GRANDANGOLO 27 a cura di Roberto Maiocchi Grandangolo

Vol. 27 – Newton © 2014 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano È vietata la riproduzione dell’opera o di parte di essa, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata dall’editore. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. Edizione speciale per Il Corriere della Sera pubblicata su licenza di Out of Nowhere S.r.l.

ISBN: 9788861266117

Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi Editor: Barbara Brambilla, Fabrizia Spina Focus e pagine scelte a cura di Roberto Maiocchi Concept e realizzazione: Out of Nowhere Progetto grafico e impaginazione: Marco Pennisi & C. Ideazione e coordinamento editoriale: Giorgio Rivieccio Redazione: Flavia Fiocchi NEWTON, LA LEGGE CHE UNIFICÒ TERRA E CIELO Di Armando Torno

Matematico, fisico, astronomo ma anche filosofo (occorre aggiungere direttore della Zecca Reale, teologo e con interessi per l’alchimia), Sir è ricordato persino dai bambini grazie all’aneddoto della mela che cadde dall’albero sulla sua testa, inducendolo a pensare alla gravitazione universale e ai motivi per i quali la Luna non precipitasse anch’essa come un frutto. Nato il 25 dicembre 1642 (morirà nel 1727), fu il primo a dimostrare che i movimenti della Terra e degli altri corpi celesti obbediscono alle medesime leggi di natura. Ebbe un ruolo fondamentale in fisica ma la sua opera contribuì a cambiare le prospettive della filosofia portando a compimento la rivoluzione scientifica cominciata con Copernico; anzi la pubblicazione del suo libro Principi matematici della filosofia naturale (1687) rappresenta il culmine di questo processo di idee, fondamentale per il mondo moderno e contemporaneo. Il metodo formulato da Newton, con il quale si dovrebbe procedere nella filosofia naturale, si legge nel III libro dei Principi. Utilizziamo le sue stesse parole per accostarci ad esso. La prima regola recita: «Non dobbiamo ammettere altre cause delle cose naturali se non quelle che sono tanto vere e sufficienti per spiegarne le apparenze». La seconda: «Per questa ragione dobbiamo, per quanto è possibile, assegnare agli stessi effetti naturali le medesime cause». Ecco la terza: «Le qualità dei corpi che non ammettono né intensità né diminuzione di gradi, e che troviamo appartenere a tutti i corpi entro il raggio d’azione dei nostri esperimenti, devono essere considerate qualità universali di qualunque corpo». E la quarta: «Nella filosofia sperimentale dobbiamo considerare le proposizioni raccolte per induzione generale dai fenomeni come precisamente vere o molto vicine ad esserlo, nonostante alcune ipotesi contrarie che si possono immaginare, fino al momento in cui si verifichino altri fenomeni dai quali si possono rendere o più precise o passibili di eccezioni». Una ulteriore si può trovare alcune pagine più avanti, ancora nei Principi, e rappresenta una felice sintesi del metodo di Newton: «Io non faccio ipotesi; infatti tutto quello che non è dedotto dai fenomeni deve chiamarsi un’ipotesi; ed ipotesi sia metafisiche che fisiche, sia di qualità occulte che meccaniche, non hanno posto nella filosofia sperimentale». Divenuto celebre e ammirato ancora in vita, su di lui circolarono aneddoti e storie. Una, con una certa insistenza, anche se poi sarà smentita da taluni, sosteneva che Newton fosse uno scorbutico e che in tutta la sua vita avesse riso soltanto una volta. Secondo la testimonianza di Voltaire, che era presente, ebbe funerali degni di un re; venne sepolto nell’Abbazia di Westminster. Alexander Pope scrisse un poemetto che comincia con parole altisonanti: «La natura e le sue leggi giacevano celate nella notte. Dio disse: “Che Newton sia!”; e luce fu». PANORAMA

Isaac Newton in un dipinto di Godfrey Kneller (1646-1723), olio su tela, Museum St Peter’s Hill, Grantham , Inghilterra. IL PERSONAGGIO

Isaac Newton riuscì a fondere le scoperte di Copernico, di Keplero, di Galileo, in una sintesi potente: la formulazione delle tre leggi del moto e soprattutto della legge di gravitazione universale, con la quale per la prima volta fu dimostrato con rigore matematico che le leggi a cui era soggetto il moto delle cose terrestri erano le stesse a cui era soggetto il moto delle cose celesti. Anzi, che la legge era una sola, quella che aveva trovato lui.

“PLATONE È MIO AMICO, ARISTOTELE È MIO AMICO, MA LA MIA MIGLIORE AMICA È LA VERITÀ. ” Newton appuntò questa frase a vent’anni sul frontespizio di un libretto che aveva appena scritto, le Quaestiones quedam philosophicae (Alcuni problemi filosofici). Si trattava di una presa di distanza da tutto, un atteggiamento che può sembrare contraddittorio per una persona convinta che la verità (la prisca sapientia) si trovasse tanto nel sapere scientifico quanto nei testi del passato, da riscoprire attraverso il sapere iniziatico. Newton praticò infatti per tutta la vita anche l’alchimia e l’astrologia, sulle quali scrisse migliaia di pagine solo recentemente riscoperte nella loro interezza. E credeva fermamente nelle Scritture, tanto da dedicare altre migliaia di pagine agli studi teologici e cabbalistici. Così che John Maynard Keynes, il grande economista inglese del XX secolo, scrisse di lui «che era stato l’ultimo dei maghi più che il primo degli Illuministi». In realtà, questi aspetti difformi degli interessi di Newton non sono contraddittori: egli cercava – e trovò – la verità guardando, come disse, «al di sopra delle spalle dei giganti», nel senso che la sua libertà di pensiero era tale da prendere da ognuna delle discipline che aveva studiato solo gli elementi necessari per raggiungere il suo obiettivo, la formulazione matematica delle leggi del creato. Senza farsi fuorviare da ciò che altri grandi pensatori avevano scritto. Difatti, il nostro scienziato cambiò per sempre l’impostazione da dare alla ricerca scientifica, o come era chiamata all’epoca, la «filosofia naturale». Eliminò, per la prima volta, la separazione fra questa e la matematica; anzi considerò la scienza non più una disciplina empirica ma fortemente sostenuta dalla matematica, le cui verità sono garantite a priori, indipendentemente dalle sperimentazioni. Così, allontanò il concetto di “ipotesi” dalla costruzione di una teoria scientifica, ritenendo che un risultato dovesse essere garantito da esperimenti ben condotti e teorie matematiche ben costruite in modo da estrarre le nuove verità dai fenomeni. Nella sua opera più importante, i Principi matematici della filosofia naturale (titolo che riassume in cinque parole tutto il suo programma di pensiero), dove sono enunciate le leggi del moto e quella di gravitazione, scrisse così:

“NELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE LE PROPOSIZIONI RICAVATE PER INDUZIONE DAI FENOMENI, MALGRADO LE IPOTESI CONTRARIE, DEVONO ESSERE CONSIDERATE VERE O RIGOROSAMENTE O QUANTO PIÙ POSSIBILE, FINO A CHE NON SI PRESENTINO ALTRI FENOMENI MEDIANTE I QUALI O SONO RESE PIÙ RIGOROSE O FATTE SUSCETTIBILI DI ECCEZIONI. ” Aggiungendo: «Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni».* Un concetto di estrema semplificazione della natura, quasi riduzionistico, che avrebbe fatto invidia a Guglielmo di Ockham, il filosofo inglese del XIII-XIV secolo ideatore del famoso metodo poi detto del «rasoio» secondo il quale è inutile formulare più ipotesi di quelle necessarie per spiegare un certo fenomeno, (Ockham lo disse volendo affermare la necessità, per l’intelletto umano, di liberarsi di tutte le astrazioni ideate dalla scolastica medievale).

Sezione del Cenotafio di Newton, progettato nel 1784 da Étienne-Louis Boullée e mai realizzato. I disegni sono conservati nella Biblioteca Nazionale di Parigi.

L’aspetto fuori dal comune di tutto ciò è che, all’epoca, gli strumenti matematici per compiere indagini su ciò che premeva al nostro scienziato-filosofo, il movimento dei corpi, le orbite dei pianeti, le forze che obbligavano questi ultimi a ruotare intorno al Sole e non andarsene, come si suol dire, per la tangente, semplicemente non esistevano. Oltre un secolo prima, Cartesio aveva unificato la matematica con la geometria ma, fino ad allora, l’unione di queste discipline poteva servire per rappresentare tutt’al più alcune figure piane e non le figure curvilinee descritte dal moto di un corpo, oppure per calcolare le tangenti a una curva, i raggi di curvatura, i baricentri. Newton non ebbe altra scelta che sviluppare da sé il metodo matematico che gli sarebbe servito ad attuare il suo programma scientifico. Così, inventò il calcolo differenziale/integrale, lo strumento che abbandonava la concezione statica, cartesiana, della matematica/geometria per allargarla a una definizione dinamica. E per la prima volta fu possibile eseguire calcoli su elementi continui che variano nel tempo e nello spazio, in poche parole, la maggior parte dei fenomeni e dei processi fisici, astronomici, tecnologici, statistici, economici. Più tardi avrebbe imbastito una feroce polemica con Wilhelm Gottfried Leibniz il quale, indipendentemente, aveva sviluppato lo stesso metodo. Newton inventò il calcolo differenziale-integrale (da lui chiamato «metodo delle flussioni») a ventitré anni, nel 1665, durante la reclusione forzata nella sua casa di Woolsthorpe nel Lincolnshire, a causa dell’epidemia di peste che aveva costretto a chiudere anche l’Università di Cambridge, che egli frequentava. Il periodo 1665-66 è stato definito l’annus mirabilis di Newton, nel quale lo scienziato elaborò anche la teoria dei colori (dimostrando che la luce bianca del Sole è composta da sette colori primari ) e abbozzò la gravitazione universale. Così lo stesso Newton ricordò quel periodo, in un manoscritto autobiografico scritto intorno al 1716: «All’inizio dell’anno 1665, trovai il metodo per approssimare le serie [le serie infinite, che permettono di calcolare qualsiasi area curvilinea – ndr] e la regola per ridurre la potenza di ogni binomio in tali serie. Nello stesso, anno, a maggio, trovai il metodo delle tangenti e a novembre ricavai il metodo delle flussioni [il calcolo differenziale]. L’anno seguente a gennaio trovai la teoria dei colori e nel maggio seguente il metodo inverso delle flussioni [il calcolo integrale] e nello stesso anno cominciai a pensare alla gravità, estendendola [dai fenomeni terreni, come la mela che cade dall’albero] all’orbita della Luna […], e avendo in tal modo comparato la forza richiesta per mantenere la Luna nella sua orbita, con la forza di gravità alla superficie della Terra, trovai che corrispondevano quasi esattamente. Tutto ciò avvenne negli anni 1665 e 1666, poiché in quegli anni mi trovavo all’apice della mia forza creativa».**

Frontespizio della quarta edizione di , il trattato sulla luce e sui colori di Isaac Newton.

Fu un’impresa condotta con una poderosa elaborazione mentale e il minimo di esperimenti (esclusivamente per la teoria della luce). D’altra parte, sosteneva che:

“GLI ESPERIMENTI SI PESANO, NON SI CONTANO. ” Nel suo primo approccio alla gravitazione, nell’anno mirabile, Newton trovò quindi che la legge di gravità pare essere la stessa sulla Terra e sulla Luna, ma per tradurla in una formula universale da cui ricavarne l’entità sarebbe stato necessario ancora molto tempo e molte traversie (vedi capitolo La vita). Il concetto rivoluzionario della scoperta, comunque, era stato delineato. Soltanto nel 1687 avrebbero visto la luce i monumentali Principia, con la teoria completa della gravitazione, che enuncia la formula con la quale questa forza viene messa “semplicemente” in rapporto con i valori delle due masse che si attraggono e la loro distanza: in tutto, tre grandezze fisiche e una costante numerica. Newton non si sbagliava nel pensare che la natura fosse la più semplice possibile. Con la gravitazione, il dogma della differenza ontologica tra il mondo celeste e quello terrestre fu definitivamente superato. Copernico aveva dimostrato che la Terra si muove intorno al Sole con gli altri pianeti, Keplero aveva dimostrato in che modo questi si muovono e ora Newton aveva dimostrato perché lo fanno. La sua fu la prima legge scientifica della storia a cui si poté dare l’appellativo di universale. Rimaneva soltanto un problema da chiarire: quale fosse la natura della forza di gravitazione e attraverso quale intermediario si esplicasse, visto che pertiene a qualsiasi corpo. Newton rifiutò di porsi il problema. Ma ancora oggi, a questa domanda, gli scienziati della Nasa così rispondono:

“A ESSERE ONESTI NON SAPPIAMO ANCORA COSA LA GRAVITÀ «SIA» IN SENSO FONDAMENTALE; SAPPIAMO SOLO COME SI COMPORTA. ” Newton non si pose il problema della natura della gravità perché per lui era sufficiente aver stabilito che questa legge fosse vera, quale che fosse la sua natura fisica. Peraltro, la gravità non poteva essere altro che opera di Dio, il quale, affermava Newton, «creò tutto il mondo attraverso i numeri, i pesi e le misure», riprendendo un passo biblico a sua volta fatto proprio da Pitagora e da Tommaso d’Aquino. Un Dio «molto esperto in meccanica e in geometria» che ha concepito questa perfetta armonia cosmica. Anche per questo motivo, la Chiesa inglese non si sentì affatto minacciata dalla legge di gravitazione universale; anzi, ne sottolineò l’eccezionale importanza lodando l’intelletto «quasi divino» di Newton, e non vi trovò nulla di contraddittorio con le Sacre Scritture, diversamente da quanto era accaduto un secolo prima con la Chiesa di Roma davanti alle scoperte di Galileo, che naturalmente andavano in quella stessa direzione. Isaac Newton, di fatto, fu un fervente teologo. Scrisse 7500 testi di argomento religioso, pari a circa 20 volumi di lunghezza media. Tra l’altro, si occupò della seconda venuta di Cristo, che mise in relazione con la distruzione della Chiesa cattolica da lui sempre profondamente avversata, prima per motivi puramente teologici e poi anche per motivi politici, come durante il regno del cattolico Giacomo II (vedi il capitolo L’ambiente). Tutt’altro che modesto, riteneva anzi che Dio lo avesse scelto per diffondere la verità contenuta nei testi sacri. Era convinto inoltre che lo scopo centrale della sua filosofia naturale fosse quello di gettare luce sulla natura di Dio.

Newton compie esperimenti sulla luce. Stampa di William Mouat Loudan, apparsa nel 1870 su The Illustrated London News .

Newton come Divino Geometra in un monotipo (1795) del pittore e poeta inglese William Blake (1757-1827). Tate Gallery, Londra.

Per raggiungere i suoi obiettivi negli studi teologici, lo scienziato aveva imparato la lingua ebraica, studiato la Kabbala e il Talmud. Scrisse lavori sulla geometria del tempio di Salomone e sulla fine del mondo, prevedendo tra l’altro che non sarebbe potuta avvenire prima del 2060. Anche le sue numerose ricerche in campo alchemico, e perfino sulla magia nera, andavano in questa direzione: non avevano nulla di esoterico ma per lui erano soltanto un altro strumento per arrivare a scoprire l’essenza di Dio in tutte le cose. Tutta la sua vita fu dedicata a cercare una sintesi tra il Libro della Natura e il Libro delle Scritture. Così scrisse infatti in una lettera al reverendo Richard Bentley, teologo e fervente predicatore:

“QUANDO SCRISSI IL MIO TRATTATO SUL NOSTRO SISTEMA, VALUTAVO IL MODO IN CUI TALI PRINCIPI POTESSERO ESSERE APPLICATI CONSIDERANDO GLI UOMINI PER LA LORO FEDE IN DIO, E NULLA PUÒ RALLEGRARMI PIÙ DEL TROVARLO UTILE A QUESTO SCOPO. MA SE IN QUESTO MODO SONO STATO UTILE PER QUALCHE VERSO AL PUBBLICO, NON È DOVUTO AD ALTRO CHE ALL’INDUSTRIOSITÀ E ALLA PAZIENTE RIFLESSIONE.*** ” È quindi sbagliato ritenere, come affermava John Maynard Keynes, che Newton sia stato l’ultimo dei maghi. Ma sarebbe altrettanto sbagliato considerarlo il primo degli illuministi, i quali sostenevano in massima parte solo il primato della ragione a scapito del trascendente. Newton fu un personaggio a sé, non solo per il suo genio straordinario, ma anche per la sua visione, che oggi potremmo definire olistica, secondo la quale tutto il creato, pur mosso da rigorose leggi matematiche, era un’espressione divina. Compì la sua Glorious revolution in campo scientifico- filosofico senza traumi e senza spargimenti di sangue, al pari di quella condotta parallelamente da Guglielmo di Orange-Nassau che aveva bandito i re cattolici dall’Inghilterra. Pur partecipando con passione e impeto ai problemi politici del suo tempo, riuscì a non farsi influenzare da niente e da nessuno. Non tutti, però, hanno visto la «rivoluzione newtoniana» in senso totalmente positivo. Per esempio Alexandre Koyré, uno dei maggiori filosofi della scienza del XX secolo, considerò che Newton, e la scienza moderna in generale, avessero «spaccato il mondo in due», aggiungendo:

“LA SCIENZA MODERNA ABBATTÉ LE BARRIERE CHE SEPARAVANO CIELO E TERRA UNIFICANDO L’UNIVERSO. E QUESTO È VERO. MA ESSA REALIZZÒ TALE UNIFICAZIONE SOSTITUENDO AL NOSTRO MONDO DELLE QUALITÀ E DELLE PERCEZIONI SENSIBILI, IL MONDO CHE È IL TEATRO DELLA NOSTRA VITA, DELLE NOSTRE PASSIONI E DELLA NOSTRA MORTE, UN ALTRO MONDO, IL MONDO DELLA QUANTITÀ, DELLA GEOMETRIA REIFICATA, NEL QUALE, SEBBENE VI SIA POSTO PER OGNI COSA, NON VI È POSTO PER L’UOMO.**** ”

* I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, in Opere, Vol.1, a cura di A. Pala, UTET, Torino 1997 ** I. Newton, manoscritto del 1716 ca., Cambridge University Library, MS 3968.41, fol. 85, trad. di G. Rivieccio *** I. Newton, lettera al reverendo R. Bentley, 10 dicembre 1692, trad. di G. Rivieccio **** A. Koyré, Studi newtoniani, trad. di P. Galluzzi, Einaudi, Torino 1972 LA VITA

Litigioso. Stizzoso. Vendicativo. Incline alla depressione. Introverso. Misogino. Isaac Newton era tutto questo, ma anche una delle menti più luminose che l’umanità abbia mai avuto. Nacque il giorno di Natale del 1642 (secondo il calendario giuliano, all’epoca ancora seguito in Inghilterra, per l’Europa cattolica era il 4 gennaio 1643) a Woolsthorpe, nel Lincolnshire, figlio di un contadino analfabeta, che morì due mesi prima che Isaac venisse alla luce. La madre, Hannah Ayscough, si risposò due anni dopo con un ricco pastore protestante, Barnabas Smith, e se ne andò con lui affidando il piccolo Isaac alla nonna. Con la madre e il patrigno non ebbe quindi buoni rapporti, tanto che a 19 anni, compilando una lista dei suoi peccati, accanto a colpe innocenti come quella di aver fatto un dolce di domenica annotò:

“HO MINACCIATO MIO PADRE E MIA MADRE DI BRUCIARLI VIVI INSIEME ALLA LORO CASA. ” Andò a scuola piuttosto di malavoglia, tanto da essere classificato come «ozioso» e «disattento». Ma il suo insegnante Henry Stokes, presso il quale viveva com’era costume degli studenti all’epoca, riuscì a persuadere la madre a mandarlo all’università, avendo evidentemente notato che il giovane Isaac aveva una mente superiore. Così, Newton entrò al Trinity College di Cambridge nel 1661, a 19 anni, come un sizar, cioè uno studente che per pagarsi la retta fungeva anche da cameriere-valletto per i compagni più ricchi. Furono questi gli anni più turbolenti della storia d’Inghilterra. La monarchia era stata appena restaurata da Carlo II (1660) dopo gli anni drammatici della guerra civile e l’instaurazione della Repubblica con Oliver Cromwell. A Cambridge studiò matematica, geometria e, per conto suo, i testi di Cartesio, Thomas Hobbes, Galileo e di altri filosofi e scienziati del suo tempo. Conseguì il Bachelor of arts (simile alla nostra laurea breve) senza particolari distinzioni ma, subito dopo, l’Università venne chiusa. Era scoppiata la grande peste del 1665 e la vita pubblica inglese si sarebbe fermata per due anni. Isaac tornò a Woolsthorpe e per questi due anni si rinchiuse in casa con i suoi libri. Fu il periodo cruciale della sua vita, dai 23 ai 25 anni, nel quale avrebbe raggiunto i suoi più grandi risultati in matematica, ottica, fisica e astronomia. Incominciò ideando il calcolo differenziale e integrale, che renderà noto però soltanto nel 1704, quando già da vent’anni circolava un lavoro praticamente identico firmato da un altro grande dell’epoca: il filosofo e scienziato tedesco Gottfried Leibniz. Sarebbe così iniziata una guerra a distanza tra i due geni, nella quale Newton non risparmiò energie per mettere in atto una violentissima campagna, sapientemente orchestrata, rivolta a distruggere la reputazione del rivale. Il secondo grande risultato dei due anni di peste fu nel campo dell’ottica. A Woolsthorpe Newton elaborò poi la sua teoria della luce e dei colori, e soprattutto abbozzò la sua rivoluzionaria scoperta: la legge di gravitazione universale. Nel 1667 l’Università di Cambridge fu riaperta e Newton vi tornò con un bagaglio di conoscenze e capacità, frutto dei due anni di isolamento, che lo resero sempre più stimato. Il suo professore , titolare della cattedra lucasiana di matematica, la più prestigiosa di tutta l’Inghilterra e probabilmente del mondo (e lo è ancora oggi), non tardò a riconoscerne le eccezionali qualità, dopo averlo sostanzialmente ignorato negli anni pre-peste. Tanto che quando nel 1669 Barrow si dimise dall’insegnamento per dedicarsi agli studi teologici, fece in modo che Newton divenisse il suo successore. Lo scienziato aveva solo 27 anni. Ne erano passati solo otto da quando aveva fatto ingresso da povero studente al Trinity College. Trascorse un po’ di tempo in cui Newton insegnò e perfezionò le conoscenze acquisite negli anni di Woolsthorpe e nel frattempo inventò un nuovo tipo di telescopio, detto riflettore, con il quale superò il problema dei telescopi rifrattori tradizionali (inventati solo 70 anni prima) che, per accrescere la loro potenza, avrebbero dovuto avere lunghezze sempre maggiori del tubo, tanto da diventare impossibili da costruire. Ne donò uno alla Royal Society e in cambio venne ammesso alla prestigiosa accademia. Era il 1672. In quell’anno pubblicò, per le edizioni dell’accademia stessa, la sua Nuova teoria sulla luce e sui colori, nella quale considerava la luce come composta da corpuscoli e non da onde, a differenza di ciò che ritenevano tutti gli altri scienziati (il bello è che entrambe le teorie erano giuste, ma la teoria corpuscolare della luce sarebbe stata dimostrata soltanto nel 1923). Ciò lo mise subito in forte contrasto con i più autorevoli scienziati dell’epoca, fra i quali il matematico e astronomo olandese Christiaan Huygens e il fisico inglese Robert Hooke, potente esponente della Royal Society, la prestigiosa accademia scientifica da lui fondata, insieme ad altri grandi, nel 1661. Newton ribatté pubblicando una nuova opera, Un’ipotesi che spiega le proprietà della luce discusse in alcuni miei scritti, e tentò di umiliare pubblicamente Hooke, ma questi lo accusò di plagio e ciò sfociò in un ulteriore peggioramento dei loro rapporti. Intanto aveva anche iniziato una forte controversia con i Gesuiti di Liegi in merito alla sua teoria dei colori della luce, che si espresse con uno scambio di lettere velenose. Tutto ciò lo fece precipitare in un forte esaurimento nervoso con stati depressivi, aggravati dalla morte della madre, l’unica persona che comunque aveva sempre profondamente amato (secondo Voltaire, alla morte dello scienziato i medici che ne esaminarono il corpo conclusero che non aveva mai avvicinato una donna in vita sua). Si chiuse in se stesso e cercò di stare alla larga dal pubblico e dalla Royal Society, preferendo un sereno anonimato alle lusinghe ma anche alle asperità della fama. Nella biografia Newton and the , l’autore, Gale Christianson, spiega così il suo carattere:

