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Sommario

1. Copertina 2. Frontespizio 3. La lingua di Trump 4. Smaltire la sbornia 5. Osare tradurre Trump 6. L’intervista che uccide 7. La portata della sberla 8. E che cazzo 9. La verità se mento 10. Melania 11. Cip cip 12. Distopia 13. Il punto Godwin 14. I nemici del popolo 15. Leggo dei pezzi 16. Una cima? 17. La bufala cinese 18. Io, divertente e cattivo 19. E Dio in tutto questo 20. Quello che lui non dice 21. Per chiudere con 22. Ringraziament 23. Il libro 24. L’autrice 25. Copyright

1. Copertina 2. Frontespizio 3. La lingua di Trump 4. Inizio del libro 5. Copyright Bérengère Viennot

La lingua di Trump

Traduzione di Stefania Ricciardi

È una grande miseria non avere l’arguzia necessaria per parlare bene, né il giudizio necessario per tacere. JEAN DE LA BRUYÈRE

I know the best words. DONALD J. TRUMP La lingua di Trump

A Bonnie e Joshua Smaltire la sbornia Per i milioni di americani che, prima del novembre 2016, non avevano creduto un solo istante che un miliardario narcisista, sessista, razzista e incolto potesse accedere al potere supremo e sedere dietro la stessa scrivania di George Washington, Abraham Lincoln o Theodore Roosevelt, è la sbornia piú lunga da smaltire nella storia dell’umanità. Negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, per molti è stato un colpo psicologico di una violenza inattesa. Traduttrice per la stampa, l’8 novembre 2016 mi ero preparata a fare le ore piccole nel caso di un’ultima traduzione preelettorale prima della pubblicazione dei risultati, prevista di buonora. Sebbene il dubbio si fosse insinuato nelle poche settimane che precedevano il giorno X, ero piuttosto fiduciosa: l’elezione di Trump era inconcepibile. Non perché non ne avesse la stoffa o perché non lo desiderassi io, non solo perché l’idea di una donna presidente degli Stati Uniti subito dopo un presidente nero mi allettasse parecchio, ma semplicemente perché il concetto era totalmente, assolutamente, decisamente ridicolo. Alle due del mattino, quando sono andata a letto, due Stati avevano pubblicato i primi risultati: il Kentucky registrava il 72,7 per cento di voti in favore di Donald Trump e l’Indiana il 69,3 per cento. Mi sono detta okay, l’Indiana è una roccaforte repubblicana da lunga data e il Kentucky tende a destra dall’inizio del 2000, ma l’esito della lotta è per forza di cose scontato, non c’è partita. Buonanotte. Il risveglio è stato amaro. Per la traduttrice che sono, si è trattato di un evento sconvolgente. Sul piano personale, perché ho difficoltà ad apprezzare il personaggio (e ancora di piú a nasconderlo, come si vedrà) e perché m’interesso abbastanza di politica internazionale per intravedere il potenziale catastrofico della sua ascesa al potere. Sul piano professionale, perché mi ha costretta con una violenza improvvisa a rivedere il mio modo di lavorare e mi ha brutalmente espulsa dalla zona di comfort nella quale mi crogiolavo beata dopo l’elezione di Barack Obama nel novembre 2008, senza peraltro che questo sconvolgimento apportasse il minimo beneficio alla mia attività. Perché, specchio fedele di questa strana presidenza venuta dal mondo di un reality televisivo, dell’ostentazione assoluta e dell’egotismo forsennato, la lingua di Trump, materia prima del mio lavoro, si è rivelata appartenere a un universo a parte, al contempo causa ed effetto dell’avvento di una nuova America. Osare tradurre Trump Il mio lavoro di traduttrice mi porta a esplorare il paesaggio dell’attualità internazionale e, in funzione delle commissioni dei miei clienti, mi induce a tradurre ogni sorta di testo generato dai colpi di scena politici che scuotono il pianeta dall’inizio del 2000. È un’attività appassionante quanto poco redditizia, che mi colloca nella categoria delle «persone con una vocazione». Quasi degli artisti. Quelli che amano talmente ciò che fanno da finire per accettare la trasparenza e l’ingratitudine sociale e finanziaria connesse alla loro attività. La traduttrice (ci sono uomini che fanno questo lavoro, lo so, ma devono solo scrivere un libro) è invisibile per natura. La sua funzione consiste nel trasporre un messaggio da una lingua (a caso: l’inglese) a un’altra (diciamo il francese). E qui, un pensiero commosso per i traduttori che dovranno tradurre questo libro in uzbeko, serbo-croato o nahuatl. So bene che esistete. A differenza di alcuni preconcetti che tutti i miei colleghi devono affrontare nel corso della loro carriera, la traduzione non si riassume nel tradurre delle parole, e non è accessibile a tutti. Non basta parlare due lingue per saper tradurre, né avere un buon dizionario, né eccellere nei corsi di traduzione universitaria da una lingua all’altra e viceversa, né conoscere molto bene il figlio della signora che fa le pulizie al British Council. Tradurre è far passare un messaggio da una lingua a un’altra. Il che necessita diverse tappe nessuna delle quali è superflua. Innanzitutto, bisogna comprendere il testo originale. Sembra una limpida evidenza? Eppure non è cosí semplice: per comprendere un testo o un discorso non basta conoscere ognuna delle parole che lo compongono. Un testo è molto piú della somma dei suoi elementi semantici. (D’altronde, il tostapane che tamburella l’allettante vongola non sminuirà le ossa della bicicletta di mia zia. Pur conoscendo tutte le parole di questa frase, il senso vi sfugge. Rassicuratevi: anche a me. Parole, parole, parole…) Perché un testo esista, deve avere innanzitutto un senso, un referente, un messaggio da trasmettere. Altrimenti si tratta solo di un elenco di parole – peraltro del tutto traducibili, ma di dubbio interesse semantico (con una speciale dispensa per Prévert). Tradurre un elenco può rivelarsi utile nell’ambito tecnico, nella descrizione degli elementi di un attrezzo o per stilare inventari. Nel contesto della traduzione politica, quella che qui ci interessa, ci si sforza di restituire un discorso umano coerente che porti un messaggio destinato a essere trasmesso. Altra condizione necessaria per tradurre un testo o un discorso è conoscere a sufficienza la lingua dell’autore, la sua cultura, il suo percorso, insomma, sapere chi è e possedere un bagaglio il piú esaustivo possibile sul locutore. Perché? Per via di un concetto che la comunità dei traduttori ha elevato allo statuto di parola magica, senza il quale non siamo nulla: il contesto. Allo stesso titolo per cui una persona è influenzata e forgiata dall’ambiente in cui vive, una parola, una frase, un intero discorso hanno senso solo in relazione al loro contesto. Perché a seconda se sarà pronunciata da un miliardario americano assurto alla massima carica o, per dire, da un professore di educazione fisica o dal vostro fisioterapista, la stessa frase ricoprirà un senso completamente diverso. Tradurre è ambire a suscitare nella propria lingua (perché il buon traduttore lavora verso la sua lingua madre) le sensazioni intellettuali e affettive provate da chi ha letto l’originale. Le due culture, quella della lingua di partenza e quella della lingua di arrivo, sono per forza di cose diverse. La stessa parola non riflette sempre le stesse realtà da una lingua all’altra, anche quando sembra di una semplicità totale e priva di ogni ambiguità. (Esempio: dite fromage a un francese: immaginerà un camembert, o magari un comté. Il concetto assume quindi una familiarità quotidiana, profondamente ancorata nella sua storia. Dite cheese a un americano: vedrà un alimento industriale avvolto nel cellophane che non susciterà né le stesse sensazioni, né la stessa immagine, quanto all’odore, neanche a parlarne. Funziona con pomodoro/tomato in un confronto Italia-Inghilterra, per dire, ma anche con esempi che non riguardano gli alimenti: «università», una parola facile da tradurre, si dice university in Gran Bretagna, college negli Stati Uniti, ma implica realtà ben diverse, e cosí via). Eppure Gran Bretagna, college negli Stati Uniti, ma implica realtà ben diverse, e cosí via). Eppure

il piú delle volte è possibile trovare equivalenze di senso che superano la forma e l’apparenza delle parole. Questo lavoro di riformulazione ambisce a restituire il messaggio nel modo piú fedele possibile, tenendo conto di tutti gli elementi che ho appena enunciato. Questo è il lavoro di una traduttrice…

Prendiamo un esempio. Il 14 luglio 2017 Donald Trump, di passaggio a Parigi in occasione della festa nazionale francese, ha incontrato la première dame di Francia, Brigitte Macron, e ha esclamato: «You’re in such good shape!». Dopodiché si è voltato verso il presidente francese e ha ripetuto: «She’s in such good physical shape!». Infine, si è voltato ancora verso la signora Macron e ha concluso con un magistrale: «Beautiful». «You’re in such good shape» può significare «Lei è in splendida forma!», come tradotto da molti media francofoni. Parola per parola, è pressappoco questo. E in effetti è cosí che si potrebbe tradurre, se queste parole fossero dette da qualcun altro, in un altro contesto: un fisioterapista al suo paziente, un professore di educazione fisica al suo alunno, un genero alla suocera – insomma, le possibilità non mancano. In questo caso, però, non bisogna tradurre «You’re in such good shape» con «Lei è in forma». Perché, quando si considerano il contesto, il momento e la personalità del locutore, vale a dire un uomo apertamente sessista, che si vanta di «prendere le donne per la fica», e le disprezza al punto da insinuare che una giornalista possa essergli ostile perché ha il ciclo, un uomo capace di denigrare una rivale all’investitura repubblicana perché la trova brutta 1 , un uomo che ha preteso da sua moglie che ritrovasse il corpo che aveva prima della gravidanza e gliel’ha posta come condizione per accettare di fare un figlio, insomma, quando si conosce l’uomo e il suo machismo cronico, si è obbligati a tenerne conto e ogni traduzione letterale diventa impossibile. Altro parametro imprescindibile: la persona a cui si rivolge il presidente americano. Trump non fa mistero di preferire le donne giovani e belle, tanto da arrivare a dichiarare che se non fosse sua figlia, uscirebbe con lei (sí, che schifo). Fa parte di quegli uomini (e di quelle donne) secondo cui una donna può essere bella solo finché è giovane. Oltre una certa data, si guasta, diventa invisibile e non rientra piú nella categoria delle donne desiderabili. Ora, la signora Macron aveva già superato la sessantina quando ha suscitato l’ammirazione esterrefatta di Donald Trump. Una vecchia signora che somiglia comunque a una donna: è pazzesco! La cosa ha dovuto scalfire una certezza peraltro ben radicata nella testa del presidente americano (e tutto porta a credere che non sia molto il tipo da ripensamenti). Cosí, considerando al contempo chi parla e l’oggetto del suo discorso, quel «You’re in such good shape» può essere tradotto con «Come si mantiene bene!» o «Ma lei è ancora niente male!», o qualcosa di simile. Per quanto possa sembrare scioccante, è tuttavia l’unico modo per essere fedele sia al messaggio esplicito sia a quello implicito nascosto dietro un’espressione che forse, ai suoi occhi, era un complimento, ma che in realtà è un’autentica villania. È quindi necessario avere una buona conoscenza del contesto per tradurre bene in generale, e per tradurre bene Donald Trump in particolare. Ma non basta! Bisogna anche osare tradurlo! Cosa non sempre facile per chi è portato a farlo senza che sia la sua professione (un esempio a caso: i giornalisti), e se spesso si è perfettamente capaci di restituire nella propria lingua dei testi, degli estratti o delle dichiarazioni semplici, si inciampa facilmente quando il livello di difficoltà aumenta, come in questo caso. Ancora una volta, non per particolari difficoltà lessicali o sintattiche, ma perché la traduzione richiede quello che si definisce una «deverbalizzazione», una sorta di disincarnazione del messaggio, la resa in un’altra lingua che deve integrarsi con un adattamento culturale 2 . Un altro esempio di questa difficoltà risulta evidente da un’intervista a Donald Trump: in una delle crisi di xenofobia in cui è insuperabile, il presidente americano ha spiegato nel corso di una riunione allo studio ovale che ne aveva fin sopra i capelli di vedere arrivare migranti da «shithole countries». Si riferiva ai paesi africani, ad Haiti e al Salvador. «Why are we having all these people from shithole countries come here?» ha chiesto, prima di are we having all these people from shithole countries come here?» ha chiesto, prima di

aggiungere che avrebbe preferito che gli Stati Uniti privilegiassero i migranti di paesi come la Norvegia. «Perché lasciamo entrare qui tutta questa gente che viene da paesi di merda?» Se il senso dell’osservazione non ha costituito un problema per nessuno, la traduzione del termine «shithole» da parte dei media è variata non poco. Il quotidiano «Libération», il 12 gennaio 2018, ha scelto il termine «topaia», per esempio 3 . Il che sembra un po’ debole rispetto a «paesi di merda» («Le Monde»), «paesi di cessi» (i media greci, secondo l’Afp) e «paises de mierda» della stampa spagnola. Osare tradurre Donald Trump non è semplice come lascerebbero intendere la povertà e, a volte, la trivialità del suo vocabolario. Per i traduttori abituati a lavorare sui discorsi fluidi e sintatticamente impeccabili del suo predecessore, il discorso di Trump si è subito rivelato problematico. Ed è davvero paradossale, perché quando si legge o si ascolta Donald Trump, anche quando non si è molto bravi in inglese, si ha l’impressione di capire tutto. Il vocabolario è semplicissimo, le frasi spesso brevi – per non dire frammentarie –, e la sintassi, già: come descrivere la sintassi? Be’, quella dipende dai giorni. Ma diciamo che, in un contesto tradizionale, come per esempio un discorso in campagna elettorale o un’intervista, la sintassi di Donald Trump alterna semplicità estrema e assurdità totale.

Non sostengo che per ogni testo, dichiarazione o discorso esista una sola traduzione valida. Ci sono svariati modi di dire bene la stessa cosa e di restare fedeli all’originale. In compenso, per restituirlo, è importante tenere conto del contesto e del registro della lingua e rispettare i codici in vigore. Il che non presenta difficoltà particolari una volta presa l’abitudine e dopo anni di pratica. Quando Donald Trump è apparso sulla scena politico-internazionale, per i professionisti incaricati di tradurre le sue frasi è stato necessario un periodo di adattamento. Quest’uomo che si rivendica antisistema ha in realtà rotto tutti i codici politici in vigore fino ad allora: con la sua elezione, da un punto di vista socio-comunitario, morale e sul piano della comunicazione, l’America ha cambiato universo. Costretto ad adattarsi, il piccolo mondo della traduzione ha dovuto trovare a sua volta un nuovo spazio di lavoro.

1. «Guardate la faccia che ha. Chi potrebbe mai votare per una cosí? Come si fa a immaginare una cosa simile, il nostro prossimo presidente con una faccia cosí?» ha detto di Carly Fiorina, repubblicana in lizza per l’investitura presidenziale (Paul Solotaroff, Trump Seriously. On the Trail With the GOP’s Tough Guy, in «RollingStone», 9 settembre 2015). 2. Sia chiaro che mi riferisco alla traduzione per la stampa e dell’attualità. Esiste una folla di specialisti nel campo della traduzione, e le regole che si applicano alla traduzione dell’attualità e del discorso politico non sono necessariamente valide in altri campi, come la traduzione tecnica, letteraria o giuridica. 3. Donald Trump : «Pourquoi est-ce que toutes les personnes issues de trous à rats viennent ici?», in «Libération», 12 gennaio 2018. L’intervista che uccide Come si sente dire nelle salumerie e nelle panetterie (è un po’ di piú, lo lascio?), agli insegnanti (non faccio mica lezione per me, sai cosa me ne importa, io il diploma ce l’ho) e agli attori premiati (vorrei ringraziare innanzitutto mia mamma), per forma e contenuto, le donne e gli uomini politici occidentali strutturano un discorso rispettando certi codici, per non dire certi cliché. Esistono taciti criteri osservati da tutti nel rispetto della personalità e del colore politico di ciascuno. Tutti i politici vogliono in primo luogo essere capiti: la forma del loro discorso è uno strumento di persuasione importante almeno quanto il contenuto. In periodo elettorale, cercano di consolidare la base e di convincere il maggior numero di indecisi. Tenendo a presentarsi sotto la luce migliore, badano a essere garbati e a rispettare i codici della vita sociale; quegli stessi che inducono a dire buongiorno a una signora, a non far notare a un vecchio che ha l’alito cattivo o a non bollare pubblicamente i piú deboli. Per una donna o per un uomo politico, significa adottare un atteggiamento cortese ed educato, anche nel registro linguistico. Saper parlare in pubblico è essenziale per dare un’immagine di credibilità e serietà, senza per questo privarsi ogni tanto di una battuta ben calibrata nell’intento (calcolato) di «umanizzare» il locutore. Quando frequentavo la scuola di traduzione, un professore ci aveva raccontato un aneddoto per illustrare l’importanza della funzione dell’interprete e la necessità di adattarsi al registro della lingua di partenza. Negli anni Ottanta, Georges Marchais, allora segretario generale del partito comunista francese, effettuava frequenti viaggi in Urss, dove aveva molte occasioni di prendere la parola. Non parlando russo, beneficiava dei servizi di un interprete. Ora, l’interprete in questione parlava una lingua castigata e impiegava un registro cosí forbito che il politico francese godeva in quella terra di una fama di eccellente oratore. Che era lontana, molto lontana, dal riflettere la realtà del personaggio e l’immagine che in Francia suscitava in chi lo ascoltava in versione originale. Non ho mai saputo se questo aneddoto fosse vero, però mi ha segnato al punto da tornarmi in mente vent’anni dopo, all’improvviso, quando mi sono trovata a tradurre un discorso di Donald Trump. Perché il registro che il traduttore sceglie per tradurre un discorso dà una prima indicazione sul contenuto globale del messaggio. In tal senso esistono anche norme, altrettanto tacite, sottoscritte dalla maggior parte dei politici. Negli Stati Uniti, per esempio, la consuetudine vuole che il vincitore delle elezioni presidenziali tenda la mano al suo predecessore e ne riconosca, anche laconicamente, i meriti durante il discorso d’investitura a Washington. «Ringrazio il presidente Bush per i servizi resi alla nazione» (Obama, 2009), «Ringrazio il presidente Clinton per i servizi resi alla nazione, il vicepresidente Gore per una lotta intrapresa con coraggio e a cui ha posto fine con signorilità» (George W. Bush, 2000), «A nome della nazione, saluto il mio predecessore, il presidente Bush, per il suo mezzo secolo di servizi resi all’America» (Bill Clinton, 1993). Inutile risalire fino a John Adams per capire che la consuetudine impone al nuovo presidente di ringraziare il suo predecessore per i servizi resi al paese, prima di passare alle cose serie. Trump, da parte sua, se ne è dispensato, e si è limitato a ringraziare Obama per l’aiuto durante il periodo della transizione dei poteri (in altri termini, l’ha ringraziato a titolo personale, quando aveva perfino rifiutato di ricevere e di leggere le note quotidiane dei servizi di informazione per l’intera durata della transizione. Eppure Obama l’aveva avvertito che avrebbe rischiato di «volare alla cieca» se non ne avesse preso conoscenza). «E siamo grati al presidente Obama e alla first lady Michelle Obama per il gentile aiuto nel corso di questa transizione. Sono stati formidabili. Grazie». Quanto agli otto anni di lavoro alle spalle, è il caso di farci una croce sopra. Nello stesso discorso ha pure rincarato la dose, criticando il «ristretto gruppo nella capitale del nostro paese che ha raccolto i frutti del governo mentre la popolazione se ne sobbarcava il prezzo», quelle persone «le cui vittorie non sono state le vostre vittorie. I loro trionfi non sono stati i vostri trionfi». Altro che toni concilianti da inizio mandato. Trump ha messo subito le carte in tavola: non si sarebbe piegato agli usi formali della presidenza. Il quarantacinquesimo presidente americano è piombato nel placido scenario del discorso politico come un elefante in un negozio di porcellane. Ai primi interventi di Donald Trump, i traduttori si sono subito strappati i capelli: nella singola frase come nel discorso, gli elementi che compongono il suo linguaggio apparivano spesso incompleti e a volte privi di senso. Come se Trump cominciasse un discorso nella sua testa e passasse ad articolarlo oralmente solo nel bel mezzo del suo ragionamento. Con l’impressione, per chi ascolta o traduce, di avere di fronte un locutore che lancia parole e idee alla rinfusa, senza un filo logico. Presi come unità semantiche individuali o come piccoli gruppi di parole, alcuni segmenti sembrano avere un senso ma l’idea generale, a livello della frase, è complicata da afferrare. L’unico elemento ricorrente, che l’uditorio di Trump è sempre certo di ritrovare, qualunque sia il tema trattato dal presidente americano, qualunque sia il contesto e il pretesto dell’intervento, è… lui.

