o interventi diretti dell’Alleanza. Riforme specifiche e tecniche in riferimento al settore della difesa sono state discusse e valutate nel contesto del PfP e del Planning And Review Process (PARP). Il Paese ha anche aderito al Operational Capability Concept (OCC)170 nel 2005. Attraverso questo meccanismo le unità statali disponibili per le operazioni del PfP possono essere meglio valutate e integrate con le forze della NATO così da aumentarne l’efficacia operativa. Il vertice di Bucarest dell’aprile 2008 ha riconosciuto l’impegno della FYROM nel rispetto e nella condivisione dei valori della NATO, oltre che nella partecipazione a varie operazioni dell’Alleanza. La FYROM, infatti, ha fornito un importante supporto per alcuni interventi NATO contribuendo alla missione nota come International Security Assistance Force (ISAF) di stanza in Afghanistan e ospitando le truppe della Kosovo Force (KFOR) durante la crisi kosovara. In questa occasione particolare, la FYROM si è dimostrata un partner chiave nel sostegno della missione impegnata nella stabilizzazione del Kosovo, fornendo supporto logistico alle truppe dispiegate nel Paese. Nell’attività di cooperazione le forze Alleate si sono, invece, impegnate nell’assistenza umanitaria ai profughi fuggiti dal Kosovo e rifugiatisi sul territorio macedone. Tuttora, la FYROM continua a fornire un importante sostegno alla KFOR, anche garantendo il transito sul proprio territorio a uomini e mezzi della missione della NATO. Di vitale importanza è stato anche l’intervento della NATO nella breve guerra civile macedone del 2001, che ha opposto i guerriglieri dell’UCK alle forze di sicurezza. La

170 Si veda http://www.airn.nato.int/focus_areas/cd/articles/cd0110.htm . 64 NATO ha favorito la riapertura di dialogo tra le parti, che ha condotto alla firma degli accordi di Ohrid. L’Alleanza ha inoltre successivamente condotto varie missioni di monitoraggio internazionale, per gestire il problema della minoranza albanese presente sul territorio macedone. Uno dei principali obiettivi della cooperazione tra l’Alleanza e la FYROM è lo sviluppo delle capacità delle forze armate del Paese, in modo che esse possano lavorare a fianco delle forze Alleate e sostenere le operazioni di pace e di gestione delle crisi. La partecipazione del Paese balcanico al PARP ha inoltre favorito la collaborazione tra le forze macedoni e quelle della NATO, semplificando anche la realizzazione della riforma della difesa. La creazione di un quartier generale dell’Alleanza nella capitale macedone Skopje, nel 2003, ha garantito un’opera di assistenza nell’attuazione dei vari piani di riforma della difesa, grazie al lavoro di un team consultivo della NATO che opera all’interno del ministero della Difesa macedone. Nel quadro del partenariato per la sicurezza non bisogna dimenticare la lotta al terrorismo, alla quale la FYROM partecipa aderendo al Partnership Action Plan against Terrorism171. Questa partecipazione include la condivisione di rapporti di intelligence e analisi con la NATO, nell’intento di migliorare l’apparato nazionale anti-terrorismo e la sicurezza delle frontiere. Il governo di Skopje ha potuto contare sul sostegno dell’Alleanza per la realizzazione delle riforme nei settori della sicurezza e della difesa, soprattutto in vista di una revisione strategica. Nella FYROM è in corso, infatti, una trasformazione di tutto l’apparato delle forze armate, tramite un piano che prevede l’attuazione di programmi dettagliati di copertura logistica e personale, il miglioramento della attrezzature a disposizione, la formazione del personale militare e la ristrutturazione delle unità belliche più importanti. La riforma dell’apparato militare è sicuramente una questione fondamentale per rendere credibile la richiesta macedone di adesione alla NATO. L’obiettivo strategico per Skopje è la creazione di un esercito di professionisti leggero e mobile, conforme agli standard NATO. La riduzione del personale da 20 mila a 8.500 unità ha come intento quello di riuscire a creare un esercito composto da soldati ben addestrati e altamente professionali e, soprattutto, che rappresenti tutte le comunità etniche del Paese, in particolare la minoranza più importante presente sul territorio nazionale, quella albanese. Un altro punto chiave è rappresentato dall’obiettivo di un miglior bilanciamento della rappresentanza delle minoranze etniche nelle strutture di protezione civile e militare, oltre che nelle forze giudiziarie e di polizia. In base agli accordi di Ohrid, infatti, il numero di

171 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_50084.htm . 65 albanesi presenti nell’esercito regolare dovrà essere proporzionale al loro numero totale nel Paese. A questo scopo, il ministero della Difesa ha preparato un piano d’azione per l’adeguata rappresentatività delle comunità etniche nell’esercito, che sarà attuato entro il 2013. La FYROM sta potenziando le sua capacità d’intervento per eventuali emergenze civili su scala nazionale e per la gestione dei disastri naturali; tutto ciò anche grazie all’attività di cooperazione con la NATO, alla partecipazione all’Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC)172 e al Senior Civil Emergency Planning Committee (SCEPC)173. Di concerto con l’Alleanza, inoltre, è stato istituito un sistema nazionale di gestione delle crisi per garantire che le strutture presenti sul posto siano in grado di servire il cittadino in maniera efficace ed efficiente nell’eventualità che fatti di questo genere possano verificarsi. L’importanza di una corretta sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti della NATO, delle sue opere e attività, s’iscrive pienamente nell’intento della FYROM di diventare membro a tutti gli effetti dell’Alleanza Atlantica. Sono infatti costantemente in corso attività di diplomazia pubblica per sviluppare e mantenere i rapporti con i vari esponenti della società civile e delle comunità locali: in questo settore svolge un ruolo chiave la Public Diplomacy Division della NATO che si occupa anche di mettere in collegamento i singoli Stati alleati con i Paesi partner. L’ambasciata dei Paesi Bassi a Skopje funge, inoltre, da punto di contatto con il quartier generale dell’Alleanza e svolge il ruolo di canale delle informazioni da diffondere sul ruolo e sulle politiche della NATO. La FYROM opera anche nel programma Science for Peace and Security (SPS) e la sua attività è stata premiata con sovvenzioni per oltre 40 progetti di collaborazione, tra cui la creazione di laboratori di ricerca avanzata in materia di sicurezza delle informazioni, studi sulla gestione delle crisi e attività di lotta al terrorismo. Nel campo della scienza la FYROM ha iniziato, nel 2008, a collaborare con Paesi come Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Albania, Croazia e Turchia su problemi di sicurezza sismica. La questione che blocca, però, un processo di adesione finale resta quella del “nome” dello Stato macedone che viene contestato dalla Grecia. In occasione del vertice di Bucarest, la NATO ha accolto la richiesta di adesione di Albania e Croazia, ma non quella della FYROM, proprio a causa della mancata soluzione alla disputa sul nome. La NATO si è tuttavia detta pronta a integrare Skopje non appena verrà raggiunta una soluzione

172 Si veda http://www.nato.int/eadrcc/ . 173 Si veda http://www.nato.int/issues/scepc/index.html . 66 mutulamente accettabile alla disputa nominale174, un problema politico sorto sin dall’indipendenza della FYROM nel 1991. Come è facile intuire, la reazione del governo di Skopje non è stata positiva e il portavoce del primo ministro macedone, Ivica Bocevski, ha espresso in quella occasione il suo disappunto, ricordando i tanti obiettivi e meriti raggiunti dalla FYROM in tema di cooperazione con l’Alleanza. Questa situazione, che chiude le porte alla FYROM sia verso la NATO, sia verso l’UE, non sembra trovare una vera e propria soluzione. La disputa con la Grecia è infatti una complessa diatriba di tipo simbolico e nazionalista, in cui Atene sembra pretendere un cambiamento di nome, lingua e identità di un intero popolo175. Anche il governo di Skopje non ha sempre agito in maniera diplomatica e la costruzione della statua di Alessandro Magno nella piazza centrale della capitale ne è un esempio concreto. La volontà della FYROM di aderire alla NATO, così come all’UE, resta quindi forte, ma altrettanto lo è la convinzione e la fermezza nel mantenere il proprio nome invariato. A conferma di questa visione, in base a un sondaggio del 2010, l’80,02% della popolazione si è dichiarata favorevole a un ingresso nella NATO, ma se questa adesione dovesse comportare un cambiamento del nome del Paese, il 65% preferirebbe non entrare nell’Alleanza176.

III.1.5. Montenegro

Riconosciuto come Stato in seguito a un referendum sull’indipendenza tenutosi il 3 giugno 2006, il Montenegro ha manifestato subito la volontà di aprire un dialogo con la NATO. Già nel dicembre del 2003 il Montenegro ha aderito al programma Partnership for Peace (PfP). Questa adesione ha rappresentato uno dei risultati ottenuti dal vertice NATO tenutosi a Riga nel novembre 2006, i cui effetti positivi si sono manifestati per tutti i Paesi dell’area balcanica, che in quella occasione hanno istituzionalizzato le proprie relazioni con l’Alleanza Atlantica. In realtà già nel febbraio 2003 l’Unione Statale di Serbia e Montenegro, che vedeva coinvolte le due entità, aveva aderito al PfP della NATO.

174 NATO: Bucharest Summit Declaration, http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_8443.htm?mode=pressrelease . 175 Per l’interpretazione macedone della disputa vedere: Center for Research and Policy Making, Policy Brief NO: 17, To Name or Not to Name? Greek Nationalism Ltd; www.crpm.org.mk; il punto di vista greco è invece esposto in E. Kofos, Analysis / ICG Report “Macedonia’s Name: Breaking the Deadlock”, February 3, 2009; http://blogs.eliamep.gr/en/kofos/analysis-icg-report-macedonia’s-name-breaking-the-deadlock . Sull’importanza della storia e dei processi identitari nella politica macedone vedere J.K. Cowan (ed.), Macedonia: The Politics of Identity and Difference, Pluto Press, London-Sterling (Virginia), 2000. 176 Si veda http://ekemprogram.org/awg/images/stories/staff/nato-balkans.pdf . 67 Entrando nel PfP, il Montenegro partecipa anche al Partnership for Peace Planning and Review Process (PARP), utile all’Alleanza per identificare le forze e le capacità a disposizione del Paese partner e mettere in atto training militari, esercitazioni e operazioni su scala multinazionale, oltre che per stimare i progressi nell’attuazione delle riforme militari e della difesa. Grazie anche all’apertura del presidente Filip Vujanović, da quel momento il Montenegro ha perseguito l’obiettivo di relazionarsi con le istituzioni e avvicinarsi agli standard euro- atlantici. Un esempio di questa scelta è stata la creazione di un Dipartimento per le questioni di sicurezza e protezione delle informazioni, inserito all’interno del ministero della Difesa, creato nel marzo 2007 poco prima della visita a Podgorica dell’allora segretario generale della NATO, Jaap de Hop Scheffer. Durante questa visita, il Montenegro ha accettato un Accordo sulla Sicurezza dei Dati, formando, inoltre, un organo incaricato di gestire lo scambio e la protezione di informazioni classificate con i vertici dell’Alleanza. Nel 2008 il Paese balcanico ha stipulato l’accordo per un Individual Partnership Action Plans (IPAP), sviluppato su due anni, eventualmente rinnovabile e progettato per riunire tutti i vari procedimenti di cooperazione attraverso i quali un Paese partner interagisce con l’Alleanza. Nell’aprile dello stesso anno, inoltre, il Montenegro si è impegnato attraverso il meccanismo di pre-adesione noto come Intensified Dialogue (ID), utile per manifestare le proprie volontà di adesione le quali, tuttavia, vanno accompagnate da una serie di riforme interne. I risultati raggiunti nel quadro dell’IPAP e dell’ID sono stati discussi nella riunione del North-Atlantic Council (NAC) il 9 marzo 2009, e l’esito della valutazione è stato positivo in riferimento alle attività di cooperazione inquadrate in questi due meccanismi. Nella dichiarazione di chiusura del vertice NATO di Strasburgo e Kehl del 4 aprile 2009, è stato dato un forte sostegno alla richiesta da parte del Montenegro di aderire al Membershp Action Plan (MAP), e l’invito ufficiale al Paese balcanico è giunto nel dicembre dello stesso anno. Il MAP per il Montenegro, attuato attraverso il primo Annual National Programme (ANP) - piano su scala annuale di sostegno, consulenza e assistenza pratica - è iniziato ufficialmente nell’autunno del 2010. Un ulteriore passo per facilitare la cooperazione è stato compiuto tramite una missione permanente, con la conseguente creazione di un ufficio di collegamento, presso il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE) situato in Belgio. Per giungere al traguardo finale, rappresentato dall’adesione all’Alleanza, il Montenegro deve ancora realizzare una serie di riforme riguardanti la democrazia, le istituzioni e la difesa. I Paesi membri dell’Alleanza hanno dimostrato di avere fiducia circa la concreta

68 possibilità dell’ingresso del Paese balcanico nella NATO. A confermare questa visione è un paragrafo speciale presente nella dichiarazione finale del vertice di Lisbona del novembre 2010 in cui sono stati riconosciuti i notevoli progressi che il Montenegro ha messo in atto nella sua strada per l’integrazione euro-atlantica177. Nell’ambito della cooperazione e della sicurezza all’interno del progetto PfP, il Montenegro è impegnato in esercitazioni congiunte in campo militare. Per sostenere gli sforzi della NATO in Afghanistan - territorio in cui l’Alleanza è impegnata in una missione di equipaggiamento e addestramento dell’esercito nazionale afghano - il Montenegro ha offerto una donazione di 1.600 armi e 250.000 munizioni. Nel febbraio 2010, inoltre, il Montenegro ha deciso di contribuire con personale militare all’International Security Assistance Force (ISAF)178 presente in Afghanistan. In quanto Paese impegnato a contribuire alla missione ISAF, il Montenegro ha partecipato alla riunione del North-Atlantic Council e al meeting tra gli Stati non membri tenutosi ai margini del summit NATO di Lisbona del novembre 2010. Per quanto riguarda le riforme in tema di difesa e sicurezza, con l’aiuto diretto degli Alleati e della loro esperienza, il Montenegro ha condotto un riesame strategico del settore della difesa e ha approvato un piano a lungo termine per sviluppare un proprio esercito. Un’ulteriore priorità è quella di lavorare per mantenere e migliorare il controllo democratico sulle forze armate. Questi interventi si inseriscono nella più ampia e complessa riforma del sistema di difesa del Paese balcanico. La partecipazione del Montenegro al Planning And Review Process del PfP sarà di grande aiuto per sviluppare delle forze militari in grado di condurre missioni di peacekeeping e operazioni di soccorso con la NATO e gli altri Paesi partner. I Paesi membri dell’Alleanza hanno sostenuto anche la creazione di un fondo fiduciario NATO/PfP in Serbia e Montenegro, con l’obiettivo di rimuovere le mine antiuomo. Attività di smaltimento di munizioni e armamenti ritenuti in esubero o obsoleti sono in corso nel rispetto dei trattati internazionali e restano un problema di grande importanza per il Paese sia in termini di sicurezza, sia per motivi ambientali. Alle questioni di sicurezza è legata anche la pianificazione per le emergenze civili. In collaborazione con Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC)179, il Montenegro si sta impegnando per adottare le misure necessarie per istituire un sistema nazionale di allerta rapida, costruire un centro nazionale per la gestione delle situazioni di

177 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68828.htm . 178 Si veda http://www.isaf.nato.int/ . 179 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_52057.htm . 69 crisi e migliorare le proprie capacità di intervento alle emergenze, in modo da rendere l’esercito in grado di supportare le autorità civili in caso di disastri naturali e altre calamità. La partecipazione del Montenegro al MAP richiede una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica, in modo da diffondere le informazioni sui possibili benefici che deriverebbero al Paese dalla conclusione di un piano di cooperazione con la NATO e, in seguito, da un’eventuale appartenenza all’Alleanza. La Public Diplomacy Division180 della NATO collabora attivamente con un team di coordinamento montenegrino per l’integrazione euro-atlantica, con l’obiettivo di mettere in atto una strategia di comunicazione. La collaborazione si estende anche ad una vasta gamma di partner della società civile, tra cui rappresentanti dei media, parlamentari e comunità locali. Programmi di diplomazia pubblica, come visite guidate al quartier generale della NATO, seminari, programmi educativi per la gioventù hanno lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della NATO e del processo di adesione. Inoltre, per ogni Paese partner, uno degli Stati membri dell’Alleanza funge da punto di contatto e canale di trasmissione per le informazioni riguardanti il ruolo e le politiche dell’Alleanza stessa. Nel caso del Montenegro, il punto di contatto è rappresentato dall’ambasciata della Slovenia. Anche il Montenegro ha ricevuto diversi premi per i tanti progetti di cooperazione messi in atto, nel quadro del Science for Peace and Security Programme (SPS)181. Lotta al terrorismo, rimozione di sostanze chimiche pericolose, numerose iniziative ambientali e prospetti per lo studio sulla riduzione della pericolosità sismica sono tuttora in corso in piena collaborazione tra l’Alleanza Atlantica e il Paese balcanico.