“LA VISIONE DI NEWTON DEL CONTATTO DIRETTO CON ALTRI ESSERI UMANI ERA CHE DOVESSE ESSERE IL PIÙ DISTACCATO E INNOCUO POSSIBILE […]. NEWTON CONOSCEVA BENE LA SUA FACILITÀ AD ADIRARSI E DECISE FIN DA GIOVANE CHE NON AVREBBE MAI PERMESSO CHE QUESTO TEMPERAMENTO OSCURASSE LE SUE DOTI MIGLIORI IN PUBBLICO, COSA CHE INFATTI AVVENNE RARAMENTE.* ” Il suo ritiro durò poco. Nel 1679 Hooke entrò nuovamente in contatto con lui chiedendogli nuovi testi da pubblicare con la Royal Society. E gli sottopose in una lettera un suo lavoro sul moto della Terra e dei corpi celesti che chiarì a Newton il problema della traiettoria di un corpo sottoposto a una forza che decresce con il quadrato della distanza. Così, il nostro scienziato riesaminò il problema della legge di gravitazione universale là dove lo aveva abbandonato 14 anni prima a Woolsthorpe. Incominciò un carteggio con la Royal Society che interessò molto l’astronomo Edmund Halley, all’epoca semplice impiegato della Royal Society e amico personale di Newton. Fu proprio Halley, stanco delle dichiarazioni di Hooke che proclamava di aver risolto da solo il problema del moto dei corpi celesti, a raggiungere Newton a Cambridge chiedendogli di continuare a lavorare sulla formulazione matematica di questo problema. E gli pose la domanda cruciale: «Quale curva descrive un corpo soggetto all’attrazione di un altro corpo?». Newton rispose, semplicemente, che l’aveva già calcolato: un’ellisse. Halley ne rimase profondamente colpito. La teoria matematica di Newton coincideva perfettamente con le leggi che Keplero aveva formulato empiricamente osservando il movimento dei pianeti. Newton espose la scoperta in una breve opera, il De motu corporum in gyrum e Halley convinse la Royal Society a finanziare la pubblicazione di quello che sarebbe diventato il trattato fondamentale della fisica moderna, i Principi matematici della filosofia naturale, contenenti le tre leggi del moto dei corpi e naturalmente la legge di gravitazione universale. Ma insorse un problema. L’accademia londinese aveva prosciugato le sue casse per aver dato alle stampe un volume costosissimo perché ricco di illustrazioni, la Historia Piscium (Storia dei pesci) di John Ray e Francis Willoughby. Il volume fu un completo insuccesso e così la Royal Society annunciò di voler cancellare il libro di Newton dai suoi programmi editoriali, non senza lo zampino di Hooke, che non gradiva affatto la pubblicazione di un testo con il quale il suo collega-rivale sarebbe stato riconosciuto di colpo come il più grande scienziato del suo tempo. Senza contare che Hooke continuava ad attribuirsi la paternità di questo lavoro con la sua famosa lettera sul moto della Terra inviata a Newton. Gli storici della scienza sono oggi inclini a riconoscergli un contributo importante, anche se la teoria iniziale della legge di gravitazione e la sua poderosa costruzione matematica sono da attribuirsi al solo Newton. Come avrebbe scritto in proposito il famoso matematico e astronomo francese del Settecento, Alexis Clairaut:

“L’ESEMPIO DI HOOKE SERVE A METTERE IN EVIDENZA QUALE DISTANZA ESISTE TRA UNA VERITÀ CHE VIENE INTRAVISTA E UNA VERITÀ CHE VIENE DIMOSTRATA. ” Halley si trovò costretto allora a trovare i fondi per evitare che il manoscritto dei Principia venisse cestinato dalla Royal Society. Finanziò in buona parte di tasca sua l’opera e accettò perfino che la Royal Society gli pagasse i suoi futuri stipendi da impiegato con le rese delle copie della Historia Piscium. Ma tanta abnegazione venne poi premiata, poiché grazie alla gravitazione universale l’astronomo inglese scoprì la legge della periodicità delle comete che porta il suo nome e che lo ha fatto entrare tra i grandi della scienza di tutti i tempi. Nel 1687 le 500 pagine dei Principia di Newton videro finalmente la luce, proiettando il loro autore, come previsto, ai vertici della scienza dell’epoca. Sarebbe stato l’ultimo grande lavoro scientifico di Newton: a 45 anni, fu come se tutte le sue capacità matematico-scientifiche si fossero cortocircuitate per l’immane lavoro svolto fino a quel momento. Ma non rimase con le mani in mano: nuove professioni lo stavano aspettando. Due anni prima, nel 1685, Giacomo II era diventato re d’Inghilterra. Si era convertito alla religione cattolica già da tempo, però quando salì al trono fu sostenuto non solo dai cattolici, bensì anche dagli anglicani. Ricominciarono le rivolte tra gli appartenenti alle due confessioni, anche perché il re cominciò a far salire esponenti cattolici ai gradi più alti della vita pubblica, a partire dall’esercito. Poi andò oltre, nominando solo cattolici tra i giudici e gli alti funzionari di Stato. E quando una cattedra ad Oxford o a Cambridge diventava vacante, la faceva occupare da un appartenente alla Chiesa di Roma, prescindendo dalle qualifiche e dalle reali capacità del candidato. Newton, che continuava a insegnare a Cambridge, da fervente puritano cominciò a opporsi a questo stato di cose, temendo che in breve l’Università sarebbe andata in rovina. Quando Giacomo II insistette affinché venisse concessa la laurea a un monaco benedettino che non aveva alcuna qualifica, senza che fosse sottoposto ad alcun esame né prestasse i tradizionali giuramenti di fedeltà all’Università e alla Chiesa anglicana, lo scienziato iniziò a ribellarsi. E scrisse al prorettore:

“SII CORAGGIOSO E RISPETTOSO DELLA LEGGE E NON POTRAI FALLIRE. ” Il prorettore seguì il consiglio di Newton e fu licenziato. Ma lo scienziato non si dette per vinto: continuò la sua battaglia in difesa dell’Università preparando documenti su documenti con l’impeto polemico che gli era proprio, per dimostrare al sovrano l’illiceità dei suoi provvedimenti. Nel frattempo Guglielmo di Orange-Nassau, Statholder (massima carica politico- militare) delle Province Unite dei Paesi Bassi che avevano acquisito l’indipendenza dalla Spagna, continuava a ricevere pressioni dagli anglicani inglesi affinché invadesse l’Inghilterra per scacciare Giacomo II. Guglielmo giunse sull’isola nel 1688 e marciò verso Londra, mentre le fila del suo esercito si ingrossavano via via con soldati di fede anglicana, finché Giacomo II, constatato di non poter più contare su una forza militare capace di opporsi al governatore olandese, fuggì in Francia. Fu la famosa Gloriosa Rivoluzione, con la quale il sovrano cattolico inglese fu in sostanza deposto senza il coinvolgimento di ribellioni popolari e senza spargimento di sangue. Guglielmo di Orange non ebbe problemi a insediarsi sul trono inglese, avendo sposato Maria Stuart, figlia di Giacomo II e, diversamente dal padre, di fede protestante. A nominare i nuovi sovrani fu il Convention Parliament, un’assemblea parlamentare di cui facevano parte i rappresentanti delle maggiori istituzioni inglesi. E uno dei due rappresentanti dell’Università di Cambridge fu proprio Isaac Newton, chiamato a questo incarico per chiari meriti scientifici e soprattutto per aver saputo difendere coraggiosamente l’autonomia dell’Università negli anni bui di Giacomo II. Così Newton conobbe la vita di Londra, che sembrò attirarlo molto più di quella che aveva condotto fino a quel momento a Cambridge. A convincerlo fu un secondo esaurimento nervoso, più grave del precedente, le cause del quale non sono mai state chiarite. Alcuni storici affermano che la crisi fu dovuta all’avvelenamento da sostanze chimiche utilizzate nei suoi esperimenti alchemici; altri alla fine della sua amicizia con un giovane matematico svizzero, Fatio de Duillier, e con sua moglie; altri ancora a problemi religiosi. Più probabilmente, la crisi del 1693 consistette più semplicemente nella riacutizzazione – dovuta alle innumerevoli polemiche scientifiche che lo vedevano protagonista – del suo stato depressivo che non lo aveva mai abbandonato in tutta la sua vita. Di conseguenza, nel 1696 lo scienziato decise di lasciare Cambridge, abbandonare per sempre le ricerche scientifiche e trasferirsi a Londra, dove fu nominato responsabile della Zecca reale, su proposta del Cancelliere dello scacchiere (il ministro delle Finanze) Charles Montague. Avrebbe mantenuto questo incarico per oltre 30 anni, fino alla morte, un lasso di tempo superiore a quello che aveva dedicato alla scienza. Il suo incarico alla Zecca fu tutt’altro che una sinecura, e d’altra parte il carattere di Newton non gli faceva prendere nulla alla leggera. All’epoca le autorità britanniche avevano ingaggiato una campagna a tappeto contro la contraffazione delle monete, una delle attività criminali più diffuse. Chi veniva colto a contraffare le monete veniva punito duramente, con la pena di morte e successivo squartamento in pubblico. Newton si dedicò a perseguire questo crimine con il suo classico impeto. Lo si poteva incontrare di sera nelle più sordide taverne intorno alla tristemente famosa prigione di Newgate a caccia di sospetti contraffattori di monete. E riuscì ad assicurare personalmente alla giustizia decine di falsari, che furono poi regolarmente impiccati e squartati. Sono rimasti famosi alcuni processi ai quali prese parte direttamente come accusatore. La sua eccezionale intelligenza escogitò anche un metodo efficace per evitare la diffusissima attività di abrasione delle monete, che consisteva nel grattare via l’oro e l’argento dai bordi, finché queste non si riducevano a una frazione delle loro dimensioni originarie. Il suo rimedio fu semplice e geniale: inventò la zigrinatura laterale, cosicché una moneta abrasa poteva essere immediatamente riconosciuta da tutti, perdendo di conseguenza il suo valore. I due brevetti relativi, che depositò, enunciavano «l’invenzione di rendere i bordi delle monete identificabili con lettere o zigrinature». Ancora oggi, la moneta inglese da una sterlina reca sul bordo la scritta Decus et tutamen, cioè «Per ornamento e garanzia» ideata da Newton. Poi lo scienziato cambiò il sistema di conio ed eliminò progressivamente dalla circolazione tutte le vecchie monete abrase, non senza aver ottenuto che gli fosse versata una percentuale per ogni nuova moneta coniata. Ciò gli consentì di ricevere un supplemento di 1000 sterline all’anno, in aggiunta alle 600 del suo regolare stipendio. Era diventato un uomo ricchissimo. Newton continuò la sua attività parlamentare in rappresentanza dell’Università di Cambridge e nel 1703, appena morto Hooke (non a caso) fu eletto alla presidenza della Royal Society, carica che gli sarebbe stata rinnovata, di anno in anno, fino alla fine della sua vita. L’anno seguente pubblicò la prima edizione in inglese dell’Ottica – che aveva rimandato per anni aspettando pazientemente la morte di Hooke – nella quale riproponeva le sue scoperte sulla luce e i colori ed era contenuta la prima esposizione pubblica completa del suo calcolo differenziale e integrale. Da qui iniziò la forte disputa con Leibniz sulla paternità del calcolo differenziale. E non tardò a farsi un altro nemico, l’astronomo reale John Flamsteed (che pure aveva collaborato con le sue osservazioni alla genesi del trattato sulla gravitazione) con il quale, insieme ad Halley, imbastì una lunga e accesa polemica scientifica. Nel 1705 fu nominato Sir dalla regina Anna, l’ultima sovrana Stuart, che due anni dopo avrebbe unito per sempre l’Inghilterra e la Scozia diventando la prima regina della Gran Bretagna. Fu il primo scienziato a ricevere una simile onorificenza. Lavorò ancora per i suoi incarichi pubblici per anni, finché la morte non lo colse il 31 marzo 1727 a Londra. Aveva 84 anni. Isaac Newton fu sepolto a Westminster con gli onori di un sovrano. L’epitaffio del suo monumento funebre, scritto dall’amico Fatio de Duillier, è una splendida sintesi delle sue straordinarie scoperte: H.S.E. ISAACUS NEWTON Eques Auratus, / Qui, animi vi prope divinâ, / Planetarum Motus, Figuras, / Cometarum semitas, Oceanique Aestus. Suâ Mathesi facem praeferente / Primus demonstravit: / Radiorum Lucis dissimilitudines, / Colorumque inde nascentium proprietates, / Quas nemo antea vel suspicatus erat, pervestigavit. / Naturae, Antiquitatis, S. Scripturae, / Sedulus, sagax, fidus Interpres / Dei O. M. Majestatem Philosophiâ asseruit, / Evangelij Simplicitatem Moribus expressit. / Sibi gratulentur Mortales, / Tale tantumque exstitisse / HUMANI GENERIS DECUS. / NAT. XXV DEC. A.D. MDCXLII. OBIIT. XX. MAR. MDCCXXVI «Qui è sepolto Isaac Newton, insignito del cavalierato, che con una forza intellettuale quasi divina, e principi matematici da lui creati, esplorò il movimento e le orbite dei pianeti, il cammino delle comete, le maree dell’oceano, le dissimilarità nei raggi della luce e, cosa che nessun altro studioso aveva immaginato prima, le proprietà dei colori così prodotti. Diligente, sagace e pieno di fede, nella sua esposizione della natura, della storia antica e delle Sacre Scritture, riaffermò con la sua filosofia la maestà di Dio onnipotente e buono, ed espresse la semplicità evangelica nel suo comportamento. Si rallegrino i mortali che sia esistito un tale e così grande onore per il genere umano! Nato il 25 dicembre 1642, morto il 20 marzo 1726».** * G.E. Christianson, Newton and the Scientific Revolution, Oxford University Press, London 1998, trad. di G. Rivieccio ** La data del 20 marzo 1726 si riferisce al calendario giuliano, che l’Inghilterra osservò fino al 1752, all’epoca indietro di 11 giorni rispetto al calendario gregoriano. Inoltre secondo il calendario giuliano l’anno cominciava il 25 marzo, per questi motivi il 31 marzo 1727 del calendario gregoriano corrispondeva al 20 marzo 1726. MONDO

1642 - 1661 Guerra civile inglese. Il capo dell’opposizione puritana al Re Carlo I assume il comando dell’esercito sconfiggendo le forze monarchiche. Carlo I viene decapitato nel 1649. Nel 1653 Cromwell istituisce la dittatura con il titolo di Lord Protettore. Dopo la sua morte, nel 1660 viene restaurata la monarchia con Carlo II Stuart. 1644 La dinastia Manchu assume il potere in Cina ponendo fine alla dinastia Ming. 1648 La pace di Westfalia pone fine alla Guerra dei Trent’anni e segna la fine della Spagna e del Sacro Romano Impero come le principali potenze europee. In particolare, la Francia ottiene la Lorena e i territori asburgici dell’Alsazia; i Paesi Bassi e la Svizzera sono riconosciuti sovrani e indipendenti dall’Impero. Viene però soppresso il Regno d’Italia, considerato parte dell’Impero. 1655 - 1661 Con una serie di guerre nella penisola scandinava la Svezia si rivela la maggiore potenza del Nord Europa. 1659 Pace dei Pirenei tra Francia e Spagna. Quest’ultima vede ridimensionato il suo potere a favore della Francia che assurge a grande potenza europea, acquisendo dalla Spagna parte dell’Artois, delle Fiandre, della provincia dell’Hainaut e del Lussemburgo, della Catalogna del Nord e del Rossiglione. 1661 Il re francese Luigi XIV inaugura l’era delle monarchie assolute: alla morte del cardinale Mazzarino, suo primo ministro, assume personalmente il controllo del governo assumendo su di sé i poteri totali. 1668 Il trattato di pace di Lisbona fra Spagna e Portogallo segna l’indipendenza di quest’ultima nazione. 1683 L’Europa si mobilita contro la minaccia dell’Impero ottomano che sta invadendo il continente. Vienna riesce a resistere all’assedio dei Turchi che vengono sconfitti; nel 1697, con la battaglia di Zenta, vinta dagli Austriaci comandati da Eugenio di Savoia-Carignano, inizia la ritirata ottomana dall’Europa centrale. 1685 Il re di Francia Luigi XIV abolisce l’Editto di Nantes sulla tolleranza religiosa a favore degli Ugonotti, riaprendo la persecuzione contro questi ultimi. 1688 “Rivoluzione gloriosa” in Inghilterra. Dopo la restaurazione assolutista di Carlo II, al quale era succeduto Giacomo II, cattolico, l’aristocrazia offre la Corona a Guglielmo II d’Orange, protestante, statholder d’Olanda, costringendo Giacomo II alla fuga. Nel 1689 con il Bill of rights (Dichiarazione dei diritti), vengono riconosciute le prerogative del Parlamento sul controllo dell’operato della monarchia. 1689 Pietro il Grande diviene zar di Russia, e dà inizio alla trasformazione del Paese in una potenza militare. 1700 - 1721 La guerra tra Svezia e Russia si conclude con l’affermazione di quest’ultima quale maggiore potenza dell’area del Baltico. 1701 - 1714 Guerra di successione spagnola: l’ultima delle guerre promosse dal re francese Luigi XIV per il dominio sul continente. Si conclude con la pace di Utrecht, che assegna all’Austria i domini spagnoli in Italia, alla dinastia Savoia la Sicilia (poi scambiata con la Sardegna) e segna l’avvento dell’Impero inglese come più influente potenza europea. 1707 Si forma il Regno Unito di Gran Bretagna, che riunisce Inghilterra, Galles e Scozia attraverso l’Act of Union. 1718 Pace di Passarowitz tra Impero Ottomano, Austria e Venezia, che pone fine alla secolare lotta tra Venezia e i Turchi, ma segna l’inizio del declino della Serenissima e sancisce la presenza turca in Grecia. 1733 - 1738 Guerra di successione polacca. Al termine, nuova spartizione dell’Italia: Francesco di Lorena ottiene il Granducato di Toscana. L’Austria cede Napoli e la Sicilia a Carlo di Borbone e riceve il Ducato di Parma. I Savoia acquisiscono Novara, Tortona e le Langhe. 1740 - 1748 Guerra di successione austriaca in seguito all’ascesa al trono di Maria Teresa d’Asburgo, che al termine viene riconosciuta imperatrice dalle potenze europee. La geografia dell’Italia viene nuovamente ridisegnata. 1740 Federico II di Hohenzollern viene incoronato re di Prussia. Attraverso una serie di vittorie militari nella Guerra dei Sette anni inserirà la Prussia tra le grandi potenze europee. 1744 Mohammed Ibn Saud fonda il primo Stato saudita, l’Arabia. 1756 - 1763 Ha luogo la Guerra dei Sette anni, con la quale l’Inghilterra e la Prussia escono vittoriose a danno di Francia, Spagna, Austria e Russia. In conseguenza di ciò, La Francia perde le sue colonie nordamericane a favore dell’Inghilterra. 1757 Con la battaglia di Plassey (Bengala) gli Inglesi danno formalmente inizio alla loro dominazione in India dopo anni di attività commerciale sotto gli auspici della East India Company.

