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Corso di Laurea magistrale in Economia e Gestione delle Arti e dei beni culturali

Tesi di Laurea Magistrale

MODDERS KNOW BETTER

IL CONTENUTO CREATO DAGLI UTENTI NELL’INDUSTRIA VIDEOLUDICA, TRA PARTECIPAZIONE CULTURALE E MODELLI ECONOMICI

Relatrice Prof.ssa VALERIA MAGGIAN

Correlatore Prof. WALTER QUATTROCIOCCHI

Laureando ANDREA DI LORETO Matricola 871253

Anno Accademico 2019 / 2020

Sommario

INTRODUZIONE ...... 5

CAPITOLO 1: Il nell’industria dei videogiochi ...... 8

1.1 Analisi del settore ...... 8

1.1.1 Dimensioni del mercato ...... 9

1.1.1.1 Il mercato globale ...... 10

1.1.1.2 Il mercato su PC ...... 13

1.1.2 L’industria dei videogiochi ...... 14

1.1.3 Il videogioco come forma culturale ...... 16

1.1.3.1 Il videogioco come arte di massa ...... 16

1.1.3.2 Il videogioco come forma d’arte e gli art games ...... 17

1.1.3.3 Il videogioco come forma di partecipazione culturale ...... 20

1.2 Analisi della pratica del modding ...... 22

1.2.1 Definizioni ...... 22

1.2.1.1 User interface customization ...... 24

1.2.1.2 Game conversions ...... 26

1.2.1.3 Altre forme di modification ...... 28

1.2.2 Supporto alle ...... 30

1.2.2.1 Supporto delle aziende alle mod...... 31

1.2.2.2 Altri fattori a supporto delle mod ...... 33

1.2.3 Piattaforme di distribuzione ...... 35

1.2.4 Retribuzione dei modder ...... 37

1.2.4.1 Il caso dello Steam Workshop ...... 38

1.3 Derivative products ...... 39

1.3.1 I prodotti derivati dalle mod ...... 41

CAPITOLO 2: Business model e value chain dei videogiochi ...... 45

1 2.1 Il business model dei videogiochi ...... 45

2.1.1 Elementi chiave del business model ...... 46

2.1.2 Evoluzione del business model ...... 48

2.1.2.1 Il modello P2P ...... 50

2.1.2.2 Il modello F2P ...... 53

2.2 La catena del valore ...... 58

2.2.1 La catena di valore dell’industria videoludica classica ...... 59

2.2.2 La catena di valore dell’industria videoludica moderna ...... 63

2.3 Il ruolo delle mod all’interno dell’industria ...... 68

2.3.1 L’user generated content nel value network ...... 69

2.3.2 Pratiche di co-creazione ...... 71

2.3.2.1 La harnessing strategy ...... 73

2.3.2.2 Apertura vs. Controllo ...... 74

2.3.2.3 La retribuzione dei modder ...... 74

2.3.3 Benefici per le aziende ...... 75

2.3.3.1 L’innovazione attraverso le mod ...... 77

2.3.3.2 Le mod come veicoli di conoscenza ...... 78

2.4 Un nuovo modello di business ...... 78

2.4.1 Elementi del modello platform ...... 80

2.4.2 Il modello platform nel mercato videoludico...... 82

CAPITOLO 3: La figura del modder nell’industria ...... 84

3.1 La community dei giocatori ...... 84

3.1.1 Tassonomia della community ...... 85

3.1.1.1 Il ruolo dei lead user ...... 90

3.1.2 La figura del modder ...... 91

3.1.2.1 La relazione con la community ...... 93

3.1.2.2 Tassonomia dei modder ...... 95

2 3.1.3 Le motivazioni dei modder ...... 96

3.1.3.1 Il valore per i modder ...... 99

3.1.3.2 I sacrifici legati al modding ...... 100

3.2 Il modder come prosumer ...... 102

3.2.1 L’ascesa del prosumer ...... 102

3.2.1.1 Pratiche di produsage ...... 106

3.2.1.2 Il prosumer nell’industria videoludica ...... 107

3.2.2 La pratica del playbour ...... 108

3.2.2.1 Il playbour come pratica economica e culturale ...... 110

3.2.2.2 Giocare lavorando o lavorare giocando? ...... 111

CAPITOLO 4: Aspetti legali ...... 113

4.1 Il copyright dei videogiochi ...... 113

4.1.1 Legislazione internazionale ...... 114

4.1.1.1 Il copyright in America ...... 116

4.1.1.2 Il copyright in Europa ...... 117

4.1.1.3 Il copyright in Cina ...... 119

4.1.1.4 Il copyright in Giappone ...... 119

4.1.2 L’EULA e la proprietà sui videogiochi ...... 120

4.2 La proprietà delle mod ...... 121

4.2.1 Definizione legale delle mod ...... 122

4.2.1.1 Le mod come ...... 123

4.2.1.2 La ownership delle mod ...... 125

4.2.2 La strategia aziendale ...... 126

CONCLUSIONI ...... 129

BIBLIOGRAFIA ...... 131

SITOGRAFIA ...... 144

Siti consultati ...... 144

3 Articoli online ...... 144

INDICE DELLE FIGURE ...... 153

INDICE DELLE TABELLE ...... 154

4 INTRODUZIONE

Negli ultimi vent’anni, l’industria videoludica è enormemente cresciuta, divenendo una delle industrie più redditizie e più influenti del mondo culturale. Tuttavia, vi è ancora una certa ritrosia nel giudicare i videogiochi come un medium serio e capace di veicolare contenuti. In quanto prodotto artistico e culturale, il videogioco si trova ad occupare uno spazio unico, a metà tra la cultura “bassa” dell’intrattenimento e quella “alta” della riflessione culturale. Un modo per approcciare questo medium è analizzare la cultura partecipativa che si è creata, negli anni, attorno ai videogiochi, influenzando le scelte e le azioni delle aziende nei confronti della community. Di queste pratiche di partecipazione, il modding è certamente quella più importante, in quanto è unica dell’industria videoludica ed impossibile da ritrovare in altri medium culturali come l’arte, il cinema e la musica. Per modding, infatti, si intende la modificazione, da parte degli utenti, di un gioco, tramite l’aggiunta di contenuto o di codice al gioco originale. Obiettivo di questa tesi è, dunque, analizzare più a fondo questo importante fenomeno, collocandolo all’interno dell’industria videoludica e delle sue meccaniche ed inquadrandolo in un’ottica economica, sociale e legale. La letteratura in merito non presenta un quadro generale, ma cerca di inquadrare la pratica del modding attraverso la teoria della cultura partecipativa di Jenkins (2006a, 2006b) e la teoria del prosumerismo di Bruns (2006). I diversi autori che hanno trattato l’argomento, tra cui Postigo (2003, 2007, 2008, 2010), Sotamaa (2003, 2007, 2010), Scacchi (2010, 2011), Münch (2013), Kow & Nardi (2010), Sihvonen (2011) e Hong (2013), hanno seguito questi due filoni letterari per cercare di descrivere tali pratiche. In nessun caso il modding è descritto unicamente in un modo, piuttosto, la cultura delle mod ricade in entrambe le teorie. Küklich (2005) ha coniato il termine playbour per definire le attività degli utenti dietro le mod e il loro rapporto con l’industria, basandosi su Terranova (2000) e su Coleman & Dyer-Whiteford (2005). Wallace (2014), Kawashima (2010), Kretzschmar & Stanfill (2018), Baldrica (2007) e la nota Spare the Mod dell’Harward Law Review (2012) hanno tentato di descrivere il nebuloso mondo legale dietro il modding e i problemi legati al copyright. Nonostante il numero di studi riguardanti il modding sia cresciuto negli anni, tale pratica rimane ancora in gran parte inesplorata, anche a causa delle diverse motivazioni che spingono gli utenti a produrre contenuto, che sono allo stesso tempo economiche e non-

5 economiche (Poor, 2014). Diversi autori fanno rientrare tali attività nella teoria neoliberale del mercato, in cui anche il consumatore è produttore ed organizzatore del suo lavoro allo stesso tempo (Harvey, 2005; Hong, 2013; Brown, 2005). Quello che è certo è che la figura del consumatore-produttore è frutto dell’evoluzione digitale del mercato del lavoro, e la creatività nell’era del Web 2.0, e i problemi che porta, hanno risvolti sia per gli utenti, sia per l’industria. Nel primo capitolo di questa tesi analizzeremo l’industria dei videogiochi e la sua recente espansione, e tenteremo di definire che cos’è una mod, che cosa si intende per modding e le pratiche ad esso collegate. Nel secondo capitolo descriveremo il modello di business dell’industria videoludica, la sua evoluzione nel tempo, la sua value chain e in che modo le mod rientrano in essa. Nel terzo capitolo, approfondiremo le motivazioni dei modder, inserendoli all’interno della teoria del prosumerismo e del playbour e descrivendo la community di cui fanno parte. Nel quarto capitolo cercheremo di delineare un quadro degli aspetti legali riguardanti i videogiochi e le mod. L’obiettivo di questa tesi è quello di raccogliere i punti di vista e le teorie che sono sorte negli anni attorno alla pratica del modding in un discorso unitario, che riesca ad affrontarne ogni aspetto, per quanto brevemente. Inoltre, si desidera proporre un modello di value network dell’industria videoludica che incorpori l’azione dei consumatori e gli effetti delle mod, basato sul modello prosumeristico di Bruns (2010), e una tassonomia dei modder che li categorizzi secondo il tipo di mod che creano, seguendo lo schema di Bartle (1996).

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7 CAPITOLO 1: Il modding nell’industria dei videogiochi

In questo capitolo vogliamo dare un primo sguardo generale all’industria dei videogiochi mondiale, per vedere i nuovi trend che la caratterizzano. Inoltre, descriveremo il videogioco in quanto prodotto culturale. Successivamente, daremo la definizione di mod e di modding, e cercheremo di categorizzarli e di descrivere le pratiche che circondano le attività dei modder. Infine, parleremo dei derivative products e di come siano collegati alla pratica del modding.

1.1 Analisi del settore

Il mercato dei videogiochi ha attraversato un periodo di grande evoluzione e cambiamento negli ultimi suoi vent’anni di vita. Dall’inizio del nuovo millennio ad oggi, il mercato ha visto la nascita di tre differenti generazioni di videogames (la sesta, la settima e l’ottava generazione) oltre all’ascesa dell’enorme settore dei mobile games. I cambiamenti ne hanno riguardato la dimensione, la produzione, la distribuzione e il consumo. Il 2018 è stato l’anno di maggiore espansione del mercato dei digital games di sempre. I diversi settori di vendita di videogiochi hanno fruttato globalmente 109.8 miliardi di dollari (SuperData, 2018), con una crescita di più dell’11% rispetto al 2017.

Figura 1 – Ricavato dalla vendita digitale di videogiochi nel 2018 (SuperData, 2018)

I ricavi, come si vede dalla Figura 1, hanno riguardato soprattutto il mercato dei mobile games, cioè dei giochi per cellulare o tablet (55,8 %), a seguire i giochi per PC (32,6 %) e i giochi per console (11,6 %). Nonostante la vendita dei giochi a pagamento, o premium,

8 non sia crollata, ma anzi sia cresciuta del 10% nel 2018, con un ricavo di 17,8 miliardi di dollari (SuperData, 2018), a farla da padrone sono i giochi free-to-play (F2P), cioè senza un costo all’ingresso, ma caratterizzati da una forte componente pubblicitaria e da micro- transazioni al loro interno, coprendo oltre l’80% del ricavato in tutto il mercato (Simon et al., 2014). Le micro-transazioni fanno parte di dei nuovi modelli di business legati allo sviluppo dei giochi free-to-play, e consistono nell’acquisto, attraverso pagamenti di piccole somme di denaro, di beni virtuali, come nuovi oggetti e miglioramenti estetici del gioco (Van Berlo & Liblik, 2016). Questo boom dei giochi free-to-play, con un aumento del 12 % circa rispetto al 2017, è dovuto principalmente a due fattori collegati fra di loro:  l’espansione del mercato asiatico, che, nel 2018, ha contribuito al 62 % dei ricavi totali dei giochi digitali F2P, con sette dei dieci giochi in cima alla classifica dei più venduti provenienti da case di produzione asiatiche, come la coreana Nexon e la cinese Tencent Holdings Limited (Simon et al., 2014);  la diffusione di un certo modello di F2P, chiamato anche freemium, incarnato nel 2018 da Fortnite dell’americana , responsabile da solo di un ricavo annuo pari a 2,4 miliardi di dollari e della crescita così pronunciata del fatturato del modello F2P (Simon et al., 2014). Come vedremo più in dettaglio nel Capitolo 2, il modello freemium non pone un prezzo d’entrata al gioco, che è disponibile gratuitamente per tutti, ma basa il guadagno sulle micro-transazioni all’interno del gioco (Davidici-Nora, 2014). Il modello Fortnite si basa principalmente su due caratteristiche essenziali: l’essere multipiattaforma, cioè disponibile simultaneamente per PC, mobile e console, e l’offerta di un battle pass come alternativa vincente rispetto ad altri modelli di micro-transazioni (SuperData, 2018). Il battle-pass è un tipo di approccio alla monetizzazione dei videogiochi F2P che offre contenuto aggiuntivo ai giocatori che, in un periodo di tempo limitato, completano delle sfide e raggiungono le posizioni più alte in classifica. Fortnite ha fatto del battle pass il centro della sua strategia di monetizzazione, ispirando e influenzando la creazione di offerte dello stesso tipo in altri giochi F2P o a pagamento, come PlayerUknown’s Battleground, Call of Duty e Magic: the Gathering. Arena.

1.1.1 Dimensioni del mercato

Come abbiamo visto, il mercato dei videogiochi ha raggiunto dimensioni notevoli nel 2018, con un ricavato complessivo di 134,9 miliardi di dollari e una crescita del 10,9 %

9 rispetto al 2017 (Batchelor, 2018). L’industria videoludica ha superato agevolmente sia l’industria musicale che l’industria cinematografica globale, con una differenza all’anno 2018 rispettivamente di 90,5 e di 68,3 miliardi di dollari a separarli (Smartlaunch, 2019). Il trend non sembra volersi fermare, con l’entrata sul mercato dei nuovi produttori orientali e una base di giocatori costantemente in crescita. Andiamo ora a vedere più in dettaglio la composizione del mercato, la sua evoluzione lo stato delle cose attuale. Dopodiché, ci concentreremo nell’analisi del mercato dei videogiochi per PC, il quale risulta il più interessante ai fini della nostra tesi.

1.1.1.1 Il mercato globale

Il mercato dei videogiochi ha ormai estensione globale, con i suoi epicentri al 2017 negli Stati Uniti, in Nord Europa e nell’ Asia centrale.

Figura 2 – I paesi con il ricavato maggiore in dollari per il mercato videoludico (NewZoo, 2018)

È in questi paesi che si concentrano le case di sviluppo più importanti e dai ricavi più ampi, come si vede in Figura 2. Andiamo a vedere nel dettaglio le performance di ogni

10 area geografica, sfruttando i dati forniti dal 2018 Global Games Market Report del sito Newzoo (Newzoo, 2018).  In testa abbiamo i mercati orientali, con un ricavato complessivo di 71,4 $ miliardi, equivalenti al 51,8 % delle entrate globali del 2018, superiori del 16,8 % rispetto a quelle del 2017. Il numero di giocatori nei paesi orientali è superiore al miliardo e 200 milioni di persone. Tra i paesi, la Cina e il Giappone sono in testa per ricavi, con 37,9 $ e 19,2 $ miliardi rispettivamente.  A seguire, l’America del Nord, comprendente Stati Uniti e Canada, con un ricavato complessivo di 32,7 $ miliardi, corrispondenti al 23,7 % del mercato globale, a seguito di una crescita del 10 % rispetto all’anno precedente. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo paese mondiale per ricavo, con 30,4 $ miliardi nel 2018, ma non per numero di giocatori, pari soltanto a 200 milioni di persone.  L’Europa Occidentale si configura come la terza area più redditizia, con un guadagno complessivo di 20 $ miliardi, maggiori del 5,6% rispetto al 2017, costituenti una fetta del mercato globale del 14,5 %. In testa, la Germania, con 4,7 $ miliardi, e l’Inghilterra, con 4,5 $ miliardi. L’Italia, al pari con la Spagna, ha avuto un ricavato di soli 2 $ miliardi nel 2018. In Europa occidentale vivono poco più di 200 milioni di giocatori.  L’America latina è il quarto continente più redditizio, con un ricavato complessivo di 5 $ miliardi nel 2018, pari al 3,6 % del ricavato globale, con una crescita del 13,5 % rispetto agli anni passati. Messico e Brasile guidano il mercato, con 1,5 $ miliardi di ricavi ciascuno. L’America latina conta 230 milioni di giocatori.  Le regioni medio-orientali e l’Africa rappresentano il quinto continente più redditizio, con un ricavo complessivo di 4,9 $ miliardi, pari al 3,6 % del ricavato globale, con una crescita del 23,6 % rispetto al 2017. Turchia e Arabia Saudita sono i paesi con il ricavato maggiore, rispettivamente di 878 $ milioni e 761 $ milioni. I giocatori in questa regione sono più di 330 milioni.  Infine, l’Europa Orientale e la Russia costituiscono la regione con minor ricavato nel 2018, pari soltanto a 3,9 $ miliardi, il 2,8 % del ricavato globale, in crescita rispetto al 2017 del 9,1 %. La Russia, con 1,7 $ miliardi di guadagni, guida le vendite di questa regione. Il numero di giocatori ammonta a circa 150 milioni per questi paesi.

11 A seguito di questi dati, possiamo dire che i mercati orientali e medio-orientali sono quelli la cui crescita è stata più forte negli ultimi anni. La Cina si conferma il singolo mercato più largo, con una crescita prevista al 2021 del 19,2 %, per arrivare ad un ricavato di oltre 50 $ miliardi. Altri mercati in espansione nei prossimi tre anni saranno l’India e le altre regioni del sudest asiatico, cementando l’Asia come paese più redditizio e con il maggior bacino di utenti per il mercato dei videogiochi.

Figura 3 – Ricavato globale diviso per aree geografiche (NewZoo, 2018)

Possiamo motivare questa crescita a seguito del boom parallelo nel settore dei videogiochi per smartphone e tablet, che per la prima volta nella storia nel 2018 hanno costituito oltre il 50 % dei ricavi globali dell’industria. Il mobile gaming, cioè i giochi su dispositivi mobili, è particolarmente apprezzato nei paesi asiatici, dove si concentrano molte case di sviluppo tecnologiche, di smartphone e tablet (NewZoo, 2018). Analizziamo ora i diversi settori del mercato nel 2018.  Come abbiamo detto, il ricavato delle vendite dei giochi per smartphone supera per la prima volta tutti gli altri campi, con un guadagno complessivo di 56,4 $ miliardi, pari al 41 % di tutto il mercato, in crescita del 29 % rispetto al 2017.  A seguire, ma staccato di molto dal mercato mobile, troviamo i giochi per console, di cui i maggiori esponenti sono la Sony per la Playstation, la Microsoft per l’Xbox e la Nintendo per la . Il ricavato complessivo dei giochi

12 per console nel 2018 è di 34,6 $ miliardi, cioè il 25 % del mercato, con una crescita rispetto all’anno precedente del 4,1 %.  Subito dietro troviamo il mercato dei giochi per PC, con un ricavato annuo di 28,6 $ miliardi, cioè il 21 % del mercato globale, in crescita rispetto al 2017 del 4,5 %.  Per ultimo, ma accomunabile al settore mobile, il mercato dei giochi per tablet, che raggiunge i 13,9 $ miliardi di guadagni, pari al 10 % del fatturato complessivo, con una crescita del 13 % rispetto al 2017. È evidente come la crescita dei giochi per mobile sia sproporzionata rispetto a quella degli altri settori. Questa crescita è stata resa possibile da diversi fattori: innanzitutto, il miglioramento dei motori degli smartphone e dei tablet, diventati più potenti e graficamente performativi grazie allo sviluppo tecnologico e a forti investimenti nel settore (Feijòo, 2014); lo sviluppo di giochi e l’adattamento di generi classicamente riservati a PC e console anche per i mobile device; la spinta sulle componenti competitive e multiplayer anche per i giochi casual e meno impegnativi (De Prato et al., 2014); lo sviluppo delle applicazioni cloud, che permettono di oltrepassare i limiti di memoria del dispositivo appoggiandosi su di un online network; infine, possiamo anche citare come ragion d’essere di questo sviluppo il comprovato successo del modello di business dei giochi F2P, con micro-transazioni al loro interno, che rappresentano il 90 % dei modelli di business per prodotti mobile (Newzoo, 2016). L’app economy, in cui l’offerta di dispositivi e di network sempre più avanzati incontra la domanda sempre crescente dei consumatori, si basa principalmente sui mobile games come fonte primaria di reddito.

1.1.1.2 Il mercato su PC

Il mercato dei videogiochi per personal computer, sebbene, come abbiamo visto, abbia un’importanza ridotta a livello globale rispetto ad un tempo, è ancora uno dei mercati più importanti sui quali il sistema è portato ad investire. Il mercato PC è valutato a 29,5 $ miliardi nel 2018, e ci si aspetta che salga a oltre 33 $ miliardi di ricavato per il 2020, come evidenziato dalla Figura 4 ( Gaming Africa, 2017). Il suo epicentro è tuttora all’interno del Nord America e dell’Europa centrale, mentre i mercati asiatici si concentrano di più sull’industria mobile e tablet. Il ricavato del mercato per PC non è formato solo dalla vendita dei videogiochi, ma anche dalla vendita hardware, che ammonta a oltre 23 $ di dollari al 2017 (Jon Peddie Research, 2014).

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Figura 4 – La dimensione del mercato PC (Video Gaming Africa, 2017)

La piattaforma Steam è il canale di distribuzione digitale di videogiochi preferito dagli utenti PC e dagli sviluppatori, con un fatturato di oltre 5 $ milioni nel 2018 (VG24, 2018). Tra i giochi per computer, in cima alla lista troviamo Fortnite e League of Legends per il mercato dei titoli F2P, e PlayerUnknown’s Battleground, Call of Duty V e V per il mercato premium, cioè dei titoli a pagamento (SuperData, 2018).

1.1.2 L’industria dei videogiochi

Quando parliamo di industria dei videogiochi parliamo di un’industria che si sviluppa a livello globale, tramite un sistema di business e un modello di creazione del valore molto complessi e ramificati. Innanzitutto, possiamo fare una prima distinzione tra le aziende che compongono il mercato: dividiamo le aziende di sviluppo (developers), che si occupano della programmazione e dello sviluppo creativo del gioco, dalle aziende di distribuzione (publishers), che provvedono all’advertising, alla distribuzione dei prodotti e alla gestione delle licenze (Zackariasson & Wilson, 2012). Lo sviluppo di un gioco si può dividere in tre diversi segmenti (Zackariasson & Wilson, 2012; Bethke, 2003):

14  lo sviluppo first-party di titoli prevede che le case di sviluppo siano di proprietà delle stesse aziende di publishing, dunque, lo sviluppo avviene tutto all’interno dell’azienda. È il caso dei grandi publisher e dei pezzi grossi dell’industria, come Sony, Microsoft e Nintendo, che impiegano sviluppatori first-party per creare giochi adatti alle loro console;  lo sviluppo second-party riguarda quelle case di sviluppo che sono legate da contratto ad una specifica azienda o uno specifico publisher, ma non sono di proprietà. È il caso della Game Freak, casa di sviluppo che si occupa del brand Pokémon per la Nintendo ma che non è di proprietà della Nintendo;  infine, i titoli third-party sono sviluppati da case di produzione slegate dai publisher, che possono lavorare in proprio (è il caso delle piccole case di sviluppo indipendenti, o indie, come l’australiana Team Cherry, per citare un caso di grande successo) o a contratto per uno o più publisher (l’americana Activision Blizzard sviluppa giochi sia first-party, per sé stessa, che third-party, stipulando contratti con altre case di sviluppo). Un’analisi più approfondita del mercato rivela che una gran parte dei per videogiochi è prodotto da un ristretto numero di aziende che dominano il mercato (Statista, 2016). In questo senso, il mercato dei videogiochi è un oligopolio, in cui la maggior parte del reddito è generato da poche aziende di punta, tra cui figurano le tre grandi produttrici di console, cioè Microsoft, Sony e Nintendo e la cinese Tencent (Hennig-Thurau, 2013). Ogni azienda è caratterizzata da un vasto portafoglio di titoli, ciascuno indirizzato ad un certo tipo di consumatori, per garantire una presenza su tutti i mercati e una differenziazione dell’offerta. Un’altra importante componente del mercato sono i canali di distribuzione dei prodotti. Fino agli anni 2000, questa componente riguardava principalmente la distribuzione fisica del prodotto, dunque i negozi di videogiochi che vendevano fisicamente il prodotto. Dal 2003, con la nascita di Steam, seguita da altre piattaforme di vendita virtuale, alle copie fisiche dei giochi si sono via via sostituite le copie virtuali, e la distribuzione, ai nostri giorni, riguarda principalmente tali piattaforme. Tra queste ricordiamo anche l’Epic Games Store, il PlayStation Store della Sony e, per quanto riguarda il mercato mobile, l’iOS Store e il Google Play Store (De Prato et al., 2014). Non andremo oltre ad indagare il business system dell’industria dei videogiochi ora, lasciando un’analisi più dettagliata per il Capitolo 2.

15 1.1.3 Il videogioco come forma culturale

Come abbiamo visto, i videogiochi hanno superato come dimensione del mercato altri settori culturali ben più affermati, come il cinema e la musica. Tuttavia, il loro statuto come forma d’arte dà tuttora adito a discussioni e controversie. Vediamo alcune delle posizioni più esplicative di questo tema e cerchiamo di sintetizzare una risposta alla domanda: i videogiochi sono una forma d’arte?

1.1.3.1 Il videogioco come arte di massa

Un videogioco, in quanto oggetto, è ontologicamente differente da un quadro o una scultura, in quanto non ne esiste una singola istanza, ma può essere facilmente riprodotto ed ogni istanza ha la stessa “valenza” ontologica di un’altra (Tavinor, 2011). Dunque, possiamo classificare i videogiochi in quella forma di arte chiamata arte di massa (mass art) secondo la definizione di Noël Carroll (1998, p. 196):

“1. is a multiple instance or type art work, 2. produced and distributed by a mass technology, 3. which art work is intentionally designed to gravitate in its structural choices (for example, its narrative forms, symbolism, intended effect, and even its content) toward those choices that promise accessibility with minimum effort, virtually on first contact, for the largest number of untutored (or relatively untutored) audiences.”

Le condizioni (1) e (2) sono facilmente verificabili, in quanto un videogioco può essere giocato contemporaneamente da molte persone diverse, su dispositivi tecnologici di massa come cellulari, tablet, PC o consoles. La condizione (3) è più difficile da verificare, in quanto i videogiochi richiedono una certa abilità per essere giocati (Tavinor, 2011), anche se si può affermare che tali barriere di abilità sono state praticamente annullate con l’espansione del mercato mobile, i cui prodotti sono indirizzati a giocatori casual, senza esperienza di gioco. Un’altra barriera che limita l’accesso a certi videogiochi è quella computazionale: certi giochi richiedono una certa potenza computazionale o un motore grafico di un certo livello per poter essere usufruiti. Tuttavia, anche ammettendo i videogiochi nella qualifica di “arte di massa”, non si può non notare come essi presentino delle differenze strutturali da altre forme d’arte

16 d’intrattenimento, come i film, la musica o i libri. Quando guardiamo un film già visto, sappiamo cosa aspettarci, in quanto la trama, la composizione della scena, le luci e l’audio saranno uguali all’ volta che lo abbiamo visto. Di un film, siamo spettatori passivi. Nel caso di un videogioco, che basa la propria esistenza sull’interazione con i giocatori, invece, ogni volta che giocheremo avremo esperienze diverse: soprattutto nei giochi open-world, potremo saltare intere sequenze di trama, decidere di non compiere alcune missioni, o dare alla trama un’altra direzione con le nostre scelte. Ontologicamente, definiamo la relazione tra un film e la sua struttura rappresentativa come la relazione tra un tipo e le sue istanze (type/tokens relationship, Lopes, 2001). Il tipo di un film determina sempre ed è sempre determinato dalle sue istanze, che condividono la stessa la sua struttura rappresentativa. Non è dunque il caso dei videogiochi, in cui non sembra esserci una singola struttura artistica comune a tutte le istanze del gioco (Tavinor, 2011). Questo è particolarmente vero in quei giochi che danno molta libertà ai giocatori di personalizzare la loro esperienza (come i role-play videogames e i videogiochi di simulazione come The Sims). Dunque, questa caratteristica rende falsa la condizione (1) della definizione di Carroll, che vuole che ogni multipla istanza di un tipo sia uguale alle altre (Carroll, 2001). Tuttavia, Tavinor (2011) sostiene che i videogiochi, per quanto lontani da un film o un libro, si basino comunque su una struttura artistica, articolata però sull’interpretazione dell’algoritmo di gioco attraverso gli assets, cioè i contenuti audio-video, e gli input del giocatore. Tale struttura artistica quindi non è espressa attraverso una relazione type/tokens, ma tramite un “computational artifact” (Tavinor, 2011, p. 13), cioè un artefatto in grado di generare infinite combinazioni di assets a partire dall’algoritmo e dagli input dei giocatori. Dunque, il videogioco può rientrare nella definizione di Carroll di “mass art”, in quanto istanza multipla di un singolo computational artifact.

