Elliot Tiber con Tom Monte Taking

Traduzione di Valerio Bartolucci

Rizzoli Proprietà letteraria riservata © 2007 by Elliot Tiber and Tom Monte Reprinted by special arrangement with Square One Publishers, Garden City Park, New York, USA © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-03289-6

Prima edizione: giugno 2009 Alla famiglia della Nazione di Woodstock, che ho nel cuore dal 1969

Questo libro è anche dedicato al compagno della mia vita, André Ernotte, che di certo da lassù condivide questa mia gioia e le memorie del nostro passato insieme 1 Perduto a White Lake

«Elli!» Rieccoci. Mammina stava urlando a squarciagola il mio nome, manco fosse intrappolata in un edificio in fiamme. Strillava così forte che la sua voce sovrastava il frastuono del tagliaerba che spingevo svogliatamente su e giù per il prato. Le urla arrivavano dalla reception del nostro motel a White Lake, un paesino minuscolo che si affaccia sul lago tra le montagne di Catskill. Mi girai per cercare l'incendio o quantomeno una traccia di fumo. Niente, naturalmente. Quindi tutta questa tragedia doveva essere al massimo un rubinetto che perdeva. «Eliyahu!» Ora aveva gridato il mio nome di nascita ebraico per farmi capire che la situazione era davvero seria. «La tua povera mammina ha bisogno di te.» La sua voce mi perforava come la lama di un coltello. Spensi il vecchio tagliaerba arrugginito e m'incamminai verso la reception. Mia madre era in piedi, dietro la cassa, e fronteggiava un uomo basso con una camicia rossa, i bermuda giallo senape, i calzini al ginocchio e un cappellino calato sulla testa calva. Era così incazzato che schiumava di rabbia. «Che problema hai, ma'?» «Questo elegante signore in Cadillac chiede di essere rimborsato» disse fendendo l'aria con la mano destra prima di portarla sul cuore, come a prevenire un infarto imminente. «Gliel'ho detto e ripetuto: "Niente rimborsi". Non ho camminato fin qui da Minsk, in Russia, con sei metri di neve, una manciata di patate fredde in tasca e i soldati dello Zar alle calcagna, solo per rimborsare la sua camera, caro il mio signore elegante che protesta per le lenzuola.» «Ma sono luride» ribatté, tentando di controllare la sua rabbia. «E ho trovato… peli pubici nel letto, Cristo santo. Il telefono non funziona e l'aria condizionata non c'è; è solo un involucro di plastica attaccato alla finestra.» Era tutto vero, naturalmente. Per anni non avevamo avuto una lavatrice; così mio padre, che era l'addetto alla manutenzione e il factotum del motel, portava le lenzuola in cantina, le ammucchiava, versava un po' di detersivo e le inondava con la pompa. A volte non si preoccupava neanche di mettere il detersivo. Dopodiché le portavamo ad asciugare nella zona semipaludosa alle spalle del motel, dove c'erano centinaia di pini, perché prendessero la tipica fragranza «silvestre». Quando infine comprammo la lavatrice, spesso mammina si rifiutava di mettere il detersivo per risparmiare qualche soldo. Anche adesso, di solito, evita di lavarle, preferisce spazzolare via i peli e stirarle mentre sono ancora sul letto. Per quanto riguardava il telefono e l'aria condizionata erano soltanto decorazioni. Un giorno, un impiegato bilioso della compagnia telefonica arrivò con un centinaio di telefoni e una vecchia centralina – probabilmente degli anni Quaranta – e si offrì di installarli, illegalmente, per cinquecento dollari. Mia madre, sempre la più sveglia quando c'era da contrattare, gli fece una controfferta. «Caro telefonista, crede che nel 1914 abbia camminato fin qui da Minsk nel cuore della notte con qualche patata cruda in tasca solo per farmi fregare da lei e i suoi telefoni? Tutto quello che le posso dare sono dodici dollari, più una decina di birre e un piatto di cholent bollente, servito con amore» che era la versione di mia madre dello stufato di manzo con patate. Infine siglò l'accordo esclamando: «In cambio di questo, ci prendiamo tutto!». Il tipo fece spallucce, scaricò quella caterva di telefoni, cavi e centraline nell'ufficio, prese i soldi e se ne andò a bere. Senza il suo aiuto non potevamo fare granché, ovvio, questo significava aver comprato per dodici dollari solo l'illusione di avere i telefoni. Aiutai pa' a portarli nelle camere, poi lui li installò fissandoli in qualche modo con graffette e nastro adesivo. Successivamente rimediammo alcune grate degli impianti d'aria condizionata e le adattammo alle finestre. Quindi, appesi un po' di cartelli nelle stanze e intorno al motel: «Scusate il disagio, stiamo installando telefoni e aria condizionata per il vostro comfort». Queste erano alcune delle ragioni per cui facevamo pagare i nostri clienti in contanti e in anticipo, prima ancora che potessero vedere le camere, e per cui avevo disseminato un discreto numero di cartelli sul bancone della reception: «Pagamento in contanti. Niente rimborsi». Ogni volta che si presentava qualcuno con la carta di credito, mia madre partiva a razzo. «Signore, mi ascolti. Sono una vecchia mamma ebrea che fa tanti sacrifici per comprare un po' di latte caldo ai suoi figli» e poi concludeva: «Terrò questa carta di credito fino a quando mi darà i contanti. Anzi, se li faccia dare da sua moglie». Non avevo certo il dono dell'ubiquità, e questo voleva dire lasciare a volte mia madre sola in un corpo a corpo con potenziali clienti; un incubo sia per gli affari sia sul piano umano, visto che poi ero io a dover sistemare i casini che combinava. Il che ci riporta all'uomo che ora avevo di fronte, con sul viso chiari intenti omicidi nei confronti di madre e figlio assieme. «Nella camera non ci sono neanche gli asciugamani» insisté l'uomo. «Oh, adesso anche gli asciugamani. Se vuole un asciugamano» proseguì mia madre, «paghi un extra. Se vuole il sapone paghi un dollaro in più. Crede che li regaliamo questi optional? Le sembro la signora Rockafeller?» «Ma che razza di fregatura è questa?» ruggì l'uomo scuotendo la testa. «Rivoglio i miei soldi!» Avrei voluto avvertirlo che il suo denaro era scomparso nel momento stesso in cui lo aveva consegnato a mia madre. I soldi scivolavano in una sorta d'intervallo cosmico nel continuum spaziotemporale, un buco nero la cui apertura poteva essere localizzata nel reggiseno di mia madre. Quale fosse il percorso successivo, nessuno lo può sapere, e avevo smesso di domandarmelo. Tuttavia, per quanti clienti riuscissimo ad avere in un mese – in ogni caso sempre troppo pochi persino in alta stagione – non avevamo mai abbastanza per pagare rata del mutuo e bolletta della luce. La misteriosa sparizione della moneta si legava indissolubilmente a quella che amavo chiamare «la maledizione dei Teichberg», un flagello che ci garantiva un'eterna crisi finanziaria. Anche per questo mi ero cambiato il nome da Eliyahu Teichberg a Elliot Tiber, nel patetico quanto inefficace tentativo di separarmi dal terribile karma familiare. Benvenuto al motel Inferno, avrei voluto dire a quest'uomo e a chiunque fosse in grado di ascoltarmi. Ma gli risparmiai tutti i cruenti dettagli e gli dissi come funzionavano le cose nel nostro miserabile motel. «Il cartello dice: "Niente rimborsi"» aggiunsi a muso duro. «Lei paga e si prende la camera così com'è. Questa è la regola.» L'uomo sbatté la mano sul bancone e si precipitò fuori dalla reception. «Bene così, mammina, un altro cliente soddisfatto» commentai senza guardarla. «Ti sei mai chiesta perché non tornano mai? La risposta è uscita dalla porta in questo momento.» «Ti devi trovare una fidanzata!» urlò mia madre. «Quando mi farai nonna?» Mi seguì oltre la porta principale, gesticolando furiosamente per imprimere più enfasi alle parole. «Elliot! Dove stai andando?» «Vado al negozio. È finito il latte» ribattei. Montai sulla mia Buick decappottabile nera e imboccai la statale 17B. Solo quando vidi il motel rimpicciolirsi nello specchietto retrovisore, ripresi a respirare normalmente. Era l'inizio di giugno del 1969, e il bel tempo era l'unica cosa decente che si potesse avere a White Lake, una piccola frazione di un paese chiamato Bethel, giusto novanta miglia a nord di New York City. Quando arrivammo a White Lake nel 1955, Bethel aveva un corpo di volontari dei vigili del fuoco, un idraulico astioso, una ventina di bar e una popolazione di circa duemilacinquecento anime molte delle quali, come scoprimmo più tardi, del tutto bigotte. Poco o niente cambiò nei quattordici anni successivi. I monti Catskill erano noti anche come la cintura di Borscht, nome preso in prestito dalla famosa zuppa di barbabietole, piatto prediletto di tanti ebrei dell'Est Europa. Gli ebrei cominciarono ad arrivare nella regione all'inizio del XX secolo. Aprirono hotel, motel e bungalow dove il ceto medio, o anche meno – quasi tutti ebrei newyorkesi – poteva sfuggire alla calura della città. Con il tempo furono costruiti grandi hotel come il Grossinger's e il Concord, dove comici del calibro di Sid Caesar, Danny Kaye, Mel Brooks e Jerry Lewis si esibivano di continuo. I proprietari di hotel, motel e bungalow crearono posti di lavoro e la regione prosperò fino alla metà degli anni Cinquanta, quando la gente si rese conto che per lo stesso prezzo poteva villeggiare in Florida o a Santa Fe. A quel punto, l'economia locale collassò, e fu proprio allora che i miei genitori pensarono bene di comprare il motel, che chiamammo El Monaco. Alla fine degli anni Sessanta White Lake, al pari dell'intera regione dei monti Catskill, si trovò nel pieno di una recessione economica. Per tutta Bethel case, motel e vecchi hotel vittoriani erano ormai in rovina. Le verande cadevano a pezzi e le persiane penzolavano alle finestre. Molti residenti lasciavano crescere l'edera sui muri delle case per nascondere la tintura scrostata e il legno eroso dal tempo. Gli attracchi per le barche affondavano lentamente nelle acque del lago. I cosiddetti resort non se la passavano certo meglio. La zona di Catskill diventò famosa per i tanti incendi misteriosi che divampavano il primo martedì di settembre, quando si chiudeva la stagione. L'afflusso di turisti calò, e il posto diventò di una noia mortale. Gli affari si volatilizzarono e di conseguenza anche i posti di lavoro: l'intera regione piombò in una crisi profonda. Indovinate a chi diedero la colpa? Da allora i battibecchi non smisero più; chiunque avesse, tra gli abitanti del luogo, una tutt'altro che lusinghiera opinione riguardo alle mie origini etniche e religiose non esitava a farmelo sapere. Un giorno, un tipo grande e grosso, dalla faccia brufolosa rossa come i suoi capelli, guidò il trattore fino al nostro motel per chiederci se avessimo bisogno di falciare l'erba del giardino. Non potevo permettermi di pagare i pochi dollari che chiedeva per il suo lavoro, questa era la verità. Lo ringraziai e gli dissi che l'Fbi non permetteva che la vegetazione sulle nostre terre, frutto di esperimenti nucleari governativi, venisse falciata. Avevo solo provato a mostrarmi socievole e ironico con lui, ma chiaramente non capì la battuta. «Tu, bastardo finocchio, ebreo di merda! Mi prendi per il culo? Te la faccio vedere io, bocchinaro frocio giudeo. Te la faccio vedere io, a te e a quella puttana di tua madre!» Cosa avevo detto di male? Forse era un po' suscettibile sugli esperimenti segreti del governo. Alcune ore più tardi, guidò il suo trattore contro quella che chiamavo scherzosamente l'ala presidenziale del nostro motel. Papà sostituì i pannelli di legno rotti con alcune porte e ci trovammo tutti d'accordo nel dire che il lavoro aveva migliorato l'aspetto generale del residence. La maggior parte degli antisemiti e dei rifugiati nazisti non erano violenti – almeno fino a quell'estate, quando si verificarono alcuni eventi strani e inaspettati. Molti si limitavano a velate allusioni stilla sciagura costituita dal nostro motel e dall'intera famiglia Teichberg, C'era un bar a Bethel che frequentavo perché stravedevo per il loro sandwich con la parmigiana. Lo gestiva un tipo di nome Bud, conosciuto anche come Joe. Viveva in un appartamento sopra il bar con due suoi figli, che facevano sembrare intelligenti persino i muri. Un pomeriggio entrai nel locale di Bud, e lo trovai circondato da alcuni personaggi dell'intellighenzia locale, tutti ubriachi e trasandati. Bud teneva banco. «Sono passato vicino al tuo motel la notte scorsa, dopo la chiusura» disse Bud lasciando scivolare le parole attraverso un sorriso leggero e malevolo, «e ho visto uscire una donna, parecchio strana e grassa. Ti fai pagare un extra per le ciccione che fanno porcate nelle tue camere? Con i ragazzi ci domandavamo se riuscite davvero a pulire le lenzuola dopo che quelle tipe ci hanno dato dentro. Io personalmente non affitterei mai una stanza a quelle sporche lesbiche!» Appena Bud ebbe espresso queste argomentazioni di arguta finezza, i ragazzi si chinarono sui loro drink, ridacchiando e ansimando come iene in attesa che la loro preda facesse la mossa sbagliata. «Sono solo due suore storpie, Bud» gli risposi. «Sono state ferite entrambe in Corea, mentre accudivano i nostri ragazzi laggiù. Accecate dalle granate di un mortaio, povere donne. Bevono per dimenticare quello che hanno passato.» Le iene si zittirono e mi guardarono, improvvisamente confusi. «Ma ehi!» continuai, «se pensate che non debba accogliere eroine come quelle nella nostra onesta città possiamo parlarne al prossimo incontro alla Camera di commercio.» Per un bizzarro scherzo del destino, il presidente della Camera di commercio di Bethel ero io. Mi ero iscritto per capire come fare a portare un po' di affari in città, in generale, e a El Monaco, in particolare. Poi, dato che ero quello con il più alto livello d'istruzione al momento di votare, mi avevano eletto presidente. Ogni volta che guidavo per la statale 17B, avevo l'impressione che da un momento all'altro mi sarebbe arrivata una sassata da uno qualsiasi dei miei cordiali vicini. Ma tutte le mie preoccupazioni svanivano appena arrivato alla fattoria del mio amico Max. Max era il nostro lattaio. Lui e sua moglie, Miriam, possedevano il più bell'appezzamento di tutta la contea di Sullivan, tra colline dolci e piccole vallate a forma di catino. Max aveva studiato diritto immobiliare all'Università di New York, ma poi si era trasferito a nord negli anni Quaranta per aprire un caseificio. Con il passare degli anni, Max e Miriam avevano creato una delle industrie di latticini più grandi e famose a est di New York, con un enorme impianto di refrigerazione e un'ottima distribuzione che si diramava in tutto lo Stato, fino al nord della Pennsylvania. I due gestivano anche un piccolo spaccio all'interno della fattoria, dove vendevano i loro prodotti caseari e qualche articolo di drogheria. Fumatore di pipa, saggio e benevolo, Max era un principe e l'unico vero amico che avevo in zona. Ogni anno facevo del mio meglio per portare più gente, quindi più affari, a White Lake, organizzando un festival di arte e musica. Allestii anche alcune commedie nel teatro che avevamo costruito nella nostra proprietà, fuori dal granaio. Max ci riforniva gratuitamente dei suoi prodotti, come yogurt e gelato, da offrire al pubblico. Inoltre, andava in giro per il paese con il suo camioncino rosso affiggendo i manifesti nei negozi, per pubblicizzare il festival o la commedia che mettevamo in scena. Ciononostante, insisteva sempre per pagare il biglietto. Spesso andavo a trovarlo, solo per sfuggire alla pazzia del motel e dei miei genitori, senza parlare dei raffinati abitanti di White Lake. Mi muovevo nel suo negozio con una familiarità consolante, comprando latte, yogurt, burro, marmellata e altre cose. Nel frattempo, Max e io facevamo quattro chiacchiere. «Lo organizzi il festival quest'estate, Elliot?» mi chiese Max. «Sì» risposi. «Viene a suonare qualcuno di speciale?» «Sempre i soliti quattro gruppi da niente. Quasi tutti di qui. Probabilmente assorderemo qualcuno e scandalizzeremo qualcun altro, insomma il solito festival musicale.» «Non mancherò» disse Max. «Tu fai molto per il paese, Elliot. Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno. Se ti servisse qualcosa, qualsiasi cosa, fammelo sapere. Portami tutti i volantini che hai e controllerò che vengano distribuiti come si deve.» «Grazie Max, speriamo di far arrivare un po' di gente quest'anno.» Max, i Grossinger e alcuni proprietari degli alberghi più grandi erano i soli su cui potevo contare come pubblico. «Continua a fare quello in cui credi, Elliot» m'incoraggiò Max. «Chissà? Magari comincia a girare la voce e il festival ha successo, oltre ogni tua aspettativa.» «Non ci contare, Max. Si dice che un tempo la mafia seppellisse i cadaveri a White Lake perché di Bethel non se ne ricorda manco Dio.» Max rideva mentre batteva in cassa la mia spesa. «Grazie per l'aiuto Max. Le uniche cose che mi permettono di sopravvivere di questi tempi sono le mie fantasie.» Loro e questo mio bonario amico, . La verità era che nutrivo molti sogni e quelli segreti, più vicini al cuore, non potevo rivelarli alla gente comune di White Lake e nemmeno alla maggior parte del resto del mondo. Uno riguardava il mio gioioso paese e quel peso sullo stomaco che chiamavo motel. Immaginavo di dare vita a un festival musicale che potesse portare gente a Bethel, riempire ogni camera e registrare un utile tale da poter vendere l'idea a qualche ricco pazzo. Finora non eravamo riusciti a guadagnare un quattrino in quattordici anni di gestione e, grazie alla maledizione dei Teichberg, il mio festival di arte e musica era un fallimento. Però alcuni sogni sono duri a morire e, per ragioni del tutto misteriose, coltivavo ancora una speranza. 2 La maledizione dei Teichberg

Sono nato a Bensonhurst, un quartiere di , famoso per il razzismo e i cannoli. Bensonhurst, perlomeno ai tempi della mia infanzia, era abitato principalmente da italiani ed ebrei tormentati da diversi sensi di colpa. Sono molti i personaggi famosi, delle due etnie, nati dal suo grembo: Danny DeVito, Elliott Gould, Larry King e quei pazzi dei tre marmittoni: i Three Stooges. I Teichberg erano il doppio, erano «sei marmittoni», e doppia era anche la pazzia. Mia madre, dopo aver fatto un po' di trekking nella neve russa, approdò a New York nel 1914. I genitori di mio padre erano arrivati dieci anni prima dall'Austria. Si stabilirono a Borough Park, dove mio nonno aprì un'impresa d'impermeabilizzazione tetti. Fin dai tempi di Salisburgo, mio padre aveva lavorato come suo assistente. Quando giunse l'ora di decidere quale professione intraprendere nella nuova patria di adozione, la carriera di papà era bella che scolpita nel catrame. Non tutte le sue decisioni erano un diretto riflesso della volontà dei genitori. Quando papà e mamma si fidanzarono, mia nonna, famosa per il suo poco tatto, diede a mio padre alcuni premurosi consigli. Volendo tradurre liberamente dallo yiddish, gli disse pressappoco così: «Lascia perdere quella ignorante puttana russa». Non sempre si seguono i buoni consigli; infatti papà pensò bene di sposarla. Come molti immigrati, i miei genitori non si fidavano delle banche, così invece di depositare il loro denaro su conti correnti ci imbottirono i materassi. Perciò quando arrivò la Grande depressione e le banche collassarono, i miei dormivano su un bel gruzzolo, abbastanza per comprare una casa di tre piani, tre stanze da letto e un bagno sulla Settantatreesima Strada. Acquistarono anche un edificio di quattro piani senza ascensore tra la Diciassettesima e la Ventesima Avenue dove aprirono un negozio di casalinghi. Fu allora che fece capolino per la prima volta l'immenso cerbero che era la cupidigia di mia madre. Nel negozio dei miei non c'erano cartellini che indicassero i prezzi. Questa strategia flessibile permetteva di stabilire di volta in volta il prezzo sulla base di quanto mia madre riteneva che l'acquirente in questione potesse pagare. A volte, i clienti domandavano a voce alta da un lato all'altro del negozio quanto costasse un oggetto, lei allora accorreva, squadrava il cliente, avvalendosi del suo dono soprannaturale, e stabiliva lì per lì il valore della merce. «Per te caro, fanno diciannove dollari e novantanove centesimi. Neanche un centesimo in più! Un prezzo speciale perché oggi mi sento generosa.» Il negozio di mamma era la sola e unica Ruota della fortuna. Ogni sera, alle sei in punto – tranne il sabato, unico giorno di chiusura – mia madre inforcava la bicicletta per tornare a casa sulla Settantatreesima. Che spettacolo vederla precipitarsi giù per la strada: un piccolo mediano di sfondamento che pedala furiosamente appollaiato su un telaio ritorto con le ruote consunte. Si potevano quasi vedere i numeri volteggiarle intorno alla testa mentre riepilogava il totale degli scontrini del giorno. Una volta a casa, mamma preparava la cena. Fumo e putridi vapori riempivano immediatamente l'aria e, in mezzo al fluttuare di quella nuvola, s'intravedeva la sua silhouette cilindrica. La specialità di mia madre era grasso puro insaporito con aglio. Pigiati dentro al lardo, c'erano alcuni frammenti di carne e verdure, ma la pietanza principale restava sempre una sostanza grumosa che lei serviva nei nostri piatti celando dietro un apparente orgoglio materno l'iroso invito a evitare ogni possibile critica. Mia sorella Goldie, più grande di me di dodici anni, si rimpinzava con i piatti di mamma, come d'altronde facevo anche io, e questo spiega in parte come mai fossimo entrambi sovrappeso. È incredibile quanto sembri buono il grasso se ti manca qualsiasi elemento di confronto. Rachelle, nove anni più di me, e Renee, quattro in meno, piluccavano intorno ai bordi di quella pietanza come se fosse un residuo tossico. Non c'era da meravigliarsi che fossero entrambe assai magre. L'unica cosa che ci salvava da quella specialità era una scorta di cioccolata, caramelle e ciambelle che ognuno di noi teneva nascosta nella propria camera. I pasticcini, comprati da mio padre che aveva un debole per i dolci, servivano anche come consolazione contro la lingua velenosa di mia madre. «Tu sei grasso e stupido, Eliyahu» mi diceva regolarmente, pronunciando il mio nome ebraico così da essere sicura che l'avrei ascoltata. «Stupido, mi senti? Cosa accadrà alla tua povera mamma?» si lamentava. «Perché ti sopporto? Finirai con l'uccidermi, mi stai ascoltando?» A quel punto di solito correvo su per le scale e mi rintanavo in camera, dove c'era la mia scorta nascosta di ciambelle e cioccolatini: l'unica via di fuga che conoscevo. Dopo cena, i miei tornavano al negozio e ci restavano ben oltre le undici, quando per le strade non c'era più anima viva. Diventato adolescente, andavo anch'io al negozio con loro, lavorando a volte fino a mezzanotte e, quando non ero lì, davo una mano a mio padre a impermeabilizzare i tetti. I miei non mi hanno mai pagato un centesimo per tutti i lavori che ho svolto. Anzi, mi hanno cresciuto facendomi credere che quello era il mio destino. La giornata lavorativa di mio padre oscillava dalle dodici alle sedici ore che passava a coprire tetti con fogli di bitume; poi tornava a casa, cenava, schiacciava un pisolino, se era fortunato, e se ne tornava al circo degli articoli casalinghi e ferramenta. Là svolgeva lavori di manutenzione, aggiustava ferri da stiro e tostapane, duplicava chiavi dietro un bancone disordinato, che a pensarci bene somigliava proprio a quello del motel El Monaco. Papà, uomo semplice e umile, affrontava la vita eludendola come meglio poteva. Quando sentiva la radio, si chinava e si concentrava come se stesse ascoltando la voce di Dio in quella scatola. Fumava di continuo e schiacciava pisolini appena gli si presentava l'occasione, fino a quando mia madre non decideva che era ora di punirmi per qualcosa. Allora la voce penetrante di mamma tagliava il sonoro russare paterno come una sega circolare attraversa un grosso tronco di legno. «Jaaaaaaack!» strillava «vieni giù subito. Forse a te darà retta!» E lui si precipitava giù dalle scale sfilandosi già la cintura. Aveva la stazza e la forza di chi aveva fatto il manovale tutta la vita. Quando ti menava, continuavi a vibrare per un paio d'ore. Dopo avermi picchiato fino a intontirmi e a togliermi il fiato dai polmoni, mi spedivano in camera senza cena. A dirla tutta, non era poi una cosa così orribile. Più tardi, prima di tornare al negozio, mia madre mi portava qualcosa di nascosto. Si sedeva ai bordi del letto e, mentre mangiavo, mi faceva promettere, sottovoce per non farsi sentire da mio padre, che sarei stato buono per il resto della vita. È la cosa più vicina all'amore materno che abbia ricevuto in vita mia: questi momenti d'intimità dopo il castigo, con i lividi ancora freschi addosso, mentre mi serviva lo stufato. Riusciva persino a duplicare il mio senso di colpa, con un suo trucco raffinatissimo. Da una parte, mi lasciava intendere chiaramente che le avevo fatto un torto, in pratica un crimine contro natura e contro Dio. Dall'altra, mi trascinava dentro una bizzarra cospirazione contro mio padre. Lui mi aveva punito, senza dubbio su suo ordine, ma ora mamma e io eravamo amici e papà era l'estraneo, il cattivo. Restava fuori dalla nostra intimità. Dentro di me sapevo che c'era qualcosa di sbagliato, e provavo quel senso di colpa. Che diavolo, ero solo un bambino affamato d'amore e cibo, e in casa nostra nessuna delle due cose aveva un buon sapore. I poteri paranormali di mia madre non si limitavano alla divinazione del denaro nella borsa dei clienti; riceveva anche ripetuti messaggi dai morti, o almeno da uno in particolare: suo padre, il rabbino. Quando avevo quattro anni, ricevette dal nonno l'ordine telepatico di mandarmi alla Yeshiva, la scuola rabbinica. Le fece sapere che era destino diventare rabbino a mia volta, così avrei potuto portare nochas («piacere» in yiddish) alla mia povera madre sofferente. Per farmi entrare alla scuola dovette mentire sul mio anno di nascita e così, alla tenera età di quattro anni, fui impacchettato e spedito alla Yeshiva. Un vero inferno! Otto ore al giorno a studiare una lingua antica e le leggi del Talmud che regolavano il pascolo delle vacche nel giardino davanti casa. Ovviamente, le vacche smarrite nei pascoli confinanti non erano uno dei problemi principali di Brooklyn, ma ciononostante dovevo sapere cosa fare nel caso in cui avessi visto una vacca girovagare per i giardini del quartiere. Il terrore aleggiava ovunque, unito alla paura di Mosè e tutte le sue leggi, che non potevi far altro che infrangere, e all'angoscia di questo Dio geloso e vendicativo, il quale regolarmente s'incazzava e scatenava piaghe contro quei piccoli studenti della scuola che negavano la sua esistenza. All'età di cinque anni proclamai il mio ateismo, con grande dispiacere dei rabbini miei insegnanti. A ridere per ultimo però fu Mosè. La Yeshiva si rivelò un incubo sociale, e invece di farmi sentire parte di qualcosa di più grande di me, non fece che acuire il mio autoisolamento. In primo luogo, ero stato portato via dal mio quartiere e spedito presso un istituto ebraico privato, frequentato da bambini ricchi che arrivavano in Cadillac accompagnati dai genitori. Mio padre, invece, mi portava con il suo camioncino Ford verde. Ovviamente, mi prendevano in giro perché ero grasso, brutto e povero, e inoltre perché quando mio padre passava alla fine delle lezioni, era una maschera di catrame. A casa, le cose non andavano meglio. Non frequentando la scuola pubblica, non avevo contatti con i ragazzi del vicinato, alcuni dei quali mi prendevano in giro perché andavo alla Yeshiva. A peggiorare la situazione c'era il mio amore per la musica classica, che mi metteva fuorigioco con tutta la mia generazione. Ero un nerd ante litteram. Le mie uniche evasioni erano il disegno e la pittura e, paradossalmente, la ferramenta mi diede l'opportunità di coltivarli entrambi, perché avevo il compito di allestire le vetrine del negozio. Le svuotavo e riposizionavo i prodotti nel miglior modo possibile. Dipingevo bizzarri fondali e cartelli spiritosi, e a volte costruivo pupazzi di cartapesta. Quando chiesi a mia madre di poter comprare qualche palloncino e un po' di carta crespa per dare risalto ai miei progetti, lei mi ammonì propinandomi (per l'ennesima volta) l'epopea della marcia attraverso la Russia: «E chi ti sembro mai, Eliyahu, la Zarina?». Visto che i palloncini mi erano stati rifiutati, presi della pittura rosa shocking e creai un po' di murali e vignette per dare alla vetrina carattere e stile. Dipingere e disegnare mi permisero di sottrarmi alla pazzia e all'isolamento del mio stesso mondo e di accedere a una vita bella, armoniosa e tranquilla. Oggetti di tutti i giorni, vasi e tegami, lampade, scale e cinture di lavoro, diventarono elementi d'arte. Oggetti che non possedevano alcuna relazione fra loro, improvvisamente legavano l'un l'altro se disposti nella maniera corretta. A vetrina allestita, chiedevo ai miei genitori di dare un'occhiata. Papà alzava le spalle mentre mamma, sempre con la paura di subire qualche furto, ispezionava tutto il materiale per assicurarsi che non avessi preso dal negozio nulla di essenziale. «Non sprecare i chiodi, Eliyahu. Mi hai sentita?» Le uniche volte che la vedevo sorridere era quando il registratore di cassa era in attivo. D'estate lavoravo con mio padre riparando tetti per tutta Brooklyn. Trascinavo rotoli di carta catramata e provviste su per scale altissime fino alla cima dei palazzi. Mi spaventavano a morte sia le scale sia l'altezza. Mi aggrappavo ai pioli con tutto l'amore che avevo per la vita e tentavo disperatamente di non guardare giù, mentre trasportavo un secchio di catrame o un fascio di rotoli di carta. Una volta in cima, con mio padre stendevamo la carta e il catrame fresco sulla superficie del tetto, nel frattempo mi abbrustolivo al sole. Non stavamo costruendo piramidi, però mi sembrava davvero un lavoro da schiavi. Che strani legami si vengono a creare tra padre e figlio quando lavorano insieme, spesso in silenzio. Osservavo papà muoversi sotto il sole e la calura e cercavo di imitarlo, non per seguire il suo esempio ma per conquistare il suo amore. Immaginavo che cogliesse almeno una parte di quello che sentivo dentro di me, che eravamo uniti non solo nel comune obiettivo di terminare il lavoro bene e velocemente, ma anche nel cuore. Eravamo compagni di lotta nella sopravvivenza agli assalti giornalieri di mia madre. Di sicuro, il fatto che lavorassi sui tetti mi faceva sembrare ancora più strano ai pochi amici che avevo nel quartiere. Loro trascorrevano almeno una parte delle vacanze estive nella zona di Catskill, e tornavano a casa con storie meravigliose di gite in barca, di pesca, di nuoto e passeggiate nei boschi. Quando mi chiedevano come avevo passato l'estate, mi guardavo le mani annerite e rispondevo: «Niente di speciale, ho lavorato con mio padre». Ancora adesso amo l'odore del catrame fresco.

Visto che mi avevano iscritto a scuola quando avevo solo quattro anni, già a sedici ero pronto per l'università. Volevo con tutto il cuore andare al Pratt, la scuola di arte e design a New York. La retta era di cinquecento dollari, giusto la cifra che avevo ricevuto al mio Bar Mitzvah, la festa dei tredici anni, ma che ero ben felice di sborsare per poter fuggire dalla Settantatreesima Strada. Il fato, con le fattezze di mia madre, tuttavia aveva altri piani per me. Mia sorella Goldie si sposava e quindi bisognava pensare ai regali. Un sofà verde pallido a forma di rene, in gran voga a quei tempi, costò circa duecento dollari. Inoltre si doveva pagare il rinfresco, altri duecento dollari, e ovviamente il vestito da sposa, l'ultimo centone. «Mi farò prestare i cinquecento dollari da te, Eliyahu» mi disse mamma. «Ho altra scelta?» ribattei timidamente. «Qual è il problema, non ti fidi di tua madre? Che razza di figlio sei? Ho dovuto attraversare la neve russa, con i soldati dello Zar che cercavano di tagliarmi in due, per poterti dare alla luce, e tu vuoi privare tua madre dell'unica gioia della sua vita: dare alla propria figlia un matrimonio decente?» Sapevo di aver perso per sempre i miei soldi. Non riuscii a trattenere le lacrime, che sgorgarono copiose rigandomi il viso. La sola e unica via di fuga da Bensonhurst era stata strappata dalle mie dita grassocce. «Veramente mi ridarai i soldi, mammina?» chiesi. «Ne ho davvero bisogno per l'università.» «Jaaaaaaaaaack!» urlò, «scendi subito giù. Tuo figlio spezza il cuore della sua povera madre!» Riuscii a sentire la cintura di mio padre strusciare per i passanti mentre si precipitava giù dalle scale. Quando arrivò il momento di mandare i cinquecento dollari della retta al Pratt, mamma mi annunciò che non poteva restituirmi i soldi perché aveva il mutuo da pagare e doveva comprare a mia sorella Rachelle vestiti nuovi. «Come pretendi che Rachelle possa prendere come marito un ebreo ricco se usa ancora i vestiti vecchi di Goldie, imbastiti con le tende della cucina?» mi chiese mentre piangevo. Con le lacrime svaporò anche il mio sogno di andare al Pratt. Per fortuna il destino mi offrì una via di fuga alternativa. La città e lo Stato di New York coprivano i costi dell'università per i meno abbienti. A quel tempo l', per molti anni un'università esclusivamente femminile, navigava in cattive acque. Per continuare l'attività didattica e ottenere sussidi pubblici, l'amministrazione della scuola decise di svendersi: avrebbe incrementato il numero degli iscritti ammettendo studenti maschi con brutti voti e pochi soldi. Un criterio costruito su misura per me. L'Hunter non era la mia alternativa principale al Pratt. Avrei preferito infatti l'Università di Brooklyn, dove insegnava tutta l'avanguardia dell'arte contemporanea, ma aveva criteri d'ammissione selettivi: prendevano solo i ragazzi con quoziente d'intelligenza e voti più alti. Di conseguenza, o Hunter o niente. Già alla fine del primo anno, però, i miei voti erano ottimi, al punto da permettermi il trasferimento all'Università di Brooklyn. Lì studiai e diventai amico di alcuni dei maestri dell'arte contemporanea: Mark Rothko, Ad Reinhardt, Jimmy Ernst e Kurt Seligman. Nonostante oggi siano considerati tutti grandi nomi dell'arte, quando studiai con loro erano ancora sconosciuti e squattrinati. Mark Rothko, le cui opere sono esposte al Guggenheim, alla National Gallery, al Metropolitan Museum, al Moma di New York e alla Tate Gallery di Londra, diventò mio tutor e soprattutto mio amico. In un certo senso, mi scelse come suo discepolo. Dopo l'orario di lezione, si fermava a lavorare con me per ore. «I tuoi disegni a inchiostro mostrano sensibilità artistica» mi disse un giorno. «Ti insegnerò il linguaggio dell'inchiostro, poi quello dei colori.» Rothko era famoso per l'uso del colore con cui comunicava quelle emozioni crude che lui sentiva e voleva evocare in chi osservava le sue opere. Gli immensi murali e le forme astratte spesso spingevano i suoi ammiratori a forti stati emozionali. Tanti sostennero di aver vissuto un'esperienza mistica nell'ammirare i suoi lavori; lui disse che chi provava queste emozioni condivideva l'esperienza vissuta da lui nel dipingerli. Rothko rigettò qualsiasi etichetta che il mondo dell'arte cercava di affibbiargli, incluso colorista o astrattista. «Non ho alcun interesse nella relazione tra forma e colore» era solito ripetere, «la sola cosa che mi interessa è poter esprimere le emozioni basilari dell'uomo: tragedia, estasi e destino.» Al tempo della nostra amicizia, era sempre senza un soldo. Dividevamo le mie sigarette, gli portavo panini e, a volte, una bottiglia di vino. Aveva occhi grandi, tondi, colmi di sentimento e tristezza, e baffetti neri che, con la giusta espressione, ricordavano il giovane Groucho Marx. Un giorno, dopo aver pranzato e fumato una sigaretta, Mark mi disse: «Dimentica la tua mamma russa. Sono russo anch'io» il suo vero nome infatti era Marcus Rothkovitz, «e so di cosa parlo. Cancella tutto quello che ti ha insegnato. Non c'è una parola giusta in quello che dice. Prenditi un appartamentino tutto tuo, e dille che se ci tiene si faccia lei rabbino». Qualche volta mi lasciava oziare nel suo studio mentre lavorava. Fui testimone della sua battaglia personale per trovare forme e colori che esprimessero le passioni nascoste e quella sofferenza esistenziale intrinseca nella condizione umana. Quell'uomo era un genio, e io ero onorato di trovarmi in sua compagnia. «Hai un talento artistico genuino e l'anima del poeta» mi disse un giorno. Ho fatto tesoro di quelle parole per tutta la vita. Mi sentivo un artista, questo lo sapevo, ma che Mark Rothko rispettasse il mio lavoro e m'incoraggiasse era come ricevere l'investitura dal re in persona. Infatti ero così coinvolto nel suo mondo, e in quello dell'arte, da avvertire, almeno a livello inconscio, di essere alla vigilia di una sorta d'iniziazione. L'arte, un enorme corridoio la cui porta mi era stata misteriosamente aperta, mi stava invitando a entrare. Osservavo quel corridoio e poi mi giravo verso Mark, chiedendomi se stessi fissando il mio stesso destino: essere povero in canna, sconosciuto e sopraffatto dalle mie stesse oscure passioni. Mark non era solo povero, era spesso amareggiato e depresso. Lo era senz'altro il giorno in cui si tolse la vita tagliandosi le vene. Altri artisti, che ho conosciuto e ammirato, soffrivano la stessa povertà e la stessa cupezza. Ad Reinhardt, uno dei miei maestri e mentori, era un alcolizzato affetto da depressione cronica. Ricordo che un giorno mi fermai nel suo studio e lo guardai piangere disperato perché non riusciva a ottenere un nero abbastanza intenso per uno dei suoi quadri. Grand'uomo e artista di primo piano, nella vita quotidiana era un relitto. Più di una volta ho passeggiato con Kurt Seligman sconsolato e avvilito mentre si intristiva al pensiero delle difficoltà economiche e degli abissi nei quali era sprofondata la sua vita. Questi uomini erano sommi sacerdoti che donarono le loro vite per servire l'unico dio che conoscevano e veneravano: l'Arte. La ricompensa erano quelle grandi opere che, al tempo in cui li conobbi, erano misconosciute e sottovalutate. Il prezzo che dovettero pagare per questi capolavori fu enorme; sacrificarono sul loro altare qualsiasi possibilità di avere un amore e una vita normali. Senza dubbio, quell'angoscia interiore era nutrimento per l'arte, ma ero terrorizzato dalla profondità della loro passione, pena e povertà. Osservandoli da vicino, ero costretto a rispondere alla domanda cardine di ogni giovane artista: voglio davvero rinunciare a tutto quello che ho, a tutto quello che sono per servire l'arte, senza alcuna garanzia di successo e riconoscimento? Ad alimentare i dubbi c'era il mio temperamento tanto, troppo simile al loro. Il mio equilibrio mentale era appeso a un filo sottile. Anch'io ero assalito da demoni: basta guardare la mia provenienza! Se mi fossi fatto risucchiare dentro il lungo e oscuro tunnel dell'arte, come era successo loro, sarei diventato anch'io infelice e depresso. E come dimenticare che erano sempre al verde? No, mi dissi, devo riuscire a mantenere un po' del mio equilibrio mentale. Avevo bisogno di uno stipendio che mi desse garanzie e sicurezza. Non mi rassegnavo a vivere senza un centesimo e perennemente infelice. Avevo già trascorso la mia infanzia in quelle condizioni, e adesso volevo fuggire il più lontano possibile da quella situazione. L'ultimo anno ritornai all'Hunter College. Mi dissero che, nel curriculum, una laurea presa in quell'ateneo era meglio di una presa all'Università di Brooklyn. Prima di andarmene, Rothko mi regalò cinque suoi disegni a inchiostro. L'aveva fatto con il cuore e mi emozionai. Incartai i disegni con cura e li riposi, per sicurezza, a casa nella mia stanza. Alcuni anni più tardi, il genio di Rothko venne riconosciuto in tutto il mondo, e la quotazione delle opere schizzò alle stelle. Infatti, uno dei suoi capolavori, Centro bianco fu venduto all'asta a New York per settantatré milioni di dollari, un record. Qualche anno dopo che Rothko mi aveva regalato quei disegni, tornai a cercarli nella mia stanza. Erano spariti. In preda all'agitazione, chiesi a mia madre se ne sapesse qualcosa. «Oh» disse «quelli? Li ho gettati via insieme a tutte quelle porcherie che c'erano nella tua camera.» Dal momento che non era possibile farle comprendere il valore emotivo di un dipinto, le spiegai la perdita nella sola maniera in cui avrebbe potuto capirla. «Cara mammina» replicai, «quei pezzi valevano più di cinquantamila dollari.» «Che bugiardo che sei» replicò secca, «non erano altro che stupidaggini di uno squilibrato.» Ero furioso, ma sapevo che non c'era assolutamente niente da fare. Mia madre non considerava altri punti di vista che il suo. Chiuso nella mia stanza, mi rimpinzai di dolci. Il cioccolato Hershey era una vera e propria manna dal cielo. All'Hunter conseguii una laurea con lode in Belle arti e design. Il mio primo lavoro fu interior designer in uno dei negozi più alla moda della Quinta Strada a Manhattan: l'elegantissimo W. & J. Sloane, un negozio di mobili stilosi, solo per ricconi. Chi ne sapeva niente di mobili stilosi? Certamente non io. In più, non mi ero mai sognato che il mio portfolio potesse competere con quello dei laureati al Pratt. Rimasi scioccato quando Walter Bahno, il direttore dell'ufficio arredamento di Sloane, mi offrì il lavoro. Nel tempo libero, dipingevo murali in appartamenti dell'upper class di Manhattan. Qualche mia opera veniva esposta nelle gallerie e alcune addirittura vendute. La mia vita era cominciata, e nel migliore dei modi. Inoltre, cosa importante, ero pronto a rivelare ed esprimere chi ero sul serio. Tuttavia, un inesplicabile senso del dovere nei confronti dei miei genitori prevaleva sul mio desiderio di libertà. La maledizione dei Teichberg era una forza assai potente, o forse avevo inalato troppi fumi di catrame.

