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Dossier 2010/11/12/01 Da Vivapalestina3 a VivaPalestina5

Indice

• Premessa • A Gaza con il Viva Palestina Convoy 3 di Diana Carminati e Alfredo Tradardi • Dopo la GFM e il VivaPalestina Convoy3 - La situazione dei movimenti di solidarietà in Italia di Diana Carminati, ISM – Italia, Torino, 21 febbraio 2010

• Convoglio VivaPalestina5: da Ankara a Kayzeri, 30 settembre 2010 • Convoglio Viva Palestina5: da Lattakia verso Gaza, 5 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: inizia il tiro alla fune con l'Egitto, 7 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: verso El Arish, 14 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: domenica si parte per El Arish, 15 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: dall'Egitto, una ulteriore e inaccettabile pretesa, 17 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: continua il sequestro del convoglio da parte egiziana, 19 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: Un primo commento a caldo, 29 ottobre 2010 • Convoglio VivaPalestina5: L’arrivo a Gaza, 3 novembre 2010

ISM-Italia, Torino 12 novembre 2010

1 Premessa

Nel mese di settembre 2009 Diana Carminati e Alfredo Tradardi sono stati a Gaza, unendosi a un gruppo della organizzazione americana Codepink. Non fu una esperienza esaltante, la fauna degli attivisti è spesso del tutto ignorante e, introiettati gli stereotipi della propaganda israeliana e occidentale, ne fa oggetto di domande, a dir poco irritanti, ai palestinesi. Tra il convoglioVivaPalestina3 e la Gaza Freedom March, organizzata da Codepink, la scelta fu immediata. Al convoglio VivaPalestna3 solo due i partecipanti italiani.

In questo dossier si da conto di quella esperienza e di quella più recente del convoglio VivaPalestina5.

Siamo alla vigilia di un ciclo di seminari e di incontri che si terranno in Italia, dal 13 al 20 novembre, con la partecipazione di Ghada Karmi, autrice di Sposata a un altro uomo – Per uno Stato laico e democratico nella Palestina storica, DeriveApprodi 2010. Agli incontri di Napoli, Roma e Pisa parteciperà anche Kevin Ovenden, leader del convoglio VivaPalestina5.

Dopo la guerra in Libano nel 2006, l'operazione Piombo Fuso, l'attacco omicida contro la Mavi Marmara, il movimento di solidarietà internazionale con la resistenza palestinese, o almeno parte di esso, sta cercando nuove strade per agire con efficacia contro il sionismo. L' appello palestinese al boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) del 9 luglio 2005, preceduto nel 2004 da quello per il boicottaggio accademico e culturale di Israele, i convogli sempre più numerosi, la flottiglia del maggio 2010, che ha dato un seguito alla felice intuizione del , e quelle che si preannunciano, sono parte di una stessa strategia, una strategia di boicottaggio diretto e indiretto, che mira a ottenere risultati concreti a breve-medio termine. Non si può più permettere al sionismo di continuare a fare tutto quello che gli è stato permesso di fare, a partire dalla pulizia etnica del '47-'48 che continua, e di godere della completa immunità e impunità per il suo agire barbaro e criminale, sia da parte delle potenze occidentali sia da parte dei cosiddetti paesi arabi “moderati”. L'attacco alla Mavi Marmara ha indotto qualche significativo cambiamento in una parte non marginale dell'opinione pubblica internazionale. Il convoglio VivaPalestina5, con la partecipazione di delegazioni di 30 paesi, tra le quali 12 di paesi arabi, ha assunto una dimensione internazionale senza precedenti. La partecipazione di Kevin Ovenden ai seminari di Napoli, Roma e Pisa potrà permettere gli approfondimenti necessari. Un nuovo fenomeno si sta concretizzando, quello della crescita esponenziale delle brigate internazionali di attivisti non-violenti, coinvolti nelle campagne BDS, nei convogli e nelle flottiglie. È giunto il tempo di mettere fine a rituali consunti che si trascinano da decenni e di passare a definire strategie e tattiche efficaci e capillari. La lotta a sostegno dei palestinesi è una lotta in difesa di tutti i popoli oppressi. E' una lotta contro il colonialismo occidentale che in Medio Oriente ha manifestato e continua a manifestare le sue forme più odiose e criminali. E' una lotta per la dignità umana.

2 A Gaza con il Viva Palestina Convoy3

3rd International convoy departed on December 6th 2009 and arrived in Gaza January 6th 2010 MISSION ACCOMPLISHED! One month, thousands of miles, ten countries, one ship and a four flights later, Viva Palestina has entered the besieged (da www.vivapalestina.org). Questo comunicato stampa è una breve sintesi delle vicende del “Convoy to Gaza” inglese. Ci riserviamo di dare un seguito con una analisi politica più approfondita. Quello che va sottolineato e ribadito è che il successo del Convoy to Gaza è dovuto alla determinazione politica di tutti/e i partecipanti. Nessuno tra gli organizzatori e tra i partecipanti ha mai messo in dubbio l’obiettivo del convoglio: entrare a Gaza. Questa determinazione ha permesso al convoglio di superare tutte le difficoltà frapposte dal governo egiziano in combutta con quello israeliano. Abbiamo partecipato, unici italiani, al Viva Palestina Convoy, organizzato da Viva Palestina (VP) (www.vivapalestina.org) e animato dal deputato britannico George Galloway. Il convoglio, partito da Londra il 6 dicembre 2009, ha attraversato Belgio, Germania, Austria, Italia, Grecia, Turchia, Siria, Giordania ed Egitto ed è arrivato, dopo infinite difficoltà, a Gaza la sera del 6 gennaio 2010. Per quanti/e sono partiti/e da Londra l’odissea è durata un mese! Al convoglio formato in partenza da 350 attivisti/e britannici (molti delle comunità musulmane inglesi) da una delegazione della Malesia, e da 150 automezzi e ambulanze, si sono successivamente uniti un gruppo belga, una forte delegazione turca di circa 90 persone e 60 automezzi e ambulanze e circa 60 giovani di Viva Palesatine US. In totale circa 500 persone e circa 200 automezzi. Come ISM-Italia, avevamo consegnato in Italia al convoglio, 10.000 euro di medicinali, forniti dalla Cooperazione Internazionale della Regione Piemonte. Abbiamo raggiunto il convoglio a Damasco il 21 dicembre e proseguito per la Giordania, con una straordinaria accoglienza della popolazione nei piccoli paesi attraversati, nelle città, con momenti di incontro con le comunità musulmane locali (ad Amman hanno raggiunto il convoglio anche tre rabbini del gruppo Naturei Karta), con il dono di cibo, acqua e dolci. A Damasco siamo stati ospitati a cura del governo siriano in un moderno complesso turistico alla periferia della città, sia il 21 dic, sia quando siamo passati di nuovo per raggiungere il porto di Lattakia. Ad Aqaba, bloccati dal rifiuto dell’Egitto di poter proseguire nel Sinai, per raggiungere Gaza, ormai a meno di 200 km, il 27 dicembre giorno dell’inizio dell’attacco israeliano del 2008, alcuni alberghi hanno messo a disposizione gratuitamente le loro stanze e offerto cibo a tutti. L’Egitto, malgrado gli accordi precedentemente sottoscritti con Viva Palestina ha posto tre condizioni: • di arrivare al porto di El Arish • di accettare il permesso di ingresso a Gaza da parte israeliana • di consegnare i materiali all’UNRWA Queste due ultime condizioni sono state respinte dal convoglio. Siamo stati comunque costretti a tornare in Siria sino al porto di Lattakia con un ulteriore viaggio di circa 800 km. Qui, dopo lunghe trattative della delegazione di VP, del governo siriano e turco con quello egiziano, tutti i mezzi sono stati fatti salire su una nave turca e le persone divise in 4 gruppi trasferite con voli charter all’aeroporto di El Arish. Da quel momento infiniti ostacoli e continui nuovi raggiri sono stati posti dalle autorità egiziane: attese lunghissime all’aeroporto di El Arish per la verifica dei documenti, per alcuni gruppi oltre le sei ore, per altri una notte intera senza cibo e acqua, portati poi dalla croce rossa egiziana, senza sufficienti bagni, con l’appello finale per restituire i passaporti, gridati, i nomi, con voci rauche che ricordavano il Raus nazista, sino alla ‘detenzione’ nel compound del porto e all’attacco pianificato da parte della polizia egiziana a sera inoltrata. La polizia egiziana, giunta in forze (circa 2000 poliziotti) e in assetto antisommossa, con decine di furgoni (della Iveco) nella tarda serata del 5 gennaio, ha iniziato a provocare chi manifestava per la chiusura dei cancelli e per il rifiuto egiziano di far entrare a Gaza alcuni

3 veicoli. Hanno iniziato a lanciare sacchi di sabbia e pietre e successivamente a picchiare e arrestare chiunque fosse sotto tiro. Personalmente siamo stati testimoni dell’arrivo successivo, verso mezzanotte, di circa 200 giovanissimi poliziotti egiziani senza uniforme ma con sacchi di grosse pietre. Il bilancio, il giorno successivo, è stato di 55 feriti e 7 arrestati (fra cui due giovani attivisti del gruppo US Viva Palestina, con cui avevamo condiviso il lungo viaggio e che erano stati con noi poco prima). E che oltre 500 attivisti filopalestinesi siano stati attaccati con pietre, l’arma della prima intifada palestinese, da la misura del grottesco con il quale si è mossa la polizia egiziana. Nella tarda mattinata del 6, George Galloway, dopo lunghe e stressanti mediazioni, ha annunciato la liberazione degli arrestati e l’entrata nella striscia di Gaza per tutto il Convoy, tranne 59 veicoli alcuni dei quali con grosse apparecchiature e generatori, che Israele pretendeva passassero per Kerem Shalom. La delegazione turca ha spiegato poi che saranno destinati ai campi profughi palestinesi in Siria e Libano. L’uscita dal compound e l’arrivo a Rafah hanno occupato tutto il pomeriggio e parte della notte tra il 6 e 7 gennaio. L’entrata nella Striscia di Gaza, con gruppi di palestinesi che offrivano garofani a tutti gli attivisti e attiviste nei veicoli ha ripagato tutti delle fatiche e delle lunghe attese. Uno dei ragazzi del nostro autobus, del US Viva Palestina, picchiato e con la testa fasciata, al suo arrivo ha detto di voler tenere il suo sangue sulla maglietta, come simbolo del sangue di tutti i palestinesi. Secondo il Palestinian Center for Human Rights a Gaza sono entrate 482 persone e 130 veicoli del convoglio. Il giorno 7 ci sono state le grandi manifestazioni di consegna dei veicoli e degli aiuti (medicinali innanzitutto, protesi, pacchi di materiale scolastico ecc.), l’incontro con le autorità del governo di Hamas, con un lungo discorso di ringraziamento del premier Haniyeh, che è il primo ministro legittimo dell’ANP e non semplicemente il primo ministro de facto a Gaza, ma anche con molti ragazzi e ragazze, con donne che volevano conoscere personalmente chi era riuscito ad arrivare sino a loro. “Da dove vieni, come ti chiami, perché sei venuto a Gaza?” erano le domande più frequenti durante tutto il giorno. “Vieni a casa mia, ti invito, stai con la mia famiglia”. Era rilevabile, specie fra i più giovani l’ansia di parlare con “chi sta nel mondo di fuori”, un’ansia, talora aggressiva nei giovani uomini, che tradiva il trauma subito non solo nel gennaio 2009, ma negli anni passati, trauma che la popolazione continua a subire, per la chiusura delle comunicazioni con l’esterno e per la paura di un'altra aggressione, “The Second ”, di cui molti parlano e che già si legge nei giornali israeliani. All’uscita il giorno dopo (poiché ci erano state “concesse” dal governo egiziano solo 48 ore di permanenza nella Striscia), si aspetta l’apertura del valico per circa 8 ore (ormai è chiaro che gli egiziani non vogliono mostrare la presenza del convoglio agli abitanti del Sinai, perciò si viaggia sempre di notte). Alle 18,30 si aprono i cancelli e si entra in territorio egiziano. Chiusi fra i muri di cemento costruiti da israeliani ed egiziani, pensiamo a come ci si può sentire quando si vive in queste condizioni da anni. Alcuni palestinesi presenti ci informano che nella notte sono state colpite e distrutte case vicino a Khan Younis e uccisi 3 civili, compresa una bambina di pochi mesi. Terminate le procedure, ci fanno entrare negli autobus, contati più volte dai poliziotti; gli autobus vengono chiusi e, scortati da decine di furgoni di polizia, si parte per una lunga notte. Siamo in stato di arresto per essere deportati dall’aeroporto del Cairo come persone non grate. Alcuni autobus si rompono e si fermano nella nebbia e nel freddo del deserto. Si cambia autobus sotto un controllo duro con decine di poliziotti intorno. Spesso non permettono che donne e uomini possano scendere per le loro ‘esigenze primarie’. Lo permettono solo quando si urla. Così ‘deportati’ (se con noi ‘normali’ attivisti è questo il trattamento, possiamo immaginare come trattano i migranti clandestini e i palestinesi), si arriva all’aeroporto del Cairo, dove si aspetta ancora. E’ certamente una “punizione collettiva”, a cui ormai vengono addestrati anche i poliziotti egiziani. Ci tolgono i passaporti. Senza cibo e con scarse toilette. Molti non hanno più il biglietto, alcuni, specie fra i giovani, non possono pagarsene un altro e non possono quindi essere portati nei terminal. Perciò aspettano in ‘detenzione’ in attesa dell’intervento della relativa ambasciata. Via via che ciascuno/a riesce ad avere un volo assicurato, pagando un altro volo, viene portato al gate, dove la polizia ti fa il check-in e praticamente ti spedisce sin dentro l’aereo. Noi riusciamo ad

