Marco Milanese – Irene Trombetta – Luisa Tampone LE FORNACI CERAMICHE DI (). DISPERSIONE DELLA STORIA DI UNA COMUNITÀ DI VASAI

PREMESSA Le indagini estensive e intensive condotte sistematicamente dalla Cattedra di Archeologia Medievale dell’Università di Pisa sul territorio di S. Giovanni alla Vena a partire dall’autunno 20021, hanno permesso di avviare un articolato progetto di ricerca diretto da uno degli scriventi (M.M.) e notevolmente incrementato l’interesse storico e archeologico per questa località ai piedi del Monte Pisano, non lontana dal paese di , sede dell’omonimo di cui S. Giovanni alla Vena fa parte territorialmente. Si tratta di un borgo con una profonda vocazione e specializzazione nella produzione di manufatti ceramici, ben nota alla memoria storica, orale e materiale del borgo, e a tutt’oggi, anche se sulla via del lento declino, attività di alcuni abitanti del luogo. La sua fortuna nei secoli è da ricondursi alla posizione strategica lungo il fiume , il quale ha determinato la disponibilità locale dell’argilla, nonché la via più rapida per il commercio dei manufatti, i quali imbarcati sui navicelli raggiungevano Pisa e il porto di Livorno. Il centro rientra nella cosiddetta koinè produttiva che riunisce tutti i centri del Valdarno Inferiore specializzatisi a partire dal XVI secolo in una produzione ceramica imperniata sul monolinguismo dell’ingobbio2. Almeno fino agli anni ’60 del XX secolo, epoca che segna lo spegnersi di molte imprese artigianali che non sono riuscite a reggere la rivoluzione imposta dall’introduzione della plastica, si calcola la presenza di circa sei fornaci da ceramica attive nel centro di S. Giovanni alla Vena, le cui strutture, se pure in disuso, sono sopravvissute fino ad oggi in maniera più o meno fedele all’impianto originario, mostrando in tal modo tutto il loro interesse storico e archeologico. La specificità di un’economia basata sulla produzione ceramica è generalmente ricono- sciuta, anche a livello “internazionale” (come dimostrano contesti archeologi in un areale estremamente dilatato, in cui è esplicita la testimonianza di esportazioni di manufatti prodotti localmente, quale è il caso dei rinomati catini schizzati in verde di XIX-XX secolo), per un arco cronologico che va dal tardo Ottocento e si spinge fino alla metà del XX secolo circa, ma che non manca, ancora oggi, di avere una pur minima risonanza a livello locale. Si tratta, dunque, di un prezioso patrimonio sociale, economico e culturale che va ine- vitabilmente incontro ad una quotidiana erosione, dovuta sia allo stato di abbandono in cui versano gli impianti artigianali, sia, purtroppo, alla distruzione di essi per ignoranza o per interesse economico. Le stesse fonti orali, rappresentate per lo più da anziani abitanti del borgo, che ancora oggi possono darci testimonianze importanti sulla quotidianità di una attività, quella ceramica, che forniva il sostentamento all’intera comunità, le stesse fonti orali, quindi, sono soggette a questa lenta dispersione ed erosione inconsapevole.

1 Il borgo è stato oggetto di ricognizioni intensive in occasione del Corso di Formazione Professionale del Fondo Sociale Europeo di “Esperto di Archeologia della Produzione”. Parte dei risultati è stato oggetto di tesi di laurea discusse tra il 2004 e il 2008 nell’ambito della Cattedra di Archeologia Medievale dell’Università di Pisa, diretta dal Prof. Marco Milanese (TAMPONE 2003; TROMBETTA 2004). Il centro produttivo di San Giovanni alla Vena rientra anche nella ricerca dottorale della scrivente (I.T.) discussa nel 2009 presso l’Università degli Studi dell’Aquila (TROMBETTA 2009). 2 MILANESE 1994; MILANESE 2004; MILANESE 2006.