III.2. Gli ultimi dieci anni: tensioni e conflitti

Gli obiettivi e le finalità operative della NATO sono stati fortemente influenzati dagli avvenimenti che hanno sconvolto e sopraffatto i Balcani a partire dagli anni ’90. Non a caso infatti, quella che è stata in assoluto la prima operazione di peacekeeping mai condotta nella storia della NATO ha avuto luogo durante l’intervento dell’Alleanza in Bosnia-Erzegovina nel 1995, in attuazione del piano di pace di Dayton. Quattro anni dopo, è stata la volta dell’operazione in Kosovo, per imporre la pace; infine, nel 2001, l’Alleanza è intervenuta nella Repubblica ex jugoslava di Macedonia per disarmare i gruppi di etnia

180 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/63630.htm . 181 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_58253.htm . 70 albanese presenti sul territorio e rastrellare i loro armamenti. La NATO si è sempre dimostrata particolarmente sensibile agli avvenimenti balcanici e l’impegno nella regione dell’Alleanza si è spostato, sempre più, dal mantenimento della pace e gestione della crisi verso l’integrazione euro-atlantica. Il processo di cooperazione e partenariato tra la NATO e l’area balcanica ha avuto inizio in seguito al vertice di Riga nel 2006. Nella Dichiarazione è stato affermato che per i Balcani occidentali “l’integrazione euro-atlantica, basata su solidarietà e valori democratici, resta necessaria per la stabilità a lungo termine”182. Nel corso dell’ultimo decennio, l’Alleanza ha finito con il rappresentare un elemento unificante per i Balcani poiché tutti i Paesi della regione, ciascuno in base alle proprie esigenze e necessità, stanno cercando di avvicinarsi all’area euro-atlantica. Nel complesso, in base a una ricerca effettuata tra gennaio e febbraio 2010 dall’Istituto per la Democrazia e la Mediazione (IDM), risulta che il 66,09% della popolazione di tutti i sette Paesi dei Balcani occidentali considera la NATO un importante istituzione per la sicurezza nell’area euro-atlantica e solo il 5,15% considera l’Alleanza priva di importanza strategica183. Un forte impulso all’integrazione è stato dato dall’adesione alla NATO della Slovenia nel 2004 e più recentemente della Croazia e dell’Albania nel 2009. Tuttavia i Paesi della regione sono profondamente diversi così come diverse sono le aspirazioni nei confronti dell’Alleanza. Se, ad esempio da una parte, la FYROM desidera fortemente entrare a far parte del club dei 28, dall’altra parte la Serbia non è interessata alla piena adesione. Inoltre, tra gli stessi Paesi balcanici permangono, ancora oggi, tensioni e nervosismi che, seppur diminuiti rispetto al passato, possono creare non pochi ostacoli nel processo di integrazione verso l’Alleanza. Durante il vertice di Lisbona, nel novembre 2010, la NATO ha adottato un nuovo concetto strategico che conferma l’impegno nella difesa della pace e nella sicurezza internazionale184. Il nuovo concetto strategico punta a sostenere l’integrazione euro- atlantica dei Balcani occidentali in modo tale da garantire i valori democratici, la cooperazione regionale e le relazioni di buon vicinato185. In un discorso pronunciato in Montenegro il 29 giugno 2011, il segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, ha espresso la linea attuale e gli sviluppi futuri della cooperazione tra la NATO e i Balcani occidentali. Il segretario generale ha dichiarato che l’area balcanica ha fatto grandi progressi, ma deve ancora raggiungere il suo pieno potenziale. “La nostra visione di

182 Si veda http://www.nato.int/docu/review/2007/issue2/italian/art3.html . 183 Si veda http://ekemprogram.org/awg/images/stories/staff/nato-balkans.pdf . 184 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/news_68172.htm . 185 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68828.htm?mode=pressrelease . 71 un’Europa libera e in pace non sarà completa finché tutti i Paesi di questa regione non saranno stabili e sicuri” ha affermato Rasmussen. La NATO è stata determinante nel fermare gli spargimenti di sangue e i conflitti etnici e per portare la regione verso “un futuro più sicuro e luminoso”. Oggi Slovenia, Albania e Croazia vivono in una “famiglia con valori condivisi”; e stanno fornendo un notevole contributo per “tenere la nostra famiglia al sicuro”. “Sappiamo bene” ha continuato il segretario generale “che non tutti i Paesi della regione aspirano a entrare nella NATO […] E noi rispettiamo questa scelta. Ma anche quelli che non desiderano aderire possono ancora trarre molti benefici se cooperano e lavorano con l’Alleanza”. Rasmussen ha poi assicurato che la NATO potrà rendere reale il sogno dei Balcani di vivere in una società democratica e tollerante, in piena libertà, pace e armonia. Per raggiungere questo obiettivo, secondo Rasmussen i leader politici devono dimostrare “lungimiranza e coraggio”, devono continuare le riforme e devono smettere di perseguire ristretti interessi nazionalistici. Il segretario generale si è detto pronto ad accogliere tutti quei Paesi che vorranno passare dalla Partnership alla piena adesione, ma l’impulso al cambiamento dovrà avvenire, in primo luogo, all’interno della regione. Infine Rasmussen ha concluso: “I Balcani occidentali hanno avuto una storia travagliata. Credo sinceramente che possano trasformarsi in un brillante esempio di diversità culturale e religiosa e di coesistenza pacifica, proprio nel cuore dell’Europa e delle nazioni della comunità euro-atlantica. Cerchiamo di cogliere questa opportunità oggi”186. Sembra evidente che L’Alleanza Atlantica ha svolto un ruolo cruciale nella ricostruzione postbellica e nel processo di stabilizzazione dell’intera regione balcanica, avendo inoltre rappresentato un incentivo per realizzare nel territorio maggior sicurezza e democrazia. Molte questioni, tuttavia, rimangono aperte. I Balcani occidentali sono ancora alle prese con l’instabilità, la retorica nazionalista, le tensioni interetniche, le debolezza dello stato di diritto e presentano al loro interno questioni territoriali e di confine ancora da risolvere187. Tutti questi fattori possono ritardare l’integrazione euro-atlantica, ma dato l’ultimo ingresso nell’Alleanza Atlantica di Croazia e Albania e i progressi compiuti dagli altri Paesi dell’area balcanica, la piena integrazione non sembra affatto impossibile, anche se, con ogni probabilità, tale inserimento dovrà essere concepito in un’ottica di più lungo periodo.

III.2.1. Kosovo – Serbia

186 Si veda http://www.nato.int/cps/en/natolive/opinions_75860.htm . 187 Si veda http://ekemprogram.org/awg/images/stories/staff/nato-balkans.pdf . 72 I rapporti tra la Serbia e il Kosovo, dodici anni dopo la fine della guerra tra la Repubblica Federale di Jugoslavia e i militari dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo), rimangono tesi. Al confine con il Paese - autoproclamatosi indipendente nel febbraio 2008 e mai riconosciuto come tale da Belgrado - la situazione si è deteriorata ulteriormente negli ultimi mesi. Nel luglio scorso, Pristina ha imposto delle limitazioni al commercio con la Serbia e per farlo rispettare ha deciso di inviare nuclei di polizia di etnia albanese sui valichi di Jarinje e Brnjak, i “gate” 1 e 31 della frontiera settentrionale, il controllo dei quali spettava in genere ad agenti di etnia serba. La regione del Kosovo settentrionale è a maggioranza serba e spesso alla frontiera non è stato rispettato il divieto di importazione dei serbi. In seguito agli scontri avvenuti tra cittadini e polizia kosovara, la situazione è stata normalizzata e tenuta sotto controllo dalle truppe KFOR, per poi ritornare sotto il controllo del contingente EULEX e della polizia di Pristina. Durante una recente visita nella capitale kosovara, il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha ribadito l’importanza per l’intera regione della stabilità in Kosovo, aggiungendo che la riduzione del numero di truppe KFOR presenti nel Paese è un segnale dei progressi raggiunti negli ultimi anni. L’Alleanza Atlantica continua a sostenere l’importanza fondamentale del dialogo tra Belgrado e Pristina per risolvere la questione del riconoscimento e le tensioni che ne conseguono, mentre l’Unione Europea ha insistito perché i due Paesi mantengano costanti colloqui sotto la propria mediazione. D’altro canto, se i serbi sono accusati spesso di manipolare e sovvenzionare illegalmente le istituzioni locali del distretto kosovaro di Mitrovica, forti dubbi persistono anche sull’operato del governo centrale di Pristina, il cui Primo ministro, Hashim Thaçi, è stato messo sotto inchiesta dallo stesso Consiglio d’Europa, con l’accusa di essersi macchiato, durante la guerra (1996-1999) dell’omicidio di prigionieri e dell’estrazione dei loro organi per rivenderli sul mercato nero internazionale188. La situazione non è dunque delle più lineari e il rapporto tra il contingente KFOR e i due governi è a dir poco complicato. Se Pristina spinge per un impegno costante e sempre maggiore da parte del contingente NATO a favore della creazione della Kosovo Security Force (oggettivamente l’esercito del Kosovo), Belgrado vede in questo ruolo della KFOR e nella sua presunta mancanza di protezione nei confronti della popolazione di etnia serba, delle gravi carenze riguardo i compiti della NATO nella regione. Proprio il ministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremić, ha fatto sapere che, il 13 settembre scorso, il suo governo ha inviato ufficialmente una lettera al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon,

188 Si veda http://www.fas.org/sgp/crs/row/RS22601.pdf . 73 sottolineando come, in conformità alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, sia compito delle missioni KFOR ed EULEX impedire agli “organi provvisori del potere a Pristina” un nuovo uso unilaterale della forza nel nord del Kosovo. Il comunicato pubblicato sul sito del governo della Repubblica di Serbia cita testualmente che “se venisse minacciata la stabilità e se ci saranno vittime umane, la responsabilità sarà di coloro che hanno il mandato per impedirlo, cioè l’UE e la NATO”189. Lo stesso presidente serbo, Boris Tadić, il 24 settembre scorso ha ribadito davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “La Serbia ha due obiettivi paralleli e per nessuna ragione uno dei due può essere sacrificato sull’altare dell’altro”. Questi due obiettivi sono per Belgrado l’integrazione europea e un accordo accettabile con Pristina sulla questione kosovara. Boris Tadić ha in seguito ricordato come sia la missione atlantica KFOR che quella europea EULEX debbano rimanere neutrali sul campo e che è necessario mantenere “uno spirito costruttivo”. Le condizioni per creare un dialogo utile e aperto sul Kosovo rimangono comunque problematiche. L’Unione Europea vuole affrettare l’adesione della Serbia e mantiene, dunque, un’imparziale neutralità in merito alla questione dello status della regione. La NATO non vuole perdere i buoni rapporti acquisiti grazie alla cooperazione con la Serbia, né tantomeno rischiare di lasciare il Kosovo in una situazione caotica, il che significherebbe un fallimento clamoroso della missione dell’Alleanza. Con riferimento al campo d’azione dell’Alleanza Atlantica Rasmussen, ha sottolineato che la NATO continuerà a essere impegnata in Kosovo, ma il controllo dei movimenti alle frontiere con la Serbia non fa parte dei compiti che intende mantenere in futuro190. Se il dialogo e il clima costruttivo vengono spesso e volentieri citati da tutte le parti in causa, attualmente, sul suolo kosovaro, tengono banco le tensioni in tutta la regione settentrionale di Mitrovica, l’insicurezza della popolazione di etnia serba, l’unilateralità delle azioni di Pristina e il fragile equilibrio delle missioni internazionali. Oliver Ivanović, proconsole del governo di Belgrado in Kosovo, spiega chiaramente che la Serbia non rimarrà impassibile alle provocazioni di Pristina: “Sanno che aspettiamo lo status di candidato UE, e hanno forzato sui confini, pensando che non avremmo reagito. Ma c’è un limite a quello che siamo disposti a sacrificare per l’Europa”191.

189 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=29094 . 190 Si veda http://www.agenzianova.com/a/4e89bbff8970d2.77510786/624584/2011-10-03/kosovo- rasmussen-nato-rimane-sul-terreno-ma-non-intende-operare-alle- frontiere?utm_medium=facebook&utm_source=twitterfeed . 191 M. Gergolet, “Sassi, vodka (e fucili nascosti). La guerra delle dogane serbe”, in Il Corriere della Sera, 2 ottobre 2011, p.19. 74

III.2.2. Kosovo – FYROM

Per quanto riguarda i rapporti tra la FYROM e il Kosovo, la questione resta strettamente legata alla crisi albanese del 2001. L’UCK macedone192, ha costituito una sorta di prolungamento dell’Esercito di Liberazione Nazionale che ha agito sul territorio kosovaro nel corso della guerra del 1996-99 contro la Serbia. La permeabilità delle frontiere, in particolare al confine con il Kosovo, ha da sempre rappresentato uno dei principali punti di debolezza per la stabilità della FYROM. È stata questa una delle ragioni che ha spinto l’Onu a dispiegare una propria forza lungo i confini che separano lo Stato macedone, dall’Albania e dall’allora Unione Statale di Serbia e Montenegro. La missione, nota con l’acronimo di UNPREDEP193, è terminata, però, in maniera inattesa e il susseguente deflagrare del conflitto in Kosovo ha trasformato i villaggi macedoni a ridosso del confine in una vera e propria base logistica dei combattenti kosovari, oltre che dei depositi di materiale bellico. Il conflitto ha rinsaldato i rapporti tra i gruppi irredentisti albanesi macedoni e i guerriglieri albanesi kosovari, inducendoli a ritenere che fosse possibile replicare nella FYROM quanto avvenuto in Kosovo194. La normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi è iniziata il 9 ottobre 2008, quando lo Stato macedone ha riconosciuto il Kosovo, in seguito alla dichiarazione di indipendenza dalla Serbia avvenuta il 17 febbraio dello stesso anno. Nel 2009 sono stati firmati degli accordi bilaterali per regolamentare nuovamente la frontiera, anche attraverso lo scambio di alcuni territori, un atto questo che ha segnato la ripresa delle relazioni diplomatiche. Il Kosovo resta per l’Alleanza, anche secondo le parole del segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, un punto di focale importanza per la stabilità regionale dei Balcani, per questo motivo un “rapporto di buon vicinato” tra questa entità e i Paesi confinanti, come nel caso della FYROM, è sicuramente un obiettivo cui l’Alleanza punta fermamente.