4 avere un volo a metà pomeriggio del sabato 9 gennaio, altri meno fortunati rimarranno ancora una notte e ripartiranno domenica, sempre in stato di detenzione. Certo ora è importante fare, insieme a tutti i gruppi di internazionali che hanno fatto queste esperienze, una riflessione politica lucida sulla situazione attuale e sulle strategie nuove da adottare. L’esperienza che abbiamo avuto partecipando al Convoy è stata in ogni caso, molto positiva. Abbiamo incontrato decine di attivisti/e giovani e meno giovani, di culture e religioni diverse, vivaci, entusiasti, pronti ad ogni faticoso cambiamento di programma, ma decisi nell’essere uniti per arrivare a Gaza. Persone che hanno lavorato molto nei mesi precedenti a livello di comunità e territorio per organizzare il convoglio. E’ stato anche molto importante l’aver attraversato paesi diversi e aver costruito insieme partecipazione e accoglienza nelle comunità, in particolare quelle musulmane, e ampliato l’informazione per far crescere un senso comune di solidarietà con tutto il popolo palestinese e in particolare con quello della striscia di Gaza, dove, non va dimenticato, è in corso un genocidio. Diana Carminati e Alfredo Tradardi ISM-Italia Torino, 15 gennaio 2010

Dopo la GFM e il VivaPalestina Convoy3 La situazione dei movimenti di solidarietà in Italia Diana Carminati ISM – Italia, Torino, 21 febbraio 2010

Dopo oltre un mese dal rientro e in un’analisi a distanza dall’esperienza vissuta nei 20 giorni di viaggio, dal 21 dicembre 2009 al 9 gennaio 2010, provo ad analizzare la valenza politica del Viva Palestina Convoy to Gaza. Il lungo viaggio e il suo esito positivo sono stati il risultato di un lavoro svolto nel tempo, capillarmente, a livello locale da attivisti/e britannici, militanti dei movimenti radicali antirazzisti inglesi e giovani appartenenti alla seconda e terza generazione di immigrati dal Medio Oriente. Lavoro evidentemente di anni, capace quindi di organizzare tre viaggi a breve distanza in un anno, da un‘idea del deputato inglese George Galloway, dopo l’aggressione israeliana a Gaza di inizio 2009. Ai 350 attivisti/e di varie appartenenze politiche e religiose, musulmani, cattolici, protestanti, ebrei, rappresentanti di Ong, giornalisti, militanti di PSC (Palestine Solidarity Campaign), partiti dall’Inghilterra il 6 dicembre, si sono uniti una delegazione belga composta da 11 persone e un’autoambulanza, un centinaio di aderenti all’organizzazione di aiuti umanitari turca Insan Hak ve Hurriyetleri/Insani Yardim Vakfi (IHH) (63 veicoli), una delegazione di attivisti malesi e un avvocato per i diritti umani, impegnati da anni nel movimento antiguerra (Perdana Global Peace Organization), una delegazione di oltre 60 statunitensi, in maggioranza giovani di origine palestinese o mediorientali, una delegazione giordana, e due italiani di ISM-Italia. Lo scopo non era solo umanitario, perché la raccolta e il trasporto di circa 200 veicoli con materiale medico e scolastico sono stati il risultato di mesi, se non di anni di intervento politico per rafforzare i legami di solidarietà con i palestinesi di Gaza nei paesi attraversati.

L’entrata a Gaza è stata ottenuta dopo una serie di negoziati, proposte successive e interventi diplomatici di ‘attori’ istituzionali importanti come il governo turco. Ha pesato l’essere riusciti ad attivare, in modo visibile, una parte dell’opinione pubblica dei paesi mediorientali attraversati. Come gli incontri con i gruppi legati al movimento politico e di resistenza Hamas. L’accoglienza spesso molto ‘partecipata’ ricevuta da associazioni professionali vicine al movimento e solidali con il governo Hamas, nelle città attraversate, ha dato la misura, pur nelle sensibilità diverse, religiose o laiche dei partecipanti, di quali siano le forze che hanno offerto una reale e visibile accoglienza, nel silenzio (indifferenza o paura?) di molti, come nella modernissima capitale della Giordania ad es., che ha al suo interno una componente

5 molto alta di profughi palestinesi. Talora ospitalità nelle case, come è avvenuto ad Aqaba e poi in Siria a Damasco e Lattakia; e non sono mancate offerte spontanee dei commercianti, ancora ad Aqaba, come alcuni proprietari di alberghi che hanno messo a disposizione camere a titolo gratuito per gli attivisti del convoglio. Uno degli obiettivi del Convoy è stato proprio quello di organizzare nei paesi arabi un collegamento fra organizzazioni europee di solidarietà e organizzazioni locali. Importante ad es. l’incontro ad Amman non solo con le associazioni professionali, ma con un comitato di donne che ha organizzato un ricevimento per le donne del Convoy, in cui è stata data voce ad ognuna per riferire delle attività nel proprio paese e che è stato un momento di autentico scambio a livello personale. Nei discorsi fatti durante il viaggio, in occasione dei vari incontri, George Galloway ha spesso dichiarato: “Non sono un sostenitore di Hamas, ma sono in favore della democrazia e dei diritti umani. Il popolo palestinese è stato punito da Israele durante tre lunghi anni per aver dato la preferenza elettorale ad Hamas. Io non accetto questo modo di pensare. Il popolo palestinese può governarsi ed eleggere i propri governanti. Per questo, condanno fortemente Israele e i governi che lo sostengono” E ha poi aggiunto “Ho fatto appello ai governi arabi. E’ tempo che si sveglino dal coma. Il primo ministro Erdogan, Ahmadinejad e il presidente venezuelano Ugo Chavez sostengono il popolo palestinese. Quando i governi dei paesi arabi inizieranno a sostenere la causa palestinese? La Palestina deve essere la vostra causa per la giustizia, la vostra terra. Il Venezuela è molto lontano, ma la Palestina è invece molto vicina”.

La partecipazione maggiore dei musulmani, specie tra i giovani, può essere percepita soltanto come adesione in nome della fede? Può essere vista o rappresentata come adesione ad “una guerra di religione”, ad “uno scontro di civiltà” tra fondamentalismi, come spesso questo viene descritto anche da esperti ‘analisti’ nazionali, a dir poco incompetenti? I più giovani, in particolare i giovani US, fisicamente e culturalmente “molto americani” (ad es. nel loro rapportarsi molto cordiale con le donne), e con background intellettuali diversi, compivano tutti le cinque preghiere di rito. Ma, nelle dichiarazioni spontanee di alcuni, ad es. sull’autobus US, con cui ho fatto il viaggio, poco prima dell’arrivo nella striscia di Gaza, si coglieva una preparazione politica alta nel cogliere il significato complessivo della solidarietà con Gaza, di lotta contro il progetto imperialista, coloniale e razzista di costruire il “nuovo Medio Oriente”, funzionale agli obiettivi occidentali. Dopo la conclusione del viaggio, con la consegna dei veicoli, dei medicinali e del materiale scolastico e il rientro ‘forzato’ immediato all’aeroporto del Cairo, come deportati, sono già in preparazione nuovi viaggi, con modalità da rivedere, poiché il governo egiziano ha affermato che proibirà la consegna di aiuti umanitari a Gaza se non attraverso la Mezzaluna rossa egiziana. I nuovi convogli saranno organizzati via mare e prevedono il coinvolgimento di gruppi internazionali diversi provenienti da altre aree geografiche, segno evidente che la mobilitazione di solidarietà nei confronti della popolazione di Gaza si è rafforzata con questo lavoro unitario a livello locale.

La situazione dei movimenti di solidarietà in Italia

E veniamo all’analisi di qual’è, nella fase attuale, la situazione italiana dei movimenti di solidarietà con la Palestina. Oggi, a inizio 2010, dopo le esperienze della GFM e del VivaPalestina Convoy e dopo gli attacchi egiziano-israeliani ai gruppi che intendono rompere l’assedio di Gaza. In Italia organizzare un’iniziativa simile a quella del convoglio è ancora molto difficile. Non siamo ancora alla seconda o terza generazione di immigrati, come in Inghilterra o Francia. Oltre alla crisi economica che colpisce innanzitutto gli strati più deboli, sfruttati ed emarginati della forza lavoro, cioè gli immigrati, è in atto una campagna virulenta di incitamento al razzismo, e di negazione dei più elementari diritti umani e civili. Ricattati sul piano lavorativo, repressi nelle loro richieste di dignità e di identità religiosa e culturale, è difficile che possa crescere nel breve periodo nelle comunità di immigrati arabi musulmani una visibile solidarietà attiva nei confronti di popolazioni ‘sorelle’, come quelle palestinesi. Anche fra i

6 palestinesi in Italia è molto difficile, poiché le differenze sociali, la sicurezza nel lavoro, il prestigio acquisito, le proprie convenienze, spesso anche la paura di ricatti polizieschi (poiché è facile essere subito indicati anche senza Patriot Act, come ‘terroristi’), tutto questo funziona per mettere sotto silenzio anche i più preparati e i più attivi. Solo l’anno scorso, dopo il massacro di Gaza, decine di migliaia di persone della comunità musulmana hanno partecipato alle manifestazioni locali e a quella nazionale del 17 gennaio.

Il giudizio sul lavoro all’interno dei movimenti italiani nell’ultimo anno, tiene conto delle esperienze di lavoro sul ‘campo’, dell’esperienza vissuta al Cairo dalla GFM, della lettura dei vari comunicati dei vertici italiani delle due delegazioni (Forum Palestina e Action for Peace), di alcuni dossier successivi (fine gennaio 2010), di due interviste su “Una Città” (febbraio 2010), del documento scritto e firmato da alcune decine di attivisti di base, “autonomi critici”, che hanno voluto discutere e criticare le decisioni prese dai vertici della GFM e organizzare manifestazioni al Cairo, e di altri articoli e documenti usciti negli ultimi giorni. Le manifestazioni al Cairo hanno portato ad una buona visibilità e a dare senso a quanti erano andati per ricordare il massacro e per manifestare la loro solidarietà. Il documento ufficiale della delegazione di Action for Peace-FIOM, riconosce le manchevolezze, organizzative e di preparazione politica e il lavoro da fare. I primi documenti di Forum Palestina non hanno fatto valutazioni critiche, dando un giudizio positivo, e solo nelle ultime settimane hanno riconosciuto problemi nell’organizzazione ed errori di valutazione. I difetti riscontrati nelle pratiche dei movimenti, e che sono spesso il risultato della tradizione politica della sinistra, non si fermano qui e su alcuni di questi occorre soffermarsi e discutere poiché se si prosegue in questa direzione non si ripetono solo errori del passato ma si contribuisce ancor più ad accrescere il livello di divisione e frammentazione all’interno dei movimenti.

Autoreferenzialità, trionfalismo e informazione a senso unico

Ho partecipato al Convoy britannico non solo per una semplice esperienza conoscitiva (come a settembre con una delegazione di Codepink) ma perché la modalità del convoglio britannico mi sembrava politicamente molto interessante. Ho rilevato con dispiacere alcuni errori nei documenti italiani: non solo per aver dato poca visibilità all’iniziativa del Viva Palestina Convoy, ma per averne dato talora una frettolosa quanto non corretta informazione: “parte del Convoy è entrata a Gaza”. Non è così1. Ne emergeva il dato che la GFM, organizzata dal gruppo americano Codepink e da altri gruppi europei, sudafricani e australiani fosse l’unica iniziativa importante. Spiacevole anche trovare sempre nei documenti altre inesattezze (?) nell’informazione come il fatto che Hamas è intervenuto per ultimo, manovrando l’iniziativa della società civile di Gaza, utilizzandola a suo favore, facendo “propaganda”[?!] nel portare la piccola delegazione a visitare i luoghi di distruzione ecc. Sono stata a settembre 2009 (dal 16 al 22) nella striscia di Gaza con una delegazione ristretta di Codepink, che andava proprio a definire gli ultimi punti dell’organizzazione della marcia. Siamo andati a visitare i principali luoghi devastati dall’aggressione israeliana e il percorso della marcia, da Jabalya a Eretz, accompagnati dal responsabile delle relazioni internazionali del Ministero dell’educazione del governo di Hamas. Era notizia di pochi giorni prima che anche il governo di Hamas aveva dato la sua approvazione e una dei due team leader Codepink era felice per questa nuova adesione!! Anche perché, insieme alle strutture governative locali, era necessario, ed era responsabilità del governo locale, organizzare il servizio di sicurezza intorno alla manifestazione di un migliaio di occidentali in una zona “di guerra”. Ho incontrato Haider Eid, uno degli organizzatori a Gaza per la società civile della GFM, al di fuori delle riunioni di Codepink, ho ascoltato con altri le discussioni e difficoltà sulla prima fase dell’organizzazione della marcia, da cui alcuni dei primi organizzatori, come Norman Finkelstein, si erano ritirati per problemi politici sulle modifiche della piattaforma richieste dai palestinesi.

1 Ne sono stata testimone diretta: sono entrati gli oltre 450 attivisti/e e circa 150 su 200 veicoli (50, bloccati dagli egiziani, sono stati in seguito consegnati ai campi profughi palestinesi in Siria e Libano

7 Paranoia ideologica e volontà di ignorare i processi storici

C’è nella sinistra italiana, anche in quella radicale, una persistente ossessione tesa a criminalizzare ostentatamente Hamas, a prescindere da una seria valutazione politica, frutto di letture attente e di approfondimenti, derivanti in questo caso dalle analisi più aggiornate degli esperti, palestinesi e internazionali2. Molti gruppi, certo non tutti, si limitano da anni a proporre solo le letture più banali, come ha detto recentemente Michele Giorgio in un’intervista per la giornata in memoria di Stefano Chiarini, con schemi ideologici e pregiudizi, utilizzando lo stesso linguaggio dei media occidentali. E come spesso accade la comunicazione scritta o verbale atta a screditare gli avversari è violenta. Appare proporre e proporsi come guerra “di religione”, quando la natura dei ‘conflitti’ in Medio Oriente è l’ennesimo attacco del neo-capitalismo e del neocolonialismo.

