NEWTON a Cura Di Roberto Maiocchi Grandangolo
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GRANDANGOLO 27 NEWTON a cura di Roberto Maiocchi Grandangolo Vol. 27 – Newton © 2014 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano È vietata la riproduzione dell’opera o di parte di essa, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata dall’editore. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. Edizione speciale per Il Corriere della Sera pubblicata su licenza di Out of Nowhere S.r.l. ISBN: 9788861266117 Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi Editor: Barbara Brambilla, Fabrizia Spina Focus e pagine scelte a cura di Roberto Maiocchi Concept e realizzazione: Out of Nowhere Progetto grafico e impaginazione: Marco Pennisi & C. Ideazione e coordinamento editoriale: Giorgio Rivieccio Redazione: Flavia Fiocchi NEWTON, LA LEGGE CHE UNIFICÒ TERRA E CIELO Di Armando Torno Matematico, fisico, astronomo ma anche filosofo (occorre aggiungere direttore della Zecca Reale, teologo e con interessi per l’alchimia), Sir Isaac Newton è ricordato persino dai bambini grazie all’aneddoto della mela che cadde dall’albero sulla sua testa, inducendolo a pensare alla gravitazione universale e ai motivi per i quali la Luna non precipitasse anch’essa come un frutto. Nato il 25 dicembre 1642 (morirà nel 1727), fu il primo a dimostrare che i movimenti della Terra e degli altri corpi celesti obbediscono alle medesime leggi di natura. Ebbe un ruolo fondamentale in fisica ma la sua opera contribuì a cambiare le prospettive della filosofia portando a compimento la rivoluzione scientifica cominciata con Copernico; anzi la pubblicazione del suo libro Principi matematici della filosofia naturale (1687) rappresenta il culmine di questo processo di idee, fondamentale per il mondo moderno e contemporaneo. Il metodo formulato da Newton, con il quale si dovrebbe procedere nella filosofia naturale, si legge nel III libro dei Principi. Utilizziamo le sue stesse parole per accostarci ad esso. La prima regola recita: «Non dobbiamo ammettere altre cause delle cose naturali se non quelle che sono tanto vere e sufficienti per spiegarne le apparenze». La seconda: «Per questa ragione dobbiamo, per quanto è possibile, assegnare agli stessi effetti naturali le medesime cause». Ecco la terza: «Le qualità dei corpi che non ammettono né intensità né diminuzione di gradi, e che troviamo appartenere a tutti i corpi entro il raggio d’azione dei nostri esperimenti, devono essere considerate qualità universali di qualunque corpo». E la quarta: «Nella filosofia sperimentale dobbiamo considerare le proposizioni raccolte per induzione generale dai fenomeni come precisamente vere o molto vicine ad esserlo, nonostante alcune ipotesi contrarie che si possono immaginare, fino al momento in cui si verifichino altri fenomeni dai quali si possono rendere o più precise o passibili di eccezioni». Una ulteriore si può trovare alcune pagine più avanti, ancora nei Principi, e rappresenta una felice sintesi del metodo di Newton: «Io non faccio ipotesi; infatti tutto quello che non è dedotto dai fenomeni deve chiamarsi un’ipotesi; ed ipotesi sia metafisiche che fisiche, sia di qualità occulte che meccaniche, non hanno posto nella filosofia sperimentale». Divenuto celebre e ammirato ancora in vita, su di lui circolarono aneddoti e storie. Una, con una certa insistenza, anche se poi sarà smentita da taluni, sosteneva che Newton fosse uno scorbutico e che in tutta la sua vita avesse riso soltanto una volta. Secondo la testimonianza di Voltaire, che era presente, ebbe funerali degni di un re; venne sepolto nell’Abbazia di Westminster. Alexander Pope scrisse un poemetto che comincia con parole altisonanti: «La natura e le sue leggi giacevano celate nella notte. Dio disse: “Che Newton sia!”; e luce fu». PANORAMA Isaac Newton in un dipinto di Godfrey Kneller (1646-1723), olio su tela, Grantham Museum St Peter’s Hill, Grantham Lincolnshire, Inghilterra. IL PERSONAGGIO Isaac Newton riuscì a fondere le scoperte di Copernico, di Keplero, di Galileo, in una sintesi potente: la formulazione delle tre leggi del moto e soprattutto della legge di gravitazione universale, con la quale per la prima volta fu dimostrato con rigore matematico che le leggi a cui era soggetto il moto delle cose terrestri erano le stesse a cui era soggetto il moto delle cose celesti. Anzi, che la legge era una sola, quella che aveva trovato lui. “PLATONE È MIO AMICO, ARISTOTELE È MIO AMICO, MA LA MIA MIGLIORE AMICA È LA VERITÀ. ” Newton appuntò questa frase a vent’anni sul frontespizio di un libretto che aveva appena scritto, le Quaestiones quedam philosophicae (Alcuni problemi filosofici). Si trattava di una presa di distanza da tutto, un atteggiamento che può