Tutto iniziò innocentemente nell'estate del 1955. Ero ancora all'università quando i miei genitori decisero finalmente di fare una vacanza nella zona dei monti Catskill. Andammo da Pauline, affittacamere a White Lake, in un attico caldo e pieno di muffa. Fu amore a prima vista, ci sembrava di stare in paradiso, e la cosa diede da pensare a mia madre. Proprio lì, in quella misera pensioncina, mentre furtiva scrutava nelle venti camere tutte affittate, si fece due conti in tasca e intravide il nostro futuro. «Questo sì che è un affare» esclamò. «Se ci compriamo una casa qui e ci liberiamo della ferramenta, potremmo fare una vera fortuna e vivere qui per sempre!» Mio padre sembrò rinascere tanto gli piaceva quell'idea. Preso dalla foga del momento, mi esaltai pure io. Proprio alla fine della strada c'era in vendita un vecchio edificio vittoriano completamente in rovina. Cadeva a pezzi, ma mia madre lo chiamò beshert («destino», un segno, una caratteristica inequivocabile, come quando si gioca a «Indovina chi?»). Se solo avesse fatto un giro della zona, avrebbe scoperto che tutta la città era in vendita, e la maggior parte a molto meno. Sfortunatamente, lei non si guardò intorno; d'altronde un segno è un segno. Così cedette la ferramenta, comprò la pensione e ristrutturò le sei camere per ottenerne nove. Dopodiché, tutta la famiglia si trasferì a White Lake. La prima estate facemmo il tutto esaurito per l'intera stagione. Eravamo estasiati. I Teichberg avevano scoperto una miniera d'oro. Pensammo che presto il denaro avrebbe iniziato a germogliare sugli alberi. Fu proprio allora che il demone verde della cupidigia riprese a sussurrare nell'orecchio di mia madre: «Perché non comprare la casa di fianco e trasformare entrambe le proprietà in un motel?». Nel giro di poco ci ritrovammo con dodici camere in più e un altro edificio in costruzione. I miei genitori ovviamente non avevano la minima idea di cosa fosse un motel. Non avevano un piano finanziario, sapevano soltanto come comprare e costruire, mentre tutti quanti intorno cercavano disperatamente di vendere. La stagione successiva acquistarono un'altra serie di appartamentini con un casinò, e il motel contava ormai più di venti camere e diversi bungalow. Ogni brav'uomo d'affari conosce il pericolo di espandersi velocemente e spingersi troppo in là. C'è una linea di confine che non si dovrebbe mai oltrepassare, ma i miei erano già al di là di un buon paio di chilometri. Improvvisamente a White Lake non arrivarono più abbastanza turisti a riempire tutte le nostre stanze. Il fiume di denaro si stava riducendo a un ruscello: era sempre più duro pagare il mutuo tutti i mesi, così come le altre bollette. Quel posto prese ad affondare nei debiti. A rendere il tutto ancora più drammatico, i miei non avevano nessuna dote per attirare i pochi turisti che ancora passavano da White Lake. Mio padre svolgeva il ruolo di centralinista e di solito rispondeva così: «Pronto? Chi è? Perché chiami? Cosa vuoi? Se hai bambini non venire qui. Non affittiamo ai bambini. Rovinano i materassi, fanno casino. Se ce li hai, per te non abbiamo camere libere!». A quei tempi avevo già finito l'università e lavoravo a Manhattan. Per quanto mi riguardava, la carriera era in ascesa e il solo limite erano le stelle. Mentre la mia fortuna saliva, quella dei miei genitori s'inabissava rapidamente. Diventò lampante che erano a un passo dal baratro: stavano perdendo i risparmi di una vita, la loro unica fonte di reddito e i pochi barlumi di sanità mentale. Così mi supplicarono di amministrare il motel per loro. A posteriori, posso vedere chiaramente quel momento, quella subdola manipolazione che mi trascinò dentro l'incubo. Ricordo l'espressione contrita di mio padre, le spalle e la testa basse, mentre mi chiedeva aiuto, e quella di mia madre che all'improvviso era conscia e grata delle mie capacità di gestire un motel (e chi sapeva di avere un tale dono?). Infine, quelle magiche parole che scatenavano sempre il mio programma subliminale, quel senso di colpa che mia madre aveva coltivato in me per anni, in attesa di un momento come questo: «Ahimè! Che ne sarà di noi se non ci aiuti tu, Eliyahu? Che fine faremo?». A spingermi non fu solo il senso di colpa che mi attanagliava: finalmente avevo l'opportunità di provare agli occhi dei miei che valevo qualcosa. Una volta per tutte avrei ottenuto le due cose che agognavo da una vita: il loro amore e la loro stima. Per anni, anche se avevo tentato di avere la mia indipendenza facendo ciò che amavo di più, avevo desiderato con tutto me stesso la loro approvazione. Ecco l'occasione giusta. «Okay» risposi. Facemmo un accordo: sarei stato a New York durante la settimana per continuare a dipingere, e avrei passato i weekend a White Lake per gestire il motel. Da qualche parte, Mosè se la rideva a crepapelle. Quando parlai della decisione a mia sorella Goldie, rimase scioccata. «Fuggi da loro, Elliot» disse cercando di mettermi in guardia. «Non lo fare. Non sprecare la vita in quello stupido motel. Salvati finché sei in tempo. Non funzionerà mai.» Beninteso, le sue parole si rivelarono profetiche, ma ero del tutto cieco anche di fronte all'evidenza. Inoltre, amavo ancora l'odore del catrame fresco. 3 La mia «altra» vita

Stavo in piedi nella penombra, appoggiato al distributore automatico di sigarette vicino al bancone del bar. Fumavo a tutto spiano e ogni tanto facevo un tiro a una canna che mi offriva qualche occasionale ammiratore arrapato. Quella notte, tutti e tre i piani del Mine Shaft, un nightclub sulla Dodicesima Strada nel Greenwich Village, erano stracolmi. Io, però, fissavo solo quei due occhi aggressivi, arrabbiati e in cerca di una preda, che ricambiavano il mio sguardo. L'oggetto del mio desiderio era alto, magro e vestito dalla testa ai piedi di pelle nera. Un paio di manette e un gatto a nove code gli penzolavano sui fianchi. Un cappuccio di pelle scendeva su una spalla. Io ero vestito un po' come lui, ma non avevo neanche metà della sua sicurezza. Dentro di me mi sentivo grasso e brutto. Alcune fotografie scattate a quel tempo dicono che non era così, ma è solo come ti senti che conta. Per quanto mi riguardava, niente in me poteva attrarre qualcuno con occhi così belli e infernali come quelli che mi stavano divorando. Come un leone che dal suo torpore si sveglia affamato, il predatore si mosse lento verso di me. Mi diede un'occhiata feroce e malevola, poi mi colpì duro allo stomaco. Fu amore al primo pugno. Mi trascinò in mezzo alla folla del night, e diventai preda di preliminari sessuali di almeno un centinaio di uomini, tutti vestiti da poliziotti, soldati e in un caso perfino da ufficiale nazista. Così iniziò il suo corteggiamento. Da bambino, l'unica forma di attenzione che ricevevo era essere messo da parte. Qui, improvvisamente, c'erano decine di uomini che mi desideravano. Questo era il bello dei bar di New York: tutti volevano tutti, persino me. Per molti versi ero il prototipo dell'uomo gay, solo un po' più abbondante. Dopo essere stati repressi in ogni settore della società, escluso forse da se stessi, i gay liberavano i loro desideri più reconditi e quel disperato bisogno di essere accettati nei sex-bar e nelle saune di New York. Il grande segreto, nascosto alle nostre famiglie e ai colleghi di lavoro, finiva per esplodere davanti a tutti in luoghi come il Mine Shaft. Io mi sentivo più brutto e meno attraente della media, e perciò ogni forma di attenzione provocava in me l'effetto di un afrodisiaco. Avere una decina di uomini che mi accarezzavano, tastavano, afferravano e pizzicavano nel bel mezzo di un locale dalle luci soffuse era la realizzazione di una delle mie più sfrenate fantasie sessuali notturne. Una volta soddisfatto, il leone si avvicinò verso di me spingendo via quelli che mi circondavano, e pronunciò parole che risuonarono come pura poesia: «Datti una lavata, ebreo del cazzo. Puzzi come una latrina». Quasi svenni. Usciti da lì, fece cenno a un taxi e mi portò «da lui», in un enorme loft di SoHo. Ero intontito dalle troppe canne e pasticche di Thc, ma la vista del suo appartamento mi scioccò così tanto da farmi rinsavire di colpo. Un'enorme bandiera nazista, larga circa dieci metri e alta sette, era appesa a un muro. Lame di ogni genere e dimensione erano sparse ovunque. I giochi sessuali che preferivo si limitavano al sadomaso convenzionale: due belle sculacciate, pugni e calci, ma le coltellate e il sangue vero mi disgustavano. Qualcosa mi diceva che il mio nuovo amico incazzato rischiava di travalicare un po' quegli standard. «Ehi capo, non mi sento molto in forma, forse è meglio se vado» azzardai. «Tu non vai da nessuna parte.» Detto questo, tirò fuori un paio di manette e me le mise ai polsi con decisione. Poi mi infilò la testa in un cappuccio di pelle e mi ammanettò al letto. Ero eccitato e terrorizzato allo stesso tempo, il che rendeva il sesso ancora più intrigante. Andammo avanti così per tutta la notte e buona parte del giorno dopo, finché droghe e spossatezza ebbero la meglio. Dopo esserci riposati quel tanto che bastava a superare i postumi di stupefacenti e sesso, mi trascinai fuori dal letto e diedi un'occhiata al suo appartamento. Se la notte prima non fossi stato rintronato da tutte quelle droghe, da desiderio e paura (specialmente di quella svastica), avrei notato che i muri erano tappezzati dalle fotografie in bianco e nero più belle che avessi mai visto. Uomini e donne ritratti in pose ipnotiche che trasudavano erotismo, e molte avevano un livello sadomaso al limite della tollerabilità. Riconobbi uno dei soggetti in quella galleria di volti: la cantante del Greenwich Village, cantautrice, e infine icona del punk rock, Patti Smith. Molti scatti ritraevano il mio feroce anfitrione. Alcuni manifesti di mostre fotografiche erano incorniciati e appesi ai muri. Su ognuno di questi, in basso, c'era un solo nome: Robert Mapplethorpe. Non sapevo nulla di fotografia e il nome non mi suonò familiare, «Che lavoro fai, capo?» «Sono un fotografo.» «Così… tu sei Robert» conclusi. «Seee» disse lui facendo scorrere un grande divisorio che dava su un'altra camera dove c'era una caterva di contenitori di legno per almeno una ventina di metri e ciascuno era pieno di fotografie. Rimasi sbigottito davanti a quell'abbondanza. Capii senza ombra di dubbio che Robert Mapplethorpe doveva essere un genio. Fui sopraffatto dall'incredibile bellezza di tutte le sue prospettive allucinanti. Molte fotografie avevano come soggetto fiori in piccoli vasi, illuminati in maniera da rendere la scena delicata, tenue e rivelatrice. Lo stesso per le persone ritratte, molte delle quali nude. Ogni scatto sembrava rivelare l'anima dei soggetti: uno era forte, un guerriero, quasi corazzato, un altro completamente abbandonato, vulnerabile e terrorizzato. Numerose fotografie coglievano uomini nel pieno di atti sessuali, e questi ritratti erano liberatori e, in definitiva, rivoluzionari. Descrivevano atti sessuali ordinari per gli omosessuali, ma rifiutati e negati dalla maggior parte della società, e spesso dagli stessi gay. Mapplethorpe spingeva l'omosessualità e, per estensione, la vita gay fuori dal nascondiglio in cui si rifugiava e la esponeva agli occhi di tutto il mondo. Ogni fotografia era una dichiarazione di orgoglio, un rifiuto netto all'emarginazione. Chiaramente, Robert era quel tipo d'artista capace di sconvolgere il mondo, alterando prospettive e sfidando convinzioni millenarie con un'unica fotografia. Alla fine lui interruppe le mie fantasticherie. «Voglio farti una foto» disse. «Davvero? Perché?» chiesi. «Ti voglio far posare con l'uniforme della Gestapo.» «Non credo proprio, capo.» «Lo farai» ribadì con una voce dura come il granito. Non eravamo certo la coppia ideale. «Ti andrebbe di venire a White Lake con me per un fine settimana?» gli proposi. «Non ho la minima idea di dove sia White Lake» rispose con una voce bassa che non ammetteva replica. «È a nord, solo un paio d'ore se prendi la statale da New York. Abbiamo un motel lì, niente di clamoroso, ma è un posto intimo.» «Non mi hai capito» disse, «ho altre idee per la testa e nessuna di queste include te. Non me ne fotte niente del tuo motel del cazzo o della tua vita. Non sei neanche il mio tipo.» Così iniziò e finì la nostra danza. Alcuni mesi dopo, vidi alcuni articoli su di lui nel «Village Voice» e nel «SoHo News». Stava combattendo contro la censura delle sue fotografie. Dopodiché, un bel giorno entrai in una galleria del centro che ospitava una sua mostra e, quando mi vide, mi guardò come se non mi avesse mai incontrato prima. Questa vicenda riassume tutta la mia vita sessuale. La gente con cui ho fatto sesso ha sempre finto poi di non conoscermi se mi incontrava alla luce del sole. È stato così fin dalla mia infanzia.

A undici anni, iniziai a uscire di casa di nascosto durante il giorno, e qualche volta pure la notte, per andare al cinema. Prendevo la metropolitana da Brooklyn fino a Times Square, dove c'erano decine di cinema aperti ventiquattr'ore su ventiquattro. Ero alto per la mia età e passavo facilmente per un sedicenne, anche se nessuno sembrò mai preoccuparsi davvero di quanti anni avessi. Chiedevo il biglietto, pagavo ed entravo a vedere i film che volevo: quelli con Stanlio e Ollio, Gianni e Pinotto, i fratelli Marx, Betty Grable e Carmen Miranda. Negli anni Quaranta e Cinquanta, i teatri a Times Square, originariamente usati per commedie e solo più tardi per film, erano immensi e sfarzosi. Avevano enormi balconate e mezzanini che potevano ospitare più di duecento persone. Lungo le pareti, a metà tra la platea e il soffitto, c'erano piccoli palchi con comode poltrone. Pareti e balconate erano decorati con foglie d'oro, teste di leone intagliate e altre forme ornamentali. Lo schermo era gigante: un grandissimo muro bianco due o tre volte le dimensioni di quelli attuali. Con un biglietto avevi diritto a due film, più un cinegiornale e i cartoni animati. Potevi trascorrere l'intera giornata guardando film e cartoni. Una sera Frank, un ragazzo più grande di me d'un paio d'anni che abitava nella mia zona, mi si sedette a fianco senza riconoscermi, poiché guardava dritto verso lo schermo. Non pensai niente di male e continuai a gustarmi il film. Dopo poco però, mi resi conto che la spalla di Frank si era avvicinata e che lui stava sfregando la sua gamba contro la mia. Feci finta di niente, finché mi accorsi che aveva appoggiato la mano all'interno della mia coscia. Improvvisamente tolse la mano, come per un ripensamento. Poi si voltò di scatto verso di me minacciandomi con un coltellino da tasca. «Elli, rimani seduto lì e tieni chiusa la tua boccaccia» mi sussurrò. Rimasi paralizzato. Mise via il coltello, riprese a guardare il film e mi appoggiò la mano sul pacco. Quindi, mi aprì la patta dei pantaloni e iniziò a toccarmi. Ero terrorizzato e immobile. Che cosa stava succedendo? Che cosa dovevo fare? Lui, lo conoscevo da sempre. Se fossi scappato, la volta dopo mi avrebbe menato di certo. Presto la paura prese a mescolarsi con un misterioso senso di piacere che non riuscivo a spiegare. Ero un po' indietro su certi argomenti e non avevo idea di che cosa fosse il sesso. Non mi ero mai masturbato prima di allora, ma in quel momento Frank lo stava facendo per me e il mio corpo rispondeva alla sollecitazione. Venni poco dopo, e Frank si alzò senza degnarmi di uno sguardo. Avevo i pantaloni umidi, lì davanti, e non ne conoscevo il motivo: il mio primo pensiero fu che stavo sanguinando e mi spaventai ancora di più. Devo essere rimasto seduto per almeno un'ora in assoluto stato confusionale, senza sapere cosa fare. Alla fine, una maschera si presentò e mi puntò la torcia elettrica in faccia. Dietro il fascio di luce, sentii la voce di mio padre che diceva: «Elli, cosa ci fai qui? Tua madre sta dando di matto per la paura. Non fa che ripetere "Dov'è mio figlio?"». Mi riportò a casa, mi picchiò con la cintura e mi spedì a letto. Mi spogliai e notai che sui pantaloni non c'era sangue. Feci un bel sospiro di sollievo e andai di soppiatto giù in cantina. Avevamo una di quelle fornaci a carbone a carica frontale, aprii il portello e gettai pantaloni e mutande nel fuoco. Poi tornai in camera senza fare rumore, feci una doccia e finalmente me ne andai a dormire. Alcuni giorni dopo, uno dei miei compagni di scuola chiese al nostro insegnante di igiene il significato della parola «masturbazione». Lui si rifiutò di rispondere, il che mi suggerì immediatamente che doveva essere qualcosa di importante. Quel giorno tornai a casa e cercai il significato sul dizionario. Okay, mi dissi, questo deve essere quello che mi ha fatto Frank. Giusto. Ora capisco. Qui dice che non ci sono effetti secondari. Niente che possa mettere in pericolo la mia vita. Almeno questa è una buona notizia. Adesso avevo trovato un nuovo motivo per andare al cinema, e niente mi avrebbe fermato, nemmeno la minaccia di una cintura. Frank mi aveva aperto gli occhi su quello che succedeva intorno a me senza che io me ne rendessi conto. I cinema di Times Square erano bordelli. Ragazzi con ragazzi, ragazzi con uomini, ragazze e ragazzi, e donne con uomini, tutti facevano sesso ovunque nei teatri. Le balconate erano i posti più ambiti perché ci si poteva appartare nell'oscurità. Capii che il cinema era il luogo ideale per fare sesso. Quella rivelazione mi riempì di una eccitazione strana e irrefrenabile. Mentre sul grande schermo Gianni prendeva a manate Pinotto, tra le file delle poltrone gli spettatori si smanettavano allegramente l'un l'altro. La volta dopo, mi sedetti stravaccandomi un po' e aspettai che qualcuno venisse a sedersi di fianco a me. Non ci volle molto. Apparve un uomo con un impermeabile. Se lo sfilò di dosso, mi si sedette a fianco poggiando l'impermeabile sulle ginocchia. Poi lo stese fin sulle mie, infilò una mano sotto e iniziò a toccarmi. Rivelazione numero due: nei cinema c'è sempre qualcuno con l'impermeabile. Gli uomini mostravano i propri genitali a ragazzini e ragazzine, e facevano di tutto sotto quegli impermeabili. Mi si stava aprendo un mondo nuovo, ed ero proprio come un bambino in un sexy shop. Desideravo tutto ciò che vedevo, e per la prima volta in vita mia mi sentivo desiderato. Accadde che io e il primo impermeabile facessimo coppia fissa. Ogni venerdì sera alle sette e mezza mi presentavo al cinema e mi sedevo al solito posto. Poco dopo arrivava lui, si sedeva a fianco, e senza degnarmi di uno sguardo disponeva l'impermeabile e iniziava il solito numero. Andò avanti così per un paio di mesi. Una notte però, un signore di colore fu più lesto di lui a sedersi accanto a me, e prese a toccarmi. Il mio corteggiatore abituale arrivò tardi e invece di rinunciare, attaccò briga. I due si gettarono l'uno sull'altro proprio nel bel mezzo della fila, fino a quando il mio corteggiatore tirò fuori un pugnale dalla tasca e spaventò l'altro che fuggì. Quanto mi eccitava. Era già difficile immaginare due uomini che mi volessero, figurarsi che arrivassero a battersi per me. Non avevo mai ricevuto tante attenzioni in tutta la mia vita, e in più c'era anche il palpeggiamento. Queste persone mi toccavano con la chiara intenzione di ricavarne piacere, e che lo volessero o meno, certamente davano piacere a me. La mia esperienza di vita, fino a quel momento, era stata tutto l'opposto. A casa, qualsiasi forma di contatto era associata a dolore ma, come avrei capito presto, tutti i dolori potevano avere un risvolto piacevole. Più tardi, ormai diciottenne, mi trasferii in altri cinema. Una sera al Rialto, sempre a Times Square, un uomo alto, ben vestito, mi avvicinò. Uno di quei signori che la mia mammina avrebbe definito un «fine gentiluomo». Mi slacciò i pantaloni e iniziò a prendermi a pugni il pene finché non diventò duro. Poi cominciò a graffiarmelo fino a quando sentii il sangue sgocciolarmi sul pacco. Per tutto il tempo rimasi in un silenzio di tomba, pienamente consapevole che quel dolore stava amplificando il mio piacere. Anche con quest'uomo presi a incontrarmi con regolarità: mi presentavo al Rialto intorno a mezzanotte e lo aspettavo. A volte, alcuni guardoni ci osservavano, rendendo l'esperienza ancora più arrapante. Dopo che lui se ne era andato, rimanevo seduto tutto tremante cercando di riprendere il controllo. Non riuscivo a capacitarmi di quanto mi succedeva. A guidarmi in tutto e per tutto erano l'istinto e la spontaneità, e iniziò così una fase di esplorazione, durante la quale cercai, e trovai, pedofili sadici nei cinema. Quello era il mio mondo segreto, con i suoi piaceri. Se mi fossi fermato a riflettere su tutto questo, forse mi sarei detto che le mie avventure erano una compensazione della rabbia, del dolore e dell'infelicità che dovevo sopportare a casa e alla Yeshiva. Non passò molto che iniziai a volere sesso selvaggio. Quando un impermeabile si sedeva vicino a me, mi sfilavo la cintura e me la legavo ai polsi. Il mio corteggiatore capiva al volo e approfittava della situazione. Come appresi in seguito, il mio comportamento non era così strano. C'era una vasta subcultura sadomaso in tutti i cinema. Una sera, un uomo vestito da cowboy mi si accostò esitante. Dopo il solito rituale di giochetti erotici, tirò fuori una corda dalla tasca, mi legò i genitali e con l'accendino mi bruciacchiò un braccio. La gente arrivava sempre con manette, accendini e persino coltelli. A volte queste avventure diventavano pericolose. Una notte, mentre la sala era praticamente deserta, un tipo vestito con un'uniforme militare mi legò e minacciò di uccidermi. La cosa mi spaventò oltre ogni immaginazione: ero sicuro che non sarei uscito vivo da quel cinema, ma lui mollò il colpo quando finsi di essere completamente sbronzo e strafatto di canne, del tutto incapace di reagire. In un'altra occasione, un ragazzo mi osservava mentre un vecchietto mi stava masturbando. Dopodiché, il giovane si sedette accanto e, puntandomi un coltello, mi intimò di dargli tutti i soldi che avevo. Gli allungai il portafogli che però conteneva solo un dollaro. Non poteva sapere che di solito tenevo i soldi nei calzini: avevo imparato a fare di necessità virtù. Sì, a volte avevo paura, ma quando sei giovane e alla ricerca disperata di piacere fisico, minimizzi e sminuisci qualsiasi pericolo. Ora, quando ripenso a quel periodo della mia vita, capisco quanto mi sentissi solo e desideroso di un contatto qualsiasi. Come tutti avevo imparato il significato della parola «amore» tra le pareti di casa; perciò, per me era solo sinonimo di manipolazione e violenza, su cui però si stendeva un velo di zucchero a suggerire l'immagine di una vera famiglia amorevole. In realtà, nessuno da noi usava la parola «amore» riferita agli altri membri della famiglia: noi infatti «amavamo» la cioccolata, oppure la televisione, ma non dicevamo mai di amarci l'un l'altro e sicuramente nessuno in famiglia trattava gli altri con amore. Le mie esperienze sessuali non furono tanto diverse. Il piacere del godere, del toccarsi e dell'orgasmo erano tutti reali, ma provenivano da sconosciuti e, di fatto, sotto forma di molestia. Non ero pratico dell'amore, e allo stesso modo non sapevo cosa aspettarmi davvero dal sesso. I miei genitori non mi avevano mai parlato né di una cosa né dell'altra. In fin dei conti, le mie esperienze sessuali furono segnate dall'abuso al pari di quelle amorose. Perciò io, Eliott Tiber, ero sessualmente attratto dagli uomini, ma non me ne resi conto subito, lo davo per scontato. Solo molto più tardi ebbi finalmente un rapporto sessuale con qualcuno da cui mi sentivo davvero attratto, e in quel momento la mia vera natura si rivelò per quello che era.

Fu l'estate in cui compivo sedici anni, poco prima di cominciare l'università. Un giorno, decisi di andare alla spiaggia di Riis, nel Queens. Indossavo un costume da bagno e mi stesi al sole sul mio telo da mare. Un tipo, a un certo punto, gettò il suo accanto a me e si stese. Notai che era giovane e bello, e aveva suppergiù la mia età, ma poi mi girai dall'altra parte come a volermi ritrarre. Subito dopo, sentii una mano avvicinarsi e le sue dita intrecciarsi alle mie. Sorpreso, mi voltai e sorrisi. Il giovane ricambiò il sorriso e si presentò: Barry. «Io sono Elliot» dissi, «ma gli amici mi chiamano Elli.» Come sempre, il mio primo pensiero fu: com'è possibile che un ragazzo così bello provi interesse per me? Eppure era così. Parlammo per un paio d'ore di film e scuola, mentre la sua mano continuava ad accarezzarmi sotto la sabbia. Per me si trattava di una novità eccitante: il mio primo amore. Alla fine, gli proposi di venire da me. I miei con le mie sorelle erano fuori e sapevo che non avrei avuto nessuno tra i piedi. Era la prima volta che portavo qualcuno a casa e l'eccitazione era incontenibile. Però appena aprii la porta, la vergogna mi assalì. I nostri mobili venivano tutti dall'Esercito della Salvezza: scarti che neanche l'opera di carità aveva voluto, e che noi c'eravamo accaparrati gratis. Si notava subito. L'unica camera con mobili vagamente coordinati tra loro era quella di mia sorella Goldie, e fu lì che portai Barry. Fu anche il primo uomo che baciai. In effetti, era il primo uomo con cui sperimentai qualcosa che si può definire «fare l'amore». Ci baciammo, facemmo sesso, parlammo delle nostre vite. Gli dissi della mia iscrizione alla Hunter nonostante preferissi la Brooklyn. Lui stava per trasferirsi a un'università a nord dello Stato di New York. Sentivo che avremmo potuto diventare amici e magari continuare a vederci. Già solo questo era un'esperienza assolutamente nuova per me: fare sesso con qualcuno che potevo guardare e con cui potevo parlare. Passammo il resto del giorno e della notte a chiacchierare e a fare l'amore. Barry continuò a usare la parola «gay» per tutto il tempo della nostra conversazione, specialmente riferendosi a se stesso. Io non avevo mai pronunciato quel termine prima di allora. Anche se avevo avuto rapporti solo con uomini, non avevo mai pensato a me come a un omosessuale, in parte perché non avevo ancora stabilito un vero contatto con l'altro essere umano durante l'atto. E poi, il sesso era qualcosa che tenevo nascosto pure a me stesso. Lo facevo al buio delle sale cinematografiche, con estranei con cui, nella maggior parte dei casi, nella vita reale non avrei mai voluto avere nulla a che fare. Barry, al contrario, si riferiva a sé solo come omosessuale. Era pienamente a suo agio con la sessualità e cercava una relazione vera: per lui il sesso era strettamente legato al concetto di relazione, e quel giorno scoprii di essere d'accordo con lui. Mi convinse che fosse giunto il momento di aprirmi a una relazione, in particolare con un altro uomo, e spalancò le porte alla mia seconda grande rivelazione: io sono gay. Avrebbe dovuto essere lampante già da prima, ma fino ad allora era un lato di me che mi era sconosciuto. Ora, non solo mi ero reso conto di un aspetto così importante, che in fondo c'era sempre stato, ma ne avevo perfino imparato il nome: omosessuale, gay. Insomma, come se una porta gigantesca da sempre ignorata si fosse spalancata rivelando un nuovo mondo, di cui si sospettava vagamente l'esistenza, ma che non si era mai preso in considerazione prima di allora. Infatti, questa nuova consapevolezza non mi cambiò più di tanto. Ero sempre io. Ripensandoci adesso, credo che in me si fosse accesa una nuova luce, un piacere dovuto alla scoperta che non ero così solo. La mattina seguente, dopo esserci svegliati, Barry disse: «Potrei chiamare il mio amico Harvey e dirgli di venire qui. Scrive commedie, ti piacerà». Quando Harvey arrivò, Barry era ancora sotto la doccia, così lo accompagnai in salotto e ci sedemmo sul divano. Neanche il tempo di far conoscenza che iniziò a toccarmi, mi mise un braccio intorno al collo e mi baciò sulla bocca. Poi mi strinse ancora più forte, ci abbracciammo e ci scambiammo il più appassionato dei baci. Era la seconda persona che mi baciava in due giorni: ero davvero scioccato. Sebbene non credessi ai miei occhi, non potevo negare di provare un piacere enorme. Sfortunatamente, Barry scelse proprio quell'attimo per uscire dal bagno. Entrando in salotto, ci sorprese nel pieno di un abbraccio voluttuoso. Ebbe una crisi isterica, si rivestì, si precipitò fuori e non si fece più sentire. Non potevo certo biasimarlo. Cercai di contattarlo per dargli una spiegazione, ma non mi rispose mai, Harvey e io ci frequentammo per un mese buono prima di prendere strade diverse. In epoca universitaria, la mia sessualità mi diventò più chiara, ma non per questo smisi di nasconderla agli altri. Il primo anno, diventai membro di una confraternita fingendo di essere etero, come gli altri del gruppo. Durante uno dei nostri party, una ragazza con i capelli rossi, fatta e ubriaca, s'invaghì di me e mi trascinò nella stanza da letto dove avevamo ammucchiato tutti i soprabiti. Prese a spogliarsi e pretese di fare l'amore. La accontentai, soprattutto per mantenere la mia copertura, e feci bene perché la porta si spalancò all'improvviso e buona parte dei componenti della mia confraternita si precipitò nella stanza, scandendo il mio nome: beccato a scopare. Entrambi ci mostrammo compiaciuti di fronte a quel pubblico imprevisto, ma io rimasi disgustato dall'esperienza. A diciannove anni, un amico mi parlò di un bar gay piuttosto rozzo sulla Terza Strada, dove tutti indossavano giacche di pelle. «Vuoi andarci?» mi chiese. «Sicuro» risposi. Arrivammo al bar vestiti come tutti i giorni: giacca, pantaloni di cotone e comunissime scarpe. Spiccavamo come due scolaretti in un bordello. Ben presto un tipo grosso, bardato da motociclista, alto e muscoloso, ci notò e si diresse verso di me. Mi squadrò da cima a fondo, mi rivolse uno sguardo disgustato e mi assestò un pugno sulla spalla. «Frocio di merda, tu torni qui sabato prossimo, ed è meglio che ti presenti con giacca e stivali di pelle.» Non me lo feci ripetere una seconda volta. Andai nel negozio di articoli militari vicino casa e comprai giacca e stivali. Saputo degli acquisti, quel mio amico mi chiese: «Non vorrai mica tornare là?». «Certo che ci torno» risposi. «Sei pazzo!» «Marion Brando indossa giacche di pelle, perché non posso farlo io?» Il sabato successivo mi presentai al bar della Terza Strada, facendo il duro come tutti gli altri. Il motociclista del sabato prima mi si avvicinò, mi squadrò di nuovo da cima a fondo, mi assestò un secondo cazzotto e infine mi baciò. Passammo tre giorni nel suo appartamento: sesso sadomaso, da sballo. Dopodiché non lo vidi più: come sempre, come tutti.

Dopo la laurea andai a vivere al Greenwich Village e iniziai a lavorare al W. & J. Sloane come interior designer. Avevo anche un bel po' di clienti facoltosi per i quali lavoravo come freelance. La mia carriera andava a gonfie vele e in breve cominciai a frequentare gente ricca e famosa. Tra i miei amici di quel periodo c'era Alvin Epstein, un attore di Broadway piuttosto popolare. Sembrava che Alvin conoscesse tutti sia nel campo dell'arte sia a Hollywood, e lo invitavano regolarmente ai party più esclusivi. Una sera ci demmo appuntamento al Village, al bar San Remo, un punto d'incontro molto in voga tra i gay e occasionalmente anche tra i vip. Non avevamo finito il primo drink, quando mi accorsi di Marion Brando e Wally Cox seduti a un tavolo vicino. Diedi di gomito ad Alvin e dissi: «È proprio chi penso che sia?». Lui si voltò e con un gran sorriso stampato sulle labbra si alzò e andò da loro. I tre si salutarono calorosamente, poi si abbracciarono. Io mi tenevo un po' in disparte, ma Brando e Cox insisterono perché ci sedessimo con loro. Brando trasudava sensualità. Che tu fossi etero o gay, non potevi guardare quell'uomo senza immaginartelo a letto. Entrambi si erano scolati un bel po' di cocktail ed erano alticci. Brando mi scrutò e mi apostrofò: «Ehi ragazzo, chi stai fissando?». Preso in contropiede, dissi: «È proprio Mister Peepers?». Wally Cox divenne famoso in seguito per alcuni show televisivi come The Hollywood Squares, ma doveva la sua notorietà a una sit-com del 1950, che si chiamava appunto Mister Peepers. «No, sono Orson Welles» rispose Cox. «Nah, lui è Rita Hayworth» ribatté Brando ridendo. Presi coraggio e confidai a Brando che alcune persone sostenevano che io e lui potevamo passare per fratelli gemelli. Tutti quanti scoppiammo a ridere, e cominciò il vero e proprio divertimento. «Da dove vieni?» mi chiese Brando. «Io? Da Bensonhurst, Brooklyn, vicino a Coney Island.» «Non sei un po' lontano da casa?» mi domandò. «Non lo sai che ci sono una marea di omo in questo bar?» «Shhh» dissi, «ti potrebbero sentire. A Bensonhurst, non ci sono omo.» Altre risate. «Certo che ci sono» intervenne Wally Cox, «sono dappertutto. Persino a Coney Island. Che cosa direbbero i tuoi genitori se sapessero che ti stai facendo una birra con quelli? Cameriere! Un'altra birra al nostro ragazzo di Brooklyn.» «Non posso credere che mi sto bevendo una birra con Mister Peepers e Stanley Kowalski» dissi guardando Cox e Brando. «Nah, non sono lui. Sono Eva Maria Saint» replicò Marion. «Sto risparmiando per comprarmi una giacca di pelle da motociclista» gli dissi. Poi, a bassa voce con tono quasi da cospirazione, sussurrai loro: «Siete omosessuali tutti e due?». «No di certo» rispose Cox, «siamo venuti qui proprio per vedere un po' come sono queste checche. Noi? Assolutamente no. E tu sei una di loro?» «Lui è di Brooklyn, ricordi?» intervenne Brando. «Da loro non ce ne sono.» Ridemmo tutti alla battuta. «Non so cosa dirvi» ripresi, «voi siete qui in mezzo a gente normale.» Poi gesticolai indicando Brando e aggiunsi: «Ma insomma, tu hai vinto un Oscar!». «Ti dico una cosa ragazzo: abbracciami, ma un abbraccio maschio» mi invitò sorridendo. «E che ne dici di abbracciare pure me?» scherzò Cox. «Non vuoi raccontare a mamma e papà che Mister Peepers e Marion Brando ti hanno offerto una birra e poi ti hanno abbracciato?» Mi alzai intimorito e li abbracciai entrambi. «Senti» concluse Brando, «noi stiamo andando a un party, a un paio di isolati da qui. Vieni con noi, là possiamo abbracciarci tutte le volte che vogliamo.» Wally Cox si avvicinò a me. «Ti devo avvertire, però, che ci saranno parecchi omosessuali al party» sussurrò con voce maliziosa. Passai la serata con Marion Brando, Wally Cox, Alvin Epstein e un bel po' di celebrità, per la maggior parte gay. E fu una delle notti più belle della mia vita. Serate come quella sono rare, un climax cui spesso fa seguito, almeno per me, un periodo di profondo buio. Quella notte rimasi completamente solo. I miei tre amici se ne tornarono tutti a casa, dove li aspettava qualcuno con cui condividere l'esperienza di quella sera. Io, invece, mi stesi nel mio letto deserto. Non avevo nessuno cui raccontare la serata passata a ridere, abbracciarci e fare amicizia con Marion Brando e Wally Cox. Forse avrei potuto chiamare una delle mie sorelle, ma di sicuro non gliene sarebbe importato niente, sempre ammesso che mi credesse, del che dubito. Ovviamente ai miei genitori sarebbe importato ancor meno. «Bran-chi?» già immaginavo di sentire mia madre. «Wally Cox? Che assurdità! Ascoltami, hai fatto un po' di soldi? Il mutuo ci sta strangolando qui.» Era l'ennesima notte dolorosa e indolente che svaniva in dissolvenza, per il povero Elli. Tutte le volte che uno spietato senso di solitudine mi sommergeva, seguivo l'esempio di mio padre: me ne andavo a letto. Quella era la mia vita. Durante la settimana lavoravo a New York, dove mi guadagnavo da vivere e avevo incontri occasionali con estranei. Il venerdì sera saltavo in macchina e tornavo a White Lake per salvare il salvabile. A White Lake mi fingevo un businessman eterosessuale: una balla gigantesca. A New York ero un artista e un gay, e quella era la verità. Volendo sembrare entrambe le cose, finivo con il non essere appieno né l'una né l'altra. Ero combattuto tra le mie due identità, incapace di risolvere il conflitto cui andavo incontro. Se avessi scelto di vivere la mia vita, sarei scappato da White Lake come un evaso da una prigione turca, ma i miei genitori sarebbero morti di fame. Eppure, se vi avessi rinunciato, avrei finito con il buttarmi dal ponte di Washington. In un modo o nell'altro, l'orologio scandiva i secondi. Ogni venerdì pomeriggio, mentre tutti i miei amici andavano a est verso Fire Island, io prendevo l'autostrada verso nord, e rimuginavo triste sull'incredibile casino in cui si era infilata la mia vita. L'avvertimento profetico di mia sorella mi perseguitava sulla strada che portava al motel: «Getterai via gli anni migliori della tua gioventù in quel motel di merda, non funzionerà mai» ecco quel che diceva. Tante volte avrei voluto fare inversione e dimenticare quei due idioti che sembravano trarre piacere dal distruggere la loro vita e la mia. C'erano momenti in cui avrei voluto strangolarli, eppure continuavo a guidare fino all'uscita 16, con il volto rigato dalle lacrime. 4 Mi scavo la fossa ridendo

«Che cosa intendi fare?» Il mio analista, Morris, un uomo imperturbabile in qualsiasi circostanza, si tolse la pipa di bocca e, grazie a una stupefacente contrazione dei glutei, fece un balzo incredibile dalla sedia di pelle. Si meritava un nove per l'altezza, ma un misero tre per lo stile, a causa del movimento scomposto delle braccia. Quella di Morris era la reazione a una delle mie idee per attrarre turisti al motel. «Una piscina?» chiese incredulo. «Sei fuori di testa? Devi trovare un modo per tirarti fuori da quell'inferno, ogni anno che passa i tuoi debiti crescono a dismisura. Te lo dico per l'ultima volta, Elliot, non ci caverai un ragno dal buco. A sessantacinque anni ti ritroverai senza un soldo a vivere in qualche dormitorio, imbottito di giornali per non prendere freddo. Vendi quel motel, e riprendi a vivere!» Un consiglio assennato e, considerati i cinquanta dollari l'ora, assai degno di nota. Purtroppo ero stato infettato dallo stesso morbo che colpisce i giocatori fanatici: se rischio un po' di più, potrebbe arrivare il mio colpo di fortuna. La piscina costava diecimila dollari, che nel 1968 erano un mucchio di soldi. Però avevo appena dipinto un murale enorme, raffigurante un giardino neoclassico, a Park Avenue, nell'attico di una baronessa che, come appresi più tardi, era stata proprietaria di una fabbrica di auto nella Germania del Terzo Reich. Il ricavato sarebbe bastato per coprire il costo della piscina. I muratori avevano già iniziato i lavori preliminari di installazione quando l'architetto della baronessa, Paolo di Montepulciano, bloccò il mio pagamento sostenendo che i miei giardini non erano abbastanza originali. Non gli piaceva come avevo rifinito il murale e aveva deciso, una volta terminato il dipinto, di gettare i miei colori per strada e sbattermi la porta in faccia. Portai i due scrocconi in tribunale. Le mie ragioni erano un po' più sostanziose di quello che potessero pensare: non volendo vantarmi, non avevo rivelato alla baronessa nazista e al suo butterato barboncino italiano che ero un insegnante d'arte all'Hunter College. Non confessai loro neppure che avevo invitato il preside del mio dipartimento, la dottoressa Edna Leutz, a dare un'occhiata all'opera quando nessuno dei due era presente. A lei il mio lavoro era piaciuto e aveva scattato alcune foto, che in seguito mostrai a un paio di storici dell'arte. Quelli accettarono di testimoniare in tribunale, così come la dottoressa Leutz, ed espressero un giudizio positivo sulla qualità del mio lavoro. «Giudice» esordii, «ho bisogno di quei soldi per mia madre. Lei è venuta da Minsk a New York nel 1914, scappando dai cosacchi che violentavano le donne e facevano marciare in colonna intere famiglie di ebrei indifesi.» Con il senno di poi, posso dire che ripetevo in pubblico questa storia triste e trita come una dolce vendetta nei confronti di mia madre. «Se lei non avrà questi soldi» continuai, «non potrà pagare la piscina che è già stata installata nel nostro motel. Il che significa bancarotta sicura. Mia madre finirà in mezzo a una strada.» Il fato volle che anche il giudice fosse figlio di emigrati russi, anche loro provenienti da Minsk. Figurarsi… «Mia madre, possa riposare in pace, era probabilmente in quella stessa folla d'emigranti» mi disse il giudice. «Lavò i pavimenti da Minsk fino in Minnesota per potermi pagare gli studi in legge.» Si voltò verso Paolo il barboncino, che si vantava di avere nobili antenati, e continuò: «Duca, paghi la fattura o le faccio fare la fine del topo». La piscina fu installata per gentile concessione della baronessa, sebbene senza i capanni da spiaggia e le sdraio che mi sarebbero tanto piaciute. Al loro posto mettemmo una fila di sedie pieghevoli raccattate dall'Esercito della Salvezza. Sebbene bellissima, la piscina non richiamò neanche un turista in più. La maledizione dei Teichberg mi aveva ancora una volta triturato e sputato e, come se non bastasse, mi ritrovavo con una piscina che richiedeva una costante manutenzione.

Iniziammo nel 1955 con un piccolo bed & breakfast di nove camere, due delle quali erano state ricavate dalla mia mammina mettendo un paio di tende divisorie in mezzo alle due camere più spaziose. Se ne aggiunse un'altra attaccando una specie di grande scatola di legno a un albero in giardino. Quando le cose presero il loro corso naturale, cioè quando tutto stava andando a catafascio, scegliemmo l'unica opzione possibile secondo la logica Teichberg: ampliammo il motel. All'inizio del 1969 eravamo i fieri possessori dell'impianto turistico più brutto e mal organizzato dell'intero Stato di New York, completo di settantaquattro camere, una decina delle quali bungalow, e otto ettari di terreno incuneati tra due statali che si incrociavano: la 17B e la 55. Se ci si fermava sulla statale 55, che confina a nord con la nostra proprietà, e si guardava verso sud in direzione dei cinque edifici più grandi del nostro complesso alberghiero, si aveva l'impressione che il luogo fosse abbandonato da tempo. Tutte le costruzioni in origine erano bianche, ma molti rampicanti erano cresciuti lungo alcuni muri. Qua e là il terreno nudo affiorava tra aree di prato falciato e ammassi incolti di erbacce. Alle spalle di un edificio c'era la nostra piscina, circondata dalla variegata collezione di vecchie sedie a sdraio, nessuna davvero invitante. A sud della piscina e degli edifici principali stavano appollaiati, in bilico per via dei sostegni malmessi, un mucchio di bungalow decrepiti, che si trovavano proprio in mezzo a un acquitrino il quale, grazie a un drenaggio inesistente e a un cattivo funzionamento delle fogne, raramente, se non mai, riusciva ad asciugarsi. C'erano giorni in cui era necessario un paio di buone galosce per arrivare sani e salvi sulla soglia dei bungalow, ma questo è uno di quei particolari di cui non ci piaceva parlare. Tutti gli ampliamenti li avevo pagati con i soldi che guadagnavo a New York. Riuscivo a tirare avanti solo perché fantasticavo che un giorno un uomo ricco e bello sarebbe piovuto dal cielo per farmi vivere nel lusso per il resto della vita. Nel frattempo, alimentavo un'altra illusione: che stessimo gestendo un motel come si deve. Per essere sincero fino in fondo, alcune camere non erano nemmeno degne di questo nome. Negli spazi più ampi, avevo appeso delle vecchie tende da doccia, quasi tutte strappate e macchiate, e ci avevo piazzato davanti qualche palma artificiale che avevo preso da W. & J. Sloane, per rafforzare l'illusione che ci fosse un muro. Feci installare a papà lampadine attaccate con un filo al soffitto perché non potevamo permetterci lampadari veri. Spesso papà dovette improvvisare un po' e in più occasioni si era trovato costretto a far correre i fili elettrici sopra la doccia, combinazione potenzialmente letale ma abbastanza sicura se l'ospite si mostrava prudente. A ogni modo, grazie a una composizione di tende da doccia e palme di plastica, avevamo trasformato uno spazio inutilizzabile in due camere d'albergo. Ovviamente era impossibile affiggere i numeri sulle porte di queste camere, ma era l'ultimo dei miei problemi. La maggior parte delle porte infatti non aveva le maniglie e alcune neppure la chiave. I materassi erano duri e gibbosi; il linoleum sul pavimento strappato e annerito. Le erbacce spesso arrivavano a sommergere la proprietà, i condizionatori d'aria e i televisori restavano vuoti involucri e i telefoni posticci non funzionavano. Nella reception avevo sistemato le luci natalizie all'interno del centralino: qualche lucina ogni tanto si bruciava ed emetteva un lieve ronzio, così sembrava che il centralino funzionasse. Quando un ospite passava dall'ufficio per lamentarsi del telefono, gli rispondevo che gli impiegati della compagnia erano in sciopero e che il servizio era stato momentaneamente interrotto. Mia madre, di rimando, precisava che non erano previsti rimborsi per alcun motivo. L'ufficio stesso era una parentesi comica all'interno del kitsch estremo. In origine, la stanza era grande non più di tre metri per tre, poi papà l'aveva ampliata per poterci bere almeno un caffè. I muri erano di compensato, spogli, fatta eccezione per qualche cartello che avevo appeso io, tipo: «Motel in vendita – fatemi un'offerta» o «Solo contanti – niente rimborsi». Anche il soffitto e il pavimento erano di compensato. Quest'ultimo era stato ricoperto con linoleum economico, tutto macchiato, che si staccava in più punti. A impreziosire questo bijoux di stanza, c'erano due costosissimi drappi rossi rimediati da Sloane. Appeso al soffitto splendeva il pezzo clou: un raffinato lampadario di cristallo che avrebbe fatto la sua figura al Ritz Carlton, invece serviva per annunciare ben chiaro al mondo che noi eravamo i ridicoli Teichberg, troppo in bolletta per vergognarci del nostro gusto in fatto di arredamento. Qualunque cliente avrebbe provato imbarazzo alla sola idea che il suo cadavere fosse rinvenuto in un motel del genere, e io ero quello che doveva convincerlo a pagare per stare in un posto così. Questo arduo compito richiedeva tutta la mia creatività. Tra i bungalow che avevamo acquistato, c'era un prefabbricato enorme di legno che i proprietari precedenti avevano adibito a casinò e sala bingo. Riuscii a montare delle ruote sotto quella costruzione, la spinsi per un centinaio di metri fino al lato opposto della strada e la sistemai di fronte alla proprietà. Trovai un po' di sedie in un bowling diroccato, affittai un proiettore e infine appesi davanti alla porta un cartello che annunciava il nostro «Cinema Underground». Il primo film fu un melodramma su un gruppo di motociclisti. Affittai e proiettai altre pellicole, ma gli unici spettatori furono il lattaio, Max Yasgur, che appoggiava silenzioso qualsiasi mia iniziativa, e un paio di ubriaconi che si erano appena giocati le mutande all'ultima corsa dell'ippodromo di Monticello. Quando non proiettavo film, usavo l'edificio come galleria d'arte. Non venne mai nessuno tranne Max, Elaine e Bill Grossinger, proprietari dell'hotel più grande e di successo della zona. A volte chiamavo Elaine per chiederle aiuto: «Elaine, stiamo morendo qui. Per favore mandaci qualche cliente in più che hai, ti prego». «Elliot, dirò alla gente che se hanno bisogno di un posto per ripararsi dalla pioggia, ti possono chiamare, ma se devo essere sincera il vostro motel è una topaia.» «Elaine, non dire loro che abbiamo la radio, perché non è vero» insistevo, ma provando grande vergogna aggiungevo, «però abbiamo la tv.» «Elliot, conosco bene quelle scatole che hai il coraggio di chiamare tv.» Elaine ci diede una mano per un po', poi mollò il colpo perché troppi si erano lamentati dopo aver soggiornato da noi. Le lamentele erano un tutt'uno con i nostri affari. La maggior parte degli ospiti, erano vecchie signore ebree e gentiluomini newyorkesi. Li chiamavo yenta, termine yiddish che indica chi parla e spettegola all'infinito sul nulla. Spesso però, ricevevamo qualche facoltoso cliente che avrebbe potuto trovare ospitalità in uno degli hotel migliori del Catskill, come il Grossinger o il Concord. Non rifiutavamo mai nessuno, ma sapevamo benissimo cosa aspettarci se un tipo del genere metteva piede da noi. Un giorno, una signora con un cagnolino sottobraccio si precipitò nel nostro ufficio richiedendo indietro il denaro subito dopo aver visto la camera. «Non c'è l'aria condizionata» disse con tono offeso. «Abito in un palazzo a Sutton Place, e non permetterei neanche ai miei domestici di vivere in condizioni così orribili. Voglio vedere il vostro numero d'iscrizione all'associazione albergatori.» Sospirai, guardai mammina e le lasciai campo libero: era già eccitata. «Noi non affittiamo a persone come lei» disse mentre il petto le si gonfiava come la coda di un pavone «questo è un motel esclusivo. Se vuole un numero, ne scelga uno, uno qualsiasi!» Mammina iniziò ad agitare il suo dito moralmente indignata, quasi a voler lanciare una maledizione contro la donna. «Dio vi punirà per aver irritato una madre che ha camminato fin qui dalla Russia. Continui pure, signora Tutta Ninnoli, scelga un numero e faccia reclamo all'associazione.» Ciò detto, puntò il dito su uno dei cartelli che pendevano dal muro dell'ufficio: «Niente rimborsi». Una volta, l'ispettore di un'associazione automobilistica arrivò senza preavviso e prese una stanza nel nostro motel. Era un signore educato, abituato di solito a controllare strutture alberghiere con un alto standard qualitativo. Ricordo perfettamente che rimase nella sua camera venti minuti prima di ritornare in reception sotto shock. «Questo lurida catapecchia è una disgrazia dell'industria alberghiera» esclamò come se fosse sull'orlo di un attacco cardiaco. «I proprietari andrebbero arrestati. Dove sono?» «Hanno l'ufficio principale al Berlin Milton» risposi. L'uomo, troppo infuriato per ascoltare quello che avevo appena detto, continuò: «Le lenzuola non hanno visto una lavatrice negli ultimi vent'anni! Puzzano!». «È impossibile, il motel ha solo otto anni.» Ancora una volta le mie parole non gli arrivarono. Incredulo, incalzò: «Non ci sono asciugamani, per averne uno ho dovuto elargire una mancia di due dollari a una cameriera russa completamente pazza. La tv è una scatola vuota. Il telefono è senza collegamento. L'impiegato ha un mucchio di chiavi senza numeri. Ho perfino dovuto comprare il sapone sempre dalla stessa cameriera, che mi ha chiesto di pagare l'affitto per il parcheggio di fronte alla camera. Come osate affiggere il cartello "deluxe"? Pretendo il rimborso totale e le scuse!» Non c'è bisogno di aggiungere che mammina prese il controllo della situazione e le richieste dell'ispettore non furono esaudite. L'ennesimo cliente insoddisfatto. Avendo cara la mia salute mentale, senza escludere la possibilità di evadere un giorno da quel posto, iniziai a mettere cartelli in ogni angolo della proprietà e anche lungo le strade statali che portavano a White Lake. Avevamo già cinque cartelloni pubblicitari grandi, e papà e io ne installammo altri. Su uno di questi c'era scritto: «Strada franata a pochi chilometri! Vietata l'inversione a U. Deviazione. Ultimo motel in fondo alla strada!». Su un altro si leggeva: «Questo motel non è affiliato all'Hilton International, al George V Paris, all'Itt Sheraton né al Princess Grace». In giro per la proprietà, sui muri e tra le sterpaglie, avevo sistemato cartelli come «I degenerati sono benvenuti», «Club degli amanti del sadomaso» e «Nido dell'aquila». Il Nido dell'aquila era un club omo al Greenwich Village, ma solo i gay lo conoscevano. Il riferimento serviva come codice segreto e, infatti, segnalò a qualche occasionale anima gemella di fermarsi. Quei cartelli mi tenevano occupato. Mi erano necessari, così come una pentola a pressione ha bisogno della valvola di sicurezza per non esplodere. Ero un artista gay che si fingeva uomo d'affari etero: quanto bastava per far impazzire chiunque. Gettare una persona così nel bel mezzo di un posto come quello, e con genitori di tal fatta? Bene, uno può scegliere se dipingere cartelli o uccidere qualcuno: io optai per i cartelli. Aprii un bar con camerieri fantastici – ragazzi poco più che ventenni in slip – per servire una clientela perlopiù di donne. Per aggiungere un po' di divertimento, misi un grande tabellone nel bagno degli uomini, con evidenziatori colorati, cosicché i ragazzi potessero dilettarsi in veri e propri graffiti erotici. Poi dicevo alle donne che se prendevano da bere a mezzanotte, potevano entrare nei bagni degli uomini e leggere quello che avevano scritto. Diedi seguito all'iniziativa, vendendo fogli di carta per un dollaro ciascuno. Potevano scrivere qualsiasi cosa sui fogli, e poi li attaccavano sui muri e sui soffitti dei bagni. Per un po' quel gioco piacque alle ragazze, specialmente dopo essersi scolate qualche bicchiere. Il bar era piccolo, non più grande di dieci metri per sette, ma stracolmo. A notte fonda, quasi tutti gli avventori avevano trovato compagnia e pomiciavano. Quello era il momento più solitario del mio lavoro. E a peggiorare le cose, il bar era troppo piccolo per guadagnare davvero, e quel poco che entrava in cassa finiva dentro il reggiseno di mia madre. Eravamo sempre in bolletta, non coprivamo le rate del mutuo, e così dovevo versare altri soldi miei per far sopravvivere quel posto. Durante i fine settimana, servivamo i pasti ai pochi ospiti, così ordinavo qualcosa al vicino ristorante cinese. Portavo in tavola le pietanze su semplici piatti di carta comprati da un grande magazzino all'ingrosso che era fallito. Perlopiù, i piatti recavano ancora impresso il nome delle aziende per cui li avevano prodotti. Quando servivamo i pasti su tali «stoviglie», i clienti urlavano atterriti: «Non possiamo mangiare su piatti di carta velina». Perciò appesi un cartello che diceva «Non siamo responsabili di nulla». Uno di quegli yenta una volta mi chiese: «Chi è il pazzo che fa tutti questi cartelli?». «Non lo so proprio» risposi, «appaiono misteriosamente mentre siamo a letto.» Per attirare più clienti, mi inventai lo Yenta's Pancake House, dove io e mio padre preparavamo la colazione. Avevamo un menu limitato, per così dire, ma persino le poche cose che dovevamo preparare diventavano una sfida per mio padre. Qualcuno chiedeva i muffin ben cotti e papà, le cui mani da muratore erano ancora sporche di catrame, lo guardava come se arrivasse da un altro pianeta: «Tu li mangi così come escono dal forno» rispondeva a bruciapelo. Ero alla costante ricerca di soluzioni per sopperire alla mancanza di charme dei miei genitori, e così appesi altri cartelli tipo «Pancake alla Barbra Streisand – quaranta dollari», oppure «Pancake alla Ethel Merman – sessanta dollari» e, vicino a quest'ultimo, «Oggi a soli quarantacinque dollari». Preso dalla disperazione per la modesta vita sociale del luogo, lanciai la notte degli scambisti. Misi annunci che recitavano: «Stanco di Fire Island? Verresti a White Lake? Il fine settimana degli scambisti costa la metà» e davo le indicazioni per raggiungere il motel. Rimediai un mucchio di perdenti, ubriaconi e spostati, persino un prete calvo che mi chiese tutta la notte se credevo in Dio. Quando a mia volta gli domandai se lui ci credesse, mi rispose pacatamente: «Una volta» e se ne andò senza aggiungere altro. La lista dei lavori che svolgevo al motel sembrava infinita. Ogni giorno dovevo pulire i bagni, affittare le camere, tagliare l'erba, cucinare, sistemare la piscina, svuotare il pozzo nero, gestire le pubbliche relazioni, fare la guardia notturna, essere il bravo figlio grassottelle e infine inventarmi qualcosa per rimediare clienti. La vita diventò un ciclo infinito di pulizie di bagni e pancake da infornare. Intere giornate non bastavano per tutto quello che c'era da fare. Quando avevo un minuto a disposizione, mi rifugiavo nel bungalow due, il mio nascondiglio personale. C'era un vecchio lettino sfondato, e alcuni miei indumenti sadomaso di pelle erano appesi al soffitto. Il posto somigliava a una prigione ed era arredato con alcuni degli ultimi strumenti di tortura. Mi stravaccavo esausto sul letto, sotto quella composizione artistica di fruste e manette. Mi sentivo così depresso che persino la carriera da rabbino a Flatbush mi sembrava una buona occasione perduta. Quando finalmente riuscivo a rilassarmi e lasciavo vagare la mente, spesso fantasticavo su qualche ricco e affascinante straniero che appariva alla porta e mi trascinava a Parigi. In quel momento, puntuale, la voce di mia madre rimbombava per tutta la proprietà e si faceva largo fin dentro il mio sogno e raggiungeva il cuore. «Elli» la sentivo gridare «i bagni hanno bisogno di una pulita. Dai, c'è una confusione mai vista e la schiena mi sta uccidendo!» Avevo però altri diversivi. Uno di questi, che chiamerò Bill Smith, era sposato e comproprietario di uno degli alberghi più grandi ed esclusivi di Catskill. Nondimeno, era gay e aveva bisogno di sfogarsi. Per questo c'ero io. Veniva nel bungalow e trascorrevamo un paio d'ore in quella mia prigione personale. A volte mi chiamava per fissare un appuntamento. Lui pensava di essere discreto ma a nostra insaputa Maria, la centralinista della città, origliava tutte le nostre conversazioni. Maria era la moglie di Rusty, un adorabile piccolo muratore. I due vivevano proprio davanti al mio motel, e si annoiavano a morte. Noi le demmo una bella scossa. Un giorno Maria se ne uscì dicendo di sapere perché l'auto di Bill Smith era regolarmente parcheggiata di fronte al motel. «Maria» ribattei con un accenno di disapprovazione, «non è carino affatto quello che fai, anzi è illegale.» «Lo so» rispose imbronciandosi, «ma la vostra è l'unica conversazione interessante di tutto il circondario!»

