RASSEGNA STAMPA di martedì 24 ottobre 2017

SOMMARIO

“Il cuore del problema” è il titolo dell’editoriale - firmato da Marco Olivetti - sulla prima pagina di Avvenire di oggi: “Per leggere il significato costituzionale del voto referendario consultivo tenutosi domenica in Lombardia e in Veneto, sarebbe in primo luogo necessario compiere una missione impossibile: separare la questione specifica dell’autonomia (che era oggetto dei quesiti referendari, i quali recitavano più o meno: 'volete più autonomia?') dalla battaglia fra i partiti in vista delle prossime elezioni legislative. È indubitabile, infatti, che il voto di domenica è stato anche e soprattutto una battaglia politica dal sapore 'separatista' voluta soprattutto dal 'governatore' veneto e da una parte della , a partire da quella che fa capo al presidente lombardo Roberto Maroni, proprio mentre Matteo Salvini – capo apparentemente incontrastato del partito – era totalmente impegnato ad accreditare un’immagine nazional- sovranista della 'sua' proposta politica e camicie e fazzoletti verde-padano stavano scomparendo dall’iconografia leghista. Una battaglia che, nonostante l’adesione tattica di settori del centrosinistra decisi a depotenziarne la portata, ha mantenuto un marchio di centrodestra e, infatti, su questo ritrovato carro 'federalista' è salito quasi tutto il centrodestra. Ed è evidente che l’impresa è stata coronata da un certo successo (come era previsto, e prevedibile, assai più in Veneto che in Lombardia) sulla scia di una ripresa di quello schieramento già delineatasi in occasione delle ultime elezioni amministrative. Qui, però, si vorrebbe affrontare la questione più ardua, quella della portata costituzionale del voto di domenica, relativamente alle linee evolutive della struttura dello Stato italiano, nell’attuale contesto europeo. Al riguardo due letture estreme potrebbero essere prospettate: quella del 'nulla' e quella del 'tutto'. La prima – che può sembrare prevalente in una prospettiva legalistica – ci dice che i due referendum erano consultivi, che dunque essi non producono alcun effetto (se non il dispendio di denaro pubblico per organizzarli) e che la trattativa fra le due Regioni referendarie e il governo nazionale per il riconoscimento ad esse di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», ai sensi dell’art. 116, 3° comma, della Costituzione, avrebbe potuto essere avviata anche senza referendum, se solo i governi regionali veneto e lombardo lo avessero davvero voluto (il governo Renzi e quello Gentiloni si erano detti disponibili, ma Zaia e Maroni hanno preferito invocare prima il sostegno popolare). Questa lettura si basa su dati di fatto, ma ci dice troppo poco: vede solo il lato legale- formale del problema: imprescindibile, ma insufficiente. La seconda lettura – quella del 'tutto' – potrebbe collocare il referendum veneto (in questo vi sono differenze non marginali rispetto al caso lombardo) in parallelo con la vicenda catalana: dopotutto, nonostante che i due quesiti votati domenica parlassero chiaramente di maggiore autonomia e non di indipendenza (e fossero dunque, per questo profilo, saldamente dentro il terreno della Costituzione), non si può dimenticare che il quesito veneto è l’unico sopravvissuto fra quelli previsti in alcune leggi regionali approvate nel 2014 in cui, accanto a esso, ve ne era un altro che chiedeva di esprimersi sull’indipendenza della Regione e che è stato (ovviamente) soppresso dalla Corte costituzionale (sentenza 118/2015). Inoltre la data scelta per la consultazione – a 151 anni dal plebiscito sull’annessione del Veneto all’Italia dopo la Terza guerra di indipendenza, quasi si trattasse di rovesciarne l’esito – e il linguaggio ambiguo dei fautori del voto, davano al voto di domenica un significato ben più ampio della richiesta di maggiore autonomia. Del resto, anche il discorso leghista, che da trent’anni è lo stesso nell’Italia del Nord – vale a dire trattenere a livello locale la quasi totalità delle entrate fiscali percepite sul territorio regionale – è una dichiarazione unilaterale di secessione in tutto fuorché nel nome. Tentare una lettura costituzionale del voto referendario di domen ica, che percorra la via stretta fra il 'nulla' e il 'tutto', vuol dire, probabilmente, riproporre due questioni fondamentali della storia dello Stato regionale italiano: la prima è quella dell’autonomia, la seconda è quella della differenziazione/ asimmet ria. Dal primo punto di vista va riconosciuto, anche da parte dei non entusiasti, che i due referendum 'padani' hanno almeno il merito di riproporre la questione dell’assetto delle autonomie. Essa è fra le scelte fondamentali della Costituzione repubblicana, ma la sua vita concreta ha sempre oscillato fra pulsioni centrifughe e centripete e dall’esplosione della crisi economica, e dal contemporaneo emergere da molteplici e clamorosi casi di malapolitica e malamministrazione a livello regionale, il vento centralista è diventato dominante: esso era del resto ben presente anche nella fallita riforma costituzionale del 2016, di cui costituiva la parte meno convincente. Ma – lo si è scritto più volte su queste colonne – l’Italia del XXI secolo è troppo complessa per essere governata come se fosse quella pre-bellica, anche se sono del tutto legittime le più varie rimesse in questione del nostro sistema delle autonomie (e quella connessa della decentralizzazione delle competenze statali, magari ricordando la celebre battuta di Massimo Severo Giannini, secondo il quale «lo Stato italiano non è né accentrato né decentrato, essendo in fatto soltanto un pasticcio»). Ma come rideclinare l’ideale autonomista e il progetto sturziano delle «Regioni per liberare le energie de lla nazione» nell’Europa paurosa e incerta di questi anni? Come riarticolare un sistema che non ha ancora assorbito la riforma delle Province del 2014? Occorre, evidentemente, un ripensamento di fondo, anche se l’unica cosa certa è che la soluzione non sta nel tenere più soldi in Veneto e in Lombardia (in fondo, una risposta populistica), ma nel chiedersi come le autonomie territoriali possano meglio servire i cittadini: solo a questa condizione si dovrebbe dire Sì al trattenimento di maggiori funzioni (e quindi anche di più soldi) a livello regionale o locale. C’è poi la questione di quanta asimmetria fra i suoi territori lo Stato regionale italiano possa tollerare. Il voto di domenica ripropone in parte la questione settentrionale e del resto l’asimmetria in Italia è nei fatti: i diversi Nord e i diversi Sud del Paese funzionano con ritmi differenti quale che sia l’organizzazione territoriale, e quest’ultima non può non tenerne conto, a pena di essere disincarnata. Ma può l’architettura istituzionale prenderne semplicemente atto per accentuare ulteriormente queste differenze, fino a rompere di fatto anche quel tanto di unità che è richiesta in uno Stato-nazione post-moderno? Al di là della risposta degli elettori lombardi e veneti ai due quesiti referendari, è dunque l’ora di porsi le vere domande. Cercando di restare aderenti ai problemi oggettivamente aperti e senza inutili svolazzamenti teorici, ma senza eludere i nodi di fondo del sistema delle autonomie, che sono più che mai aperti”.

Sempre dai giornali di oggi è poi da segnalare “Siamo tutti Anna Frank”, il fondo del direttore Mario Calabresi su Repubblica: “L'idea che l'immagine di Anna Frank possa essere utilizzata per insultare qualcuno è talmente arretrata e grottesca da squalificare per sempre chi l'ha pensata. Quel volto è nei cuori di ogni studente che abbia letto il suo Diario e l'abbia avuta come ideale compagna di banco: quella ragazzina ci ha raccontato non la sua morte ma la vita, i sogni, le speranze, il futuro sebbene si trovasse nel cuore della notte dell' umanità. Grazie a lei generazioni hanno compreso cosa è stato il nazismo, cosa abbia significato vivere nascosti, essere deportati e morire in un campo di sterminio. Quando ieri sera al giornale abbiamo visto la sua foto con la maglia della Roma, usata da un gruppo di ultrà della Lazio per infamare gli avversari, ci siamo indignati come tutte le volte che ci troviamo di fronte alla banalità del male. Ma questa volta abbiamo pensato che è necessario fare un passo in più. Come è diventato possibile che Anna Frank sia considerata un modo per offendere? Ribaltiamo i piani, restituiamole il suo valore, trasformiamola in un omaggio, non lasciamola sola e in mano all'ignoranza. E allora Anna Frank siamo tutti noi, può e deve avere la maglia di ogni squadra, essere parte della nostra vita. Ogni club dovrebbe farne una bandiera, per rispondere senza esitazione alla deriva degli estremisti delle curve. Soprattutto oggi che non solo una parte delle curve degli stadi ma una parte della società sta diventando ricettacolo di razzismo, antisemitismo e xenofobia. Perché Anna è la ragazzina che non ce la fa a sopravvivere fino alla Liberazione. Il suo Diario è la trama di una vita spe zzata, che diventa parte della vita di tutti noi. Riprendiamocela, non lasciamola nelle mani di chi vuole calpestarla ma continuiamo a leggerla e a dedicarle strade, scuole e biblioteche” (a.p.)

IN PRIMO PIANO – COMMENTI E ANALISI DOPO IL REFERENDUM SULL’AUTONOMIA

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La rivincita della “Liga” di Gian Antonio Stella Il “Leon” e il Carroccio

Pag 3 Parte il risiko della trattativa di Dino Martirano e Cesare Zapperi

Pag 4 I due Nord alle urne. Con Milano lontana dalla “provincia” di Dario Di Vico Nell’affluenza il dualismo città-campagna

LA REPUBBLICA Pag 1 Diversi dal Nordest di Ilvo Diamanti

LA STAMPA Se la capitale diventa un nemico di Ferdinando Camon

Il territorio laboratorio di leadership di Marcello Sorgi

AVVENIRE Pag 1 Il cuore del problema di Marco Olivetti Stato e Regioni, differenze e unità

Pag 4 Ma la vera partita si gioca sui costi di Nicola Pini Con il sistema delle Regioni c’è stato anche un boom delle spese

IL GAZZETTINO Pag 1 La questione veneta e un malessere da ascoltare di Roberto Papetti

Pag 6 Quattro città senza quorum di Angela Pederiva L’autonomia vola in campagna ma a Venezia, Padova, Verona e Rovigo l’affluenza resta sotto il 50 per cento

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III L’autonomia si gioca in laguna. Brugnaro a Zaia: “Decidiamo noi” di Roberta Brunetti E il sindaco presenta il “conto” a Gentiloni

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il destino del leader leghista di Alessandro Baschieri Luca premier?

Pag 2 Zaia ora mira alla Costituzione: “Veneto a statuto speciale” di Marco Bonet Il progetto di legge e l’iter che lo attende

Pag 4 Città e provincia, due mondi. Capoluoghi senza quorum ma i paesi sono la “Zaiastan” di Francesco Chiamulera Vicenza, Alta padovana e Trevigiano roccaforti autonomiste

LA NUOVA Pag 1 Nella Lega equilibri spostati a Est di Fabio Bordignon

Pag 4 Feltrin: “Specificità veneta anche per l’alta affluenza” di Sabrina Tomè Il politologo: partecipazione come per le Regionali. “Più elettori a Treviso e Vicenza, i territori più colpiti dal crac delle ex popolari”

Pag 8 Turismo, trasporti, sanità: l’ira in laguna di Alberto Vitucci Nella città d’acqua due elettori su tre hanno disertato le urne. L’antica conflittualità del capoluogo con il potere regionale

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 28 Donna morta di tumore, la parrocchia “adotta” i figli di Mitia Chiarin Dopo le offerte raccolte durante i funerali è stato aperto un conto corrente per i quattro ragazzi di Caterina Salin. “Soldi destinati ad aiutarli nei loro studi”

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Nessuno sia rifiutato o privato della dignità In un videomessaggio ai giovani canadesi il Pontefice esorta a non innalzare muri

Colpo d’ala All’Angelus il Pontefice commenta la risposta di Gesù sulla questione del tributo da pagare a Cesare

Un mese missionario straordinario Indetto per l’ottobre 2019 nel centenario della «Maximum illud» di Benedetto XV

AVVENIRE Pag 17 Francesco: un mese speciale per risvegliare la missionarietà di Andrea Galli Sarà l’ottobre 2019. L’annuncio in una lettera a Filoni

Pag 17 Traduzione dei testi liturgici, il Pontefice corregge Sarah di Riccardo Maccioni

Pag 20 Il Vangelo negli occhi del ragazzo di Luciano Moia

IL FOGLIO Pag 1 Il Papa ordina il mea culpa pubblico al cardinale Sarah e rende palese la grande battaglia che si combatte la chiesa di Matteo Matzuzzi

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 25 La spesa nel Paese degli animali di Davide Illarietti e Giangiacomo Schiavi La società (e la crisi demografica) vista dagli scaffali del supermercato. Meno spazi per biberon e pannolini mentre triplicano quelli per cani e gatti

LA REPUBBLICA Pag 14 Insegna Pasolini e la Bibbia, maestra francese sospeso: “Non sono testi adeguati” di Pietro Del Re L’insegnante è stato multato e trasferito per aver infranto il dovere della neutralità

AVVENIRE Pag 3 Un bonus per ogni figlio. Perché l’Italia ne ha bisogno di Massimo Calvi Pro e contro dell’assegno ai minorenni. Quali effetti

Pag 19 Quando l’operaio rischia di fare la vedova indiana di Paolo Viana Il caso di Vercelli

Pag 22 Il consenso, un attimo fuggente di Diego Motta

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI Addio Mattia, se n’è andato l’uomo dei burattini in piazza di Fulvio Fenzo Stroncato da un male incurabile a 63 anni, da almeno 15 era l’idolo dei bambini

8 – VENETO / NORDEST

LA NUOVA Pag 43 “Sono veneto e ho vinto per tutti voi” di Davide Vatrella Eyob Faniel, vincitore della Venice Marathon, in redazione: ius soli battaglia di ci viltà, combattiamo il razzismo

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Bankitalia e l’autogol politico di Ernesto Galli della Loggia L’errore di Renzi

Pag 1 Euro, più mercato e visione comune. Il futuro possibile di Lucrezia Reichlin

Pagg 42 – 43 Caporetto. Fu un momento terribile ma l’Italia riuscì a reggere di Antonio Carioti e Lorenzo Cremonesi Gli errori dei comandi, le truppe abbandonate

LA REPUBBLICA Pag 1 Siamo tutti Anna Frank di Mario Calabresi

AVVENIRE Pag 3 Aborto e diritti violati: guardate e vedete Flavia di Maurizio Patriciello Il peso della povertà sulla “scelta” di una giovane

IL GAZZETTINO Pag 27 La negazione dell’umanità dei “reporter per caso” su facebook di Maria Latella Social media

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IN PRIMO PIANO – COMMENTI E ANALISI DOPO IL REFERENDUM SULL’AUTONOMIA

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La rivincita della “Liga” di Gian Antonio Stella Il “Leon” e il Carroccio

«Né con Roma, né con Milano!», diceva uno striscione alla «Festa dei Veneti» indetta una decina di anni fa dalla associazione «Raixe Venete», cioè radici venete, nata «co l’intento de tegner viva la identità…». Va da sé che l’altra sera, davanti alla schiacciante superiorità percentuale dei veneti sui lombardi al referendum per l’autonomia, non c’è leghista da Peschiera a Bibione che non abbia fatto l’occhiolino al vicino: «Tò!». Per carità, Roberto Maroni si è precipitato a precisare subito che «non c’era nessuna gara con Luca Zaia». E il governatore veneto è andato più in là dicendo che non si è trattato d’una vittoria del «Leon che magna el teròn» e meno ancora del Carroccio: «Questa elezione dimostra che non esiste il “partito dell’autonomia”, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto». Scelta che fa dire a Bepi Covre, a lungo parlamentare leghista poi espulso («solo dai trevisani») che «il giovanotto è cresciuto. Molto. Ha imparato a muoversi con intelligenza. Per questo deve restare qua. Guai se dovesse ascoltare certe sirene romane. Col referendum abbiamo fatto lo zaino con la borraccia, i panini, la corda e tutto quel che serve per scalare la montagna. La scalata, però, deve ancora iniziare. E sarà durissima». Certo è che da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri. Sudditanza sfociata non di rado in malumori sotterranei e aperte contestazioni. Basti ricordare l’«era berlusconiana» della legislatura trionfalmente iniziata nel 2001. Lombardo era il segretario del partito e ministro per le riforme Umberto Bossi (come il suo successore Roberto Calderoli), lombardo il ministro della giustizia Roberto Castelli, lombardo il ministro del lavoro Roberto Maroni, lombardo il capogruppo alla Camera Andrea Gibelli, lombardo il primo e il terzo dei capigruppi al Senato Castelli e Pirovano, lombardi tre su quattro degli europarlamentari a Bruxelles, lombardo il direttore del quotidiano la Padania , lombardo il direttore di Radio Padania Libera e via così. Per non dire dei segretari: il «quasi a vita» Umberto Bossi, Roberto Maroni e Matteo Salvini. Tutti e tre, ovvio, lombardi. Senza che mai sia stata manco ipotizzata una candidatura padovana, veronese o trevisana. Era scontato: il potere era lì, tra Milano e Varese. Eppure i primi a tirar su la testa autonomista erano stati i veneti. Racconterà mistico : «La prima volta che dissi che volevo fondare la Liga fu il 18 agosto 1968, nella chiesa di Santa Maria di Danzica». Conosceva il polacco? «Neanche una parola». E allora? «Come cominciai a parlare le parole presero a sgorgarmi naturalmente...». Polacchi a parte, i pionieri veneti decisero di dar vita nel lontano dicembre ’79 a un partito che si trattenesse «in difesa della lingua, dei costumi, delle tradizioni venete». Fondato ufficialmente l’anno dopo, in uno studio notarile di Padova. Primi a metter su la , primi ad eleggere nel 1983 un deputato e un senatore presto espulsi da Rocchetta («il padre della madre di tutte le leghe») e dalla moglie Marilena Marin, primi a raccogliere nell’87 quasi 300.000 voti mancando il quorum per un soffio, primi ad allearsi con Umberto Bossi e la Lega Lombarda nata nel frattempo per fondare nell’89, dal notaio, la Lega Nord. Dalla quale sarebbero stati poi espulsi lasciando agli archivi parole infuocate: «Riconosco le mie colpe: pensare con la mia testa ed esser coerente coi miei ideali legittimati dal voto popolare in quel Veneto che si ostina a non essere colonia politica dei pretoriani della “Legaboss”». Di più: «Bossi è ormai come Hitler nel bunker con Erminio Boso al posto di Eva Braun. Certo, Erminio non ha la stessa femminilità ma ama il Capo con la stessa “vis amandi”». Arsenico. Fatto sta che per anni e anni la «Liga» è rimasta fedele al Senatùr, avendone in cambio la parata annuale veneziana in riva degli Schiavoni, lo spostamento del sedicente Parlamento della Padania nella villa vicentina «La Favorita» a Sarego e poco più. Inquieta ma fedele. Nonostante certe battute bossiane di rivendicazione della primogenitura: «L’effetto Lega è ormai uscito definitivamente dalla Lombardia entrando in Piemonte, in Liguria e in Emilia Romagna, con un solo anello debole: il Veneto». Fedele ma inquieta, tanto da spingere nel ’98 allo strappo l’allora segretario veneto Fabrizio Comencini: «Avevamo votato con Giancarlo Galan una risoluzione per l’autonomia del Veneto. Fu letta come una rivolta venetista. Uscì sulla Padania un articolo firmato “Il Capitano” che diceva peste e corna, sostenendo che io non avevo capito che era una manovra di Berlusconi per rompere la Lega». Fu espulso insieme con quattro parlamentari e sette consiglieri regionali. Un malessere carsico, quello «lighista». Un malessere che per tanto tempo ogni tanto si inabissava e tornava a galla. Come quando una dozzina di anni fa saltò la mosca al naso perfino a Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, che finì per sbottare contro i «lumbard» dopo l’ennesima «prepotenza» rovesciando su di loro l’accusa più rovente: «La Lega veneta è sempre forte, forse troppo, e può darsi che questa forza e questo consenso popolare abbiano messo sul chi va là qualche esponente romano della Lega Nord». Peggio: «C’è sempre qualcuno, in questo ambiente, che è pronto a piantarti un coltello nella schiena non appena volti le spalle. E io penso che qualche responsabile della Lega a Roma abbia azionato il coltello». «Più Liga e meno Lega», sarebbe diventato lo slogan di tanti venetisti insofferenti. E questo, come gli riconoscono anche gli avversari, è forse il vero miracolo compiuto da Luca Zaia forzando sul referendum. Essere riuscito a tenere insieme, al voto di domenica, senza sventolare troppo la bandiera del partito, tante anime diverse. I fedelissimi e gli scontenti, i tiepidi e gli entusiasti e perfino un po’ di espulsi che comunque sono riusciti a ritrovarsi. Oltre a tantissimi che, come dicono i numeri, non sono mai stati leghisti e magari mai lo saranno. Gli sarebbe andata bene, dirà lui, anche se l’affluenza fosse stata altrettanto massiccia in Lombardia. Il distacco sui lombardi, però, non è solo «lo sfizio» supplementare. C’è di più. Molto di più...

Pag 3 Parte il risiko della trattativa di Dino Martirano e Cesare Zapperi

I referendum erano consultivi, ma i cittadini si sono pronunciati in modo chiaro. Ora la sfida lanciata da Lombardia e Veneto entra nel vivo e passa dall’alveo politico a quello istituzionale. Ci sono passi ufficiali da compiere, documenti da mettere a punto, trattative da avviare. Tenendo conto che l’Emilia Romagna ha scelto di procedere senza preventivamente interpellare gli elettori, sta per iniziare una partita tra il governo e tre Regioni destinata a ridefinire i rapporti tra centro e periferia. Ecco una guida per capire quali sono le materie in discussione, le richieste, l’iter e i possibili approdi. Quali sono le competenze che potrebbero essere cedute a Lombardia e Veneto? Sono 23 le materie che le due Regioni, interpellando i cittadini con i referendum consultivi di domenica, hanno chiesto di poter gestire direttamente. Tre sono di esclusiva competenza statale: norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente e dei beni culturali, giudici di pace. Altre 20, invece, sono di competenza concorrente. Tra queste: tutela della salute, protezione civile, commercio con l’estero, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione dell’energia, previdenza complementare e integrativa. Che cosa chiede in particolare il Veneto? La giunta regionale veneta ieri ha approvato un disegno di legge per ottenere «ulteriori e specifiche forme di autonomia» in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione. Il provvedimento è composto da oltre 50 pagine, indica nel dettaglio tutte e 23 le materie oggetto di trattativa con il governo e spiega per ciascuna come la Regione gestirà la competenza una volta acquisita. Sul piano finanziario, il disegno di legge specifica che sarà necessario trasferire i nove decimi del gettito di Irpef, Ires e Iva. La giunta presieduta da Luca Zaia ha contestualmente approvato un disegno di legge da trasmettere al Parlamento per modificare l’articolo 116 della Costituzione in modo da ottenere il riconoscimento del Veneto come «Regione a statuto speciale» E che cosa chiede la Lombardia? A differenza del Veneto, al momento non c’è un testo che spiega nel dettaglio quali sono le richieste della Lombardia, ma il governatore Roberto Maroni ha detto più volte che intende andare a Roma per firmare un’intesa su tutte e 23 le materie. Oggi il consiglio regionale lombardo avvierà la discussione, che al di fuori di Palazzo Lombardia riguarderà anche amministratori e stakeholder (portatori di interessi), per arrivare entro due settimane al massimo a una risoluzione che avvierà effettivamente l’iter e che indicherà l’oggetto della trattative (tutte le competenze). A Maroni sta a cuore soprattutto la materia fiscale. In particolare, il coordinamento del sistema tributario. Il governatore ha molto battuto sul tasto del residuo fiscale, ma non è una materia che può far parte del confronto con il governo. Ora qual è il percorso della trattativa governo-Regioni? Il punto di partenza formale è una risoluzione del consiglio regionale, atto che sia il Veneto sia la Lombardia potranno adottare dopo le consultazioni con le categorie sociali ed economiche e con gli enti locali. Poi, una volta acquisita la «notifica» dell’iniziativa della Regione, il governo ha 60 giorni di tempo per avviare i negoziati. Se la trattativa ha poi esito positivo per le parti il suo contenuto si riversa in un disegno di legge del governo che i due rami del Parlamento devono approvare a maggioranza assoluta. Non sussiste alcun obbligo a concludere l’intesa. Che cosa prevede il modello emiliano? L’Emilia-Romagna - senza il referendum che, tra l’altro, non è una via obbligata prevista dalla Costituzione - ha già chiesto al governo «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». La risoluzione dell’assemblea regionale del 3 ottobre scorso autorizza il governatore Stefano Bonaccini a trattare con il governo su 5 degli ambiti in cui si articolano le 23 materie previste dall’articolo 117: tutela e sicurezza del lavoro; ricerca scientifica e sostegno all’innovazione; territorio e rigenerazione urbana, ambiente e infrastrutture; tutela della salute; governance istituzionale e coordinamento della finanza pubblica. Già stamattina, dopo l’intesa firmata con il premier Paolo Gentiloni, Bonaccini siederà al tavolo della trattativa con il sottosegretario Gianclaudio Bressa (Affari regionali) per fissare il calendario degli incontri con i ministri coinvolti. Fino a quale punto può spingersi il governo? Sulla carta il governo potrebbe concedere ulteriori spazi di autonomia su tutte e 23 le materie ma a Palazzo Chigi confermano che la trattativa tra Stato e Regioni deve pur prevedere una sua elasticità. Più che la quantità delle materie, il buon fine dei negoziati, dal punto di vista del governo, dipende dalla qualità delle richieste che le singole Regioni sapranno presentare. Se infatti il premier Gentiloni cita l’esempio dell’Emilia come «faro» da seguire, i governatori di Lombardia e Veneto dovrebbero intendere che le richieste più circostanziate e motivate (limitate cioè solo ad alcuni ambiti) potrebbero avere un percorso più agevole. Dal punto di vista dei tempi, a questo punto, solo l’Emilia può sperare di portare a casa il risultato entro queste legislatura.