Dal punto di vista linguistico, il primo grandissimo shock è arrivato a fine novembre 2016, con l’intervista che Trump ha concesso al «New York Times», giornale con il quale intrattiene rapporti burrascosi. Si trattava della prima intervista ufficiale dopo la sua elezione, alcune settimane prima di entrare in carica. Questo per dire che non giungeva inaspettata; si andava insomma a vedere e a sentire non piú il candidato ma il futuro presidente, a cui l’elezione alla massima carica del paese avrebbe forse conferito una nuova dignità. Infatti, non avrebbe avuto piú bisogno di manifestare ostilità né di convincere: la battaglia era vinta, si potevano affrontare le questioni di fondo. Come introduzione al colloquio, Trump parla della sua vittoria, del numero di riunioni tenute ogni giorno, dell’«ottima qualità» delle persone che si appresta a nominare («the quality of the people is very good»: neanche parlasse di un chilo di patate), snocciola cifre di partecipanti ai suoi comizi («we had great numbers», abbiamo avuto cifre fantastiche). Spiega che non è mai stato fan del collegio elettorale ma ora sí, per due ragioni, e ne dà una soltanto: «Permette di vedere Stati che altrimenti non si sarebbero mai visti». La seconda ragione non sarà mai menzionata (forse perché senza il sistema del collegio elettorale, avrebbe ottenuto una cocente sconfitta?). Gli piacerebbe molto – precisa ancora – che giornali come il «New York Times» fossero piú simpatici con lui («mi piacerebbe fargli cambiare parere», perché «credo che semplificherebbe enormemente il mio lavoro», da cui si deduce la sua concezione molto personale del ruolo della stampa, lasciando presagire i rapporti futuri), dopodiché risponde alle domande dei giornalisti. E lí si entra in un universo linguistico di una dimensione sconosciuta. Tra una tirata e l’altra di Trump sull’amore che gli giurano «la gente» e le immense folle che si accalcano ai suoi comizi, Carolyn Ryann gli domanda se i suoi elettori saranno delusi dal fatto che non citerà in giudizio Hillary Clinton. Risponde di no, che è ora di andare avanti e di smetterla di dividere il paese. E all’improvviso sembra andare su di giri:

Non lo faccio perché è ora di andare in una direzione diversa. C’era molta sofferenza, e credo che la gente che mi ha sostenuto con tanto entusiasmo era capace di presentarsi all’una di notte per sentire un discorso. Sí, era proprio il giorno delle elezioni, e loro si sono presentati, quindi era il giorno delle elezioni. Sí, credo che capirebbero nella maniera piú assoluta. Qui, al pari di quel giornalista che, su «Le Monde» del 20 febbraio 2017, ha ritenuto necessario precisare: «Gli errori di sintassi sono volutamente conservati», tengo a dire che ho fatto del mio meglio per attenermi alla lettera all’originale e che le bestialità non sono dovute a me 1 . Ogni segmento di questo estratto è comprensibile. Eppure la frase, considerata nella sua globalità, oltre a essere zoppicante dal punto di vista sintattico, non è… del tutto chiara, per usare un eufemismo. Se ci si attiene alle tecniche di traduzione tradizionali (e qui, mi verrebbe da dire «normali»), e si cerca di restituire il messaggio contenuto in questa frase, si ammattisce di sicuro. Come si usa fare quando un testo che si presume destinato a un si ammattisce di sicuro. Come si usa fare quando un testo che si presume destinato a un

vasto pubblico è un po’ troppo astruso, il traduttore potrebbe cedere alla tentazione di «contestualizzare» la traduzione, cioè di sviluppare certi elementi per semplificare la lettura, in modo esplicito o arricchendo moderatamente, per maggiore precisione, un’idea evocata senza modificare il messaggio originale né aggiungere nulla. In questo caso specifico, era fuori discussione correggere il tiro per rendere la frase piú comprensibile. Non perché fosse impossibile da realizzare, perché analizzando bene il testo si può risalire grossomodo al filo del pensiero del locutore e capire il perché di questo discorso disordinato; ma rendere piú fluido il contenuto richiederebbe un lavoro tale da sfociare in una dichiarazione molto lontana dall’originale. Con Trump, la forma frammentaria e le crisi apparenti di elucubrazione fanno cosí parte del personaggio che ci si ritrova costretti a aderire, letteralmente, alla forma del testo originale, altrimenti la traduzione non è piú fedele. Di solito succede che il traduttore evita una ripetizione, quando è accidentale, e corregge qui e là un errore di sintassi quando è isolato e non modifica in niente il messaggio. Ora, nel caso delle frasi di Trump, le correzioni sintattiche o di forma rappresenterebbero un cantiere cosí gigantesco che non sarebbe piú una traduzione ma una riscrittura. E dal momento che il modo di parlare è importante quanto il contenuto del messaggio (se un messaggio esiste), perché è anche indice della personalità e della riflessione dell’oratore, con un discorso cosí caricaturale nelle sue difficoltà espressive ci si ritrova obbligati a tradurre bene qualcuno che si esprime male, e quindi a fornire una traduzione che appare zoppicante. In realtà, è precisamente piallando le sue frasi che il traduttore sarebbe portato fuori strada. Quando, dopo vent’anni di pratica, si lavora di cesello sul linguaggio e sul pensiero per fornire traduzioni chiare, qualunque sia il livello di difficoltà del discorso, quando si insegna ai propri studenti di traduzione come separare il buon grano stilistico dal loglio e ci si ostina a pretendere una conoscenza quanto piú sottile della loro lingua, una cosa del genere è a dir poco irritante. Restare sempre fedeli al messaggio, non tradire il pensiero dell’autore e fornire un testo senza intoppi, un po’ sulla scorta di Boileau secondo il quale «ciò che viene concepito bene si enuncia con chiarezza» 2 . E qui, paffete! Piomba Donald Trump, cancella la lavagna e ci costringe a rivedere le nostre tecniche di traduzione del discorso politico. Non che l’esigenza del rigore ne esca ridotta; ma con lui il rigore va applicato nel rispetto della mediocrità stilistica.

Questa intervista è un assaggio abbastanza rappresentativo dei discorsi e dei successivi interventi di Trump. Sintassi frammentaria, vocabolario elementare e soprattutto ripetizione all’infinito delle stesse parole (si notano niente meno che quarantuno occorrenze del termine great, verosimilmente il vocabolo preferito da Trump, venticinque volte del verbo win, sette volte di tremendous, e l’elenco è piuttosto lungo). Come se il pensiero di Donald Trump girasse di continuo, in circuito chiuso, in rapporto al suo vocabolario e quindi alla sua riflessione. Non solo Trump si ripete, ma il suo vocabolario gira a sua volta intorno a un campo lessicale limitato sommerso di superlativi. La cosa piú inquietante è che, pur trattandosi di parole di una semplicità estrema, tra le prime che si imparano per sbrigarsela in inglese, non sono tuttavia le piú facili da tradurre. In realtà piú le parole sono precise, colte, sottili, e minore è l’ambiguità semantica rispetto a quelle che hanno un senso molto ampio, o che suonano addirittura quasi prive di senso.

La scarsa convenzionalità di Donald Trump nell’affrontare le relazioni internazionali mette anche in crisi quel modello di comunicazione politica imperniato sulla civiltà quando, per esempio, nel corso di questa prima intervista, affronta il tema della Russia e dello Stato islamico:

Non sarebbe fantastico se ci intendessimo a meraviglia con la Russia, non sarebbe fantastico se attaccassimo insieme l’Isis, cosa che, detto en passant, oltre a essere molto fantastico se attaccassimo insieme l’Isis, cosa che, detto en passant, oltre a essere molto

pericolosa, costa anche una barca di soldi, e l’Isis non avrebbe mai dovuto avere il diritto di formarsi, e la gente si solleverà e mi darà una grossa mano. O ancora quello del conflitto israelo-palestinese:

Ho avuto, in realtà, un sacco di formidabili uomini d’affari israeliani che mi hanno detto, lei non può fare questo, è impossibile. Non sono d’accordo, credo che si possa fare pace. Credo che la gente ne ha abbastanza, adesso, di vedersi sparare addosso, di vedersi uccidere. Con riflessioni binarie degne di una logica infantile, si è al contempo lontani dai ragionamenti geopolitici complessi ma anche a mille miglia dalle riflessioni convenzionali, impregnate di quel politichese cui i giornalisti (e i traduttori) sono abituati. Nei suoi rapporti cosí particolari con la stampa, Donald Trump ha inaugurato una nuova era della comunicazione, nella quale è lui solo a tenere le redini, ed è impensabile che si adegui al suo uditorio e a quello che ci si aspetta da lui. Se non fa nessuno sforzo retorico è perché non ne ha voglia (è il presidente! fa ciò che vuole!) o perché non ne è capace? È consapevole almeno un po’ di essere al di sotto del livello medio di espressione di un adulto istruito, e a maggior ragione di un presidente americano? Donald Trump è davvero l’unico a non rendersi conto del cambiamento che incarna?

1. Va detto che la citazione su «Le Monde» era sconclusionata e stonava non poco tra gli articoli forbiti del quotidiano. Si veda piuttosto: «Un nuovo sondaggio Rasmussen – in effetti perché la gente capisca – la maggior parte dei media non capisce. In effetti, capiscono, ma non lo scrivono. Diciamo cosí. Ma un nuovo sondaggio Rasmussen che è stato appena pubblicato valuta il nostro tasso di approvazione al 55%, in aumento». 2. Nicolas Boileau, Arte poetica, I, 153 [N. d. T.]. La portata della sberla Da quando Donald Trump si è insediato a capo del mondo libero, ho l’impressione di prendermi uno schiaffo tutti i giorni. Non credo di essere la sola. Siccome non mi succedeva piú dall’infanzia, lo shock è notevole. Chi ha già preso sberle nella vita sa che quello che fa piú male non è il dolore fisico, sebbene non sia sempre trascurabile. È piuttosto l’umiliazione di essere colpiti al viso, il punto che piú di ogni altro rappresenta la nostra umanità e la nostra personalità, ma è anche la sensazione di ingiustizia che spesso l’accompagna. Perché chi molla una sberla è il piú forte, e sa di non rischiare niente in cambio. Rifilare un ceffone a qualcuno è l’espressione fisica dell’abuso di una posizione dominante. Quando le forze sono pressoché uguali, o la sensazione d’impunità è meno netta, spesso si sfocia nella lite e nella rissa. D’altronde i primi schiaffi della vita vengono dati spesso dai genitori, dai fratelli o dalle sorelle maggiori, vale a dire da persone che ricoprono un ruolo di autorità e di dominio. Con Trump basta aprire un giornale, accendere la radio, andare su Twitter per beccarsi come minimo una sberla al giorno. In qualità di presidente degli Stati Uniti, occupa una posizione di predominio assoluto. La posizione dominante per eccellenza. E lui lo sa. E gli schiaffi sono di ogni natura, perché con lui la violenza è costante e multiforme. È innanzitutto una violenza verbale. Il vocabolario che Trump sceglie di impiegare è di rara brutalità. E non si tratta solo della rappresentazione semantica di un suo intento bellicoso, come quando parla di scatenare «il fuoco e il furore» contro la Corea del Nord. Nel suo linguaggio quotidiano, quello piú banale, impiegato tutti i giorni, tira una sventola alla lingua inglese. Ripetendo all’infinito le stesse parole vuote (good, bad, great, incredible, tough e via dicendo) per indicare realtà notoriamente ricche di sfumature, dà un’immagine orrenda della propria lingua che, considerata l’ostilità che a volte suscita il suo dichiarato predominio, non ne ha davvero bisogno. L’inglese è una lingua di una ricchezza estrema (non aspiro all’obiettività, lo avrete capito), che si è costruita nel corso dei secoli attingendo a un mucchio di lingue vicine, in particolare al francese: sapete per esempio che se in inglese si dice pork, beef e mutton per indicare la carne degli animali che da vivi si chiamano pig, ox e sheep è perché si tratta di prestiti dal francese che risalgono all’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore quasi mille anni fa? Il sovrano si era portato i suoi chef (già dei preconcetti sulla cucina inglese) che avevano imposto il loro vocabolario ai fornelli, e questa lingua cosí ricca dispone di una quantità di verbi, aggettivi e avverbi uno di senso piú figurato dell’altro. Non sapersene servire quando non si è madrelingua inglese è comprensibile; quando si svolge una mansione che non implica una rappresentanza internazionale, passi. Ma che la persona chiamata a essere la vetrina del suo paese e dunque della sua lingua si limiti a un vocabolario da quinta elementare, francamente fa male al cuore della linguista che sono. Questa carenza di vocabolario che sento come un’aggressione non è l’aspetto peggiore nella violenza verbale di Trump. Certo, lui maltratta la lingua, che non gli ha fatto niente. Ma quando dice sciocchezze del tipo (parlando dell’Isis, in campagna elettorale): «I would bomb the shit out of them. I would just bomb those suckers» («Le bombarderei a piú non posso quelle merde. Vorrei proprio bombardarli quei coglioni»), la sua volgarità è anche un’autentica violenza. Proprio come quando parla delle donne insinuando che bisogna «trattarle come merda» o quando si permette di «prenderle per la fica». Frasi del genere in bocca a un presidente degli Stati Uniti feriscono le orecchie di chi le ascolta e gli occhi di chi le legge. A questo livello, non è maltrattamento verbale? E che dire dei qualificativi che sceglie nel contesto della vendita delle armi? Nel maggio 2017, ecco come il presidente degli Stati Uniti ha alluso a potenziali vendite di armi al Qatar: «a lot of beautiful military equipement», ossia «un mucchio di bellissima attrezzatura militare». Quando si conosce la destinazione di questa attrezzatura e sapendo fino a che punto si tratta di un tema scottante negli Stati Uniti, dove le armi da fuoco mietono ogni anno migliaia di vittime, un tale ossimoro rasenta l’oscenità. La violenza delle parole di Trump, già facilmente reperibile quando era candidato, si La violenza delle parole di Trump, già facilmente reperibile quando era candidato, si

traduce del resto nei suoi atti politici: il «Muslim ban» promulgato all’inizio della sua presidenza, il tentativo di vietare l’accesso negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana, con le sue iniziative antimmigrazione e l’ordine di separare dai genitori centinaia di bambini alla frontiera messicana per «dissuadere» i potenziali migranti dall’accesso negli Stati Uniti. Trump non nasconde di considerare gli immigrati latinoamericani alla stregua di insetti nocivi, come lascia intendere dalla scelta del suo campo lessicale. Non ha forse detto nel giugno 2018 che si rifiutava di vederli «infestare» gli Stati Uniti, giustificando cosí la crudeltà delle misure adottate nei loro confronti? Agisce di conseguenza dando l’impressione che li schiaccerebbe volentieri sotto i piedi e, in tale contesto, non gli si può rimproverare di non attribuire un senso alle parole. I potenziali migranti sono infatti trattati piú come animali che come esseri umani. D’altra parte, l’ondata quotidiana di tweet presidenziali rabbiosi, vendicativi, megalomani o assurdi cui è quasi impossibile sfuggire, a meno di non rifugiarsi in una grotta e di staccare ogni connessione, costituisce anche una violenza che esaspera la sensazione di essere travolti da un vortice di stupidaggini che rischia di intralciare la riflessione di chi ne è colpito. In effetti, come soffermarsi a riflettere su una dichiarazione e ad analizzarla se, nel frattempo, il presidente ne ha già sputata un’altra dozzina? Come schivare lo schiaffo se chi lo dà sembra avere tante braccia quanti sono i serpenti nella chioma di Medusa? E che cazzo La volgarità non è una questione di parolacce. Paesi di merda, prendere le donne per la fica, se non si trattasse di mia figlia uscirei con lei, si vede che perde sangue da chissà dove… La volgarità di Trump è ricorrente ed è cosí scioccante proprio perché si trova in un posto che non le appartiene: la bocca di un presidente americano. Tra i taciti ruoli che si suppone giochino i politici, uomini e donne, dell’epoca moderna, quello di esempio, di modello, è ampiamente condiviso. È una delle ragioni per le quali i politici si lasciano andare solo di rado e quando succede né i media né l’opinione pubblica se li perdono. La volgarità di un Nicolas Sarkozy che dice «Levati di torno, razza d’idiota» a un agricoltore che rifiutava di stringergli la mano ha sconvolto sia i media che l’opinione pubblica francese, perché questa espressione lo situava fuori dalla sfera presidenziale nella quale era tenuto a rimanere per l’intera durata del suo mandato. A scioccare è stata precisamente la forma, non il contenuto. Sarkozy avrebbe potuto benissimo dire a quel signore: «Non ho niente da dirle, se ne vada» e nessuno si sarebbe formalizzato – di sicuro non si sarebbe neanche saputo niente. A suscitare l’emozione è stato l’essersi sbarazzato per un attimo e in un momento di tensione dell’armatura di cortesia che un presidente eletto è obbligato a portare. All’indomani della sua elezione, il presidente, in Francia come negli Stati Uniti, non è piú un uomo; diventa l’incarnazione della carica che ricopre. Giurando sulla Bibbia durante la cerimonia d’investitura, il presidente americano lascia simbolicamente la propria individualità per assumere la voce e l’immagine dell’intera nazione. Rappresenta quello che il paese ha di piú grande e di piú degno: gli si può difficilmente perdonare di dare spettacolo dileggiando gli onori e il rispetto che la funzione e quindi il paese devono ispirare. Fino a Trump, in termini di politica internazionale, la referenza di volgarità per forma e contenuto era il Vladimir Putin che sbandierava la sua virile intenzione di «farli fuori [gli estremisti ceceni] fin dentro i cessi». La volgarità non si limita alle parole, esiste anche una volgarità dell’animo. Uno degli esempi piú rivelatori è quello in cui, durante la sua campagna, Donald Trump ha cominciato a farfugliare onomatopee agitando la mano destra, simulando il polso rotto per imitare il giornalista disabile che gli rimproverava di aver affermato, falsamente, di avere assistito a una scena in cui migliaia «di arabi […] festeggiavano» il crollo delle torri gemelle l’11 settembre 2001. O quando riferisce come si è rivolto a una giornalista nella conferenza stampa del 1o ottobre 2018: «So che lei non pensa. Lei non pensa mai». Questa volgarità che rasenta l’insulto pregiudica la statura della persona e potrebbe sembrare controproducente. Eppure, ed è uno dei misteri di questa elezione, non ha impedito la vittoria di Trump.

Il politicamente corretto è uno dei grandi nemici di Trump, a cui piace ripetere che non lo pratica. Si vanta perfino di non essere «presidenziale»: dopo aver dichiarato, nel settembre 2018, che «si era innamorato» [sic] del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che gli avrebbe scritto «lettere molto belle», ha esclamato: «Adesso diranno: “È orribile! Cosí poco presidenziale!”» e ha aggiunto: «È cosí facile essere presidenziale. Ma invece di avere diecimila persone che cercano di entrare in questo stadio strapieno, non ce ne sarebbero piú di duecento». In altre parole, la scelta di non avere peli sulla lingua è confermata e il suo scopo è esplicito: aumentare il numero dei consensi. Certo, il politicamente corretto è una forma di ipocrisia; una sorta di politichese che permette al vostro interlocutore di sfoggiare un gran sorriso mentre è pronto a pugnalarvi alle spalle alla prima occasione. Ma è anche, e soprattutto, un modo per mantenere una certa pace sociale e una dose di benevolenza nei rapporti tra i cittadini. Se il politicamente corretto consiste nel non dire apertamente tutto ciò che si pensa, allora è semplicemente la versione politica della cortesia e del rispetto dei codici sociali che regolano i gruppi umani. In ambito scolastico, per esempio, sarebbe inammissibile che un professore dicesse a un genitore: «È un po’ scemo, suo figlio. È un bravo ragazzo, eh, non dico di no, ma è un deficiente». No, l’insegnante dirà: «Suo figlio ha notevoli difficoltà di apprendimento, si dovrà trovare una soluzione, ma ha un’autentica dote: la gentilezza verso i compagni». Si tratta di veicolare un messaggio nel modo piú gentile possibile, infarcendolo di parole che non facciano troppo male affinché l’interlocutore incassi il colpo senza finire al tappeto. È esattamente la stessa ragione che induce a spiegare ai figli che non bisogna urlare che quella signora è brutta o che quel signore sembra un morto. Sarà anche vero che è brutta, la signora, ma è meglio tacerlo. E se proprio bisogna dirlo, perché ha un’utilità qualunque (cosa che, nel caso di Trump, mi sembra molto spesso opinabile), allora lo si fa con la massima cautela. Ma non è il caso di Trump. Lui non usa i filtri del politicamente corretto, vale a dire le regole elementari della vita sociale applicate alle piú alte sfere della politica. A quanto pare, ne è dispensato e se ne vanta come se fosse una scelta. Credo piuttosto che non sia capace di fare diversamente. È incapace di filtrare quello che pensa, perché non riesce a adattare il proprio comportamento alle situazioni che si trova di fronte. Questo spiega la sua estrema volgarità ma anche, forse, la sua popolarità presso la frangia della popolazione americana che si sente presa in giro da un’élite politica che lei non capisce, e che vede nell’aspetto «naturale» dei discorsi di Trump, che dice tutto quello che pensa, una forma di schiettezza e, quindi, di onestà. La verità se mento «Believe me». Esiste su YouTube una piccola clip di tre minuti e ventitré secondi, postata da un certo vgolfoz. S’intitola «Donald Trump BELIEVE ME». È un montaggio di scene in cui Donald Trump pronuncia da un podio le parole «believe me» in contesti diversi. Armata di penna e di grande abnegazione, ho guardato senza interruzione e ho contato e ricontato: l’autore del video è riuscito a piazzare settantasei occorrenze diverse di «believe me» in poco piú di tre minuti. E il documento non è ovviamente esaustivo. Notiamo en passant che l’autore della clip ha lasciato ogni tanto pezzi di frasi intorno alla locuzione, giusto per contestualizzarla, sortendo effetti di un’ironia irresistibile, come quando Donald Trump dice: «I have great respect for women, believe me» («Ho un grande rispetto per le donne, credetemi») o anche «I am the least racist person you’ve ever met, believe me» («Sono la persona meno razzista che abbiate mai conosciuto, credetemi»). Secondo il «Washington Post», che manifesta un’ostilità dichiarata – del resto perfettamente reciproca – verso il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha mentito piú di duemila volte nel 2017. Il quotidiano ha varato un fact checking nel 2007 per appurare la verità nei discorsi dei politici americani. Il livello di malafede di una presa di posizione è indicato dai Pinocchio attribuiti. Un Pinocchio viene assegnato quando una persona nasconde espressamente alcuni fatti, rivela solo una parte della verità, mostra alcune esagerazioni e omissioni ma senza dire menzogne spudorate. Il massimo, quattro Pinocchi, è dato a chi proferisce «enormità». E un Pinocchio capovolto spetta all’autore di una giravolta rispetto a prese di posizione espresse in precedenza. Dopo l’elezione di Donald Trump, il fact checking del «Washington Post» è andato in tilt. Il giornale ha per esempio gratificato il nuovo presidente di quattro Pinocchi per avere affermato in piú occasioni che costruire un muro tra gli Stati Uniti e il Messico avrebbe permesso una notevole riduzione del traffico e del consumo di droga sul territorio americano. È falso per due ragioni: perché la gran parte della droga entra negli Stati Uniti o dai porti commerciali o dai canali clandestini su cui il muro non avrà nessun impatto, ma anche perché il problema principale della droga negli Stati Uniti è dovuto alla prescrizione abusiva di antidolorifici da parte dei medici, ed erigere un muro alla frontiera non cambierà niente. Nella famosa intervista concessa al «New York Times» tra la sua elezione e l’insediamento alla Casa Bianca, Trump, interrogato sulla scelta di assumere Steve Bannon, direttore esecutivo del sito di estrema destra Breitbart, la difende affermando che Bannon non è né il razzista né l’antisemita che tutti credono, anzi:

Ora vi dico, lo conosco molto bene. Voglio dire una cosa, sí, voglio dire una cosa: se fossi davvero convinto di tutto questo, se pensassi che stesse facendo qualcosa, o che avesse idee diverse da quelle che potreste pensare, gli chiederei gentilmente di andarsene. Ma trovo che intanto sia trattato molto ingiustamente. È molto interessante, perché proprio adesso parecchia gente prende le sue difese. E , futuro capo di gabinetto della Casa Bianca, aggiunge: «Quello che il presidente eletto dice è vero al 100 per cento». Benvenuti in un mondo in cui basta dire una cosa per farla diventare vera. Al 100 per cento. Donald Trump re dei bugiardi? È forse un po’ piú complicato di quanto sembri. Siamo sicuri che si tratti di menzogne? Come valutare la malafede? In effetti Trump, i suoi sostenitori e il suo team sembrano vivere in un mondo a parte. Un mondo di «fatti alternativi», espressione coniata il 22 gennaio 2017 da , consigliera di un Donald Trump fresco eletto. Un mondo in cui non si tratta piú di capire ma di credere, come per la religione. Nella conferenza stampa del 26 settembre 2018, molti giornalisti hanno interrogato Trump sul candidato da lui proposto al Senato per la carica di giudice hanno interrogato Trump sul candidato da lui proposto al Senato per la carica di giudice

alla Corte Suprema, Brett Kavanaugh, accusato di violenza sessuale da molte donne: il presidente crede che le accusatrici mentano? Che Kavanaugh possa essere colpevole? «Molta gente lo conosce bene. E questa gente non crede a quello che sta succedendo», risponde Trump. Si noti en passant che la parola believe («credere») ritorna ventuno volte nella bocca del presidente nel corso di questa conferenza stampa. Non si tratta necessariamente di menzogne. Per mentire bisogna essere consapevoli di deformare la realtà. Ora, Trump dice la sua verità, ben ancorata nel suo universo mentale, e denigrata da quelli che lui accusa di propagare fake news. Non credo che si possa affermare con certezza che Trump sia un bugiardo, perché esprime con ogni probabilità una forma di sincerità. A quel livello di mitomania, un atteggiamento del genere somiglia piú a una forma di rifiuto della realtà contro cui non può assolutamente nulla, non avendo la lucidità necessaria per rendersene conto. In compenso, chi gli sta intorno, il suo stretto entourage, chi concorda in pieno pubblicamente con lui, i vari Pence, Conway e Mattis, sembrano per parte loro molto meno soggetti a farsi ingannare da questa falsa realtà proiettata da Donald Trump. Quando Rudolph Giuliani, l’avvocato di Trump, sforna a un giornalista atterrito la seguente battuta orwelliana: «La verità non è la verità», sulla Nbc il 19 agosto 2018, inciampa con ogni evidenza nel tappeto delle menzogne steso dall’amministrazione americana, ma non perché lui creda a quelle menzogne: cerca soltanto di giustificare il suo cliente e le sue menzogne nell’ambito del caso russo. L’entourage diretto del presidente non si lascerà ingannare dal sistema di verità parallela costruito intorno a Trump da Trump stesso; al punto che un membro della sua amministrazione ha sentito il bisogno di scagionarsi pubblicando, nel settembre 2018, un dibattito sul «New York Times» per giustificare la sua collaborazione all’interno della Casa Bianca pur confidando che lui e altri alti funzionari trafficavano per contrastare le decisioni pericolose e/o insulse di Donald Trump. Qualunque siano le loro motivazioni (secondo loro salvare l’America; secondo me salvare la pelle in previsione del giorno in cui il vento cambierà), è chiaro che queste persone non si lasciano abbindolare dalla falsa realtà del presidente, che è tutto solo nella sua bolla delirante. Le menzogne, come le promesse, impegnano soltanto chi finge di crederle. Melania In questo libro non scriverò capitoli su Melania Trump. Primo perché l’argomento non è lei; è suo marito. E non intendo affliggerla solo perché lo ha sposato e sta ancora con lui, o perché non si può fare a meno di pensare, senza la minima prova, che se non lascia uno degli uomini piú odiati dell’universo è perché in un modo o nell’altro lui ha i mezzi per costringerla a non farlo; né tantomeno per la sua aria da bella statuina condannata a una mera funzione decorativa accanto al suo brutto marito. Sarebbe troppo soggettivo, perfino smaccatamente imputabile al suo aspetto fisico. E neanche perché spesso viene voglia di compatirla, come nel giorno dell’arrivo alla Casa Bianca con il marito fresco di investitura che l’ha mollata lí in macchina, ignorandola completamente come se non esistesse, riducendola a fare il giro da sola per raggiungerlo e salire le scale dietro di lui, e senza degnarla di uno sguardo fino all’ingresso dove li aspettavano gli Obama, mostrando all’intero pianeta fino a che punto quel macho di suo marito la tenesse in scarsa considerazione: nemmeno per questo scriverò un capitolo su di lei. Anche se questa scena è stata piú volte commentata e soprattutto paragonata alla stessa, otto anni prima, in cui si vedeva il nuovo presidente Obama aspettare gentilmente che la moglie lo raggiungesse uscendo dalla macchina, e farsi quindi precedere da lei nel salire quegli stessi gradini, associandola cosí alla sua vittoria prima di entrare, insieme, nella loro nuova dimora presidenziale. Non è neanche perché, da donna e femminista quale sono, mi ripugna l’idea che una donna si veda intimare come condizione alla maternità di conservare un corpo da sogno, e che lei ubbidisca a quest’ordine: nemmeno per questo mi dilungherò in proposito. Né perché le ripetute umiliazioni a ogni rivelazione delle infedeltà del marito mi diano voglia di condannarla o di compatirla, a seconda del mio umore del giorno. Ognuna fa ciò che vuole della propria vita di coppia. Chi sono io per giudicare? E poi questo libro parla del linguaggio, e Melania Trump non parla molto. Soprattutto in confronto al logorroico marito. È raro che prenda la parola in pubblico, e non reagisce alle affermazioni gratuite di infedeltà da parte del consorte. Da first lady modello, partecipa a eventi di beneficenza e si fa ritrarre al capezzale dei bambini malati, tiene compagnia alle mogli dei leader stranieri quando li riceve o quando è loro ospite, ma è raro che prenda la parola. Bisogna dire che, all’investitura del marito come rappresentante del partito repubblicano, si è resa ridicola pronunciando un discorso che in diversi passaggi ricalcava quello di Michelle Obama alla convention democratica del 2008 e affermando di averlo scritto di suo pugno – prima che l’autrice reale, Meredith McIver, confessasse di essersi effettivamente ispirata nella stesura a quello di Michelle Obama. Melania Trump è nata in Slovenia e ha la nazionalità americana solo dal 2006. Quando parla inglese, ha sempre un delizioso leggero accento sloveno. È per questa ragione che è cosí discreta? In quanto moglie dell’uomo che ostenta convinzioni apertamente razziste e xenofobe, che ha proibito l’ingresso sul territorio americano ai cittadini di alcuni paesi perché di maggioranza musulmana, dell’uomo che vuole costruire un muro tra il suo paese e il Messico per impedire l’ingresso ai cittadini latinoamericani, da lui vilipesi, e che ha ordinato la separazione delle famiglie di migranti alla frontiera, non è forse evidente che lei, in quanto migrante, abbia tutto l’interesse a tenere un profilo basso? La sua situazione di ex immigrata e il fatto che i suoi genitori abbiano ottenuto la nazionalità americana durante il mandato del marito sembrano cosí assurdi, considerando la politica di Donald Trump, che si capirebbe se lei volesse rimanere nell’ombra per evitare che si rimproveri al marito di usare due pesi e due misure tra la sua vita privata e la politica che adotta per la nazione. Certo, ci si potrebbe aspettare che io commenti la famosa giacca di Melania, quella che indossava durante la visita a un centro di detenzione per bambini rifugiati. Quella giacca Zara (scelta di marca popolare alquanto sorprendente per la first lady) esibiva di spalle le parole: «I really don’t care, do u?» («Non me ne importa proprio, e a te?»). Nel momento in cui l’America intera sembrava ribellarsi alla decisione di Donald Trump di separare i cui l’America intera sembrava ribellarsi alla decisione di Donald Trump di separare i

bambini dei migranti clandestini dai genitori, quando si sono visti e ascoltati filmati in cui bambini urlanti e imploranti venivano strappati alle madri, le sensibilità erano piú scosse che mai e perfino i repubblicani sembravano in difficoltà nel giustificare una simile iniziativa e ancora di piú a darle un senso. «Non me ne importa proprio, e a te?» Prima ipotesi, questo messaggio era diretto a chi criticava la politica di separazione delle famiglie, ma allora perché mettersi quella giacca per visitare un centro di detenzione per bambini? Cinismo? I piú sentimentali, pia illusione, hanno voluto pensare che mandasse un messaggio al suo Donald e che andasse a trovare i ragazzini che ne erano vittime proprio per mostrargli che non le importava nulla di quello che lui pensava. Il marito, da parte sua, ha rilasciato un’interpretazione tutta diversa e molto personale: Melania manifestava cosí la sua indifferenza totale alla reazione dei media, e il suo disprezzo verso i giornalisti. In questo caso, è stato lui che l’ha obbligata a indossarla? Avrebbe costretto Melania a portare una giacca che costa meno di cinquanta dollari? La comunicazione di Melania Trump, a differenza di quella del marito, è completamente non verbale. Lei comunica con la sua semplice presenza, e molti segni inducono a pensare che spesso lo faccia controvoglia. A differenza del marito, di tanto in tanto lei fa passare dei messaggi in maniera sottile e piuttosto succosa: per esempio quando, rigida e muta, rifiuta di prendere la mano del consorte che cerca disperatamente la sua in occasione della visita dei Macron alla Casa Bianca nell’aprile 2018, o anche quando, nel maggio 2017, lei gli dà palesemente una pacca per impedirgli di prenderle la mano mentre incedono fianco a fianco su un tappeto rosso all’aeroporto di Tel Aviv. Melania Trump, da ex modella qual è, comunica con il suo corpo, con la sua immagine. E qualunque cosa faccia è condannata a subire esami minuziosi e distorsioni in piena regola. Quando la stampa la ritrae nell’orto di Michelle Obama alla Casa Bianca, durante un evento in cui avrebbe dovuto dedicarsi al giardinaggio con un gruppo di adolescenti americani, il suo grado di credibilità crolla a picco: vestita come un figurino, non sfiora neanche la terra col ginocchio (che schifo, è sporco) e sembra posare per un catalogo di giardinaggio per desperate housewives dei sobborghi americani ultrachic. Questa donna è un mistero, la sua modalità di comunicazione non ha niente a che vedere con la parola e non sono qualificata per scrivere su di lei. Non traduco una modalità di comunicazione cosí. E se vederla al fianco del marito o nelle vesti di first lady mi dà sempre l’impressione che dietro il suo viso perfetto urli: «Venitemi a prendere!», questo deriva probabilmente dall’immaginario femminista ed è qualcosa che impegna solo me. Cip cip Donald Trump è il primo presidente ad aver fatto di Twitter lo strumento di comunicazione predominante del suo mandato. Twitter è nato nel 2006, e se Barack Obama se ne è servito nella sua prima campagna presidenziale, ha confessato di non avere mai scritto personalmente nessun messaggio in quel periodo. Trump lo adora («Twitter è una cosa meravigliosa per me, perché fa passare il mio messaggio… forse non starei qui a parlarvi come presidente se non avessi un mezzo onesto per far passare il mio messaggio», ha dichiarato a Fox News il 15 marzo 2017), e ci riversa tutta la sua logorrea. Sembra di starci incollato da quando si sveglia e trova sempre una montagna di cose da dire su un’infinità di argomenti. E quando non ne trova, gli resta sempre «MAKE AMERICA GREAT AGAIN!». Twitter fornisce un eccellente strumento per osservare il modo di parlare di Donald Trump. Il famoso «despite the constant negative press covfefe» («malgrado la costante covfefe negativa della stampa»: sí, covfefe è femminile), postato il 31 maggio 2017, illustra fino a che punto abbia l’impulso del tweet. Twitter è la modalità di comunicazione ideale per lui: è un mezzo istantaneo, utilizzato e letto da milioni di persone. La sua brevità forzata permette di martellare frasi brevi e slogan e di esprimere alla perfezione uno stile di pensiero frammentario e succinto. Nel loro libro How Trump Thinks, Peter Oborne e Tom Roberts si sono imposti di stilare un lessico del linguaggio di Trump su Twitter. Cominciano spiegando i codici di punteggiatura utilizzati da Trump:

«virgolette» – cinismo ????? – incredulità !!!!!!! – incredulità estrema TUTTO MAIUSCOLO – collera Dopodiché ripartiscono per categorie il numero delle parole piú ricorrenti. Nella categoria «per attirare l’attenzione e firmare il tweet», si trova per esempio Wow!, rilevato trecento volte (gli autori precisano che le cifre sono state arrotondate. Peraltro, il loro lavoro si è fermato nell’aprile 2017, quindi ha piú un valore illustrativo che di prova matematica). Nella stessa categoria, sad! («triste!») ricorre duecentocinquanta volte. Nella categoria «Lodi (in genere autoconferite)», compare l’immancabile great («formidabile») e il suo superlativo greatest («il piú formidabile») circa… quattromilaquattrocento volte. Tra le altre categorie, in quella delle «Scuse» comprendenti le espressioni «mi rammarico», «mi dispiace» e «chiedo scusa», gli autori rilevano maliziosamente zero occorrenze.

Al di là della facile canzonatura, si constata che Twitter è il miglior mezzo per comunicare ciò che è frutto di una sensazione spacciandolo per un fatto concreto. È il regno delle parole «di pancia», di quelle sentite al bar, del cliché da due soldi e delle frasettine vuote e decontestualizzate. Forte dell’autorità che rappresenta, Trump cinguetta le sue verità e le sue reazioni, dettate da emozioni e da impressioni fugaci anziché da una vera e propria riflessione. Non è certo il solo: su Twitter le passioni trovano spesso libero sfogo, ma i dibattiti sono raramente di una profondità filosofica. Piú che alla riflessione intellettuale, il format si presta al dialogo superficiale e all’aforisma facile. Nel caso di Trump, è piú che altro un monologo che gli serve a giustificare le sue scelte e le sue battute e a spiattellare un’autentica propaganda a suon di brevi video adulatori e di slogan inneggianti a lui e al suo governo. E anche, naturalmente, a stroncare i media in generale e la stampa in particolare (di preferenza il «New York Times» e la Cnn), a eccezione di Fox News. Ne è un esempio il tweet del 2 agosto 2018:

Wow, @foxandfriends lancia i suoi concorrenti nella fascia mattutina. Morning Joe è una trasmissione morta con pochissimi telespettatori e, peccato, anche Fake News Cnn ha pessimi risultati. Troppo odio e articoli pieni di inesattezze – troppo prevedibile! (Il giorno prima, nella trasmissione «Morning Joe» su Msnbc, c’era stato un dibattito sulla presunta ostruzione alla giustizia imputata a Donald Trump nell’inchiesta del procuratore Mueller in merito a una possibile collusione tra la squadra della campagna elettorale di Trump e la Russia. Quanto alla trasmissione «Fox & Friends», è apertamente pro Trump). Uno dei problemi del mondo virtuale di Internet è la sensazione d’impunità di quelli che se ne servono nell’intento di nuocere. I trolls, gli stalker, gli insultatori anonimi che si sfogano dietro il loro schermo, convinti di non dover rispondere delle conseguenze dei loro atti perché nessuno può identificarli. Per Donald Trump è lo stesso sistema: racconta tutto quello che gli passa per la mente, come se nell’universo ci fosse soltanto lui e non potesse esserci nessuna conseguenza, nessuna verifica delle sue parole. Per lui Twitter è una sorta di valvola di sfogo, la bozza di un diario in cui potrebbe raccontare tutto quello che pensa senza fermarsi a riflettere neanche un secondo, gongolando segretamente della certezza di essere letto da milioni di persone. Per concisione e portata, Twitter favorisce un tipo di pensiero binario, un mondo di buoni e cattivi. Non c’è bisogno di giustificare, di fornire fonti o prove: su Twitter, Trump mette in atto con grande destrezza il vecchio adagio secondo il quale, per essere creduti, basta mostrarsi sicuri di avere ragione. Unico inconveniente, con Twitter predica solo ai convertiti. I suoi sostenitori vedono in questi messaggi lapidari e perentori una conferma dell’affidabilità della sua politica e delle sue opinioni; i detrattori si rattristano e s’indignano davanti a quelle che ai loro occhi sembrano manifestazioni di orgoglio e una caterva di assurdità. In un tweet del 31 luglio 2018, per esempio, riguardo alla presunta collaborazione tra il suo team e la Russia durante la campagna presidenziale:

La collusione non è un reato, ma questo non ha la minima importanza perché Non c’è stata Collusione (tranne che per Hillary l’Imbrogliona e i democratici!). Oltre a sembrare che abbia inventato lui il nome di un gruppo rock degli anni Ottanta (in versione originale, «Crooked Hillary and Democrats» suona niente male, vero?), per Trump basta affermare su Twitter che non c’è stata collusione affinché sia vero. Inoltre, in duecentoquaranta caratteri, le piccole formule d’invettiva passano molto bene: «crooked Hillary», ma anche il «failing New York Times» o altre «fake news media», martellate all’infinito, finiscono inevitabilmente per lasciare tracce nell’inconscio di quante e quanti le vedono scorrere senza tregua. Secondo lo storico Michael Beschloss 1 , Trump raggiunge circa cento milioni di persone tramite i social media. È una cosa inaudita nella storia presidenziale americana, e il vocabolario riversato quotidianamente in tutte quelle orecchie – o meglio, su tutti quegli occhi – non può essere privo di impatto.