Lasciai passare qualche anno prima di iscrivermi alla Camera di commercio di Bethel, e non ci volle molto per scoprire che era messa proprio come il motel dei Teichberg. Le riunioni erano l'occasione per una chiacchierata tra yenta più che per un serio tentativo di portare lavoro alla nostra comunità. Fatto ancora più scoraggiante, io ero quello con il livello di istruzione più alto dell'intera associazione e il solo con un briciolo di idee per migliorare la nostra situazione disperata. Gli altri membri mi conoscevano già ed era nota anche la mia reputazione di creatore d'imprese demenziali. Nessuno dei miei sforzi aveva mai portato risultati, ma in una città già da lungo tempo arresasi al fallimento, sembravo l'unico essere vivente della Camera. Così, con voto unanime, mi elessero presidente della Camera di commercio. Come dice il motto nazionale E pluribus unum. In questo clima di esaltazione, era arrivato il momento più eccitante: volevano rivelarmi la loro grande idea per portare turismo e denaro fresco a Bethel. L'ex presidente, la ultrasessantenne signora Ethel, giunse le mani e annunciò in preda a una sfrenata euforia: «Elliot, vogliamo costruire una monorotaia!». I membri dell'associazione, sei signore e due uomini, mi osservarono con gli occhi sgranati, pieni di aspettative. «Cosa ne pensi Elliot? Non è un'idea geniale?» Un'altra voce entusiasta presto intervenne nella conversazione: «Disneyland ha una monorotaia, Elliot, e porta un mucchio di soldi fruscianti! Dobbiamo costruire una monorotaia che colleghi New York a Bethel, e avrà tutti i vetri oscurati, così i passeggeri non potranno vedere niente tra New York e il nostro paesino. Siamo convinti che un sacco di gente verrà da tutta l'America per salire sulla monorotaia». Nel frattempo, in mezzo a tutto ciò, io e la mia mente eravamo in riunione per i fatti nostri. Questa è la trascrizione: Come mai Bethel riesce ad attrarre così tanti pazzi? Forse siamo in uno di quegli strani e misteriosi snodi, l'equivalente su terraferma del triangolo delle Bermude, dove forze sovrannaturali convergono per far diventare tutti dementi? O forse, mentre dormiamo, gli extraterrestri fanno degli esperimenti su di noi e tra gli effetti collaterali c'è la psicosi collettiva. O forse è solo l'acqua di qui. Sì, sì! Deve essere l'acqua. «Chi è che finanziera questo progetto?» chiesi, tentando con tutte le forze di non lasciar trasparire quello che pensavo. «Lo ignoriamo, Elliot, ma sappiamo che tu puoi fare qualsiasi cosa» rispose uno di loro. «Okay» dissi, «lo metteremo nell'ordine del giorno, ma ora cerchiamo di concentrarci su qualcosa di più piccolo prima di affrontare un progetto multimilionario. Avete altre idee?» Si guardarono l'un l'altro, in silenzio, stupiti. Alla fine Ethel prese la parola: «È tutto, Elliot. Ci siamo esaltati a tal punto con la monorotaia che tutto il resto ci sembrava inutile». «Nessun'altra idea?» domandai incredulo. Louie, un idraulico del posto, aveva una proposta. «A dir la verità, abbiamo discusso sulla possibilità di aprire un punto informazioni nella tua proprietà. Un semplice gazebo, per vedere come sta, all'entrata di White Lake…» D'improvviso imbarazzato, aggiunse velocemente: «Ah, chiaro che non l'avremmo fatto senza il tuo permesso. Potremmo mettere delle brochure nel gazebo, per tutte le attività e gli eventi turistici che si svolgono qui. Pensavamo che potesse invogliare qualche visitatore». «Ottima idea, Louie» commentai di botto sollevato e grato per quel raggio di sanità mentale. «Costruirò a mie spese la struttura di legno.» E così facemmo. Papà montò quel piccolo punto d'informazione turistica sui nostri terreni, proprio sulla statale 17B, che era una delle strade principali per arrivare a "White Lake. Presto diventò un luogo d'incontro per piccole vecchie signore che se ne stavano sedute sulle loro sedie pieghevoli e raccomandavano ai turisti quali attrazioni vedere e cosa fare. Sfortunatamente, Leon La Peters, proprietario del maggior numero di bungalow a White Lake, perciò anche contribuente di spicco della comunità, venne a sapere delle vecchiette che consigliavano gli alberghi. Un giorno, La Peters, soprannominato «La Penis», abbatté il gazebo con il suo trattore. Quando mi accorsi del misfatto il mio primo pensiero fu: Speriamo che non ci fosse nessuno lì dentro. A La Penis non importava affatto. Si vedeva come novello generale Patton su uno dei suoi carri armati: il gazebo era il nemico e una volta abbattuto, volle essere sicuro che non potesse rialzarsi. Gli passò sopra più volte, fino a ridurre le fragili assi di pino alla dimensione di stuzzicadenti. Mentre si allontanava, alzò il pugno e grugnì: «Non ho bisogno di nessun gazebo per dire alla gente dove stare a White Lake». Non molto tempo dopo ci fu un incendio da La Peters; tutti i suoi bungalow presero fuoco misteriosamente. Intascò l'assicurazione e si trasferì a Miami, dove costruì molti altri bungalow, più di quelli che aveva a White Lake. Quando sentii la storia, corsi dentro l'ufficio e chiesi a mia madre dove fosse papà. «Giù alla palude, a lavare le lenzuola» mi rispose. Corsi là, attento a dove mettevo i piedi per non rovinare le scarpe, e arrivato davanti a lui, esclamai: «Deve esserci un incendio anche da noi!». Mentre bagnava le lenzuola con la pompa dell'acqua, lui mi guardò, leggermente confuso. «Non siamo assicurati» disse. «Lo so! Stipuleremo una polizza.» «Come si fa a bruciare tutto? La nostra proprietà è troppo vasta.» Mi guardai intorno e capii che aveva ragione. Probabilmente un edificio poteva prendere fuoco, ma sarebbe stato difficile che le fiamme si propagassero agli altri, almeno non senza tracce di benzina. «Sì, è vero» esclamai in tono deluso «un incendio è inutile. Dannazione, Vabbè, in ogni caso non mi sembrava giusto.» Presi a camminare, poi mi girai per un istante verso mio padre, che era ancora tutto intento nel suo lavoro. «Quindi, papà, ci avevi pensato anche tu, vero?» gli chiesi. Non disse una parola e continuò a innaffiare le sue lenzuola.

L'unico beneficio che ricavai dalla carica di presidente della Camera di commercio consisté nell'autoconcedermi l'autorizzazione a organizzare il mio festival d'arte e musica. Non c'erano regole urbanistiche a White Lake, così non dovevo far altro che battere a macchina un'autorizzazione per avere legalmente il permesso di tenere un concerto rock, perché di questo si trattava. Mio padre costruì il palco, sette metri per sette e io vi appesi sopra un paio di grandi riflettori. Non erano veri riflettori, ma solo due grosse lampadine che avevo attaccato in cima a due pali proprio sopra al palcoscenico. Ogni anno, si esibivano dai sei ai dodici gruppi locali. La maggior parte era formata da ragazzini che a malapena sapevano suonare, A loro piaceva molto, anche se l'audience si limitava ad alcuni turisti, Max Yasgur, e un bel numero di ubriaconi del luogo, molti dei quali sordi, se non prima del concerto sicuramente dopo. Appena i gruppi finivano, tiravo fuori i miei dischi e suonavo i migliori gruppi del momento come i Byrds, The Animals, Mamas & Papas e artisti emergenti come i Doors, Joe Cocker, Janis Joplin, Jimi Hendrix e i Cream. A volte mettevo su persino qualche pezzo di Barbra Streisand, per conquistare un po' di pubblico yenta. Lo organizzai ogni anno, per otto anni circa nel corso degli anni Sessanta. La gente del paese si era così abituata a questo evento annuale che ormai lo dava per scontato.

Alla fine degli anni Sessanta, la salute di mio padre peggiorò. Da tempo accusava dolori addominali dovuti a una colite cronica e aveva iniziato a sviluppare i primi stadi di un tumore al colon, che gli diagnosticarono molto più tardi. Nella proprietà c'era un granaio, dove lui teneva tutti gli strumenti del mestiere, ma ben presto capimmo che non avrebbe mai più aggiustato tetti. Così decisi di mettere un annuncio sul «Village Voice» e altri giornali di New York, per invitare una troupe teatrale a White Lake. «Conquista col sudore della fronte il teatro estivo della terra libera. Io metto il granaio, voi costruite il teatro.» In poco tempo, un nugolo di attori si radunò a White Lake. Non passò molto che quel raduno diventò una compagnia teatrale e il granaio un vero teatro, completo di palcoscenico, posti a sedere, luci e sipario. Io davo alloggio gratis e pancake per tutti; Max Yasgur arrivava ogni tanto con yogurt, formaggi e uova. Passammo un paio d'estati insieme con queste compagnie teatrali, ma nella primavera del 1969 sbarcò un fantastico gruppo di attori e musicisti noti come gli Earthlight Players. Composta da trenta artisti affamati, la compagnia rappresentava in pieno lo spirito del tempo. Demmo loro la prima casa che avevamo acquistato e quelli la trasformarono in una piccola comune. Realizzarono alcune migliorie al teatro e tagliarono persino un paio di alberi per costruire nuovi sostegni per i posti a sedere. Non avevamo certo soldi per pagarli, per cui dovettero accettare i lavori più strani in paese e cavarsela con pochi spiccioli. Nel frattempo, facevano le prove per le commedie in programma per l'estate. La selezione mi piaceva, ma sapevo che le persone del luogo non avrebbero concordato. «Nessuno verrà a vedere le Tre sorelle di Čhechov» dissi loro «a meno che non recitiate nudi. Aspettando Godot? Dimenticatelo. Questa gente la vive tutti i giorni quell'opera, e non lo sa.» Ma gli Earthlight Players non mi diedero retta. Inoltre, erano attori immersi nella loro arte e come tutti gli artisti di teatro erano convinti che sarebbe accaduto qualcosa di magico. D'altra parte, sapevo che dovevamo fare un po' di soldi il prima possibile. Nel maggio del 1969, la cassa era costantemente vuota e il conto corrente era talmente in rosso che non potevamo pagare le rate del mutuo. Avevo un bisogno disperato di denaro, perciò chiamai mia sorella Goldie, che aveva sposato un milionario. «Prestami almeno cinquemila dollari fino alla fine dell'estate» la scongiurai «siamo in stagione turistica. Il 4 luglio è vicino. Faremo sicuramente buoni affari e potrò ripagarti a settembre.» «Lascia che affondino, Elli» mi rispose, «cosa stai facendo? Stai sprecando la tua vita. Lascia che lo Stato si prenda la proprietà.» «La banca si riprenderà tutto per la fine della stagione se non trovo i soldi con cui pagare il mutuo.» «Perfetto! Lascia che accada. Ti faranno un favore.» Così andai dal direttore della banca a implorarlo di concedermi un po' più di tempo. «Gli affari vanno male ora» gli spiegai, «ma le cose andranno meglio per l'estate. Mi dia tempo fino alla fine della stagione e saremo in grado di pagare.» «Okay.» Ci concesse di tirare tutta l'estate, ma non avrebbe tollerato un giorno di più. Papà e io dipingemmo tutto nella speranza di renderlo più elegante possibile, il che, viste le condizioni del motel, era un'impresa titanica. I fine settimana erano un vero inferno di fatica fisica e ansia continua. Il mio unico svago arrivava la domenica sera, quando ritornavo in città con la mia Buick e mi fiondavo al Greenwich Village. Una volta là, andavo di filato in un club sadomaso, convinto che una buona dose di frustate potesse esorcizzare qualcuno dei miei demoni. 5 Stonewall e il seme della liberazione

Il bar era stretto, lungo e buio, con un ottimo impianto stereo e molto spazio per ballare. C'erano almeno duecento persone nella discoteca, in gran parte gay, e una decina di lesbiche gettate nella mischia. Tutti ballavano sotto le luci psichedeliche, in cerca di un partner o adocchiando un potenziale amante, almeno per quella sera. Ogni tanto, qualcuno prestava attenzione alle parole della canzone, specialmente se mettevano su un pezzo di Judy Garland. Judy se n'era andata nel suo appartamento londinese. Proprio quel giorno, solo poche ore prima che entrassi in quel bar, lei si era addormentata per sempre. Per il popolo gay, la sua morte era paragonabile a quella di un familiare che ti ama e ti capisce, come mai nessuno ha fatto e come hai sempre desiderato. Judy incarnava lo spirito tragico dell'io contro il mondo, proprio di ogni omosessuale. I suoi acuti, la sua gioia tormentata e quel pathos «arricchito» con le droghe, ci toccavano in profondità come pochi altri. Lei cantava le nostre pene. Con il suo coraggio ci mostrò come affrontare la vita. E ora se n'era andata. Tutti, allo Stonewall Inn un buco in Christopher Street, pieno Village, provavano rabbia e dolore. Era un venerdì sera di fine giugno. Di solito il venerdì me ne tornavo a White Lake, ma quella sera avevo deciso di rimanere a New York, per una notte brava. Judy avrebbe sicuramente voluto sentirci cantare per celebrarla. Non volevo far altro che ubriacarmi, divertirmi e magari trovare qualcuno nell'angolo più buio dello Stonewall. La domenica prima ero andato via da White Lake come un uomo che scappa dal fantasma dell'Hanukkah passato. Fuggivo da me stesso, ovvio, o per l'esattezza da quel connubio di creditori e karma negativo che stava consumando lentamente il motel, il futuro dei miei genitori, dieci anni della mia vita, i miei risparmi e quella patetica tavoletta che avrei potuto salvare i genitori dalla loro incompetenza suicida. Che cosa credevo? Goldie aveva ragione! Erano entrambi impegnati a distruggersi e chiunque si trovasse coinvolto con loro. Oh, sì, parlavo del fantasma dell'Hanukkah passato, un vecchio rabbino, senza dubbio, completo di vestito nero, cappello, barba lunga e treccine peot. Potevo vederlo uscire dalla banca, alzare il suo grande piede in aria e schiacciarmi al suolo mentre ero ancora dentro la mia Buick. «Avresti dovuto fare il rabbino, Eliyahu!» riuscivo a sentire le sue parole prima che mi riducesse a una purea di patate. «Pensi di essere andato alla Yeshiva per scrivere stupidi cartelli e affittare stanze senza televisione?» intravedevo tutti i miei insegnanti alla Yeshiva piegare il capo in segno di approvazione. Sicuramente questi erano solo peccati veniali, quelli che affioravano quando non andavo al cuore delle cose. Dentro di me, sapevo qual era la vera ragione per cui nella mia vita stava andando tutto a rotoli: mi avevano maledetto perché gay. Solo quando vidi l'immenso skyline di Manhattan tornai in me. Per qualche motivo, la città di smeraldo, con la sua ospitalità e la sua lunga parata di falli, mi permetteva di accettarmi meglio. Addirittura il mio respiro si regolarizzò quando vidi l'Empire State Building, il più immenso di tutti quegli uccelli. Finalmente ero di nuovo a casa. A White Lake ero un vero perdente, uno sfigato, uno shlemiel, un gay in incognito, la cui copertura rischiava di saltare ogni piè sospinto. A Manhattan, invece, ero un interior designer di successo, un importante membro della Nsid (l'Associazione nazionale degli interior designer) e un insegnante all'Hunter College. Facevo anche parte di quella comunità di pittori, fotografi, attori e scrittori che stavano rinnovando il gusto degli americani. Sebbene un uomo o una donna qualsiasi di Houston, Phoenix o Peoria possa non accorgersene, virtualmente, tutto ciò che la gente considera di moda o trendy è influenzato, se non direttamente prodotto, da uno stilista o artista gay di New York o San Francisco. Persino le tendenze che hanno preso piede grazie a megastar come Madonna, i punk, i ragazzini con make up e vestiti gotici, condividono la stessa origine: la genialità dei gay, che spesso hanno mostrato queste creazioni per la prima volta proprio nei club sadomaso delle maggiori città. L'energia primigenia delle nostre vite scorre dentro ogni sforzo artistico e creativo. Cercate in un qualsiasi campo artistico – letteratura, teatro, poesia, pittura, cinema e moda che sia – e troverete un artista gay tra quelli che hanno rivoluzionato quell'arte. Dirò di più, questo è vero un po' in tutti i campi, inclusi il mondo degli affari e delle scienze. L'ironia sta nel fatto che, storicamente, anche se gli americani hanno apprezzato le opere dei gay, hanno odiato però gli artisti e gli inventori omosessuali, cioè gli individui. La storia è costituita da maggioranze che opprimono minoranze di un tipo o di un altro. In America, a metà degli anni Cinquanta, la peggior sorte che ti potesse capitare era di essere gay o nero, e molti credevano che essere gay fosse di gran lunga peggio.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la medicina considerava l'omosessualità una forma di disturbo mentale. Gli psichiatri la trattavano come un male da «curare» con l'analisi freudiana, l'ipnosi o, se tutte le terapie fallivano, con l'elettroshock. Gli psicoanalisti tentarono di convincerci che fosse un'aberrazione della nostra crescita, un disordine psicologico derivante da una cattiva relazione con i nostri genitori. Io corrispondevo perfettamente al quadro clinico, e con me anche tutti i miei amici etero. Infatti, non credo di conoscere nessun essere umano, etero o gay, che non abbia avuto un'infanzia nevrotica. Tuttavia, essere gay era un disturbo, che gli analisti assicuravano di poter raddrizzare con una corretta terapia di modificazione comportamentale. Non potevano curare nient'altro che questo. Un'altra teoria considerava l'omosessualità come una scelta arbitraria, un atto di volontà. Gran parte degli psicoanalisti riteneva che alcuni uomini e donne scegliessero di essere gay perché intrinsecamente perversi, stato da cui derivava un'attrazione per uno stile di vita malvagio. Questa convinzione diede la licenza a ogni forma criminale di intolleranza contro esseri umani la cui sola colpa era un orientamento sessuale sul quale non avevano nessun controllo. La verità è che chiunque scopra di essere omosessuale deve confrontarsi con una forte crisi, e non di rado prende in considerazione l'ipotesi del suicidio. Rifiutato dagli altri membri della famiglia, dagli amici e da tutta la società, finirà con il sentirsi solo e odiato. Troppi giovani preferiscono farla finita, considerandola l'unica soluzione possibile. Tra quelli che decidono di rimanere vivi, molti provano a diventare etero. Alcuni di loro alla fine si sposano e hanno figli, altri si fanno preti e altri ancora cercano di vivere una vita asessuata. Puntualmente, tutti questi tentativi di «riabilitazione» e «redenzione» falliscono. Nonostante gli sforzi, le persone non possono negare la loro natura sessuale. Inoltre, il diniego spesso si accompagna a comportamenti aberranti e a dolori ancora più grandi, non solo per se stessi, ma anche per gli altri. Alla fine, scopriamo sempre che la nostra unica redenzione consiste nell'accettarsi, ma occorre pagare un prezzo elevato. Fare outing significa essere improvvisamente visibile, o perlomeno più di prima. Diventi così un facile bersaglio, non solo per criminali e omofobi, ma per la legge stessa. Fino agli anni Sessanta il comportamento omosessuale era illecito. A New York, la polizia tendeva trappole ai gay a Central Park e in altri luoghi della città. I poliziotti si atteggiavano a gay, indossavano t-shirt sportive e pantaloni kaki. Infilavano poi nelle tasche posteriori fazzoletti colorati, un codice utilizzato nella comunità per dire se eri attivo o passivo. «Ehi, cosa fai stasera?» chiedeva un poliziotto in incognito a quelli che riteneva gay. A chi rispondeva e si avvicinava, il poliziotto serrava le manette ai polsi e lo scaraventava dentro il cellulare per un giro in centro. Molti gay arrivavano alla stazione di polizia contusi e sanguinanti, magari con un paio di costole rotte, grazie alla «giustizia» che distribuiva punizioni per strada. Se gestivi un bar o un ristorante, eri soggetto a irruzioni periodiche. Secondo la polizia c'erano norme che proibivano alle persone dello stesso sesso di ballare insieme. Una volta che i poliziotti avevano fatto irruzione, chiedevano i documenti e ne trattenevano un bel po'. Infine, picchiavano le drag queen e quelli che giudicavano più effeminati, sbattendoli poi in cella per un paio di giorni, dove ne subivano di cotte e di crude dagli altri detenuti. Molti datori di lavoro non erano diversi. Se non lavoravi per un altro omosessuale, il tuo posto era a rischio dal momento in cui il tuo principale sospettava o scopriva che eri gay. Negli anni Cinquanta e Sessanta non c'erano leggi contro la discriminazione sul lavoro. Si poteva essere licenziati su due piedi solo sulla base di un sospetto. L'atteggiamento della polizia, dei giudici e dei datori di lavoro suonava come un tacito permesso a criminali e gang, che potevano esprimere l'omofobia nei modi più violenti possibili. I pestaggi erano all'ordine del giorno e passavano inosservati, e a stento li si considerava un reato. La cosa più spaventosa era che gli omosessuali venivano uccisi solo perché erano gay. Ogni gay ha una storia di violenza subita da raccontare, e io non sono da meno. Una volta stavo uscendo dal Lenny's Hideaway, un bar al Greenwich Village, insieme a un amico, e ci accorgemmo ben presto di essere seguiti da un malintenzionato. Ci spaventammo e affrettammo il passo. Tuttavia non ci mettemmo a correre; non volevamo fargli capire di avere paura, anche se in realtà ne avevamo, eccome. «Ehi finocchi, dove scappate?» chiese il tipo, balzando davanti a noi. «Finocchi, dove scappate?» ripeté, questa volta con un'espressione maliziosa. Non rispondemmo. «Quell'orologio è proprio bello, frocetto» mi disse. «Penso proprio che mi starebbe da dio.» Veloce come un fulmine, il ragazzo con cui ero fuggì via a gambe levate, da vero codardo, lasciandomi senza parole. Il ladruncolo e io lo guardammo scappare. Non sono mai stato uno sprinter, e temevo che se avessi cominciato a correre mi avrebbe facilmente agguantato, e a quel punto la situazione avrebbe preso una brutta piega. «Ecco, prendi il mio orologio e lasciami in pace, ok?» dissi. «Dammi anche il tuo portafogli, checca, o ti faccio a fettine» ribatté per tutta risposta, e tirò fuori un coltello dalla tasca. Gli tirai il portafogli in faccia e mi misi a correre a più non posso. Non mi girai a guardare dietro se non parecchi isolati dopo, quando mi ritrovai in un luogo ben illuminato, dove volendo potevo infilarmi in un negozio. Questa era la prassi: il gay non doveva reagire. Era una regola non scritta. Si porgeva l'altra guancia per ragioni pratiche. Da una parte noi tendiamo a essere non violenti, dall'altra, se venivamo coinvolti in una zuffa o accadeva di ferire o uccidere l'aggressore, nessun tribunale avrebbe giudicato quel comportamento come legittima difesa. Una cosa era venire aggrediti mentre stavi con qualcuno, un'altra se ti trovavi da solo. Una notte, al cinema Amsterdam sulla Quarantaduesima Strada, un giovane si sedette dietro di me, appoggiò i piedi sullo schienale della mia poltroncina e prese a spingermi sulle spalle e il collo. Mi girai e m'imbattei in due occhi scuri e feroci che mostravano chiaramente le loro pessime intenzioni. Mi alzai, lasciai il cinema, in strada camminai a passo svelto e mi rifugiai in un ristorante aperto tutta la notte. Finalmente in salvo, mi sedetti a un tavolo a riprendere fiato. «Un caffè, per favore» chiesi alla cameriera che si era materializzata all'improvviso di fianco a me. Ero chiaramente scosso. Il locale era semideserto e riuscivo a vedere la lunga fila di tavoli vuoti davanti a me. A un certo punto, sentii il trillo acuto del campanello della porta d'ingresso e un impermeabile lungo e scuro passò veloce sfiorandomi il braccio. L'impermeabile si sedette al tavolo di fronte. Ora, però, potevo vedere bene quell'uomo. Era bruno, carnagione scura, sui trent'anni, capelli neri tutti unti, barba anch'essa scura, corta e ispida, e due occhi aggressivi che guardavano diritto nei miei. Afferrò una catena d'argento che aveva al collo, ci giocò un po', poi la tirò verso l'alto come per strangolarsi. Qualcosa in quello sguardo mi lasciò intendere che era un avvertimento per me. I suoi occhi si posarono sul braccialetto d'argento che indossavo al polso destro. «Mi piace il tuo braccialetto, bocchinaro pezzo di merda» mi disse. «Dammelo o ti sfregio a tal punto che tu stesso stenterai a riconoscerti.» Tremavo come una foglia. Mi alzai e lasciai il ristorante alla svelta, ma lui mi seguì. Poi, in un attimo, mi braccò. «Dove credi di andare, maiale?» mi chiese. «Vivi qui vicino?» «No» risposi, «non voglio guai, okay?» «Ti ho visto al cinema un casino di volte» disse, «mentre te lo fai sbattere. Ma è niente in confronto a ciò che ti farò io.» Detto questo, tirò fuori tesserino e distintivo e me li schiaffò davanti agli occhi. Mi spinse con forza nel vicolo di fianco al ristorante, e una volta sbattutomi contro il muro, scese con la mano, mi afferrò i testicoli e iniziò a strizzarli. Terrorizzato oltre misura, lo colpii con tutte le mie forze in un occhio. Indietreggiò barcollando, tenendosi la faccia dolorante, e cadde in ginocchio. Corsi come mai in tutta la vita. Non mi fermai finché non raggiunsi un autobus che stava ripartendo proprio in quel momento. Saltai nel bus, cercai un po' di moneta in tasca e, grazie a dio, per una volta avevo i soldi contati! Lasciai che quel lento pachiderma mi portasse in salvo. Il più delle volte erano proprio i poliziotti i nostri peggiori nemici. O ci attaccavano o non ci proteggevano per nulla. Se un gay veniva picchiato in un bagno pubblico e andava a dirlo a un poliziotto, questi si metteva a ridere. «Hai avuto quello che ti meritavi, bel frocetto» ci sentivamo rispondere. I diritti dati per scontati dalla maggior parte degli americani diventavano aleatori nel momento in cui un poliziotto sospettava che fossi omosessuale. Ovviamente, i gay si ritrovavano in luoghi dove si sentivano sicuri e a loro agio, tipo: Fire Island, Riis Beach Number 1, Provincetown e Cape Cod. Anche qui, però, non sempre filava tutto liscio. Come si poteva sfuggire ai propri sentimenti autodistruttivi, quando la società ti disprezzava con tale veemenza? Tanti erano afflitti da un'omofobia interiorizzata. Questa fu la prima vera malattia che infestò la nostra comunità, e spianò la strada all'Hiv e all'Aids. Se credi che nessuno ti amerà, il sesso diventa una semplice esperienza fisica. Il godimento materiale ed emotivo che ne deriva, e quella liberazione di pura energia, procura una veloce fuga dalla prigione di solitudine e dal completo rifiuto da parte del mondo etero. L'essere desiderati, sia pure solo sessualmente, dà un significato alla tua vita. Diventa la ragione per cui continui a vivere. Il contatto sessuale, comunque lo si voglia definire, diventa l'antidoto all'isolamento esistenziale che penetra fin dentro le ossa e il sangue di tanti gay. Quando la società ti mette al bando per la tua sessualità, di riflesso essa diventa un gesto rivoluzionario e per molti un atto di ribellione. È il dito medio alzato, un dito nell'occhio di chi ti disprezza. Rivendica la differenza e afferma il diritto a vivere. È una serie di fotografie di Robert Mapplethorpe, esplicite e sbattute in faccia. È il potere inarrestabile che nasce dalla propria individualità. Date per scontate tutte quelle emozioni conflittuali intorno al sesso, la promiscuità omosessuale era non solo facilmente prevedibile ma di fatto garantita. Sembrava essere quasi il nostro unico diritto. Per molti, me incluso, il sesso promiscuo diventò uno stile di vita. Le saune accrebbero la loro popolarità alla fine degli anni Sessanta. Prima delle saune, si andava nei bar per il battuage, i club del sesso e altri luoghi dove ci si poteva incontrare per fare sesso anonimo. Tutto si svolgeva in segreto, o perlomeno di nascosto dalla gran parte della società etero. Eravamo una comunità a sé, un movimento clandestino che sfortunatamente doveva fare i conti con la rabbia, con un sentimento di profonda ingiustizia e un eterno ripudio di se stessi. Naturalmente, queste circostanze alla fine contribuirono a scatenare un'epidemia devastante. Cos'altro ci si poteva aspettare? Questa omosessualità ghettizzata ha infettato la maggior parte di gay e lesbiche che ho conosciuto nella mia vita. Non importava se eri ricco o talentuoso, in ogni caso non potevi sfuggire a una condanna che era riposta al centro della tua persona. Eri omosessuale, per cui non meritavi amore e non eri accettato. Una notte, feci un salto a un party in un grande appartamento dell'Upper East Side. Appena arrivato, notai un gruppo di uomini stretti in cerchio, tutti concentrati a osservare qualcosa al centro della stanza. Ridevano, si muovevano in maniera scomposta, applaudivano quello che accadeva lì in mezzo a loro. Quando alla fine riuscii a farmi spazio nella folla, vidi Rock Hudson steso sul pavimento a gambe all'aria, nudo e in stato di semincoscienza. Wow! Eccolo lì, Rock Hudson, un mito di Hollywood, sdraiato sul parquet, oggetto di scherno. Le sue bellissime fattezze erano deturpate dal troppo alcol e droghe. Era il ritratto della vulnerabilità: la sua bocca socchiusa in una smorfia, i capelli bagnati e tirati da un lato. Giaceva supino, esposto al pubblico ludibrio. Cinque o sei ragazzi si erano messi in fila e facevano a turno per saltargli addosso e scoparselo. E giù applausi e fischi di disapprovazione. Hudson era ridotto a un pezzo di carne, a qualcosa che la gente poteva usare per poi vantarsene nelle occasioni in cui si vuole esaltare il proprio ego. Mi girai dall'altra parte e me ne andai. Non era il sesso che mi infastidiva, bensì l'assoluta disumanizzazione di quell'uomo che forse, per un momento, aveva creduto di poter essere se stesso senza paura. L'eccesso era il leitmotiv di quell'epoca, ma era anche un comportamento indispensabile per passare indenne attraverso la vita, soprattutto se eri omosessuale. Eravamo soliti dire: «È meglio vivere chimicamente!». Alcol e droghe rendevano più sopportabile il dover nascondersi e mentire riguardo alla propria identità sessuale. Per questo eravamo tutti dei Rock Hudson, archetipo dell'uomo gay per trent'anni, che visse la grande bugia su scala planetaria: di giorno attore donnaiolo e osannato dalle folle dietro cui si celava, di notte un omosessuale e, soprattutto, un uomo terrorizzato. E come noi, aveva bisogno di tutte le droghe e gli alcolici che riuscisse a ingurgitare per sfuggire alle sue identità inconciliabili, in guerra aperta dentro di lui. Alla fine morì di quel male tipico dei gay, che io chiamo autorigetto, altri invece Aids. I gay avevano qualcosa in comune con i neri, pensavo. Entrambi, giustamente, credevamo che buona parte dei nostri problemi scaturisse dalla paura e dall'odio della società nei nostri confronti. Almeno questa è la spiegazione che davo ai miei problemi, escluso quelli per cui incolpai la mia infanzia tribolata e la pazzia dei miei genitori. Sicuramente questo è il processo che mi permise di capire la spirale autodistruttiva che stava consumando due dei più grandi artisti che avessi mai conosciuto, Tennessee Williams e Truman Capote. Quando mi trasferii al centro di Manhattan, scoprii di abitare nello stesso palazzo di Tennessee, l'autore di grandi classici come Un tram che si chiama desiderio, Lo zoo di vetro e La gatta sul tetto che scotta. Feci appena in tempo a conoscerlo. Passavamo parecchie ore a commiserarci nella piscina del nostro stabile. Tennessee era un vero bevitore e dedito a pasticche di tutti i generi, specialmente dopo aver perso il suo partner di sempre, Frank Merlo, morto all'inizio degli anni Sessanta. Anche sotto l'effetto di alcol e droghe, Tennessee era un grande autore e mi piaceva ascoltarlo con attenzione. Un giorno lo incrociai mentre passeggiava con Truman Capote, sulla Terza Strada. Ero un suo ammiratore, adoravo il suo modo di scrivere e la grande personalità. Capote aveva già scritto A sangue freddo ed era una celebrità internazionale. Sapeva affascinare al primo approccio, ed era incredibilmente brillante e provocatorio. Subito dopo i convenevoli, Truman mi chiese: «Ho sempre avuto un debole per giovani alti e di bella presenza. Sei sposato?». «No» gli risposi con un sorriso. «Oh Dio mio, non mi capita spesso di incontrare delle vergini» continuò ridacchiando. Scoprii poi che ridacchiava spesso. Truman era una specie di canarino Titti strafatto di cocaina; un vecchio satiro e un affascinante cherubino ben miscelati nel corpo di un ragazzo. Fu un colpo di fulmine. Tennessee propose di infilarci in un bar a fare due chiacchiere. Bevemmo e parlammo di teatro, libri e della mia «verginità». Ero entusiasta del fatto che mi stavo ubriacando in compagnia di due giganti della letteratura. Evitai di dire che ero un inguardabile ciccione diplomato alla Yeshiva di Bensonhurst. Grazie a dio, l'argomento non saltò mai fuori. Alcune settimane dopo, Tennessee e Truman bussarono alla mia porta. Li feci entrare e capii immediatamente che i due erano fatti, o meglio strafatti. Erano entrambi storditi e a malapena si reggevano in piedi. Tennessee mi passò una pasticca: «Ecco, prendi una di queste, e non chiamarmi la mattina» farfugliò. Ben presto nessuno di noi avvertiva più alcun dolore. Avevo confessato a entrambi la mia inclinazione verso il cuoio e il sadomaso, e Truman mi volle vedere vestito da poliziotto. «Voglio vedere le manette» continuava a ripetere con tono fanciullesco e quell'inimitabile piagnucolio acuto, «fammi vedere le manette!» Mi vestii da poliziotto e sfilai per loro. «Stai sbavando, Tru» disse Tennessee «forse se oggi avessi fatto un pompino a un poliziotto, non ti sentiresti così depresso.» Quindi spinse Truman verso di me, che cadde proprio alle mie ginocchia, mi slacciò i pantaloni e fece quello che gli era stato suggerito. Infine collassò al pavimento, svenuto. Poco dopo anche io e Tennessee ci accasciammo e ci addormentammo sul pavimento. Appena svegli, bevemmo della Pepsi, che a Truman e Tennessee servì per ingurgitare altre pasticche. Li pregai di non farlo, sapevo che era il momento di smettere, ma quel continuo assumere droghe serviva loro per fuggire la depressione. Vidi Tennessee in piscina un paio di settimane dopo, e mi sedetti al suo fianco. Sembrava abbattuto e gli chiesi cosa lo preoccupasse. «Sto lavorando a una commedia ma non mi convince, anzi la odio. Sono sicuro che i critici la massacreranno. L'ho scritta e riscritta più volte. Vuoi qualcosa da bere?» mi passò un thermos pieno di caffè e brandy. «Come sta Tru?» chiesi. «Quando è andato via da casa mia riusciva a malapena a reggersi in piedi…» «Di cosa stai parlando?» mi domandò Tennessee. «Come mai Tru era nel tuo appartamento?» Durante quella conversazione mi resi conto che non ricordava assolutamente nulla di ciò che era successo appena due settimane prima. Non vidi più Truman Capote e poco dopo Tennessee si trasferì. Alcuni anni dopo lo incontrai al Teatro Goodman di Chicago, dove portavano in scena la sua penultima opera teatrale. Mi parve fatto, solo e depresso. Era come un frutto che marciva dall'interno. Pensai che non sarebbe durato a lungo: infatti, andò così. A quel tempo, conoscevo poco della vita dei due scrittori, dettagli che invece oggi sono di dominio pubblico grazie a numerosi film e biografie. Per quel che mi riguarda, tuttavia, Tennessee e Truman soffrivano della stessa malattia che stava distruggendo la mia vita; ne sono convinto. Essere gay voleva dire che in una remota zona del tuo io, in un anfratto dell'anima, che riconosci come il più vero e vulnerabile, provavi l'innata sensazione di commettere un crimine. In quel particolare periodo storico, la maggior parte dei gay conduceva una vita tragica, anche quelli dotati di grande talento. Nonostante ci fossero cause diverse e indipendenti dall'essere gay, molti non riuscivano a trovare un lenitivo al loro malessere né tantomeno una redenzione in un rapporto stabile. Le alternative, la promiscuità, l'odio verso se stessi, l'alcol e le droghe, mentre da una parte offrivano una fuga momentanea, dall'altra portavano in modo inevitabile all'autodistruzione. Così accadde a Tennessee Williams e Truman Capote. Non tutti erano promiscui o tormentati. Molte lesbiche e gay, al contrario, hanno mantenuto relazioni stabili per tutta la vita, colme d'impegno e amore. Riuscivano a superare l'omofobia e trovare amore, amore per se stessi e per un'altra persona. Per quanto, però, queste relazioni fossero belle e piene di passione, andavano tenute segrete, in ogni caso. In più, quando uno dei due partner si ammalava o moriva, l'altro non aveva alcun diritto legale né beneficio assicurativo. Nessun amore tra due omosessuali si poteva considerare puro. Eravamo odiati solo perché attratti da qualcuno del nostro stesso sesso. Ci consideravano senza valore se non pericolosi. Troppi, me incluso, accettavano il verdetto secondo cui eravamo subumani, indegni perfino di esistere sulla faccia della terra. Così stavano le cose, almeno fino a quel venerdì notte del giugno 1969.