Pag 4 I due Nord alle urne. Con Milano lontana dalla “provincia” di Dario Di Vico Nell’affluenza il dualismo città-campagna

L’analisi del voto è sempre un esercizio utile, stavolta forse ancora di più. Spulciando infatti nei dati di affluenza al referendum di domenica l’elemento che emerge con maggiore nettezza è quello che riporta al fattore «città-campagna», come tradizionalmente vengono classificate le differenze tra le grandi/medie città e la provincia profonda. Parliamo della divaricazione tra due segmenti dell’elettorato, quello metropolitano e di conseguenza cosmopolita e quello delle valli pervicacemente localista. Per arrivare a questa conclusione basta partire dal dato (26,4%) dell’affluenza di Milano, città-hub oggi impegnatissima a far concorrenza alle altri grandi città terziarie dell’Europa e di conseguenza disattenta e critica nei confronti di una consultazione elettorale giudicata inutile e autarchica. Tra Milano e la provincia di Bergamo (47,4%) ci sono più di 20 punti percentuali che diventano addirittura 36 se il confronto passa tra la città di Ambrogio e la provincia di Vicenza (62,7%). I dati non fanno altro che fotografare l’esistenza di una larga polarizzazione, pur dentro un territorio come il Nord che visto dall’estero o solo dal nostro Meridione appare omogeneo. La verità è che non lo è, accanto infatti a fattori subculturali comuni (un orientamento più favorevole all’impresa e al mercato e meno ben disposto verso lo Stato) se ne trovano altri che generano divaricazioni come quella di domenica. Distanze che si spiegano solo in parte con gli effetti della Grande Crisi. L’Economist di questa settimana ha dedicato la copertina alle zone (noi diremmo territori) che sono rimaste «ferite» dalla globalizzazione. Il titolo è «Left behind», lasciate indietro. Un’espressione che potrebbe diventare familiare come i forgotten men che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca. Le trasposizioni non sono mai facili ed è comunque arduo trovare nel Nordest e in Lombardia territori devastati dalla crisi come secondo il settimanale inglese sono Greenville nel South Carolina e Scranton in Pennsylvania. Abbiamo conosciuto fenomeni di penalizzazione come l’uscita dal mercato di moltissime Pmi venete o lombarde che prima facevano i prodotti a basso valore aggiunto oggi made in China , qualche distretto ha chiuso baracca e burattini e centinaia di capannoni vuoti costeggiano le grandi arterie stradali ma la percentuale dei votanti è stata altissima anche nelle terre del Prosecco, esempio di successo imprenditoriale maturato negli ultimi 10 anni. Una traccia di risentimento la ritroviamo con maggiore certezza nel voto vicentino, quell’affluenza al 52% anche nel capoluogo riflette gli umori dei risparmiatori traditi dalla loro Banca Popolare e che hanno trovato nell’urna di domenica il modo di schierarsi contro l’establishment romano. Il localismo dei veneti non risponde però a un univoco sentimento di sconfitta, marca di più un’identità popolare diversa dal cosmopolitismo liberal e dalle design/fashion week milanesi. Una presa di distanza abilmente pilotata da Luca Zaia e dal suo leghismo a trazione democristiana, attento agli interessi minuti dei piccoli proprietari del vino e del turismo e avverso per Dna al capitalismo cosmopolita, che - non dimentichiamo - nel Nordest vanta due colossi come Luxottica e la galassia Benetton. Ed è sintomatico l’appoggio dato al referendum da quasi tutte le organizzazioni di rappresentanza del ceto medio produttivo. Il voto dunque ci consegna, oltre al rischio di una profonda divaricazione tra economia e politica, due Nord: uno che vuole l’Ema, prepara l’Human Technopole, sogna per le multinazionali tascabili ulteriori traguardi e l’altro che punta le sue carte sul contenzioso fiscale con Roma e nello statuto speciale. Un secondo Nord attento ai luoghi e non ai flussi, per usare una vecchia espressione di Giacomo Becattini più volte riproposta da Aldo Bonomi. E allora la palla torna giocoforza alle élite del primo Nord che sbaglierebbero a snobbare l’esito del referendum e sono chiamate invece a dare anch’esse una risposta al voto di domenica. Nella durissima competizione che avviene anche all’interno dell’Europa comunitaria la massa critica conta eccome e Milano senza il retroterra della Regione A4 è sicuramente più debole.

LA REPUBBLICA Pag 1 Diversi dal Nordest di Ilvo Diamanti

Il referendum si è concluso, ma le questioni sollevate restano aperte. Più di prima. D'altronde, l'esito del voto ha fornito indicazioni diverse, nelle due Regioni coinvolte. Al punto da rendere inadeguata la categoria geo-politica del Lombardo- Veneto, rilanciata in questa occasione. Infatti, in Lombardia ha votato una quota minoritaria degli elettori, per quanto ampia: 38%. Seppure, per la validità del risultato, non fosse previsto un quorum. Richiesto, invece, in Veneto. Dove si è recata a votare una larga maggioranza dei cittadini. Oltre il 57%. Quasi tutti hanno votato sì. Un «big bang», lo ha definito il governatore Luca Zaia. Il quale, da domani, anzi: oggi stesso, potrà avviare il confronto con lo Stato centrale, cioè, con il governo, affinché "alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia", come recita il quesito approvato dagli elettori. E lo stesso potrà fare il suo omologo lombardo, Roberto Maroni, "ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 116 della Costituzione". Nei quesiti referendari non troviamo echi di tipo catalano. D'altronde, come ha rilevato il sondaggio di Demos, pubblicato in queste pagine una settimana fa, la secessione non piace neppure a coloro che predicano l'indipendenza. L'indipendenza, infatti, è concepita come in-dipendenza. Non-dipendenza. Cioè: autonomia. Appunto. Così, qualche dubbio resta, sulle ragioni del referendum. Visto che, per affrontare questi obiettivi, si sarebbe potuto ricorrere alle norme e ai procedimenti già previsti dalla Costituzione. In particolare, all'articolo 116, indicato esplicitamente dal quesito proposto in Lombardia. La Giunta della Regione Emilia-Romagna, d'altronde, ha scelto proprio questa via: un negoziato senza referendum. Il referendum, d'altronde, l'avevano già indetto Lombardia e Veneto. L'Emilia-Romagna ne ha sfruttato l'onda d'urto. Annunciando la propria iniziativa con un timing tanto puntuale da apparire un po' sospetto. Siamo, dunque, entrati in una nuova fase geo-politica. Perché questo referendum ha reso visibile una distinzione nota, anche in passato. Ma oggi palese. La "diversità veneta". Il sondaggio di Demos pubblicato una settimana fa ne forniva alcune misure, appariscenti. Una fra tutte: il 15% dei cittadini veneti vorrebbe che la Regione si staccasse dall'Italia. Il doppio rispetto a quel che si rileva in Lombardia. E in Italia. A Nord, peraltro, la rivendicazione "regionalista" si appoggia sulla logica degli interessi, più che sull'identità. «Paroni (padroni) a casa nostra», aveva scandito Zaia per lanciare il referendum, rivolgendosi direttamente a un territorio di piccoli imprenditori ( paroni, appunto), di piccole aziende. Dove le piccole imprese e i piccoli imprenditori coincidono, spesso, con le famiglie. I sistemi di imprese con le comunità locali. Cioè, con i paesi. Federalismo, in questa accezione, significa trattenere le risorse, il denaro, gli "schei" (come recita il noto libro di Gian Antonio Stella), nei territori dove vengono prodotti. E Zaia, d'altronde, lo ha scandito, in modo esplicito, immediatamente dopo l'annuncio dei risultati ufficiali: «Vogliamo tenerci i 9/10mi delle tasse». Cioè, quasi tutti "i nostri schei". In questo modo, ha marcato una duplice frattura. Da un lato: con la Lega Nazionale di Salvini. Dall'altro: con il Nordest, così definito da Giorgio Lago negli anni Ottanta (all'epoca direttore del Gazzettino) per riassumere il profilo di un territorio di piccole aziende e piccoli imprenditori. Il Nordest. Passato dalla Dc alla Lega (meglio: alla Liga), senza soluzione di continuità. Per esprimere la frustrazione di un contesto che si sentiva centro economico e periferia politica. Rispetto a Roma, ma anche a Milano. Oggi, però, anche il legame tra il Veneto e le altre Regioni del Nordest si è complicato. Il "residuo fiscale" del Veneto, infatti, è attivo e molto elevato. Mentre nelle altre Regioni del Nordest (ad eccezione di Bolzano) risulta passivo. In quanto le risorse che giungono dallo Stato sono ben più ampie di quelle versate. Il Veneto, dunque, contribuisce ad arricchire lo Stato, ma anche le Regioni vicine. Così Zaia ha rivendicato, anche per il Veneto, lo «Statuto speciale». Peraltro, dopo il 2007, l'economia territoriale ha dovuto affrontare difficoltà rilevanti, anche se, negli ultimi tre anni, l'andamento delle esportazioni e dell'occupazione è migliorato. Così, l'aspirazione a trattenere "i soldi a casa nostra" ha assunto un significato prevalentemente "difensivo". E il referendum ha fornito l'occasione per amplificare il ri-sentimento veneto. Portabandiera: la Lega di Zaia. Il tasso di affluenza al referendum, infatti, risulta più elevato dove la Lega e la Lista del governatore hanno ottenuto i risultati migliori alle elezioni regionali del 2015. In particolare, a Vicenza, Treviso e Padova. E nei Comuni periferici, con meno di 15 mila abitanti (come ha rilevato l'Istituto Cattaneo di Bologna). È probabile che ora Luca Zaia rafforzi ulteriormente il proprio consenso personale, da sempre elevatissimo. Secondo l'Osservatorio sul Nord Est di Demos (pubblicato sul Gazzettino), negli ultimi anni, non è mai sceso sotto il 60%. Negli ultimi mesi, è perfino salito oltre il 70%. Indici che lo proiettano sulla scena nazionale. Dove la politica e i politici soffrono di crescente impopolarità. Non per caso, ieri, Massimo Cacciari lo ha candidato premier. Ma prima di lui ci aveva pensato Berlusconi. Tuttavia, si tratta di un'ipotesi rischiosa. Una trappola. Perché porrebbe il governatore contro Salvini e la sua Lega Nazionale. E lo isolerebbe, insieme al Veneto. È più probabile, allora, che Zaia utilizzi il referendum come "minaccia". Per ottenere maggiori risorse dallo Stato. Ma anche per allargare il consenso politico intorno a sé. Oltre i confini della Lega e della Regione. D'altra parte, in Veneto, il referendum è stato condiviso da soggetti di diversa collocazione e provenienza. Esponenti del mondo ecclesiale, associazioni di categoria. Perfino il Pd regionale si è schierato per il Sì. Cioè, con Zaia. A capo di una sorta di campagna elettorale permanente, in nome del "federalismo preterintenzionale" all' italiana (come ho avuto modo di definirlo in passato). Avviato vent' anni fa. Senza un progetto consapevole e preciso. Oggi potrebbe riprodursi e propagarsi altrove. In-seguendo l'autonomia Regione per Regione. Ciascuna per sé. Ciascuna a modo suo. È la lezione - o, forse, la tentazione - offerta dal referendum veneto.

LA STAMPA Se la capitale diventa un nemico di Ferdinando Camon

Il referendum lombardo-veneto non l’ha vinto la Lega, come dicono tutti i giornali. L’ha vinto la Liga, cioè la Lega originaria, che era nata nel Veneto e dal Veneto fu portata via da Umberto Bossi. La differenza percentuale dei votanti al referendum tra Veneto e Lombardia è del 20%. Un’enormità. Poiché sotto sotto il referendum voleva segnare la distanza delle due popolazioni, la lombarda e la veneta, da Roma, il risultato mostra che la distanza è infinitamente maggiore nel Veneto. Roma per i lombardi è un’altra capitale, la capitale di uno Stato rivale. Per i veneti è la capitale di uno Stato nemico. Si va a trattare, con i risultati del referendum lombardo: nuovi rapporti, nuove relazioni, economiche e fiscali. Con i risultati del referendum veneto si potrebbe andare, se le leggi lo permettessero, a trattare la separazione. L’uomo veneto odia Roma e tutto ciò che è romano, quindi anche l’Italia, sentita come una provincia romana. Il deamicisiano quesito referendario («Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?»), fu inteso dai votanti così: «Vuoi che la Regione Veneto prenda più larghe distanze da Roma?». I veneti hanno risposto Sì. Ergo, Roma è più lontana. Ai tempi di Bossi, Roma era ladrona, cioè rubava ai veneti per dare al Sud. Ma dopo che Bossi & C. hanno pure loro rubato, questo slogan è caduto. Adesso Roma è quella delle tasse. Fatalità, siamo a poche settimane dalla nuova ondata di tasse. Anche questo ha influito sul referendum. Dopo tante giravolte, secessione, indipendenza, la richiesta si ferma sull’autonomia, intesa come autogestione delle tasse. L’odio verso Roma è la spinta che fa emergere l’identità dell’uomo veneto, che si manifesta soprattutto come identità economica e fiscale. L’uomo è i soldi che ha. Ecco perché le tre province che hanno trainato il referendum sono Padova, Treviso e Vicenza, le tre città leader del nuovo Veneto, che formano la megalopoli diffusa Pa-Tre-Vi. Una volta la megalopoli era Pa-Tre-Ve, e Ve stava per Venezia, che però è un leviatano che marcisce nella laguna, costa più di quel che rende, e dopo il Mose passa tra le gestioni corrotte. Le figure interiori dominanti sono sempre le stesse, Berlusconi, la Chiesa. Berlusconi torna in campo, e riacquista un suo credito come uomo anti-tasse. La chiesa significa il patriarca Moraglia: con sorpresa di molti, anche mia, s’è pronunciato con decisione pro- referendum, e questo ha pesato sul voto. Sul risultato pesa anche il voto degli immigrati, perché nelle altre regioni gli immigrati che diventano cittadini diventano italiani, ma nel Veneto diventano veneti: non dicono «noi parliamo italiano», dicono «noi parliamo veneto». E votano di conseguenza. Il Veneto venetizza, non italianizza. Adesso si va a trattare. Operazione difficilissima. Soprattutto sulla parte economica. Il Veneto dice che gli spettano 15 miliardi di tasse che non gli tornano mai indietro in servizi, ma vanno ad altre regioni. Il problema è molto semplice: quei soldi lo Stato non li ha.

Il territorio laboratorio di leadership di Marcello Sorgi

Dalle urne del referendum di Veneto e Lombardia, oltre a un risultato politico che influirà anche sulle prossime elezioni, esce un modello di leadership destinato a far riflettere, a destra come a sinistra. È quello del trionfatore del Veneto Zaia e del - già, come definirlo, vincitore o vinto? - sindaco di Bergamo Gori, schierato con il «Sì» dei leghisti promotori delle consultazioni, ma contraddetto dalla posizione ufficiale del suo partito, il Pd, che con il vicesegretario nazionale e ministro dell’Agricoltura, il milanese Martina, aveva lanciato alla vigilia del voto un appello all’astensione. Al di là della possibile - e dall’interessato sempre negata - candidatura alla guida dell’eventuale, e adesso sempre più possibile, prossimo governo di centrodestra, ipotesi lanciata tempo fa da Berlusconi, Zaia, che in una tempestosa domenica di pioggia ha portato la maggioranza dei veneti alle urne e a esprimersi a favore di una maggiore autonomia locale, ha alcune caratteristiche in comune con Gori. Il quale ha raccolto le firme dei sindaci lombardi per lo stesso obiettivo, e magari avrebbe preferito rinunciare al referendum, perché non gli era sfuggito che a incassarne i vantaggi sarebbe stata soprattutto la Lega, compreso il governatore lombardo Maroni, che lo stesso sindaco si prepara a sfidare alle prossime regionali, e che pur non avendo eguagliato il successo di Zaia, ne ha comunque ricavato una bella lucidatura della propria immagine. Ma una volta avviata la macchina, appunto, Gori non s’è tirato indietro, né ha atteso di aver indicazioni dal confuso vertice del Pd, che oscillava tra il dare la libertà di voto ai propri elettori, vale a dire non prendere posizione, e il tardivo schierarsi per l’astensione, cioè a scommettere sulla sconfitta dell’avversario, senza entrare in partita. Al contrario il sindaco, coerente con l’impegno preso insieme ai suoi colleghi primi cittadini dei comuni della Lombardia, s’è messo lo zaino in spalla, è andato in campagna elettorale, e dopo aver condiviso in parte la vittoria, ha proposto al Pd di votare all’unanimità in consiglio regionale con il centrodestra, per avviare la trattativa con il governo. Siccome anche Salvini, leader del partito di Zaia, non era proprio entusiasta del referendum nordista proposto dai presidenti leghisti delle due regioni, e lo ha digerito con qualche difficoltà, è abbastanza facile capire qual è la caratteristica che accomuna il governatore veneto e il sindaco lombardo: essere allo stesso modo rappresentanti del territorio, conoscerne i problemi e il comune sentire, e soprattutto comportarsi di conseguenza, senza piegare il capo - o piegandolo il meno possibile - alle scelte nazionali del proprio partito, e sapendo ascoltare la propria gente anche quando questo potrebbe risultare non esattamente conveniente. La questione settentrionale - ma non solo: basti pensare alla Puglia di Emiliano, e per certi versi anche alla Napoli di De Magistris o alla Palermo di Orlando - sta tutta qui. Quando i cittadini di un determinato territorio percepiscono che i loro rappresentanti, o quelli che li governano, non hanno a cuore i loro problemi specifici, li trascurano e come soluzioni cercano di applicare astratti modelli nazionali, che faticano a produrre effetti in periferia, o scelgono di farsi rappresentare da altri, oppure, se non trovano nessuno o nulla di convincente, si buttano nell’astensione o nelle braccia dell’antipolitica. Ecco perché una politica moderna, non inutilmente ideologica, dovrebbe partire di qui per ridefinire i propri obiettivi e governare con sapienza le inevitabili spinte centrifughe di questo sistema. Stupisce che ci riesca il centrodestra, seppure, come abbiamo visto, un po’ a dispetto di se stesso. E non ci riesca invece il centrosinistra, e all’interno di esso il maggior partito di governo: con un leader come Renzi, che aveva costruito la sua fortuna facendo il sindaco di una grande città come Firenze, arrivando a incontrare Berlusconi premier per fare gli interessi della propria città, e diventando poi, chissà perché, centralista a Palazzo Chigi; e ancora, tra i suoi dirigenti, un uomo come Chiamparino, già primo cittadino di Torino e attuale governatore del Piemonte, che qualche anno fa era arrivato a proporre l’eresia di un Pd del Nord, e per questo era stato politicamente - e inutilmente - massacrato.

AVVENIRE Pag 1 Il cuore del problema di Marco Olivetti Stato e Regioni, differenze e unità

Per leggere il significato costituzionale del voto referendario consultivo tenutosi domenica in Lombardia e in Veneto, sarebbe in primo luogo necessario compiere una missione impossibile: separare la questione specifica dell’autonomia (che era oggetto dei quesiti referendari, i quali recitavano più o meno: 'volete più autonomia?') dalla battaglia fra i partiti in vista delle prossime elezioni legislative. È indubitabile, infatti, che il voto di domenica è stato anche e soprattutto una battaglia politica dal sapore 'separatista' voluta soprattutto dal 'governatore' veneto Luca Zaia e da una parte della Lega Nord, a partire da quella che fa capo al presidente lombardo Roberto Maroni, proprio mentre Matteo Salvini – capo apparentemente incontrastato del partito – era totalmente impegnato ad accreditare un’immagine nazional- sovranista della 'sua' proposta politica e camicie e fazzoletti verde-padano stavano scomparendo dall’iconografia leghista. Una battaglia che, nonostante l’adesione tattica di settori del centrosinistra decisi a depotenziarne la portata, ha mantenuto un marchio di centrodestra e, infatti, su questo ritrovato carro 'federalista' è salito quasi tutto il centrodestra. Ed è evidente che l’impresa è stata coronata da un certo successo (come era previsto, e prevedibile, assai più in Veneto che in Lombardia) sulla scia di una ripresa di quello schieramento già delineatasi in occasione delle ultime elezioni amministrative. Qui, però, si vorrebbe affrontare la questione più ardua, quella della portata costituzionale del voto di domenica, relativamente alle linee evolutive della struttura dello Stato italiano, nell’attuale contesto europeo. Al riguardo due letture estreme potrebbero essere prospettate: quella del 'nulla' e quella del 'tutto'. La prima – che può sembrare prevalente in una prospettiva legalistica – ci dice che i due referendum erano consultivi, che dunque essi non producono alcun effetto (se non il dispendio di denaro pubblico per organizzarli) e che la trattativa fra le due Regioni referendarie e il governo nazionale per il riconoscimento ad esse di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», ai sensi dell’art. 116, 3° comma, della Costituzione, avrebbe potuto essere avviata anche senza referendum, se solo i governi regionali veneto e lombardo lo avessero davvero voluto (il governo Renzi e quello Gentiloni si erano detti disponibili, ma Zaia e Maroni hanno preferito invocare prima il sostegno popolare). Questa lettura si basa su dati di fatto, ma ci dice troppo poco: vede solo il lato legale-formale del problema: imprescindibile, ma insufficiente. La seconda lettura – quella del 'tutto' – potrebbe collocare il referendum veneto (in questo vi sono differenze non marginali rispetto al caso lombardo) in parallelo con la vicenda catalana: dopotutto, nonostante che i due quesiti votati domenica parlassero chiaramente di maggiore autonomia e non di indipendenza (e fossero dunque, per questo profilo, saldamente dentro il terreno della Costituzione), non si può dimenticare che il quesito veneto è l’unico sopravvissuto fra quelli previsti in alcune leggi regionali approvate nel 2014 in cui, accanto a esso, ve ne era un altro che chiedeva di esprimersi sull’indipendenza della Regione e che è stato (ovviamente) soppresso dalla Corte costituzionale (sentenza 118/2015). Inoltre la data scelta per la consultazione – a 151 anni dal plebiscito sull’annessione del Veneto all’Italia dopo la Terza guerra di indipendenza, quasi si trattasse di rovesciarne l’esito – e il linguaggio ambiguo dei fautori del voto, davano al voto di domenica un significato ben più ampio della richiesta di maggiore autonomia. Del resto, anche il discorso leghista, che da trent’anni è lo stesso nell’Italia del Nord – vale a dire trattenere a livello locale la quasi totalità delle entrate fiscali percepite sul territorio regionale – è una dichiarazione unilaterale di secessione in tutto fuorché nel nome. Tentare una lettura costituzionale del voto referendario di domenica, che percorra la via stretta fra il 'nulla' e il 'tutto', vuol dire, probabilmente, riproporre due questioni fondamentali della storia dello Stato regionale italiano: la prima è quella dell’autonomia, la seconda è quella della differenziazione/ asimmetria. Dal primo punto di vista va riconosciuto, anche da parte dei non entusiasti, che i due referendum 'padani' hanno almeno il merito di riproporre la questione dell’assetto delle autonomie. Essa è fra le scelte fondamentali della Costituzione repubblicana, ma la sua vita concreta ha sempre oscillato fra pulsioni centrifughe e centripete e dall’esplosione della crisi economica, e dal contemporaneo emergere da molteplici e clamorosi casi di malapolitica e malamministrazione a livello regionale, il vento centralista è diventato dominante: esso era del resto ben presente anche nella fallita riforma costituzionale del 2016, di cui costituiva la parte meno convincente. Ma – lo si è scritto più volte su queste colonne – l’Italia del XXI secolo è troppo complessa per essere governata come se fosse quella pre-bellica, anche se sono del tutto legittime le più varie rimesse in questione del nostro sistema delle autonomie (e quella connessa della decentralizzazione delle competenze statali, magari ricordando la celebre battuta di Massimo Severo Giannini, secondo il quale «lo Stato italiano non è né accentrato né decentrato, essendo in fatto soltanto un pasticcio»). Ma come rideclinare l’ideale autonomista e il progetto sturziano delle «Regioni per liberare le energie della nazione» nell’Europa paurosa e incerta di questi anni? Come riarticolare un sistema che non ha ancora assorbito la riforma delle Province del 2014? Occorre, evidentemente, un ripensamento di fondo, anche se l’unica cosa certa è che la soluzione non sta nel tenere più soldi in Veneto e in Lombardia (in fondo, una risposta populistica), ma nel chiedersi come le autonomie territoriali possano meglio servire i cittadini: solo a questa condizione si dovrebbe dire Sì al trattenimento di maggiori funzioni (e quindi anche di più soldi) a livello regionale o locale. C’è poi la questione di quanta asimmetria fra i suoi territori lo Stato regionale italiano possa tollerare. Il voto di domenica ripropone in parte la questione settentrionale e del resto l’asimmetria in Italia è nei fatti: i diversi Nord e i diversi Sud del Paese funzionano con ritmi differenti quale che sia l’organizzazione territoriale, e quest’ultima non può non tenerne conto, a pena di essere disincarnata. Ma può l’architettura istituzionale prenderne semplicemente atto per accentuare ulteriormente queste differenze, fino a rompere di fatto anche quel tanto di unità che è richiesta in uno Stato-nazione post- moderno? Al di là della risposta degli elettori lombardi e veneti ai due quesiti referendari, è dunque l’ora di porsi le vere domande. Cercando di restare aderenti ai problemi oggettivamente aperti e senza inutili svolazzamenti teorici, ma senza eludere i nodi di fondo del sistema delle autonomie, che sono più che mai aperti.

Pag 4 Ma la vera partita si gioca sui costi di Nicola Pini Con il sistema delle Regioni c’è stato anche un boom delle spese