FILOSOFIA

1637 Il filosofo francese René Descartes (Cartesio) pubblica il Discorso sul metodo, con il quale sostiene la necessità di dare alla ricerca filosofica e scientifica una struttura logica proveniente dalla matematica, e di conseguenza il modello di ragionamento deduttivo, con il quale è possibile affrontare i problemi della certezza della conoscenza e dell’esistenza di Dio. 1640 Viene pubblicato postumo il trattato Augustinus del filosofo olandese Cornelis Jansen, fondatore del giansenismo, dottrina che esclude totalmente il libero arbitrio e la capacità di aspirare al bene: la grazia rimane dono esclusivo di Dio. Nel 1643 il giansenismo, al quale aderirà anche Blaise Pascal, verrà condannato come dottrina eretica da parte dei papi Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII. 1651 Esce Il Leviatano, opera del filosofo inglese Thomas Hobbes, concernente la struttura di uno Stato ideale basato su un “contratto sociale” tra uomini razionali, liberi e uguali di fronte alla legge, ma soggetti all’autorità indivisibile e illimitata di un sovrano assoluto e autoritario, unico modo per garantire la governabilità. 1665 Il filosofo fiammingo Arnold Geulincx pubblica l’Ethica, sua opera maggiore, nella quale si occupa dell’occasionalismo, vale a dire il concetto che nega l’esistenza di un nesso necessario fra due fenomeni riconducendo il loro rapporto a una semplice successione e ritenendo Dio causa diretta di ogni fenomeno. 1670 Escono postumi i Pensieri del filosofo francese Blaise Pascal. 1677 Viene pubblicata postuma l’Etica del filosofo olandese Baruch Spinoza, nella quale, attraverso una sintesi tra il razionalismo scientifico e una metafisica di stampo neoplatonico, viene esposta la sua visione fortemente deterministica e naturalistica su Dio, il mondo, l’essere umano e la conoscenza, come fondamenti di una filosofia morale centrata sul controllo delle passioni quale via per la virtù e la felicità. 1682 Escono le Meditazioni cristiane e metafisiche del filosofo francese Nicolas de Malebranche, esponente dell’occasionalismo, secondo il quale il mondo oggettivo non è necessario, poiché tutte le nostre idee sono in Dio. 1684 Viene pubblicata la trattazione di Gottfried Wilhelm Leibniz sul calcolo differenziale e integrale, potentissimo strumento matematico che trasformerà la scienza dei numeri e che è stato sviluppato indipendentemente da Isaac Newton, con il quale Lebniz avrà una violenta controversia in relazione alla paternità del metodo. 1686 Viene pubblicata l’opera Conversazioni sulla pluralità dei mondi dello scrittore e filosofo francese Bernard Le Bovier de Fontenelle, anticipatore di molti temi dell’Illuminismo. 1690 Esce il Saggio sull’intelletto umano del filosofo inglese John Locke, considerato il padre dell’empirismo moderno, secondo il quale tutte le idee presenti nell’essere umano non sono innate ma provengono dall’attività conoscitiva attraverso i sensi. Per le sue idee liberaliste e la difesa dell’inalienabilità dell’uguaglianza tra le persone, Locke è anche ritenuto l’iniziatore della filosofia illuminista. 1710 Il filosofo e teologo inglese George Berkeley, nel Trattato sui principi della conoscenza umana, afferma che è l’intelletto umano a rendere reale, con la sua percezione, il mondo materiale, e giudicando quindi errata l’esistenza delle idee astratte. 1714 Nella Monadologia (pubblicata postuma nel 1720) il filosofo tedesco Gottfried Leibniz espone il suo sistema di pensiero descrivendo un universo che consiste in «forme sostanziali dell’essere», dette monadi, ognuna delle quali riflette l’intero universo e non interagisce con le altre. 1728 Nella Philosophia rationalis sive logica il filosofo tedesco Christian Wolff definisce la filosofia a «scienza di tutte le cose, del modo e della ragione della loro possibilità», creando un sistema filosofico enciclopedico basato sul razionalismo. 1729 Prima traduzione dal latino in inglese dei Principia di Isaac Newton. 1739 Il filosofo e storico scozzese David Hume pubblica il Trattato sulla natura umana nel quale applica i principi della scienza sperimentale (empirismo) alla conoscenza umana, che sarebbe dotata della stessa organizzazione «esatta». 1748 Esce Lo spirito delle leggi, considerato l’opera principale del filosofo e politico francese Charles-Louis de Montesquieu, iniziatore della politica della separazione dei poteri e della divisione del lavoro. Le sue idee saranno alla base della Costituzione americana.

LETTERATURA E ARTI

1623 Il poeta inglese John Donne, ritenuto il massimo esponente della poesia metafisica inglese, compone le Meditations, la sua opera più nota. 1630 Il drammaturgo spagnolo Tirso de Molina compone il dramma Il beffatore di Siviglia e il convitato di pietra, che introduce la figura di Don Giovanni, personaggio che sarà più volte riutilizzato nella musica (Mozart / Da Ponte) e nella letteratura contemporanea e dei secoli successivi (Molière, Byron, Puškin, Saramago). 1635 Il drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca, massimo esponente del Siglo de oro, compone La vita è sogno, il suo capolavoro, nel quale affronta il tema del continuo scambio tra realtà e finzione, senza che il protagonista riesca a distinguerle. 1637 Prima dell’opera Chi soffre speri, di Virgilio Mazzocchi e Marco Marazzoli, considerata la prima opera comica della storia.Nel teatro San Cassiano di Venezia viene rappresentata l’ Andromeda, di Francesco Manelli e Benedetto Ferrari: è il primo esempio di opera musicale impresariale, cioè rappresentata a un pubblico pagante e non più riservata alle corti e all’aristocrazia. 1640 - 1660 Gian Lorenzo Bernini, ritenuto il massimo architetto e scultore dell’epoca barocca, realizza alcuni dei suoi capolavori: il colonnato di Piazza San Pietro, la Fontana dei quattro fiumi a Piazza Navona, la Transverberazione di Santa Teresa d’Avila. 1642 - 1662 L’architetto Francesco Borromini costruisce la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, considerata uno dei capolavori del barocco romano, insieme ad altre sue opere (Sant’Agnese in Agone, San Carlino alle Quattro Fontane). 1656 Il compositore tedesco Johann Jakob Froberger definisce la struttura della suite, composta da quattro danze di base (allemanda, corrente, sarabanda e giga). 1666 Va in scena Il misantropo, capolavoro di J.-B. Poquelin (Molière), massimo esponente della Commedia dell’arte in Francia. 1686 Lo scrittore francese Bernard le Bovier de Fontenelle, ritenuto l’anticipatore di molti temi sviluppati nell’Illuminismo, pubblica le Conversazioni sulla pluralità dei mondi, in cui espone l’idea che i pianeti del sistema solare siano abitati. 1711 L’italiano Bartolomeo Cristofori costruisce il primo “gravicembalo col piano e forte”, ossia il primo pianoforte, dotato di una martelliera sulle corde, che consente di calibrare con la pressione dei tasti l’intensità del suono emesso. 1718 Lo scrittore inglese Daniel Defoe, ritenuto il padre del romanzo inglese moderno, che oscilla tra realtà e finzione, con uno stile “giornalistico” pubblica la sua opera più famosa, Robinson Crusoe. 1721 Antonio Canal (Canaletto) si specializza nelle vedute di Venezia, con un rigore oggettivo che risente delle idee razionalistiche dell’Illuminismo. 1725 Antonio Vivaldi compone Le Quattro stagioni, concerti per violino ritenuti la massima espressione della musica tardo-barocca. 1726 Lo scrittore irlandese Jonathan Swift pubblica I viaggi di Gulliver, romanzo allegorico- fantastico con una forte vena satirica, caratteristica del suo stile anche in pamphlet rivolti alla politica e al mondo contemporaneo. 1740 Johann Sebastian Bach inizia a comporre L’arte della Fuga, ritenuta la vetta più alta della sua produzione musicale, e secondo alcuni della storia della musica in generale. 1750 - 1820 Questi decenni segnano l’apogeo del Grand Tour, i viaggi di studio degli intellettuali europei in Italia e in Grecia, nel clima del neoclassicismo che riscopre la cultura e l’arte classica romana e greca. Il culmine del Grand Tour sarà rappresentato dal Viaggio in Italia di Johann Wolfgang von Goethe (1817). 1751 Il filosofo francese Denis Diderot (1713-1784) e il matematico Jean le Rond d’Alembert (1717-1783) iniziano la pubblicazione dell’Encyclopédie, la prima opera di divulgazione del sapere rivolta a tutti, una vera e propria “rivoluzione culturale”. 1752 Carlo Goldoni scrive La Locandiera, aprendo la strada alla commedia moderna pur rifacendosi alla tradizione della commedia dell’arte. 1759 Franz Joseph Haydn compone la Sinfonia n. 1, primo esempio della forma sinfonica moderna, già prefigurata nel 1730 dai lavori del compositore Giuseppe Sammartini. 1763 Lo storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann pubblica la Storia dell’arte dell’antichità, opera che rappresenta il contributo teorico più importante all’arte neoclassica. 1764 Il filosofo e giurista Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, contro la tortura e la pena di morte, che avrà un’eco vastissima in tutto il mondo occidentale, tanto da influenzare i sistemi giuridici di molti Paesi.

SCIENZA E TECNICA

1614 Il matematico e fisico scozzese John Napier (Nepero) introduce i logaritmi. 1618 L’astronomo tedesco Johannes Kepler (Keplero) completa le sue tre leggi sul moto dei pianeti, destinate a rivoluzionare l’astronomia. 1628 Il medico inglese William Harvey scopre la circolazione del sangue. 1632 Galileo Galilei pubblica il Dialogo dei massimi sistemi, che contiene la divulgazione della teoria copernicana e le prime conferme sperimentali ai movimenti di rotazione e di rivoluzione della Terra. Dopo la prima condanna avuta il 24 febbraio 1616, Galileo viene sottoposto, in seguito alla pubblicazione del Dialogo, al processo da parte del Sant’Uffizio. 1633 Al termine del processo del Sant’Uffizio, Galileo è costretto ad abiurare la teoria eliocentrica. 1637 Il filosofo francese René Descartes (Cartesio) pubblica il trattato Géométrie, con il rivoluzionario concetto del piano cartesiano, col quale ogni elemento geometrico (punto, linea ecc.) può essere definito con un insieme di numeri corrispondenti alle sue coordinate sul piano. Per la prima volta algebra e geometria vengono unificate con la possibilità di risolvere i problemi dell’una facendo ricorso all’altra. 1642 Il filosofo francese Blaise Pascal inventa a diciannove anni la prima macchina capace di sommare e sottrarre numeri attraverso la tecnica del riporto automatico, chiamata anche Pascalina. L’esploratore olandese Abel Janszoon Tasman è il primo europeo a raggiungere le isole della Nuova Zelanda. 1644 Il fisico Evangelista Torricelli inventa il barometro. 1656 Lo scienziato olandese Christiaan Huygens inventa l’orologio a pendolo. 1665 Lo scienziato inglese Robert Hooke pubblica il libro Micrographia, che contiene le prime esatte descrizioni dell’anatomia degli insetti al microscopio e la prima osservazione di una cellula, battezzata così dallo stesso Hooke. Isaac Newton scrive il primo lavoro sul calcolo differenziale, (detto all’epoca “metodo delle flussioni”), strumento potentissimo che segna la nascita della matematica superiore e gli consentirà di elaborare la rivoluzionaria teoria della gravitazione universale. Scoppia un’aspra controversia con il filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz che aveva pubblicato lo stesso procedimento all’insaputa del lavoro di Newton. 1679 Il filosofo tedesco Gottfried Leibniz inventa il sistema di numerazione binario, cioè composto soltanto dalle cifre zero e uno. L’innovazione verrà riscoperta nel 1847 da Boole, che porta a completa formulazione la logica matematica binaria, su cui si basano gli attuali computer. 1682 Il fisico e medico francese Denis Papin inventa la pentola a pressione: il principio sarà poi utilizzato per la realizzazione del motore a vapore. 1683 Lo scienziato olandese Antoni van Leeuwenhoek scopre i batteri grazie alle sue osservazioni al microscopio. 1686 Isaac Newton presenta alla Royal Society il manoscritto dei Philosophiae naturalis principia mathematica, che contiene la rivoluzionaria teoria di gravitazione universale e le leggi di inerzia che costituiscono la base della meccanica. 1698 L’ingegnere inglese Thomas Savery brevetta il primo motore a vapore. 1724 Lo scienziato tedesco Gabriel Daniel Fahrenheit fissa la prima scala termometrica universale. 1735 Il botanico svedese Carl von Linné (Linneo) presenta la prima classificazione degli esseri viventi; divide gli animali in sei classi includendovi l’uomo (cosa che susciterà aspre polemiche). 1748 Il fisico, filosofo, storico e letterato russo Mikhail Vasil’evič Lomonosov enuncia la legge della conservazione della materia. Per la prima volta viene definito il concetto che tutto in natura è misurabile e dimostrabile, che non esistono “forze extranaturali”, che nulla si perde e nulla si distrugge e che la materia viene sempre conservata, anche nelle reazioni chimiche. Si tratta della stessa legge che verrà formulata in Occidente cinquant’anni dopo da Lavoisier. 1761 Il medico Giambattista Morgagni pubblica un testo in cui per la prima volta vengono descritte le malattie cardiocircolatorie, come l’aneurisma dell’aorta, la sclerosi delle coronarie, l’angina pectoris e il blocco cardiaco. Il testo è basato su 640 anatomie condotte personalmente. Grazie a un cronometro marino ideato dall’inglese John Harrison viene risolto definitivamente il problema della determinazione esatta della longitudine in qualsiasi luogo della Terra. L’AMBIENTE

Sebbene possa sorprendere, riguardo a un’epoca di travagliatissimi conflitti a sfondo religioso, tra i quali si staglia la Guerra dei Trent’anni (dal 1618 al 1648), la divaricazione, a volte persino inconciliabile, che oggi conosciamo tra la scienza e la fede non sembra essere stato un problema per chi svolgesse una onesta ricerca scientifica nell’Inghilterra della metà del XVII secolo. Vi era consapevolezza di quanta fede servisse per svolgere questo genere di studi e, contemporaneamente, quanto utile la scienza fosse a confermare le verità religiose nelle quali si credeva. I dissidi interessavano dunque soprattutto il fronte politico. In particolar modo, la strada che condusse l’Inghilterra attraverso un lungo periodo di conflitti sociali con una fortissima connotazione religiosa era stato il vuoto dinastico seguito alla morte di Elisabetta I nel 1603, che aveva portato al trono il suo alleato Giacomo IV Stuart, re di Scozia. Il re, che prese il nome di Giacomo I, si distinse per le sue passioni assolutiste che gli procacciarono l’ostilità del parlamento, in particolare della Camera dei Comuni in cui erano rappresentati gli interessi di una forte borghesia mercantile, ben intenzionata a conservare i privilegi raggiunti. La Chiesa anglicana, fermamente schierata invece su posizioni istituzionali, vicina all’aristocrazia e scontenta delle simpatie cattoliche del re, era andata via via rafforzando la sua struttura gerarchica, contrapponendosi alle forme di protestantesimo puritano che guardavano all’Europa di Calvino ed erano diffuse tra la piccola nobiltà agraria (gentry) e la borghesia. Gli interessi di questi ceti furono colpiti duramente da una politica di centralismo fiscale e religioso che penalizzava ogni sviluppo economico ed estrometteva il parlamento. I contrasti, al di là di forme specifiche di violenza da parte dei diversi schieramenti religiosi – Giacomo era riuscito a scontentarli tutti –, si espressero in una lunga e aspra (a volte di grande ferocia) battaglia proprio nel parlamento, che non trovava forme di accordo né all’interno tra Lord e Comuni, né con il Monarca che, avendo potere di convocarlo e chiuderlo, ricorreva spesso a quest’ultima drastica misura. Suo figlio, Carlo I, succedutogli nel 1625, proseguì nell’assolutismo paterno, con il supporto del conte di Strafford, ministro per la politica interna, esasperando talmente la pressione fiscale che fu costretto a firmare, per evitare guai peggiori, le richieste avanzate dal parlamento con la Petizione dei diritti, che limitava la libertà del sovrano nell’imposizione di tasse, la cui approvazione spettava alle camere. Il Re si liberò dell’intralcio sciogliendo il parlamento l’anno successivo. Ma nuove tasse, tra cui quella ricorrente per il finanziamento della Marina (ship money), il ricorso al sequestro di beni ed enclosures [il diritto all’usufrutto delle terre demaniali], la sua controversa posizione nella questione degli ugonotti francesi (i protestanti calvinisti) dovuta a una politica filocattolica, in un Paese già duramente colpito dalla crisi economica (da attrobuirsi in parte anche alla “fuga dei grandi capitali” e all’impressionante emigrazione verso il Nord America, di quasi 20.000 puritani, tra il 1620 e il 1635), generò crescenti forme di resistenza.

LA PRIMA RIVOLUZIONE INGLESE La rivolta scoppiò nel 1637 con l’imposizione alla Chiesa presbiteriana scozzese della struttura episcopale di stampo cattolico adottata dagli anglicani, su intervento dell’arcivescovo di Londra William Laud, ministro per la politica religiosa: la popolazione insorse al fianco del clero e della nobiltà. Il Re dovette convocare, nel 1640, un parlamento (detto “breve” perché durò solo 22 giorni) che autorizzasse le tasse per reprimere l’insurrezione ma, di fronte a una nuova Petizione più intransigente della prima, pensò di uscirne con lo scioglimento delle camere e l’arresto di alcuni loro membri. Si sbagliava. La ribellione si riversò nelle strade e Carlo I fu costretto, il novembre dello stesso anno, a convocare un nuovo parlamento (lungo parlamento) che si mostrò più duro del precedente: sotto la guida di John Pym, esponente della gentry, destituì Laud e Strafford che furono giustiziati, allestì un proprio esercito e avviò lo smantellamento delle istituzioni (tra cui Star Chamber e Hig Commission). Della situazione si approfittò anche nei territori irlandesi, dove furono massacrati i coloni inglesi. Ma in seno allo stesso parlamento si scontravano le tendenze di episcopaliani (fedeli, assieme alla vecchia nobiltà, alla monarchia) e presbiteriani (la maggioranza, che chiedeva una limitazione dei poteri del re), cui si affiancavano gli indipendenti (repubblicani), e i livellers con a capo John Liburne (democratici, per la chiusura della Camera dei Lord). Il Re, dopo un fallito tentativo di colpo di Stato, il 10 gennaio 1642 dovette fuggire nella contea di York. Newton sarebbe nato circa un anno dopo, e cresciuto in quel periodo di lotte tra parlamentari e monarchici che venne chiamato “guerra civile”. Culminò, sette anni dopo, nella decapitazione di Carlo I e la proclamazione della Repubblica con il governo di Oliver Cromwell, che si trasformò in pochi anni in un regime oligarchico finché sfociò nel Protettorato di cui egli fu il vertice. Sebbene questo non sia stato un periodo di pace, non tutti presero parte agli scontri che seguirono e che furono piuttosto battaglie tra, più o meno organizzati, eserciti o spedizioni per sedare le rivolte in Irlanda e Scozia. Questo fece sì che fuori dai luoghi di aperto conflitto e dalle istituzioni, la vita continuasse piuttosto invariata e che i fondamenti sociali non venissero scossi. Il cambiamento profondo avvenne, con lo smantellamento del centralismo ecclesiastico, sul piano del pensiero e della cultura, in cui si affrontò a viso aperto la questione della libertà individuale. Ne furono fautori filosofi e uomini politici, che erano spesso anche letterati, primo fra tutti John Milton, di ambito puritano e segretario di Cromwell, che scrisse poemi appassionati sulle libertà dell’uomo. «Nel periodo compreso tra il 1640 e il 1660, quando la censura venne meno e l’organizzazione politica e sociale fu scossa dalla rivoluzione, ogni teoria concepibile sulla religione, la società, la natura e Dio poté essere letta dalla popolazione capace di leggere, o predicata alla popolazione analfabeta».*

LA RESTAURAZIONE E LA RIVOLUZIONE “GLORIOSA” Quando, con la morte di Cromwell (1658) seguita da un periodo di anarchia cui il figlio Richard non seppe metter mano, la Monarchia restaurata, voluta dal parlamento, pose duramente fine all’esperimento repubblicano, quell’atmosfera e quei sentimenti facevano ormai parte del mondo inglese in maniera così profonda da implicare una visione sociale della scienza e della religione, che divenne fortissima. Così, mentre il nuovo re, Carlo II, reprimeva nel sangue i seguaci di Cromwell, il Leviathan (del 1651) di Thomas Hobbes, che contestava il fondamento divino del potere, era divenuto patrimonio comune. Si sviluppò l’idea, che caratterizzerà il pensiero inglese, di un benessere pubblico, un bene comune, fondato sull’interesse e il bene dell’individuo, i suoi diritti e le sue libertà. In quest’idea il ruolo centrale spettava appunto a scienza e religione. Newton, come già Boyle, oltre allo studio della natura affrontò proprio quello delle Sacre Scritture, trovandovi echi e risonanze:

“IN QUESTA RICERCA HO RICEVUTO MOLTA LUCE ANCHE DALL’ANALOGIA FRA IL MONDO NATURALE E IL MONDO POLITICO. IL LINGUAGGIO MISTICO SI FONDAVA INFATTI SU QUESTA ANALOGIA E SARÀ COMPRESO NEL MODO MIGLIORE CONSIDERANDO L’ORIGINALE.** ” La percezione dell’instabilità sociale connessa ai dissidi religiosi fece scaturire l’idea della tolleranza religiosa come elemento stabilizzatore, cui si richiamò anche John Locke nella sua Epistola de Tolerantia del 1689 (due anni dopo i Principi matematici della filosofia naturale di Newton), i cui enunciati includevano la divisione tra Stato e Chiesa, dando origine a un concetto di laicità dello Stato che sarà tra i fondamenti delle future rivoluzioni francese e americana. Già nel 1679 il parlamento, capeggiato dal partito dei whigs (dal nome dai contadini scozzesi, whigamores), aveva costretto Carlo II ad approvare l’Habeas Corpus, che proibiva l’arresto arbitrario dei cittadini senza l’intervento di un magistrato, riconoscendo di fatto una divisione tra il potere esecutivo e quello legislativo. All’Inghilterra del tempo più che altrove, dunque, si devono riconoscere, come osserva lo storico Paul Hazard, la forza individuale, la profondità e l’audacia della ricerca, la libera speculazione, enumerate addirittura da Le Fontaine nella favola La volpe inglese: «Creusant dans les sujets, et forts d’expériences / Ils étendent partout l’empire des sciences».*** Fu alla fine del secolo XVII, con la cacciata del fratello di Carlo II, Giacomo II Stuart a seguito della seconda rivoluzione – chiamata “gloriosa” perché raggiunse gli esiti senza versare altro sangue – guidata dal genero Guglielmo d’Orange, che si concluse definitivamente il transito dall’assolutismo dei re, fondato sul diritto divino, al primato del parlamento, in cui ruolo egemone ebbero la borghesia mercantile e il partito (whigs) di Robert Walpole. Il primo atto del nuovo re, Guglielmo III, fu il Bill of Rights (1689) che affermava la supremazia della volontà della nazione, rappresentata nel parlamento, su quella del sovrano. Era l’atto di nascita di quell’Inghilterra esempio di tolleranza e civiltà che tanto piacque a Voltaire e poi a Montesquieu. Un secolo belligerante e violento di contrasti religiosi si chiudeva lasciando posto a quello Lumi e alla sua audacia e libertà di pensiero che spaziarono in tutti i campi speculativi.