III.2.3. Serbia – Bosnia-Erzegovina

192 Si veda http://www.un.org/peace/kosovo/98sc1160.htm . 193 Si veda http://www.un.org/Depts/DPKO/Missions/unpredep.htm. Cfr. anche A. Williams, Preventing War. The United Nations and Macedonia, Rowman & Littlefield Publishers, Oxford, 2000. 194 Sul conflitto del 2001 si veda J. Philips, Macedonia. Warlords and Rebels in the Balkans, Yale University Press, New Haven and London, 2004. Si veda anche S. Troebst, From Bar to Bitola? "Greater-Kosovo," Serbia and Macedonia: The roots and implications of the concept of "Greater Kosovo”, in “Central Europe Review”, vol. 3, n. 26, September 2001. 75 La terribile guerra civile che ha sconvolto la Bosnia-Erzegovina tra il 1992 e il 1995 è ancora nitida nella mente dei bosniaci. I numeri del conflitto sono spaventosi: 200-250mila vittime, 50 mila torture, 20 mila stupri,143 fosse comuni e 2 milioni e 200mila persone (circa la metà della popolazione prebellica del Paese), costrette a lasciare le proprie case195. La Serbia, all’epoca dei fatti governata da Slobodan Milošević, ebbe non poche responsabilità nell’aumentare lo stato di tensione tra i tre popoli della Bosnia-Erzegovina (serbi, croati e bosniaci musulmani) e nell’aiutare economicamente e militarmente Radovan Karadžić, leader politico dei serbi di Bosnia. A sedici anni dalla fine del conflitto più sanguinoso mai condotto in Europa dalla Seconda guerra mondiale, sembra che il governo di Belgrado non abbia mai smesso di interessarsi agli sviluppi politici ed economici del vicino Paese, anche perché il 37,1% della popolazione bosniaca è di etnia serba196. La Serbia si è spesso espressa in favore del mantenimento degli accordi di pace di Dayton, che hanno riconosciuto la Repubblica Srpska, come una delle due entità costituenti la Bosnia-Erzegovina. Nel 2006, la Serbia ha sottolineato “l’importanza della salvaguardia e del rispetto di Dayton” aggiungendo che “le entità rappresentano i fondamenti del Patto”197. In molte occasioni Belgrado ha affermato il proprio appoggio a qualunque accordo a patto che “sia accettato dai tre popoli costitutivi”198. Se è pur vero che il destino dei connazionali d’oltre Drina sta particolarmente a cuore alla Serbia, è anche vero che negli ultimi anni Belgrado ha cercato di allargare i propri rapporti a tutta la Bosnia-Erzegovina, inclusa la Federazione croato-musulmana. Belgrado ha, infatti, ribadito più volte che la Repubblica Srpska può “sempre contare sull’appoggio della Serbia”, ma ha anche dichiarato di avere intenzione di stabilire rapporti speciali e paralleli con la Federazione, in modo tale da “trovare la forza per andare insieme verso l’Europa”, poiché “Il nostro scopo riguarda le integrazioni europee e, in quel senso, possiamo aiutarci più che nel passato periodo” 199. “Insieme verso l’Europa” è il nuovo motto che lega i due storici nemici e per il raggiungimento di questo obiettivo i due Paesi sembrano essere disposti a lasciarsi il passato alle spalle. In diverse occasioni i serbi hanno ribadito il proprio rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale del governo di Sarajevo. Durante un incontro svoltosi nel maggio del 2009, tra il premier serbo, Mirko Cvetković, e l’Alto Rappresentante dell’Onu in Bosnia-Erzegovina, Valentin Inzko, è stata ribadita la

195 Si veda J. Pirjvec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino, 2002. 196 Si veda https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/bk.html . 197 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=3559serbia . 198 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=23159 . 199 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=15831 . 76 cooperazione tra i due Paesi soprattutto nel campo dell’energia e delle infrastrutture stradali e ferroviarie. Inzko, inoltre, ha sottolineato che la situazione politica in Bosnia- Erzegovina è assai fragile e che la retorica negativa destabilizzerebbe lo Stato; il leader serbo, per tutta risposta, ha assicurato l’impegno di Belgrado nei rapporti di buon vicinato e per la stabilità della regione200. I due Paesi intrattengono buoni rapporti commerciali. Negli ultimi dieci anni la Serbia ha investito in Bosnia-Erzegovina quasi un miliardo di euro e ha invitato gli imprenditori serbi a investire nel Paese vicino201. Sarajevo, inoltre, rappresenta una pedina cruciale per Belgrado poiché è uno degli 84 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. In seguito ai recenti scontri avvenuti sulla frontiera serbo-kosovara, il ministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremić, è andato a Banja Luka, per incontrare il presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, e per informarlo dei recenti sviluppi tra Belgrado e Pristina. Il ministro ha invitato il leader serbo bosniaco a formulare una posizione congiunta sulla vicenda e a chiedere alla Bosnia-Erzegovina l’appoggio alla condanna dell’uso unilaterale della forza in Kosovo, che la Serbia ha intenzione di reclamare alla prossima seduta del Consiglio di sicurezza. Dodik ha dichiarato che la Repubblica Srpska seguirà le posizioni della Serbia e non permetterà alla Bosnia-Erzegovina di riconoscere unilateralmente l’indipendenza del Kosovo, specificando però di voler “costruire una posizione singolare a livello della Bosnia-Erzegovina”202. La Bosnia-Erzegovina è un Paese ancora profondamente diviso al suo interno e per tale ragione fatica a trovare una posizione comune e condivisa. La Repubblica Srpska è, per ovvi motivi, profondamente legata a Belgrado, mentre i rapporti tra la Serbia e la Federazione croato-musulmana sono ancora in fase di costruzione. A livello generale, tuttavia, bisogna specificare che Belgrado e Sarajevo vogliono intavolare rapporti di cooperazione. Tale scelta - diventata una necessità dato il desiderio comune di aderire all’Unione Europea – trova conferma nella collaborazione della Serbia in seno all’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), la corte penale dell’Onu che si occupa dei crimini di guerra commessi nei Balcani negli anni Novanta203. Una collaborazione che però, per due fondamentali motivi, non è priva di ambiguità. In primo luogo, il tardivo arresto degli ultimi criminali di guerra Radovan Karadžić, Ratko Mladić e Goran Hadžić. Karadžić è stato arrestato il 21 luglio 2008 mentre si trovava a

200 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=17465 . 201 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=17743 . 202 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=28884%20KOSOVO . 203 Si veda http://www.icty.org/sections/AbouttheICTY . 77 bordo di un autobus a Belgrado; Mladić è stato fermato il 26 maggio 2011 in Vojvodina, a circa 80 kilometri dalla capitale; l’ultimo, Goran Hadžić, è stato arrestato il 20 luglio 2011, sempre in Vojvodina, a un centinaio di kilometri da Belgrado. Non sono poche le voci che accusano la Serbia di aver volontariamente protetto i criminali di guerra e, la loro cattura, ha creato non poco scontento tra i nazionalisti serbi, che costituiscono ancora una forza politica non indifferente nel paese. In secondo luogo, l’ICTY è stato accusato da più parti di essere di orientamento decisamente anti-serbo. Se è pur vero che, durante la guerra, la maggior parte dei crimini furono commessi dai serbi, dei 161 imputati ben 94 sono di etnia serba204. Il quadro generale dei rapporti tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina rimane tutt’oggi molto complesso e fortemente frammentato. La volontà di superare i vecchi dissidi c’è, così come rimane estremamente forte il desiderio e la necessità di entrambi i paesi di aderire ai trattati euro-atlantici.

III.2.4. FYROM – Serbia

L’istituzione di rapporti bilaterali tra FYROM e Serbia è iniziata nel 1996. Subito dopo gli accordi di Dayton, infatti, la Repubblica Federale di Jugoslavia (ovvero l’unione delle due entità statali di Serbia e Montenegro), ha cercato di uscire dall’isolamento internazionale in cui era caduta durante il conflitto in Bosnia-Erzegovina. Il termine quasi simultaneo dell’embargo internazionale contro la Serbia, e di quello unilaterale imposto dalla Grecia per la FYROM, ha aperto prospettive di sviluppo del tutto inattese per i due Paesi. L’avvio di queste relazioni è stato condotto, da parte dei serbi, utilizzando il nome costituzionale della FYROM, ovvero Repubblica di Macedonia205. La Serbia rappresenta, quindi, uno dei 131 Paesi del mondo che riconoscono la FYROM con il suo nome costituzionale. In seguito all’accordo di mutuo riconoscimento, sono stati stipulati dei patti per l’eliminazione di molte tariffe economiche, permettendo un’intensificazione degli scambi commerciali. Il deteriorarsi della situazione in Kosovo tra albanesi e serbi, verso la fine degli Novanta, ha favorito una crescente solidarietà della popolazione macedone nei confronti dei serbi

204 Si veda http://eprints.kingston.ac.uk/5511/1/Hoare-M-5511.pdf . 205 Sull’instaurazione delle relazioni bilaterali e il riconoscimento del nome costituzionale da parte di Belgrado si veda N. Dobrkovic, Yugoslavia and Macedonia in the years 1991-6: from brotherhood to neighbourhood, in J. Pettifer (edt.), The New Macedonian Question, Palgrave, New York, 2001, pp. 91 e ss. 78 presenti sul territorio kosovaro. Il comune problema della minoranza albanese ha riavvicinato i due Paesi, tanto che il 2 marzo 2001, mentre la FYROM era impegnata a gestire la crisi scatenata dall’UCK sul proprio territorio, Belgrado e Skopje hanno ratificato un accordo relativo alla delimitazione dei propri confini. Gli obiettivi di integrazione europea e di cooperazione con la NATO, hanno però spinto la FYROM ad optare per una strada non troppo gradita ai serbi. Se l’istituzione di rapporti bilaterali ha permesso ai due Paesi di avere rapporti amichevoli, il riconoscimento da parte della FYROM dell’indipendenza del Kosovo, nell’ottobre 2008, ha portato a una conseguente rottura, culminata con l’espulsione dell’ambasciatore macedone dal territorio serbo. Questa frattura nei rapporti, tuttavia, è durata solo pochi mesi: un nuovo ambasciatore è stato inviato in Serbia nel maggio 2009 e il 10 giugno successivo, attraverso un incontro tra i ministri della Difesa dei due Paesi, è stato firmato un accordo di cooperazione sul tema delle forze armate, confermando, inoltre, che l’integrazione euro- atlantica resta una delle priorità per entrambi gli Stati balcanici. Una serie di questioni commerciali hanno favorito il riavvicinamento tra FYROM e Serbia. Belgrado continua tuttora a considerare la FYROM come una via privilegiata per il suo commercio estero, da e per il porto di Salonicco. Skopje, d’altronde, valuta questo suo ruolo di “Stato cuscinetto economico” come una delle migliori prospettive per la propria crescita finanziaria. Il 13 settembre 2011, nel corso di un tour di visite ufficiali nei vari Paesi balcanici, il capo della diplomazia della FYROM, il ministro degli Esteri Nikola Poposki si è recato a Belgrado per tenere una serie di colloqui con diverse autorità politiche serbe. Temi dei colloqui sono stati i rapporti bilaterali tra i due Paesi, la collaborazione regionale e il sostegno reciproco verso l’integrazione europea. Tra le questioni che restano irrisolte tra FYROM e Serbia è giusto segnalare per completezza espositiva la visione di alcuni politici nazionalisti serbi legata ad argomentazioni storico-religiose. Sino alla Seconda guerra mondiale, infatti, la FYROM è stata nota semplicemente come “Serbia del sud”: solo dopo il 1945 è divenuta un’entità politica autonoma nel quadro della Repubblica Socialista di Jugoslavia206. Nonostante Belgrado riconosca il suo nome costituzionale di Skopje, la chiesa ortodossa serba, sotto la cui competenza rientravano le diocesi macedoni, non accetta l’indipendenza della

206 Sulle diverse interpretazioni della stroria della Macedonia si veda V. Roudometof, Collective Memory, National Identity, and Ethnic Conflict. Greece, Bulgaria, and the Macedonian Question, Praeger, Westport (Connecticut), 2002. 79 chiesa ortodossa macedone, proclamata nel 1967, e questo perché la costituzione di chiese autocefale nell’ortodossia coincide con l’affermazione di un’identità nazionale207.

III.2.5. Serbia – Albania

Tra Belgrado e Tirana esiste un contenzioso storico riguardo lo status del Kosovo. Durante i bombardamenti della NATO del 1999, nell’ambito della guerra nella provincia indipendentista, la Serbia ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Albania, ripristinandole solo due anni dopo. Nel 2008, al momento della dichiarazione d’indipendenza di Pristina, mentre Tirana si è schierata nettamente in favore della regione a maggioranza albanese riconoscendola come Stato, Belgrado si è opposta e tutt’oggi mantiene invariata questa linea politica. Il problema dello status del Kosovo, però, non vuole essere, né per Tirana, né per Belgrado, un peso eccessivo per lo sviluppo di buone relazioni tra l’Albania e la Serbia. In uno storico incontro del marzo 2010 a Belgrado tra il ministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremić, e il suo omologo albanese, Ilir Meta, è stata riscontrata una comune visione del problema. Durante la conferenza stampa congiunta a latere del meeting i due ministri hanno fatto sapere che, sebbene le “forti differenze di vedute” sul Kosovo non abbiano trovato un punto d’incontro, “tali divergenze devono essere isolate in modo che non rappresentino un ostacolo allo sviluppo delle relazioni in altri campi”208. Il rafforzamento della cooperazione regionale per la stabilità dell’area e l’obiettivo di un comune futuro europeo, hanno rappresentato per i due Paesi un punto di accordo nel mantenimento di buoni rapporti diplomatici. Entrambi i Paesi sono consapevoli di quanto la pace nella regione dipenda enormemente dalle relazioni tra Serbia e Albania e a questo proposito, negli ultimi anni, i due governi hanno aumentato la cooperazione economica, soprattutto in campo energetico, volendo rendere strategici i progetti bilaterali in funzione di una futura integrazione europea209. Un problema che Serbia e Albania hanno affrontato più volte durante gli incontri ad alto livello è stato anche quello della criminalità e, in particolare, del traffico illegale di organi umani in Kosovo, per risolvere il quale è stato chiesto dal presidente della Repubblica di Serbia, Mirko Cvetković, un maggiore impegno

207 Sulla contestata legittimità della chiesa macedone ai sensi dei canoni dell’ortodossia si veda Ch. Papastathis, L’autocephalie de l’Eglise de la Macedoine Yougoslave. “Balkan Studies”, VIII-1967. 208 Si veda http://www.loccidentale.it/articolo/balcani.+dopo+7+anni+serbia+e+albania+si+incontrano.0087708 . 209 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=22910 . 80 da parte dell’EULEX. Nell’aprile scorso la Serbia ha assunto, proprio dall’Albania, la presidenza di turno alla Migration, Asylum, Refugees Regional Initiative (MARRI)210, un forum del quale fanno parte anche Bosnia-Erzegovina, Croazia, FYROM e Montenegro e che ha come obiettivo quello di garantire il libero movimento delle persone nell’interesse della sicurezza e della prosperità della regione. Il ministro degli Interni di Belgrado, Ivica Dačić, ha dichiarato che la presidenza serba inizierà nuove attività proprio nei confronti del traffico di esseri umani e delle migrazioni illegali. Durante questo forum il ministro ha inoltre firmato con il suo omologo albanese, Bujar Nishani, un accordo sulla riammissione degli emigrati tra i due Paesi che rappresenta un ulteriore passo verso la cooperazione e l’integrazione regionale. Nonostante tutto, però, il dilemma kosovaro rimane un punto d’attrito importante e tra Tirana e Belgrado risulta estremamente complessa l’individuazione di una soluzione. Il fatto che l’Albania sia un membro della NATO dal 1° aprile 2009 è stato ben accolto dalla Serbia. Il governo di Tirana è attualmente impegnato nella missione ISAF in Afghanistan e in passato ha contribuito alla missione SFOR in Bosnia-Erzegovina, oltre che supportare la NATO durante la crisi umanitaria regionale del 1999 e, in seguito, ospitare il quartier generale militare dell’Alleanza Atlantica per le operazioni di peacekeeping in Kosovo. L’Albania rappresenta dunque per la NATO un Paese importantissimo nello scacchiere balcanico e la pressione che l’Occidente può esercitare su Belgrado per un suo eventuale ingresso nell’Alleanza Atlantica passa anche attraverso Tirana. Finché la situazione in Kosovo verrà tenuta sotto controllo ed entrambi i Paesi - seppur non trovando un punto d’accordo sulla questione - marceranno nella stessa direzione riguardo alla cooperazione per la stabilità regionale e l’integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione Europea, sia Tirana che Belgrado rimarranno fedeli all’idea che i rapporti tra i due Paesi debbano mantenersi i migliori possibili211.