1. Tamara Keith, President Trump’s Description of What’s «Fake» Is Expanding, «NPR», 2 settembre 2018. Distopia Uno dei miei film preferiti, Il grande dittatore di Charlie Chaplin (1940), è stato spesso citato dopo l’elezione di Donald Trump. In questo capolavoro assoluto, uno dei due protagonisti è un tiranno ridicolo con ambizioni smisurate ma con mezzi intellettuali limitati, che finisce per farsi spodestare da un umile e gentile barbiere ebreo. I due si somigliano come due gocce d’acqua. Il grande dittatore è da vedere e rivedere, in primo luogo perché è un bel film e anche per il suo aspetto catartico. Quando si vede Hynkel recitare con un grosso pallone che rappresenta il globo terrestre, spedirlo in aria a colpi di sedere, steso a pancia in giú sulla scrivania prima di sciogliersi in lacrime come un moccioso quando finisce per scoppiargli in faccia, come non immaginare al suo posto il presidente americano attuale? E quando lo si sente sbraitare davanti a un microfono che si curva di terrore sotto le sue invettive, senza che il contenuto dei suoi discorsi sia mai comprensibile? Per non parlare della valenza premonitrice del titolo: The Great Dictator, appunto. Certo, Trump, nonostante tutto il suo razzismo e la sua xenofobia non ha (per quanto si sappia) mire genocide. Non è il caso di paragonarlo a Hitler ma a personaggi di finzione a lui ispirati. Anche – la tentazione è forte – a personaggi tirannici, protagonisti di romanzi distopici che risuonano come tanti moniti e la cui lucidità non sfugge piú a nessuno. Il libro piú citato dopo l’avvento di Trump è 1984 di George Orwell, il cui editore Penguin Books ha dovuto rimandare in stampa settantacinquemila copie quando Kellyanne Conway, consigliera di Trump, ha evocato per la prima volta il concetto di «fatti alternativi». Aveva utilizzato questa espressione per giustificare che l’amministrazione Trump riportava enormi cifre di partecipazione popolare in occasione della cerimonia d’investitura, quando tutte le fonti mediatiche avevano mostrato che in realtà il pubblico era piuttosto scarso. L’importanza dell’espressione non era sfuggita a nessuno, e in particolare agli autori del dizionario inglese Merriam-Webster (l’equivalente del nostro Robert) 1 , che per l’occasione hanno sentito il bisogno di twittare una definizione della parola «fatto»: «un fatto è un’informazione che possiede una realtà oggettiva». Se in 1984 non compare la locuzione «fatti alternativi», si può stabilire il confronto con la «neolingua» (newspeak nell’originale) e soprattutto con il «bipensiero» (doublethink), che «implica la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe» 2 . Questa definizione può essere estesa perfettamente a quella della realtà alternativa dell’amministrazione Trump, che impone la propria realtà senza risolverne le palesi contraddizioni e crea una totale dissonanza con la realtà dimostrabile e dimostrata dai fatti oggettivi. Questa teoria è stata mirabilmente riassunta dallo stesso Trump nel luglio 2018, durante una convention di veterani: «Quello che vedete e che leggete non è quello che succede realmente». In altri termini, la sola realtà è quella che esce dalla mia bocca (e da quella del mio piú stretto entourage), e chiunque vi dica il contrario mente. Trump non si limita, qui, a confutare quanto altri hanno detto o fatto: rivela che lui solo può decidere della realtà. Dichiarazione riformulata da , avvocato di Trump, quando afferma che esiste una «versione della verità di una persona data. […] La verità non è la verità». Kellyanne Conway, Donald Trump e gli impiegati della sua amministrazione che spiattellano controverità spesso smontate all’istante dai media vivono in un mondo di fantasia, infantile, in cui basta nominare la realtà per vederla materializzarsi. «Si direbbe che ci sia stata molta gente alla mia investitura». «Si direbbe che siano stati i democratici a decidere di separare i bambini dai genitori dei rifugiati clandestini». «Si direbbe che il riscaldamento climatico non esista». La convinzione che si può realizzare qualcosa volendolo fortissimamente è una sorta di pensiero magico che funziona in maniera retroattiva e permette di rimodellare la realtà. Ora, chi non rabbrividisce di terrore leggendo 1984? Chi ignora che dare alle parole il potere di trasformare una realtà accaduta sia uno dei segni di un regime autoritario? «E se i fatti lo negano, bisogna cambiare i fatti. In tal modo la storia viene continuamente «E se i fatti lo negano, bisogna cambiare i fatti. In tal modo la storia viene continuamente

riscritta» 3 .

1. Il Robert è considerato il modello di riferimento dei dizionari della lingua francese. [N.d.T.] 2. George Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2016, p. 234 («Doublethink means the power of holding two contradictory beliefs in one’s mind simultaneously, and accepting both of them»). 3. Ibid., p. 233 («And if the facts say otherwise, than the facts must be altered. Thus history is continuously rewritten»). Il punto Godwin Tutti ci pensano, tutti lanciano allusioni piú o meno velate, tutti prendono l’idea con le pinze – ma è forte la tentazione di trovare analogie tra l’amministrazione xenofoba di Donald Trump e quella del Terzo Reich, che tocca pure il cosiddetto «punto Godwin» (quel momento in cui una discussione finisce immancabilmente per evocare i nazisti o la Shoah). Sia chiara una cosa: Trump non è Hitler, Melania non è Eva, le situazioni non sono paragonabili. L’economia della Repubblica di Weimar versava in condizioni catastrofiche, l’epoca non è la stessa, le culture sono a mille miglia l’una dall’altra, Trump non è un nazista (segnaliamo comunque che ci ha messo un certo tempo a sconfessare il Ku Klux Klan, il che è un tantino inquietante. E quando l’ha fatto, con una dichiarazione lapidaria – meno di quaranta secondi – in seguito alle violenze razziste che hanno provocato un morto e numerosi feriti a Charlottesville nell’agosto 2017, è stato in termini neutri e legati al cliché piú artificiale, rivelatore cioè di una grande verità: «Racism is evil», «Il razzismo è il male»). Eppure non si può analizzare la politica contemporanea se non attraverso il prisma della storia, e questa ci è cosí familiare, è cosí documentata che non evocarla rasenterebbe la disonestà intellettuale. Inoltre, di fronte all’impennata dei partiti populisti nel mondo occidentale, di fronte alla liberazione e, quindi, alla banalizzazione della parola mediatica e politica razzista, negare le similitudini tra il clima di odio degli anni Trenta e questo che si sta sviluppando oggi nel mondo equivale a un accecamento. Nel suo saggio La force de l’incohérence 1 , Olivier Mannoni, che tra i vari contributi ha consegnato una nuova traduzione di Mein Kampf (opera che definisce «un monumento di vuoto concettuale e di aberrazioni sintattiche»), spiega che «spezzando la sintassi e il rigore, la semplificazione estrema del discorso costituisce la strada piú sicura verso la violenza». Specialista della Germania nazista, Olivier Mannoni ha tradotto in particolare il terzo tomo del diario di Goebbels, «grafomane frenetico». Racconta di averci trovato «un’alternanza di frasi pompose, di invocazioni esclamative, di detti mutilati, del tipo “l’abito non fa primavera”», e molteplici, interminabili avverbi. Cita ugualmente Himmler, nella cui espressione orale e scritta si trovano frasi «al contempo semplicistiche e ingarbugliate, un tono enfatico, uno stile ripetitivo e soprattutto l’impiego di parole quasi infantili per designare la realtà». Mannoni rileva nel discorso del capo delle SS elementi che, a noi traduttori di Donald Trump, sono familiari: «Parla anche lui di “mondo cattivo”, esprimendo una visione del mondo in cui schlecht e gut si oppongono in modo ugualmente sommario e binario, come bad e good nei discorsi di Donald Trump». Quanto a Eichmann, alto responsabile della Soluzione finale, classificava il mondo in «buoni» e «cattivi», e si mostrava incapace di esprimere un pensiero complesso. Alla retorica di Eichmann, Mannoni paragona esattamente il «fuoco e furia» con il quale Trump minacciava la Corea del Nord prima che rientrasse nel novero dei paesi alleati dell’America. Anche lí, spiega Mannoni, il linguaggio binario utilizzato dai «grandi uomini» della dittatura nazista semplifica il pensiero e lo rende incoerente, ed è questa incoerenza che conduce all’arbitrario e all’autoritarismo. Se non c’è piú coerenza di lingua né di pensiero, non ci sono piú regole definite da seguire. Il potere può dunque crogiolarsi nell’arbitrario e il popolo può temere senza sosta di trasgredire a regole di cui non capisce piú niente. Documento fondamentale nello studio del linguaggio dei regimi totalitari e piú precisamente della retorica nazional-socialista, LTI. La lingua del Terzo Reich porta anche acqua al mulino di quelli che vedono un segnale d’allarme nella semplificazione del pensiero e della lingua propria di Trump e del suo entourage. Questo libro è stato scritto da Victor Klemperer, filosofo ebreo tedesco che si è dedicato fin dal 1933 allo studio della lingua utilizzata dai nazisti. Teneva un diario (clandestino, naturalmente), e dall’avvento di Hitler ha sentito che le atrocità commesse e quelle future erano consentite in particolare dal neutralizzare il senso del linguaggio e della comunicazione. Klemperer si rende conto che la lingua è servita come strumento di propaganda alla macchina sterminatrice del Terzo Reich, e che questo strumento è stato messo in atto abbastanza presto tramite Terzo Reich, e che questo strumento è stato messo in atto abbastanza presto tramite

l’imposizione di un certo tipo di vocabolario che i nazisti deviavano dal suo senso iniziale per dargli un contenuto dottrinario:

Il dominio assoluto che esercitava la norma linguistica di questa piccola minoranza, per non dire di quel solo uomo, si estese sull’insieme dell’area linguistica tedesca con un’efficacia tanto piú decisiva perché la LTI [Lingua Tertii Imperii, la lingua del Terzo Reich] non faceva nessuna differenza tra lingua orale e scritta. Molto di piú: tutto era discorso, tutto doveva essere arringa, ingiunzione, esaltazione 2 . Il livellamento tra la lingua scritta e la lingua orale: ecco cosa suona familiare alle nostre orecchie e ai nostri occhi impregnati di discorsi e di tweet di Trump. Nel discorso, nel senso piú ampio, di Trump candidato prima e di Trump presidente poi, è anche questo che ha scioccato i traduttori: tutto in lui è solo oralità. Anche quando scrive, si direbbe che parli, che sia fisicamente presente, e che arringhi i lettori a suon di slogan e di tweet comminatori in cui spesso si ritrova in filigrana la minaccia di giudicare antipatriottici tutti quelli che non la pensano come lui. Trump si scatena, minaccia, s’industria per provare la sua innocenza, per accusare i suoi nemici, a scapito di ogni dignità, come in questo tweet del 25 luglio 2018:

Quale avvocato registra il suo cliente? Che tristezza! È qualcosa d’inaudito, chi ne ha mai sentito parlare prima? Perché la registrazione è stata conclusa (interrotta) mentre dicevo probabilmente delle cose positive? Mi dicono che ci sono altri clienti e numerosi giornalisti vengono registrati – è mai possibile? Peccato! Twitter gli serve anche per giustificare delle misure di esclusione degli stranieri in termini binari che, presi alla lettera, flirtano con gli appelli al linciaggio:

I democratici vogliono le frontiere aperte e vogliono abolire l’Ice [Immigration and Customs Enforcement], gli uomini e le donne coraggiosi che proteggono il nostro paese da persone tra le piú cattive e pericolose della terra! Mi dispiace, non posso permettere una cosa simile! E poi, cambiate le leggi al Senato e approvate una Sicurezza FORTE alle Frontiere! Qui, ho tradotto l’inglese «some of the most vicious and dangerous people on earth» con «alcune tra le persone piú cattive e pericolose della terra». È una deliberata scelta di traduzione, cui va concesso il beneficio del dubbio, perché queste parole possono anche essere tradotte con «alcuni popoli tra i piú cattivi e pericolosi della terra», attribuendo una dimensione internazionale all’ira del presidente americano. Al lettore, forte della sua esperienza del personaggio, l’incombenza d’interpretare il sottotesto del locutore. Certo, si vuole evitare il punto Godwin a ogni costo, ma qui c’è un leader di caratura mondiale che mette alla gogna popoli i cui rappresentanti vivono in seno alla sua comunità. Trump parla qui dei messicani e di altri esiliati dell’America Latina che vengono a cercare rifugio negli Stati Uniti, non si tratta di propaganda di politica straniera come nel caso della Corea del Nord o dell’Iran – non deve esserci una sovrabbondanza di nordcoreani in America vista l’invalicabilità delle frontiere; quanto alla comunità iraniana, proveniente da un paese vilipeso da Trump, rappresenta un’infima parte della popolazione (peraltro, l’Iran fa parte dei paesi colpiti dal «Travel ban»). Una cosa è condannare pubblicamente un popolo da cui si è lontani da tutti i punti di vista, un’altra è definire «piú cattivi e piú pericolosi della terra» membri di una comunità che rappresentano un’altissima percentuale della popolazione insediata sul territorio americano, chiamando la popolazione americana a guardare con occhio diverso le persone cosí marchiate che vivono accanto a loro. Come dice Victor Klemperer, «c’è anche molto isterismo nelle azioni e nelle parole del governo. Una volta o l’altra si dovrebbe studiare particolarmente l’isterismo del linguaggio» 3 . «La ripetizione costante sembra essere un effetto di stile essenziale nella loro lingua», si stupisce Klemperer constatando che il minimo fatto positivo è ripetuto all’infinito dai nazisti, che se ne intestano automaticamente il merito, anche quando non c’entrano per nulla. Un riflesso analogo e le stesse ripetizioni costanti si ritrovano in Trump, il cui pensiero sembra un disco rotto ispirato dall’attualità. È quanto emerge sia dalle interviste orali come la prima intervista al «New York Times», quando citava in continuazione la sua vittoria elettorale, sia dai tweet, in cui è capace di tornare piú volte al giorno sullo stesso argomento per dire sempre la stessa cosa. Trump è anche risultato un maestro nell’arte di attribuirsi il merito di quei successi economici che possono essere solo il prodotto di molti anni di lavoro dell’amministrazione precedente. Infine, un altro elemento inquietante, quando ci si proietta l’immagine di un’America che cede alle sirene dell’autoritarismo, è quella di Trump che manifesta la sua ammirazione e il suo rispetto per quei leader mondiali fino ad allora additati dalla comunicazione internazionale precisamente in quanto dittatori. Se la migliore illustrazione del fenomeno è il cameratismo (addirittura «l’amore», stando a Trump) tra il presidente americano e il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un, l’ammirazione e il rispetto apparentemente sinceri che manifesta per il dittatore filippino Rodrigo Duterte, per esempio, accusato di numerose violazioni dei diritti umani, è meno nota ma altrettanto inquietante. Se le relazioni internazionali con i dittatori rientrano nelle funzioni inerenti al ruolo di presidente, secondo Jamie Kirchick, specialista di politica straniera alla Brookings Institution, «quello che è diverso con Trump è che spesso lui sembra provare una sincera ammirazione per i capi di Stato». E aggiunge: «Trump è diverso perché lui […] ama il lato arrogante, ama il lato duro, ama l’ostilità verso l’opposizione e i media. E questa è una novità. Non abbiamo mai veramente avuto un presidente che non sembrasse esprimere le inquietudini dei suoi predecessori in merito ai diritti umani» 4 . Quando Trump cita i dittatori, non sembra misurare la portata delle sue parole: il 5 luglio 2016, nel corso di un comizio a Raleigh, nella Carolina del Nord, ha dichiarato per esempio che avrebbe preferito che Saddam Hussein e Gheddafi fossero ancora al potere perché loro, almeno, erano efficaci – anche se concede che, sí, «Saddam Hussein era criminale. D’accordo. Era un criminale. Un autentico criminale. Ma sapete che cosa sapeva fare di buono? Uccideva i terroristi». Queste riflessioni da bar assumono una dimensione minacciosa in bocca a un aspirante presidente – Trump le rivendicava allora, e continua a rivendicarle oggi. «Sono un nazionalista», ha affermato nell’ottobre 2018, a un raduno politico prima delle elezioni di metà mandato. «Non si dovrebbe utilizzare questa parola», ha ritenuto opportuno precisare, mostrando cosí di essere consapevole dell’estrema connotazione politica del termine. Trump preferisce apertamente la dittatura alla democrazia, se questo gli serve a raggiungere i suoi obiettivi. Si è d’altronde premurato di congratularsi con Jair Bolsonaro, nuovo presidente brasiliano eletto sulla base di un programma autoritario che sa tanto di ritorno alla dittatura militare. È forse un modo per giustificare eventuali misure di sicurezza eccezionali, l’equivalente del nostro «stato di emergenza», sospendere le libertà per l’esclusiva volontà del leader, scavalcando il processo democratico e i rappresentanti del popolo? La paranoia nazionalista che accompagna da sempre i regimi dittatoriali è molto presente, nei discorsi come nelle azioni del presidente americano. Ora, questi regimi giustificano sempre i mezzi che impiegano con la necessità di difendersi contro un nemico designato dallo Stato, a volte dall’interno (i nemici del popolo), spesso dall’esterno (gli immigrati). Schierando niente meno che cinquemila soldati al confine con il Messico nell’ottobre 2018, in previsione dell’arrivo di una carovana di migranti honduregni «molto pericolosi» ai suoi occhi (che, detto en passant, aveva raggiunto solo il confine sud del Messico, a migliaia di chilometri da lí, ed era costituita da poco piú di quattromila persone), promettendo d’inviarne «tra diecimila e quindicimila» in totale (ossia tre volte di piú dei soldati americani presenti in Iraq) e annunciando che li avrebbe autorizzati a sparare (e non a salve) sui migranti che avessero lanciato pietre, Trump stabilisce che il paese è in pericolo salve) sui migranti che avessero lanciato pietre, Trump stabilisce che il paese è in pericolo

e che lui adotta le misure necessarie per garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Discorso rafforzato dalla sua amministrazione, quando Alyssa Farah, addetta alla comunicazione del vicepresidente , parla di «un affronto alla nostra sovranità». Minaccia fantasmagorica ma suscettibile di convincere, oltre che la base dei sostenitori di Trump, una buona fetta di americani sensibile ai cliché e ai pregiudizi. Se in teoria l’America non è una dittatura, la cosa puzza comunque un po’.

1. «Contemporary French and Francophone Studies. Sites», XXI (2007), n. 5, pp. 548-55. 2. Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, a cura di E. Frohlich, Giuntina, Firenze 20114, pp. 39-40. 3. Ibid., p. 50. 4. Trump Latest Praise for Strongmen Includes Rodrigo Duterte, Vladimir Putin and Kim Jong Un, in «ABC News», 14 novembre 2017. I nemici del popolo Per fortuna esistono dei contropoteri, che utilizzano a loro volta le parole per combattere. Il piú grande e il piú potente è sempre stato la stampa. Oggi, nel senso piú ampio dei «media» (radio, televisione, Internet, stampa online), questo contropotere continua a esistere in America e a servirsi del linguaggio per opporsi a Trump e ai suoi «fatti alternativi». Ora, tra tutti i nemici dichiarati di Donald Trump, oggetto della sua ostilità piú violenta sono appunto i media, e piú precisamente i media che dissentono da lui:

La libertà di stampa va di pari passo con la responsabilità di riportare le informazioni in maniera esatta. Il 90 per cento della copertura mediatica verso la mia amministrazione è negativa, malgrado i risultati straordinariamente positivi che siamo riusciti a ottenere, non c’è allora da stupirsi se la fiducia nei media non è mai stata cosí bassa! Non permetterò che il nostro grande paese sia venduto dagli haters anti Trump della stampa moribonda. Poco importa quanti cerchino di distogliere l’attenzione e di nasconderlo: il nostro paese fa grandi progressi sotto la mia leadership e non smetterò mai di lottare per il popolo americano! Per esempio, l’inadeguato «New York Times» e il «Washington Post» di Amazon non fanno altro che scrivere articoli orribili perfino sui successi molto larghi – e non cambieranno mai! Questa lunga invettiva racchiusa nello spazio di quattro tweet consecutivi è offerta dal quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, che precisa anche che «la follia dei media è dovuta a una Trump Derangement Syndrome», vale a dire a una sindrome di demenza trumpiana, malattia inventata dai sostenitori di Trump per indicare le reazioni sistematicamente negative dei suoi oppositori a ogni intervento presidenziale. (L’espressione si ispira alla Bush Derangement Syndrome, coniata dallo psichiatra Charles Krauthammer nel 2003 per descrivere «le crisi acute di paranoia nella gente normale il resto del tempo, in reazione ai politici, alla presidenza – e non – all’esistenza stessa di George W. Bush»). Se esistono decine (centinaia? migliaia?) di altri tweet di Donald Trump che attaccano la stampa, questo appena citato è molto efficace, perché riassume perfettamente la situazione e la sua posizione rispetto ai media. Analizziamolo:

– Colpevolizzare. La libertà va di pari passo con la responsabilità…, sottinteso: voi non fate il vostro lavoro e questo è immorale. – Il 90 per cento della copertura mediatica verso la mia amministrazione è negativa. Spara una cifra schiacciante, uscita dal nulla, in modo intempestivo e inatteso – ma dare cifre significa guadagnare credibilità e, soprattutto, fornire secchi a quanti intendono portare acqua al suo mulino. Su Twitter, basta sparare una cifra per vedere in un batter d’occhio quanto sa essere redditizia. – I risultati straordinariamente positivi che siamo riusciti a ottenere. Resta nel vago, nessuna precisazione riguardo ai risultati in questione, perché prenderlo in parola è sufficiente. Rincara la dose qualche riga dopo, con il nostro paese fa grandi progressi sotto la mia leadership. – Non c’è da stupirsi se la fiducia nei media non è mai stata cosí bassa! Illustrazione del funzionamento del pensiero magico di Trump. Se dice una cosa, diventa realtà. – Non permetterò che il nostro grande paese sia venduto dagli haters anti Trump della stampa moribonda… Questa sí che è arte! Si possono rimproverare molte cose a Trump (e non ce ne priviamo certo, altrimenti non stareste a leggere questo libro), ma bisogna riconoscere che qui si ritrovano tutti gli elementi del linguaggio necessari a manipolare l’opinione: innanzitutto l’adulazione (il nostro grande paese), che lo colloca nella posizione irreprensibile di patriota ed esclude di fatto da questa categoria tutti quelli che dissentono da lui (ci torna su con non smetterò mai di lottare per il popolo americano!, sottinteso: a differenza dei media che lo vogliono perdente). L’accusa che segue (venduto, detto en passant, è precisamente quello di perdente). L’accusa che segue (venduto, detto en passant, è precisamente quello di

cui è accusato nella vicenda della collusione con la Russia. Qui Trump ribalta l’accusa contro i suoi accusatori e lo stesso può dirsi per poco importa quanti cerchino di distogliere l’attenzione e di nasconderlo, che è proprio quello che lui stesso tenta di fare per sfuggire alla giustizia). L’espressione stampa moribonda sottintende che è pessima (altrimenti non sarebbe moribonda), ma al contempo partecipe del suo pensiero magico (se lo dico vuol dire che è vero – il che appianerebbe decisamente le vicende del presidente). – Seguono poi le accuse mirate, contro il «New York Times» e il «Washington Post» di Jeff Bezos. Trump detesta il «Washington Post», che gli aveva attribuito tre Pinocchi nel 2015 perché ha sbandierato di avere predetto nel suo libro, uscito nel 2000, gli attentati del 2001 e la guerra che sarebbe seguita contro il terrorismo. Da allora, il quotidiano non smette di rivelare scoop sugli atti di pirateria della campagna del 2016 e sulla possibile collusione tra la squadra della campagna presidenziale e i russi. E Trump odia il «New York Times», accusato di pubblicare solo articoli negativi su di lui, le famose fake news. – Infine, e non cambieranno mai! è insieme un’incriminazione dei media – a cui il presidente rimprovera la faziosità ponendosi come vittima innocente (qualunque cosa faccia, mi odiano) – e una condanna. Questi giornali sono ai suoi occhi irrecuperabili e, in caso di problemi, non sarà certo lui a difenderli (del resto non si disturba nemmeno a gettare olio sul fuoco). È quanto del resto illustra mirabilmente il piccolo video postato dal figlio Eric, girato in Florida durante un comizio di Trump a fine luglio 2018. Mostra una folla di suoi sostenitori fischiare un giornalista della Cnn per lunghi minuti e scandire «Cnn sucks! Cnn sucks!» («la Cnn fa schifo»). È un video da brividi, perché l’immagine di un’intera sala che urla il proprio odio contro un solo uomo in piedi è un linciaggio simbolico – ed è difficile non dirsi che tra il simbolo e gli atti il passo è breve.