A prima vista era una delle solite notti di festa allo Stonewall. La gente si stava divertendo quando all'una e venti il barista saltò sul bancone e urlò: «Ehi, sta arrivando la polizia! Presto, abbracciate tutti la prima ragazza che vi capita a tiro e ballate! Vietato ballare con qualcuno dello stesso sesso. Ripeto, non dello stesso sesso!». Quindi i baristi afferrarono le casse con il contante e fuggirono da una porta posteriore. Ricordo ancora il rumore di una bottiglia di birra che si rompeva in mille pezzi sul pavimento in un angolo del bar. Dopodiché, qualcuno, nel pieno di quel manicomio crescente, gridò: «Non permettiamo più a quei maiali di tormentarci! Non facciamoli entrare nel bar! Vaffanculo, è ora di reagire!». Ero scioccato. Non era mai successo prima. Avevamo fatto il callo a queste irruzioni, sapevamo il da farsi e reagire non era contemplato. Ora, d'improvviso, c'era nell'aria il profumo della rivoluzione. Il locale era tutto in fibrillazione, e le polveri della mia rabbia cominciavano a prendere fuoco. Corsi verso la porta anteriore insieme ad altri due e abbassammo le pesanti barre che servivano a bloccare le porte dall'interno. Un gruppo spinse il jukebox verso l'entrata per impedire l'irruzione. Immediatamente, altri li seguirono ammucchiando tavoli e sedie. I poliziotti erano fuori, con lampeggianti e megafoni. Sbattevano contro le porte e minacciavano di arrestarci se non avessimo aperto. Qualcuno urlò: «Siamo più di loro! Meniamoli fino a fargli cacare sangue!». Va messo a verbale che quella era la prima volta che sentivo una cosa del genere. Finalmente sfidavamo la polizia. La collera mi sgorgava da dentro, una collera immensa cresciuta e maturata nel corso degli anni. Chissà come, mi misi a urlare anch'io: «Usciamo e ribaltiamogli quelle auto del cazzo!». Tutti iniziarono a gridare a pieni polmoni. Abbattemmo le barricate, spalancammo le porte e scendemmo tutti per Christopher Street. Solo allora ci rendemmo conto che ad aspettarci c'erano soltanto un paio di volanti e sì e no quattro o cinque poliziotti. Una volta lì, un gruppo si prese per mano e cominciò a scandire: «Gay power! Gay power!». In un primo momento non ci fu nessun accenno di violenza. Poi, però, uno sbirro afferrò una lesbica alquanto mascolina e la trascinò verso l'auto. Lei resisté coraggiosamente all'arresto urlando: «Gay power! Gay power!». Esplose l'inferno. Tutti cominciarono a gridare contro gli sbirri. Ci sparpagliammo e un gruppo circondò una delle volanti, la fece oscillare avanti e indietro, e la ribaltò su un lato. Il brivido di gioia che accompagnò quell'atto di ribellione mi diede un senso di potere mai sperimentato prima. Quelli intorno a me provarono la stessa emozione. Eravamo esaltati da quella prova di forza e pronti a combattere. Gli sbirri erano diventati nervosi. Chiedevano rinforzi e ben presto arrivarono altre pattuglie, a luci accese e sirene spiegate. Noi, i sediziosi, prendemmo le sedie da dentro lo Stonewall e le lanciammo contro gli sbirri. Altri tiravano bottiglie, sassi e bastoni che avevano raccolto al parco Sheridan, che si trova dall'altro lato del bar. Altri ancora buttavano semplicemente monetine. Gli sbirri picchiavano la gente con i manganelli o la gettavano dentro i cellulari e le volanti. Come dal nulla, si materializzarono un paio di centinaia di persone. Erano lesbiche e gay pronti a lottare contro la polizia. Parecchi saltarono sui tetti e sui cofani delle auto e si misero a scandire ad alta voce il nome del sindaco, invitandolo a intervenire subito prima che le cose precipitassero. Eravamo pronti a conquistare il Greenwich Village. Saltai giù da un'auto della polizia e anch'io gridai a gran voce: «Gay power!». Un senso di esaltazione mi pervadeva fin dentro al cuore. Per la prima volta in vita mia ero fiero di essere gay. Ero circondato da fratelli e sorelle. Eravamo tutti uniti, mano nella mano, e tutti urlavamo contro gli sbirri e lanciavamo pietre, sedie, bottiglie e bastoni. Ci trovavamo in vantaggio; eravamo in tanti e con il morale alle stelle. Riprendemmo a chiedere a gran voce che il sindaco si presentasse davanti a noi. «Gay power! Gay power!» urlavano tutti. Sopraggiunsero altri sbirri. Saltarono fuori dalle auto e circondarono il parco. Un amico mi afferrò e mi trascinò in una stradina laterale, fuori dalla mischia. Incespicando in quel vicolo buio mentre i rumori della rivolta si attutivano alle mie spalle, mi sentii di colpo esausto, preoccupato, non riuscivo a riprendere fiato. Il cuore mi batteva all'impazzata. Cercai di ricompormi mentre mi allontanavo dal campo di battaglia, e mi resi contro di essere in salvo. Il mio respiro era ancora affannoso e il cuore mi batteva forte, ma era tutto sotto controllo. Sentii una felicità indescrivibile salirmi da dentro ed esplodere in una grande risata di soddisfazione. Il mio amico e io iniziammo a darci pacche sulle spalle camminando per strada. Ero fiero di me e di quello che avevo fatto, e quella sensazione si impadronì di tutto me stesso. Ero un combattente per la libertà. Quella notte divenuta famosa come la Rivolta di Stonewall, diede vita al Movimento di liberazione gay. Cambiò il Paese e buona parte del mondo. Per altre tre notti, uomini e donne continuarono a protestare davanti allo Stonewall Inn. Molti si presentarono travestiti per dare risalto alla propria omosessualità ma, al contrario di quanto affermano resoconti più recenti, non c'era nessuna drag queen in quella prima notte, nella quale uomini e donne gay pensavano agli affari propri e volevano divertirsi, finché qualcuno tentò di vietarglielo. Nelle settimane successive, New York si trasformò. Lesbiche e gay si riappropriarono delle loro voci e potere, ed erano pronti a organizzarsi. Il Gay Liberation Front, il Gay Activists Alliance, e alla fine anche la Human Rights Campaign erano una realtà. Queste organizzazioni iniziarono da subito a indagare sugli abusi quotidiani della polizia nei confronti degli omosessuali e delle loro attività. Ben presto, portarono alla luce il profondo pregiudizio e la brutalità delle forze dell'ordine. La questura faceva irruzioni periodiche nei bar che vendevano alcol ai gay sebbene non ci fossero specifici divieti. Facevano chiudere quei locali dove si permetteva a gente dello stesso sesso di baciarsi, di tenersi per mano o travestirsi. Persone dello stesso sesso non potevano ballare in pubblico, secondo la polizia, e i bar che lo consentivano subivano continui raid. Erano solo una parte di quelle regole non scritte ma comunemente accettate che consentivano alle forze dell'ordine di privare gay e lesbiche dei loro diritti, chiudendo i locali che frequentavano. Benché conoscessimo già questa realtà, provammo ugualmente rabbia e dolore quando resero pubblici quei soprusi. Ci chiedemmo come avevamo fatto ad accettare una situazione del genere tanto a lungo. A che cosa stavamo pensando? Una trasformazione simile ebbe luogo in tutto il Paese e nel mondo intero. Il Gay Liberation Front fece pressione sui legislatori federali e sul Congresso nazionale per garantire una protezione legale nei confronti della comunità gay. Organizzazioni simili fiorirono in Canada, Inghilterra, Francia, Germania, Belgio, Olanda, Australia e Nuova Zelanda. Quel 28 giugno 1969 cambiò il mondo, me compreso. Improvvisamente, tutta la rabbia che avevo sempre rivolto contro me stesso si concentrava adesso verso l'esterno per una giusta causa. Qualcosa era cambiato. Non capivo ancora cosa fosse ma sapevo che in me c'era qualcosa di nuovo. Sentivo una forza sconosciuta, capace di cambiarmi la vita. 6 La gallina dalle uova d'oro atterra a El Monaco

Il 15 luglio 1969, poco dopo mezzogiorno, mi precipitai fuori dall'ufficio del motel verso il cortile anteriore. Disposi sul manto erboso una serie di lenzuoli bianchi fino a formare una croce sotto lo sguardo spaventato di mamma, convinta che fossi preda di una crisi religiosa. Si portò le mani in volto e gridò: «Sta disegnando una croce sul mio prato? Oy gettenu! (Oddio) e sta usando le lenzuola buone! Le mie lenzuola pulite!». Scrutai l'orizzonte in attesa, quasi senza respirare. Il cielo era azzurro e il sole splendeva alto, gli auspici erano dei migliori. Gli Earthlight Players, la troupe che avevo portato a El Monaco, cantavano e ballavano alle mie spalle, osannando quello che ritenevano essere la risposta alle loro preghiere. Con grande orrore di mia madre, si erano svestiti e si erano dipinti il corpo con i rossetti e il fango, rapiti da una sorta di atavico impulso. Per quanto mi riguardava, il mondo si era fermato; era tutto calmo nonostante il caos che mi circondava. Ecco! Eccolo lì! Dissi a me stesso. Un puntino era apparso all'orizzonte e si ingrandiva pian piano. Infine, a conferma, sentii il morbido whump, whump, whump delle pale dell'elicottero. All'inizio il rumore era così debole da non poterlo distinguere dal battito del mio cuore. Ora però potevo vedere chiaramente la sagoma dell'elicottero e sentirne il rumore. Era come se fosse arrivata la cavalleria a salvarmi. Portami soldi, cavalleria, portami un mucchio di soldi! In pochi minuti, il grande velivolo bianco e argento, si stava già librando sopra la mia testa, spazzando via i lenzuoli e qualsiasi cosa si trovasse a terra. Potevo sentire i colpi di vento provocati dalle pale, e persino le urla di mia madre venivano sommerse dal tumultuoso battito d'ali di quella bestia. Anche gli attori dell'Earthlight si dispersero al vento. Indietreggiai un po' e osservai, come in un sogno, l'elicottero scendere dal cielo e atterrare dolcemente davanti al nostro ufficio. Si aprì il portellone e saltò fuori dalla cabina un ragazzo con i capelli castani, lunghi e ricci. Indossava un panciotto, senza maglietta, i jeans e delle infradito. «Sei tu Elli? Mike Lang! È un piacere incontrarti di nuovo, amico mio» disse con un largo sorriso. Allungò la mano per afferrare la mia e continuò: «Ne è passato di tempo». Ero così intontito che sul momento non seppi cosa rispondere.

Quella mattina, avevo letto un articolo sul giornale locale, il «Times Herald-Record», in cui si parlava della brava gente di Wallkill, una comunità a settanta chilometri a sud, che aveva deciso di cancellare il Festival di musica e arte di Woodstock. Il consiglio cittadino ne aveva revocato l'autorizzazione, perché temeva che la forte affluenza di pubblico avrebbe potuto recare danni all'ambiente. Il produttore del festival, , aveva previsto la partecipazione di almeno cinquantamila persone. I bravi padri di famiglia di Wallkill si erano lasciati prendere dal panico, immaginando cinquantamila hippy e circa altrettanti spacciatori calare sulla loro città. Non si fa, fu il verdetto finale. Il «Times Herald» aveva scritto che gli organizzatori del concerto avevano già investito due milioni di dollari nelle strutture di scena, l'impianto audio, l'approvvigionamento d'acqua e i bagni pubblici. Si diceva che ci fossero centinaia di camion e roulotte, pieni di rifornimenti e apparecchiature, in marcia verso Wallkill. Centinaia di tecnici erano in stand by. Se gli organizzatori non avessero trovato un adeguata alternativa nelle successive ventiquattr'ore, avrebbero dovuto cancellare il festival, e avevano manifestato l'intenzione di fare causa per i danni subiti. Conoscevo bene la storia di quel concerto; se ne era fatto un gran discutere sui giornali locali per mesi. In quel periodo, avevo combattuto i demoni che mi assalivano soprattutto la notte. Allora ne avevo di tempo per meditare su come l'universo, ancora una volta, avesse cospirato contro di me per tenere a una settantina di chilometri la soluzione a tutti i miei problemi finanziari. Ero assai turbato, come si può ben immaginare, tanto da chiedermi se per caso il mio ateismo mi si stesse ritorcendo contro. Forse c'era davvero un Dio e forse lui e Mosè se la ridevano da matti mentre mi tenevano sulla graticola. «Alza il piede, Mosè. Trasformiamo questa pagnottella tonda in una sfoglia di pane azzimo.» All'improvviso però, la ruota della fortuna stava per girare, o almeno così sembrava. Il Festival di musica e arte di Woodstock aveva bisogno di un'autorizzazione e di un nuovo spazio. Io ho il permesso, dissi fra me e me, e posso procurare una nuova location. La mente prese a danzare immersa in fantasie di solito riservate a giochetti sessuali e serate romantiche al Moulin Rouge o in qualche club sadomaso di New York. L'Occasione in persona stava bussando alla mia porta. Dio mio! Possiamo ospitare questo bailamme! Ero seduto nel nostro ufficio con alcuni membri degli Earthlight, e appena finito di leggere l'articolo afferrai il telefono e chiamai Michael Lang. «Conosce Michael?» chiese una voce all'altro capo della linea. «No, non lo conosco, e lui non conosce me» risposi, «sono il presidente della Camera di commercio di Bethel e il proprietario del motel El Monaco a White Lake. Ho una licenza per tenere un festival di musica e arte, e pure gli otto ettari di terra di cui Woodstock ha bisogno subito. Anzi, prima di subito.» All'altro capo non fiatarono e in quel momento mi resi conto che gli attori intorno a me tremavano. Mike Lang rispose al telefono dopo pochi minuti. «Dove cazzo ti trovi, baby? Come ti raggiungo?» disse. «Sulla statale 17B. A White Lake. Sono a circa settanta chilometri a nord da dove ti trovi tu.» «Ce l'hai un cazzo di giardino?» mi chiese. «Sì, abbiamo un giardino. Un grande giardino.» «Lenzuoli bianchi?» «Cosa? Certo che sì. Questo è un motel.» «Perfetto, allora stendi quegli schifosi lenzuoli sull'erba e forma una croce, baby, e sarò lì in quindici minuti. Sto dando un'occhiata alla mappa proprio ora. Hai un punto di riferimento da darmi? Un segno? Qualcosa che possiamo identificare dal cielo?» Borbottai qualcosa circa l'insegna di El Monaco, l'incrocio con la statale 55 e lo Yenta's Pancake House. «Stiamo arrivando, baby» disse Mike Lang, e riattaccò. Avevo sperato per anni che accadesse qualcosa di grande e ora me la stavo facendo sotto. Riattaccai e scoppiò uno scroscio entusiastico di applausi degli Earthlight Players, che avevano ascoltato tutta la conversazione; si sarebbe trovato un buco anche per un gruppo di attori all'interno di un grande concerto a White Lake. Poi presero a saltare su e giù intorno a me. Uno disse: «Sapevamo che ce l'avresti fatta, Elliot. Tu sei l'uomo giusto!». Quindi corsero tutti fuori nel cortile e danzarono per celebrare l'evento e fecero l'unica cosa che potevano fare per dare il benvenuto a Mike Lang: spogliarsi e mettersi a danzare in costume adamitico. Mentre ballavano, si passavano rossetti e manciate di fango per disegnarsi il simbolo della pace e scriversi parole d'amore sui corpi. Mi disinteressai di quella sarabanda e recuperai qualche lenzuolo dall'armadio dell'ufficio, poi corsi verso il giardino per stenderli a croce come mi avevano richiesto. Mentre l'elicottero si librava sopra di noi, sparpagliando tutti i lenzuoli, mi balenò in mente che un'entrata in scena del genere era degna di un eroe mitologico. Le persone normali non prendono un elicottero per spostarsi a poche decine di chilometri a nord di New York. No, lo stesso Omero non avrebbe potuto evocare qualcosa di più magnifico, o di più appropriato per l'uomo che era sceso dalla cabina e ora si incamminava verso di me. Dietro Mike camminava una donna giovane e minuta, Penny, che mi venne presentata poco dopo, l'assistente personale di Lang. Tra le braccia di Penny era accoccolato un piccolo Yorkshire che sembrava a suo agio in tutta quella confusione. Vicino a lei c'erano due hippy che non si preoccuparono neanche di presentarsi. I tre si avvicinarono mentre Lang mi porgeva la mano. Dopo quel saluto iniziale, Mike mi disse: «Non ti ricordi di me, Elli?». Sussultai un attimo perché solo in famiglia mi chiamavano con quel nome. «Ci conosciamo?» «Bensonhurst! Settantatreesima Strada» disse Lang. «Siamo cresciuti insieme. Vivevo di fronte a te! Giocavamo insieme a baseball. Io sono Mike Lang e tu sei Elli Teichberg» ripeté. Chi più tardi descrisse Mike Lang come un folletto cosmico non si sbagliava di molto. I capelli ricci che gli scendevano fino alle spalle incorniciavano due occhi grandi, rotondi e luminosi. Le guance, anch'esse rotonde, avevano una fossetta nel mezzo, e la bocca grande rivolta verso l'alto era aperta in un sorriso, come fosse eternamente felice. Mike aveva sempre un'aria a metà strada tra il divertito e il serioso. Di primo acchito sembrava il classico hippy, ma nonostante tutto non potevo negargli una certa serietà; era un uomo in gamba al di là delle apparenze. Giuro su dio di non ricordarmi di aver mai giocato a baseball con qualcuno che si chiamasse Mike Lang. Ma ancora più misterioso mi sembrava il fatto che avesse connesso Elliot Tiber, visto che mi ero presentato così, a Eliyahu Teichberg di Bensonhurst, soprattutto perché non avevo menzionato né Teichberg né Bensonhurst. Come aveva fatto? Andammo verso il bar, con gli Earthlight Players che continuavano a ballare intorno a noi. Lang mi chiese subito di vedere le autorizzazioni e io gliele mostrai. Si attestava che la Camera di commercio di Bethel garantiva a Elliot Tiber, del motel El Monaco, il permesso di tenere un festival di musica e arte a White Lake per l'anno 1969. Aggiunsi che ero il presidente della Camera di commercio e che ero felice di assicurargli la cooperazione di tutte le attività locali per cui non si sarebbe ripetuto il disastro di Wallkill. «Il permesso sembra in regola» disse Lang, «vediamo il posto.» Appena lasciato il bar, tre limousine arrivarono cariche di altro popolo woodstockiano, incluso Stan Goldstein, il responsabile della sicurezza per il concerto. Goldstein era uno serio, alto e magro, capelli scuri, pelle scura e sguardo scettico. Non sorrise stringendomi la mano. Accompagnai Lang e tutto il resto del gruppo attraverso gli otto ettari e mezzo di acquitrini, passando davanti al teatro, la Stalla estiva di White Lake, al pozzo nero, e a un manipolo di Earthlight Players nudi, ancora danzanti intorno all'elicottero. Mamma tentò disperatamente di rivestirli, ma loro rifiutarono con decisione i suoi shmattas, i suoi stracci per cui, senza battere ciglio, mammina pensò bene di affittare delle sedie ai passanti che si erano fermati a osservare quella confusione e quei ballerini pazzi. «È una anteprima della loro esibizione di danza» ripeteva mia madre agli spettatori, «che ti credi, mio caro, che ballino gratis?» Il terreno era zuppo d'acqua. Passammo davanti ad alcuni cartelli che avevo affisso per tutta l'area del motel. Oltrepassammo l'«Ala di Jerry Lewis» e quindi l'«Ala presidenziale, già ala Moulin Rouge.» Tutti osservarono quei cartelli ma non dissero nulla. Nonostante il cielo si fosse annuvolato e l'aria rinfrescata, continuavo a sudare copiosamente. Lang aveva smesso di sorridere, cosa che interpretai come cattivo presagio. Neppure Goldstein sembrava molto soddisfatto. Superammo i bungalow cadenti e ci inoltrammo nella palude vera e propria. Apparve un altro cartello: «Piscina Blue Suede Shoes di Elvis Presley e Cabana Club. Solo per gli ospiti del motel. I trasgressori saranno imprigionati a vita a meno che non paghino cinque dollari a Sonia, la bagnina». Non mi azzardai a guardarli in faccia. Senza dubbio dovevano pensare che ero pazzo fottuto. A dire il vero, non è che si sbagliassero di molto. Loro erano disperati, io altrettanto. Questo era un matrimonio riparatore. «C'è uno spazio abbastanza ampio?» chiese beatamente Lang. «C'è una specie di radura proprio qui davanti» spiegai tentando di rimanere imperturbabile. Tutti quelli dell'entourage di Woodstock mi seguivano con un'espressione che tradiva sempre più delusione. Stavano sicuramente pensando che dovevo essere il classico mariuolo della Florida deciso a vendere un pezzo di terra alluvionata. Alcuni iniziarono a bisbigliare tra loro. Persino il cagnolino sembrava sospettoso. Camminammo davanti ad altri cartelli, compreso il «Banco informativo di cultura internazionale», e ad alcuni fabbricati. Videro l'«Hollywood Palm Plaza», la struttura fatiscente dove alloggiava la troupe teatrale. Così, mentre passeggiavamo, mi convinsi che quei bungalow in disfacimento, quella palude melmosa e quegli stupidi cartelli avrebbero segnato la fine dell'accordo. Se così fosse stato, avrei appiccato subito il fuoco all'intero complesso e mi sarei vantato della nomea di piromane. Eravamo finalmente a pochi metri dal luogo. Provai sollievo per essermi liberato del cartello sulle orge giusto in tempo. Sarebbe stato letteralmente impossibile spiegare a degli sconosciuti, i miei virtuali salvatori, l'uso della mia cartelloterapia come sistema per restare vivo in attesa del giorno del riscatto; il giorno in cui i miei eroi, come in un sogno, sarebbero apparsi all'improvviso dal cielo. Non mi addentravo fino a quel punto della proprietà da mesi, per cui io stesso rimasi scioccato dalla grande insegna che dondolava come un'amaca tra due finte palme che avevo rubato ai grandi magazzini Lord & Taylor. L'insegna diceva: «Di prossima costruzione: Convention Center di duecento piani, con casinò, stazione termale, e garage con duemila posti auto». La mia fragile personalità era stata messa a nudo di fronte a tutti loro. L'unica cosa che potevo fare era camminare fingendo di essere invisibile. Arrivare in fondo a quell'acquitrino mi sembrò un tempo infinito. Un po' tutti cercammo di rimanere in equilibrio mentre i piedi affondavano nella terra molle e fangosa, che poi era in effetti il vero suolo di fondazione del motel El Monaco. Lang si voltò verso Goldstein e disse: «Riusciamo a far arrivare qui una decina di bulldozer per spianare tutto? Lui ha il permesso! E lui è il proprietario del terreno. È anche il presidente della Camera di commercio!». Goldstein bocciò l'idea all'istante. Drenare tutto era impossibile, non c'era abbastanza tempo. Sentivo bisbigliare dietro di noi, e il tono che percepivo non prometteva niente di buono. Vedevo crollare ogni fantasia davanti agli occhi. Sapevo che era la mia ultima occasione di salvare il motel e me stesso da una dannazione eterna a White Lake. Ero in preda al panico e cosi proposi dei piani alternativi che spaziavano dall'ancorare un intero stadio a dei tiranti fino a riempire l'intera proprietà di El Monaco con cemento a presa rapida per solidificarlo in tempo per il concerto. Forse oltrepassai la tenue linea che separa normalità e pazzia quando proposi loro di spedire nell'oblio quel posto di merda con una bomba atomica, per poi tenere il concerto sopra le sue ceneri. Improvvisamente, però, ebbi un'illuminazione: la fattoria di Max Yasgur! «Ehi Mike, c'è un vicino che ha un casino di spazio. La fattoria è grandissima, circa cinquanta ettari.» «Dov'è? Chi è?» chiese. «È proprio sulla strada» risposi, «è quello che mi vende latte e formaggio. Si chiama Max Yasgur. Ha la miglior ricotta e il latte più fresco di tutta la contea. Una persona fantastica. Forse potrebbe affittarti la fattoria; ha un sacco di mucche che pascolano là e basta. Ce n'è di spazio per un concerto. In più il terreno è leggermente inclinato e forma una specie di anfiteatro naturale. Adesso lo chiamo.» Tornammo verso il bar dove avrei potuto telefonare. Lang e Goldstein erano rimasti impassibili e cercai di darmi un contegno anch'io, ma di colpo lasciai perdere questa messinscena e feci uno sprint da medaglia d'oro attraverso l'acquitrino, oltrepassai i teatranti, il pozzo nero e andai dritto al primo telefono funzionante. Mentre componevo il numero, mi ricordai quanto piacesse a Max il mio festival musicale e quanto avesse fatto per aiutarmi a organizzarlo. «Se potessimo fare il nostro festival nella tua fattoria, Max, salverei il motel dalla bancarotta, e i miei genitori dall'andare a fare gli sguatteri da qualche parte a Miami Beach. Potrei perfino triplicare gli ordini di latte e panna acida. Dimmi che ci stai, Max, ti prego.» «Certo, Elliot» rispose Max, «agosto è un mese così tranquillo. Poi lo sai che mi piace la musica. Porta i tuoi amici qui così ne parliamo.» Entrai nella Buick, Mike Lang e i suoi accompagnatori nelle limousine. Mi seguirono fino alla fattoria di Max, Mentre guidavamo, il cielo diventò di nuovo blu. Mike Lang, Goldstein e tutto lo staff impazzirono quando videro l'immensa distesa della fattoria di Max, con le sue collinette e l'anfiteatro naturale. Il posto era incantevole e, senza dubbio, perfetto per il concerto. Li condussi nel piccolo negozio di fianco all'edificio della fattoria, e li presentai. «Max, questi signori hanno bisogno di un pezzo di terra per un festival di tre giorni. Dobbiamo cominciare domani mattina perché il tutto si terrà il 15, 16 e 17 agosto, perciò c'è tanto da fare in davvero poco tempo. Okay?» Max aveva quarantanove anni ma sembrava più vecchio. Aveva una testa ovale con pochi capelli in punta, e occhiali spessi con una massiccia montatura nera. Gli occhi erano piccoli, e il naso sembrava quello di Jimmy Durante, la bocca era ampia e le orecchie leggermente a sventola. La sua pelle era bruciata dagli anni passati nei campi sotto il sole e il fisico era forte, forgiato dal duro lavoro. Al primo approccio si notava subito la sua gentilezza e intelligenza. A tutti gli effetti, Max era un mensch, una brava persona, e lo dimostrava, ma non era un fesso. «Pensa, Max, potresti vendere latte e formaggio a diecimila amanti della musica!» insistei. Max fece un cenno d'assenso e sorrise, forse più per i miei tentativi disperati di influenzarlo che per il pensiero del guadagno che si prospettava. In quel momento, mi girai e osservai Lang, il cui sorriso era ormai radioso. Mi sciolsi. Non sarei riuscito a rimanere in piedi senza l'aiuto di un budino al cioccolato o latte e cioccolato, magari quello di Yasgur. Cercai di rimanere calmo. Sembravo calmo. Sembravo un hippy. Okay, non sembravo proprio un hippy. Lang, con la sua enorme cresta di ricci castani, lo era abbastanza per tutti noi. Decidemmo di pranzare in un ristorante italiano, il DeLeo, a due passi da El Monaco, per discutere i dettagli. Mi era rimasto quel tanto di buon senso da non servirgli lo stufato di mamma su piatti di carta rimediati a qualche svendita fallimentare. Inoltre pensai che quello non era certo il momento più opportuno per vantarmi delle attrezzature alberghiere e del personale del mio motel. Sulla strada per il ristorante, presi in considerazione le mie alternative in caso di fallito accordo. In primis, l'hotel doveva bruciare, e questa era un dato di fatto. Potevo quindi fuggire in Messico, o diventare un gigolò a Bangkok, o intraprendere una nuova vita come beduino tra le dune del Sahara. Pensai anche di punire Dio e tutta la razza giudea, coinvolgendo i miei tallit e tefillin, lo scialle da preghiera e i contenitori di pelle con brani delle sacre scritture, in qualche perverso atto sessuale su cui stavo ancora ragionando. Pregai il Dio in cui non credo: Andiamo, non abbandonarmi proprio ora. Quella preghiera fu seguita da minacce di sacrilegi persino peggiori, che dovevo ancora delineare. Arrivati al ristorante, Max celebrò le mie iniziative a White Lake, inclusi i festival musicali, di pittura, le stagioni teatrali e i concerti di musica classica. Questi ultimi realizzati sempre grazie al mio giradischi Webcor, utilizzato al posto dei musicisti, dettagli che Max, da autentico gentiluomo qual era, non menzionò. «Siete fortunati ad avere uno come Elliot al vostro fianco» disse Max, «è stato lui a portare quel po' di musica e arte che c'è a White Lake. Ha fatto tutto da solo. È una brava persona. Anche sua madre è una brava persona. Suo padre ha aggiustato il soffitto della mia stalla e non ho avuto più infiltrazioni.» Max continuò per qualche minuto sotto lo sguardo divertito di Mike, il quale dava l'impressione di essere un tipo schietto. Non mise fretta né costrinse mai Max a quantificare la sua richiesta. Al contrario, si mostrava rilassato, calmo e, oserei dire, rispettoso. Finalmente, Max arrivò all'argomento denaro. «Elliot, so quanto tu e la tua famiglia abbiate lavorato duramente per tenere aperto questo posto» disse Max prendendosi poi una pausa riflessiva, «andrebbero bene cinquanta dollari al giorno per le tre giornate?» Come diavolo gli era saltato in mente di sparare una cifra del genere? mi domandai. Forse aveva visto che Mike non indossava né la maglietta né le scarpe, e aveva ritenuto fosse completamente al verde. Inoltre Mike era lì con me, cosa che non migliorava di certo la sua immagine. Come Max aveva detto una volta, le mie fortune erano appese a un filo assai sottile, ma come gli era balenato di prodigarsi in un atto di tale generosità? «Va bene, Max» replicò Mike, senza smettere di sorridere. «Per noi va bene.» Così Max e Mike si strinsero la mano e io mi sentii mancare la terra sotto i piedi. La maledizione dei Teichberg non aveva colpito ancora, nonostante avessimo mangiato traife, il cibo impuro dei gentili. D'altra parte, non eravamo ancora fuori dal ristorante. Pagammo il conto e proprio mentre passavamo davanti alla cassa vicino alla porta d'uscita, sentimmo la radio annunciare le ultimissime da White Lake. «Notizia appena battuta» disse lo speaker, «Mike Lang, produttore del festival di Woodstock, si sta incontrando in questo momento al ristorante DeLeo con Elliot Tiber, proprietario del motel El Monaco e Max Yasgur del Caseificio Yasgur per discutere il trasferimento del festival di Woodstock a White Lake.» Ci guardammo in faccia uno con l'altro. Max sorrise. Mike sorrise. Finsi di sorridere, ma al contempo volevo tornare indietro al tavolo e riprendermi la mancia lasciata alle cameriere. Erano state sicuramente loro a far trapelare la notizia. Ora temevo sul serio che Max avrebbe rotto l'accordo. Max entrò nel suo furgone e si allontanò. Una volta allontanatosi, assicurai Mike che ci sarebbero state altre fattorie disponibili se Max avesse disdetto l'accordo. «Non ti preoccupare, va tutto bene» disse Mike. Il telefono squillò nel momento esatto in cui rientrammo a El Monaco. Era Max, e il mio cuore prese a battere all'impazzata. Max disse di aver fatto qualche telefonata ed era venuto a sapere che si prevedevano quindici o ventimila presenze. Aggiunse che avrebbe ospitato volentieri, ma ora voleva cinquemila dollari al giorno. «Questo è quanto mi costerà rimettere a posto la fattoria dopo che quindicimila persone ci avranno ballato sopra, Elliot. Non ti preoccupare, non ti voglio rovinare il festival. Credimi.» Non era un problema di crederci o no. Mike mi piaceva tanto, ma non poteva sapere che si lottava contro la maledizione dei Teichberg, che adesso faceva persino gli straordinari pur di mandare a rotoli l'intero progetto. Riportai a Mike le richieste di Max. Sorrideva ancora. «Nessun problema, tranquillo. Posso farcela. Devo parlare con alcune persone e sono sicuro che accetteranno» mi rispose Mike. La mattina dopo, la maledizione dei Teichberg si era svegliata di buonora. La stazione radio locale e i giornali raccontarono che erano già stati venduti cinquantamila biglietti. Si facevano congetture sui possibili danni arrecati alla comunità se così tante persone avessero partecipato a quel concerto rock. Un minuto dopo, Max mi telefonò per alzare il prezzo, questa volta erano cinquantamila dollari per i tre giorni. Chiese anche dei servizi aggiuntivi come la pulizia dopo il concerto, la presenza di attrezzature sanitarie e un'assicurazione. Nel 1969, cinquantamila dollari era come mezzo milione d'oggi. Ero sul punto di svenire ancora una volta a causa di una combinazione di paura e dolore, ormai convinto che tutto era perduto. La maledizione dei Teichberg mi aveva spinto sull'orlo del precipizio e ora mi gettava nel vuoto. Quando comunicai a Mike le ultime richieste di Max, mi sentii rispondere: «Sì, sì, sì. Perché sei così preoccupato? Andiamo bello. Non c'è nessun problema. Ce la possiamo fare». E ce la facemmo! Quel giorno, ero impietrito e afflitto di timore reverenziale, mentre Mike e Max definivano gli ultimi accordi e firmavano un documento che stabiliva che il Festival di musica e arte di Woodstock si sarebbe tenuto nella fattoria di Max Yasgur. Non ho mai incrociato nella vita un uomo d'affari come Mike Lang. In quel mondo in cui pur mi muovevo, le persone importanti che si vestivano in un certo modo e trattavano cifre importanti da Macy e Bloomingdale, impallidivano accanto all'intensa luce che emanava Mike Lang. Conosceva i numeri, le richieste che poteva accordare, e quelle che non si potevano soddisfare. Per tutto il tempo, non diede mai a vedere segni d'impazienza, pressione o nient'altro che non fosse calma assoluta. Quando i due si strinsero la mano, avrei voluto baciare entrambi, in primis per gratitudine, poi anche per sollievo. Quella stessa notte, la notizia fece il giro dei giornali, delle stazioni radio e dei telegiornali. Era ufficiale: il Festival di musica e arte di Woodstock si era trasferito da Wallkill a Bethel. Lo spettacolo sarebbe continuato e la maledizione dei Teichberg era stata sconfitta. 7 Un mondo nuovo

Il mattino seguente, 16 luglio, guidai la mia Buick fino al bar Newman a Bethel per regalarmi il mio piatto preferito: pane tostato e insalata con uova e bacon. Ancora intontito dagli eventi del giorno prima, presi a sfogliare il giornale locale. Leggevo senza curarmi di cosa succedesse intorno a me, quando mi resi conto che tutti gli altri avventori mi stavano fissando, perlopiù con un'espressione scioccata. Il mio sguardo vagò da quelle facce fino al giornale, dove un titolo a tutta pagina diceva: «Per assicurare tre giorni di pace e musica, abbiamo lasciato Wallkill e ora siamo a White Lake, New York». L'articolo spiegava che le lotte politiche avevano spinto l'organizzazione a trasferirsi a White Lake, e che la nuova località offriva uno spazio due volte più grande, con la possibilità di accogliere al festival molto più pubblico. L'articolo terminava con un «ci vediamo a White Lake per la prima Aquarian Exposition – il vero nome della manifestazione – il 15, 16 e 17 agosto». Mi tremavano le mani. Mi guardai intorno e, con tempismo perfetto, un uomo alquanto nervoso iniziò a inveire contro di me. «Teichberg, questa è opera tua! Chi ha bisogno di questi drogati schifosi e pervertiti? Te la faremo pagare. E stai tranquillo che il tuo motel di merda ha i giorni contati.» Da lì fu un'escalation di improperi. Mi minacciavano e maledicevano con una furia selvaggia, mentre solo un piccolo gruppo prendeva le mie difese. In preda a un leggero shock, abbassai di nuovo lo sguardo sul giornale, insensibile al casino che mi si stava scatenando attorno. Mi resi conto di aver appena sfornato la ciambella col buco più grande della mia vita e che tutto il resto, inclusa quella rabbia collettiva, era solo un dettaglio. Con quella consapevolezza, una pace celestiale mi pervase. Senza un briciolo di paura, pagai e uscii, incedendo verso la Buick nel marasma di detrattori e sostenitori, calmo come nell'occhio di un ciclone. Qualcuno protestava lamentandosi e minacciandomi: «Tu giudeo bastardo. Cosa pensi che faremo? Che rimarremo a guardare mentre rovini questa città? Prima che accada, schiacceremo te e tutti quegli sporchi hippy». Non tutti mi vedevano come il diavolo in persona. Al mio fianco c'era Esther Miller, una donna sulla settantina, o forse sulla novantina, difficile dirlo. Con i capelli bianchi e piena di rughe, Esther possedeva un decrepito hotel proprio nella piazza centrale, con trenta camere, delle quali riusciva ad affittare solo una manciata a stagione. Mi abbracciò forte. «Da stamattina ho l'hotel completamente prenotato. Grazie. È tutto merito tuo.» Detto questo, si girò verso la folla e gridò: «Ha mandato in rovina la città? Idioti! Elliot ci ha appena salvati». Al Hicks, il proprietario di un negozio di alimentari, mi strinse la mano. «Questa è la prima buona notizia degli ultimi cinquant'anni» commentò. Le parole dei miei sostenitori non ebbero alcun effetto sui detrattori. «Sai cosa faranno cinquantamila hippy?» gridò un uomo. «Raderanno la città al suolo. Saranno sempre strafatti, ci svaligeranno le case di giorno e ruberanno il bestiame la notte.» Aprii la portiera della Buick e scivolai dentro, al riparo dalla folla inferocita. Batterono i pugni contro i finestrini. Molti continuavano a ripetere: «La faremo pagare a te e a quei pazzi fottuti dei tuoi. Hai capito, Teichberg? Hai capito?». Era una bella domanda. Una parte di me stava prudentemente registrando gli eventi, ma un'altra godeva nel lasciarsi andare alle fantasie. Finalmente, più di un decennio di speranze stavano per essere esaudite. Avevo vissuto in una città turistica senza né turisti né attrazioni. Bethel era nota solo perché la mafia ci seppelliva le sue vittime. Negli anni Venti, i boss mafiosi ammazzavano a Brooklyn o nel Queens, guidavano un paio d'ore sulla superstrada dello Stato di New York e si liberavano dei corpi a White Lake, dove nessuno li avrebbe trovati. Questo era il luogo dove scomparivano i vivi e i morti. Ora la città sarebbe resuscitata per la più grande festa del mondo. Certo mi rendevo anche vagamente conto che chiamare Mike Lang e far trasferire un concerto del genere a Bethel andava un poco al di là delle mie capacità. All'improvviso volavo più in alto di quanto fossi abituato. Sì è vero, avevo messo in piedi i miei piccoli festival musicali, ma erano talmente piccoli da essere invisibili. Persone che avevano fatto grandi cose, per esempio Mark Rothko, Tennessee Williams e Truman Capote, vivevano in un altro universo. Io non ero paragonabile a loro. Cosa era cambiato allora? Mi domandavo: era per via di Stonewall? La mia rabbia finalmente liberata mi aveva trasportato in una nuova dimensione? Era chiaro che ormai non mi nascondevo più. Forse Stonewall aveva sortito un effetto più dirompente del previsto. Ovviamente, i miei dubbi continuavano ad accompagnarmi ovunque. Mentre ritornavo al motel, l'adrenalina cominciò a calare e mi resi conto che l'incidente al bar non era stato roba da poco. Forse la gente aveva ragione. Forse le cose potevano mettersi male. White Lake non aveva mai visto cinquantamila persone tutt'assieme prima d'allora. Con così tanto pubblico c'era il rischio di disordini. Che cosa sarebbe accaduto se la folla fosse impazzita? Per fortuna, non ebbi il tempo di lasciarmi prendere dal panico. Nel momento in cui imboccai la strada di casa, mi resi conto che il punto di non ritorno era stato varcato. Il parcheggio straripava di auto, limousine, camper, e altri veicoli stavano arrivando. Mike Lang aveva chiamato a raccolta la sua armata, e quella stava arrivando in forze. La marea di macchine e camion che affollavano il parcheggio era una vista elettrizzante e spaventosa allo stesso tempo. Non era mai stato pieno prima d'allora, e una rivelazione mi colpì con la forza di un fulmine: Questa cosa vive di vita propria, ed è troppo potente per poterla tenere a bada. E poi mi venne incontro una visione di assoluto coraggio ed euforia. In mezzo al parcheggio, tra tutto quel caos, papà si dimenava come un intrepido vigile che dirigeva il traffico verso le diverse zone della proprietà. Le sue grandi mani da operaio puntavano prima da una parte poi dall'altra. Impartiva istruzioni a camion indiavolati e ad auto lussuose come fossero suoi impiegati. Indossava la sua solita tuta da lavoro, intrisa di catrame, e sotto portava una t-shirt da cui sbucavano le braccia forti: era la quintessenza dell'operaio nominato improvvisamente re. Era il suo momento di gloria. Era pronto a lanciarsi nella danza della sua vita, dopo un'esistenza di frustrazioni e fallimenti, e non gli importava dei problemi in agguato. Pensai che questa era la sua ultima fatica, vista la sua malattia; mio padre dimostrava tutto il suo coraggio camminando a testa alta e comportandosi da uomo. Nella reception, mamma gestiva il telefono con la padronanza di un'attrice frustrata che finalmente prendesse posto sotto i riflettori. Arrivavano continue chiamate per le prenotazioni. Mamma riempiva moduli mai usati fino ad allora, e contemporaneamente rispondeva in maniera cordiale alle domande con quel suo stile fin troppo familiare. «Caro, noi non accettiamo carte di credito… No, non facciamo prenotazioni per le camere con aria condizionata… Qualche camera ha l'acqua corrente, qualcun'altra no,.. Ascoltami, caro, questo non è il momento migliore per fare due chiacchiere, eh?… No, non spedire un assegno. Solo contanti. Quanto? Mandami duecento dollari e vedremo di accontentarti in qualche maniera.» Appena finita quella conversazione, il telefono riprese a squillare, Alzai la cornetta, interruppi le chiamate in attesa e passai il telefono a Mike Lang. «Rispondi pure solo a quelli che non interferiscono con le tue acrobazie da equilibrista» dissi a Mike. Lang fece alcune chiamate e in un paio d'ore, la compagnia telefonica inviò una piccola armata di camion e tecnici. Installarono una fila di apparecchi sufficienti per le necessità di Lang e dei suoi, e anche una cabina telefonica a gettone, cosa che avevo tentato di ottenere senza successo negli ultimi tre anni. Fuori, un centinaio di persone della ciurma di Woodstock tra tecnici, incaricati alle cucine e alle pulizie, stava già tentando di trovare alloggio nel motel; altri erano in arrivo. Per la prima volta nella sua storia El Monaco era al completo. Mamma si era sistemata al banco della reception a incassare il denaro e a consegnare le chiavi anche se nessuna di queste combaciava con la serratura. «Prova con questa, caro» spiegava alla gente, «forse funziona, forse no. Chi lo sa?» e detto questo li salutava. «Al completo» era il nostro nuovo status. Nel frattempo, l'elicottero continuava l'andirivieni. Tirai via i lenzuoli, diventati ormai preziosi, e al loro posto misi dei sassi bianchi e delle tavole di legno. Una parata di limousine, Porsche, Corvette e motociclette varie dello staff di Woodstock iniziò ben presto a rombare per la città. White Lake non aveva visto così tante belle macchine dall'epoca del proibizionismo, quando contrabbandieri d'alcol e boss mafiosi passavano spesso da queste parti.

Più tardi, quello stesso giorno, Mike Lang mi chiese di sedermi insieme a lui per parlare degli alloggi per il suo staff. Quando arrivai al bar, sedeva al tavolo lungo con Stan Goldstein, l'addetto alla sicurezza, altri due uomini che non conoscevo e alcuni assistenti. Mike si alzò e fece le presentazioni: «Elliot, questi sono i miei soci, John Roberts e Joel Rosenman». Entrambi sorrisero e mi strinsero la mano. John Roberts, che allora aveva ventisei anni, era ben rasato, con un bel sorriso, capelli castani e l'aria da giovanotto di buona famiglia, un po' impacciato e assai prudente. Non sembrava avere un passato da hippy né chiaramente lo era adesso. Sebbene ancora giovane, sembrava maturo e, in un certo senso, distaccato. Avevo letto alcune cose su di lui e sapevo che era il finanziatore del concerto. Erede di una fortuna costruita con detersivi e dentifrici, Roberts si era laureato all'Università della Pennsylvania ed era stato tenente dell'esercito. Joel Rosenman destava subito una forte impressione. Capelli e occhi neri, un naso prominente su un grande sorriso, aveva un baio di baffoni che mi ricordavano un po' un bandito messicano. Come Roberts, Rosenman faceva parte di quella Ivy League che raggruppava le otto università più prestigiose d'America. Si era laureato a Yale. Era figlio di un dentista ed era cresciuto a Long Island. Aveva imparato a suonare la chitarra da ragazzino e, dopo la laurea, era andato in tournée con un gruppo rock'n'roll. Con quell'esperienza si era scrollato di dosso il look da bravo ragazzo e aveva assunto quello da chitarrista di gran classe, ma tutto in lui gridava «soldi e potere». «Ho letto di voi sui giornali. Così adesso avete messo in piedi questo show?» dissi, risero tutti e l'atmosfera si sciolse un po'. Roberts e Rosenman si erano incontrati su un campo da golf nell'autunno del 1966 e, un anno dopo dividevano un appartamento a Manhattan. Nessuno dei due aveva idea di cosa fare della propria vita, ma Roberts poteva finanziare qualsiasi idea gli piacesse. Già nel 1968 volevano lanciare una sit-com con protagonisti due uomini del genere «più soldi che cervello», come diceva Rosenman. I due personaggi si sarebbero impegolati ogni settimana in avventure finanziarie, finendo nei pasticci e salvandosi all'ultimo minuto proprio grazie alla loro incompetenza. Era un programma in cui potevo rispecchiarmi, se non ambire addirittura al ruolo di protagonista. Per trovare idee, avevano messo degli annunci piuttosto particolari sul «Wall Street Journal» e il «New York Times»: «Giovane investitore con capitale illimitato cerca opportunità d'investimento lecite e interessanti, e idee per nuove attività». Ricevettero migliaia di proposte, compreso il progetto per fabbricare palline da golf biodegradabili. «Ovviamente, lo show aveva una vena autobiografica» aggiunse Rosenman, «diventammo noi stessi personaggi della nostra storia.» Tra le persone che contattarono Roberts e Rosenman c'erano e Mike Lang. Kornfeld, allora venticinquenne, era il vicepresidente della Capitol Records: lo era diventato a ventun anni, il più giovane vicepresidente della storia della Capitol. Era famoso perché fumava hashish nel suo ufficio e aveva composto trenta successi musicali, fra cui Dead Man's Curve per Jan&Dean, e The Pied Piper che era stato al numero uno in classifica con Crispian St. Peters nel 1964. Per cui Kornfeld aveva contatti con quasi tutti i gruppi rock di maggior successo. Mike Lang era fuggito da Brooklyn da ragazzo e aveva aperto uno smart shop in Florida. Poco dopo, aveva prodotto uno dei più grandi concerti mai organizzati, il Miami Pop Festival: quarantamila spettatori. In più Lang faceva il manager per un gruppo rock chiamato Train, e aveva fatto carte false per far ottenere loro un contratto discografico, cercando l'aiuto di Kornfeld. È curioso che Mike avesse usato con Kornfeld lo stesso approccio avuto con me. Kornfeld infatti era cresciuto a Bensonhurst, proprio come me e Mike il quale, quando telefonò per un appuntamento, si fece annunciare dalla segretaria come «uno del suo quartiere». I due s'incontrarono e si piacquero al volo. Pochi potevano resistere al fascino angelico di Mike e poco dopo era già andato a vivere con Kornfeld e sua moglie Linda, nel loro appartamento di New York. Come raccontarono in seguito, Land e Kornfeld ebbero l'idea di creare un grande evento rock e culturale nella città di Woodstock perché molti musicisti del calibro di Bob Dylan, Jimi Hendrix, The Band, Janis Joplin e Van Morrison, si erano trasferiti in quell'area nello spirito del ritorno alla natura in gran voga nel movimento giovanile di quegli anni. Lang e Kornfeld volevano mettere su uno studio di registrazione all'avanguardia, dove potessero registrare questi e altri artisti dell'area di Woodstock. I due incontrarono poi Roberts e Rosenman, i quali in seguito rivendicarono la paternità del concerto. Secondo Roberts, infatti, Lang e Kornfeld volevano solo allestire uno studio di registrazione che si sarebbe mantenuto raccogliendo soldi grazie agli eventi musicali. Roberts e Rosenman, invece, proposero l'idea del concerto, sostenendola con convinzione. Qualunque fosse la verità, i quattro unirono le forze e fondarono una società chiamata Woodstock Ventures Inc. Lang voleva chiamare il concerto Aquarian Exposition, ma alla fine scelsero di usare il nome della società. Fu così che il concerto prese il nome di Woodstock, causando una perenne confusione tra il concerto e la località dove si tenne. Si capì presto che la strada era tutta in salita. Gli anziani della città di Wallkill stracciarono l'accordo appena resisi conto dei danni che cinquantamila persone avrebbero potuto arrecare al loro piccolo villaggio. Non piaceva loro neppure lo slogan del concerto: «Tre giorni di pace e musica». Pensavano che avrebbe attratto ogni genere di manifestazione contro la guerra del Vietnam. I quattro di Woodstock temettero che tutto fosse perduto. Anche le altre città limitrofe avrebbero bloccato ogni tentativo di mettere su il concerto per le stesse ragioni. E qui entro in scena io, che offro una casa al festival. Ora, tre dei quattro moschettieri stavano seduti di fronte a me. Roberts e Rosenman volevano incontrarmi, presumo, per essere certi che il loro audace investimento potesse finalmente trovare l'approdo giusto. Fino a quel momento tutto filava per il meglio. Mamma ci portò delle scodelle di cholent e fece il suo numero da brava madre ebrea, spiegando che non poteva trovare pace finché non sapeva tutti soddisfatti e a pancia piena. Il piccolo gruppo rise, ringraziò e tutti dissero quant'era carina: mi veniva da vomitare. Poi si lanciarono a testa bassa nello stufato. «Wow, questo è davvero un gran piatto vegetariano» disse uno degli assistenti. Ero sul punto di svelare la ricetta, ma mi trattenni. Comunque, avrebbero sicuramente capito da soli gli ingredienti, e in breve tempo. «Elli, tu quanto vuoi per lasciarci questo posto?» mi chiese Mike. «Hai appena detto la cosa giusta» risposi. «Ve lo lascerei anche per sempre! Se mi affitti tutte le camere, posso pagare i debiti e svignarmela in un punto qualsiasi del mondo dopo il festival.» «Tutto qui?» mi chiese con un sorriso. «È questo ciò che vuoi? Non è che poi te ne vieni fuori con qualche altra richiesta spropositata?» Non sapevo cosa rispondere, così rimasi in silenzio. «Tu hai le stanze e noi abbiamo bisogno delle stanze» continuò Lang, «quanto le fai pagare? Quante ne hai? Quante persone riusciamo a farci stare?» «Se usiamo ogni centimetro quadrato del motel, anche se alcune non si possono chiamare camere, possiamo sistemare duecentocinquanta o forse trecento persone. In ogni caso, se occorrono più camere tutta White Lake è libera. Per la verità, si può contare sull'intera contea di Sullivan, fatta eccezione per hotel importanti come il Grossinger e il Concord.» «Perché non parliamo di cifre? Dimmi quello che vuoi per tutte le camere fino a fine stagione.» Tirai fuori carta e penna e feci qualche calcolo veloce. La nostra tariffa era di otto dollari a notte per camera, che a quel tempo era un prezzo standard per un motel economico a Catskill. Sommai le tariffe per camera, compreso i bungalow e le stanze divise dalle tende da bagno. Infine moltiplicai per tutte le notti fino al weekend del Labor Day, all'inizio di settembre. Prima di allungare il biglietto a Mike, riguardai la cifra che a me sembrava enorme. Dopotutto, non eravamo mai stati al completo prima, neanche per un giorno, tantomeno per l'intera stagione. Non c'eravamo mai neanche avvicinati a quel folle concetto tutto americano chiamato «profitto». Avevamo combattuto strenuamente per raggiungere l'uno per cento di camere affittate, risultato che consideravamo eccezionale anche se era una percentuale abbastanza bassa da farci vivere sempre sotto minaccia di fallimento, e distante anni luce dall'ottanta per cento che si aspettano all'Hilton, al Marriott, o in qualsiasi altro albergo degno di questo nome. Passai quel pezzo di carta nelle mani di Mike. Lo guardò appena, poi lo passò a John e Joel. Tutti e tre mi fissarono increduli. Devono aver pensato che fossi lo scemo del villaggio. Il denaro veniva gettato via come fosse carta straccia, e io mi comportavo come se il mio unico obiettivo fosse salvarmi dalla bancarotta. Bene, la verità era proprio quella, e in quella direzione mi ero mosso negli ultimi quattordici anni. Ero condizionato come un topo di laboratorio, di quelli che corrono per anni dentro la ruota a forma di piccolo mulino che all'improvviso viene liberato da quel dannato trabiccolo. Ecco, avevo frainteso. Avevo creduto che mi avessero detto di correre più forte. Mike sorrise come solo lui sapeva fare; in modo gentile, compassionevole e angelico. Dentro di sé era di sicuro dispiaciuto per me. «Va benissimo» disse, «affitteremo tutte le camere comprese quelle con le tende. Ce ne andremo via una settimana prima del festival perché dobbiamo stare sul posto per tutti i tre giorni. Cosi tu puoi riaffittare le camere. Paghiamo tutta la stagione, ma tu potrai darle via una seconda volta. Forse, dopo il festival, alcuni di noi vorranno tornare per chiudere qualche affare. Okay? E che si fa per il servizio bar e ristorante? Dobbiamo dar da mangiare alla nostra gente. Poi c'è il teatro e il cinema. Abbiamo bisogno di spazi per gli uffici e le riunioni. Ci puoi affittare anche quelli?» Ero sotto shock. «Puoi avere tutto ciò che vuoi» dissi sbalordito. «Faccio due conti e ti dico.» Persino mamma, che aveva ascoltato ogni singola parola della conversazione, se ne stette zitta e buona per la prima volta in vita sua. Guardai papà per un istante e scorsi nei suoi occhi una luce d'orgoglio mentre osservava suo figlio prendere gli ultimi accordi per quello che, lo capiva bene anche lui, era il più grande evento della nostra vita. «Ok, siamo d'accordo» disse Mike stringendomi la mano. Feci del mio meglio per mantenere un certo aplomb, ma il sudore sulla fronte era un segno della strizza che mi dilaniava dentro. Mi sentivo come Cenerentola, versione maschile, con il terrore che Mike Lang si sarebbe trasformato in un topolino bianco e l'elicottero in una zucca gialla. Mike si voltò verso uno degli assistenti e gli chiese di portargli una delle borse della spesa da una limousine. L'assistente ritornò dopo poco con quella borsa che Mike passò direttamente a me. Guardai dentro e vidi che era piena di banconote. «Prendi pure tutto quello che ti devo ora, Elli, perché preferiamo pagare in anticipo» disse Mike, «e un'altra cosa: che ne dici di lavorare come addetto alle pubbliche relazioni con la comunità locale? Potresti coordinare la gente del luogo, gli amministratori della città e tutto il resto? Ci farebbe davvero comodo. Ti andrebbero bene altri cinquemila dollari per questo lavoro?» Che mi venga un colpo, pensai. «Sicuro! Grazie Mike. Ci sto» risposi. Mike mise la mano dentro la borsa e tirò fuori altri cinquemila bigliettoni. Ero quasi in delirio, ma in qualche modo riuscii a mantenermi lucido ancora per un istante. «Oh, Mike, ho un'ultima richiesta, importante. Potresti prendere il mio gruppo di attori e artisti? Sono fenomenali.» «Nessun problema amico. Li assumiamo tutti. Possono iniziare domani. Possono improvvisare degli spettacoli e aiutare i musicisti ad andare da una parte all'altra dell'area durante il festival. Sarà grandioso, cazzo. Sono tutti assunti. Studieremo qualcosa» disse Lang. «Fantastico, glielo comunicherò oggi pomeriggio. Saranno entusiasti.» Mike non aveva ancora finito. «Questo mi fa venire in mente una cosa, Elli» disse guardandomi, «so che devi pagare il mutuo, così ho pensato di annunciare che El Monaco è l'unico agente autorizzato a vendere i biglietti per le prossime due settimane. Ti prenderai la commissione su tutti i biglietti che riuscirai a vendere. Ti va bene?» «Come no, Mike, sicuro» risposi. Ero in uno stato di beatitudine e quest'ultima ciliegina mi aveva definitivamente tramortito. Perché no? Ero stato un fallimento colossale nel vendere camere d'albergo, pancake, weekend per cuori solitari per etero, lesbiche e gay. Però al diavolo, avrei provato anche a vendere biglietti! Non c'è bisogno di aggiungere che non avevo idea dell'impresa che Mike mi aveva appena affidato. Nelle settimane successive, lui e tutta la sua squadra cominciarono una campagna promozionale su giornali e radio di tutti e tre gli Stati lì intorno, New York, Connecticut e New Jersey, annunciando che i biglietti per l'imminente festival erano in vendita esclusivamente presso il botteghino di El Monaco, cioè il nostro banco reception. Era come dire che il biglietto di sola andata per il Paradiso si vendeva soltanto lì. In due settimane solo per le nostre commissioni guadagnammo trentacinquemila dollari, l'equivalente di oltre trecentocinquantamila dollari odierni. La mia famiglia non aveva mai visto così tanti soldi. Io e papà e continuavamo a guardare quei biglietti come fossero incantati. Sono reali, ci domandavamo, oppure sono destinati a svanire come miraggi? In ogni caso, la gente continuava a comprarli senza sosta. Una delle primissime cose che feci, d'accordo con i miei, fu estinguere il mutuo del motel. Per una famiglia in ritardo da quattordici anni con i pagamenti mensili quello era un evento memorabile. Nel frattempo, il telefono non smetteva di squillare. Ancora intrappolato nella mia mentalità da povero, mantenni la mia unica linea telefonica, anche se lo staff di Woodstock ne aveva fatte installare almeno una decina per le loro necessità. Avevo segretamente il terrore che tutta quell'impresa sarebbe collassata in qualsiasi momento e che tutti quei personaggi avrebbero rifatto i bagagli tornandosene a casa, così com'erano arrivati. Sì, tutto sarebbe svanito, poi sarebbero arrivate le infermiere e mi avrebbero messo una camicia di forza. Mi avrebbero sottoposto di nuovo a quei trattamenti di elettroshock che la vita mi aveva somministrato per anni. Ma finché durava, mi lasciavo trascinare nel gioioso delirio collettivo.