A 47 anni dalla loro istituzione, a 16 dalla riforma del Titolo V che le ha rafforzate e a quasi un anno dalla mancata 'controriforma' che avrebbe dovuto limitarne i poteri, le Regioni italiane restano in cerca di autore. Al centro di spinte contrastanti e contraddittorie - devolutione riaccentramento, federalismo fiscale e tagli lineari imposti da Roma, policentrismo e confusione istituzionale - il sistema non ha trovato un suo equilibrio. Ecco alcuni nodi da sciogliere e qualche dato su cui riflettere. Il residuo fiscale. Uno degli obiettivi delle Regioni che hanno promosso il referendum di domenica è quello di mantenere sul territorio una maggiore quota delle risorse raccolte attraverso le tasse. La differenza tra quanto si versa attraverso tutte le forme di imposizione fiscale e quanto si riceve sotto forma di servizi, investimenti, trasferimenti dallo Stato è chiamato residuo fiscale. È una grandezza non semplice da calcolare e sulla quale mancano dati ufficiali condivisi. Tuttavia è opinione comune che per entrambe le Regioni andate alle urne lo scarto sia negativo. Secondo i dati rielaborati da fonte Istat dal dirigente del Cnr Fabrizio Tuzi, i cittadini della Lombardia 'perdono' in questo giro 5.600 euro pro capite, quelli del Veneto oltre 2.000 euro. Il club delle Regioni che incassano meno di quanto pagano è piuttosto ristretto e comprende anche il Lazio (3.670 euro), l’Emilia Romagna (3.300), il Piemonte (1.160) e la Toscana (800). Poi c’è la provincia autonoma di Bolzano, con poco meno di 700 euro pro capite. Le altre 13 regioni italiane e la Provincia di Trento hanno invece un residuo positivo. Friuli, Liguria e Marche di poche centinaia di euro. Mentre il surplus entrate-uscite supera i mille euro a testa in Umbria e Val d’Aosta, i 2.000 euro in Campania e nel Trentino, fino ad arrivare a oltre 4.300 euro per la Sardegna e a 5.500 per la Calabria. Sono cifre che fotografano una situazione apparentemente iniqua, dove c’è un pezzo d’Italia che paga parte del conto per tutti. Il motivo è molto semplice e deriva dal fatto che dove c’è maggiore ricchezza il prelievo fiscale è più alto (progressivo per le imposte sul reddito), mentre una parte della spesa pubblica, quella sociale, si concentra dove c’è più bisogno. Senza nulla togliere agli sprechi e alle inefficienze amministrative locali, l’ampiezza del residuo fiscale è dunque prima di tutto un indice di diseguaglianza. Basti ricordare che in Lombardia il reddito medio di un lavoratore dipendente arriva a 40mila euro e in Calabria a 29mila e l’indice di povertà relativa e del 4,5 in Emilia Romagna e di oltre 30 punti nella stessa Calabria. Ma se calcolassimo il residuo fiscale tra i 'quartieri alti' e quelli poveri di una qualunque città italiana il divario sarebbe forse maggiore di quello che si riscontra tra le Regioni. La ricerca citata scompone i dati tra le entrate e le spese e consente un maggiore approfondimento. Gli incassi fiscali mostrano infatti una grande variabilità scendendo da Nord a Sud: dai quasi 18mila euro pro-capite di Bolzano e della Lombardia, fino ai 7.500 circa della Sicilia. Guardando invece al lato della spesa il quadro è più omogeneo, se si escludono le autonome Val d’Aosta, Trentino e Alto Adige, che hanno una spesa tra i 17 e i 18mila euro pro capite, nettamente più alta della media nazionale di circa 13mila. Per il resto le differenze sono contenute, ma complessivamente le regioni del Sud hanno livelli di 'uscite' leggermente più bassi delle altre, in particolare la Campania, la Puglia (entrambe a poco più di 10mila euro) e la stessa Sicilia. Insomma il Mezzogiorno è sì beneficiato dalla redistribuzione del reddito ma in questa classifica resta relativamente sfavorito. La spesa regionalizzata. Un altro indicatore arriva dalla Ragioneria generale dello Stato che misura quella parte del bilancio statale erogato direttamente nei territori. In questo caso le differenze sono eclatanti. Al top delle uscite pro-capite (dati 2015) ci sono gli abitanti delle province di Bolzano (8.900) e Trento (7.600 euro), con quasi il quadruplo di quello che ottiene un lombardo. Al quarto posto, dopo la Valle d’Aosta troviamo il Lazio con oltre 6mila euro pro capite. Dato che risente del fatto che a Roma hanno sede le istituzioni centrali e si paga un’ampia fetta degli stipendi pubblici. Poi ci sono le restanti regioni autonome (Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia) seguite dalle altre del Mezzogiorno. La Lombardia è ultima a quota 2.450 euro circa, preceduta da Emilia (2.680) e Veneto (2.740). Non a caso sono le tre Regioni che, con il referendum o con trattativa diretta con lo Stato centrale, chiedono più autonomia. Cosa accadrebbe se il residuo fiscale fosse ridotto o azzerato? La spesa pubblica potrebbe crescere (o le tasse calare) nelle zone più ricche mentre l’opposto accadrebbe al Sud. Con l’inevitabile conseguenza di allargare ancora di più il divario economico nel Paese e rendere probabilmente necessarie nuove politiche redistributive. Va osservato che negli ultimi anni i trasferimenti di risorse hanno contenuto ma non ridotto il gap tra Nord e Sud. Durante la crisi (2008-2013) il Pil del Mezzogiorno si è ridotto del 2,3% annuo, quello italiano del 2%. I consumi pro capite segnano un -2,4% a fronte dell’1,8% nazionale. E anche la ripresa del Pil dal 2014 in poi è stata leggermente più debole nel Sud (+0,5% annuo) che nel Nord (+0,7%). Ma un maggiore decentramento delle funzioni avvantaggerebbe chi lo propone? Il professor Paolo Balduzzi, docente di Scienza delle finanze all’Università Cattolica di Milano, non ne è convinto e ritiene che la campagna referendaria illuda i cittadini. Di recente ha spiegato che il residuo fiscale non ne risulterebbe intaccato perché, se lo Stato dovesse cedere alle Regioni competenze dirette su determinate materie, allo stesso tempo ridurrebbe i relativi trasferimenti verso quei territori. La Regione interessata potrebbe trarne qualche vantaggio finanziario solo se riuscisse a svolgere i nuovi compiti a un costo inferiore a quello statale. Gli spazi per ridurre la pressione fiscale (o aumentare la spesa) sarebbero dunque ben al di sotto delle decine di miliardi di cui si è parlato. Il boom di spese e debito... Al di là delle differenze territoriali e dei flussi delle spesa pubblica, il referendum ha riportato di attualità anche il tema dell’efficienza complessiva del sistema imperniato sulle Regioni. Resta aperta la questione se la moltiplicazione dei centri decisionali non abbia aumentato sprechi, doppioni e inefficienze, oltre a ingolfare di ricorsi l’attività amministrativa. Di sicuro dopo la riforma 'federalista' del 2001 la spesa pubblica italiana ha registrato un sensibile aumento. Il debito, complice la crisi degli ultimi anni, è salito dal 108 al 133% del Pil. La spesa sanitaria, principale fonte di uscita delle Regioni è salita, da circa 75 ad oltre 110 miliardi di euro. Ma livello del Fondo sanitario non è deciso autonomamente dalle Regioni quanto dal governo centrale. Ed è sempre Roma che controlla, tanto che di fronte ai maxi disavanzi di diversi enti territoriali ha deciso di commissariarli. ...E quello delle tasse locali. Non è facile stabilire i diversi gradi di responsabilità di una situazione che, accanto all’esplodere della spesa ha portato al moltiplicarsi la tassazione locale. Secondo una ricerca di Cer-Confcommercio le imposte locali dal 1998 al 2014 sono aumentate del 72%, salendo fino 6,6% del Pil e al 43,5% del totale delle imposte tributarie. In crescita soprattutto le addizionali regionali e comunali all’imposta sul reddito. Poi è arrivata la crisi e lo Stato centrale ha progressivamente chiuso i rubinetti della spesa pubblica. I trasferimenti verso la periferia sono diminuiti segnando dal 2009 al 2014 un 23,2% E mentre la spesa corrente locale diminuiva solo dell’1,2%, a soffrire sono stati gli investimenti pubblici, con un crollo del 39%. Il pendolo torna al centro. Dal 2015 si è registrata invece una prima riduzione del prelievo fiscale locale dovuto alla decisone di eliminare l’imposta sulla prima casa. Che era comunale non regionale. Resta invece forte il peso delle imposte dirette, le addizionali comunali e regionali. Nel corso di una recente audizione alla commissione parlamentare sul federalismo fiscale il professor Massimo Bordignon, ordinario di Scienza delle finanze alla cattolica di Milano, ha affermato che nonostante la nuova norma costituzionale del 2001, la decentralizzazione del sistema italiano non si è mai compiuta davvero. E con la crisi economica e le politiche di riequilibrio finanziario il pendolo è tornato verso il centro. Negli ultimi anni la quota della spesa degli enti periferici sul totale della spesa pubblica è calata e anche la disciplina dei costi standard imposta dalla spending review, che mira ad allineare le spese unitarie ai livelli più virtuosi, contribuisce a questo obiettivo. Dal 2012 è stato introdotto l’obbligo per le Regioni di sottoporre i propri bilanci al giudizio di parificazione della Corte dei conti. Poi è arrivato anche il vincolo del pareggio di bilancio, mentre ancora il governo centrale chiude il proprio in deficit. Intanto il debito delle regioni italiane (dati Bankitalia) è sceso di circa 9 miliardi tra il 2011 e il 2015, mentre quello nazionale ha proseguito la sua corsa. Una serie di azioni che hanno ridotto i margini di autonomia finanziaria degli enti e che può spiegare come mai oggi alcune Regioni, quelle che hanno i conti più in ordine ma non possono fare investimenti, abbiano rialzato le bandiere autonomiste.

IL GAZZETTINO Pag 1 La questione veneta e un malessere da ascoltare di Roberto Papetti

Diciannove punti. È il numero in percentuale che misura la diversa affluenza alle urne tra Veneto e Lombardia nel referendum di domenica sull'autonomia: 57,2% contro 38,2%. Un dato elettorale importante che, soffocato dall'enfasi sul successo dell'afflusso in Veneto, è passato in secondo piano. O è stato il pretesto per riflessioni sui possibili nuovi equilibri all'interno della Lega, dove la leadership di Zaia, già incontrastata in Veneto, ha assunto, dopo questo voto, solide dimensioni nazionali e rischia di oscurare quella di Salvini. Quel numero però è la spia di un fenomeno più profondo: rivela che, all'interno della questione settentrionale, c'è anche una questione veneta, che ha una sua specificità ed esprime un proprio, autonomo malessere. Nell'analisi del voto di domenica non può sfuggire che il maggior numero di consensi all'ipotesi referendaria sia venuto proprio dalle province di Vicenza, Padova e Treviso, cioè dai territori dove è concentrato il cuore produttivo del Nordest e dove più concreti sono i segnali di una ripresa economica, in larghissima parte trainata dall'export. Qualcuno non ha resistito alla tentazione di interpretare queste espressioni di voto ricorrendo a vecchi e logori luoghi comuni: egoismo, nostalgia delle piccole patrie, atavico provincialismo. Banalità. La questione veneta e quei 19 punti percentuali di distacco dalla Lombardia, hanno altre e ben più serie origini. Innanzitutto ci sono ragioni geopolitiche. Il Veneto, a differenza della Lombardia, è letteralmente incuneato tra Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Vive quindi, sulla sua pelle, le differenze tra le regioni ordinarie e quelle autonome e a statuto speciale. Diversità di trattamento fiscale che in tempi di neo- centralismo e di tagli profondi ai trasferimenti dallo Stato agli enti locali, si sono accentuate. Esasperando ulteriormente lo storico disagio del Veneto, il suo ri-sentimento come lo ha recentemente definito Ilvo Diamanti. Secondo un recente sondaggio realizzato per il nostro Osservatorio del Nordest, ben il 72% dei veneti è convinto che i cittadini di questa regione lavorano e danno molto più di quel che lo Stato restituisce loro. Rispetto al 2013 questo ri-sentimento è aumentato del 4%. In altre parole: i cittadini di questa regione, in modo trasversale rispetto all'appartenenza politica e anche all'età, si sentono sempre meno considerati dal resto del Paese, vivono una condizione di crescente separatezza e insoddisfazione. A questo malessere, che va oltre la semplice protesta fiscale, si sommano poi alcuni dati di fatto. Il Veneto, anche per evidenti responsabilità delle sue classi dirigenti, è periferico rispetto ai processi decisionali del Paese. Un distacco che nel corso degli anni si è ulteriormente aggravato. L'esatto contrario di ciò che è accaduto in Lombardia che, trainata da Milano, ha visto invece crescere il proprio peso e la propria capacità di influenza. Anche l'immagine di gigante economico e nano politico è ormai inadeguata a fotografare la condizione veneta. Perché anche sul piano economico la regione vive una condizione di crescente marginalità. È il territorio produttivo per eccellenza, genera quote importanti della ricchezza e del Pil nazionale, è patria di straordinari imprenditori. Ma questo non le consegna un ruolo da protagonista nelle vicende del Paese e neppure nella selezione della sua classe dirigente. Il Veneto è di fatto escluso dai flussi del potere politico-finanziario, che si muovono su altre direttrici (Torino-Milano-Roma), lontane dalla regione. A maggior ragione dopo il fallimento delle due banche popolari. Quel 57,2% che è andato a votare domenica nonostante la pioggia, nonostante il carattere consultivo del referendum e la (perdente) propaganda sull'inutilità del voto, ha dato voce a tutto questo. Un malessere profondo e articolato che va ascoltato. Sarebbe un errore grave se la trattativa tra regione e governo non ne tenesse conto.

Pag 6 Quattro città senza quorum di Angela Pederiva L’autonomia vola in campagna ma a Venezia, Padova, Verona e Rovigo l’affluenza resta sotto il 50 per cento

Venezia. Ma poi com'è finito lo scrutinio del referendum sull'autonomia? Dopo aver ultimato i conteggi domenica notte, ieri mattina l'Osservatorio elettorale della Regione ha reso noti i numeri definitivi. Dei 4.068.560 aventi diritto al voto, sono andati ai seggi in 2.328.949, cioè il 57,2% del totale. Di questi, 2.273.985 hanno scelto il Sì (98,1%) e 43.938 hanno optato per il No (1,9%). Dunque in Veneto il quorum è stato superato e il quesito è stato approvato, anche se con significative differenze a livello provinciale: il Vicentino ha primeggiato in termini di affluenza (62,7%) e Sì (98,3%), il Polesine ha centrato il record sul piano dell'astensione (alle urne solo il 49,9%), il Bellunese ha registrato il picco di No (2,6%). Da rilevare, a proposito dell'area dolomitica, le sfumature nei risultati delle due consultazioni proposte: sia l'affluenza che il Sì hanno dato esiti superiori nel voto sull'autonomia provinciale (rispettivamente 52,2% e 98,7%) in confronto a quello sull'autonomia regionale (51,4% e 97,4%). PICCOLI E GRANDI - L'ufficializzazione dei dati completi permette di approfondire una delle tendenze che erano emerse già nell'immediatezza dello spoglio: il traino dei piccoli centri rispetto alle grandi città. Lo studio sull'affluenza riferita alle classi di ampiezza demografica dei 575 Comuni, condotto dagli analisti guidati dal politologo Paolo Feltrin, evidenzia un trend molto più marcato di quelli emersi in occasione delle due tornate referendarie dello scorso anno. Il voto sull'autonomia ha richiamato solo il 49,1% degli elettori nelle città con più di 30.000 abitanti, mentre la partecipazione è stata pari al 58,6% nei centri fra 15.000 e 30.000 residenti, al 61,2% fra 10.000 e 15.000, al 62,2% fra 5.000 e 10.000 e al 58,3% sotto i 5.000. Non a caso ben quattro dei sette capoluoghi di provincia del Veneto sono rimasti sotto l'asticella del quorum: Venezia (44,9%), Verona (45,5%), Padova (46%) e Rovigo (47,6%). Nel 2016 la forbice, pur misurata senza tenere conto dei residenti all'estero, aveva invece oscillato fra il 38,9% (grandi) e il 34% (piccoli) nel referendum sulle trivelle e fra il 75% (grandi) e il 76,2% (piccoli) nella consultazione sulla riforma costituzionale. I FLUSSI - L'istituto Cattaneo di Bologna ha invece compiuto un'analisi sugli spostamenti di voto che si sono verificati rispetto alle precedenti elezioni. L'analisi ha riguardato le città di Padova, Treviso e Venezia e il confronto è stato tracciato con le Politiche del 2013, il che significa che i dati relativi ai flussi vanno considerati con attenzione, dal momento che da allora lo scenario politico ha subìto rilevanti modifiche, come ad esempio lo scioglimento della coalizione Monti, il passaggio dal Popolo della Libertà a Forza Italia, la scissione del Partito Democratico con la nascita di Articolo 1. Ciò premesso, la ricerca mostra innanzi tutto l'unanime partecipazione degli elettori della Lega Nord e del Movimento 5 Stelle a favore del Sì. Nel caso del Carroccio, la mobilitazione viene letta come la conseguenza della matrice leghista del referendum e del rafforzamento della presenza territoriale e del peso politico del partito. Quanto ai pentastellati, la promozione dell'autonomia viene interpretata come uno strumento anti- sistema. Invece nell'elettorato che quattro anni fa aveva scelto il Pdl si registrano delle defezioni: il 20% a Treviso, il 28% a Padova e il 68% a Venezia ha disertato le urne, in linea secondo gli analisti con la refrattarietà dei berlusconiani ad impegnarsi nelle consultazioni referendarie. Com'era già emerso durante la campagna elettorale, e fotografato dalla rilevazione effettuata dal Gazzettino fra tutti i parlamentari veneti, il popolo del Pd si è diviso: ricordando il già citato divorzio dell'ala sinistra dal corpo dem, i ricercatori affermano che a prevalere è stata l'opzione dell'astensione, fatta da una quota compresa fra il 57% di Venezia e il 66% di Padova; un terzo ha invece seguito l'indicazione arrivata dalla direzione regionale del partito, decidendo di partecipare e votare Sì; un altro 3% è pure andato ai seggi, ma si è espresso per il No. Infine i centristi, che alle elezioni per la Camera e il Senato scelsero fra Scelta Civica, Futuro e Libertà e Unione di Centro, stando a questa indagine hanno tenuto un comportamento che appare sostanzialmente in linea con quello mostrato dai simpatizzanti del Pd, a parte qualche spostamento nella città del Santo: prevalenza dell'astensione con una quota non trascurabile di elettori orientati per il Sì. A testimonianza della trasversalità del voto referendario, andrebbe poi ricordato che alle Regionali del 2015 il candidato Zaia era stato scelto da 1.108.065 elettori, un numero che corrisponde a poco meno della metà di quello che domenica ha votato Sì. LE CURIOSITÀ - Al di là dei ragionamenti politici, ci sono poi le curiosità. Per esempio il 100% di Sì, registrato a Frassinelle Polesine, 690 voti e tutti favorevoli. Oppure il picco di No, rilevato a Ficarolo sempre nel Rodigino: in termini assoluti solo 30 schede, ma che rapportate al numero relativamente esiguo di votanti, hanno fatto schizzare il tasso dei contrari al 4,5%. Per quanto riguarda l'affluenza, la medaglia d'oro va a Roverè Veronese: 76,2%, cioè 1.243 partecipanti su 1.632 iscritti. La maglia nera tocca invece (suo malgrado) a Soverzene, borgo bellunese svuotato a fine Ottocento da un furioso incendio, al punto che gli iscritti all'Aire sono il doppio dei residenti effettivi: 23,3%, poiché ai seggi si sono recati in 247 sui 1.060 teoricamente possibili. Di fatto è andato a votare tutto il paese reale, ma ai fini della statistica elettorale quelli che contano sono i numeri virtuali.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III L’autonomia si gioca in laguna. Brugnaro a Zaia: “Decidiamo noi” di Roberta Brunetti E il sindaco presenta il “conto” a Gentiloni

Venezia. Tutti felici del successo del referendum, a Palazzo Balbi come a Ca' Farsetti. Ma una prima crepa, tra il governatore del Veneto, Luca Zaia, e il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, potrebbe crearsi per l'attribuzione delle funzioni dell'ex Magistrato alle acque. Se ne parla dal 2014, quando la storica istituzione, eredità della Serenissima, fu sciolta sulla scia dello scandalo Mose. In questi tre anni tutto è rimasto in gestione al Provveditorato alle Opere pubbliche del Triveneto, nuovo nome dell'ex Magistrato, ma i piani dichiarati erano che i poteri sulla laguna sarebbero dovuti passare alla Città metropolitana. POTERI SULLA LAGUNA - Ora però li vorrebbe la Regione, forte del successo referendario, per superare l'«eccessiva frammentazione di competenze» sulla laguna. Così sta scritto all'articolo 29 della proposta di legge per il trasferimento delle competenze alla Regione, approvato ieri dalla Giunta di Palazzo Balbi. Un articolo chiaro che attribuisce alla Regione Veneto l'«acquisizione delle funzioni già spettanti al Magistrato alle acque». Un primo conflitto con il vertice di Ca' Farsetti, che guida anche la Città metropolitana? Brugnaro minimizza. «Il testo non l'ho visto - premette il sindaco - Ma su questo tema abbiamo un disegno particolare, già definito. Siamo già una Città metropolitana e i poteri sulla laguna vanno dati alla Città metropolitana. Su questo non c'è dubbio. Forse la tattica della Regione è quella di chiedere tanto, per poi ottenere qualcosa di meno. Quel che è certo è che siederemo a un tavolo delle autonomie, dove si discuterà. Esiste una dialettica. E il coraggio di cambiare comporta anche delle fughe in avanti». Insomma, toni gentili, ma volontà ferma nel merito. Si vedrà. STATO DA RIFORMARE - In generale Brugnaro si dice molto soddisfatto del risultato del referendum, che vede come un'occasione per una grande riforma dello Stato. Più vicino ai cittadini, con meno burocrazia e territori più autonomi e dinamici. «Qui non viene messa in dubbio la solidarietà nazionale. Qui si tratta di ridisegnare un'idea di Italia. E pensare che qualcuno voleva dividere Venezia. Un'idea antistorica. Bisogna andare nel senso opposto». IL CASO VENEZIA - A Venezia, però, il referendum non ha raggiunto il 50%. Un segnale di un sentire diverso? «Credo che i problemi particolari di Venezia e la loro non soluzione, come succede quando non affronti le cose, abbiano allontanato la gente della partecipazione. Poi c'è da tenere in considerazione le questioni logistiche, l'acquazzone serale, il fatto che tanta gente fosse fuori città» GRANDE COALIZIONE - Intercettato a Roma dall'agenzia Dire, ieri Brugnaro ha lanciato anche il tema della Große Koalition all'italiana in vista delle prossime elezioni. «So che non mi faro' tanti amici, ma sono convinto che l'Italia ha bisogno di una grande coalizione aperta a tutti. E tutti vuol dire tutti. Se l'alleanza è fatta per traccheggiare, però, non serve a niente, come non servirebbe a nulla neanche una maggioranza diversa. Penso che lo Stato dobbiamo cambiarlo insieme». Brugnaro ha precisato che non devono esserci «principini» o «inciuci». Serve, invece, un accordo «trasversale per affrontare i grandi mali che ha l'Italia» come «un immobilismo troppo costoso per cittadini» che si può superare «solo se agiamo in modo trasversale con tutti quelli di buona volontà, con chi crede nel lavoro e nello Stato. Dobbiamo credere nel merito, nel coraggio e nell'umiltà. E questa cosa va fatta assieme, per cambiare il Paese insieme».

Venezia. Un'ora e mezza a tu per tu con Paolo Gentiloni, a Palazzo Chigi, per presentare i conti di Venezia: sul fronte della salvaguardia della laguna, come del rilancio economico di Marghera e della città tutta. Un'altra missione romana per il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, dopo quella di qualche settimana fa dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche stavolta, massimo riserbo sui contenuti del colloquio con il capo del Governo, che proprio oggi sarà prima a Marghera e poi a Mogliano, con finali dichiarazioni di soddisfazione. L'appuntamento di ieri era nel primo pomeriggio. E alle 17 Brugnaro già twittava: «Grazie a Paolo Gentiloni per la grande attenzione dimostrata ai temi della salvaguardia e dello sviluppo economico del comune di Venezia». VENEZIA È DI TUTTI - Un sindaco particolarmente contento. «È stato un incontro fruttuoso - ha riferito all'uscita - Mi è stato dato tutto il tempo che mi serviva. Ho parlato di tante cose. E ho trovato un capo del Governo attento che ha capito che Venezia ha esigenze particolari e speciali. Temi che avevo già rappresentato al presidente della Repubblica. Anche stavolta ho trovato ascolto che spero si tradurrà in azioni». Brugnaro ha tenuto a sottolineare la collaborazione con gli esecutivi, fin dalla sua elezione a sindaco: «Ho trovato collaborazione con il precedente Governo, con quello attuale, mi auguro la troverò anche con il prossimo. È giusto che sia così perché Venezia è di tutti». INCONTRO A 360 GRADI - Ma che cosa chiede Venezia? «I temi sono tanti, alcuni trattati dalla stampa, altri no - ha precisato il sindaco -. Non voglio anticipare nulla. In questa fase la riservatezza è doverosa. Quando avremo le soluzioni le presenteremo. Per ora posso dire che ho trovato in Gentiloni una disponibilità assoluta per arrivare alla soluzione di problemi fermi da tanti anni». Ovviamente, in cima alla lista, c'è la questione della salvaguardia della laguna e della Legge speciale da rifinanziare e/o rimodulare. Dopo tre anni, il 7 novembre tornerà a riunirsi il Comitatone con all'ordine del giorno proprio il rifinanziamento della Legge speciale, lo sblocco dei fondi per riconoscere la specialità di Venezia, e il trasferimento dei poteri dell'ex Magistrato alle acque - oggi rimasti al Provveditorato alle Opere pubbliche - alla Città metropolitana. Questione che sta molto a cuore al sindaco, ribadita ieri al premier e che ora rischia di complicarsi alla luce dei disegni di autonomia della Regione dopo il referendum (ne scriviamo nell'altra pagina). INVESTIMENTI DA ATTRARRE - E se sullo sfondo resta il tormentone del turismo, ma anche quello della sicurezza, centrale per Brugnaro è soprattutto il rilancio economico del territorio. A cominciare dalle bonifiche di Porto Marghera, essenziali per far ripartire l'economia e creare posti di lavoro. Lo aveva già detto a Mattarella, snocciolando i dati economici. Ora, dopo il referendum, Brugnaro vede gli effetti positivi anche su questo fronte. «L'autonomia è un valore che va declinata a favore di una riforma dell'Italia - ha commentato -. Abbiamo una struttura organizzativa un po' datata, una burocrazia sempre più asfissiante in tutti i settori. Con questo referendum il Veneto si mette alla testa di un cambiamento per valorizzare i meriti di ciascuno. Attrarre gli investimenti internazionali è una priorità. Chi può partire come il Veneto lo faccia, sarà un traino per gli altri. Questa non è volontà localista, ma volere qualcosa di più grande. Più siamo, meglio è. Il lavoro si crea così».

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il destino del leader leghista di Alessandro Baschieri Luca premier?

Zaia candidato del centrodestra e presidente del Consiglio. Provate a immaginarvi per un attimo nel Transatlantico di palazzo Montecitorio, a discutere di politica con un giornale in mano. O al tavolino di un bar ai piedi della Mole, in pausa pranzo dopo una mattina in ufficio a Firenze, sulle panchine di un porto del Sud: l’uomo del giorno sarebbe sempre lui, Luca Zaia da San Vendemiano, governatore del Veneto, capace di alzarsi venti punti sopra il cielo lombardo di Maroni fino a diventare la figurina più pregiata in casa leghista. Capace di lanciare l’ardita sfida dell’autonomia e di contrapporsi a tutti senza mai risultare così divisivo come il suo capo, il segretario federale Salvini. Capace di non dire mai nemmeno una parola in favore degli amici forzisti e di restare comunque, agli occhi di Berlusconi, il nome più spendibile del centrodestra. Normale che platea e loggione, tribuna e curva, pensino oggi a un diverso destino per Luca Zaia. Provate a sedervi fuori dal Veneto e capirete perché i figli di un Paese che brucia i leader come pellet nelle stufe e distribuisce bolli d’infamia come spicci agli incroci, un Paese che incorona e detronizza i suoi sovrani n pochi mesi, oggi lo considerino la vera novità sul panorama politico nazionale. L’esito del referendum veneto - per quanto Zaia stesso abbia saggiamente evitato di personalizzare la contesa memore degli errori di Renzi - lo accredita della Forza di un giovane cavaliere Jedi in grado di sopravvivere a guerre stellari. Per la capitale è ancora un homo novus (nonostante sia già stato ministro) con un cursus honorum immacolato (ha attraversato indenne, almeno giudiziariamente, le grandi inchieste del Mose e della banche) e può contare su un consenso crescente (sempre primo nelle rilevazioni demoscopiche sui più amati governatori d’Italia…). In due parole: potrebbe entrare in scena come Mario, Catone o Cicerone nell’antica Roma, irrompendo tra dinastie e aristocrazie, dopo aver vissuto per tre lustri da campione di provincia. E magari risolvere le ambiguità di fondo della Lega, oggi nordista qui e sovranista là, o di Forza Italia, nella quale sono annegati ormai troppi delfini. Da oggi in avanti la giacchetta del governatore avrà bisogno di un sarto, la tireranno da tutte le parti. Già ieri il gruppo forzista in Regione ne esaltava le qualità di leader moderato e il filosofo Massimo Cacciari gli suggeriva di scendere in campo come aspirante premier. Dunque qual è il destino di Zaia? Saprebbe cancellare il marchio veneto che porta sotto pelle e accantonare la causa territoriale per rappresentare l’Italia intera? Ieri il governatore ha riproposto il suo disco preferito: « Non ci penso, il mio futuro è in Veneto». Riteniamo dica il vero. Non cadrà nella trappola di farsi candidato di una legge elettorale che promette governi instabili o legati, non diventerà l’alfiere del compromesso e il bersaglio di tutti. Non ora almeno, non c’è fretta. E chi lo vede all’angolo, senza più scuse né alibi, destinato a morte politica nel caso non riesca a raccogliere quello che chiede, ricordi che la narrazione di un Veneto oppresso e accerchiato da uno Stato sfruttatore potrebbe perpetuarne il consenso anche in caso di scarso risultato. Oggi Zaia ha dietro di sé un popolo trasversale, un mandato ampio, la convinzione di combattere una battaglia giusta e condivisa. È esattamente dove vuole essere e non ha motivo di andarsene. Men che meno di cambiare palcoscenico o di provocare un rendez vous catalano: i salti nel buio, con sprezzo del pericolo e delle leggi, non li ha mai fatti.