Mi sembra inevitabile fare il parallelo tra questa situazione e un’altra analoga: siamo nella campagna presidenziale del 2016 e Barack Obama sostiene Hillary Clinton al comizio di Fayetteville, nella Carolina del Nord. In pieno discorso, all’improvviso, la folla comincia a fischiare qualcuno: si tratta di un sostenitore di Trump, l’unico tra tutti quei democratici convinti, un anziano signore che sfoggia qualcosa simile a medaglie militari e che, tutto solo, agita un cartello blu bordato di rosso su cui è scritto «TRUMP» e «Make America Great Again». L’istinto gregario della folla democratica, che non è piú morale di quello di una folla repubblicana, la induce a mettersi a fischiare il vecchietto e la sala intera si scatena contro una sola persona. A quel punto, Barack Obama si arrabbia: «Smettetela! Primo, viviamo in un paese che rispetta la libertà di espressione. Allora… Secondo, sembra che quest’uomo abbia servito l’esercito, per cui merita rispetto. Terzo, è un anziano signore e bisogna rispettare chi ha piú anni di noi. E quarto… non fischiate! Non fischiate! Avanti, su!» La folla si placa, e l’anziano signore viene riaccompagnato verso l’uscita con il suo cartello. Trump accusa i media di essere i «nemici del popolo americano» e cosí facendo utilizza un vocabolario di propaganda che ricorda le dittature europee del XX secolo, dove il nemico del popolo era sempre da eliminare. L’espressione era particolarmente apprezzata da Stalin, che come tutti sanno non era tenero verso i suoi nemici politici. Osserviamo cosa dice il rapporto Chruščëv:

Stalin diede origine al concetto di «nemico del popolo». Questa formula rese automaticamente inutile stabilire la prova degli errori ideologici dell’uomo o degli uomini coinvolti in una controversia; questa formula rese possibile l’utilizzo della repressione piú crudele, che viola tutte le norme della legalità rivoluzionaria contro chiunque, in un modo qualsiasi, non era d’accordo con lui; contro chi era soltanto sospettato di intenti ostili, contro chi aveva una cattiva reputazione. Questo concetto di «nemico del popolo» eliminava di fatto la possibilità di una qualunque lotta ideologica, di far conoscere il eliminava di fatto la possibilità di una qualunque lotta ideologica, di far conoscere il

proprio punto di vista su una certa questione, anche di carattere pratico. Nel gennaio 2018, il senatore Jeff Flake, repubblicano apertamente ostile alle politiche di Trump, tanto da decidere di non ripresentarsi nel 2018 in segno del suo disaccordo, si è indignato a sua volta: «Che il nostro presidente in persona sia ricorso a parole di triste memoria utilizzate da Iosif Stalin per descrivere i suoi nemici, è la prova dello stato in cui versa la nostra democrazia». Stalin non aveva inventato l’espressione, già sentita durante la Rivoluzione francese e piú ampiamente nel corso della rivoluzione bolscevica, ma ha contribuito a diffonderla e l’ha impiegata per indicare i capri espiatori dell’Urss. Il fatto che Trump scegliesse la stessa formula, lui che ha una cultura cosí scarsa, non è casuale. Sa ben poco della storia del suo paese e della Russia, ma a quanto pare lui, o chi tra i suoi consiglieri gli ha raccomandato di servirsene, sa fino a che punto è carica di senso. E funziona: la stampa viene fischiata durante i suoi comizi, Trump stesso ritrasmette quelle immagini sui suoi account Instagram e Twitter, non perde mai occasione di ricordare il suo enorme disprezzo per i giornali e a poco a poco si sviluppa l’idea che non ci si possa fidare dei media che lo criticano, perché, oltre a essere il nemico di Trump, sono il nemico del popolo – nel senso che lavorano solo nel proprio interesse. Se alla fine Trump riuscisse a zittire i suoi detrattori dei media, allora non ci sarebbe piú che una sola campana e gli Stati Uniti si ritroverebbero in una situazione in cui l’opposizione politica potrebbe esistere solo clandestinamente e attraverso canali privati. Non sto dicendo che Trump ci riuscirà, non lo credo perché in realtà i suoi contropoteri, nonostante stiano perdendo terreno, godono ancora di un certo ascendente. A differenza di quanto accade in Russia, in Arabia Saudita o altrove, in America i giornalisti non sono vittime di «incidenti» o di pallottole vaganti. Eppure, se si è tentati di considerare il presidente americano un imbecille (a volte sono la prima a cedere a questa tentazione), bisogna riconoscere che la manipolazione attraverso le parole è efficace, che il martellamento delle stesse accuse contro le stesse persone finisce per lasciare una traccia nella mente del pubblico. Che questa manipolazione sia consapevole o no, che questi stratagemmi di condanna dei contropoteri siano elaborati in maniera volontaria in gabinetti segreti o no, alla fine poco importa, nella misura in cui i danni sono fatti. I due principali giornali calunniati da Donald Trump hanno adattato il loro slogan in conseguenza degli attacchi inferti dal presidente. Il «Washington Post» ha scelto «Democracy dies in darkness» 1 («L’oscurantismo è la morte della democrazia»), garbatamente irriso da Dean Baquet, direttore del «New York Times», che lo ha definito «il prossimo film di Batman». Il «New York Times», dal suo canto, per la prima volta in sette anni ha scelto di incentrare la sua pubblicità durante la cerimonia degli Oscar sul tema della verità, con una conclusione shock: «Oggi la verità è piú importante che mai».

1. Sí, darkness significa proprio «oscurità», avete ragione, e il vostro dizionario pure. Ma in questo contesto, si tratta di spegnere la luce della verità e delle conoscenze. Quindi… Leggo dei pezzi Uno dei miei figli è dislessico. La dislessia è un disturbo cognitivo di cui si può soffrire a diversi livelli e che non ha assolutamente niente a che vedere con l’intelligenza e le capacità intellettive. Una persona lievemente dislessica farà fatica a leggere in maniera fluida, inciamperà su certe parole, ma non avrà necessariamente un handicap da un punto di vista professionale o personale. Una persona molto dislessica può invece non avere mai accesso allo scritto. Non è solo questione di confondere le lettere e di confondere le b con le p. Non sono né ortofonista né neuropsichiatra, ma ho una conoscenza empirica abbastanza approfondita del fenomeno, per avere accompagnato per l’intero ciclo scolastico un bambino molto dislessico. Il problema si presenta cosí: quando mio figlio legge un testo ad alta voce, cosa che può fare grazie a molti anni di rieducazione ortofonica, riesce a distinguere le lettere e i suoni che quelle lettere producono quando si trovano una accanto all’altra. A volte è laborioso, ma non impossibile. Mio figlio legge. Quando s’imbatte in una parola che non conosce, è molto laborioso, ma la cosa rimane fattibile se si riprova con calma piú volte. È quindi capace di leggere un paragrafo o una pagina di un libro per intero. Avrà però grandi difficoltà a spiegare il senso di quello che ha appena letto. Alcune parole gli saranno rimaste in mente e, aiutandosi con il ragionamento e con le conoscenze che possiede, riuscirà a imbastire qualcosa di coerente. Avendo mobilitato tutte le sue energie cognitive per risolvere l’equazione «lettura», gli resta ben poco per attivare al 100 per cento la casella «comprensione». In compenso, se qualcuno gli legge ad alta voce quella stessa pagina del testo, capisce tutto e può riassumerla senza il minimo problema. La dislessia, a uno stadio simile, è un po’ come una parete nel cervello: la persona può leggere o capire, ma non fare le due cose nello stesso tempo. Proprio come non si può mandare giú la saliva e, simultaneamente, inspirare con la bocca, anche se si è abilissimi nel respirare o nel deglutire 1 . Quando viene diagnosticata una forte dislessia, le soluzioni sono due: la si accetta o ci si inalbera. Se la si accetta, allora si possono attuare alcune strategie di aggiramento. Ammettere cioè che il proprio figlio non leggerà mai un libro, e trovare altri mezzi per farlo accedere a quello stesso genere di cultura. Mio figlio legge con le orecchie: quando non si fa leggere i libri da un familiare, li ascolta grazie agli audiolibri oggi disponibili nei formati piú vari e per una quantità di opere letterarie, classiche e moderne (occorre una buona dose di perseveranza: la lettura del tomo 5 di Harry Potter, per esempio, dura trenta ore). Gli faccio vedere film che gli rompono l’anima, gli racconto storie su qualsiasi cosa, insomma, gli rendo la vita un inferno nel tentativo di fargli entrare dalle orecchie tutto quello che, secondo me, un accesso «normale» alla lettura gli avrebbe fatto scoprire con gli occhi. Nelle situazioni quotidiane, compensa in maniera straordinaria: ha un senso dell’orientamento fuori dal comune, sa montare qualsiasi mobile senza ricorrere alle istruzioni (che fantastica circostanza) e ha una parlantina tremenda. Ha un’eccellente memoria uditiva. Insomma, compensa. Inoltre, il suo disturbo dell’attenzione (disturbo spesso collegato alla dislessia) fa di lui una persona impulsiva, pronta a saltare di palo in frasca e a disinteressarsi molto spesso dei compiti che non ha scelto. E, con ogni evidenza, ha grandi capacità di concentrazione (è il principio). Le persone colpite da questo handicap (perché di un handicap si tratta) trovano sempre un modo di compensare. E quando non gli è stato diagnosticato, hanno sentito ancora di piú il bisogno di nasconderlo e ne hanno sofferto.

Avrete senz’altro capito dove volevo arrivare. Non pretendo di avere le conoscenze sufficienti né di questo genere di disturbi, né della salute cognitiva di Donald Trump. Inoltre, e tutti gli specialisti concordano in merito, non si può fare una diagnosi a distanza senza avere visto, sentito, esaminato il soggetto. Ciò detto, non vedo perché dovrei privarmi di fare un po’ di psicologia da salotto sulla scorta di quanto mi ha insegnato la mia esperienza personale. Inoltre, per alleviare la mia sindrome dell’impostore, posso basarmi su niente meno che Inoltre, per alleviare la mia sindrome dell’impostore, posso basarmi su niente meno che

l’American Psychoanalytic Association che, nel luglio 2017, ha inviato ai suoi membri una mail nella quale li esentava dalla «Goldwater Rule», quella regola che impone di non diagnosticare mai un paziente senza averlo esaminato di persona. Dopo l’elezione di Trump, è stata oggetto di un animato dibattito tra diversi specialisti della salute mentale. (È opportuno notare che l’American Psychiatric Association, da parte sua, ha dichiarato di restare fedele a questa regola). Se questa controversia è nata in quel momento preciso, è perché un gran numero di specialisti della salute mentale si torcevano sulla loro poltrona, ardendo dal desiderio di sbandierare che il comportamento pubblico del nuovo presidente ricordava comunque alcuni cattivi funzionamenti che forse valeva la pena di segnalare. Che sia possibile, auspicabile, deontologico o meno, dibattere sullo stato del cervello del presidente americano, alla fine, non è la cosa piú importante. Di sicuro, si può sollevare qualche dubbio, fare psicoanalisi o psichiatria da salotto: il segnale piú eloquente, in questa storia, è che il dibattito è nato in quel momento preciso e non durante il mandato di un altro presidente. Ma torniamo al nocciolo della questione: io che non sono una specialista dei disturbi cognitivi, parto dal presupposto che Trump sia affetto non solo da un disturbo dell’attenzione (che spiega la fatica nel concentrarsi, i salti di palo in frasca nei suoi interventi, l’impulso del tweet, e via dicendo) ma anche, forse, da una lieve forma di dislessia. È stato un documento video a mettermi la pulce nell’orecchio. Si tratta di una deposizione filmata nel giugno 2016, riguardo a un contratto di locazione, oggetto di litigio con il suo inquilino. La donna che conduce il colloquio, presumibilmente l’avvocato della parte avversa, gli chiede quanti contratti come quello che ha davanti agli occhi abbia letto nella sua carriera. «Firmati o letti?» domanda Trump. «Letti» replica la donna. «Non molti. Ne ho firmati centinaia». Trump spiega allora che per queste cose si affida ad altre persone, ai suoi impiegati o ai figli. Lui, da parte sua, firma con piena fiducia. Bene. Chi non ha mai firmato un contratto telefonico senza leggerlo dalla A alla Z scagli la prima penna. L’avvocato gli chiede se ha letto il passaggio che si riferisce ai danni e agli interessi. Trump risponde di no. Lei gli domanda se potrebbe leggere quel passaggio e dire cosa capisce. («Obiezione», dice l’avvocato di Trump, «il signor Trump non è un giurista»). «Vuole che lo legga?» chiede Trump. «È lungo. Molto lungo». «È molto lungo» concede la donna che gli sta di fronte. In quel momento Trump solleva il foglio, volta la pagina, e dichiara: «Non ho gli occhiali. Questo mi danneg… Non ho portato gli occhiali. È scritto cosí piccolo». Dopodiché aggiunge: «Posso rendermi conto per sommi capi di cosa si tratta, vuole che provi?» e quando la donna gli propone di fornirgli una copia del documento in un corpo di scrittura piú grande, per sopperire alla mancanza degli occhiali, lui preferisce lanciarsi: «Ci proverò». Legge per qualche attimo in silenzio, poi tenta di riassumere i paragrafi basandosi con ogni evidenza sulle poche parole che ha riconosciuto. «È una clausola complessa, ma piuttosto standard». Oltre a essere comunque da idioti dimenticare gli occhiali quando si va dal proprio avvocato, è evidente che Trump ha impiegato tutte le strategie evasive possibili per non leggere il testo che aveva sotto gli occhi. Da quando i primi internauti hanno lanciato l’idea che il presidente americano non sa leggere, le prove a supporto inondano il web: lo si vede, per esempio, seguire con grande difficoltà i canti della messa sul libretto durante la cerimonia d’investitura, sbandierare in piú occasioni che odia i “gobbi”, che «non ci crede», e che non è lui a scrivere i suoi tweet ma li detta, e se afferma che la sua opera letteraria preferita è Niente di nuovo sul fronte occidentale, dichiara anche di non avere il letteraria preferita è Niente di nuovo sul fronte occidentale, dichiara anche di non avere il

tempo di leggere «leggo degli stralci… leggo… leggo dei pezzi, leggo dei capitoli. Ho giusto… non ho il tempo» ha risposto a una giornalista di Fox News, Megyn Kelly, che gli chiedeva: «Qual è l’ultimo libro che ha letto? Ha il tempo di leggere?» Il suo ghostwriter Tony Schwartz, che ha scritto per lui Trump. The Art of the Deal (1987), non ha peli sulla lingua: «Trump non ha scritto una sola parola di The Art of the Deal e dubito che abbia scritto una riga degli altri libri che portano il suo nome in copertina», ha dichiarato al giornale «The Independent». «Non legge libri, e non ne scrive». Perché non legge? Ufficialmente, perché non ne ha bisogno per prendere le buone decisioni. Ci arriva con «pochissime altre conoscenze rispetto a quelle che già possiedo, piú la parola “buonsenso”, perché ho molto buonsenso e un dono particolare per gli affari». Eppure, stando a lui, è una cosa che ama. Quando un giornalista di Fox News gli chiede come gli piace rilassarsi alla fine di una giornata di lavoro, risponde cosí:

Be’, sa, adoro leggere. Peraltro in questo momento guardo un libro, sto leggendo un libro, cerco di iniziarlo. Ogni volta che arrivo a metà pagina, ricevo una telefonata perché c’è una cosa urgente, o giú di lí. Ma oggi andremo a visitare la casa di Andrew Jackson 2 nel Tennessee e sto leggendo un libro su Andrew Jackson. Adoro leggere. Non leggo molto, Tucker, perché lavoro sodo a un mucchio di cose, compreso a ridurre i costi. I costi nel nostro paese sfuggono al controllo. Ma ci succedono un sacco di cose formidabili, ci succedono un sacco di cose straordinarie. Se Trump cita la biografia di Andrew Jackson, deve essere perché, quando era candidato, aveva sancito di non avere nessun bisogno di leggere biografie presidenziali e da allora avrà imparato che questa dichiarazione aveva potuto danneggiare la sua immagine. Marc Fischer, il giornalista del «Washington Post» che ha raccolto questa affermazione, nel luglio 2016, a proposito di quello che all’epoca era solo un improbabile candidato, aveva scritto:

L’ufficio di Trump è coperto da pile di riviste, quasi tutte con la sua foto in copertina, e ogni mattina legge una pila di copie stampate tratte da articoli di giornali che parlano di lui e che la sua segretaria gli porta in ufficio. Ma non ci sono librerie nel suo ufficio, né computer sulla scrivania. Trump non nasconde di odiare i testi lunghi: «Mi piacciono gli elenchi puntati, anzi mi piace che abbiano meno punti possibile» ha confidato al sito Axios nel gennaio 2017. «Sa, non ho bisogno di rapporti di duecento pagine su un argomento che può essere trattato in una sola pagina. Questo, glielo posso dire». E anche i piccoli estratti possono dargli filo da torcere; come quando, nel settembre 2017, ha letto l’elenco dei paesi africani che ringraziava per la loro visita ufficiale e ha inventato la «Nambia» – a cui molti internauti si sono fiondati a inventare una capitale, «Covfefe». Quello che è passato soprattutto come una dimostrazione del disprezzo di Donald Trump per i paesi africani mi sembra essere l’errore di una lettura laboriosa, di chi prova difficoltà a leggere un testo e a capirlo nello stesso tempo. Quando un dislessico legge una parola che non ha mai visto prima, il suo cervello non può, nell’atto stesso della lettura, ricontestualizzarlo e correggerlo se l’ortografia non è corretta. Ogni altro lettore senza handicap cognitivi particolari avrebbe corretto – il suo cervello avrebbe corretto, secondo gli stessi meccanismi che gli fanno rimettere in ordine le lettere di una parola che sono state mischiate. Eppure Trump scrive enormemente – per essere piú precisi, è un twittatore frenetico. Per sua stessa ammissione, detta una parte dei suoi messaggi e per il resto può usufruire, come ognuno di noi, dei correttori ortografici e dei programmi di riconoscimento vocale disponibili sui suoi dispositivi. Ciò non impedisce che a volte ci scappi qualche errore: «We have enuf enemies» ha twittato nel gennaio 2015, scrivendo in perfetta fonetica la parola enough (abbastanza).

Gli esempi di errori del genere o di strategie evasive da parte di Trump sono molteplici, e si può legittimamente concludere che non gli piace leggere, o addirittura, se qualcuno è può legittimamente concludere che non gli piace leggere, o addirittura, se qualcuno è

malizioso come me, che ha difficoltà a leggere, o perché è dislessico o per qualsiasi altra ragione. Questo, in fin dei conti, non è poi cosí importante, perché la lettura è ben lontana dal costituire l’unico accesso alla cultura. Le tecniche di cui disponiamo nel Duemila – gli audiolibri, i film, i documentari, Internet! – permettono di compensare in grandissima parte le lacune create dall’assenza della lettura. E non leggere non vuol dire non essere capaci di pensare, di riflettere, di istruirsi e di acculturarsi.