Solo alcuni esempi fra i tanti. Alcuni gruppi hanno continuato ad affermare che “Hamas ha fatto un colpo di stato” nel giugno 2007, dimenticando tutta la vicenda precedente dell’immediato rifiuto della comunità internazionale a riconoscere la vittoria del partito di Hamas nel gennaio 2006, partito la cui candidatura politica era stato accettata dai governi occidentali nel 2005.3 Hanno rifiutato di riconoscere la gravità del tentativo fatto per rovesciare il governo di Hamas a Gaza nel 2007, da parte di Mohamed Dahlan, capo dei servizi di sicurezza dell’ANP, fatto con la complicità diretta di Israele e CIA. Ignorando o disprezzando le versioni degli analisti anglosassoni, e di giornalisti accreditati che invece concordano su questo.4 E’ tornato in un documento e in modo più cauto, il tema delle spose bambine a Gaza. 5 Il tema è doloroso e delicato, poiché il problema è esistito e perdura a Gaza, dove il livello di povertà delle famiglie ha superato il 60%, come in altre società e negli strati più poveri in tutto il mondo. È un problema di povertà, certo, e anche del patriarcato più retrivo, ma non specifico di Hamas. Già nel 2002, visitando il WEP (Women Empowerment Project) di Gaza, Shadja el Sarraj, direttrice del centro WEP e sorella di Eyad el Sarray, noto psichiatra del GCMHP, ci raccontava angosciata, come era in aumento la percentuale dei matrimoni precoci, frutto delle condizioni di vita sempre più misere della popolazione di Gaza, costretta a ‘cedere’ le figlie, bocche in più da sfamare. E si era ancora in una amministrazione retta da Fatah. Si potrebbe parlare all’infinito di una situazione sociale che si è sempre più aggravata: mentre si parla soltanto di “militarizzazione” della Striscia, si dovrebbe analizzare la situazione sociale dei giovani di Gaza, senza altro futuro se non il salario di soldato o poliziotto, spesso unico sollievo per una famiglia intera, oggi al servizio di Hamas, come 10 anni fa erano al servizio di Fatah e dall’ANP. L’unica dignità per un giovane resta infine un’uniforme e un’arma. Su questo tema e sulla corruzione delle classi medie, delle grandi famiglie e del sistema di Fatah a Gaza, dopo gli accordi di Oslo, vedi il lavoro importante, ampio, preciso di Laetitia Bucaille, sociologa francese.6 In una delle interviste pubblicate su “Una Città”7 di febbraio 2010, vengono messe in rilievo,

2 Molti i lavori in lingua inglese. In italiano vedi l’analisi precisa di Paola Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese, Feltrinelli 2009 3 v. il report di fine missione del diplomatico ONU Alvaro De Soto del maggio 2007 ), rifiuto accompagnato dal blocco immediato degli stipendi, dalla chiusura quasi completa dei valichi e blocco delle merci 4 v. fra altri gli articoli del diplomatico Alastair Crooke, del giornalista David Rose, dell’analista Julien Salingue (Università di Paris 8), di Paola Caridi nel suo libro su Hamas, in cui per la prima volta in Italia viene analizzato il percorso e poi la decisione del movimento di resistenza di avere una componente politica forte e trasformarsi in partito. Finora questo libro ha avuto ben poche recensioni. 5 Ricordo le accuse infamanti e atroci passate in rete l’estate scorsa sulle spose bambine di Gaza, cioè le piccole damigelle delle spose ritratte felici accanto a fieri giovanotti gazani, “certo pedofili”; immagini riprese con didascalie truccate da qualche sito di propaganda. L’accredito dato allora fu per fortuna di qualche settimana. 6 L. Bucaille, Gaza: la violence de la paix”, Presses de Sciences Politiques, Paris (1998). 7 Intervista di “Una città”, febbraio 2010, a M. P.M. (Università di Pisa e BDS-Italia), partecipante alla GFM

8 in modo ossessivo, cieco, banalizzante al limite del ridicolo, le dichiarazioni di alcuni, entrati come rappresentanti della GFM, che affermano “A Capodanno c’è stata una serata di musica e festa con un gruppo rap palestinese di Gaza. Gli abitanti [sic] hanno ringraziato gli internazionali ‘meno male che siete venuti perché qui non avremmo mai potuto festeggiare. Qui non possiamo festeggiare, fare musica, ballare perché Hamas non lo consente…’”. Certo a Gaza è difficile festeggiare a Capodanno! Certo i giovani rap e non solo vorrebbero festeggiare! Non solo per colpa di Hamas. Forse c’era… anche l’anniversario del massacro da commemorare! Lo sguardo ‘orientalista’ e di ‘patronage’ insistente dimentica che il mondo musulmano festeggia un ‘capodanno’ alla fine del Ramadan e quest’anno, a settembre, essendo presente, ho assistito ai festeggiamenti tradizionali; si dimentica la situazione drammatica di lutto di centinaia di famiglie, dopo il massacro, di estrema povertà di buona parte della popolazione, di assedio e di attacchi che continuano ogni settimana; la notte del 7 gennaio è stata uccisa una bambina di 6 mesi e altri due civili per un tiro d’artiglieria israeliana contro una casa a Khan Younis; si dimentica che una popolazione di osservanza musulmana stretta (certo il partito di Hamas, da febbraio 2010 un governo de facto, in un territorio “in guerra”, controlla di più) non è incline a ballare nelle modalità di festa occidentali. Si persiste a chiedere, vedi gli ultimi documenti di alcuni gruppi, una “pace giusta”, a sostenere la soluzione di “2 stati per due popoli”, quando da anni i maggiori osservatori e giornalisti palestinesi, israeliani e anglosassoni smentiscono questa possibilità, dati i fatti “on the ground”.8 E se si arrivasse ad uno “stato” palestinese, di fatto senza confini liberi, né difese, né autonomia economica, sarebbe un’entità subordinata agli interessi economici e militari israeliani, statunitensi ed europei.9 Nel suo intervento al seminario a Roma nel gennaio 2009, ed è opportuno ricordarlo, Ilan Pappé: ha affermato “Con l’adozione del modello della soluzione basata sui due stati, abbiamo direttamente contribuito a rendere gli israeliani immuni da qualunque pressione importante esercitata dalla comunità internazionale affinché ponessero termine a questa politica criminale che perpetravano sul terreno. Non importa che voi crediate più o meno fermamente nella soluzione dei due stati o pensiate che non ci siano altre soluzioni: il discorso dei due stati è quello che garantisce che Israele attacchi dei palestinesi innocenti impunemente e ne ucciderà altri, bambini, donne e uomini la prossima volta proprio per questo discorso dei due stati. E l’elite politica occidentale, anche con Barack Obama non farà nulla.” Il saggio di Meron Benvenisti (“The Inevitable Bi-national Regime”), apparso nell’edizione in ebraico di Ha’aretz a metà gennaio, descrive la situazione tragica ma reale dei Territori occupati, la frammentazione del popolo palestinese in 5 gruppi (quelli di Cisgiordania, di Gerusalemme Est, di Israele, della diaspora e della striscia di Gaza), ognuno con esperienze di vita, necessità, relazioni, strutture economiche, politiche, amministrative ormai diversificate, frutto del piano strategico israeliano, sionista, di lungo periodo (secondo la tradizione coloniale del “Divide and Rule” occidentale) che sta stravolgendo le loro identità, negando uno stato e distruggendo l’unità di un popolo. E contribuisce alla creazione de facto di uno stato solo (ebraico e non democratico) con due nazioni, di cui una però non ha diritti, anzi le viene negato di fatto anche il riconoscimento dell’identità nazionale. Benvenisti arriva a chiedersi se si possa ancora parlare di ‘popolo palestinese’ in queste condizioni. Il saggio fa ampie critiche anche ai circoli della sinistra ‘pacifista’ israeliana che competono fra loro, perseguono “differenti agende” e contribuiscono al discorso della soluzione dei “2 stati per due popoli” con una loro visione dello stato palestinese, “ridicola caricatura di stato”. Benvenisti chiude senza speranze. Il suo, scrive, non è un saggio ‘predittivo’ ma

8 Vedi come esempio tra i più recenti, l’ultimo articolo su Ha’aretz del 24.1.2010 di Moshe Arens dal titolo molto significativo “Obama chasing rainbows with two-state solution”, che tratta da poveri ingenui gli ‘infatuati sognatori’ “The continuing infatuation with the idea of a two-state solution is at the bottom of most of these naive dreams.” E molti altri negli ultimi anni. 9 V. art. Di Ziyaad Lunat “ The Netanyahu-Fayyad “economic peace” one year on, The Electronic Intifada, 10.2.2010 e altri su Maan News, febbraio 2010

9 ‘informativo’.

Un saggio importante e approfondito del 2009 del sociologo palestinese Jamil Hilal (seguirà fra poco in arabo un libro di analisi del fallimento della sinistra palestinese) mette in evidenza il sistema di polarizzazione e frammentazione politica della società palestinese, accompagnato da dati aggiornati sulla disoccupazione, livelli di povertà, situazione dell’economia ecc. E’ analisi che parte dallo studio della storia degli ultimi due decenni e della realtà odierna: della polarizzazione e frammentazione del sistema politico (dovuto alla frammentazione geografica, in seguito sociale e politica, programmata dai governi israeliani), del sistema elettorale imposto dal mondo occidentale, un sistema misto di rappresentazione proporzionale e maggioritaria, quello che ha costruito la polarizzazione e favorito il partito di Hamas come maggioranza nel PLC. E imposto due entità politiche (con agende molto diverse), che hanno avuto come esiti drammatici due governi e due sistemi di sicurezza. Ma sono due entità politiche, con la propria base di massa, con i propri apparati di sicurezza e la propria ala militare che seguiva e segue una propria agenda di resistenza all’occupante. Poiché anche quella di Fatah non ha smobilitato, se non negli ultimi anni di ‘normalizzazione’ del governo di Ramallah. Dal 2008 analisti politici hanno denunciato la “pace economica”, cioè la normalizzazione dell’occupazione in Cisgiordania attuata dal primo ministro Salam Fayyad 10, con le sue drammatiche conseguenze sulla società, tipiche del neocapitalismo e della globalizzazione: apertura dell’economia palestinese agli investimenti stranieri privati, che incoraggiano consumi e mutui sulle case degli strati in ascesa (una ONG organizza focus groups e training per un programma di “educazione per compratori di case”), attivazione di zone industriali leggere (e sfruttamento pesante della manodopera), apertura di shopping centers, di case di prostituzione, in cambio di un piano di sicurezza dura, con distruzione dei gruppi di resistenza militare, disarmo e rinuncia alla lotta armata dei gruppi di Fatah nel 2008, arresti in massa dei militanti di Hamas, organizzazione e addestramento delle forze di sicurezza palestinesi in funzione delle strategie militari israeliane, repressione della resistenza popolare non violenta contro il Muro, i furti di terra e la pulizia etnica a Gerusalemme est. La “pace economica” di Fayyad (che il 2 febbraio ha parlato alla conferenza sulla sicurezza ad Herzliya (Tel Aviv), insieme a Netanyahu e Barak e al direttore generale del FMI, il francese Dominique Strauss-Kahn), e di cui si parla e discute molto poco nei movimenti di solidarietà in Italia, sta creando non solo nuove pesanti differenze di classe e differenze drammatiche fra città e campagna, con la ‘desertificazione’ delle aree rurali e la spinta dei giovani per nuovi (?) lavori nelle città, ma è tesa a distruggere la lotta di resistenza non violenta dei comitati popolari delle zone rurali e a separare e frammentare l’identità nazionale palestinese. Sono tutte analisi molto lucide su quello che ‘nel frattempo’ è avvenuto, mentre in Italia, salvo pochi gruppi, ci si intratteneva nell’infantile “età dell’innocenza” sul problema ‘generalista’ di lavorare per arrivare alla ”pace giusta”, per la soluzione due popoli-due stati, limitandosi alcuni gruppi a viaggi di conoscenza e incontri alla ‘pari’ fra israeliani e palestinesi (di preparazione alla ‘normalizzazione’?), ma accanendosi in modo ossessivo e poco politico con il nemico acerrimo, Hamas, “unico gruppo terrorista”, dimenticando la corruzione ultradecennale e le complicità passate e attuali delle istituzioni dell’ANP, l’opacità dell’OLP, il fallimento totale del ‘processo di pace’, e l’impatto sempre più devastante di tutto questo sulle strutture economiche e sociali dei palestinesi. 11 Ricordo le difficoltà a parlare apertamente, dopo il 2006 (uscita del libro di Pappé nell’edizione inglese), di “pulizia etnica”, durante le presentazione dell’edizione italiana del libro di Ilan Pappé (2008); ricordo le difficoltà, le sottili distinzioni, le lunghe discussioni sulla parola

10 V. art. di Julien Salingue sul Palestinian Reform and Development Plan “L’échec programmé du plan “silence contre nourriture”. Où va le gouverment de Salam Fayyad?”, 6.3.2008 in http:// www.plomission.us/PRDPFinal.pdf; e di Ziyaad Lunat “ The Netanyahu-Fayyad “economic peace” one year on, The Electronic Intifada, 10.2.2010 11 In un recente articolo si fa passare per ‘diverbio’ con Hamas il tentativo ultimo di Abu Mazen di non riconoscere il rapporto della missione Goldstone, mentre invece un ricatto degli israeliani colpiva il figlio, coinvolto…negli interessi della nuova rete telefonica Wataniya.

10 “apartheid” e se si potevano applicare a Israele, e, ancora nel 2009, in alcuni ambienti dei movimenti sulla parola “genocidio”. Il terrore di fronte all’accusa di antisemitismo, usata spesso come arma di ricatto, in un mondo europeo prono alle minacce della propaganda filoisraeliana .12

Che fare?

Se si vuole veramente fare un salto di qualità nel lavoro dei movimenti di solidarietà, altre dovrebbero essere le scelte da compiere da parte dei gruppi: partire da analisi aggiornate, approfondite sulla situazione reale, iniziare a riflettere seriamente su Hamas, che oggi è un partito e un movimento di massa, come hanno fatto già giornalisti israeliani e analisti anglo- americani su giornali come Ha’aretz e su riviste importanti on line come Counterpunch 13 e altre. Non ignorando che il governo di Hamas, seppure indirettamente, da tempo parla di negoziati per uno stato palestinese “entro i confini del 1967”, implicitamente riconoscendo i confini con lo stato di Israele e quindi Israele. Ma non un riconoscimento come pre condizione prima dei negoziati definitivi (v. ancora De Soto). Non forzando conclusioni affrettate su come andare avanti “per l’unità politica dei palestinesi”, quando in questa fase tragica non credo si possa percorrere la strada tentata nel 2005 e perfezionata nel maggio 2006, con il documento dei prigionieri, di cui Paola Caridi descrive minuziosamente, nel suo libro, il difficile percorso. Documento sabotato da Israele nel giugno 2006, come tutte le successive mediazioni (Mustafa Barghouti e Abdullah di Arabia) dell’autunno 2006 e primavera 2007, per il Governo di Unità Nazionale, in cui si andò a un passo dalla firma di una coalizione governativa Hamas-Fatah, e tutto finì nel tentativo di colpo di stato, finanziato da Israele, di Dahlan.14. Credo inoltre che non si possa più ragionare con categorie occidentali per situazioni con tradizioni e universi mentali che funzionano con altre categorie, ma tener conto invece degli sforzi, nel mondo musulmano, di rielaborazione dei riferimenti islamici sia in campo economico, che cercano di resistere al sistema neoliberista, sia in campo politico, come ad es. il concetto di democrazia e le modalità di gestione del pluralismo.15 Quando poi le categorie politiche occidentali sono anch’esse in crisi, non funzionano. Quando non funziona nemmeno qui l’unità di una opposizione dei partiti di sinistra. E la situazione di frammentazione è comunque molto diversa, là costruita strategicamente dall’esterno, qui all’interno delle formazioni politiche. Questo credo sia un nodo importante da studiare e su cui discutere.