LA RINASCENZA Fu, quella alla corte della regina Anna Stuart, succeduta a Guglielmo, una stagione di rinascenza delle lettere a opera di uomini di straordinario talento: filosofi come George Berkeley (1685-1753) il teologo irlandese che assieme a Locke e Newton capovolse le strade della conoscenza, o Ralph Cudworth (1617-1688) che fu uno dei platonici a Cambridge; Joseph Addison (1672-1719) e Richard Steele (1672- 1729) che scrissero saggi moralisti sulle pagine dei loro giornali; lo scrittore John Arbuthnot (1667-1735) e il filologo Richard Bentley (1662-1742) che scambiò lettere con Newton sulla dimostrazione dell’esistenza di Dio; e la compagnia dei grandi poeti e scrittori, Alexander Pope (1646-1717), John Gay e Jonathan Swift (1667-1745). Tutti furono accomunati da un unico pensiero centrale che era quello del risanamento etico dello Stato, del bene comune cui anche l’idea di libertà si doveva raccordare. Racconta lo storico Massimo Firpo che fu proprio «Swift, che pure era uno spirito libero, un giornalista corrosivo, capace come pochi di usare l’arma della satira, come farà poi nei suoi celebri Viaggi di Gulliver, e non certo un bigotto, nonostante il suo ruolo istituzionale nella Chiesa anglicana d’Irlanda in qualità di decano del Trinity College a Dublino» ad attaccare duramente il Discourse of free-thinking pubblicato nel 1713 dal discepolo di Locke Anthony Collins «perché a suo giudizio, nutrito di rabbiosa avversione contro il partito whig, contro la sua cultura, contro il suo ottimismo antropologico, un conto era pensare liberamente e un altro dire pubblicamente quello che si pensava, se ciò rischiava di mettere a repentaglio l’autorità della Chiesa e dello Stato, e con essi l’ordine sociale. “Ogni uomo – scriveva – in quanto membro dello Stato dovrebbe accontentarsi di possedere le proprie opinioni in privato, senza confondere il prossimo o disturbare il pubblico”. […] Insomma, Swift era un conservatore così disilluso sulle virtù degli uomini da ritenere indispensabile che ci fossero autorità costituite che gliele imponessero. Di qui la sua insofferenza per quel blaterare di libero pensiero senza rendersi conto dei rischi che comportava, per quella fiducia nella libertà che rischiava solo di recidere le briglie che tenevano a freno i vizi degli uomini».**** * M.C. Jacob, I Newtoniani e la Rivoluzione inglese. 1689-1720, Feltrinelli, Milano 1980 ** I. Newton in M.C. Jacob, I Newtoniani e la Rivoluzione inglese, cit. *** P. Hazard, La crise de la conscience européenne 1680-1715, Parigi 1935 **** M. Firpo, La polemica sul “libero pensiero” nel Settecento. Conseguenze del libero pensiero, Il Sole 24 ORE, Domenica 20 aprile 2014 FOCUS

IL PENSIERO E LE OPERE

Nel 1664 un giovane inglese al primo anno di università, John Strype, così descriveva in una lettera alla madre il clima che respiravano gli studenti a Cambridge: «Da queste parti subiamo le più intollerabili ruberie, come non si era mai sentito. Nel giro di due o tre giorni sono venuto a conoscenza di sei o sette rapine commesse qui intorno, con due o tre morti. Non più tardi di sabato scorso, a un miglio da qui, un uomo è stato tramortito da un colpo in testa. Recentemente, a uno studioso di Peter House, hanno mozzato entrambe le orecchie, giacché quello, consegnato ai ladri del denaro, aveva detto loro che gli infliggessero qualsiasi punizione, se mai avessero scoperto ch’egli ne aveva dell’altro: ma quelli lo perquisirono e trovarono, sembra, altri 20 scellini e così, prendendo alla lettera le sue parole, gli comminarono il castigo dell’imbroglione». Stante questa situazione, non vi è da stupirsi se qualche studente preferiva rimanere nella propria stanza anziché correre rischi avventurandosi in città. Tanto più che questa non doveva essere granché attraente. Un anonimo visitatore la descriveva in questo modo: «Cambridge era così spaventosamente sporca che Old Street, nel mezzo del disgelo, o Bartholomew’s Fair, dopo uno scroscio di pioggia, non potrebbero avere più bisogno di uno spazzino delle strade lorde di fango di questo famoso municipio, e la maggior parte di esse è talmente stretta che se due carriole si incontrassero nel loro punto più largo, basterebbero a bloccare tutto per mezz’ora, prima di riuscire a liberarsi e a fare spazio a chi deve passare. In molte parti della città gli edifici sono talmente piccoli e bassi che sembrano più capanne costruite per pigmei che abitazioni per esseri umani». Oltre agli studenti che trovavano spesso motivi per resistere ai richiami delle numerosissime osterie e altrettanto numerose prostitute, ve n’era uno che resisteva sempre e che avrebbe trascorso a Cambridge 35 anni praticamene chiuso nella propria stanza: Isaac Newton. Newton era entrato al Trinity College nel 1661 e vi era entrato al gradino più basso della scala sociale, quello di subsizar, studente povero che vuotava i vasi da notte e rassettava le stanze degli studenti ricchi per incrementare la retta pagata. Per la verità la madre di Newton avrebbe potuto permettersi di pagare una retta superiore, ma non voleva che il figlio intraprendesse la carriera accademica e cercava tutti i modi per fargli cambiare idea. Il modo più efficace le sembrò quello di dargli pochi soldi. Del resto, cosa ci si può aspettare da una madre che era andata ad abitare con un secondo marito abbandonando un figlio di tre anni? Il programma di studi ufficiale era saldamente ancorato all’aristotelismo e Newton inizialmente si applicò con impegno alla lettura di vari testi di Aristotele, ma ben presto si stancò e passò allo studio di autori che non servivano a superare gli esami ma che erano portatori di una nuova «filosofia della natura»: Cartesio, Robert Boyle, Francis Bacon, John Wallis, Galileo, Thomas Hobbes. Da queste letture Newton ricavò un ambizioso programma di lavoro. Sotto il titolo Quaestiones quaedam philosophie, redasse una rubrica dove elencò i numerosissimi temi che lo interessavano e che intendeva approfondire non solo con la lettura di scritti, ma anche per mezzo di esperimenti. Tra i docenti attivi a Cambridge quando Newton era studente, due sembrano essere stati quelli che ebbero una qualche influenza su di lui: il filosofo Henry More e il matematico Isaac Barrow. More era preoccupato dalle conseguenze materialistiche e ateistiche che la filosofia meccanicista di Cartesio poteva comportare e pensava fosse necessario aggiungere alla cosmologia cartesiana delle particelle e degli urti uno Spirito della natura, che avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra Dio e il mondo. Sosteneva che vi sono in natura fenomeni che non possono essere spiegati dalla filosofia meccanica, che la natura non può essere ridotta a estensione e movimento: vi è un elemento non materiale che rende la natura attiva, non meramente passiva, e che fa da mediatore dell’azione di Dio sulla materia e dell’anima sul corpo. Newton condividerà questa posizione. Barrow era titolare della prima cattedra di matematica istituita a Cambridge, la cattedra lucasiana. Fu lui a introdurre Newton alla conoscenza delle più raffinate tecniche matematiche. Gli chiese di curare la pubblicazione delle sue lezioni di ottica. Divulgò la conoscenza delle scoperte matematiche giovanili di Newton inviando un manoscritto newtoniano ai matematici di Londra. Infine, volendo dedicarsi alla teologia e sbalordito delle capacità matematiche di Newton, si diede da fare per passare a lui, nel 1669, la cattedra di matematica.

ANNUS MIRABILIS Nell’aprile del 1665 un passeggero sgradito sbarcò da una nave proveniente dalle Province Unite, la peste. La situazione divenne rapidamente drammatica e già nel mese di settembre nella sola Londra morivano 7000 persone alla settimana. L’Università di Cambridge venne evacuata e Newton si rifugiò in campagna nella casa natale di Woolsthorpe. Il soggiorno forzato del 1665-1666, in totale isolamento dalla comunità accademica, fu un periodo di eccezionale produttività, fu veramente un annus mirabilis. Newton ottenne straordinari risultati in tre campi: matematica, ottica, teoria del moto circolare. Circa mezzo secolo dopo Newton così sintetizzava, in un crescendo rossiniano, le scoperte di quell’anno: «All’inizio dell’anno 1665 trovai il metodo di approssimazione delle serie e la regola per ridurre qualunque esponente di un binomio qualsiasi a tali serie. Lo stesso anno in maggio trovai il metodo delle tangenti […] e in novembre avevo il metodo diretto delle flussioni e l’anno successivo in gennaio la teoria dei colori e il maggio seguente possedevo il metodo inverso delle flussioni. E nello stesso anno cominciai a pensare alla gravità che si estende all’orbita della Luna […]. Tutto ciò avvenne nei due anni della peste del 1665 e 1666, poiché in quei giorni ero nel fiore dell’età creativa e attendevo alla Matematica e alla Filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito». Il metodo delle serie era uno strumento in grado di risolvere quasi tutti i problemi studiati dai matematici in quegli anni. Cartesio aveva mostrato come due discipline considerate sino ad allora separate, la geometria e l’aritmetica, la scienza delle figure e quella dei numeri, potessero essere viste come due facce della stessa medaglia. Una volta introdotto un sistema di coordinate cartesiano (X,Y), le curve piane potevano essere viste come il luogo dei punti del piano che soddisfano a una equazione algebrica in x e y. Per esempio, un cerchio è il luogo dei punti che soddisfano all’equazione x2+y2=R2 dove R è il raggio del cerchio. In precedenza le curve piane erano definite in termini geometrici, mediante figure. Cartesio riteneva che l’approccio in termini algebrici avesse notevoli vantaggi rispetto a quello geometrico: per indagare le proprietà di una curva, invece di ricorrere a complicati disegni geometrici, si poteva studiarne l’equazione algebrica. Cartesio riteneva che nello studio delle equazioni ci si dovesse limitare a considerare solamente quelle composte da un numero finito di termini. Ma era ben noto che esistono molte proprietà geometriche che non possono essere espresse in termini finiti, tipicamente molte aree di superfici racchiuse da curve: l’area di un cerchio, per esempio, costituiva un secolare problema (la celebre e irresolubile questione della «quadratura del cerchio») perché non era possibile determinarne con precisione il valore. Algebricamente questo significa che l’area del cerchio è espressa da una equazione con un numero infinito di termini. I matematici del Seicento escogitarono vari artifici per estendere l’analisi algebrica a casi che non si lasciano trattare in termini finiti. La tecnica più importante era quella delle serie infinite. Una serie infinita veniva definita come la somma di una successione di infiniti addendi legati tra di loro da una relazione che stabilisce, dato un termine, quale è il successivo. Per esempio è una serie infinita la somma di infiniti addendi y = x - x2/2 + x3/3 – x4/4 + … In certi casi la somma di un numero infinito di addendi dà un valore infinito, e allora la serie è di scarsa utilità (serie divergente). Capita però che in altri casi la somma risulti finita, nel senso che più si aggiungono addendi più ci si approssima al valore cercato (serie convergente). I matematici del Seicento non avevano criteri chiari per decidere se una serie fosse convergente e per calcolarne il valore. Usavano l’intuizione, prendendo spesso terribili cantonate. Newton imparò molto sulle serie infinite dall’opera di John Wallis Arithmetica infinitorum, ma ben presto fu in grado di andare oltre. Un grande risultato fu la scoperta della serie binomiale, cioè la serie infinita che permette di esprimere in serie infinita il binomio (1 + x )a. Era già nota la serie per il caso di a intero e positivo; Newton generalizzò questo risultato costruendo una serie infinita valida per a intero o frazionario, positivo o negativo. Lo scienziato non diede una vera e propria dimostrazione della sua formula; procedette per tentativi ed errori. Di fatto si trattava di una mossa azzardata, ma il rischio valeva la candela. Infatti, grazie alla formula del binomio,

Newton mise a punto un metodo, chiaro e rigoroso, che consentiva di calcolare con serie infinite l’area di figure curvilinee (quadrare le curve!) con approssimazione grande a piacere. Era la soluzione di uno dei principali problemi matematici dell’epoca. Oltre al calcolo delle superfici curvilinee, altri problemi tenevano desta l’attenzione dei matematici; problemi ritenuti non solo importanti per la matematica, ma anche per l’applicazione della matematica all’astronomia, alla fisica, all’ottica: calcolo delle tangenti a una curva, dei raggi di curvatura, dei baricentri, rettificazione delle curve. Dopo aver trovato la formula del binomio, Newton si rese conto di una circostanza straordinaria: la maggior parte dei problemi affrontati dai suoi contemporanei poteva ridursi a due problemi fondamentali, uno inverso dell’altro. Il primo è: data una curva, determinarne la tangente (calcolo della derivata). Il secondo: data una curva, determinare l’area della superficie da essa sottesa (calcolo dell’integrale). L’uno è l’inverso dell’altro nel senso che, se di una curva si calcola la tangente punto per punto e poi si calcola l’area della curva sottesa dalla curva tangente, si ritorna alla curva di partenza. Lo stesso avviene invertendo l’ordine delle operazioni: se si integra una curva e poi si deriva, si ritorna dove si era partiti. Derivazione e integrazione sono due operazioni opposte: l’una cancella l’altra. Questa generalizzazione era tra le più straordinarie della storia della matematica. Newton giunse a questo teorema fondamentale impiegando una concezione cinematica delle grandezze geometriche, che egli trattava come generate da un moto continuo. Per esempio, una curva è concepita come generata da un punto che si muove con moto continuo. Le grandezze geometriche generate in questo modo sono dette «fluenti». Le loro velocità istantanee di accrescimento sono dette «flussioni». Questo mondo continuo di curve tracciate con continuità e di velocità di accrescimento istantanee riproponeva una questione che era vecchia di 2000 anni: la questione degli infinitesimi. Zenone di Elea, nel quinto secolo prima di Cristo, aveva messo in evidenza la difficoltà di dominare concettualmente il continuo, presentando una serie di paradossi. Consideriamo, disse Zenone, una gara di velocità tra Achille pie’ veloce e una tartaruga, cui Achille ha concesso un vantaggio di partenza. Per raggiungere la rivale, Achille dovrà dapprima dimezzare lo svantaggio iniziale, poi dimezzerà la metà già recuperata, quindi la metà della metà della metà e così via. Sempre Achille si troverà costretto a dover dimezzare una distanza che lo separa dall’antagonista. Morale: Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga. Questo e altri paradossi servivano a Zenone per convincere gli astanti increduli di quel che sosteneva l’amato maestro Parmenide, che il movimento è impossibile in quanto impensabile. Così facendo aveva posto un problema difficile: se lo spazio continuo è divisibile senza limite alcuno, vuol dire che è composto di un numero infinito di parti. Ma cosa sono queste parti? Se sono finite, per quanto piccole, la loro somma dà una lunghezza infinita, ogni segmento avrebbe lunghezza infinita. Se sono zero, la somma di infiniti zeri vale zero, ogni segmento avrebbe lunghezza nulla. Le parti costituenti il continuo non possono essere né finite, né nulle. Sembrano essere qualcosa di intermedio tra l’essere e il nulla. I matematici cominceranno a chiamarle «infinitesimi», ma questo era solo un nome, non chiariva niente. Già con Galileo questi infinitesimi divennero i protagonisti della trattazione di grandezze istantanee. Per esempio, il calcolo dello spazio percorso in un dato tempo con una velocità costante è fattibile in modo elementare moltiplicando la velocità per il tempo. Ben diverso è il caso di una velocità variabile da un istante all’altro, come accade nel moto accelerato uniforme di un corpo in caduta. In questo caso, per quale velocità moltiplichiamo il tempo se il valore della velocità varia continuamente? Il trucco consiste nel passare dal mondo delle grandezze finite a quello degli infinitesimi: se in un intervallo di tempo finito la velocità v varia, in un intervallo molto piccolo, un infinitesimo dt, la velocità si può considerare costante e dunque lo spazio, anche lui infinitesimo, ds diventa calcolabile come ds=v x dt . Questa formula ci consente di definire cosa sia la velocità istantanea v=ds/dt : in un istante dato la velocità istantanea è calcolabile come il rapporto tra la infinitesima distanza ds che viene coperta nell’infinitesimo tempo dt a partire dall’istante considerato. Naturalmente, queste definizioni non spiegano che cosa siano gli infinitesimi, ma consentono almeno di fare dei calcoli. La chiarezza concettuale venne giustamente sacrificata al potere calcolistico e fino all’inizio del XIX secolo il fondamento della matematica degli infinitesimi rimase poco rigoroso, affidato ampiamente all’intuizione che, come si sa, a volte si sbaglia della grossa. I calcoli di quegli strani oggetti che sono gli infinitesimi non potevano essere gli stessi validi per le grandezze finite, occorrevano nuove regole, occorreva un «calcolo infinitesimale». Questo fu quello che fece il giovane Newton: trovò il modo di calcolare le derivate e gli integrali di un numero enorme di curve.

In pochi mesi Newton penetrò in un territorio sconosciuto ai matematici a lui contemporanei. Non pubblicherà quasi nulla di questo straordinario tesoro matematico fino al 1704.

TUTTI I COLORI DEL BIANCO La teoria dei colori fu la prima dimostrazione che Newton non era soltanto un grande matematico, ma anche uno straordinario sperimentatore. Anche qui, come per la matematica, l’ispiratore di Newton fu Cartesio. Cartesio concepiva la luce come una pressione esercitata sull’occhio da particelle piccolissime di forma sferica. Secondo il filosofo francese, quando la luce bianca, intesa come un moto di sferette, viene riflessa o rifratta, le sferette possono acquistare un moto rotatorio addizionale che genera il colore. La diversa tessitura delle superfici dei corpi genera moti rotatori più o meno rapidi, e quindi diversi colori. I colori sarebbero dunque una modificazione della luce bianca. Cartesio aveva descritto le sue esperienze con un prisma ottico, strumento usato fin dai tempi antichi per indagare sui colori. Ben presto Newton non fu soddisfatto dell’ottica cartesiana e nel 1665 si recò alla fiera di Stourbridge per acquistare un prisma, al fine dei verificare quanto aveva scritto Cartesio. Newton era a conoscenza di altre teorie della luce alternative a quella di Cartesio, come quella presentata dal fisico inglese Robert Hooke (contemporaneo di Newton) nel suo importante lavoro Micrographia in cui sosteneva che la luce fosse una vibrazione, un tremore che si propaga in un mezzo, un fenomeno ondulatorio, contrariamente a quanti la interpretavano come effetto del moto di corpuscoli. Comunque anche per Hooke, come per Cartesio, i colori dovevano essere una modificazione della luce bianca. Molti erano gli autori di opere che trattavano di esperienze con il prisma ottico. Ai molti si aggiunse anche Newton. Il nostro scienziato cominciò con il replicare le esperienze già presenti in letteratura, poi passò a variare le disposizioni sperimentali dando avvio a una serie di esperimenti divenuti famosissimi, che gli consentirono di scoprire molte novità in campo ottico. L’impegno feroce con il quale Newton portava avanti le sue ricerche sperimentali è ben illustrato da una «esperienza» compiuta per valutare se la luce fosse il risultato di una pressione sull’occhio, come voleva Cartesio. Newton fece scivolare un punteruolo all’interno della propria cavità orbitale fra il bulbo oculare e l’osso. Spinse con la punta fino a che vide «parecchi cerchi bianco scuro e colorati. I quali cerchi erano più semplici mentre continuavo a sfregarmi l’occhio con la punta del punteruolo». Tuttavia tenendo fermo sia l’occhio sia il punteruolo «i cerchi cominciarono a svanire». In modo altrettanto temerario fissò con un occhio il Sole riflesso in uno specchio per tutto il tempo che riuscì a sopportarlo. Spostò lo sguardo su un muro nero e vide cerchi colorati. C’era un «movimento degli spiriti» nel suo occhio. Erano reali o fantasmi? Ripeté l’esperimento fino a che cominciò a temere danni permanenti e si rinchiuse in una camera buia, dove rimase per tre giorni: solo allora la sua vista ricominciò a funzionare.

Con i suoi esperimenti Newton scoprì che i colori non sono una modificazione della luce, ma sono la luce stessa: la luce bianca è un miscuglio di raggi colorati, che dalla luce si possono estrarre e separare gli uni dagli altri. Il mondo dei colori venne ad assumere una natura geometrica: ogni raggio colorato viene rifratto, passando da un mezzo trasparente a un altro, secondo un angolo caratteristico, costante, angolo che diviene una caratteristica geometrica associata a un colore e che permette di trattare geometricamente il mondo dei colori. La matematica entrava così nel regno della poesia, associando a un bel tramonto alcuni angoli di rifrazione. Newton vide nella sua teoria della luce la possibilità di una importante innovazione pratica: un nuovo tipo di telescopio. Nei telescopi detti rifrattori, come quello di Galileo, la luce passa attraverso una combinazione di lenti, in maniera rettilinea fino all’occhio. Era noto da tempo che con questi telescopi gli oggetti lontani non vengono messi bene a fuoco e per ovviare, almeno parzialmente, a questo inconveniente (detto aberrazione sferica) occorreva allungare il telescopio. Alla metà del Seicento venivano utilizzati strumenti lunghi decine di metri, certo non maneggevoli. Una volta elaborata la sua teoria della luce, Newton si convinse che le lenti hanno anche una aberrazione cromatica, che non poteva essere eliminata. Dato che i raggi colorati componenti la luca bianca hanno differenti angoli di rifrazione, una lente, comunque sia foggiata, non può focalizzare nello stesso punto le diverse componenti di una sorgente bianca puntiforme. Ma l’aberrazione cromatica è un effetto che riguarda la rifrazione, non la riflessione: raggi di differenti colori vengono riflessi tutti allo stesso modo. Newton pensò dunque di costruire un telescopio basato non più sulle lenti trasparenti, ma su uno specchio riflettente. L’idea non era nuovissima, ma nessuno era ancora riuscito a tradurla in pratica. Mostrando una capacità artigianale meravigliosa Newton riuscì a costruire un telescopio riflettore che offriva, con dimensioni ridottissime, migliori prestazioni di quelle dei telescopi a rifrazione. Newton costruì il suo telescopio nel 1668. Incoraggiato da Barrow, nel 1671 inviò un esemplare alla Royal Society, la maggiore associazione scientifica inglese. Si trattava di un tipo di scoperta che ben si adattava al programma tecnologico e sperimentalista della società londinese: la notizia fu ben accolta e l’anno successivo Newton venne eletto fellow. Fino ad allora Newton non aveva pubblicato nulla e poche persone erano a conoscenza, almeno parzialmente, dei suoi studi. Una volta ammesso nella Society, si sentì subito in dovere di rendere pubblica la sua teoria dei colori, cosa che fece con un saggio intitolato New theory about and colors (1672). Di questa mossa si sarebbe dovuto pentire amaramente.