Durante quella prima settimana dall'arrivo di Mike Lang, il mio mondo subì una specie di bizzarro riallineamento cosmico. Tutti i miei schemi mentali, tutte le mie idee sul possibile e l'impossibile all'improvviso si rimodularono. E fu un bene, perché il vecchio Elliot Tiber non avrebbe mai saputo gestire quello che stava per accadere. 8 La prima ondata

Era il 18 luglio, un venerdì. Mi svegliai al suono dei clacson che strombazzavano, delle voci festose della gente e delle motociclette che sgasavano. Mi rigirai nel letto, con gli occhi ancora socchiusi e mezzo addormentato. «Che cosa sta succedendo?» domandai ad alta voce. Mi vestii e mi incamminai in direzione della 17B, dove vidi uno spettacolo incredibile. Una catena umana ininterrotta che, a piedi o con i mezzi più improbabili, arrivava a Bethel. Centinaia di persone camminavano di fianco ad auto che procedevano lentamente. Molti erano stivati in camioncini, altri in sella alle loro moto. Alcuni furgoncini erano dipinti con colori fluorescenti; sfumature di rosa, verde, arancione e blu. Tantissimi erano i simboli della pace e gli slogan contro la guerra: «Fate l'amore, non la guerra», «Flower Power», «Amore libero», «Incoraggiamo il nudismo tra il popolo dei fiori», «Potere alla gente», «Birra alla spina», «Dichiariamo illegali le mutande» e «La fata turchina è ricercata dal Fbi». Parecchi veicoli avevano sulla fiancata disegni sgargianti. sullo stile della copertina di Sergeant Pepper. Ce n'erano altri che lodavano gli effetti benefici sulla mente degli allucinogeni: «J. Edgar Hoover ha bisogno di una dose di Orange Sunshine!» un tipo particolare di Lsd. C'era musica a tutto volume in ogni macchina. Le voci di Janis Joplin, Jim Morrison, dei Beatles, di Bob Dylan uscivano da radio e cassette Superò, come ondate di gioia irrefrenabile e libertà assoluta. Hippy con capelli lunghissimi e t-shirt coloratissime si sporgevano dai finestrini e salutavano. I cittadini di White Lake si erano assiepati lungo tutta la 17B e assistevano a quella parata confusi e intimoriti. A un certo punto una donna gridò allegramente a un abitante del posto: «Siamo qui, dolcezza! Andiamo a festeggiare!». Da quel momento in poi arrivarono a migliaia per partecipare al Festival di musica e arte di Woodstock. Il flusso del traffico, diretto diligentemente per ore da mio padre fermo all'incrocio delle statali 17B e 55, era qualcosa di mai visto prima, e sembrava infinito. All'inizio, si contò che arrivassero a Bethel circa un migliaio di persone al giorno, e che, a quel ritmo, sarebbe stata rispettata la previsione, cioè avremmo avuto dai trentacinquemila ai cinquantamila spettatori. Ma mancava ancora un mese al 15 agosto, giorno di apertura del festival, e tutti quanti sapevano che quelle cifre sarebbero salite a dismisura. Solo che nessuno poteva prevedere quanto. Intanto al motel ogni camera, perfino quelle con i divisori, e ogni spazio, semiprivato o non-proprio-privato, erano stati affittati. Per la prima volta in vita mia il denaro non era un problema. Quello di cui avevamo bisogno era un po' d'aiuto, e grazie a dio c'era gente ovunque, abile e volonterosa. Assunsi venti ragazzi per pulire le camere, lavare la biancheria, cucinare, servire a tavola, stare al bar, preparare panini e falciare l'erba. Nonostante lavorassero di gran lena, bastavano a malapena. Persino i vecchi motel, chiusi da anni, avevano riaperto i battenti e accettavano clienti, anche se li costringevano a dormire su materassi vecchi e ammuffiti, e l'acqua non era stata riallacciata. Qualche settimana prima dell'inizio del concerto, alcuni hippy avevano cominciato a campeggiare nella fattoria di Max Yasgur. Quel posto si andava riempiendo a vista d'occhio e il personale del festival doveva lavorare senza sosta per installare i bagni e far arrivare l'acqua. Niente però sembrava turbarli mentre a migliaia sopraggiungevano a Bethel; tutti sembravano felici per il solo fatto di trovarsi lì. Facendo di me l'unico rivenditore di biglietti per il più grande concerto della storia, Lang mi aveva posto all'epicentro di un'altra dimensione umana, quella che in precedenza avevo incontrato solo sui giornali o in televisione. Questa gente non era come i newyorkesi con cui avevo a che fare di solito: non erano materialisti né assetati di soldi e fama. Era difficile catalogarli, prima di tutto perché avevano rifiutato qualsiasi compromesso con quell'illusione collettiva nota come sogno americano. Avevano capelli lunghi, indossavano jeans, andavano a piedi nudi con in testa una bandana ed erano liberi, assolutamente liberi. Molti avevano i capelli colorati nelle tonalità più disparate; arancione, rosa, rosso, verde, porpora e blu. Alcuni indossavano collane di perline, simboli di pace e vari ornamenti tra i capelli e intorno al collo, ai polsi e alle caviglie. Altri avevano la barba incolta, in pochi si lavavano regolarmente e ancora meno si curavano dell'approvazione della società. Tutti cantavano, o almeno così sembrava, e tutti ma proprio tutti ridevano. Non avevo mai sentito così tante risate in vita mia. Di sicuro, parecchi di quei canti e risa erano indotti chimicamente. C'erano droghe ovunque, come se improvvisamente marijuana, Thc e Lsd fossero stati legalizzati. Quei ragazzi si passavano le canne l'un l'altro senza alcun timore, come fossero pasticcini a un picnic. Tantissimi arrivavano nel nostro motel chiedendo informazioni. Erano quasi tutti fatti, e l'odore di erba impregnava i loro vestiti. Entravano nel mio ufficio, mi facevano un largo sorriso, e dicevano: «'Uttapposht?». Le prime volte, ero completamente all'oscuro di che cosa volessero dire. Mi ci volle del tempo per capire che erano talmente fatti e da avere unito e biascicato tre parole insieme. «Tutto bene. E tu, 'uttapposht?» rispondevo con voce fievole. «Sai dov'è il motel El Monaco?» mi chiedevano in parecchi. Di quelli che arrivavano, la maggior parte non era, per la verità, completamente fatta, ma lo diventava appena gli consegnavo i biglietti per il concerto. Tanti mi fissavano negli occhi tentando di stabilire una connessione spirituale, poiché condividevamo una visione del mondo più ampia, e questo faceva di noi spiriti eletti. Alzavano i biglietti in aria e dicevano: «Sei un grande, fratello», «Grazie, amico», «Cosmico», «Che ficata», «Geniale», «Che trip, compagno». Altri ululavano e ridevano, e improvvisavano girotondi. Tutti si abbracciavano e baciavano. A un certo punto di questa lunga parata di umanità, mi fu chiara una cosa: tutta questa gente non era intrappolata nel dualismo tra etero e gay. Erano liberi come non avrei mai creduto possibile. Con questo non voglio dire che non fossero etero, bisex o gay, ma che qualsiasi cosa fossero, lo vivevano in maniera normale. Il loro messaggio era evidente: non c'era bisogno di essere nient'altro che se stessi. Goditela, amico. Vivi. Gli uomini si erano liberati degli stereotipi televisivi del bravo padre di famiglia; le mogliettine avevano gettato alle ortiche quegli abitini noiosi e il trucco. Se un uomo si sentiva di ancheggiare mentre camminava, ancheggiava. Se una donna sentiva il bisogno di essere sessualmente libera, lo era. Chi era gay, lo era apertamente. E a me sembrava che ci fossero gay dappertutto. La notte, il popolo di Woodstock si riuniva intorno al mio bar, beveva e celebrava festeggiando il lavoro della giornata e l'imminenza del concerto. Il jukebox sparava musica tutta la notte e si ballava finché non ci si rendeva conto di essere troppo vestiti; a quel punto si scivolava via con qualcuno in una camera o in qualche angolo remoto della proprietà. Zippi McNulty, un volontario macchinista teatrale, sembrava la versione bionda di Superman. Non nascondeva affatto la sua omosessualità. Io ero ancora molto cauto nell'avvicinarmi a qualcuno a White Lake; dovevo essere assai prudente. D'altro canto starmene buono a guardare Zippi aggirarsi nella stanza con quei jeans e quella maglietta attillata, era una vera tortura. Ma che diavolo, pensai tra me e me. «Quegli stivali da lavoro che indossi non mi eccitano affatto» gli dissi un giorno, «ma se fossi un masochista e mi piacessero gli uomini rudi che indossano stivali sporchi, ti implorerei di seguirmi nella baracca numero due per vedere la collezione di fruste, le imbracature di pelle, i ganci e le catene che penzolano dal soffitto.» «Fai strada amico mio, questa è musica per le mie orecchie» mi rispose Zippi. Così iniziai una sorta di routine durante la quale, notte dopo notte, si poteva vedere la baracca numero due tremare sin dalle fondamenta, fino al sorgere del sole. In ogni caso, Zippi non fu l'unico a entrarvi. Woodstock era come un Ufo appena atterrato nella puritana Bethel, e da cui sbarcava un'armata di persone sessualmente libere. Io ero rimasto chiuso a soffocare nel mio armadio per quattordici lunghi anni. Ora, Mike Lang aveva spalancato quelle ante e mi aveva liberato nel bel mezzo di una festa selvaggia a base di sesso, droga e rock'n'roll. Bob e Jim erano gemelli omozigoti. Erano entrambi ballerini a Broadway, con il classico physique du rôle: corpi levigati, visi bellissimi e gambe forti grazie alle quali sembravano potersi librare in volo. La sera, dopo parecchie birre e tutte le canne che avevo racimolato, Bob e Jim ballavano, all'inizio sul pavimento e poi sul bancone del bar. Quando la situazione si faceva davvero selvaggia, ci intrattenevano con uno striptease, rimanendo in mutande e, oddio, come riempivano bene quelle mutande. Dopo parecchie bevute, marijuana e balli sfrenati, una notte presi Jim da una parte (o era Bob?) e dissi: «Se fossi finocchio, mi piacerebbe essere la crema in mezzo a voi due biscottini». Jim mi prese il viso tra le mani, mi schiuse le labbra e mi baciò famelico come un leone. Tutti quanti scoppiarono in un applauso e risero di gusto. Fu allora che, con la coda dell'occhio, scorsi mammina… intenta a guardarmi. Si portò la mano alla bocca, scioccata. I suoi occhi erano spalancati, stravolti dalla scena cui aveva appena assistito. Mi ero dimenticato che quella sera mamma e papà servivano ai tavoli del bar e badavano alla cassa. Sconvolta, mamma si girò dall'altra parte e scomparve in cantina. Non la vidi uscire più per tutta la sera. Quell'evento mi rimase impresso, ma ero troppo sopraffatto dal piacere e dalla forza della presa di Jim sul mio viso per poter reagire. In quel preciso istante i miei due mondi si erano uniti, White Lake e Manhattan, e qualcosa alla bocca dello stomaco mi diceva che quel connubio era perfetto. Con un'incredibile sincronia, Bob corse verso di me e annunciò a voce alta: «Anch'io voglio la mia parte!». Spinse via Jim e mi diede un lungo, profondo e lascivo bacio. Ora gli applausi e le grida erano diventati più fragorosi. «Papà, fai tu la chiusura di cassa stasera» dissi a mio padre. Quindi, Jim, Bob e io danzammo lungo la strada che portava alla baracca numero due, e per tutta la notte ripetemmo i passi di un pezzo di Bob Fosse. «Io amo Broadway!» continuavo a gridare. A New York, facevo sesso perlopiù al buio, di solito in locali gay, come il Mine Shaft. I gay non osavano corteggiarsi apertamente o fare effusioni in pubblico, per paura di essere arrestati, o peggio, malmenati. Così ci tenevano rinchiusi in gabbie impastate di timore e vergogna. Quando arrivò il popolo di Woodstock, tutti furono d'un tratto liberi di corteggiarsi e fare l'amore, inclusi gli omosessuali, alla luce del sole. Hank era un metro e ottanta, muscoloso e nero. Proveniva dal New Mexico, e quando aveva saputo del concerto, aveva lasciato ogni cosa, si era messo in macchina, e aveva guidato direttamente fino a Bethel, dove si era offerto per lavorare come attrezzista di palco. Un giorno, mentre versavo della varechina economica nella piscina, Hank mi si avvicinò e mi chiese se poteva farsi una nuotata. «Certo che puoi» risposi, ma poi con un ampio gesto indicai il cartello appeso al lato della piscina dove c'era scritto: «Regolamento della piscina. Nessun bagnino di salvataggio. El Monaco non è responsabile per possibili affogamenti, bambini che pisciano nell'acqua, o qualsiasi altra cosa che possa succedere in questa piscina. Nuotate a vostro rischio e pericolo». «Non dice niente riguardo a nuotare nudi» osservò Hank. «Esatto! Non sembra che sia vietato» risposi. Hank lasciò cadere i jeans e la t-shirt proprio sul bordo della piscina e si lanciò in acqua fendendola come una lama. Auuu, pensai mentre osservavo l'acqua avvolgere il suo corpo perfetto e scintillante. «Il motel El Monaco offre gratuitamente un massaggio completo con oli a ogni dio nero che nuota nudo nell'acqua mostrando il suo corpo muscoloso e sodo» annunciai a Hank mentre nuotava. Lui rimase fermo a galla. Mi guardò e disse: «Di solito non me la faccio con i bianchi. Mmm». Sembrò considerare la possibilità, o forse stava solo giocando un po' con me. Non ne ero sicuro. «La prima volta che sono stato violentato da un nero avevo dieci anni, e dopo quella volta continuammo fino ai miei dodici. Lo facevamo nella mia cantina. Lui aveva vent'anni. Tu, quanti ne hai?» «Ti eccitano i neri?» mi chiese. «Per niente» risposi. «Be', se proprio ci fossi costretto e tu insistessi con una certa forza… Mi piace così.» «Sì? Anche a me piace così.»

L'estate del 1969 trasformò la baracca numero due, modesta e mezza diroccata, nel tempio dell'amore. Frattanto, in mezzo alle avventure sessuali, si susseguivano altri impercettibili avvenimenti che pian piano mi cambiavano la vita. Per esempio all'improvviso ero circondato da un nugolo di collaboratori: gente giovane, molto diversa dal tipo di persone con cui avevo avuto a che fare in precedenza. Anche la più semplice conversazione mi lasciava esterrefatto. Per prima cosa, mi resi conto che la maggior parte dei ragazzi arrivati a Woodstock aveva sogni e speranze del tutto diversi da quelli di un newyorkese medio, gay o etero che fosse. Un giorno feci due chiacchiere con un tipo di nome Steve, assunto per fare le pulizie delle camere e un po' di manutenzione nella proprietà. Aveva sui venticinque anni, di bell'aspetto, libero e amichevole. Eravamo proprio davanti all'ala presidenziale, e lui aveva appena finito di sistemare alcune camere del motel. «Che cosa farai quando tutto questo sarà finito?» gli chiesi. «Ho messo da parte qualche soldo e voglio comprare un pezzo di terra da qualche parte, dove andrò a vivere con la mia ragazza» mi rispose. «Dove pensi di andare?» «Stiamo guardando un paio di posti a Northeast Kingdom nel Vermont, vicino a St. Johnsbury e qualche altro paese nelle vicinanze. È una zona veramente bella, e la terra non manca nelle colline della Caledonia.» «Che cosa farai una volta là?» «Be', sai, la vita. Costruiremo una casa, avremo un giardino e mi troverò un lavoro.» Mi sorrise con quell'aria da bambino innocente e continuò: «Avremo dei figli e faremo quel che dobbiamo fare, sai?». «Non ti mancheranno tutte le cose che puoi fare in città?» «Quali cose?» mi chiese. «Sono cresciuto a New York e ho visto mio padre lavorare tutto il giorno, non era mai in casa, e quando c'era beveva e inveiva contro mia madre e tutti noi. Sì, aveva i soldi, ma nient'altro. Non voglio vivere così. Le città stanno morendo, amico mio, non lo sai?» «Ho bisogno della città» risposi, «è il solo luogo dove mi sono sentito accettato.» «Prima di tutto devi accettarti, e solo dopo troverai la tua dimensione» concluse come solo un ragazzo di venticinque anni poteva: schietto, realistico e un po' pretenzioso, tutto insieme. Nonostante tutto, aveva colpito il mio tallone d'Achille. Tutte le mattine, all'ora della colazione, il popolo di Woodstock mangiava quello che papà gli serviva, prima di andare a lavorare per il concerto. C'erano solamente muffin e caffè, ma tutti si divertivano a leggere il menù. Con mia grande sorpresa e delizia, capivano le mie battute. «Ehi, Elliot» diceva uno dei ragazzi, «oggi ho provato il pancake Ethel Merman. Non male, Elliot, ma troppo costoso per le mie tasche.» Oppure un altro commentava: «Adoro la torta alla Barbra Streisand, Elliot, ho naso per queste cose, capisci cosa voglio dire?». Si divertivano con i miei cartelli, e capivano che si trattava di uno sfogo necessario in anni di pura follia. Un tipo mi sorprese quando mi domandò, tra il serio e il faceto: «Quando potremo vedere Tutti pazzi meno io, nel tuo cinema underground? Penso che ci starebbe da dio qui, ora, non credi?». Tutti pazzi meno io, film cult uscito nel 1966, parla di un soldato arrivato in Francia durante la Prima guerra mondiale, che finisce in un manicomio. Lì, cerca di liberare i reclusi, ma non prima di ammattire un po' pure lui. «Quel film parla della mia vita» dissi. Improvvisamente c'era vita a El Monaco. Questo motel di terza categoria, mezzo decadente, era diventato il centro dell'universo. Dentro di me capivo che aver sostituito quegli yenta dai capelli vaporosi provenienti dal Bronx, Brooklyn e Long Island, con questi hippy multicolori, mi aveva ridato linfa. Per la prima volta sentivo che la gente mi capiva fino in fondo. Sapevano cosa fosse un cinema underground, apprezzavano il kitsch del menù del nostro ristorante; erano capaci di capire intimamente cosa significasse essere incompresi. Ero tra persone che si preoccupavano finalmente dell'ambiente e dei diritti civili delle minoranze. In più amavano la musica, l'arte e una vita tranquilla, gentile. Era evidente che aspiravano a qualcosa che andava oltre il denaro e il successo, e io mi sentivo incoraggiato da queste anime a me affini. Pochi giorni dopo l'annuncio del concerto, un pomeriggio, mi diressi in auto verso la fattoria di Max Yasgur. Il sole era luminoso e il cielo azzurro, eccetto qualche nuvoletta bianca. Due o tremila ragazzi avevano iniziato a campeggiare nelle sue terre. Avevano montato piccole tende intorno alla fattoria. Auto e camioncini erano parcheggiati lungo i bordi dei campi. Tutti passavano il tempo parlando e facendo amicizia. Nel frattempo, in fondo alla fattoria, avevano montato l'impalcatura che avrebbe sostenuto il palco per i musicisti e l'impianto d'amplificazione. C'erano alcune centinaia di persone che lavoravano senza sosta, sistemando ogni dettaglio per il grande concerto. Prima di arrivare a casa di Max, passai davanti a White Lake e notai decine di giovani che facevano il bagno nudi. Si rilassavano e se la spassavano. Attraversai file di auto e motociclette che si dirigevano alla fattoria o alla città di Bethel. Sbirciando negli abitacoli delle vetture, potevo vedere uomini con donne, uomini con uomini e donne con donne. Mi affascinava la varietà di persone arrivate da ogni angolo, non mancava nessuna tipologia umana. C'erano mariti, mogli, etero, gay, celibi, bi e trisessuali e travestiti. Molti mi sorridevano mentre li superavo; altri salutavano. Io sorridevo e salutavo a mia volta. Una piccola scintilla d'amore andava e veniva tra me e loro. Da qualche parte nella mia anima affiorava una certa tranquillità. Appartenevo anch'io a questo popolo, al grande oceano dell'umanità. Tutti si erano dati appuntamento per tre giorni di musica e, se fortunati, per un po' d'amore. E forse, alla fine, questo è l'obiettivo principale che ciascuno di noi vuole raggiungere. Entrai nel parcheggio di El Monaco, parcheggiai la mia Buick, e mi diressi senza fretta verso la reception. Uno dei ragazzi di Mike Lang mi venne incontro. «Eccoti finalmente» esclamò. «'Uttapposht?» dissi, felice di adottare il loro gergo. «È che gli autoctoni si stanno spaventando. Ci sono tanti giornalisti in zona e ne arriveranno altri. Mike vuole che tu faccia una conferenza stampa.» «Stai scherzando?» «No, Elliot» rispose serio, «è già tutto organizzato.» 9 I ribelli di White Lake

La conferenza stampa era prevista per il pomeriggio seguente. Considerando la pressione di dover affrontare i giornalisti e il fatto che non avevo mai brillato particolarmente come oratore, tranne ovviamente durante i miei festival musicali di fronte a meno di una decina di persone, pensai che fosse necessario rilassarsi per prepararsi al grande evento. Per aiutarmi nel processo di rilassamento, mi fumai qualcosa come una mezza dozzina di canne, in rapida successione. Quel mattino, dopo aver fatto colazione e aver pulito una decina di gabinetti, mi scapicollai verso il bar, utilizzato come nascondiglio per la roba da tutto il gruppo di Woodstock e da qualche passante occasionale. Mi rollai un gran bel cannone e molte altre più piccole, pensando a cosa annunciare al mondo attraverso quel gruppo di pezzi grossi che si stava già radunando. Non mi venne in mente assolutamente nulla. Così mi augurai che l'erba mi desse l'ispirazione giusta quando sarebbe giunto il momento. La conferenza stampa si tenne nel ristorante del motel. Per mia fortuna, c'erano solo testate locali. Quelle nazionali erano in arrivo, o così dicevano. C'erano sei o sette reporter, quasi tutti della contea di Sullivan, compreso Bethel, Wallkill e Monticello. Per il resto, radio locali. In fondo alla sala, Mike Lang se ne stava comodamente seduto nei suoi jeans e gilet senza maglietta, scalzo, e con il sorrisino di uno in pace con il mondo. La prima domanda riguardava le mie autorizzazioni. «Ha un permesso valido per tenere un concerto a White Lake?» mi chiese uno dei giornalisti. Cercai di darmi un tono, ma sentivo l'effetto della marijuana che mi stava facendo perdere ogni contatto con la realtà. «Ci sarà un festival di musica e arte che si terrà nei giorni 15, 16 e 17 agosto» iniziai, «è solo un festival come tanti altri. Da parecchi anni, organizzo un festival di arte e musica qui a White Lake, ho fatto diventare questo posto un vero centro culturale internazionale. Prova ne sia che voi, meravigliosi signore e signori della stampa, siete qui per parlarne. Sono fiero di essere stato il direttore artistico di questi festival per dieci anni e spero che…» Uno m'interruppe bruscamente mentre cercavo in tutti i modi di riprendere fiato. «Vi hanno rilasciato un permesso per organizzare un concerto a White Lake?» mi chiese di nuovo. Oh sì, non avevo risposto a questa domanda. Calmati, continuavo a ripetere a me stesso. «Certo, sono il presidente della Camera di commercio di Bethel» dissi, cercando di recuperare un poco di dignità, «Densa che un personaggio pubblico con una simile responsabilità possa dare il via a un festival senza un regolare permesso?» domandai in maniera retorica. «Si rende conto che, secondo le ultime stime della polizia, arriveranno fra le novantamila e le centomila persone? Che cosa pensa la sua comunità riguardo alla presenza di centomila hippy qui a White Lake?» «La mia gente?» chiesi. «Gli autoctoni di White Lake non si possono considerare gente, né mia né di qualcun altro.» Qualcosa nella zona ancora funzionante del mio cervello mi comunicò che avevo perso qualsiasi forma di autocensura. Mi avventurai in una speculazione filosofica riguardo alla natura inutile delle conferenze stampa in questo enorme universo, dove le cose accadono in ogni momento, quelle grandi come quelle piccole, e dove noi siamo semplici spettatori. Proprio come l'evento che si svolgeva nel ristorante Yenta's Pancake House, con queste belle persone così tese e incavolate. Stavo per chiedere se per caso qualcuno avesse da mangiare quando mi posero un'altra domanda sgradevole. «Siete pronti ad affrontare i problemi sanitari che avrete se arriveranno centomila hippy al festival? Come farete a dare da mangiare a tanta gente?» chiese ad alta voce uno dei giornalisti. «Distinte signore e distinti signori dell'informazione. La vostra è una professione onorabile, la seconda in longevità e onore dopo la professione più antica del mondo che noi tutti ben conosciamo.» Detto questo, alzai le sopracciglia, con un sorriso complice seguito da una risata. Poi continuai: «Lasciate che vi chiarisca alcuni punti. Il festival ha affittato El Monaco per tutta la stagione e il motel funzionerà come quartier generale e uffici. Siccome siete tutti qui riuniti, approfitterò di questa occasione più unica che rara per annunciarvi che l'anno prossimo mammina costruirà un grattacielo di duecento piani con un centro benessere che ruoterà su se stesso, e delle sale conferenze per le Nazioni Unite all'ottantacinquesimo piano. Siete tutti invitati a ispezionare i locali destinati alla stampa che saranno disponibili in situazioni come questa. Siccome, però, devo ancora rifare circa trenta letti e pulire una dozzina di bagni, questa conferenza stampa si conclude qui. Vi saluto: adieu.» I giornalisti si guardarono l'un l'altro a bocca aperta e occhi sbarrati mentre con grazia levavo le tende. È andata piuttosto bene, mi dissi. Prima di uscire dalla porta, scorsi Mike Lang, sorridente e con uno sguardo di approvazione. Alla fine del mese di luglio, la polizia aveva elevato la stima degli afflussi a diecimila al giorno. In certe ore, dovevano creare due corsie per la gente che arrivava a Bethel attraverso la statale 17B. Nel frattempo, una folla enorme si radunava alla fattoria, tanti da sfidare ogni immaginazione. Una città di tende da campeggio stava prendendo forma, e un mare di persone e colori riempiva velocemente i quaranta ettari di terreno destinati da Max per l'evento. Subito dopo la mia conferenza stampa, arrivarono a El Monaco le emittenti televisive più importanti. Mike Lang lo aveva previsto e mi aveva chiesto di tenere libere tre camere per le tre maggiori tv: Abc, Cbs e Nbc. Aveva persino pagato per loro in anticipo. Infatti, i tre network parcheggiarono i loro pesanti camion, con tutte le loro parabole e antenne, di fronte al motel. Entrarono nel nostro parcheggio come carri armati alla conquista di un avamposto. In poco tempo erano già in grado di raccontare al mondo questo evento senza precedenti che stava per aver luogo a White Lake. Ovviamente quella pubblicità non fece che portare ancora più gente e traffico. I turisti non si limitavano ad attraversare la città. Entravano nei negozi, nei ristoranti, e raggiungevano il lago, dove facevano il bagno nudi e poi si stendevano al sole. I ragazzi giravano a cavallo, in moto, scooter e biciclette. C'era gente ovunque e gli hippy passeggiavano in ogni strada del paese. Siccome El Monaco era il quartier generale dell'organizzazione ed era situato proprio di fronte al lago, eravamo il punto di riferimento di chiunque avesse bisogno di aiuto. A molti serviva solo un posto sicuro per uscire da un brutto viaggio acido. Altri cercavano droghe, che avevano iniziato a distribuire gratuitamente alla fattoria di Yasgur. Altri ancora avevano bisogno di indicazioni o magari volevano una mano a trovare gli amici già arrivati. Tutto questo nel modo più semplice e pacifico. Ciononostante, il solo numero di persone che continuavano ad arrivare a White Lake stava mandando in bestia parecchi abitanti. Cominciarono pertanto una serie di ritorsioni contro i Teichberg: soprattutto atti di vandalismo, che all'inizio erano più che altro burle goliardiche. La notte, venivano a dipingere svastiche sui muri dell'ala presidenziale. Più tardi, iniziarono a decorare i muri con cordiali e affettuose frasette del tipo «Daremo fuoco al motel, sporco ebreo puzzolente». Ogni mattina papà scendeva dal letto, prendeva barattoli di vernice e pennelli, e imbiancava per cancellare tutte le scritte della notte precedente. I graffiti erano ovviamente solo una delle campagne lanciate dalla brava gente di White Lake. Un'altra era quella di aggredirmi con incessanti attacchi verbali, che continuarono fin dopo la fine del concerto e la partenza di tutti gli hippy. Tra questi primi crociati della guerra santa contro i Teichberg, c'era Bella Manifelli, una donna grassa, con bigodini metallici impiantati chirurgicamente sul cranio. Bella era una «fissa», cioè una turista permanente, che affittava una camera con vista sul lago in una pensione. Un pomeriggio, Bella fece visita alla reception, al solito in vestaglia, pantofole e bigodini, per esprimere il suo enorme disappunto nei confronti di El Monaco in generale, e più in particolare, di me. Bella non era per nulla soddisfatta dei Teichberg, e per comunicarci i suoi sentimenti volle affibbiarci alcuni epiteti: comunisti, sequestratori, libertini, assassini di Cristo, sventrapapere, finocchi, tirchi e infine il peggiore di tutti nel suo esteso vocabolario, una parola di sole cinque lettere: «Ebrei!». Bella ci comunicò che aveva conoscenze altolocate. Aveva potere. Affermò che suo figlio era un pezzo grosso, un giudice a Hoboken, e viveva di fianco alla casa del cugino di Frank Sinatra. «Farò una telefonata a carico del destinatario se voi ebrei non fermerete questo festival! Ho parecchie conoscenze, io! Potete chiedere a chi volete qui a White Lake cosa può significare una mia parola! Questo è l'ultimo avvertimento! Non abbiamo bisogno di altri ebrei nella contea di Sullivan e sicuramente non abbiamo bisogno di altre checche!» Sfortunatamente quella non fu l'ultima parola di Bella, e non era nemmeno la prima. Nei cinque anni precedenti, il nostro bar era sempre stato una tappa fissa nei suoi viaggi settimanali. Comprava una birra e un panino imbottito, e si sedeva su uno sgabello vicino alla porta d'entrata. Con la bocca piena, vomitava ingiurie contro chiunque le passasse davanti, sputacchiando briciole quando l'ira raggiungeva il culmine. Quando se ne andò, concluse il suo discorso nel solito modo: «Sono qui per testimoniare ogni cosa che accade negli alberghi di proprietà degli ebrei. Prostitute nel bar! Prostitute nelle camere dell'albergo! Prostitute lungo la 17B! Prostitute ovunque! Chiamerò mio figlio, il giudice, che vive di fianco al cugino di Frank Sinatra, Quando gli dirò cosa sta accadendo a El Monaco, ti faranno chiudere questa topaia e le daranno fuoco. Perché non ve ne tornate da dove siete venuti?». Bella usciva dal bar tra scrosci di applausi provenienti da chi si trovasse a passare da lì in quel momento. Infine riprendeva la strada di casa, ondeggiando un po' alticcia. Questa volta, però, Bella mi spiegò che le conseguenze sarebbero state immediate se non si fosse posto fine a quel concerto. Tenendo fede alle sue minacce, scatenò su di noi la piaga degli ispettori. Uno dietro l'altro fecero un sopralluogo l'ispettore sanitario, quello dell'acquedotto, dell'aria condizionata e i vigili del fuoco; ci stavano tutti con il fiato sul collo. Chiunque avesse la facoltà di ispezionare veniva a bussare alla porta di El Monaco. I vicini si lamentarono con tutte le autorità possibili, accusandoci di infrangere qualsiasi norma amministrativa e non. Eravamo abusivi, causavamo incendi, eravamo un costante pericolo morale e sanitario. Cosa più grave di tutte, eravamo quelli che avevano scatenato quell'orda di hippy su White Lake. Nuotavano nudi, fornicavano nelle acque del lago e, Dio ci perdoni, si lavavano con il sapone dopo averlo fatto. Tutte quelle attività avrebbero sicuramente inquinato l'acqua. Dopo una giornata passata al lago, alcuni di questi scapestrati andavano al cinema mentre altri si mettevano a gironzolare davanti al cinema stesso, impedendone l'accesso ai rispettabili cristiani timorati di Dio. All'inizio, tentammo di accontentare gli ispettori. Non avevamo niente da nascondere a parte, ovviamente, le scatole vuote dei condizionatori d'aria, le televisioni che non funzionavano, e quella sciocchezzuola di ospitare cinquecento persone in un motel che aveva la capienza massima di duecento. Gli ispettori annotarono tutto e pretesero correttivi immediati, compreso l'allontanamento dei trecento hippy in eccesso dal motel. Li minacciai di intraprendere un'azione legale e loro, per tutta risposta, mi risero in faccia. Alla fine, esasperato, andai da Mike Lang. «Mike, mi stanno facendo diventare pazzo. Non si potrebbe fare qualche cosa?» gli chiesi. «Nessun problema, Elliot. Rilassati. Abbiamo tutto sotto controllo. Fammi sapere se qualcuno ti crea dei problemi e risolveremo la cosa. Non ti devi preoccupare di nulla.» Di colpo, gli ispettori smisero di presentarsi alla porta. Non diedi seguito a nessuna delle loro ordinanze e nessuno degli ospiti fu allontanato. In qualche modo, Mike era riuscito a farli sparire, ma le circostanze di questo miracolo, uno dei tanti, per me rimase un mistero. Mike aveva le sue vie, certo, e una di queste, ovviamente, era il denaro. E lui ne aveva un sacco.

Il giorno dopo la conferenza stampa, Mike passò dal bar e mi chiese di accompagnarlo a sbrigare una commissione. Aveva con sé una borsa di plastica piena zeppa, che maneggiava incurante, come se non contenesse nulla d'importante. Stavo pulendo il bar dopo una notte di eccessi, alcol e droghe, e mi sembrava di avere la testa piena di plastilina. Per aiutare a riprendermi Mike mi lasciò dare un'occhiata all'interno della borsa. «Oh mio Dio» esclamai improvvisamente sobrio, «sono veri o adesso ci siamo messi a stampare quella roba?» «Tutto vero» rispose Mike. «Okay, ma non far vedere a mia madre cos'hai in quella borsa. Potrebbe entrare di soppiatto in camera tua e soffocarti nel sonno per molto meno.» «Prendiamo la moto. Ho bisogno del tuo aiuto» concluse Mike. In sella alla sua Harley-Davidson, tagliammo per la 17B fino alla National Bank di White Lake. Era un venerdì, e in banca c'era una decina di persone, tutte del luogo, per la maggior parte contadini, che in fila ordinata aspettavano di riscuotere la loro paga settimanale. Ero vestito di nero, jeans e camicia. Mike, come al solito, non aveva la camicia, bensì solo un panciotto con le frange, i jeans e un paio di sandali. In più aveva il suo abituale ammasso di capelli: un unico ciuffo arruffato di riccioli castani a cascata libera su viso e spalle. Nel momento stesso in cui entrammo, si girarono tutti e presero a fissare Lang, il petto nudo, i capelli lunghi e i sandali ai piedi. Potevo leggere il disgusto sulle loro facce. Il direttore della banca, Scott Peterson, un uomo grassottello vestito con un completo di lino indiano a righe sottili, riconobbe Lang e corse subito fuori dal suo ufficio verso di noi. Alcuni anni dopo, i consulenti imprenditoriali avrebbero chiamato quella mossa «limitazione dei danni». All'improvviso, i contadini in fila, fermi come statue di ghiaccio, si scongelarono e iniziarono a rumoreggiare: «Sporchi hippy. Finocchi drogati. Ti prenderemo Tiber, e pure Yasgur.» Max, che ormai era passato sotto la nostra bandiera, una volta conclusa questa vicenda si sarebbe ritrovato le tasche piene di denaro. Guardai i clienti fermi ad aspettare in fila e mi feci più piccolo possibile. Lang, impassibile e senza il minimo timore, sorrideva a tutti. Scott era chiaramente imbarazzato dalla nostra presenza. La sua faccia era diventata paonazza e i suoi occhi viaggiavano veloci tra i suoi clienti e i due stravaganti personaggi apparsi all'improvviso nella sua tranquilla e decorosa filiale. «Come posso aiutarvi?» chiese Scott a Mike, «Vorremmo aprire un conto corrente.» «Noi non facciamo…» Scott si fermò a metà, prese un respiro profondo, e si girò verso di me dicendo: «Ti posso parlare in privato?». Scott mi condusse nel suo ufficio e proseguì: «Abbiamo fatto affari con la tua famiglia per quattordici anni. La banca ha anche messo un'inserzione pubblicitaria in uno dei tuoi programmi teatrali. Ti abbiamo difeso con il tuo cinema quando il comitato delle madri lo aveva messo sotto accusa. La banca ha perfino comprato il tuo quadro di White Lake, nonostante non somigliasse a niente qui intorno, e l'abbiamo pure appeso nella sala principale. Cerchiamo di venire incontro ai nostri clienti, ma quando è troppo è troppo. Non sono il padrone della banca, sono solo il direttore di questa filiale. Ho dei superiori per i quali lavoro e hanno delle regole. Non trattiamo con i sovversivi. Mi sono spiegato, Elliot?». Lanciai uno sguardo verso Lang, che mi fece segno di raggiungerlo. Quando fui abbastanza vicino, mi sussurrò: «Di' all'elegantone qui che ho duecentocinquantamila dollari in contanti, nella mia borsa di plastica». Tornai indietro dal direttore, la cui ansia di cacciarci rasentava l'isteria. «Scott, il mio socio, il signor Lang, vorrebbe solo aprire un conto corrente su cui depositare i duecentocinquantamila dollari che ha con sé in quella borsa di plastica.» Lang fece ondeggiare la borsa verso Scott e la aprì quel tanto che bastava perché il direttore potesse rendersi conto delle mazzette di bigliettoni verdi stipate al suo interno. Gli occhi di Scott si spalancarono. Si avvicinò più velocemente possibile a Lang e con fare educato e un po' avvilito, disse: «Posso vedere il contenuto, una seconda volta?». Lang aprì la borsa e Scott ci tuffò dentro lo sguardo. «Con il vostro permesso?» disse a Lang, il quale fece un cenno affermativo con il capo. Scott tirò fuori una mazzetta di biglietti da cinquanta dollari, ne sfilò uno e lo guardò in controluce. La sua mano tremava, e il biglietto sventolava come la nostra vecchia bandiera. Con un'espressione seria, si rivolse ai contadini e agli altri gridando: «La banca deve chiudere immediatamente e riaprirà alle due del pomeriggio. Tutti quanti fuori, per favore. Ora!». S'incamminò di proposito verso quella decina di agricoltori ancora in fila, scioccati da quell'ordine improvviso. Prendendoli sottobraccio, uno a uno, li accompagnò personalmente fuori dalla banca. «Scott, che succede? Dobbiamo ritirare i nostri soldi, ne abbiamo bisogno!» protestarono rumorosamente. «Tornate fra un paio d'ore e potrete incassare i vostri assegni» rispose, e detto questo, Scott li spinse fuori dalla porta, chiudendola alle loro spalle. Poi respirò profondamente, si aggiustò la giacca e si precipitò verso Lang con la mano tesa. «Sono Scott Peterson, direttore della Banca nazionale di White Lake. In che cosa posso servirla?» «Lang. Mike Lang» rispose Mike ora più che mai divertito dalla situazione. Scott ci fece strada al suo ufficio e chiese a Mike che cosa poteva fare la banca per lui. Mike gli spiegò che voleva aprire diversi conti correnti, incluso un fondo per le spese in contanti e i conti per lo staff del festival su cui versare le buste paga. Gli disse, inoltre, che tutti quelli che lavoravano per il festival avrebbero aperto un conto il giorno dopo. Scott sbiancò. «Domani è sabato» disse, «la banca è chiusa di sabato.» Mike si voltò verso di me e disse: «Elli, c'è una banca a Monticello, vero? È solo a quindici minuti da qui, giusto amico?». Preso dall'agitazione, Scott si mise subito al lavoro. Afferrò il telefono, compose il numero della direzione generale della banca, e chiese subito di qualcuno, quasi certamente un responsabile del management centrale. «No, è una questione della massima importanza, accidenti» sbraitò contro chi stava dall'altro capo del telefono, «ho Tiber del motel El Monaco con il tipo di Woodstock, qui davanti a me. Vogliono aprire dei conti correnti e dotarsi di un sistema per i pagamenti dei salari domani stesso. Sì lo so, domani è sabato, idiota. Ci sono duecentocinquantamila dollari in contanti qui davanti a me per il deposito iniziale. Sì, è proprio El Monaco. No, non sto parlando del conto in rosso di El Monaco. Quella persona è con El Monaco. Okay, aspetto una vostra risposta.» Mentre riagganciava la cornetta del telefono, Scott si girò verso Mike e chiese con tono affabile: «Che tipo di società siete, a responsabilità limitata o per azioni? Che provenienza ha questo denaro? Come avete incassato tutto questo contante?». Mike interruppe Scott sfoggiando il suo sorriso beato e mi chiese con estrema gentilezza: «Elli, non è questa la banca che minacciava di farti fallire?». «Fallire» intervenne Scott ansioso, «fallire? No, no, no. Non abbiamo mai pensato di far fallire El Monaco. Abbiamo fatto affari con El Monaco per vent'anni. Siamo vicini, signor Lang. Vede quel dipinto appeso alla parete? La banca lo comprò proprio al primo festival di musica e arte organizzato a El Monaco.» Il telefono squillò in quel momento e Scott lo afferrò come se ne andasse della sua vita. «Sì» disse, e si mise in ascolto. «Oh sì» ripeté per poi rimanere di nuovo in silenzio. «Benissimo» disse finalmente. «Bene, bene, bene. Grazie. Lo riferirò. Sì, possono venire qua per aprire i conti correnti. Mi occupo io di tutto.» Scott riattaccò il telefono e sorrise radioso verso Mike Lang. «Ho buone notizie» gli annunciò, «ci troviamo qui domani mattina per soddisfare tutte le vostre necessità. Adesso, se volete, possiamo passare a firmare qualche modulo per aprire la posizione così potrete fare il vostro primo versamento.» Mentre allungava a Mike i moduli da firmare, Scott prese a blaterare e illustrare i tanti servizi che erano disponibili per Woodstock all'istante, senza dimenticarsi di menzionare il suo imperituro rispetto, l'ammirazione e il sostegno per il motel El Monaco e per lo stimato signor Elliot Tiber. Mike gli spiegò che tutto il gruppo di Woodstock avrebbe fatto regolari versamenti per l'intero mese successivo, e che avrebbe di certo apprezzato tutte le misure di sicurezza messe in atto dalla banca per assicurare un trasporto sicuro di quei fondi. «Vi garantiremo un servizio di sicurezza completamente gratuito per i vostri versamenti. Chiamateci e vi verremo incontro. Vi scorterò io stesso in caso di necessità.» Scott continuò a chiacchierare senza sosta, mentre Mike era intento a leggere ogni parola di ogni foglio che avrebbe firmato. Non era uno sprovveduto. Mike la sapeva lunga. Sono certo che se avesse dovuto tenere in equilibrio la sua Porsche con una mano e Janis Joplin con l'altra, l'avrebbe fatto in scioltezza. Per il mese successivo, Scott Peterson mantenne la parola data. Lui e i suoi lacchè scortarono grossi sacchi colmi di moneta dal mio bar fino alla banca lungo la statale 17B. Tutti quanti in quella filiale erano sorridenti e prodighi di riverenze e salamelecchi ogni volta che i riccioli del signor Lang facevano capolino in banca.