Persiste ancora in alcuni gruppi l’ignoranza sui seminari e discussioni che vi sono stati nel decennio passato su ‘uno stato unico, laico e democratico’ in Israele. Si ignora o si finge di non capire, (per alcuni gruppi, per non citare partiti e sindacati della sinistra) che ‘stato ebraico’ significa discriminazione e oppressione all’interno di Israele. Spesso tutto ciò viene anche tralasciato da un parte dei movimenti che si limita a scelte puramente umanitarie. E’ tempo che tutto ciò sia chiarito senza incertezze, ambiguità, e senza riferimenti continui ai giochi della politica, elettorali e non. Ora che il governo israeliano parla apertamente di “stato del popolo ebraico”. Occorre studiare a fondo, e proporre all’opinione pubblica dei movimenti, un’analisi aggiornata del sionismo e del suo progetto di occupazione, espansione ed espulsione

12 Si dovrebbe invece mettere in discussione la parola semitismo (categoria linguistica inventata dai filologi europei a fine XVIII° secolo e divenuta poi categoria razziale nel XIX° secolo con Ernest Renan, su questo confronta la riflessione di Joseph Massad, allievo di Edward Said, Columbia University, nel testo “La persistance de la question palestinienne”, La fabrique èditions, 2009) e di conseguenza antisemitismo, usata sempre solo per individuare gli attacchi contro gli ebrei, come arma terribile di ricatto in un mondo europeo prono alle minacce della propaganda filoisraeliana 13 Nell’ultimo documento di Forum Palestina, uscito da pochi giorni, si parla di necessità di “definire i punti di confronto e quelli di divergenza sulle prospettive”. 14 v. ancora la descrizione minuziosa di Paola Caridi. 15 V. fra molti altri Tariq Ramadan, Noi musulmani europei, datanews, 2008; François Burgat, L’islamisme en face, La Découverte, 2007

11 dell’altro, fin dall’inizio del XX° secolo; tema su cui l’anno scorso nel seminario di Roma del 24 gennaio, lo storico Ilan Pappé si è lungamente soffermato.16 Aveva già detto in un discorso a Bi’lin il 18 aprile 2007 “Tempo scaduto”: “Non vi alcuna necessità di una de-costruzione sofisticata per comprendere che a questo punto l’elite politica israeliana non sta più giocando una partita democratica. Essa sta realizzando gli ultimi capitoli della sua ideologia: fare della Palestina uno stato ebraico con una presenza il più possibile ridotta di palestinesi”. Questo tema tabù, volutamente ignorato e rifiutato sinora, da tutti i partiti della sinistra e dei sindacati, sotto ricatti e minacce istituzionali di antisemitismo, è stato da pochissimo ‘posto sotto osservazione’ da Forum Palestina in un primo seminario di fine novembre 2009. Ma la strada è ancora molto lunga. Occorre smontare l’ideologia sionista, che è coloniale e razzista, perché vuole la terra di Palestina ‘ripulita’, senza arabi.17 Ora questo discorso, con Lieberman e Netanyahu torna molto più esplicitamente alla ribalta. Occorre denunciare sempre più apertamente quale ruolo minaccioso e di continui ricatti ha Israele in Medio Oriente e nel Mediterraneo, come potenza militare nucleare, come laboratorio terroristico di sperimentazione e controllo della popolazione civile, sperimentazione di sistemi e dispositivi elettronici di ultima generazione di “counterinsurgency” coloniale.18

La ‘scoperta’ del BDS A partire dalla primavera 2009, dopo il massacro di Gaza molti gruppi di solidarietà hanno ‘scoperto’ l’appello al BDS che la società civile palestinese aveva rivolto alla comunità internazionale il 9 luglio 2005.19 A partire dalla scorsa primavera alcuni gruppi si sono lanciati nell’avventura del BDS, anche con siti nuovi, ma con agende spesso uguali alle vecchie, come quella che lo stesso 9 luglio 2005 l’ECCP europeo lanciava per un BDS senza B e D, ma solo per sanzioni dei governi. Oggi si assiste ad un frenetico affannarsi a fare, da parte dei gruppi, che per anni hanno rifiutato l’idea del BDS. Dopo un incontro a Pisa dell’ottobre 2009, culminato con la richiesta da parte degli/delle organizzatori/trici di sottoscrivere un ennesimo documento, il documento europeo di Bilbao sul BDS, che prevedeva nel suo Action Plan, alcune distinzioni su come fare il BDS, “meglio seguire le sensibilità di ciascuno” (“gradual, sustainable manner that is sensitive to context and capacity”, più funzionale all’obiettivo di come fare BDS in Italia; si è successivamente autonominato un BDS-Italia, che ha aggregato alcuni gruppi. Mentre l’anno scorso il Forum Palestina, insieme ad altri piccoli gruppi, come ISM-Italia, avevano lanciato il BDS come boicottaggio dei prodotti di Israele, degli OPT e delle maggiori aziende italiane che hanno rapporti di stretta collaborazione o fabbriche in Israele (le iniziative, di non facile

16 ”Tutti gli sforzi fatti dagli israeliani di descrivere questo fenomeno come una realtà complessa sono un tentativo di nascondere una storia molto semplice e infausta di colonialismo, di occupazione, di pulizia etnica e adesso di genocidio”. E si chiedeva “Come confrontarci con questo quando abbiamo questa ‘cappa’ di propaganda a livello accademico, a livello di media e a livello politico, qualcosa che dà impunità ai crimini israeliani e sionisti?” 17 Oltre a Pappé altri studiosi come ad es. Jonathan Cook nei suoi libri: “Blood and Religion. The Unmasking of the Jewish and Democratic State”, Pluto Press, 2007 e “Disappearing Palestine. ’s Experiments in Human Despair, Zed Book 2008, in cui il piano del gen. Yigal Allon del ’67 (tre cantoni in Cisgiordania, Nablus e Jenin, Ramallah e Salfit e Hebron) e poi di Moshe Dayan, per un opzione giordana e un’opzione egiziana, cioè dare in cambio alcuni territori o spostare popolazione. Le dichiarazioni e proposte di Avigdor Lieberman sulle richieste da fare alla popolazione palestinese di Israele (o sottoscrivere una dichiarazione di fedeltà incondizionata di Israele come stato ebraico o diventare residente immigrato con permesso di lavoro e soggiorno a tempo determinato o emigrare). Su questi temi v. art. di Marco Allegra in “Conflitti globali” n. 6, “Israele come paradigma” e la sua previsione di un futuro in cui vi sarà “un’entità dominante e un’entità dominata”. 18 v. relazione di Laleh Khalidi alla SOAS di Londra il 22 febbraio 2009), e v. art. di G. Frankel, “Il M. O. e la Bomba: duello atomico o equilibrio tra Israele e Iran?”, in Biblioteca della libertà, n. 189, ottobre-dicembre 2007 19 V. la storia di queste vicende nel libro “Boicottare Israele: una pratica non violenta”, Derive/Approdi 2009, di cui sono co-autrice

12 realizzazione, avrebbero potuto avere buoni risultati se organizzate insieme), ora si sta ritornando a riflettere come individuare soltanto le merci prodotte negli OPT (creando evidenti difficoltà poiché tutto è etichettato Made in Israel o esportato sotto controllo israeliano). Intanto si è perso quasi un anno e tutto ciò pone qualche quesito, quando proprio da alcuni mesi infuria la nuova strategia israeliana del “sabotaggio” e “attacco”contro il movimento globale per la giustizia e la pace.20 Con le stesse modalità si cerca di organizzare ora una campagna alternativa a quella per il boicottaggio accademico e culturale di Israele, proposto dall’ISM-Italia nel luglio 2009, in un seminario a Roma, cui aveva partecipato uno dei promotori palestinesi Omar Barghouti, e che seguiva le indicazioni del PACBI palestinese.21 Ma un documento del PACBI del 17.2.2010, “Intellectual responsibility and the voice of the colonised” afferma: “ It is responsibility of the boycott supporters to understand the broadly-accepted boycott criteria and guidelines upon which this boycott is based and adhere to it, rather then attempting to invent or suggest idiosyncratic criteria of their own, as the latter would undermine the Palestinian guiding reference for the global boycott campaign against Israel”. [sottolineatura mia] Il documento ammonisce chi fa confusione e cerca ancora una volta di mettere sotto ”formaldeide” sia il BDS sia il boicottaggio del PACBI e il lavoro che gruppi, come ISM-Italia e Forum Palestina stanno facendo da alcuni anni, in mezzo a mille difficoltà e ostracismi.

Quanto descritto, e di cui molti sono stati testimoni, è il tristissimo risultato della politica all’interno dei movimenti di solidarietà in Italia, non solo quella degli ultimi mesi. Avremmo bisogno di un Meron Benvenisti italiano per dichiarare che “il re è nudo”? O di un George Galloway? Cosa impedisce un lavoro unitario in Italia? Se le ideologie sono in crisi, permangono le antiche appartenenze, i riferimenti politici, i vecchi schemi ideologici, la non autonomia da posizioni/collusioni partitiche ed elettorali. La nostra situazione è oggi ancora peggiore di qualche anno fa. Siamo, rispetto ad altri paesi europei, arretrati di oltre un decennio per l’impegno nell’informazione, la possibilità di avere a disposizione pochissime case editrici per pubblicare libri importanti, ma giudicati ‘pericolosi’, per la scarsa adesione di intellettuali, il non coraggio di docenti e politici che denuncino la situazione. Di conseguenza diventa difficile una libertà di discussione rispetto ad un autentico coinvolgimento internazionalista antirazzista e anticolonialista, come ad es. in Gran Bretagna. Manca anche all’interno una coraggiosa critica e autocritica, per produrre insieme proposte comuni efficaci. Se permangono gli ostacoli, i ricatti, le manovre partitiche, i personaggi ambigui e collusi, i tentativi di ostacolare, manovrare, controllare e indebolire le energie delle minoranze ‘etiche’, quale solidarietà si può costruire in Italia per giungere a qualche risultato veramente efficace, con esiti meno negativi di quelli attuali? Anche qui funzionano strategie di frantumazione e polarizzazione. L’attivismo per l’attivismo, senza motivazioni etiche, non ha finora approdato a quasi nulla. Di questo molti si sono ormai resi conto. E’ tempo di affrontare un dibattito serio, approfondito e propositivo. Perché è già tardi.

20 V. Ali Abunimah, Israel’s new strategy: “sabotage” and “attack” the global justice movement, The Electronic Intifada, 16.2.2010 21 Alternativa perché è un programma di “educazione” dei palestinesi, che vuole informare i ‘sensibili’ universitari italiani su una situazione che essi dovrebbero conoscere da almeno un decennio. Le prime richieste di boicottaggio sono venute, nel 2002-2003, da accademici israeliani e ebrei inglesi come Tanya Reinhart, Steve e Hilary Rose, Ilan Pappe e altri; alcuni di loro sono venuti anche in Italia dal 2004 e hanno parlato di BDS in vari incontri organizzati da ISM-Italia. Numerosi sono stati gli incontri sul BDS in Italia promossi da ISM-Italia, con interventi di Omar Barghouti e di Jamil Hilal. Importante era stato anche l’articolo di Judith Butler, ‘Israel/Palestine and Paradoxes of Academic Freedom’, Radical Philosophy, gennaio-febbraio 2006 , più volte da me ricordato anche in vari seminari delle Din in quegli anni. V. “Boicottare Israele”, cit.