L’ALBA DELLA GRAVITAZIONE UNIVERSALE Oltre alla matematica e all’ottica, il lavoro di Newton nell’anno mirabile si estese anche alla meccanica del moto rotatorio, avviando un processo intellettuale che si concluderà con la formulazione della teoria della gravitazione universale. La leggenda dice che Newton, mentre rifletteva immerso nella pace agreste, vide una mela cadere da un albero e questo evento, peraltro non certo nuovo per lui, gli diede l’ispirazione di elaborare l’ipotesi che la forza che fa cadere una mela è la stessa che obbliga la Luna a cadere verso la Terra, anziché partire per la tangente all’orbita. Ci sono poche probabilità che le cose siano andate proprio in questo modo, ma è certo che Newton stava ragionando su una questione veramente importante, che riguardava una nuova meccanica celeste. La rivoluzione astronomica realizzata con i contributi di Copernico, Brahe, Galileo e Keplero, aveva consegnato agli uomini della metà del Seicento una cosmologia interamente rinnovata rispetto a quella antica, ma non certo priva di problemi. Tra questi il più importante era quello di rispondere all’interrogativo «chi muove i corpi celesti?». Fin dai tempi più antichi si supponeva che i corpi celesti fossero sostenuti e portati in giro da sfere trasparenti che potevano fare in proprio il loro lavoro, oppure farsi aiutare da intelligenze angeliche. Nel Seicento gli studi sulle comete, quelli di Brahe in particolare, avevano dimostrato che nel loro percorso le comete si sarebbero necessariamente scontrate con le presunte sfere cristalline, pertanto queste ultime non potevano esistere. Ma una volta eliminate le sfere, cosa si poteva mettere al loro posto? Occorreva un nuovo meccanismo di spiegazione dei moti celesti, appunto una nuova meccanica celeste. Keplero aveva formulato tre leggi sul movimento dei pianeti che avevano inferto un durissimo colpo alla filosofia tradizionale, di impianto tanto platonico quanto aristotelico. Secondo queste filosofie, essendo corpi perfetti, i corpi celesti devono muoversi di moto perfetto, cioè circolare e uniforme. Le prime due leggi di Keplero, invece, affermano che i pianeti si muovono lungo delle ellissi con velocità variabile, il loro moto non è né circolare né uniforme. Una terza legge stabilisce che per tutti i pianeti il tempo impiegato a compiere un’orbita elevato al quadrato è proporzionale al raggio dell’orbita (ritenuta approssimativamente circolare) elevata al cubo. Le leggi di Keplero sono cinematiche, cioè si limitano a descrivere i movimenti dei pianeti, senza specificare quale sia la loro causa. Keplero aveva avanzato l’ipotesi che ciò che faceva muovere i corpi celesti fosse una forza magnetica che ha la sua origine nel Sole, concepito come un grande magnete. Egli vedeva il Sole quale «divino primo motore dell’Universo», dotato di un’anima e di una polarità magnetica che si estende nello spazio. I pianeti, anch’essi dotati di una polarità magnetica e di facoltà animali attivate dal Sole, sono attratti verso il Sole per una metà della loro orbita e respinti per l’altra metà. Questa filosofia magnetica incontrò un certo successo tra i filosofi naturali, ma doveva fare i conti con la filosofia meccanica di Cartesio. Cartesio spiegava i moti planetari mediante vortici di materia sottilissima. Lo spazio interplanetario è riempito da particelle sottilissime, formanti un vortice generato dalla rotazione del Sole. I pianeti sono trascinati dal vortice come fuscelli di legno catturati da un mulinello d’acqua. Cartesio non tentò un’analisi quantitativa del movimento dei pianeti. Dopo di lui molti, tra cui Leibniz, tentarono invano di dedurre le leggi di Keplero partendo dalla teoria cartesiana. Anche Newton per qualche tempo guardò con favore all’idea che la gravità fosse dovuta all’azione per contatto di un mezzo etereo interplanetario. Nei suoi anni giovanili Newton non concepì la teoria della gravitazione universale (anche se nei suoi ricordi senili affermò il contrario), ma pervenne comunque a risultati molto interessanti relativi al moto circolare uniforme e alla forza di gravità. Da Cartesio Newton aveva appreso che un corpo in moto circolare uniforme è soggetto a due «conati»: una tendenza a muoversi lungo la tangente alla circonferenza, dunque allontanandosi da centro, e una ad avvicinarsi al centro. Per avere un moto circolare è necessario che queste due tendenze si equilibrino esattamente. Negli anni mirabili Newton ottenne l’espressione quantitativa della tendenza a recedere dal centro, che è proporzionale alla velocità elevata al quadrato e inversamente proporzionale al raggio dell’orbita circolare. Questa formula venne scoperta indipendentemente dallo scienziato olandese Christiaan Huygens che la pubblicò nel 1673. Usandola in combinazione con la terza legge di Keplero, Newton ricavò facilmente che la tendenza dei pianeti a recedere dal Sole è inversamente proporzionale al raggio dell’orbita elevato al quadrato. Si sarebbe tentati di vedere in questa formula una anticipazione della legge della gravitazione universale: se la tendenza a recedere è inversamente proporzionale al raggio dell’orbita elevata al quadrato, affinché vi sia equilibrio anche la tendenza ad avvicinarsi al centro dell’orbita deve essere inversamente proporzionale al raggio dell’orbita al quadrato: il Sole, per esempio attrarrebbe i pianeti con una forza che varia inversamente al quadrato della loro distanza. Nei manoscritti giovanili, tuttavia, Newton mostra di essere ancora ben lontano dall’idea di considerare una simile forza come una forza universalmente presente nei corpi, anzi a volte sostiene la teoria vorticistica, che verrà giudicata incompatibile con la teoria della gravitazione universale. Quel che aveva fatto era un passo importante verso la teoria, non un pezzo di teoria.

IL METODO DELLA FISICA Nel 1669 Isaac Barrow diede le dimissioni dalla cattedra lucasiana di matematica, facendo in modo che Newton fosse il suo successore. Da allora Newton poté dedicarsi alla ricerca indisturbato, fino al 1696, anno in cui lascerà Cambridge per Londra. Secondo gli statuti del Trinity College egli avrebbe dovuto, dopo sette anni di fellowship, prendere gli ordini sacerdotali, ma grazie a protezioni non ben chiare Newton ottenne una letters patent che consentiva al professore lucasiano di mantenere la fellowship senza l’obbligo dell’ordinazione. Si vedrà più avanti il motivo alla base di questa scelta. Come professore lucasiano, Newton aveva l’obbligo di tenere una lezione alla settimana e di depositare almeno dieci lezioni scritte ogni anno. Pare che le sue lezioni andassero deserte e in tutto il suo soggiorno a Cambridge le lezioni depositate furono tre (un centesimo del dovuto!). Quella dedicata all’ottica fu la più importante e rivelatrice di un nuovo modo di intendere lo scopo della matematica e il carattere della ricerca fisica. Nelle università medioevali venivano insegnate le matematiche “pure”, aritmetica e geometria, e quelle “miste” in quanto riguardanti non oggetti del puro pensiero ma fenomeni fisici trattati da un punto di vista matematico. Le matematiche miste potevano comprendere astronomia, musica, meccanica e ottica. Nella prospettiva aristotelica le matematiche miste non dicono nulla circa le cause dei fenomeni e quindi non sono “scienza” nel senso più alto. Compito delle matematiche miste è prevedere i fenomeni, non spiegarne le cause. Le cause dei fenomeni sono comprese dalla «filosofia naturale», che ricorre a strumenti argomentativi differenti da quelli usati dal matematico. Un grande esempio di questo duplice modo di intendere le teorie scientifiche è dato dalla vicenda del copernicanesimo, che molti hanno inteso come semplice strumento matematico adatto a fare calcoli per prevedere i fenomeni celesti.

Newton fu un accanito avversario di questa separazione tra matematica e filosofia naturale. Egli credeva che la matematica fosse uno strumento adatto ad articolare un discorso sulle cause dei fenomeni naturali, anzi che fosse lo strumento principe per individuare le cause con certezza. Nella sua terza lezione sull’ottica (dei primi anni Settanta del Seicento) Newton enuncia un programma che resterà centrale nella sua ricerca: fare delle scienze miste la via alla certezza matematica della filosofia della natura: «Poiché la scienza accurata di questi [i colori] sembra essere tra le più difficili che un filosofo possa desiderare, spero, quasi ad esempio, di mostrare quanto la matematica valga in filosofia naturale e quindi di esortare i geometri ad accingersi a un più stretto esame della natura, gli amanti della scienza naturale ad appropriarsi prima della geometria, affinché i primi non sprechino totalmente il loro tempo in speculazioni in alcun modo utili alla vita umana, e i secondi, a lungo impegnati con metodo inadeguato, non perdano ogni loro speranza per sempre; ma affinché, filosofando i geometri ed esercitando la geometria i filosofi, otteniamo, invece di congetture e cose probabili, che si smerciano ovunque, una scienza della natura finalmente confermata con la più alta evidenza».* Per tradizione i colori non erano oggetto dell’ottica geometrica, ma della spiegazione filosofica della natura della luce. Trattando matematicamente i colori, Newton compiva una incursione nuova e provocante, che ai suoi occhi aveva il vantaggio di liberare la filosofia naturale dalle «congetture» e «cose probabili» che «si smerciano ovunque». Un bersaglio polemico di queste parole era Cartesio. Questi adottava un metodo ipotetico in base al quale i fenomeni naturali sono spiegati con modelli corpuscolari introdotti a priori. La loro verosimiglianza trova conferma nella loro capacità di condurre a deduzioni in accordo con l’esperienza. I cartesiani proponevano modelli basati su corpuscoli la cui esistenza era solo ipotetica. A parere di Newton quei modelli erano senza valore, non essendo derivati dall’osservazione ma imposti da considerazioni aprioristiche. Il rifiuto di Newton di «congetture» e «cose probabili» era una critica rivolta non solo verso i cartesiani ma anche (e forse soprattutto) verso i membri della Royal Society, impegnati attorno a Boyle e a Robert Hooke in un programma di ricerca sperimentale di ispirazione baconiana. Costoro ritenevano che la matematica non fosse un linguaggio adeguato alla scienza sperimentale. Il linguaggio promosso dalla Royal Society era quello della filosofia sperimentale, concepita come un’impresa collettiva basata sulla paziente raccolta di dati al fine di raggiungere verità probabili. Con uno scetticismo moderato si cercava di evitare l’arroganza dogmatica, la pretesa di certezza. Per Newton la certezza si può raggiungere evitando di affidarsi esclusivamente al metodo induttivo, alla puntigliosa raccolta di osservazioni. Quello che egli proponeva nei suoi studi di ottica non era un’induzione ma una deduzione dai fenomeni: non si tratta di raccogliere una gran quantità di dati, ma di concentrarsi su poche esperienze, al limite una sola (experimentum crucis), e da queste dedurre le proprietà della luce.

LA PRIMA POLEMICA Lo scontro era inevitabile e, con grande sorpresa di Newton, iniziò non appena questi presentò nel 1672 la prima pubblicazione della sua vita alla Society, la già citata New theory about light and colors. Ad alimentare il fuoco della polemica contribuirono fattori personali: tanto Boyle quanto Hooke avevano pubblicato varie ricerche sulla natura dei colori e Newton ne aveva fatto buon uso, senza però riconoscerne la paternità. Particolarmente infastidito dal saggio di Newton fu Robert Hooke. Questi era responsabile della sperimentazione che avveniva entro la Royal Society, ruolo che gli era particolarmente adatto, vista la sua straordinaria capacità di costruire strumenti e condurre esperimenti. Era un geniale artigiano che non aveva certamente la capacità matematica di Newton. La polemica tra i due durò vari anni, fino a che Newton decise di interromperla. La contrapposizione verteva non tanto sui contenuti particolari della teoria newtoniana, ma sul metodo scientifico. Da un lato Newton sosteneva che con una singola esperienza era stato capace di dedurre matematicamente una proprietà della luce (la luce bianca è composta e le componenti hanno differenti indici di rifrazione). Dall’altro lato Hooke negava la pretesa newtoniana di aver conseguito quel risultato con certezza e necessità e difendeva un metodo basato sulla valutazione di una pluralità di prove sperimentali che possono fornire una verità probabile, non una certezza matematica. In una lettera a Henry Oldenburg, primo segretario della Royal Society, Newton arrivava ad affermare che «un naturalista non si aspetterebbe davvero di vedere la scienza dei colori diventare matematica, e tuttavia oso affermare che in essa vi è tanta certezza quanto in ogni altra parte dell’ottica, poiché ciò che dirò su di essi non è un’ipotesi, ma la più rigida conseguenza, non congetturata semplicemente inferendo che è così perché non è altrimenti o perché essa soddisfa tutti i fenomeni (la topica universale dei filosofi) ma ottenuta con la mediazione di esperimenti che concludono direttamente senza sospetto di dubbio».** Dopo aver letto questo passo, Hooke scrisse alla presidenza della Society una lettera di protesta: «Non comprendo per quale ragione il Sig. Newton possa trarre una conclusione così certa da rivolgersi a chi legge come se tutto ciò fosse al di là di ogni disputa sulle ipotesi. Poiché io considero che non vi sia niente che possa condurre meglio all’avanzamento della filosofia dell’esaminare le ipotesi per mezzo di esperimenti e dell’indagare negli esperimenti per mezzo di ipotesi».*** Questo primo confronto polemico con la Royal Society fu un trauma per Newton, che non si aspettava una simile reazione. Lo scontro proseguì incentrandosi su qualcosa che non c’era: l’ipotesi sulla natura della luce. Newton, attraverso i suoi esperimenti, voleva andare alla ricerca di regolarità matematiche, che devono essere mantenute distinte dalle ipotesi sulla natura della luce. Tuttavia alcune affermazioni contenute nel lavoro del 1672 lasciavano intendere che i suoi esperimenti potevano essere letti come una prova della teoria corpuscolare della luce. Questo fu un argomento che interessò molto i critici di Newton. Per Hooke e Huygens, Newton aveva presentato una teoria della luce incompleta: aveva identificato una proprietà matematica relativa alla rifrazione dei raggi colorati ma non aveva detto quale fosse la natura della luce e non aveva mostrato come da questa discendano causalmente i fenomeni luminosi. Newton cercò di sottrarsi alla discussione affermando a chiare lettere che quanto dimostrato nella sua teoria non aveva nulla a che fare con la natura della luce: «Mi chiedo come il Sig. Hooke potesse immaginare che avendo sostenuto la teoria [della luce] con il massimo rigore, fossi poi così negligente da affermare la stessa supposizione fondamentale [la teoria corpuscolare] con niente più che un forse. Se avessi voluto sostenere una siffatta ipotesi, da qualche parte l’avrei spiegata. Ma sapevo che le proprietà della luce che ho rese note erano in qualche misura suscettibili di essere spiegate non solamente con quella, ma anche con altre ipotesi meccaniche. E pertanto decisi di abbandonarle tutte, e di parlare della luce in termini generali».**** Per più di cinque anni Newton dovette difendersi da attacchi che gli provenivano da più parti, anche se Hooke rimase il suo principale avversario. Nel corso della discussione Newton si sbilanciò, seppur con grande prudenza, a proporre in via ipotetica una concezione della luce che a suo parere aveva qualche probabilità di esser vera. Questa congettura, esposta in An hypothesis explaining the properties of light del 1675, parte dall’esistenza di un etere sottilissimo che pervade lo spazio ma penetra anche nei corpi. In questo etere si propagano vibrazioni analoghe alle vibrazioni acustiche, ma molto più veloci e «più minute». La luce è costituita da un flusso di corpuscoli di varia forma che interagiscono con l’etere: «l’etere rifrange la luce e la luce scalda l’etere». A partire da questo modello Newton era in grado di spiegare vari fenomeni luminosi, in particolare gli anelli colorati che compaiono in lamine sottili come le bolle di sapone. L’ipotesi dell’etere viene applicata non solo a fenomeni ottici, ma anche alla fisiologia della percezione, ai fenomeni chimici, elettrici. La stessa attrazione gravitazionale è vista quale effetto della condensazione di un qualche «spirito etereo». Lo spirito etereo responsabile della gravitazione di cui sta parlando Newton è molto diverso dai fluidi meccanicisti cari ai cartesiani e appare piuttosto ispirato a una filosofia della natura alchemica. Lo «spirito» responsabile della gravitazione non è formato dalla parte «flemmatica» dell’etere ma da qualcosa di sottile e diffuso, forse di natura untuosa, tenace ed elastica. Questo spirito sottile e untuoso si condensa nei pori della Terra trasformandosi in una materia attiva e umida. Dal ventre della Terra lo spirito viene esalato verso l’alto per poi ricominciare il suo veloce moto verso il basso trascinando i corpi pesanti.

NEWTON SEGRETO Non deve stupire la scoperta di un Newton alchimista in qualche passaggio, poiché Newton fu effettivamente un alchimista, e un grande alchimista. L’alchimia è oggi considerata una dottrina che ha caratteri opposti a quella che noi chiamiamo «scienza»: gelosa dei propri segreti, fondata su formule magiche che accompagnano la pratica di laboratorio e che sono indispensabili alla buona riuscita del lavoro dell’alchimista, alla ricerca costante della pietra filosofale, grazie alla quale è possibile trasformare i metalli vili in oro e fabbricare l’elisir di lunga vita. Nel XVII secolo, tuttavia, non esisteva una netta separazione tra la scienza “seria” e alchimia “irrazionale”. L’alchimista non era considerato un ciarlatano, le pratiche e le conoscenza alchemiche avevano applicazioni di successo, soprattutto in campo metallurgico. Molti personaggi definibili come alchimisti era seri e indispensabili direttori di miniere e di fonderie, producevano farmaci, pigmenti e tinture. L’alchimia era praticata a corte, nelle miniere, nelle farmacie, nelle botteghe dei pittori e nei laboratori dei tintori, a volte anche nelle università. Contemporanei illustri di Newton, come Robert Boyle e John Locke, praticarono l’alchimia. Newton prese molto sul serio l’alchimia, dedicandosi a sperimentazioni e a studi alchemici per un periodo che si estende almeno dal 1668 al 1696. Trent’anni a cercare la pietra filosofale! Non pubblicò nulla su queste sue ricerche, ma lasciò molti manoscritti che consentono di farsi un’idea del suo lavoro. Fu particolarmente interessato alla trasmutazione dei metalli. Condivideva con molti alchimisti l’idea che i metalli sarebbero in grado di «vegetare», cioè di trasformarsi attraverso processi simili a quelli che caratterizzano la vita dei vegetali, come la germinazione dal seme alla pianta. Studiare i metalli poteva servire a gettare luce sulla chimica dei fenomeni vitali. Newton era anche d’accordo con la stragrande maggioranza degli alchimisti che l’antica mitologia greco-romana nascondesse istruzioni per ricette alchemiche. Per indagare in questo campo l’alchimista non poteva limitarsi a procedere come un filosofo sperimentale, doveva farsi ermeneuta, critico dei testi munito di strumenti filologici indispensabili per l’analisi testuale dei documenti più antichi. L’alchimista dai miti greco-romani può estrarre non solo formule alchemiche, ma visioni complessive dei fenomeni naturali, vere e proprie cosmologie. L’interesse per l’alchimia fu completamente trascurato dagli studiosi di Newton fino agli anni Settanta del XX secolo. A partire da questa data ci si è resi conto che la passione di Newton per gli studi esoterici non fu affatto un aspetto secondario della sua personalità, che la relativa documentazione lasciata è imponente, che il grande scienziato aveva probabilmente la più ricca biblioteca alchemica del mondo, con oltre 160 volumi, il che rende plausibile la definizione di Newton come «ultimo dei maghi». Newton non pubblicò nulla delle sue ricerche teologiche così come aveva fatto per gli studi alchemici. Anche a questo proposito va detto che gli studi newtoniani hanno a lungo trascurato questo aspetto della sua opera, la cui scoperta è andata di pari passo con la scoperta del Newton alchimista. Se una volta ci si chiedeva «come mai uno scienziato come Newton ha perso tempo con la teologia?», oggi, per amor di paradosso, ci si può domandare «come mai un teologo come Newton ha perso tempo con la scienza?». Newton abbracciò convinzioni religiose eretiche. Il principale punto di attrito con la Chiesa anglicana fu il dogma della Trinità: Newton riteneva che Cristo fosse subordinato al Padre, che non fosse cioè della stessa sostanza, ma piuttosto un mediatore tra Dio e il mondo. Negava inoltre l’esistenza del demonio, non credeva nella sopravvivenza dell’anima al corpo, se non per pochi eletti. La sua richiesta del 1675 di essere dispensato dal prendere gli ordini può essere interpretata come dovuta all’intenzione di evitare di giurare, tra l’altro, sul dogma della Trinità. Non c’è da stupirsi se Newton tenne celate le proprie idee, con l’eccezione di una ristrettissima cerchia di amici fidati.

Newton era convinto di far parte di una piccola sfera di eletti che avevano accesso a verità negate ai più in forza della loro capacità di leggere l’azione di Dio nel Libro della Natura e nel Libro della Scrittura. Vedeva se stesso come un novello Cristo, venuto a far da tramite tra Dio e le moltitudini, spiegando la Natura e la Bibbia. Dall’esegesi del testo biblico Newton trasse un’immagine di Dio quale reggitore supremo, onnipotente, onnisciente, che governa in ogni istante il corso degli eventi naturali e della storia umana, presente in ogni luogo.