III.2.6. FYROM – Albania

Nel 2001, la FYROM si è trovata a dover gestire una pesante situazione di crisi interna scatenata dall’azione dell’UCK macedone212, l’Esercito di Liberazione Nazionale, che ha messo in atto una serie di attentati e attacchi insurrezionali con l’obiettivo di costruire una

210 Si veda http://www.marri-rc.org/ . 211 Si veda http://www.srbija.gov.rs/vesti/vest.php?id=21738 . 212 Si veda http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=macedonia . 81 Grande Albania. Le relazioni tra macedoni e albanesi sino a quel momento erano state abbastanza pacifiche: contrariamente a quanto è avvenuto per altre ex repubbliche jugoslave, la nascita dello Stato macedone nel 1991 non ha portato a spargimenti di sangue. Nonostante alcuni limitati episodi di tensione tra le etnie, nel primo decennio di vita della FYROM non vi sono stati reali conflitti213. I principali motivi di contrasto dei primi anni ’90 ruotavano attorno al riconoscimento costituzionale degli albanesi di Macedonia come minoranza etnica, status da questi ultimi posseduto durante il periodo jugoslavo. Il miglioramento dei rapporti tra i due Paesi è stato sancito dalla firma, nel gennaio del 1998, di diversi accordi di cooperazione economica, di politica estera e di sicurezza. Il riconoscimento del nome Macedonia nei rapporti bilaterali è stato un ulteriore passo verso la normalizzazione dei rapporti tra i due Stati. Nel corso della crisi del 2001, il presidente macedone Boris Trajkovski ha richiesto alla NATO di assistere il governo del Paese nelle operazioni di smilitarizzazione dell’UCK e degli altri gruppi albanesi estremisti. L’intervento dell’Alleanza ha favorito, il 15 agosto 2001, la firma degli accordi di Ohrid214, grazie ai quali è stata stipulata la pace tra il governo macedone e le minoranze etniche albanesi215. In seguito, il North Atlantic Council ha autorizzato la creazione di un quartier generale per l’operazione NATO nel Paese chiamata Essential Harvest216. Compito della missione è quello di raccogliere armi e munizioni dei guerriglieri albanesi, un’opera necessaria per garantire il prosieguo del processo di pace. Dopo un mese, è stata impostata una seconda missione, sempre sotto l’egida NATO, denominata Amber Fox217 e il cui mandato è stato rinnovato per tre volte sino all’ottobre 2002. Obiettivo della missione è questa volta quello di garantire la protezione degli osservatori internazionali impegnati, a loro volta, nel monitorare il rispetto degli accordi di Ohrid. In ultima istanza, constatato che la situazione nel Paese andava normalizzandosi, il North Atlantic Council ha stabilito il varo di una missione nominata Allied Harmony218, impegnata nello smantellamento dell’apparato militare presente sul territorio. Sino al 31 marzo 2003 la NATO è rimasta alla guida della missione di monitoraggio internazionale, mentre da questa data in poi è toccato all’Unione Europea il compito di gestire le operazioni.

213 V.T. Ortakovski, Interethnic Relations and Minorities in the Republic of Macedonia, “Southeast European Politics”, Vol. 2, No. 1, May 2001. 214 Si veda http://www.unhcr.org/refworld/publisher,IRBC,,MKD,3f7d4dc91c,0.html . 215 Si veda in proposito U. Brubanner, The Implementation of the Ohrid Agreement: Ethnic Macedonian Resentments, in “Journal of Ethnopolitics and Minority Issues in Europe”, Issue 1/2002: http://ecmi.de/jemie/special_1_2002.html . 216 Si veda http://www.nato.int/fyrom/tfh/home.htm . 217 Si veda http://www.nato.int/fyrom/tff/home.htm . 218Si veda http://www.afsouth.nato.int/nhqs/missions/alliedHarmony/alliedHarmony Mission.htm . 82 Il 3 ottobre 2011, Tirana e Skopje hanno rafforzato i loro rapporti impegnandosi in alcuni accordi di cooperazione. I colloqui tra il ministro degli Esteri albanese, Edmond Haxhinasto, e il suo omologo macedone Nikola Poposki, hanno messo in luce la volontà dell’Albania di sostenere l’ingresso della FYROM nella NATO, oltre a un comune intento di integrazione europea. Gli accordi di collaborazione saranno principalmente economici. Tra questi, spicca la partecipazione a progetti europei come il corridoio VIII219, l’asse paneuropeo di trasporto per persone e merci, che dovrebbe attraversare i territori nazionali di entrambi i Paesi. Programmi di infrastrutture stradale, ferroviaria ed energetica favoriranno l’arrivo di finanziamenti europei, mentre la libera circolazione aiuterà i cittadini albanesi e macedoni a sentirsi parte di una comunità: entro poco tempo, infatti, dovrebbe esser riconosciuta la validità delle patenti di guida in ambo i Paesi, permettendo alla popolazione di spostarsi con la sola carta d’identità, grazie anche all’istituzione di un comune servizio doganale. Il mantenimento di buoni rapporti tra Albania e FYROM resta una questione molto importante e delicata per la NATO: l’Albania, infatti, è dal 2009 un membro ufficiale dell’Alleanza Atlantica. Per questo motivo un’organizzazione internazionale, per prendere in considerazione l’eventuale ingresso della FYROM tra le sue fila, deve tenere conto dei rapporti di amicizia tra i due Stati, soprattutto quando sono in gioco questioni regionali che possono mettere a repentaglio la stabilità di un’area di per sé fragile come quella balcanica.

219 Si veda http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Aree_Geografiche/Europa/Balcani/Corridoio_8.htm . 83

Cap. IV – La Strategia europea e la macro-regione Adriatico-Ionica

IV.1. Strategie e policies europee

La Strategia alla base della politica regionale europea220 si fonda fin dal 1986 sull'obiettivo della realizzazione di un’attiva politica di coesione economica e sociale. Con l’adozione dell’Atto Unico Europeo221, infatti, si registra formalmente il superamento dell’idea di comunità intesa semplicemente come area di libero scambio, attraverso l’introduzione di un titolo appositamente dedicato alla Coesione Economica e Sociale, nell’ottica di un riconoscimento della dimensione regionale come componente fondamentale della politica europea. Si afferma che la Comunità “mira a ridurre il divario tra le diverse Regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite”. Da allora, attraverso un articolato percorso politico e legislativo che vede la Comunità (poi Unione) Europea agire per mezzo delle proprie istituzioni, si modella una strategia che definisce progressivamente i suoi obiettivi e le sue finalità in armonia con le altre policies europee222. L’iter è complesso, e passa attraverso la creazione nel 1975 del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), la riforma dei fondi strutturali del 1988, l’istituzionalizzazione delle regioni a livello europeo e la costituzione del Comitato delle Regioni, fino all’entrata in vigore del trattato di Lisbona e al rilancio della nuova strategia europea per il 2020223 che introducono una terza dimensione della politica regionale: la coesione territoriale. Questo obiettivo rafforza l’idea di una politica regionale più integrata, che presti attenzione ad ogni effettivo e potenziale ingresso nell'UE, accrescendo la riflessione sull'evoluzione del territorio europeo e i suoi confini esterni. Gli aspetti principali di questa strategia possono essere sintetizzati in quattro punti fondamentali: 1) sfruttare pienamente i punti di forza di ogni territorio in un’ottica di uno sviluppo sostenibile ed equilibrato dell'Unione Europea nel suo insieme; 2) gestire la concentrazione: le città incrementano innovazione e produttività ma anche inquinamento ed emarginazione sociale; 3) collegare meglio i territori al fine di consentire alle persone di poter vivere dove desiderano e avere accesso a servizi pubblici, trasporti efficienti, reti di

220Per una storia della politica regionale europea si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/what/milestones/index_it.cfm . Per una panoramica completa degli obiettivi e delle aree interessate si veda anche http://ec.europa.eu/regional_policy/index_it.cfm . 221 Si veda http://europa.eu/legislation_summaries/institutional_affairs/treaties/treaties_singleact_it.htm . 222 Per un overview delle policies dell’UE si veda http://ec.europa.eu/policies/index_it.htm. 223 Una sintesi degli obiettivi della strategia Europa 2020 è disponibile al link http://ec.europa.eu/europe2020/targets/eu-targets/index_it.htm .

84 energia affidabili e Internet a banda larga; 4) sviluppare nuove forme di cooperazione tra paesi e regioni in un’ottica transfrontaliera per la risoluzione di quelle problematiche la cui natura e dimensione eccedono l’ambito puramente statuale. Le strategie dell’UE per le regioni del Mar Baltico e del Danubio rappresentano due esempio concreti di questo nuovo approccio224. La nuova strategia Europa 2020 orienta il futuro delle politiche europee verso la promozione della crescita sostenibile, dell’innovazione e dell’occupazione e a tal fine promuove una più intensa cooperazione territoriale. Questo obiettivo è finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)225 e fornisce sostegno ai programmi di cooperazione transfrontaliera ma anche transnazionale e interregionale. La dotazione di cui godono questi programmi è pari al 2,5% delle risorse complessive per il periodo 2007- 13. Oltre al gruppo con personalità giuridica incaricato di rafforzare la cooperazione transfrontaliera (GECT)226,esistono nuovi strumenti per promuovere lo sviluppo regionale lungo le frontiere esterne dell'UE, sia in collaborazione con i paesi candidati effettivi e potenziali che con i paesi extra-UE. Per il periodo 2007-2013, l’obiettivo della cooperazione territoriale europea227 (prima iniziativa INTERREG) copre tre tipi di programmi: 52 programmi di cooperazione transfrontaliera all’interno dei confini UE per un contributo di 5.6 miliardi di euro; 13 programmi di cooperazione transnazionale che coprono vaste aree di cooperazione come il Mar Baltico e le regioni Alpine e Mediterranee per cui sono stati stanziati 1.8 miliardi di euro; il programma di cooperazione interregionale assieme con tre programmi di collegamento (Urbact II, Interact II e ESPON228), rivolti a tutti i paesi Membri per lo scambio di informazioni ed esperienze tra enti regionali e locali di diversi paesi (445 milioni di euro). Più in dettaglio, la cooperazione transfrontaliera mira a ridurre gli squilibri territoriali mediante specifiche strategie formulate per ognuno dei 52 programmi. Il ventaglio di problematiche prese in esame è piuttosto ampio e comprende il sostegno all’imprenditorialità, lo sviluppo di una gestione integrata delle risorse naturali, il supporto ai collegamenti tra le aree urbane e rurali, un miglior accesso alle reti di trasporto e di comunicazione, lo sviluppo di un uso condiviso delle infrastrutture e l’accesso a uguali

224 Si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperate/baltic/index_en.cfm e anche http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperate/danube/index_en.cfm . 225 Si veda http://europa.eu/legislation_summaries/agriculture/general_framework/g24234_it.htm . 226 Si veda lo studio realizzato dal GEPE nel gennaio 2007 sotto la direzione del Prof. Nicolas LEVRAT nel contesto del programma di ricerca CdR Gruppo europeo di cooperazione territoriale – GECT- disponibile al link http://www.cor.europa.eu/migrated_data/CoR_EGTC_Study_IT.pdf . Per maggiori informazioni sulle attività del Comitato delle regioni sul GECT, si veda http://www.cor.europa.eu/egtc.htm . 227 Si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperation/index_en.htm . 228 Si veda http://www.fondieuropei2007-2013.it/sezioni/scheda.asp?id=44 . 85 opportunità d’impiego. Per quanto riguarda i programmi transnazionali, viene prevista una stretta collaborazione tra regioni di diversi paesi europei su questioni quali le reti di comunicazione, la gestione delle alluvioni, i collegamenti per il commercio internazionale e lo sviluppo di un mercato sostenibile. Infine, la cooperazione interregionale opera ad un livello pan-Europeo, migliorando i collegamenti per sviluppare buone prassi e facilitare lo scambio e il trasferimento delle informazioni e dei risultati tra regioni che vantano esperienze di successo. La riduzione delle disparità tra le diverse regioni229 rappresenta dunque l’obiettivo prioritario in un’Unione che punta ad estendere l’area di stabilità e democrazia e il livello di sviluppo economico raggiunto oltre gli attuali confini europei. Il gap tra regioni è dovuto a molteplici fattori tra cui gli svantaggi preesistenti causati dall'isolamento geografico, i mutamenti sociali ed economici più recenti, il lascito degli ex sistemi economici a pianificazione centralizzata nonché una combinazione di questi e altri fattori. L'impatto di questi ostacoli si manifesta sotto diverse forme che vanno dall’emarginazione sociale alla scarsa qualità dell'istruzione, da un tasso più elevato di disoccupazione all’assenza di adeguate infrastrutture. La risoluzione di queste problematiche costituisce la finalità della politica di coesione europea che si focalizza su tre obiettivi maestri: cooperazione territoriale, convergenza e solidarietà fra regioni, competitività regionale e occupazione.

IV.2. Le macro-regioni

Con riferimento alla politica regionale, due termini hanno polarizzato i dibattiti e le riflessioni degli ultimi anni in ambito europeo: coesione territoriale e governance multilivello. Entrambe le voci sono richiamate infatti nell’“Agenda Territoriale230” adottata dagli Stati Membri nel 2007, nel “Libro Verde sulla coesione territoriale231” pubblicato dalla Commissione nel 2008 e nel “Libro bianco sulla governance multilivello232” approvato dal Comitato delle regioni nel 2009. Tutti e tre i documenti individuano nella necessità di potenziare la cooperazione transfrontaliera ai diversi livelli di governo una fondamentale priorità dell’Unione Europea. È in questo clima che si comincia a progettare una nuova

229 Si veda http://ec.europa.eu/news/regions/090512_it.htm . 230 Si veda a tal proposito il Parere del Comitato economico e sociale europeo su “L'agenda territoriale” (2007/C 168/03) disponibile al link http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2007:168:0016:0021:IT:PDF . 231 Si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/consultation/terco/paper_terco_it.pdf . 232 Si veda http://www.cor.europa.eu/pages/DocumentTemplate.aspx?view=detail&id=31bc9478-1acb-4870- 999d-cc867f1925f6 . 86 strategia regionale. La Strategia europea per le macro-regioni233, ancora in fase di sperimentazione, costituisce un approccio innovativo per una sempre più stretta cooperazione interregionale dentro e fuori l’UE. L’esperienza pilota dello sviluppo di una strategia per la regione del Mar Baltico ha introdotto nella pratica il concetto di macro-regione234, poi definita dalla Commissione europea come “un’area che include territori appartenenti a un numero di paesi e regioni differenti, accomunati dal possedere uno o più comuni caratteristiche o dal dover affrontare comuni problematiche235”. Le macro-regioni sono comunità che non godono di uno status d’indipendenza politica né di proprie istituzioni e non si sovrappongono ad altre identità regionali o nazionali esistenti. Le frontiere fisiche di queste regioni possono variare in base al tipo di problematiche esistenti al livello macro-regionale. Alcune di queste possono ad esempio sovrapporsi per cui una regione può essere parte di una o più macro-regioni contemporaneamente. La strategia per il Mar Baltico lanciata nel giugno 2009236 dalla Commissione europea, e fatta propria dal Consiglio nell’ottobre dello stesso anno, è oggi considerata un modello per altri potenziali approcci di tipo macro-regionale. Per una seconda regione che si sviluppa intorno al Danubio237, il Consiglio europeo ha chiesto nel giugno 2009 alla Commissione di formulare una strategia entro la fine del 2010. La Commissione si è espressa con l’adozione del documento “EU Strategy for the Danube Region238”del dicembre 2010. Questi sviluppi hanno ispirato il dibattito riguardo ad altre possibili aree d’interesse macro-regionale interne ed esterne ai confini dell’UE. Ciò è avvenuto per la regione La Manica/Mare del Nord, per la regione Alpina e per l’area Adriatico-Ionica. Analoghi quesiti sono stati sollevati per il Mediterraneo239 che rappresenta un’area strategica di fondamentale importanza per l’UE. La Commissione europea ha svolto un ruolo attivo nella formulazione della strategia