1. È lo studio di un caso, beninteso. In funzione del grado di dislessia, è piú o meno possible leggere e capire simultaneamente. 2. Settimo presidente degli Stati Uniti, 1829-37. Una cima? Donald Trump non è istruito. I suoi centri d’interesse ruotano intorno al business e al golf. Ha mostrato le sue lacune sulla storia del proprio paese: «Anche durante le tensioni della guerra fredda, quando il mondo era ben diverso da quello di oggi, gli Stati Uniti e la Russia erano capaci di mantenere un dialogo forte» ha dichiarato nel luglio 2018, infischiandosene di decenni di conflitto piú o meno larvato tra il suo paese e l’Urss – crisi dei missili, muro di Berlino, guerra di Corea… Ha affermato che se ci fosse stato Andrew Jackson, la guerra di Secessione avrebbe potuto essere evitata perché «lui l’aveva vista venire» 1 (questo ritorno di Andrew Jackson in bocca a Trump lascia pensare che si aggrappi all’unico riferimento storico di cui dispone e che abbia deciso di servirlo in tutte le salse). La sera stessa, ha corretto il tiro tweetando: «Il presidente Andrew Jackson, che è morto sedici anni prima dell’inizio della guerra di Secessione, l’aveva vista venire ed era furioso. Non avrebbe mai permesso che accadesse!» messaggio indubbiamente destinato a rassicurare i suoi lettori sulle sue conoscenze cronologiche della storia. Non è neanche molto bravo in geografia: «Il Belgio è una città molto bella» affermava rapito durante un comizio ad Atlanta nel giugno 2016. «Trump dà prova di un’ignoranza tremenda riguardo allo stato del mondo attuale, la storia, gli impegni americani precedenti, quello che hanno pensato e fatto i suoi predecessori» lamenta sul «New Yorker» Geoffrey Kemp, ex impiegato del Pentagono con Ford e impiegato del National Security Council con Reagan 2 . Questo lo ha condotto a gaffe diplomatiche del tipo: «Il Libano è in prima linea nella lotta contro l’Isis, Al-Qaeda ed Hezbollah» davanti al primo ministro libanese Saad Hariri (25 giugno 2017), che avrà molto apprezzato l’osservazione, dato che Hezbollah fa parte del governo libanese da venticinque anni (e un presidente degli Stati Uniti è tenuto a saperlo). E quel gruppo combatteva l’Isis e Al-Qaeda nel momento stesso in cui Trump prendeva questa cantonata. Trump ha anche indebitamente accusato la Germania di dovere ingenti somme di denaro agli Stati Uniti a titolo di retribuzioni spettanti alla Nato (nessuno paga gli Stati Uniti sotto questa forma). Ha dichiarato che, un tempo, la Corea del Nord faceva parte della Cina 3 . Sul piano economico, in un’intervista con , presidente di Goldman Sachs, organizzata il 30 novembre 2016 dal genero di Trump per informare il suocero delle grandi tendenze economiche prima che assumesse le sue funzioni, «Cohn fu atterrito dalla mancanza di comprensione elementare» da parte di Donald Trump, che gli aveva appena detto che bastava «stampare denaro» per non aumentare il debito pubblico 4 .

Con un presidente che ne sa cosí poco, preoccupano le conseguenze delle decisioni prese alla leggera a scapito del suo paese. Il problema è dunque la sua ignoranza, e la sua scelta (libera o obbligata) di non leggere niente, né libri, né resoconti, né rapporti, è l’albero che nasconde la foresta. Perché ci si può benissimo istruire e imparare al di là dello scritto. La nostra memoria uditiva, se adeguatamente allenata, ci permette di funzionare in modo del tutto normale senza ricorrere alla lettura. Ma bisogna volersene servire. Ora, Donald Trump ha dimostrato chiaramente di non volere apprendere. Crede di sapere e ritiene di poter decidere da solo. Il problema non è la sua idiozia, peraltro non sono convinta che sia stupido come sembra; è il grado zero della curiosità intellettuale che dimostra. Non esporsi alla cultura umana, privarsi dell’esperienza degli altri, significa non accedere alla riflessione, anche inconsapevole, che la cultura genera: è questo il problema. La lingua di Donald Trump è un circuito chiuso, i suoi discorsi anche, proprio come la sua riflessione e il suo pensiero politico, perché lui si fida solo di se stesso per prendere delle decisioni. Ora, un altro inconveniente del rifiuto di apprendere, di saperne di piú, è anche che l’esperienza degli altri contribuisce a innescare il meccanismo dell’empatia. Bisogna aver fatto esperienza di punti di vista differenti per «uscire da sé» e adattare il proprio pensiero a modalità di funzionamento diverse da quelle che ci sono familiari. Rifiutando ogni sorta di apprendimento, Donald Trump si nega l’accesso all’empatia. Forse questo spiega perché non è capace di uscire dai cliché quando si trova in situazioni emotivamente forti, come la morte di un personaggio pubblico o una carneficina negli Stati Uniti. Questo rifiuto di imparare può essere interpretato come l’espressione di una natura limitata o come la conseguenza di una paura: quella che le sue lacune si vedano. A nessuno piace essere colto in fallo, ed è dura ammettere che non si sapeva una cosa che si era tenuti a sapere o che è di pubblico dominio. In questo caso specifico, Donald Trump ha un mezzo retorico per nascondere la sua ignoranza. Quando apprende qualcosa di nuovo (non siamo riduttivi: succede!), non dice: «Ho appena scoperto che…» Ribalta la situazione, va sbandierando che nessuno sa la cosa in questione e che lui la rivelerà. Il che in genere dà qualcosa tipo: «Nessuno sa…», «La gente non sa…» «Abraham Lincoln… la maggior parte della gente non sa che era repubblicano… c’è per caso qualcuno che lo sa, qui?» ha indagato a una cena di raccolta fondi nel marzo 2017. Trovandosi davanti a una platea… di repubblicani, a cui succede spesso e volentieri di definirsi come il «partito di Lincoln», sí, è lecito pensare che ne fossero al corrente. Questo intervento fa pensare a quelle persone che adorano impressionare il pubblico con aneddoti che hanno appena saputo (io lo faccio sempre, del resto sapevate che la madre di Verlaine conservava i feti dei suoi aborti spontanei nella formalina?) Citiamo ugualmente: «Nessuno immaginava che il sistema sanitario potesse essere cosí complesso». Ancora una volta, la risposta è sí: molta gente ne aveva il sentore, anche senza essere troppo esperta in materia. Trump invece l’ha scoperto quando è stato eletto e quando ha voluto revocare il sistema istituito dal suo predecessore. «La Francia è il primo alleato, e il piú antico, degli Stati Uniti. Molta gente lo ignora» ha affermato al fianco del presidente Macron nel corso della visita a Parigi nel luglio 2017. Il pubblico francese apprezzerà la rivelazione. Infine, ecco un frammento di un discorso tenuto dal presidente americano il 5 aprile 2018 sulla Cina e i pericoli commerciali che rappresenta, esempio cui sono particolarmente affezionata per l’ironia intrinseca che mi sembra contenere: «E noi abbiamo la nostra proprietà intellettuale. Un sacco di gente non capisce che cosa vuol dire». E la politica estera, chi avrebbe potuto credere che fosse una cosa cosí ingarbugliata? In un’intervista rilasciata al «Wall Street Journal», il presidente americano ha confidato che, durante il suo primo colloquio con il presidente cinese Xi Jinping, aveva scoperto che la Cina non poteva risolvere il problema nucleare della Corea del Nord: «Dopo aver ascoltato per dieci minuti, mi sono reso conto che non era cosí facile. Ho proprio sentito che avevano un potere enorme sulla Corea del Nord. Ma non è quello che avreste potuto pensare». Accidenti. Ultimo esempio, la Brexit: «Credo che nessuno immaginasse che sarebbe stato cosí complicato… Tutti pensavano che sarebbe stato “Oh, è semplice, ci iscriviamo o non ci iscriviamo, oppure staremo a vedere quello che succede”» ha confidato Trump al giornalista britannico Piers Morgan tornando dal viaggio in Gran Bretagna.

Com’è stato possibile che un uomo non istruito e orgoglioso di essere tale sia arrivato alla Casa Bianca? Si può ipotizzare che sia precisamente questa una delle ragioni della sua vittoria? Dopo la sua elezione, Donald Trump ha conservato lo zoccolo di fedelissimi che continuano a vedere in lui l’emblema dell’America umile e semplice, dell’America che lavora e che si fa rubare il lavoro da indiani d’America, cinesi, messicani… la scelta è ampia. Dell’America industriale, quella delle fabbriche che hanno chiuso, dell’America agricola, che annaspa nelle difficoltà economiche. Questa America non sa cosa farsene degli intellettuali della costa Est che la guardano dall’alto delle loro lauree e danno lezioni di morale sgranocchiando tofu bio senza glutine nei loro immancabili ristoranti vegetariani. Ma chi sono gli americani piú elettrizzati dopo l’elezione di Donald Trump e, soprattutto, perché? Secondo gli oppositori (e buona parte del mondo occidentale), l’ex star televisiva prende decisioni umane, economiche e scientifiche a dispetto del buonsenso. E ne sono scandalizzati perché da una parte lui rappresenta idee politiche di estrema destra che loro scandalizzati perché da una parte lui rappresenta idee politiche di estrema destra che loro

coprono di improperi, ma anche, e forse soprattutto, perché è un ignorante cresciuto a junk food e Coca-cola, che non sa esprimersi correttamente, che non legge niente, che parla di denaro un giorno sí e l’altro pure, insomma, è un villano. Come dice David W. Blight sul suo sito Freedom Center: «In termini di analogie e di comprensione di fatti storici, il nostro presidente non sembra neanche capace di sbagliarsi in modo ragionevole o interessante». La sinistra tuona, perché Trump disprezza ogni sorta di cultura e se la cava comunque. Tutti i dibattiti, gli articoli, gli attacchi d’ira contro il presidente americano vengono da cervelli indignati dal fatto che si possa essere (o sembrare) cosí asini e avere comunque successo, avere successo fino a questo punto. In ogni sua parola, Trump è la negazione assoluta del Secolo dei Lumi rivendicata da un’intera parte della società americana. E la cosa piú difficile da mandare giú è che, per quanto questa sinistra tuoni, scalpiti, esibisca l’incompetenza di Trump e del suo entourage, niente lo ferma e niente sembra scalfirlo. Per la sinistra, l’elezione di Trump non è solo una catastrofe politica, è anche una disfatta sociale. «America’s Golden Age of Stupidity» intitolava il «Washington Post» il 25 luglio 2017, in un articolo in cui David Rothkopf s’indignava: «Il contrario del sapere è l’ignoranza. Ma il disprezzo deliberato del sapere – qualunque sia il motivo – è la stupidità». Ora, se ci si mette dall’altra parte della barricata, l’elezione di Trump è in qualche sorta la vittoria della white trash, la feccia bianca emarginata della società americana. Trump è riuscito a spacciarsi per uno dei loro nonostante i suoi lussuosi palazzi sparsi per il mondo, nonostante i suoi segni esteriori di ricchezza e l’amore per tutto ciò che brilla, nonostante sia nato con la camicia – e pure di seta! È ricco ma è quello che la feccia bianca vorrebbe diventare, se ne avesse i mezzi. D’altronde parla come loro, non va per il sottile ed è proprio a loro che si rivolge. Che deliziosa vendetta incarna al cospetto di una sinistra convinta di essere l’élite intellettuale e che schiaccia l’americano medio con la sua cultura e le sue riflessioni. Sí, la stupidità manifesta di Trump, il suo lato «basta volerlo perché le cose cambino», il suo grado zero del pensiero complesso, tutto questo riguarda anche un’intera frangia della popolazione che ribolle d’impotenza da molto tempo e che non legge né il «New York Times», né il «Washington Post», che vive tra la costa Est e quella Ovest – e molti, al Sud –, e che finalmente si ritrova un presidente che le dà la sensazione di esistere e di avere voce in capitolo.

1. Doveva proprio avere una vista fantasmagorica, dato che la guerra di Secessione è scoppiata nel 1861, ossia sedici anni dopo la sua morte. Inoltre, Jackson aveva degli schiavi, ha operato per l’espulsione totale degli Indiani dall’Est e ha rifiutato di prendere posizione sullo schiavismo – il che lascia presagire la scelta che avrebbe fatto se avesse dovuto schierarsi durante la guerra che sfociò nell’abolizione dello schiavismo nel paese. Qui lo dico e qui lo nego. 2. Robin Wright, Why Is Donald Trump Still So Horribly Witless about the World, «The New Yorker», 4 agosto 2017. 3. Per la cronaca, una tale ignoranza sembra contagiosa. Tra le altre corbellerie, la Casa Bianca ha sbagliato per tre volte l’ortografia del nome del premier britannico Theresa May, omettendo la h. Il che non è poi cosí grave, mi direte, è piú che altro comico quando è risaputo che Teresa May senza h è un’attrice porno. 4. Bob Woodward, Paura. Trump alla Casa Bianca, Solferino, Milano 2018. La bufala cinese All’inizio della sua presidenza, Barack Obama ha confidato al «Washington Post»: «Bisogna prendere le proprie decisioni basandosi sulle informazioni, non sulle emozioni». Questo assioma descrive un funzionamento inverso a quello di Donald Trump, la cui presidenza si regge principalmente sull’istinto e sulla scienza «a lume di naso», per cosí dire. Il presidente americano non si fida per principio degli specialisti. «Parlo innanzitutto a me stesso, perché ho un ottimo cervello e mi dico un sacco di cose» ha spiegato nella trasmissione «Morning Joe» su Msnbc, nella primavera 2016, quando gli veniva chiesto chi fossero i suoi consiglieri in termini di politica estera. In campo scientifico, Trump ripone ugualmente molta fiducia in se stesso. Esiste alla Casa Bianca un ufficio di consiglieri scientifici che, con Obama, era costituito da nove persone. Questo ufficio si è progressivamente svuotato con l’arrivo di Trump, la cui amministrazione ha preso una quantità di decisioni scientifiche a ruota libera. Si è dovuto attendere l’agosto 2018, ossia un anno e mezzo dopo l’inizio del suo mandato, perché il presidente si decidesse a nominare un consigliere scientifico. Ciò significa che aveva intrapreso i negoziati sulle armi nucleari con la Corea del Nord senza avvalersi dei consigli di uno specialista in materia. Lo stesso vale per la decisione di ritirarsi dall’Accordo di Parigi sul clima. Ogni volta che nevica a New York, Trump, che confonde clima e meteo, ci vede una prova che il riscaldamento climatico non esiste. Nel 2002 sbandierava su Twitter che «è stato provato piú volte in piú occasioni che il riscaldamento climatico è una balla» 1 . Lo stesso anno, si sentiva dire che «il concetto del riscaldamento climatico è stato creato da e per i cinesi allo scopo di rendere l’industria americana non competitiva» 2 . Nel 2013, Trump rincarava la dose: «Delle tempeste di ghiaccio si scatenano dal Texas al Tennessee – io sono a Los Angeles e fa un freddo cane. Il riscaldamento climatico è una bufala totale, e costa pure carissimo!» Da quando è presidente, Trump ha dimostrato costanza su questo dossier: ha ridotto il budget dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) e ne ha nominato a capo un climatologo scettico (Scott Pruit, ex lobbista… dell’industria petrolifera, che ha finito per rassegnare le dimissioni dall’Epa in seguito a una serie di scandali finanziari e a tredici inchieste federali a suo carico, e che si diceva convinto che il riscaldamento climatico non era legato alle attività umane). Al suo posto è stato nominato un fedele collaboratore, Andrew Wheeler, un tenore di vita meno ostentato e analoghe difficoltà nel credere alle cause antropiche del riscaldamento climatico. «Il fatto è che il clima cambia regolarmente» ha affermato in un’intervista nel 2006, in perfetto accordo con il suo nuovo capo. Anche se ha smorzato i toni dopo la sua nomina: «Credo che l’uomo abbia un impatto sul clima. Ma non si capisce molto bene che cosa questo impatto rappresenti». A rigore di logica, Trump ha deciso di ritirare l’America dall’Accordo di Parigi sul clima, i cui firmatari s’impegnano a adottare misure per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e a cercare di regolamentare il rialzo delle temperature. Sulla scia, ha firmato un decreto sull’indipendenza energetica sancendo la fine del «Clean Power Plan» del suo predecessore, che prevedeva lo sviluppo delle energie rinnovabili. Perché Trump ha un chiodo fisso: il carbone. «Abbiamo [una riserva di] duecentocinquanta anni di magnifico carbone pulito» affermava estasiato nell’agosto 2017 (e nel gennaio 2018, nel suo discorso sullo stato dell’Unione: «Abbiamo messo fine alla guerra contro il magnifico carbone pulito»). Trump, che ha una certa confidenza con l’ossimoro, ama il carbone pulito quanto odia l’eolico assassino. Ai suoi occhi, la piú grande qualità del carbone, oltre che a essercene a palate nel suolo americano e a permettere di ricreare nelle industrie quei posti di lavoro che il progresso tecnologico, la consapevolezza ecologica e soprattutto il suo odiato predecessore hanno soppresso, occupa un gradino particolarmente elevato sulla sua scala narcisista: è indistruttibile. E lo dimostra: «Lo adoriamo [il carbone della Virginia occidentale]. E poi, è indistruttibile. In tempo di guerra, in tempo di conflitti, basta un occidentale]. E poi, è indistruttibile. In tempo di guerra, in tempo di conflitti, basta un

niente per disintegrare l’eolico. Quelle pale cadono come niente. Quelle condutture si disintegrano. E una volta sparite, non è che si riparano dall’oggi al domani. Quei pannelli solari si possono rovinare per un sacco di ragioni. Ma c’è una cosa che invece non si rovina mai. Sapete qual è? Il carbone». Il che è totalmente falso, ma questa è un’altra storia. Il fatto interessante è che lui ci creda, e che lo dica in questi termini. Nel campo energetico, il binarismo semantico (e, come si può dedurre, intellettuale) di Trump è particolarmente vistoso. Il carbone è il bene. È «pulito», «magnifico». E il male, mi direte? Ecco, il male è l’eolico. Proprio cosí. Trump ha sottolineato piú volte che l’eolico uccide gli uccelli, il che giustificava opporcisi (ho detto che Trump mancava di empatia? Mi sarò sbagliata). Nel 2016 si è indignato alla radio: «È una cosa che uccide gli uccelli. Non so se lo sapete. Migliaia di uccelli sparsi a terra. E le aquile. Sapete, in certi posti della California – ha ucciso talmente tante aquile. Sapete, si va in prigione quando si uccide un’aquila. Eppure l’eolico [ne uccide] a centinaia». Nell’agosto 2018, il presidente si è impietosito ancora una volta sulla loro sorte: «[L’eolico] uccide cosí tanti uccelli. Guardate sotto una di quelle pale: sembra una fossa comune di uccelli». Ma c’è ancora speranza, perché nello stesso discorso, trascinato dal medesimo impeto, Trump ha anche affermato che le pale eoliche erano estremamente vulnerabili e, di conseguenza, del tutto inaffidabili: «Bang! Una in meno! [Qui allude a un potenziale nemico dell’America che facesse fuori una pala eolica]. Sempre che gli uccelli non la uccidano prima. Gli uccelli potrebbero ucciderla prima» 3 . Nel mondo di Trump, gli uccelli potrebbero uccidere l’eolico, di sicuro nell’ambito di una vendetta alla Hitchcock il cui contesto mi sfugge 4 . Conclusione: «Il carbone ne esce alla grande», perché il carbone non è una femminuccia come quei mulini a vento che rischiano di cadere con il primo volatile che passa. Secondo l’analisi dell’amministrazione americana, tuttavia, le nuove regolamentazioni sul carbone potrebbero causare tra l’altro fino a quattordicimila morti premature ogni anno entro il 2030, per via dell’aumento della produzione di particelle sottili connesse alle malattie cardiache e polmonari. È evidente che Trump non ha letto Cervantes, ma deve aver visto un paio di film di Hitchcock e mescolato finzione e realtà.