1.1.3.2 Il videogioco come forma d’arte e gli art games

Abbiamo parlato di come il videogioco possa costituire una forma d’arte di massa secondo la definizione di Carroll (2001). I videogiochi, tuttavia, possono essere definiti artistici? Possono, cioè, i loro contenuti essere definiti artistici in quanto portatori di significati? Tale questione di natura filosofica è aperta e il dibattito è estremamente esteso; cerchiamo, dunque, di definire alcune delle posizioni più importanti sul tema senza addentrarci troppo in un argomento che richiederebbe una vasta ricerca a sé stante.

17 Partiamo da una visione critica della questione, citando la tesi del critico Roger Ebert Video games can never be art del 2010, in cui sostiene che i videogiochi non possono essere considerati una forma d’arte a causa del fatto che essi sono costituiti da regole, punti, obiettivi e condizioni di vittoria (Ebert, 2010). La stessa possibilità dello spettatore di interagire con il prodotto renderebbe inammissibile lo statuto di “opera d’arte”, andando contro all’opinione di altri autori che invece vedono i videogiochi come una forma d’arte “in fieri”, non ancora sviluppata in tutto il suo potenziale (Santiago, 2010; Sjöberg, 2010). A sostegno di Ebert, altri autori hanno sostenuto che è proprio la capacità di scelta dei giocatori ad invalidare l’autorialità, dunque l’artisticità, dei videogiochi (Moriarty & Caoili, 2011). Un’altra posizione critica da citare è quella di Michael Samyn, membro fondatore dello studio videoludico Tale of Tales, che in una conferenza del 2010 sulla storia dell’arte nei videogiochi espresse i suoi dubbi sull’artisticità dei videogiochi, sostenendo che, derivando essi dai giochi, non avrebbero fatto altro che andare incontro ad un bisogno fisiologico delle persone, cioè quello del “gioco” (Pratt, 2010). Ciò sarebbe sufficiente per invalidare l’idea di gioco come opera d’arte. Secondo Samyn, per poter avvicinare il videogioco ad un’espressione artistica, ci si dovrebbe liberare dell’influenza dell’industria videoludica, che impone un modello di videogioco basato sulla competizione e sul gameplay (Samyn, 2011), ed andare verso un gioco “non-gioco” in cui l’autorialità possa essere espressa al di fuori della logica di gameplay e di intrattenimento (Samyn, 2011). Le affermazioni di Samyn non stupiscono, in quanto lo studio belga Tale of Tales è considerato uno studio “indie”, cioè indipendente, specializzato nella creazione di quelli che vengono chiamati art games, cioè giochi caratterizzati da un’estetica distintiva o altamente stilizzata, creati da team di sviluppo relativamente piccoli in cui è facilmente distinguibile una figura autoriale, un gameplay ridotto ai minimi termini e un “tema” centrale su cui i giocatori sono portati a riflettere (Parker, 2013; Stalker, 2005). Tale tema può essere una riflessione politica, identitaria o sociale, o un tentativo di farci immedesimare in un personaggio per cui proviamo empatia (Holmes, 2003; Dìaz, 2015). La definizione non è univoca né comprensiva, ma serve ad inquadrare un genere videoludico che negli ultimi anni è divenuto piuttosto diffuso, con titoli come Limbo della Playdead (2010), Journey della Thatgamecompany (2012), Unravel della Coldwood Interactive (2016) e, in un certo senso, Undertale di Toby Fox (2015).

18 Il mondo degli art games è strettamente legato a quello della produzione videoludica indie, con piccoli studi di sviluppo capaci di affrontare i rischi di creare giochi con meccaniche innovative e non classicamente “giocose” (Stalker, 2005). Questo concetto di “non-gioco” prende forma in titoli in cui il gameplay si configura più come una passiva “camminata” in un mondo virtuale in cui il giocatore è semplice spettatore passivo di una narrazione. In questo senso il videogioco è stato avvicinato più all’architettura che ad altre forme d’arte, in cui l’artista crea uno spazio di cui lo spettatore può fare esperienza secondo i suoi termini (Young & Misener, 2011). Tuttavia, il concetto di art games ha sollevato numerose critiche, innanzitutto per il fatto di innalzare in questo modo un muro tra un videogioco “alto”, collegato a valori propriamente artistici, e un videogioco “basso”, che risponde unicamente ad una funzione di gioco (Young & Misener, 2010; Pedercini, 2011; Sterling, 2012). In particolare, si parla di un doppio standard: qualora un gioco si concentrasse su delle meccaniche di gameplay e di competizione, come gran parte dei giochi considerati mainstream, sarebbe immediatamente escluso da un discorso artistico; un gioco che, invece, venisse sviluppato come art game, cioè con un’estetica distintiva e un gameplay innovativo, non avrebbe comunque quelle caratteristiche per poter essere chiamato a tutti gli effetti “artistico” nel senso tradizionale del termine (Young & Misener, 2010). Inoltre, chiamare arte gli indie games soltanto perché innovano il genere e si differenziano dai giochi mainstream sarebbe come dare validità all’innovazione in quanto tale, pur essendo gli indie games altrettanto aridi di contenuti artistici quanto altri giochi (Smith, 2013). C’è anche da dire che gli art games sono spesso stati considerati elitari, per un pubblico colto, accademico e “snob”, e raramente attirano le attenzioni dei gamer come invece fanno giochi più basati sulla competizione e sul gameplay (Holmes, 2003; Sterling, 2012; Rogers, 2013). Mettendo un attimo da parte le differenze strutturali, ciò che differenzia un art game è principalmente l’intento artistico, assente dai videogiochi mainstream realizzati con fini puramente commerciali e orientati al gameplay (Stalker, 2005; Ploug, 2005). In un art game, la parte gameplay e interattiva altro non è che un mezzo per un fine artistico, che può essere estetico, comunicativo o riflessivo (Holmes, 2003). Graham ed Elizabeth Coulter-Smith (2006, pp. 179) definiscono i videogiochi come “a mode of communication that is not instrumental and not overbearingly focused on the linguistic model”, cioè un medium comunicativo che richiede una partecipazione attiva invece che basarsi su un linguaggio astratto. I due autori vedono il videogioco come una possibilità di portare una

19 fonte di creatività nella vita di tutti i giorni, ma riconoscono che, ad oggi, gli art games sono realizzati principalmente per un’audience accademica ed istruita. In definitiva, il bagaglio che il videogioco si porta dietro e non gli permette di entrare a pieno titolo nei canoni della high art è quello di essere associato ad uno sviluppo commerciale ed industriale e di essere configurato come bene di consumo e intrattenimento (Holmes, 2003). Gli art games possono uscire da questi canoni, a discapito tuttavia di alcuni elementi essenziali del gioco in quanto tale: il gameplay, il ruolo attivo ed interattivo del giocatore e una larga fetta di audience – e, dunque, una community realmente dedicata (Stalker, 2005; Holmes, 2003; Coulter-Smith, 2006).

1.1.3.3 Il videogioco come forma di partecipazione culturale

Abbiamo visto che l’idea che un videogioco figuri tra le high arts ha suscitato numerose controversie ed è ancora per molti inaccettabile. Tradizionalmente, i videogiochi occupano un “cultural gutter”, uno strato culturale considerato “basso”, kitsch, rientrante nella categoria della low art (Young & Misener, 2010). I videogiochi sono spesso associati alla cultura giovanile, alla sedentarietà e all’occupazione del tempo libero, come anche altri prodotti di intrattenimento, caratterizzati da un’”improduttività” di fondo (Cannon, 2005; Pearce, 2006). Tuttavia, non si può negare che i videogiochi siano una delle forme di intrattenimento più diffuse nel mondo, e che continuino ad avere un’influenza sulla cultura popolare, finendo per formare una sub-cultura caratterizzata dal proprio lessico, i propri rituali e le proprie community, come vedremo nel Capitolo 3 (Sihvonen, 2011; Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Una cultura della partecipazione è definita in contrasto alle tradizionali nozioni di ricezione passiva dei media e vede il consumatore come una parte fondamentale del processo di creazione del valore. Essendo il videogioco un prodotto creativo, esperienziale e di intrattenimento (Troilo, 2014), il suo valore sta tutto nell’esperienza di consumo del giocatore. Il gioco stesso presuppone dunque una partecipazione tra lo sviluppatore e il consumatore, in quanto sta a quest’ultimo la parte della creazione del valore tramite il consumo (Pearce, 2006). Tuttavia, tale processo va molto oltre il semplice consumo edonico di un gioco: il valore di un videogame sta anche e soprattutto nella capacità di comunicarlo e condividerlo con una community attiva e partecipante.

20 1 Tale cultura partecipativa va oltre il gioco, inserendosi nella filosofia OSS0F , che da sempre incoraggia la collaborazione, il co-learning e la libera circolazione di informazioni (Pearce, 2006). Possiamo definire il videogioco come una forma “ibrida”, un mix di tecnologia, contenuti artistici e storytelling interattivo (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Attraverso differenti pratiche di consumo, è possibile, per i consumatori, appropriarsi culturalmente di questa forma ibrida, adattandola ai propri bisogni e alle proprie preferenze (Scacchi, 2011; Shivonen, 2011). Una prima forma di appropriazione culturale sono le mod, attraverso cui è possibile, come vedremo, cambiare colore della pelle di un personaggio o del proprio avatar. La personalizzazione dell’avatar è un “livello zero” del design di molti giochi – un paradigma che deriva dalla prima domanda basilare che un gioco può fare ad un giocatore: vuoi essere maschio o femmina (Shivonen, 2011)? In giochi come The Sims, in cui il gameplay è incentrato sulla creazione di contenuto da parte del giocatore, questo tipo di appropriazione è portato alle estreme conseguenze, e le mod costituiscono un modo per aggiungere scelte dove non sono state previste (Shivonen, 2011). La partecipazione culturale, dunque, non passa per forza dalla condivisione dell’esperienza di gioco: non a tutti interessa o non tutti hanno la possibilità di giocare in compagnia. Tuttavia, dal momento che il giocatore fa una scelta – maschio o femmina? – sta compartecipando ad una creazione di valore, assimilando il gioco all’interno della propria cultura, delle proprie credenze e dei propri rituali (Shivonen, 2011; Scacchi, 2008). L’avatar videoludico è una maniera di rappresentare sé stessi, o, quantomeno, ciò che si vuol far percepire di sé, soprattutto nei giochi multiplayer (Jordan, 1999; Waggoner, 2009). Anche il modo di giocare è un’espressione di sé stessi, dei propri desideri e di ciò che effettivamente appaga (Bartle, 1996). Anche se attraverso il gioco non siamo portati a interagire con altri giocatori (come succede in tutti i giochi single- player), stiamo comunque interagendo con il lavoro creativo di autori e sviluppatori, e, fintanto che il gioco rimane interattivo, è sulla nostra partecipazione che il valore del gioco risiede. Le mod sono la forma più esemplificativa di tale partecipazione e della pratica dell’appropriazione culturale del media videogioco.

1 Open-source software

21 1.2 Analisi della pratica del modding

Definiamo ora in modo preciso cosa si intende per modding e cerchiamo delle definizioni che ci aiutino a circoscrivere il nostro campo di ricerca. Il modding è una pratica ampia, sfaccettata e difficile da inquadrare, dunque, partiamo dalle definizioni di cosa è una mod, cosa si intende per modding e dove si trovano le mod per focalizzare meglio il problema.

1.2.1 Definizioni

La pratica del modding deriva dalla parola mod, che è un’abbreviazione di modification, cioè modificazione. Riferito ad un videogioco, per mod si intende un’alterazione di contenuto, che opera in maniera differente dal videogioco di partenza (Dey et al., 2016). La pratica del modding è definita come “the end user alteration of commercial hardware and software products” (Kow, 2010, p. 1), o come “modification of a game through user- made additions of game content” (Hong, 2013, p. 985). Di conseguenza, coloro che creano le mod sono chiamati modder, e sono principalmente da ricondurre alla fanbase di un gioco o una serie di giochi (Sotamaa, 2010; Postigo, 2008). La cultura del modding può essere vista come una cultura partecipativa, in cui i fan di un prodotto assumono un ruolo attivo in processi di “re-structuring and tweaking” della narrativa del prodotto stesso (Postigo, 2010; Jenkins, 2002; Sotamaa, 2010; Shivonen, 2011). Possiamo dire che i giochi sono divisi in due componenti principali: il contenuto del gioco (content) e il motore di gioco, o engine (Wallace, 2014; Postigo, 2010; Sihvonen, 2011). Il contenuto del gioco è ciò con cui gli utenti interagiscono, attraverso l’interfaccia utente (UI), ed è composto dall’avatar del giocatore, dai personaggi, dai livelli e dagli oggetti. Ogni gioco ha un contenuto unico e a sé stante, a cui gli utenti possono avere più o meno accesso nei file di gioco (Sihvonen, 2011). Il contenuto si appoggia sul motore di gioco, cioè una collezione di moduli software riutilizzabili, che comprendono il render grafico, il motore fisico, i modelli di suono e l’intelligenza artificiale (Wallace, 2014). Un motore di gioco è molto difficile e costoso da costruire partendo da zero, dunque è pratica comune riutilizzare lo stesso engine per più giochi diversi, soprattutto in una stessa casa di sviluppo, o anche tra diversi produttori. Il motore 3, della Epic Games, è stato utilizzato per più di 250 giochi differenti, da diverse case di produzione. Una mod non è mai un software a sé stante, ma interviene sul contenuto di un gioco, basandosi sul suo engine. Questi interventi possono essere effettuati in due modi: utilizzando degli strumenti (tool), forniti dalla casa di sviluppo, che permettano agli utenti

22 di modificare il contenuto del gioco, oppure sfruttando dei software di terze parti (Wallace, 2014). La differenza tra questi due metodi risiede nella differente applicazione dei copyright contenuti all’interno dell’EULA (End-User License Agreement) del gioco: una mod realizzata con gli strumenti forniti dalla casa di sviluppo è autorizzata dall’EULA, fintanto che non se ne fa uso commerciale, mentre degli interventi realizzati con software di terze parti potrebbero non essere autorizzati. Le mod possono modificare delle caratteristiche del gioco, possono aggiungere delle componenti o del contenuto ex novo o possono correggere dei bug o delle sviste presenti nel gioco originale. Dalle mod più semplici, in cui è soltanto il comparto grafico ad essere modificato, si arriva alle mod più complesse ed estese, come ad esempio le total conversions, in cui è l’intero gioco ad essere modificato o allargato (Hong, 2013). Le mod per un gioco possono diventare così importanti da richiedere una distinzione tra il gioco modificato o “moddato” e il gioco originale, o vanilla. La versione vanilla di un gioco non comprende nessuna mod al suo interno, mentre esistono giochi che possono sostenere centinaia di mod attive al proprio interno. Scacchi (2013) individua cinque tipologie diverse di mod:  personalizzazione dell’interfaccia (user interface customization);  conversione parziale o totale di un gioco (game conversion);  modificazioni artistiche o (machinima and art mods);  personalizzazione hardware di computer da gioco (game computer customization);  modificazioni delle console di gioco (game console hacking). Per il nostro ambito di ricerca, ci interesseremo delle prime due tipologie di mod, che riguardano esclusivamente i software di gioco, ed escluderemo un’ulteriore ricerca sulle ultime due tipologie, incentrate su modificazioni dell’hardware. Inoltre, non ci soffermeremo sul fenomeno delle machinima (immagini e video creati partendo dall’engine grafico di un gioco) né sull’utilizzo dei contenuti dei giochi per la creazione di prodotti artistici o altro user generated content. Tali prodotti ed esperimenti, per quanto interessanti dal punto di vista del linguaggio artistico utilizzato, non rientrano a far parte del nostro ambito di ricerca in quanto sono pensati e realizzati per scopi differenti rispetto alle mod.

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1.2.1.1 User interface customization

Un primo livello di personalizzazione dell’esperienza di gioco viene spesso proposto direttamente dalle aziende nei loro prodotti, al fine di migliorare la soddisfazione dell’utente e il successo del prodotto. L’interfaccia di gioco è un medium attraverso il quale i giocatori possono esprimere la propria personalità o ottenere vantaggi nel gioco derivanti da una maggiore quantità di informazioni a loro disposizione. In questo caso, sono gli sviluppatori a decidere e governare il livello di personalizzazione dell’esperienza di gioco, e non si può parlare propriamente di mod. Spesso e volentieri, inoltre, la personalizzazione dell’interfaccia viene monetizzata dalle case di produzione attraverso i sistemi di micro-transazione, soprattutto nei casi dei giochi F2P (Davidici-Nora, 2014). Si possono osservare tre tipi di personalizzazione dell’interfaccia utente (Scacchi, 2013):  la prima e più comune è la possibilità di selezionare, personalizzare e accessoriare il personaggio a cui è associata l’identità dell’utente nel gioco. Ad esempio, nei giochi con un avatar, il giocatore può personalizzare il colore dei capelli, il vestiario e il sesso del proprio avatar;  la seconda è la possibilità di personalizzare i colori, le forme e il tema dell’interfaccia utente, similmente a quanto si può fare con un browser. Ad esempio, cambiare il colore o la dimensione dell’interfaccia;  in terzo luogo, vi sono i componenti aggiuntivi (add-on o plugin) dell’interfaccia utente che vanno a modificare la gestione delle informazioni di gioco, ma che non modificano necessariamente le regole o le funzioni di gioco. Tali add-on sono spesso creati dagli stessi giocatori, utilizzando le risorse fornite dalla casa di sviluppo – le API (Application Programming Interface), che regolano le modificazioni al codice e costituiscono uno “spazio di design” per gli sviluppatori indipendenti (Davidici-Nora, 2009). Gli add-on vengono generalmente utilizzati per fornire informazioni maggiori o più dettagliate sulle statistiche numeriche di gioco, normalmente non visibili. La richiesta per tali add-on cresce proporzionalmente all’esperienza degli utenti: informazioni più dettagliate e precise sono utili e richieste dalla base di giocatori più esperti, mentre possono risultare superflue e confusionarie per i giocatori alle prime armi (Davidici-Nora, 2009). Gli add-on sono creati esclusivamente per il gioco originale, e non hanno senso di esistere senza la licenza originale.

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Figura 5 – World of Warcraft senza add-on (sopra) e con add-on attive (sotto) (WoW Interface, 2019)

Un esempio di add-on lo troviamo in World of Warcraft, celebrità nel mondo dei MMORPG (Massive Multiplayer Online Role-Playing Game): più un giocatore diventa esperto e sblocca contenuti difficili, più diventa importante avere accesso a informazioni di gioco precise e avere un’interfaccia ottimizzata (Figura 5). La Blizzard ha concesso agli utenti l’accesso alle API del gioco, permettendogli di creare add-on e plugin adatti alle esigenze dei consumatori più esperti. Questi add-on sono gratuitamente scaricabili e, in alcuni casi, vengono implementati dalla stessa Blizzard in update successivi al gioco. Generalmente, gli add-on sono mod piccole, di dimensione contenuta, sviluppate da una o due persone. Le conoscenze necessarie per sviluppare degli add-on riguardano principalmente i linguaggi di programmazione ed una buona conoscenza delle meccaniche di gioco e delle necessità dei giocatori. Non è difficile per un appassionato cimentarsi con la creazione di un add-on, se possiede delle competenze nella

25 programmazione. Inoltre, le case di sviluppo possono offrire risorse o supporto ai creatori di add-on, fino ad integrare gli add-on ritenuti più utili all’interno del gioco stesso. Di questa pratica parleremo meglio più avanti.

1.2.1.2 Game conversions

La forma più comune di mod è rappresentata dalle mod di conversione. Tali mod possono essere divise in due grandi categorie (Scacchi, 2013):  mod di conversione parziali, che vanno ad aggiungere o modificare: a) i personaggi presenti nel gioco, tra cui l’avatar del personaggio e gli NPC (Non-Playable Characters), il loro aspetto, le loro capacità e il loro comportamento; b) gli oggetti di gioco come armi, equipaggiamento e magie; c) i livelli di gioco, le missioni, gli ambienti e gli scenari; d) le regole e le meccaniche del gioco. Tali mod sono le più comuni e diffuse, e sono eterogenee per dimensioni, complessità e scopi, anche nell’ambito dello stesso gioco. Solitamente non 2 modificano l’engine1F del gioco, ma agiscono all’interno del codice in maniera supplementare (Sihvonen, 2011), sfruttando le risorse già presenti nel gioco o creandone e importandone dall’esterno. Ad esempio, una tipologia molto diffusa di mod è creata per migliorare le texture utilizzate in un gioco e, per farlo, le importa a risoluzione più alta (Figura 6). Le texture possono essere realizzate con programmi terzi dagli utenti e poi inserite all’interno del gioco se il formato lo supporta. Le mod di conversione parziali hanno una dimensione solitamente limitata, e possono essere sviluppate da singoli individui o team di sviluppo ristretti. Le mod più modeste, che aggiungono uno o pochi elementi ad un gioco, come un’arma, una mappa o un personaggio, vengono chiamate add-on. Le mod di conversione parziale più estese vengono chiamate overhaul, e consistono nella modifica quasi totale della grafica e delle meccaniche di un gioco, con l’intento di migliorarne la qualità, la difficoltà o la funzionalità. Un esempio di overhaul è una mod che

2 Per engine si intende il codice e la parte software di un gioco, che ne include le potenzialità grafiche. Viene separato dal content, cioè il contenuto del gioco.

26 agisce sul sistema di combattimento di un gioco, migliorandolo o modificandone certi aspetti;

Figura 6 – Comparazione tra il prima e il dopo nella mod Enhanced Lights and FX per Skyrim, sviluppata per migliorare la luce ambientale dall’utente anamorfus nel 2012 (NexusMods, 2020)

 mod di conversione totali, che modificano l’intero assetto di un gioco, arrivando a creare giochi interamente nuovi basati sull’engine del gioco originale ma irriconoscibili da esso per meccaniche, grafica o gameplay. Tali conversioni sono ambiziose e richiedono la collaborazione di più sviluppatori indipendenti in un progetto di lavoro a lungo termine (Figura 7). Le mod di conversione totale possono portare alla nascita di derivative products, come vedremo più avanti, in cui ogni risorsa del gioco originale viene sostituita e viene creato un nuovo engine di gioco, in modo da poter sfruttare il prodotto a fini commerciali senza infrangere le leggi del copyright. Un celebre esempio di una mod di conversione totale è Counterstrike, una mod per il gioco Half-Life II della Valve, diventata un gioco a sé stante quando la stessa Valve ne ha acquistato i diritti nel 2011 e lo ha lanciato sul mercato, rendendolo uno tra i giochi più famosi e competitivi della storia (Küklich, 2005).

27 Le mod di conversione sono generalmente più difficili da realizzare delle mod per la modificazione dell’interfaccia, e spesso non hanno nessun supporto da parte delle case di sviluppo. Le capacità richieste per sviluppare delle mod di conversione spaziano dalla programmazione, alla grafica, alla modellazione 3D e all’uso di software avanzati e costosi per la creazione di contenuti originali e indipendenti dal gioco, come Blender o Maya. In altri casi, come abbiamo visto, le case di sviluppo mettono a disposizione degli utenti dei toolkit o degli OSS (open-source software) basati sull’engine di un gioco, che permettono di creare con facilità dei contenuti indipendenti. Come vedremo, la distribuzione e l’uso dei toolkit ha avuto effetti molto importanti sullo sviluppo del mercato videoludico.

Figura 7 – L’ambiziosa mod per Skyrim, che mira a creare un intero nuovo mondo partendo dall’engine originale. Sviluppata dal team SureAI e rilasciata nel 2016 (NexusMods, 2020)

1.2.1.3 Altre forme di modification

Non rientrano tra le tipologie sopra citate alcune tipologie di mod che risultano però importanti per la nostra ricerca (Shivonen, 2011). Tali tipologie sono:  le unofficial : una patch “non ufficiale”, creata per risolvere bug o problemi del gioco che la casa di produzione non vuole o non riesce a risolvere, oppure per sbloccare del contenuto aggiuntivo del gioco che è stato nascosto o bloccato. Tali mod sono sviluppate dalla fanbase di un gioco spesso per supplire alle mancanze

28 della casa di sviluppo, per ottenere prestazioni migliori, o per avere a disposizione anche certi contenuti inseriti nel gioco dagli sviluppatori, ma bloccati o nascosti 3 per varie ragioni2F . Una tipologia di unofficial patch riguarda le mod create per adattare dei giochi di generazioni precedenti agli hardware di nuova generazione, garantendo delle prestazioni ottimali anche per giochi concepiti per motori grafici o engine più vecchi. Un’altra tipologia raccoglie le mod per il , cioè l’azione di trasportare un gioco dalla sua piattaforma di origine ad un’altra piattaforma per cui non è stato pensato dalla casa di sviluppo. Queste mod spesso si accompagnano a dei programmi chiamati emulatori (emulators), capaci di riprodurre su una certa piattaforma (solitamente un computer) il sistema di gioco di un’altra console.  i giochi sandbox, letteralmente “recinto di sabbia”. In tali giochi, vengono posti pochissimi limiti ai giocatori, e lo scopo primario è scoprire e modificare il mondo di gioco a proprio piacimento, seguendo le meccaniche e i limiti imposti dagli sviluppatori (Shivonen, 2011). I giochi sandbox, di cui è l’esponente di spicco, pongono l’accento sulla creatività del giocatore, integrando pratiche di co- creazione come elemento fondante dell’esperienza di gioco (Banks & Potts, 2010). Sebbene tali giochi non possano essere considerati a supporto delle mod, in quanto tutte le modifiche avvengono all’interno delle meccaniche del gioco predisposte dagli sviluppatori, sono importanti da ricordare perché incoraggiano e rafforzano l’inventiva degli utenti, costituendo dei banchi di prova per potenziali modder. Inoltre, presentano spesso un supporto efficace e dedicato alla creazione di vere e proprie mod;  i life simulator games. Ricordiamo infine i giochi di simulazione di vita reale, di cui certamente la serie The Sims è l’esempio più famoso e lampante. In tali giochi, l’attenzione è di nuovo posta sulla creatività del giocatore, cioè sul contenuto player-generated (Sihvonen, 2011). che può creare e modificare arredamento, planimetria e decorazioni della casa e della città dei suoi avatar virtuali. Nel caso specifico di The Sims, è la stessa casa di produzione, l’Electronic Arts, a gestire un intero negozio di creazioni di contenuti originali dei giocatori, sia basate

3 Uno dei casi più famosi di questo tipo di mod è la Hot Coffee mod per GTA: San Andreas, grazie a cui i giocatori hanno potuto sbloccare delle scene di sesso esplicito inserite dagli sviluppatori ma nascoste nel codice. La scoperta ha portato la ESRB a cambiare il rating del gioco da Maturo (M) a Solo Adulti (AO).