233 Per un approfondimento critico si veda il Working Paper dell’aprile 2010 n. 65/2010 “Macro-Regioni Europee: del vino vecchio in una botta nuova?” di A. Stocchiero (CeSPI). Il paper è disponibile al link http://www.cespi.it/WP/WP%2065-Cespi%20macro-regioni%20europee_IT_.pdf . 234 Si veda European Union Regional Policy, “La strategia dell’UE per la regione del Mar Baltico. Verso un futuro sostenibile e prospero”, Panorama inforegio, 2009, disponibile al link http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/panorama/pdf/mag30/mag30_it.pdf . 235 Si veda Macro-regional strategies in the European Union. European Commission (2009) disponibile al link http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperation/baltic/pdf/macroregional_strategies_2009.pdf . 236 Si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/panorama/pdf/mag30/mag30_it.pdf . 237 Si veda http://ec.europa.eu/news/regions/101209_it.htm . 238 Si veda http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0715:FIN:IT:PDF . 239 Per approfondimenti sul progetto di “Unione del Mediterraneo” e sull’importanza strategica del bacino del mediterraneo per l’UE si rimanda a “L’unione pe il Mediterraneo: evoluzioni e prospettive” di R. Aliboni, pp.49-59 in G. Sadun Bordoni (a cura di), I Balcani e il Mediterraneo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, disponibile al link http://www.girodivite.it/IMG/pdf/10E0467_Sadun_Bordoni_corretto_1_.pdf . 87 macro-regionale e ora la propone come modello pragmatico innovativo ripetibile per altre aree regionali. Si tratta di un esempio concreto e originale di governance multilivello240, che coinvolge in un dialogo aperto e concertato i diversi attori: la Comunità, lo Stato, le autorità regionali e locali e la società civile in una scala geografica interrelata transnazionale. L’esigenza di razionalizzare e ottimizzare la gestione di alcune risorse comuni (come ad esempio l’energia), o la necessità di convergere gli sforzi per la risoluzione di comuni problematiche (come nel caso della lotta alla criminalità organizzata), sono alla base del modello macro-regionale, che identifica nell’approccio integrato la chiave di volta della cooperazione territoriale transfrontaliera e transnazionale. La promozione della stabilità politica ed economica, quale premessa all’integrazione, è alla base del progetto avviato per la regione Adriatico-Ionica. Gli otto paesi membri della IAI241 (Iniziativa Adriatico-Ionica che comprende i paesi rivieraschi dell’Adriatico, la Serbia e il Montenegro), hanno posto diversi obiettivi alla base della loro cooperazione: la creazione di un sistema di prevenzione e di lotta all'inquinamento del mare Adriatico, la costruzione di un sistema coordinato di protezione civile nella gestione degli incendi e delle calamità naturali, lo sviluppo rurale, l’intensificazione dei legami commerciali e la creazione di una rete efficiente di servizi nel settore del turismo. La cooperazione è rivolta anche alla valorizzazione delle identità culturali di tutti i paesi membri e alla razionalizzazione dell’impiego delle risorse umane e finanziarie. Nel progetto della IAI l’approccio politico multilivello s’integra con un orientamento multidimensionale, finalizzato allo sviluppo dei territori coinvolti attraverso un’armonizzazione della cooperazione economica, culturale, sociale e istituzionale. Scopo dichiarato è quello di integrare le macro-strategie europee esistenti e la strategia per la regione Adriatico-ionica, al fine di apportare un contributo significativo non soltanto per la regione in se, ma per l’UE nel suo complesso. La cooperazione regionale Adriatico-Ionica potrebbe concretizzarsi in un terzo esempio di approccio macro-regionale, in grado di fornire una soluzione concertata dei problemi comuni grazie all’interazione e al confronto aperto dei diversi attori europei, statali, regionali e locali e dei membri della società civile242.

240 Sul tema della governance multilivello si veda il documento orientativo del Comitato delle Regioni “sviluppare una cultura europea della governance multilivello: iniziative per dar seguito al libro bianco del comitato delle regioni”, 6 giugno 2011, visionabile sul sito web www.toad.cor.europa.eu . 241 Si rimanda al sito della IAI http://www.aii-ps.org/ . 242 Sul ruolo attivo della società civile si veda C. Bazzocchi, “Il ruolo di ONG e società civile nell’integrazione europea”, 7 gennaio 2020, in Osservatorio Balcani e Caucaso, http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Il- ruolo-di-ONG-e-societa-civile-nell-integrazione-europea . 88 IV.2.1. Azioni regionali comunitarie nell’area danubiana e baltica prima e durante il processo di allargamento dell’UE

Il Consiglio Europeo ha adottato la strategia europea per la regione del Mar Baltico (SUERMB) nel dicembre 2009, confermando le conclusioni del 26 ottobre dello stesso anno 243. La strategia prevede una struttura integrata per la risoluzione di comuni problematiche (come ad esempio l’urgente questione ambientale), che interessano l’area del Mar Baltico. Nelle conclusioni, il Consiglio esprime la volontà di dare impulso al progresso economico, sociale e territoriale della regione, sottolineando come questi obiettivi contribuiscano alla crescita di competitività dell’intera Unione. A tal fine sollecita tutti gli attori ad agire rapidamente per assicurare una completa attuazione della strategia che rappresenta il primo esempio concreto di approccio macro-regionale. Nel far questo, Il Consiglio ha invitato la Commissione a presentare un report sullo stato dell’arte della strategia entro giugno 2011244. Il Mar Baltico è circondato da otto Stati membri dell'UE e dalla Russia245. La strategia246 per la macro-regione ha lo scopo di coordinare le azioni degli Stati, delle regioni, dell’UE, delle organizzazioni pan-Baltiche, delle istituzioni finanziarie e delle ONG, per uno sviluppo sostenibile ed equilibrato della regione. A tal fine sono stati approntati una comunicazione e un piano d'azione comprendente 80 progetti di alto profilo, alcuni dei quali già avviati. I quattro pilastri della strategia sono tesi a rendere questa parte di Europa più: sostenibile dal punto di vista ambientale, prospera, accessibile e in grado di attirare risorse e capitali, sicura e protetta. L’idea di formulare un’apposita strategia per la regione risale al 2004, anno in cui l’UE arriva a contare 25 paesi membri per un totale di 380 milioni e 800 mila abitanti247. Da allora, otto dei nove paesi rivieraschi del Mar Baltico sono membri dell'UE. Il concetto di macro-regione è nato da un’iniziativa che ha preso le mosse dal “basso”, in quanto posta in essere dai paesi dell’area Baltica. Sono stati i governi nazionali e un intergruppo di europarlamentari dei paesi baltici a proporre al Consiglio europeo e alla Commissione europea una nuova strategia per lo sviluppo dell’area. L’Escalation delle minacce ambientali, la discrepanza nella crescita economica e la scarsa

243 Si veda http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/110889.pdf . 244 Si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperate/baltic/pdf/reports/1_IT_ACT_part1_v2.pdf . 245 Per approfondimenti sullo strumento europeo di vicinato e partenariato (ENPI) per la cooperazione transfrontaliera con la Russia si rimanda al link http://ec.europa.eu/europeaid/where/neighbourhood/ index_en.htm . 246 Per una completa documentazione sulla strategia europea per la macro-regione del Mar Baltico si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperate/baltic/index_en.cfm . 247 Una scheda sulle novità e le problematiche correlate all’ingresso dei nuovi paesi nel 2004 è disponibile al link http://europa.eu/legislation_summaries/enlargement/2004_and_2007_enlargement/e50017_it.htm . 89 accessibilità ad una rete di trasporti efficiente, rappresentavano le principali problematiche da risolvere urgentemente. Sfide di una tale portata possono essere affrontate solo attraverso un’attiva collaborazione di tutti i paesi interessati nel quadro di una più ampia cooperazione europea. La strategia, ancora in corso di attuazione, ha generato azioni concrete ottimizzando e razionalizzando l’uso di risorse finanziarie e umane e riscontrando fino ad ora risultati positivi. Non sono stati approntati nuovi fondi ne create nuove legislazioni o istituzioni ad hoc. Al contrario sono stati sperimentati nuovi metodi di lavoro ed efficienti reti di collegamento e sono state varate iniziative di successo ripetibili per altre macro–regioni europee248. La strategia segna il tramonto dell’approccio settoriale nella risoluzione di macro-problematiche urgenti condivise dai membri dell’UE. L’entusiasmo suscitato dal nuovo approccio ha dato impulso all’iniziativa della Commissione Europea che in una comunicazione del dicembre 2010, “EU Strategy for the Danube Region249”, ha tracciato le linee di una strategia per la regione del Danubio. Gli Stati membri hanno abbracciato tale strategia durante il Consiglio degli Affari Generali del 13 aprile 2011 (Council Conclusions250). La regione del Danubio comprende 8 paesi membri (la Germania -Baden- Württemberg e Baviera- l'Austria, la Repubblica slovacca, la Repubblica ceca, l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria) e 6 paesi extra-UE (la Croazia, la Serbia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la Repubblica di Moldavia e l'Ucraina). La strategia rimane aperta ad altri partner della regione e dovrebbe essere compatibile con le prospettive del Mar Nero, nel quale sfocia il Danubio. La regione, che conta più di 100 milioni di abitanti e rappresenta un quinto della superficie dell'UE, ha subito notevoli cambiamenti. Grazie ai due ultimi allargamenti del 2004 e del 2007, il Danubio è divenuto il bacino fluviale più internazionale del mondo e per buona parte uno spazio dell'UE. La regione presenta un altissimo potenziale e per rispondere alle nuove sfide è necessaria una nuova prospettiva che intensifichi gli sforzi per superare in modo sostenibile la crisi economica. Le sfide che con più urgenza si presentano sono legate alla tutela dell'ambiente, allo sviluppo socioeconomico e alla modernizzazione di corridoi di sicurezza

248 Sui nuovi progetti, le iniziative di successo e l’impulso dato ai progetti esistenti si veda la Relazione della Commissione al parlamento europeo, al consiglio, al comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni sull'applicazione della strategia dell'Unione Europea per la regione del nord baltico, (22 giugno 2011). La Relazione è disponibile al link http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperate/baltic/pdf/reports/1_it_act_part1_v2.pdf . 249 Si veda http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0715:FIN:IT:PDF . 250 Si veda Council conclusions on the European Union Strategy for the Danube Region, 083rd General Affairs Council meeting Brussels, 13 April 2011, disponibile al link http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/EN/genaff/121511.pdf .

90 e di trasporto. Ulteriori sforzi devono essere compiuti inoltre per migliorare il sistema di energia, di ricerca e innovazione e per ottimizzare lo sfruttamento dell’enorme patrimonio fluviale dell’area251. Il Danubio rappresenta una porta sul mondo, sia sui paesi vicini che sull'Asia. Una strategia dell'UE per l’intera regione s’inserisce quindi tra gli obiettivi prioritari dell'Unione in linea con la strategia Europa 2020252. Scopo ultimo della strategia è quello di assicurare ai cittadini della regione un miglioramento delle condizioni di vita creando un miglior collegamento tra gli abitanti, le loro idee e le loro esigenze. Entro il 2020, nessuno dovrebbe essere costretto ad abbandonare la propria regione per godere di migliori prospettive di istruzione, di occupazione e di prosperità. La strategia dovrebbe far entrare pienamente questa regione nel XXI° secolo, rendendola sicura, fiduciosa in se stessa e una delle zona più attraenti d'Europa253.

IV.3. La Strategia europea per la macro-regione Adriatico-Ionica

Poco dopo il 1989, mentre in Europa centrale si apre la fase di superamento della guerra fredda, l'Europa sud-orientale viene sopraffatta dai conflitti di dissoluzione jugoslava e dalle crisi istituzionale e finanziaria in Albania. L'UE, dieci anni dopo si fa promotrice di un’azione volta a sostenere la fine delle controversie nei Balcani occidentali attraverso l’adozione del Patto di stabilità per l'Europa sud-orientale254 (oggi “Regional Co-operation Council”). Nell’ambito del Patto, durante il vertice finlandese di Tampere dell’ottobre del 1999, viene presentata dal governo italiano la nuova Iniziativa Adriatico-Ionica255. Bisogna tuttavia attendere il maggio del 2000256 per vedere ufficializzata tale l’Iniziativa, quando ad Ancona durante la Conferenza sullo Sviluppo e la Sicurezza nel Mare Adriatico e nello Ionio, si riuniscono i Capi di Governo e i Ministri degli Esteri dei sei Paesi rivieraschi

251 Si veda http://ec.europa.eu/regional_policy/cooperate/danube/index_en.cfm#1 . 252 Si veda http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0715:FIN:IT:PDF . 253 Riguardo alla politica europea di coesione dopo il 2013 si veda il documento realizzato dall’Assemblea delle Regioni d’Europa, Recommendations onthe Future of Cohesion Policy post-2013, November 2011, disponibile al link http://www.aer.eu/fileadmin/user_upload/MainIssues/CohesionRegionalPolicy/2009/AER- CohesionRecommendations-Nov-2009-EN.pdf . 254 Si veda http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Il-Patto-di-Stabilita-per-l-Europa-sud-orientale-una- scheda-tecnica . 255 Per un’altra iniziativa di rilevo dell’area adriatica come la Trans adriatic pipeline (Tap) si veda “Trans adriatic pipeline, richiesti nuovi permessi”, ANSAmed, 08 settembre 2011 disponibile al link http://www.coordinamentoadriatico.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4040&Itemid=1 . 256 Si veda http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/L-Iniziativa-Adriatico-Ionica-una-scheda-tecnica . 91 (Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Grecia, Italia e Slovenia). Al termine della Conferenza, i Ministri degli Esteri, alla presenza della Commissione Europea, sottoscrivono la “Dichiarazione di Ancona257” nella quale si afferma l’importanza della cooperazione regionale quale strumento di promozione della stabilità economica e politica dell’area Adriatico-ionica. Ai sei membri originari si aggiunge nel 2006 la Serbia- Montenegro e in seguito alla scissione entrambi gli Stati mantengono la membership. Oggi la composizione della IAI resta inalterata, per un totale di otto paesi membri. L’iniziativa, di cui l’Italia è stata accesa promotrice insieme alla Grecia, nasce dalla constatazione dell’esistenza di problemi di natura interregionale e transnazionale che accomunano i diversi paesi delle due sponde dell’Adriatico258. Questi paesi non vantano quindi solo un’eredità storica e culturale comune, ma condividono grosse responsabilità per la tutela e il controllo del loro mare. Il richiamo ai problemi comuni rimanda all’idea di soluzioni di lunga durata concordate tra le parti interessate. Si prevedono quindi più strette forme di cooperazione in ambito commerciale, rurale, culturale, ambientale e nel turismo. L’idea di fondo è legata alla consapevolezza dell’interdipendenza dei mercati e alla necessità di coinvolgere dal basso tutti gli attori, per dare un forte impulso al processo di europeizzazione nel rispetto delle specificità regionali e nazionali esistenti. Ulteriore impulso all’Iniziativa giunge nel 2004 quando la Slovenia diviene membro dell’UE. Contestualmente anche gli altri Paesi IAI del versante orientale (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Montenegro e Serbia), sebbene con tempi e modalità diverse, avviano un cammino di avvicinamento verso l’UE nel quadro del Processo di Stabilizzazione e Associazione e in vista di una futura integrazione europea. L’organo esecutivo della IAI è il Consiglio Adriatico-Ionico (CAI), composto dai Ministri degli Esteri dei paesi membri, convocato a turno a livello ministeriale alla presenza della Commissione Europea. L’agenda e le priorità di discussione interne al CAI vengono preparate nel corso di periodici incontri tra Senior Officials. Ogni anno viene inaugurata una nuova presidenza nell’ottica di una partecipazione diretta e attiva di tutti i paesi membri. La Grecia ha passato il testimone all’Italia nel giugno 2009 fino al maggio 2010, quando è stata la volta del Montenegro. Attualmente è la Serbia ad occupare la presidenza di turno. Nel giugno 2008 su raccomandazione della Regione Marche è

257 Si veda http://www.aii-ps.org/images/stories/documents/the_ancona_declaration.pdf . 258 Si veda “far prevalere il tanto che ci unisce”, scritto da Presidenza delle Repubblica - www.quirinale.it - 3 settembre 2011, disponibile al link http://www.coordinamentoadriatico.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4018&Itemid=1 . 92 inaugurato ad Ancona il Segretariato Permanente dell’Iniziativa259. Scopo del Segretariato è di garantire la continuità nel passaggio tra due presidenze e di assicurare un taglio “project oriented”, operando quale catalizzatore delle proposte dei Paesi membri. La IAI nasce dall’idea che solo un dialogo concertato tra le tutte le parti in causa può contribuire alla creazione di un’intesa duratura. A tal fine l’obiettivo è di coinvolgere enti locali e società civile, per costruire una strategia che non richieda nuovi fondi, nuove istituzioni e nuove legislazioni (in linea con l’approccio macro-regionale europeo), ma che ottimizzi le risorse già esistenti attraverso nuove e più strette sinergie tra gli attori. In tal senso la partecipazione attiva delle università, delle camere di commercio, delle PMI, dei distretti industriali, delle regioni e del mondo scientifico e culturale in generale è di fondamentale importanza per il buon esito dell’iniziativa. Di particolare interesse risulta il progetto UniAdrion260, che racchiude una rete universitaria virtuale collegando atenei e centri di ricerca di tutta la regione e sostenendo la mobilità di ricercatori, docenti e studenti provenienti dai paesi IAI. Altro importante canale di cooperazione è rappresentato dal Forum delle Camere di Commercio261 della regione Adriatico-Ionica. I target e i settori d’intervento dell’Iniziativa sono catalogabili in cinque macro aree (che costituiscono un quadro generale di cooperazione integrata aperto a successivi sviluppi): PMI, turismo, sviluppo rurale, cultura e cooperazione inter-universitaria, ambiente e protezione dagli incendi262. Il prossimo salto di qualità per la IAI si concretizza evidentemente nell’elaborazione di una strategia europea integrata per la marco-regione Adriatico-Ionica di cui oggi fanno parte paesi europei e paesi in preadesione. L'obiettivo è quello di formalizzare la costituzione della macro-regione nel 2014 e farla rientrare nella strategia della programmazione europea 2014-2020. Il passaggio dell’ultima presidenza avvenuto a Bruxelles, su invito della presidente del Comitato delle Regioni Mercedes Bresso, ha rappresentato un’occasione importante per dare visibilità all’iniziativa nel quadro europeo. La proposta di strategia europea si fonda sugli obiettivi del 2000: crescita sostenibile del patrimonio marino, delle PMI e dei commerci, salvaguardia dei mari, della pesca e cooperazione tra guardie costiere e protezioni civili. Della strategia italiana per la macro-regione fa parte anche un progetto di “corridoio baltico-adriatico”, per fare dell’Adriatico il raccordo da cui le merci indiane e cinesi risaliranno verso l’Europa. Il bacino adriatico-ionico oggi rappresenta quasi un “mare chiuso” e la prospettiva è che