sembrare contraddittorio per una persona convinta che la verità (la prisca sapientia) si trovasse tanto nel sapere scientifico quanto nei testi del passato, da riscoprire attraverso il sapere iniziatico. Newton praticò infatti per tutta la vita anche l’alchimia e l’astrologia, sulle quali scrisse migliaia di pagine solo recentemente riscoperte nella loro interezza. E credeva fermamente nelle Scritture, tanto da dedicare altre migliaia di pagine agli studi teologici e cabbalistici. Così che John Maynard Keynes, il grande economista inglese del XX secolo, scrisse di lui «che era stato l’ultimo dei maghi più che il primo degli Illuministi». In realtà, questi aspetti difformi degli interessi di Newton non sono contraddittori: egli cercava – e trovò – la verità guardando, come disse, «al di sopra delle spalle dei giganti», nel senso che la sua libertà di pensiero era tale da prendere da ognuna delle discipline che aveva studiato solo gli elementi necessari per raggiungere il suo obiettivo, la formulazione matematica delle leggi del creato. Senza farsi fuorviare da ciò che altri grandi pensatori avevano scritto. Difatti, il nostro scienziato cambiò per sempre l’impostazione da dare alla ricerca scientifica, o come era chiamata all’epoca, la «filosofia naturale». Eliminò, per la prima volta, la separazione fra questa e la matematica; anzi considerò la scienza non più una disciplina empirica ma fortemente sostenuta dalla matematica, le cui verità sono garantite a priori, indipendentemente dalle sperimentazioni. Così, allontanò il concetto di “ipotesi” dalla costruzione di una teoria scientifica, ritenendo che un risultato dovesse essere garantito da esperimenti ben condotti e teorie matematiche ben costruite in modo da estrarre le nuove verità dai fenomeni. Nella sua opera più importante, i Principi matematici della filosofia naturale (titolo che riassume in cinque parole tutto il suo programma di pensiero), dove sono enunciate le leggi del moto e quella di gravitazione, scrisse così: “NELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE LE PROPOSIZIONI RICAVATE PER INDUZIONE DAI FENOMENI, MALGRADO LE IPOTESI CONTRARIE, DEVONO ESSERE CONSIDERATE VERE O RIGOROSAMENTE O QUANTO PIÙ POSSIBILE, FINO A CHE NON SI PRESENTINO ALTRI FENOMENI MEDIANTE I QUALI O SONO RESE PIÙ RIGOROSE O FATTE SUSCETTIBILI DI ECCEZIONI. ” Aggiungendo: «Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni».* Un concetto di estrema semplificazione della natura, quasi riduzionistico, che avrebbe fatto invidia a Guglielmo di Ockham, il filosofo inglese del XIII-XIV secolo ideatore del famoso metodo poi detto del «rasoio» secondo il quale è inutile formulare più ipotesi di quelle necessarie per spiegare un certo fenomeno, (Ockham lo disse volendo affermare la necessità, per l’intelletto umano, di liberarsi di tutte le astrazioni ideate dalla scolastica medievale). Sezione del Cenotafio di Newton, progettato nel 1784 da Étienne-Louis Boullée e mai realizzato. I disegni sono conservati nella Biblioteca Nazionale di Parigi. L’aspetto fuori dal comune di tutto ciò è che, all’epoca, gli strumenti matematici per compiere indagini su ciò che premeva al nostro scienziato-filosofo, il movimento dei corpi, le orbite dei pianeti, le forze che obbligavano questi ultimi a ruotare intorno al Sole e non andarsene, come si suol dire, per la tangente, semplicemente non esistevano. Oltre un secolo prima, Cartesio aveva unificato la matematica con la geometria ma, fino ad allora, l’unione di queste discipline poteva servire per rappresentare tutt’al più alcune figure piane e non le figure curvilinee descritte dal moto di un corpo, oppure per calcolare le tangenti a una curva, i raggi di curvatura, i baricentri. Newton non ebbe altra scelta che sviluppare da sé il metodo matematico che gli sarebbe servito ad attuare il suo programma scientifico. Così, inventò il calcolo differenziale/integrale, lo strumento che abbandonava la concezione statica, cartesiana, della matematica/geometria per allargarla a una definizione dinamica. E per la prima volta fu possibile eseguire calcoli su elementi continui che variano nel tempo e nello spazio, in poche parole, la maggior parte dei fenomeni e dei processi fisici, astronomici, tecnologici, statistici, economici. Più tardi avrebbe imbastito una feroce polemica con Wilhelm Gottfried Leibniz il quale, indipendentemente, aveva sviluppato lo stesso metodo. Newton inventò il calcolo differenziale-integrale (da lui chiamato «metodo delle flussioni») a ventitré anni, nel 1665, durante la reclusione forzata nella sua casa di Woolsthorpe nel Lincolnshire, a causa dell’epidemia di peste che aveva costretto a chiudere anche l’Università di Cambridge, che egli frequentava. Il periodo 1665-66 è stato definito l’annus