29 interamente sul sistema di gioco (ad esempio, si può condividere la propria casa affinché altri utenti possano costruirla uguale), sia mod vere e proprie (un vestito completamente nuovo o un reskin di un vestito esistente), che quindi possono essere scambiate e condivise con la community in maniera facile e controllata.

1.2.2 Supporto alle mod

Un aspetto da definire meglio per inquadrare in maniera completa il mondo delle mod è che non tutti i giochi possono avere mod (non tutti i giochi sono “moddabili”, mod-able). I giochi che possono avere mod sono una percentuale molto bassa rispetto al mercato globale dei videogiochi. Per operare una prima, elementare restrizione, possiamo dire che la maggior parte delle mod viene sviluppata unicamente per i videogiochi per PC, che, come abbiamo visto, rappresentano una parte abbastanza ristretta del mercato globale (circa il 21 % del mercato secondo Newzoo, 2018). Compiamo questa restrizione perché le mod, per essere sviluppate, richiedono un accesso al software che costituisce il prodotto e degli strumenti per modificarlo. Un tale livello di accessibilità non è raggiungibile nel caso di giochi per console o mobile, in quanto l’architettura stessa della macchina non permette di accedere direttamente al codice alla base dei software. Soltanto il computer rende possibile l’accesso parziale o completo ai programmi che compongono i videogiochi, e pertanto, la maggior parte delle mod è limitata ad un’applicazione PC. Questo aspetto si riflette anche sulla distribuzione e il download delle mod da parte degli utenti: è molto facile per qualsiasi utente scaricare una mod sul computer e applicarla al gioco, mentre su console o mobile è molto più difficile, per l’assenza di un browser, di siti dedicati e di un’interfaccia ottimizzata. Dunque, le mod realizzate su computer sono difficilmente esportabili su altre piattaforme. Lo stesso gioco potrebbe avere una differente configurazione di dati su computer e su una console, o addirittura su sistemi operativi differenti. Molte mod realizzate su Windows, infatti, incontrano difficoltà o non funzionano quando vengono esportate per MacOS. Inoltre, gran parte degli strumenti software per le modificazioni sono pensati primariamente per Windows. Dunque, possiamo dire che il mondo delle mod, per quello che interessa a noi in questa ricerca, è limitato ad un preciso ambiente di sviluppo, cioè ai giochi usciti per personal computer con Windows come sistema operativo.

30 1.2.2.1 Supporto delle aziende alle mod

Un'altra importante caratteristica che un gioco deve avere per poter essere “moddabile” riguarda l’estensione del supporto che la casa di sviluppo offre agli utenti. Una casa di sviluppo ha diversi modi per offrire supporto agli utenti che desiderano creare contenuto originale. Il potenziale per le modificazioni degli utenti cambia considerevolmente nei diversi giochi, a seconda della combinazione dei diversi tipi di supporto. - Una prima tipologia di supporto che la casa di sviluppo può offrire riguarda il formato in cui i file di gioco vengono programmati (Shivonen, 2011; Postigo, 2010). Ad esempio, salvare le variabili di gameplay su un formato di testo facilmente accessibile agli utenti, oppure utilizzare immagini in un formato standard come il bitmap per la grafica agevolmente modificabili. La casa di sviluppo può anche agevolare l’accesso ai file centrali del gioco, rendendoli esportabili e modificabili, come in Doom, in cui le risorse grafiche erano situate in una cartella separata accessibile agli utenti. Un altro esempio di supporto di questo tipo è l’agevolazione all’importazione di modelli e contenuti realizzati con programmi terzi o l’introduzione, all’interno del gioco stesso, di programmi di gestione delle mod, seguendo l’esempio di Supreme Commander. - Una seconda tipologia di supporto riguarda il rilascio, da parte della casa di sviluppo, di editor, toolkit o SDK (Software Developement Kits) dedicati per la modificazione di un gioco (Poretski & Arazi, 2017; Postigo, 2010). Questi strumenti (mod-making tools) sono solitamente basati sul sistema di gioco, e permettono la creazione di mod anche agli utenti che non hanno esperienza di programmazione o che non hanno le risorse per creare contenuti più complessi. La pratica di affiancare al gioco principale un editor o un toolkit dedicato si è affermata negli anni ’90 e ’00 (Coleman, Dyer-Whitford, 2007). Ad esempio, Maxis, per il lancio nel 2000 di The Sims, ha rilasciato l’editor di gioco prima ancora del rilascio ufficiale del gioco stesso, dando vita ad una vasta base di mod create dagli utenti. L’editor più famoso, probabilmente, è quello che ha accompagnato il rilascio da parte della Blizzard di Warcraft III: il World Editor di Warcraft III permetteva agli utenti di creare nuove mappe e scenari altamente personalizzabili, e ha portato alla creazione di una delle mod più famose ed influenti della storia dei videogiochi, cioè Defense of the Ancients, che ha lanciato il genere MOBA (Massive Online Battle Arena).

31 Un altro esempio di questo tipo riguarda il rilascio da parte di Epic Games di un toolkit, l’Unreal Developement Kit (UDK), che permettesse agli utenti di modificare tutti i giochi creati dalla casa di sviluppo con lo stesso motore grafico, cioè l’Unreal Engine 3 (Postigo, 2010). Il toolkit è liberamente disponibile sul sito dell’azienda, ma, se si intende fare un utilizzo commerciale delle mod prodotte con esso, richiede un pagamento di 99 €, più il 25 % in royalties del ricavato del gioco. Il rilascio del toolkit come un prodotto stand-alone ha permesso all’azienda di separare la pratica delle mod dal gioco originale: a causa di ciò, non si può più parlare propriamente di mod quando si descrivono i prodotti originali creati a partire dall’UDK, che diventano dei veri e propri giochi stand-alone (Postigo, 2010). - Un terzo tipo di supporto riguarda l’aspetto legale che le aziende possono offrire agli utenti che desiderano produrre contenuto originale, eliminando le restrizioni poste dall’EULA sulla creazione di contenuto originale o proteggendo direttamente i diritti dei modder (Poretski & Arazi, 2017). I contenuti originali creati e diffusi attraverso internet e, in particolar modo, le mod, si muovono in un ambiente legale dai contorni ancora incerti e sfumati, all’interno delle leggi internazionali e regionali sul copyright. Un’azienda che volesse supportare la creazione di contenuto originale da parte dei propri utenti potrebbe agire per non essere così ferrea nell’imporre le leggi del copyright. Su questa complicata questione torneremo nel quarto capitolo di questa tesi. - Una quarta tipologia di supporto alle mod può riguardare le piattaforme di diffusione delle stesse. Ad esempio, Steam, la piattaforma di distribuzione digitale di videogiochi più famosa e importante, ha introdotto, nel 2012, lo Steam Workshop, un servizio di hosting per i contenuti originali creati dagli utenti. Tale servizio ha aiutato i creatori di mod a condividere le proprie creazioni e ha reso il download per gli utenti più facile ed intuitivo. Un altro servizio di questo genere riguarda l’hosting di forum e siti in cui gli utenti possono condividere e commentare le proprie creazioni (Banks & Humphreys, 2008; Postigo, 2010). - Infine, un’ultima tipologia di supporto riguarda il pagamento, o l’offerta di premi in denaro, ai creatori delle mod. La monetizzazione delle mod e la retribuzione dei modder è un argomento tuttora discusso e irrisolto, e i pochi casi in cui si è provato ad applicare questo tipo di supporto non hanno avuto il successo sperato (ad

32 esempio, la monetizzazione, nel 2015, delle mod contenute nello Steam Workshop). Combinare queste tipologie di supporto non significa assicurare mod di qualità o una produzione quantitativamente importante di mod. Altri fattori che influiscono sulla quantità e sulla qualità di mod prodotte sono la popolarità del gioco stesso, le possibilità che il motore di gioco offre e una fanbase dedicata e impegnata (Poretski & Arazi, 2017).

1.2.2.2 Altri fattori a supporto delle mod

Affinché un gioco possa ricevere delle mod, innanzitutto deve essere abbastanza conosciuto ed essere giocato da molte persone. Una base di fan e conoscitori abbastanza larga è il primo requisito affinché si crei il giusto ambiente per lo sviluppo di contenuti creati dagli utenti. Come vedremo nel terzo capitolo, una delle motivazioni principali che spingono i modder a creare contenuto riguarda l’aspetto sociale e di condivisione delle proprie creazioni. Se gli utenti di un gioco non sono abbastanza attivi, o non si creano piattaforme online su cui condividere la propria passione e le proprie idee, difficilmente verranno create delle mod, e il gioco verrà abbandonato alla fine del suo ciclo di vita produttivo. Un altro aspetto essenziale per lo sviluppo di una comunità di modder attorno ad un gioco, come abbiamo visto, è l’accessibilità del motore di gioco e le possibilità che esso offre. Non tutte le case di sviluppo sono interessate a rendere accessibile il codice di un gioco 4 da loro pubblicato, e molti prodotti, specialmente i prodotti “tripla A”3F , non offrono alcun appiglio agli utenti per creare contenuto originale partendo dal codice (Postigo, 2010). Ad esempio, la Activision, nella serie di giochi sparatutto Call of Duty, ha sempre protetto il codice del gioco, per garantire alla comunità un’esperienza di gioco multiplayer uguale e paritaria per ogni giocatore. Coloro che utilizzano mod in tali giochi sono visti in cattiva luce dalla community e vengono chiamati cheater, cioè “bari” (Shivonen, 2011). Utilizzare del codice originale per migliorare le proprie chance a scapito degli altri giocatori è una pratica condannata dalla comunità e dai produttori (Fiorido, 2013), che si impegnano a combattere gli utenti che se ne avvalgono rimuovendo i loro account. Nel caso di World of Warcraft, che abbiamo visto alla sezione 1.2.1.1, gli add-on sviluppati

4 I giochi “tripla A” si riferiscono a quei giochi blockbuster sviluppato da grandi publisher, con un budget estremamente alto dietro lo sviluppo e un sicuro successo di pubblico (Simon et al., 2014)

33 e utilizzati dai consumatori non modificano le statistiche e le meccaniche di gioco, dunque non rendono più facile il gioco a discapito di altri giocatori, e il loro utilizzo è incoraggiato dalla casa di sviluppo (Davidici-Nora, 2014). La medaglia di gioco con più mod al suo attivo va a The Elder Scroll V: Skyrim, pubblicato da Bethesda, con un totale di file originali creati dagli utenti superiore ai 62.000 (, 2019), senza contare le mod non contenute su siti ufficiali (Poor, 2013; Agarwal & Seetaraman, 2015). A seguire, nella classifica, troviamo quasi tutti gli altri titoli Bethesda: i due antecedenti di Skyrim, cioè The Elder Scrol III: Morrowind e The Elder Scroll IV:Oblivion, insieme alla serie Fallout con i titoli Fallout III, Fallout New Vegas e Fallout IV. I titoli Bethesda, da soli, raccolgono un totale di più di 164.000 mod, cioè il 71 % di tutti i file raccolti sul sito Nexus Mods. I pochi titoli non-Bethesda che figurano nei primi dieci titoli per numero di mod sono The Witcher 3, della casa di sviluppo polacca CD Projekt Red, e la serie di tre titoli di Dragon Age, sviluppato da Bioware e distribuito da EA. Tutti questi titoli hanno in comune di appartenere al genere RPG (Role-Playing Game, giochi di ruolo), di avere un’ambientazione fantasy o fantascientifica e di fornire una profonda personalizzazione del proprio avatar di gioco (Dey et al., 2016). Si può dare una motivazione a questa preferenza riferendosi al modello di Yee (2006) sulle motivazioni degli utenti, che pone come uno dei cinque fattori principali “Immersion and escapism”, cioè l’immersione in un mondo altro e l’evasione dal mondo reale. Poretski ed Arazi (2017) individuano invece nella “modularità” dell’esperienza di gioco che tali prodotti offrono il loro successo nelle comunità dei modder: essi presentano una struttura di gioco ricca, aperta, libera e soprattutto ripetibile, con vasti mondi esplorabili e molte diverse missioni da portare avanti. In tali giochi, i modder possono facilmente inserire un nuovo contenuto, sotto forma di una nuova missione, un nuovo equipaggiamento o un nuovo personaggio, in maniera organica rispetto al gioco originale, senza cioè modificare la struttura del gioco. La stessa cosa non si può dire di quei giochi con una struttura lineare, in cui l’esperienza si presenta come in un film, senza dare la possibilità al giocatore di deviare il percorso. In questi casi, è difficile che si sviluppi una comunità di modder e creatori di contenuti. Un’altra caratteristica di successo di molte mod è il fattore competitivo (Agarwal & Seetaraman, 2015). Come vedremo nel paragrafo 1.3, le mod più famose ed importanti, che si sono evolute in giochi veri e propri, hanno tutte una forte componente multiplayer e competitiva, e devono il loro successo anche alla pubblicità e alla diffusione degli eSports. Interi generi dedicati al multiplayer hanno la propria origine nelle mod, come i

34 5 6 7 8 MOBA4F , nati da DotA, i survival5F e le Battle Royale6F , ma anche gli hero shooter7F , di cui Overwatch della Blizzard è la più recente incarnazione, sono provenienti da Team Fortress, una famosa mod del 1996 per il videogioco Quake. La capacità degli utenti- creatori di innovare la dimensione competitiva di un gioco, bilanciandola e testandola, è un indicatore di come siano gli stessi utenti, nell’espandere una modalità di gioco considerata “divertente”, a dirigere l’innovazione nell’industria (Kretzschmar & Stanfill, 2018). In definitiva, un gioco, per essere “moddabile”, deve possedere certe caratteristiche, ma nessuna caratteristica da sola determina la quantità o la qualità delle mod che vengono sviluppate per quel gioco.

1.2.3 Piattaforme di distribuzione

Abbiamo accennato alle piattaforme di distribuzione delle mod come strumenti importanti per condividere e diffondere i contenuti originali creati dagli utenti. Vediamo ora quali piattaforme sono preferite dai modder per far conoscere le proprie creazioni. Dagli inizi della pratica del modding, alla fine degli anni ’90, le mod e i contenuti creati dagli utenti hanno iniziato a circolare su internet. Presto, nacquero i primi siti dediti a raccogliere e diffondere le mod, in cui gli utenti potevano recensire le altre mod e presentare suggerimenti e critiche. Attualmente, il più grande sito di diffusione e condivisione di mod è Nexus Mods, con all’attivo più di 230.000 mod per un totale di 821 giochi e più di 1,5 miliardi di download unici di file (Nexus Mods, 2019). Fondato nel 2001 da Robin Scott come un fan site per il gioco della Bethesda The Elder Scroll III: Morrowind, il sito si è evoluto in una raccolta di mod per un gran numero di giochi per PC nel 2007, con il nome di TESNexus, per poi espandersi e raggruppare ancora più giochi. Con più di 18 milioni di membri, un forum e una wiki dedicati (Figura 8), numerosi concorsi annuali per scegliere la mod migliore e un sistema di Punti Donazione, con un fondo comune istituito sul sito Patreon per ricompensare i creatori di contenuto, Nexus

5 Multiplayer Online Battle Arena, cioè giochi in cui dei team di giocatori si affrontano in un’arena sviluppata su tre lane, o sentieri, con l’obiettivo di distruggere la base avversaria. 6 Tipologia di giochi che si basa sulla sopravvivenza in un mondo ostile. 7 In un’arena che si restringe sempre di più, i giocatori si affrontano e l’ultimo a sopravvivere vince. 8 Genere multiplayer basato sui first-person shooter, in cui i giocatori possono scegliere di combattere nelle vesti di un range di personaggi, ognuno con abilità particolari.

35 Mods si configura come il sito più importante per la comunità dei modder. Il sito offre anche una sua applicazione autonoma di gestione ed installazione delle varie mod, chiamato Vortex.

Figura 8 – Dati del sito Nexus Mods riguardanti il numero di downolads e di utenti registrati tra il 2015 e il 2019.

Ci sono altri siti che raccolgono mod, come GameFront, uno dei siti di hosting più importanti fino al 2016, in cui venne chiuso. A seguito dell’acquisizione da parte di DBolical Pty, riaprì nel 2018 (GameFront, 2019). DBolical Pty è anche proprietaria di Mod DB, un altro sito di hosting fondato nel 2002 che conta all’attivo più di 20.000 mod originali (Mod DB, 2018). Altri siti che raccolgono le mod sono spesso dei forum specializzati su un singolo gioco o un singolo franchise, come il forum Hive, che ospita tutte le mod che ancora vengono prodotte per il gioco della Blizzard Warcraft III, datato 2001, e conta più di 90.000 utenti attivi (HIVE Workshop, 2019). Abbiamo citato lo Steam Workshop come un servizio di hosting per i contenuti originali creati dagli utenti. La nascita di questo servizio gratuito nel 2012 ha contribuito a rendere facilmente accessibili a tutti gli utenti le mod disponibili per un gioco posseduto. Infatti, non solo presenta una collezione di mod, distinte in categorie e facilmente ricercabili, ma è lo stesso Steam a prendersi cura dell’installazione e della gestione delle mod all’interno dei giochi (Kuklich, 2005). Se un gioco è “moddabile”, gli sviluppatori non devono fare altro che collegarlo allo Steam Workshop per permettere agli utenti di condividere le proprie creazioni. I dati sulla quantità di mod presenti nel Workshop riflettono il successo di tale approccio all’user experience: nel 2018, lo Steam Workshop riunisce mod per più

36 di 1.000 giochi, con 3,2 milioni di file caricati nel corso dell’anno dagli utenti (Steam Review, 2018). Possiamo dire ora che Nexus Mods e lo Steam Workshop siano le piattaforme di aggregazione maggiori per la community del modding. Tuttavia, molti altri siti online non ufficiali contribuiscono a diffondere le mod e i contenuti originali, soprattutto nel caso di quelle mod dal contenuto più esplicito e controverso. Ad esempio, il sito LoversLab distribuisce e aggrega molte mod con un contenuto considerato “per adulti”, che sfocia facilmente in pornografia digitale, con una community attiva di più di 1,5 milioni di membri e migliaia di mod al suo interno (Messner, 2017). Senza addentrarci sulla legittimità di tali creazioni, è importante vedere come, al di fuori dei canali ufficiali di distribuzione, si assiste ad un esteso “lassaiz-faire” da parte delle aziende di distribuzione e sviluppo per quanto riguarda i contenuti originali, fintanto che non si vada ad alterare l’ESRB di un gioco e, dunque, ad inficiare sulle sue vendite. La Bethesda, in particolare, è molto permissiva riguardo alle mod per adulti, fintanto che non sono condivise tramite canali ufficiali, in quanto hanno un effetto positivo sulle vendite dei loro giochi.

1.2.4 Retribuzione dei modder

Stando agli studi di Postigo (2007), una mod genericamente estesa, per uno dei giochi di ultima generazione, richiede in media oltre 1.000 ore di lavoro da parte di uno o più modder. Come vedremo nel terzo capitolo, il lavoro dei modder non è motivati da una prospettiva di arricchimento personale, ma da altre e più complesse motivazioni (Postigo, 2010). Tuttavia, l’aspetto che riguarda la retribuzione dei modder ha una particolare valenza, soprattutto in quanto le leggi di copyright espresse nell’EULA (End-User License Agreement) dei giochi vietano espressamente il commercio di contenuto originale a partire dall’engine del gioco (Spare the Mod). Dunque, quali possibilità hanno i modder per ottenere una retribuzione per il loro lavoro, qualora lo desiderassero? Sicuramente, al giorno d’oggi, con la nascita e la crescita di piattaforme quali Patreon, i modder, così come gli sviluppatori indipendenti e altri creatori di contenuto originale, hanno più forme disponibili di retribuzione. Patreon è una piattaforma online, nata nel 2013, che permette agli utenti che si registrano di diventare creators di uno o più prodotti, e, in quanto tali, di poter ricevere una retribuzione mensile basato sul co-finanziamento degli utenti. Ogni utente può donare soldi ai propri content creator preferiti, a seconda di cosa desidera ricevere in cambio: le donazioni si

37 differenziano in tier, a cui corrispondono privilegi differenti garantiti ai “patron”, come l’accesso anticipato al prodotto o la possibilità di influenzare le scelte di sviluppo. Il successo di questa forma di finanziamento dei prodotti replica quello della piattaforma di crowdfunding Kickstarter per lo sviluppo di prodotti indipendenti. Questa forma di mecenatismo del Web 4.0 permette ai creatori di contenuti, tra cui i modder, di ottenere una parziale retribuzione dei loro contenuti, la cui estensione è largamente basata sulle capacità di social media relationship e di digital marketing del creatore. Se la proposta è efficace e il contenuto è adeguatamente diffuso sul web, Patreon può essere una buona fonte di guadagno. Ad esempio, gli sviluppatori dell’ambiziosa mod di conversione totale Skyrim Together, che mira a rendere il gioco TES V: Skyrim un’esperienza multiplayer, hanno ottenuto più di 15.000 sostenitori su Patreon, per un totale di 14.000 $ al mese di rendita (Yin-Poole, 2019). Un’altra alternativa di retribuzione è l’istituzione di donazioni libere al momento del download dei file. La pratica del modding si inserisce nell’approccio open-source ai software, che dunque prevede una libera circolazione dei file creati dagli utenti (Kow, 2010). Per tradizione, le donazioni rimangono libere e non pregiudicano l’utilizzo di una mod. La pratica delle donazioni, sviluppatasi attorno al mercato degli add-on per il MMORPG World of Warcarft della Blizzard Activision, venne scoraggiata dalla politica imposta dalla casa di sviluppo di non sollecitare donazioni (Blizzard Entertainment, 2009). Altri siti, come Nexus Mods, offrono compensi a partire da un fondo comune di donazioni organizzato su Patreon tra gestori del sito e fan, destinati ai modder più “raccomandati” (endorsed) dagli utenti attraverso il meccanismo dei Donation Points. Tale meccanica, introdotta nel 2018, ha fruttato a circa 6.800 creatori di mod più di 155.000 $ ad ottobre 2019, rivelandosi un metodo efficace per la compensazione dei content creator (NexusMods, 2019).

1.2.4.1 Il caso dello Steam Workshop

Nell’aprile del 2015, Valve annuncia l’intenzione di rendere le mod create dagli utenti per il gioco TES V: Skyrim a pagamento, per compensare i creatori di contenuto, che sono resi liberi di definire il costo delle loro mod. Valve annuncia inoltre di voler estendere questo servizio anche ad altri giochi (Wallace, 2015). Il ricavato delle mod sarebbe stato diviso tra Valve (30 %), la Bethesda (45 %) e i creatori (25 %).

38 Valve aveva già applicato tale modello retributivo per tre dei suoi giochi di punta, cioè DotA II, Team Fortress II e CounterStrike: Global Offensive, per i quali più di 1500 content creator avevano guadagnato 57 $ milioni tra il 2011 e il 2015 (McWerthor, 2015). Tuttavia, nel maggio 2015, dopo solo due settimane di implementazione, Valve è portata ad annullare il pagamento delle mod per TES V: Skyrim (Futter, 2015). Tutte le transazioni effettuate vengono rimborsate, e le mod a pagamento vengono rimosse dal Workshop. Le cause di questo passo indietro vanno ricercate nell’opposizione che tale proposta ha suscitato nella fanbase: le proteste hanno riguardato le quote di divisione del ricavato, l’assenza di controllo sul furto e il riutilizzo di assets delle mod e, più in generale, la natura stessa delle mod, che sono sempre state considerate “free” (Futter, 2015). La Valve, contattando soltanto alcuni modder considerati “meritevoli”, ha spaccato la community, separando i content creator dai consumatori ed inserendo una logica capitalistica all’interno di un sistema di condivisione di contenuti libero (Schreier, 2015). La questione della retribuzione dei modder è tuttora aperta

1.3 Derivative products

Il termine derivative riguarda da vicino il mondo delle mod e dei videogiochi. Le mod sono inquadrate all’interno della legislazione sul copyright come , “lavori derivati”. La definizione di derivative work viene dalla sezione 101 del Copyright Act del 2012:

A “derivative work” is a work based upon one or more preexisting works, such as a translation, musical arrangement, dramatization, fictionalization, motion picture version, sound recording, art reproduction, abridgment, condensation, or any other form in which a work may be recast, transformed, or adapted. A work consisting of editorial revisions, annotations, elaborations, or other modifications which represent an original work of authorship, is a “derivative work.”

Come vedremo nel quarto Capitolo, ci sono diverse posizioni sulla definizione legale di una mod (Kretzschmar & Stanfill, 2018; Wallace, 2014; Spare the Mod, 2012). Ciò che è importante definire adesso è che le mod si muovono all’interno delle leggi riguardanti il copyright, e che sono prodotti che derivano da altri prodotti preesistenti, di cui ne modificano il contenuto.

39 Un derivative product, invece, viene definito come un “new product that results from modifying an existing product, and which has different properties than those of the product it is derived from” dal Business Dictionary. Nel nostro caso, possiamo dire che un gioco è un derivative product quando riprende “a grandi linee” il contenuto di un gioco esistente, riportandolo su un motore diverso, per mantenere la distinzione fatta al paragrafo 2.2.1 (Wallace 2014; Postigo, 2010; Kawashima, 2010). Questo tipo di operazioni non è estraneo al mercato della cultura: si pensi al mondo del cinema, in cui è facile trovare film che riprendono il format di altri film, riproponendo narrative simili con attori e in impianti differenti. La stessa cosa accade nell’industria dei videogames, in cui molti giochi riprendono il formato di giochi precedenti, trasportandolo su differenti motori grafici. È il caso del fenomeno dei “cloni” (giochi rip-off): videogiochi o intere piattaforme che riprendono un format di successo, solitamente a scopo di lucro, ma possono anche esistere giochi “clone” fatti per omaggiare o espandere le idee di un altro prodotto (Casillas, 2014). In molti casi, l’archetipo del genere è estremamente definito, e si può dire che tutti i giochi di quel genere derivino da esso: ad esempio, il genere “sparatutto” nasce nel 1994 con Doom, a cui molti titoli si ispirarono, venendo chiamati all’epoca “Doom clones”, come Descent o Heretic. In segutio, gli “sparatutto” si differenziarono dal loro predecessore, e non si poté più parlare di “cloni”, in quanto l’archetipo “sparatutto” si era allargato a molti giochi dalla struttura differente. Il fenomeno dei giochi “clone” ha da sempre riguardato da vicino l’industria videoludica, e recentemente è tornato ad essere un aspetto importante alla luce della diffusione dei giochi mobile (Casillas, 2014). Le piattaforme di distribuzione digitali, infatti, hanno permesso a molte piccole case di produzione di accedere al mercato liberamente con prodotti innovativi (Chen, 2012). Tuttavia, è ora altrettanto evidente quanto sia facile per un altro studio di sviluppo competere per i guadagni con prodotti molto simili. Ciò avviene in quanto è più facile proteggere l’engine di un gioco che le sue meccaniche: registrare il contenuto o le meccaniche di un gioco con una patente richiede un grande investimento di tempo e soldi, che non tutte le case di sviluppo possono permettersi (Chen, 2012; Casillas, 2014). Dunque, il copyright non è efficace nel proteggere le idee che stanno dietro ad un prodotto videoludico, che sono facilmente replicabili. Senza scendere in esempi, possiamo dire che ogni gioco di successo per mobile ha storicamente generato “a cascata” una sequenza di giochi “clone”, solitamente di qualità inferiore, che

40 tentavano di emularne il successo, tanto che si può dire che un gioco mobile è di successo se ispira uno o più “cloni” (Casillas, 2014). Questo è vero in misura minore per il mercato PC e console, a causa dei maggiori costi di sviluppo e delle più alte barriere all’ingresso per compagnie indipendenti. Ci sono stati comunque casi in cui il successo di un gioco lo ha reso archetipico, e ha generato un certo numero di “cloni” (Casillas, 2014). Ad esempio, la serie di videogiochi Diablo della Blizzard Activision ha avuto un enorme successo, tanto da creare un genere a sé stante, detto hack’n’slash o Action RPG. Diablo ha ispirato un grande numero di titoli che ne sono stati definiti “cloni”, come Sacred, Path of Exile o Divinity: Original Sin. Molti dei “cloni” generati da titoli PC o console, a differenza del mercato mobile, sono di qualità pari o superiore al titolo originario (Zackariasson & Wilson, 2012), e spesso hanno saputo ritagliarsi una loro fetta di mercato grazie all’approfondimento di una meccanica rispetto ad un’altra e grazie ai gusti più esigenti dei giocatori PC e console, che tendono a formare nicchie di mercato fedeli ad un prodotto, con una community dedicata e impegnata a tenere in vita il gioco (Davidici-Nora, 2014).