259 Si veda N. Corritore N., “Nodi adriatici”, 25 giugno 2009, Osservatorio Balcani e Caucaso, http://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Nodi-adriatici . 260 Si veda http://www.uniadrion.net/ . 261 Si veda http://www.forumaic.org/home.php?strLang=en . 262 Si veda http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Aree_Geografiche/Europa/Balcani/IAI.htm . 93 divenga sempre più un “mare interno” all’UE263. I paesi dell’UE membri della IAI hanno ricevuto ufficialmente mandato da tutti i membri dell’iniziativa per perorare la causa adriatico-ionica in sede europea. Nel febbraio 2011 il presidente della Regione Marche Gian Mario Spacca è stato nominato relatore per la formazione del parere sulla macro- regione Adriatico-Ionica da parte della Commissione Politica di coesione territoriale (Coter) del Comitato delle Regioni d'Europa264. Per il mese di ottobre è prevista la formulazione di un’opinione sul parere da parte del Comitato delle Regioni. Nel 2012 la Commissione è incaricata di intavolare i dibattiti sulla strategia marittima della regione. L’obiettivo del riconoscimento europeo della cooperazione avviata undici anni fa è fissato per il 2014, anno che vedrà alternarsi al vertice dell’Europa l’Italia e la Grecia. La regione presenta tutti i requisiti per operare come una macro-regione per la quale sviluppare un approccio integrato in grado di affrontare le sfide comuni265. Il valore aggiunto della strategia della IAI è la conferma di un forte segnale politico rivolto ai Paesi dei Balcani occidentali di una prospettiva di concreta collaborazione, da sviluppare parallelamente al processo verso la futura integrazione alla casa europea cui essi naturalmente appartengono. Il futuro dell’Europa passa anche per i Balcani e in un’Unione che si pone come modello d’integrazione e cooperazione per la costruzione di un’area di pace e stabilità, la macro-regione Adriatico-Ionica rappresenta un’occasione importante per assicurare la stabilità in tutti i paesi membri ed extra- UE.

263 Si veda la relazione del Sottosegratrio agli Affari esteri A. Mantica, “Verso la macro-regione adriatico- ionica”, in G. Sadun Bordoni, op. cit. 264 Si veda http://nuke.gianmariospacca.it/Diarioviaggio/IQuadrimestre2011/SpaccaalComitatodelleRegioniaBruxelles/ta bid/1009/Default.aspx . Si veda anche http://www.oics.it/index.php/it/tutte-le-news/1119-macroregione- adriatico-ionica-spacca-relatore-a-bruxelles . 265 Si veda Tacconi M. “Verso la macro-regione adriatico-ionica”, 23 febbraio 2011, Osservatorio Balcani e Caucaso, disponibile al link http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Aree_Geografiche/Europa/Balcani/IAI.htm . 94

V – Conclusioni

IV.1. La sicurezza nei Balcani, l’UE e la NATO

La percezione della sicurezza nella regione balcanica continua ad essere condizionata dai conflitti etnico-territoriali degli anni ’90. In generale è possibile affermare che le guerre che hanno seguito la disgregazione della Jugoslavia hanno lasciato in eredità un senso di diffidenza reciproca tra le popolazioni coinvolte. In alcuni casi, questo dato è più marcato, come in Bosnia, dove la vita politica e sociale continua a seguire crinali di demarcazione etnico-religiosi. Per quanto riguarda il Kosovo, invece, il conflitto tra serbi e albanesi non si è ancora rimarginato e periodicamente si registrano scontri sul territorio. A livello internazionale, inoltre, la questione kosovara continua ad influire negativamente sulla cooperazione regionale e rappresenta una difficile problematica nelle relazioni tra la Serbia e l’UE. Altre sfide per la sicurezza regionale sono il proliferare di traffici illeciti, il contrabbando di armi e stupefacenti e la tratta di esseri umani. I Balcani costituiscono infatti per la loro posizione geografica una delle migliori rotte per raggiungere i paesi dell’UE, che da parte loro costituiscono la destinazione finale di gran parte dei traffici che attraversano i Balcani266. Oltre alla loro posizione geografica il proliferare dei traffici è facilitato dalla debolezza degli stati della regione e dalla difficile situazione economica in cui versano molti territori. Gran parte di questi traffici sono iniziati durante gli anni ’90, quando la guerra e gli embarghi rendevano questo genere di attività enormemente redditizie. In seguito il perdurare di alti livelli di disoccupazione e l’instabilità politica ed economica hanno contribuito a rendere attrattivi gli alti guadagni permessi dai traffici criminali. Per affrontare i problemi della sicurezza, l’Unione Europea si avvale di un approccio globale e dedica un’attenzione particolare al miglioramento della cooperazione tra i paesi della regione e allo sviluppo economico e sociale267. Per riannodare il filo della cooperazione economica tra i paesi della regione, l’Unione Europea ha promosso l’Accordo centro europeo di libero scambio (CEFTA), che ha permesso l’abolizione di gran parte delle tariffe doganali tra i paesi contraenti. Attualmente al Cefta hanno aderito tutti i

266 Basti pensare che secondo alcune stime le organizzazioni criminali del Kosovo gestiscono il 75% del traffico dell’eroina destinata all’Europa occidentale e il 50% di quella destinata al mercato statunitense; A. Margelletti, Il demone balcanico degli stati mafia, “Risk”, n. 52/2009. 267 L. Gori, L' Unione Europea e i Balcani Occidentali: la prospettiva europea della regione (1996-2007). Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007. 95 paesi dei Balcani occidentali e la Moldavia. Oltre all’obiettivo dichiarato di aumentare le relazioni economiche e l’interscambio tra i paesi della regione, il Cefta offre alle economie regionali lo stimolo necessario per migliorare la propria competitività e preaparare l’ingresso nel mercato unico europeo. Non a caso tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale che sono attualmente membri dell’UE hanno fatto parte del Cefta fino al momento della loro adesione. Un altro organismo deputato a rafforzare la cooperazione tra i paesi balcanici è il Consiglio di cooperazione regionale (RCC), che a differenza del Cefta non si limita alle questioni economiche e commerciali, ma riguarda anche le sfere della giustizia, della sicurezza e della politica interna dei singoli paesi. Il Consiglio di cooperazione regionale ha sostituito nel 2008 il Patto di stabilità per l’Europa sud orientale, ideato dall’UE nel 1999. L’Unione Europea copre un terzo del bilancio dell’Rcc, le quote restanti sono coperte dai paesi della regione e da istituzioni finanziarie internazionali. È importante notare che dell’Rcc fanno parte non solo gli stati balcanici e quelli membri dell’UE, ma anche Stati Uniti, Canada, Turchia, Norvegia e Svizzera. Un altro importante fattore nell’ottica del miglioramento della sicurezza e della promozione della cooperazione regionale è lo sviluppo delle infrastrutture e delle vie di comunicazione. L’Unione Europea ha ideato da tempo la strategia dei corridoi paneuropei, grandi assi di comunicazione finalizzati a ridurre le distanze all’interno dell’Europa e a facilitare il transito delle persone e delle merci268. La regione dei Balcani occidentali è attraversata da due importanti corridoi. Il corridoio 8, che parte dalla costa bulgara del Mar Nero, attraversa la Macedonia e raggiunge la costa albanese dell’Adriatico. Il corridoio 10 invece collega Budapest al porto greco di Salonicco, attraversando la Serbia e la Macedonia. Un altro importante asse di comunicazione per l’area adriatica e balcanica è il corridoio 5, un cui ramo collega l’Ungheria e i mercati dell’Europa centrale con il porto dalmata di Ploce269. La realizzazione dei corridoi paneuropei avrebbe conseguenze molto positive anche per l’Italia, che attraverso l’Adriatico potrebbe ottenere un facile accesso ai mercati della penisola balcanica270.

268 M. Savina, R. Visser, La grande Europa nasce dai trasporti, “Limes”, 2/2007. 269 C. Jean, T. Favaretto (a cura di), Reti infrastrutturali nei Balcani. Superamento del dilemma fra integrazione regionale ed europea, Franco Angeli, Milano, 2002. 270 T. Favaretto, S. Gobet, L' Italia, l'Europa centro-orientale e i Balcani : corridoi pan-europei di trasporto e prospettive di cooperazione, Laterza Roma-Bari, 2001. 96 Nel campo prettamente militare la cooperazione regionale è ancora scarsa271. Progressi significativi sono stati fatti con l’allargamento della NATO alla Croazia e all’Albania, ma ulteriori allargamenti dell’Alleanza Atlantica sembrano tuttavia distanti. Per quanto riguarda la Macedonia, il suo ingresso continua ad essere ostacolato dalla disputa con la Grecia. Nonostante Skopje abbia adempiuto le condizioni per aderire all’Alleanza Atlantica, il paese non è stato invitato ad aderire in occasione del vertice della NATO svoltosi nella primavera del 2008 a Bucarest, proprio a causa del veto ellenico272. Il segretario generale della NATO, Rasmussen, ha più volte ribadito che la risoluzione del contenzioso con la Grecia è essenziale per permettere l’ingresso di Skopje nell’Alleanza Atlantica. L’integrazione della Bosnia nella NATO sembra altrettanto distante, ostacolata dalle dispute etnico-politiche interne alle autorità bosniache. Per quanto riguarda la Serbia, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Rasmussen, ha auspicato che la NATO e Belgrado possano rafforzare la cooperazione e aprire la strada per la piena adesione serba273. Questa ipotesi sembra tuttavia ancora improbabile, sia per la scarsa popolarità di cui gode la NATO presso l’opinione pubblica serba, sia perchè in assenza di una soluzione definitiva alla questione del Kosovo, non sembrano sussistere i presupposti per l’adesione di Belgrado. Nella regione balcanica la NATO mantiene una missione in Kosovo (Kfor), dove opera anche una missione di polizia europea (Eulex), incaricata di vigilare sull’amministrazione civile e giudiziaria delle autorità kosovare. L’Unione Europea mantiene inoltre una missione di polizia (Eupm) e una militare (Eufor) in Bosnia. Gli Stati Uniti hanno realizzato un parziale disimpegno dalla regione balcanica, ma mantengono un’importante presenza militare, soprattutto con la base di Tuzla, in Bosnia, e quella di Camp Bondsteel, in Kosovo. Oltre agli Stati Uniti e ai paesi europei, sullo scenario balcanico altri due attori giocano un ruolo rilevante nella politica regionale; la Turchia e la Russia.

271 M. Delevic, Regional cooperation in the Western Balkans, “Chaillot Paper”, No104 - 01 July 2007, pp. 91- 96, http://www.iss.europa.eu/uploads/media/cp104.pdf . 272 Secondo la dichiarazione finale del vertice di Bucarest “an invitation to the former Yugoslav Republic of Macedonia will be extended as soon as a mutually acceptable solution to the name issue has been reached”: NATO, Bucharest Summit Declaration, 03 April 2008, http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_8443.htm . Sulle prospettive di integrazione della Macedonia nella NATO si veda Z. Kosanic, L'intégration contrariée de l'ex-République yougoslave de Macédoine à l'OTAN : un agenda plus lourd que prévu, NATO Defense College, “Research Paper”, n. 44 - February 2009, http://www.ndc.nato.int/research/series.php?icode=1&lang=fr . 273 Setimes, NATO head wants ties with Serbia strengthened, 31/05/2011, http://www.setimes.com/cocoon/setimes/xhtml/en_GB/features/setimes/features/2011/05/31/feature-01 . 97 IV.1.1. Turchia

La Turchia è per posizione geografica e vocazione politica un attore importante nelle dinamiche politiche balcaniche. Il processo di disintegrazione della Jugoslavia, che fino al 1991 era il pilastro della politica balcanica, ha largamente favorito l’emergere dell’influenza turca nell’area. Inizialmente il governo turco ha potuto contare sui musulmani balcanici, desiderosi di trovare un partner regionale in grado di riequilibrare la loro posizione di debolezza nei confronti della Serbia e della Croazia. Per i bosgnacchi i legami con la Turchia assumono inoltre un forte richiamo identitario, che affonda le sue radici all’epoca dell’Impero ottomano274. Oltre ai musulmani di Bosnia ed Erzegovina la Turchia può contare sulle simpatie dei musulmani slavi di Serbia275 e degli albanesi di religione musulmana. L’Albania è abitata da una cospicua minoranza cristiana e i cittadini albanesi sono in gran parte laici. Al contrario le popolazioni albanesi che abitano all’interno dei confini territoriali della Serbia, del Montenegro e della Macedonia sono compattamente di confessione islamica sunnita e hanno mantenuto un maggiore attaccamento alla propria fede religiosa, anche come segno di distinzione identitario nei confronti degli slavi ortodossi276. Di conseguenza queste popolazioni guardano con favore la tendenza turca ad intervenire nello scacchiere balcanico. Mentre il richiamo identitario islamico è stato più marcato durante la guerra civile bosniaca (1992-1995), con il tempo la Turchia ha saputo adottare una politica globale. Il maggiore dinamismo della politica balcanica di Ankara rispecchia un atteggiamento più assertivo e autonomo della Turchia nelle questioni internazionali. La maggiore assertività della politica estera turca coincide in gran parte con l’ascesa sulla scena politica turca di Recep Tayyip Erdoğan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). L’Akp si è affermato per la prima volta nelle elezioni del 2002 ed è stato successivamente riconfermato come maggiore partito politico nelle elezioni del 2007 e in quelle del giugno del 2011. L’Akp è un partito di orientamento islamico-moderato, che ha impresso un profondo mutamento alla politica turca, interrompendo il clima laico e nazionalista

274 Cfr. A. Biagini, Storia della Turchia contemporanea, Bompiani, Milano, 2005. 275 In Serbia la popolazione slava di confessione musulmana è concentrata soprattutto nell’area di Novi Pazar, a ridosso della frontiera con il Montenegro. 276 Il maggiore attaccamento alla fede religiosa trova spiegazione, oltre che nella componente identitaria dell’Islam rispetto ai cristiani ortodossi serbi e macedoni, nella differente politica religiosa seguita da Jugoslavia e Albania in epoca comunista. Mentre il governo jugoslavo mostrava una sostanziale tolleranza nei confronti della fede, il governo comunista albanese mise in atto una decisa politica antireligiosa. Si veda in proposito Balkan Insight, Albanian Muslims Grapple with Religious Identity, http://www.balkaninsight.com/en/article/albanian-muslims-grapple-with-religious-identity . Sulla popolazione albanese nei territori jugoslavi si veda M. Roux, Les Albanais en Yougoslavie: minorite nationale, territoire et developpement, Editions de la Maison des sciences de l'homme, Paris, 1992. 98 mantenuto dalla Turchia fin dai tempi della proclamazione della Repubblica da parte di Mustafa Kemal Ataturk. Erdogan ha indotto il suo paese a riscoprire le sue radici islamiche e ad assumere un atteggiamento più autonomo nei confronti dell’Europa e degli Stati Uniti. La svolta di Erdogan trova spiegazione del resto nel prolungarsi a tempo indeterminato dei negoziati di adesione all’Unione Europea e nella freddezza mostrata dall’opinione pubblica turca nei confronti della politica mediorientale degli americani. Il prolungarsi dei negoziati di adesione della Turchia all’ UE non ha mancato di suscitare profonde divergenze tra Stati Uniti e Unione Europea. Da diversi anni gli Stati Uniti esercitano pressione sugli europei affinché l’UE faciliti l’ingresso della Turchia nell’Unione; per gli americani, infatti, l’adesione della Turchia nell’UE costituirebbe la conferma dell’ancoraggio definitivo di Ankara al sistema di alleanze occidentale277. La Turchia ha presentato la richiesta formale di adesione all’Unione nel 1987, ma da allora il processo negoziale con la Commissione Europea è proceduto a rilento e non solo per la difficoltà incontrate dai governi di Ankara nel processo di adeguamento agli standard comunitari e di recepimento della legislazione europea. I negoziati sono infatti complicati anche da rilevanti questioni politiche, come la presenza dell’esercito turco nella parte settentrionale di Cipro (paese membro dell’UE) e gli altalenanti raporti tra Ankara e la Grecia, anch’essa stato membro dell’Unione. A differenza degli americani, per i quali l’adesione turca all’UE è eminentemente una questione strategica, per i governi europei i rapporti con i turchi assumono componenti emotive e identitarie oltre che politiche. La Francia e altri paesi membri sono nettamente ostili e ritengono che l’ingresso di un paese musulmano di oltre 70 milioni di abitanti metterebbe a repentaglio la compattezza dell’Unione. Inoltre l’opinione pubblica dei paesi europei rimane decisamente ostile all’ingresso della Turchia: secondo i dati dei Transatlantic Trends solo il 26% dei cittadini europei vede con favore l’ingresso dei turchi278, un dato che rende decisamente restii i governi europei a fare aperture ad Ankara. Di conseguenza le prospettive di integrazione della Turchia nell’UE rimangono incerte e, in ogni caso, è da escludere che progressi significativi possano essere compiuti in tempi rapidi279.