– 159 – Ricognizioni archeologiche sistematiche, realizzate a partire dall’autunno 2002 nel centro di S. Giovanni alla Vena, hanno permesso una prima valutazione della consistenza e del poten- ziale informativo del patrimonio materiale ancora disponibile: si tratta di fornaci ed ambienti produttivi che testimoniano ancora, dopo decenni di stato di abbandono, la complessità del processo produttivo e la specificità delle singole fasi di esso. Un altro aspetto della produzione ceramica attiva nel borgo è documentato nei nume- rosi scarti di produzione che facilmente si rinvengono nei terrazzamenti agricoli, negli orti, e reimpiegati nelle strutture murarie. Alcuni esempi di essi risalenti a produzioni locali di XVII secolo, ancor meglio delle strutture in sé, testimoniano l’antichità della vocazione ceramica della comunità. Per alcuni impianti produttivi, in particolare per la ex-Fornace Ceccarelli (fornace da mattoni), per la ex-Fornace Nesti e più recentemente la ex-fornace Carmignani, non è stato possibile fermare le già approvate concessioni di demolizione con conseguente riconversione in strutture ad uso abitativo. Fonti materiali e fonti orali, perciò, in quanto fonti non rinnovabili, risultano essere in un pericoloso stato di rischio e di emergenza, in cui è auspicabile una mirata strategia di interventi, che permettano di combattere la loro dispersione, nel tentativo di conservarne la memoria, e di valorizzare quell’aspetto socio-economico in cui il popolo di S. Giovanni alla Vena ha sempre trovato il suo motivo di identità.

1. RICERCHE ARCHIVISTICHE Le ricerche condotte presso l’Archivio Storico Pisano (ASP) e l’Archivio Storico Comunale di Vicopisano (ASCVP) si sono svolte allo scopo di ricostruire, anche se solo parzialmente, la storia e lo sviluppo degli impianti produttivi ceramici a S. Giovanni alla Vena. Allo stato attuale delle conoscenze, la più antica citazione di un ceramista a San Giovanni alla Vena sembra essere quella di Enrichetto (o Arrighetto) di Chele, broccaio sangiovannese trasferitosi a Pisa nel 13843. Questa notizia, come le successive relative a Matteo di Angelo di Simone, alias Bigio, tegamaio nel 1478, e quella di Giovanni del maestro Iacopo orciolaio di Vicopisano nel 14814, confermano la presenza nel borgo di una attività ceramica, plausibilmente volta alla produzione di Maiolica Arcaica o di semplice vasellame privo di rivestimento, ma scarsamente evidenziata su base archeologica. Successive tracce dell’attività di ceramisti a S. Giovanni alla Vena si trovano in documenti della seconda metà del 1500 conservati presso l’Archivio Storico di Vicopisano5. Il primo risale al 1559 e riguarda una relazione relativa ad un’alluvione causata dall’Arno e alla stima dei danni subiti dai vari centri del Vicariato di Vicopisano; in essa si parla anche dei danni che i ceramisti di S. Giovanni alla Vena hanno subito, in particolare per “una grande quantità di legname per fornace” che l’acqua ha portato via. Un documento datato 1561-15626 registra l’attività di 18 pentolai, attestando una pro- duzione volta alla manifattura di pentolame da cottura; è pure plausibile, essendo il numero elevato, che all’interno del termine siano stati confusi anche i produttori di stoviglie che già a quell’epoca dovevano aver avviato una produzione di vasellame da mensa; infatti, un altro documento degli stessi anni7 menziona tra gli iscritti a San Giovanni alla Vena alla lista degli

3 TONGIORGI 1979b, pp. 59-60. 4 TONGIORGI 1979a, p. 19. 5 Ringrazio sentitamente l’archivista Filippo Mori per la consulenza e l’aiuto prestatomi, nonché per avermi con- cesso la trascrizione, in sede di Tesi di Dottorato, di alcuni documenti già da lui individuati, ma rimasti inediti. 6 ASCVP, Atti civili, Filza n. 053, 1561-1562. 7 ASCVP, Atti civili, Filza n. 085, 1561-1562.