13 Convoglio VivaPalestina5: da Ankara a Kayzeri, 30 settembre 2010

Abbiamo passato la notte a Ankara, la capitale della Turchia, una città di 5 milioni di abitanti , con un traffico …. tranquillo a confronto di Istanbul (20 milioni di abitanti). L'accoglienza ieri,è stata semplice e splendida. Questa mattina al centro sportivo che ci ospita una colazione a base di uova, pomodori, cetrioli, datteri e olive, una bevanda molto buona a base di yogurt e un ciuffo di prezzemolo. Molto simpatica. Tempo incerto. La carovana sta amalgamandosi (vi sono più di 10 delegazioni di diversi paesi), ma ha perso circa 10 veicoli attardati per problemi meccanici, che ci raggiungeranno domani. Si prosegue verso l'interno, verso la città di Kayzeri. Si viaggia su un altipiano di circa 1000 metri di altezza. Paesaggi infiniti. Il tempo peggiora e a tratti la pioggia si fa violenta. Arriviamo a Kayzeri verso le le 6, è quasi notte, ma lungo la strada continue dimostrazioni di simpatia e di saluto. Kayzeri è l'antica città di Cesarea fondata da Costantino; la attraversiamo e colpiscono le imponenti mura romane e poi crociate. Meriterebbe una visita , ma l'obiettivo della carovana è un altro: arrivare a Gaza e rompere l'assedio israeliano: questo è il tema centrale di tutti gli interventi: perché è la sola risposta possibile al massacro della Mavi Marmara. Questo il messaggio lanciato attraverso i media al governo egiziano: arriviamo in pace, ma non impediteci di entrare a Gaza! Il percorso della carovana lo scopriamo tappa dopo tappa, segue una sua logica, una sua mission: ricordare i 9 morti della Mavi Marmara, tutti turchi, una operazione “chirurgica” degli israeliani per colpire la Turchia di Erdogan. A Kayzery, domani, ricorderemo anche Furkan Dogan, un ragazzo di 19 anni. Si corre, da una tappa all'altra in questo viaggio e occorre trovare un senso, una riflessione in queste tappe che sembrano tutte ripetere un rituale e che tuttavia non hanno nulla di formale e di preordinato. Questa accoglienza, questi sorrisi di folla ci dicono qualche cosa che occorre cogliere, su cui occorre riflettere: è un segnale a tutti noi “europei”: la sofferenza, il dolore, la tragedia del popolo palestinese ci unisce, ci unisce nei valori della giustizia, della libertà, dell'umanità; venite in pace, noi vi accogliamo. Venite in pace, senza armi e senza pretese di civilizzazioni. Ce lo dicono i ragazzi, tanti, le donne, tante, che abbracciano le volontarie del convoglio, Dana, Carola, Alina e poche altre. Ora sono le 22,30 sospendo il rapporto per seguire un altro incontro. Inshallah. Vincenzo Tradardi ISM-Italia

Convoglio Viva Palestina5: da Lattakia verso Gaza, 5 ottobre 2010

Il Convoglio Viva Palestina (ben 21 i paesi rappresentati), con i suoi 43 veicoli (6 provenienti dall’Italia con 15 attivisti), è fermo dal 2 ottobre a Lattakia in Siria, in attesa di essere raggiunto dagli altri convogli provenienti da Casablanca e da Doha per poi affrontare, con un traghetto, l’ultimo tratto verso il porto egiziano di El Arish e arrivare infine a Gaza. Lattakya, l’antica Laodicea che della colonizzazione romana contiene significative vestigia (l’arco di trionfo fatto erigere da Settimio Severo), è un porto importantissimo, lo sbocco al mare della Siria. E proprio nella zona del porto è stato sistemato il convoglio, nel campo profughi palestinese di Mukkhayyem. Del convoglio poco o nulla riferiscono i media occidentali e italiani, anche se esso rappresenta un evento di singolare importanza per le regioni attraversate. La Turchia ci ha riservato una accoglienza straordinaria a ogni tappa del percorso, da Istanbul a Kayseri ad Adana. Ovunque folla ad accoglierci agli arrivi. Una grande, calorosa partecipazione (con una straordinaria presenza di donne, giovani e meno giovani) che cogliamo anche lungo il percorso e nell’attraversamento delle città grandi e piccole: clacson suonati e mani alzate nel gesto V della vittoria. Ovviamente non sono né i convogli, né le flottiglie, a fare la storia, soprattutto quando la storia è straordinariamente complessa come nel caso della Palestina. Ma i Convogli e le Flottiglie possono fungere da catalizzatori e da rivelatori di alcuni passaggi di fase. Così è nel nostro caso. E dall’osservatorio del Convoglio si possono cogliere molti fatti che sfuggono completamente ai politologi nostrani, assidui frequentatori dei salotti televisivi.

14 Il massacro della Mavi Marmara del 31 maggio scorso ha avuto un effetto dirompente nella comunità turca. Lo Stato di Israele non solo ha compiuto un crimine efferato, ma nel voler umiliare e colpire in modo chirurgicamente mirato la Turchia (tutte le 9 vittime sono di nazionalità turca) ha commesso un enorme errore politico e di strategia. La Turchia ha avuto un sussulto, ha riscoperto una sua dignità, un suo orgoglio nazionale, compattandosi dietro il governo Erdogan. Tutto questo segna un mutamento decisivo nello scacchiere mediorientale. Il vuoto lasciato dalla devastazione e dalla disintegrazione dell’Irak, doveva essere riempito e lo sta riempendo non l’Iran, ma la Turchia di Erdogan con i suoi 75 milioni di abitanti e con una situazione economico-sociale in piena espansione. Errore fatale dunque quello di Israele, da sempre abituata a muoversi con la violenza delle armi, ed errore di analisi e di prospettiva degli Stati Uniti e dei paesi dell’Unione europea da sempre servilmente allineati sulle posizioni di Israele. La presenza del governo turco, nei confronti del convoglio, è stata assolutamente discreta, ma le visite alle tombe dei caduti a cominciare da quella di Furkan Dongan (la più giovane delle vittime, 19 anni, con doppia nazionalità, turca e statunitense), il modo con cui i media e le televisioni non solo turche hanno seguito e commentato questi passaggi, la dice lunga su cosa sta ribollendo dal punto di vista geopolitico in questo martoriato scacchiere mediorientale. Lasciando la Turchia con i suoi segni di prorompente modernizzazione, siamo arrivati il 2 ottobre al border della Siria dove ci attendevamo qualche difficoltà burocratica e, in ogni caso, una accoglienza molto meno marcata e calorosa. E’ accaduto esattamente il contrario. L’accoglienza è stata ancora più calorosa e ufficiale: al border erano state montate tribune coperte, moltissime le autorità, la folla era enorme, una folla che inalberava non solo bandiere siriane e palestinesi ma i cartelli con il volto del presidente Assad. E se, dopo gli interventi ufficiali, la folla è tornata ad essere la protagonista dell’evento, a nessuno poteva sfuggire questo posizionamento del governo siriano. Effetto domino dunque, che dalla Turchia si diffonde alla Siria ridestando un panarabismo che sembrava ormai assopito. Ci si può chiedere a questo punto come reagirà il governo egiziano, da anni fedele vassallo dello stato di Israele, e che anche nel recente passato, in occasione del Convoglio Viva Palestina 3 del gennaio 2010, ha tentato in ogni modo di contrastarne, anche con la violenza, l’ingresso a Gaza. Potrà anche in questo caso sfidare i sentimenti filo- palestinesi della grande maggioranza delle popolazioni mediorientali e del Magreb? Riuscirà Israele a imporre all’Egitto di compiere il lavoro sporco come nel passato? È lecito dubitarne. Ma come ha detto George Galloway l’ex parlamentare inglese promotore e leader di Viva Palestina, nel suo intervento a Istanbul, il Convoglio va in Egitto nel segno della pace e chiede, sempre in questo segno, di poter entrare nella Striscia di Gaza, per portare gli aiuti umanitari a quel milione e mezzo di palestinesi ridotti in una prigione a cielo aperto, ma sopratutto per rompere lo stato di assedio che dal 2006 sta soffocando quella striscia della Palestina, di fatto un genocidio a bassa intensità che continua giorno dopo giorno anche dopo l'operazione Piombo fuso con uno stillicidio di vittime palestinesi e con un embargo asfissiante e letale. Questo è l’obiettivo per il quale il Convoglio si è mosso e che vuole onorare nel segno della non-violenza. Il team di Viva Palestina-Italia, promosso da ISM-Italia, sta dando un suo significativo contributo, sia per i mezzi messi in campo e per il supporto logistico al convoglio nel suo complesso, sia per la sua capacità di analisi e di intervento politico teso a sottolineare il significato dell’evento all’interno di una strategia non-violenta volta a denunciare i crimini di Israele. Ieri era arrivata la delegazione algerina con più di 30 veicoli, oggi la delegazione giordana, 53 veicoli appena usciti di fabbrica, un altro significativo tassello dell’operazione! In attesa di entare a Gaza, inshallah. ISM-Italia Lattakia, 5 ottobre 2010

15 Convoglio VivaPalestina5 – inizia il tiro alla fune con l'Egitto, 7 ottobre 2010

Il Convoglio che intanto si è arricchito di altri arrivi, in particolare quello di una forte delegazione algerina, è fermo, forzatamente fermo, a Lattakya in attesa di ripartire per El Arish. Ieri una giornata molto importante. George Gelloway è arrivato al campo in mattinata accolto da una grande folla che ormai vede in lui non solo il leader di VivaPalestina, ma un protagonista di primo piano della lotta del popolo palestinese. Alle ore 11 si sono riuniti tutti i reduci della Mavi Marmara partecipanti al convoglio. Nel pomeriggio è previsto un meeting con le autorità locali in cui Galloway farà il punto della situazione sulla base di un incontro che si è svolto a Damasco mercoledì 6 ottobre fra una delegazione del convoglio e rappresentanti del governo egiziano per trattare sull’ingresso a Gaza. E’ in corso una sottile e defatigante trattativa diplomatica con Egitto che, pur in una situazione di oggettivo isolamento rispetto a tutti gli Stati confinanti, non vuole cedere alla richiesta di libero transito del convoglio e quindi di rottura dello stato di assedio e che, comunque, intende porre le sue condizioni. Da questa trattativa dipende o meno il successo dell’operazione VivaPalestina. Galloway si dimostra un personaggio di altissima statura politica, l’unico capace di confrontarsi con i governi locali, animato da una grande idealità e passione per la causa palestinese, ma anche capace di gestire con intelligenza una situazione che deve necessariamente fare i conti con i condizionamenti dei governi locali. Il suo intervento al meeting che si svolge alle 18 con una partecipazione grande di folla è preceduto da quelli di notabili locali e di rappresentanti delle delegazioni della carovana, in particolare di quelle arabe che si sono aggregate negli ultimi giorni. La presenza di numerose delegazioni dei paesi arabi è un segno nuovo, un risveglio dopo anni di silenzio. E' un indice significativo dei cambiamenti politici e geopolitici in atto in Medio Oriente. Tutto si svolge con una certa lentezza a causa della necessità della traduzione. L’intervento di Galloway è di straordinaria efficacia nella sua essenzialità e meriterà di essere tradotto e diffuso. Inizia con un lungo elogio alla Siria di cui sottolinea e ricorda il comportamento eroico durante l’aggressione israeliana del 67, quella che ha comportato per la Siria la perdita delle alture del Golan ancora oggi in mano israeliana. Ribadisce con grande forza che non ci sarà pace senza giustizia, e fino a che un solo centimetro di territorio siriano non sarà liberato. Consapevole di parlare a un uditorio di palestinesi del campo profughi, ribadisce con forza il diritto al ritorno. Sottolinea il carattere eccezionale del Convoy 5 Vivapalestina, che rappresenta la prima risposta alla brutale e tragica aggressione israeliana alla Mavi Marmara, ed evidenzia come questa volta esso raccoglie delegazioni di tutta l’area dal Bahrein fino alla Turchia. Sottolinea e denuncia l’arroganza dello Stato di Israele che non ha esitato a umiliare pesantemente anche il presidente Obama, senza fare alcuna concessione alla ripresa di trattative di pace. Sottolinea le potenzialità straordinarie dei paesi arabi che se solo volessero, se trovassero un minimo di accordo comune, con le risorse economiche di cui dispongono, potrebbero piegare la politica di occupazione e di violenza dello Stato di Israele e il sostegno dato ad essa dai governi occidentali. Conclude il suo intervento, interrotto da ripetuti applausi, informando sobriamente sulla trattativa con il governo egiziano. Il punto di mediazione raggiunto è proprio sulla figura di Galloway che non potrà entrare a Gaza. Questo il prezzo da pagare. Ma Galloway non ne esce certamente sconfitto, anzi, da questo meschino accanimento la sua personalità e il suo ruolo ne esce ulteriormente esaltato. Si chiude il meeting, la folla si disperde, le emozioni sono forti. Il lavoro da compiere è ancora molto, L’Egitto continuerà a creare intralci e a provocare ritardi, ma forse l’obiettivo di rompere l’assedio e di entrare a Gaza è ormai vicino. E come ci ha ricordato il coordinatore

16 dell’International Campaign to Break the siege on Gaza, ora occorre soprattutto armarci di pazienza.

ISM-Italia Lattakya giovedì 7 ottobre 2010

Convoglio VivaPalestina5: verso El Arish, 14 ottobre 2010

Dopo 13 giorni di quarantena a Lattakya (Siria), il convoglio VivaPalestina5 sta per riprendere il suo viaggio verso Gaza. Una lunga estenuante attesa, una logorante trattativa, molte notizie contraddittorie sulle intenzioni del governo egiziano; poi nella serata di mercoledì, attraverso messaggi rimbalzati dall’Italia, prima ancora che da conferme dirette, la certezza che finalmente è arrivata l’autorizzazione e può riprendere la marcia del convoglio verso la striscia di Gaza assediata. Questo lungo braccio di ferro con le autorità egiziane la dice lunga su come l’assedio di Gaza sia totale e asfissiante. Le dichiarazioni e assicurazioni ripetutamente rilanciate, dopo il massacro della Mavi Marmara, secondo le quali il valico di Rafah era aperto al passaggio di aiuti umanitari si rivela per quello che è: una sistematica e grossolana menzogna. Del resto una delle condizioni imposte al convoglio, il divieto di ingresso ai tir carichi di cemento conferma la ferocia dell’embargo a cui la popolazione di Gaza è sottoposta: i bombardamenti, cumuli di macerie, case, interi quartieri, gli edifici pubblici distrutti e poi il divieto di ricostruire, di dare un tetto ai moltissimi che ne sono privi. Un boicottaggio selvaggio organizzato da Israele e avallato da tutti i governi occidentali, Italia in testa, quegli stessi governi che non esitano ad alzare scandalizzati lamenti davanti alla richiesta della società civile palestinese di applicare nei confronti dello Stato di Israele, la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Il doppio standard che dimostra la cecità e l’opportunismo del campo “imperiale”, quello delle guerre di civiltà, della lotta al Terrorismo, della “democrazia” esportata con la forza delle armi, una strategia geopolitica che ha contagiato anche il nostro paese, infrangendo alcuni punti fondamentali della nostra Costituzione. Oggi, a mezzogiorno, Kevin Owen, il coordinatore del convoglio ha confermato ufficialmente l’autorizzazione all’ingresso e ha dettagliato meglio i problemi da affrontare nell’immediato. Il desiderio sarebbe quello di imbarcare tutta la carovana su un unico traghetto, ma il piccolo porto di El Arish verso cui siamo diretti non permette l’attracco a navi oltre un certo pescaggio. Per questo potrebbe essere necessario utilizzare due vettori o addirittura, ipotesi estrema, trasferire gran parte degli attivisti per via aerea. Problemi tecnici che richiederanno ancora qualche tempo per essere sciolti. Intanto bisogna ripulire il campo profughi che ci ha ospitato per 13 giorni e restituirlo alla comunità palestinese in condizioni decenti. Fa caldo, fa ancora molto caldo a Lattakya, ma l’afa sembra oggi molto più sopportabile. Sabato o forse domenica saremo a El Arish, 30 km dal valico di Rafah. Non mancheranno altri ostacoli e tentativi di allungare i tempi da parte egiziana. Insieme alle delegazioni di 30 paesi, insieme agli altri 400 attivisti, e 35 di loro erano sulla Mavi Marmara, stiamo compiendo un pellegrinaggio laico. Per altre delegazioni è un pellegrinaggio religioso. Dalle tombe dei caduti in Turchia, al campo profughi di Lattakia, un luogo simbolo della sofferenza e della speranza, che non può morire, di rientrare nelle proprie case. Poi la Striscia di Gaza ove si sta commettendo una delle barbarie più disumane dei nostri tempi. Free Palestina! Boycott Israel!