1.3.1 I prodotti derivati dalle mod

Nel nostro caso, è importante parlare dei derivative product in relazione alla pratica del modding, nei casi in cui una mod venga acquisita da una casa di sviluppo e commercializzata come prodotto a sé stante rispetto al gioco da cui proviene. È il caso di fare un paio di esempi celebri di giochi che derivano da una mod creata dagli utenti.  Iniziamo citando l’intero genere MOBA (Massive Online Battle Arena), che, come già abbiamo detto, si è sviluppato a partire dalla mod DotA per il gioco Warcraft III della Blizzard Activision. DotA (Defense of the Ancients) presenta una meccanica di gioco originale: due squadre di cinque giocatori l’una si fronteggia in un’arena in cui vi sono tre percorsi (lane), uno centrale e due laterali, che collegano da una parte all’altra della mappa le due basi delle squadre. Obiettivo del gioco è distruggere la base avversaria. Ogni giocatore può scegliere tra un vasto assortimento di personaggi diversi, con abilità uniche. DotA è nato per un ambiente competitivo, ed ha raggiunto una grandissima popolarità tra il 2005 e il 2009, con più di un milione e mezzo di utenti attivi sul forum dota.all- stars.com, fino a che i diritti per commercializzarlo non vennero acquistati dalla Valve Games nel 2009, portando alla creazione di DotA II nel 2013. Per poter

41 vendere il gioco, la Valve creò un nuovo motore grafico e modificò i riferimenti al gioco originale, ma mantenne la struttura di base, attraverso un procedimento chiamato porting, cioè l’esportazione di meccaniche e personaggi da un engine all’altro. La Blizzard Entertainment entrò in un conflitto legale nel 2012 con la Valve per l’utilizzo commerciale di DotA, ma ritirò le accuse e a Valve ne vennero concessi tutti i diritti. DotA ha avuto due “cloni” illustri, che riportiamo per ragioni diverse: il primo è League of Legends, rilasciato nel 2009 dalla Riot Games; il secondo Heroes of the Storm, della Blizzard Activision, rilasciato nel 2015. League of Legends è uno dei giochi più giocati in tutto il mondo, con più di 100 milioni di giocatori attivi a livello globale nel 2016 (Volk, 2016) in cima alle classifiche e caposaldo del mondo competitivo degli ESports. Dal 2018, League of Legends ha un ricavato annuo di oltre 1,4 $ miliardi, posizionandosi terzo nella classifica dei giochi più redditizi del 2018, subito dopo Fortnite e Dungeon Fighter Online (SuperData Research, 2018). Heroes of the Storm può essere definito la risposta della Blizzard Activision al successo dei MOBA, genere nato nel grembo di Warcraft III su cui tuttavia la stessa casa di produzione non è mai riuscita a capitalizzare. HotS è stato definito dalla stessa casa di produzione come un “hero brawl”, uno scontro fra eroi, in cui i diversi personaggi delle serie videoludiche targate Blizzard si scontrano in modalità di gioco classicamente MOBA. Con 6,5 milioni di giocatori attivi (SuperData, 2018), HotS non può certo essere paragonato al successo di League of Legends, o a quello del secondo MOBA più giocato, DotA II, con 15 milioni di utenti attivi. Le cause di tale insuccesso possono essere ricercate nella troppa enfasi data da Blizzard all’effetto “magnetico” dei propri personaggi, che da soli sarebbero dovuti bastare ad entusiasmare gli utenti, mentre la stessa attenzione non è stata riservata alle meccaniche di gioco. Inoltre, la Blizzard non è riuscita a rendere HotS un gioco affermat a livello di ESports, condannandolo a rimanere un gioco di nicchia.  Il secondo, importante esempio da fare riguarda Fortnite della Epic Games, già citato all’inizio di questo capitolo come il prodotto più giocato e con maggiori ricavi del 2018 (SuperData, 2018). Fortnite si basa principalmente su una modalità di gioco denominata Battle Royale, che prevede che i giocatori si affrontino, in solitaria o a squadre, in una mappa che si restringe sempre di più

42 con l’avanzare della partita. I giocatori iniziano la partita disarmati, e devono trovare man mano armi ed oggetti che gli permettano di sopravvivere e di sconfiggere gli avversari. Il vincitore è l’ultimo giocatore sopravvissuto. Tale format è lo stesso di un altro tra i giochi più famosi e redditizi degli ultimi anni, vale a dire PlayerUnknown: Battlegrounds, del 2017, sviluppata dalla coreana Bluehole per , che si basa sulla stessa modalità di gioco. PlayerUnknown: Battlegrounds è il diretto discendente di una mod sviluppata a partire da DayZ, un gioco survival, denominata DayZ: Battle Royale, il cui sviluppatore, Brendan Greene, venne assunto dalla Bluehole nel 2015 (Source). Greene, per lo sviluppo della modalità Battle Royale, si ispirò al film di successo Hunger Games, in cui un gruppo di persone è costretta a combattere tra di loro per sopravvivere in un’arena chiusa. A sua volta, DayZ è divenuta famosa come mod del gioco ARMA III, uno sparatutto tattico sviluppato dalla Bohemia Interactive, che si è occupata anche dello sviluppo come gioco stand-alone di DayZ per la Microsoft Windows. DayZ prende le mosse dall’omonimo film e pone il giocatore in un vasto mondo in cui deve sopravvivere trovando cibo e armi e combattendo contro zombie e altri giocatori. Questa tipologia di gioco è definita survival, ed ispirerà altri prodotti “cloni”, come H1Z1, State of Decay e Rust. Dunque, dietro al successo di Fortnite si nasconde una storia di sviluppo complessa e ramificata, che trova il suo vettore nello user-generated content: la Epic Games, infatti, sviluppò la modalità Battle Royale per Fortnite, che fino a quel momento non era un gioco pensato per il multiplayer, a seguito del successo di PlayerUnknown: Battlegrounds e della nascita del genere. Questi due capostipiti hanno generato a loro volta un gran numero di imitazioni e “cloni”, sia su PC e console, sia su mobile, tra cui il più illustre è certamente Apex Legends della EA, pubblicato a febbraio 2019. La consacrazione definitiva avviene nel 2018, anno in cui i due giochi vengono rilasciati in versione mobile, aumentando le loro vendite e il numero di giocatori in tutto il mondo. Un altro esempio importante da fare riguarda il gioco CounterStrike: Global Offensive, sviluppato nel 2011 da Valve a partire da una mod di grande successo per il gioco Half- Life 2. L’importanza di questi prodotti e la rilevanza che hanno assunto nel mercato videoludico globale portano a credere che investire sulle idee degli utenti sia la strategia migliore per le case di sviluppo. Tuttavia, questi rimangono casi isolati, in cui l’incontro

43 tra sviluppatori e consumatori si è rivelato particolarmente fortunato. In molti altri casi, le mod sono rimaste prodotti laterali, per una fetta di pubblico molto ridotta.

44 CAPITOLO 2: Business model e value chain dei videogiochi

In questo capitolo vogliamo analizzare meglio la struttura dell’industria videoludica, i suoi diversi modelli di business e la sua catena di valore. Faremo un confronto tra i paradigmi dell’industria tradizionale (dagli anni ’90 al 2008 circa) e quelli dell’industria moderna (dal 2008 ad oggi). Analizzeremo poi il ruolo delle mod all’interno dell’industria, e i benefici che possono portare alle aziende.

2.1 Il business model dei videogiochi

Tutte le industrie si organizzano attraverso un modello di business, implementato nella strategia aziendale. Il business model di un’azienda è definito come il modo in cui un’azienda genera ricavi e profitti dalle operazioni in cui è coinvolta (Investopedia, 2017). Tuttavia, la definizione può variare a seconda del contesto che si analizza, e il concetto di business model, relativamente recente in quanto risalente al 1957 (Bellman, 1957), è stato interpretato diversamente dagli autori di volta in volta (Ovans, 2015). Senza addentrarci troppo nell’argomento, possiamo assumere come definizione di riferimento quella di Osterwalder, Pigenur e Tucci del 2005:

“A business model is a conceptual tool that contains a set of elements and their relationships and allows expressing the business logic of a specific product.” (Osterwalder et al., 2005, p. 17)

La differenza con altre definizioni dello stesso concetto (Amit & Zott, 2001; Chesbrough, 2005; Lim, 2010) è che la visione di business model di Osterwalder si focalizza sullo specifico prodotto invece che sull’azienda. Ciò ci tornerà utile per descrivere alcune caratteristiche peculiari dei videogiochi. L’industria dei videogiochi, come abbiamo già detto, si è evoluta nel tempo, e con lei si sono evoluti i diversi business model che le aziende hanno adottato (Davidici-Nora, 2014). L’innovazione del proprio modello di business e la capacità di adattarsi alle nuove tecnologie costituisce un’importante fonte di vantaggio sul mercato dei videogiochi

45 (Teece, 2010). In questo paragrafo, vedremo innanzitutto gli elementi chiave del business model tradizionale, per poi analizzare le diverse innovazioni che si sono succedute in questo framework.

2.1.1 Elementi chiave del business model

Nella definizione degli elementi chiave del business model, seguiremo il framework presentato da Osterwalder e Pigneur nel 2010, uno dei modelli più utilizzati ed apprezzati dalla letteratura. Tale modello si compone di nove elementi o blocchi, in linea con la definizione precedentemente data di business model, che funzionano come telaio per l’organizzazione del lavoro aziendale. Questo modello di riferimento è stato creato osservando degli elementi comuni a tutte le industrie, dunque è più che adatto a descrivere quella videoludica.  Key partners – La rete di suppliers e partners che rende possibile il funzionamento del business model. Nell’ambito dell’industria videoludica, sono particolarmente importanti le relazioni tra sviluppatori software e produttori hardware, che impongono una commissione sullo sviluppo di titoli per le loro piattaforme. Ciò permette i produttori di console di venderle in perdita a costi più bassi, guadagnando dal lincensing dei giochi prodotti per la loro piattaforma, incentivando altri sviluppatori ed entrare nel mercato ed altri consumatori ad acquistare le console (Hagiu & Halaburda, 2010). Altri partner importanti sono i distributori, il cui guadagno è costituito dal portafoglio di giochi venduti. Grazie alle nuove tecnologie, ora la distribuzione avviene digitalmente, attraverso online store o piattaforme pubbliche come Steam, che raccoglie un grande portafoglio di titoli di diversi produttori.  Key activities – Le attività fondamentali svolte dall’azienda per creare una proposizione di valore, per ottenere i canali di distribuzione adeguati, per migliorare la relazione con i clienti e per cogliere il ricavato. Nel nostro caso, lo sviluppo di nuovi giochi e la gestione del portafoglio di giochi costituiscono le attività principali di un’azienda, insieme al marketing e all’analisi dei risultati.  Key resources – Gli assets e le risorse più importanti per lo svolgimento delle key activities aziendali. Nel caso dei videogiochi, una delle risorse più importanti per i produttori sono i diritti di proprietà intellettuale esercitabili sul contenuto da loro creato, che permettono loro di continuare a proporre valore ai clienti di un

46 franchise affermato e di proteggere il marchio e l’azienda dai competitors (Locke & Uhrínová, 2017).  Value proposition – La proposizione di valore consiste in come il prodotto, o il servizio, viene erogato ed offerto al cliente per soddisfare la sua domanda. La proposizione di valore può essere frammentata in diverse offerte (offering). Tradizionalmente, la proposizione di valore proviene dall’azienda verso il cliente, e si realizza nell’esperienza di acquisto. Tuttavia, soprattutto nel caso dei videogiochi, vedremo che al modello tradizionale si è sostituito un nuovo modello di co-creazione del valore.  Customer relationship – La relazione che l’azienda instaura con i segmenti di clientela serviti nel corso del tempo. Oggi, più che mai, i contatti tra consumatori e produttori sono diretti e ravvicinati, grazie ad internet e alle innovazioni tecnologiche. Dunque, per le aziende è sempre più importante gestire le comunicazioni con i propri clienti.  Channels – I canali descrivono le modalità con cui l’azienda raggiunge la sua clientela ed effettua la sua offerta di valore. Inizialmente, i videogiochi seguivano canali tradizionali di distribuzione, come i retail store, ma si sono progressivamente svincolati dalla vendita della copia fisica, favorendo la distribuzione digitale. Ciò, come vedremo, ha avuto un grande impatto sulla value chain.  Customer segments – I differenti gruppi di persone, o organizzazioni, che l’azienda desidera raggiungere con la propria offerta di valore. Nel caso dei videogiochi, le case di sviluppo software devono incontrare i segmenti serviti dalle case di produzione hardware, in quanto i giochi richiedono una piattaforma e le piattaforme acquisiscono valore grazie ai videogiochi (Locke & Uhrínová, 2017). I segmenti di pubblico sono molti e variegati, quasi quanto i diversi generi videoludici, e le software house possono unire diversi segmenti con una sola proposizione di valore (Lee et al., 2014). Un’altra modalità per definire i segmenti sono le restrizioni legali come l’ESRB, che definisce la soglia di età a cui il prodotto può essere targettizzato.  Cost structure – Tutti i costi in cui si incorre per implementare il proprio modello di business. Nel caso dei videogiochi, tale struttura coinvolge i costi delle key activities di sviluppo e gestione, i costi delle attività di relazione con i partners, i

47 costi dati dalle nuove tecnologie impiegate e i costi di espansione delle risorse di proprietà intellettuale (Locke & Uhrínová, 2017). Tali costi permettono all’azienda di creare ulteriore valore per i consumatori dopo la vendita iniziale, e di attirare nuovi consumatori.  Revenue stream – I ricavi che derivano dall’offerta di valore, influenzati dalla willingness to pay dei clienti, dai canali di distribuzione e dalle modalità di pagamento. Al modello tradizionale dei ricavi vedremo che si è sostituito un modello moderno, basato sulle modalità free-to-play e freemium. Le innovazioni che hanno caratterizzato l’industria videoludica non hanno influito su tutte le dimensioni del business model in maniera uguale. Ad esempio, i partner e le attività delle aziende sono rimasti più o meno invariati nel tempo, mentre i canali di distribuzione, la proposizione di valore e la gestione dei ricavi hanno subito grandi cambiamenti. Useremo queste ultime due dimensioni per descrivere l’evoluzione del business model dell’industria videoludica, seguendo la letteratura scelta (Locke & Uhrínová, 2017; Davidici-Nora, 2014).

2.1.2 Evoluzione del business model

Basandoci sul framework proposto nella ricerca da Locke e Uhrínová, analizziamo i diversi modelli di business adottati dall’industria videoludica nella sua evoluzione. Tale framework si basa su due dimensioni, cioè l’origine della proposizione di valore e il flusso di entrate, relative all’industria videoludica e, in particolare, alle case di sviluppo software:  la prima dimensione descrive l’origine della proposizione di valore di cui il consumatore gode avvalendosi del prodotto o del servizio dell’azienda. Ad un estremo abbiamo un valore firm-based, cioè generato in gran parte dall’azienda, in cui non si hanno effetti legati ad un network esteso di consumatori, e il valore sta tutto all’interno del prodotto. All’altro estremo c’è un valore consumer-based, in cui il l’origine della proposizione di valore si trova nel network degli utenti e nel contenuto generato da loro. In questo caso, genera valore ulteriore qualsiasi tecnologia utilizzata per facilitare la comunicazione tra utenti e le produzione di contenuto originale. Inoltre, l’azienda è interessata a dei modelli di prezzo che incoraggino la crescita di una community più larga possibile (Davidici-Nora, 2014);

48  la seconda dimensione descrive invece la struttura dei ricavi nei riguardi del consumatore. Da un lato abbiamo i prodotti paid o premium, in cui il consumatore paga per avere lo stesso prodotto di tutti gli altri utenti, attraverso una transazione economica, che può essere unica o portata avanti nel tempo (subscription). Dall’altro lato, troviamo il modello di prodotto free, in cui i ricavi sono ottenuti in altri modi rispetto alla tradizionale transazione. Tali prodotti hanno esternalità positive associate al numero di consumatori, che dunque l’azienda è interessata a massimizzare, ma anche al premium price che alcuni consumatori sono disposti a pagare per migliorare la loro esperienza. Utilizzando questo framework a due dimensioni, possiamo analizzare i principali modelli di business che l’industria videoludica ha saputo adottare nel tempo, basandoci sulle innovazioni tecnologiche (Tabella 1). Tale evoluzione è necessaria alle aziende per adattarsi ai cambiamenti ambientali e per affrontare una competizione sempre più agguerrita (Yannopulos, 2013).  Nell’era tradizionale, il modello di business crea una proposizione di valore firm- based a cui il consumatore può accedere tramite un prezzo premium. La tecnologia limitata non permetteva di ottenere vantaggi da un gran numero di consumatori, in quanto le componenti multiplayer erano limitate dalle piattaforme e dalla scarsa diffusione di internet (Locke e Uhrínová, 2017). Un esempio di un prodotto tradizionale può essere Super Mario Bros della Nintendo, o Pokémon sempre della Nintendo.  Nell’era transazionale, la digitalizzazione del processo di distribuzione e l’ascesa di internet danno la possibilità alle aziende di includere la community di consumatori nella co-creazione del valore. Il prodotto è sempre accessibile con un prezzo premium, ma ora si ottengono benefici da una community allargata e dedicata ad un prodotto, come il successo dei giochi multiplayer attesta (World of Warcraft della Blizzard in particolare). Gli utenti hanno la possibilità di creare valore, condividendo idee e contenuti online come non era possibile prima di allora.  Nell’era moderna, la diffusione degli smartphone ha fatto sì che un gran numero di persone ora possedessero una piattaforma su cui era possibile sviluppare dei giochi. Per massimizzare il numero di utenti, e dunque massimizzare i benefici tratti dalle community, le aziende decidono di rendere i loro prodotti free, basando

49 i propri ricavi su altri tipi di monetizzazione (micro-transazioni, pubblicità, sponsorship). Questi tipi di prodotti basano la loro sostenibilità unicamente sulla loro performance di mercato, e la loro proposizione di valore può avere origine nell’azienda, come in gran parte dei giochi per giocatore singolo, ad esempio Candy Crush Saga della King, o nel network dei consumatori, come i giochi più competitivi come League of Legends della Riot Games, che basa il suo successo anche sugli E-Sports.

Origine della proposizione di valore Modelli di business Firm-based Consumer-based

Modello Modello Paid tradizionale transazionale Flusso di (Super Mario Bros) (World of Warcraft) ricavi Modello moderno Modello moderno Free (Candy Crush (League of Legends) Saga)

Tabella 1 – I quattro modelli di business dell’industria videoludica (Locke & Urhínová, 2017)

Possiamo quindi individuare due modelli fondamentali propri del mercato videoludico, basandoci sulle differenze tra i diversi blocchi del business model: il modello pay-to-play, d’ora in avanti P2P, e il modello free-to-play, d’ora in avanti F2P (Davidici-Nora, 2014).

2.1.2.1 Il modello P2P

Il modello di giochi P2P può essere considerato come il metodo “tradizionale” di vendita dei giochi, e consiste in un’architettura di mercato lineare: Development – Monetization – Acquisition – Retention (D-M-A-R, Davidici-Nora, 2014). Dal punto di vista del consumatore, questo modello si organizza in tre fasi: la monetizzazione, cioè l’acquisto del gioco, l’acquisizione, cioè la scoperta del gameplay del prodotto, e la ritenzione, cioè l’apprezzamento del gameplay e la ripetizione dell’atto di gioco. Il contenuto si dice essere venduto ad un prezzo premium, nel senso che il consumatore, per un prezzo unico,

50 ha accesso ad un contenuto unico (Davidici-Nora, 2014). Si noti che tale modello funziona sia attraverso una distribuzione fisica delle copie del prodotto, sia tramite una distribuzione digitale, come ad esempio tramite la piattaforma Steam, grazie al codice chiave (key code) unico associato ad ogni prodotto. Dal punto di vista delle aziende produttrici, l’offerta è classicamente costruita sulla domanda, costituita dalla willingness-to-pay dei consumatori, come si vede dalla Figura 9. Il mercato, dunque, non copre tutti i consumatori, ma soltanto quelli disposti a pagare il premium price per il prodotto. La profittabilità del mercato è quindi data dal rapporto tra i costi di produzione più il margine e il prezzo medio di mercato (Davidici-Nora, 2014).

Figura 9 – La costruzione del mercato secondo il modello P2P (Davidici-Nora, 2013)

Per raggiungere quelle fasce di consumatori al di fuori del mercato, dunque indisposti a pagare il premium price, sono state sviluppate differenti strategie, arricchite dal passaggio alle piattaforme di distribuzione digitali: i prodotti possono essere più facilmente messi in sconto e i prezzi possono essere aggiustati dinamicamente (Rayna & Striukova, 2014); inoltre, le piattaforme pubbliche digitali permettono un supporto più facile in termini di updates, community e contenuto addizionale (come servizi E-Sport, supporto per lo streaming, ecc.). Il modello P2P si è evoluto con il tempo in diversi modelli, per andare incontro a differenti esigenze del produttore o del consumatore:  il modello subscription richiede un pagamento mensile al consumatore per garantirgli l’accesso a uno o a più giochi. Tale modello è nato a seguito della

51 diffusione degli MMOG (Massive Multiplayer Online Games), che dovevano garantire un servizio e un contenuto online continuativo ai suoi utenti, secondo il paradigma GaaS (Game as a Service). Questo approccio mette il focus sulla ritenzione dei consumatori e sulla loro attività giornaliera, proponendo un flusso regolare di nuovo contenuto (Taylor, 2017). Tale modello può essere combinato con il modello tradizionale, ponendo quindi un prezzo premium all’entrata e un pagamento mensile (Heimo et al., 2016). Un altro tipo di subscription riguarda l’accesso ad un portafoglio di giochi, seguendo il successo dei servizi di streaming come Netflix, secondo il modello gaming on- demand, o cloud gaming (Chen, 2014). Un esempio di questo tipo è il servizio OnLive, lanciato nel 2010 in California;  i DLC (Downloadable Content) sono una forma per aggiungere contenuto ad un gioco già terminato e distribuito, creati dallo sviluppatore originale o da terze parti. Possono essere di varia natura, da cambiamenti estetici all’aggiunta di nuovi livelli o oggetti. Anch’essi sono caratterizzati da un premium price, anche se spesso sono distribuiti in pacchetti di DLC tramite dei Season Pass, che li raccolgono ad un prezzo scontato. Un’altra pratica comune è quella di rilasciare il gioco, a seguito dell’uscita di uno o più DLC, in una Special Edition che raccoglie, a prezzo ribassato, tutto il contenuto aggiuntivo disponibile. La pratica di rilasciare uno o più DLC per un gioco poco dopo o lo stesso giorno della sua uscita (first-day DLC) è stata criticata, in quanto può significare che comprare il gioco non dia accesso all’intero contenuto (Heimo et al., 2016; Ransom-Wiley, 2006). Un’altra pratica mal vista è quella di rilasciare un gioco difettoso e affetto da bug, a causa di una cattiva gestione dei tempi di sviluppo, per poi far uscire un DLC a pagamento in cui quei difetti vengono corretti (Williams, 2017). In generale, la pratica dei DLC e dei Season Pass è vista come la volontà di monetizzare ulteriormente il gioco a costi ribassati, sfruttando dei meccanismi psicologici per indurre i consumatori a pagare per “sbloccare” tutto il contenuto (Reiner, 2016; Heimo et al., 2016);  il preordine di un gioco prima della sua uscita può essere premiato dal produttore attraverso una serie di contenuto aggiuntivo che ha valore per il consumatore. Il lancio di un gioco non coincide con il suo effettivo rilascio, ma può avvenire mesi prima attraverso il preordine. Ciò è facilitato dalla distribuzione digitale, che permette di trattenere i dati di un gioco per il download fino alla data di uscita;

52  alcuni giochi offrono agli utenti un periodo di prova del prodotto, al termine del quale l’utente può acquistare il gioco, secondo il modello freemium (Davidici- Nora, 2014). Prima della digitalizzazione della distribuzione, era uso diffondere delle copie demo dei giochi, contenenti una piccola parte di contenuto per far conoscere il prodotto, attraverso canali non tradizionali come le edicole e i negozi non specializzati;  una tendenza recente è quello di rilasciare una versione non finita del gioco ad un numero ristretto di giocatori per raccoglierne le opinioni e il feedback. I giochi si dicono rilasciati in stadio alpha o beta, oppure in early-access (Bensen, 2013). Rilasciare un gioco in early-access permette di devolvere parte del lavoro di revisione e del prodotto direttamente ai consumatori, stando attenti a raccoglierne le opinioni e i feedback in maniera appropriata (Johnson, 2012). Tali versioni del gioco comprendono generalmente un prezzo ridotto rispetto a quello del prodotto finale, che però consente ai developer di finanziare l’ulteriore sviluppo di un gioco, soprattutto alle aziende più piccole o agli indie developer (Berling, 2011). L’early-access è stato reso disponibile come servizio per gli sviluppatori da Steam nel 2013. La pratica dell’early-access è vista come una dei trend più importanti dell’industria videoludica (Goslin, 2019a; Graft, 2013), ma ha attirato un certo numero di critiche: una delle principali riguarda il fatto stesso di rilasciare una versione incompleta del gioco, di qualità inferiore ad un prodotto finito ed infestata da bug (Plafke, 2013), mentre un’altra critica diffusa riguarda il tempo che i giochi passano in questo stato “non-finito”, e le accuse verso alcuni developer di aver rilasciato un gioco incompleto, aver intascato i soldi delle prime vendite ed aver abbandonato lo sviluppo (Goslin, 2019a; Yin-Pool, 2014).

2.1.2.2 Il modello F2P

Il modello F2P è un’evoluzione ulteriore del modello freemium sviluppatosi dall’architettura tradizionale (Simon et al., 2014). Un gioco F2P è liberamente accessibile a tutti gli utenti, senza che si debba pagare un prezzo premium per l’accesso al contenuto del prodotto. Il business model F2P presenta quindi un’architettura complessa ed interattiva, di tipo Acquisition – Retention – Monetization – Developement (A-R-M-D, Davidici-Nora, 2014).

53 In tale modello, si pone dunque l’accento sull’esperienza dei consumatori prima che sulla monetizzazione del prodotto. La fase dell’acquisizione è libera ed automatica: i consumatori accedono liberamente al prodotto e creano delle esternalità di network assieme agli altri utenti, come ad esempio del viral marketing o dei segnali di qualità (Davidici-Nora, 2014). Se il prodotto piace e si forma una base di utenti abbastanza larga, si passa alla fase della ritenzione: gli utenti non vogliono smettere di giocare, e più giocano, più sono disposti a pagare. La monetizzazione può avvenire attraverso differenti modalità:  il primo metodo di monetizzazione indiretta di un gioco F2P è la pubblicità, o gli advertisement. Il gioco è gratis fintanto che gli utenti visualizzano periodicamente gli advertisement, e i giocatori possono pagare un premium price per rimuovere per sempre i tempi di attesa e la distrazione (Olsson & Sidenblom, 2010; Heimo et al., 2016; Fields, 2014). Tale metodo è ancora utilizzato in molti giochi per mobile;  i giocatori possono spendere soldi per acquistare oggetti (item) in-game, cioè con un effetto sul gameplay del gioco. Tali oggetti possono essere puramente estetici (rendendo possibile modificare, ad esempio, l’aspetto dell’avatar del giocatore) oppure dei bonus di gioco (ad esempio, rendendo più veloce il passaggio di un livello all’altro, o fornendo delle vite in più), e possono essere distribuiti tramite un e-shop all’interno del gioco o un negozio online. Il modello che copre questo tipo di acquisti è quello delle micro-transazioni. Il ricavo di una gran parte di giochi F2P si basa su tali micro-transazioni (Heimo et al., 2016). Le loot box sono una variante delle micro-transazioni in cui ciò che viene comprato è una “scatola” di oggetti casuali, su cui il giocatore non ha controllo. Il successo delle loot box ha attirato un certo numero di critiche, che le hanno paragonate al gioco d’azzardo a causa dell’assuefazione e dell’ingente dispendo di soldi che possono causare tra i giocatori (Lum, 2018; Oh & Ruy, 2007), soprattutto a seguito della loro implementazione in giochi “tripla A”, sviluppati da case di produzione importanti e prestigiose come l’Electronic Arts (Thier, 2018). Altre critiche derivano dal fatto che le forme di micro-transazione vengono implementate anche verso il mercato dei giocatori minorenni, facendo leva sui loro meccanismi psicologici ancora non del tutto sviluppati (Stuart et al., 2019).