– 160 – “Artieri et Matricole di Arte di Grascia, Fabbricanti et Speziali” 8 stovigliai, appartenenti alla categoria degli speziali. Ancora da un documento del 15628, in cui si menziona un elenco di «maestri di vasella, cioè brocche, pignatti et tegami», si evince la presenza a S. Giovanni di un’attività ceramica altamente specializzata in manufatti da fuoco e da mensa. In una carta del 15789 il Provveditorato alle Arti di Firenze richiede una «descritione di tutte e tre le sorte di d.i artieri», ovvero «artieri di grascia, fabbricanti e speziali» presenti nella Podesteria di Vicopisano; a San Giovanni alla Vena gli stovigliai sono 29 (se ne elencano tutti i nomi), sottoposti all’arte degli speziali. Nel resto della Podesteria non risultano altri ceramisti attivi. Nello stesso anno, un documento10 elenca tutte le fornaci da ceramica attive a San Giovanni alla Vena, con il nome del proprietario, la localizzazione e la specializzazione (per lo più da stoviglie). La localizzazione ricalca grosso modo l’area di dispersione ricostruibile attraverso i contemporanei estimi. Dallo spoglio degli Estimi del Catasto di Fiumi e Fossi conservati presso l’Archivio Storico di di Pisa, per l’anno 155611 sono censite nel centro di S. Giovanni almeno otto fornaci (variamente da pignatte, vasella, brocche, stoviglie) concentrate principalmente nella porzione ovest del borgo, in luogo detto «Civoli» (l’attuale ) e «Strada» (i due microtoponimi sono contigui, come risulta dalla descrizione delle confinanze relative ad alcune fornaci ivi localizzate) e ad est, in luogo detto «al Poggio». In particolare si nota la specializzazione dei singoli ceramisti nella produzione di determinate classi funzionali ceramiche, caratterizzazione che spesso viene rispecchiata dagli epiteti che accompagnano i nomi dei proprietari delle fornaci, come «Francesco di Bastiano pignattaio» o «Agostino di Mariano tegamaio». Di quest’ultimo viene, inoltre, specificato che la fornace che possiede, gli è stata data in livello dall’Arcivescovado di Pisa, nota interessante, in quanto manifesterebbe rapporti con Pisa per la vendita dei manufatti ceramici. Nell’anno 157912 il computo del numero delle fornaci presenti a S. Giovanni alla Vena aumenta sensibilmente (se ne contano 10, tra cui ora anche specializzate in stoviglie), ma la loro localizzazione non cambia, così come accade spesso che alcune fornaci presenti nell’estimo precedente, risultano adesso passate di proprietà ai figli dei vecchi proprietari (alla carta n. 251r si cita «Bartolomeo di Agostino di Mariano tegamaio»). L’estimo del 162213, in cui sono stimate 20 fornaci da ceramica e almeno 4 da mattoni, è l’ultimo effettivamente compiuto sul territorio, poiché quelli successivi del 168214 e del 176115 sono semplicemente le trascrizioni del primo con le varie modifiche relative ai passaggi di proprietà. Le eventuali nuove fondazioni di strutture produttive ceramiche non sono state registrate, e il riferimento ed esse si può riscontrare solo nel più tardo Catasto Leopoldino. Con le nuove fondazioni registrate nei due aggiornamenti si coprono ulteriori porzioni del borgo di S. Giovanni alla Vena: i microtoponimi che compaiono menzionati per la loca- lizzazione delle fornaci sono il luogo detto «Briccola» (o «Brichola» o «Bricolla» o «Baicola») e «via cava» anche detta «via che va alla chiesa» (la chiesa di S. Giovanni, N.d.T; la via è l’attuale via Cavalotti), lungo la quale dovette crearsi un’alta concentrazione di strutture produttive, in quanto si contano circa 9 fornaci stimate con questo toponimo.

8 www.viconet.it. 9 ASCVP, Atti civili, Filza n. 183, cc. 985, 1578. 10 ASCVP, Atti civili, Filza n. 103, cc. 1110, 1578. 11 ASP, Fiumi e Fossi, Filza n. 2280. 12 ASP, Fiumi e Fossi, Filza n. 2283, Estimo 1579, S. Giovanni alla Vena. 13 ASP, Fiumi e Fossi, Filza n. 2605, Estimo 1622, S. Giovanni alla Vena. 14 ASP, Fiumi e Fossi, Filza n. 2606, Estimo 1622, S. Giovanni alla Vena. 15 ASP, Fiumi e Fossi, Filza n. 2607, Estimo 1622, S. Giovanni alla Vena.

– 161 – Dunque, già nel XVII secolo il borgo di S. Giovanni alla Vena appare caratterizzato da una fitta maglia di strutture produttive ceramiche che interessa tutto il suo territorio e che già all’epoca deve avere rappresentato una delle principali, se non la principale attività economica del centro. Un ulteriore documento datato 1602-160316, si inserisce nella ricostruzione della storia della produzione del XVII secolo, in quanto registra il nome di 22 artieri stovigliai attivi nel borgo. Il numero differisce da quello delle fornaci stimate solo venti anni dopo di due unità in più, notificando una lenta flessione produttiva, ma in ogni caso ragguardevole per il periodo. Dopo l’estimo del 1622 si ha una grossa lacuna fino alla seconda metà del XVIII secolo, che impedisce di comprendere l’entità dell’attività ceramica e il volume della produzione. Nell’ultimo documento disponibile, il Catasto Leopoldino (fig. 1), redatto tra il 1823 e il 1835 per volere del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo II, vengono stimate 13 fornaci (per le quali ora non viene più registrata la specializzazione), di cui 2 «derute». Nel documento si nota una diversa geografia degli insediamenti produttivi di XIX secolo: di tutte le strutture presenti nella “via cava” nel 1622, ora non ne rimane più alcuna. In generale, sembra che l’antica concentrazione di fornaci incontrata in epoca moderna nella parte ovest del borgo (luoghi detti “strada”, “Cevoli”, “Citarna”) sia adesso sensibilmente migrata verso est, in particolare lungo la via che dalla chiesa di S. Giovanni prosegue in via Briccola. In epoca più recente (XX secolo) le informazioni disponibili emergono dagli archivi privati delle imprese, dai quali si evincono dettagliatamente l’entità delle transazioni commerciali e i cataloghi dei manufatti prodotti.