Oltre che della teologia, il Dio di Newton è anche il Dio della scienza, che parla alla mente, non al cuore. Dio della legge e della certezza, non Dio della speranza e del timore. Questo Dio era il costruttore intelligentissimo e perfettissimo della macchina del mondo. L’antico argomento dell’ordine del mondo che rinvia alla presenza di un ordinatore era modernizzato per essere adattato a un ordine che era nella sua essenza matematico e a un ordinatore molto esperto in geometria. Newton riteneva che alcuni concetti propriamente scientifici rinviassero in maniera precisa alla divinità, in primo luogo il concetto di spazio assoluto. Il relativismo cartesiano pareva a Newton una bestemmia: in un universo in cui sono concepibili solo moti relativi neppure Dio può stabilire quali corpi siano realmente in movimento e quali in quiete. Newton pensò di dover restituire dignità scientifica allo spazio assoluto e credette di trovare la prova scientifica dell’esistenza dei moti assoluti nelle forze d’inerzia, effetti sensibili del moto rispetto a un riferimento assoluto. Newton studiò, mostrando una straordinaria erudizione, la storia della Chiesa delle origini e scrisse, in segreto, sui dibattiti teologici relativi alla cristologia: Cristo era della stessa sostanza del Padre, come dice il dogma della Trinità, oppure, come sosteneva Ario, era di una natura inferiore, un termine medio tra Dio e l’umanità? Newton raccolse prove storiche sulla congiura che sarebbe stata ordita contro Ario da Atanasio [Atanasio di Alessandria (295 ca. – 373), padre e dottore della Chiesa, fu vescovo di Alessandria e combatté tenacemente l’arianesimo, subendo più volte l’esilio – ndr]. Newton si occupò anche, sempre con la medesima serietà, di cronologie bibliche e di interpretazione delle profezie della Bibbia. Era convinto che Dio avesse rivelato ai patriarchi e ai profeti delle verità che riguardavano non solo Dio e le sue relazioni con il Creato, ma anche il Creato stesso. Inoltre, riteneva che gli antichi ebrei possedessero conoscenze fisiche e astronomiche che egli cercava di “restaurare” con i propri studi. La credenza in una saggezza originaria, una prisca sapientia, era presente in molti contemporanei di Newton.

IL CAPOLAVORO: I PRINCIPIA Dopo gli studi giovanili che lo avevano condotto a trovare interessanti proprietà della meccanica del movimento circolare, Newton aveva quasi sospeso le ricerche in questo campo. Il suo interesse fu nuovamente sollecitato da dibattiti tra altri studiosi che stavano affrontando il problema di riuscire a spiegare il movimento dei corpi celesti dopo l’abbandono delle sfere cristalline. In particolare Hooke ebbe vari scambi d’opinione con Newton sul tema. Newton riprese in mano i suoi precedenti studi arrivando a realizzare un intero trattato sul movimento dei corpi (celesti e terrestri), il più importante trattato scientifico che mai sia stato scritto, i Philosophiae naturalis principia mathematica, che venne alla luce nel 1687. Il testo è strutturato secondo un rigoroso sistema assiomatico. Il primo libro dell’opera è un trattato di meccanica che apre la via al calcolo dei movimenti orbitali. Qui la meccanica seicentesca è elevata al suo massimo livello di perfezione. Essa è fondata sulle tre leggi del moto: il principio d’inerzia nella sua forma moderna, derivante da Galileo e Cartesio; il secondo principio, che introduce la nozione di forza esterna a un corpo, che sul corpo produce un’accelerazione; la legge di azione e reazione, propria di Newton, anche se la si può riguardare come un’estensione in termini di forza delle leggi dell’urto determinate da Huygens. I tre principi nel primo libro sono applicati ai punti materiali, particolarmente a quelli che ruotano attorno a centri attrattivi. Il culmine dello studio dei moti rotatori è la dimostrazione che le leggi di Keplero possono essere ricavate dai principi della meccanica. La dimostrazione di questo teorema, che era stato invano cercata da altri, fu particolarmente laboriosa, ma il teorema fu il pilastro principale della teoria della gravitazione universale. Il secondo libro abbandona i punti materiali ideali che si muovono senza attrito per occuparsi di corpi che sono in moto in mezzo a fluidi resistenti e dei movimenti di questi stessi fluidi. L’obiettivo principale di questa parte è mostrare, contro i vortici cartesiani, che nessun sistema planetario mosso da un vortice può essere in accordo con le leggi di Keplero. Inoltre nessun vortice può mantenersi senza l’intervento di una forza esterna. Nel terzo libro Newton applica la teoria dinamica al sistema solare. Suo scopo è dimostrare che tutte le forze che mantengono in orbita i pianeti attorno al Sole, i satelliti intorno a Giove e alla Terra sono identiche; non solo, ma sono anche identiche alla forza di gravità terrestre. Sono manifestazioni di un’unica legge di gravitazione universale. Le difficoltà incontrate in questa parte furono superate grazie alla elaborazione del calcolo infinitesimale; i risultati, tuttavia, sono esposti nel libro con linguaggio geometrico, il solo che i contemporanei di Newton erano in grado di capire. La teoria della gravitazione viene impiegata nella restante parte del libro per spiegare vari fenomeni complessi, come le maree, le anomalie del moto lunare, la precessione degli equinozi, l’orbita delle comete.

Con i Principia Newton portò a sintesi e compimento vari processi intellettuali che operavano nel profondo della cultura occidentale da molti decenni: l’unificazione tra fisica celeste e fisica terrestre, la connessione tra matematizzazione e meccanicizzazione della natura, quella tra strumenti di previsione e spiegazioni causali, la convergenza tra assiomatizzazione ed empirismo. L’importanza di questo lavoro per l’avanzamento della scienza fu riconosciuta solo progressivamente, soprattutto nel Continente. In Francia il pieno riconoscimento della teoria newtoniana avvenne soltanto negli anni Trenta del XVIII secolo. Non mancarono le polemiche. La più aspra, poiché investiva questioni di priorità, fu quella con Gottfried Wilhelm von Leibniz sul calcolo infinitesimale. Leibniz aveva sviluppato la propria versione del calcolo in modo del tutto indipendente da Newton, il quale però lo accusò di avergli rubato le idee. Ognuno dei due aveva proceduto separatamente. In Newton il calcolo infinitesimale (nella sua terminologia «calcolo delle flussioni») fu strettamente intrecciato alle sue ricerche di meccanica, concepito come uno strumento della fisica, non l’unico possibile, tant’è vero che nei Principia Newton preferì impiegare il tradizionale linguaggio geometrico per dimostrare i teoremi i quali erano stati trovati mediante il nuovo calcolo. Proprio per questa sua visione strumentale del calcolo infinitesimale, Newton non si preoccupò molto di darne una fondazione teorica, concentrandosi sulla esposizione delle sue regole pratiche. D’altra parte al suo studio dei rapporti tra infinitesimi potevano essere facilmente rivolte molte obiezioni (come di fatto avvenne) e Newton si premurò di rispondervi in qualche modo: gli infinitesimi non sono né finiti, né nulli, bensì quantità «evanescenti»; il loro rapporto andava considerato come rapporto tra quantità che stanno scomparendo, l’ultimo rapporto che è possibile calcolare prima della loro scomparsa. Si poteva allora obiettare che l’ultimo rapporto di due quantità evanescenti non ha senso, perché prima che esse svaniscano non è l’ultimo, e quando sono svanite non vi è rapporto alcuno. Al che Newton rispose che «l’ultimo rapporto delle quantità evanescenti viene inteso come il rapporto di dette quantità non già prima che siano svanite, e nemmeno dopo, ma nell’istante stesso in cui svaniscono». Un’altra obiezione partiva dalla considerazione che, se è dato l’ultimo rapporto tra due quantità, saranno anche date le ultime grandezze di tali quantità, ma allora queste quantità non potranno essere concepite come evanescenti, bensì come indivisibili, contro la teoria euclidea del continuo, secondo la quale non esiste alcun limite alla divisibilità di un segmento. La risposta di Newton fu che «gli ultimi rapporti che hanno fra di loro quantità evanescenti, non sono i rapporti delle ultime quantità o di certe quantità determinate e indivisibili, ma sono i limiti a cui si avvicinano i rapporti delle quantità infinitesimali decrescenti». Con queste osservazioni Newton dimostrava che, pur senza possedere una nozione rigorosa di limite, egli era pienamente consapevole della necessità di distinguere tra lo studio del rapporto tra quantità che tendono a zero e lo studio del rapporto tra due presunti indivisibili. L’altra grande polemica in cui Newton si trovò coinvolto riguardò proprio il cuore della sua meccanica celeste: la forza di gravitazione universale. Coloro i quali ritenevano che fosse necessario spiegare in che cosa consistesse questa forza (i cartesiani, i vorticisti come Leibniz e Huygens) accusarono Newton di avere dato una semplice formula matematica, utile per fare dei calcoli, ma senza potere esplicativo. Non appena pubblicati i Principia, in una recensione anonima apparsa in Francia si leggeva l’ironico auspicio che Newton potesse in futuro pubblicare un’opera di fisica altrettanto esatta quanto l’opera di meccanica appena data alle stampe. Del resto, questa reazione era in larga misura obbligata: per i filosofi della natura di ispirazione cartesiana dare una spiegazione significava esibire un modello meccanico, ma Newton non aveva fatto nulla di simile. Nei Principia Newton si rifiutava di dare una spiegazione fisica di cosa fosse la gravitazione, di come agisse fra i corpi affinché essi si attraessero in modo direttamente proporzionale alle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza. A suo parere le relazioni matematiche presenti nella teoria della gravitazione universale erano indipendenti dalla natura fisica della forza di gravità: erano vere, qualsiasi ne fosse la spiegazione fisica. Si trattava dello stesso tipo di scontro che Newton aveva dovuto sostenere anni prima a proposito dei suoi studi di ottica: gli avversari gli rimproveravano di aver scoperto delle regolarità matematiche della luce, senza però dire cosa la luce sia; Newton replicava che quelle regolarità non dipendevano da nessuna ipotesi circa la natura della luce. Ecco cosa scriveva il grande Huygens: «Io non sono per niente convinto di tutte le teorie che Newton basa sul suo principio di attrazione, che mi pare assurdo […]. E mi sono spesso stupito di come egli abbia potuto dedicare così tanto sforzo per condurre delle ricerche e dei calcoli così difficili che hanno per fondamento questo principio».***** In particolare i critici dei Principia trovavano assurdo che due masse potessero attrarsi a distanza, istantaneamente e nel vuoto, senza nessun intermediario materiale. Questo principio sembrava a molti un ritorno alle qualità occulte, al magismo. Uno studioso come Huygens aderiva a una filosofia meccanicista di ispirazione cartesiana secondo cui i fenomeni della natura andavano spiegati con azioni per contatto, quali urti tra particelle e propagazioni ondose, e non poteva ammettere l’idea di azione a distanza nella «vera e sana filosofia». Newton prese molto sul serio queste obiezioni. In una lettera del 1690 scrisse che è «un’assurdità» pensare che un corpo possa agire a distanza su di un altro attraverso il vuoto, senza mediazione alcuna. D’altra parte è del tutto da respingere il metodo di coloro i quali cercano spiegazioni della gravità in termini non scientifici, inventando «romanzi filosofici». O si è in grado di offrire una spiegazione che sia matematizzabile e controllabile empiricamente, oppure è meglio astenersi dal fare ipotesi (). La sua posizione fu espressa con grande chiarezza nella seconda edizione dei Principia del 1713: «Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità. Questa forza nasce interamente da qualche causa, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti […]. La sua azione si estende per ogni dove a immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato delle distanze […]». Aggiungendo:

“IN VERITÀ NON SONO ANCORA RIUSCITO A DEDURRE DAI FENOMENI LA RAGIONE DI QUESTE PROPRIETÀ DELLA GRAVITÀ, E NON INVENTO IPOTESI. QUALUNQUE COSA, INFATTI, NON SIA DEDUCIBILE DAI FENOMENI VA CHIAMATA IPOTESI E NELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE NON TROVANO POSTO LE IPOTESI SIA METAFISICHE, SIA FISICHE, SIA DELLE QUALITÀ OCCULTE, SIA MECCANICHE. ” Così concludeva Newton questo pensiero: «In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. In tal modo divennero note l’impenetrabilità, la mobilità e l’impulso dei corpi, le leggi del moto e la gravità. Ed è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi da noi esposte, e spieghi tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare».******

IL SUCCESSO DI PUBBLICO Dopo lo spostamento a Londra nel 1696, Isaac Newton cessò di essere lo studioso isolato, chiuso nelle proprie ricerche, superbo e solitario, noto a pochissimi eletti, per proiettarsi in una dimensione sociale importante. Egli divenne uno dei più conosciuti filosofi naturali del suo tempo, un personaggio pubblico che doveva affermare le proprie idee, difenderle dai critici, farle apparire attraenti anche a coloro che non avevano la preparazione matematica necessaria per comprenderle a fondo. L’ultima parte della sua vita trascorse in impegni pubblici e polemiche, nel corso delle quali ebbe modo di affinare idee che aveva tenuto per sé. Nonostante tutto questo richiedesse un gran dispendio di tempo e di energie, Newton trovò modo di pubblicare un libro che ebbe un successo di pubblico superiore ai Principia. Si tratta dell’Opticks (Ottica) del 1704 (vi fu poi una edizione latina nel 1706 e una seconda edizione inglese nel 1716). Il libro conteneva le ricerche già note sulla rifrazione, con varianti, sui colori nelle lamine sottili, nuovi studi sulla diffrazione. L’opera è conclusa con una serie di sedici Queries (domande), destinate a subire notevoli varianti e a crescere di numero nell’edizione latina e nella seconda edizione inglese, dove sono presenti trentuno Queries. Ancora una volta Newton è attento a separare ciò che risulta da una corretta applicazione del metodo scientifico, e dunque può essere affermato come vero, dalle congetture che al massimo possono ambire a essere probabilmente vere, ipotesi non ancora confermate. Le Queries rappresentano questa forma di conoscenza incerta. Gli argomenti affrontati nelle Queries sono molti: elettricità, magnetismo, fermentazione, reazioni chimiche; sono anche presenti considerazioni sulla cosmogonia, sui rapporti tra Dio e la Natura, sul metodo scientifico. Si tratta in generale di problemi non ancora affrontati dalla scienza del periodo. Newton si muove su un terreno ancora tutto da esplorare, ben differente da quello fortemente matematizzato rappresentato dall’astronomia o dalla meccanica che stavano alla base dei Principia. Nelle Queries la matematica è quasi assente, lascia spazio alle ipotesi qualitative, spesso azzardate o speculative. Il modello di scienziato che si evince non è quello del costruttore di teorie matematiche assiomatizzate, ma del costruttore di strumenti, che opera in laboratorio dando alle mani, rispetto al cervello, un ruolo di pari dignità. Anche la fantasia ha un suo spazio, suggerendo modelli arditi e ricchi di inventiva. Per questi suoi caratteri, in particolare per le conoscenze elementari di matematica richieste, l’Opticks risultava essere molto più leggibile dei Principia e infatti fu il testo più letto tra i due. Usando l’Opticks come modello, era possibile proclamarsi fedeli newtoniani pur essendo a digiuno di matematica. Nel Settecento i Principia furono osannati da molti come un capolavoro, ma furono letti e capiti da pochi. Nel suo elogio funebre di Newton, il grande poeta inglese Alexander Pope testimoniò l’ammirazione dei suoi contemporanei per lo scienziato dicendo: «La natura e le leggi della natura giacevano nascoste nella notte. Dio disse “Che Newton sia!” e la luce fu». Ho forti dubbi che Pope avesse letto i Principia. Nonostante la sua difficoltà, la teoria della gravitazione universale poteva comunque essere tradotta, naturalmente assai approssimativamente, in termini adatti al grande pubblico. La prima diffusione pubblica dei Principia fu dovuta alla predicazione di un teologo, Richard Bentley. Questi fu incaricato di tenere una serie di sermoni finanziati da un lascito di Robert Boyle per la difesa del cristianesimo contro i suoi nemici. Bentley decise di appoggiarsi alla filosofia naturale e nel 1692 si rivolse a Newton. Questi fu entusiasta e affermò che i risultati dei Principia potevano essere sfruttati per difendere l’esistenza di un divino architetto. Iniziò così una corrispondenza incentrata sul rapporto tra Dio e il mondo che è presente nella cosmologia newtoniana. Ne uscì l’immagine di una scienza compatibile con la religione, una nuova apologetica cristiana in cui era presente una fisica “pia” da contrapporre alla fisica “empia” dei cartesiani. L’azione di Bentley e degli altri newtoniani che lo seguirono sulla stessa via si inseriva in un ambiente che in Inghilterra vide una grande fioritura di testi che esaltavano lo studio della natura come una via per scoprire e glorificare l’opera di Dio artefice della natura stessa. Ciò che la scienza newtoniana offriva all’apologetica era un modo nuovo di sostenere i due classici argomenti, quello della creazione che rimanda a un creatore e quello dell’ordine, che rimanda a un ordinatore.

Tanto la creazione quanto l’ordine del mondo venivano affrontati da Newton in modo matematico e rinviavano «quasi matematicamente» a un Dio «assai esperto in meccanica e geometria». Nel progettare il mondo Dio ha formulato nella sua mente la teoria della gravitazione universale, questa è il pensiero di Dio e Newton è giunto a pensare gli stessi pensieri di Dio, sia pure con un qualche ritardo. Ma nessuno è perfetto.

Lettera scritta da Isaac Newton il 20 giugno 1682 al medico e oculista inglese William Briggs, nella quale lo scienziato commenta la nuova teoria sulla fisiologia della visione pubblicata da Briggs. British Museum, Londra.

* I. Newton, Lezioni di ottica, in Scritti sulla luce e i colori, a cura di F. Giudici, BUR, Milano 2006 ** I. Newton, Lettera a Henry Oldenburg, 10 febbraio 1672, in F. Giudice, Lo spettro di Newton: la rivelazione della luce e dei colori, Donzelli, Roma 2009 *** R. Hooke, lettera a Oldenburg 14 marzo 1672, in N. Guicciardini, Newton, Carocci, Roma 2011 **** I. Newton, lettera a Oldenburg 5 maggio 1672, in N. Guicciardini, cit. ***** C. Huygens, lettera a Leibniz 18 novembre 1690, in A. Koyré, Studi newtoniani, Einaudi Torino 1972 ****** I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale in Opere, Vol.1, a cura di A. Pala, UTET, Torino 1997 LA FORTUNA E GLI INFLUSSI