54 Una recente alternativa alle loot box è l’acquisto dei battle pass, dei “ticket” virtuali acquistati all’inizio di una stagione, che pongono delle sfide e offrono ricompense ai giocatori che li comprano. Tale modello è stato adottato con successo da Fortnite nel 2018 e da DotA 2 (Parker, 2018; Goslin, 2019b);  i giocatori possono spendere soldi reali per acquistare della valuta virtuale per effettuare ulteriori acquisti nel gioco. La valuta virtuale, solitamente, si distingue in due tipi: valuta che può essere guadagnata giocando (gold), e valuta che può essere guadagnata spendendo soldi reali (diamonds) (Heimo et al., 2016). I gold permettono di acquistare oggetti solitamente di scarso valore o estremamente over-priced, mentre i diamonds permettono l’acquisto degli oggetti più costosi. A volte questi due tipi di valuta si sovrappongono, come in molti giochi lure-to- pay, in cui è possibile guadagnare diamonds semplicemente giocando, ma è estremamente frustrante o richiede molto tempo. Solitamente, i gold costituiscono la principale ricompensa ai giocatori per il completamento di missioni e sfide quotidiane, le cosiddette “daily”. Raramente, i gold possono essere usati per comprare una piccola quantità di diamonds;  i produttori possono monetizzare anche le transizioni tra giocatore e giocatore (Olsson & Sidenblom, 2010), nei casi in cui siano permesse, riservandosi una commissione. È il caso di Team Fortress 2 e dello Steam community market, ma anche di molti MMORPG come World of Warcraft. In generale, ciò per cui gli utenti pagano è un comfort o un privilegio in-game, per migliorare la propria esperienza di gioco. Gli oggetti sono utilizzati per differenziare e rendere unica l’esperienza di gioco di ogni utente, catturando il surplus dei consumatori (Davidici-Nora, 2014). È considerata buona pratica lasciare il 100% dell’esperienza di gioco libera e gratuita, anche se è normale che, più si avanza di livello, più il gioco diventa difficile per i giocatori non disposti a pagare, e più diventa impegnativo a livello temporale. Nascondere del contenuto dietro a dei paywall (muri di pagamenti), in modo che soltanto chi paga può accedere all’esperienza di gioco completa, è generalmente considerata una pratica scorretta dalla user base. Alcuni giochi sono realizzati per essere estremamente frustranti e difficili da terminare senza effettuare neppure un pagamento, e vengono definiti lure- to-p(l)ay oppure pay-to-win (Heimo et al., 2016). In tali giochi, le meccaniche base sono talmente tediose, o i vantaggi dati dagli acquisti sono talmente grandi, da rendere il gioco free praticamente impossibile da portare a termine. Solitamente, questi giochi hanno un

55 buon successo, ma sono considerati “scorretti” dalla community e dalla critica (Heimo et al., 2016; Lum, 2018; Thier, 2018; Rose, 2013). Nonostante il successo dei modelli F2P, in molti, soprattutto tra i critici, si dicono già stanchi del sistema delle micro-transazioni, considerandola una pratica avida e scorretta (Smith, 2018; Baca, 2018). Il modello F2P è pensato per creare la più larga base di utenti possibile, in quanto, per i produttori, non è semplice rientrare nei costi come nel modello P2P. Infatti, nonostante tale modello di offerta abbia la potenzialità di coprire l’intero mercato, come si vede nella Figura 10, la profittabilità si basa unicamente sulla performance delle vendite, cioè sull’esperienza dei consumatori. Non tutti i giocatori sono disposti a pagare allo stesso modo per la stessa esperienza di gioco, tuttavia. Lovell (2011) distingue tre tipi di utenza nei giochi F2P, a seconda della loro willingness-to-pay rispettivamente bassa, media o alta: i minnows (pesci), i dolphins (delfini) e le whales (balene).

Figura 10 – La costruzione del mercato secondo il modello F2P (Davidici-Nora, 2014)

La strategia economica del produttore si deve basare sul trasformare la più alta percentuale possibile di giocatori free in minnows, poi i minnows in doplhins e i dolphins in whales. L’implementazione di tale strategia, tuttavia, si deve sempre scontrare con certe caratteristiche del modello F2P, che rendono la sua monetizzazione non sempre facile:  i profili dei giocatori paganti non sono sempre così facilmente definibili, come descritto da Lovell (2011). Un giocatore può essere dolphin per un mese, minnows

56 per altri tre e ritornare ad essere un giocatore free per il tempo restante. La funzione delle micro-transazioni non è costante, ed è difficile trovare la giusta relazione tra il valore contestuale degli oggetti acquistabili, il gameplay e il costo unitario dell’oggetto (Davidici-Nora, 2014);  l’acquisizione non è automatica come sembra, in quanto, a causa della grande competizione, non basta che un gioco sia F2P per attirare una user base sufficientemente larga per la sopravvivenza di un prodotto. I costi di marketing che i produttori devono affrontare per spingere la monetizzazione del prodotto possono affossarlo;  la monetizzazione non deve sembrare un obbligo per il giocatore. Come abbiamo detto, nascondere del contenuto dietro a dei paywall non incentiva i giocatori a pagare. Gli utenti devono essere spinti a pagare per migliorare la loro esperienza di gioco, attraverso una narrativa efficace, un’alta qualità di gameplay e una strategia di marketing efficace e non intrusiva (Olson & Sidenblom, 2010);  un’alta ritenzione dei giocatori è necessaria per una monetizzazione efficace, tuttavia, la ritenzione degli utenti dei giochi F2P è estremamente volatile, in quanto le più piccole modifiche di gameplay o di prezzo possono allontanare i giocatori (Stuart, 2011). Una cattiva ritenzione alza i prezzi di acquisizione e diminuisce la profittabilità;  demograficamente, è impossibile individuare dei profili di giocatori (Lu, 2014). Un giocatore può finire il gioco senza mai mettere mano al portafoglio, mentre un altro che è appena all’inizio può diventare immediatamente una whale. Pertanto, è inutile concentrarsi su una fascia di giocatori, ma il gioco deve essere appetibile per tutte le fasce (Lu, 2014);  generalmente, si può dire che il 50% dei ricavi da un gioco F2P venga da una ristrettissima minoranza di giocatori, chiamati white whale (Johnson, 2014; Carmichael, 2013). Tutti questi fattori rendono la monetizzazione di un gioco F2P complicata e rischiosa, in quanto richiede la gestione simultanea di molti parametri differenti e la giusta comunicazione dell’offerta agli utenti, sempre con il rischio di allontanare la propria user base ai primi errori (Davidici-Nora, 2014). Una corretta gestione dei processi di monetizzazione ha a sua volta delle esternalità positive sulla ritenzione e sull’acquisizione di nuovi utenti.

57 Sui processi di acquisizione, ritenzione e monetizzazione si deve inoltre impiantare un corretto sviluppo (developement) dei nuovi contenuti, che devono essere garantiti ad intervalli regolari, secondo il paradigma GaaS (Taylor, 2017). La gestione di questi quattro processi simultanei è alla base del successo di un gioco F2P, ed è resa possibile da una continua analisi del comportamento degli utenti. I produttori devono utilizzare i dati derivanti dalle micro-transazioni e dall’interazione degli utenti per segmentare le fasce di giocatori in tempo reale e creare offerte di valore sempre nuove, considerandone anche gli effetti sul gameplay (Stuart, 2011). Ci si può anche avvalere di simulazioni per testare il successo di nuovi contenuti. Un gioco F2P può continuare ad espandersi con nuovo contenuto fintanto che la base di utenti è sufficientemente larga, ma deve anche presentare un tipo di gameplay ripetibile all’infinito. Dunque, al contrario di molti giochi P2P, in cui l’esperienza di gioco è finita e delimitata, i giochi F2P devono presentare un gameplay incentrato sulla ripetizione delle azioni e sulla competizione con gli altri giocatori. Ciò può essere realizzato attraverso un 9 end game ricco di contenuto8F , oppure una competizione sempre attiva. Nel caso di molti giochi multiplayer, come i già citati Fortnite e League of Legends, la competizione si struttura in una classifica globale dei giocatori, basata su dei ranghi da scalare per arrivare in cima. Tale classifica è stagionalmente azzerata, mantenendo la competizione sempre viva ed attiva, nonostante il gameplay resti sempre uguale. Il modello F2P può essere adattato a qualsiasi tipo di gioco con queste caratteristiche, a prescindere dalla dimensione o dai tempi di sviluppo.

2.2 La catena del valore

Il concetto di creazione di valore è al centro della letteratura economica più recente, a partire dalla concezione di Porter (1985) della catena del valore (value chain), che rappresenta le fasi di produzione di un prodotto o di un servizio dal produttore al consumatore. Secondo la definizione di Porter, esistono quattro diverse catene di valore

9 L’end game di un gioco rappresenta il termine ultimo di un gioco, in cui il giocatore ha raggiunto il massimo livello. Presuppone una struttura di avanzamento lineare a livelli, come quella dei MMORPG. Un end game ricco di contenuti significa che i giocatori non smettono di giocare una volta raggiunto il massimo livello, ma, anzi, sbloccano contenuto aggiuntivo contro cui cimentarsi, tra cui sfide e nuove modalità multiplayer.

58 (dei fornitori, dei produttori, dei distributori e dei consumatori), ognuna divisa in attività primarie e attività di supporto (Porter, 1985). Tale modello tradizionale presuppone una perfetta linearità della sequenza delle fasi, una separazione esatta dei ruoli dei diversi attori e un focus su prodotti tangibili. Tali limiti lo rendono inadatto a descrivere i processi di produzione di valore di molte delle industrie dei nostri giorni (Troilo, 2014). La logica dietro tale modello è definita goods-dominant e deriva da una concezione del valore come scambio (Vargo & Lusch, 2004). Il modello tradizionale di Porter non è quindi considerato adatto a rappresentare processi di produzione non lineari, come sono gran parte dei processi che formano le diverse industrie creative (Troilo, 2014). Per rendere conto del grande numero di attori dai ruoli non sempre definiti, della non-linearità dei processi e, spesso, dell’intangibilità del valore percepito dai consumatori, viene utilizzato un modello di rete del valore (value network), o costellazione del valore (value constellation) (Troilo, 2014; Normann & Ramirez, 1993; Allee, 2003). In un network, ogni attore agisce in modo da integrare le risorse, che possono essere sia tangibili che intangibili, interagire con gli altri attori e co-creare il valore finale (Lusch et al., 2010). Essendo i videogiochi dei prodotti creativi multimediali, afferenti all’industria dell’intrattenimento, utilizzeremo il modello del value network per descriverne i processi produttivi. Tuttavia, va precisato che tale paradigma può non essere adatto a descrivere tutte le fasi della catena di valore dell’industria videoludica: in quanto una gran parte dell’innovazione nell’industria si basa ancora sull’avanzamento tecnologico, una parte della catena, soprattutto quella che si occupa dei prodotti hardware come le console, è tutt’ora descrivibile tramite il tradizionale modello di Porter. Dunque, possiamo dire che il sistema di valore dell’industria videoludica è misto, tra modelli tradizionali e network di attori (Marchand & Hennig-Thurau, 2013).

2.2.1 La catena di valore dell’industria videoludica classica

L’industria dei videogames classica, che ancora si basava sui retail store per la vendita dei prodotti e in cui internet non era ancora capillarizzato com’è adesso, presenta una value chain molto simile al modello descritto da Porter (1985), secondo il modello tradizionale di business model (Tabella 2).

59 • Capitale, marketing, legal licensing Publisher

• Design, programmazione, scrittura, Developer animazione, debugging

• Certificazione, produzione Producer

• Stoccaggio, delivery Distributore

• Offerta di prodotto, consumer loyalty Retailer

Tabella 2 - La value chain tradizionale e le attività primarie dei diversi attori (Elaborazione personale)

Analizziamo fase per fase i diversi attori di questa value chain tradizionale:  il publisher è il primo attore da cui l’offerta di prodotto può partire (Zackariasson & Wilson, 2012). Esso ha il capitale necessario a finanziare lo sviluppo di giochi di alta qualità, inoltre, si occupa delle questioni legali legate alle licenze artistiche del prodotto, ai costi di localizzazione, di marketing, di distribuzione e di creazione di contenuti per il prodotto. I grandi publisher distribuiscono loro stessi i giochi che sviluppano, ma possono anche essere pagati da case di sviluppo più piccole per distribuire i loro giochi sotto il loro nome (Zackariasson & Wilson, 2012). Normalmente, i publisher si specializzano nel creare giochi per una sola piattaforma, di cui spesso sono loro stessi proprietari e produttori (come la Sony per la Playstation, la Microsoft per l’XBoX e la Nintendo per la Nintendo Switch). Nel caso in cui non siano produttori della piattaforma, i publisher sono obbligati a pagare una royalty al proprietario della piattaforma per cui stanno sviluppando il gioco prima della vendita del gioco stesso, esponendosi quindi ad un rischio finanziario (Zackariasson & Wilson, 2012). Se il publisher commissiona lo sviluppo ad un developer esterno, si dice che il gioco viene sviluppato second-party o third-party, a seconda che il developer sia

60 o meno legato esclusivamente a quel publisher. Se invece lo sviluppo è interno allo stesso publisher, il gioco viene detto first-party e il team di sviluppo è definito studio (Bates, 2004). L’acquisto di uno studio richiede un grande investimento, che deve essere ripagato da un successo commerciale, ma evita al publisher il dover pagare ulteriori royalty sulle vendite (Ahmed, 2006). Per quanto riguarda i developer esterni, i publisher stipulano dei contratti per lo sviluppo di uno o più giochi. In tali contratti sono specificati una serie di obbiettivi di produzione, o milestones, al raggiungimento dei quali il publisher paga una parte di royalties in anticipo allo sviluppatore. Nel caso di studi second-party, le royalties sono generalmente più alte per sopperire al fatto di non poter sviluppare giochi per altri publisher nello stesso tempo (Bethke, 2003). Esempi di publisher sono le Americane Electronic Arts (EA), Sony Interactive Entertainment e Activision Blizzard, la cinese Tencent, la giapponese Nintendo e la francesce Ubisoft;  il developer (sviluppatore) è il secondo attore nell’industria che può dare il via alla produzione di un gioco, occupandosi del suo sviluppo software (Bethke, 2003). Tra i compiti dello sviluppatore rientrano il game design, la programmazione del software di gioco, la scrittura dell’eventuale storyline, la creazione degli asset grafici e sonori e l’eventuale localizzazione del titolo. Un developer può essere una sola persona che si occupa di tutto, una piccola squadra di persone o un grande team che lavora su giochi di grandi dimensioni, con ruoli individuali ben precisi (McGuire & Jenkins, 2009). Un developer può essere specializzato per lo sviluppo di giochi per una specifica piattaforma, o può lavorare su più piattaforme. Inoltre, molte case di sviluppo si specializzano in un genere di giochi, come i first-person shooter o gli RPG. Molti developer si appoggiano finanziariamente e per la distribuzione ad un publisher (Bates, 2004), mentre gli studi che si occupano da soli della distribuzione dei loro titoli vengono definiti indipendenti o indie (Gnade, 2010). Come abbiamo visto, i developer possono essere first-party, se di proprietà di un publisher, second-party, se non sono di proprietà di un publisher ma sviluppano giochi esclusivamente per un unico publisher, oppure third-party, se non sono di proprietà dello studio (Bethke, 2003). Lo sviluppo third-party è un settore economico piuttosto volatile e rischioso, in quanto spesso gli studi sono composti da un piccolo nucleo di persone,

61 estremamente dipendenti dal successo del publisher a cui si affiliano. Gli sviluppatori third-party possono essere a loro volta publisher di progetti interni (Zackariasson & Wilson, 2012). Il fallimento di un gioco può spesso mandare in rovina un piccolo developer, che, per proteggersi, può decidere di vendere la compagnia ad un publisher, e diventare uno sviluppatore in-house. Ciò può dare una buona stabilità finanziaria, ma non sempre gli obiettivi dell’azienda publisher coincidono con quelli dello sviluppatore, il cui lavoro può essere ridiretto verso i titoli mainstream dell’azienda piuttosto che sullo sviluppo di nuove IP. Esempi di developer first-party sono la Naughty Dog, acquistata nel 2001 dalla Sony, e la Rare Limited, acquistata nel 2002 dalla Microsoft; esempi second-party sono la Game Freak Inc., che sviluppa giochi esclusivamente per la Nintendo, e la Insomniac Games Inc., sviluppatore per Microsoft; esempi third-party sono la Activision Blizzard, la Perfect World Games e la Obsidian Entertainment;  la figura del producer spesso si sovrappone a quella del publisher, tranne nei casi in cui il publisher non è proprietario della piattaforma per cui si sta producendo il gioco. Ruolo del producer è di valutare ed approvare i giochi sviluppati per la propria console, affinché rispettino precise disposizioni tecniche e di copyright (Zackariasson & Wilson, 2012). Il publisher paga al producer una parte di royalties prima della vendita del gioco, assumendosi i rischi finanziari del caso. La parte di approvazione di un prodotto è essenziale soprattutto nel caso in cui questo debba essere disponibile per più piattaforme. Il producer si occupa anche della creazione fisica del supporto del gioco, cioè del CD o del DVD, del packaging del prodotto e, consequenzialmente, del suo rating secondo lo Stato di riferimento e le disposizioni PEGI (Tomaselli et al., 2008). I grandi producer sono la Sony, la Microsoft e la Nintendo. Quest’ultima ha il suo Nintendo Seal of Quality che certifica che un prodotto è stato approvato per le sue piattaforme;  il distributore si occupa della dispersione del prodotto fisico finito, dello stoccaggio e della consegna del prodotto presso i negozi al dettaglio. I grandi publisher possono avvalersi di distributori di proprietà, mentre le case di produzione più piccole o gli sviluppatori indipendenti devono per forza affidarsi a distributori esterni. Come vedremo, la distribuzione fisica è stata decisamente superata dalla distribuzione digitale. Tuttavia, fino a pochi anni fa, compagnie

62 come la californiana Game Center Distribution Inc. erano i principali attori nella distribuzione fisica dei prodotti;  il retailer si occupa dell’offerta di prodotto al consumatore all’interno dei negozi, dunque di tutta quella parte che riguarda l’esperienza di acquisto, non solo dei giochi, ma anche delle piattaforme (Wingfield, 2015). Tradizionalmente, il retail store si occupava anche di fidelizzare i consumatori con tessere, offerte e punti e di mantenere il contatto con la clientela, oltre a gestire le attività di rivendita e di trade-in dei prodotti usati. I giochi possono essere venduti in negozi specializzati (Gamestop), ma anche in discount stores come Walmart, MediaWorld e BestBuy. Tale modello di value chain si adatta piuttosto bene alla produzione videoludica che va dagli inizi degli anni ’90 fino alla settima generazione di videogiochi, tra il 2007 e il 2011.

2.2.2 La catena di valore dell’industria videoludica moderna

Come abbiamo visto, le innovazioni che hanno riguardato l’industria videoludica hanno avuto numerosi effetti anche nei modelli di business adottati e, di conseguenza, sulla catena del valore. Le aziende, per affrontare un mercato sempre più competitivo, hanno dovuto integrare dei nuovi paradigmi al loro interno (Simon et al., 2014). Vediamo ora velocemente i principali cambiamenti che hanno riguardato l’industria videoludica negli ultimi 10 anni.  I costi di sviluppo dei videogiochi si sono alzati, per seguire le innovazioni delle tecnologie hardware e software e restare al pari della competizione. Questo comporta alti costi all’ingresso per l’industria e un maggiore rischio nella produzione. Ciò ha portato molti studi di sviluppo ad essere acquistati dai grandi publisher.  Dall’altra parte, la nascita di pratiche di crowdfunding come Kickstarter ha dato la possibilità a piccoli sviluppatori indipendenti di creare giochi di nicchia di grande qualità, arricchendo il panorama indie, ma ha anche permesso ai creatori di contenuti di finanziare il proprio lavoro (si pensi a Patreon).  Il numero di giocatori è aumentato enormemente in tutto il mondo, e la demografia dei giocatori è divenuta più eterogenea (Simon et al., 2014). Le aziende hanno potuto sfruttare i benefici derivanti da un alto numero di giocatori per sviluppare giochi F2P, che basano il loro successo sul numero di utenti connessi. Nello stesso tempo, grazie al dynamic pricing e alle nuove possibilità di data analytics offerte

63 dalle tecnologie, le aziende hanno saputo offrire una personalizzazione dell’esperienza di consumo mai vista prima.  Le community di giocatori hanno assunto un ruolo più importante, grazie alla diffusione di internet, e le aziende hanno dovuto imparare a comunicare con i consumatori (Poor, 2003; Postigo, 2007). La nascita di piattaforme come YouTube, Facebook e Reddit ha significato la crescita di contenuto creato dai consumatori, e nuove risorse di creazione di valore per questi ultimi. Il word-of- mouth diventa sempre più importante per la diffusione e la ricezione dei nuovi giochi, ed aumenta il peso dei critici.  La crescita della distribuzione digitale, con negozi online e piattaforme pubbliche di distribuzione, ha di fatto soppiantato i retail store, che oggigiorno sono a pochi passi dal fallimento (Simon et al., 2014). Inoltre, la distribuzione digitale ha cambiato l’esperienza di acquisto, di consumo e di post-consumo dei giocatori, facilitando molto la distribuzione di patch e aggiornamenti postumi all’uscita di un gioco. Un altro effetto delle piattaforme pubbliche come Steam, iOS Store e Google Play Store è stato quello di favorire la diffusione di giochi indipendenti, slegati dai grandi publisher, praticamente azzerando l’ingresso sul mercato.  La distribuzione digitale ha permesso alle aziende di sperimentare prezzi dinamici e altre forme di pricing, aprendo la strada al successo dei giochi F2P. Le piattaforme pubbliche hanno la possibilità di imporre un loro modello di pricing una volta ottenuta la licenza dei titoli dai publisher, occupandosi anche della promozione dei titoli e della sicurezza dei pagamenti online. Gli online store hanno ridotto la distanza tra sviluppatore e consumatore, permettendo un canale di vendita diretto fin dalla nascita del prodotto.  Infine, la diffusione del mobile gaming e il suo successo a discapito delle console tradizionali hanno portato le aziende a sviluppare titoli multipiattaforma (Simon et al., 2014). Allo stesso tempo, la diffusione delle applicazioni cloud permette di superare le limitazioni hardware dei dispositivi mobili, permettendo la diffusione di giochi per cellulare con software all’avanguardia (Simon et al., 2014; Feijoo, 2012). A seguito di queste considerazioni, possiamo provare ad immaginare una nuova value chain che tenga conto dei diversi ruoli che gli attori devono ricoprire oggi (Tabella 3).

64 • Capitale, marketing, legal licensing, user acquisition & retention Publisher

• Design, programmazione, scrittura, animazione, debugging, analytics, Developer community management

• Certificazione, produzione, servizi cloud per il dowload dei dati Producer

• Delivery, promozione, payment, developement tools, pricing Distributore

Tabella 3 – La value chain moderna, con le attività primarie dei diversi attori (Elaborazione personale)

Analizziamo nuovamente gli attori e le attività primarie di questo modello di catena, in cui il numero di attori si è ridotto, soprattutto a seguito della diffusione della distribuzione digitale:  il publisher deve avere oggi un ruolo molto più attivo nella relazione con la community e il consumatore, investendo un grande capitale nella acquisizione e nella ritenzione degli utenti, considerato che il videogioco è divenuto, con il modello F2P, molto più dipendente dalla sua performance di mercato (Davidici- Nora, 2013);  anche il developer, soprattutto se è indipendente, deve prestare attenzione al rapporto con il pubblico, da cui può derivare fonti di finanziamento attraverso il crowdfunding;  il ruolo del producer è rimasto invariato, ma ora deve occuparsi anche della distribuzione digitale, assicurando agli utenti un servizio Cloud di download e salvataggio dei dati di qualità (Simon et al., 2014);  il distributore ha assunto il ruolo del retailer, occupandosi della delivery, del pagamento e del download dei dati del videogioco (Simon et al., 2014). Le piattaforme di distribuzione pubbliche, come Steam, si occupano anche della

65 promozione del portafoglio di giochi al loro interno e della gestione dei prezzi, tramite sconti ed eventi speciali. Come molte altre industrie, anche quella videoludica si è frammentata conseguentemente al passaggio al digitale. Dunque, possiamo parlare propriamente di value network quando parliamo dell’industria videoludica. Analizziamo il ruolo dei vari attori e gli elementi che caratterizzano questa rete di valore, che si estende per tutto il mercato videoludico globale, come elaborato nella Figura 11. Ho indicato gli scambi basati sul passaggio di informazioni e sulla comunicazione con le frecce tratteggiate.

Figura 11 - Il value network dell’industria videoludica (Elaborazione personale)

 I publisher, che gestiscono le diverse forme di studi di sviluppo, comunicano sia con i produttori di piattaforme hardware, da cui devono ottenere le licenze per produrre giochi per le console di proprietà (tranne nel caso dei grandi publisher

66 che producono loro stessi le proprie piattaforme), sia con la community, per raccogliere i feedback, le recensioni e catturare il valore derivante dal network di utenti, oltre che per offrire supporto. Attraverso l’attività di licensing, possono garantire alle piattaforme di distribuzione pubbliche la vendita dei loro prodotti (generalmente a costi estremamente bassi), oppure venderli in canali diretti sui loro stessi online store (Simon et al., 2014). Oggigiorno, molti produttori, soprattutto se i loro giochi sono basati sul multiplayer, distribuiscono loro stessi i prodotti tramite il download, occupandosi degli aggiornamenti e delle patch in maniera integrata. I publisher devono anche gestire i diritti intellettuali e i copyright legati ai loro titoli, rafforzandoli con nuovi contenuti e proteggendoli. La proprietà intellettuale costituisce una delle risorse chiave dei produttori, e deve essere regolamentata;  I developer indipendenti possono sfruttare anch’essi le possibilità offerte dalle piattaforme digitali di distribuzione per far arrivare sul mercato i loro prodotti a cosi molto ridotti rispetto al modello tradizionale (Newell, 2013). Inoltre, hanno la possibilità di utilizzare dei software di terze parti per sviluppare i loro giochi, ma possono anche servirsi dei software di proprietà delle grandi aziende, pagando un licensing fee per la produzione (come l’Unreal Developement Kit rilasciato da Epic Games nel 2009);  Le piattaforme digitali di distribuzione sono diventate il cuore dei processi distributivi di prodotto, su tutte le piattaforme hardware disponibili. Rappresentano un canale intermedio attraverso cui i publisher possono far arrivare i loro prodotti all’utente, attraverso la vendita e il download digitale dei titoli, in cambio di un transaction fee che in molte piattaforme è pari al 30% (Marks, 2019). Inoltre, molte piattaforme, soprattutto quelle di proprietà, fungono da strumento per la gestione dei diritti sui prodotti. Devono anche garantire la sicurezza dei pagamenti online, e gestire il supporto e i resi dei giochi. Le piattaforme digitali possono creare valore anche per i consumatori, sia quelli casuali, attraverso sconti, promozioni e attività di bundling dei prodotti, sia per i lead consumer, tramite una più facile gestione dei prodotti rilasciati in early- access e un’aggregazione dei contenuti generati dai consumatori, come video, recensioni o guide. Inoltre, alcune piattaforme garantiscono un servizio di hosting della community, gestendo i forum e dei sistemi di messaggistica al loro interno.