Nelle parole di Trump, il cambiamento climatico non è una realtà. O meglio, è una realtà che dipende dagli interessi economici dell’America cosí come li concepisce lui. È una realtà relativa. Nell’«intervista che uccide» concessa al «New York Times», quando un giornalista gli domanda: «Pensa che l’attività umana sia collegata o no [al riscaldamento climatico]?» risponde cosí: «Be’, penso che una certa connessione ci sia. Una certa, qualcosa. Dipende quanto. Dipende anche quanto costerà alle nostre aziende. E bisogna tenere presente che le nostre aziende in questo momento non sono competitive». Dal momento che Trump si è messo in testa che il carbone avrebbe salvato l’economia americana, rifiuta di sentire che il carbone è un’energia molto inquinante che contribuisce in gran parte al riscaldamento climatico, allora ha deciso di cancellare uno dei problemi dell’equazione e, cosí facendo, di risolvere tutti gli altri. A differenza dei politici piú «tradizionali», lui non è tipo da menare il can per l’aia. Decreta che non c’è nessun riscaldamento climatico, e paf, il riscaldamento climatico scompare. Decreta che il carbone è pulito, e il problema è risolto. E allora si ricade nella spirale descritta da Orwell: nell’autunno 2017, l’Epa, vale a dire l’equivalente del ministero dell’Ambiente, ha cancellato tutte le occorrenze «cambiamento climatico» dal proprio sito, nella grande tradizione dei governi totalitari secondo cui ciò che non viene nominato non esiste. Il sito dell’Epa ha anche eliminato le pagine che dettagliavano i rischi implicati dal cambiamento climatico e gli approcci adottati da diversi paesi per affrontarlo. Mentre scrivo questo libro, cliccando sul link «glossario del cambiamento climatico» del sito dell’Epa si apre una pagina che indica: «Questa pagina è in via di aggiornamento». 1. Sí, «piú volte in piú occasioni»: l’originale precisa infatti «repeatedly over and over». Non sono io, è lui. 2. Tweet del 6 novembre 2012. Non insistete, non capisco neanch’io. 3. Sono estratti di un discorso tenuto da Donald Trump a una serata di raccolta fondi, il 20 agosto 2018. 4. Vorrei sottolineare en passant che l’amministrazione Trump ha permesso il rimpatrio di trofei di caccia dall’Africa e la caccia, in Alaska, di animali in ibernazione, come i lupi, gli orsi bianchi, forse perché, non essendoci l’eolico come predatore, rischiano di proliferare pericolosamente. Io, divertente e cattivo Il presidente americano non manca di umorismo. In decine (centinaia?) di interventi pubblici, ha avuto molte volte occasione di mostrarlo. All’animatore radiofonico Hugh Hewitt, per esempio, che gli ricorda di aver promesso sulla sua emittente di pubblicare la dichiarazione dei redditi, risponde: «È vero. Ma già pochissima gente ascolta la sua trasmissione: ecco, la buona notizia è questa». O durante un comizio della campagna elettorale, quando un bambino si mette a piangere e Trump rassicura la madre: «Non si preoccupi, non importa. È un bellissimo bambino, non si preoccupi. Lei, la madre, corre, cosí… Non si preoccupi. È un gran bel ragazzino in salute, non si potrebbe chiedere di piú», manifestando un’empatia assai poco usuale. Ma il bimbo non si calma, e qualche minuto dopo Trump s’interrompe nel mezzo di una frase per dire: «In effetti, scherzavo. Può portare fuori il bambino. […] Mi sa che la mamma ci ha creduto veramente: secondo lei avevo piacere a parlare con un bambino che piange in sottofondo». È cattivo, ma divertente (tranne che per la madre del bambino, certo). Altro esempio facilmente reperibile in Internet associando le parole «Trump» e «funny». Nel corso di un dibattito su Fox News, la giornalista Megyn Kelly gli ricorda: «Lei ha definito le donne che non le piacevano grosse vacche, cagne, sozzone e altri animali schifosi. Il suo account Twitter…» Trump la interrompe per rispondere giulivo: «Solo Rosie O’Donnell!» 1 . Citiamo infine il giorno in cui Trump ha pubblicamente irriso la testimonianza di Christine Blasey, una ricercatrice che accusava il candidato alla Corte Suprema Brett Kavanaugh di aggressione sessuale, parodiandola e ridicolizzandola (con un certo talento di attore, bisogna riconoscere), davanti a un’assemblea ilare. Tutte queste battute hanno un punto in comune: l’umorismo aggressivo.

Nell’ambito delle sue ricerche sul ruolo dell’umorismo nel benessere, Rod Martin, professore e ricercatore di psicologia all’università Western Ontario, ha individuato quattro categorie: l’umorismo associativo (che si condivide in società), l’umorismo che mira a elevare l’immagine di sé (piú egocentrico), l’umorismo aggressivo (che nuoce al prossimo) e l’umorismo autosvalutante. Se tutti possono ricorrere a diversi livelli a ciascuna di queste tipologie di humour a seconda delle circostanze, esiste per tutti un aspetto dominante. Rod Martin considera che le ultime due forme di umorismo sono espressione di una certa inadeguatezza, in particolare la forma aggressiva, di cui Donald Trump ha ampiamente dato prova. Questa consiste nel nuocere al prossimo con il pretesto di fare ridere. Conosciamo tutti qualcuno che si è specializzato nel lanciare cattiverie piuttosto aspre, capaci di portare l’interlocutore sull’orlo delle lacrime o alla difesa aggressiva, e giustificarsi dicendo: «Ma dài, si fa per ridere, allora non si può nemmeno piú scherzare? Non hai proprio nessun senso dell’umorismo!» Per René Proyer, professore di psicologia clinica all’università di Zurigo, il ricorso sistematico a questa forma di umorismo è tipico di persone che hanno comportamenti antisociali, che mostrano impulsività, egocentrismo e assenza di rimorsi. «Il limite è quando si accetta deliberatamente di ferire gli altri per essere divertenti. Qui non si tratta piú del ridere condiviso, tra amici, ma piuttosto di una strategia per consolidare il proprio dominio e schiacciare gli altri» 2 . Quando Trump fa una battuta, è sempre facile da capire e da tradurre: resta nell’ambito di qualcosa da prendere alla lettera, e quando ci sono sottintesi, sono cosí chiari che non è necessario rifletterci troppo per capirli. Deliberato o obbligato, questo tipo di umorismo non è mai considerato molto sottile. Trump è capace di un’altra forma di umorismo: quando non mira a eliminare un avversario o un detrattore, se ne serve per pavoneggiarsi o per riportare la conversazione su di sé. Nella famosa intervista al «New York Times», un giornalista gli chiede di parlare del riscaldamento climatico, perché il futuro presidente possiede campi da golf in riva al mare, quindi è direttamente interessato. E Trump risponde scherzando che alla fine, per alcuni quindi è direttamente interessato. E Trump risponde scherzando che alla fine, per alcuni

dei suoi campi, come quello di Doral, per esempio, le conseguenze del cambiamento climatico saranno piuttosto benefiche – perché trova che sia un po’ troppo distante dal mare…

David Litt, ex autore dei discorsi di Obama, è intervenuto sul «New York Times» del settembre 2017 per esprimere l’inquietudine che il senso dell’umorismo di Trump suscita in lui. Oltre a rendersi conto che Trump è pressoché incapace di fare una sola battuta senza che sia a scapito del prossimo, Litt sottolinea un fatto che lo preoccupa molto: Trump non ride mai. Racconta di aver fatto ricerche e di avere trovato traccia di una risata presidenziale in un solo evento pubblico. Durante un comizio della campagna elettorale, un cane si era messo ad abbaiare e uno spettatore aveva esclamato: «È Hillary!». Allora Trump era scoppiato in una sonora risata. Trump è anche il primo presidente, dopo Ronald Reagan nel 1981 3 , ad aver rifiutato di partecipare alla cena dei corrispondenti della Casa Bianca, il mega raduno annuale di Washington in cui il presidente tiene un discorso ricco di battute e di sarcasmi che non risparmia nessuno, e nel quale il presidente Obama si era particolarmente distinto. Se si considera che l’ostilità permanente che Trump manifesta verso la stampa è una delle sue motivazioni principali, è evidente che per lui l’esercizio sarebbe complicato – perché bisognerebbe leggere un discorso costellato di battute e non rischiare troppa improvvisazione, per evitare un fiasco (e ormai sappiamo fino a che punto Trump sia restio alla lettura), ma anche perché, per essere divertenti, bisogna flirtare costantemente con i limiti della decenza o della canzonatura senza mai superarli. Ora, Donald Trump non è del tutto stupido: è perfettamente consapevole che questo tipo di esercizio lo esporrebbe a una situazione di vulnerabilità. Non c’è niente di peggio che dire barzellette che non fanno ridere nessuno. Soprattutto quando si sa che il pubblico non tarderà a diffondere l’informazione 4 . Ci sono poi tutte quelle volte in cui Trump è stato divertente suo malgrado. Quando si è definito un genio. Quando ha detto che provava «grande rispetto per le donne». O anche: «Quello che c’è di piú bello in me… è che sono molto ricco». Quando, a proposito dell’uragano Florence, che ha colpito la Carolina del Nord e la Carolina del Sud nel settembre 2018, ha detto che sarebbe stato «terribilmente grosso e terribilmente bagnato», affrettandosi a confermare subito dopo che in effetti era stato «uno dei piú bagnati che si fossero mai visti, in termini di acqua». Ho una piccola preferenza per la sua spiegazione meteorologica del giorno della sua investitura: stava per piovere e Dio si era detto che no, non sarebbe stato per niente simpatico. «Pioveva quasi. Ma Dio ha guardato di sotto e ha detto: “Non lasceremo piovere sul tuo discorso”».

1. Attrice americana strenuamente impegnata nella lotta contro Donald Trump. Che ha detto di lei: «Parla come un camionista». Indovinate perché. 2. Le rire mauvais: quand l’humour devient nuisible, in «Le Monde de l’intelligence», n. 30, aprile-maggio 2013. 3. Aveva un alibi di ferro: era appena sfuggito a un attentato. Entrando in sala operatoria, prima dell’anestesia, ha guardato i chirurghi in procinto di operarlo e ha dichiarato: «Spero che siate tutti repubblicani!» 4. Un’altra ragione potrebbe spiegare l’ostilità di Trump per questa conferenza annuale: in occasione di quella del 2011, in seguito al fermento che Trump aveva provocato riguardo alla nazionalità di Obama, quest’ultimo lo aveva violentemente ridicolizzato davanti a tutta la sala con un forte senso dell’umorismo. Si racconta che sia stata questa umiliazione a far decidere a Trump di candidarsi alle presidenziali. E Dio in tutto questo Trump ha in effetti un rapporto tutto particolare con Dio. Come tutti gli americani, mi direte. Per dei francesi legati alla separazione tra Stato e Chiesa, l’idea di vedere Dio menzionato sulle banconote, nei tribunali e invocato a vanvera nei discorsi politici ha dell’insolito. Come quasi tutti i presidenti che lo hanno preceduto, Trump ha giurato sulla Bibbia – addirittura su due Bibbie: la sua e quella utilizzata prima di lui da un eminente repubblicano, Abraham Lincoln, scelta anche da Obama nel 2008. Se il giuramento è obbligatorio nella cerimonia d’investitura, la Costituzione americana non esige che avvenga su una Bibbia. È stato il primo presidente, George Washington, a lanciare la moda. Nel 1825, John Quincy Adams fu il primo a giurare su un libro di diritto e non su una Bibbia (fu anche il primo a prestare giuramento in pantaloni lunghi e non in calzoni al ginocchio, decisamente un avanguardista). Nel 1901 Theodore Roosevelt giurò in tutta fretta dopo l’assassinio del presidente McKinley, e nessuno riuscí a trovare una Bibbia per la cerimonia d’investitura, che durò in tutto dieci minuti e si tenne a casa di un amico di Roosevelt. Infine, Lyndon B. Johnson, che giurò in tutta urgenza a bordo dell’Air Force One dopo l’assassinio di Kennedy, lo fece su un messale cattolico trovato sotto un tavolino dell’aereo. Se Trump si è sottomesso alla tradizione, ne ha tuttavia tralasciata una. Secondo , destituita dall’incarico di direttrice della comunicazione della Casa Bianca e autrice di un libro al vetriolo su Donald Trump, il presidente aveva intenzione di utilizzare un’opera ben diversa per il giuramento alla cerimonia d’investitura: il suo stesso libro, The Art of the Deal. «È il piú grande libro d’affari di tutti i tempi» avrebbe detto alla sua ex impiegata. «È cosí che farò accordi straordinari per il paese. Pensi al numero di copie che venderei – forse una copia ricordo dell’investitura?» Era solo una battuta, naturalmente… Per esprimere la sua gratitudine all’idea che il bestseller di Trump avrebbe avuto il posto d’onore nel corso della cerimonia dell’assunzione della carica di presidente, Dio avrebbe dunque deciso di far piacere a Trump e di fermare la pioggia per l’evento. L’esistenza del rapporto tra Trump e Dio è lampante, ma la sua forma non è molto chiara. Se Dio è con ogni evidenza dalla parte di Trump, è lecito domandarsi se a volte il presidente americano non creda di esserne l’incarnazione. La sua megalomania, il godimento palese che trae dal potere, e soprattutto le doti che si attribuisce, sembrano in effetti attenere alla sfera divina. La sua propensione a basarsi sulle convinzioni piú che sulla scienza, il fatto di aver creato una realtà, un mondo «alternativo» che ubbidisce alle sue stesse regole, e che basti nominare la realtà per farla esistere, che lui sia convinto di sapere piú cose rispetto a tutti gli altri senza averle dovute imparare («Ne so piú io sull’Isis che i generali, credetemi» ha assicurato nell’ottobre 2016), lasciano pensare che la sua tendenza megalomane rasenti l’aspirazione divina. D’altronde «nessuno ama la Bibbia piú di me», ha affermato durante la campagna elettorale. E anche: nessuno «costruisce muri meglio» di lui, nessuno «capisce meglio gli orrori del nucleare», e tanto altro ancora. Se avete occasione, guardate su Internet la seduta della preghiera pubblica organizzata allo studio ovale della Casa Bianca il 1o settembre 2017, in seguito all’uragano Harvey. Si vede Trump seduto dietro la sua scrivania, gli occhi bassi e le mani giunte in una posizione umile (proprio cosí), e alle sue spalle un gruppo di pastori che lo tocca con la mano, come discepoli intorno al messia. Uno di questi, in una preghiera di qualche minuto, ringrazia il Signore per aver donato Trump come presidente. Nel maggio 2018, durante la Giornata nazionale della preghiera (istituita dal Congresso nel 1952), Donald Trump ha fatto notare che, da quando era presidente, l’espressione «under God» era molto piú utilizzata che con Obama («sotto l’autorità di Dio», riferimento religioso aggiunto nel 1954 al giuramento di fedeltà alla bandiera americana per «rafforzare costantemente le armi spirituali che saranno per sempre la risorsa piú potente nell’eredità e nel futuro dell’America in tempo di pace e di guerra», da intendersi: noi, a differenza dei comunisti, abbiamo Dio dalla nostra perché ci crediamo). Anche l’espressione «buon Natale», che a suo dire tendeva a scomparire («Avete notato la grande differenza tra adesso e due o tre anni fa?») ricorrerebbe ugualmente con maggiore frequenza sulla bocca degli americani. In quei momenti, Trump si cala nel ruolo di staffetta del Signore, di colui che difende il suo messaggio sulla terra – postura rafforzata da prese di posizione come la difesa dei pro-life, quei potenti detrattori dell’aborto che guadagnano sempre piú terreno negli Stati Uniti. D’altronde: «Niente è piú potente di Dio» ha ritenuto utile ricordare quello stesso giorno, nel caso in cui restasse da sfondare la porta aperta di una chiesa.

Con Ronald Reagan l’America aveva già portato un attore al potere. Questa volta, è la star di un reality show, l’ex divo e animatore di «The Apprentice». Il principio di questa trasmissione, animata e prodotta da Donald Trump, era mettere in concorrenza due squadre di giovani imprenditori, di conferire a ognuno una missione e di eliminarli uno dopo l’altro fino a farne rimanere due, che Trump aveva il piacere di selezionare. L’ultimo in lizza si vedeva proporre un posto di quadro superiore in un’azienda di Trump. Oltre al fatto che i partecipanti erano chiamati a eliminarsi tra di loro per restare il piú possibile in gara, il principio piú succoso dello show era l’esecuzione simbolica dei partecipanti, in diretta, con un perentorio e letale «You’re fired!» scagliato da un Trump in una posizione di potere assoluto, troneggiante da una grande sedia bordeaux, a metà strada tra il Dio sommo sacerdote e il sovrano assoluto. «Sei fuori»: nel primo anno della sua presidenza, Trump, diventato il piú grande dei capi, ha continuato a interpretare la forza suprema e a sbattere via tutti quelli le cui attività (la cui testa?) non gli tornava affatto utile. Nell’aprile 2018, ossia poco piú di un anno dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Trump ha visto andare via niente meno che ventidue alti funzionari, cinque dei quali sono stati «fatti fuori», mentre gli altri hanno dato le dimissioni. Il piú considerevole è stato James Comey, direttore dell’Fbi, silurato da Trump mentre indagava sulle possibili relazioni tra l’ex squadra della campagna presidenziale e la Russia. Niente gli piace tanto quanto essere nella posizione di decidere la vita e la morte simbolica del suo entourage, se non dell’umanità intera. E simbolica non poi cosí tanto, a ben riflettere: durante il confronto con il leader nordcoreano Kim Jong-un, nel periodo in cui la loro ostilità non aveva ancora ceduto il posto all’«amore», non ha esitato a vantarsi con aria tronfia: «Anch’io ho un pulsante nucleare, ma è molto piú grosso e piú potente del suo e, soprattutto, il mio pulsante funziona!» 1 .

1. Quando Trump si vanta delle dimensioni dei suoi attributi (di potere), si è tentati di vederci il simbolo di una disperata esibizione della sua virilità. Come quando ha affermato che aveva «grandi e belle mani. Guardate queste mani!» Oppure nel corso della conferenza stampa del 26 settembre 2018, quando ha dichiarato: «La Cina ha un rispetto totale per Donald Trump e per il cervello… molto, molto grande di Donald Trump». Quello che lui non dice Trump non parla in continuazione. O meglio sí, ma ci sono cose che non dice. E nel non detto di Trump c’è piú che mai Trump. Per esempio, non dice parole complicate. Non ha familiarità con le frasi complesse. (Non è stato sempre cosí. Secondo «The Atlantic», le sue capacità verbali si sono molto deteriorate. Il giornale cita Ben Michaelis, psicologo specialista del linguaggio, secondo cui Trump mostra «una netta diminuzione della sofisticazione linguistica con il trascorrere del tempo», con «scelte di parole e di strutture di frasi piú semplici». Secondo la rivista, potrebbero essere, come per l’ex presidente Reagan, i segni dell’Alzheimer incipiente) 1 . Trump non cita i grandi autori. Non fa battute con significati reconditi. Non chiede neanche scusa. Né per aver deriso l’eroe americano John McCain perché prigioniero nella guerra del Vietnam. Né per aver tacciato di stupratori i messicani. Né per aver definito i paesi africani e Haiti come paesi di merda. Né per aver preso in giro un giornalista disabile. Eppure, le scuse, non si può immaginare che non sappia cosa siano: lui stesso non si è mai privato di esigerne. «Le fake news non sono mai state cosí numerose. Dove sono le loro scuse nei miei confronti per tutti i loro articoli falsi?» (13 giugno 2017). Finora si è scusato in due occasioni, e in ognuna era chiarissimo che non pensava una sola parola di quello che diceva; una volta per necessità e un’altra per far passare un messaggio politico. La prima risale alla fine della campagna presidenziale, dopo la diffusione del video in cui si sente dire che prende le donne per la fica: «L’ho detto, ho sbagliato, e porgo le mie scuse» dice in un altro video. Prima di spiegare che lui, in realtà, è una persona davvero perbene. A differenza di Bill Clinton, che ha «veramente aggredito delle donne, e di Hillary, che ha perseguitato, attaccato, umiliato e intimidito le sue vittime». Scuse che sono ampiamente bastate a farlo perdonare dalla frangia del suo futuro elettorato che avrebbe potuto essere scioccata dalle sue parole. La seconda è avvenuta nell’ottobre 2018: dopo che il Senato ha confermato Brett Kavanaugh nella carica di giudice alla Corte suprema degli Stati Uniti, e dopo settimane di tensione nella società americana intorno alle accuse di aggressione sessuale contro il futuro giudice, Trump, che aveva già espresso la sua fiducia in Kavanaugh e in altri repubblicani perché «non li aveva mai visti fare niente di male» 2 , si è pubblicamente scusato con lui «a nome della nostra nazione» durante la cerimonia d’investitura. «Lei, dottor Kavanaugh, dopo un’indagine storica, ha ottenuto la prova della sua innocenza» dopo una «campagna di distruzione politica e personale basata su menzogne e soverchierie». Sottotesto: tutte le donne che hanno accusato Kavanaugh sono bugiarde. È evidente che queste scuse non sono sincere, sono solo un modo per Trump di gongolare a scapito di una parte di quelli che detesta di piú: le donne che lamentano le violenze che subiscono, e i media che riportano le loro lamentele. Che Kavanaugh sia innocente o colpevole non aveva nessuna importanza: con questa parodia di scuse, forte dell’elezione del nuovo giudice da parte del Senato, che lui assimila a uno scagionamento totale, Trump esulta e fa un grosso sgambetto a tutti quelli che dissentono dalla verità che esce dalla sua bocca e da quelle dei suoi sostenitori. Altro silenzio assordante: quello che ha mantenuto nel 2017, dopo i fatti di Charlottesville. Il 12 agosto, durante una manifestazione di suprematisti bianchi contrari alla demolizione di una statua del generale Lee, celebre confederato della guerra di Secessione, uno di loro si è precipitato con la sua macchina sulla folla di contromanifestanti ferendo diciassette persone e causando la morte di una donna di trentadue anni, Heather Heyer. Sulla scia di questa tragedia, Trump ha tenuto una conferenza stampa in cui ha condannato «questa manifestazione scandalosa di odio, di fanatismo e di violenza da piú parti. Da piú parti». E con grande indignazione di una buona parte dell’America, non ha condannato i suprematisti bianchi che erano all’origine della manifestazione. Davanti al putiferio che quel silenzio ha sollevato, dopo due giorni – due giorni! – si è degnato di fare una dichiarazione che condanna il razzismo, i suprematisti e il Ku Klux degnato di fare una dichiarazione che condanna il razzismo, i suprematisti e il Ku Klux

Klan. «Il razzismo è il male» («Racism is evil») ha dichiarato, non esitando a rischiare di allontanarsi incautamente dai luoghi comuni 3 . Ma il lupo non perde il vizio: alcuni giorni dopo, durante uno scambio con dei giornalisti, non ha potuto fare a meno di precisare che, a differenza dei contromanifestanti, loro, i suprematisti bianchi, avevano il permesso di manifestare, e che c’era «gente perbene» nei due campi. Quel silenzio, interpretato come un rifiuto di schierarsi contro i neonazisti, è un chiaro messaggio da parte di Donald Trump. Tradotte nel contesto europeo, la sua politica e le sue prese di posizione rientrano nell’estrema destra (xenofobia, isolazionismo, pena di morte, segnalazione sistematica dello straniero come capro espiatorio, rifiuto di ogni sistema sovranazionale, ammirazione ostentata della fermezza di dittatori in esercizio, come essere a un pranzo di famiglia dai Le Pen). L’alt-right americana si è del resto schierata con lui e si è servita della sua elezione nel 2016 come trampolino per insediarsi nel discorso politico quotidiano dell’America. È brutto a dirsi, ma l’America è governata da un uomo che, secondo i nostri parametri europei, è quello che i meno educati chiamerebbero semplicemente un fascista.