2. EVIDENZE ARCHEOLOGICHE Le ricognizioni condotte ormai quasi un decennio fa nel centro storico ed effettuate sulla base del confronto tra le particelle del Catasto Leopoldino e le mappe catastali attuali, hanno rilevato la presenza di impianti produttivi ceramici in particelle corrispondenti a quelle rappre- sentate sul catasto ottocentesco (fig. 2). Questo significa che la maglia di dispersione delle fornaci non è mutata nel corso di quasi due secoli, anzi ha mantenuto un forte conservatorismo delle strutture, le quali hanno tutte preservato, anche se con inevitabili ristrutturazioni e modifiche rispetto all’impianto iniziale, la loro originaria ottocentesca vocazione produttiva. Allo stato attuale si conservano ancora totalmente in elevato solo due manifatture, la Fornace Bandecchi e la fornace di antica proprietà Berti, entrambe in via Briccola, e la Fornace Carmignani in vicolo dei Catini. Tra gli anni 2003-2009 sono state demolite 4 fornaci, 3 da ceramica e 1 da laterizi, per le quali è stato possibile, e non in tutti i casi, una documentazione di emergenza delle strutture mobili e immobili destinate irreversibilmente alla scomparsa. A tutt’oggi rimane tuttavia lacunoso lo stato di conoscenza delle produzioni ceramiche, sia da mensa (ingobbiate) che da cucina, in particolare della più antiche, in mancanza di adeguate indagini stratigrafiche del sottosuolo17. Si presenteranno di seguito brevi schede delle singole fornaci documentate.

16 ASCVP, Atti civili, Filza n. cc. 1176r, 1182v-1183-r, 1602-1603. 17 Attualmente gli unici reperti ceramici disponibili dal sottosuolo sono quelli provenienti dagli interventi di emergenza condotti nell’estate del 2003 da chi scrive (I.T.) presso il complesso della ex-Fornace Nesti e oggetto di Tesi di Laurea da parte della stessa (TROMBETTA 2004); altri materiali, sporadici, provengono dalla limitrofa Via Cavallotti n. 35 in occasione di sbancamenti nei terrazzamenti retrostanti una fornace dismessa, in MILANESE, TAMPONE 2004. Per una discussione preliminare sulle classi ceramiche prodotte si rimanda a MILANESE, TAMPONE TROMBETTA 2004.