ISM-Italia Lattakya, giovedì 14 ottobre 2010

Convoglio VivaPalestina5: domenica si parte per El Arish, 15 ottobre 2010

Press conference delle ore 11: Kevin Ovenden fa il punto della situazione. Dopo l’ok formale delle autorità egiziane si va definendo il quadro dell’operazione di trasferimento del convoglio

17 dal porto siriano di Lattakya al porto egiziano di El Arish. Il traghetto che effettuerà il trasporto è già partito dalla Grecia. L’imbarco a Lattakya è previsto per domenica mattina. Essendo un traghetto veloce, il percorso dovrebbe essere compiuto in circa 18 ore. Durante il viaggio è prevista una sosta sul punto in cui la Mavi Marmara è stata attaccata nel maggio scorso dalle unità navali israeliane, per rendere omaggio alle 9 vittime. La nave sarà certamente affiancata e tenuta sotto controllo da unità della marina israeliana, ma le probabilità che possa ripetersi una azione violenta sono minime. A scoraggiare una tale azione sarà prima di tutto la presenza a bordo di molti rappresentanti e corrispondenti dei media di tutto il mondo. In ogni caso gli attivisti adotteranno esclusivamente e tassativamente forme di difesa passiva, senza lasciare spazio a nessuna provocazione. Una volta arrivati al porto di El Arish il trasferimento al valico di Rafah e l’entrata a Gaza dovrebbe essere rapido e avvenire entro la sera di lunedì 18 ottobre. Gli egiziani non hanno posto vincoli alla permanenza del convoglio a Gaza, ma tenuto conto del contesto e della situazione, è opportuno non gravare troppo sulla ospitalità dei palestinesi. La permanenza quindi non sarà prolungata oltre tre giorni e giovedì 21 gli attivisti dovrebbero dirigersi all’aeroporto del Cairo per fare ritorno ai loro paesi di origine. A Gaza il primo compito sarà la consegna di tutti gli aiuti umanitari. E’ prevista una cerimonia in cui la terra raccolta sulle tombe delle vittime turche della Mavi Marmara sarà utilizzata per piantare alcuni ulivi, in ricordo di quelle vittime. Altri dettagli verranno forniti nei prossimi meeting. Questo pomeriggio, al capo profughi di Lattakya, è prevista una cerimonia. Nel compound che ci ha ospitato per 14 giorni verranno piantati 5 alberi di ulivo, uno per ognuno dei 5 continenti presenti nel convoglio VivaPalestina 5. Ricordiamolo ancora una volta: 380 attivisti di 30 diversi paesi (fra i quali 40 reduci della Mavi Marmara), 147 veicoli, aiuti umanitari per 5 milioni di dollari. Domani, sabato 16 ottobre, si svolgerà una grande cerimonia di saluto ed è annunciato l’arrivo da Beirut di George Galloway.

Lattakya, venerdì 15 ottobre

Convoglio VivaPalestina5: dall'Egitto, una ulteriore e inaccettabile pretesa, 17 ottobre 2010

Ieri, 16 ottobre il convoglio VivaPalestina5 aveva completato tutte le operazioni per prepararsi all’imbarco sul cargo greco che doveva avvenire questa mattina a partire dalle ore 9. Completato, a titolo gratuito, il pieno di benzina per tutti i veicoli, dislocati i veicoli in ordine di marcia, ripulito il campo che ci ha ospitato, consegnati tutti i passaporti per facilitare le operazioni di frontiera, provveduto alle forniture di viveri e di acqua dato che il vettore non è un traghetto per passeggeri e non offre alcuna opportunità di ristoro, nella serata era previsto un ultimo incontro di saluto e di festa con la comunità palestinese del campo profughi e con la comunità siriana che con generosità ci hanno accolto e ospitato per ben 15 giorni. E invece, a smorzare gli entusiasmi, è arrivato improvvisamente il contrordine: le autorità egiziane hanno di nuovo bloccato l’operazione di ingresso con una nuova e vessatoria richiesta: 17 degli attivisti considerati persone non gradite, non possono entrare in Egitto. Richiesta immotivata e ricattatoria che subito la direzione del convoglio ha dichiarato inaccettabile riservandosi di adottare oggi, con l’arrivo a Lattakya di George Galloway, tutte le contromisure per rispondere a questa ulteriore pretesa egiziana. Non si conoscono i nomi dei 17 “indesiderati”, ma è evidente ormai che dietro a questa ennesima richiesta c’è l’intervento di Israele. Israele vuole interrompere questa crescente catena di iniziative (convogli e flottiglie) che sta mettendo in crisi l’assedio e il boicottaggio adottato contro la popolazione della Striscia di Gaza. Il governo egiziano si presta a questo sporco gioco cercando di logorare la resistenza e la compattezza dei partecipanti al convoglio, le delegazioni di oltre 30 paesi, 380 attivisti con 145 veicoli pieni di aiuti umanitari.

18 Si tenga conto che il Convoglio, nelle trattative svolte a Damasco aveva già, con grande senso di responsabilità, accettato condizioni molto pesanti, in particolare la rinuncia del leader del convoglio, George Galloway a entrare a Gaza. Ma non solo questo. Era stata accettata la pretesa egiziano-israeliana di escludere il trasferimento in Gaza del carico di cemento, questa arma di distruzione di massa che avrebbe permesso di ricostruire quelle case e quelle infrastrutture distrutte dall’esercito israeliano nell’operazione “piombo fuso”. Era stata pazientemente accettata la condizione di riclassificare tutti gli aiuti e di caricarli su pallet per facilitare eventuali operazioni di controllo. Tutto questo non è bastato, e non sono bastati 15 giorni di sequestro e di blocco del convoglio a Lattakya, con disagi immaginabili per i 380 attivisti, ma anche con un peso notevole per le autorità siriane che ci ospitano, fornendo cibo e bevande a tutto il convoglio. Ora questa ulteriore e odiosa condizione. Non conosciamo i nomi della lista di proscrizione; la direzione del convoglio ha evitato per ora di renderla pubblica per non creare ulteriori tensioni e non fare il gioco egiziano. Ma è presumibile che si vuole decapitare la testa del convoglio e, di richiesta in richiesta, di rinvio in rinvio, bloccarlo definitivamente, questo e anche i possibili futuri convogli. Gli egiziani con questa mossa hanno rotto e disatteso un accordo già siglato a Damasco e si sono resi responsabili di un inevitabile inasprimento del confronto. La risposta del convoglio, per quanto pacifica non potrà che essere molto dura. E’ vergognoso e intollerabile che si impedisca l’arrivo di aiuti umanitari a una popolazione come quella della striscia di Gaza così duramente provata da un assedio che dura dal 2006. Ma è anche intollerabile che l’Egitto impedisca l’esercizio di uno dei diritti fondamentali che le convenzioni internazionali garantiscono a tutti i cittadini, la libera circolazione delle persone attraverso tutte le frontiere di tutti i paesi del mondo. Ma la manovra egiziana appare sconsiderata. Perché una buona parte della sua economia si regge proprio sulla libera circolazione di tutti quei cittadini, moltissimi sono gli italiani, che ogni anno visitano l’Egitto e le sue più note e famose località archeologiche e turistiche. Turisti sì, attivisti no? Il governo egiziano che si sta esercitando in questa sfida pericolosa e insensata contro un convoglio di cittadini e di attivisti del mondo intero deve allora fare molta molta attenzione. La delegazione italiana, in queste ore di tensione e di duro confronto, mentre ribadisce la sua volontà di resistere a questa azione discriminatoria, invita il movimento italiano di solidarietà con la resistenza palestinese a manifestare la sua protesta davanti all’ambasciata e alle legazioni egiziane, di intervenire sul ministero degli esteri italiano affinché si faccia carico di una ferma protesta nei confronti del governo egiziano, ma anche a prepararsi a mettere in campo, se la situazione non si sbloccherà rapidamente, un boicottaggio contro il flusso turistico dall’Italia all’Egitto. A fine serata c’è ancora tempo per una nuova esibizione, molto applaudita, del team italiano che ha cantato Bella ciao, che è stata preceduta su iniziativa di uno degli attivisti giordani dalla lettura del testo in arabo e in inglese. Una ulteriore dimostrazione del forte spirito di umanità che caratterizza il convoglio.

Aggiornamento delle ore 15 di domenica 17 ottobre

A mezzogiorno visita al campo del rappresentante in seconda di Hamas , accolto con grande entusiasmo. Poi press conference con la presenza di George Galloway, un intervento attesissimo dopo la nuova pretesa del governo egiziano di escludere dall’ingresso in Egitto e a Gaza di 17 attivisti. Con la sua straordinaria capacità comunicativa Galloway passa in rassegna la lista dei proscritti, dimostrando come le motivazioni addotte dalle autorità egiziane sono in alcuni casi crudeli, in altri casi assurde e in altri casi ancora sia crudeli che assurde. Crudele l’esclusione di due attivisti turchi, parenti delle vittime della Mavi Marmara, che intendono portare a Gaza, terra raccolta sulle tombe e destinata a piantare fiori e alberi di ulivo a Gaza. Assurda l’esclusione di una giovane attivista britannica, Amena Saleem, indicata come moglie di Galloway (solo perché il suo nome è simile a quello della ex moglie del leader britannico); crudele e assurda insieme la esclusione dello sceicco Ismail Nashwan, un anziano di 83 anni, indicato erroneamente di avere nazionalità turca (e che nell’apprendere la notizia non trattiene le lacrime)

19 L’intelligence egiziana, sottolinea Galloway, non ci fa certo una buona figura, rimarcando in ogni caso che la responsabilità di questa irricevibile lista di proscrizione è del Presidente Hosni Mubarak che deve avere “cattivi consigleri”. Conclusione: domani il convoglio, con tutti gli attivisti, partirà per El Arish; le autorità egiziane avranno tutto il tempo a disposizione per riflettere, prendere atto della assurdità ed inconsistenza di questa ennesima richiesta dilatoria e prendere atto degli errori commessi. Si annuncia un attracco a El Arish alquanto movimentato.

ISM-Italia Lattakya, 17 ottobre 2010

Convoglio VivaPalestina5: continua il sequestro del convoglio da parte egiziana, 19 ottobre 2010

L’attesa partenza per El Arish di lunedì mattina non c’è stata. Dopo una convulsa giornata di trattative e di snervante attesa, il convoglio VivaPalestina5 è ancora bloccato nella città portuale di Lattakya.

Chiediamo a tutto il movimento che in Italia è impegnato a fianco del popolo palestinese di mobilitarsi per elevare una dura protesta nei confronti dell’Egitto, con tutte le iniziative che potranno essere intraprese e che in parte sono già in corso.

Chiediamo alle forze politiche e sindacali italiane di far sentire la loro voce.

Chiediamo ai parlamentari europei, ma anche ai membri del parlamento italiano, di sollevare la questione nelle rispettive sedi con interpellanze formali.

Chiediamo alle ambasciate italiane al Cairo e a Damasco, chiediamo al Governo e al Ministero degli Esteri italiano, di tutelare i nostri diritti e la nostra integrità e di sollevare una ferma protesta nei confronti del governo egiziano.

La situazione va sbloccata non nell’arco di giorni, ma di ore.

Noi, 14 componenti del gruppo italiano, insieme agli altri 380 partecipanti al Convoglio Viva Palestina5, siamo trattenuti in una forma illegale di sequestro dal 2 ottobre, da oltre 17 giorni in questa città siriana, impediti dal governo egiziano di arrivare a El Arish e da li, per un tragitto di 40 km di entrare nella striscia di Gaza. Fino ad ora la leadership del convoglio ha tenuto volutamente e pazientemente un atteggiamento di estrema collaborazione con le autorità egiziane per non offrire nessun appiglio a possibili irrigidimenti. E tuttavia, pur avendo ottemperato a tutte le richieste non otteniamo ancora il permesso per l’ingresso. Questa situazione da qualsiasi punto la si osservi è assolutamente illegale. Noi vogliamo far arrivare nella Striscia di Gaza, sottoposta a un embargo illegale secondo il diritto internazionale, condannato dall'ONU e anche dall'UE, medicine e articoli sanitari, materiale per gli scolari di Gaza, un insieme di aiuti umanitari. Non trasportiamo armi, droghe o altre sostanze illecite. Non esportiamo valuta. Non siamo qui per praticare turismo sessuale. Non siamo finanziati da potenze straniere. Trasportiamo solo gli aiuti umanitari offerti dai tanti donatori italiani che ci hanno generosamente sostenuto e che ci hanno permesso di realizzare questa missione per la popolazione di Gaza, sfiancata da un assedio e da un boicottaggio letale che dura dall'inizio del 2006. Se avessimo compiuto una o più di queste azioni le autorità egiziane, ma anche quelle turche o siriane avrebbero avuto tutto il diritto di arrestarci e giudicarci.

20 Non è questo il caso. Siamo stati sempre accolti con grandissimo calore e, possiamo dirlo, in particolare noi italiani, con grande simpatia, in Turchia come in Siria. Il comportamento del governo egiziano ci costringe a una sosta che lede gravemente i nostri diritti, a cominciare dal diritto alla libera circolazione. Abbiamo adempiuto a tutte le richieste presentare il 5 ottobre, in un incontro a Damasco, dall'ambasciatore egiziano. Poi il 16 ottobre è arrivata da parte egiziana una lista di proscrizione per 17 attivisti (nessuno del gruppo italiano) che le autorità egiziane hanno dichiarato “non graditi”, basata su dati inconsistenti e su errori grossolani, solo un ulteriore espediente per rinviare ancora la partenza. Tra questi, fatto particolarmente odioso, due parenti delle vittime della Mavi Marmara, che vorrebbero unire la terra delle tombe dei loro cari a quella palestinese di Gaza per piantare un albero di ulivo.