Pag 2 Zaia ora mira alla Costituzione: “Veneto a statuto speciale” di Marco Bonet Il progetto di legge e l’iter che lo attende

Venezia. Neppure il tempo di incassare al tavolo l’ultima, pesantissima vincita garantita dal Sì al referendum di domenica (dato definitivo: 2 milioni 328 mila votanti, il 57,2% degli aventi diritto; i favorevoli sono stati il 98,1%), che subito Luca Zaia, impegnato in un delicato poker politico-istituzionale col governo, rilancia: «Chiederemo che il Veneto diventi una Regione a statuto speciale». Il governatore lo dice attorniato dai suoi assessori (che all’ingresso in giunta, poco prima, gli avevano tributato un applauso trionfale), davanti alla gigantografia del gonfalone marciano, nel corso di un punto stampa convocato in tutta fretta per annunciare l’approvazione - all’unanimità - di tre delibere da parte dell’esecutivo convocato in seduta straordinaria non appena si è avuta contezza della schiacciante affermazione del Sì. «Sia chiaro, non vogliamo accendere la rissa col governo, men che meno col ministro dell’Agricoltura Martina, visto che il mio interlocutore è il premier Gentiloni - esordisce Zaia - è soltanto il naturale passo in avanti nel processo che ci porterà a negoziare con Roma nuove e più ampie forme di autonomia, dopo un risultato inequivocabile, anche se ancora in attesa della validazione della Corte d’appello». La prima delibera contiene la proposta di legge statale che costituirà la base della trattativa tra la Regione e lo Stato. Com’è noto (la bozza era pronta da tempo), contiene la richiesta di devoluzione di 23 materie - 20 oggi concorrenti più 3 esclusive dello Stato - da finanziarsi trattenendo sul territorio i 9/10 di Iva, Irpef e Ires. «Da qui si parte per scrivere la legge che dovrà essere approvata dal parlamento» spiega Zaia, che alla domanda se non sarebbe stato meglio concentrasi su un numero più ristretto di materie e se chiedendo «tutto» non si rischi alla fine di ottenere «niente», replica secco: «Non vado a Roma a fare una trattativa a scartamento ridotto. Se Trento e Bolzano avessero ragionato così non sarebbero “speciali” e lascio al governo la responsabilità di dire a due milioni di veneti che si meritano solo due o tre competenze di serie B». La proposta di legge statale verrà approvata in seconda lettura in giunta entro una quindicina di giorni e quindi passerà all’esame del consiglio regionale per il via libera definitivo. Cosa accadrà in quei quindici giorni? Qui c’è la seconda novita deliberata ieri: il governatore ha deciso di istituire una «Consulta per l’autonomia» in cui far sedere tutti gli stakeholders del «Sistema Veneto»: associazioni di categoria, sindacati, università, terzo settore. Ciascuno sarà chiamato a dare il suo parere - non vincolante - sulle materie di competenza. Ci saranno anche le forze di opposizione, come in Lombardia? «Le porte sono aperte - chiosa Zaia - anche se la sede per il confronto tra i partiti sarà il consiglio. Basta che abbiano idee fattibili e non fantasie». La Consulta si affianca al Gruppo intersettoriale già attivo dal novembre 2016, anche se le modalità di convocazione e di lavoro ancora non si sanno, né si sa come questa si intersecherà con le audizioni nelle commissioni consiliari. «Contiamo di chiudere le consultazioni in due settimane - afferma Zaia - e di approvare il progetto di legge in aula entro dicembre, subito dopo il bilancio». Zaia, peraltro, sarà a Palazzo Ferro Fini domani per relazionare i consiglieri sui fatti degli ultimi giorni. Infine, la terza delibera, quella politicamente più dirompente, inaspettata al punto che molti, anche vicinissimi al governatore, ne erano all’oscuro. Contiene un’altra proposta di legge statale, di una riga soltanto: «Nel primo comma dell’articolo 116 della Costituzione, dopo le parole “la Valle d’Aosta” sono aggiunte le seguenti: “e il Veneto”». Nel primo comma dell’articolo 116 sono elencate le Regioni a statuto speciale, una strada già tentata da Galan nel lontano 2006. Immediata la replica del governo («Una proposta irricevibile, una provocazione» sbotta il sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa) ma Zaia tira dritto: «È una risposta concreta alle istanze del Veneto - si legge nella relazione portata in giunta - sarebbe una forte accelerazione verso il federalismo e permetterebbe al Veneto di crescere proporzionalmente al suo sforzo produttivo e contributivo».

Detto che le trattative saranno estenuanti (si parla di anni, per intendersi), che a seconda della materia trattata saranno coinvolti di volta in volta esperti diversi e che non si può pensare di scendere a Roma con un esercito di 50 persone, in pullman, da chi sarà composta la delegazione che accompagnerà Zaia nella capitale per strappare allo Stato «nuove e più ampie forme di autonomia»? In una delle tre delibere approvate ieri l’argomento è appena sfiorato, rinviato a «un successivo provvedimento del Presidente». Ma alcuni nomi già circolano a Palazzo Balbi. A cominciare da quelli, certi, di due noti costituzionalisti dell’università di Padova: Luca Antonini e Mario Bertolissi. Con loro, a comporre il board tecnico che già da un anno sta affiancando Zaia nella partita autonomista, c’è Carlo Buratti, ordinario di Scienze delle finanze pure al Bo di Padova. Per l’Anci è probabile che sia chiamata la presidente Maria Rosa Pavanello, per l’Upi lo sarà certamente Achille Variati (entrambi hanno chiesto di essere della partita anche durante la recente assemblea Anci a Vicenza, presente Zaia). Tra i tecnici della Regione è sicuro il coinvolgimento del segretario della Programmazione Ilaria Bramezza e di Maurizio Gasparin, il dirigente che ha costruito dal niente la macchina referendaria e già coordina il gruppo di lavoro di Palazzo Balbi. Da Belluno sale la richiesta di far entrare nella squadra anche il presidente della Provincia dolomitica Roberto Padrin, così da trattare insieme i due dossier autonomistici ma qui si vedrà, Zaia non sembra molto propenso all’idea di mischiare le due partite.

Celebrato il referendum, preso atto del raggiungimento del quorum e della vittoria del Sì, cosa accadrà adesso? Mettendo da parte la nuova, spiazzante ipotesi del Veneto a statuto speciale, che prevederebbe un processo di revisione costituzionale finora mai preso in considerazione (e quindi tutto da elaborare), concentriamoci sull’iter previsto dagli articoli 116, 117 e 119 della Costituzione, che permetterebbe alla Regione di avere «nuove e più ampie forme di autonomia» nell’ambito di un regionalismo differenziato «a geometria variabile», come ammesso dalla Consulta. L’iter - La giunta regionale ha approvato ieri la proposta di legge che costituisce la base della trattativa con lo Stato. Ora inizieranno le consultazioni con le categorie, le parti sociali e tutti gli attori del «Sistema Veneto» chiamati da Zaia ad esprimersi sulle materie di loro competenza e a proporre eventuali modifiche, quindi, entro un paio di settimane, il testo tornerà in giunta per una seconda approvazione e, di lì, approderà in consiglio regionale dove verrà prima assegnato alle commissioni e quindi portato in aula per il via libera definitivo, che Zaia stima possa arrivare «entro fine anno». Una volta licenziata la proposta di legge statale, questa verrà sottoposta al governo e lì inizierà una trattativa che, se davvero sarà condotta su tutte le materie annunciate da Zaia, si annuncia lunga e complicatissima, dovendo non solo declinare in maniera puntuale tutte le competenze oggetto di devoluzione ma anche il relativo personale e, ovviamente, le risorse necessarie a darvi attuazione. Da questo confronto scaturiranno un’intesa tra lo Stato e la Regione e una nuova proposta di legge che dovrà poi essere approvata dalla Camera e dal Senato a maggioranza assoluta dei componenti. Il che, vista la frammentazione annunciata alle prossime elezioni, presupporrà una larghissima condivisione politica, partitica e anche geografica (ci vorrà, insomma, pure il consenso dei parlamentari del Centro-Sud). Dalla scuola alla sanità - La Regione, anziché tentare la devoluzione di un primo, limitato numero di materie, in via sperimentale, ha deciso di chiedere subito tutte quelle previste dalla Costituzione. E dunque, passerebbero sotto la gestione regionale, quanto all’istruzione: finalità, funzioni e organizzazione del sistema educativo; fabbisogno di personale e concorsi; prove Invalsi; alternanza scuola-lavoro; contratti di dirigenti, insegnanti e personale amministrativo; formazione professionale; finanziamento delle scuole paritarie. Ambiente: disciplina degli scarichi e relativi illeciti ambientali; tutela dei beni artistici, storici, archeologici, librari e archivistici; valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; interventi a favore del patrimonio veneto; tutela del paesaggio; gestione della procedura Via; gestione delle risorse ittiche entro le tre miglia dalla costa; riconoscimento delle acque minerali naturali; raccolta e smaltimento dei rifiuti. Giustizia di pace: nomina, decadenza e revoca dei giudici di pace e vigilanza sulla loro attività; istituzione di nuovi uffici (ma si ipotizza anche la creazione di un’autonoma sezione del Tar). Sanità: ogni aspetto relativo all’organizzazione e al governo del sistema sanitario regionale, inclusi i concorsi per i dirigenti e i dipendenti, con responsabilità esclusiva salvo che per le determinazioni dei livelli essenziali di assistenza. Ricerca : programmazione strategica su ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico; distretti industriali; programmazione universitaria; gestione del fondo rotativo per il sostegno alle imprese e del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese; sostegno all’imprenditoria giovanile; accreditamento e vigilanza delle agenzie per le imprese. Governo del territorio : fasce di rispetto, di altezza, di distanza; rapporti tra spazi residenziali, produttivi, commerciali, pubblici, parcheggi; ristrutturazioni; edilizia scolastica; gestione e riduzione del rischio sismico; tutte le strade insistenti sul territorio veneto; beni del demanio marittimo e idrico; demanio marittimo sulla Laguna di Venezia; regionalizzazione della sovrintendenza per i beni culturali. Dalle tasse ai trasporti - Rapporti internazionali e con l’Ue: gestione dei rapporti internazionali e con l’Unione europea; contributo alla formazione degli atti comunitari ed esecuzione degli accordi internazionali. Protezione civile: gestione dei commissari, potere per il presidente di emanare ordinanze anche in deroga alla normativa statale e regionale. Coordinamento della finanza pubblica: potestà di modificare le aliquote e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni; concessione di incentivi, contributi, agevolazioni e sovvenzioni; gestione del fondo di garanzia per le opere pubbliche; regionalizzazione delle operazioni dell’Ismea; devoluzione di una quota del finanziamento statale ad Agea. Commercio estero : promozione e internazionalizzazione delle imprese, istituzione di marchi. Tutela e sicurezza del lavoro: servizi per l’impiego, politiche attive e passive per il lavoro, incentivi al ricollocamento; istituzione del fondo regionale per la cassa integrazione; gestione e controllo dei flussi migratori; tenuta e vigilanza dell’albo delle cooperative. Professioni: norme per le professioni turistiche. Alimentazione: ispettorato della tutela della qualità e repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari; controlli di qualità Agecontrol; attuazione delle norme in materia di agricoltura biologica. Ordinamento sportivo: concorso alle spese delle associazioni sportive; progetti di sviluppo delle discipline e del marketing sportivo; istruzione e formazione; promozione dello sport per i disabili. Porti e aeroporti: nomina del presidente del Porto di Venezia; costituzione di una zona franca all’interno del Porto. Trasporti: regionalizzazione del fondo per il trasporto pubblico locale. Casse di risparmio: ordinamento delle casse di risparmio e delle casse rurali; sostegno al credito regionale; fondo mutualistico per la tutela dei depositanti del credito cooperativo. Ordinamento del credito fondiario e agrario. Coordinamento informatico. Energia: installazione impianti termici sotto i 900 kw; costruzione elettrodotti sopra i 150 kv; stoccaggio gas naturale; costruzione gasdotti e oleodotti; regionalizzazione dell’accisa sul gas rigassificato a Porto Tolle; ricerca idrocarburi; stoccaggio oli minerali; localizzazione inceneritori; divieti di estrazione in Laguna. Previdenza complementare e integrativa: alla Regione va il gettito dell’imposta sostitutiva sui rendimenti dei fondi pensione; istituzione di fondi di previdenza complementare e integrativa; istituzione del fondo per il sostegno delle responsabilità familiari. Le risorse - La Regione pensa di finanziarie queste competenze trattenendo sul territorio, oltre ai tributi propri (come il bollo auto o le accise sul gas e la benzina), i 9/10 del gettito dell’Irpef, dell’Ires e dell’Iva, comprese le entrate «afferenti all’ambito regionale ma affluite a uffici situati fuori dal Veneto». Il gettito Ires verrebbe quantificato - anche - sulla base dell’incidenza media del tributo sul Pil nazionale, da applicare poi al Pil regionale accertato dall’Istat.

Pag 4 Città e provincia, due mondi. Capoluoghi senza quorum ma i paesi sono la “Zaiastan” di Francesco Chiamulera Vicenza, Alta padovana e Trevigiano roccaforti autonomiste

Venezia Volendo metterla su un piano strettamente geografico, il baricentro del referendum sull’autonomia del Veneto di domenica sta da qualche parte nella campagna tra Vicenza, Treviso e Castelfranco. L’arco della Pedemontana è il vero protagonista della consultazione voluta dal governatore leghista Luca Zaia, pensando a un preciso popolo, il «suo» popolo, quello che scherzando ma non troppo i fedelissimi chiamavano nel 2010, ai tempi della vittoria alle regionali, lo Zaiastan. E per quanto tutti, in queste ore, si affrettino a ripetere che i protagonisti del referendum sono tutti i veneti, alle varie latitudini, certo l’immagine che si compone sulle mappe della regione secondo i diversi tassi di affluenza è un ritratto ben preciso e localizzato. La spina dorsale della partecipazione corre su un asse che dalla montagna veronese attraversa buona parte dell’alta provincia di Vicenza, dell’Alta padovana e della Marca trevigiana. Si è votato ovunque, ma è una costellazione di paesini piccoli, minuscoli, quella in cui la chiamata al voto ha scaldato i cuori in modo più forte. In qualche caso, nomi che bisogna andare a cercarsi su una cartina del Touring Club: comuni da cinquecento, mille, duemila abitanti. E poi, l’ottimo risultato dei centri medi. Come ha spiegato YouTrend, c’è una diretta correlazione tra le dimensioni del comune e l’affluenza: piccolo è bello, hanno detto i veneti nell’urna. «E’ il primo fattore che balza all’occhio», conferma Lorenzo Pregliasco, fondatore e direttore di YouTrend, primo sito italiano di rilevazioni elettorali. «C’è un brusco calo dell’affluenza nei comuni più grandi, diciamo sopra ai 70 mila abitanti. Il divario tra città e campagna è forte, fortissimo». E infatti, la partecipazione tiepida dei grandi centri alla consultazione di ieri è la seconda evidenza restituita dalle mappe elettorali. Il luogo in cui questa discrasia tra città e provincia è più forte è sicuramente Padova, dove nel capoluogo ha votato il 46% degli elettori e nell’insieme della provincia il 59,7%. Ma a parte Vicenza e Belluno - sopra la soglia del 50% - è una dinamica che si verifica ovunque, in Veneto: oltre alla città euganea, anche Verona (45,5), Venezia (44,9) e Rovigo (47,6) mancano il quorum. Quest’ultimo è anche il capoluogo dell’unica provincia veneta in cui il 50% non è stato raggiunto su tutto il territorio: nella bassa ha votato il 49,9%. «Rovigo tradizionalmente è una delle province più rosse del Veneto - commenta Pregliasco guardando la mappa - E’ vicina a Ferrara e all’Emilia, anche psicologicamente. Non è esattamente la più rappresentativa del Veneto». Siamo lontani, in effetti, dai solidi risultati ottenuti dagli autonomisti a Marostica, Campodarsego, Rossano Veneto, Vedelago, tanto per dire: dove al voto è andato il 60, il 65, a volte il 70 per cento degli elettori. Quasi un plebiscito. Nel giorno in cui tutta la voglia di autonomia della provincia del Nordest ha ruggito c’è qualcuno che guardando queste mappe ora parla di trumpismo alla veneta: gli abitanti della provincia pedemontana come gli elettori della Pennsylvania e del Michigan che quasi un anno fa hanno sorpreso i sondaggisti. Volendo restare un po’ più in casa nostra, YouTrend vede invece un nesso con il referendum renziano sulla riforma costituzionale. «E’ presto per poter scomporre su base sociologica questo voto. Ma qualche indizio ce lo fornisce proprio il referendum del 2016. Allora si verificarono fattori generazionali (tra i giovani era stato più alto il no), e anche, soprattutto, una questione di marginalità sociale, di sentimento di esclusione. Anche in questo caso, può essere che la spiegazione della diversità nelle mappe di voto risieda proprio nel carattere delle grandi città. Che hanno uno stile di vita differente, meno legami con le strutture locali, e mediamente molto più movimento di popolazione, rispetto alla provincia. Che resta legata a dinamiche assai più territoriali». Guardando la mappa della partecipazione c’è un’altra area un po’ più tenue, oltre a Rovigo: è la provincia di Belluno. Ma qui il caso è probabilmente diverso: il risicato 51,4% con cui gli elettori hanno fatto passare il doppio referendum su autonomia veneta e bellunese è figlio, ricorda qualcuno, della crisi demografica della provincia dolomitica, con i suoi tanti emigranti residenti all’estero. Ugualmente tiepido si è mostrato, domenica, il voto dei comuni veneti «di confine», quelli che hanno cercato il passaggio di regione: a Sappada (46,2%), Livinallongo (27,9%), Lamon (36,2%) nel Bellunese, e a Cinto, nel Veneziano (46,8%) non si è raggiunto il quorum. E’ andata meglio in altre due aree «secessioniste» come Cortina ed Asiago. Infine, piuttosto clamoroso è il caso di Pieve di Cadore, in provincia di Belluno. Dove a maggio scorso, alle comunali, gli elettori avevano disertato le urne, non riuscendo a eleggere il sindaco (si presentava una sola lista e il quorum era necessario). Ieri, invece, hanno votato in 1896, pari al 53,5%. L’autonomia, evidentemente, è stata più sentita persino dell’autogoverno cittadino.

LA NUOVA Pag 1 Nella Lega equilibri spostati a Est di Fabio Bordignon

Un successo fragoroso. La lunga rincorsa del Veneto verso un referendum sull'autonomia si è conclusa con un salto ben oltre l'asticella del quorum. E non è affatto semplice, di questi tempi, e da qualche tempo, portare a votare oltre il 50% degli elettori: per qualsiasi tipo di elezione. Il che ribadisce, se ce ne fosse stato bisogno, il radicamento e la capacità di mobilitazione della "questione federalista", nell'area del Nord Est. E del partito che maggiormente ha associato il proprio marchio al tema delle autonomie. Ma il risultato di domenica ha anche un volto e un nome ben preciso: sono quelli del governatore Luca Zaia, che con pazienza e realismo ha portato a casa un successo che rilancia le sue quotazioni anche in chiave nazionale. Non a caso, Massimo Cacciari - intervistato ieri dal nostro giornale - ha maliziosamente invitato Luca Zaia a candidarsi come premier. Idea non del tutto inedita, visto che già Berlusconi, mesi fa, aveva auspicato una discesa in campo del governatore. Quello stesso Berlusconi che, nelle ultime settimane, si è mosso come vero leader nazionale della battaglia referendaria, arrivando ad invocare analoghe consultazioni in ogni regione italiana. Del resto, l'ex- Cavaliere non ha perso il fiuto politico, schierandosi per tempo dalla parte dei vincitori. Cogliendo inoltre l'opportunità di creare qualche imbarazzo al segretario leghista. Naturalmente Salvini ha sostenuto da subito l'iniziativa dei governatori. Ma, in un certo senso, l'ha anche subita, visto che la "sua" Lega è impegnata a proiettarsi oltre il Nord, con il problema, non marginale, di doversi smarcare dalla scomoda etichetta di attore anti-meridionale. Per queste ragioni, ieri mattina il segretario ha indetto una conferenza stampa nella quale, con uno sfondo interamente tappezzato di cartelli Salvini Premier, ha brindato al successo delle consultazioni lombardo-venete. Rivolgendo però subito lo sguardo ad altre aree e ad altre sfide: alle richieste di autonomia formulate da altre regioni, e anzitutto alla Sicilia, che attende di vedere applicata la «vera autonomia». Nello stesso incontro, Salvini ha anche negato l'esistenza di fratture interne alla Lega. Ma è indubbio che gli interessi dei governatori leghisti non coincidono del tutto con la prospettiva nazionale del segretario. Mentre nel Nord, dopo il passaggio referendario, gli equilibri si sono nettamente spostati verso Est: verso il Veneto di Luca Zaia, che, pur all'interno di una organizzazione nella quale il potere del "capo" è sostanzialmente assoluto, da oggi dispone, a differenza di Maroni, di una "immunità popolare" che lo rende quasi intoccabile. Anche per questo, Zaia diventa una figura (ancora più) ingombrante, per Salvini: ingombrante come il 23% raccolto alle Regionali del 2015, quando la Lista Zaia ha superato la Lega; ingombrante come quel 57% del 22 ottobre 2017. Sarebbe errato pensare che questo bottino di voti coincida con la base, reale e potenziale, del "partito di Zaia". Come dimostrano i flussi calcolati da Rinaldo Vignati per l'Istituto Cattaneo, anche gli elettori del M5S hanno votato (in massa) per il Sì, nelle principali città venete - a Venezia, Padova, Treviso. Così come una elevata componente - fra il 30 e il 40% - della base del Pd. Allo stesso tempo, è del tutto inverosimile immaginare Zaia abbandonare ora la nave veneta, attesa ad un complicato negoziato con il governo centrale, per lanciarsi in un nuovo salto, in questo caso verso la politica nazionale. Ma sicuramente, il successo di domenica garantirà al governatore un capitale politico che peserà, nella definizione delle candidature leghiste per le prossime elezioni, e nella scelta dei candidati di coalizione nei collegi uninominali. E potrebbe pesare, ancor più, nella delicata fase di instabilità che potrebbe aprirsi all'indomani delle prossime elezioni, nel quale gli equilibri tra e dentro i partiti e le coalizioni, potrebbero modificarsi profondamente.

Pag 4 Feltrin: “Specificità veneta anche per l’alta affluenza” di Sabrina Tomè Il politologo: partecipazione come per le Regionali. “Più elettori a Treviso e Vicenza, i territori più colpiti dal crac delle ex popolari”

Venezia. Il primo dato è l'affluenza, alta. Molto più alta che in Lombardia e tale da determinare una "specificità veneta". Il secondo dato è che la partecipazione è stata forte soprattutto nel Vicentino e Trevigiano, dove la crisi ha colpito duro e dove il crac delle ex Popolari ha fatto il resto. Il terzo dato, in particolare a Verona e Rovigo, è una disparità di comportamento tra città e periferie, con le prime più restie ad andare alle urne e dunque più scettiche rispetto alla parola d'ordine paroni a casa nostra. A fare l'analisi dei flussi elettorali all'indomani della scelta di autonomia del veneti, è il professor Paolo Feltrin, politologo e docente all'Università di Trieste che coordina l'Osservatorio elettorale della Regione Veneto. L'incidenza dell'estero. Innanzitutto una premessa nella lettura dei dati: vanno presi in considerazione i residenti all'estero che, a differenza delle Politiche, per votare dovevano tornare in Italia. Laddove il loro numero è alto, c'è una minore partecipazione al voto. E questo, ricorda il professor Feltrin, riguarda soprattutto la provincia di Belluno. Le città più tiepide. «La partecipazione al voto è stata molto elevata, inevitabilmente ci sono delle differenze tra piccoli e grandi centri», spiega lo studioso, «Nelle città lo scetticismo verso la parola d'ordine "paroni a casa nostra" è nettamente più alta, circa dieci punti percentuali. E questo soprattutto in alcune in aree dove si sente di più l'influsso delle regioni contermini. Il Comune che senz'altro ha votato poco è quello di Verona (45,5%, ndr) che è sempre stato un Giano bifronte in quanto guarda sia al Veneto che alla Lombardia. Rovigo sente invece l'influsso dell'Emilia Romagna». E a Rovigo, dove il quorum non è stato raggiunto neppure in provincia (49,9%), ha pesato anche il "fattore Azzalin": «L'unica vera posizione antagonista alla partecipazione al voto è stata quella del consigliere regionale Pd Graziano Azzalin che ha fatto campagna elettorale molto intensa sul non-voto. Qualcosa si vede nel risultato», rileva il professor Feltrin. A Venezia è andato a votare il 44,9% degli elettori, contro il 53,7% relativo a tutto il territorio provinciale. «Nella provincia veneziana la Lega ha un numero minore di voti», ricorda Feltrin. Forbice molto larga a Padova dove l'affluenza in città è stata del 46% mentre la provincia ha raggiunto il 59,7%. «Anche dove si è votato meno, come nelle città, comunque si è votato di più della Lombardia», sottolinea il professor Feltrin, «La differenza non è così radicale come la differenza Veneto-Lombardia. Differenza che dice come il Veneto è una regione a parte». La specificità veneta. «Qui è andata a votare quasi più gente che alle Regionali», osserva il politologo, «È un fatto curioso perché nel caso delle Regionali si mobilitano centinaia di candidati. Eppure si è ottenuto un risultato più o meno simile, un'affluenza intorno al 57%. È un fatto significativo e si spiega con l'esistenza di una specificità veneta». Una ricostruzione che trova conferma anche nel confronto con la Lombardia: «In tutte le consultazioni referendarie», prosegue lo studioso, «l'affluenza in Veneto è simile a quella della Lombardia, mentre in questo caso è stata di 20 punti superiore. Che poi ciò dipenda da questioni identitarie, da una maggiore preoccupazione per il futuro, dalla paura per la crisi o dalla questione banche venete non si sa: ma non c'è dubbio che esista una specificità veneta distinta dalle rimanenti regioni del Nord». L'effetto banche. Una specificità che emerge dal raffronto con la Lombardia, ma anche da quello con il comportamento degli elettori in occasione del referendum costituzionale dello scorso anno. «Anche in quel caso ha agito una sorta di referendum anti-romano e anti-Renzi», chiarisce ancora il professore, «E può certamente aver agito la manifestazione di un disagio verso le vicende bancarie. Vicenza (con un'affluenza rispettivamente del 52% in città e 62,7% complessivo; del 50,4% in città e 58,1% totale, ndr) e Treviso sono le più colpite dalla crisi della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca e vedono in assoluto la partecipazione più alta del Veneto. Sono le aree dove la Lega è più forte, dove ha battuto di più la crisi e e dove le banche hanno fatto i maggiori disastri».

Pag 8 Turismo, trasporti, sanità: l’ira in laguna di Alberto Vitucci Nella città d’acqua due elettori su tre hanno disertato le urne. L’antica conflittualità del capoluogo con il potere regionale

Venezia. Venezia lontana dal Veneto. Un voto in controtendenza quello registrato nella città capoluogo. Dove il quorum non è stato raggiunto in nessuna Municipalità, dalla terraferma alle isole. Con una punta minima registrata nella città d'acqua, a Venezia, Murano e Burano. Dove i votanti hanno toccato il minimo del 35,99 per cento: 22 punti percentuali in meno della media regionale, quasi la metà di quelli registrati a Vicenza. E questo nonostante l'impegno del sindaco Luigi Brugnaro, le aperture del patriarca Francesco Moraglia, lo schieramento del centrodestra e di una parte del Pd, degli Industriali e della Lega. Fosse stato per Venezia, il referendum sull'autonomia proposto dalla Regione sarebbe stato annullato. Perché due cittadini su tre non si sono presentati ai seggi. Disinteresse, ma anche protesta e dissenso. Di chi, come l'ex sindaco Massimo Cacciari, ha definito la consultazione «una mossa elettoralistica di Zaia, che nulla ha a che vedere con i sacrosanti temi dell'autonomia e del federalismo». Quali i motivi di questo voto «controcorrente?». Le analisi si sprecano, e non tutte concordano. Ma come ha ricordato l'ex vicesindaco, oggi deputato di Mdp Michele Mognato, ci sono ragioni legate alla politica regionale degli ultimi anni. Che spesso ha penalizzato Venezia. Un «nuovo centralismo» che per i veneziani non fa rima con autonomia. Legge sul turismo. Nel giugno 2013 la regione guidata da Luca Zaia approva la Legge regionale 11 sul Turismo. Fissa nuovi criteri sullo «sviluppo e la sostenibilità del turismo nel Veneto», con la possibilità di cambi d'uso. Norme che in tanti ritengono corresponsabili dell'esplosione di affittacamere e Bed and breakfast. Quello che per il Veneto è «opportunità economica», per la città d'acqua è anche un'accelerazione all'espulsione dei residenti e alla trasformazione della città in Disneyland. Per fermare la valanga adesso occorre modificare quella legge».Mose. La Regione ha avuto un ruolo decisivo nell'appoggiare le idee "centraliste" sulla realizzazione del Mose, grande opera da sei miliardi di euro finita poi al centro dello scandalo e della corruzione. In particolare approvando - contro il parere del Comune - l'avvio dei lavori e bocciando ogni alternativa. La commissione di Salvaguardia, presieduta dall'allora presidente Galan, aveva deciso di piantare i cantieri dei cassoni del Mose sulla spiaggia di Santa Maria del Mare. Disinquinamento. Da sempre le competenze della Regione per la Legge Speciale riguardano il disinquinamento della laguna. Attività che denuncia molti ritardi, in particolare nelle bonifiche di Marghera. In passato molti dei fondi destinati al disinquinamento della laguna sono stati dirottati in altre attività. Come il restauro del seminario e del palazzo patriarcale all'epoca di Scola. I trasporti. Da anni il Comune di Venezia protesta per i tagli ai trasporti. I fondi regionali non bastano per garantire in laguna un servizio adeguato alla peculiarità della città d'acqua e del le isole. Sanità. Altro braccio di ferro che dura da anni tra Comune di Venezia e la Regione è quello sulla sanità. Anche qui i tagli delle risorse spesso non riconoscono la specificità del territorio veneziano, parificato ad altre province. I grandi progetti del nuovo ospedale di Mestre realizzato in project financing ricadono sui bilanci dell'Asl. Sempre in tema di sanità la Regione ha rinunciato all'Asl unica, accorpando nella nuova Asl 3 anche Dolo e Mirano oltre a Chioggia. E riducendo le risorse per il 2017 di 30 milioni. Taxi e gondole. Dalle leggi regionali (a cominciare dalla 63 del 1993) dipende la regolamentazione del trasporto pubblico non di linea in laguna. Gondole esentate dall'obbligo di ricevuta, licenze taxi contingentate e raddoppiate, con il noleggio e il taxi compresi nella stessa autorizzazione. Città metropolitana. A tre anni dall'avvio della Città metropolitana, che ha sostituito le Province, dalla Regione non sono ancora state trasferite a Venezia le deleghe, a cominciare da quella urbanistica. Referendum Venezia-Mestre. Secondo gli autonomisti una delle cause del flop a Venezia del referendum di Zaia è che «gli elettori residenti nel Capoluogo sono stati privati del loro diritto a esprimersi sul quesito della autonomia amministrativa di Venezia e del ripristino del Comune di Mestre, la cui meritevolezza il Consiglio Regionale aveva deliberato a febbraio 2016 dopo 9.000 firme di veneziani».