– 162 – Ex-Fornace Nesti18 Il complesso manifatturiero della ex-Fornace Nesti, costituito da 11 corpi di fabbrica progressivamente aggiuntisi al nucleo originario, risultava completamente conservato in ele- vato fino all’estate del 2003. La sua repentina demolizione e riconversione in unità abitative ha richiesto una puntuale documentazione preventiva e di emergenza dell’intera struttura, in particolare delle numerose installazioni fisse e mobili dalle quali, tramite l’incrocio con le fonti orali, è stato possibile ricostruire l’intero ciclo produttivo. Questo, ancorato ad un forte tradizionalismo, è stato, agli inizi del XX secolo, progressivamente automatizzato con l’inserimento di macchinari che consentissero la transizione ad un modello di produzione semi-industriale (fig. 3). I manufatti, tuttavia, hanno continuato ad essere cotti nel tipico forno in laterizi su tre livelli e a tiraggio verticale, fino all’introduzione negli ultimi decenni di attività di piccoli forni elettrici industriali. La fornace, di proprietà Nesti dall’inizi del XX secolo, ha operato fino agli anni’80, quando l’esigua entità di una produzione già in evidente flessione dalla seconda metà del secolo scorso, ha costretto l’ultimo ceramista della famiglia a trasferirsi in una bottega più piccola. Le indagini di emergenza hanno, inoltre, fornito l’occasione per l’esecuzione di alcuni saggi nel sottosuolo (per lo più recuperi, essendo stata la stratigrafia pesantemente intaccata dal passaggio delle ruspe), consentendo la raccolta di una notevole quantità di scarti di produzione, prevalente- mente risalenti al XIX secolo, che ben documentano le caratteristiche di una produzione ceramica (vasellame funzionale, di cui in minima parte da mensa) imperniata sulla tecnologia dell’ingobbio. La produzione del XX secolo vede una prevalente diffusione dei polifunzionali catini schizzati in verde, di vasi da fiori e di alcuni oggetti artistici (ceramica da mensa e giocattoli miniaturistici). I manufatti più antichi, molto sporadici, rimandano, invece, a prodotti ingobbiati (graffite a punta e a stecca) che ben si adeguano alla koinè produttiva basso valdarnese della seconda metà del XVI, epoca a cui può essere fatto risalire l’originario impianto della fabbrica. Dal punto di vista documentario, la presenza della fornace è registrata nel Catasto Leopol- dino sotto la proprietà della famiglia Berti, la quale risulta possedere ben 4 fornaci all’interno dello stesso isolato (attuale Corte Stradiotti); almeno 2 dei 4 forni sono stati silenziosamente demoliti circa un decennio fa, senza lasciare traccia materiale della loro esistenza, per ottenerne una villetta. Risulta, invece, difficoltoso il reperimento della fabbrica negli Estimi precedenti a causa dei cambi di proprietà e dell’incerta localizzazione dei toponimi. Può essere però riferita con un certo margine di dubbio alla fornace in località “al poggio” di proprietà Batini nell’Estimo del 1682, poi passata a Santi di Tommaso di Santi Ficchi nel 1733 e venduta nel 1746 a due componenti di una famiglia Berti. Attualmente sulle fondazioni della manifattura sorge un complesso abitativo che richiama intenzionalmente le forme esteriori dell’antico edificio, ma prive di ogni significato storico. (I.T.) Fornace Bandecchi La Fornace Bandecchi è ubicata in località San Giovanni alla Vena (Vicopisano, Pisa), in via Briccola, nella zona sud-occidentale del centro storico. Tale zona era designata col toponimo “Sopravvigna” già presente nel Catasto Leopoldino19.

18 Lo studio del complesso produttivo sia dal punto di vista delle strutture in elevato che dei materiali rinve- nuti durante gli sbancamenti effettuati nell’estate del 2003 durante i lavori di demolizione dell’impianto sono stati oggetto della Tesi di Laurea di chi scrive (I.T.). 19 Il toponimo é indicato sul Foglio 4 del Catasto Leopoldino, mappe di Vicopisano, sez. I (Archivio di Stato di Pisa), commentato in TAMPONE 2003, pp. 21-22. Le mappe d’impianto di tale Catasto risalgono agli anni 1822-1835.

– 163 – Le fonti scritte informano che il terreno, sul quale sarebbe stata innalzata la fornace, fu acquistato dalla famiglia Bandecchi nel 1865 e che il nucleo più antico della fabbrica fu edifi- cato già nel 1866. Dopo circa un secolo di gestione da parte della stessa famiglia di fornaciai, la struttura produttiva fu chiusa definitivamente nel 1972. La fortuna della fornace fu dovuta a diversi fattori, validi anche per le altre fornaci di S. Giovanni, e cioè: ampia disponibilità di materie prime (argilla, combustibile) e basso costo del loro trasporto, vicinanza alle maggiori vie di comunicazione per l’accesso ai mercati (Arno, canali e navicelli, porto di Livorno, via Regia/Vicarese). La fornace in oggetto è un unicum a S. Giovanni in quanto il suo studio, nell’insieme, ha permesso di ripercorrere tutte le fasi del ciclo produttivo dei catini maculati verdi, la cui produzione fu parte integrante della storia di San Giovanni alla Vena dalla metà dell’XIX sec. fino agli anni ’60/’70 ca. del XX sec. (fig. 4). L’ex-complesso produttivo si presentava al momento delle indagini in un buono stato di conservazione, anche se mancavano diversi macchinari, scaffali e altri utensili, smantellati dopo la chiusura. Le sue strutture murarie erano tutte conservate in elevato e presenti sia il tetto che i solai. Nella parte orientale della struttura fu costruita l’abitazione dove risiedeva il fornaciaio. Negli ambienti erano collocate importanti testimonianze archeologiche relative alla produzione sia dei catini maculati che di vasi da fiori, nella realizzazione dei quali la fornace si era altamente specializzata. La fornace fu costruita su tre livelli, con un piano terra rialzato e due piani superiori. Le murature sono state realizzate con una tecnica mista: laterizi, pietre sbozzate in calcare bianco locale e pietre non lavorate di grandi e medie dimensioni. Nei paramenti murari sono inclusi, in maniera sporadica, anche materiali di recupero come mattoni frammentari e frammenti di scarti di seconda cottura di catini. I pavimenti furono realizzati in mattoni, in alcuni casi, ricoperti di uno strato di cemento. La tipologia della fornace è quella di una doppia struttura a tiraggio verticale su più livelli, con due camere di cottura sovrapposte alla camera di combustione. All’interno sono presenti due forni (denominati “forno 1” e “forno 2”), che erano in funzione a settimane alterne e indipendentemente l’uno dall’altro. È molto probabile che i forni siano stati messi in opera da maestranze specializzate, in stretta collaborazione con il ceramista, il quale si preoccupava di conservare le centine lignee20 usate per le volte delle camere di combustione, per effettuare in seguito le riparazioni. Ogni forno presenta due camere di cottura: quella più in alto, denominata “fornaciotto” dalle fonti orali, era utilizzata per i manufatti di prima cottura. Il forno, costruito all’interno di un ambiente coperto, era del tipo “a combustione intermittente” e il calore, durante la cottura, risaliva naturalmente verso gli essiccatoi ubicati al secondo ed ultimo piano. Confronti con coeve fornaci dotate di struttura a tiraggio verticale su più livelli sono noti, oltre che a San Giovanni alla Vena21, anche ad Albisola22 (SV), Castelfranco Emilia23, (Vicopisano). La produzione della fornace comprendeva soprattutto catini maculati verdi e vasi da fiori privi di rivestimento, oltre ad una produzione minore consistente in bracieri, “caldani” (cioè scaldini), ciotole da mangime per animali da cortile e, solo occasionalmente e per uso del