E' evidente che si sta giocando contro di noi una partita squisitamente politica e che siamo vittime di una forma di “sequestro di persona”, tenuti in ostaggio per motivi che sono facilmente intuibili e dietro i quali si vede chiaramente la volontà dello Stato di Israele di contrastare queste missioni di pace. Il governo egiziano deve essere consapevole che non è tollerabile che si neghi l’ingresso ai pacifisti, mentre lo si auspica e lo si sollecita per i turisti! Tutti e tutte sono decisi/e a resistere a oltranza, ma abbiamo famiglie e impegni di lavoro e dovremmo rientrare al più presto nelle nostre case. Chi è partito dall'Inghilterra è in viaggio da più di un mese, noi che siamo partiti dall'Italia da 29 giorni.

La mobilitazione in Italia, in Europa e nel mondo deve unirsi alla nostra indignazione e alla nostra resistenza.

ISM-Italia

Lattakya, 19 ottobre 2010

Convoglio Viva Palestina5: Sequestrati all'aereoporto del Cairo. Le infamie di Mubarak, 25 ottobre 2010

Alle 11.30 siamo entrati a Gaza nei pullman che ci avrebbero portato al border. Alle 13 i pullman sono partiti, dopo che tutti i 380 attivisti erano saliti, difficile per gli attivisti e anche per la polizia di Gaza essere rapidi. Alle 17.30 superati tutti i controlli egiziani siamo partiti per l'aeroporto del Cairo. I pullman egiziani questa volta sono stati a pagamento, 15 euro. A gennaio erano autobus della polizia. Ma si è ripetuta la situazione del convoglio Viva Palestina3 (dic 2009-gen 2010). I pullman si sono fermati due volte durante il percorso. La prima volta brevemente per soddisfare un diritto costituzionale inalienabile, in uno spazio sabbioso. Sono scesi per primi alcuni uomini, poi si è alzata una donna araba, immediato l'urlo nazi-ridicolous del poliziotto egiziano “NO WOMEN”. Storico. E' stato travolto dal protagonismo femminile del convoglio. Le signore nel buio hanno potuto anche loro fare quello che si voleva permesso solo agli uomini. Siamo arrivati all'aeroporto del Cairo alle 23.30. Siamo stati sequestrati e ora siamo all'interno dell'aeroporto dove passeremo la notte. Ci eravamo già abituati all'idea di passare una notte in albergo, fare una doccia, etc, quando, dopo aver ricevuto varie assicurazioni, dagli sbirri di Mubarak, che una volta entrati all'interno ci avrebbero portato in albergo, tutto è stato ribaltato. Ma ci è stato concesso di arrivare a uno spazio di ristoro, poi saremo trasportati, sempre sotto scorta, al terminal 1, dove parte l'alitalia, ahimé domani alle 13. Naturalmente il tutto, ci dicono, avviene per la nostra sicurezza.

21 Una campagna internazionale di boicottaggio del turismo egiziano si impone. Non siamo riusciti, arrivati a Gaza, a raccontarvi le vicende degli ultimi giorni. Il programma ufficiale è stato molto intenso e la libertà di movimento limitata. Arrivati il primo giorno al nord della striscia per visitare un campo profughi, i pullman hanno fatto rapidamente marcia indietro per un attacco israeliano. Avremo tempo per una analisi dei significato politico del convoglio e per un racconto degli incontri e dei dettagli. Mio fratello che è qui con noi sta compiendo 72 anni. Alle 16.30 dovremmo essere alla Malpensa! Pronti a partecipare alle prossime flottiglie e ai prossimi convogli. Free Palestine! Boycott Israel! ISM-Italia, Aeroporto del Cairo, 25 ottobre 2010, ore 3.20 am

Convoglio VivaPalestina5: Un primo commento a caldo, 29 ottobre 2010

Lunedì 25 ottobre la delegazione italiana è rientrata in Italia. Spencer Barone, Luca Debenedittis e Paolo Papapietro sono arrivati a Fiumicino per proseguire rispettivamente verso Pisa, Brindisi e Matera. Il resto della delegazione, Alfredo Tradardi (ISM-Italia, Torino, leader della delegazione italiana), Luca Barbich (Pavia), Arianna Corradi (Milano), Francesco Gerevini (Cremona), Dana Lauriola (Torino), Simone Masera (ISM-Italia, Torino), Vincenzo Tradardi (ISM-Italia, Parma), Gionata Valsania (Torino), Lotfi Zgarni (Parma), sono atterrati alla Malpensa accolti calorosamente da compagne e compagni di Torino, Milano e Verona. Avevano tutti/e passato la notte all'interno dell'aeroporto del Cairo, sequestrati dalla polizia egiziana, l'ultima infamia di Hosni Mubarak. Una accoglienza che, con tutta onestà e con tutta sincerità, la delegazione italiana ha meritato per aver superato con determinazione i momenti più duri e incerti di questo lungo viaggio.

I molti sensi di un convoglio

1. Un pellegrinaggio laico per alcuni, religioso per altri Dopo le tappe di avvicinamento in Francia, Italia e Grecia il convoglio, entrando in Turchia, si è trasformato in un pellegrinaggio laico, per altri religioso, prima sulle tombe di alcune delle vittime della Mavi Marmara, poi in un altro luogo di sofferenza e di dolore, il campo profughi palestinese di Lattakia, per finire poi a Gaza in mezzo alle distruzioni più inumane e feroci, in mezzo a un popolo che con indomita fierezza continua a resistere sotto un assedio del quale sono complici tutti i paesi occidentali e non solo. A Kayseri, l'antica Cesarea, siamo stati al cimitero dove è sepolto Furkan Dogan, un giovane di 19 anni, nato negli Stati Uniti e cittadino turco. Abbiamo poi incontrato i suoi parenti in un centro culturale a lui dedicato. Ralph G. Loeffler, un attivista dell'International Action Center di New York, ne scrive in modo toccante in Remembering Furkan Dogan (vedi allegato 1). E immediato è il rinvio al nome di Rachel Corrie, schiacciata da un bulldozer israeliano il 16 marzo 2003, mentre partecipava alla campagna dell'ISM contro la demolizione delle case a Rafah nella Striscia di Gaza.

2. Rachel Corrie and Furkan Doğan as symbols of Viva Palestina

March 16th 2003 Rachel Corrie, a 23-year-old U.S. peace activist of Palestinian International Solidarity Movement, was crushed to death by a bulldozer as she tried to prevent the Israeli army destroying homes in the Gaza Strip. In a remarkable series of emails to her family, she explained why she was risking her life. You could read these emails on the website of Rachel Corrie Foundation, http://rachelcorriefoundation.org/.

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Only two short points from her emails: February 20 2003 (To her mother) “A move to reoccupy Gaza would generate a much larger outcry than Sharon's assassination- during-peace-negotiations/land grab strategy, which is working very well now to create settlements all over, slowly but surely eliminating any meaningful possibility for Palestinian self-determination. Rachel”

February 27 2003 (To her mother) “So I think when all means of survival is cut off in Gaza which people can't get out of, I think that qualifies as genocide. Even if they could get out, I think it would still qualify as genocide. Maybe you could look up the definition of genocide according to international law. Anyway, I'm rambling. Just want to write to my Mom and tell her that I'm witnessing this chronic, insidious genocide and I'm really scared, and questioning my fundamental belief in the goodness of human nature. This has to stop. I think it is a good idea for us all to drop everything and devote our lives to making this stop”.

The Rachel Corrie's tragedy has the dimension of a Greek drama. Her father had been a bulldozer driver in Vietnam war. Her boyfriend committed suicide a year later. So, the proposal of International Solidarity Movement Italy to Viva Palestina is to assume Rachel Corrie and Furkan Doğan as two symbols of the struggle for justice and humanity, and, at the same time, as two symbols of the inhuman and criminal project of Zionism.

Una giovane di 23 anni ha saputo cogliere rapidamente, con una lucidità singolare, la realtà della situazione palestinese. Sorprendente a confronto la cecità di tanti/e guru del falso solidarismo nostrano.

3. La dimensione internazionale del convoglio

Siamo arrivati a Lattakia il 3 ottobre verso le 3 del mattino dopo una intera giornata di viaggio. Nel corso della giornata sono arrivati gli altri due convogli, quello dal Marocco e quello dal Qatar, 12 delegazioni di paesi arabi, dal Qatar al Bahrein, all'Arabia Saudita, alla Giordania, alla Tunisia, all'Algeria, alla Mauritania. L'Algeria e la Giordania, ognuna con più di 35 veicoli. Tra i veicoli arabi alcuni guidati da sole donne, il segno di un nuovo e significativo protagonismo femminile. La dimensione internazionale del convoglio ha assunto un carattere senza precedenti, segnando per Viva Palestina un turning point. Una dimensione alla quale si deve molto, se la situazione, che sembrava prossima allo scacco matto, si è alla fine sbloccata e siamo riusciti a entrare nella Striscia di Gaza.

4. Come si costruisce una comunità umana

Le varie delegazioni, anche quelle in arrivo dall'Europa, non avevano avuto nè tempo nè modo di fraternizzare, ma i 19 giorni, passati insieme nel campo, hanno trasformato un insieme di persone con storie, fedi religiose e culture così diverse e lontane, in una comunità caratterizzata da un spirito fortissimo di umanità e di condivisione. Il mangiare insieme, l'assolvere insieme a vari compiti, lo scambio di esperienze, le interazioni con i profughi palestinesi del campo, le assemblee, le conferenze stampa, gli incontri serali di intrattenimento, il maledire insieme gli egiziani per averci costretto a scaricare tutti gli scatoloni per poi ricaricarli su pallet dei quali avevano anche fissato le dimensioni, hanno trasformato tutti e tutte in un archetipo di una società futura, senza barriere, senza pregiudizi, senza presunzioni di superiorità. E ogni palestinese incontrato iniziava il suo dire con “I am from Tantura”, “I am from Haifa” e

23 così via. Moltissimi con la chiave della loro casa in Palestina al collo. Il diritto al ritorno non come una formula vuota, ma come un fatto esistenziale. Qualche episodio tra i tanti. Una sera abbiamo cantato Bella ciao, molto applauditi. Il giorno dopo Mohammed Ali, giordano, che lavora ad Amman per l'università islamica di Gaza, si è avvicinato e mi ha detto: ho trovato la traduzione di Bella ciao in inglese e in arabo, la prossima volta iniziamo con la lettura delle traduzioni e poi voi cantate. Così è stato. E l'applauso è stato ancora più convinto e più caloroso. In una assemblea è intervenuto lo sceicco Hassan Sari, docente di religione islamica, e ha detto: “We have nothing against Jews as Jews.” Qualche giorno dopo sono andato a ringraziarlo per queste parole, con l'aiuto di uno dei nostri, Lotfi, di origini tunisine che ora abita vicino Parma, che ha guidato con perizia l'ambulanza, e lo sceicco mi ha risposto con queste semplici parole: “This is our religion”. La delegazione italiana ha ricevuto molti apprezzamenti dalla leadership del convoglio. Dal 13 al 20 novembre si terranno in Italia incontri e seminari per presentare il saggio di Ghada Karmi “Sposata a un altro uomo – Per uno Stato laico e democratico nella Palestina storica”, DeriveApprodi 2010, saggio tradotto a cura di ISM-Italia. Nei seminari e negli incontri del 18 a Napoli, del 19 a Roma e del 20 novembre a Pisa sarà presente anche Kevin Ovenden, il leader del convoglio Viva Palestina 5.

ISM-Italia partecipando al convoglio come Viva Palestina Italia, ha fatto una scelta politica, quella di unirsi a chi ha realizzato la prima risposta all'attacco contro la Mavi Marmara facendo della dimensione internazionale un obiettivo fondamentale.

ISM-Italia non organizzerà assemblee per “raccontare” il convoglio con l'aiuto di foto e di video. Lo farà negli incontri con Ghada Karmi, a novembre, senza proiettare foto o video . Un aspetto negativo della maggior parte degli attivisti è l'uso ossessivo e aggressivo di macchine fotografiche e di videocamere, una forma acutissima di giapponesizzazione. Il rifiuto di usare il proprio cervello e la propria memoria, una delega agli oggetti che qualcuno ha definito come proiezioni esterne del sé, un rifiuto a concedersi un tempo, anche minimo, per la riflessione e per lo studio.

ISM-Italia lancerà a novembre una campagna di boicottaggio del turismo egiziano. L'Egitto deve pagare un prezzo per la sua complicità totale con Israele e con gli Stati Uniti. Alfredo Tradardi ISM-Italia Viva Palestina Italia [email protected] www.ism-italia.org Torino, 29 ottobre 2010 p.s. I partecipanti al convoglio hanno firmato un codice di condotta. Alcuni, anche della delegazione italiana, hanno violato questo codice. Come leader della delegazione italiana ho dovuto prendere decisioni, sgradevoli e sgradite, delle quali risponderò in ogni sede e in ogni circostanza in cui mi verrà richiesto.

24 Diaries: Live from Palestine allegato 1 Remembering Furkan Dogan Ralph G. Loeffler, Live from Palestine, 18 October 2010 ------

Furkan Dogan (http://furkan-dogan.com)

Furkan Dogan. I'm going to say Furkan Dogan so often that it will sound, as it rightly should, just as "American" as John Smith or Bill Jones. Furkan Dogan was an American, a young American of only 19 years when on 31 May a hail of Israeli bullets ended his life on the Mavi Marmara Turkish humanitarian aid ship. Furkan was filming the Israeli assault when an Israeli commando fired his first shot pointblank hitting Furkan squarely in the face. Four more shots were fired into Furkan leaving him dead and unrecognizable.

The Mavi Marmara, the largest ship of an international flotilla of six vessels that made of the Gaza Freedom Flotilla, was carrying food, medicine and school supplies to the Israeli besieged Gaza Strip. The Israelis have blockaded Gaza since the Hamas government was democratically elected in 2006. For more than three weeks, in December 2008 and January 2009 the Israelis wantonly attacked Gaza destroying essential infrastructure and killing more than 1,400 citizens, a large percentage of them women and children.