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 28 Donna morta di tumore, la parrocchia “adotta” i figli di Mitia Chiarin Dopo le offerte raccolte durante i funerali è stato aperto un conto corrente per i quattro ragazzi di Caterina Salin. “Soldi destinati ad aiutarli nei loro studi”

Mestre. Un conto corrente per aiutare nei loro studi i figli di Caterina Salin, la donna di 49 anni di Mestre morta di tumore e che ha lasciato da soli i quattro figli il più grande di 21 anni e la più piccola di sette. La parrocchia di Carpenedo e don Gianni Antoniazzi hanno deciso di impegnarsi direttamente nell'aiuto a questa sfortunata famiglia di ragazzi rimasti orfani. Don Gianni l'aveva detto anche all'omelia per i funerali, sabato. «La comunità deve stringersi come una famiglia unita, provata dal dolore ma forte, per restare in piedi sulle gambe» aveva sottolineato il sacerdote «E Carpenedo si è sempre dimostrato gruppo strepitoso, capace di un sostegno vicendevole». Una mobilitazione confermata anche in queste ore. Caterina Salin lavorava all'Autorità portuale di Venezia ed era la vedova di Pierpaolo Favaretto, urbanista e ricercatore del Coses, impegnato da sempre nel volontariato cattolico e con una spiccata sensibilità ambientalista. Il marito era morto nel novembre del 2011 a 48 anni, vittima di un tumore. Sabato scorso si sono celebrati nella parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio i funerali di Caterina con la chiesa piena di amici, parenti, colleghi di Caterina. E già a fine del rito funebre è partita la raccolta fondi per aiutare ora i quattro figli che rimangono con i nonni. Poi la decisione di aprire un conto corrente, dedicato ai figli di Caterina e intestato alla parrocchia. Il tam tam coinvolge quanti hanno imparato negli anni a conoscere e stimare Caterina e il marito Pierpaolo. «Chi desidera esprimere la vicinanza ai fratelli Favaretto», si legge in un foglio distribuito dal consiglio parrocchiale e dalla comunità cristiana di Carpenedo, «può fare riferimento al nuovo conto corrente esclusivamente dedicato ai figli di Caterina». Il codice Iban da utilizzare per i contributi ai quattro ragazzi Favaretto è il seguente: IT 42 P 05034 02072 000000000933. La causale da indicare è "Fam. Favaretto P.C.C.M". I parenti in queste ore stanno cercando di stare il più possibile vicini ai quattro figli e ai nonni che si stanno prendendo cura di loro nella casa di famiglia di Martellago. Caterina e i figli, dopo la morte del marito, erano tornati a vivere in via Trezzo a Carpenedo ma recentemente la donna aveva acquistato una abitazione in via Ca' Rossa dove è in corso una ristrutturazione. I ragazzi molto probabilmente presto andranno qui a vivere assieme ai nonni, tutti assieme.

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Nessuno sia rifiutato o privato della dignità In un videomessaggio ai giovani canadesi il Pontefice esorta a non innalzare muri

Pubblichiamo la trascrizione del videomessaggio - andato in onda in Canada nella sera di domenica 22 ottobre - con cui Papa Francesco è intervenuto alla trasmissione dedicata al sinodo dei giovani dal canale televisivo «Salt and Light». Al programma di novanta minuti, e registrato a Toronto il giorno 10, erano presenti in studio il cardinale Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, il sacerdote Thomas Rosica, direttore fondatore del network, e i giovani leader del movimento legato a «Salt and Light», Emilie Callan e Julian Paparella.

Cari giovani amici canadesi! Sono contento di stare un po’ con voi, partecipando al vostro dialogo che vi vede protagonisti dall’Atlantico al Pacifico. Sono le meraviglie della tecnologia che, se sfruttate positivamente, offrono occasione di incontro e di scambio impensabile fino a poco tempo fa. Questo ci conferma che quando le persone lavorano insieme cercando il bene gli uni degli altri, il mondo si rivela in tutta la sua bellezza. Allora vi chiedo di non lasciarlo rovinare da chi pensa solo a sfruttarlo e a distruggerlo, senza scrupoli. Vi invito a inondare i luoghi in cui vivete con la gioia e l’entusiasmo tipici della vostra età, a irrigare il mondo e la storia con la gioia che viene dal Vangelo, dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che vi ha affascinato e vi ha attirato a stare con Lui. Non lasciatevi rubare la vostra giovinezza. Non permettete a nessuno di frenare e oscurare la luce che Cristo mette nel volto e nel cuore. Siate tessitori di relazioni improntate alla fiducia, alla condivisione, all’apertura fino ai confini del mondo. Non innalzate muri di divisione, non innalzate muri di divisione! Costruite ponti, come questo straordinario che state idealmente attraversando e che mette in comunicazione le sponde di due oceani. State vivendo un momento di intensa preparazione al prossimo Sinodo - il Sinodo dei Vescovi - che vi riguarda in modo particolare, come coinvolge la comunità cristiana. Infatti, il tema è: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». «Desidero anche ricordarvi le parole di Gesù, quelle che disse un giorno ai discepoli che gli chiedevano: “Rabbi, dove dimori?”. E Gesù rispose: “Venite e vedrete” (Gv 1, 38-39). Anche a voi Gesù rivolge il suo sguardo e vi invita ad andare presso di Lui. Carissimi giovani, avete incontrato questo sguardo? Avete udito questa voce? Avete sentito quell’impulso a mettervi in cammino? Sono sicuro che, sebbene il frastuono e lo stordimento sembrino regnare del mondo, questa chiamata continua a risuonare nel vostro animo per aprirlo alla gioia piena. Ciò sarà possibile nella misura in cui anche attraverso l’accompagnamento di guide esperte saprete intraprendere un itinerario di discernimento per scoprire il progetto di Dio sulla vostra vita, sulla tua, la tua, la tua..., sulla vita di ognuno di voi. Pure quando il vostro cammino è segnato dalla precarietà e dalla caduta, Dio, ricco di misericordia, tende la sua mano per rialzarvi». Queste parole, le scrivevo nella lettera che ho inviato a tutti i giovani del mondo il 13 gennaio di quest’anno, proprio per presentare il tema del Sinodo. Il mondo, la Chiesa hanno bisogno di giovani coraggiosi, che non si spaventino di fronte alle difficoltà, che affrontino le prove, tengano gli occhi e il cuore bene aperti sulla realtà, perché nessuno venga rifiutato, sia vittima di ingiustizie, di violenze, venga privato della dignità di persona umana. Sono certo che il vostro cuore giovane non rimarrà chiuso al grido di aiuto di tanti vostri coetanei che cercano libertà, lavoro, studio, possibilità di dare un senso alla propria vita. Conto sulla vostra disponibilità, sul vostro impegno, sulla vostra capacità di affrontare sfide importanti e di osare il futuro, per compiere passi decisivi sulla via del cambiamento. Giovani, lasciatevi raggiungere da Cristo. Lasciate che vi parli, vi abbracci, vi consoli, guarisca le vostre ferite, dissolva i vostri dubbi e paure e sarete pronti per l’affascinante avventura della vita, dono prezioso e impagabile che Dio pone ogni giorno nelle vostre mani. Andate incontro a Gesù, state con Lui nella preghiera, affidatevi a Lui, consegnate tutta la vostra esistenza al suo amore misericordioso e alla vostra fede, e questa vostra fede sarà testimonianza luminosa di generosità e gioia di seguirlo, ovunque vi condurrà. Cari giovani del Canada, vi auguro di vivere un incontro come quello dei primi discepoli, perché si spalanchi davanti a voi la bellezza di una vita realizzata nel seguire il Signore. Per questo «vi affido a Maria di Nazareth, una giovane come voi, a cui Dio ha rivolto il suo sguardo amorevole, perché vi prenda per mano. Lasciatevi prendere per mano da Maria, e vi guidi alla gioia di un “Eccomi” pieno e generoso» (Lettera ai giovani, 13 gennaio 2017). Gesù ti guarda e aspetta da te un “Eccomi”. Vi benedico, vi abbraccio e vi saluto con affetto mentre vi chiedo, per favore, di pregare per me, perché io sia un fedele collaboratore delle vostra gioia (cfr. 2 Cor 1, 24). Grazie.

Colpo d’ala All’Angelus il Pontefice commenta la risposta di Gesù sulla questione del tributo da pagare a Cesare

«Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà umane e sociali senza contrapporre “Dio” e “Cesare”»; infatti «contrapporre Dio e Cesare sarebbe un atteggiamento fondamentalista». È questa la lezione che Papa Francesco ha tratto dalla risposta di Gesù sulla questione del tributo da pagare all’imperatore contenuta nel passo evangelico di Matteo (22, 15-21) commentato all’Angelus di domenica 22 ottobre con i fedeli in piazza San Pietro.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo di questa domenica (Mt 22, 15-21) ci presenta un nuovo faccia a faccia tra Gesù e i suoi oppositori. Il tema affrontato è quello del tributo a Cesare: una questione “spinosa”, circa la liceità o meno di pagare la tassa all’imperatore di Roma, al quale era assoggettata la Palestina al tempo di Gesù. Le posizioni erano diverse. Pertanto, la domanda rivoltagli dai farisei: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (v. 17) costituisce una trappola per il Maestro. Infatti, a seconda di come avesse risposto, sarebbe stato accusabile di stare o pro o contro Roma. Ma Gesù, anche in questo caso, risponde con calma e approfitta della domanda maliziosa per dare un insegnamento importante, elevandosi al di sopra della polemica e degli opposti schieramenti. Dice ai farisei: «Mostratemi la moneta del tributo». Essi gli presentano un denaro, e Gesù, osservando la moneta, domanda: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». I farisei non possono che rispondere: «Di Cesare». Allora Gesù conclude: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (cfr. vv. 19-21). Da una parte, intimando di restituire all’imperatore ciò che gli appartiene, Gesù dichiara che pagare la tassa non è un atto di idolatria, ma un atto dovuto all’autorità terrena; dall’altra - ed è qui che Gesù dà il “colpo d’ala” - richiamando il primato di Dio, chiede di rendergli quello che gli spetta in quanto Signore della vita dell’uomo e della storia. Il riferimento all’immagine di Cesare, incisa nella moneta, dice che è giusto sentirsi a pieno titolo - con diritti e doveri - cittadini dello Stato; ma simbolicamente fa pensare all’altra immagine che è impressa in ogni uomo: l’immagine di Dio. Egli è il Signore di tutto, e noi, che siamo stati creati “a sua immagine” apparteniamo anzitutto a Lui. Gesù ricava, dalla domanda postagli dai farisei, un interrogativo più radicale e vitale per ognuno di noi, un interrogativo che noi possiamo farci: a chi appartengo? Alla famiglia, alla città, agli amici, alla scuola, al lavoro, alla politica, allo Stato? Sì, certo. Ma prima di tutto - ci ricorda Gesù - tu appartieni a Dio. Questa è l’appartenenza fondamentale. È Lui che ti ha dato tutto quello che sei e che hai. E dunque la nostra vita, giorno per giorno, possiamo e dobbiamo viverla nel ri- conoscimento di questa nostra appartenenza fondamentale e nella ri-conoscenza del cuore verso il nostro Padre, che crea ognuno di noi singolarmente, irripetibile, ma sempre secondo l’immagine del suo Figlio amato, Gesù. È un mistero stupendo. Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà umane e sociali senza contrapporre “Dio” e “Cesare”; contrapporre Dio e Cesare sarebbe un atteggiamento fondamentalista. Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle ma illuminando le realtà terrene, ma illuminandole con la luce che viene da Dio. L’affidamento prioritario a Dio e la speranza in Lui non comportano una fuga dalla realtà, ma anzi un rendere operosamente a Dio quello che gli appartiene. È per questo che il credente guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere la vita terrena in pienezza, e rispondere con coraggio alle sue sfide. La Vergine Maria ci aiuti a vivere sempre in conformità all’immagine di Dio che portiamo in noi, dentro, dando anche il nostro contributo alla costruzione della città terrena.

Al termine della preghiera mariana il Pontefice ha ricordato la beatificazione di 109 martiri della guerra civile spagnola e i «cristiani che anche ai nostri giorni subiscono discriminazioni e persecuzioni». Quindi ha chiesto ai trentacinquemila fedeli presenti di pregare per la pace nel mondo, in particolare per il Kenya.

Cari fratelli e sorelle, ieri, a Barcellona, sono stati beatificati Matteo Casals, Teofilo Casajús, Fernando Saperas e 106 compagni martiri, appartenenti alla Congregazione religiosa dei Claretiani e uccisi in odio alla fede durante la guerra civile spagnola. Il loro eroico esempio e la loro intercessione sostengano i cristiani che anche ai nostri giorni - e tanti -, in diverse parti del mondo, subiscono discriminazioni e persecuzioni. Oggi si celebra la Giornata Missionaria Mondiale, sul tema «La missione al cuore della Chiesa». Esorto tutti a vivere la gioia della missione testimoniando il Vangelo negli ambienti in cui ciascuno vive e opera. Al tempo stesso, siamo chiamati a sostenere con l’affetto, l’aiuto concreto e la preghiera i missionari partiti per annunciare Cristo a quanti ancora non lo conoscono. Ricordo anche che è mia intenzione promuovere un Mese Missionario Straordinario nell’ottobre 2019, al fine di alimentare l’ardore dell’attività evangelizzatrice della Chiesa ad gentes. Nel giorno in cui ricorre la memoria liturgica di San Giovanni Paolo II, Papa missionario, affidiamo alla sua intercessione la missione della Chiesa nel mondo. Vi chiedo di unirvi alla mia preghiera per la pace nel mondo. In questi giorni seguo con particolare attenzione il Kenya, che ho visitato nel 2015, e per il quale prego affinché tutto il Paese sappia affrontare le attuali difficoltà in un clima di dialogo costruttivo, avendo a cuore la ricerca del bene comune. E ora saluto tutti voi, pellegrini provenienti dall’Italia e da vari Paesi. In particolare, i fedeli del Lussemburgo e quelli di Ibiza, il Movimento Famiglia del Cuore Immacolato di Maria del Brasile, le Suore della Santissima Madre Addolorata. Saluto e benedico con affetto la comunità peruviana di Roma, qui radunata con la sacra Immagine del Señor de los Milagros. Saluto i gruppi di fedeli di tante parrocchie italiane, e li incoraggio a proseguire con gioia il loro cammino di fede. E a tutti auguro una buona domenica. E Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Un mese missionario straordinario Indetto per l’ottobre 2019 nel centenario della «Maximum illud» di Benedetto XV

«Un mese missionario straordinario nell’ottobre 2019», nel centenario della lettera apostolica «Maximum illud» di Benedetto XV, è stato indetto da Papa Francesco «al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio ad gentes e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria della vita e della pastorale». Il Pontefice lo ha reso noto domenica 22 ottobre, XXIX del tempo ordinario, memoria di san Giovanni Paolo II, giornata missionaria mondiale, in una lettera inviata al cardinale prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.

Al Venerato Fratello Cardinale Fernando FILONI Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Il 30 novembre 2019 ricorrerà il centenario dalla promulgazione della Lettera apostolica Maximum illud, con la quale Benedetto XV desiderò dare nuovo slancio alla responsabilità missionaria di annunciare il Vangelo. Era il 1919: al termine di un tremendo conflitto mondiale, che egli stesso definì «inutile strage»1, il Papa avvertì la necessità di riqualificare evangelicamente la missione nel mondo, perché fosse purificata da qualsiasi incrostazione coloniale e si tenesse lontana da quelle mire nazionalistiche ed espansionistiche che tanti disastri avevano causato. «La Chiesa di Dio è universale, per nulla straniera presso nessun popolo»,2 scrisse, esortando anche a rifiutare qualsiasi forma di interesse, in quanto solo l’annuncio e la carità del Signore Gesù, diffusi con la santità della vita e con le buone opere, sono la ragione della missione. Benedetto XV diede così speciale impulso alla missio ad gentes, adoperandosi, con lo strumentario concettuale e comunicativo in uso all’epoca, per risvegliare, in particolare presso il clero, la consapevolezza del dovere missionario. Esso risponde al perenne invito di Gesù: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15). Aderire a questo comando del Signore non è un’opzione per la Chiesa: è suo «compito imprescindibile», come ha ricordato il Concilio Vaticano II,3 in quanto la Chiesa «è per sua natura missionaria».4 «Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare».5 Per corrispondere a tale identità e proclamare Gesù crocifisso e risorto per tutti, il Salvatore vivente, la Misericordia che salva, «è necessario - afferma ancora il Concilio - che la Chiesa, sempre sotto l’influsso dello Spirito di Cristo, segua la stessa strada seguita da questi, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso»,6 cosicché comunichi realmente il Signore, «modello dell’umanità nuova, cioè di quell’umanità permeata di amore fraterno, di sincerità, di spirito di pace, che tutti vivamente desiderano».7 Quanto stava a cuore a Benedetto XV quasi cent’anni fa e quanto il Documento conciliare ci ricorda da più di cinquant’anni permane pienamente attuale. Oggi come allora «la Chiesa, che da Cristo è stata inviata a rivelare e a comunicare la carità di Dio a tutti gli uomini e a tutti i popoli, comprende che le resta ancora da svolgere un’opera missionaria ingente».8 A questo proposito, san Giovanni Paolo II ha osservato che «la missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento» e che «uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio».9 Perciò egli, con parole che vorrei ora riproporre all’attenzione di tutti, ha esortato la Chiesa a un «rinnovato impegno missionario», nella convinzione che la missione «rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale».10 Nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, raccogliendo i frutti della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata per riflettere sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, ho desiderato ripresentare a tutta la Chiesa tale urgente vocazione: «Giovanni Paolo II ci ha invitato a riconoscere che “bisogna [...] non perdere la tensione per l’annunzio” a coloro che stanno lontani da Cristo, “perché questo è il compito primo della Chiesa”. L’attività missionaria “rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa” e “la causa missionaria deve essere la prima”. Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa».11 Quanto intendevo esprimere mi pare ancora una volta improrogabile: «Ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una “semplice amministrazione”. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un “stato permanente di missione”».12 Non temiamo di intraprendere, con fiducia in Dio e tanto coraggio, «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di uscita e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”».13 La Lettera apostolica Maximum illud aveva esortato, con spirito profetico e franchezza evangelica, a uscire dai confini delle nazioni, per testimoniare la volontà salvifica di Dio attraverso la missione universale della Chiesa. L’approssimarsi del suo centenario sia di stimolo a superare la tentazione ricorrente che si nasconde dietro ad ogni introversione ecclesiale, ad ogni chiusura autoreferenziale nei propri confini sicuri, ad ogni forma di pessimismo pastorale, ad ogni sterile nostalgia del passato, per aprirci invece alla novità gioiosa del Vangelo. Anche in questi nostri tempi, dilaniati dalle tragedie della guerra e insidiati dalla triste volontà di accentuare le differenze e fomentare gli scontri, la Buona Notizia che in Gesù il perdono vince il peccato, la vita sconfigge la morte e l’amore vince il timore sia portata a tutti con rinnovato ardore e infonda fiducia e speranza. È con questi sentimenti che, accogliendo la proposta della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, indico un Mese missionario straordinario nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio ad gentes e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca l’amore per la missione, che «è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo».14 A Lei, venerato Fratello, al Dicastero che presiede e alle Pontificie Opere Missionarie affido il compito di avviare la preparazione di questo avvenimento, in particolare attraverso un’ampia sensibilizzazione delle Chiese particolari, degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, così come delle associazioni, dei movimenti, delle comunità e delle altre realtà ecclesiali. Il Mese missionario straordinario sia occasione di grazia intensa e feconda per promuovere iniziative e intensificare in modo particolare la preghiera - anima di ogni missione - l’annuncio del Vangelo, la riflessione biblica e teologica sulla missione, le opere di carità cristiana e le azioni concrete di collaborazione e di solidarietà tra le Chiese, così che si risvegli e mai ci venga sottratto l’entusiasmo missionario.15

Dal Vaticano, 22 ottobre 2017 XXIX Domenica del Tempo Ordinario Memoria di san Giovanni Paolo II Giornata Missionaria Mondiale

1 Lettera ai capi dei popoli belligeranti, 1 agosto 1917: AAS IX (1917), 421-423. 2 Benedetto XV, Lett. ap. Maximum illud, 30 novembre 1919: AAS 11 (1919), 445. 3 Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes, 7 dicembre 1965, 7: AAS 58 (1966), 955. 4 Ibid., 2: AAS 58 (1966), 948. 5 Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, 14: AAS 68 (1976), 13. 6 Decr. Ad gentes, 5: AAS 58 (1966), 952. 7 Ibid., 8: AAS 58 (1966), 956-957. 8 Ibid., 10: AAS 58 (1966), 959. 9 Lett. enc. Redemptoris missio, 7 dicembre 1990, 1: AAS 83 (1991), 249. 10 Ibid., 2: AAS 83 (1991), 250-251. 11 N. 15: AAS 105 (2013), 1026. 12 Ibid., 25: AAS 105 (2013), 1030. 13 Ibid., 27: AAS 105 (2013), 1031. 14 Ibid., 268: AAS 105 (2013), 1128. 15 Ibid., 80: AAS 105 (2013), 1053.

AVVENIRE Pag 17 Francesco: un mese speciale per risvegliare la missionarietà di Andrea Galli Sarà l’ottobre 2019. L’annuncio in una lettera a Filoni

Non sono certo pochi i cattolici nel mondo, quasi un miliardo e 300 milioni. Tra l’altro in leggera crescita: a fine 2015, rispetto all’anno precedente, sono aumentati di 12 milioni di unità, come se si fosse aggiunto un Paese di media grandezza dell’Unione Europea. Però la prospettiva cambia se si considera il contesto: i cattolici sono solo il 17,7% della popolazione globale, nemmeno un quinto. Un dato che da solo basta a far capire il perché l’impegno missionario resti un’urgenza per la Chiesa, di fronte alla quale risuonano le parole perenni del Signore: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». E un dato che aiuta a capire anche perché il Papa ieri abbia annunciato un «Mese missionario straordinario nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio ad gentes e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria della vita e della pastorale». L’iniziativa era già stata anticipata nei mesi scorsi, ma ieri Bergoglio ne ha esplicitato contenuto e motivazioni in una lettera indirizzata al cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Lo spunto è un anniversario, i 100 anni della Lettera apostolica Maximum illud, con cui Benedetto XV, nel 1919, a prima Guerra mondiale appena terminata, «avvertì la necessità di riqualificare evangelicamente la missione nel mondo, perché fosse purificata da qualsiasi incrostazione coloniale e si tenesse lontana da quelle mire nazionalistiche ed espansionistiche che tanti disastri avevano causato». La presenza missionaria in tanti Paesi, per esempio in Cina, veniva infatti ancora percepita come presenza straniera al servizio di interessi nazionali. Bergoglio sottolinea che aderire al comando evangelizzatore del Signore «non è un’opzione per la Chiesa: è suo “compito imprescindibile”, come ha ricordato il Concilio Vaticano II, in quanto la Chiesa “è per sua natura missionaria” ». Nel decreto conciliare Ad Gentes si legge infatti che «evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare». Francesco cita l’enciclica di san Giovanni Paolo II Redemptoris missio, altra potente sollecitazione «a un rinnovato impegno missionario», poi la sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, dove l’attuale Pontefice scrive che l’attività missionaria «rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa» e «la causa missionaria deve essere la prima». Il mese straordinario, l’ottobre 2019, spiega Francesco, è stato pensato «affinché tutti i fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca l’amore per la missione». «A lei, venerato fratello, al dicastero che presiede e alle Pontificie Opere Missionarie – conclude il Papa rivolto a Filoni, con alcune indicazioni “operative” – affido il compito di avviare la preparazione di questo avvenimento, in particolare attraverso un’ampia sensibilizzazione delle Chiese particolari, degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, così come delle associazioni, dei movimenti, delle comunità e delle altre realtà ecclesiali. Il Mese missionario straordinario sia occasione di grazia intensa e feconda per promuovere iniziative e intensificare in modo particolare la preghiera – anima di ogni missione – l’annuncio del Vangelo, la riflessione biblica e teologica sulla missione, le opere di carità cristiana e le azioni concrete di collaborazione e di solidarietà tra le Chiese, così che si risvegli e mai ci venga sottratto l’entusiasmo missionario».