Dal primo agosto, la statale 17B era diventata a tre corsie, che convergevano su White Lake. La polizia dello Stato di New York stazionava di continuo all'incrocio tra la 17B e la 55, e se si guardava giù dalla collina, le tre file di auto sembravano non avere fine. Per fortuna, il traffico scorreva ancora, sebbene il numero delle auto continuasse a crescere a dismisura. La polizia stimava ormai centomila presenze per il giorno dell'inaugurazione, che sarebbe stato di lì a due settimane, e il numero rischiava di crescere ancora. Gli abitanti erano a un passo dall'isteria collettiva e i dignitari del paese sapevano di dover fare qualche cosa. Il giorno dopo la nostra visita in banca ricevetti una telefonata da un consigliere comunale della città di Bethel: mi informava che la giunta voleva revocare il mio permesso per il festival. Se lo avesse fatto, il comune avrebbe chiuso definitivamente Woodstock e spedito tutti a casa. «Questa è la cosa più stupida che vi sia mai passata per la testa» gli dissi chiaro e tondo. «Non avrete mai un'altra possibilità di rivitalizzare White Lake, Bethel e l'intera regione. Stiamo per assistere al più grande boom economico che questa città abbia mai visto. Quando questo concerto sarà finito, potremmo incaricare la Woodstock Ventures di organizzare un festival annuale a White Lake. Questo significherebbe un enorme flusso di denaro ogni anno. Potremmo diventare come Tanglewood in Massachusetts, o Edimburgo in Scozia. Potremmo avere turisti tutto l'anno e attenzione e interesse a livello nazionale. Farà resuscitare questa città morta. Salirà il valore delle proprietà e con le tasse potremo finanziare scuole e infrastrutture di tutto il territorio. C'è da rifare nuova l'intera regione con i soldi che faremo. Ti rendi conto che questa è l'occasione di arricchire tutti i cittadini di questo paese?» «Non vediamo le cose allo stesso modo» mi disse. «Questi sporchi hippy stanno distruggendo la città. Fanno sesso nelle acque del lago, camminano in giro nudi. Il prossimo passo sarà violentare le nostre donne. E poi? Gli abitanti della regione già si lamentano con la giunta e chiedono a gran voce di mettere un freno a questa situazione. Dobbiamo agire subito e lo faremo» concluse il consigliere. Come mai tutti i cretini diventano politici? Mi domandai. Io sono un pessimista nato e, come mia abitudine in queste occasioni, mi feci prendere dal panico. Quindi mi precipitai nell'ufficio improvvisato di Mike allestito nell'ala presidenziale, e gli raccontai per filo e per segno la telefonata. Mike ascoltò sorridendo e come al solito, non si scompose. Cercai inutilmente di scorgere qualche traccia di preoccupazione o disperazione nei suoi occhi marroni, ma vi lessi solo serenità e sicurezza. Afferrò uno dei suoi duecento telefoni funzionanti e nuovi di zecca e chiamò qualcuno della sua combriccola. Mentre il telefono squillava mi guardava sorridendo. «Non ti preoccupare, Elli» disse, «sapevamo che sarebbe successo. È tutto sotto controllo, amico mio.» Due ore più tardi un elicottero rombava sopra il motel per poi atterrare tranquillo sul manto erboso. Da quel volatile metallico saltò fuori un team di avvocati, tutti ben vestiti con quel look stile New York. Una di loro era bionda ed era la sosia perfetta di Faye Dunaway. Era vestita con un elegante completo nero. Sotto la giacca corta indossava una camicetta dorata, e i tacchi alti davano slancio a un paio di gambe tra le più belle che avessi mai visto. I suoi capelli avevano le sfumature dell'oro, proprio come quelli di Faye; gli zigomi erano alti e vulnerabili, proprio come quelli di Faye; il suo viso era una miscela di bellezza e intelligenza, proprio come quello di Faye. Nell'attimo stesso in cui si avvicinò e si presentò, io me ne ero già innamorato. Sì, lo so, sono gay. Però alcune persone sono così belle e carismatiche che ti fanno girare la testa appena posi lo sguardo su di loro. Disse di chiamarsi Chloe e qualcos'altro che non ricordo. Il mio cervello era troppo annebbiato per registrare i dettagli. Non faceva alcuna differenza quale fosse il suo vero nome; per me lei era Faye Dunaway. Ci riunimmo tutti nell'ufficio di Mike per studiare la strategia. Faye descrisse come la sua équipe si stava muovendo per proteggere il concerto a livello istituzionale. Risultava che tutti i permessi necessari, rilasciati da vari enti pubblici, erano in regola. Si era in una botte di ferro. Quei cervelloni ci rassicuravano che eravamo immacolati. Mike studiò con loro la strategia da tenere durante la riunione fissata per quella sera. Mi fece delle domande, di cui non mi ricordo. La sola cosa che riesco a ricordare sono le mie fantasie su come convincere la bella Faye a fuggire con me. Oh, e ricordo il disperato tentativo di non sbavarmi sulla maglietta ogni volta che la guardavo. Mike decise chi sarebbe intervenuto per primo e quello che ciascuno di noi avrebbe dovuto dire nel caso ci avessero interpellati davanti alla giunta. Gli avvocati ci istruirono sulle linee guida da seguire e un'ora dopo eravamo pronti per la seduta comunale. Quella sera, alle otto in punto, gli avvocati e Lang si ammassarono in una delle limousine e si diressero giù per la statale 55 fino a una scuola di Kauneonga, un quartiere di Bethel, che prende il nome da una tribù di nativi americani spazzati via molti anni prima da quelli che sarebbero diventati i betheliani. Io li seguii sulla Buick. Fu uno di quei momenti in cui i destini del motel El Monaco, dei miei genitori, di Woodstock, dei residenti di White Lake e mio erano appesi a un filo; un momento in cui una comunità di pazzi era pronta a trasformare i miei testicoli in un paio di graziosi orecchini. E tutto quello cui riuscivo a pensare era una donna. Io, un gay comprovato fatto e finito. Figuriamoci. Il viaggio fino alla scuola fu una sinfonia di scossoni, grazie alle diecimila buche che abbellivano quel breve tratto di strada. Poteva bastare questa via bombardata per comprendere quanto avessimo bisogno di quel denaro. Ma no! Loro pensavano solo a cosa potevano fare gli hippy ai loro giardini e al lago, e a quanto si sentissero indifesi di fronte a questa kermesse. Andare in quella scuola fu come guidare fino allo stadio il giorno della partita. Tutto intorno c'era una miriade di auto e camioncini, e centinaia di persone tentavano di entrare alla riunione. Non sarebbe stata certamente la solita assemblea consiliare della città di Bethel, dove quattro o cinque vecchietti biliosi e rompipalle facevano presenza solo per votare «No» a qualsiasi cosa tranne mettere le tendine ai finestrini degli autobus per non vedere i neri e i poveri che ci salivano. Sembrava un ritorno ai giorni della caccia alle streghe di Salem. È facile immaginare chi fossero le streghe. «Speriamo di uscire vivi da questa storia, stasera» sussurrai all'orecchio di Lang. Dalla folla spuntò il viso amichevole di Max Yasgur. «Salve ragazzi» disse Max, «niente male come partecipazione per una piccola città come la nostra, eh?» «È bello vederti, Max» risposi. L'edificio era pieno come un uovo. Tutte le sedie pieghevoli di legno, con le cerniere cigolanti e arrugginite, erano occupate. La gente era stipata dappertutto: in fondo alla stanza, lungo i lati e nel mezzo del corridoio. Il limite legale era forse di centocinquanta persone al massimo, ma quella sera dovevamo essere più di duecentocinquanta, più tutti quelli rimasti fuori dalla porta fino al marciapiede e nel parcheggio. Di fronte alla folla sedevano i sette membri del consiglio comunale, sei uomini e una donna, sistemati intorno a un tavolo sul palco. Gli uomini erano i classici agricoltori e piccoli commercianti, persone pratiche e pragmatiche, che così di colpo si davano alla politica. La donna era invece il tipo di segretaria intelligente ma la sua principale caratteristica era non avere il collo, per cui la testa appoggiava direttamente sulle spalle di quel corpo rotondo. Il livello di rumore nella sala era a dir poco insopportabile, in special modo perché il sentimento più diffuso era l'indignazione, per non dire rabbia. Quando Lang, gli avvocati, Max, e io entrammo, il baccano si fece più forte. Un miscuglio di fischi e saluti si levò di botto. Il nostro piccolo gruppo si diresse verso un tavolo in fondo alla sala, ai piedi del palco. Gli avvocati e Mike estrassero dalle borse le cartelline con i documenti e le poggiarono sul tavolo. Mi abbandonai su una sedia a mani vuote e con la sensazione di essere completamente nudo di fronte a quella folla ostile. Per fortuna, Faye accavallò le gambe e, per un attimo, ammutolì l'intero auditorium. Non durò molto: dopo pochi secondi il frastuono riprese. Diedi un'occhiata furtiva intorno a me per sondare gli umori dei presenti. Un gran numero di anziani era arrivato dalla campagna circostante, con la segreta speranza di assistere a un'impiccagione collettiva. C'erano anche parecchi di quei bigotti testardi che non volevano che il loro angolo di paradiso fosse inquinato da «stranieri», come gli hippy e gli ebrei. D'altro canto, però, il mio animo si risollevò quando mi resi conto che era presente anche tanta brava gente, consapevole che questa era una opportunità d'oro per tutta la regione. A una stima approssimativa, il voto sarebbe stato: sessanta per cento contro e quaranta per cento a favore di un'impiccagione immediata all'albero nello spiazzo lì fuori. Probabilmente tremavo perché Mike si girò verso di me e m'invitò a stare calmo. Lui lo era. Tutto il popolo di Woodstock lo era, Il problema è che la folla non lo era affatto. A un certo punto, il presidente del consiglio comunale fece oscillare il suo martello sbattendolo con veemenza contro il tavolo. Bang, bang, bang, risuonò. «Ordine, ordine in sala» intonò il presidente. Uno dopo l'altro, i membri del consiglio descrissero la distruzione, la devastazione e la degenerazione che il festival di Woodstock e Elliot Tiber avevano portato nella loro bella e tranquilla cittadina. Il presidente enunciò una sequela di leggi e ordinanze che secondo lui erano state violate dagli organizzatori di Woodstock e dal pubblico. Alla fine, invitò il resto del consiglio a votare se revocare o no il permesso concesso a Elliot Tiber per il festival musical-artistico. Prima del voto, però, il consiglio volle ascoltare ì rappresentanti della Woodstock Ventures. A quel punto, Lang mi fece un cenno con la testa, indicando che toccava a me. Alzai la mano per chiedere la parola e il presidente con un cenno del capo me la concesse. Mi alzai dalla sedia. Stavo per aprir bocca quando una folla astiosa prese a urlare: «Non è nell'ordine del giorno, non è nell'ordine del giorno!». Di contro, la parte amica della stanza zittì i nemici: «Lasciate parlare Elliot!». Prima che proferissi una sola parola, un uomo in tuta da operaio e con la barba incolta si alzò e invocò Lucifero perché mi portasse con sé all'inferno: «Scatena la tua collera e punisci questi demoni dai capelli lunghi e dà a Elliot Tiber una doppia dose delle tue calamità più terribili» pregò. Alle sue parole seguì un coro di «amen». Questo episodio incoraggiò una delle donne più in vista del paese a suggerire il da farsi gridando con quanto fiato aveva nei polmoni: «Strappate quell'autorizzazione e cacciate Tiber dalla Camera di commercio! Poi andate alla fattoria di Yasgur e arrestate tutti i non residenti». Ancora più «amen» e «sììì» si levarono a quelle parole. Capii che si avvicinava sempre più il momento del lancio del cappio sul ramo più alto dell'albero. Provai ad attirare l'attenzione del consiglio per poter continuare a parlare. Bang, bang, bang, il martello picchiò ancora. «Silenzio, tutti quanti. Elliot Tiber ha diritto di parola.» Ancora una volta qualcuno urlò che non ero autorizzato a parlare e ancora una volta i nostri sostenitori risposero di tacere e lasciarmi esporre le nostre ragioni. Quel giorno non avevo avuto il tempo o la lungimiranza di correre al bar e fumarmi l'intero inventario di hashish e marijuana. La conseguenza immediata fu che ero lucido e quindi in preda al panico. Nonostante tutto, presi a parlare con voce forte e chiara. «Come presidente della Camera di commercio di White Lake e Bethel, e come proprietario dell'unico motel della città che sia "Membro ufficiale approvato", sono stato informato da un consulente legale che il mio permesso è perfettamente valido, e non c'è nessun motivo legale per cancellare questo evento. Ho organizzato il mio festival musical- artistico per almeno dieci anni…» Nell'apprendere che il mio permesso era perfettamente legale, la parte ostile della folla iniziò a prendermi a male parole. Una bordata di fischi e urla si riversò contro di me. Sentii anche qualche minaccia piuttosto colorita, ma pensai che sarebbe stato meglio, se non più sicuro, porgere l'altra guancia. Quando quel baccano si placò, colto dall'ispirazione mi rivolsi direttamente ai consiglieri comunali. «Ma cosa vi passa per la testa?» chiesi. «Questa città è in coma. Non c'è turismo, non c'è lavoro, nessuno paga le tasse necessarie per le infrastrutture comunali. Stiamo morendo! Non lo vedete? Per una ragione misteriosa, la gallina dalle uova d'oro è scesa sulla fattoria di Max Yasgur, con la possibilità di averne per tutti. Questo festival ci sta mettendo al centro del mondo. Una vagonata di gente verrà a villeggiare, nelle prossime due settimane, qui da noi. Forse arriveranno cinquantamila persone. (Ridussi il numero stimato sotto istruzione di Mike.) Quelle cinquantamila persone porteranno denaro contante nelle loro saccocce e compreranno, affitteranno, spenderanno. Forse questa è una occasione unica, irripetibile. Se è così, benissimo, rappresenta un'entrata per noi. Ancora meglio, forse questo potrebbe diventare un festival annuale come quello di Tanglewood e Edimburgo. Potremmo avere turisti tutti gli anni e finalmente un guadagno sicuro. Potremo finanziare l'arte! Come potete stare qui e sputare su un miracolo come questo! Di che cosa avete paura? Di capelli lunghi e musica nuova?» Quest'ultima domanda probabilmente toccò un nervo scoperto perché all'istante i fischi e le urla ripresero peggio di prima. Mi sedetti e lasciai spazio a Lang, che si presentò e con estrema calma illustrò come il festival di Woodstock fosse a prova di legge: della città, della contea e dello Stato. Promise di collaborare a fianco della comunità per riparare qualsiasi danno alle proprietà causate dal pubblico. Infine pronunciò la frase magica: «Alla fine del festival daremo alle casse della città di Bethel venticinquemila dollari che potrete usare come meglio credete». Alla menzione del denaro, quel rumoreggiare di sottofondo di colpo si zittì. Mike continuò a parlare, deciso, senza mostrare emozioni. Fece l'elenco dei benefici potenziali che il festival avrebbe portato a White Lake e alla comunità di Bethel. Fece notare che il festival aveva permesso l'installazione di un centro di telecomunicazioni internazionali al motel El Monaco e alla fattoria di Yasgur, capace di raggiungere ogni angolo del mondo. Spiegò, poi, che la pubblicità sarebbe valsa milioni di dollari per White Lake, Bethel e tutta la contea di Sullivan. Avrebbe portato nuovo lavoro, investitori e turisti, e avrebbe generato una rinascita che la maggior parte dei luoghi di villeggiatura poteva solo sognare. L'armata degli ostili capì che Lang stava per vincere. Appena ebbe finito di parlare, i rompiscatole saltarono su sommergendolo di grida: «Corruzione! Mafia! Comunisti! Degenerati! Pervertiti!». A quel punto, uno degli avvocati di Woodstock si alzò ed espose gli aspetti legali di quella situazione. Sottolineò che Woodstock aveva un permesso e quindi dei diritti. Inoltre, il festival aveva ottenuto altre autorizzazioni da parte delle istituzioni pubbliche e sanitarie della contea. Il festival soddisfaceva tutti i requisiti per quello che riguardava misure igieniche, salute e sicurezza. La conclusione era ovvia. Gli organizzatori del festival si stavano comportando in maniera responsabile e a norma di legge. In altre parole, non c'erano cavilli legali su cui fare leva. E per i membri del consiglio comunale più intelligenti significava che la Woodstock Ventures avrebbe potuto citare in giudizio la giunta fino a levar loro anche le mutande, e rimetterli a culo nudo sugli scranni se solo avessero tentato di fermare il concerto. Max Yasgur si alzò per ultimo. La stanza piombò nel silenzio più totale. Max faceva quell'effetto alla gente. Non parlava molto, ma la sua umiltà e onestà facevano sì che tutti lo prendessero sul serio. Yasgur descrisse la sua esperienza con gli organizzatori del festival. Li descrisse come persone pragmatiche e dai seri principi etici. Disse che avrebbero mantenuto le promesse alla città e che sarebbero rimasti anche dopo il concerto per assicurarsi che tutto venisse rimesso a posto nel modo corretto. Mise in chiaro alla folla un concetto semplice: lui era il solo proprietario della fattoria e aveva il diritto di farci quello che voleva. Nessuna legge proibiva o limitava le assemblee pubbliche a White Lake. Le ragioni di Max scatenarono un nuovo giro di urla e fischi. Di punto in bianco l'umore della gente peggiorò. Iniziarono a gridare: «Avido ebreo! Boicottiamo il latte di Yasgur!». Le voci rimbalzarono fuori dalle mura della scuola. Ora le cose stavano davvero prendendo una brutta piega. I membri del consiglio si resero conto del repentino cambio di umore e fecero del loro meglio per riportare la calma in sala. Il martello picchiò diverse volte il tavolo ma i fischi e le urla di disapprovazione, gli insulti e le maledizioni continuarono senza sosta. Terrorizzato dal rischio che scoppiasse una rivolta, il presidente comunicò al pubblico che la riunione era aggiornata. Il consiglio si sarebbe riunito una seconda volta per discutere il da farsi, e votare se ritirare o no l'autorizzazione a Elliot Tiber. «La seduta è sciolta» gridò il presidente. Si sentirono ancora urla e maledizioni levarsi in mezzo alle manifestazioni di gioia chi aveva compreso che Woodstock aveva vinto. Lang e gli avvocati riposero tutti i documenti nelle cartelle e uscirono dalla sala, senza che quel dolce sorriso abbandonasse il volto di Mike. Una volta fuori, Mike si voltò verso di me e rise. Mi disse che non aveva mai visto una tale accozzaglia di atti e comportamenti illeciti tutti assieme. «Ma non ti preoccupare, Elli. Il concerto si farà. Non ci possono fermare e lo sanno.» «Spero tu abbia ragione, Mike. Spero proprio tu abbia ragione.» 10 Tutti vogliono un pezzo della torta

Quel piccolo specchio d'acqua conosciuto come White Lake ha una superficie di soli ottocento metri quadri. Nonostante la dimensione minuscola, il lago ha una storia curiosa di cui ero destinato a far parte. Dopo l'incontro cittadino, la tensione nei confronti del concerto di Woodstock salì a livelli altissimi. Risultava evidente che i personaggi chiave della comunità di Bethel avevano bisogno, per così dire, di un piccolo incoraggiamento per diventare sostenitori entusiasti del festival. Ci furono diverse telefonate e si organizzarono degli incontri, tutti molto discreti. Infine, una sera, qualcuno mi avvicinò e mi chiese di fare alcune spedizioni sul lago dopo mezzanotte. White Lake è circondato da alberi e case con attracchi per piccole imbarcazioni. In una normale giornata estiva, il lago si anima di barche e qualche occasionale appassionato di sci nautico. Di notte, però, tutte le barche rientrano e il lago diventa quieto e sereno. Qualche volta, di sera, nebbia e umidità danzano sul pelo dell'acqua. Il martedì notte dopo il consiglio comunale, pochi minuti oltre l'ora delle streghe, sedevo su una barca a remi vicino a un molo e aspettavo il primo di una serie di corrieri che dovevano arrivare a distanza di quindici minuti l'uno dall'altro. Mentre ero lì seduto, che tremavo un po' per paura e un po' per il freddo, ascoltavo le onde sbattere sulla chiglia della barca. Intravedevo qualche sporadica luce proveniente dai fanali delle auto in corsa sulla strada adiacente, ma perlopiù la mia veglia si svolgeva nel massimo silenzio, a parte grilli e gufi che mi tennero compagnia tutta la notte. Finalmente, due luci basse imboccarono la stradina d'accesso dietro al molo. Una portiera si aprì e si richiuse. Sentii il rumore dei passi che si avvicinavano, poi una figura scura e minacciosa si fermò sopra di me, in piedi sul molo. Gli feci cenno con il capo per indicargli che era arrivato alla barca giusta. Saltò nella piccola lancia e si sedette all'altro estremo di fronte a me. Tacitamente ci accordammo di non guardarci in faccia. Nessuno dei due disse una parola. Le lezioni di barca a remi non facevano parte dei corsi alla Yeshiva e la cosa più vicina a una barca con cui avevo avuto a che fare era stato leggere dell'Arca di Noè, così remare fino al centro del lago fu per me un'azione eroica. Tanto per cominciare, la pala di un remo era rimasta incastrata in mezzo alle travi di supporto del molo. Per poco non lo persi. Ci misi un po' a riprendere il controllo della situazione e ricominciai a remare verso il centro del lago. Arrivato, sollevai i remi e lasciai la lancia alla deriva nelle acque scure. Non c'era la luna e la nebbia e l'umidità che salivano dall'acqua erano affollate dagli spettri di quelli che avevano «sgarrato» contro la mafia e che ora giacevano sul fondo del lago. Stavo forse per raggiungerli? Suoni lievi, come quello delle foglie calpestate, provenivano dall'oscurità dei boschi. Avevo l'impressione che un cecchino mi puntasse addosso un fucile di precisione. La mia testa sarebbe saltata in aria, colpita dal proiettile? Scusi signore, ha una pistola in tasca o è solo felice di vedermi? Avrei voluto stendermi sul fondo della barca o gettarmi in acqua e nuotare verso la salvezza, ma cercai di controllarmi, almeno per il momento. La nebbia e la foschia erano troppo dense per vedere la riva del lago, nessuno poteva notarci. A dire la verità, a malapena riuscivo a vedere la mia mano. Afferrai la borsa di plastica ai miei piedi e ne tirai fuori un'altra piena. La porsi al mio ospite. Lui non disse nulla. Io non dissi nulla. Nessun «Grazie tanto. È stato un piacere fare affari con lei». Nessun «Porti i miei saluti a tutto il consiglio comunale». Nessuna domanda amichevole sulle rispettive famiglie o un commento sulla scomparsa delle carrozze tirate da cavalli. Remai di nuovo fino a raggiungere l'attracco, in completo silenzio. Appena a riva, l'uomo saltò fuori dalla barca e scappò via. Un rivolo di sudore mi scese dalle ascelle fin giù per la schiena. Riuscirò a sopportare altri quattro viaggi di follia come questo? Mi domandai. Appena in tempo perché il secondo fantasma di Woodstock si presentò e, con circospezione, saltò sulla barca. Questa volta si abbassò notevolmente sul livello dell'acqua, e mi resi conto che quest'ospite era più pesante del precedente. Si diresse goffamente verso la prua e si sedette a viso aperto davanti a me. Gli diedi un'occhiata furtiva, poi velocemente distolsi lo sguardo e remai verso la densa oscurità al centro del lago. Quando fummo abbastanza distanti presi una seconda busta dalla mia sportina di plastica, la porsi verso l'uomo e, in tutta fretta, tornai al molo. Quando attraccai, il passeggero si alzò e tentò di tirarsi sul pontile di legno, facendo quasi ribaltare la barca. Mi tenni saldo ai bordi e cercai di raddrizzare quella carretta. Fregandosene dei miei sforzi, provò di nuovo a sollevarsi, questa volta facendo allontanare la barca dal pontile. «Per dio, portala più vicino, portala più vicino!» si lamentò, quasi senza fiato a causa dello sforzo. Nel tentativo di manovrarla, per cause a me ignote, ottenni l'effetto opposto e la barca si allontanò ancora di più dal pontile cui l'uomo era aggrappato. Era in equilibrio precario. «Mi fai cadere, testa di cazzo. Vai indietro, vai indietro.» Lo afferrai per il didietro, all'altezza della cintura, e lo strattonai in modo da riportarlo a bordo. Purtroppo, nel dargli lo strattone, il rinculo fece allontanare la barca ancora di più e il peso lo sbilanciò in avanti. Cadde di faccia nel lago. Per metà era nella barca, per l'altra era completamente immerso, e stava trascinando giù tutto. Ficcai le mani nell'acqua e mi aggrappai alla prima cosa che mi capitò, il retro del suo colletto. Disperato cercai di tirare con tutte le mie forze. Purtroppo, il colletto si strinse e rischiai di strangolarlo. Emerse mezzo asfissiato, emettendo rantoli terribili, come quelli di un impiccato. La sua camicia si strappò all'improvviso all'altezza dei bottoni e lui ricadde di nuovo in acqua, solo che questa volta per intero. Per un paio di secondi l'uomo scomparve sotto la superficie scura, poi si rialzò con l'acqua che gli arrivava al petto e mi maledisse di tutto cuore. «Brutto coglione» disse mentre cercava di raggiungere la riva. «Tu, brutto coglione. Ora le banconote si saranno tutte bagnate, sei un vero coglione.» Ma quando raggiunse la riva, si era già calmato. Mi posso sbagliare, ma penso di avergli sentito dire: «Uff, sto diventando troppo vecchio per certe cose». Uscì dall'acqua e si diresse alla sua auto. «Pace e amore, fratello» sussurrai. Stavo per avere un esaurimento nervoso, ero pronto a lasciare la borsa con le buste sul pontile con una nota: «Prendetene una e divertitevi». Ma il sogno di Woodstock mi diede la forza di rimanere sulla barca, Una terza macchina si fermò. La portiera si aprì e si chiuse, sentii dei passi rapidi. «Okay, sei tu il tipo?» chiese l'ultimo visitatore, «Chi altro potrebbe essere qui a quest'ora?» «Okay intelligentone, andiamo, ma rimani vicino alla riva.» Anche lui sussurrava circospetto. Diedi qualche colpo di remo verso il largo, poi girai parallelo alla costa. Quando mi sembrò di essere abbastanza distante dal pontile, mi fermai e tirai su i remi. «Cosa credi di fare?» mi disse con un sibilo, «ti ho detto di fermarti? Continua, continua.» Era frenetico, e più diventava nervoso, più la sua voce sibilava isterica. Infatti, eravamo assai visibili dalla costa a differenza degli altri viaggi coperti dalla nebbia. Remai più lontano lungo la riva. «Dove vuoi che vada? Non ti va bene qui?» «Abbassa la voce» sibilò, «ti possono sentire. No, non mi piace questo posto, continua a remare.» Questo tipo sembrava un topo: era magro, ispido e nervoso. E più lontano andavo, più diventava nervoso. «Andiamo laggiù» bisbigliò. Remai ancora un po'. «Okay» disse, «fermati qui. Fermati qui.» Ci trovavamo in una piccola insenatura, coperti da rami sporgenti. La barca andò alla deriva verso un affioramento basso ed erboso, vicino alla riva. Tirai su i remi, presi un'altra busta dalla mia borsa di plastica e la porsi al mio ospite. «Non passarmi quella busta così, cretino. Cosa hai nella testa? Ci potrebbe vedere qualcuno.» «Che vorresti che facessi? Chiedere a qualche pesce di recapitartela? Chi ci può vedere? Siamo gli unici due nel raggio di quindici chilometri che, in questo momento, non sono fatti fin nei capelli!» Lentamente, con fare da attore consumato, disse: «Metti… la… busta… giù… sulla… coperta… della… barca.» Mentre parlava, tentava di non muovere le labbra, alla maniera di un pessimo ventriloquo. «Ma assicurati di non bagnare la busta» disse d'un fiato mostrando nervosismo. «Ora falla scivolare verso di me con il piede.» Feci come mi era stato ordinato e quando si chinò per raccogliere il pacco, sentii l'irrefrenabile desiderio di dargli un calcio in un occhio, così, giusto per una questione di principio. «Okay, adesso rema verso il molo lentamente, come fossimo una coppia in gita con la barca in una notte bellissima.» «Dio santo!» dissi a fil di voce. Questo tipo aveva bisogno di una settimana alla baracca numero due, con un paio di sadici incazzati del Bronx vestiti di pelle nera. I due viaggi successivi verso il centro del lago furono del tutto tranquilli, grazie a Dio. Quando anche l'ultimo uomo uscì dalla barca, aspettai finché non sentii la sua auto allontanarsi. Mi affrettai verso la mia Buick e guidai di filato fino al bar, dove mi rollai un enorme cannone nel quale mi rifugiai per dimenticare la serata in barca con le buste e quei pazzi che odiavano il rock'n'roll.

Ci doveva essere qualcosa nell'aria, o nelle stelle, o forse la gente aveva sentito parlare dei sacchi di Mike Lang, colmi di quattrini fruscianti. Comunque sia, il giorno dopo, le fogne sputarono fuori una mia vecchia conoscenza, Victor, che aveva gestito per anni un hotel a White Lake. Victor entrò tranquillo nel bar e mi salutò come fossimo stati fratelli che si ritrovano a distanza di anni. Ordinò una birra. Victor aveva poco più di cinquant'anni, alto, troppo abbronzato, capelli grigioargento e un'aria di bellezza corrotta. Se n'era andato da White Lake dopo aver concluso un affarone con un pezzo di terra che gli aveva rovinato la reputazione, almeno da queste parti. Alcuni anni prima di Woodstock, Victor comprò dei terreni paludosi lungo la statale 17B per meno di ventimila dollari. Per puro caso, proprio il giorno dopo, il consiglio comunale scelse quella palude come nuova area dove costruire il centro sportivo cittadino, lo stadio e il parco divertimenti. Victor si mostrò oltremodo sorpreso. Baciato dalla fortuna, vendette quella palude per una cifra vicina ai due milioni di dollari. Qualsiasi fosse il reale ricavo, la vicenda fu abbastanza ambigua da spingere le autorità a indagare. Victor fu interdetto da qualsiasi attività nello Stato di New York, e dovette andare a nascondersi una ventina di miglia più in là lungo la statale 17B oltre il confine con la Pennsylvania, sull'altra sponda del fiume Delaware. Viscido come sempre, Victor aveva una proposta che riteneva valesse il rischio di attraversare il confine. «Un mucchio di auto nel parcheggio, vero Elliot?» disse Victor come se stesse facendo solo conversazione. «Le cose ti vanno bene. Come butta questa faccenda di Woodstock?» «Alla grande, ma come sai bene, non puoi far contenti tutti, vero Victor?» risposi. «Hai ragione da vendere, ed è proprio di questo che ti volevo parlare, Elliot. Quello di cui questo tipo, Lang, ha bisogno è proprio un gruppo di collegamento, un paio di persone che gli possano curare le pubbliche relazioni con la gente del posto, per oliare gli ingranaggi in modo da rendere la vita più facile al festival. Capisci cosa intendo? Ho sentito dire che ha distribuito un casino di soldi qua e là senza motivo. Penso che abbia bisogno di un aiuto.» Un gruppo che curi le pubbliche relazioni?Ero stato già assunto io per quel lavoro, e lo riferii a Victor. «Bene, ma quello che avevo in mente era qualcosa di diverso, di ampio respiro, e più redditizio per noi due.» Victor mi spiegò che era d'obbligo avere un contatto continuo con il potere locale. Cominciai a innervosirmi. Victor sapeva usare le parole. Presentata da lui, un'estorsione sembrava un atto d'amore e gentilezza compiuto da Madre Teresa. E Victor in quel momento viaggiava in modalità Madre Teresa. «Potremmo dividerci un bel gruzzolo, diciamo venticinquemila dollari per diventare i preziosi coordinatori del festival di Woodstock» disse. «Venticinquemila dollari sono una marea di soldi, Victor» risposi, «che cosa può ottenere il festival in cambio di tutti quei bigliettoni?» Nel momento stesso in cui gli rivolsi quella domanda, mi sentii stupido. Fu allora che Victor mostrò i denti. «Bene, il festival si tiene grazie alla tua autorizzazione, giusto Elliot? Quella, più le altre da parte di differenti uffici pubblici. Tutte queste autorizzazioni rischiano però di essere annullate, revocate, cancellate, a meno che, e qui entriamo in scena io e te, a meno che Woodstock non abbia un gruppo forte di collegamento. Se questi del festival non ci assumono, sono sicuro che la Guardia nazionale potrebbe schierarsi e far piazza pulita di tutto quanto.» Detto questo, Victor diede l'ultimo sorso alla Tab, fece luccicare un sorriso luciferino e, mentre usciva dal bar, si congedò dicendo: «Ci teniamo aggiornati». Corsi subito da Lang per riferirgli della minaccia di Victor. Lang, calmo come sempre, mi chiese di organizzare un incontro. La mattina dopo, Victor, Lang e alcuni altri capoccia del festival si incontrarono a porte chiuse nell'angolo dei graffiti del bar El Monaco. Victor sciorinò tutta una serie di conoscenze e servizi disponibili per soli cinquantamila dollari. La mia parte si era ridotta a diecimila dollari, a causa di complicati calcoli matematici che tenevano conto di alcune spese impreviste che avrebbe sostenuto Victor. Alcune di queste spese impreviste coinvolgevano bustarelle da devolvere ai papaveri di Monticello. Quando Victor ebbe fatto la sua proposta, Lang lo invitò nel suo ufficio privato, che avevamo battezzato Castello Woodstock. Ne uscirono mezz'ora più tardi. Lang sembrava chiuso e pensieroso, Victor invece livido di rabbia. Io ero rimasto al bar, mantenendo un basso profilo come mi aveva consigliato uno dello staff che somigliava a Walt Disney. A dir la verità sembrava Walt Disney, ma parlava come Mel Blanc, il doppiatore di Duffy e Bugs Bunny, e a volte schiamazzava come Paperino. Victor si fermò davanti a me e disse: «Elliot, sarà bene che spieghi a Lang e alla sua corte di come si fanno gli affari a White Lake. Se credono di poter rinunciare al servizio di pubbliche relazioni, vuol dire che hanno sottovalutato Victor. Senza l'accordo e i quattrini, ti garantisco che non ci sarà nessun festival di Woodstock!». Quel giorno tenni d'occhio la porta della camera di Mike. Sia la Porsche sia la Harley erano ancora parcheggiate di fronte all'ufficio, questo significava che non era andato lontano. Le serrande erano chiuse, ma le luci erano accese e potevo sentire della musica. Prima di mezzogiorno, arrivò una limousine e parcheggiò di fianco alla Porsche. Nessuno uscì; rimase lì ferma come un'enorme bestia che si riposava. All'improvviso arrivò Victor. Uscì dall'auto e mi fece un cenno col capo come se fossimo stati insieme in quell'avventura. Lo guardai impassibile. Mike sbucò dal suo ufficio, accompagnato da due tipi agghindati come uomini d'affari. Mike, i due in giacca e cravatta e Victor entrarono nella limousine partendo a gran velocità. Alcune ore dopo, la limousine tornò. Victor uscì come una furia con una strana espressione minacciosa, entrò nella sua auto e sgommò via. Mike emerse facendomi il segno della vittoria. Mi precipitai verso di lui e ci abbracciammo. «Va tutto bene» disse Mike, «non c'è nulla di che preoccuparsi. Abbiamo dato una sistemata a Victor. Woodstock non corre alcun pericolo. Rilassati amico mio.» Non avemmo più notizie di Victor, ma il fiume di melma non era ancora finito.

Il giorno dopo, una coppia di gentiluomini newyorkesi in abito scuro, si avvicinò a me chiedendo di affittare lo Yenta's Pancake House. Parlavano con uno spiccato accento italiano. Mi offrivano duemila dollari in contanti per due settimane, o almeno fino a quando il festival non fosse finito. Lo Yenta mi procurava sessanta o forse settanta dollari alla settimana, al massimo. Inoltre una parte di me, devo ammetterlo, era ancora convinta che tutto quel denaro che pioveva dal cielo sarebbe evaporato appena finito Woodstock. Saremmo tornati come eravamo prima di incontrare Mike Lang e la sua compagnia. Saremmo diventati di nuovo poveri, pregando per avere un paio di clienti e sprecando soldi in ogni nuova attività. Fino all'arrivo di Mike, dovevo versare dagli otto ai diecimila dollari all'anno per salvare il motel. Moltiplicato per quattordici anni faceva una montagna di quattrini, specialmente a quei tempi. Volevo evitare a ogni costo di ricadere nello stesso baratro in cui avevamo vissuto per troppo tempo. La mia testa diceva: Affittagli lo Yenta per un paio di settimane, intasca più denaro che puoi, prima che questo sogno di Woodstock finisca. Questi, però, non sembravano dei rispettabili uomini d'affari. Avevano una brutta aria da cui mi sarei dovuto guardare con attenzione. Sfortunatamente, le vecchie abitudini sono dure a morire e feci a modo mio. «Okay» risposi. Uno dei due mi allungò del contante e ci stringemmo la mano. Non avevano neanche firmato nulla. Il giorno dopo, una mezza dozzina di costose auto nere e un paio di camion si fermarono davanti allo Yenta e iniziarono a scaricare cibo in scatola, bibite, attrezzature da cucina e piatti, cose normali per un ristorante. Poi però arrivarono delle casse marcate Mexico e altre marcate Bogotà. Gli uomini che trasportavano queste casse sembravano appena usciti dai provini per un film di gangster di Chicago. Erano tutti scuri, muscolosi e, per arrivare dritto al punto, raccapriccianti. Che cosa stanno facendo qui? chiesi tra me e me. Mi avvicinai al tipo che sembrava il capo della cricca, cinquant'anni, capelli grigi, e l'aria minacciosa anche quando sorrideva, e gli dissi che volevo prendermi alcune cose rimaste dentro il ristorante. «Niente dadi, niente gioco!» mi rispose usando una terminologia da giocatore incallito. «Abbiamo affittato tutto ed è tutto nostro.» Anche papà fece un tentativo. Disse al tipo che voleva aggiustare una perdita nel bagno. «Non ti preoccupare, l'aggiusteremo noi» rispose. Quella situazione non mi piaceva affatto, mi chiesi cosa stessero organizzando quei delinquenti. Volevano vendere droga? Le droghe erano dappertutto, e soprattutto erano gratis. Tornai dal tipo e gli dissi che volevo rescindere il contratto restituendogli i soldi. «Uh, non è possibile» rispose, «adesso il ristorante è chiuso perché lo stiamo ridecorando. Se ti va un pancake, puoi andare a fare in culo.» Gli domandai allora, molto cortesemente, di raggiungermi alla reception quando avrebbe avuto voglia di parlare con me del ristorante. Alcune ore dopo, arrivarono il capoccia e il suo socio, una sorta di Frankenstein, altissimo, scurissimo e tostissimo. Mi chiarirono il concetto: avevano pagato in anticipo per le due settimane, e sarebbero rimasti. Papà insisté sul fatto che eravamo responsabili di ciò che accadeva nella proprietà, e aggiunse che avrebbe ispezionato il ristorante. Loro si rifiutarono senza mezzi termini. A quel punto mi resi conto che questi non erano gli stessi con cui avevo trattato. «Dov'è il tipo con cui ho siglato l'accordo»?» chiesi. «Johnny? È stato chiamato per un'importante riunione in Sicilia. Abbiamo rilevato il suo accordo. Vuoi vedere il contratto di cessione?» «Johnny? Pensavo che il suo nome fosse Tommy.» «No. Noi non conosciamo nessun Tommy.» Cercai di argomentare che io non avevo stretto un accordo con lui, bensì con Tommy. Fu così che gli animi si infiammarono e Frankenstein colpì papà con un pugno. Non ero allenato a combattere e non sapevo nulla di karatè o autodifesa; al liceo, a Flatbush, non riuscivo neanche ad arrampicarmi sulla corda. Ma ero sempre un metro e ottantacinque e una quindicina di chili sovrappeso. Usai il mio peso come meglio potei. Diedi un paio di sventole a entrambi quei gorilla. Poi vidi papà accasciarsi al suolo e diventai furibondo. Mamma sentì il rumore, si precipitò dentro la stanza armata di mazza da baseball e approfittò della sua statura. Da un metro e cinquanta poteva picchiare basso e prese di mira le gambe di entrambi i gangster. Iniziammo tutti e tre a colpire ripetutamente i due uomini; era mamma a fare i danni maggiori, grazie alla mazza da baseball. Corsero fuori dall'ufficio maledicendoci. Chiamammo la polizia di Bethel. Due poliziotti d'assalto, con i capelli da marine e gli occhiali a specchio, arrivarono in ufficio, ci chiesero alcune cose e fecero una chiacchierata con il capoccia di quei delinquenti. Poi tornarono per informarci che tutto quello che succedeva era solo colpa nostra. Eravamo noi ad avere portato quei capelloni a White Lake, quindi dovevamo subire i relativi problemi che ne scaturivano. Dovevamo conviverci. Mamma, papà e io tenemmo subito un consiglio direttivo e decidemmo che lo Yenta era off-limits per tutta la permanenza dei gangster. Se ce ne stavamo tranquilli, probabilmente lo sarebbero stati anche loro. Inoltre, pensammo, forse erano lì per vendere droghe, ed era come vendere ghiaccio al Polo Nord. Così, fino al 18 agosto, giorno del ritorno di Bethel al suo solito stato comatoso e dello Yenta al suo stato originario, cioè morto, vuoto e perennemente in vendita, noi ci saremmo tenuti lontano dalla Pancake House. Inoltre c'era una caterva di altre cose di cui preoccuparci.