Fino al 1696, anno in cui Newton si trasferì a Londra, il suo lavoro scientifico era noto a pochi. A partire da quella data, tuttavia, la sua fama in Gran Bretagna si estese rapidamente, anche se pochi erano in grado di leggere i Principia. In patria fu osannato ma non letto, nel Continente per vari anni fu poco letto e poco elogiato. Qui era molto forte la tradizione cartesiana, che su molti punti era in contrasto con le teorie newtoniane. In Europa Newton penetrò non grazie alla sua grande opera teorica, ma per mezzo dell’Opticks, un testo di relativamente facile lettura che incontrò un notevole successo. Attorno a questo libro si formò un movimento d’idee che vedeva Newton come un fisico sperimentale, non un grande matematico. Solamente dopo il 1730 vennero presi sul serio anche i Principia e sviluppato il paradigma newtoniano. Accanto a un newtonianesimo empirista nacque e crebbe un newtonianesimo fortemente matematizzato a opera di grandi matematici come Eulero, D’Alembert, Lagrange, Laplace. Addirittura la meccanica divenne «meccanica razionale», non più scienza empirica ma una parte della matematica, le cui verità erano garantite a priori, indipendentemente da controlli empirici. A partire dalla metà del Settecento la meccanica newtoniana inanellò una serie di successi, primo fra tutti la dimostrazione della stabilità del sistema solare a opera di Laplace e di Lagrange (vedi il capitolo Amici e nemici). Laplace fu il protagonista di un ampio movimento di diffusione del pensiero newtoniano. Egli organizzò una vera e propria scuola ove operarono in modo coordinato scienziati di grande valore, seguendo un programma che voleva estendere la fisica newtoniana a tutta la natura. La fisica di Laplace fu una sintesi dei due grandi filoni di newtonianesimo settecentesco, lo sperimentale e il razionalista. Ma in Laplace fu presente la coscienza della difficoltà che comporta il lavoro di scoperta di un ordine del mondo. Nonostante molte volte la sua penna si lasci troppo trascinare dall’entusiasmo, la visione della fortuna ottenuta dal newtonianesimo nel corso del Settecento non si risolse in Laplace nella convinzione di aver scoperto l’ordine del mondo. Tuttavia, all’inizio dell’Ottocento, un secolo di successi non poteva esser tenuto in poca considerazione, non poteva non indurre a un’epistemologia ottimista. L’ottimismo laplaciano non si manifestò nella convinzione di aver elaborato una immagine semplice del mondo dotata di un valore ontologico, ma nel ritenere di poter costruire una visione unitaria della natura, certo approssimata e probabile, ma comunque unitaria. Questo si evidenzia nella funzione attribuita da Laplace ai modelli meccanici. In Laplace il modello è chiamato ad assolvere al compito di unificare il campo della fisica. Solo nel 1805 l’affermazione di principio della natura meccanica del mondo venne trasformata in vero e proprio programma di ricerca, quello della «fisica molecolare». Laplace aveva progressivamente articolato e precisato un programma di ricerca che intendeva estendere la visione astronomica di Newton ai fenomeni terrestri, considerando la materia come un insieme di particelle, le molecole, dotate di proprietà fisiche analoghe a quelle che il grande scienziato inglese aveva attribuito ai componenti del sistema solare, dunque trattabili in modo esaustivo con le teorie della meccanica. La fisica molecolare tentava un’unificazione dei fenomeni fisici e chimici partendo da un modello meccanico caratterizzato da forze centrali, attrattive e repulsive, agenti a distanza tra particelle. Elemento essenziale del modello era un sistema di fluidi imponderabili, atti a interpretare i fenomeni ottici, termici, elettrici e magnetici. I fluidi erano a loro volta formati da particelle mutuamente repulsive e attratte, a brevi distanze, dalla materia ordinaria, prive di peso e dunque nella sostanza dei puri centri di forza. Il modello della fisica molecolare nei primi anni del XIX secolo poteva vantare grandi successi: in astronomia, calore, capillarità, elettricità, ottica, chimica. Dopo il 1815, in concomitanza con il ritorno dei Borboni, che significò la fine delle fortune politiche di Laplace, si moltiplicarono gli attacchi alla fisica laplaciana da parte di uno schieramento scientifico composito, il maggior rappresentante del quale fu Joseph Fourier. La teoria del calore di Fourier intendeva formulare una trattazione del calore indipendente da ogni ipotesi sulla natura del calore stesso. Anziché partire da un qualche modello meccanico rappresentante la struttura del calorico, la teoria di Fourier partiva da «fatti generali», proposizioni empiriche scevre da ogni ipotesi su ciò che sta dietro ai fenomeni. Partendo da fatti generali assunti quali principi, Fourier costruiva con l’aiuto della matematica un sistema deduttivo, una teoria, le cui soluzioni, le equazioni del fenomeno, andavano poi confrontate con l’esperienza. La Teoria analitica del calore (1824) di Fourier ebbe grandissima influenza sulla concezione della scienza di Auguste Comte [il filosofo francese considerato il padre del positivismo – ndr] e divenne il modello metodologico più importante per la scienza francese della metà del XIX secolo. Oltre che svolgersi sul piano metodologico, l’attacco di Fourier individuava anche sul piano contenutistico un problema che investiva i fondamenti del meccanicismo. Nei fenomeni termici si evidenzia l’esistenza di una direzione privilegiata dei processi, una «marche naturelle» che non può essere invertita se non spendendo lavoro: il calore passa spontaneamente dal corpo più caldo a quello più freddo, mai accade il contrario. Questa irreversibilità risulta incomprensibile dal punto di vista della teoria meccanica, le cui leggi sono tutte reversibili. Questa opposizione tra reversibilità meccanica e irreversibilità del calore diventerà sempre più importante nel corso del secolo. Durante l’Ottocento, infatti, a opera di vari autori come James Joule, William Rankine, Lord Kelvin, Josiah Gibbs, prese forma una teoria del calore, detta termodinamica, che rivendicava la propria autonomia rispetto alla meccanica. Proseguendo lungo la linea tracciata da Fourier, la meccanica fu accusata di non essere in grado di spiegare un fenomeno così evidente e ovunque diffuso come l’irreversibilità delle trasformazioni naturali. Non solo, il metodo del meccanicismo fondato sulla costruzione di modelli fu accusato (un po’ ingiustamente) di essere un ponte verso la metafisica: nel modello il meccanicismo (o almeno la maggioranza dei meccanicisti) aveva sempre visto il ritratto di una realtà nascosta dietro le apparenze, una ontologia celata ai nostri sensi. La scienza non deve interessarsi di quello che sta oltre il mondo sensibile, deve (ma questo lo aveva detto anche Newton) ricercare le regolarità matematiche presenti nei dati osservativi, e per far questo non occorrono modelli. Personaggi come Ernst Mach e Pierre Duhem condussero una lunga battaglia insistendo su questo punto: la fisica meccanicista non era altro che una metafisica meccanica. I modelli meccanici potevano essere accettati solo in quanto strumenti euristici, aiuti per il lavoro teorico, mai come mezzi per scoprire la verità. Lo studio dei fenomeni termici non fu però nella seconda metà del secolo completamente dominato dai metodi antimodellistici della termodinamica. A fianco di questa corrente di ricerche ve ne fu un’altra che continuò a affrontare i problemi del calore in termini meccanicisti e modellistici. Il nucleo di questa corrente fu rappresentato dalla teoria cinetica dei gas. Costruita da Rudolf Clausius, James Clerk Maxwell e soprattutto Ludwig Boltzmann, questa teoria spiega il comportamento dei gas rappresentandoli come insiemi di molecole in movimento soggette alle leggi della meccanica. Poiché si tratta di insiemi formati da un numero enorme di particelle è indispensabile la trattazione statistica: la teoria cinetica non è deterministica ma statistica. E statistica è la spiegazione che viene fatta della irreversibilità dei fenomeni termici: il passaggio di calore da un corpo più caldo a uno più freddo non è un fenomeno inevitabile, è soltanto quello più probabile. I sistemi hanno la tendenza a raggiungere lo stato termodinamico più probabile, cioè lo stato di equilibrio termico. La natura normalmente evolve in una data direzione, ma non è esclusa la possibilità che questa evoluzione possa, almeno per brevi periodi, essere invertita. La meccanica era così salvata pagando un prezzo caro: la rinuncia al determinismo. Il Dio che per Newton era «molto esperto in geometria» aveva invece creato un mondo applicando la statistica. Ma i guai per Newton non erano finiti e ne stavano arrivando di peggiori, portati nella cartella da un ometto scarmigliato di nome Albert e di cognome Einstein.

NEWTON OGGI

Newton è stato per due secoli il dominatore della fisica. Sono stati due secoli condotti nel nome di Newton, visto come colui che ha raggiunto l’ultimo livello di conoscenza possibile, che ha scoperto i piani secondo i quali Dio ha costruito il mondo, che ha pensato i pensieri di Dio. Questi pensieri erano le leggi della meccanica scritte nei Principia, supplemento alle leggi mosaiche. Il XX secolo ha visto il crollo di questo magnifico tempio della scienza. Tutto spazzato via. Il mondo di Newton era un mondo tranquillizzante, affidabile, con caratteristiche chiare e semplici, ragionevoli, spiegabili anche a un bambino (come aveva mostrato Galileo a proposito del principio di inerzia). Vi è un bello spazio assoluto, piano, euclideo, a far da contenitore delle cose che accadono, un palcoscenico. Dentro di esso alcune cose sono ferme, altre si muovono e non c’è confusione, in modo che Dio (almeno lui!) possa sapere chi si muove e chi sta fermo. Anche le lunghezze dei corpi sono assolute, non importa se chi le misura sta fermo o corre in bicicletta. Un tempo assoluto scandito uniformemente da tutti gli orologi (almeno quelli non guasti), che non si immischia nelle faccende dello spazio, mantenendo le distanze. Corpi che, se nessuno li disturba, vanno diritti senza mai fermarsi (logico: se non c’è causa perché dovrebbe esserci un effetto?) Gli stessi corpi, però, non appena li contatta una forza, subito cambiano direzione o velocità, oppure tutte e due (ancora logico: se c’è la causa ci deve essere l’effetto) I corpi si attraggono reciprocamente per via della forza di gravità. Questa è una forza democratica, vale assolutamente per tutti i corpi. È semplice, basta lei per costruire il mondo. Fare il Creatore con una simile forza deve essere stata una pacchia: basta attivarne la formula e poi fa tutto da sola. Restava, è vero, il problema dell’azione a distanza, che i cartesiani dicevano essere un trucco da prestigiatore, ma basta farci un po’ l’abitudine e questa attrazione e distanza non sembrerà più strana (ma in fondo non è a distanza l’attrazione sessuale?) La forza di gravità è molto rispettosa dei corpi: non li distrugge (ma neanche li crea). Vale un principio di conservazione della materia, che è assai rassicurante per chi ha investito in lingotti d’oro. Poi c’è la luce, che va molto più svelta degli altri oggetti, ma, come tutti, ha una velocità che dipende da come si muove colui che la misura. È relativa.

Tutto spazzato via a opera di un giovanotto dagli occhi buoni, ma spietato con il povero Newton. Il suo ritratto è finito sulle magliette, si chiamava Einstein. Niente spazio assoluto, ognuno ha il proprio spazio personale. Non si può più stare nel contenitore comune, come bambini in un cortile. Anche perché i bambini rischierebbero di scivolare, visto che lo spazio non è più piano, ma curvo. Le lunghezze dipendono da chi le misura: andando forte i corpi si contraggono. Neppure Dio sa dire quali corpi si muovono e quali no: Gli hanno rubato lo spazio assoluto. Niente più tempo assoluto, ognuno ha diritto a un orologio con cui misurare il proprio tempo. Liberi di arrivare in ritardo! Lo spazio e il tempo non sono più separati, bisogna parlare di uno spazio-trattino- tempo in cui si forma un miscuglio di grandezze spaziali e temporali detto intervallo: questo intervallo è il nuovo assoluto, ciò che rimane invariato passando da un osservatore all’altro. L’assoluto è una formula! Non c’è più la forza di gravità. Quella che era il fondamento del cosmo è scomparsa. Ma che razza di mondo è quello senza la forza di gravitazione universale? Se non c’è più la forza i corpi possono andare solo diritti, ma il mondo reale ha bisogno che a volte qualcosa faccia una curva. Chi fa curvare i corpi? I corpi curvano perché lo spazio è diventato curvo, non euclideo. Come biglie sulla pista di sabbia, i corpi devono per forza seguire la curvatura dello spazio. Così si curva senza bisogno di forze. Il Creatore non lavora con le forze, lavora con la geometria per stabilire la curvatura dello spazio. Il cosmo è un sistema geometrico non euclideo ricavato entro lo spazio-tempo. La materia non si conserva: può diminuire trasformandosi in un po’ di energia o aumentare per effetto della trasformazione di un po’ di energia. Da questo giochetto si possono ricavare svariate bombe atomiche. Poi c’è la luce, un vero mistero. La sua velocità è un assoluto, non dipende da come la si misura: il risultato di ogni misurazione è sempre lo stesso, identico. Perché per gli altri corpi questo non accade? Se non fosse un assoluto tutta la teoria perderebbe di senso.

Ecco il sistema di Newton oggi: un cumulo di macerie fumanti. Ma come mai gli scienziati delle agenzie spaziali per progettare e dirigere le missioni interplanetarie usano ancora la teoria del vecchio Newton? Forse perché, se dal punto di vista concettuale essa è un ferrovecchio, come strumento calcolistico è di una semplicità e una precisione insuperate. E questo è già molto. AMICI E NEMICI

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). Leibniz ebbe una lunga polemica con Newton e i newtoniani su vari argomenti. Il principale fu il calcolo infinitesimale, che entrambi avevano sviluppato indipendentemente. Al di là di vari tecnicismi, la differenza principale tra i due studiosi riguardava l’interpretazione che ognuno dava del nuovo calcolo. Come si è visto nei capitoli precedenti, Newton considerava il calcolo infinitesimale un utilissimo strumento e non si preoccupava molto di ricercarne una formulazione rigorosa. Ben diversa da quella di Newton fu la considerazione che ebbe del calcolo infinitesimale Gottfried Wilhelm Leibniz. Per Leibniz il raggiungimento della verità passa attraverso una riforma della logica che parte dal presupposto secondo cui tutte le verità sono costituite da elementi semplici, paragonabili a lettere dell’alfabeto che, combinandosi tra di loro, danno origine a parole e proposizioni. La nuova logica leibniziana, la «caratteristica universale», ha il compito di esprimere mediante simboli adeguati gli elementi semplici del pensiero e di precisare le loro regole di combinazione: «la caratteristica è l’arte di formare e ordinare simboli in modo che esprimano pensieri». Di qui deriva l’importanza fondamentale che assume in Leibniz il problema della formulazione di un adeguato simbolismo e delle sue regole per affrontare ogni forma di conoscenza. Con questo spirito egli si pose anche di fronte alla questione del calcolo infinitesimale. L’algebra per Leibniz è un simbolismo adatto a esprimere i rapporti tra grandezze finite. In natura, tuttavia, esistono sempre piccole sfumature, differenze quasi evanescenti che fanno sì che non vi siano mai due esseri assolutamente uguali. L’algebra non è in grado di esprimere le sfumature, le variazioni infinitesime, occorre perciò un calcolo simbolico delle grandezze infinitesime. Di qui la necessità di creare un’algebra infinitesimale se si vuol realizzare la «caratteristica universale».

Per Leibniz il calcolo differenziale non è un semplice strumento utile, è parte fondamentale di un grande progetto filosofico che mira a fare della conquista della verità una questione di calcolo logico. Leibniz studiò i problemi degli infinitesimi con l’obiettivo principale di stabilire simboli capaci di esprimere con esattezza e semplicità anche le più complesse relazioni tra le differenze infinitamente piccole. Il simbolismo leibniziano dava una metodologia generale per la trattazione di grandezze infinitesime che facilitava enormemente le procedure calcolistiche e ne eliminava molte incertezze; per questo il simbolismo di Leibniz, attraverso dispute feroci, finirà per affermarsi rispetto a quello newtoniano, divenendo il fondamento della moderna analisi infinitesimale. George Berkeley (1685-1753). Fu uno dei principali filosofi settecenteschi. Criticò molti aspetti del sistema scientifico newtoniano, principalmente i concetti di spazio e di tempo e il calcolo delle flussioni, per difendere la religione. Sia l’infinitamente grande (spazio e tempo assoluti), sia l’infinitamente piccolo (infinitesimi) non possono essere percepiti e quindi vanno respinti pregiudizialmente. Avendo ottime conoscenze matematiche, fu in grado di spingere la sua critica anche nei dettagli e nel 1734 pubblicò uno scritto polemico intitolato L’analista, ovvero discorso di un matematico infedele. In esso utilizzava a fini apologetici la aporie presenti nell’analisi infinitesimale newtoniana, che i matematici del Settecento non erano riusciti a sanare. Voi, affermava Berkeley, esaltate la ragione al punto da mettere in forse la fede, ma non avete timore di accettare un calcolo, come quello delle flussioni, che non ha nessuna base razionale dimostrabile. Ma come può rifiutarsi di credere ai misteri della fede cristiana chi accetta una matematica sicuramente irrazionale? I newtoniani risposero, preoccupati che si diffondesse un’opinione negativa del calcolo e una visione della fisica di Newton incompatibile con la fede cristiana (anche se Newton cristiano non lo era proprio). Ne nacque una polemica durata vari anni. Certo, Berkeley non muoveva critiche prive di fondamento, essendo l’edificio dell’analisi ancora privo di rigore, ma cadeva nell’eccesso di rifiutare completamente questo strumento che si stava dimostrando fecondissimo. Assai debole poi, era la sua tendenza a basare le proprie affermazioni su considerazioni psicologiche: il limite psicologico della percettibilità del finito viene considerato come la prova che il processo di divisibilità sia limitato. La stessa considerazione vale per l’accrescimento illimitato, quindi per i concetti newtoniani di tempo e di spazio assoluti. Berkeley fu costretto a rifiutare tutto ciò che non è percepibile, per esempio i numeri irrazionali e lo stesso teorema di Pitagora, che ha condotto alla scoperta del primo dei numeri irrazionali, la radice quadrata di 2. François-Marie Arouet, Voltaire (1694-1778). Voltaire fu il principale sostenitore in Francia della superiorità di Newton su Cartesio e colui che più di ogni altro si adoperò per diffondere il pensiero newtoniano tra le persone dotate di una preparazione matematica elementare (del resto anche Voltaire non era certo un matematico). Nelle Lettere filosofiche Voltaire dà un saggio della sua straordinaria capacità semplificatrice presentando la teoria della gravitazione di Newton: «Se la forza di gravità d’attrazione agisce in tutti i globi celesti, essa agisce senza dubbio su tutte le loro parti. Infatti, se i corpi si attirano in ragione delle loro masse, ciò non può avvenire che in ragione della quantità delle loro parti; e se tale potere è posto nel tutto, lo è senza dubbio anche nella metà, lo è nella quarta parte, nell’ottava parte, e così all’infinito […]. Così, ecco che l’attrazione è la grande molla che fa muovere tutta la natura. Dopo aver dimostrato l’esistenza di questo principio, Newton aveva previsto che ci si sarebbe ribellati alla sua semplice enunciazione. In più d’un passo del suo libro egli mette in guardia il lettore nei confronti dell’attrazione, lo avverte di non confonderla con le proprietà occulte attribuite ai corpi dagli antichi, e di contentarsi di sapere che vi è in tutti i corpi una forza centrale, la quale agisce da un capo all’altro dell’universo sui corpi più vicini come in quelli più lontani, secondo le leggi immutabili della meccanica».* Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832). Il grande letterato tedesco fu anche un attento studioso della natura. Le sue idee furono alla base della filosofia della natura romantica che tanto successo ebbe nell’ambiente idealistico tedesco. Goethe riteneva la natura una totalità dinamica che si rinnova perennemente senza perdere la sua profonda unità. L’uomo fa parte di questo processo infinito e quindi non è possibile una contrapposizione tra soggetto e oggetto, vi è invece una unità profonda tra quel che percepiamo e la realtà fisica. Il fenomeno percepito può rivelare una legge, una regola segreta della natura a chi sa guardare e osservare con occhio attento. Questo genere di conoscenza non può esprimersi nelle astratte e statiche leggi matematiche della fisica newtoniana. Invece della fisica di Newton, Goethe propose una scienza della natura basata sul concetto di forma: la natura produce in continuazione nuove forme ed è scopo del filosofo-scienziato riconoscere questo dinamismo. La ricerca di una teoria fondata su concetti sempre più generali e astratti, come ha fatto la scienza meccanicista, allontana dalla concretezza della natura, la quale ci si apre spontaneamente, si rivela a chi opera pazientemente ripetendo gli esperimenti, collocando in serie le continue osservazioni, fino a giungere al fenomeno originario. Goethe si oppose quindi alla scienza della natura di tipo fisico-matematico. La sua teoria dei colori, che lo assorbì per parecchi decenni a partire dal 1790, costituì una critica accanita alla concezione newtoniana che considerava la luce bianca come il risultato della fusione di colori semplici. Goethe non poteva ammettere che ciò che si presenta come semplice all’occhio risulti nella sua natura più profonda un che di composto. Per lui i colori non sono gli elementi costitutivi originari della luce bianca ma il risultato, il prodotto secondario, di una varia e reciproca interazione tra bianco e scuro, di due fenomeni che l’occhio riconosce nella loro purezza come presenza o assenza di luce. Goethe si accanì nel difendere la propria erronea teoria, suscitando l’opposizione dei fisici contemporanei e procurando a se stesso non poche amarezze. Il suo lavoro non fu però infruttuoso: le sue ricerche sui fenomeni luminosi, dettagliatissime, condotte per lunghi anni, proprio perché vertevano sulle circostanze soggettive della percezione della luce, furono uno stimolo importante per gli studi successivi di fisiologia della visione. Pierre Simon de Laplace (1749-1827). Laplace fu il “Newton del Settecento”, dominatore della scienza del periodo, costruttore di una scuola di pensiero meccanicista che ebbe al proprio centro il progetto di sviluppare e condurre a compimento la meccanica newtoniana. I Principia di Newton nei primi decenni del XVIII secolo si fecero strada tra varie difficoltà, che si dissiparono a partire dalla metà del secolo. La storia dell’astronomia nella seconda metà del Settecento è stata una storia di grandi successi che assicurarono la piena vittoria della teoria newtoniana. Con Laplace (e Lagrange) fu assicurata teoricamente la stabilità del sistema solare e l’idea di un dio garante di tale stabilità divenne una «ipotesi non necessaria» (come disse Laplace a Napoleone), sostituita, in tutto e per tutto, dall’ipotesi della gravitazione universale. Tutto ciò è vero, ma dal punto di vista della metodologia scientifica assai più influente dei successi ottenuti fu il modo in cui questi furono conseguiti. I problemi connessi con il moto dei pianeti (fondamentalmente il problema dei tre corpi mutuamente interagenti con forze gravitazionali) si rivelarono insolubili per via analitica diretta. Le soluzioni furono ottenute per via indiretta, con metodi di approssimazione che legarono indissolubilmente i successi dell’astronomia al calcolo numerico, alla teoria degli errori, al calcolo delle probabilità. Ciò produsse il passaggio da una concezione razionalista di scienza alla visione di una scienza approssimata, strumentalmente piegata all’ordinamento della realtà empiricamente data, scienza probabile, e si risolse, in definitiva, in un riavvicinamento tra il filone sperimentalista ispirato all’Opticks e quello matematico discendente dai Principia. Dubbi sulla possibile coesistenza tra una prospettiva razionalista di scienza e l’empirismo furono avanzati nell’ambiente dei newtoniani matematici, quali d’Alembert e Condorcet. La visione razionalista postulava l’esistenza di un ordine nell’universo determinato dal moto della materia, ma l’ammissione di una scienza empirica, contingente, accanto a una scienza razionale e, a maggior ragione, lo sfumare di questa in quella, significavano l’inconoscibilità di quell’ordine, che risultava conoscibile solo a un’Intelligenza superiore. A questa conclusione, ma con una forza che derivava da precisi sviluppi scientifici, giunse Laplace, che nel 1773 enunciò la prima versione di quella affermazione circa i rapporti tra scienza e determinismo che avrebbe poi incontrato una fortuna incredibile e sarebbe divenuta il più celebre manifesto del meccanicismo: «Lo stato presente del sistema della natura è chiaramente il risultato di quanto vi era nel precedente istante, e se noi immaginiamo una Intelligenza capace di abbracciare tutte le relazioni fra gli esseri nell’universo in un dato momento, essa sarebbe capace di determinare per ogni momento del passato o del futuro le loro rispettive posizioni, i movimenti e le affezioni generali».** L’uomo deve però accontentarsi di una conoscenza di diverso genere, non necessaria, poiché la scienza non può seguire fino in fondo l’ideale proprio della meccanica razionale. Questa era la lezione da trarre dai più recenti sviluppi scientifici. L’affermazione di Laplace, infatti, era contenuta in una memoria che rappresenta uno dei maggiori risultati della scienza settecentesca, il quale, per il modo in cui era stato ottenuto, imponeva la necessità di un forte ripensamento sui caratteri e i limiti della scienza. Nelle Recherches sur le principe de la gravitation universelle, et sur les inégalités séculaires des planètes qui en dépendent Laplace risolveva uno dei grandi problemi che aveva lasciato aperto Newton, quello della stabilità del sistema solare. Laplace veniva a dimostrare che, in base alla teoria newtoniana, il sistema solare va considerato un sistema stabile, ma oscillante attorno a una posizione di equilibrio, nel senso che gli scostamenti dei singoli pianeti dalle orbite teoriche sono destinati ad annullarsi dopo periodi molto lunghi, variabili da un pianeta all’altro. Si trattava di un grandissimo successo della teoria newtoniana, dunque, ma il modo in cui Laplace era riuscito a raggiungere questo fondamentale risultato comportava la sconfitta di pretese eccessive che la meccanica aveva coltivato negli anni precedenti. Questo successo dell’astronomia newtoniana, così come altri che furono ottenuti negli anni seguenti dallo stesso Laplace e da Lagrange, partiva dal riconoscimento della insolubilità per via analitica diretta del problema dei moti planetari. Le soluzioni furono ottenute tutte per via indiretta, con approssimazioni che legarono indissolubilmente i successi dell’astronomia dell’ultima parte del secolo a metodi matematici che si discostavano di molto dall’ideale purista della meccanica razionale. Il «manifesto laplaciano», solitamente considerato espressione di una concezione trionfalistica e acritica del potere della meccanica, fu in realtà nella sua originaria ispirazione il riconoscimento dei limiti della meccanica, dell’insostenibilità delle ambizioni della meccanica razionale. Tuttavia in Laplace il particolare modo in cui si andava sviluppando l’astronomia (e la scienza tutta) non suggerì solo la crisi dell’ideale conoscitivo razionalista ma indicò anche, in positivo, una nuova via di conoscenza che, abbandonato il mito della deduzione analitica dei principi della meccanica, usava tutte le potenzialità strumentali della matematica, per esempio il calcolo delle probabilità, per comprendere la realtà. * Voltaire, Il sistema dell’attrazione, XV Lettera, in Gli illuministi francesi, a cura di Pietro Rossi, Loescher, Torino 1962 ** P-S. de Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità, Theoria, Roma 1987 APPROFONDIMENTI

LE REGOLE DEL FILOSOFARE

Regola I: Degli eventi naturali non si devono ammettere cause più numerose di quelle che sono vere e sono sufficienti a spiegare i fenomeni. Dicono i filosofi: la natura non fa nulla invano; e inutilmente viene fatto con molte cose ciò che può essere fatto con poche. La natura infatti è semplice e non sovrabbonda di cause superflue. Regola II: Perciò, nella misura in cui può essere fatto, ad effetti naturali dello stesso genere devono essere attribuite le stesse cause. Come alla respirazione nell’uomo e nelle bestie, alla caduta di pietre in Europa e in America, alla riflessione della luce sulla Terra e sui pianeti. Regola III: Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate né diminuite, e quelle che appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile svolgere esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i corpi. Le qualità dei corpi infatti si fanno conoscere soltanto mediante esperimenti, e perciò devono essere ritenute generali tutte quelle che si accordano in generale con gli esperimenti e quelle che non possono essere diminuite, non possono neppure essere tolte. […]. Che tutti i corpi siano impenetrabili lo deduciamo non con la ragione, ma col senso. […] Che tutti i corpi siano mobili e che per effetto di certe forze (che chiamiamo vires inertiae) perseverino nel loro moto o nella loro quiete, lo ricaviamo da simili proprietà osservate nei corpi. […] Di qui concludiamo che le particelle ultime di tutti i corpi sono estese, dure, impenetrabili, mobili e dotate delle loro proprie forse d’inerzia. E questo è il fondamento dell’intera filosofia. […] Regola IV: Nella filosofia sperimentale le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni, malgrado le ipotesi contrarie, devono essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile, fino a che non si presentino altri fenomeni mediante i quali o sono rese più rigorose o fatte suscettibili di eccezioni. Dobbiamo seguire questa regola affinché l’argomento dell’induzione non sia eliminato mediante ipotesi.