Furkan, who was born in the Albany-Troy area of New York, had gone back to live in his family's hometown of Kayseri, Turkey. His family knew the names of the eight Turkish nationals who had been killed on the Mavi Marmara but one casualty had not been immediately identified. In their normal pattern of lies and misinformation the Israelis had not identified Furkan because he was an American. They waited until the initial impact of their murderous attack on innocent, defenseless humanitarians subsided a bit before confirming the ninth victim was Furkan.

When Furkan's father went to meet the Mavi Marmara's survivors and casualties he had no idea that his son had been murdered. Instead of greeting his son he was taken to the morgue to identify his remains. Surely such a day defies description.

In an immediate reaction to the Mavi Marmara massacre Viva Palestina announced plans for another humanitarian aid mission to Gaza. Viva Palestina, a UK-based charity founded by former Member of British Parliament George Galloway, launched its initial land aid convoy in March 2009 shortly after the Israeli attack ended. On 18 September 2010, four missions later, Viva Palestina 5 left the UK for Gaza.

The Viva Palestina 5 convoy arrived in Kayseri late on 29 September and spent the night on a mountain overlooking the town. We had come to Kaseyri for the sole purpose of visiting Furkan's gravesite and extending our condolences to his family. The following morning we were told that our convoy would be passing by the high school from which Furkan had graduated and that students from the school would be waiting for us. As we began our slow journey down the twisting mountain road the convoy took on the air of a funeral procession. Suddenly, there they were. The students lined both sides of the road standing for who knows how long. Each one sadly, silently, proudly held up Furkan's picture as the convoy rolled by.

Beautiful, moving words were spoken at the gravesite and afterwards we met with Furkan's family at the recently built community center named in Furkan's honor. The grandfather and uncle bore their grief perhaps with the acceptance of mortality that comes with age. But the older brother's grief was palpable. Deep, dark lines were etched under his eyes and he seemed detached from his surroundings. The despair evident on his face made a statement greater than words could ever do.

Any country should be proud to have a promising young man such as Furkan as one of its own. Intelligent and mature beyond his years Furkan had already dedicated his life to the struggle for Palestinian justice. Such a course bears no import with the US Congress, which allows for the US bankrolling of the occupation. And the Israeli thug who gunned down Furkan is no more responsible for murdering him than Furkan's own country which paid for the bullets.

Ralph G. Loeffler is an activist with the International Action Center in New York City.

Convoglio VivaPalestina5: L’arrivo a Gaza di Vincenzo Tradardi, 3 novembre 2010

Riprendo solo ora, a qualche giorno dal rientro in Italia, la cronaca del convoglio VivaPalestina5. L’ultima settimana, quella decisiva è stata molto convulsa e intensa e non c’è stato il tempo per stendere comunicati e rapporti in diretta. Ma, mentre si annuncia, per i prossimi mesi, la partenza di una nuova Flottiglia, l’esperienza di questo convoglio, il suo carattere e la sua dimensione internazionale, il coinvolgimento assai significativo di delegazioni dei paesi arabi, meriterebbe e richiederebbe un bilancio e una analisi politica ben più approfondita.

19 ottobre Dopo 17 giorni di stallo e di un duro braccio di ferro con le autorità egiziane, la situazione si sblocca. Prima ancora della comunicazione ufficiale, lo intuiamo incrociando un Galloway sorridente e rilassato che passeggia fumando un grosso sigaro. Da questo momento, tutto acquista un ritmo frenetico. Primo passo: il trasferimento delle vetture al porto che si trasforma in un gioioso e rumoroso carosello per le vie di Lattakya. Al porto una banda di giovanissimi ottoni ci accoglie intonando (omaggio a noi europei?) l’Inno alla gioia. Il cargo Strofades IV ingoia nel suo enorme ventre, una ad una tutte le 145 vetture. Nelle poche cabine che ha a disposizione, accoglie anche una parte dei 30 attivisti, il gruppo dirigente e la security, altri dormiranno sul ponte. Per la delegazione italiana ne fa parte Alfredo. La partenza avverrà poi a notte inoltrata.

20 ottobre Il compound che ci ha ospitato per tanti giorni appare ormai vuoto, vuoto per la partenza dei 145 veicoli. In mattinata riceviamo la visita molto cortese del dott. Haroun, rappresentante del console onorario italiano a Lattakya. Ci mette in contatto telefonico con il console e poi con una funzionaria dell’ambasciata italiana a Damasco. E’ il risultato del nostro appello lanciato il giorno precedente e che avevamo trasmesso anche alle ambasciate italiane a Damasco e al Cairo. Nel pomeriggio inizia il trasferimento degli oltre 300 attivisti a El Arish con due voli, il primo parte verso le 17, il secondo alle 22 con tutto il gruppo degli italiani. Atterriamo dopo circa un’ora di volo. Dalla relativa rapidità dei controlli si intuisce che le autorità egiziane hanno ormai deciso di non frapporre altri ostacoli; c’è solo da pagare il visto di ingresso, operazione apparentemente molto complessa per il funzionario che si arrabatta a fatica nella conversione degli euro in pound egiziani. Fuori ci attendono i pullman che ci accompagnano in un albergo sulla costa. E’ un albergo di lusso (cinque stelle, camere da tre posti a soli 125 euro). Ormai sono le due di notte ma ci viene servita, compresa nel prezzo, una abbondantissima e ottima cena. Qualcuno non capisce o fa finta di non capire e protesta per … il trattamento (troppo lussuoso, troppo costoso!). Poi, sono ormai le 4 del mattino, finalmente a letto. 21 ottobre Alle 8 un sms di Alfredo informa che il cargo è già arrivato al porto di El Arish. Colazione abbondante, poi alle 11 di nuovo sui pullman verso il porto dove riprendiamo possesso dei mezzi che in nottata i 30 avevano scaricato dal cargo. Alle 13 il convoglio è in condizione di riprendere la marcia, questa volta verso il border della Striscia di Gaza a circa 40 km di distanza. Attraversiamo una zona desertica, il deserto del Sinai. Poche le case e le persone che incrociamo ma, nota significativa, anche qui riceviamo sorrisi e segnali di amicizia.

Ore 16: giungiamo a Rafah, superiamo il check point senza nessuna difficoltà. Lo stato d’assedio almeno per oggi e almeno per noi è sospeso. Abbiamo raggiunto lo scopo e la meta del nostro viaggio, entriamo finalmente nella Striscia di Gaza. Ci attende una festosa cerimonia, di autorità e di popolo, Vittorio Arrigoni e altri internazionali. Il gruppo italiano scatena particolare entusiasmo con lo striscione in cui abbiamo scritto “From Italy to Gaza we broke the siege”. Assalto dei fotografi. Si è fatta ormai sera. A fatica le macchine vengono di nuovo incolonnate per riprendere la marcia, gli ultimi 30 km che ci separano da Gaza City. E’ il momento più intenso e indimenticabile. Viaggiamo a velocità sostenuta, con lampeggianti e girofari accesi, sirene e clacson a tutto volume; viaggiamo per lunghi tratti fra ali di folla, bambini, ragazzi, donne, una selva di braccia alzate per salutarci, per toccarci. Lotfi, il mio co-driver, è bravissimo nel guidare l’ambulanza. Fendiamo la folla fortunatamente senza investire nessuno, senza provocare incidenti. Una bandiera mi viene strappata, mille mani mi toccano; a volte sono tocchi delicati, che solo mi sfiorano, a volte strette violente, schiaffi a causa della velocità del mezzo, ma forse, ho il sospetto, anche una sorta di rimprovero perché arriviamo qui a Gaza, solo ora, così tardi, per rompere un assedio che dura ormai da 4 anni. Qui, in questo ultimo tratto di strada, si consuma il senso di questo viaggio, il suo significato più profondo, in questo fugace, allegro, doloroso abbraccio collettivo, di un popolo di bambini e bambine, di ragazze e ragazzi, scalzi, denutriti, magri, un popolo di giovanissimi, non piegato, non disperato, non reso triste e umiliato da una feroce punizione collettiva, che gli viene inflitta giorno dopo giorno, in uno stato di cattività, una prigione a cielo aperto che non ha paragoni nel mondo. Avrà fine tutto ciò? Non potrà che avere fine. Questo popolo di bambini è il frutto di questa speranza, si nutre di questa speranza.

E per Israele? L’operazione “Piombo fuso” (Cast lead) del gennaio 2009 ha provocato fra le 1414 vittime. quasi tutti “civili”, la morte di 322 bambini. Solo involontari “effetti collaterali”? Mi viene da pensare che gli israeliani, dai generali più alti in grado fino all’ultimo soldatino rannicchiato all’interno del suo carro armato, guardino con odio infinito questi bambini. Sono il segnale del loro fallimento e della loro futura sconfitta. Da qui, forse, nasce una insensata coazione a uccidere, uccidere, uccidere.

“Se 1,5 milioni di persone vivono a Gaza, chiuse dentro, diventerà una catastrofe umana. Quelle persone diventeranno animali più di quanto lo sono oggi, con l’aiuto di un Islam fondamentalista demente. La pressione alla frontiera sarà terribile. Sarà una guerra terribile. Se vorremo rimanere vivi, noi dovremo uccidere, uccidere e uccidere. Tutti i giorni, ogni giorno.” Arnon Soffer, geografo e demografo, intervista al Jerusalem Post del 20 maggio 2004

Se non si fermano dopo che noi ne abbiamo uccisi 100, allora dobbiamo ucciderne mille, e se non si fermano dopo mille allora dobbiamo ucciderne 10.000. E se ancora non si fermano dobbiamo ucciderne 100.000, e anche un milione. Dobbiamo fare qualsiasi cosa per farli smettere. Shmuel Eliyahu, rabbino capo di Safed

“I bambini, sono obiettivi legittimi perché vivono in case che si suppone siano usate per costruire razzi artigianali da tirare su Israele, sono essi stessi ‘terroristi” un portavoce israeliano

Restiamo a Gaza tre giorni, ospitati in due alberghi che denotano una antica bellezza, il Palestine e il Commodore. Davanti a noi una splendida spiaggia dorata e il mare, un mare sorvegliato a vista dalle motovedette israeliane, un mare da cui è vietato entrare e uscire, dove è vietato perfino pescare.

La città svela i segni dolorosi dell’aggressione, dello stato di guerra. Li svela, sui muri di tante case e scuole, il rosario di colpi di mitraglia, le occhiaie vuote dei colpi di cannone, le macerie, gli improvvisi spazi vuoti, in un tessuto urbano densamente abitato, che si aprono dove i missili hanno polverizzato interi caseggiati. Lo svela il rumore assordante dei generatori quasi in perenne azione perché l’unica centrale elettrica della Striscia funziona a singhiozzo, innescando a cascata tutta una serie di altri problemi ed emergenze, a cominciare dall’erogazione dell’acqua.

Alcuni momenti da ricordare. 22 ottobre: pranzo all’aperto sulla spiaggia con la partecipazione del primo ministro Ismail Haniyeh, alto, sorridente, sereno, vestito di una tunica bianca.

23 ottobre: incontro con il prof. Haider Eid, membro dello Steering Committee PACBI (Palestinian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of Israel), nella sede della sua associazione: una riflessione appassionata e lucida sul fallimento della soluzione “due stati” e sulle ragioni della soluzione “uno stato”, laico e democratico, multietnico, per tutti, palestinesi e ebrei.

23 ottobre: visita ai superstiti della famiglia Al-Samouni1, un massacro atroce consumato a freddo durante l’operazione Piombo fuso.

24 ottobre : incontro presso il palazzo municipale con il sindaco di Gaza City, Rafiq al- Makki.

24 ottobre Alle ore 13.30 lasciamo la Striscia di Gaza. In pullman, otto ore di viaggio, sequestrati dalla polizia egiziana, verso l’aeroporto internazionale del Cairo, dove trascorriamo la notte, gli egiziani ci impediscono di andare in un albergo. i diversi gruppi del convoglio, sempre sotto stretta sorveglianza, si lasciano, si salutano, si dividono per rientrare nei rispettivi paesi.

25 ottobre Il gruppo italiano, tranne 3 diretti a Fiumicino, si imbarca alle 12 su un volo Air One diretto a Malpensa. Arriviamo alle ore 17.30 accolti con calore da un gruppo di attivisti provenienti da Torino, Milano, Cremona e Verona: Diana, Grazia, Alberta, Enrico, Ugo, Alberto, Marco e altri dei quali non conosco il nome. Io e Lotfi rientriamo in treno a Parma. Fa molto freddo, la kefia ci protegge. Leggo su Repubblica una nota di Mario Pirani, che si scaglia contro la Fiom e contro l’Iran di Amadinejad che minaccerebbe la sopravvivenza di Israele. Il mondo capovolto.

Vincenzo Tradardi

Colorno 3 novembre 2010

1. “Mi chiamo Mona, faccio la quinta e ho 10 anni. Mia mamma e mio papà sono stati assassinati, anche le mogli di mio fratello - Safa, Maha e suo figlio.” “A te cosa è successo?” “Eravamo a casa, sono entrati e ci hanno ordinato di evacuare. Riuscivamo ad udire mia zia che gridava di non rompere le cose e sentivamo il rumore di cose rotte. I soldati hanno sfondato il muro e sono entrati in casa. I soldati ci hanno detto: “andate nella casa del vicino e non uscite, se uscite vi spariamo”. Siamo stati nella casa dei vicini per 2 giorni senza cibo e senza acqua. Mio cugino Mohammed e il nostro vicino Hamdi sono usciti per prendere la legna così potevamo fare il pane. I bambini piangevano, volevano mangiare e bere. I soldati hanno lanciato il primo missile, ha colpito Mohammed ed Hamdi, sono stati ammazzati entrambi immediatamente. Il secondo missile ha ferito qualcuno di noi, il terzo missile ha colpito i miei zii e mia nipote, cosi che sono morti tutti, anche mio padre e mia madre. Dopo il secondo missile siamo tutti corsi in un angolo della stanza ma il terzo missile ci ha colpito ed eravamo tutti feriti, così abbiamo detto: è fatta, continueranno a spararci fino a che non saremo morti tutti.” (intervista)