277 E. Alessandri, A Question of Interest and Vision. Southern European Perspectives on Turkey's Relations with the European Union, The Brookings Institution, Washington. 30 June 2010, pp. 16-17, http://www.brookings.edu/~/media/Files/rc/papers/2010/0630_turkey_eu_alessandri/0630_turkey_eu_alessa ndri.pdf . 278 I dati dei Transatlantic Trends 2011 sono consultabili su http://trends.gmfus.org/?page_id=3226 . 279 E. Alessandri, Beyond Enlargement? European Skepticism, Turkish Cynicism, and the Uncertain Future of EU-Turkey Relations, The German Marshall Fund of the United States, Washington, February 2011; http://www.gmfus.org/galleries/ct_publication_attachments/Alessandri_Skepticism_Feb11.pdf;jsessionid=aen 512XAuR__cltchm . 99 Sul fronte mediorientale la maggiore autonomia del governo di Ankara ha trovato espressione nel brusco raffreddamento dei rapporti con Israele e nel parallelo miglioramento delle relazioni con i paesi arabi e l’Iran. Occorre notare che mentre gli Stati Uniti e i paesi europei hanno espresso forti riserve sulle scelte di Ankara sullo scenario del Medio Oriente280, essi non hanno biasimato la politica balcanica della Turchia, che sembra essere in linea con le priorità degli Usa, dell’UE e della NATO. Il tradizionale ruolo di sostenitore dei musulmani balcanici non è venuto meno, esso si inserisce però in un quadro più vasto, che comprende il miglioramento dei rapporti con la Serbia e il consolidamento dei legami con la Macedonia. Da un punto di vista economico e commerciale, inoltre, i governi turchi hanno siglato intese bilaterali con i paesi balcanici, favorendo la penetrazione delle imprese turche nella regione. Il dinamismo della Turchia nei Balcani ha suscitato i timori di quanti ritengono che Ankara stia assumendo un ruolo troppo influente nella regione e che il governo turco stia perseguendo una politica “neo-ottomana”281. L’attuale ministro degli esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha respinto l’idea che la sua sia una politica “neo-ottomana” pur tenendo a rivendicare gli aspetti positivi dell’epoca ottomana e a precisare che a suo giudizio “non è possibile comportarsi come se l’Impero ottomano non fosse mai esistito”282. Inoltre è importante notare che il maggiore interesse della Turchia per i Balcani generalmente è stato accolto con favore dai paesi della regione, che hanno apprezzato il ruolo di mediatore assunto da Ankara per facilitare la risoluzione di dispute regionali, soprattutto di quelle che coinvolgono la Bosnia. Per quanto riguarda i rapporti con la Serbia, il governo turco ha mostrato grande interesse nel miglioramento dei rapporti bilaterali, giungendo ad auspicare la realizzazione di un partenaraiato strategico tra Ankara e Belgrado, nell’obiettivo di garantire la stabilità dei Balcani. La Turchia ha offerto i suoi auspici per disinnescare le tensioni tra la comunità musulmana di Serbia e il governo di Belgrado. Ankara è inoltre intervenuta a più riprese per placare le tensioni interne alla comunità islamica serba, cercando di scoraggiare le tendenze radicali283. Il governo turco ha inoltre più volte compiuto un’opera di mediazione

280 Si veda in proposito K. Kirisci, N. Tocci, J. Walker, A Neighborhood Rediscovered, Turkey’s Transatlantic Value in the Middle East, The Transatlantic Academy, Washington, 3 June 2010, http://www.gmfus.org/galleries/ct_publication_attachments/TransatlanticAcademyKirsiciTocciWalkerBFPaper TurkeyNeighborhood.pdf . 281 M. Lekic, L'offensiva diplomatica della Turchia nei Balcani. In “Affari internazionali”, 03/02/2010, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1379 . 282 Balkan Insight, Davutoglu: ‘I’m Not a Neo-Ottoman’, http://www.balkaninsight.com/en/article/davutoglu-i- m-not-a-neo-ottoman . 283 I. Mastilovic Jasnic, La Turquie ne veut pas de mufti « politique » en Serbie, da « Blic », http://balkans.courriers.info/article18412.html . 100 tra la Bosnia e la Croazia e tra la Bosnia e la Serbia, nell’intento di risolvere le tensioni che emergono periodicamente tra le autorità di Sarajevo e i paesi confinanti. Questa mediazione si è spesso concretizzata in vertici trilaterali che sono effettivamente riusciti a ridimensionare le divergenze nella regione. La Turchia ha inoltre ottime relazioni con la Repubblica di Macedonia. Ankara è stato uno dei primi paesi a riconoscere l’indipendenza di Skopje, ed ha siglato con il governo macedone anche accordi di cooperazione militare. Il governo turco appoggia la posizione macedone in merito alla questione del nome che divide Skopje e Atene e nell’ambito della NATO ha più volte esercitato un’attività di lobbying in favore dell’ingresso della Macedonia nell’Alleanza Atlantica284. Le buone relazioni che intercorrono tra Ankara e Skopje hanno più volte destato la diffidenza della Grecia, che teme che la Turchia possa utilizzare la disputa del nome per esercitare pressioni sulla Grecia, soprattutto nel caso in cui i rapporti greco-turchi subiscano dei deterioramenti significativi285. Di sicuro, forse anche per la comune avversione nei confronti della Grecia, i rapporti tra Ankara e Skopje, cementati già nei primi anni dell’indipendenza macedone, si sono consolidati e ancora recentemente il premier turco ha espresso l’intenzione di rafforzare ulteriormente la cooperazione bilaterale, favorendo gli investimenti delle imprese turche nell’economia macedone286. Sembra inoltre interessante sottolineare che nello scenario politico macedone Ankara evita di atteggiarsi a protettore della locale comunità musulmana, ben sapendo che in un paese profondamente diviso tra la maggioranza slava cristiana e la minoranza albanese islamica, un deciso intervento in favore degli albanesi rischierebbe di compromettere la già precaria convivenza interetnica. Inoltre è proprio evitando di inimicarsi i partiti e l’opinione pubblica macedone che Ankara è riuscita a ritagliarsi un ruolo di interlocutore affidabile della Macedonia. In caso contrario, infatti, la classe politica macedone sarebbe probabilmente restia a instaurare solidi rapporti politici ed economici con la Turchia, nel timore che ciò possa andare a vantaggio dei partiti albanesi di Macedonia. Non stupisce dunque che la diplomazia turca ribadisca spesso il suo sostegno all’integrità territoriale dello stato macedone, sottolineando che le richieste della minoranza albanese non devono degenerare in spinte separatiste.

284 Nei documenti ufficiali della NATO, nei quali Skopje viene indicata come “ex Repubblica jugoslava di Macedonia”, i rappresentanti turchi abitualmente richiedono l’aggiunta di una nota in cui viene specificato che la Turchia riconosce Skopje con il suo nome costituzionale. Vedere ad esempio il documento approvato nel 2008 a conclusione del vertice di Bucarest della NATO: Bucharest Summit Declaration; http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_8443.htm?mode=pressrelease . 285 Si veda ad esempio K. Kentrotis, Echoes from the Past: Greece and the Macedonian Controversy, in R. Gillespie (ed.), Mediterranean Politics, Vol. 1., Pinter Publishers, London, 1994, p. 99. 286 Balkan Insight, Turkey's Erdogan Cements Ties to Macedonia, http://www.balkaninsight.com/en/article/turkish-pm-erdogan-visits-macedonia . 101 Per quanto riguarda le relazioni economiche tra la Turchia e i paesi balcanici, nell’ultimo periodo Ankara ha sensibilmente incrementato la sua presenza sui mercati della regione e il governo turco ha mostrato grande interesse per settori economici strategici, come le telecomunicazioni, i trasporti e le infrastrutture. Le imprese turche avevano acquisito un ruolo importante nel mercato bulgaro e in quello macedone già durante gli anni novanta. Ma è solo negli ultimi anni che gli investimenti turchi hanno assunto dimensioni importanti negli altri paesi. In particolare dal 2005 le relazioni economiche con la regione si sono sviluppate, favorite dall’aperto sostegno dei governi dell’Akp alla penetrazione delle imprese turche nei Balcani e dalla crescita economica registrata dalla Turchia nonostante la crisi finanziaria internazionale287. Il governo di Ankara ha quindi siglato importanti accordi bilaterali che hanno permesso alla Turchia di divenire uno dei principali partner commerciali della regione. La Turchia rappresenta attualmente il terzo paese (dopo Italia e Grecia) per investimenti in Albania e il quarto in Bosnia. Ankara ha mostrato grande interesse anche per un miglioramento dell’interscambio economico con la Serbia, che costituisce il mercato più grande dei Balcani occidentali. L’interscambio bilaterale non ha ancora raggiunto quote significative, ma nel 2010 Ankara e Belgrado hanno siglato un accodo di libero scambio, destinato a facilitare i rapporti commerciali futuri288.

IV.1.2. Russia

Un altro importante attore nelle dinamiche politiche della regione balcanica è la Russia. Il governo russo può in qualche misura avvalersi dell’immagine di ‘protettore’ delle popolazioni ortodosse che la Russia rivendicava già al tempo dell’impero zarista, tuttavia la politica estera nella regione è mossa soprattutto da interessi concreti. Fin dagli anni ’90 la Russia ha assunto posizioni nettamente distinte da quelle della NATO in merito ai conflitti che hanno seguito la disgregazione della Federazione jugoslava. In particolare Mosca ha espresso sostegno politico e diplomatico alla Serbia, sia durante le guerra di Bosnia che durante la guerra del Kosovo del 1999. In particolare l’opposizione russa all’attacco dell’Alleanza Atlantica contro la Jugoslavia (Serbia-Montenegro) è stata fondamentale per impedire che le operazioni belliche della NATO ottenessero il mandato

287 J. Poschl, Turkey: a sound or overheated and relapse-threatened economy?, “Balkan Observatory”, http://balkan-observatory.net/countryreports/Turkey.pdf . 288 Balkan Insight, Turkey’s Balkan Shopping Spree, http://www.balkaninsight.com/en/article/turkey-s-balkan- shopping-spree . 102 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu289. Durante l’ultimo decennio del XX secolo l’instabilità politica ed economica della Russia non permetteva al Cremlino di esercitare un ruolo molto importante nella politica internazionale, e nonostante gli sforzi della diplomazia russa ciò risulta vero anche per lo scenario balcanico, dove Mosca non ha saputo esercitare un ruolo determinante, né ha saputo trovare strumenti di intervento in grado di soddisfare le proprie ambizioni. Con la fine dell’era Eltsin e l’ascesa sulla scena politica russa di Vladimir Putin, la politica estera di Mosca ha assunto maggiore dinamismo e incisività290. Tuttavia, in linea con il pragmatismo di Putin, il governo russo non sembra considerare la zona balcanica tra le priorità della sua poltica estera, ragion per cui la maggiore assertività del Cremlino non avuto un impatto determinante nella regione. Nell’ottica della politica balcanica della Russia il paese più importante è senza dubbio la Serbia291. Il sostegno dato da Mosca all’integrità territoriale della Serbia e alla sovranità di Belgrado sul territorio conteso del Kosovo fanno sì che la Russia goda di grande simpatie presso l’opinione pubblica serba. Da un punto di vista diplomatico la Russia è stato probabilmente il più grande sostenitore della Serbia in seno alle organizzazioni internazionali, anche grazie al diritto di veto di cui gode nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Per quanto riguarda la situazione sul territorio kosovaro, tuttavia, la Russia non è riuscita a dare al corso degli eventi un indirizzo più favorevole agli interessi serbi. Nel 1999, dopo la conclusione degli accordi di Kumanovo tra la NATO e il governo di Belgrado, il controllo del territorio kosovaro è stato assunto da una missione di pace internazionale guidata dall’Alleanza Atlantica. Alla missione partecipava inizialmente un contingente militare russo, tuttavia Mosca non è riuscita a valersi della sua presenza sul territorio per accrescere il suo ruolo politico e negoziale e già nel 2003 le truppe russe si sono ritirate. Grande importanza nelle relazioni tra la Russia e la Serbia riveste il settore energetico. La Serbia riveste del resto un ruolo importante nell’ambito del South Stream, l’ambizioso progetto con cui la Russia si propone di esportare il gas in Europa aggirando il territorio ucraino. Scopo del South Stream è evitare che l’Ucraina possa valersi a suo vantaggio del transito sul territorio del gas russo destinato ai paesi dell’UE. Ma South Stream ha anche l’obiettivo di evitare che i paesi dell’UE possano limitare la loro dipendenza nei confronti

289 Occorre comunque ricordare che anche la Cina, che come membro permanente del Consiglio di Sicurezza gode del diritto di veto, era contraria all’intervento della NATO. 290 J. Headley, Russia and the Balkans: Foreign Policy from Yeltsin to Putin, Hurst and Company, London, 2008. 291 Ž.N. Petrović (ed.), Russia Serbia Relations at the beginning of XXI Century, ISAC Fund 2010, http://www.isac-fund.org/download/Russia-Serbia-Relations-at-the-beginning-of-XXI-Century.pdf . 103 della Russia per il soddisfacimento del proprio fabbisogno energetico. L’UE ha infatti avanzato un progetto alternativo a quello russo, il Nabucco292. Esso si propone di trasportare il gas estratto nella regione del Caspio attraverso il Caucaso e la Turchia; in questo modo i paesi europei potrebbero dotarsi di un canale di rifornimento energetico in grado di aggirare la Russia, sia come paese produttore che come terreno di transito del gas293. Facendo leva sui buoni rapporti politici che intercorrono tra Mosca e Belgrado, la Russia sembra intenzionata a fare del territorio serbo uno snodo centrale per trasportare in Europa occidentale le risorse energetiche russe. Il progetto del South Stream prevede che il gas russo transiti attraverso il Mar Nero fino in Bulgaria. In seguito il gasdotto si dividerebbe in due rami, uno destinato a raggiungere la Grecia e le coste adriatiche dell’Italia, l’altro dovrebbe invece attraversare la Serbia e raggiungere l’Europa centrale e continentale. Per realizzare questo obiettivo la Russia sta cercando di acquisire un ruolo preponderante nel settore energetico serbo. Nel 2008 la Gazprom, il gigante russo delll’energia, ha acquistato la quota di maggioranza (51%) della compagnia serba per l’energia elettrica (NIS). La Gazprom sta inoltre realizzando, insieme alla compagnia statale serba SrbijaGas, uno studio di fattibilità per la costruzione del gasdotto che dovrebbe attraversare il territorio serbo dal confine con la Bulgaria a quello con l’Ungheria. Sempre nel 2008 Russia e Serbia hanno siglato un accordo per la creazione di una compagnia mista, incaricata della realizzazione e della gestione di un centro di raccolta e stoccaggio del gas; si prevede che questa istallazione venga costruita in prossimità della frontiera serbo-ungherese. La realizzazione di questo progetto aumenterebbe notevolmente l’influenza della Russia sullo scacchiere balcanico294, ma esso gioverebbe anche alla Serbia, che guadagnerebbe in tal modo un ruolo preminente nel mercato energetico balcanico. Dalla Serbia infatti dovrebbero partire rami minori del gasdotto, in grado di raggiungere gli altri paesi della regione. In particolare la compagnia SrbijaGas ha già mostrato interesse per la costruzione di un gasdotto destinato a raggiungere la Bosnia. Data la complessa struttura politico-istituzionale della Bosnia, divisa tra una Federazione croato-musulmana e un’entità serba (Republika Srpska) la realizzazione di questo gasdotto potrebbe avere