20 Le centine sono tuttora conservate all’interno della fornace (N. inv. 12, TAMPONE 2003, p. 119). 21 Fornace Carmignani in vicolo dei Catini; ex-fornace Nesti. 22 Si veda VENTURINO 1996: le fasi tardo-ottocentesche di una fornace ubicata ad Albisola Capo (SV) presen- tano una struttura con tre camere di cottura sovrapposte. Da notare l’analogia fra il “terraro” di questo impianto e il “terraio” della Bandecchi. 23 Fornace di tardo XVIII-XIX sec. con due camere di cottura sovrapposte e spazi appositi per la preparazione dell’argilla, per la foggiatura e per l’essiccazione dei manufatti (GELICHI, LIBRENTI 1995).

– 164 – proprietario, mattoni. Si trattava di prodotti seriali, in vasti quantitativi e con caratteristiche di elevata standardizzazione. Per quanto riguarda la manodopera, dalle fonti orali si desume che vi lavoravano circa 30 persone, tra cui numerose donne: il proprietario-fornaciaio, due addetti alla pestatura, sei addetti alle fasi di cottura, due addetti alla foggiatura a stampo, uno/due tornianti, due addetti alla preparazione dell’ossido di piombo e numerose decoratrici. Per quanto riguarda il ciclo di produzione dei catini maculati e dei vasi da fiori, sono stati individuati tre tipi di foggiatura in base ad un criterio tecnologico. Il primo tipo era quello più tradizionale ovvero la foggiatura a mano mediante l’uso del tornio, eventualmente con l’ausilio di un motore meccanico per la rotazione del disco. Accanto alle tradizioni artigianali più con- servatrici, i proprietari di fornaci di S. Giovanni si adeguarono alle innovazioni tecnologiche adottando nuovi macchinari. Il secondo tipo era quello semi-industriale (o semi-automatico) e prevedeva la foggiatura a stampo mediante uso del tornio a ghigliottina, stampi di gesso e calibri. Il terzo tipo era industriale con foggiatura mediante pressa. Il tipo 1 è attestato in questa fornace solo dalle fonti orali. Nelle fasi più antiche (fine XIX- inizi XX sec.) era utilizzato per foggiare tutti i prodotti. Nelle fasi più recenti (indicativamente dagli anni ’20/’30 del XX sec.) fino alla chiusura della struttura era utilizzato solo per le produzioni minori (bracieri e scaldini) e talvolta per le “catinelle”, ovvero catini di piccole dimensioni. Il tipo 2 è attestato sia dalle evidenze archeologiche che dalle fonti orali ed è il metodo di cui si hanno maggiori testimonianze. Era utilizzato nelle fasi più recenti, indicativamente dagli anni ’10/’30 ca. fino agli anni ’50/’60 ca. del XX sec., per produrre sia catini maculati che vasi da fiori. Il tipo 2, che contribuì ad un notevole aumento della produzione, si affermò grazie alla velocità di esecuzione ed alla maggiore standardizzazione dei prodotti. La foggiatura mediante stampi è stata utilizzata per un periodo abbastanza lungo, in buona parte coincidente con il boom della produzione dei catini maculati verdi a S. Giovanni. Il tipo 3 è attestato dalle fonti orali in quanto la pressa è stata rimossa24. Fu utilizzata dal 1955 ca. al 1972 per realizzare solo i vasi da fiori. In un documento25 del 1857 è emerso uno dei riferimenti più antichi ai catini di S. Giovanni: Antonio Berti del fu Ranieri, possidente e forna- ciaio domiciliato a San Giovanni alla Vena, concedeva in affitto «una fornace da catini» a Pietro Bandecchi, ovvero «una fabbrica ad uso di fornace da cuocervi il vasellame posta nel popolo di San Giovanni alla Vena in luogo detto Sopra a Vigna, con tre stanze annesse a terreno, che due grandi e una piccola, e forno». Pur non riferendosi alla fornace Bandecchi si è ritenuto opportuno citare questa fonte perché nell’articolo 5 del contratto di locazione sono minuziosamente elencati gli utensili per la produzione dei catini: «il locatore consegnerà al conduttore numero ottocento seggioli per uso dei catini, due forche di ferro, ed un raggio parimente di ferro, numero trentasei tavole per asciugare il lavoro di lunghezza braccia quattro, due conche per vernici, due marre, che una per il piombo, ed altra per levare la brace, ed una vanga per levare la mota». La specializzazione produttiva della Fornace Berti è stata espressamente dichiarata in questo documento. Al fornaciao furono consegnati ben 800 seggioli, cioè distanziatori di cottura in terracotta, 36 tavole di legno per essiccare i manufatti e 2 marre. La marra era un attrezzo di ferro utilizzato per mescolare il piombo all’interno del forno fusorio oppure per liberare la camera di combustione dalla brace, in modo da alimentare il fuoco con altro combustibile. Le “conche” per le vernici devono probabilmente essere identificate con le vasche dove venivano macinati gli ossidi, insieme ad acqua e silice. (L.T.)