67  A monte dei servizi delle piattaforme di distribuzione digitale e degli online store troviamo i servizi di gestione dei web server. La distribuzione digitale, basata sul download, così come tutti i giochi multiplayer, si appoggiano su un sistema di web server che permettono ai distributori di immagazzinare i dati per il download dei giochi e di gestire gli spazi online per la community (Simon et al., 2014). Un altro servizio offerto consiste nel salvataggio dei dati dei giocatori e di parte del contenuto dei giochi su cloud. In questo framework, il ruolo dei consumatori è completamente staccato da quello dello sviluppo hardware e software. Tuttavia, abbiamo già detto che i consumatori, nell’industria videoludica, sono a stretto contatto con le pratiche di co-creazione di valore, molto più che in altre industrie, e spesso partecipano nella creazione di nuovi contenuti. Esemplificative di questa pratica sono le mod, che ora tenteremo di inquadrare in un discorso economico.

2.3 Il ruolo delle mod all’interno dell’industria

Come abbiamo detto, è possibile definire le mod come una pratica di compartecipazione (Poor, 2013; Troilo, 2014). Successivamente all’acquisto di un prodotto, i consumatori che desiderano personalizzare la propria esperienza di consumo e hanno le competenze per farlo possono diventare modder (Postigo, 2007). L’attività dei modder si inserisce in un più vasto framework, che vede il valore creato dai consumatori diventare sempre più importante da sviluppare e proteggere per le industrie e le imprese (Postigo, 2007; Jenkins, 2006a). Secondo la teoria della “convergenza” di Jenkins (2006b), il ruolo dei consumatori e quello dei produttori stanno iniziando a coincidere nell’industria. I fan formano delle comunità informative (chiamate da Levy “collective intelligence”, 1997), le cui azioni “are informed by participatory culture, and that at times are in opposition to the commodity-driven proprietary nature of cultural industries” (Postigo, 2007, p. 301). Tale tensione, tra il ruolo dei fan e dei consumatori e quello più tradizionale dell’industria, è descritta in gran parte della letteratura (Poor, 2013; Postigo, 2010). Il tema del fan labour è stato discusso ampiamente ed è un tema molto complesso. In questo paragrafo, analizzeremo come si inserisce il fan labour all’interno dell’industria dei videogiochi e quali benefici può portare ai produttori e al mercato. Nel Capitolo successivo, definiremo

68 meglio che cosa si intende per fan labour e indagheremo le motivazioni che stanno dietro all’attività dei modder. Nell’ultimo Capitolo, invece, approfondiremo questa tensione che si instaura tra la natura proprietaria ed economica dei prodotti culturali e il lavoro dei fan.

2.3.1 L’user generated content nel value network

Innanzitutto, proviamo ad ipotizzare il ruolo delle mod all’interno della rete di valore dell’industria videoludica. I consumatori diventano partecipanti attivi alla co-creazione di valore, e quindi la loro attività sarà indirizzata verso lo sviluppo e l’industria. Ho basato il design del network sul lavoro di Bruns (2010), che analizza il modello di catena del valore del produsage, che vedremo più diffusamente nel Capitolo 3.

Figura 12 – Il value network comprendente l’attività dei consumatori (Elaborazione personale)

Analizziamo ora i ruoli dei diversi attori in questo network aggiornato, come descritto dalla Figura 12:

69  vero centro dell’attività di modding sono i lead consumers e l’online community, che formano il digital consumers network (Arakji & Lang, 2007). Questi si influenzano vicendevolmente, scambiandosi informazioni e compartecipando alla creazione delle mod e degli add-on (Poor, 2013; Burns, 2006). Gli strumenti a loro disposizione sono i software di terze parti e open-source e, soprattutto, i toolkit messi a disposizione direttamente dai publisher. Un’altra attività tipica di questi attori è il porting, cioè il “trasporto” di un prodotto da una piattaforma di gioco all’altra, attraverso modificazioni e adattamenti del software originale. I contenuti creati dagli utenti possono essere distribuiti in modi differenti: sia attraverso le piattaforme digitali di distribuzione, come lo Steam Workshop, oppure attraverso dei siti di proprietà dei publisher, soprattutto nei casi di giochi che basano la loro attrattività sullo user generated content come The Sims o Minecraft (Shivonen, 2011), o anche tramite la community e i siti autogestiti come Nexus Mods. La community si occupa anche della valutazione delle mod e degli altri prodotti dei consumatori, attraverso siti di aggregazione e review come YouTube o Reddit, e del finanziamento delle attività dei lead consumer, attraverso piattaforme di donazione come Patreon o Twitch (Postigo, 2007; Poor, 2014);  i casual gamers possono beneficiare dell’attività dei lead consumer, scaricando le mod gratuitamente e approfittando della loro competenza per aumentare le informazioni a loro disposizione (Poor, 2014). La presenza o meno di mod può indirizzare un gamer, che pur non è coinvolto nello sviluppo, verso un gioco piuttosto che un altro;  i publisher devono compiere un trade-off tra il grado di controllo che vogliono mantenere su un prodotto e il grado di libertà che vogliono concedere ai modder (Postigo, 2008; Küklich, 2005). Ciò avviene attraverso il controllo della proprietà intellettuale e del licensing dei toolkit. Se il grado di libertà è sufficientemente elevato, possono innescarsi delle meccaniche di co-creazione tra publisher e consumatori, in cui lo user-generated content viene assimilato all’interno dei prodotti di proprietà (è il caso degli add-on per World of Warcraft, Davidici-Nora, 2014). Ai gradi più alti di libertà, i prodotti degli utenti possono essere acquistati dai publisher, che li reinseriscono sul mercato (come è successo per Counterstrike, DotA e Fortnite). Tali prodotti, a loro volta, hanno la potenzialità di generare ulteriore contenuto user-based (basti pensare a DotA Underlords, un

70 gioco spin-off di DotA 2 pubblicato nel giugno 2019 e basato su una mod di grande successo chiamata DotA Auto Chess);  i developer indipendenti possono far leva sulla community per ricevere idee, generare buzz attorno al loro prodotto e, soprattutto, per ricevere finanziamenti attraverso il crowdfunding, su piattaforme come Kickstarter o Patreon (Bruns, 2006). Attraverso tali piattaforme possono anche attivare pratiche di co-creazione, dando modo ai lead consumer (che, in questo caso, sono i consumatori che donano una maggiore quantità di denaro) di partecipare alla creazione del prodotto, con vari gradi di libertà e controllo. I developer indipendenti possono anche prendere le mosse dalle mod di successo, o creare a loro volta delle mod, che magari richiedono un lavoro di gruppo per essere completate (ad esempio, le mod di total conversion). In questo caso, si parla di un team di modder, che diventa a sua volta sviluppatore (Poor, 2014). Tali team possono crescere fino a diventare appetibili per l’acquisizione ai grandi publisher;  le piattaforme digitali di distribuzione possono incoraggiare sia la creazione che la distribuzione delle mod, rendendo accessibili i toolkit messi a disposizione dai publisher e aggregando la community, le mod e altro user-generated content come video, recensioni e guide (Koch & Bierbamer, 2016). Steam è il principale riferimento di tali piattaforme, diventato hub (“cuore”, “centro”) dell’attività della community e dei consumatori. L’accessibilità agli strumenti di modding e alla gestione, per ogni utente, delle proprie mod per ogni gioco, ha influenzato positivamente il numero di mod disponibili (Koch & Bierbamer, 2016). Analizzando questo network, possiamo vedere come il valore trasferito dai produttori ai consumatori non termini nell’esperienza di consumo, arricchendosi nelle pratiche di appropriazione culturale di un gioco (Shivonen, 2011), per poi ritornare verso i produttori, che, a loro volta, ne possono usufruire. Nel prossimo paragrafo vedremo le modalità con cui queste pratiche si manifestano all’interno dell’industria.

2.3.2 Pratiche di co-creazione

Gli studi sulle pratiche di co-creazione riguardanti diverse industrie sono fioriti negli ultimi anni, con la diffusione di internet e della comunicazione digitale, che ha permesso alle aziende una relazione più diretta con i propri consumatori.

71 Abbiamo detto che i publisher devono effettuare un trade-off tra grado di controllo e grado di condivisione di un prodotto (Postigo, 2008; Troilo, 2014). La relazione di co- creazione tra i consumatori e i produttori, infatti, porta nuove sfide a livello di business, in quanto si sfalda il tradizionale modello industriale di competenze e conoscenze, in favore di un nuovo modello di innovazione condivisa (Banks & Potts, 2010; Arakji & Lang, 2007). In questo senso, la co-creazione si configura come una “forza distruttiva” (Banks & Potts, 2010, p. 256) nei confronti dei modelli di business classici (Chesbrough, 2003). Il consumatore, in una tale relazione, non soltanto è estremamente ben informato ed esperto del medium videoludico, ma è anche capace, attraverso il suo giudizio, di negoziare con le imprese e gli sviluppatori (Banks, 2009). Il caso di Fury, sviluppato dalla Auran, è emblematico: dopo due anni di sviluppo, in cui ai consumatori che avevano ricevuto il gioco in beta era stato continuamente richiesto un feedback, i developer, al rilascio del gioco nel 2007, hanno integrato numerose meccaniche che erano state bocciate dalla community (Banks & Potts, 2010; Banks, 2009). Questo ha portato la community sostanzialmente ad abbandonare il gioco, seguita dai giocatori più casual. Tale esempio mostra l’importanza, per i produttori, soprattutto appartenenti a case di sviluppo piccole che non possono contare su un volume di giocatori elevato, di saper dialogare ed ascoltare i propri fan (Banks & Potts, 2010). Per fare un esempio contrario, possiamo citare il successo di Hollow Knight della minuscola casa di sviluppo australiana Team Cherry, che, grazie ad una comunicazione ben gestita con i fan, è riuscita a finanziare il proprio gioco su Kickstarter e a renderlo uno dei videogame più apprezzati dalla critica del 2017 (Whitaker, 2017; Marks, 2017). Per ritornare alla pratica del modding, il trade-off che le aziende devono operare non è soltanto più sulla negoziazione con i propri consumatori, ma riguarda il sistema di copyright e di proprietà intellettuale dell’industria videoludica. Ciò significa che, per attivare delle pratiche di co-creazione, l’azienda deve dare accesso a degli attori esterni (i consumatori) ai propri processi interni, e deve farlo in maniera trasparente, per garantirsi la fiducia di tali attori (Prahlad & Ramaswamy, 2004; Arakji & Lang, 2007). Garantire l’accesso ai dati significa esporsi a dei rischi, sia finanziari, sia di immagine, ma tali rischi sono necessari se si vuole sfruttare appieno il vasto potenziale della community degli utenti (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011; Jäger, 2010). I rischi in cui un’azienda può incorrere sono diversi:  un primo rischio riguarda il poaching delle proprietà intellettuali da parte di altri attori del mercato, ovvero l’utilizzo di informazioni utilizzate in processi

72 collaborativi per scopi privati, al di fuori degli accordi originali (Clemons et al., 2004; Arakji & Lang, 2007). Ad esempio, i modder possono trasferire le informazioni acquisite lavorando su un prodotto dell’azienda ad altri progetti in competizione, che rischiano di cannibalizzare il mercato dove il prodotto è posizionato (Arakji & Lang, 2007);  un secondo rischio riguarda la pratica del two-stage entry, cioè il rischio che un azienda o una community partner si spostino dall’innovazione su prodotti complementari all’innovazione sui prodotti base dell’azienda (Farrell & Katz, 2000). Ad esempio, la Blizzard ha dovuto fronteggiare il problema dei server privati per World of Wacraft, che permettevano agli utenti di giocare al titolo senza pagare l’abbonamento mensile (Arakji & Lang, 2007);  un terzo rischio riguarda la perdita di controllo dell’azienda sul contenuto promosso dai modder (Arakji & Lang, 2007). Le mod possono promuovere contenuto che va contro gli interessi del publisher, ad esempio, contenuto sessualmente esplicito o legato a temi considerati controversi. Tenuto conto di questi rischi, e tenuto conto dei vantaggi che, come vedremo, possono essere estratti dal lavoro dei modder e di altri content creator, l’azienda ha a disposizione, nel trade-off tra controllo e apertura, un potente strumento per guidare l’azione dei consumatori (Arakji & Lang).

2.3.2.1 La harnessing strategy

Una volta deciso il grado di controllo che si desidera mantenere sui propri prodotti, un’azienda può mettere in atto diverse strategie per catturare il valore creato dagli utenti. Tali strategie sono definite harnessing strategy (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011) e possono riguardare tre differenti aspetti del valore creato dagli utenti (Dahlander & Magnusson, 2008):  l’accesso (access) riguarda la capacità dell’azienda di estendere la propria base di risorse e di competenze identificando e aggregando i prodotti della community. È una fase importante in quanto permette di vedere come e quanto la community possa costituire una risorsa;  l’allineamento (alignment) identifica la capacità dell’azienda di allineare i propri obiettivi con quelli dei suoi utenti. Ad esempio, l’obiettivo dei modder è di arricchire giochi già esistenti, che può essere in linea con la strategia di un’azienda

73 di creare una grande quantità di contenuto per i suoi prodotti (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Un altro modo che l’azienda può avere di allinearsi con i suoi utenti è quello di retribuire i creatori di contenuto (Arakji & Lang, 2007);  l’assimilazione (assimilation) riguarda la capacità dell’azienda di inserire ed integrare i prodotti sviluppati dalla community all’interno dei propri processi produttivi, e di riutilizzarli per generare valore per i diversi attori. Le aziende possono implementare questi processi in maniera generica, utilizzando gli stessi metodi di comunicazione verso l’intera comunità di utenti, oppure differenziata, diversificando le tecniche a seconda del tipo di community con cui si ha a che fare (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011).

2.3.2.2 Apertura vs. Controllo

Come dimostrano i numerosi esempi fatti fino a questo punto, è possibile per le aziende bilanciare l’apertura di un prodotto in direzione dell’user network e il controllo sul contenuto complementare generato per quel prodotto, attraverso gli strumenti di copyright (Arakji & Lang, 2007). Dunque, la strategia per massimizzare i benefici economici del lavoro degli utenti è quella di aprire parzialmente alla modificazione e alla trasformazione del prodotto di proprietà (Scacchi, 2011; Arakji & Lang, 2007; Burger- Helmchen & Cohendet, 2011; Von HIppel & Von Krogh, 2003). Affinché ciò sia possibile, il contenuto sviluppato dai consumatori deve essere complementare al prodotto originale, cioè non deve essere sostitutivo (Arakji & Lang, 2007). Il modding non può esistere in un’industria come quella musicale, in quando il remix o la modificazione di un brano è valida esattamente come il brano originale. Le mod, invece, non possono esistere al di fuori del prodotto originale. Vedremo più in dettaglio le modalità di protezione e di apertura del prodotto nel Capitolo 4. Per ora basti dire che l’applicazione delle norme di copyright costituisce un importante elemento strategico, in quanto permette alle aziende di mantenere la proprietà sui contenuti originali sviluppati dagli utenti (Arakji & Lang, 2007).

2.3.2.3 La retribuzione dei modder

Come vedremo in maniera estesa nel Capitolo 3, dietro l’attività dei modder e degli altri content creator vi sono motivazioni intrinseche ed estrinseche. Uno degli strumenti che

74 le aziende possiedono per influenzare il lavoro dei consumatori è quello di spingere sulle loro motivazioni estrinseche, attraverso la retribuzione del loro lavoro (Arakji & Lang, 2007; Farrel & Katz, 2000). Redistribuendo parte del valore creato dal lavoro degli utenti, l’azienda aumenta i suoi costi e diminuisce la sua efficienza, ma può influire positivamente sulle motivazioni estrinseche dei consumatori, spingendoli a realizzare lavori migliori, di più larga portata e di più alta qualità (Arakji & Lang, 2007). Tuttavia, la monetizzazione può imporre delle barriere all’interno della community, scoraggiando la partecipazione e la cooperazione e influenzando negativamente le motivazioni intrinseche (Vohs et al., 2006; Kunreuther & Aesterling, 1990). Assumendo che le motivazioni estrinseche abbiano una dominanza su quelle intrinseche (Arakji & Lang, 2007; Hars & Ou, 2002), le aziende possono massimizzare i profitti attraverso la retribuzione dei consumatori, o, quantomeno, di quei consumatori che sono considerati essere i migliori nel loro campo (Arakji & Lang, 2007; Todd, 2003). Un’altra forma di retribuzione, e dunque un’altra leva con cui incentivare la produzione dei consumatori, può essere quella dell’assunzione (Burger-Helmchen & Guittard, 2008; Lerner & Tirole, 2002). Offrire una possibilità di carriera ai modder significa far leva sul loro desiderio di lavorare all’interno dell’industria videoludica, oltre ad offrire un compenso per il loro lavoro (Burger-Helmchen & Guittard, 2008; Scacchi, 2011). Un modder può quindi essere assunto dall’azienda per merito, oppure, l’azienda può decidere di collaborare con un gruppo di modder per sviluppare un nuovo prodotto, attivando delle pratiche di co-produzione.

2.3.3 Benefici per le aziende

È stato dimostrato che la pratica del modding può portare a dei benefici per quelle aziende che hanno saputo sviluppare delle pratiche di co-creazione dei prodotti e del valore derivante da essi (Kretzschamr & Stanfill, 2018; Arakji & Lang, 2007; Burger-Helmchen & Guittard, 2008). Tali benefici rientrano in quelli derivanti dallo sfruttamento, da parte dell’azienda, del proprio user network (Postigo, 2007; Jenkins, 2006a), e dalle attività legate alle user e brand community attorno ad un gioco (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011).  Un primo beneficio legato alla presenza di mod attorno ad un prodotto riguarda il ciclo di vita di quel prodotto. I videogiochi, soprattutto quelli legati ai grandi publisher (detti “tripla A”), hanno un ciclo di vita programmato, con una durata

75 già decisa a priori dall’azienda (Troilo, 2014; Agarwal & Seetharaman, 2015). La pratica del modding trasforma il gioco, rendendolo differente dal prodotto originale (Postigo, 2007; Jenkins, 2006b). Ciò aumenta la “ri-giocabilità” (replayability) del gioco, in quanto modifica l’esperienza di consumo e spinge i consumatori a sperimentare nuovamente il prodotto modificato, aumentandone quindi la frequenza d’uso ed estendendone l’aspettativa di vita (Postigo, 2007; Scacchi, 2011; Agarwal & Seetharaman, 2015). Tutti i videogiochi competitivi si basano sulla ripetibilità di una o più modalità di gioco. La replayability influenza quindi anche il ciclo di vita di un prodotto multiplayer: se questo può essere ri-giocato, l’azienda ha l’interesse a supportare continuativamente il prodotto (Davidici-Nora, 2013; Küklich, 2005), dovendo comunque sostenere i costi per il mantenimento dei server, secondo il paradigma GaaS. Un gioco che viene supportato con la produzione di nuovi contenuti è in grado di generare vendite per anni dopo il lancio iniziale, come molti dei giochi competitivi più famosi possono dimostrare (Warcraft III, uscito nel 2001, è tutt’ora supportato dalla Blizzard).  Le mod aumentano la replayability sia dei giochi multiplayer, sia di quelli single- player, ma in maniera differente: nei giochi che si basano sulla competitività, l’attività dei modder sarà indirizzata verso la personalizzazione estetica degli avatar ma, soprattutto, verso la creazione di nuove modalità di gioco competitivo (Scacchi, 2011). Riprendendo l’esempio di Warcraft III, la mod che diventerà nel 2008 DotA nasce per offrire ai giocatori una modalità di gioco differente dalla classica modalità RTS (real-time strategy) offerta dal prodotto. Nello stesso modo, DayZ nasce come mod di Arma II per aggiungere una modalità survival ad un gioco FPS (first-person shooter). Nei giochi single-player, invece, il focus dei modder è più incentrato sulla personalizzazione dell’esperienza, sull’aggiunta di contenuto disponibile e sull’ottimizzazione del prodotto (Kretzschamr & Stanfill, 2018; Scacchi, 2011). Aggiungere replayability ad un gioco single-player significa aumentare di molto la sua aspettativa di vita, visto che molti giochi non competitivi non sono pensati per durare a lungo sul mercato. Grazie all’azione dei modder, invece, giochi come la serie The Elder Scroll hanno allungato indefinitamente il loro ciclo di vita (Skyrim, la quinta iterazione della serie, uscito nel 2011, è tutt’ora oggetto di modding, ed è considerato il gioco più moddato di sempre). Ciò non si traduce

76 sempre in un aumento delle vendite, in quanto le mod necessitano di un solo prodotto base che, una volta acquistato, può essere moddato a piacimento (Postigo, 2007; Scacchi, 2011).  Attorno alle mod si raccoglie la community e la fan base di un gioco. Le mod sono strumenti per aumentare la ritenzione e la fedeltà dei propri consumatori alla marca o all’azienda (Davidici-Nora, 2009; Kretzschamr & Stanfill, 2018; Postigo, 2007). Ad esempio, la community attorno a The Elder Scroll IV: Oblivion, all’uscita del suo sequel, si è spostata in massa su questo titolo, attirata dalle possibilità del nuovo prodotto e del suo motore di gioco. La presenza di una forte community e di un’alta brand loyalty aumenta le vendite e la lunghezza della curva di domanda del prodotto (Agarwal & Seetharaman, 2015).  La presenza di contenuto creato dagli utenti per un gioco può migliorarne le recensioni, e può attirare l’attenzione di critici e lead user, influenzandone il giudizio e migliorando l’immagine del prodotto (Scacchi, 2011). Oltre a questi benefici, che riguardano l’economia e il marketing di un prodotto (Arakji & Lang, 2007), l’user-generated content si caratterizza per altre due esternalità positive: può essere sfruttato dall’azienda come fonte di innovazione, e può essere utilizzato come veicolo di informazione e di conoscenza specifica.

2.3.3.1 L’innovazione attraverso le mod

Uno dei vantaggi principali per le aziende di avere una community disposta non solo a consumare un prodotto, ma anche interessata a personalizzare ed arricchire quel prodotto, è che l’azienda può esternalizzare parte dei propri processi di innovazione creativa e tecnologica. Tale pratica risponde ai parametri dell’open innovation, che vede i consumatori come una risorsa di innovazione (Davidici-Nora, 2009; Linder et al., 2003). L’outsourcing dei processi può avvenire sia prima del lancio del gioco, attraverso progetti di beta e di early access dei giochi (Davidici-Nora, 2009), oppure a seguito del lancio, con il rilascio di toolkit e strumenti per accedere e modificare il codice del gioco (Jeppesen & Molin, 2003; Kretzschamr & Stanfill, 2018; Arakji & Lang, 2007). Gli strumenti digitali distribuiti online, come i toolkit, permettono un immediato testing e lasciano ai consumatori il potere di personalizzare il prodotto. Tale pratica ha senso in un mercato in cui la consumer base è estremamente differenziata e andare incontro ai desideri di ognuno è praticamente impossibile (Franke & Von Hippel, 2003). Attraverso

77 l’outsourcing, i produttori lasciano ai consumatori campo libero per sviluppare ciò di cui sentono il bisogno, iper-differenziando l’offerta a costi finanziari e temporali estremamente ridotti per le aziende (Davidici-Nora, 2009; Franke & Von Hippel, 2003; Füller & Hienerth, 2004). L’estrema possibilità di personalizzazione dell’esperienza videoludica aggiunge valore per i consumatori, migliorando al tempo stesso la loro lealtà verso il brand, la ritenzione e la partecipazione (Franke & Von Hippel, 2003). Esemplificativo è il caso degli add-on sviluppati per World of Wacraft. Lasciando la possibilità agli utenti di creare dei contenuti aggiuntivi per il gioco, la Blizzard ha accontentato sia i giocatori più esperti che quelli più casual (Davidici-Nora, 2009).

2.3.3.2 Le mod come veicoli di conoscenza

Oltre all’innovazione, l’user-generated content, in quanto sviluppato all’interno di cognitive communities, svolge anche il ruolo di veicolare la conoscenza e l’informazione relativi ad un prodotto e al suo utilizzo. Readman & Grantham (2006) definiscono dynamic capabilities quelle risorse strategice su cui un’azienda appoggia i suoi processi di innovazione e di competizione sul mercato. Queste risorse possono venire dall’interno dell’azienda, ma anche dai consumatori, soprattutto in un mercato di prodotti esperienziali come quello dei videogiochi, in cui il valore sta tutto nel consumo del prodotto (Readman & Grantham, 2006). Tali capabilities comprendono la conoscenza dei desideri e dei criteri di valutazione dei consumatori e il trasferimento di risorse e competenze, come il know-how tecnologico (Davidici-Nora, 2013; Jeppesen & Molin, 2003).

2.4 Un nuovo modello di business

Abbiamo detto che l’importanza dello user generated content continua a crescere, non solo nell’industria videoludica, ma anche in molte industrie creative e tecnologiche (Postigo, 2007; Jenkins, 2006a; Choudary, 2013). Il successo di siti e prodotti come YouTube, eBay, Instagram, Facebook e AirBnB è legato strettamente al ruolo dei consumatori e al valore creato dai network che abbiamo descritto sopra. Sangeet Paul Choudary, nel 2013, ha teorizzato un nuovo modello di business a partire dal successo di tali esempi, concentrando la sua ricerca sulla contrapposizione del modello tradizionale

78 “pipeline” (letteralmente “a tubo”, o a conduzione diretta) a quello “platform”, cioè “piattaforma”, basandosi su studi precedenti (Stabell & Fjeldstad, 1998). Il modello pipeline può descrivere i business model più lineari, basati sulla tradizionale catena di valore che va dal produttore al consumatore. Il modello platform, invece, può essere usato per descrivere quei business model basati sul network, in cui sia il produttore che il consumatore creano valore per sé stessi e per l’un l’altro (Figura 13) (Parker & Van Alstyn, 2016). In altre parole, “a business platform is a nexus of rules and infrastructures that facilitate interaction among network users” (Eisenmann et al., 2011, p. 1271; Moazed, 2016).

Figura 13 – Rappresentazione semplificata del modello platform (Newton, 2017).

La teoria del modello platform di Choudary ha avuto grande successo ed è stata ripresa sia dallo stesso autore (Choudary et al., 2016a), sia da altri autori della letteratura economica (Bureau, 2016; Moazed, 2016; Newton, 2017; Jewell, 2018). Il modello platform può anche essere il centro dell’innovazione, in quanto, come già abbiamo visto per le mod, l’outsourcing dell’innovazione ad attori esterni alle imprese, tra cui i consumatori, può essere vantaggioso per l’industria (Arakji & Lang, 2007; Von Hippel & Katz, 2002). I modelli di platform business hanno saputo dimostrare di poter dominare il mercato e le valutazioni: oggigiorno, le aziende più grandi e di successo si basano sul valore di un network di utenti (Google, Amazon, Facebook). Vediamo più in dettaglio come questo nuovo business model può adattarsi al settore del mercato videoludico.

79 2.4.1 Elementi del modello platform

Innanzitutto, precisiamo che, parlando di platform, non intendiamo una piattaforma tecnologica, come un’app o un sito internet (Moazed, 2016), né la definizione di tale nuovo business model può adattarsi ad ogni settore che si basa sulla tecnologia: molte aziende che si basano su una piattaforma, come Netflix, o altre aziende che hanno adottato 10 il paradigma SaaS9F , sono tutt’ora caratterizzate da una forma di business lineare, incentrato sulla value chain. I sostenitori del modello platform, invece, ritengono che la value chain di un’azienda, cioè ciò che è di proprietà dell’azienda, sia meno importante del network e delle connessioni che questa riesce a creare, in quanto il valore del prodotto sta nel suo utilizzo (Moazed, 2016; Parker & Van Alstyn, 2016).