I biglietti per il concerto erano acquistati dai negozi di dischi, dalle edicole, dagli uffici dei teatri, dai semplici negozi e da un flusso infinito di rivenditori individuali. Nonostante la grandiosa vendita di biglietti, non si riusciva neanche lontanamente ad avere un'idea del numero finale di persone che si stava assembrando nel pezzo di terra alla fattoria di Yasgur. Su quell'estensione verde ritagliata da Max all'interno della sua proprietà si andava formando una città di medie dimensioni. Decine di migliaia di persone si accalcavano in quell'area, suonando stese sulle loro coperte e dormendo in tende o nelle auto. Gente di tutti i colori ed etnie, di ogni religione o razza, era arrivata qui per creare, tutti insieme, un'immensa distesa di umanità. Le fotografie aeree della folla, pubblicate in seguito sui giornali, erano coinvolgenti e terrificanti al tempo stesso. Si faceva fatica a credere ai propri occhi vedendo dispiegato quell'enorme e pacifico popolo riunito per un evento musicale. Lo staff di Woodstock aveva eretto delle recinzioni intorno al luogo del concerto per proteggere le zone coltivate della fattoria. La folla però cresceva a dismisura e risultò subito evidente che era impossibile poterla contenere a lungo. Il 5 agosto ci rendemmo tutti conto che la previsione iniziale che ipotizzava da cinquantamila a settantacinquemila presenze era ridicolmente lontana dalla realtà. La polizia stimò che per la data di apertura si sarebbero presentate almeno duecentomila persone, e che quel numero avrebbe potuto arrivare fino a cinquecentomila. Quella marea di gente era in gran parte pacifica, ma non potevano mancare scaramucce, litigi e qualche scontro, che misero in crisi le misure di sicurezza. Infatti, la Woodstock Ventures aveva creato un servizio di sicurezza destinato a gestire un numero di persone ben inferiore a quello effettivo. Se ci fossero stati scontri pesanti, l'unica forza in grado di riportare l'ordine sarebbe stata la Guardia nazionale. Capimmo ben presto di essere seduti su un vulcano addormentato il quale, se provocato, avrebbe potuto distruggere buona parte della provincia. Più il numero di hippy cresceva in modo preoccupante, più aumentava l'antipatia del paese nei confronti dei Teichberg. Il vandalismo aveva ora cadenza quotidiana. La gente passava con l'auto e gettava sacchi d'immondizia nella nostra proprietà. La notte, scaricavano grandi quantità di letame proprio davanti alla, da poco rinominata, ala Faye Dunaway e ad altri bungalow intorno. Lanciavano pietre dalle auto in corsa e spaccavano finestre in continuazione. Rubarono attrezzature costose, come il tagliaerba nuovo di zecca. Dei vandali s'intrufolarono all'interno del recinto e versarono vernice rossa nella piscina, facendo diventare l'acqua color sangue. Le pareti esterne del motel venivano regolarmente imbrattate di maledizioni e minacce. Eravamo sotto assedio. Tutti quegli avvenimenti sortirono un effetto strano su papà. In effetti, diventava più forte e deciso man mano che il numero di presenze cresceva e gli autoctoni s'imbastardivano. Combattere contro quei paesani ostili aveva tirato fuori il guerriero che era in lui. Era come una pozione magica. Ora portava con sé in giro per la proprietà la mazza da baseball con un orgoglio che non gli avevo mai visto. Spesso si presentavano gruppetti di giovani bulli che iniziavano a minacciare, quasi sempre solo a parole, ma che in alcuni casi arrivavano alle mani. Un giorno, papà si preparò in anticipo all'attacco giornaliero e saltò sul suo camioncino verde, quello con la scritta «Compagnia di costruzioni White Lake», parcheggiandolo poi davanti alla reception. Il camioncino trasportava sul cassone la fornace per il catrame. Papà la accese, riscaldò il catrame e si preparò all'arrivo di un gruppo di giovinastri. Intinse uno straccio nel catrame e minacciò di gettarglielo addosso se avessero solo fatto un altro passo in avanti. Poi infilò un mestolo piano nella fornace e lo usò per far schizzare palline di catrame bollente contro quei ragazzi. Avreste dovuto vederlo ridere mentre li colpiva con quei proiettili infuocati. E quanto si divertì mentre li spingeva fuori dalla proprietà, continuando a sparare catrame. Questo era un uomo che aveva passato l'esistenza intera piegato in due, testa bassa, sconfitto non solo dalla vita, ma anche da una moglie che lo rimproverava quotidianamente. Ora lui era il re del castello, un castello affittato. Faceva il suo giretto giornaliero in banca con borse cariche di denaro, e la gestione del motel era finalmente in attivo. Ora, quando le auto sfrecciavano e i passeggeri lo insultavano, lui indicava ad ampi gesti o il parcheggio zeppo di auto o il cartello esposto fuori dalla reception con scritto «Completo». Voleva far sapere a tutti quelli di White Lake che le cose gli andavano alla grande. Qualche volta, quando lo molestavano in mezzo alla strada, lui rimaneva fermo e sbatteva la mazza contro la mano aperta, come a dire che non gli sarebbe dispiaciuto affatto fargliene assaggiare un po', se proprio ci tenevano. Papà fu coinvolto in altri scontri. Un pomeriggio, due tipi entrarono nel motel e mi dissero che dovevo annullare seduta stante il festival, altrimenti mi avrebbero fatto saltare le cervella lì per lì. Uno dei due criminali reggeva una sbarra di ferro, e iniziò a farla volteggiare disegnando ampi cerchi sopra la testa. Gli dissi di allontanarsi, ma quelli si avvicinavano. Mi guardai intorno cercando invano una qualche arma. Papà spuntò fuori dal nulla, stringendo la sua mazza con la maestria di Mickey Mantle, il giocatore degli Yankees. Arrivò alle spalle di quello armato di sbarra. Il tipo non l'aveva nemmeno notato. Papà mosse la mazza verso il basso, come farebbe un buon battitore con una palla a effetto, colpendo le cosce di quel tipo. Bam! La botta fece volare a terra il teppista, rantolante. L'altro si voltò subito verso il compare, ma prima che potesse reagire mi scagliai su di lui e gli mollai un gran cazzotto sulla mascella. Entrambi si rimisero in piedi e scapparono fuori dalla proprietà, uno zoppicando vistosamente e l'altro tenendosi il volto con una mano. Papà si avvicinò a me ridendo, con gli occhi lucidi e felici. Mi mise un braccio intorno alle spalle e disse: «Vedi? Gli abbiamo fatto capire che non si scherza con i Teichberg». Ridemmo forte, euforici per il semplice fatto di essere sopravvissuti all'aggressione. Eravamo molto, molto orgogliosi. Il nostro rapporto stava cambiando. Per la prima volta, ci rispettavamo l'un l'altro come uomini. Mai prima di allora avevamo riso insieme tanto forte o ci eravamo abbracciati a quel modo. Iniziavamo ad apprezzarci, e di questo dovevamo ringraziare le circostanze. Uno degli effetti benefici di Woodstock, di cui, per quanto ne so, si è detto poco è stato la liberazione delle diverse scelte sessuali. Al festival c'era gente di tutti i tipi e di tutti i gusti. E tanti alloggiarono proprio a El Monaco. Un giorno, si presentò un transessuale di nome Vittoria e mi fece vedere il suo biglietto da visita. Mi offriva i suoi servizi in cambio di una camera. Mamma la cacciò in malo modo prima che potessimo raggiungere un accordo. Nemmeno lei però poteva fermare la marea e ben presto ci ritrovammo invasi da gay, lesbiche e persone di dubbia identità sessuale. Poi, ai primi giorni di agosto, arrivò Georgette. Si presentò con un autobus scolastico dai colori psichedelici. Alcuni fiori s'intrecciavano con serpenti che sembravano in calore. Era un capolavoro fatto con colori fluorescenti, ma il vero capolavoro era Georgette stessa. Aprì la portiera dello scuolabus e scese le scale con i suoi centocinquanta chili, come avrebbe fatto su un palcoscenico di Broadway. Vestita con un abito tutto pizzi alla June Allyson, e un fiocco innocente tra i capelli lunghi fino alle spalle, Georgette era la regina delle lesbiche. Era nata in Francia e viveva negli Stati Uniti ormai da vent'anni. La sua voce, dal forte accento francese, era morbida, setosa e bassa come venisse filtrata, prima di uscire dalla bocca, attraverso una di quelle macchinette per fare morbidi gelati alla crema. Georgette non arrivò da sola. Era accompagnata da altre tre donne molto eccentriche. Millie vestiva con un abitino svolazzante, con margherite e fiocchetti delicatamente intrecciati. Hank e Yo-Yo, al contrario, erano dure maschiacce stile camionista con la salopette di jeans, la camicia a quadri e scarponi da muratore. Neanche l'autobus di Georgette era ordinario. Si scoprì essere un centro mobile di meditazione Zen e di guarigione olistica. Nel 1969 non si vedevano ancora tanti buddisti americani che guidavano il loro tempio privato di medicina alternativa e meditazione psichedelica. Questo aggiungeva altro fascino esotico alla sua personalità. Mi scusai e le dissi che eravamo al completo, fino all'ultimo centimetro quadrato. «Nessun problema» ribatté. Chiedeva solo un posto dove parcheggiare l'autobus. L'unico spazio fisicamente disponibile rimasto era quello dietro il teatro, vicino al muro di cinta posteriore che, al pari del pavimento, era storto da far paura. Non vedevo nessuna ragione per cui non potesse parcheggiare là per quel mese. Tra l'altro, l'autobus avrebbe aiutato a tenere in piedi il muro. Così il tempio su quattro ruote trovò il suo pezzetto di terra, non proprio a cinque stelle, nell'area di White Lake. Si trattò forse del primo tempio lesbico Zen mai apparso in tutta la contea di Sullivan. Appena le donne si furono sistemate nella nostra proprietà, ci rendemmo conto che erano una benedizione. Per prima cosa misero in chiaro i loro gusti sessuali. Tenevano persino piccoli comizi sul femminismo, lesbismo e radici mitologiche dell'amore omosessuale. Ero felice da matti di avere lì queste anime gemelle, tanto che restituii loro l'affitto. Inoltre, le invitai a forare le gomme dell'autobus e rimanere lì in pianta stabile. Georgette e le sue amiche avevano raggiunto un livello d'integrazione e pace con loro stesse e con la propria sessualità che non avevo mai visto prima d'allora. A differenza del prototipo dell'uomo gay, costretto a studiare gli altri uomini prima di rivelare la propria sessualità, Georgette trasmetteva la propria essenza lesbica in ogni suo gesto. Dopo cinque minuti, chiunque la incontrasse capiva che era lesbica, persino coloro che rifiutavano l'omosessualità. Georgette era cortese e carina con tutti, non si arrabbiava mai. Non aveva bisogno di farsi accettare per forza. Al contrario, era rilassata e tranquilla nel vivere la sessualità, il che permetteva agli altri di avere con lei lo stesso atteggiamento. Per un gay come me che aveva trascorso la vita a nascondersi, lei era un'insegnante fantastica, e il fatto che fosse una donna rese più facile imparare. Mi è capitato di essere attratto da uomini a proprio agio con la sessualità, questo però complicava immediatamente le cose. Ora, potevo guardare Georgette con occhi liberi da qualsiasi desiderio sessuale. Era una grande figura materna, una dea della terra, una donna con poteri magici, che aveva tanta dimestichezza con buddismo e pratiche di guarigione quanta con l'importanza di essere se stessi. Ovviamente, tutte queste caratteristiche fecero di Georgette una grande attrattiva per i gay ospiti a El Monaco. Ci si riuniva intorno a lei soprattutto perché si poteva essere liberi. La sua stessa presenza lo richiedeva e riuscivamo a farlo senza sforzo. Era così onesta, aperta, rilassata ed equilibrata da spingerti a imitarla. La cosa più fantastica era che Georgette e le tre amiche non facevano mistero del loro amore per me. Queste donne dure, coraggiose e oneste, non mi consideravano solo simpatico ma anche una persona buona. Non mi vedevano come un ebreo, o un ciccione, o un gay, caratteristiche con cui da anni venivo costantemente bollato. Anzi, mi giudicavano una sorta di eroe in questo grande miracolo, impetuoso e fuori da ogni controllo chiamato Woodstock. Un giorno, io e lei discutemmo in privato vicino all'autobus. Seduti sulle sedie pieghevoli, ci rilassavamo all'ombra di un pino. «Ho delle buone notizie per te, Elliot» mi disse. «Di che si tratta?» «La notte scorsa, insieme alle ragazze, ho eliminato una maledizione che pendeva su di te.» «Che cosa hai fatto?» chiesi incuriosito. «Abbiamo cancellato una maledizione, Elliot» mi rispose, «la maledizione che ti impediva di essere te stesso.» «Non capisco, Georgette. Che cosa vuoi dire?» «Tu avevi una maledizione dovuta a qualcosa del tuo passato» mi chiarì, «e che si ritorceva contro di te. Lo vedevo dalla tua aura. Avevi un'energia negativa dietro la testa e lungo la spina dorsale. Non ti permetteva di avvicinarti a te stesso, e t'impediva di abbracciare e accogliere quello che sei per davvero. Mi sono riunita con le ragazze, la notte scorsa, e l'abbiamo eliminata. In questo momento l'energia negativa ti sta abbandonando e fra un po' sarà scomparsa del tutto. Ci vorrà del tempo, ma diventerai sempre più felice. Non ti senti già più leggero?» «Stare vicino a voi mi fa sentire meglio» dissi, «ma penso di essermi sempre sentito maledetto. Ho anche dato un nome a questa cosa. La chiamo la maledizione dei Teichberg.» «Sì, tu di sicuro hai una conoscenza intuitiva di queste cose. E ora che la maledizione non ha più potere, potrai scoprire tutte le tue potenzialità spirituali.» «Benissimo, questo mi piace, ma ti devo dire, Georgette, che sono ateo.» «Nel buddismo, diciamo che non c'è nessuno lassù che ha il diritto di chiamarsi Dio. C'è la vita, e la vita continua nell'infinito. Crediamo che la vita sia come una scuola e ogni volta continuiamo a tornare indietro per imparare la lezione e determinare il nostro karma. Karma è solo un'altra parola per esprimere il concetto di causa ed effetto. Se t'impegni per una buona causa, crei un buon karma. Se fai un errore o combatti per una causa sbagliata, crei un karma negativo. Ora tu ti sei impegnato in tante buone cause, Elliot. Guardati attorno. Guarda cosa hai aiutato a far nascere. Tutto questo è karma positivo, amico mio. Ormai era arrivato il momento di liberarti da quella maledizione, non è vero?» «Sì» risposi. Mi alzai dalla sedia e l'abbracciai. Le lacrime mi rigavano il volto. Quale delle mie «buone cause» aveva condotto questa dea nella mia vita? In quel momento, non mi importava se la maledizione dei Teichberg fosse vera o no, o se fossi realmente libero. Lei mi aveva compreso, persino nella parte più nascosta, e mi aveva amato. Questo bastava e avanzava. Dopo quei discorsi, cominciai a pensare con più convinzione di fare outing con mamma e papà. Volevo confessare la mia omosessualità. Avevo bisogno di dire a loro e al mondo intero chi ero. Dovevo solo trovare il momento più opportuno. Nel frattempo, qualcosa di strano stava accadendo proprio sotto i miei occhi. Papà e Georgette stavano diventando grandi amici. Erano pazzi l'uno per l'altra, e si vedeva che lui adorava starle accanto. Iniziarono a passare parecchio tempo insieme. Ogni volta che passavo vicino all'autobus, li trovavo seduti sulle sedie da giardino a chiacchierare. Quello che mi sorprendeva era notare l'intimità delle loro conversazioni. Li beccai diverse volte a ridere. Altre volte li osservavo mentre Georgette parlava e papà annuiva. Che strana visione; non avevo mai visto papà chiacchierare con nessuno. Ma eccolo qui con Georgette, a fare il simpatico, ad ascoltarla e ad approvarla, come se condividessero una profonda verità. Ogni volta che li trovavo in conversazione avrei voluto sgattaiolare senza essere visto. La cosa più incredibile, quando eravamo tutti e tre insieme, era papà che comunicava con me attraverso la sua espressione o, come diceva Georgette, per mezzo dell'aura. Non c'era possibilità di sbagliarsi: mi stava inviando segnali d'amore. Si era ammorbidito e mi guardava con orgoglio. Lo faceva da tutta l'estate o, perlomeno, sin da quando erano comparsi Mike Lang e la sua compagnia. Era particolarmente dolce quando eravamo con Georgette. All'inizio, non capii e pensai che stesse solo invecchiando. Un giorno, d'improvviso, mi sorrise, e compresi che sapeva della mia omosessualità, mi amava ed era fiero di me. Era quasi troppo per me. Tornai alla mia baracca numero due e mi misi a sedere. Le cose cambiavano così rapidamente da non riuscire a starci dietro. Il mio io mutava davanti ai miei occhi. Chi ero adesso? Non riuscivo ancora a dirlo con certezza. Mi sentivo più tranquillo, più sicuro, ero in pace. Ogni aspetto della vita era cambiato durante quell'estate del 1969. Persino questo: l'espressione negli occhi di papà quando ci guardavamo. Da qualche parte dentro mi sentivo ancora quel bambino che riparava tetti con il padre, nella speranza che lui si accorgesse di quanto lavorassi duro. E ora Woodstock, questa grande girandola di musica e potere, aveva spazzato via la nostra vecchia città e stava cambiando tutti noi. Anche mamma. Ovviamente, lei era in paradiso, contava denaro, ne depositava una parte e ne nascondeva un'altra nel suo luogo segreto. Era così indaffarata a contare tutti quei quattrini che lasciò passare quattro sabati senza celebrarli. A essere sinceri, depositare denaro invece di chiederlo in prestito e ritardare il pagamento delle rate era un'esperienza nuova. E lo era anche avere il motel tutto esaurito, se poi si tiene conto che ospitavamo il triplo dei clienti superiore rispetto alla capienza delle camere. Ora, il solo problema di mamma era fare i conti per questa nuova prosperità con l'Altissimo. Per questo, dovette cambiare il suo discorso serale con Dio. Di solito, durante le preghiere, discuteva la vita dei figli, quella del marito, tutte le attività intraprese e la sua stessa vita. Qualsiasi cosa, insomma, tentasse di controllare in uno specifico momento. Ma ora, con tutto quel denaro che affluiva, anche di sabato, giorno in cui la legge ebraica proibisce di maneggiarlo, doveva far pace con l'Onnipotente. La ascoltavo attraverso la parete sottile di compensato sistemata che divideva la sua stanza da letto dall'ufficio. Qualsiasi fosse l'argomento del giorno, normalmente finiva la sua solita controversia serale con Dio sempre con le stesse promesse. «Dio, so che mi perdonerai anche se maneggio denaro di sabato perché questo è un momento di bisogno. So che non ci avresti mandato questo festival se non avessi voluto aiutarci, per questo lavoro tutti i giorni per mostrarti gratitudine. Noè non lavorò all'Arca tutti i giorni per quaranta giorni? Appena questo festival sarà finito, farò una bella donazione e costringerò Elli ad andare in sinagoga, diciamo almeno per le feste comandate, lo farò mangiare kosher, gli farò trovare una bella moglie ebrea e lo farò comportare come si deve! Grazie Dio per averci salvati dalla rovina.» Dio mio. Okay, c'era ancora tanto da fare per lei, specialmente nel farle accettare che il figlio era un adulto e con una vita propria, e che non era più suo compito salvarlo. Avevo però imparato, ormai da tempo ad avere aspettative realistiche con mamma. E persino lei stava cambiando, dovevo riconoscerlo. Forse era a causa di quell'abbondanza inattesa di denaro, o forse per le vibrazioni positive che irradiavano dai giovani di Woodstock, o ancora per le volute di hashish che fluttuavano ogni sera per l'intera proprietà. O forse era per tutte queste ragioni insieme. Qualsiasi fosse il caso, mamma diventava ogni giorno più umana. Non era più così petulante e tirchia. Non l'avevo mai vista tanto rilassata e, a volte, addirittura generosa con la gente, perlomeno in confronto a prima. Non si faceva più pagare per ogni saponetta o asciugamano. Era il suo peculiare approccio allo spirito di carità. Sinceramente, mi meravigliavo di tutte quelle trasformazioni. Mi auguravo solo che non svanisse tutto dopo il festival. La carità ha una ragion d'essere solo quando la gente sente di avere abbastanza per sé, e quel senso di abbondanza rischiava di essere messo in discussione.

Ai primi di agosto, ci rendemmo conto di avere un problema serio. Stavamo finendo le scorte di cibo troppo in fretta. Chiamai i rivenditori all'ingrosso e richiesi l'arrivo di almeno una dozzina di camion: bottiglie d'acqua, cibo in scatola, bibite, hot dog e altri generi di prima necessità. Dopo essersi fatti una grassa risata e capita la gravità, i distributori mi chiesero il pagamento anticipato. Nessuno mi avrebbe fatto credito. In più, non avevo alcuna esperienza nell'ordinare tali quantità di cibo, e non sapevo se stavo ordinando troppo o troppo poco. Nel frattempo, Mike era sommerso dalle esigenze di Woodstock. Doveva andare di continuo a New York per trovare i fondi che gli servivano per dar da mangiare, sistemare e provvedere alle misure igieniche per questo enorme, improvviso numero di spettatori che la Woodstock Ventures si trovava a dover gestire. Papà e io ne parlammo e decidemmo che sarebbe stato intelligente investire del denaro in due camion di bibite e altri due di cibo. Avanzammo anche la richiesta di altri cinquanta camion di scorta pronti per l'evenienza. Come avremmo presto capito, il numero di spettatori era destinato a crescere, e il cibo tornò a scarseggiare in breve tempo, tanto che avremmo potuto ordinarne cinquanta volte tanto senza problemi. Quella popolazione di hippy sempre più numerosa avrebbe avuto il potere di annientare tutta Bethel, e Bethel lo sapeva. Sicuramente era questo a terrorizzare la gente del paese. Ma gli hippy avevano anche il potere di rendere indimenticabili quei momenti. Nessuno sapeva come sarebbe andata a finire, e, a dir la verità, tutti quanti se la stavano facendo sotto. 11 Il giorno è salvo

I dieci giorni precedenti l'inaugurazione cambiarono radicalmente la nostra concezione dello spazio e del tempo: lo spazio si restrinse, il tempo svanì del tutto. La realtà, perlomeno quella che conoscevano i residenti di Bethel, era stata risucchiata dalla controcultura. Tutto si era capovolto. Woodstock dimostrò che quando si è tanti e uniti ognuno conquista un margine di libertà personale che, per quanto innocua, prima non avrebbe potuto nemmeno sognare. I giovani che venivano a Woodstock fumavano marijuana e assumevano droghe alla luce del sole. Si spogliavano in pubblico e nuotavano nudi negli stagni e nei laghi. Facevano l'amore dietro ogni cespuglio, e a volte non si preoccupavano neanche di cercare un cespuglio. Insomma quei ragazzi – uomini e donne indistintamente – si incontravano e si baciavano ovunque: solo vedendoli ci si poteva credere. La maggior parte di quelli che arrivarono a Woodstock si fermò nella fattoria di Yasgur, ma tantissimi altri presero a girovagare per Bethel e White Lake. Erano dappertutto e camminavano in gruppi sulla 17B verso la fattoria; si muovevano in massa nelle strade e sui marciapiedi di Bethel. Non si poteva fare un passo senza sbattere contro un hippy; chi non voleva vedere quello che stava succedendo non sapeva dove nascondersi. Il mondo era arrivato a Bethel, e l'effetto era strabiliante. La gente del posto era abituata a uno stile di vita tranquillo e al solito rassicurante tran tran. Prima di Woodstock, i negozi in paese avevano, al massimo, uno o due clienti nello stesso momento. Dieci persone nello stesso negozio era qualcosa che somigliava più a una rivolta. Ora centinaia di persone rimanevano in fila per comprare cibo, acqua, bibite, carta igienica e sapone, mentre altre centinaia si mettevano in coda. Ovviamente i prezzi si impennarono: una bottiglia d'acqua poteva costare cinque dollari, il pane, gli snack, le bibite e il latte erano diventati merce rara. Quando il cibo iniziò a scarseggiare, la paura che già aveva investito la città toccò punte di isteria. La «Fattoria del maiale», una comune fondata all'inizio degli anni Sessanta, rifornì gratuitamente il festival. Sembra che Mike Lang e i suoi soci avessero chiesto al responsabile della comune, tale Wavy Gravy, di aiutarli durante la manifestazione. Wavy acconsentì e costruì persino una cucina da campo per distribuire qualcosa da mangiare agli spettatori. Più tardi, la «Fattoria del maiale» si vantò di aver servito «la colazione a letto a quattrocentomila persone». Nessun dubbio che tutto questo cibo aiutò a mantenere la pace. A El Monaco scoprimmo a nostre spese le conseguenze della fame sulla folla inferocita. Quando finalmente arrivarono al motel i due camion pieni di provviste non facemmo in tempo a scaricarli che la voce si era già diffusa tra la gente. Nel giro di qualche minuto si radunò una folla immensa. Tutti corsero verso i camion, intenzionati a scardinare le portiere e impossessarsi di tutto quello che c'era. Papà affrettò le operazioni e mostrò i due veicoli vuoti. Si potevano toccare con mano il disappunto e la rabbia. Né papà né io sapevamo cosa avrebbero fatto, ma ci passò davanti agli occhi l'immagine della folla che saccheggiava e distruggeva il motel alla ricerca di cibo. Finché dal nulla spuntò un ragazzo con la chitarra. Si arrampicò sul tetto di uno dei camion, si sedette, e iniziò a cantare Blowin' in the wind di Bob Dylan. E grazie a Dio, quel ragazzo sapeva cantare. La folla lo guardò con un misto di sorpresa e timore reverenziale. Fu allora che accadde il miracolo: la rabbia scemò. Le spalle si rilassarono e la tensione si allentò. Molti iniziarono a sorridere, altri si unirono al canto. Qualcuno cominciò a mettere le braccia sulle spalle del vicino, poi se ne andarono tranquilli e, in poco tempo, quella folla pronta all'assalto si disperse pacificamente. Il mite potere della musica aveva trionfato. Per fortuna, la «carestia» non provocò alcuna crisi profonda. I soci di Woodstock riuscirono a portare abbastanza vettovaglie, acqua e cibo con gli elicotteri, unici mezzi per raggiungere velocemente White Lake da quando la statale 17B era intasata di auto e camion a passo d'uomo, e più spesso bloccati del tutto. Ogni centimetro della nostra proprietà era stato occupato. Dovemmo addirittura affittare la palude, dove alcuni giovani improvvisarono un campeggio utilizzando auto, scuolabus e furgoni. Folti gruppi erano letteralmente stipati nelle stanze, persino in quegli interstizi che papà era riuscito a trasformare in improbabili camere da letto. C'erano più di cinquecento persone a El Monaco, e io stesso non sapevo dove e come riuscissero a starci. Insieme a papà, riempimmo la piscina con acqua potabile e sistemammo alcuni tubi sottotraccia per permettere a chiunque di procurarsi un po' d'acqua ogni volta che ne avesse avuto bisogno. Fu un miracolo che le quattro sorgenti della nostra proprietà e le rispettive pompe avessero continuato a funzionare, malgrado le minacce quotidiane dei nostri concittadini di avvelenare l'acqua o distruggere gli impianti. Lasciammo le docce a chiunque volesse lavarsi, il sapone, e non solo quello, era già esaurito da tempo. Per forza di cose dovemmo trasformare il motel in un pronto soccorso improvvisato per aiutare quelle centinaia di persone che arrivavano con tagli e contusioni, o che semplicemente cercavano un luogo tranquillo dove riprendersi da qualche brutto trip chimico. Mi procurai ogni coperta disponibile dal magazzino del motel per coprire quelli che stavano smaltendo una bella sbronza, e insieme a papà scavai trincee sotto le fondamenta per ottenere letti di emergenza. Un sacco di gente, per la maggior parte giovani, spuntò dal nulla per aiutarci a curare quelli fatti di droga o le vittime d'incidenti. Avevamo allestito un vero e proprio ospedale, e se papà non riusciva a occuparsi di qualcuno, c'era sempre chi appariva all'improvviso e lo faceva al posto suo. Tutti i giorni i nostri telefoni erano intasati da familiari sconvolti, che ci chiedevano da ogni parte del mondo se avessimo visto qualcuno dei loro cari. Far fronte alle continue richieste di questa nuova realtà ci assorbì completamente. Eravamo costretti a preoccuparci degli altri e a fare qualsiasi cosa per aiutarli. Woodstock aveva una propria forza, un codice morale e poteri che andavano oltre la nostra immaginazione. Tutti a Bethel sapevano di aver perso ogni controllo su quell'evento. Molti erano decisi a lasciarsi trasportare, ma la maggior parte era semplicemente terrorizzata. Naturalmente, gli abitanti di Bethel temevano al di sopra di tutto che gli hippy in rivolta potessero radere al suolo la città. Circolavano voci su atrocità inaudibili commesse alla fattoria di Yasgur. Gli Hells Angels erano nei paraggi, e qualcuno affermava che rubavano soldi alla gente, uccidevano e violentavano le ragazze. Gli hippy facevano sesso di gruppo. Tutti erano strafatti e a un passo dalla follia. Cani e gatti si scopavano a vicenda. Erano tutte falsità, be', almeno la parte sulla violenza. Ma le voci erano abbastanza insistenti da accendere gli animi degli indigeni e mandarli fuori di testa. Avevo ben chiaro che se le cose fossero peggiorate avrei avuto bisogno di maggiore protezione al motel. Le nostre difese si limitavano a papà con la mazza da baseball e me. In caso di rivolta non si poteva certo contare su mamma, nonostante il buon lavoro svolto con i mafiosi. La sua arma migliore era lanciare qualche anatema russo, che purtroppo richiedeva troppo tempo per andare a segno. Avevamo bisogno di un paio di guardie serie, ma sfortunatamente non potevamo contare su nessuno. Finché non spuntò Vilma. Ero uscito dalla reception nel bel mezzo di un temporale e mi trovai di fronte, ferma davanti a me, in piedi tra il fango e l'erba, questa donna, alta e robusta, con un ombrello nero in mano, che mi guardava dritto negli occhi. Doveva essere almeno un metro e novanta, indossava un corpetto con lustrini neri, calze a rete e scarpe con tacchi a spillo altissimi. Il suo trucco era così pesante che avrei potuto usarlo come colla per la carta da parati. Le ciglia finte sembravano due fila di denti neri. I capelli della parrucca erano raccolti in una crocchia fermata con una sorta di bacchette cinesi, e tenuta insieme da tanta lacca da far impallidire Maria Antonietta. Non l'avevo vista arrivare al motel, eppure non si può dire che passasse inosservata. La fissai mentre i tacchi a spillo affondavano nella melma. Mi ricordava in parte Marlene Dietrich, con un piccolo extra di testosterone e molti meno buchi nella cintura, Nonostante tutto, era un'apparizione, lo devo ammettere. Il suo sguardo attento restava fermo e sembrava chiamarmi. «Mi permetta di presentarmi» disse, «faccio ancora fatica a credere che ci siamo incontrati, finalmente.» Che accento era? Russo, tedesco o del Jersey? Un misto dei tre, pensai. «Sono la baronessa Von Vilma. La tengo d'occhio da un paio di giorni. Non sembra un facchino. Cosa sta facendo qui?» «Sono il proprietario.» «Ah, il proprietario. Sono qui per offrire i miei servigi. Lei sembra un uomo capace di apprezzarli.» Detto questo, tirò fuori dal manico dell'ombrello un gatto a nove code di pelle. Non sapevo cosa fare. Non ero mai stato coinvolto in qualche giochetto con una dominatrix prima d'ora. «Non è che per caso lei ha un fratello da presentarmi?» dissi con un sorriso d'intesa. «All'occorrenza so come adattarmi» ribatté la baronessa e sotto il corpetto di paillette mi mostrò il suo segreto. Lei era un lui! Vilma doveva essere forse il primo travestito ad aver mai messo piede a White Lake. Non sono uno che si lascia impressionare facilmente, ho visto più o meno tutto quello che si può vedere, ma devo ammettere che Vilma mi aveva sorpreso. A malincuore rifiutai la sua offerta. Forse, in un'occasione differente, avrei potuto prenderla in considerazione, ma in quel periodo mi sentivo nel pieno di una di strana transizione. Niente sesso tra noi, le spiegai. Vilma era delusa, ma capì la situazione. Sospirò e poi dandomi del tu mi invitò: «Bene, forse potremmo farci una bibita ghiacciata insieme. Ti va?». Accettai volentieri. Andammo nella sua camera, dove teneva una bottiglia di Coca-Cola e un paio di bicchieri di carta. Li riempì e bevemmo. Vilma mi parlò del suo passato. Era stata sergente nella compagnia del generale Patton durante la Seconda guerra mondiale. Mi mostrò perfino alcune foto per provarmi la veridicità del suo racconto. Ovviamente sembrava alquanto diversa nell'uniforme militare, ma era lei, senza alcun dubbio. Era diventata nonno otto volte, si travestiva e occasionalmente si prostituiva. «Sei una musa ispiratrice» dissi e di colpo una vera ispirazione mi colpì. «Vilma, qui intorno servirebbe qualcuno che, come dire… sappia imporsi» le spiegai. «La gente è arrabbiata con me per aver portato Woodstock a Bethel, e a volte si diverte a infastidirci. Finora io e papà siamo riusciti a tenere tutto sotto controllo, ma le cose potrebbero precipitare. Potresti darci una mano a, capisci, farci da guardia, quando non sei impegnata in altre faccende?» «Sarebbe un onore per me, Elliot» rispose. Ci stringemmo la mano e per poco me la frantumò. Capii di aver fatto la cosa giusta. Ironia della sorte, proprio mentre io e Vilma stavamo uscendo dalla camera, una coppia di giovani teppistelli dipingeva una svastica sul muro dell'ala Faye Dunaway. Corremmo per fermarli, ma prima di arrivare, un gruppo di hippy si era avvicinato a loro. «Che cosa state facendo?» urlò uno. «Perché tutto questo odio?» Un altro strappò il pennello dalla mano di quell'artista. Iniziarono a spintonarsi, e presto si trovarono tutti a lottare nel fango. Papà accorse, mazza da baseball alla mano. Dopo aver osservato la dinamica della scena, riuscì ad allontanare i due vandali. «Andatevene e non fatevi più vedere» intimò, «altrimenti, vi infilo questa mazza in un occhio.» Mi voltai verso Vilma: «Hai capito cosa intendevo quando dicevo che abbiamo bisogno d'aiuto?». «Elliot, terrò gli occhi bene aperti e le fruste sempre pronte.» «Grazie Vilma. Mi sento già meglio.»

Lunedì 11 agosto era una bellissima giornata estiva, il cielo era azzurro, l'umidità bassa e l'aria era percorsa da una sferzata di energia. Cosa potrebbe disturbare una giornata del genere? pensai. E poco dopo ebbi la risposta. Cinque membri del consiglio comunale di Bethel e due o tre affaristi locali marciarono verso il motel e si diressero alla reception. Avevano tutti la stessa espressione: nera. La loro risolutezza aumentava a ogni passo. Una decina di ragazzi dormivano avvolti nelle loro coperte o nei sacchi a pelo e bloccavano il passaggio. I membri del consiglio camminarono sopra, intorno e in mezzo agli hippy, guardandoli con disgusto. Dover oltrepassare quel gruppo sembrò infastidire oltremodo i saggi del paese. Un'occhiata alla loro espressione decisa bastò a chiarirmi che quella non sarebbe stata una chiacchierata fra vecchi amici. Dopo essersi fatti largo a gomitate e spintoni, il capo, un uomo di mezza età, calvo e con la pancia prominente, in tono pomposo cominciò: «La comunità di White Lake ne ha avuto abbastanza: non vogliamo questo festival. Il consiglio comunale ha dichiarato lo stato d'emergenza. Abbiamo inoltrato una petizione al governatore Rockefeller chiedendogli di ratificare la nostra dichiarazione e di inviare la Guardia nazionale a ripulire la città da questi hippy drogati che stanno devastando la zona. Non tollereremo altri danni. Se tu e i tuoi rifiuti umani non sloggiate immediatamente da questa contea, venerdì mattina organizzeremo una barriera umana e bloccheremo la 17B! Nessuno potrà raggiungere la fattoria di Yasgur! Questo è l'ultimo e unico avvertimento che vi diamo. Rappresentiamo tutta la comunità di White Lake: i commercianti, i proprietari di case e persino i vicini di Yasgur. Mi hai capito, Elliot?». «Qual è il problema?» chiesi, «non avete avuto abbastanza denaro? Ne volete di più, si tratta di questo?» «Di che denaro parli?» sbraitò uno del comitato. Un altro sbottò minaccioso: «Attento a quello che dici! Nessuno ha mai visto denaro passare da una mano all'altra». «In questa vicenda ci sono un mucchio di soldi e lo sapete bene. Che cosa cercate in realtà? Più denaro? O state solo facendo propaganda per le prossime elezioni?» «Un conto era se fossero arrivate venti o trentamila persone» riprese il portavoce, «ma non ci avevi avvertiti di questa invasione. Parliamo di mezzo milione di persone. Dà un'occhiata alla 17B! Voi ebrei state intascando denaro a palate. Ci hai messi nel sacco, ma non te la caverai! Te lo puoi scordare il tuo festival! Non lasceremo che altri hippy passino per la 17B.» Papà entrò in quel momento in ufficio con la sua mazza da baseball, e proprio dietro di lui c'era Vilma, dall'alto del suo metro e novanta. La sua voce profonda risuonò nella stanza: «Cosa sta succedendo qui?» chiese facendo schioccare la frusta contro la porta. Quei chihuahua guardarono prima Vilma poi papà con la mazza pronta, e rimasero pietrificati. «Vi siete introdotti abusivamente in una proprietà privata» urlai, «toglietevi immediatamente dalle palle, ora!» Con perfetto tempismo, Vilma fece schioccare di nuovo la frusta. Fu come se qualcuno avesse suonato l'allarme. Papà e Vilma fecero appena in tempo a spostarsi per scansare i chihuahua in fuga. Dopo quella visita cercai Mike Lang, il mio prode cavaliere coi riccioli. Lo trovai sulla sua motocicletta, pronto per andare alla fattoria di Max e gli raccontai di quell'ultima visita. «Non ci sono problemi, amico» disse. Scese dalla Harley, entrò nella reception e telefonò a uno dei suoi soci. Dopo che ebbe riattaccato, cercò di rassicurarmi: «Vedi? Non c'è nessun problema. Anche questa cazzata della barriera umana è sotto controllo». Uscimmo dalla reception e Lang mi chiese di aspettare qualche minuto. Si recò nelle camere occupate dai network televisivi: Abc, Cbs, e Nbc. Uscì qualche minuto dopo e venne verso di me. «Elli, perché non vai in onda fra un'ora sulla radio della Nbc? Camera 102. Di' a tutta la nazione di venire subito al festival. Di' di non aspettare. Spiega cosa sta succedendo e racconta di quei politici di merda. Di' che vogliono fare una barriera umana e che il festival è vivo, sta bene e sarà grandioso. Di' anche che questa è la nascita della nuova nazione, la Nazione di Woodstock. Usa parole tue, ma fa' in modo che capiscano che devono venire qui. Okay, Elli?» Mi fu chiaro dove voleva andare a parare Mike. Sapeva che più gente fosse arrivata meno potere avrebbero avuto quelli del consiglio comunale, o il governatore stesso. Non avrebbero potuto fermare il festival. «Okay» risposi. Entrammo insieme nella camera 102. Mi sembrò di trovarmi in un posto completamente diverso da quello che conoscevo. Infatti, le varie stazioni televisive erano arrivate a El Monaco due settimane prima, subito dopo la mia conferenza stampa. La Nbc aveva preso posto nella camera 102, una delle prime a essere costruite ai tempi dell'espansione del motel. Avevamo arredato la camera con il mobilio di scarto delle mie sorelle e avevamo dipinto le pareti con colori pastello comprati a una svendita. Appena arrivati, i dirigenti della Nbc si erano guardati intorno e avevano deciso per una soluzione drastica. Ritinteggiarono di nero e installarono enormi mixer, microfoni, cavi, schermi e decine di telefoni. Entrambi i lati della stanza erano ora occupati da attrezzature elettroniche. Vicino a queste, una decina di tecnici con cuffie e microfoni premevano bottoni e giravano manopole. Il direttore mi portò a un tavolo su cui era sistemato un microfono. «Siediti qui davanti, Elliot» mi disse. Un altro tecnico m'infilò un paio di cuffie in testa. Mike rimase in un angolo. Tremai all'idea di andare in onda in diretta con milioni di ascoltatori. Per un attimo, le gambe furono sul punto di cedere. Ce la farò? Avevo aspettato quel momento da una vita. Sentivo il peso del mio sogno e di quello di Woodstock sulle spalle. Il futuro del festival e tutto ciò che significava era appesa a un filo. Dopo pochi minuti, il programma iniziò, e uno dei cronisti annunciò che stavano trasmettendo da Woodstock. «C'è con noi Elliot Tiber, proprietario del motel El Monaco, che ospita buona parte dello staff organizzativo. Elliot, hai qualcosa da dirci?» Da qualche parte, nella mia testa successero due cose. Prima, per un attimo vidi tutto nero, poi mi pervase un'improvvisa ondata di energia e la lingua iniziò a muoversi. Mi uscirono di getto le parole con una forza che appena pochi secondi prima non avevo. Dissi a tutto il paese che il festival di musica e arte di Woodstock sarebbe iniziato, come da programma, il 15 agosto, di lì a quattro giorni. Li scongiurai di non aspettare, di venire subito a prendere posto alla fattoria di Yasgur. Spiegai che il consiglio comunale di Bethel voleva impedire l'evento, ma che questo non sarebbe mai accaduto. «Non ci possono fermare legalmente» dissi, «abbiamo tutte le autorizzazioni e andremo avanti. Ma hanno deciso di boicottarci bloccando il traffico con una barriera umana per non fare entrare più nessuno in città. Abbiamo bisogno di voi. Venite a sostenere il festival. Se qualcuno cerca di fermarvi, girategli attorno, oppure parcheggiate la macchina e continuate a piedi. Andate direttamente a Bethel alla fattoria di Yasgur. Vi stiamo aspettando e chiunque arrivi ora al festival di Woodstock potrà assistere al concerto gratuitamente. Questa è più di una manifestazione artistica e musicale: è la nascita di una nuova nazione, la Nazione di Woodstock. Siamo contro la guerra. Rispettiamo la libertà, la musica, i diritti civili di ogni persona. Venite qui e diventate cittadini della Nazione di Woodstock!» conclusi, dando le indicazioni su come arrivare da New York a White Lake. Il fervore che mi aveva sostenuto mi abbandonò rapidamente lasciandomi esausto, come al termine di una battaglia. Non avevo la minima idea di quanti avessero ascoltato la radio e sentito le mie parole. Forse nessuno. Non c'era la possibilità di un riscontro, nessun contatto con gli ascoltatori. C'erano solo le mie parole in un oggetto coperto da una maglia metallica, e la speranza che qualcuno le ascoltasse e si incamminasse verso Bethel. I tecnici della stazione mi diedero l'okay e Mike sorrise. «Sei stato eccezionale, amico. Grande! È stato meraviglioso.» Per tutto il pomeriggio, la quiete regnò sulla statale 17B. Sì il traffico verso Bethel continuava, ma il numero di auto era notevolmente diminuito. A questo punto ero certo che nessuno avesse raccolto il mio appello. La sera, la sala da ballo dove c'era il bar era piena zeppa di persone che ascoltavano una jam session di una coppia che arrivava da Bombay. I due suonavano strumenti a corda misteriosi che pensai fossero sitar. La notte era tranquilla e l'ambiente caldo. Notai con tristezza che il traffico si era ridotto ulteriormente. Nel retro del bar c'era una camera di riserva, dove spesso facevo una pennichella di un paio d'ore o dormivo di notte. Aprii la porta e, completamente vestito, mi lasciai cadere sul materasso e mi addormentai. Non so quanto rimasi così, ma mi svegliò di soprassalto un caos furioso. Ero convinto che fosse la barriera umana alzata dalla giunta comunale. Mi alzai dal letto, ancora barcollante per la stanchezza, e afferrai un martello. Quando aprii la porta, trovai papà, completamente vestito e addormentato su un materasso, appoggiato in un angolo della stanza. Vicino a lui riposava mamma, anche lei del tutto vestita. Scossi un poco papà per svegliarlo. Quando sentì il baccano dei clacson, saltò su, afferrò la mazza da baseball e si mise al mio fianco. Mamma si riprese in quel momento, e vedendoci armati di tutto punto, cercò a sua volta un'arma appropriata. Su uno scaffale vicino al bar, trovò una bottiglia di vino kosher King David. Prese la bottiglia e si unì a noi mentre ci avvicinavamo alla porta. Oltrepassammo l'ingresso del bar tutti e tre assieme e camminammo fuori nella notte, pronti a vedere il nostro destino compiersi di fronte a un'orda di cittadini arrabbiati. Invece assistemmo a un miracolo. Là, come una bellissima collana di brillanti, c'era una doppia fila di fari che splendevano entrando a Bethel. Dall'alto della nostra postazione, potemmo scorgere che la colonna proseguiva a sud per chilometri e chilometri lungo la 17B. Non era la fine del mondo. Questo era Mosè che conduceva il suo popolo a Bethel, che in ebraico significa Casa di Dio. Papà, con la sua mazza, mamma, con la sua bottiglia di vino kosher, e io, con il martello ancora in mano, rimanemmo lì fermi, inondati da quel fiume di luci. Osservammo le auto e i camioncini arrivare in città mentre qualcuno passando davanti al motel gridava: «Ehi, El Monaco, vi abbiamo sentiti alla radio!». Molti altri urlavano: «Abbiamo ascoltato il vostro messaggio!». Quelle auto colorate straripavano di giovani, vecchi e adulti di ogni età. C'era gente di tutti i colori: neri, bianchi, gialli e rossi. Tanti mostravano il segno della pace, altri salutavano semplicemente. Erano le tre del mattino ed erano tutti felici, pronti per la grande festa. Un senso di euforia mi pervase. «Papà, non posso credere che tutti questi siano qui per il nostro weekend per single in caccia. Cosa ne pensi?» Lui sorrise senza dire niente e continuò a salutare la gente che ci guardava. Non avevo mai provato tanta gratitudine e sollievo in tutta la vita. Alla fine, ce ne tornammo ai nostri letti e ci riaddormentammo. Quella mattina stessa, accendemmo l'unica televisione funzionante e guardammo i servizi sull'autostrada che partiva da New York: era intasata fino all'uscita di Bethel. Altri servizi mostravano che anche i percorsi alternativi e le strade laterali erano nella stessa condizione. Alla fine, il cronista fece vedere la statale 17B con le auto ferme per chilometri e chilometri. Il suo commento fu: «Benvenuti nel più grande parcheggio del mondo». Ero al settimo cielo. Papà mi rivolse uno sguardo luminoso. Quel che bastava per spezzarmi il cuore e guarirmelo allo stesso tempo. Saltai su dalla sedia e dichiarai: «Questo è il momento per un nuovo cartello». Mi armai di pennelli, colori e un grosso pezzo di compensato. Sopra scrissi:

BENVENUTI AL FESTIVAL DI WOODSTOCK BENVENUTI A CASA.

Appesi il cartello proprio davanti al nostro bar, poco sopra al vecchio cartello «Motel in vendita – al prezzo che vi potete permettere». Più tardi, quella stessa mattina, la polizia fece diventare la 17B un'autostrada a cinque corsie, tutte in una sola direzione. Guardando quella fila, dissi a me stesso, Che provino a fermarci ora!

Il giorno seguente, martedì 12 agosto, Mike Lang e l'entourage di Woodstock lasciarono El Monaco e si trasferirono alla fattoria di Yasgur. Il motel rimase vuoto per tre ore, il tempo necessario per riempire le camere e ogni altro buco all'interno dell'intero complesso recintato. Nel giro di un giorno spaziammo dal tutto esaurito al completamente vuoto per tornare al tutto esaurito. Il giorno dopo, il mercoledì, stavo cercando di sbrigare alcune pratiche, quando uno straniero entrò nell'ufficio. All'inizio pensai fosse un altro gangster venuto direttamente dalla casa madre a cercare i suoi compari del ristorante Yenta. Indossava un vestito con panciotto scuro e scarpe a punta di pelle di qualche rettile morto. Tutto questo nel mezzo Hippieville, dove persino i jeans e i sandali erano semplici optional. «Immagino che stia cercando i suoi soci allo Yenta» tirai a indovinare. «Cammini per quella direzione e se li ritroverà davanti.» «Sto cercando te, Tiber» mi rispose con tono grave e minaccioso. «Cosa posso fare?» «Tu chiuderai i battenti di questa manifestazione ora, oppure, quando questo casino sarà finito, ti faremo chiudere gli occhi, per sempre.» Mi ero abituato da tempo a qualsiasi tipo di minaccia, e la maggior parte non aveva più nessun effetto su di me, ma questa mi diede i brividi. L'atteggiamento di quell'uomo mi spaventava e avvertivo intorno a lui un concreto senso del pericolo, «Non ho più nessun potere su questo festival. Tutti noi ne abbiamo perso il controllo almeno un mese fa.» «Prova a guardare le cose sotto un'altra ottica. O tu mandi tutti fuori di qui o ti mandiamo noi all'altro mondo. Goditi le tue ultime ore, Tiber. Saluta El Monaco, perché c'è gente in vista qui che è convinta che non ci sarà più nessun motel dopo che questi hippy drogati e senza freni se ne saranno andati. Abbiamo finito con le vie legali del cazzo. Non me ne frega niente di te e di quelli come te. Sarà un piacere farti saltare in aria assieme a questa topaia.» Quindi si slacciò un bottone della giacca lasciandomi intravedere lo scintillio di un oggetto metallico. Prima che potessi dire: «Aiuto, Mike Lang», la baronessa Von Vilma entrò nel mio ufficio dopo aver fatto il solito giro di ricognizione intorno alla recinzione del El Monaco. Oggi era vestita con un'uniforme militare da donna che, a dire la verità, le stava un po' stretta. Il seno imbottito tirava il bottone dorato della sua giacca. I peli della barba che già a mezzogiorno era diventata evidente si intravedevano sotto il suo pesante makeup. Sì, mi salvò un soldato, con la barba incolta, pluridecorato, vestito in uniforme militare femminile. Non avrei potuto immaginare nulla di più appropriato. «Elliot! Quest'uomo ti sta importunando?» gridò la baronessa con voce baritonale. Le spiegai al volo come stavano le cose. In un attimo, Vilma tirò fuori una piccola pistola color argento che, per quello che potevo capire, era solo una riproduzione da collezionista. Ma qualsiasi cosa fosse, sembrava abbastanza vera a tutti i presenti, e Vilma aveva l'aria seria. Lasciò da parte il suo accento e fece risuonare la vera voce. «Credo che sia meglio per te se te ne vai di fretta, amico, o ti faccio due buchi su quella bella giacca. E se ti vedo ancora qui intorno, ti pianto una pallottola in fronte. Chiaro il concetto?» Non so cosa spaventò di più quell'uomo: la pistola di Vilma o Vilma stessa. Il tipo tolse le mani dal bavero della giacca, alzò le sopracciglia fino all'attaccatura dei capelli e si precipitò fuori dalla porta.