292 A. Bonzanni, La sfida Nabucco-South Stream tra geopolitica e dinamiche di mercato, “Affari Internazionali”, 28/12/2010, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1631 . 293 A. Dai Pra, La via dell’UE al gas del Caspio, “Affari Internazionali”, 19/08/2009, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1224 . 294 A. Gaston, La crisi del gas e la cortina di freddo dei Balcani, “Affari Internazionali”, 09/02/2009, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1068 . 104 ricadute anche sull’equilibrio interno della Bosnia, offrendo uno strumento di pressione alla componente serba295. Il gasdotto passerebbe infatti da Banja Luka, capitale della Republika Srpska e solo successivamente raggiungerebbe Sarajevo. Inoltre la realizzazione del progetto viene negoziata dalle singole entità, non dal governo centrale della Bosnia. Prevedibilmente i negoziati tra la Serbia e la Republika Srpska saranno rapidi, mentre quelli tra la Serbia e la Federazione croato-musulmana potrebbero essere complicati dalle dispute a base etnico-politica che oppongono la Federazione e la Republika Srpska. Le relazioni tra Belgrado e Mosca hanno assunto recentemente una dimensione rilevante anche nel settore della sicurezza e della difesa. In ottobre è stato infatti inaugurato un centro umanitario congiunto russo-serbo sul territorio della Serbia, nella città meridionale di Nis. Il centro è destinato ad offrire una base per operazioni di assistenza umanitaria in caso di calamità naturali in Serbia e, eventualmente, negli altri paesi della regione balcanica. Tuttavia alcuni hanno ipotizzato che il centro umanitario possa servire anche a scopi militari; secondo queste voci il centro potrebbe servire per monitorare l’attività delle basi militari degli Usa in Romania, dove il governo di Washington ha progettato la creazione di un sistema di difesa anti-missilistico visto con sospetto dalla Russia. Un’altra ipotesi è che l’installazione sia in qualche modo legata alla questione del Kosovo, che dista circa 100 kilometri da Nis296. Il governo di Belgrado e quello russo hanno seccamente smentito queste ipotesi, affermando che l’installazione di Nis non è diretta contro nessuno ed invitando gli altri Stati della regione a partecipare alle attività del centro297. Nonostante i buoni rapporti tra Mosca e Belgrado, bisogna fare attenzione a non sopravalutare la portata dell’influenza russa sulla Serbia. La Russia è il primo paese per il valore di merci importate in Serbia298, ma nel loro insieme i paesi dell’Unione Europea sono il primo partner commerciale della Serbia e sono al primo posto anche per investimenti esteri diretti; dall’UE proviene infatti circa il 70% degli investimenti esteri in

295 Sulla complessa struttura politica e istituzionale della Bosnia vedere G. Merlicco, I Balcani tra orizzonte europeo e tensioni interetniche : i casi di Bosnia-Erzegovina e Macedonia, Senato della Repubblica, “Approfondimenti”, Osservatorio di politica internazionale, Roma, marzo 2010: http://www.iai.it/pdf/Oss_Polinternazionale/pi_a_0009.pdf , pp. 3-11. 296 Euractiv, Russia opens 'humanitarian' base in Serbia, http://www.euractiv.com/enlargement/russia-opens- humanitarian-base-serbia-news-508382 . 297 B92, FM: Russo-Serbian center "not military base"; http://www.b92.net/eng/news/politics- article.php?yyyy=2011&mm=10&dd=17&nav_id=76901 . 298 Serbia Investment and Export Promotion Agency, Foreign Trade by Countries; http://www.siepa.gov.rs/site/en/home/1/importing_from_serbia/foreign_trade_data/foreign_trade_by_countrie s. 105 Serbia299. Inoltre l’attuale governo serbo, guidato da Mirko Cvetkovic, ha impresso al paese un indirizzo fortemente europeista e non desidera legarsi eccessivamente alla Russia. Questo atteggiamento trova spiegazione sia nel desiderio di aderire un giorno all’UE, sia nella consapevolezza dell’esecutivo serbo che la UE e la NATO rimangono i principali attori politici nella regione300. Ciò significa che anche nella questione del Kosovo, assumere una posizione apertamente ostile all’UE e alla NATO non gioverebbe alla salvaguardia degli interessi serbi. Da un punto di vista economico la Russia sembrava intenzionata a sviluppare buone relazioni anche con il Montenegro; in questo caso, però, la penetrazione economica russa non è stata minimamente in grado di scalfire il primato dell’UE. Secondo i dati dell’ufficio statistico montenegrino l’UE è il principale mercato per i prodotti montenegrini (56% delle esportazioni) e dai paesi dell’UE proviene il 36% delle importazioni del Montenegro301. Inoltre, a differenza di quanto avviene per la Serbia, le relazioni russo-montenegrine non hanno acquisito una dimensione marcatamente politica. Nel complesso la Russia esercita un ruolo significativo nei Balcani e con ogni probabilità la sua influenza nella regione è destinata ad aumentare, soprattutto se dovessero realizzarsi i suoi progetti in ambito energetico. In ogni caso, se Mosca si pone talvolta in competizione con l’UE e con la NATO, la Russia non persegue una politica di aperto contrasto nei confronti delle strutture transatlantiche302. Il governo russo non si oppone all’ingresso dei paesi balcanici nell’Unione Europea né nell’Alleanza Atlantica. Del resto, pur volendo, la Russia non avrebbe i mezzi per opporsi, anche perché l’integrazione nelle strutture euroatlantiche generalmente è vista con favore dai cittadini dei paesi balcanici303. La sola eccezione riguarda la Serbia. In questo caso la Russia non ha espresso obiezioni all’integrazione nell’UE, ma ha formulato qualche riserva sul suo ingresso nella NATO. In

299 Serbia Investment and Export Promotion Agency, Strong FDI Figures; http://www.siepa.gov.rs/site/en/home/1/investing_in_serbia/strong_fdi_figures. Vedere anche European Commission, Western Balkans – Trade 2010; Statistics; http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2006/september/tradoc_113477.pdf. 300 Sul ruolo dell’UE nei Balcani vedere Jacques Rupnik (Edited by), The Western Balkans and the EU: 'the hour of Europe'. Chaillot Paper - No126 - 06 June 2011; http://www.iss.europa.eu/uploads/media/cp126- The_Western_Balkans_and_the_EU.pdf. 301 Monstat, External Trade of Montenegro, January-August 2011; http://www.monstat.org/userfiles/file/spoljna%20trgovina/2011/aug%2011%20spoljna%20eng.pdf. 302 Per una rassegna dei rapporti tra NATO e Russia vedere: Vincent Pouliot, Pacification without Collective Identification: Russia and the Transatlantic Security Community in the Post-Cold War Era. Journal of Peace Research, Vol. 44, No. 5 (Sep., 2007), pp. 605-622. 303 R. Manchin, Balkan public opinion and Eu accession, in J. Rupnik (ed.), The Western Balkans and the EU: 'the hour of Europe'. “Chaillot Paper”, No. 126, 06 June 2011, http://www.iss.europa.eu/uploads/media/cp126-The_Western_Balkans_and_the_EU.pdf . 106 Serbia l’opinione pubblica guarda con freddezza l’ipotesi di aderire all’UE304 ed è nettamente contraria all’integrazione nella NATO305. In entrambi i casi continua a pesare la questione del Kosovo e il ricordo dei bombardamenti della NATO nel 1999. Occorre peraltro ricordare che mentre l’adesione all’UE raccoglie il consenso di una parte consistente della classe politica serba e la Commissione Europea ha recentemente prospettato di concedere lo status di paese candidato a Belgrado, l’ingresso nella NATO non è un obiettivo dell’esecutivo serbo, e suscita maggiori contrasti anche all’interno della classe dirigente306. Di conseguenza, a differenza di Bosnia, Macedonia e Montenegro, la Serbia non ha aderito neanche al Membership Action Plan (MAP), il programma della NATO finalizzato a preparare le condizioni dell’adesione.

V.2. Prospettive di stabilità

L’applicazione dei criteri di sicurezza che la NATO e l’UE proiettano sull’area balcanico- adriatica, esposti e articolati al primo capitolo della ricerca, fanno emergere – come un fattore fondamentale per la “stabilità” nella regione – la “cooperazione” tra i Paesi, economica (con incremento degli scambi di beni, persone e servizi) e istituzionale (con una maggiore attenzione al rispetto del diritto, in primis dei diritti umani). D’altronde dal summit di Lisbona del novembre 2010 il “concetto strategico” NATO conferma l’impegno nella difesa della pace e nella sicurezza internazionale, sostenendo l’integrazione euro- atlantica dei Balcani occidentali in modo tale da garantire i valori democratici, la cooperazione regionale e le relazioni di buon vicinato. La strada per l’integrazione nei processi euro-atlantici si profila non facile e per questi obiettivi, con crescenti attività di partenariato, la cooperazione regionale e la stabilità dei Balcani sono quali elementi fondamentali per lo sviluppo dell’intera regione (come riportato nel documento della Commissione Europea “Strategia di allargamento e sfide principali 2009-2010”) . La macro-regione Adriatico-Ionica,in tale ambito, darebbe corpo alla cooperazione regionale allargando le aree di interdipendenza a Paesi già membri (in primis Italia e Grecia) e ad altre aree macro-regionali (in primi quella danubiana ma anche quella baltica): l’area adriatico-ionica diventerebbe così un vero “mare interno” europeo

304 Ivi, p. 166. 305 Balkan Insight, Poll: Serbia Support for Joining EU, NATO Declines, http://www.balkaninsight.com/en/article/poll-serbia-support-for-joining-eu-nato-declines . 306 B92, "Serbia's aim not NATO membership, future in cooperation", 15.09.2011, http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=09&dd=15&nav_id=76413 . 107 (parte centrale di quel “continente liquido” che è il Mediterraneo nella nota concezione di Fernand Braudel). Lo sviluppo di infrastrutture continentali, a forte impatto regionale, come i “corridoi” 5 e 8, è altresì indicato come prioritario per l’Europa meridionale e orientale dal piano di azione della Commissione Europea nel luglio 2011. Inoltre anche la nuova strategia Europa 2020 orienta il futuro delle politiche dell’UE verso la promozione della crescita sostenibile, dell’innovazione e dell’occupazione attraverso una più intensa cooperazione territoriale e regionale. Ponendosi l’obiettivo della “stabilità” nel Sud-Est europeo, l’azione combinata NATO-UE dimostra che la funzionalità delle strutture euro-atlantiche nel nuovo contesto internazionale multipolare passa proprio in questa regione, dove si concentra una parte importante dell’obiettivo strategico (regionale e globale) della sicurezza. Rimane il fatto che soprattutto l’adesione all’Alleanza Atlantica susciti ancora in alcuni Paesi (soprattutto a livello di opinione pubblica) diffidenza e preoccupazione. D’altro lato la membership atlantica, pur non essendo formalmente una garanzia per l’ingresso nell’UE, risulta negli ultimi anni il passaggio sine qua non per un processo di adesione europea generalmente facilitato e di successo: lo stesso processo di adesione alla NATO ha in passato catalizzato l’azione dei governi dei Paesi del Sud-Est europeo a intraprendere riforme politiche, economiche e istituzionali, favorendo così anche il processo di integrazione regionale nell’UE. Nelle ultime pagine di questa ricerca si è dato un rilievo particolare al ruolo di potenze, come la Turchia e la Russia, aventi un peso generale a livello globale ma specifico a livello regionale. Il supporto a popoli e comunità della regione (soprattutto le comunità musulmane, maggioritarie in Bosnia, Kosovo, Albania, e minoritarie in Serbia, Montenegro e FYROM, da parte di Ankara, e della Serbia e delle comunità ortodosse tra Bosnia e Kosovo da parte di Mosca) è un indiscusso elemento della tradizione imperiale (e religiosa) ottomana e zarista307: la presenza turca e russa nei Balcani costituisce un fattore da considerare costruttivamente per un ampliamento della cooperazione regionale e continentale. È infine interessante notare come l’opinione di osservatori italiani e stranieri, dai più giovani ai più autorevoli studiosi ed esperti308, valorizzi sia il rapporto bilaterale tra

307 Si veda in generale B. Jelavich, History of the Balkans, Vol. 1: “XVIII and XIX Centuries”, Vol. 2: “XX Century”, Cambridge University Press, Cambridge, 1983. Sull’Italia e i Balcani cfr. A. Biagini, Momenti di storia balcanica (1878-1914). Aspetti militari, Ufficio Storico SME, Roma, 1981, e Id., L’Italia e le guerre balcaniche, Ufficio Storico SME, Roma, 1990. 308 Ci si riferisce qui anche a diretti e fruttuosi confronti avuti sul tema della presente ricerca con giovani ricercatori italiani (i dottori Caterina Bassetti, Giordano Merlicco, Gabriele Natalizia, Gabriella Tesoro) e non (il dott. Petar Jordanoski, macedone, la dott.ssa Anna Katti, greca, il dott. Sokol Pacukaj, albanese) e con professori e personalità internazionali esperte dei temi qui esposti: l’Ambasciatore d’Italia in Montenegro 108 organizzazioni occidentali e singoli Paesi, sia la dimensione locale della cooperazione anche e soprattutto tra gli stessi governi della regione, dove i popoli hanno un passato comune non solo di conflitto ma anche e soprattutto di convivenza e di “contaminazione”, per contiguità terrestre e relazioni marittime. Potremmo in questo senso dare un’immagine prestata dalle scienze esatte per raffigurare il processo di adesione euro-atlantica dei Paesi balcanico-adriatici: su un piano di riferimento cartesiano – i cui assi “x” e “y” sono dati rispettivamente dal Membership Action Plan NATO e dallo Stabilisation and Association Process UE – i Paesi balcanico-adriatici sono i punti collegati l’uno all’altro a costituire l’intera area regionale. Aggiungendo una terza dimensione di profondità otteniamo uno spazio euclideo, in cui quest’ultima dimensione “z” indica l’integrazione a livello di cooperazione regionale – come attraverso le strutture macro-regionali – e la lontananza/vicinanza al punto 0 indica una minore/maggiore integrazione NATO (asse “x”), UE (asse “y”) e di cooperazione regionale (asse “z”).

dott. Sergio Barbanti (artefice dell’importante acquisizione italiana attraverso A2A del ruolo guida che l’Italia ha assunto nella produzione e distribuzione energetica in Montenegro), il prof. Antonello Biagini (Sapienza Università di Roma e già esperto presso il ministero degli Affari esteri per le questioni nazionali nei Balcani), il prof. Gianni Bonvicini (Istituto Affari Internazionali, esperto di relazioni internazionali e sicurezza), il prof. Ljubomir Frckoski (Università Ss. Cirillo e Metodio di Skopje, già ministro degli Interni e degli Esteri e rappresentante macedone presso la Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa), il dott. Fernando Gentilini (Capo del servizio diplomatico esterno dell’UE per i Balcani e già rappresentante NATO in Afganistan e UE in Kosovo), il prof. Gun Kut (Bogazici University di Istanbul, rappresentante turco presso la Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa). A questi ultimi sono stati sottoposti brevi questionari di domande, che con le rispettive risposte sono riportati in Appendice alla presente ricerca. 109 110

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