1. James Hamblin, Is Something Neurologically Wrong With Donald Trump?, in «The Atlantic», 3 gennaio 2018. 2. Conferenza stampa del 26 settembre 2018, per rispondere alla domanda di una giornalista che gli chiedeva perché concedesse il beneficio del dubbio sempre e solo agli uomini, e mai alle donne che li accusavano. 3. Secondo Bob Woodward (Paura. Trump alla Casa Bianca cit.), sarebbe stato il suo consigliere Rob Porter a persuaderlo a riprendere la parola per condannare gli atti razzisti. Trump si sarebbe lasciato convincere ma avrebbe dichiarato subito dopo: «È stato un fottuto errore, il piú grande che abbia mai commesso. Sono concessioni che non si fanno. Non si chiede scusa. Non ho fatto niente di male alla base. Perché passare per un debole?» Per chiudere con Donald Trump Molti dei suoi oppositori sognano di sbarazzarsi di Trump con un fervore intenso quanto impotente. L’impeachement, ossia la procedura di incriminazione prevista per estromettere il presidente americano in carica, è una speranza accarezzata da numerosi democratici. A metà mandato, mentre scrivo questo libro, niente lascia ancora intendere che questa procedura trovi una giustificazione. Ma non importa piú di tanto. Perché alla fine il problema non è Donald Trump. E la sua lingua, il suo modo di parlare o di non parlare, il suo linguaggio piú o meno volgare o colorito, sono solo un albero minuscolo che nasconde una foresta gigantesca, piantata nel giorno in cui i Padri pellegrini del Mayflower sono sbarcati e hanno cominciato la loro opera di distruzione/ricostruzione a suon di genocidi e di feroci proselitismi 1 . La responsabilità è collettiva. Se la lingua di Donald Trump rispecchia perfettamente il suo modo di pensare e la sua politica, venata di misoginia, di razzismo, di mancanza assoluta di empatia e di sfrenata ricerca del profitto, significa che è il prodotto del suo tempo e della sua società. L’America, quando guarda al suo presidente, si vede in uno specchio che crede deformante ma che riflette una realtà che ha a lungo voluto occultare e che le sta tornando dritta in faccia. Il sogno americano è sempre stato solo questo, un sogno. Lo slogan di Trump, «Make America Great Again», specula su un fantasma mai destinato a diventare realtà, e di cui si sono avvalsi altri candidati presidenziali prima di lui. Le piú belle promesse dell’America sono sempre scaturite da aspirazioni molto meno brillanti di quelle che la mitologia storica vuole farci credere. Be’, questo non è appannaggio esclusivo degli Stati Uniti: noi stessi, in Francia, che tessiamo le lodi della repubblica democratica invocando l’intoccabile Rivoluzione francese e altre prodezze napoleoniche, dimentichiamo presto o non vogliamo capire che i grandi progressi storici di cui siamo cosí fieri hanno sempre una parte intrisa di sangue, senza contare che sono stati perlopiú guidati da individui che anteponevano il proprio interesse (economico e politico) a quello della collettività, ma che avevano capito come presentare abilmente le cose per far credere a tutti di trovarci un tornaconto 2 . Agli Stati Uniti, paese costruito sul sangue degli indiani, degli africani e su quello dei pionieri a cui si prometteva la luna, il successo di una minoranza ha occupato l’immaginario nazionale e celato le miserie di un’intera parte della popolazione. Certo, l’America è stato il paese di chi poteva farsi una posizione dal nulla; lo testimoniano i Rockefeller, i Carnegie e i Bill Gates. Ma è stato anche il paese di chi arrivava con la testa piena di sogni e lo stomaco vuoto, e che non ha trovato oro, petrolio o un’idea geniale. Il paese della feccia bianca, della white trash, degli indiani parcheggiati nelle riserve, degli schiavi e dei loro discendenti, dei neri vittime di segregazione, di linciaggio e al giorno d’oggi di un razzismo che non vuole saperne di scomparire. Il sogno americano è passato sopra la testa di una quantità incredibile di donne e di uomini, nonostante un’iconografia nazionale infarcita di simboli falsi e distorti. Dai Padri pellegrini venuti a trovare la pace religiosa, ai colonizzatori che hanno attraversato allegramente le grandi distese con i loro carri coperti (un saluto a Laura Ingalls), dai saloon western – dove cantavano graziose ragazze per niente facili – ai soldati americani che, nel giorno della Liberazione, andavano a baciare leggiadre fanciulle francesi. Ma la realtà è ben diversa: i Padri pellegrini, quando non morivano di fame o di malattia, hanno massacrato gli indiani (che hanno cercato di rendergli pan per focaccia, ma sappiamo com’è andata a finire); i colonizzatori – a cui il governo faceva promesse strabilianti per scacciare al piú presto gli indiani dalle loro terre e permettere alle compagnie ferroviarie un’espansione pazzesca – sono crepati a migliaia di fame e di fatica respingendo la frontiera verso il West, quando non venivano scotennati prima; la sanguinosa guerra di Secessione, dopo avere finalmente permesso la liberazione degli schiavi, è ugualmente sfociata nella creazione del Ku Klux Klan e delle leggi segregazioniste; i valorosi soldati americani sono andati a morire in Vietnam senza che ancora si sappia esattamente perché… È una visione binaria della storia degli Stati Uniti, una versione semplicistica di un periodo ben piú ricco di sfumature, mi direte. Sarà, ma è precisamente la visione proposta dall’America di oggi. «Make America Great Again» è un invito a rituffarsi in un passato che non è mai esistito, a vivere in questo universo manicheo a cui rinvia il discorso binario di Donald Trump e dell’America intera, da una parte come dall’altra. Davanti a questo ritratto di Dorian Gray, l’America si aggrappa con tutte le sue forze alla benda che l’acceca. Finché gli Stati Uniti rifiuteranno di dare un nome all’origine del loro male, finché non faranno una croce su un passato che adorano e che è diventato intoccabile, non riusciranno a tirarsi fuori dal marasma nel quale si sono impantanati dall’elezione di Donald Trump e di cui il presidente è solo un simbolo. Perché, dopo di lui, potrà venirne un altro. Il malessere non risiede in un solo uomo. Il male è fatto, e ormai tutto è diventato possibile: Trump non è un incidente della storia americana. Sarà impossibile dimenticarlo quando non sarà piú al potere: lascerà la sua impronta non solo nelle politiche che avrà intrapreso e nei giudici della Corte Suprema che avrà nominato, ma nella società intera, collettivamente responsabile di averlo mandato al potere – quelli che hanno votato per lui in primo luogo, ma anche le generazioni di amministratori locali che lo hanno preceduto e gli hanno preparato il terreno. Proprio come le dittature poggiano su un sistema, gli Stati Uniti hanno collocato il loro quarantacinquesimo presidente sulla montagna del rifiuto (di rendere giustizia), e questo rifiuto passa prima di tutto e soprattutto attraverso la comunicazione, attraverso il discorso, attraverso la lingua. Perché il problema piú grave dell’America non è Trump. Garante dell’ordine morale, super- io emblematico di un intero paese, il presidente dovrebbe essere un modello ma anche il parametro su cui si misura la moralità di una nazione. Quando il presidente s’indigna dopo un atto di odio, è tutta l’America che si solleva. Ma quando sceglie di tenere il silenzio, o peggio di incoraggiare implicitamente la violenza, istituzionale o privata, significa dare allora il via libera agli squilibrati e ai cittadini i cui istinti piú bassi e piú violenti erano fino a quel momento repressi dalla consapevolezza che i loro atti aggressivi sarebbero stati disapprovati dalla piú alta istanza dello Stato, e dunque dalla società intera. Come afferma Jacques Généreux in L’Autre Société:

Negli umani, il controllo dell’aggressività non è genetico, ma sociale: consiste in riti e abitudini trasmessi dall’educazione. I comportamenti violenti e antisociali manifestano quindi una carenza nell’apprendimento del limite e della legge; possono anche risultare o essere aggravati da una carenza culturale, delle convenzioni e delle istituzioni, che enuncia e legittima i divieti 3 . Ora, la violenza della lingua di Trump e di quelli che lo rappresentano può essere considerata una legittimazione dal passaggio all’atto in quegli individui che, prima dell’avvento di Trump, erano al limite di questi comportamenti violenti e antisociali. Persone e comportamenti che sopravvivranno al/ai mandato/i di Trump e lasceranno una traccia durevole in tutti gli strati della società americana, per lungo tempo.

L’impostura semantica fondatrice è proprio la Dichiarazione d’indipendenza americana: «Riteniamo queste verità di per sé evidenti: tutti gli uomini sono creati uguali; sono dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili, come la vita, la libertà e la ricerca della felicità». Certo, l’intento è lodevole e il testo è bello, ma bisogna tenere a mente che fu scritto da un proprietario di schiavi che occupava abusivamente con il suo nuovissimo «popolo» una terra rubata ai primi occupanti. Scrivendo il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza, Jefferson scriveva le prime righe del mito americano, del grande sogno menzognero dietro al quale altri milioni avrebbero corso, e descriveva già una realtà che non corrispondeva in niente a quello che lui o i suoi contemporanei vivevano. La Dichiarazione d’indipendenza è la prima ufficializzazione della realtà alternativa. La sua diffusione è la primissima fake news americana. Il primo emendamento della Costituzione americana protegge tutta una serie di libertà, in particolare quelle religiosa e di espressione. In America si ha il diritto di dire tutto e di esprimere qualunque opinione. Si possono esibire svastiche, augurare la morte a qualcuno ad alta voce, è consentito perfino scriverlo. L’incitazione all’odio razziale non è un reato. Il revisionismo non è un tema scottante come in Francia, dove non è si è autorizzati a mettere in discussione la verità storica. In America, questa verità non appartiene a nessuno. Di conseguenza ognuno ha la propria, e tutti possono raccontare quello che vogliono sull’origine del loro mondo e sulla loro realtà. E il presidente degli Stati Uniti, come gli altri, ha il diritto di dire qualsiasi cosa e di affermare che è la verità. Nessuna barriera/protezione semantico-costituzionale glielo impedisce. Allora perché non affermare che il riscaldamento climatico non esiste, che il carbone è un’energia pulita o che non si sono mai viste folle cosí dense come ai suoi comizi? Non è molto piú insensato di affermare che Adamo ed Eva sguazzavano con i dinosauri ed elevarla a verità storica, insegnata in numerosi istituti scolastici 4 . Se si risale alla genesi stessa della storia della politica americana, si constata che il via libera è stato istituito dai Padri fondatori, attualmente oggetto di culto nazionale. Esiste tuttavia una sorta di censura nel linguaggio in America, una sola, straordinariamente pregnante e integrata da tutti gli strati sociali. È forse anche l’elemento piú consensuale della società americana. In realtà, se in America si è liberi di dire o di scrivere che gli ebrei non meritano di vivere, che i neri sono inferiori o che i messicani sono stupratori, esiste un campo semantico escluso dal discorso nazionale. Quello che non si ha il diritto di nominare, in America, è un retaggio di quell’epoca puritana dei primi giorni della nazione americana, è il Male con la maiuscola, quello da cui bisogna proteggere tutta la società: il sesso.

L’America ha un problema tale con il sesso (chiedere a Woody Allen) che ci vorrebbe un libro intero per parlarne, cosa che non farò perché è ormai ora di concludere questo. Ma, in breve, l’epoca fondatrice americana in cui le attività sessuali dovevano essere assolutamente controllate, dalle autorità religiose poi dallo Stato, l’epoca in cui il sesso, per una donna, era ridotto alla funzione procreatrice, mentre per gli uomini era una pratica autorizzata ma da non ostentare, perché serbava traccia del peccato, quell’epoca ha fatto nascere una società in cui, nonostante la rivoluzione sessuale e l’assunzione progressiva, ma mai scontata, del controllo del proprio corpo da parte delle donne, il marchio del male è rimasto impresso a fuoco su tutte le attività sessuali che non s’inscrivono strettamente nell’ambito coniugale e procreativo 5 . Ma cosa c’entra? vi chiederete. Ancora un po’ di pazienza, ci sono quasi. In America, nel 2019, tutte le forme di violenza e di guerra sono mostrabili dai media: cinema, televisione, Internet. Non importa chi può comprarsi armi abbastanza facilmente. In compenso, quello che non è permesso, è dire una parola a connotazione sessuale, tipo fuck o vagina, in televisione. Per una forma di protezione. Un po’ come nella Bibbia, che eleva la violenza a valore e il sesso a orrore. Per scrivere questo libro, ho guardato per ore i video di Donald Trump, naturalmente, ma anche la televisione americana – reportage, telegiornali. Durante le mie ricerche sulla reazione di Trump a Charlottesville, mi sono imbattuta in un reportage sulla Cnn. E ho visto con sorpresa la macchina che aveva investito la folla e ucciso Heather Heyer. Ho visto i corpi scaraventati per aria, e il veicolo ripartire nel senso opposto in mezzo alla folla urlante e insanguinata 6 . Che questa dimostrazione di violenza sia artistica, informativa, utile, e quanto altro, è solo un esempio tra milioni di quello che mostrano quotidianamente – e senza edulcorare – i media americani. In compenso, nessuno lascerà andare in onda una parolaccia a connotazione sessuale (piccolo promemoria: fuck, in fondo, vuol giusto dire «scopare»). Quelle parole sono sostituite da un pudico «biiiip» che dovrebbe proteggere le orecchie piú sensibili. Può sembrare un cliché mettere in parallelo la visualizzazione della violenza e la negazione della sessualità? A volte le verità piú semplici si nascondono proprio nei fatti negazione della sessualità? A volte le verità piú semplici si nascondono proprio nei fatti

evidenti. Reprimere le pulsioni sessuali e lasciare campo libero a quelle aggressive, che tipo di comportamento può innescare una cosa del genere a livello della società intera? Senza reinventare la ruota di Freud, si può affermare che una società che nega nel modo piú assoluto l’importanza e, quindi, la banalità della sessualità nell’equilibrio umano è condannata a spaccarsi il muso da un lato o dall’altro. Dal versante di quelli che la «puritanizzano» e che rifiutano di concepirla se non sotto una costrizione morale (pubblicamente in ogni caso), conservatori il piú delle volte contrari all’aborto, o di quelli che la sessualizzano a oltranza (artisti e opere ipersessualizzate, per esempio), reazione trasgressiva ai divieti per come li vivono gli adolescenti.

La lingua di Trump, questa nuova lingua dell’America, non è frutto di una genesi spontanea nella bocca di un miliardario spuntato dal nulla. Non è riducibile alle elucubrazioni di un uomo che si preferirebbe credere completamente pazzo, per non essere obbligati ad ascoltare quello che dice. Bisogna ascoltare Donald Trump, perché non è tanto stupido: con la forza del suo ego, e nonostante la sua crassa ignoranza, è riuscito ad assurgere alla carica piú potente della storia dell’umanità moderna. Bisogna ascoltare Donald Trump perché, per bocca sua, parla l’America piú violenta, piú spregevole, ma anche, ormai, la piú potente. Bisogna ascoltarlo perché, in Occidente, il regno della ragione ha fatto il suo tempo. Le grandi decisioni di buona volontà successive alla catastrofe costitutiva del XX secolo, le alleanze tra le grandi nazioni per scongiurare che riprenda il sopravvento quanto c’è di piú turpe nell’animo umano, gli accordi tra gli intellettuali di buona volontà nell’intento di soddisfare il maggior numero di persone e di fare avanzare l’umanità, a pezzi e a bocconi, verso il meglio, tutto questo appartiene al passato. E perché un paese governato da un uomo il cui super-io sembra risultare «non pervenuto», ma che viene acclarato ogni volta che apre bocca, può solo ispirare i suoi elementi piú violenti a sentirsi autorizzati a lasciare libero corso ai loro istinti piú bassi. Bisogna ascoltare Donald Trump, nonostante sia forte la tentazione di cedere a una superiorità morale e intellettuale, reale o auspicata, che induce a rifiutare di stare al suo gioco e di prenderlo sul serio. L’intellighenzia democratica americana l’ha già pagata molto cara l’8 novembre 2016, dopo avere placidamente ridacchiato davanti alla candidatura di questa star da reality show che si credeva un futuro pezzo grosso di Washington. E poi bisogna ascoltare Donald Trump perché è contagioso: in Brasile, in Ungheria, in Turchia, in Italia, in Austria e altrove, la violenza delle parole e degli atti s’intensifica. In questi paesi, che si considerano al sicuro grazie alle lezioni della Storia, sono sempre di piú i cittadini che tendono l’orecchio verso l’America e ascoltano, loro, la lingua di Trump.

1. Perché sí, simbolicamente, è su quello che l’America è fondata. I primi colonizzatori erano puritani che fuggivano le persecuzioni in Europa e che hanno trovato nel Nuovo Mondo, oltre, molto spesso, a una morte brutale, un modo per perseguitare a loro volta nel nome di una morale religiosa le cui tracce sono ancora fortissime al giorno d’oggi. 2. Prendiamo i nostri simboli piú esibiti a titolo di orgoglio nazionale: la Rivoluzione francese è stata una faccenda poco pulita, se si considerano le vittime innocenti, senza parlare dell’episodio del Terrore. Quanto a Napoleone, era un pazzo divorato dall’ambizione che sognava di conquistare l’Europa. 3. L’Autre Société. À la recherche du progrès humain, Seuil, Paris 2011. 4. Secondo un sondaggio Gallup, il 42 per cento degli americani crede che gli umani siano stati creati da Dio diecimila anni fa. D’altra parte, in numerose scuole americane, il creazionismo è già insegnato nei corsi di filosofia, religione o educazione civica, e alcuni Stati (il Texas, per esempio) permettono ai professori di insegnare una alcuni Stati (il Texas, per esempio) permettono ai professori di insegnare una

«alternativa» all’evoluzione nelle lezioni di scienza. 5. Raccomando di (ri)leggere La lettera scarlatta, di Nathaniel Hawthorne, la storia di una giovane donna della comunità puritana dell’America del 1640, bollata per adulterio e condannata a portare una A rossa sul petto, e poi Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, romanzo distopico che descrive una società americana in cui le donne sono ridotte al ruolo di procreatrici. Confrontandoli, si potrà constatare che in quattro secoli certe cose non sono molto evolute. 6. Si ritrova questa scena alla fine del film BlacKkKlansman di Spike Lee, che la giustappone alle dichiarazioni di Trump quando afferma che i torti sono da entrambe le parti. È il primo film a illustrare fino a che punto l’era Trump segni una regressione istituzionalizzata della società americana nei rapporti sociali e razziali. Ringraziamenti Tengo a ringraziare innanzitutto Clotilde Meyer, che è all’origine di questo progetto e che ha guidato con entusiasmo, efficacia e benevolenza la stesura di questo libro. Grazie a voi di leggere i ringraziamenti quando probabilmente non siete citati. Grazie a Bonnie e a Josh, i miei piú grandi fans, i piú obiettivi di tutti. Grazie a tutti quelli che mi hanno fatto da sostegno psicologico per i mesi che ho impiegato a scrivere questo libro: Inga Nop, mia sorella d’anima da un quarto di secolo, che crede in me senza il minimo tentennamento, Peggy Sastre per la rilettura parziale ma attiva, Anne- Laure Bell, Marie Aarnink, Solène Sellier per il sostegno musicale e morale, ma anche Chloé Leleu, compagna di sventure semantiche, senza dimenticare Alexandra Louis e Céline Griffon, la prima ad avere stuzzicato la mia penna sui banchi del liceo durante le interminabili ore di lezione in cui ci annoiavamo tanto. Grazie, infine, a Romuald Serive, responsabile involontario dei gesti scatenanti della mia vita di scrittura. Il libro La lingua di Trump è un esempio eclatante della comunicazione politica del nostro tempo: volgare, imprecisa, menzognera, violenta. Bérengère Viennot, traduttrice per la carta stampata e l’informazione online, si è trovata davanti un compito inedito dopo l’elezione di Donald Trump. Il presidente americano ha fatto esplodere i codici della comunicazione politica. La sua lingua è volgare e confusa, infarcita di errori sintattici e di frasi che non hanno né capo né coda, di sarcasmi e invettive – segni di un rapporto fuorviante con la realtà e la cultura. Con una penna tanto esilarante quanto incisiva, la Viennot racconta i suoi rompicapo di traduttrice e si interroga sul loro significato. Come si scivola dalla violenza delle parole alla violenza politica? In che modo ciò è un sintomo dello stato della democrazia? Perché siamo tutti quanti piuttosto preoccupati? La lingua di Trump è uno specchio implacabile: del presidente in persona, dell’America di oggi, della nostra epoca. L’autrice BÉRENGÈRE VIENNOT è traduttrice. Lavora per la stampa dal 2000 («Courrier International», «Project Syndicate», «BuzzFeed»). Scrive regolarmente articoli per il sito francese «Slate.fr». Insegna inoltre traduzione presso l’Università Paris VII. Titolo originale La Langue de Trump © 2019 Éditions Les Arènes, Paris. Published by arrangement with The Italian Literary Agency, Milano © 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858432464