Tutto quel movimento mi stava dando ai nervi. Ero esausto, ma sapevo che non c'era tempo per riposarsi. Dovevo avere il controllo su tutto, perché la posta in gioco era alta, sia per me sia per l'evento che stava cambiando la mia vita. Tuttavia, notai che i miei cominciavano a mostrare segni di stanchezza. Erano anziani e il lavoro insieme a quegli assalti quotidiani li stavano sfiancando. Decisi che avevano bisogno di un po' di riposo. Dovevano rallentare e prendersi una minivacanza. Così infornai dei biscotti all'hashish. Nel freezer del bar accumulavamo quantità enormi di hashish e marijuana, e me ne procurai abbastanza per sballare tutti. Misi hashish nell'impasto dei biscotti, aggiunsi le gocce di cioccolato e infornai per dodici minuti. Voilà! I biscotti della felicità! Avevo, in effetti, già sentito parlare di torte al cioccolato con hashish, ma non avevo mai visto preparare dei biscotti. Ero curioso di scoprire quale effetto potessero mai avere. Dopo aver sfornato i biscotti e averli lasciati raffreddare, chiamai i miei al bar con la scusa di una pausa. In quei giorni, il bar funzionava più come un rifugio dai periodici scrosci di pioggia e come punto di ristoro per i passanti. Offrivamo un po' d'acqua e uno dei pochi bagni pubblici funzionanti. Mamma e papà si sedettero a un tavolo sgombro e io servii caffè e il piatto di biscotti. Entrambi li mangiarono rapidamente e tracannarono il caffè. Poi si alzarono e offrirono gli ultimi dolcetti ai presenti. «Oh Eliyahu, che buoni questi biscotti! Sono kosher, vero, Eliyahu? Tu non vuoi che tua madre faccia arrabbiare Dio proprio ora, vero?» «Mamma, sono sicuro che questi biscotti farebbero la felicità di tutti i rabbini» le risposi. All'inizio mi sembrò che nessuno dei due avesse reagito all'hashish. Sembravano entrambi concentrati, impegnati, tesi e iperattivi. Tuttavia, poco alla volta, vidi l'hashish compiere la magia. Papà fu il primo a mostrare i segni. Attaccò a sorridere e sogghignare senza una ragione, finché prese a ridere convulsamente. «Hai visto quei ragazzini che volevano scrivere sui nostri muri? È stato così divertente quando gli ho scatenato contro tutti quegli hippy. Penso che se la siano fatta addosso. Hai visto cosa è successo Eliyahu? L'hai visto?» «Sì, papà, l'ho visto» lo tranquillizzai ma lui continuò a ridere e sghignazzare. Subito dopo, anche mamma cominciò a ridere così forte che per un attimo ebbi paura che potesse rompersi una costola. «Mamma, cosa c'è di tanto divertente?» chiesi. «Guarda questo posto» disse continuando a ridere, «è un casino. Gente dappertutto. Gente qui, nelle camere, negli scantinati, sui tetti, nella palude e persino in cima ai camion. Abbiamo gente che ci esce anche dalle orecchie.» Quando smisero di ridere, si sedettero e rimasero lì, felici di essere al mondo. Non li avevo mai visti così rilassati. Trascinai un materasso verso il tavolo e dopo pochi minuti, stanchi e del tutto fatti, crollarono. Li misi a letto. Poi presi anch'io un materasso e dormii per tre ore buone di riposo e ristoro, come dicono i militari. Quando Mike Lang e tutta la compagnia si trasferirono alla fattoria di Yasgur, ne sentii subito l'assenza. Sì, è vero, il motel aveva raggiunto il tutto esaurito in poche ore, ma non era più il denaro a motivarmi. Avevo iniziato ad amare l'avventura, e Mike me l'aveva finalmente portata in quantità. Appena si era presentato, tutta Bethel era ritornata a nuova vita, me compreso. La mia stessa esistenza non aveva mai vissuto tante sfide e minacce tutte insieme, come dall'arrivo di Mike in città. Mi ero divertito davvero, e sapevo che questa esperienza mi aveva cambiato, sebbene non capissi ancora come e quanto. E ora Mike e la sua banda erano da Max. Il festival stava per avere inizio, lui se ne sarebbe occupato in prima persona, e di lì a pochi giorni l'intera Woodstock Ventures se ne sarebbe andata. Così avrebbero fatto tutti i miei amici, gay ed etero. White Lake sarebbe ripiombata nella noia più assoluta. Forse qualche affiliato mafioso mi avrebbe dato la caccia, ma questo non mi avrebbe procurato lo stesso divertimento che mi avevano regalato Mike, Vilma o Georgette. Così feci l'unica cosa che mi passò per la mente. Trovai il modo di andare alla fattoria di Max per vedere che faccia avesse il centro dell'universo. Guidare la mia Buick fino là era fuori questione. Avevo bisogno di una moto, ma Mike aveva preso l'Harley, quindi dovevo rimediare un passaggio da qualche motociclista. Per questo potevo soltanto sperare in un po' di fortuna. Camminai per la statale 17B e lì, seduto sulla moto in mezzo al traffico, c'era un poliziotto dello Stato di New York. Indossava l'uniforme blu, l'elmetto bianco e portava gli occhiali da sole a specchio. Era alto come me, per quel che mi sembrava, e in ottima forma, forte e asciutto. D'istinto mi sembrò una brava persona, non uno di quei piedipiatti meschini che considerano tutti violentatori o killer. Decisi di provare. «Salve, sono Elliot Tiber, quello che ha dato una mano a mettere su questo casino, nonché il proprietario di questo motel» dissi al poliziotto. Lui mi rispose con un cenno del capo facendomi un sorriso malizioso, ben conscio che metà dei residenti di White Lake sarebbero stati felici se lui avesse estratto la pistola e mi avesse sparato sul momento. La sua espressione m'incoraggiò a continuare. «Anche se ho dato una mano all'organizzazione, non ne faccio parte. Per esempio non vado alla fattoria da un paio di settimane, e vorrei proprio vedere com'è ora che sta per cominciare il concerto. Non è che riesce a darmi un passaggio fino a lì?» «Come no» rispose il poliziotto, «salta su.» Una volta salito in sella, mi obbligò a prenderlo saldamente per la cintola. «Se cadi e ti fai male ci vado di mezzo io e ci rimetto il culo» mi spiegò. «Ho capito» risposi. Era il mio turno di sorridergli maliziosamente. Sfrecciando tra le macchine in coda, arrivammo in meno di un quarto d'ora. Rimasi impietrito davanti alla fattoria in preda all'estasi. Non l'avrei mai immaginata così. In meno di un mese, Mike Lang, John Roberts, Joel Roseman e Artie Kornfeld, insieme con un altro centinaio di persone, avevano creato una minicittà; un sogno a occhi aperti. Il luogo sembrava un'enorme conca, un anfiteatro perfetto. A sud di questo teatro naturale, si stagliava il palcoscenico, largo più di quaranta metri. Sopra avevano steso lunghi teloni di tessuto per proteggere dal maltempo gli strumenti e i musicisti. Su entrambi i lati, c'erano grandi casse acustiche, amplificatori e altri strumenti elettrici. Proprio in mezzo al palco, un quintetto di microfoni aspettava i loro padroni: Richie Havens, Janis Joplin, Roger Daltrey, Jimi Hendrix, Joan Baez, Arlo Guthrie, Sly, Creedence Clearwater Revival, Joe Cocker, Country Joe, Crosby, Stili, Nash, Young e tanti, tanti altri. I ponteggi per sostenere il palco erano alti tre piani. Dietro e tutt'intorno alla costruzione si stendeva una moltitudine disordinata di tende, camper, camion, autobus e trattori. Chilometri e chilometri di cavi e fili correvano tra il palco e l'impianto di amplificazione. Giraffe e gru raggiungevano ogni angolo di quella piattaforma con lunghe braccia da robot. A circa ottanta metri, davanti all'impalcatura, se ne ergeva un'altra, della stessa altezza, che sosteneva altri altoparlanti. Dappertutto c'erano tende da campeggio. Qualcuna era piccolissima, altre più grandi ed elaborate, e tutte erano colorate, dal giallo al blu al rosso. Gli stand gastronomici, costruiti con pali e coperti con strisce di tessuto marrone, stavano dritti come sentinelle amiche intorno al campo. Ai lati, infine, c'erano battaglioni di auto, pick-up, autobus colorati con disegni psichedelici. Sparsi ovunque nel campo aspettavano cinquecentomila spettatori, tutti legati, come un filo multicolore di un immenso e variopinto tappeto. Questo spettacolo toglieva il respiro, lasciava sgomenti e dava le vertigini. Osservai la folla e vidi sulle facce di tutti solo gioia di vivere. Questo era ciò che Mike Lang stava cercando, la generazione che si oppose alla guerra e creò il movimento per i diritti civili. Ecco i volti che gli avevano ispirato il nome di questa generazione: la Nazione di Woodstock. In questo mare di facce sorridenti c'era gente che suonava la chitarra e cantava. Si potevano sentire cori di voci arrivare da qualsiasi angolo in ogni lingua possibile. Quelli che non suonavano la chitarra, trasformavano in strumenti musicali qualsiasi oggetto, riciclando pezzi di metallo, legno e tessuti. Altri portavano in giro cianfrusaglie appariscenti da vendere, e anche souvenir, giornali, droghe e giochetti erotici, altri ancora giravano con petizioni politiche o sociali da sottoscrivere. C'era una varietà infinita di gruppi, come gli Hare Krishna, veterani del Vietnam e pacifisti veterani, contestatori, militanti neri, sostenitori della legalizzazione delle droghe, e quelli che volevano bandirle tutte. E ancora cristiani, ebrei, musulmani, indù e sette di ogni specie. Coabitavano usando le stesse coperte e le stesse tende, tutti con le stesse intenzioni: godersi la musica e sognare. Non si riusciva ad arrivare a trecento metri dal palco; troppa gente per muoversi liberamente. Così decisi di rimanere al bordo dell'anfiteatro e continuai il mio giro. Capitai nei pressi di un camioncino che aveva fiori dipinti sulla carrozzeria. La porta scorrevole era aperta e un paio di luci illuminavano l'interno, foderato con tappeti colorati. Dentro si spandeva l'odore dolce dell'incenso, insieme alle note di una canzone. Una ragazza magra, sui venticinque anni, con lunghi capelli castani, occhi grandi, e un sorriso gentile, ondeggiava sinuosa al ritmo di una musica molto diversa da quella proveniente dalla vettura. All'interno, steso su un cuscino a forma di fagiolo, c'era il suo compagno, un giovane con lunghi capelli biondi, fisico da nuotatore e un sorriso appena accennato. Indossava solo un paio di pantaloncini corti. I due mi guardarono e il ragazzo mi disse: «Ehi amico, vieni qui, resta con noi». Infilai la testa nel camioncino. Il giovane mi porse un sottile foglio di carta con sopra un puntino nero. «Mettitelo sulla lingua. Sarà un viaggio fantastico.» «Che cos'è?» «Non ne ho la minima idea, fratello, ma di sicuro è un trip impacchettato in un minuscolo puntino nero. Oh sì. Lo chiamano pacchetto viaggi istantaneo. Non fa male.» La ragazza fece scorrere le mani sul mio collo mentre leccavo quel pezzo di carta. Sia l'uomo che la donna mi aiutarono a entrare nel camioncino e a stendermi su un cuscino, vicino a lui. La ragazza coricò al mio fianco dall'altro lato. All'inizio non sentii nulla, neanche quella cosa dissolversi sulla mia lingua. Ero concentrato sugli occhi color smeraldo del giovane nuotatore. Qualcosa dentro di me mi spinse a stendermi e a lasciar perdere tutte le responsabilità che mi stavano soffocando: il motel, i genitori, le battaglie, la gente che mi odiava e quelli che mi consideravano un eroe. Lasciati andare, mi ripeteva una voce dentro. E in un momento, mi sciolsi nella musica, mentre le mani di seta della ragazza disegnavano una danza sensuale sul mio corpo. «In pochi minuti sentirai un ronzio dolce. Rilassati. Non preoccuparti. Sarò con te tutto il tempo» mi sussurrò la ragazza. Anche il ragazzo aveva iniziato a far scivolare le mani sulle mie gambe, che affondarono nei pantaloni assieme a quelle della ragazza. A quel punto era fatto. Per il resto del tempo, che potevano esser stati dieci minuti, dieci ore o dieci giorni, mi ritrovai in uno stato di beatitudine. Era una sensazione di cui avevo solo letto o fantasticato, e mai provato prima. Colori, forme e stati d'animo mi attraversarono con la morbidezza del miele. Parlai con bellissimi colori. Ancora oggi, non ho idea di cosa discussi con quelle visioni. So solo che era qualcosa di dolce come l'amore. Nel frattempo, alcune fantasie sessuali presero forma nella mia mente e le vidi tutte esaudite. Io e quei due compagni di viaggio fummo le star di un film sulla bellezza sessuale. Quando una scena finiva, una nuova cominciava, mentre anche i visi e i corpi dei miei amici si trasformavano completamente. A volte avevano forme stupende e altre erano solo ombre, con gli occhi ridotti a lucine tremolanti. C'erano momenti in cui entravo nei loro corpi. Non so come, ma ero dentro di loro, spesso nello stesso momento. Di colpo venni scagliato in un buco nero nello spazio. Tutto divenne piccolo e iniziai a ruotare vertiginosamente verso l'esterno. Una sensazione di felicità e meraviglia si trasformò in un terrore implacabile per poi mutare ancora in un senso di pace e tranquillità. I colori giravano e danzavano. Lo spazio si muoveva attraverso di me, invece di essere io a muovervi nello spazio. Mentre sperimentavo tutto questo, i miei due teneri compagni di viaggio continuavano ad accarezzarmi. Era meraviglioso e terrificante al contempo. Il viaggio durò diverse ore, credo. I due ragazzi mi aiutarono a riprendermi e mi insegnarono a concentrarmi sul respiro pronunciando una formula incantata che mi avrebbe protetto mentre l'effetto dell'acido si affievoliva. Solo alla fine la coppia mi parlò della grandiosa esperienza sessuale a tre che avevamo appena condiviso. Lo definirono un mutuo viaggio sessuale. Poi m'insegnarono un paio di altri sortilegi per proteggermi e guidarmi nel destino. Tutto quello che riesco a ricordare di quell'esperienza sono il tocco gentile e l'espressione amorosa che i due mi avevano generosamente donato. Fino a quel momento avevo conosciuto il sesso sotto forma di frenesia ed eccitazione maniacale. Questa modo di fare l'amore – solo questa espressione può descrivere la nostra esperienza – era una cosa mai provata prima. Fu anche la mia prima esperienza con l'Lsd. Mi muovevo ancora attraverso una densa nebbia quando ripresi completamente i sensi e qualcuno, non so come, mi riportò a El Monaco, dove la follia imperversava senza sosta. Mamma e papà rispondevano alle solite chiamate, cercando di risolvere al meglio la continua raffica di richieste e lamentele. Cercai di fare qualcosa, forse cambiai un paio di letti, e trascrissi qualche registrazione, ma non ricordo molto altro. Più tardi, nel pomeriggio, crollai sul letto e dormii fino al giorno dopo.

Il venerdì, data dell'inaugurazione, piovve tutto la giornata, ma il cattivo tempo non impedì alla gente di venire a Woodstock. Il traffico, che aveva raggiunto la punta massima il lunedì notte precedente, rimaneva infernale. La televisione annunciò che la statale 17B era diventata un parcheggio pubblico. Quelli che volevano assistere al concerto, abbandonavano l'auto sulla strada e camminavano fino alla fattoria di Yasgur, trasformando la statale in un'isola pedonale. Fedeli alla parola data, una decina di consiglieri della giunta di Bethel e vari tirapiedi si presentarono con le mogli per formare una barricata umana contro le decine di migliaia di persone che dovevano ancora arrivare al festival. Fu, con tutto rispetto, una delle dimostrazioni più tristi e patetiche. Gli uomini che formavano il blocco erano vestiti con pantaloni a scacchi e camicie dai colori accesi, mentre le donne indossavano gonna e camicetta. Reggevano piccoli cartelli, che dicevano: «Il festival è cancellato per ordine del consiglio comunale di White Lake. Abbandonate White Lake immediatamente». Gli hippy, giovani e anziani, camminarono intorno e attraverso la barricata, imperturbabili. Per quello che li riguardava, i consiglieri parlavano una lingua incomprensibile.

Quella barriera umana dimostrò che la generazione che aveva accettato il razzismo e la discriminazione sessuale e che ci aveva lasciato in eredità la bomba atomica e la guerra, era così abituata alla propria presunta normalità da manifestare contro qualsiasi cosa uscisse dagli schemi. Avrei potuto riderne, ma i loro atteggiamenti patetici mi facevano pena. Nonostante l'orrore che si vedeva nel mondo, avevano speso tutte le loro energie nel tentativo di fermare tre giorni di musica, pace e amore. 12

Il 15 agosto 1969, alle cinque del pomeriggio, Richie Havens aprì ufficialmente il festival di Woodstock, cantando nove canzoni di fila. La programmazione non prevedeva lui come primo artista in scaletta, ma era il solo disponibile in quel momento. Le strade erano bloccate dal traffico in ogni direzione, del tutto impossibili da percorrere. L'unica maniera per far arrivare i musicisti era l'elicottero. Mike Lang pregò in ginocchio Havens di salire sul palco, e lui, con riluttanza, accettò. Non ci poteva essere modo migliore di iniziare il concerto, come dimostrarono poi i fatti. Determinato e umile, come uno che crede la propria missione più importante di se stesso, Richie Havens camminò sul palcoscenico, la chitarra sottobraccio, e parlò a una folla in attesa. «Leggeranno di voi domani mattina e di come siete stati bene qui» disse, «in tutte le parti del mondo, se riuscirete a ritrovarlo là sotto.» Iniziò a suonare la sua chitarra furiosamente, come rapito. I grandi amplificatori sistemati tutt'intorno alla fattoria di Max fecero arrivare il fragore della chitarra di Havens fino alle colline, e di rimbalzò fino alla valle di White Lake, cosicché tutti poterono ascoltarla. La voce roca catturò il cuore e l'anima di un Paese che chiedeva a gran voce la fine di una guerra e l'eguaglianza nel mondo. In pochi avrebbero saputo esprimere meglio lo spirito di quel tempo e la sofferenza degli uomini. Malgrado le settimane di minacce da parte dei residenti e la miope resistenza della città, il festival di Woodstock era iniziato, e ora la voce potente di una nuova generazione aveva conquistato il palco. Quella sera, Arlo Guthrie si piazzò dritto in piedi e annunciò l'ultima stima ufficiale della polizia sul numero dei presenti. «Non so chi di voi può davvero ammirare quante persone ci siano» intonò Arlo con la sua caratteristica voce nasale. «Ho appena parlato con la polizia. Già. Capite? Si dice che ci sia un milione e mezzo di persone qui questa sera. Ve ne rendete conto? Tutta l'autostrada dello Stato di New York è chiusa.» Più tardi, gli organi ufficiali stabilirono che il numero di spettatori presenti alla fattoria di Yasgur fosse cinquecentomila. Dissero che un milione di persone era sulla strada bloccata dal traffico, che arrivava fino al ponte di George Washington, nella stessa New York, qualcosa come centotrenta chilometri da White Lake. Sono convinto però che quelle cifre fossero sottostimate. C'era molta più gente di un capodanno a Times Square, dove di solito si calcola che ci sia un milione di persone. Smentendo tutte le paure e chiacchiere che circolarono prima del concerto, non si registrarono crimini o violenze durante il festival. Nessuna rivolta, nessuno stupro. Quando la gente di Bethel interagì con gli hippy, li trovò, in effetti, educati, rispettosi e altruisti. L'unico reato, se così vogliamo chiamarlo, capitò quando alcuni ragazzi tagliarono la recinzione della fattoria per entrare senza pagare il biglietto. Ma era poi un crimine così grave, dal momento che Mike Lang e io avevamo annunciato più volte che il festival sarebbe stato gratuito. Persino durante il concerto, la Woodstock Ventures disse alla gente che tutti erano benvenuti. Generosità, condivisione e senso di comunità si diffuse nella gente. Si potevano vedere gli effetti negli ampi sorrisi, nei segni di pace sfoggiati costantemente e nell'aiuto offerto a perfetti estranei. Anche le condizioni oggettivamente difficili non diminuirono l'atteggiamento festoso, la disponibilità e l'altruismo mostrati gli uni con gli altri. Per tutto il weekend, forti acquazzoni si scatenarono in continuazione, bagnando la folla e trasformando il manto erboso del prato in un campo di fango. Il pubblico era costretto a sedersi nella melma o affondarci con le gambe per poter assistere agli spettacoli. Cosa peggiore, erano tutti affamati. Il cibo prese a scarseggiare già due settimane prima dell'inizio del concerto. Nessuno sembrava farsene un problema. Tutti aspettavano con calma la fine della pioggia nelle macchine o nelle tende. Si dividevano il pane, l'acqua, l'alcol e le droghe senza problemi. Felici e festanti, se la cavarono tutti con un piccolo aiuto. Ogni volta che la pioggia cessava, la musica riprendeva. E, maledizione, che sfilza di artisti: Tim Hardin, Melanie, Arlo Guthrie, Joan Baez, Country Joe & the Fish, John Sebastian, Santana, i Grateful Dead, Creedence Clearwater Revival, Janis Joplin, Sly and the Family Stone, The Who, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Blood Sweat and Tears, Crosby, Stills, Nash and Young, Sha Na Na e Jimi Hendrix, solo per citarne alcuni. La musica e le parole stimolavano il meraviglioso sogno di libertà e pace, e il popolo di Woodstock incarnò quella visione. La musica riempiva l'intera regione. L'impianto di amplificazione era così potente, infatti, che allontanò gli uccelli dalla contea di Sullivan. Ritornarono solo quando Woodstock finì. Per tutti gli altri, la musica fu un rumore gioioso. Non andai più alla fattoria, rimasi tutto il tempo al motel. Dovevo mandare avanti gli affari e, grazie a Woodstock, le richieste erano continue. Migliaia di persone arrivarono barcollando all'entrata di El Monaco, in cerca di aiuto o di un posto dove dormire. Le mie giornate trascorrevano a soddisfare richieste: pacchi di carta igienica da trasportare, cibo, bevande e fagotti di lenzuola da distribuire su tutta l'area del complesso. Inoltre dovevo accorrere alle frequenti grida d'aiuto di mia madre, e assistere gli hippy a superare indenni le loro fantasie chimiche. Una volta tornati in sé, riprendevano il controllo e spesso si addormentavano lì nel fango. Si potevano incontrare per tutta la proprietà, centinaia di ragazzi stesi a terra, fatti, ubriachi e sonnacchiosi. Sembrava un campo di battaglia dopo un lungo assedio. Il venerdì dell'inaugurazione, la vita a El Monaco faceva sembrare quella della fattoria quieta e tranquilla. Appena finito un lavoro, mi toccava fare i salti mortali per terminarne un altro. Nel pieno del caos, mi accorsi che papà era stanco e malato. Stava portando lenzuola pulite verso l'ala Faye Dunaway, quando notai le sue condizioni: la carnagione del viso era diventata grigio pallido e sembrava invecchiato tutto d'un colpo, esausto. Lo raggiunsi e gli dissi: «Ehi, papà, dammi quelle lenzuola. Vai a riposarti un po'. Ti chiamo se abbiamo bisogno, non ti preoccupare». Mi fece un debole cenno con la testa. «Okay, Elli, forse hai ragione, ho bisogno di un riposino» mi rispose. Passai il resto del pomeriggio in reception o trottando da un edificio all'altro, immerso nel lavoro. Sentivo la musica provenire dal parcheggio o dalla strada, ma non mi lasciai distrarre e continuai a lavorare. Erano le cinque del pomeriggio, quando la forza dirompente della musica mi catturò e mi riportò in vita. Distolsi l'attenzione da quello che stavo facendo, e seguii la scia di suoni fino alla finestra, da dove potevo vedere un gruppo di persone in piedi tra il parcheggio e la statale 17B. Tutti guardavano nella stessa direzione, a nord-ovest, verso White Lake. Uscii dalla reception e mi unii a loro in mezzo al fango. Fu allora che lo sentii, chiaro e limpido come la luce del mattino. Richie Havens stava cantando Freedom. La sua voce inconfondibile rimbombava giù per tutta la statale 17B come un tuono. Rimbalzava contro le colline, le vallate e i laghi che separavano la fattoria di Yasgur da El Monaco, e quando arrivava a noi, ci mandava in estasi, ci faceva dimenticare i nostri affanni quotidiani, e ci faceva credere che tutto fosse possibile. Guardai verso la fattoria e sorrisi. Non potevo andare al concerto, così il concerto era venuto da me.

La mattina dopo iniziò fu caotica, esattamente come il giorno prima, e peggiorò con il trascorrere delle ore. Il sabato pomeriggio seguente, subito dopo l'ennesimo acquazzone, ero seduto sul prato davanti al motel – o su quanto ne era rimasto – ad aiutare un altro ragazzo ricoperto di fango a uscire da un brutto viaggio in compagnia dell'Lsd. Era proiettato in una dimensione parallela, e vedeva cose che non c'erano. Mentre ero chino su di lui, sentii una moto proveniente dalla statale 17B entrare a El Monaco. Mi girai e la vidi venirci addosso. Frenò bruscamente a non più di un metro, riempiendoci di fango fino alle orecchie. «Sei matto? È pieno di gente qui. Potevi ammazzare qualcuno!» urlai furibondo. Il motociclista si tolse il casco e comparve una lunga criniera di capelli castani. La ragazza indossava una giacca di pelle nera e una gonna jeans. Senza battere ciglio, scese dalla moto e la lasciò cadere a terra. Il suo volto era paonazzo e gli occhi diventarono di colpo più grandi. Rimase in piedi davanti a me, a bocca aperta, senza dire una parola. Era bagnata fradicia. La guardai e mi accorsi che era incinta. Dell'acqua le gocciolava lungo le gambe, e non era certo pioggia. Dio mio, sobbalzai, è proprio quello che penso? Le si erano appena rotte le acque! Sapevo che la situazione richiedeva un'azione tempestiva, tuttavia dovevo ammettere di non essere un esperto in quel settore. Per cominciare non avevo nessuna conoscenza di pronto soccorso. Mi avevano perfino bocciato in biologia perché non riuscivo a sezionare la rana durante le lezioni in laboratorio. Non potevo farmi di eroina, o altro che avesse a che fare con un ago, perché non sopportavo la vista del sangue. Sono grande e grosso, ma dove sta scritto che Mister Muscolo deve intendersi di pronto soccorso? La comparsa della ragazza aveva fatto arrivare in zona decine di hippy drogati marci, gli stessi che, pochi minuti prima, erano stesi a terra privi di conoscenza. Ora mi stavano tutti intorno, con gli occhi sbarrati, completamente atterriti, e guardavano la ragazza come fosse appena atterrata da un altro pianeta. «Wow, sta per partorire» esclamò uno. «Nessuno qui è un dottore o un infermiere?» chiesi preoccupato. Si guardarono l'un l'altro e risposero all'unisono: «No, non io, amico». «Almeno aiutatemi a trasportarla nel motel» urlai. Insieme ad altri due uomini, formammo una specie di sedile con le braccia e la portammo al bar. Mentre il plotone di uomini e donne si muoveva con noi, papà, mazza da baseball alla mano, corse fuori per controllare cosa succedeva. Stendemmo la ragazza sul pavimento, e anche lui prese atto della situazione disperata. «Papà, cerca aiuto!» gli ordinai. Sbalordito e disorientato, papà corse fuori. Non avevo la minima idea di dove stesse andando. D'improvviso, un neurone riprese vita nel cervello di un hippy: «Ehi amico, nessuno può raggiungerci qui. Il traffico è bloccato». Porca miseria! Ha perfettamente ragione, realizzai: «Qualcuno chiami la polizia e dica che una donna sta per partorire. Abbiamo bisogno di un dottore il prima possibile. Siamo al motel El Monaco, proprio sulla statale 17B». Parecchi corsero fuori in cerca di aiuto, tutti in direzioni diverse. Ritornai a prendermi cura della ragazza e la osservai: era spaventata e i suoi occhi si dilatavano a ogni respiro. Doveva avere vent'anni. Quando iniziò a urlare per il dolore, i suoi gemiti vinsero le mie paure, e tornai in me. «Andrà tutto bene, vedrai» le promisi. Mi sembrò che la prima cosa da fare fosse alzarle la gonna. «Ti sto per sfilare le mutande, okay?» Una donna, sui trentacinque anni, si sedette vicino alla ragazza. Le alzò la testa e le sistemò una maglia sotto per farle da cuscino, poi le accarezzò i capelli con gesti delicati. «Andrà tutto bene, bambina mia» le disse, «non preoccuparti, siamo qui con te.» Altri si sedettero a fianco per confortarla e incoraggiarla. Le sfilai con delicatezza le mutandine, e mi ricordai – reminiscenza di qualche film visto in tv – che dovevo urlare qualcosa come: «Fate bollire dell'acqua!». Poi non dimenticai il classico: «Spingi!». Cosa ne sapevo io? Non avevo la minima idea di cosa farmene dell'acqua calda, così gridai: «Spingi!». Sentendosi finalmente utili, tutti seguirono il mio esempio e urlarono in coro: «Spingi! Spingi! Spingi!». La ragazza incinta-senza-nome stesa a terra inspirò profondamente, gemé e iniziò a spingere con tutte le sue forze. La donna che le sosteneva la testa continuò ad accarezzarla e a sussurrarle: «Brava, bravissima, va bene così mia cara. Stai andando proprio bene, continua così». Gridai ancora: «Spingi» senza troppa convinzione e aspettai che accadesse qualcosa. Poi finalmente successe. La sommità di una testolina dai capelli scuri fece capolino tra le cosce. Ero eccitato. Si levò un coro d'incoraggiamento: «Ce la fai!» qualcuno gridò. «Sta uscendo!» esclamò un altro. «Stiamo per dare alla luce un bambino!» esultò un terzo in tono trionfante. Non potevo fare altro che sostenere delicatamente la testa del piccolo mentre la donna continuava a spingere. «Spingi, spingi, mia cara, ci sei quasi» la incoraggiai. D'improvviso compresi perché lo chiamano travaglio. La povera ragazza era madida di sudore. Ansimava affannata tentando di spingere ancora. È un lavoro duro far venire alla luce un bambino, pensai, e anche doloroso. Questa ragazzina innocente, dagli occhi grandi e dai capelli castani, ce la stava mettendo tutta, in uno sforzo sovrumano. La carne si era lacerata e scorrevano sangue e lacrime, ma potevo leggere la fierezza e la determinazione nei suoi occhi. Il coro notò che la testa del bambino era ormai uscita del tutto. «È quasi fuori! Ce la fai. Continua così! Continua così!» Proprio allora la piccola bambina di Woodstock vide la luce, piangendo tra le mie braccia. «È una bambina! Ehi bella, hai avuto una bambina! Hai avuto una bambina!» esclamarono insieme i presenti. Per un attimo non pensai a niente e mi abbandonai allo stupore. Mi accorsi di essere unito a questa donna come lo era la bambina attaccata da un lungo cordone ombelicale sanguinante, nonostante il mio contatto con le donne in tutti questi anni fosse stato solo marginale. Sangue, cordone ombelicale e una madre svestita. Tutto era così naturale, reale e confuso al tempo stesso. All'improvviso fui colto da un dubbio: cosa fare con il cordone ombelicale e con quell'ammasso cui era attaccato? Non ne avevo idea. Niente al mondo avrebbe potuto spingermi a tagliarlo. Dal gruppetto di persone intorno a me qualcuno si staccò e si inginocchiò di fianco alla madre e alla bambina. Era Vilma. Si tolse la mantellina di seta nera e la mise attorno alla bambina. Qualcun altro si piegò su di me e mi sussurrò in un orecchio: «Elli, l'elicottero sta arrivando». Era la voce di mio padre. Aveva telefonato chiedendo l'intervento di un elicottero. «Sarà qui in pochi minuti» aggiunse. Poi si abbassò fino alla mia spalla e concluse: «Boychik, pensi di essere l'unico a far arrivare quelle cose qui?». Usava la parola boychik, ragazzino in yiddish, quando voleva prendermi in giro. Tenevo ancora in braccio la bambina, unita alla madre dal cordone. La porsi alla ragazza, poi la aiutai a camminare fuori dal bar, tutti e tre circondati da cinquanta zii e zie nuovi di zecca. Ci avvicinammo alla porta e ci sedemmo in attesa dell'elicottero. Un silenzio avvolgente si impadronì di noi; nessuno osava parlare. Come se quel momento fosse troppo speciale per rovinarlo con inutili parole. La madre avvicinò la bimba al seno e prese ad allattarla. Noi aspettammo insieme a lei, lì seduti per un tempo che sembrò un'eternità. Alla fine, guardai la mamma tutta scarmigliata e le chiesi: «Come mai sei venuta al festival nelle tue condizioni?». Mi sorrise mentre accarezzava la figlia. Mi fissò negli occhi emozionata e rispose dolcemente: «Non credevo di essere in uno stato così avanzato. È il mio primo figlio». In quel momento, dalla statale 17B, in sella al suo cavallo baio, arrivò un poliziotto al galoppo. Smontò con fare pomposo e camminò verso di noi. Al suo arrivo, mammina accorse dalla reception. Il poliziotto si rivolse a me: «È lei il padre?». Era proprio quello che mia madre temeva di più. Iniziò a ululare: «No! No! Non è lui. Quello è mio figlio e non è sposato. E scapolo e quella ragazza non sembra nemmeno ebrea. Come potrebbe essere lui?». La logica non faceva una piega. «No, non sono il padre della bambina, ma lei ha bisogno di un dottore.» «L'elicottero sta arrivando.» Non dovemmo aspettare a lungo per sentire quel soffice whump, whump, whump delle pale che si avvicinavano a El Monaco. Rimasi a sedere, rassicurato dai buoni auspici di quel rumore ormai familiare. Mi girai verso la neomamma e le dissi: «Non preoccuparti, la cavalleria sta arrivando». Ben presto, la balena blu e argento fu sopra alle nostre teste, facendo svolazzare i vestiti e spargendo la spazzatura ovunque, poi scese, toccò morbidamente il suolo e si fermò. Pochi istanti dopo, la portiera scivolò su un lato e alcune persone saltarono fuori dalla carlinga. Un dottore dell'esercito, in camice bianco e stetoscopio nel taschino, corse verso la mamma e la bambina. Le mise una mano sulla spalla e le chiese se era tutto a posto. La giovane fece sì con la testa. «Adesso ci siamo noi» aggiunse il dottore. Rapido, le tagliò il cordone ombelicale e rimosse la placenta. Accidenti, pensai, niente più cholent per me, mai più! Due infermieri aiutarono la ragazza che teneva ancora la bambina in braccio a distendersi su una barella, quindi la sollevarono e rapidamente la portarono nell'elicottero. La porta scorrevole si richiuse e le pale ripresero a roteare vorticosamente. Mi resi conto solo in quel momento di non sapere il nome della ragazza, né come avrebbe chiamato sua figlia. Indietreggiai e guardai l'elicottero decollare e sfrecciare nel cielo azzurro verso Manhattan. Diventò un puntino prima di scomparire del tutto. Sorrisi e salutai con la mano. Mi investì una sensazione calda e inattesa di sollievo. Mi sentivo più leggero, come se le catene che avevo portato per tutta la vita fossero cadute a terra frantumandosi in mille pezzi intorno a me. Appena il rumore delle pale si affievolì, la musica di Woodstock tornò a vibrare nell'aria.

Per il resto della giornata, il concerto proseguì regolarmente. Durante quegli acquazzoni che si alternavano al sole splendente avvenne qualcosa di speciale: per un momento nella storia, una nazione di giovani si ritrovò solo per la gioia di condividere la musica, e sì, certo, anche qualche droga. Ma c'era di più. C'era un sincero senso di unità, pace e, soprattutto, amore. A sei chilometri di distanza, a El Monaco, provavamo lo stesso sentimento. Anche se non c'erano altri bambini da far nascere, avevamo un costante flusso di ragazzini che perdevano il controllo sotto influsso di varie sostanze allucinogene. Tuttavia, per chiunque intraprendesse un brutto viaggio, arrivava sempre un'anima pia ad aiutare, sorreggere e calmare chi era alle prese con il proprio show dell'orrore. Quando il concerto finì ero esausto, fisicamente ed emotivamente, ma ancora esaltato. Sapevo con certezza, per la prima volta nella vita, che non ero solo al mondo. L'epoca in cui dovevo nascondere la mia sessualità per non ferire i miei genitori, e la continua attenzione a ogni centesimo, subito fagocitato in un pozzo senza fondo, avevano instillato in me un senso d'isolamento e solitudine che non sarebbe mai scomparso. Ora, però, mi sentivo parte di un'unica, grande, nuova generazione che si riconosceva nell'altruismo, nel suo stile colorato e nell'amore per una nuova era di rock'n'roll. Durante quei tre giorni magnifici, ero stato coinvolto in un fenomeno sociale che io stesso avevo in parte reso possibile, e non mi importava che pochi conoscessero il ruolo che avevo giocato. Mi sentivo libero e in sintonia con qualsiasi cosa o persona attorno a me. Okay, forse non tanto per mia madre, ma per me fu un sogno che si realizzava, e mi bastava per vivere. Eravamo riusciti a pagare i debiti del motel, e ora mammina poteva permettersi di andare a Miami Beach, insieme con le altre esiliate da Catskill. Finalmente avevo vissuto appieno un rapporto padre-figlio. In quello stesso momento, compresi che il mio futuro sarebbe stato onesto, caldo e vero come solo una vita nuova sa essere. Alla fine di quell'estate, quando tutti se ne furono andati, chiudemmo El Monaco per la stagione. In cuor mio però sapevo che ovunque fossi andato o qualsiasi cosa avessi fatto, avrei portato Woodstock con me. Forse non ha cambiato il mondo, ma ha cambiato la mia vita. E fino a oggi, ogniqualvolta vedo una maglietta sbiadita o ascolto una canzone di Woodstock, mi ritrovo a sorridere. Epilogo

Il festival finì domenica 17 agosto. In quel momento anche la mia vecchia vita si chiuse. Si voltava pagina, e tornare a New York per riprendere il vecchio lavoro come interior designer era impossibile. Che importava se un'altra signora di Park Avenue voleva una riproduzione della Cappella Sistina sul soffitto della sala da pranzo o se Lord&Taylor esponeva nelle vetrine sulla Quinta un'altra eccentrica composizione? I valori di Woodstock – la libertà di essere se stessi e l'amore – mi avevano cambiato; tornare indietro era impossibile. Ma non sapevo ancora cos'altro fare. Il lunedì, esausto e un po' sperduto, mi sedetti in reception e osservai la lunga parata del ritorno a casa. La polizia aveva trasformato la 17B in un'autostrada a senso unico: direzione New York. L'esodo era silenzioso e tranquillo, tutti erano esausti dopo gli eccessi di quella lunga festa. Davanti ai miei occhi passavano gli autobus dai colori sfavillanti, i maggiolini Volkswagen, i fuoristrada, le Harley ed era come osservare il corteo funebre di un grande re. Non resistei lì a lungo; era come se la linfa vitale mi abbandonasse. Già a sera il traffico era sparito. White Lake era tornato un paese di fantasmi, sinistramente silenzioso. Quella stessa notte, papà, mamma e io chiudemmo il motel per la stagione. Dopodiché, se ne andarono a letto. Io tornai alla baracca numero due e feci lo stesso. Dormii per trenta ore di fila. Appena ripresi coscienza, chiamai Mike Lang e gli dissi che avevo ancora trentacinquemila dollari della vendita dei biglietti e che li volevo consegnare alla Woodstock Ventures. Riusciva a passare? Avrei potuto spedirgli un assegno, ovviamente, ma volevo vedere ancora una volta la persona che, senza saperlo, mi aveva cambiato la vita per sempre. Mike arrivò a El Monaco, felice e sereno. Sembrava in forma, tenuto conto di quello che aveva passato. Si mormorava che molti creditori gli avessero fatto causa ma, come sempre, Mike era calmo e cool. Sapevo che sarebbe caduto in piedi, lui aveva quel dono. Gli ricordai che anch'io avrei dovuto fronteggiare qualche problema con la gente del posto. Mi disse di non preoccuparmi, lui e i suoi soci avrebbero sistemato tutto. Prima del festival, aveva promesso al comune che avrebbe lasciato la città in condizioni migliori di come l'avevano trovata. La sua parola valeva oro. Era riuscito a mettere in piedi un'organizzazione di tremila volontari per ripulire la fattoria di Max e le strade di Bethel. Raccolsero lattine, coperte, scarpe e tanto altro. Quando ebbero finito, Bethel scintillava. Io e Mike ci abbracciammo e ci salutammo. Nessuno di noi era davvero consapevole che Woodstock sarebbe diventata un'icona culturale. Ci incontrammo ancora vent'anni dopo a un party a Manhattan per una rimpatriata. Ci invitarono a diversi spettacoli televisivi e alla radio per raccontare Woodstock. In quel giorno dell'estate del 1969, però, nessuno dei due sapeva cosa ci avrebbe riservato il futuro. Passai due settimane a ripulire il motel con papà, e quando finimmo, mi resi conto che niente più mi legava a quei luoghi. Stipai i bagagli nella mia nuova auto, una Cadillac comprata con i guadagni del festival, chiusi tutto, e dissi addio ai miei genitori. «Stai facendo la cosa giusta, Elli. Vedrai, andrà tutto bene sia a noi che a te. Se qualche tipo strano mi chiederà di te, darò solo una risposta: "Quale festival? Chi è Elliot Tiber? Io sono Jack Teichberg. Non ho visto nessun festival qui". Sono orgoglioso di te. Gei gezunta hei, figlio mio» disse papà, augurandomi fortuna e buona salute in yiddish. Due settimane dopo ero a Hollywood, in California. Mi avevano accettato nel sindacato degli scenografi cinematografici e speravo che mi potesse aiutare per una nuova carriera. Il destino aveva altri piani per me. Nel maggio del 1970, otto mesi dopo il festival, mia sorella chiamò dicendomi che avevano ricoverato papà per un tumore al colon. Secondo i dottori, non sarebbe vissuto a lungo. Corsi a Bethel e trovai papà all'ospedale di Monticello, in una tenda a ossigeno, a malapena cosciente. Durante le settimane successive, andai tutti i giorni al suo capezzale. Passavamo la maggior parte del tempo in silenzio, e lui mi teneva la mano. Un giorno, all'inizio di giugno, mentre stavo per andarmene, sentii la sua mano afferrarmi con forza. Avvicinai la testa alla tenda per ascoltarlo. «Mio piccolo bambino» iniziò, «ti voglio bene. So tutto di te. So cosa fai. So della tua vita e dei tuoi amici. Voglio solo dirti che per me va bene. Mi auguro che un giorno tu possa trovare qualcuno ed essere felice.» Guardò dritto in fondo ai miei occhi e mosse la testa in segno d'amore e approvazione. Si fermò un istante, poi riprese a parlare: «Devo solo chiederti un favore. Quando me ne andrò, voglio essere seppellito con il viso verso Woodstock. Conosci quel piccolo cimitero ebraico vicino alla fattoria di Yasgur? Seppelliscimi lì. Il festival è stata la cosa più bella che mi sia capitata in tutta la vita, ed è successo grazie a te.» «No papà, grazie a noi. Tu e io.» Nel silenzio che seguì, trovai la forza di fargli una domanda che, in altre occasioni, non avrei mai fatto. «Papà, perché sei rimasto con mamma per tutti questi anni? Eri così affaticato. Perché non le hai mai detto di smetterla con le sue pretese?» «Io la amo» sussurrò. Furono queste le ultime parole che gli sentii dire. Il giorno dopo morì. Quando lo comunicai a mamma, prese a strillare e lamentarsi chiamando mio padre con il nome yiddish: «Yankl, come hai potuto farmi questo? Come hai potuto lasciarmi sola all'inizio della stagione? Come potrò cavarmela? Come potrò affittare le camere e rifare i letti e tagliare l'erba da sola? Oh Yankl, come hai potuto abbandonarmi proprio prima delle feste? Chi aggiusterà i bagni? Non mi hai regalato un giorno bello in tutta la mia vita! Mai un momento di felicità! Mai! Non mi hai mai resa felice!». Seppellimmo papà nel cimitero che dominava la fattoria di Max. Lo stesso armo, una famiglia che possedeva un ristorante italiano nel Bronx comprò El Monaco e lo trasformò in un altro ristorante italiano. Vendemmo quasi tutto quello che possedevamo e misi mamma in una di quelle lussuose case di riposo per ebrei a Riverdale, nello Stato di New York. C'erano una sinagoga, un rabbino e un sacco di yenta con cui poteva spettegolare. Una volta stabilitasi lì, mi confidò di essere felice. «Qui è meraviglioso, c'è Unzereh menshen, la nostra gente.» Alla fine scoprimmo che non avrebbe dovuto affrontare la sua paura peggiore: invecchiare senza avere abbastanza denaro in saccoccia. Qualche tempo dopo averla messa nella casa di riposo, infatti, venni a sapere che negli anni aveva accantonato quasi centomila dollari in contanti, sottraendoli alle ricevute del motel, denaro della cui esistenza non eravamo a conoscenza né io né papà. All'inizio degli anni Novanta mamma morì, dopo aver speso tutto fino all'ultimo centesimo dei suoi risparmi. Poco tempo prima le avevo confidato che stavo scrivendo un libro su Woodstock e su quella avventura così eccitante condivisa a El Monaco. «Spero che non mi menzionerai nel tuo libro» disse, «non voglio che la gente scopra dove sono. Che cosa dovrei rispondere ai giornalisti se mi chiederanno cosa succedeva? Meglio stare zitta e non dire niente a nessuno; non voglio rovinare il tuo libro. Odiavo tutti quei ragazzini e il loro sporco sesso, e quelle droghe. Quei mocciosetti dovevano rimanere a casa con le mamme. E non sopportavo neanche la musica. Mi vergognavo che tu fossi lì con loro. Non capisco perché vuoi ricordare alla gente chi eri e dove sei ora. Ti rimprovereranno di essere quello che ha permesso l'esistenza di Woodstock. Mi vergogno di te e Woodstock.» Alcune cose non cambiano mai. Nessuna di quelle parole mi ferì davvero perché nel frattempo avevo trovato l'unica cosa per cui avevo lottato tutta la vita: l'amore. Nella primavera del 1971, incontrai André Ernotte, un regista e professore belga che era a Manhattan sotto l'egida dell'Harkness Fellowship, per studiare il teatro americano. André aveva trent'anni, alto un metro e ottantotto, magro e affascinante. In tutta la mia vita non avevo mai incontrato qualcuno con cui potessi parlare e condividere pensieri come con lui. Tre mesi dopo averlo incontrato, André tornò in Belgio e io lo seguii poco dopo. A Bruxelles, mettemmo su casa. L'animo europeo si confaceva alla mia sensibilità e creatività. Imparai il francese e scrissi per la televisione, teatro e cinema. Più tardi, diventai drammaturgo al Teatro nazionale del Belgio. André e io collaborammo su diversi copioni di film e produzioni teatrali, non solo in Belgio, ma anche in Francia e altri Paesi europei. A metà degli anni Settanta, scrissi un libro, Rue Haute, sull'occupazione nazista a Bruxelles durante la Seconda guerra mondiale. Fu tradotto in inglese e diventò un bestseller in Europa; negli Stati Uniti lo pubblicò Avon con il titolo di High Street. André e io scrivemmo il copione e ne girammo il film omonimo. Venne distribuito anche negli Stati Uniti e vinse alcuni premi. Il «New York Times» ne sottolineò il ritmo incalzante. André ne firmò la regia come per altri nostri lavori. Il nostro amore ci permise di lavorare insieme in tutti i settori: dalla cucina all'organizzazione di casa, dalla scrittura alla produzione, fino alla regia di grandi opere teatrali o film di successo. Quando uno era in viaggio per affari ci scrivevamo lettere d'amore e poesie, e André lo sapeva fare sempre con grande raffinatezza sia in francese sia in inglese. Nel 1999, si ammalò e morì di cancro. Siamo stati insieme ventotto anni. Dopo la sua morte, mi trasferii di nuovo a New York, dove ho insegnato teatro e interpretazione all'Università New School e all'Hunter. Nell'ottobre 2006 mi hanno invitato a Beverly Hills all'Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, gli organizzatori degli Oscar, per il trentaseiesimo anniversario del film Woodstock. In quella serata ritrovai molti dei miei vecchi amici, incluso Mike Lang, Stan Goldstein e John Roberts. Sembravamo così diversi, ma in effetti eravamo solo invecchiati. Non c'è detto migliore di quello che recita: il viaggio vale più della meta. L'estate del 1969 ce lo dimostrò. In qualche maniera, Stonewall e Woodstock causarono strane reazioni chimiche dentro di me che quando si fusero insieme fecero di me un uomo. Quel mix folle rese possibili i miei sogni, compreso il più importante: trovare l'amore, André Ernotte. E ora, a distanza di quarant'anni, posso rilassarmi e sentire la gioia di questo viaggio. Avevo scalato una montagna, quella che mi ero trovata davanti. Come la mia vecchia nemesi, Mosè, avevo trovato qualcosa d'importante in cima. Nel mio caso, però, non si trattò delle pesanti tavole della legge. Fu la musica che mi permise di vedere con chiarezza la mia esistenza. Ringraziamenti

Grazie a tutti quelli che mi sono stati di sostegno e mi hanno concesso la loro amicizia per tutti questi anni:

Alyce Finnel, Joan e Lydia Wilen, Neal Burstein, Jack Blumkin, Robin e Steve Kaufman, Manhattan Plaza, Steve Corvi, Haig Palanjian, Helen Hanft, Joe Sidek, Todd Hoffman, Daniel Bohr, Christian Lang, Jon Gabrietta, Calvin Ki, Katharine Hepburn, Ingrid Bergman, Michael Moriarty, Molly Picon, Marion Brando, Wally Cox, Tennessee Williams, Truman Capote, Sammy Davis Junior, Arlo Guthrie, Melanie, Virginia Graham, David Schnitter, Marti Mabin, Rosi Rogic, Renee Teichberg Brisker e Yuri Brisker, Rachelle Teichberg Golden e Samuel Golden, Roger Orcutt, Andre Bishop del Lincoln Center, la belga Rtb Tv, le Edizioni Rossel di Bruxelles, CineVog Film di Parigi, il magazine «Life», Richie Havens, la regina Fabiola del Belgio, il presidente Giscard D'Estaing, John Roberts, Joel Rosenman, Artie Kornfeld, Stan Goldstein, Annie Cordy, Claude Lombard, Anny Duperey, Bernard Giraudeux, Max Yasgur, Lee Blumer, gli archivi di Woodstock, Roy Howard, Jeryl Abramson, Alyse e Steve Peterson, Scott Hall, Steve «Stevo» Harris, Louis B. Free, Rod Hurt, Michael Lang.

I miei ringraziamenti di cuore a , James Shamus e la Focus Features Universal per avermi dato questo «miracolo».

Infine vorrei esprimere un ringraziamento affettuoso ai meravigliosi collaboratori delle Edizioni Square One che mi ha aiutato nella pubblicazione di questo libro: Rudy Shur, Joanne Abrams e Anthony Pomes. Per ultimo ma non meno importante, i miei ringraziamenti vanno a Tom Monte, che mi ha aiutato a fare di questo libro una realtà.