24 Nell’Ambiente 1 è stato rinvenuto un vaso da fiori (con difetti di cottura) foggiato con la pressa. Secondo la fonte orale si tratta di un prodotto di questa fornace (TAMPONE 2003, p. 141). 25 Si tratta di un contratto di locazione inedito (Archivio privato Bandecchi) (TAMPONE 2003, pp. 70-71, 242-244). È la più antica citazione di “catini” riscontrata finora nei documenti. Ciò non esclude, ovviamente, che possano esser presenti documenti ancora più antichi con riferimenti ai catini.

– 165 – 3. DISTRUZIONE DI FORNACI, DISTRUZIONE DELLA STORIA DELL’IDENTITÀ Nel più vasto quadro di quella che chi scrive ha definito (2004, 2006) «koinè ceramica valdarnese», intendendo con questa definizione un ampio comprensorio ubicato nel medio e nel basso Valdarno (fig. 5), caratterizzato tra la metà del XVI ed il XVII secolo dal medesimo linguaggio tecnologico, morfologico e decorativo, improntati al monolinguismo dell’ingobbio, San Giovanni alla Vena rappresenta uno dei centri di produzione ceramica di maggior interesse, per la sua plurisecolare ed ininterrotta continuità dal Medioevo (è del 1384 la citazione più antica nota a chi scrive di un vasaio di San Giovanni26) ad oggi. I limiti di spazio di questo intervento impediscono di evidenziare in modo ancora più chiaro la gravità delle vicende che hanno interessato le testimonianze archeologiche della produzione ceramica a San Giovanni alla Vena nell’ultimo decennio, con la distruzione delle principali fornaci storiche del borgo (fig. 6) e della memoria stessa di quella che è stata l’identità della popolazione di San Giovanni per secoli ed in modo evidente nel XIX e nel XX secolo. Tuttavia, oltre alla perdita della fornace visibile (il manufatto nel tempo più vicino a noi) che sicuramente avviene, queste distruzioni determinano spesso anche la perdita dei resti di impianti molto più antichi, precedenti a quello giunto fino a noi. Le attività produttive erano caratterizzate dal conservatorismo dei luoghi e quindi giudicando “recente” e non interessante l’ultimo anello della catena, si perdono in genere resti più antichi obliterati dalle ultime fasi dell’impianto ed un numero incalcolabile di scarti e resti materiali della produzione (fig. 7). Il notevole potenziale informativo delle numerose fornaci storiche ancora sopravvissute qui fino a pochi anni fa, si è scontrato con il sostanziale disinteresse degli Enti di tutela del patrimonio e di quelli con competenze territoriali: l’adesione, manifestata dall’Amministrazione locale, alle istanze di pianificazione della salvaguardia e della documentazione, si è rivelata purtroppo incapace di rinnegare con decisione la dissennata linea urbanistica seguita negli anni recenti e meno recenti, di fronte agli interessi dei privati volti alla radicale demolizione della maggior parte delle fornaci storiche di San Giovanni alla Vena, per realizzare operazioni di edilizia residenziale nelle aree ‘liberate’ dalle strutture produttive storiche. Distruzioni non meno gravi sono quelle che avvengono in occasione di ristrutturazioni operate senza una valutazione dell’interesse storico degli immobili, com’è avvenuto a San Giovanni alla Vena, in via Cavallotti, dove la mistificazione strutturale di un immobile storico (dalle sembianze di una normale abitazione) prodotta da un recente intervento di restauro ha consentito invece, in sintonia con quanto era emerso dalla ricerca archivistica che vi indicava la presenza di una fornace, di documentare in condizioni di emergenza enormi discariche di scarti produttivi, distrutte quasi per intero dai lavori, ma lette stratigraficamente nei momenti salienti da un intervento di campionatura27, dal quale è emerso il fondo di una forma aperta graffita a punta policroma, recante la data “1634”, graffita alla produzione (fig. 8). (M.M.)