Pag 17 Traduzione dei testi liturgici, il Pontefice corregge Sarah di Riccardo Maccioni

Un chiarimento. Il desiderio di sgombrare il campo da possibili equivoci. La Sala Stampa vaticana ha diffuso il messaggio inviato dal Papa al cardinale Robert Sarah in cui Francesco corregge un’interpretazione data dal prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti al recente Motu proprio Magnum Principium pubblicato lo scorso settembre. Come noto, si tratta del documento in cui Francesco interviene sul tema delle traduzioni dei testi liturgici e biblici. Un testo in cui il Pontefice estende, per così dire, le prerogative e le competenze affidate alle Conferenze episcopali nazionali. In particolare il Motu proprio, richiamandosi al Concilio Vaticano II, sottolinea che la traduzioni, approvate dai vescovi, dall’episcopato del Paese, non debbano più essere sottoposte alla revisione da parte della Sede apostolica (recognitio) ma alla sua conferma (confirmatio). E proprio sulla «netta differenza» tra recognitio e confirmatio verte la lettera autografa del Papa a Sarah. Non si tratta infatti – sottolinea Bergoglio – di «sinonimi » o parole «intercambiali». Più nel dettaglio, a proposito della responsabilità di una traduzione fedele delle Conferenze episcopali «occorre precisare che il giudizio circa la fedeltà al latino e le eventuali correzioni necessarie », era in precedenza «compito del dicastero » guidato da Sarah, «mentre ora la norma concede alle Conferenze episcopali la facoltà di giudicare la bontà e la coerenza dell’uno e dell’altro termine nelle traduzioni dall’originale, se pure in dialogo con la Santa Sede». La confirmatio, continua il Papa – «non suppone più dunque un esame dettagliato parola per parola, eccetto nei casi evidenti che possono essere fatti presenti ai vescovi per una loro ulteriore riflessione». E questo «vale in particolare per le formule rilevanti, come per le Preghiere eucaristiche e in particolare le formule sacramentali approvate dal Santo Padre». Quanto alla recognitio invece – aggiunte Francesco – essa «indica soltanto la verifica e la salvaguardia della conformità al diritto e alla comunione della Chiesa». Ecco perché «il processo di tradurre i testi liturgici rilevanti (ad es. formule sacramentali, il Credo, il Pater noster) in una lingua – dalla quale vengono considerati traduzioni autentiche –, non dovrebbe portare ad uno spirito di “imposizione” alle Conferenze episcopali di una data traduzione fatta dal dicastero, poiché ciò lederebbe il diritto dei vescovi». Detto in altro modo appare allora «inesatto attribuire alla confirmatio la finalità della recognitio (ossia “verificare e salvaguardare la conformità al diritto”)». Ma la lettera contiene anche un’altra sollecitazione. Nei giorni scorsi infatti alcuni siti Internet avevano pubblicato un commento al Motu proprio di tipo restrittivo nel senso di maggiori prerogative alla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. O, meglio, nella nota Commentaire cui il Papa fa riferimento si sosteneva che di fatto il documento papale «non modificava in alcun modo la responsabilità del dicastero vaticano, né di conseguenza le sue competenze in merito alle traduzioni liturgiche», che dunque sarebbero rimaste quelle previste dall’istruzione del 7 maggio 2001 Liturgiam authenticam per «la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II. Un’interpretazione che il cardinale Sarah aveva condiviso e inviato al Papa. Ora Francesco chiede al porporato «cortesemente di provvedere alla divulgazione di questa mia risposta sugli stessi siti nonché l’invio della stessa a tutte le Conferenze episcopali, ai membri e ai consultori di codesto dicasteri».

Pag 20 Il Vangelo negli occhi del ragazzo di Luciano Moia

Il ragazzo che nella notte del Getsemani, «lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo» (Mc 14,50-52) ora è un anziano in punto di morte. E non ha mai rivelato a nessuno quello di cui fu testimone. Al congedo dalla vita, con la voce appannata dalla malattia, chiede al figlio di prendergli la mano perché deve trovare il coraggio per raccontare ciò che non ha mai osato. «Figlio, io l’ho conosciuto e l’ho seguito... Quella notte, nell’Orto degli ulivi, quando lo catturarono, ero lì». L’emozione è quella di un romanzo, la precisione narrativa quella di un racconto storico che prende spunto dal testo di Marco per arricchirlo e completarlo, ma senza stravolgerlo. La prospettiva da cui Roberto Contu ripercorre la vita di Gesù è proprio quella dichiarata nel titolo del suo libro, Il Vangelo secondo il ragazzo (Castelvecchi, pagine 188, euro 16,50). Una narrazione cioè che, scorrendo dalla voce di un padre morente a un figlio dapprima sospettoso e indifferente poi sempre più intimamente coinvolto, diventa davvero buona notizia, testamento spirituale, educazione alla fede. L’autore non ci rivela chi è in realtà l’anziano morente che fu un tempo compagno di strada del Nazareno. Il dibattito esegetico non viene in alcun modo sfiorato. Quei due versetti che Marco, in modo inspiegabile, inserisce nel cuore della concitata narrazione del Getsemani, mentre le guardie circondano Cristo e i discepoli fuggono, rimangono carichi di mistero. È lo stesso autore del più antico dei Vangeli ad essersi raffigurato in quel ragazzetto, quasi a dare forza alla sua testimonianza? Lo sostengono non pochi esegeti. Ma c’è anche chi pensa che in realtà Marco rimandi a un altro testimone da lui successivamente ascoltato. Oppure che si tratti soltanto di un’interpretazione simbolica. Il lenzuolo – in greco sindòn – prefigura quello che avvolgerà poi Cristo. Contu lascia sullo sfondo tutte queste letture. Il 'suo' ragazzo è semplicemente un adolescente affascinato, in modo confuso e contraddittorio, dal sapore controcorrente che sembra emanare dai gesti e dalle parole di un uomo strano e forse pericoloso. Ascolta, rimandone turbato, le voci dei suoi vicini: «Dicono che curi gli ammalati e guarisca gli indemoniati. Tutti lo cercano ». Il padre del 'ragazzo', guarda caso anche lui un carpentiere, è invece la voce della saggezza. Invita alla prudenza. Sa che i nazareni sono gente «che non conosce la legge», rozza e ignorante. E invita il figlio a stare lontano da quel gruppo pericoloso guidato da un uomo che passa di villaggio in villaggio sollevando confusione, pronunciando parole spesso incomprensibili, sconvolgendo le coscienze. Ma il ragazzo non riesce a resistere. Va ad ascoltare il Nazareno che 'pretende' di insegnare nella sinagoga di Cafarnao sollevando lo sdegno degli scribi, poi lo segue sulle sponde del lago e sale su un’imbarcazione che segue quella del maestro mentre si scatena la tempesta. Rimane sconvolto, terrorizzato, incredulo ascoltando, pur a notevole distanza, qualche frammento del dialogo tra l’indemoniato di Geraséni e il Nazareno. Poi, di fronte alla fuga disordinata dell’immensa mandria di maiali in cui si sono rifugiati gli spiriti immondi verso la sommità della rupe e alla successiva, apocalittica caduta nel lago, la mente del giovanetto quasi si paralizza. Come fa un ragazzo tredicenne a digerire una scena così sconvolgente e così incomprensibile senza uscirne stordito e confuso? Di episodio in episodio, sulle tracce di Marco, con una scrittura nitida e avvolgente, Contu riesce davvero a mettersi nella prospettiva di un ragazzo che vive le opere di Gesù. Quelle che noi, colpevolmente, si siamo abituati ad ascoltare e riascoltare senza troppa emozione. Ma che effetto producevano quegli episodi su coloro che assistevano 'in diretta', senza possedere gli strumenti per comprenderne la portata e penetrarne il significato? Il cuore del 'ragazzo', in bilico tra paura e attrazione, desiderio di abbandonarsi agli inviti del Nazareno e richiami al dovere rappresentati dal padre e dalla legge, riflette bene turbamenti e dubbi scatenati dal Gesù storico. Una scelta di coscienza tra il giuridicismo della tradizione e il dinamismo del rinnovamento che in realtà ha sempre attraversato la storia della Chiesa e di cui anche noi oggi, all’epoca di Francesco, conosciamo speranze e amarezze.

IL FOGLIO Pag 1 Il Papa ordina il mea culpa pubblico al cardinale Sarah e rende palese la grande battaglia che si combatte la chiesa di Matteo Matzuzzi

Per capire l'aria che tira dalle parti del Vaticano è sufficiente spendere qualche minuto per leggere la lettera che il Papa ha spedito al cardinale Robert Sarah, prefetto della congregazione per il Culto divino. Si tratta di una sfiducia pubblica, che verosimilmente porterà in un lasso di tempo non troppo ampio all'avvicendamento del cardinale guineano, benché diversi osservatori di affari curiali sostengano che l'ipotesi più probabile sia il mancato rinnovo del mandato quinquennale. Un po' come accaduto a luglio al prefetto per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller. I fatti: lo scorso settembre, Francesco aveva promulgato il motu proprio Magnum Principium che affidava alle conferenze episcopali nazionali tutti i poteri circa la traduzione dei testi liturgici. Alla Sede apostolica rimaneva solo la potestà di confermare (confirmatio) le decisioni dei vescovi locali. Abolita la recognitio, cioè l'esame punto per punto del lavoro compiuto lontano da Roma. Sarah, qualche settimana più tardi, aveva inviato al Papa e a diversi siti internet - questo è stato probabilmente l'errore che ha portato alla lettera firmata da Francesco - un suo parere sulla questione, sostenendo che non cambiava granché e che la congregazione per il Culto divino comunque manteneva una voce in capitolo. E' qui che arriva la sconfessione - qualcuno parla di correctio paternalis, facendo il verso alla correctio filialis che denuncia le presunte eresie contenute in Amoris laetitia - bergogliana. Netta e per nulla ambigua: Sarah sbaglia su tutta la linea ed è pregato cortesemente - si legge testualmente - "di provvedere alla divulgazione di questa mia risposta sugli stessi siti nonché l'invio della stessa a tutte le conferenze episcopali, ai membri e ai consultori di codesto dicastero". In pratica, il titolare del Culto deve fare mea culpa pubblico su questioni che attengono al culto e, soprattutto, per aver contraddetto il Papa. Su diversi siti d'area tradizionalista si grida all'autocrazia papale, che non risparmia quanti, siano anche cardinali di curia, non sono allineati alla primavera che circonda San Pietro e Santa Marta. Il Papa però può fare quello che vuole, è libero di avvicendare vescovi e porporati senza dover rendere conto a nessuno. Bergoglio in questo pare più convinto dei suoi predecessori. Non è tanto questione di essere conservatori o progressisti: Francesco cerca esecutori silenziosi e poco appariscenti. Dell' orientamento o della sensibilità del collaboratore non si interessa troppo (al posto di Müller al Sant'Uffizio ha messo Ladaria, che non è certo un seguace di Leonardo Boff e lo stesso Sarah è stato promosso al Culto dal Pontefice regnante). La lettera diffusa domenica dalla sala stampa vaticana rende però ancora una volta palese la spaccatura profonda nella chiesa, con una parte che incoraggia il repulisti di oppositori e legalisti "farisei" e l'altra che per poco non parla addirittura di persecuzione. Cordate, correnti, persino "partiti". Clima da torcida, con tifo spinto su questioni dirimenti, non sul colore delle scarpe papali o sulla qualità del menù di Santa Marta. Famiglia, morale, liturgia. In gioco c'è la rotta da dare alla chiesa, per l'oggi e soprattutto per il domani. Le posizioni, come s'è visto anche dalle opposte petizioni che circolano in queste settimane, sottoscritte anche da vescovi, sono inconciliabili. E l'evangelico ut unum sint (affinché siano una cosa sola) non pare essere la definizione più appropriata per valutare i marosi in cui naviga la barca di Pietro.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 25 La spesa nel Paese degli animali di Davide Illarietti e Giangiacomo Schiavi La società (e la crisi demografica) vista dagli scaffali del supermercato. Meno spazi per biberon e pannolini mentre triplicano quelli per cani e gatti

L’inversione demografica letta attraverso i consumi riflette un nuovo cambiamento: non siamo solo un Paese di vecchi, siamo un Paese di cani e gatti. Se l’anzianità è una tendenza inevitabile, la pet humanisation è un boom inarrestabile. In Italia gli animali che ci fanno compagnia sono 15 milioni, più o meno lo stesso numero dei pensionati con più di 65 anni. Il crollo delle nascite (meno 2,4 per cento nel 2016) ha dato l’ultima spallata, e nei supermercati le grandi catene hanno rimpicciolito gli scaffali destinati all’infanzia: gli spazi dedicati a cani e gatti sono triplicati. Si può dire che la metamorfosi è iniziata qualche anno fa dal pannolino. A quello tradizionale si è aggiunto un modello concorrente, con la fessura per la coda. Poi è toccato ai carrelli della spesa. I primi sono comparsi in una Conad, provincia di Lucca: al posto del seggiolino per bimbi, c’era una comoda gabbietta. Tra il 2015 e il 2016, centinaia di supermercati hanno aperto le corsie ai clienti a quattro zampe. Business is business. Gli «amici cuccioli» pesano ormai più dei cuccioli d’uomo nella bilancia dei consumi. I dati elaborati da Nielsen per il Corriere parlano chiaro: nel 2017 il «pet care» ha portato nelle casse della distribuzione italiana tre volte l’incasso dei prodotti per neonati. Due miliardi e 600 milioni di euro: in aumento (più 3 per cento) rispetto all’anno scorso. Al contrario il comparto infanzia è in ritirata cronica, il calo nelle vendite oscilla tra il 4,4 e il 2,9 per cento (rispettivamente, per prodotti alimentari e baby care). Di questo passo gli italiani arriveranno presto a spendere per i consumi non alimentari dei loro figli (pannolini, salviette, prodotti igienici) meno di quanto sborsano, ogni anno, solo in cibo per cani. Il sorpasso - il conto è facile, e gli operatori lo hanno già fatto - è da prevedere per l’anno prossimo. A suggerire di guardare tra gli scaffali di Esselunga, Coop, Despar e Carrefour è stato un lettore del Corriere. Fateci caso, ha scritto, per capire meglio questa società. Dopo il partito, l’avvocato, il parrucchiere, il ristorante, la spiaggia, il cimitero, l’albergo, il club, la scuola la festa e la tv (Bruno Vespa li ha sdoganati a Porta a Porta ), il supermercato rafforza uno status: cani e gatti fanno parte della famiglia e anche dei consumatori. Con numeri e fatturati che in Italia si associano a una preoccupante denatalità. «Basta un giro in un qualsiasi punto vendita per accorgersene» conferma Massimiliano Dona dell’Unione nazionale consumatori, che nel fenomeno vede «la conseguenza della sovra- diversificazione dell’offerta, come già successo a suo tempo per il super-food da tavola». Dati al metro quadro non ne esistono, ma «è chiaro - continua Dona - che il moltiplicarsi di prodotti funzionali, dalle crocchette bio o vegane ai bocconcini contro le intolleranze, ha prodotto una sproporzione sugli scaffali nei nostri supermercati. Attenti però: dietro può nascondersi una minaccia per il portafogli». Stando a un’indagine Istat, negli ultimi tre anni la spesa media degli italiani alla voce «animali domestici» è aumentata da 49 a 51 euro al mese (gli alimenti per bambini sono calati, da 29 a 27 euro). Dall’area-pet dei supermercati transita abitualmente una famiglia su cinque, mentre ormai meno del 4 per cento si ferma nella zona bimbi. In cima alla lista della spesa, prima di biberon e latte in polvere, viene l’occorrente per il gatto, che si «mangia» da solo oltre un euro ogni quattro spesi dagli italiani in pet-care. Il cane, secondo sul podio, muove un giro d’affari di 517 milioni; seguono roditori, uccelli, pesci e tartarughe (19 milioni in tutto) che pure perdono punti rispetto a creature più esotiche (più 24 per cento in un anno, da 15 a 19 milioni). Le grandi catene mettono le mani avanti: «Nuovi bisogni necessitano di nuovi approcci» enuncia Antonella Cosciotti di Ancc-Coop, che nel 2016 ha lanciato la sua linea di prodotti per animali (quella per neonati risale ormai al lontano 2004). Da allora, conferma Cosciotti, «in particolare i prodotti premium sono cresciuti a doppie cifre». Il fatto che viziamo gli amici a quattro zampe almeno quanto - un tempo - i figli, è un’altra conferma di una sostituzione antropologica? Per Dona, più che altro, «è il segno che siamo vittime, ancora una volta, della comunicazione pubblicitaria. Il mercato si è trasformato in una giungla. Il rischio - conclude il presidente dell’Unione Consumatori - è che i proprietari di questi animali paghino prezzi ingiustificati fino a tre volte tanto, senza reali garanzie di qualità». Comunque suona strano dire «vita da cani»: sta diventando un privilegio.

LA REPUBBLICA Pag 14 Insegna Pasolini e la Bibbia, maestra francese sospeso: “Non sono testi adeguati” di Pietro Del Re L’insegnante è stato multato e trasferito per aver infranto il dovere della neutralità

Parigi. Multato e trasferito per aver fatto studiare ai suoi alunni la Bibbia e per aver proiettato in classe Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. No, non accade in una teocrazia islamista, bensì nella laica e democratica Repubblica francese, dove un maestro elementare è stato accusato dai suoi superiori di aver infranto il suo dovere di neutralità e, peggio ancora, di aver fatto proselitismo. «Sono vittima di un abuso di potere di chi confonde ateismo e laicismo e oggetto di una sanzione feroce quanto umiliante», attacca Matthieu Faucher, 37 anni, laureato in lettere classiche e amante della cultura antica. «La qualità della scrittura così come le straordinarie storie che vi sono narrate fanno dei testi biblici un formidabile soggetto di studio». Questa vicenda che risolleva la delicata questione dell'insegnamento religioso nelle scuole d'Oltralpe ha inizio il 31 gennaio scorso a Malicornay, un paesino di 200 abitanti nell'Indre, 300 chilometri a sud di Parigi, quando Faucher riceve la visita di un ispettore dell'Educazione nazionale. Il giorno prima, alla prefettura locale era stata recapitata una lettera anonima, firmata da un misterioso "comitato di genitori degli alunni", che denunciava il maestro per aver trasgredito i principi della scuola "républicaine". Come prima misura, Faucher è "sospeso" dall'insegnamento per quattro mesi. Nel frattempo, però, altri genitori di alunni di Malicornay, una sessantina per la precisione, scendono in piazza prendendo le sue difese e descrivendolo come un maestro appassionato, che fa fare teatro ai bambini, organizza gite e che oltre alla Bibbia fa studiare Harry Potter e Sherlock Holmes. L'inchiesta va avanti, la sua vita professionale e i suoi metodi pedagogici vengono minuziosamente analizzati, ed è vagliata ogni accusa della lettera anonima. Come quella di aver organizzato dei cori nella chiesa del villaggio. «Ma sono io stesso che gli ho dato le chiavi perché avesse uno spazio più ampio per le attività extra- scolastiche», dice il sindaco, Jean-Paul Ballereau. «E lo sa che cosa cantava con gli alunni? Soprattutto canzoni di Jacques Brel». Gli ispettori scoprono anche che il maestro incriminato si è sposato in comune e che è padre di tre bambini non battezzati. Poco importa: il 29 maggio, la commissione disciplinare che esamina il caso emette il suo verdetto. Faucher è trasferito nella scuola di un altro villaggio, dove l'anno prossimo lavorerà come supplente, perché «i testi di studio sottoposti a dei bambini di 9-10 anni sono inadeguati». Diversi intellettuali, tra i quali Régis Debray, si schierano dalla sua parte nella speranza di ottenere la riapertura del caso. Secondo lo storico René Nouailhat, «quest'inedito episodio negli annali dell'Educazione nazionale illustra bene le tensioni tra la nozione di laicità e l'insegnamento dei fatti religiosi in Francia». Certo, la legge in materia di servizio pubblico è chiara sul rispetto della libertà di coscienza e dei principi di laicità e neutralità. Detto ciò, questi stessi testi possono essere interpretati in modi diversi. È forse giunta l'ora di modificarli, o di entrare più nello specifico per quello che riguarda alcune tematiche, quali appunto la religione? È però difficile non dare ragione al maestro Faucher quando sostiene che gli era sembrato importante spiegare ai suoi alunni perché non bisogna sedersi in tredici a tavola, chi è il signore con la barba su una croce che si vede nelle chiese o per quale ragione a Pasqua non si va a scuola.

AVVENIRE Pag 3 Un bonus per ogni figlio. Perché l’Italia ne ha bisogno di Massimo Calvi Pro e contro dell’assegno ai minorenni. Quali effetti

Mille euro all’anno per ogni figlio minorenne, 80 euro al mese. È la proposta che il segretario del Pd Matteo Renzi ha avanzato nell’intervista ad 'Avvenire' domenica 22 ottobre. Il profilo elettorale dell’idea è palese, ma questo non ne sminuisce il significato. Anzi. In politica tutto è annuncio, ma una volta che le promesse sono sul tavolo incominciano a vivere. Dunque, come prendere questa novità? Cosa significa? È realizzabile? In che modo? Con quali rischi e quali opportunità? Proviamo a capirlo. UN BONUS CHOC - L’ idea di un assegno fisso per ogni figlio non può essere che salutata con favore. Già tre anni fa su queste pagine avevamo sostenuto che il bonus da 80 euro, introdotto nel 2014 dal governo Renzi appena eletto, avrebbe dovuto essere convertito in un assegno universale ai figli minorenni. Perché? Perché i costi sarebbero stati simili, ma l’impatto sociale e culturale decisamente diverso. Il bonus attuale costa circa 9-10 miliardi di euro annui e arriva a 11 milioni di lavoratori dipendenti con reddito tra gli 8 e i 24mila euro (fino a 26mila euro si ricevono frazioni del bonus). È andato a persone con reddito medio-basso, non a poveri e incapienti, ed è stato corrisposto pure a persone che vivono in famiglie benestanti o che non hanno carichi. Anche i minorenni in Italia sono 10 milioni, dunque se si vuole fare un paragone, i costi sarebbero sostanzialmente identici. Con la differenza che per i consumi un bonus-figli dovrebbe avere una resa migliore di quella che è stata registrata con il contributo attuale. IL NODO DELLE RISORSE - I confronti valgono fino a un certo punto. Il leader del Pd ha accettato la sfida di puntare sui figli e le famiglie, e ha lasciato capire che ha in mente un’elargizione aggiuntiva. Dunque la questione diventa: dove trovare le risorse? Renzi ha ipotizzato di introdurre limiti di reddito, così da escludere le famiglie ricchissime e risparmiare. Il problema è che oltre i 60mila euro di reddito lordo, cioè circa 3.000 euro netti al mese, in Italia c’è solo il 3,5% dei contribuenti. È dura da accettare, ma è così. Per spendere molto meno di 10 miliardi bisognerebbe escludere di fatto tutto il ceto medio che paga le tasse. La vera partita politica, insomma, si gioca in Europa, nella direzione che mira a superare il rigore del Fiscal Compact e ottenere maggiori margini di spesa in deficit. È una strada. Il punto critico, per un paese ad alto debito, è l’opportunità di un investimento sulle giovani generazioni trasferendo i costi sul futuro. METTERE ORDINE NELLA GIUNGLA - L’ idea del bonus-figli ha il merito di movimentare finalmente il dibattito politico sui sostegni alle famiglie in Italia. Una scossa salutare. Che se da un lato pone il centrosinistra un passo avanti rispetto al centrodestra, genera qualche necessità di chiarimento all’interno del Pd. Un ulteriore bonus andrebbe a infoltire quella che appare sempre di più come una giungla di micro sostegni, tanto dispersiva quanto poco efficace. Oggi le famiglie, con diversi limiti di reddito o condizione, possono contare su: bonus bebè (1.000 euro per 3 anni), bonus mamma domani (800 euro una tantum), bonus asilo nido (1.000 euro), bonus babysitter (600 euro), bonus 18enni (500 euro). Oltre a questo, ci sono gli aiuti storici, per quanto limitati: le detrazioni per i minori (10,5 miliardi), non riconosciute agli incapienti, gli assegni al nucleo familiare per lavoratori dipendenti e pensionati (6,5 miliardi), l’assegno a chi ha 3 o più figli (800 milioni). La necessità di fare ordine è evidente. In questa direzione va il disegno di legge che porta il nome di Stefano Lepri e che, proprio riorganizzando detrazioni e assegni, arriverebbe a prevedere 200 euro al mese per ogni figlio fino ai 3 anni, 150 dai 3 ai 18 e 100 dai 18 ai 25 anni. Tuttavia i limiti di reddito sono ancora da definire. Il nuovo intervento da 80 euro al mese come si pone rispetto a tutto questo? PRIMA AIUTARE I PIÙ POVERI - L’ idea di un bonus più o meno universale pone un tema di equità molto forte. In Italia oggi è più che mai necessario riuscire a convergere sull’idea che una cosa sono gli aiuti ai poveri, un’altra gli aiuti alle famiglie. Aver confuso i piani per anni ha generato un sistema di welfare che non aiuta i più bisognosi, mette l’Italia in coda a tutte le classifiche in termini di sostegni alle famiglie e avvicina alle soglie di povertà soprattutto chi ha bambini da crescere. Per questo se si parla di nuove risorse è necessario risolvere prima la questione-poveri. Il Reddito di inclusione sociale introdotto grazie al lavoro dell’Alleanza contro la povertà, ha bisogno di altri 5-6 miliardi per coprire tutti i 4,6 milioni di poveri assoluti. E, come chiede il Forum delle famiglie, se calibrato con il principio del Fattore famiglia alzerebbe ulteriormente il tasso di equità della misura. AIUTARE IL CETO MEDIO - Il concetto di un assegno universale contemplato dal bonus proposto da Renzi è una novità importante per l’Italia. Economica e culturale. Tutti gli Stati europei prevedono un child universal benefit, un assegno dato a ogni bambino a prescindere dalle fasce di reddito. È importante, perché trasferisce l’idea che i figli sono un valore pubblico a prescindere. E fa cultura. In Francia il governo Macron sta valutando di limitare i generosi assegni familiari a chi guadagna più di 8.500 euro lordi al mese e l’Unione nazionale delle associazioni familiari ha contestato duramente questo tentativo in quanto aprirebbe una strada pericolosa. L’Italia ha il problema opposto. Il sistema di assegni familiari nel nostro Paese concede sostegni analoghi a quelli delle nazioni più avanzate se si tratta di redditi bassi, ma diventa irrilevante quando si arriva al ceto-medio. È un problema noto agli esperti. Le famiglie italiane con reddito medio sono quelle che più si impoveriscono in Europa se hanno figli da mantenere. Uno studio del demografo Giancarlo Blangiardo presentato alla recente Conferenza per la famiglia ha messo in luce come una coppia di genitori entrambi lavoratori di fascia media o medio-alta si trova ad avere un reddito che scende al 60-70% di quello percepito, sia che non abbia figli sia che ne abbia 3 o 4; in Francia, Svezia o Gran Bretagna invece il reddito disponibile aumenta molto al crescere della prole, in Francia fino al 90%. I SOLDI (FORSE) NON PORTANO FIGLI O ra che Renzi ha finalmente lanciato il sasso, occorre mettersi d’accordo su una questione decisiva: perché un bonus-figli? Per tentare un’opera di redistribuzione fiscale a favore di chi si fa carico del futuro, oppure anche per affrontare l’emergenza demografica? La domanda è decisiva, in un Paese col tasso di fecondità tra i più bassi al mondo, 1,34 figli per donna, perché sarebbe un errore gravissimo pensare che i trasferimenti economici portino più figli. La fecondità dipende molto più da fattori culturali (e spirituali) che economici. Un bonus-figli netto può aiutare a formare una nuova cultura, grazie all’impatto simbolico che può avere. Ma non basta. Più di bonus e assegni, a favorire la natalità sono fattori come il riconoscimento sociale del valore della famiglia, del matrimonio, la possibilità di conciliare lavoro domestico e lavoro fuori casa, l’assenza di barriere per le donne che dopo il parto rientrano al lavoro, un contesto professionale in cui chi ha figli non è lasciato solo, carriere che non escludono la possibilità di una famiglia, il supporto delle comunità, città non ostili ai bambini. Se si vuole influire sulla dinamica demografica con contributi economici, a maggior ragione in un contesto di individualismo diffuso, allora servono molti, ma molti soldi. Gli studi internazionali sui trasferimenti diretti legati ai figli dicono che l’effetto nel medio periodo di un bonus è limitato e non evidente. Una ricerca dell’università di Erlangen-Norimberga sugli incentivi introdotti nel 1996 in Germania – 185 euro al primo e secondo figlio, 190 per il terzo... – mostra che le misure non hanno prodotto effetti sulle coppie a basso reddito, mentre hanno spinto le coppie più agiate ad avere il secondo figlio. In Francia il 'quoziente familiare' ha inciso sui tassi di fecondità e sui matrimoni proprio per la sua caratteristica di regressività fiscale, cioè resta legato al reddito. Quanto alle cifre, uno studio della Columbia University sul caso francese ha calcolato che 0,3 punti di Pil spesi in benefici fiscali incondizionati incrementano la fecondità totale di 0,3 figli per donna. L’Italia è pronta?