Figura 14 – I quattro processi della core transaction (Moazed, 2016)

Mentre i business tradizionali creano valore tramite la produzione di prodotti o servizi, il modello platform basa la creazione del valore sulla gestione delle connessioni e delle transazioni (Choudary et al., 2016). L’elemento centrale di una platform è proprio la core transaction, cioè quel set di azioni che gli utenti devono completare al fine di creare e consumare il valore (Moazed, 2016; Johnson, 2016). Le azioni che si svolgono attorno alla core transaction devono essere ripetibili (Figura 14).

10 Software as a Service.

80 Chiaramente, il design di una platform e delle azioni che gli utenti possono intraprendere per creare e consumare valore è l’elemento di differenziazione e competizione principale per le aziende (Moazed, 2016). Il platform design mira a facilitare la ripetizione della core transaction, e consta di diversi elementi:  innanzitutto, si deve costruire un’audience. L’attrattività di una piattaforma, chiamata gravity, dipende dalla facilità di connessione dei diversi utenti alla platform, attraverso servizi di hosting, tool dedicati per la creazione di contenuti e librerie di codice utilizzabile (questi servizi prendono il nome di toolbox, Bonchek & Choudary, 2013). Una volta raggiunta una massa critica di consumatori, il network inizierà a generare valore;  la platform deve presentare dei magnet, cioè dei punti di attrattività tali da rendere interessante per gli utenti la ripetizione della transaction (Bonchek & Choudary, 2013). Il magnet dipende dall’impostazione di una value subsidy (sovvenzione di valore), basata sugli incentivi, sul sistema di reputazione e sui modelli di pricing e di retribuzione dei creator content (Moazed, 2015). Nei platform business, ci si basa sulla formula

CAC ൏ LTV

cioè, il costo di acquisizione di un consumatore (CAC) è minore del suo life time value (LTV), cioè il valore che può generare nel suo periodo di vita all’interno della piattaforma (Choudary, 2013);  il processo di matchmaking incoraggia la creazione di valore collegando i produttori ai consumatori, e i consumatori alle offerte (Bonchek & Choudary, 2013; Johnson, 2016). Per la riuscita di tale processo, è fondamentale avere una grande quantità di dati disponibile sui vari attori del network, in modo facilitare le connessioni tramite gli algoritmi, e favorire la funzionalità della piattaforma (Moazed, 2015);  infine, ci si deve occupare delle regole e degli standard della piattaforma (Parker & Van Alstyn, 2016). Stabilire correttamente le regole e i codici di condotta all’interno di una community significa incentivare la ripetizione della core transaction e la crescita della produzione (Moazed, 2015).

81 La sfida che il platform design deve affrontare è unica: come attirare un quantitativo potenzialmente molto largo di utenti e come farli agire in una certa maniera (Moazed, 2016; Parker & Van Alstyn, 2016). Spesso, le network platform hanno degli utenti la cui utilità dipende da altri tipi di utente (come i developer dipendono dai player nell’industria videoludica, Parker & Van Alstyn, 2005), dunque, la mancanza di un numero sufficiente di attori da entrambe le parti può inficiare l’adozione della piattaforma. Questo problema è conosciuto come “chicken-and-egg-problem” (Parker & Van Alstyn, 2016, p. 2; Choudary, 2013) e deve essere affrontato attraverso un corretto design o delle particolari strategie di lancio.

2.4.2 Il modello platform nel mercato videoludico

Analizzando ciò che abbiamo detto finora del mercato dei videogiochi, possiamo vedere come il platform business model possa essere stato applicato in diversi casi, anche se con altri nomi:  i giochi che basano il loro stesso gameplay sulla partecipazione degli utenti e sul contenuto da loro generato, come The Sims, Little Big Planet o Minecraft possono essere descritti come piattaforme di social gaming (Moazed, 2016). In tali giochi, il valore è generato dall’utilizzo stesso della piattaforma, all’interno di un sistema di regole deciso dagli sviluppatori (il gameplay). La core transaction, quindi, è l’attività di creazione di nuovo contenuto e di condivisione con la community (Shivonen, 2011);

11  i giochi che si basano sul paradigma GaaS10F , in cui l’attività degli utenti viene continuamente stimolata attraverso il rilascio di nuovi contenuti e di patch. Le risposte degli utenti a queste innovazioni vengono a loro volta raccolte dalle aziende e assimilate nei processi di produzione di nuovo contenuto (Taylor, 2017). La core transaction è la ripetizione dell’attività di gioco, soprattutto nei giochi multiplayer o casual, e i magnet di attrazione possono essere la competizione, le ricompense settimanali (o le loot box, Oh & Ruy, 2017), la promessa di nuovo contenuto e la partecipazione alla community. Esempi di tali giochi si trovano in

11 Game as a Service

82 gran parte del mercato mobile (Candy Crush Saga, ad esempio), ma anche in molti giochi F2P sulle varie piattaforme (Fortnite e League of Legends);  altre piattaforme che basano il loro modello di business su un network, come YouTube, Facebook, Reddit ed altre (Moazed, 2016). Tali piattaforme riguardano da vicino il mondo dei videogiochi, in quanto la comunicazione e la condivisione di contenuto avvengono soprattutto al loro interno. Dunque, il network che tali piattaforme riescono a generare ha una ricaduta sulla creazione di valore nell’industria videoludica, soprattutto a livello consumer (Shivonen, 2011).

83 CAPITOLO 3: La figura del modder nell’industria

In questo capitolo vogliamo analizzare le motivazioni che stanno dietro all’attività dei modder e dei creatori di contenuto. Il primo passo è definire meglio la composizione della community dei giocatori e la figura del modder al suo interno. Successivamente, analizzeremo le motivazioni che spingono gli utenti a produrre le mod. Infine, inseriremo i modder all’interno della cultura del prosumerismo e del playbour, seguendo le teorie di Bruns (2006), di Küklich (2005) e di Benkler (2006).

3.1 La community dei giocatori

Quando parliamo di una community, parliamo di un gruppo di individui uniti da un particolare interesse, da delle normative, da dei valori condivisi (Amin & Cohendet, 2004). La comunità di individui di cui ci dobbiamo interessare, cioè la community dei giocatori, rientra nella categoria delle virtual community, cioè quelle comunità che interagiscono attraverso uno specifico medium, in particolare internet e il world wide web, e che approfittano di questa tecnologia non solo per consumare prodotti, ma anche per creare, distribuire e condividere contenuto originale (Flake et al., 2002; Plant, 2004; Flew & Humpryes, 2005; Arakji & Lang, 2007). Una tale community, che è geograficamente divisa per tutto il mondo ed etnograficamente eterogenea (Preece & Maloney-Krichmar, 2005), ha diverse caratteristiche:  è divisa in tante brand communities, cioè delle comunità che si radunano attorno ad uno specifico prodotto o ad una specifica marca, che ne influenza l’identità e la cultura (Muniz & O’Guinn, 2001). Si può dire che ogni gioco ha una propria community, che a volte si identifica con il brand, se il gioco fa parte di una serie, o direttamente con il publisher, se la casa di sviluppo è abbastanza conosciuta (Flew & Humpreys, 2005);  è composta da fan del brand, che formano una cultura della partecipazione (Jenkins, 1992; Chen & Hong, 2013). All’interno della community, si svolgono molti di quei processi legati al sense-making e all’assimilazione dei prodotti

84 all’interno di un sistema culturale, attraverso linguaggi specifici e rituali (Troilo, 2014; Cox & Kaimann, 2015);  è organizzata attraverso siti di aggregazione e condivisione, come Facebook, Reddit e YouTube e diversi forum (Flew & Humpreys, 2005; Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). L’unione di queste piattaforme, che spesso sono utilizzati in maniera integrata, forma il network dei videogiocatori. Ultimamente, le piattaforme di distribuzione, come Steam, si sono aggiunte alla lista dei siti in cui la community converge per parlare e condividere informazioni;  è considerata una cognitive community, secondo la definizione di Levy (1997), in quanto, al suo interno, avvengono continuamente degli scampi di informazioni e conoscenza (Flew & Humpreys, 2005; Preece & Maloney-Krichmar, 2005). Tra questa cognitive community, possiamo riconoscere delle unità di competenza, come vedremo successivamente;  gli individui che formano la community non si differenziano tanto in base all’età, al sesso o alla posizione geografica, ma in base ai giochi che giocano e a come giocano (Preece & Maloney-Krichmar, 2005; Bartle, 1996). A seconda della brand community o del fandom di cui fanno parte, i videogiocatori entrano a far parte di sub-culture diverse, caratterizzate da linguaggi e rituali digitali parzialmente codificati (Flew & Humpreys, 2005; Marshall, 2006; Burger- Helmchen & Cohendet, 2011).

3.1.1 Tassonomia della community

Pensare alla community dei giocatori come un insieme di individui omogeneo negli interessi e nelle competenze è sbagliato. Diversi studi hanno dimostrato come la community che si crea attorno a prodotti videoludici sia estremamente eterogenea e variegata (Flew & Humpreys, 2005; Preece & Maloney-Krichmar, 2005). A seconda di come giocano, i gamer possono essere classificati in diverse maniere. La prima è quella di collocarli in uno spettro di “intensità” dell’esperienza di gioco, in una scala che va dal “noob”, cioè il giocatore alle prime armi (Van Der Broek, 2009), al casual gamer (Barefoot, 2013), all’hardcore gamer (Adams, 2014), fino ad arrivare al professional gamer, che è riuscito a rendere il gioco una professione grazie agli eSports. I casual gamer costituiscono la parte maggiore della community globale, anche grazie al boom di giocatori “non tradizionali”, cioè non rappresentativi della classica figura del gamer,

85 come donne e anziani, dovuto alla diffusione dei giochi casual per cellulare e tablet (Simon et al., 2014). I core gamer, invece, formano lo “zoccolo duro” della community, e sono coloro a cui è rivolta la maggior parte delle offerte di prodotti innovativi e specializzati (Adams, 2014). La seconda possibilità è di classificare i gamer a seconda delle loro aspettative nei confronti del gioco, e dei benefici che traggono dall’azione di gioco (Preece & Maloney- Krichmar, 2005; Bartle, 1996; Williams et al., 2008). Bartle (1996), nella sua famosa tassonomia, divide i giocatori in quattro categorie: killers, achievers, socializers ed explorers (Figura 15):  i killers sono quei giocatori che si concentrano sull’aspetto competitivo del gioco, e ricavano valore dalle sfide contro altri giocatori e dall’arrivare in cima alla classifica (Bartle, 1996). Si interessano principalmente dei giochi multiplayer;  gli achievers sono interessati a completare le sfide poste loro dagli sviluppatori, all’interno del mondo di gioco, sia in single-player che in multiplayer;  gli explorers desiderano soprattutto interagire con il mondo di gioco, testandone i limiti e scoprendo tutto ciò che c’è da scoprire, soprattutto nei giochi single-player e focalizzati sullo storytelling;  i socializers, per ultimi, sono quei giocatori che più si interessano all’interazione con la community, attraverso canali ufficiali e non, e basandosi su titoli single- player o multiplayer;

Figura 15 – La tassonomia di Bartle (1996)

86 Tale categorizzazione divide quindi i giocatori a seconda dell’orientamento delle loro azioni in-game, a seconda che siano dirette verso gli altri giocatori o verso il mondo di gioco, e che preferiscano agire attivamente o interagire. Bartle ha sviluppato questo framework pensando soprattutto ai giocatori online di giochi multiplayer, anche se le categorie possono applicarsi anche a giochi single-player. Tuttavia, altri studiosi hanno notato i limiti di tale approccio, soprattutto nelle nuove generazioni di giochi in cui il network degli utenti è più presente (Williams et al., 2008; Radoff, 2011). Il modello di Bartle è stato utilizzato ampiamente dalle aziende per migliorare le offerte per i diversi tipi di giocatore e, ultimamente, negli studi sulla gamification e i suoi effetti (Bartle, 2003; Taylor, 2006; Leclerq et al., 2018). La comunità non è formata soltanto da giocatori, ma anche da individui con competenze e conoscenze specializzate, che possono creare valore, per le aziende, per loro stessi e per altri consumatori, producendo loro stessi dei contenuti originali (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). I gruppi in cui tali individui appartenenti ad una community si dividono sono chiamati unità di competenza, o community of producers, e possono essere estremamente specializzati nei loro interessi e nel loro bagaglio di conoscenze (Burger- Helmchen & Cohendet, 2011; Flew & Humpreys, 2005). È tra questa community of specialists che l’industria dei videogiochi assume nuovi creatori per lavorare sui videogiochi del futuro (Cohendet & Simon, 2007). Le aziende, in un mercato sempre più influenzato dal peso dell’attività dei consumatori, devono imparare a gestire tali unità di competenza per ricavarne valore e sfruttarne il lavoro, accedendo e allineandosi alla community (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011; Dahlander & Magnusson, 2008). I criteri per cui tali unità si differenziano tra di loro possono essere tanti. Appoggiandoci sulla ricerca di Burger-Helmchen e Cohendet (2011), stabiliamo due criteri per distinguere le diverse tipologie di utente della community di giocatori:  l’orientamento della community si riferisce al collegamento tra ciò che è richiesto dagli utenti e ciò che l’azienda fornisce. Nel caso della gamer community, un individuo può essere orientato, nel suo consumo del prodotto, verso l’aspetto tecnologico e di sviluppo o verso l’aspetto di gaming vero e proprio;  il grado di specializzazione del lavoro svolto dagli utenti, che va da un lavoro non specializzato ad uno altamente specializzato. Più il lavoro diventa specialistico, più la base di utenti si restringe.

87 I due autori analizzati costruiscono su questi due criteri la tassonomia della gamer community, come descritto nella Figura 16, che divide gli utenti in quattro differenti categorie a seconda di questi due parametri.

Figura 16 – Tassonomia della gaming community (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011)

 Gli average users sono quegli utenti unicamente interessati all’utilizzo del prodotto, che non hanno alcun desiderio di migliorarlo. Tale gruppo può essere fedele verso il brand, ma non costituisce una cognitive community. Gran parte dei casual gamer e una buona parte degli hardcore gamer è unicamente interessata al gioco, senza altre finalità di consumo (Barefoot, 2013).  I tester sono quegli utenti interessati al testing del prodotto nelle sue diverse fasi di sviluppo, quindi sono più technology-oriented degli altri giocatori (Llerena et al., 2009). Svolgono la funzione di debugging dei prodotti, e possono offrire idee creative ed informazioni sui desideri della community agli sviluppatori. Gli hardcore gamer e i professional gamer fanno parte di questa categoria, in quanto sono interessati a partecipare allo sviluppo dei giochi, a diffondere le loro conoscenze e a far sentire le loro opinioni alle aziende (Adams, 2014).

88  I player sono quegli utenti che utilizzano le loro competenze e le tecnologie disponibili per personalizzare, migliorare, creare e condividere il contenuto dei prodotti (Llerena et al., 2009). La loro attività può spaziare dal condividere informazioni sul gioco, al creare guide, review e contenuti creativi per il gioco, alla creazione di mod e developement tools per il gioco. Solitamente sono legati ad un solo gioco (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). I content creator e i modder si trovano in questa categoria.  I developer sono quegli utenti che prendono nelle loro mani lo sviluppo di prodotti originali, e ne diventano produttori. Questi consumatori possiedono competenze molto avanzate e i mezzi per metterle in pratica (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Possono anche avviare dei processi di coproduzione dei prodotti con i publisher. Tutti questi giocatori agiscono all’interno della online community, unita globalmente dai social network attorno ai loro interessi. I player sono le figure più conosciute ed analizzate, e gli utenti player possono essere facilmente ricondotti alle community open- source e ai loro paradigmi (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011; Scacchi, 2011). Visto che è tra i player che troviamo le figure dei modder, possiamo concentrarci sullo studio di questi attori:  gli open player sono quei giocatori che sono motivati a condividere la loro esperienza di consumo di uno o più giochi, pubblicando guide, recensioni o FAQ e distribuendo materiale grafico, sonoro o video (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Gli open player agiscono sui forum e sulle piattaforme come YouTube, Reddit e Facebook. I casual gamer possono consultare il materiale diffuso dagli open player per migliorare la loro esperienza di consumo e creare ulteriore valore (Llerena et al., 2009);  i game organizer sono dei giocatori che si assumono il ruolo di aiutare gli altri giocatori all’interno dello stesso gioco (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Nonostante oggi sia in declino, una volta, la figura del guild master era importante 12 nei giochi multiplayer, soprattutto nei MMORPG1F ;  i content builder producono del contenuto aggiuntivo per il gioco, come mod, add- on e unofficial patch (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011; Arakji & Lang, 2007;

12 Massive Multiplayer Online Role-Playing Game.

89 Davidici-Nora, 2014). Il contenuto creato da questi giocatori è condiviso e può essere liberamente utilizzato dagli altri giocatori che possiedono lo stesso gioco (Scacchi, 2011);  i tool developer sono un’evoluzione dei content builder, in quanto arrivano a produrre loro stessi gli strumenti di sviluppo al fine di creare nuovo contenuto (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Ad esempio, possono creare o estendere i toolkit legati ad un gioco, affinché altri modder possano sfruttarne le nuove potenzialità. Più il lavoro svolto dagli utenti diventa specializzato, più le conoscenze e le competenze richieste si alzano. Non sono richieste grandi competenze per creare un video di un gioco e caricarlo su YouTube, mentre lo sviluppo di contenuto originale richiede delle conoscenze specifiche dei tool che si utilizzano (Arakji & Lang, 2007; Agarwal & Seetharaman, 2015). Tuttavia, qualsiasi lavoro svolgano, i player si distinguono dai casual gamer in quanto fanno parte della categoria dei lead user.

3.1.1.1 Il ruolo dei lead user

Un lead user, o lead consumer, è un consumatore, facente parte di una community of user, che prova il bisogno per un prodotto particolare ed innovativo prima del resto degli altri utenti (Arakji & Lang, 2007; Von Hippel, 1986). I lead user sono anche posizionati in modo da beneficiare grandemente da un’eventuale soluzione di tale bisogno (Von Hipperl, 1986; Shah, 1999). Se dispongono degli strumenti e delle competenze necessarie, i lead user sono i primi a sviluppare nuovi prodotti, che potranno poi ottenere successo commerciale, costituendo quindi dei centri di innovazione (Shah, 1999; Morrison et al., 2000). Nei mercati creativi e culturali, come è quello dei videogiochi, caratterizzati da prodotti esperienziali di cui è difficile sapere la qualità prima del consumo, i lead user sono particolarmente importanti e rivestono il ruolo di “scopritori” dei nuovi prodotti, di divulgatori e di critici (Troilo, 2014; Cox & Kaimann, 2015). La loro attività aiuta i consumatori più casual nei loro processi di sense-making e di assimilazione dei nuovi prodotti e, in definitiva, li aiuta nei processi di scelta, diminuendo il carico informativo e i rischi associati a dei prodotti esperienziali (Troilo, 2014). Il loro ruolo di opinion leader deriva dalla loro credibilità, che si basa sull’esperienza ex ante o ex post del prodotto (Cox

90 & Kaimann, 2015). Nel caso dei videogiochi, i lead user possono essere coinvolti in entrambi i momenti del rilascio di un gioco, e in processi differenti:  prima del rilascio di un videogioco, i lead user sono chiamati dalle aziende a provare il prodotto in anteprima, attraverso eventi, manifestazioni o il rilascio in anticipo del prodotto, magari attraverso una closed beta solo per i lead user. Queste attività rientrano in quelle dei tester (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011), e le opinioni dei critici servono sia all’azienda, come abbiamo visto nel Capitolo precedente, sia agli altri utenti, che possono farsi un’idea del prodotto prima di comprarlo. L’attività dei lead user genera anche buzz, aumentando il viral marketing ed influenzando il word-of-mouth (Cox & Kaimann, 2015);  dopo il rilascio di un videogioco, i lead user compartecipano con la community alle attività di assimilazione del gioco all’interno del loro sistema culturale (Troilo, 2014; Cox & Kaimann, 2015). La critica aiuta a categorizzare il gioco e a valutarlo rispetto agli altri giochi della stessa categoria (Troilo, 2014). Alla critica si possono aggiungere processi di produzione e di personalizzazione del consumo del prodotto, come quelli svolti dai player (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Tutti questi processi possono essere condivisi e compartecipati tramite la community. La produzione di contenuti originali, quindi, ha benefici anche per i consumatori, che guardano ai lead user come centri di innovazione per quanto riguarda i loro desideri per un gioco (Arakji & Lang, 2007; Cox & Kaimann, 2015). Le idee creative sono condivise dalla community e arrivano ai lead user, che possono metterle in pratica grazie alle loro conoscenze.

3.1.2 La figura del modder

Un modder è un giocatore che ha preso nelle sue mani lo sviluppo di contenuto aggiuntivo per un gioco preesistente (Scacchi, 2011). La figura del modder discende probabilmente dai gruppi di hacker che lavoravano sui software di proprietà per renderli pubblici e accessibili (Au, 2002). Inoltre, i modder sono avvicinabili, per pratiche, agli sviluppatori 13 OSS12F , nel senso che entrambi stanno diventando sempre più parte di una cultura

13 Open-source Software

91 partecipativa di sviluppo tecnologico (Scacchi, 2011). I modder sono giocatori dei giochi per cui sviluppano le mod, così come gli sviluppatori OSS sono utenti dei sistemi per cui lavorano. Sia il modding che lo sviluppo OSS è partecipativo e guidato dalle azioni degli user, dipendendo da un continuo afflusso di nuovi partecipanti e nuovo contenuto (Scacchi, 2011; Nieborg, 2005). I modder sono utenti di uno o più giochi, appartenenti ad una o più brand community, che hanno le motivazioni e le capacità tecniche e creative per sviluppare delle mod funzionanti (Arakji & Lang, 2007). I modder rientrano generalmente nella categoria dei lead user, nonostante questo non sia scontato: un modder che lavora soltanto per sé non è un lead user e non produce valore per gli altri utenti, ma solo per sé stesso (Davidici-Nora, 2013). Certamente, i modder possono essere descritti come lead user in quanto costituiscono dei centri di innovazione: partendo da un bisogno che ancora non è stato soddisfatto, i modder sviluppano una soluzione che ancora non esiste sul mercato (Shah, 1999; Postigo, 2007). Tale bisogno può provenire da loro stessi o da una richiesta della community (Arakji & Lang, 2007). I modder, per produrre contenuti originali, hanno bisogno di competenze di vario genere (Scacchi, 2010). Il metodo principale di acquisizione di tali competenze è il self-learning, attraverso pratiche di self-organization (Scacchi, 2010; El-Nasr & Smith, 2010). I giocatori possono iniziare sperimentando e prendendo domestichezza con gli strumenti utili, che possono variare da gioco a gioco: dai toolkit messi a disposizione dalle case di sviluppo, ai software di terza parte open-source (Scacchi, 2010; Küklich, 2005; El-Nasr & Smith, 2006). Le conoscenze possono anche essere acquisite osservando il lavoro di altri modder o interagendo con la community: non è difficile trovare dei tutorial e delle guide introduttive alla pratica del modding sui siti di aggregazione come i forum, o YouTube (Scacchi, 2010; Postigo, 2007). I modder possono anche compartecipare con altri modder più esperti alla creazione di contenuto, imparando in questa maniera il “mestiere” (El-Nasr & Smith, 2006). Le competenze richieste variano molto, in base al gioco su cui il modder desidera lavorare e in base alla mod che vuole creare:  innanzitutto, sono richieste conoscenze tecniche ed operative di particolari tecnologie, come, ad esempio, una competenza di coding e di linguaggi di programmazione (Postigo, 2007; Scacchi, 2013). Nel caso in cui fossero presenti

92 14 dei toolkit o degli SDK13F di proprietà dell’azienda, o fosse fornito un supporto API, è necessario capirne il funzionamento e saperli usare (Scacchi, 2013; Davidici-Nora, 2014);  un’altra competenza richiesta può riguardare il comparto grafico. Molte mod mirano a modificare l’apparenza in-game di personaggi ed oggetti, e dunque richiedono conoscenze dei programmi di grafica tradizionale e 3D, oltre che di modeling e texturing (Scacchi, 2013). Per le mod che riguardano l’interfaccia 15 utente, sono richieste anche competenze di UX design14F (Davidici-Nora, 2014);  a seconda della mod, possono essere utili conoscenze in diversi campi, da quelle storiche (per le mod che vogliono riprodurre fedelmente dei periodi storici, ad esempio) a quelle militari, tecnologiche, narrative o artistiche (Postigo, 2007; Poretski & Arazi, 2017);  se la mod mira a cambiare il gameplay di un gioco, è richiesta una qualche conoscenza di game design, affinché l’aggiunta risulti bilanciata rispetto al gioco originale, e sia accessibile e divertente per gli utenti che la giocheranno (Sotamaa, 2010);  infine, se si collabora con altri modder o con la community, si devono possedere delle soft skill come la capacità di organizzare il lavoro, di comunicare con gli altri e di gestire un team di persone anche geograficamente distanti (Sotamaa, 2010; Agarwal & Seetharaman, 2015). Queste competenze possono essere pregresse o possono essere acquisite con l’esperienza nella community. Un modder può essere specializzato in una o più competenze (Postigo, 2007), e può formare dei team di sviluppo con altri modder per colmare le sue lacune (Sotamaa, 2010; Postigo, 2010). Questi team sono estremamente simili per composizione e struttura del lavoro ai developer team che lavorano per i publisher ufficiali.

3.1.2.1 La relazione con la community

I modder che non agiscono da soli sono in continua comunicazione con la community, attraverso i siti e le piattaforme online (El-Nasr & Smith, 2006; Postigo, 2008; Agarwal

14 Software Development Kits. 15 Design dell’user experience (UX).

93 & Seetharaman, 2015; Poor, 2014). In un continuo scambio di informazioni, il lavoro dei modder viene sviluppato e, successivamente, presentato alla community, che può approvarlo, suggerire dei cambiamenti e valutarlo rispetto ad altre mod (Hong & Chen, 2013). Il ruolo del feedback, così come nel lavoro delle case di sviluppo, è essenziale anche nelle più modeste opere dei modder. Inoltre, è stato dimostrato che i modder, così come altri fan, possiedono un forte senso di appartenenza alla community (Poor, 2014; Scacchi, 2011). Fin dall’ideazione di una mod, la relazione con la community è importante: l’idea o il bisogno di una nuova aggiunta ad un gioco può venire da un sito, da un forum o da altri canali (Poor, 2014). Anche lo sviluppo della mod da parte di uno o più modder trova nella community un alleato: attraverso feedback, recensioni e suggerimenti, la mod può crescere ed aggiustarsi a seconda dei bisogni percepiti (Postigo, 2008; Hong & Chen, 2013). Inoltre, i modder possono ricorrere alla community per ottenere informazioni e conoscenze necessarie allo sviluppo. Questo tipo di collaborazione può anche prendere la forma di una co-produzione, con altri utenti che possono essere chiamati a diventare co- autori della mod, mettendo a disposizione le loro competenze o contribuendo in altri modi (Poor, 2013). Queste forme di collaborazione possono anche avvenire tra modder e modder: un modder può mettere a disposizione il suo lavoro ad un altro modder, che può usarlo per creare ulteriore contenuto aggiuntivo (Poor, 2014; Sotamaa, 2010). Questo accade spesso con i development tool sviluppati dalla community: un esempio si trova su NexusMods, in cui lo Skyrim SDK è un’estensione, gratuitamente scaricabile, del toolkit messo a disposizione dalla Bethesda per The Elder Scroll V: Skyrim, ed è utilizzato da quasi tutti i modder che ci lavorano (NexusMods, 2019). Tale pratica può anche portare a delle controversie, nel caso in cui un modder rubasse o copiasse il lavoro di un altro senza dargli credito (Poor, 2014; NexusMods, 2019). La relazione tra modder e community continua per tutto il ciclo di vita della mod: se i modder sono dedicati alla mod e continuano a supportarla anche dopo il lancio, il rapporto con gli utenti può fornire utili feedback sulla base dei quali operare aggiustamenti, modifiche e upgrades della mod (Agarwal & Seetharaman, 2015). Inoltre, nel caso in cui una mod non fosse più supportata dai creatori, o nel caso in cui il suo sviluppo si fermasse per diverse cause, altri utenti potrebbero continuare il lavoro del creatore della mod, dopo averne ricevuto il permesso (Poor, 2014).