I. Newton “Principi matematici della filosofia naturale” in P. Rossi “La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton” Loescher, Torino 1973

Le regole del filosofare costituiscono il “discorso sul metodo” di Newton, opposto al discorso sul metodo di Cartesio. Inserite nei Principia, un’opera fortemente matematizzata dove l’esperienza occupa uno spazio di gran lunga minore rispetto al calcolo astratto, le regole configurano una metodologia esasperatamente empirista. Difficile è riconoscere nello scienziato che segue rigorosamente le regole del filosofare il grande matematico, il geniale teorico che era l’autore del libro. Questo non pare affatto essere composto da proposizioni ricavate dall’esperienza, ma ha nettamente il carattere di sistema ipotetico deduttivo. Dopo aver esposto i principi della meccanica e la ipotesi della gravitazione universale, senza molto preoccuparsi di darne una giustificazione empirica, Newton passa alla applicazione di questi principi a questioni meccaniche, dimostrando svariati teoremi, sempre però avvertendo il lettore che i sistemi indagati non vanno intesi come reali, ma come entità matematiche. Solo nell’ultima parte del trattato alcune delle formule trovate vengono confrontate con l’esperienza, sopra tutte le leggi planetarie di Keplero. Questo confronto riuscito giustifica le ipotesi di partenza. IL TEMPO

Fin qui ho cercato di spiegare in qual senso debbano essere intesi, nelle pagine seguenti, termini non comunemente noti. Non definisco invece tempo, spazio, luogo, moto, in quanto sono notissimi a tutti. Osservo tuttavia che comunemente queste quantità sono concepite sono concepite solo in relazione a cose sensibili. Da qui nascono alcuni pregiudizi, per superare i quali è opportuno distinguere le medesime quantità in assolute e relative, vere e apparenti, matematiche e volgari. Il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per sua natura, senza riferimento ad alcun oggetto esterno, scorre uniformemente; esso è chiamato anche col nome di durata. Il tempo relativo, apparente e volgare è una misura sensibile ed esterna, esatta o inesatta, della durata, comunemente usata al posto del tempo vero; tale è l’ora, il giorno, il mese, l’anno. I giorni naturali che, in quanto ritenuti uguali, sono comunemente presi come misura del tempo, sono ineguali. Gli astronomi correggono questa ineguaglianza per misurare con il tempo vero il moto dei corpi celesti. E’ possibile che non esista alcun moto uniforme per mezzo del quale si possa con precisione misurare il tempo, che tutti i moti siano accelerati o ritardati; ma lo scorrere del tempo assoluto non può subire variazioni. Identica è la durata e la persistenza delle cose, tanto se i moti sono accelerati e che se sono ritardati o annullati.

I. Newton “Principi matematici della filosofia naturale” in P. Rossi “La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton” Loescher, Torino 1973

All’inizio dei Principia Newton si preoccupa di definire il significato di alcuni termini scientifici che non sono noti a tutti. Passa quindi a trattare di termini il cui significato è noto a tutti, primo tra i quali è il tempo. Newton distingue il tempo assoluto, considerato vero e matematico, che non fa riferimento ad alcun movimento esterno, quale potrebbe essere il movimento di un orologio, dal tempo relativo, apparente e volgare, che è una misura sensibile dello scorrere del tempo assoluto. Questo tempo relativo è legato al movimento uniforme di sistemi materiali, quali sono i moti celesti, che fungono da orologi. Ma i sistemi reali hanno un funzionamento sporcato da imperfezioni e lo scorrere del tempo assoluto non può subire variazioni: anche se non esistesse nessun corpo che si muove di moto uniforme, il tempo vero scorrerebbe comunque uniformemente. Ecco perché il tempo vero non può essere confuso con il tempo relativo. L’aggiunta di un tempo non misurabile a quello misurabile sarà criticata da pensatori empiristi, come Ernst Mach: «Non siamo in grado di misurare i mutamenti delle cose rapportandoli al tempo. Al contrario il tempo è un’astrazione, alla quale arriviamo attraverso la constatazione del mutamento […]. Chiamiamo uniforme quel moto nel quale incrementi uguali di spazio corrispondono a incrementi uguali di spazio in un moto di riferimento (la rotazione della Terra). Un moto può essere uniforme solo in rapporto ad un altro. Il problema se un moto sia uniforme in sé è privo di significato» (E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Boringhieri, Torino 1992). LO SPAZIO ASSOLUTO

Invece dei luoghi e dei moti assoluti usiamo quelli relativi, e ciò non crea inconvenienti nelle cose umane, ma nella filosofia naturale occorre astrarre dai sensi. Può essere che non esista alcun corpo in quiete a cui riferire luoghi e movimenti […]. Gli effetti, per cui i moti assoluti si distinguono da quelli relativi sono le forze di allontanamento dall’asse del moto circolare. Infatti nel moto circolare meramente relativo queste forze sono nulle, mentre nel moto vero e assoluto sono maggiori o minori a seconda della quantità del moto. Si sospenda, per esempio, un secchio a un filo assai lungo, e gli si imprima un moto circolare continuo finché il filo divenga rigido a causa della torsione. Lo si riempia d’acqua e lo si lasci in quiete assieme all’acqua. Con una forza subitanea gli si imprima poi un moto circolare nel senso contrario. La corda disvolgendosi persevererà a lungo in questo moto; all’inizio la superficie dell’acqua sarà piana, com’era prima che il recipiente cominciasse a muoversi; ma in seguito questo, comunicando gradualmente la forza all’acqua, fa sì che essa a sua volta cominci sensibilmente a girare. L’acqua si allontana un po’ per volta e sale lungo le pareti del recipiente, assumendo una forma concava. (Io stesso ho effettuato questo esperimento.) In principio, quando il moto relativo dell’acqua nel secchio era massimo, quel moto non provocava alcuno sforzo di allontanamento dall’asse. L’acqua non tendeva alla periferia sollevandosi lungo le pareti, ma rimaneva piana, e perciò non aveva ancora cominciato il suo vero moto circolare. Poi, quando diminuì il moto relativo dell’acqua, la sua ascesa verso i bordi indicava lo sforzo di allontanamento dall’asse, e questo indicava che il suo vero moto circolare cresceva continuamente fino al punto massimo in cui l’acqua raggiungeva lo stato di quiete relativa nel secchio. è molto difficile conoscere i veri moti dei singoli corpi e distinguerli dai moti apparenti, perché le parti dello spazio immobile, in cui i corpi si muovono di moto vero, non cadono sotto i sensi.

I. Newton “Principi matematici della filosofia naturale” in P. Rossi “La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton” Loescher, Torino 1973

Con l’opera di Galileo e Cartesio si era affermato il principio di relatività: noi possiamo percepire solo moti relativi tra i corpi, è esclusa dalla scienza l’idea di uno spazio assoluto priva di rapporti con l’esperienza. A Newton l’espulsione dello spazio assoluto dall’ambito scientifico pareva un’empietà: Dio deve sapere quali corpi siano realmente in movimento e quali stanno fermi, il concetto di spazio assoluto deve trovare ospitalità nella scienza. Newton pensò di trovare la “prova” dell’esistenza dello spazio assoluto nelle forze d’inerzia (la forza centrifuga). Questa è senz’altro il risultato di un movimento, nasce come effetto del movimento, ma quale movimento, quello relativo (apparente) o quello assoluto (vero)? Con il celebre esperimento mentale del secchio rotante Newton cercò di dimostrare che la forza centrifuga che deforma la superficie dell’acqua contenuta nel secchio non dipende dal moto relativo dell’acqua rispetto al secchio, dunque deve dipendere dal moto assoluto. I PRINCIPI DELLA MECCANICA

Assiomi e leggi del moto Legge prima. Ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto da forze impresse a mutare quello stato. I proiettili perseverano nei loro movimenti salvo che non vengano ritardati dalla resistenza dell’aria e non siano tirati verso il basso dalla forza di gravità. […]. Legge seconda. Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa ed avviene nella direzione della linea retta secondo la quale quella forza è stata impressa. Se una data forza genera un moto, una forza doppia genererà un moto doppio, una tripla un moto triplo, tanto se è stata impressa tutta insieme e di colpo quanto se è stata impressa per gradi e successivamente. […] Legge terza. Ad un’azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria, ovvero le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e dirette in direzioni opposte. Qualunque cosa eserciti una pressione su o tiri un’altra, a sua volta subisce una pressione o è tirata dall’altra nella stessa misura. […] Se un qualsiasi corpo, urtando in un altro corpo, ne avrà mutato in un modo qualsiasi il movimento con la sua forza, esso stesso (a causa dell’eguaglianza della reciproca pressione) subirà a sua volta nel proprio moto il medesimo mutamento in direzione opposta. I mutamenti provocati da tali azioni sono uguali non nelle velocità, ma nei moti dei corpi, ove, naturalmente, i corpi non siano altrimenti impediti. Infatti i mutamenti delle velocità, quando avvengono in direzioni contrarie, poiché i moti si mutano egualmente, sono inversamente proporzionali alle masse. Questa legge, come si proverà nel prossimo Scolio, vale anche nelle attrazioni.

I. Newton “Principi matematici della filosofia naturale” in P. Rossi “La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton” Loescher, Torino 1973

Il capolavoro di Newton, i Principia, ha una struttura ipotetico-deduttiva, ispirata esplicitamente agli Elementi di Euclide. Tutto l’edificio teorico si fonda sui tre assiomi, i principi della meccanica, che hanno guidato gli sviluppi della fisica per due secoli e che ancor oggi conservano grande validità. Il cuore della meccanica classica sono queste tre leggi, unite alla legge di gravitazione universale. La legge della gravitazione universale non è compresa tra gli assiomi per un motivo semplice: mentre i tre principi sono validi per forze qualsivoglia, la legge della gravità specifica come sono fatte le forze che operano sulla Terra e in cielo. La prima legge è il principio d’inerzia: un corpo non soggetto a forze si muove di moto rettilineo e uniforme, Galileo ne aveva fatto l’arma vincente per la battaglia in favore del copernicanesimo, anche se il suo era un principio d’inerzia circolare. Cartesio lo aveva formulato chiaramente come moto rettilineo.La seconda legge dice qual è l’effetto di una forza su di un corpo: una accelerazione. Galileo aveva dimostrato che un moto uniformemente accelerato è quello dei corpi pesanti in caduta. Per enunciare la seconda legge gli sarebbe bastato compiere una generalizzazione: come la forza peso produce un moto accelerato, analogamente tutte le forze produrranno una accelerazione. La terza legge, principio di azione e reazione, fu enunciata da Newton. Si trattava di una generalizzazione della legge di gravitazione universale: questa legge stabilisce che la forza di gravità nasce tra due corpi che si attraggono reciprocamente con forze uguali e contrarie. Newton affermò che quel che vale per le forze gravitazionali deve valere per tutte le forze, di qualsiasi natura esse siano.È notevole il fatto che Newton giustifichi queste tre leggi con pochi cenni ad esperienze che dovrebbero esser note a tutti: la vera giustificazione sta nella teoria che questi tre principi consentono di costruire. LO SCHOLIUM GENERALE

I sei principali pianeti ruotano intorno al Sole in cerchi concentrici al Sole con moto orientato nella stessa direzione e all’incirca sul medesimo piano. Dieci lune ruotano intorno alla Terra, a Giove e a Saturno in cerchi concentrici con moto orientato nella stessa direzione e approssimativamente sui piani delle orbite dei pianeti. E tutti questi moti regolari non traggono origine da cause meccaniche; le comete infatti sono trasportate liberamente in tutte le parti del cielo secondo orbite fortemente eccentriche. E per questo moto le comete passano molto rapidamente e facilmente attraverso le orbite dei pianeti; e nei propri afelii dove sono più lente e indugiano più a lungo, sono così distanti le une dalle altre che si attirano reciprocamente in misura minima. Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté sorgere senza il progetto e la potenza di un ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono a loro volta centri di sistemi analoghi, tutti questi, essendo costruiti con identico disegno, saranno soggetti al potere dell’Uno: soprattutto in quanto la luce delle stelle fisse è della medesima natura della luce del Sole e tutti i sistemi inviano la luce reciprocamente verso tutti gli altri. E affinché i sistemi delle stelle fisse non cadano l’uno sull’altro, a causa della gravità, Egli pose una distanza immensa tra loro. Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore di tutti gli universi e per il suo dominio, suole essere chiamato Signore Dio παντοκράτωρ [dominatore universale]. Dio infatti è una parola relativa e si riferisce ai servi: e la divinità è il dominio di Dio, non sul proprio corpo, come ritengono coloro per i quali Dio è l’anima del mondo, ma sui servi. Il sommo Dio è l’ente eterno, infinito, assolutamente perfetto: ma un ente, per quanto perfetto, che però sia senza dominio non è il Signore Dio […]. Dalla vera denominazione consegue che il vero Dio è sommo, cioè sommamente perfetto. Egli è eterno e infinito, onnipotente e onniscente, dura dall’eternità per l’eternità, ed è presente nell’infinito della infinità. Regge tutto e conosce tutto, sia le cose che avvengono, sia quelle che possono avvenire. Non è eternità e infinità, ma è eterno e infinito; non è durata e spazio, ma dura ed è presente.

I. Newton “Principi matematici della filosofia naturale” in P. Rossi “La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton” Loescher, Torino 1973

Aggiunto alla seconda edizione (1713) dei Principia, lo Scholium generale è una pagina celeberrima di Newton. Qui Newton espone le proprie idee su Dio, sull’origine dell’elettricità, della luce e dei movimenti degli animali, su quel che possiamo conoscere sulla causa della gravità, tutti temi su cui Newton era stato in precedenza piuttosto reticente, ma che vengono ora affrontati con grande chiarezza. L’elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté sorgere senza il progetto e la potenza di un essere intelligente e potente. Egli regge tutte le cose non come anima del mondo (Newton non vuole essere confuso con il panteismo) ma come signore di tutti gli universi. Dio è eterno e infinito, onnipotente e onnisciente, dura dall’eternità per l’eternità. Regge tutto e conosce tutto, dura sempre ed è dovunque. è completamente privo di corpo e perciò non può essere visto, né toccato. La gravità è una forza che nasce da una causa che opera fino al centro del sole e dei pianeti senza diminuire la propria capacità. La sua azione si estende per distanze immense. Newton ammette di non essere riuscito a spiegare partendo dai fenomeni le proprietà della gravità. Meglio non fare ipotesi metafisiche.Vi è uno spirito sottilissimo che pervade i corpi grossi ed è latente in essi. Mediante la sua forza e le sue azioni è responsabile dei fenomeni elettrici e luminosi. Le sue vibrazioni si propagano attraverso i nervi dagli organi di senso al cervello, poi dal cervello ai muscoli. Non esistono tuttavia esperimenti sufficienti per dimostrare con accuratezza le leggi di questo spirito. LEGGERE, ASCOLTARE, VEDERE

SCRITTI DI NEWTON

Principi matematici della filosofia naturale a cura di A. Pala, UTET, Torino 1989 Scritti di ottica a cura di A. Pala, UTET, Torino 1997 Scritti sulla luce e i colori a cura di F. Giudice, BUR, Milano 2006 Trattato dell’apocalisse a cura di M. Mamiani, Bollati Boringhieri, Torino 2011 Opere (vol. I e II) a cura di A. Pala, UTET, Torino 1989

TESTI SU NEWTON

Introduzione a Newton di M. Mamiani, Laterza, Bari 2005 Newton di N. Guicciardini, Carocci, Roma 2011 Lo spettro di Newton di F. Giudice, Donzelli, Milano 2009 La nascita della scienza moderna in Europa di P. Rossi, Laterza, Roma-Bari 2005 Contiguità filosofiche. Spazi di idee cartesiane e newtoniane di G. Mocchi, Rubettino, Catanzaro 1999 Newton e la meccanica celeste di J.P. Maury, Universale Electa - Gallimard, Napoli 1995 Studi newtoniani di A. Koyrè, Einaudi, Torino, 1972 Isaac Newton in Caos e armonia. Storia della fisica moderna e contemporanea di E. Bellone, UTET, Torino, 1990 Isaac Newton scienziato e alchimista di B.J. Teeter Dobbs, Edizioni Mediterranee, Roma 2002 La matematica da Pitagora a Newton di L. Lombardo Radice, GEM Edizioni, Messina 2010 Capire lo spazio-tempo. Lo sviluppo filosofico della fisica da Newton a Einstein di R. DiSalle, Bollati Boringhieri, Torino 2009 La disputa Leibniz-Newton sull’analisi a cura di G. Cantelli, Bollati Boringhieri, Torino 2006 Newton di R. Westfall, Einaudi, Torino 1989 Newton. The making of genius di P. Fara, Columbia University Press, New York 2002 Isaac Newton and the Scientific Revolution di G.E. Christianson, Oxford University Press, Oxford 1996

NEWTON E I SUOI BIOGRAFI

Isaac Newton di J. Gleick, Codice, Torino 2004 The life of Isaac Newton di R.S. Westfall, Cambridge University Press, Cambridge1994

NEWTON E IL SUO EPISTOLARIO

The Correspondence of Isaac Newton a cura di A. Rupert Hall e L. Tilling, Cambridge Press, Cambridge 1977 Papers and Letters in Natural Philosophy a cura di I. Bernard Cohen, Harvard University Press, Cambridge 1978

WEB http://www.newtonproject.sussex.ac.uk/prism.php?id=1 http://www.isaacnewtonsoldschool.org/page8.htm https://www.newton.ac.uk/overview.html NEWTON E L’ARTE

G. Kneller, Sir Isaac Newton, 1702, National Portrait Gallery, Londra J. Thornhill, Isaac Newton in old age, 1712 W. Blake, Newton, 1795, Tate Collection, Londra E. Paolozzi, Newton, after William Blake, 1995, British Library, Londra

CINEMA

Isaac Newton: The Last Magician di R. Bartlett, UK 2013 Me&Isaac Newton di M. Apted, USA 1999

TEATRO

Arcadia di Tom Stoppard, 1993 The Physicists di F. Dürrenmatt, 1962

LUOGHI DI INTERESSE

WOOLSTHORPE-BY-: Il grazioso villaggio, situato nel Lincolnshire, circa 150 km a nord di Londra, ospita il Woolsthorpe Manor, casa natale di Newton. Il luogo è visitabile, le stanze mantengono ancora gli arredi dell’epoca ed è anche possibile una passeggiata nel grande giardino ornato di meli nel quale Newton vide cadere a terra la sua famosa mela. CAMBRIDGE: Nella città universitaria, Newton studiò al Trinity College, fondato da Enrico VIII nel 1546. A esso appartiene la Trinity Mathematical Society, il più antico circolo matematico universitario d’Inghilterra. LONDRA: Nell’Abbazia di Westminster si trova la tomba di Isaac Newton. È nella navata di fronte al coro. Il monumento al grande scienziato è opera dello scultore Michael Rysbrack (1694-1770) su progetto dell’architetto William Kent (1685-1748) e risale al 1731, quattro anni dopo la morte di Newton. La lapide reca scritto: Hic depositum est, quod mortale fuit Isaaci Newtoni (Qui giace ciò che di mortale fu di Isaac Newton). Si trova anche l’epitaffio di cui parliamo alla fine del capitolo La vita.