Pag 19 Quando l’operaio rischia di fare la vedova indiana di Paolo Viana Il caso di Vercelli

Nel Paese dell’industria 4.0 c’è un’impresa che chiude perché è morto il titolare e gli eredi non se la sentono di trafficare con ordinativi e fatture. I dipendenti di quest’azienda rischiano di far la fine della vedova indiana: tutti a casa senza stipendio, senza cassa integrazione, senza neppure un’indennità, perché non c’è chi possa licenziarli. Una vicenda che ricorda l’antica usanza indù di cremare viva la vedova sulla pira funebre del marito morto. Per molti secoli, cioè fino a quando gli inglesi non vietarono la Sati, le spose dovevano seguire nell’aldilà i mariti, cui restavano forzatamente devote. Gli operai della Sila, al contrario, hanno solo parole di elogio per il signor Ermanno Bassi. Era l’amministratore unico nonché il socio di maggioranza della società che produceva freni e frizioni a Cigliano, nel Vercellese. È scomparso improvvisamente in settembre. Malgrado l’azienda fosse pesantemente indebitata, il signor Bassi si dava un gran daffare e riusciva a coprire tutte le esigenze: «Fino al giorno della sua morte, abbiamo sempre lavorato e percepito i nostri stipendi, perché - nonostante le mille difficoltà - il signor Bassi ha sempre onorato e rispettato i suoi dipendenti, garantendo le nostre retribuzioni alla fine di ogni mese» scrivono i dipendenti in una lettera, nella quale si definiscono 'prigionieri' di questa paradossale situazione. E sostengono: «dal giorno della sua morte, ci siamo sentiti tutti orfani di un valente titolare, tanto da trovarci oggi, nostro malgrado, in una situazione a dir poco assurda: la società è allo sbando senza che qualcuno dei soci di minoranza, o degli eredi, si ricordi di noi dipendenti». A Cigliano, le macchine hanno continuato a girare fino a venerdì 13 ottobre, quando sono finite le scorte. Nessuno ha potuto provvedere all’approvvigionamento, in quanto l’azienda ha i conti bloccati: «Abbiamo ordini e lavoro da fare, abbiamo famiglie da mantenere» ripetono adesso i dodici dipendenti della Sila, che hanno chiesto l’aiuto della Cgil e del sottosegretario al Lavoro Gigi Bobba. Il politico dem vive proprio a Cigliano. Conosceva bene il Bassi, eppure anche lui ha le mani legate: esiste una zona d’ombra nella legislazione in virtù della quale quando muore un industriale e non ci sono deleghe tutto si ferma, in attesa che un giudice nomini un commissario ad acta, se gli eredi non intendono accettare l’eredità. Non è un caso comune, perché il più delle volte i soci di minoranza hanno, per statuto, l’obbligo di prendere le redini dell’azienda. Non in questo caso: il Bassi aveva pieni poteri, lui e soltanto lui. Defunto il titolare, nessuno può assumere decisioni: neppure quella di licenziare il personale, che in questa situazione costituisce l’unica speranza dei dipendenti. Per quanto triste sia, un’impresa metalmeccanica che non onora le commesse per mesi esce dal mercato e questo gli operai lo sanno benissimo, al punto che chiedono a gran voce di potersi dimettere per giusta causa anche se la legge prevede l’autolicenziamento solo nel caso in cui il mancato pagamento degli stipendi duri più di tre mesi. Disperati, cercano di salvare il salvabile, che in questo caso sono i mesi di stipendio che separano dal Natale. Sarà pure un obiettivo minimo, ma che la Sila si rimetta in carreggiata con un nuovo management non ci crede nessuno e l’unica speranza, ad oggi, è quella di non far la fine della vedova indiana.

Pag 22 Il consenso, un attimo fuggente di Diego Motta

Nel vortice dei movimenti d’opinione, basta poco per finire spiazzati. Ventiquattr’ore, forse meno. L’onda corta dei social network può essere altissima e generare facile popolarità. Il rischio che qualcuno se ne impossessi però è sempre più serio, soprattutto quando in gioco ci sono questioni ideali. La guerra per il consenso ormai è aperta a tutto. Anzi: più una contesa politica è divisiva, più uno scontro elettorale è aspro, più la tentazione di fare massa critica in Rete sale. Usando le buone o le cattive maniere, il marketing politico o la propaganda. L’importante è catturare l’attimo fuggente. Nel referendum per l’indipendenza della Catalogna, è diventata un simbolo per qualche giorno l’immagine di un corpo a corpo tra gli agenti della Guardia Civil di Madrid e un gruppo di elettori manifestanti. Un abile montaggio in Photoshop ha fatto spuntare sopra di loro una bandiera catalana, quasi si trattasse, ha fatto notare più di un osservatore, di una rivisitazione all’iberica del quadro di Eugène Delacroix sulla Rivoluzione francese La Libertà che guida il popolo. Un caso di manipolazione, servito per surriscaldare animi già eccitati dallo scontro politico. Non è la prima, né l’ultima evidenza di strumentalizzazione palese eppure la sensazione è che in tempi di forte contrapposizione sociale, sia proprio la comunicazione politica a soffiare di più sul fuoco (o a soffrirne, dipende dai punti di vista) della disintermediazione sociale e mediatica e del conseguente rischio bufale o fake news. Ai sostenitori dell’indipendenza catalana e ai fan della Brexit, abili nel cavalcare su Internet (con i rispettivi leader) le onde emotive del momento, vanno contrapposti capi politici vintage, come Mariano Rajoy per restare in Spagna o la stessa Angela Merkel, che durante l’ultima campagna elettorale in Germania non ha esitato a presentarsi davanti a giovani youtuber per mostrare se stessa, così com’è, senza infingimenti. «Indubbiamente i leader indipendentisti hanno mostrato di saper sfruttare, anche a urne aperte, gli errori di strategia e di comunicazione di Madrid grazie alla potenza delle immagini veicolate dai seggi sui social network, rischiando anche di esporsi a dei rischi» riflette Giuliano Noci, che insegna Strategia e marketing alla School of management del Politecnico di Milano. È stato Noci un anno fa il primo a riflettere, con un convegno organizzato dall’ateneo milanese, sulle modalità della vittoria a sorpresa di Donald Trump alle elezioni americane. «Dagli Usa all’uscita della Gran Bretagna dall’Europa fino all’ultimo caso spagnolo, l’impressione è che, nello studio dei sommovimenti che si generano nell’opinione pubblica, ci stiamo capendo davvero poco. È difficile interpretare i comportamenti sociali oggi, soprattutto dal punto di vista delle preferenze politiche» spiega oggi il docente, che è anche prorettore del Polo territoriale cinese dello stesso ateneo. Alle prese con un sostanziale appiattimento delle idee e con la fine delle visioni progettuali di medio e lungo periodo, i leader politici (seguendo la strada tracciata dai guru di media e mercato) hanno finito per assecondare gli umori del momento, con programmi di cortissimo respiro che normalmente riproducono ciò che la gente vuole. Il meccanismo è semplice: ogni giorno si cerca di ingaggiare una battaglia intorno a un tema discusso 'dal popolo' (online o offline conta fino a un certo punto). «L’importante – continua Noci – è lanciare fenomeni virali. La Rete, di fatto, favorisce un rapporto direttissimo tra società, elettore e politico, dando a quest’ultimo la possibilità di verificare in tempo reale il sentiment della società. In secondo luogo, quelle che una volta avremmo chiamato le masse, sono usate per amplificare al massimo determinati messaggi. Non solo: l’individuo diventa esso stesso un mezzo di comunicazione e fotografa ciò che accade». Il risultato è che la politica da un lato subisce questo fenomeno, ma dall’altro ne rimane affascinata e colpita, spesso finendo per cavalcarlo con miopia. Il presidente degli Stati Uniti, nella campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca, dimostrò di aver capito molto bene due cose: la semplicità del messaggio ormai va al di là della veridicità dello stesso e la comunicazione, più che alla testa, va indirizzata alla pancia degli elettori. Ciò alla fine genera una circolarità inedita di proclami, slogan e propaganda, portando di fatto il cittadino a determinare, insieme al politico (o aspirante tale) tempi e modi del dibattito pubblico. «Pensi alla creazione dal basso di tanti movimenti d’opinione» dice Noci, originati spesso da una scintilla capace di scatenare veri e propri incendi. È la palla di neve che scende e innesca un effetto valanga, una sorta di effetto domino che porta cittadini, consumatori ed elettori (a seconda del tema del momento) a cavalcare questo o quel movimento. In questo senso, stiamo assistendo a fenomeni di accelerazione esponenziale, che vanno bene al di là della capacità mostrata una volta dalla televisione e dai media tradizionali di moltiplicare il messaggio. Per comprendere quanto sta accadendo, servono certamente i cosiddetti big data, numeri eterogenei, strutturati e non strutturati, in mano ai colossi della Rete per la cui gestione sono richieste tecnologie e metodi analitici specifici. È fondamentale conoscerli, ma non sufficiente. Nello stesso tempo, infatti, si può andare a fondo sulla metodologia d’indagine che occorre affinare per capirne di più: come monitorare queste improvvise onde emotive? Come studiarne gli effetti che producono sul consenso? E soprattutto: sono utili o no gli strumenti che fino a ora abbiamo avuto a disposizione? «Partiamo dall’assunto che i comportamenti delle persone, oggi più di ieri, sono fortemente guidati dall’emotività. Di più: le tradizionali ricerche di mercato, che una volta rimandavano una fotografia più o meno fedele del sentire dell’opinione pubblica, sono sempre indispensabili ma ormai non hanno più valore assoluto – spiega Noci –. Bioscienze e biomarketing rappresentano risposte importanti per andare oltre, modificando così i nostri modelli interpretativi». Dentro il vortice delle notizie, di questo passo, non saranno più necessarie ventiquattr’ore per catturare consenso. Sarà sempre di più una questione di attimi.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI Addio Mattia, se n’è andato l’uomo dei burattini in piazza di Fulvio Fenzo Stroncato da un male incurabile a 63 anni, da almeno 15 era l’idolo dei bambini

Mestre. Piazza Ferretto, adesso, è davvero muta. Due anni fa se n'era andato Roberto Jimmy, il folksinger di strada, stroncato a 63 anni per una fulminante malattia al fegato. E sabato è morto pure Matija Ferenak, che tutti chiamavano Mattia, l'uomo dei burattini e dei palloncini che per almeno 15 anni era un punto di riferimento in piazza per mamme e papà con bimbi e carrozzine. Anche lui aveva 63 anni, anche lui colpito da un male che non gli ha lasciato scampo. Con alle spalle una storia incredibile. Alzi la mano chi, con i propri figli piccoli, non si è fermato almeno una volta a guardare quei burattini un po' freak che suonavano sax e pianoforte sulle note, a ripetizione, di Tequila dei The Champs. Mattia li animava e, nelle pause, gonfiava i palloncini annodandoli a forma di cane o di spada, in cambio di qualche moneta. Lui e Jimmy erano gli unici artisti di strada con regolare permesso per la piazza. «Un uomo silenzioso, educato. Era da un anno che non lo vedevamo in giro. Sapevamo che non stava bene», dicevano ieri in piazza. «Quei burattini se li era costruiti con le sue mani, inventandosi un lavoro dopo essere fuggito dalla Slovenia durante la guerra nell'ex Jugoslavia, dove era nato - racconta Giovanna Ruffini, un'amica di Matija che da ieri è in contatto con il figlio Vuk, in arrivo da Portorose per organizzare il funerale del padre -. Era un uomo di estrema cultura. Nel suo paese era un insegnante di pittura all'Accademia, oltre ad aver creato una sua linea di abbigliamento venduta in tutta Europa. Era un uomo molto ricco a cui la guerra ha portato via tutto». Fuggito dalla Slovenia con la figlia e l'anziana madre a bordo di un'auto con targa tedesca, Matija si è visto espropriare tutto nel suo Paese e, dopo aver girato tra Spagna e Grecia, arrivò a Mestre quasi vent'anni fa, ripartendo da zero. «Faceva tutto per i suoi due figli - raccontano dall'edicola davanti al Duomo -. Ricordo la sua gioia per quando si diplomarono, ma anche la sua stanchezza negli ultimi anni. Sognava di tornare in piazza, ma seduto al bar per godersi la vecchiaia». Mattia era anche riuscito a risparmiare, comprandosi un appartamento in via Forte Marghera, trasformato - con tutte le carte in regola - in un piccolo affittacamere. Ma la sua salute lo ha tradito: quell'uomo alto e corpulento negli ultimi mesi era arrivato a pesare 45 chili per un male che lo ha ucciso sabato, al Policlinico San Marco. In attesa di sapere quando saranno celebrati i funerali, nelle pagine mestrine di Facebook si susseguono commenti e ricordi di Mattia, Tra questi, quello di Massimo Venturini, ex presidente della Municipalità di Mestre: «Non tutte le persone lasciano un ricordo, ma i bambini che hanno provato un momento di felicità grazie ad un palloncino di Mattia, lo porteranno sempre con loro». Da sottoscrivere.

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8 – VENETO / NORDEST

LA NUOVA Pag 43 “Sono veneto e ho vinto per tutti voi” di Davide Vatrella Eyob Faniel, vincitore della Venice Marathon, in redazione: ius soli battaglia di civiltà, combattiamo il razzismo

Mestre. «Anche senza quell'errore di percorso dei battistrada, sono sicuro che avrei vinto lo stesso». Eyob Faniel, 25 anni, ieri ospite per un'ora e mezza nella redazione de "La Nuova Venezia", assieme al vicepresidente del Venicemarathon club, Stefano Fornasier, non ha dubbi. Non hai proprio dubbi? «Nei primi 25 chilometri avevamo scelto di mantenere un ritmo tranquillo e avevamo deciso di aumentare la cadenza proprio a Mestre. E, difatti, se andate ad analizzarvi attentamente la mia gara, vedrete che, negli ultimi 15 chilometri, ho corso sotto i tre minuti al chilometro. Ruggero (Pertile, il suo allenatore, ndr) mi aveva dato tanti consigli ed ero sicuro, essendo a meno di un minuto di distacco, di andare a prendere i battistrada. La seconda metà di gara l'ho corsa in un'ora e 5 minuti e non so quanti avrebbero potuto starmi dietro».Il percorso, a differenza dei keniani, lo conoscevi a menadito.«Lo avevo fatto tutto in macchina con Ruggero. Il mio allenatore mi ha insegnato cos'è la maratona e di aver rispetto per questa competizione. La gara non finisce ai 30 km e correre 42 km non è uno scherzo». Il tempo finale di 2h 12'16" è stato di tutto rilievo, considerando il fatto che hai corso sul Ponte della Libertà senza lepre...«Tutto vero, ho corso sul Ponte della Libertà, da solo e con tanto vento. E chi s'intende di maratone sa cosa vuol dire. Con Ruggero aveva preparato nei dettagli la corsa: fino a metà gara il mio cronometro segnava 3'08" al chilometro, da Mestre in avanti sono passato a 3'05" e, a Venezia, nonostante i temuti 13 ponti, ho fermato il cronometro a 3'03" al chilometro. Era, quindi, tutto calcolato nei minimi dettagli». Vincere a Venezia e, per di più, come atleta di punta della società organizzatrice, è davvero il massimo.«È un sogno che si avvera e che mi ha dato un'emozione indescrivibile. In qualsiasi paesino attraversato domenica, sono stato incitato in maniera incredibile. Il passaggio più emozionante, a parte ovviamente l'arrivo, è stato il transito ai San Giuliano, dove tutti i componenti del mio club mi aspettavano per applaudirmi. E, poi, l'arrivo dove c'era la mia compagna Ilaria e mia figlia Wintana (che in italiano significa Gioia, ndr) mi ha dato una gioia che mi resterà dentro per tutta la vita». Dopo 22 anni hai sfatato un tabù, ma il problema esiste in tutte le maratone del mondo, vincono sempre kenioti, etiopi e marocchini. Come mai? «In Kenya si va sempre di corsa. I ragazzini camminano e corrono sempre per andare in fretta a scuola. Gli istituti, per raggiungerli, non sono certo a due passi e non ci sono le macchine e gli autobus. Inoltre, essendo, poi, la maggior parte delle località in altura, i globuli rossi degli atleti sono più numerosi e più grossi; tutto ciò permette a questi popoli, compresi anche gli etiopi, d'immagazzinare una maggiore quantità d'ossigeno. E gli effetti si vedono sulle maratone. In Europa e negli Stati Uniti i bambini vengono accompagnati in auto quasi dentro la scuola. E, poi, due ore a settimana di ginnastica non bastano di certo. Inoltre, durante la giornata, i ragazzi preferiscono giocare a casa alla playstation piuttosto, che so, di tirare qualche calcio al pallone con gli amici, come si fa in Kenya in qualsiasi campo polveroso».La preparazione in altura, in effetti, aiuta i maratoneti. «Lo so bene, quest'anno, prima della Venicemarathon, ho trascorso due settimane in quota a Livigno e un mese a Sestriere. E, quando posso, vado anche in Eritrea, dove l'altitudine è notevole». A proposito di Eritrea, quando sei arrivato in Italia? «Mio padre doveva curarsi una spalla e aveva scelto un ospedale di Milano. Purtroppo, i tempi dell'operazione si sono allungati. Quando, però, è riuscito a guarire e a trovare un impiego a tempo indeterminato, mia madre, con i miei due fratelli, l'abbiamo raggiunto in Italia. A quell'epoca avevo 11 anni. Ci siamo stabiliti a Bassano, città dove tuttora abito con la mia compagna e mia figlia Wintana». Quando hai ottenuto la cittadinanza italiana?«Nel 2015, dopo aver lavorato per due anni in una piscina come manutentore e presentato i relativi Cud». Cosa pensi dello Ius soli? «Ritengo che chi nasce, cresce e studia in Italia, abbia diritto di avere la cittadinanza. E lo stesso chi arriva da un paese straniero e, dopo cinque anni, trova un lavoro e una stabilità economica, è giusto che raggiunga lo stesso obiettivo. Io sono nato in Eritrea, un'ex colonia italiana, e so che molti figli di madri, che hanno avuto una relazione con un italiano, hanno la cittadinanza italiana pur non parlando la lingua e non conoscendo la cultura di questo paese: non è giusto». Nel Veneto esiste il razzismo?«Purtroppo sì, l'ho sperimentato a suo tempo fin quand'ero piccolo. Purtroppo, la storia non insegna mai niente. Chi vuole ora che gli immigrati se ne vadano fuori dalla nostra regione, forse, si dimentica che i primi ad espatriare, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono stati proprio i veneti. E, purtroppo, ci sono partiti, come la Lega Nord, che alimentano questi sentimenti».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Bankitalia e l’autogol politico di Ernesto Galli della Loggia L’errore di Renzi

Sono due le questioni, entrambe di merito, che ha posto la mozione con la quale, su ordine di Matteo Renzi, il Partito democratico ha in pratica sfiduciato il governatore della Banca d’Italia. Una è da giorni ampiamente analizzata, dissezionata e commentata: e riguarda, per l’appunto, la decisione del segretario del Pd di mettere spregiudicatamente in gioco sul tavolo traballante delle sue fortune elettorali l’immagine di un’istituzione incaricata di funzioni importanti e delicate come la Banca d’Italia. Una mossa che si commenta da sola, e che peraltro sta ritornando come un boomerang addosso al suo improvvido ideatore, a ennesima riconferma di come la sconfitta sul referendum del 4 dicembre sembri davvero - come si dice proprio dalle sue parti - aver «mandato ai pazzi» l’ex premier, il quale da quel giorno non riesce più a riacquistare lucidità strategica né capacità di consenso. Ma dietro tale questione se ne delinea una seconda. E cioè la questione del modo di essere e di funzionare del meccanismo di decisione nell’ambito delle istituzioni politiche del nostro Paese. In altre parole la questione di cosa sia e come funzioni il potere italiano; di come prenda le sue decisioni. In che modo, ad esempio, vengono nominati i vertici dei maggiori enti ed apparati pubblici? L’Italia, si sa, non ha la fortuna di essere guidata da un esecutivo forte e stabile nel quadro di una efficace divisione dei poteri. La nostra Costituzione - complice poi un dna proporzionalistico che risale alle origini ciellenistiche della Repubblica, e grazie anche agli infelici regolamenti delle Camere - ha consegnato il Paese a un regime parlamentaristico-partitico, che essa ha cercato poi di controbilanciare con l’innesto di una figura di presidente della Repubblica dotato di poteri assai ampi, più o meno analoghi a quelli a suo tempo attribuiti al re dallo Statuto. Il risultato finale è che le decisioni importanti non possono mai essere prese da un unico potere, anche quando formalmente gli spetterebbero, bensì devono necessariamente passare attraverso un diverso e complesso meccanismo: quello della «concertazione». Che in pratica funziona così: per un periodo imprecisato ma raramente breve di tempo (decidere in Italia non è mai questione di ore, quasi sempre neppure di giorni: perlopiù si va avanti a «parlarne» per mesi) due, tre, o anche più poteri - come minimo segretario/segretari del o dei partiti di maggioranza, presidenza del Consiglio, uno o più ministri, presidenza della Repubblica - interloquiscono fra loro e attraverso un contorto gioco di indicazioni, di veti, di scambi, di compensazioni, di promesse a buon rendere, alla fine si mettono d’accordo sul testo di un provvedimento o su un nome. Anche la designazione di una persona capace e meritevole di ogni stima come Ignazio Visco è avvenuta inevitabilmente in questo modo. Inutile sottolineare le due più ovvie conseguenze negative di un metodo del genere. Innanzi tutto la sua fin troppo facile assimilabilità al «mercato delle vacche», con relativo discredito della politica a maggior vantaggio del qualunquismo di ogni genere e misura; e poi la qualità in genere mediocre di scelte che perlopiù avvengono inevitabilmente all’insegna del compromesso. In realtà la «concertazione» corrisponde al riconoscimento da ciò che è nelle cose: la frantumazione istituzionale del potere italiano. In Italia tutta l’attività di direzione politica (e non solo) è segmentata e dominata dalla «concertazione», spesso trasfigurata idealmente nella figura dell’«etichetta istituzionale». La quale vuol dire quasi sempre questo: non fare o non decidere alcunché senza essersi sincerati che siano d’accordo tutti coloro che a torto o a ragione potrebbero avere qualcosa a ridire. Cioè, in pratica, non decidere nulla che dia fastidio a qualcuno. Con la mozione di sfiducia verso Visco Matteo Renzi ha cercato in un certo senso di fermare il tempo: di ritornare alle proprie origini di outsider rimarcando la sua estraneità ai modi d’essere del potere italiano e la sua volontà di contrapporsi ad esso e alla sua «etichetta». Lo ha fatto quasi mimando il ruolo di rottura che ormai da tempo svolge il Movimento dei 5 Stelle; ma non comprendendo che per lui tale ruolo è ormai impossibile. Il tempo non passa invano, infatti. Non si può recitare la parte dell’outsider, non ci si può chiamare così platealmente fuori, quando da anni si è il capo del principale partito della maggioranza, quando per anni si è stati al governo frequentando il potere in tutti i suoi saloni, stanze e sottoscala. Frequentando il quale Renzi avrebbe dovuto apprendere anche, tra l’altro, che pur in un Paese sbrindellato e maleducato come è ormai il nostro vi sono tuttavia delle istituzioni, degli ambiti operativi, delle sfere pubbliche, non già sottratte per principio alla critica politica, sempre lecita, ma indisponibili a essere trascinati nella polemica estemporanea e nella strumentalizzazione, che sono cose ben diverse. Voler sanare la patologia del potere italiano, rappresentata tra l’altro dalla «concertazione» e dal suo permanente sottinteso consociativo, è in sé una cosa sacrosanta. E mi pare ovvio che in particolare questo debba essere l’obiettivo di un esponente politico come Matteo Renzi che mira a una forte leadership personale sostenuta da un adeguato progetto di riforma istituzionale. Ma sbaglia di grosso, e anzi segna solo un autogol, se egli pensa di poterlo fare usando la stizza, cedendo a un moto di rabbia o, peggio, di rivalsa elettoralistica. La verità è che dopo il 4 dicembre il segretario del Pd è ancora alla ricerca di una nuova linea politica in armonia con la sua ispirazione originaria così come di una nuova e più convincente cifra stilistica personale. Ma prendersela con la Banca d’Italia non lo aiuta di certo a trovare né l’una né l’altra.