BIBLIOGRAFIA

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26 TONGIORGI 1979 a, p. 19. 27 MILANESE, TAMPONE 2003, pp. 289-290.

– 166 – MILANESE M. 2006, Da Pisa a Montelupo: aspetti e problemi della produzione ceramica nel Basso Valdarno (XV-XIX secolo), tra monolinguismo dell’ingobbio e serialità tipologica, in I maestri dell’argilla, a cura di M. Baldassarri, G. Ciampoltrini, Pisa, pp. 89-103 e tav. VIII a-c. MILANESE M, TAMPONE L., TROMBETTA I. 2004, San Giovanni alla Vena (Vicopisano). Ricerche sulla produzione ceramica postmedievale di un centro di produzione nel Basso Valdarno, «Archeologia Postmedievale», 8, pp. 43-83. MILANESE M., TAMPONE L. 2003, Vicopisano, San Giovanni alla Vena, via Cavallotti 35, «Archeologia Postmedievale», 7, pp. 289-290. TAMPONE L. 2003, Archeologia della produzione ceramica postmedievale toscana: il caso della Fornace Bandecchi a San Giovanni alla Vena (Vicopisano, Pisa), Tesi di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Pisa, relatore Prof. M. Milanese, a.a. 2002-2003. TONGIORGI L. 1979a, Pisa nella storia della ceramica .III, «Faenza», LXV, 1, pp. 17-32. TONGIORGI L. 1979b Pisa nella storia della ceramica .III, «Faenza», LXV, 2 pp. 51-65. TROMBETTA I. 2004, La Fornace Nesti a San Giovanni alla Vena. La dispersione del patrimonio archeologico locale tra archeologia della produzione e archeologia di emergenza, Tesi di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Pisa, relatore Prof. M. Milanese, a.a. 2003-2004. TROMBETTA I. 2009, La produzione di ceramica ingobbiata in Toscana. Per una caratterizzazione dei centri produttivi attivi tra XVI e XIX nel Valdarno Inferiore, Tesi di Dottorato in Archeologia Medievale, Università degli Studi dell’Aquila, discussa in data 11 maggio 2009.

fig. 1 – Foglio del Catasto Leo- poldino con la localizzazione delle fornaci da ceramica registrate (anni 1823-1835).

– 167 – fig. 2 – Evidenze archeologiche dell’attività ceramica a San Giovanni alla Vena (situazione aggiornata al 2003).

figg. 3-4 – 3. Vasche per la macinazione di piombo e colori con l’applicazione di un motore per una lavorazione semi-industriale delle materie prime; 4. Fornace Bandecchi. Stampi in gesso all’interno dell’Ambiente 8.

– 168 – fig. 5 – I principali centri di produzione della ceramica ingobbiata nel Basso e Medio Valdarno tra XVI e XVII secolo.

fig. 6 – La fornace demolita a San Giovanni alla Vena nel luglio 2005. L’impianto, in buone condizioni di conservazione, era stato chiuso nel 1951.

– 169 – fig. 7 – Forme aperte di graffita a stecca, impilate e fuse con i treppiedi distanziatori.

fig. 8 – Fondo di forma aperta graffita policroma, datata alla produzione “1634” (area ex Fornace Batini, via Cavallotti).

– 170 –