Pag 1 Euro, più mercato e visione comune. Il futuro possibile di Lucrezia Reichlin

Dopo l’analisi delle scorse due puntate valutiamo oggi le proposte di riforma in campo. Partiamo dal punto di vista tedesco. La Germania vuole più rigore nelle regole e più mercato. Uno Stato che arrivi all’insolvenza, secondo la Germania, deve poter ristrutturare il suo debito. Per questo, l’Unione Monetaria deve dotarsi di indicazioni chiare sulle condizioni in cui questo avvenga e di strumenti di monitoraggio appropriati. La logica di questa posizione è chiara. Come sostenuto nell’articolo di ieri, la possibilità di ristrutturare (e quindi penalizzare i creditori) è condizione necessaria per rendere credibile il principio del «no bail-out» (nessuno Stato dell’Unione può salvarne un altro). La possibilità che un Paese vada in default e ristrutturi il suo debito costituisce un incentivo potente alla disciplina di bilancio poiché il rischio si riflette sui tassi di interesse sul debito e quindi sulle condizioni di rifinanziamento degli Stati. Una volta accettato questo principio, diventa chiaro che i titoli di Stato dei diversi Paesi della Unione hanno diversa rischiosità. Quindi, sostiene la Germania, è sbagliato considerarli tutti a rischio zero ai fini dei requisiti del capitale regolatorio nei bilanci delle banche, come lo sono oggi. In caso il Paese sia solvibile, ma abbia bisogno di liquidità temporanea, scatta invece l’intervento del Meccanismo Europeo di Stabilità (Esm) che la eroga a condizione che si mettano in atto politiche di rigore di bilancio che eliminino la fonte del rischio. La Germania, infine, non accetta di introdurre alcun sistema di condivisione del rischio, come per esempio l’Assicurazione europea dei depositi, senza che si agisca prima per eliminare le differenze di rischio tra Stati e banche dell’Unione. Veniamo ora al punto di vista francese. Quest’ultimo è da sempre diverso sia per ragioni culturali che per interesse economico. I francesi insistono su una maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole quando un’economia è sotto stress. Regole sì quindi, ma anche discrezionalità per evitare pro-ciclicità delle politiche di bilancio. Inoltre la Francia ha più simpatia per strumenti anche fiscali per la condivisione del rischio. Ha parlato di un fondo di stabilizzazione europeo alimentato da risorse fiscali comuni e, in alcune istanze, di euro-bonds. Si è pronunciata spesso a favore dell’irrobustimento della capacità finanziaria dell’Esm affinché esso diventi veicolo potente di erogazione di liquidità agli Stati ma anche direttamente alle banche in crisi. In genere la Francia tende ad accentuare il rischio di crisi di liquidità del presente sistema mentre la Germania ne sottolinea il pericolo di azzardo morale, ossia l’effetto disincentivante alla disciplina che deriva dalla prospettiva di un intervento pubblico. Le due posizioni sono molto diverse e ambedue presentano dei limiti. La prima, perché incentivi di mercato, in assenza di strumenti per la condivisione del rischio, creerebbero volatilità e molto probabilmente un’implosione della moneta unica. La seconda, perché richiede la messa in comune di risorse dei contribuenti che non sono né realistiche né legittime in assenza di istituzioni politiche federali che accompagnino il processo decisionale. Una soluzione di compromesso è quindi difficile, ma necessaria. Un tavolo franco-tedesco e un impegno dichiarato a trovarla c’è, ma finora non ha partorito nessuna proposta concreta se non l’espressione di un generico parere favorevole a un bilancio dell’Unione Europea, a un ministro delle Finanze comune e alla creazione di un Fondo Monetario Europeo. Sembrano passi molto ambiziosi, ma la mancanza di dettagli desta il sospetto che si tratti di una dichiarazione di intenti per dimostrare una volontà di cooperazione la quale però deve ancora trovare le sue gambe. La posta in gioco qui è la dimensione del bilancio comune. Non è realistico pensare che la Ue possa imporre una tassa europea tale da alimentare un fondo sufficientemente grande da agire ai fini della stabilizzazione ciclica. Non lo è perché, per chiedere ai cittadini di contribuire, bisognerebbe dargli l’opportunità di partecipare al processo decisionale, ma gli strumenti democratici rimangono oggi fondamentalmente nazionali. Con ogni probabilità, quindi, il fondo europeo, con pochi mezzi a disposizione, sarebbe piuttosto uno strumento finanziariamente limitato per progetti ad hoc soggetti a condizionalità sulle politiche di riforma. Costituirebbe quindi un ennesimo strumento intrusivo nelle politiche nazionali che avrebbe scarsa legittimità. Stesse considerazioni valgono per la proposta del presidente della Commissione europea Juncker che anch’essa sostiene la causa della triplice: bilancio comune, comune ministro delle Finanze e fondo monetario europeo. Ma di cosa abbiamo veramente bisogno? Un nuovo compromesso franco-tedesco deve garantire stabilità, evitare episodi di pro-ciclicità della politica economica e riequilibrare le responsabilità per evitare di chiedere troppo alla Banca Centrale Europea con relativo pericolo di forzare il suo mandato. Il compromesso che auspico può essere riassunto così: più mercato, come vogliono i tedeschi, in cambio di un framework macroeconomico meno intrusivo e della introduzione di strumenti che aiutino a condividere il rischio in caso di crisi senza che questo implichi trasferimenti permanenti da un Paese all’altro. Più mercato significa innanzitutto accettare il principio della ristrutturazione del debito. Quest’ultima - tanto temuta dall’Italia - aiuterebbe in realtà a risolvere la tensione tra i Paesi dell’euro che hanno bisogno del consolidamento e/o di riforme, ma non vogliono essere obbligati a seguire politiche imposte dall’esterno e i Paesi creditori che temono che se non si seguono strettamente le regole, i prestiti dell’Europa possano indurre all’azzardo morale. Rafforzando la disciplina di mercato la procedura di ristrutturazione richiederebbe meno disciplina di Bruxelles. E se la disciplina di mercato fallisse, la risoluzione della crisi richiederebbe meno austerità (i creditori privati pagano in quel caso). Ne consegue che questa via è più equa per la popolazione e rafforza il consenso alle riforme necessarie. Più mercato significa anche accettare il principio che non tutti i titoli di Stato sono egualmente rischiosi, ma questo potrebbe essere accompagnato da un incentivo regolatorio affinché le banche diversifichino dal punto di vista geografico i titoli detenuti in bilancio. Ci sono varie proposte tecniche in discussione che vanno in questa direzione. Un sistema di questo tipo, però, deve essere accompagnato da ulteriori strumenti che, durante le crisi, permettano di preservare l’integrazione finanziaria e quindi facilitino la diversificazione del rischio. Ciò implica rafforzare la capacità di erogazione di liquidità per banche e Stati da parte dell’Esm, magari permettendogli di rifinanziarsi presso la Bce, introdurre la assicurazione comune per i depositi bancari, rinforzare il fondo di ricapitalizzazione delle banche e costruire un mercato unico dei capitali. Tutte queste misure romperebbero la correlazione tra rischio bancario e rischio sovrano, una delle cause fondamentali del crunch del credito sperimentato nel Sud d’Europa negli anni della crisi e terrebbero a bada le crisi speculative contro il debito senza dover fare esclusivamente conto sulla Bce come garante unico dell’integrità dell’Unione. Queste misure non hanno l’appeal di altre che parlano più direttamente alla gente come la proposta di un’assicurazione europea alla disoccupazione, politiche per il sostegno alla povertà e investimenti, ma sono la condizione necessaria non solo per rendere l’euro robusto, ma anche per permettere politiche di stimolo anti-ciclico. in caso di stress. Molto altro è necessario per sostenere la crescita e garantire più giustizia sociale, ma non tutto si deve fare con l’Europa. Soprattutto non prima di dotarsi delle istituzioni democratiche comuni che lo rendano legittimo. Veniamo ora all’Italia. Chiedere più flessibilità delle regole senza accettare il principio dell’incentivo del mercato per stabilizzare bilanci di banche e Stati è velleitario. Il continuo negoziato con Bruxelles finisce per erodere la fiducia e far saltare il banco. Ragioniamo invece sul compromesso indicato sopra e cosa implichi per noi. Rischi certamente ce ne sono. Ogni sistema basato su incentivi di mercato significa pressione sui tassi per Paesi indebitati e pressione per quelle banche che, come le nostre, sono imbottite di buoni del tesoro nazionali. Ma nel compromesso più mercato e meno regole ci sono anche i vantaggi di riconquistare la sovranità sulle scelte di politica economica. Ma se volessimo seguire questa strada, dovremmo giocare di anticipo e contrattare una fase di transizione che ci consenta di pulire e consolidare i nostri bilanci. Per farlo, dobbiamo analizzare i problemi nel loro insieme, invece che andare a contrattare su ognuno singolarmente. Ma per questo ci vuole la forza di una visione condivisa per un progetto per l’Italia, in un percorso europeo sapendo che l’Europa ha per noi una importanza strategica assoluta.

Pagg 42 – 43 Caporetto. Fu un momento terribile ma l’Italia riuscì a reggere di Antonio Carioti e Lorenzo Cremonesi Gli errori dei comandi, le truppe abbandonate

È passato un secolo, ma la disfatta subita dall’esercito italiano il 24 ottobre 1917 è un evento che persiste nella memoria collettiva, come sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel volume Caporetto , in edicola da oggi con il «Corriere della Sera». Lo ribadisce il professor Antonio Gibelli, autore di vari saggi sul Primo conflitto mondiale, il più recente dei quali è La guerra grande (Laterza, 2014). «I termini esatti di quanto avvenne restano nel vago, ma si ricorda tuttora un’emozione d’intensità straordinaria», dichiara lo studioso al «Corriere». D’altronde i contorni della sconfitta rimasero oscuri anche cento anni fa, almeno nell’immediato: «Nelle prime due settimane dopo lo sfondamento austro-tedesco - ricorda Gibelli - si diffusero le notizie più contraddittorie, spesso inventate, che filtravano attraverso le maglie della censura e della propaganda. Come scrisse il grande storico francese Marc Bloch proprio riguardo alla Prima guerra mondiale, si pensava che tutto potesse essere vero, tranne le notizie ufficiali. Così all’emozione si aggiunse il mistero. Era chiaro che le nostre forze avevano subito una grave sconfitta, ma non se ne percepì la portata esatta, almeno fino a quando, dopo la ritirata, la linea della resistenza non si attestò sul Piave». E il nemico venne fermato: «Sì, ma questo - nota Gibelli - non bastò per cancellare l’angoscia provata in quei giorni di panico, anche se poi la guerra terminò con la vittoria dell’Italia. Oggi nella toponomastica Caporetto non esiste più: si trova in Slovenia e si chiama Kobarid, un luogo dove la memoria della battaglia è modesta. Ma nella lingua italiana il nome proprio di quel centro abitato è diventato un sostantivo comune che si usa in modo proverbiale per indicare una vicenda terribile. È stata una Caporetto, si dice quando si verifica un clamoroso fallimento». Quanto influì il bollettino in cui il comandante supremo, Luigi Cadorna, scaricava la responsabilità della disfatta su alcuni reparti «ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»? Gibelli non ha dubbi: «Quelle parole ebbero un peso enorme, furono un momento chiave della crisi nazionale, anche se il governo intervenne per censurare e modificare il testo del bollettino. Passò comunque l’idea che i primi responsabili della sconfitta erano i soldati pavidi e poco patriottici, che avevano buttato le armi ed erano scappati, o addirittura avevano tradito. Si confermava così il pregiudizio verso le “classi pericolose”, quelle più umili, sospettate di un disfattismo sconfinante nella sovversione». C’era qualcosa di vero? «Ben poco. Non vi fu alcuno “sciopero militare”. Le unità militari in prima linea fecero il loro dovere, ma furono travolte da forze nemiche superiori e meglio organizzate. Dopo la rottura del fronte ci furono episodi di dissolvimento dei reparti e fuga disordinata, di sbandamento e anche di saccheggio. Si racconta di cantine dove i soldati foravano le botti per spillare il vino o di negozi svaligiati in un clima carnevalesco. Ma tutto ciò fu una conseguenza, non certo la causa, della rotta di Caporetto». Tuttavia il bollettino venne creduto: «La voce innescata da Cadorna - ricorda Gibelli - s’inseriva in clima generale di stanchezza per la guerra, se non di ribellione dei soldati, che impauriva molti. In Russia l’esercito era in disfacimento e i bolscevichi si apprestavano a prendere il potere. Cresceva lo spettro rivoluzionario, alimentato dall’esasperazione per un massacro senza fine». Però Cadorna venne sostituito, l’esercito resse e si avviò un’inchiesta su Caporetto: «Con l’arrivo di Armando Diaz al comando supremo, migliorò il trattamento dei soldati e si presero misure importanti per sollevarne il morale. La commissione d’inchiesta su Caporetto, operativa dal gennaio 1918 alla primavera del 1919, fece un lavoro egregio, raccogliendo documenti e testimonianze in gran quantità. Ne uscì smentita la tesi dello sciopero militare, mentre emersero le responsabilità di alcuni alti ufficiali. Ma l’esito della guerra finì per mettere la sordina all’inchiesta: ad esempio si evitò di criticare Pietro Badoglio per la mancata azione delle sue artiglierie a Caporetto, visto che in seguito era stato il vice di Diaz nei momenti decisivi della resistenza sul Piave e della vittoria». Poi, aggiunge Gibelli, venne il fascismo: «Quando il generale Angelo Gatti, vicino a Cadorna, gli disse che voleva ricostruire le vicende di Caporetto, Benito Mussolini gli rispose che non era tempo di storia, ma di miti. Il Duce fece cadere nel nulla l’inchiesta e anzi nominò Cadorna maresciallo d’Italia. Il fascismo aveva tutto l’interesse a non fare chiarezza per proiettare sui suoi avversari politici l’immagine del nemico interno, del disfattismo che prima aveva causato la sconfitta di Caporetto e che poi, secondo il mito ulteriore della “vittoria mutilata”, denigrava i combattenti e impediva all’Italia di cogliere i frutti dei suoi sacrifici». Qui emerge anche l’ambiguità della reazione italiana dopo la disfatta: «Il Paese si mobilitò intorno all’esercito, visto che la guerra da offensiva era diventata difensiva: si trattava di fermare l’invasore. Ma questo slancio patriottico conteneva il germe dei conflitti futuri: le sue energie erano rivolte anche contro coloro che si erano opposti all’intervento nel 1915 ed ora erano accusati di tramare ai danni della nazione». Giuseppe Prezzolini scrisse che Caporetto aveva giovato all’Italia, rendendola consapevole dei suoi limiti, mentre il troppo facile successo di Vittorio Veneto aveva fomentato illusioni nocive. «È una lettura un po’ autodenigratoria - risponde Gibelli - che non mi sento di avallare. Considero un errore vedere Caporetto come il paradigma e il riassunto della nostra storia. L’Italia liberale dimostrò una notevole capacità di reggere allo sforzo bellico, ben superiore a quella che ebbe il fascismo nella Seconda guerra mondiale. E anche se l’ingresso nel conflitto fu una forzatura e la vittoria fu enfatizzata, non minimizzerei la capacità del Paese di affrontare una prova così ardua».

Fu una sconfitta. Anzi, una clamorosa disfatta. Un capovolgimento epocale, tragico per l’Italia, avvenuto in poche ore. Lo sapevamo già. Ma è bene ripeterlo. Caporetto fu davvero una Caporetto: l’esercito in rotta, i comandi confusi, il capo supremo Luigi Cadorna che getta le responsabilità sui soldati senza assumersi le proprie, una ritirata disordinata, intere unità abbandonate a se stesse. In meno di due settimane, a partire dalle prime ore del 24 ottobre 1917, si piangono oltre 40 mila tra morti e feriti, 280 mila prigionieri, più di 350 mila sbandati. Senza contare le migliaia di cannoni, le armi leggere di ogni tipo, i veicoli, le munizioni, i depositi di cibo e vestiario, andati perduti o presi dal nemico. Quasi la metà dell’intero apparato militare italiano nel suo complesso svanito, fuori gioco. Il fronte arretra di oltre 150 chilometri, sino quasi a Venezia. Terrà il Piave? Sognavamo Trento e Trieste, si mirava a Vienna, ma scopriamo che Cadorna valuta di arretrare al Po. A Roma c’è chi pensa per un attimo a una pace separata, in effetti alla resa. E non ci sono scusanti, neppure con il senno delle ricerche storiche posteriori, dei vecchi diari scovati nei cassetti e dei fondi d’archivio emersi cento anni dopo. Non serve insistere su isolati episodi d’eroismo, non serve enfatizzare alcuni limitati scontri a fuoco che crearono certo problemi al nemico, ma ebbero l’unico effetto di ritardare di poco l’avanzata austro-tedesca. Serve invece sottolineare quanto sia stato deleterio il ruolo della stampa allineata. I nostri giornalisti cantavano in coro la retorica della «bella morte», inventavano vittorie e successi mai avvenuti, gonfiavano il numero dei caduti nemici, edulcoravano quello dei nostri, magnificavano i «corpi bruniti e tonici» irrobustiti dalla vita in prima linea all’aria aperta, ma tacevano le difficoltà, sorvolavano sull’olezzo dei cadaveri imputriditi nella terra di nessuno, sul cibo scadente, il gelo d’inverno, l’arsura d’estate. Le «barzinate» (dal nome dell’inviato più noto, Luigi Barzini) illudevano il grande pubblico a casa e facevano imbestialire gli ufficiali e i soldati scolarizzati che dalle trincee al fronte leggevano e bestemmiavano contro tante palesi falsità. Poi, però, quegli stessi reporter nelle lettere ai direttori e alle loro famiglie raccontavano verità che la censura non poteva tollerare e loro si erano imposti di non dire in pubblico pur di restare famosi e venire stampati in prima pagina: il morale dei soldati a pezzi, l’impreparazione dei comandi, la pochezza di risultati nelle undici offensive sull’Isonzo a fronte degli immensi sforzi, la follia delle cariche all’arma bianca contro i nidi di mitragliatrice, utili solo per sacrificare senza senso migliaia di giovani vite. Questo e tanto altro non scrissero gli «inviati di guerra». Con il risultato che i comandi militari li disprezzavano, ma al tempo stesso li utilizzavano volentieri per legittimarsi a «eroi» nazionali. E quello ancora più grave che mancò una coscienza critica, non ci fu alcun pungolo al cambiamento. Eppure, i comandi italiani sapevano quasi tutto. Come ben sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel loro Caporetto , lo stesso Cadorna il 23 ottobre, poche ore prima dell’attacco nemico, scrive al ministro della Guerra Gaetano Giardino, e per conoscenza al re Vittorio Emanuele III, una «stupefacente» lettera (l’aggettivo è loro), in cui «il generalissimo prevede con estrema precisione quanto sta per succedere». In poche parole: le truppe scelte tedesche, smobilitate dal fronte orientale dopo lo scoppio della rivoluzione russa, si sono affiancate agli austriaci e hanno l’ordine di agire in modo indipendente: penetrare nel profondo delle retrovie italiane e avanzare senza sosta. Il loro attacco sarà preceduto da vasti bombardamenti con le armi chimiche. Si concentrerà nella zona di Caporetto, mirando alla dorsale del Kolovrat e alla linea Matajur-Monte Mia. Sono settimane che i disertori nemici e l’intelligence italiana rivelano l’imminenza dell’attacco. Cadorna conosce persino l’ora dell’inizio dei bombardamenti nemici. Ma non fa nulla, non prende provvedimenti, non corregge le scelte del comandante della 2ª armata, il generale Luigi Capello, che pure da settembre non aveva obbedito al suo ordine di predisporre le truppe in assetto difensivo. Anzi, ancora Cadorna ordina agli ufficiali di tranquillizzare la truppa perché le maschere antigas in dotazione sono le «migliori esistenti». E infatti muoiono a migliaia nelle loro posizioni nel fondovalle della conca di Caporetto. Il tenente Carlo Emilio Gadda ben racconterà nel Giornale di guerra e di prigionia l’incubo della sua compagnia d’artiglieria sul Monte Nero, che per tutta la giornata del 24 ottobre resta isolata, senza ordini, intuendo che fatti drammatici stanno avvenendo nel fondovalle, ma senza sapere che fare. Quindi la ritirata verso l’Isonzo tra gruppi di sbandati che gettano i fucili e non sanno come sottrarsi alla cattura. Al suo racconto cupo, intristito dal senso di impotente passività, fa da contraltare quello vitale e attivo che traspare dai Diari del tenente tedesco Erwin Rommel, nato nel 1891, due anni prima di Gadda, che con la sua unità di assaltatori ha l’ordine di sfondare verso Udine, passando di corsa dal Kolovrat e dal Matajur. Sono due modi opposti di concepire la guerra e il rapporto tra soldati e comandi. Quello italiano gerarchizzato, immobile, burocraticamente lento. Il tedesco veloce, dinamico, volto a valorizzare le scelte degli ufficiali inferiori sul campo. Cadorna sarà esonerato il 9 novembre. Ancora nel pieno della sconfitta. E mai decisione fu tanto appropriata. Tanto che appare curioso qualsiasi tentativi di riabilitarlo, anche se cento anni dopo.

LA REPUBBLICA Pag 1 Siamo tutti Anna Frank di Mario Calabresi

L'idea che l'immagine di Anna Frank possa essere utilizzata per insultare qualcuno è talmente arretrata e grottesca da squalificare per sempre chi l'ha pensata. Quel volto è nei cuori di ogni studente che abbia letto il suo Diario e l'abbia avuta come ideale compagna di banco: quella ragazzina ci ha raccontato non la sua morte ma la vita, i sogni, le speranze, il futuro sebbene si trovasse nel cuore della notte dell'umanità. Grazie a lei generazioni hanno compreso cosa è stato il nazismo, cosa abbia significato vivere nascosti, essere deportati e morire in un campo di sterminio. Quando ieri sera al giornale abbiamo visto la sua foto con la maglia della Roma, usata da un gruppo di ultrà della Lazio per infamare gli avversari, ci siamo indignati come tutte le volte che ci troviamo di fronte alla banalità del male. Ma questa volta abbiamo pensato che è necessario fare un passo in più. Come è diventato possibile che Anna Frank sia considerata un modo per offendere? Ribaltiamo i piani, restituiamole il suo valore, trasformiamola in un omaggio, non lasciamola sola e in mano all'ignoranza. E allora Anna Frank siamo tutti noi, può e deve avere la maglia di ogni squadra, essere parte della nostra vita. Ogni club dovrebbe farne una bandiera, per rispondere senza esitazione alla deriva degli estremisti delle curve. Soprattutto oggi che non solo una parte delle curve degli stadi ma una parte della società sta diventando ricettacolo di razzismo, antisemitismo e xenofobia. Perché Anna è la ragazzina che non ce la fa a sopravvivere fino alla Liberazione. Il suo Diario è la trama di una vita spezzata, che diventa parte della vita di tutti noi. Riprendiamocela, non lasciamola nelle mani di chi vuole calpestarla ma continuiamo a leggerla e a dedicarle strade, scuole e biblioteche.

AVVENIRE Pag 3 Aborto e diritti violati: guardate e vedete Flavia di Maurizio Patriciello Il peso della povertà sulla “scelta” di una giovane

Non sempre accade che i veri diritti siano riconosciuti e affrontati con la dovuta priorità. Sentiamo insistere su presunti diritti cui, a dire il vero, non avevamo mai pensato. L’aborto è un diritto? C’è chi vorrebbe allargare le maglie della legge 194 perché si possa arrivare a eliminare i bambini non ancora nati con più facilità, dimenticando quasi del tutto quella parte della legge che chiede di incontrare la donna in difficoltà, parlarle, individuare i motivi che l’hanno spinta a fare quella scelta dolorosissima per lei, per la famiglia, per la società. Aiutarla, sostenerla. Ricordandole che i problemi possono essere risolti, che col passare del tempo tante cose cambieranno. Ricordandole anche che una volta eseguito l’aborto, pur volendo, indietro non potrà tornare più. Ne abbiamo viste tante di queste donne lasciate a se stesse, che a distanza di decenni ancora rimpiangono quel gesto cui si sottoposero con troppa superficialità. Questa parte della legge 194 è inosservata, e sembra interessare poco e solo a tratti. Eppure dovrebbe stare a cuore a tutti, credenti e non credenti, in ballo non c’è 'qualcosa', ma la vita di un essere umano che verrà a rinnovare la faccia della terra. Flavia è una ragazza minorenne. È rimasta incinta. Sconcerto, paura, bisogno di affetto, di sicurezza, di calore. Flavia già ama il suo bambino. Lo vuole. Ma è sola, terribilmente sola. La famiglia non versa in buone condizioni economiche. Unica soluzione: l’aborto. Flavia non vuole, si oppone, ma è sola: una ragazza senza lavoro, senza soldi, senza alcun sostegno. Riusciamo a incontrare questa futura, impaurita, giovanissima, mamma. Ci facciamo accanto, le promettiamo aiuto. Le diciamo che non sarà abbandonata al suo destino. Ci siamo oggi, ci saremo domani. Con discrezione le raccontiamo di altre donne che come lei hanno avuto il coraggio di far nascere il loro figlio. Le chiediamo di fidarsi della Provvidenza, perché Dio di certo non ci abbandonerà. Arriva il giorno prefissato, Flavia viene condotta in ospedale, tutto è pronto per ' risolvere il problema'. Noi, col cuore a lutto, ci facciamo da parte, il nostro contributo deve essere calibrato, attento: Flavia non è nostra figlia. Intanto preghiamo. Pregare non è un modo per lavarsi le mani gettando sul Signore ogni responsabilità. Pregare per noi credenti è e rimane un atto di fiducia smisurata nella misericordia di Dio, è ricordare a noi stessi e agli altri che siamo veramente poca cosa se una mano misteriosa non ci sorreggesse dall’alto. Pregare è continuare a sperare anche quando ogni speranza sembra essere svanita. Separare l’azione dalla preghiera non il meglio per un cristiano. Preghiamo mentre Flavia viene condotta in ospedale. Che cosa succederà non lo sappiamo. In reparto Flavia rifiuta di sottoporsi all’intervento: piange, chiede di andare via. Viene riportata a casa. E adesso? È minorenne, occorre fare attenzione alle leggi, muoversi con delicatezza. Allertiamo i servizi sociali. La riposta è decisamente scoraggiante. Il Comune è in dissesto, non ci sono possibilità di poter aiutare Flavia, nemmeno aiutandola a trovare un piccolo lavoro. Unico aiuto è un supporto psicologico. Il muro di gomma contro il quale vanno a sbattere i poveri nel momento del bisogno si trasforma in una barriera di cemento armato. «L’aborto è un diritto», si dice da diverse parti. Davvero? E che cosa ne è del diritto dei bambini, che purtroppo non hanno ancora la voce per gridare al mondo che non vorrebbero essere eliminati. E quando i diritti confliggono occorre andarci piano, fermarsi, riflettere. Occorre eliminare per davvero tutti gli ostacoli che spingono una donna a fare una 'scelta' obbligata. A imboccare una strada a senso unico, gettando su di lei la responsabilità. Flavia ha scelto. Vuole partorire, allattare, coccolare il suo bambino; vuole stringerlo tra le braccia, farlo crescere, educarlo, amarlo. La famiglia, povera, non può aiutarla; il Comune in dissesto non riesce a farsi carico di questa assurda situazione; la sua condizione di minorenne limita il nostro aiuto. Non ci fermeremo. E non rinunciamo a far capire come il dramma della povertà incide sull’altrettanto grande dramma dell’aborto, e quanto tutto ciò pesi. Eppure tutto ciò sembra non interessare troppo chi nell’aborto vuole continuare a vedere a tutti i costi un salto verso la libertà. Guardino Flavia, piuttosto. Lei è l’icona di tutte le donne costrette ad abortire solo perché povere. Flavia ci interroga. Le risposte da dare sono urgenti.

IL GAZZETTINO Pag 27 La negazione dell’umanità dei “reporter per caso” su facebook di Maria Latella Social media

Si chiama vetrinizzazione. È la vita traslata sui social media. La negazione di basici gesti di umanità perché cosa vuoi che conti il singolo individuo, quello che mi sta vicino, quando posso parlare a una platea di migliaia, di milioni? Vetrinizzazione. La vita in vetrina, la rintronata follia del collezionista di like, famoso per un attimo nel mondo virtuale dei clic. È una metastasi che toglie ogni umanità, ogni compassione. Hai uno smartphone tra le mani, sei una protesi dello strumento. Vivi attraverso quel pezzo di alluminio. La storia la sapete già, l'avete appresa anche voi grazie a uno schermo, piccolo o grande che sia. Nella notte tra sabato e domenica, a Riccione, un uomo di 29 anni assiste a un grave incidente stradale. La vittima, un giovane di 24 anni, era in motorino e gli muore letteralmente davanti agli occhi, anzi davanti allo smartphone perché lui, il ventinovenne, è impegnato a filmarlo, a fare la diretta per Facebook. Non cerca di aiutarlo. Non chiama i soccorsi. C'ha da fare: deve riprendere l'agonia. Ha la diretta, càspita. Professione reporter per un dannatissimo momento di gloria. Sempre che le parole siano quelle che ha davvero pronunciato, naturalmente. Io sto a quel che riferisce Il Resto del Carlino. Il giornale l'ha contattato dopo che su Facebook i suoi follower avevano cercato di fargli capire quanto surreale (mi tengo bassa con gli aggettivi) fosse tutta la scena. «Cosa stai a filmare? Aiutalo che sta morendo». Il ventinovenne di Riccione (no, il nome non lo scrivo: non voglio dare il mio contributo alla metastasi della celebrità) al Carlino ha detto. «Mi sono messo a filmare perché volevo fare qualcosa per quel giovane a terra e condividere il mio dolore». Era sicuro che altri avessero chiamato i soccorsi e, dunque, volendo fare qualcosa per il ragazzo moribondo, lo filmava. Poi, caspita, aveva un'urgenza. Doveva condividere il suo di dolore. Non c'era altra urgenza: non quella di alleviare il dolore dell'altro. Non quella di fare qualcosa per salvarlo. C'era la sua. Lo so, i coetanei di questo alieno di Riccione diranno che bisogna misurare tutto con un altro metro, che è poi quello delle generazioni native digitali e non il mio. A me sembra tutto soltanto disumano. Troppo disumano. È disumano farsi possedere dal narcisismo della gratificazione. Lo scoop che acceca. I giornalisti conoscono bene quel mix di adrenalina, senso di onnipotenza, trionfo ed eccitazione. Ma i giornalisti, appunto, vengono educati a tenere sotto controllo l'avidità da scoop. Ci sono regole, chi non le rispetta, paga. In anni recenti abbiamo scoperto che in Gran Bretagna per uno scoop si mentiva, si registravano telefonate, si manipolavano persone. Ma chi l'ha fatto, poi, ha pagato. Il reporter per caso, invece, non ha regole. E non paga. Vive la stessa dimensione di onnipotenza del giovane cronista ma senza alcuna barriera ed, evidentemente, senza alcun limite morale. Si è scritto molto sull'era del narcisismo. Non abbastanza sulla desertificazione dei sentimenti che, in questa stessa stagione, si accompagna alla vita vetrinizzata, traslata su quel pezzo di alluminio che ci mette in contatto con chi ci segue e con chi seguiamo. I nativi digitali vanno a scuola accompagnati dalle assurde chat dei genitori. Fanno merenda chattando con i compagni che neppure più vedono. A 29 anni, fiero dei suoi undicimila followers, il reporter per caso di Riccione filmava la morte e, certo inconsciamente, pensava all'effetto che fa. Chissà quanti sarebbero diventati, i followers, dopo tutta quell'emozione in diretta. Lui pensava alle migliaia. Non al singolo, morente davanti a lui. A quel singolo pensassero gli altri. «Chiamate i soccorsi» ha scritto su Facebook. Lui aveva ben altro da fare. C'era tutto un mondo, là dentro il pezzo di alluminio, che aspettava il suo reportage.

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