94 Un altro aspetto fondamentale della relazione con la community riguarda la possibilità, per i modder, di ottenere riconoscimento e retribuzione per il loro lavoro (Poor, 2014; Postigo, 2007). Attraverso le donazioni e il crowdfunding, i modder possono finanziarsi e supportare il proprio lavoro anche nel medio-lungo termine (Kow & Nardi, 2010; NexusMods, 2019). Le donazioni, solitamente, non precludono gli utenti dall’utilizzo di una mod, ma è un sistema per riconoscere, apprezzare e valorizzare il lavoro dei modder (Kow & Nard, 2010) I sistemi di riconoscimento e di recensione delle mod, infine, permettono ai modder di far conoscere il loro lavoro, e li mettono in competizione con gli altri content creator in classifiche mensili (NexusMods, 2019; Poor, 2014).

3.1.2.2 Tassonomia dei modder

La modding community non è un gruppo omogeneo di individui con le stesse competenze e gli stessi interessi; al contrario, come i giocatori di una community sono estremamente diversificati, così i modder costituiscono una comunità eterogenea e differenziata (Postigo, 2007; Sotamaa, 2010; Arakji & Lang, 2007; Shivonen, 2011). Basandoci sullo schema di Bartle (1996), una prima possibilità per descrivere una tassonomia dei modder è quella di categorizzarli a seconda delle mod che creano, secondo due dimensioni:  la mod riguarda un cambiamento estetico o un cambiamento di gameplay?  la mod riguarda l’interazione con il mondo di gioco o l’interazione con altri giocatori? Basandoci su questi due vettori, possiamo individuare quattro categorie di modder o di team di modder, ricalcando la distinzione di Bartle in Figura 17:  gli skinner sono quei modder che lavorano sull’estetica dei modelli dei giocatori, e il loro lavoro si concentra sull’aggiunta di possibilità di personalizzazione del proprio avatar (Postigo, 2007). La definizione deriva dalla parola skin, che, in linguaggi videoludico, sta ad indicare un particolare aspetto dell’avatar di un giocatore (Shivonen, 2011);  i converter lavorano sul miglioramento del mondo di gioco, sulla sua espansione e sull’aggiunta di modelli, textures e altri effetti grafici (Postigo, 2007). La definizione viene dalle conversion mods. In questa categoria ricadono anche i modder che sviluppano patch per aggiustare e rendere accessibili sulle nuove piattaforme i giochi più vecchi;

95  i map-makers concentrano il loro lavoro sull’aggiunta di mappe, missioni e contenuto narrativo, oltre che sul miglioramento delle meccaniche di gameplay del gioco (Shivonen, 2011). La definizione viene dalla parola map, che può indicare la mappa di gioco, ma anche una missione staccata dalle altre;  i player si occupano dello sviluppo delle meccaniche di gameplay soprattutto nei giochi multiplayer, sviluppando add-on per migliorare la qualità della competizione (Davidici-Nora, 2014), oppure creando nuove modalità di gioco (Postigo, 2007; Shivonen, 2011).

Figura 17 – Tassonomia dei modder (Elaborazione personale)

Una terza dimensione che completi questa tassonomia dei modder potrebbe essere quella che determina se una mod è sviluppata per il front-end (gli utenti finali) o per il back-end (gli altri sviluppatori, per comprendere anche quei modder che sviluppano nuovi development tool (Sotamaa, 2010). Chiaramente, queste categorie non si escludono l’un l’altra, e i modder possono muoversi all’interno delle categorie a seconda della mod su cui lavorano.

3.1.3 Le motivazioni dei modder

Un altro metodo per categorizzare i modder è quello di distinguerli sulla base delle motivazioni che li spingono ad operare (Postigo, 2007; Postigo, 2008; Sotamaa, 2010; Poor, 2014). Abbiamo definito, nel Capitolo 2, i benefici derivanti dalle mod per le

96 aziende. Quali sono, invece, i benefici che i modder traggono dal loro lavoro? Postigo (2007) individua tre principali motivazioni dietro l’attività dei modder:  una prima motivazione è legata all’identificazione dell’attività dei modder in quanto hobby, dunque, come “artistic endeavor and a creative outlet” (Sotamaa, 2010, pp. 243-244). I modder possono vedere il loro lavoro come un’espressione creativa, non solo per sé stessi, ma da condividere con la community per ricevere il riconoscimento di ciò che hanno fatto (Postigo, 2007). In quanto hobby, il modding è un passatempo piacevole, in cui il grado di sfida tecnico può essere visto come un modo per mettersi alla prova. Come in altri campi (ad esempio, la musica), la creatività può essere ricercata come ricompensa in sé stessa (Kow & Nardi, 2010; Postigo, 2007). Ciò che tali modder cercano nella community è il dialogo, i commenti e qualsiasi valutazione qualitativa del loro lavoro (Postigo, 2007);  una seconda motivazione riguarda l’appropriazione, attraverso le mod, dell’esperienza di consumo e del prodotto (Postigo, 2007). I modder sono innanzitutto fan dei giochi su cui lavorano, e ne conoscono molto bene sia la parte software che l’engine su cui si appoggia il gioco (Scacchi, 2011; Sotamaa, 2010; Poor, 2014). L’appropriazione riguarda una personalizzazione dell’esperienza di gioco, nel senso che può essere migliorata, resa più divertente o entusiasmante, per sé stesso o per gli altri, ma può anche riguardare l’inserimento nel gioco di temi che stanno a cuore al modder (Postigo, 2007; Sotamaa, 2010; Shivonen, 2011). Fare “proprio” un gioco può voler dire diverse cose: un modder può ritenere che il gioco non sia sviluppato bene, o vuole correggere un bug lasciato dagli sviluppatori, e quindi lavora per migliorare l’esperienza di gioco sua e della community (Postigo, 2007); può voler migliorare l’esperienza di gioco aggiungendo del contenuto che sente può aggiungere significato e valore al prodotto (Poor, 2014; Sotamaa, 2010); può anche voler appropriarsi culturalmente del gioco, inserendo magari la possibilità di avere un avatar che rispecchi la propria identità, il proprio genere o la propria etnia (Shivonen, 2011);  una terza motivazione può riguardare l’apprendimento e il learning (Poor, 2014; Sotamaa, 2010). I modder possono voler imparare ad utilizzare un determinato toolkit o un certo linguaggio di programmazione, oppure possono voler mettere le loro conoscenze alla prova (Poor, 2014). Se lavorano in team, i modder hanno la

97 possibilità di imparare dagli altri e migliorare le loro abilità relazionali e di gruppo. In questa motivazione rientra anche l’attività di hacking più pura: voglio scoprire come funziona un gioco, dunque, sviluppo delle mod per scoprirlo e “hackerarlo” (Sotamaa, 2010);

Figura 18 – Alcune motivazioni dei modder (Poor, 2014)

 un’altra motivazione può riguardare il desiderio dei modder di lavorare all’interno dell’industria videoludica (Postigo, 2007; Poor, 2014). La pratica del modding può servire come esperienza da inserire in un eventuale curriculum, oppure per sviluppare le capacità richieste dalle case di sviluppo, o anche per farsi notare tramite una mod di successo (Poor, 2014; Sotamaa, 2010). Non tutti i modder vedono la loro attività come trampolino di lancio verso il mondo dei developer, anzi, in molti si rivelano scettici sulla possibilità (Poor, 2014). In alternativa, un modder può lavorare affinché la sua passione diventi un lavoro vero e proprio, e quindi per supportarsi nella sua attività di modding (Poor, 2014). Nonostante la difficoltà di emergere nell’online community, in molti sognano una carriera da content creator, aiutati da siti come Patreon e NexusMods (NexusMods, 2019);  un’ultima motivazione può riguardare semplicemente la cooperazione (Sotamaa, 2010). L’attività di modding può essere portata avanti anche solo come attività di

98 gruppo, in cui la parte più divertente riguarda la cooperazione con altri e il lavoro in team (Poor, 2014; Sotamaa, 2010). Tali motivazioni sono, chiaramente, non esclusive l’una dell’altra, e non sono fisse nel tempo: possono coesistere, e un modder può iniziare la sua attività per un motivo e portarla avanti (o concluderla) per un altro motivo (Sotamaa, 2010). Inoltre, le motivazioni dei modder spesso sono collegate alle sue conoscenze e alle sue competenze esterne (Sotamaa, 2010): un appassionato di storia ha più interesse nell’elaborare delle mod storiche ed accurate. Dalla Figura 18 possiamo vedere come le motivazioni più forti siano quelle legate all’esperienza di gioco e al divertimento (Poor, 2014), mentre l’idea di lavorare per qualcun altro, come i developer o l’industria di gioco, non è rilevante, e, anzi, può porre delle barriere alle motivazioni dei modder (Scacchi, 2011; Postigo, 2008; Poor, 2014).

3.1.3.1 Il valore per i modder

Dalle motivazioni elencate sopra, nascono una serie di benefici che riguardano l’attività del modding. Seguendo il framework di Holbrook (1999), possiamo categorizzare il valore che i modder traggono dall’esperienza del modding, distinguendolo secondo le dimensioni:  intrinseca od estrinseca;  rivolta verso sé stessi o rivolta verso gli altri (Holbrook, 1999). Attraverso la Tabella 4, e tenendo conto del fatto che il modding fa parte dei processi legati ad un prodotto creativo come il videogioco (Troilo, 2014), possiamo categorizzare il valore tratto dall’attività di modding in:  valore edonico, cioè intrinseco verso sé stessi. Il lavoro dei modders è fine a sé stesso, e può avere una carica emozionale, identitaria o spirituale per l’utente (Holbrook, 1999). Il modding porta piacere, divertimento ed è interessante, ed è un modo per esprimere sé stessi e la propria identità (Postigo, 2007; Shivonen, 2011);  valore etico, cioè intrinseco verso gli altri. In questo caso, i modder lavorano per il bene comune, ad esempio, migliorando un gioco, correggendo dei bug o rendendo dei giochi vecchi nuovamente accessibili (Scacchi, 2011; Postigo, 2008). La semplice azione di rendere disponibile il proprio lavoro senza costi aggiuntivi può essere considerata un’azione etica (Holbrook, 1999). Inoltre, il

99 modder può anche trarre valore dal condividere una sua idea creativa con la community (Sotamaa, 2010);  valore utilitaristico, cioè estrinseco verso sé stessi. L’attività di modding è rivolta verso l’arricchimento personale, tramite una retribuzione del proprio lavoro, ma anche dall’apprendimento di nuove conoscenze e dall’acquisizione di capitale sociale (Poor, 2014; Sotamaa, 2010);  valore comunicativo, cioè estrinseco verso gli altri. Il modder lavora per condividere il proprio lavoro con gli altri ed ottenere riconoscimento sociale, all’interno della propria community, di un sito o di altri ambienti, ad esempio, nell’ambiente delle case di sviluppo (Poor, 2014; Sotamaa, 2010; Shivonen, 2011).

Scopo VALORE Intrinseco Estrinseco

Verso sé Edonico Utilitaristico stessi Direzione Verso gli Etico Comunicativo altri

Tabella 4 – Il valore per i consumatori (Holbrook, 1999)

I modder ricercano questi valori in differenti misure, come abbiamo visto (Sotamaa, 2010). Non c’è un’unica combinazione di questi valori che identifichi tutti i modder, ma tali valori si applicano generalmente all’attività di modding. Sta al modder e al significato che dà alla sua attività (privato o pubblico) fornire un valore piuttosto che un altro al suo lavoro (Troilo, 2014).

3.1.3.2 I sacrifici legati al modding

Abbiamo visto i benefici che i modder possono derivare dalla loro attività, che costituiscono la parte positiva del valore (Troilo, 2014). Vediamo ora i sacrifici e i rischi che i modder devono affrontare per portare avanti il loro lavoro.

100 Innanzitutto, possiamo dire che il rischio economico legato al modding è praticamente nullo (Postigo, 2010; Scacchi, 2011). Le barriere all’ingresso del mondo del modding sono sorprendentemente basse, soprattutto grazie alla distribuzione digitale dei giochi. I costi che un modder è chiamato ad affrontare sono legati generalmente soltanto all’acquisto del gioco base e all’acquisizione dei software che gli permettono di modificarlo (Postigo, 2010). Spesso, questi software sono inclusi nel gioco, come i toolkit, o sono open-source, e quindi gratuitamente scaricabili. I software più costosi sono quelli che riguardano la grafica e la modellazione digitale, ma, se il modder ha un interesse professionale nell’industria videoludica, sono costi facilmente affrontabili (Scacchi, 2011). I costi di distribuzione sono nulli, dunque, la condivisione delle proprie creazioni non comporta rischi economici. Un altro tipo di rischi legati alla pratica del modding riguardano le competenze dell’utente, che possono essere inadeguate a ciò che vuole realizzare (Postigo, 2007; Sotamaa, 2010). Tale rischio può essere diminuito appoggiandosi alla community, visionando guide e tutorial di altri modder più esperti o cooperando con altri utenti con competenze maggiori o diverse (Postigo, 2007). Un sacrificio importante riguarda la dimensione temporale del lavoro dei modder. Una mod, per quanto piccola possa essere, richiede sempre un certo ammontare di tempo per essere finita (Scacchi, 2010; Davidici-Nora, 2014). Le mod più ambiziose, come le total conversions, possono richiedere mesi o anni di sviluppo, soprattutto se il modder lavora da solo e deve ricoprire tutti i ruoli (Poor, 2014). Se non si ha abbastanza tempo per portare avanti un progetto, c’è il rischio che quel progetto venga accantonato, producendo una delusione nel modder (Poor, 2014; Shivonen, 2011). I rischi sociali riguardano l’insoddisfazione del modder nei confronti della community, che può dare commenti negativi e rifiutare il suo lavoro (Sotamaa, 2010; Poor, 2014). Se il modder è visto come disonesto, o non è in grado di ascoltare la community, questo può influire negativamente sul suo lavoro, e anche portarlo ad abbandonare un progetto. Infine, un ultimo rischio legato al lavoro dei modder è quello di scontrarsi con la cultura organizzativa, le decisioni e la strategia dell’azienda proprietaria del gioco (Postigo, 2010; Küklich, 2005; Hong, 2013). Come vedremo nei prossimi paragrafi e nel prossimo Capitolo, i rapporti tra i modder e l’industria non sono facili e, generalmente, non favoriscono gli utenti.

101 3.2 Il modder come prosumer

Abbiamo già parlato di come, a seguito della nascita del Web 2.0 e delle digital communities, le linee di separazione tra creazione e consumo, tra produttore e utente e tra il commerciale e il non-commerciale siano divenute più sfumate (Küklich, 2005; Kawashima, 2010; Hong, 2013). Tali innovazioni hanno dato vita a numerosi studi su un nuovo tipo di attore che agisce sul mercato, il prosumer (Toffler, 1980; Kotler, 1986; Szymusiak, 2015; Li, 2018), definendo la sua attività come produsage (Bruns, 2007; Wittke & Hanekop, 2011; Hong, 2013). Molti autori che abbiamo già visto, come Küklich (2005), Postigo (2007, 2008, 2010) e Hong (2013) collegano il fenomeno del modding e l’attività degli utenti all’interno dell’industria videoludica a questo fenomeno, che si affianca all’emergere di quella che Jenkins (2006b) chiama “cultura della convergenza”, in cui le figure del consumatore e del produttore si incontrano. Andiamo a definire meglio le pratiche del prosumerismo e del produsage, che poi collegheremo all’attività dei modder. Un’altra definizione importante che daremo, per meglio descrivere i rapporti tra gli utenti e le industrie, è quella di playbour (Küklich, 2005; Postigo, 2007; Patella-Ray, 2012), inteso come la convergenza di pratiche lavorative con quelle del gioco. Infine, parleremo del rapporto tra le aziende e i modder.

3.2.1 L’ascesa del prosumer

Il termine prosumer venne coniato da Alvin Toffler nel suo libro The Third Wave (1980), ma già degli studi precedenti da parte di McLuhan e Nevitt (1972) avevano previsto tale innovazione nei rapporti tra produttori e consumatori. Toffler aveva previsto che, con la crescita della mass consumption dei beni, le aziende avrebbero cercato profitto nella customizzazione dell’esperienza di consumo, che avrebbe dovuto seguire il design proposto dai clienti, come già avveniva nel mercato dell’architettura (Lorimer, 2014). Il profitto, dunque, si basa sul surplus che i clienti sono disposti a creare per ottenere un’esperienza di consumo più personale (Küklich, 2005). Altri studi hanno proiettato la figura del prosumer nel ventunesimo secolo, e l’hanno collegata all’ascesa del world wide web e dell’informazione digitale (Kotler, 1986; Toffler & Toffler, 2006; Tapscott, 1994). Infatti, con l’avvento di Internet e la nascita del Web 2.0, si sono abbassati i costi di scambio e di condivisione delle informazioni sia per i produttori che per i consumatori, insieme ai costi di creazione di contenuto originale

102 (Szymusiak, 2015; Küklich, 2005). La figura del prosumer riunisce il produttore e il consumatore, il professionista e il dilettante, la ragione economica e il volontariato (Kawashima, 2010), all’interno di una cultura della partecipazione e della condivisione (Jenkis, 2006). A descrivere le attività di questo nuovo attore economico all’interno del contesto del Web 2.0 interviene Axel Bruns, che definisce il produsage come quel tipo di creazione di contenuti user-led che si trova nei diversi ambienti online come i social network, le platform e l’ambiente open-source (Bruns, 2008). Secondo Bruns (2008), il produsage è caratterizzato da quattro elementi:  l’open partecipation di tutti gli utenti di una community alla creazione di nuovo contenuto, sostenuta dalla valutazione dei propri peers e dall’inclusione di tutti i partecipanti nel discorso produttivo (Burns, 2008). Il lavoro non è organizzato gerarchicamente, ma è volontario e self-regulated;  una gerarchia fluida, in cui i leader sono in continuo cambiamento a seconda del loro contributo alla produzione. Inoltre, la struttura del produsage deve dare libero accesso alla produzione a tutti gli utenti, a qualsiasi livello di competenza (Bruns, 2008; Sotamaa, 2010). L’utente deve sentirsi libero di partecipare, senza leader che gli impongano una produzione forzata;  la produzione di artefatti del produsage, che deve essere “palimpsestic” e granulare (Burns, 2008), cioè deve permettere di creare, ricreare e migliorare continuamente gli artefatti. Ogni utente deve poter accedere al contenuto e dare il suo contributo, in ogni momento. La granularità del prodotto permette ad una molteplicità di utenti di partecipare, ognuno con le proprie competenze, allo sviluppo dell’artefatto, aggiungendo valore proprio grazie all’eterogeneità degli attori in campo (Bruns, 2008; Bruns & Schmidt, 2011);  la proprietà dei prodotti del produsage deve essere comune e condivisa. Gli utenti devono poter accedere facilmente al contenuto per dare il proprio contributo, senza che vengano applicate le leggi della proprietà intellettuale (Bruns, 2008; Postigo, 2010). Allo stesso tempo, i meriti individuali devono essere riconosciuti e retribuiti, per motivare l’attività degli utenti, ma senza permettere che soltanto una minoranza ci guadagni (Bruns & Schmidt, 2011). La Figura 19 descrive efficacemente il modello di value network che sta al di sotto degli ambienti di produsage (Bruns, 2010). Come abbiamo visto nel Capitolo 2, gli attori del network agiscono influenzandosi a vicenda e scambiandosi continuamente informazioni

103 e risorse, in maniera ciclica. I prodotti di questa iterazione di attività sono spesso di qualità pari a prodotti commerciali creati da aziende (Bruns, 2010).

Figura 19 – Modello di catena del valore del produsage (Bruns, 2010)

La teoria del produsage di Bruns si incontra con quella di Jenkins sulla cultura della partecipazione, o media convergence (2006a, 2006b), di cui abbiamo già accennato. Jenkins utilizza l’idea della convergenza per descrivere sia la figura del prosumer, all’incrocio tra produttore e consumatore, sia il processo di convergenza dei differenti media nei processi produttivi legati all’uso delle nuove tecnologie (Jenkins, 2006b). Gli utenti prosumer sono aggregati in cognitive communities, unite tramite internet, in cui partecipano ad una collective intelligence che produce e trasforma i contenuti (Bruns, 2008; Flew & Humpreys, 2005; Burger-Helmchen & Cohendet, 2011). Jenkins (2012) illustra cinque concetti che caratterizzano il contenuto creato tramite la media convergence, che riflettono in parte ciò che viene detto da Bruns (2008):  il contenuto è partecipatorio: poche barriere all’entrata significa che tutti gli utenti possono partecipare ai processi di creazione, e sono invogliati a fare ciò dai contenuti stessi delle diverse piattaforme (Jenkins, 2006, 2012);  il contenuto è “remixabile”: grazie all’abbassamento delle barriere tecnologiche e di prezzo, tutti gli utenti possono modificare e “remixare” i prodotti e il loro

104 contenuto (Jenkins, 2012). Questo porta a nuovi processi di consumo, in cui il prodotto è assorbito e modificato a seconda dei desideri degli utenti;  il contenuto è “spreadable”: il prodotto degli utenti può viaggiare per tutto il mondo, in una logica di circolazione in cui il contenuto ottiene valore nell’attraversare le diverse culture (Jenkins, 2012). Come in Burns (2008), più utenti co-partecipano alla creazione di contenuto, più questo acquista valore;  il contenuto è globale: grazie al world wide web, il contenuto può uscire dalla cultura in cui è stato creato e raggiungerne altre, dando il via ad un processo di continua contaminazione, ed allargando l’audience di un prodotto (Jenkins, 2012);  il contenuto può essere indipendente: le nuove possibilità offerte dal crowdsourcing e la relazione con la community permettono ai prosumer di mantenere indipendente dall’influenza delle industrie i loro prodotti (Jenkins, 2012). Un’altra teoria che incrocia gli studi di Bruns e Jenkins è quella riguardante la common- base peer production, sviluppata da Benkler (2002, 2006). Tale teoria descrive un nuovo modello socioeconomico di produzione in cui il lavoro è portato avanti da gruppi di persone collettivamente, attraverso internet. La conoscenza all’interno di questi gruppi non è di proprietà, ma è condivisa ed accessibile a tutti (Benkler, 2006; Krowne, 2005). Il modello di Benkler si basa su due assunti:  la produzione peer-to-peer permette ad ognuno di assegnarsi un lavoro in linea con le proprie competenze, i propri desideri e la propria creatività;  il numero di persone coinvolte permette di differenziare enormemente gli input e gli output del lavoro e di ottenere ritorni sostanziali senza il bisogno di rapporti contrattuali (Benkler & Nissenbaum, 2006). Come abbiamo visto, la principale motivazione che spinge gli individui a cooperare è la passione per il lavoro e gli argomenti (Tapscott & Williams, 2006). Altri concetti legati alla produzione common-base sono quelli di peer governance, cioè un nuovo metodo di gestione del lavoro bottom-up, in cui le decisioni sono prese da tutti in partecipazione (Kostakis, 2010; Benkler, 2006; Krowne, 2005), e di peer property, che riguarda la natura innovativa delle leggi che tutelano il diritto d’autore, che devono essere inclusive e non esclusive (Benkler, 2006; Bauwens, 2005).

105 3.2.1.1 Pratiche di produsage

Molte delle piattaforme di aggregazione di informazioni e contenuti nate con il Web 2.0 si basano sul concetto di produsage illustrato da Bruns (2008) e sulla teoria della convergenza di Jenkins (2006). Il primo esempio portato da Bruns per dimostrare l’idea di produsage è Wikipedia, l’enciclopedia online più famosa al mondo, lanciata da Jimmy Wales e Larry Sanger nel 2001. Wikipedia, al contrario di altre enciclopedie classiche che basano il loro contenuto solo sulla parola degli esperti, è creata da tutti gli utenti in una continua cooperazione aperta (Bruns, 2006; Benkler, 2006). Non ci sono leader definiti, e gli utenti possono liberamente cooperare, valutando e aggiustando il lavoro degli altri, imparando e scambiandosi informazioni (Tapscott & Williams, 2006). Un altro celebre esempio di produsage e common-based production è il sistema operativo , collegabile alla filosofia di sviluppo software open-source (Bruns, 2006). Linux venne rilasciato nel 1991 da dall’ingegnere americano Linus Torvalds come una risorsa di free code, in cui tutti gli utenti potevano contribuire al miglioramento del software sotto la guida della open license (Torvalds, 1992). Attraverso la collaborazione e la partecipazione aperta a tutti gli utenti, la qualità del software avanza ad una velocità molto maggiore rispetto ai modelli chiusi (Burns, 2010). Per citare pratiche più recenti che interpretino i principi del produsage e della common- based production, possiamo citare diverse app e piattaforme di successo, che hanno saputo incanalare il lavoro dei prosumer in il modello platform di business, come abbiamo visto nel Capitolo 2 (Moazed 2015; Choudary, 2013). Tra tali piattaforme, che hanno contribuito al successo della app economy (Simon et al., 2014), possiamo citare:  i diversi social network, il cui uso è oggi diffuso tra miliardi di persone, e che si concentrano sulle connessioni tra gli utenti e il contenuto generato da questi (Burns, 2006), come Facebook, Instagram, Twitter e Tumblr. Tutte queste piattaforme producono e promuovono un ambiente dominato dal produsage, dove gli utenti sono incoraggiati a condividere contenuto e interagire, valutando il contenuto degli altri, a costi praticamente nulli: l’unico requisito è il possesso di un cellulare o di un PC (Burns, 2010; Jenkins, 2006);  il produsage può riguardare anche contenuto diverso da quello specificamente software ed ingegneristico. Piattaforme come Airbnb, lanciato nel 2007 (McCann, 2015), Couchsurfing, lanciato nel 2012, e BlaBlaCar, lanciato nel 2006, permettono agli utenti di condividere beni e servizi, in questi casi, una casa, un

106 divano o un posto in macchina, ad altri utenti, secondo i principi della sharing economy (Hamari et al., 2016; Ertz et al., 2019);  una delle novità più importanti che ha riguardato l’attività dei prosumer negli ultimi anni è stata la nascita di siti e piattaforme di crowdfunding, come Kickstarter, Patreon e GoFundMe (Conte, 2017; Burns, 2010). La possibilità di trovare facilmente dei finanziamenti per i loro progetti, o di poter trasformare la loro passione in un lavoro, ha spinto molti content creator, come videomaker, scrittori, musicisti o ingegneri, ad adottare queste piattaforme (Pham, 2013). In cambio dei soldi degli utenti, i content creator si impegnano a sviluppare contenuto aggiuntivo e vantaggi esclusivi per coloro che pagano di più (Conte, 2017). La nascita e la diffusione di queste social platform ha avuto un grande impatto sulla diffusione del produsage e sulle concezioni della proprietà e dell’uso di contenuti online e condivisi (Bruns, 2006; Jenkins, 2006). Vedremo come questo ha fatto sorgere nuove sfide per il diritto riguardante il copyright e l’applicazione delle leggi sulla proprietà nel prossimo Capitolo.

3.2.1.2 Il prosumer nell’industria videoludica

Alla luce di quanto visto fino ad adesso, è facile inserire le pratiche di modding e le altre attività di creazione di contenuto originale proprie dell’industria videoludica all’interno della più grande cultura del produsage (Hong, 2013; Küklich, 2005; Postigo, 2010; Shivonen, 2011). Come abbiamo visto nel Capitolo 2, il value network costruito attorno all’attività dei modder è ravvicinabile a quello descritto da Bruns (2010). Inoltre, la natura tecnologica della pratica del modding lo rende molto vicino alla cultura open-source e alla common-base peer production descritta da Benkler (2006). All’interno dell’industria videoludica, possiamo riconoscere molte figure di prosumer tradizionali: i content creator operano su YouTube, su Twitch e sui forum per creare e condividere contenuto riguardante i prodotti videoludici e diffondere informazione. L’online community videoludica non si distingue, per queste attività, da altre community, come quella dell’industria cinematografica (Shivonen, 2011). Tuttavia, il modding va oltre la cultura partecipativa di Jenkins (2002) e, forse, va oltre anche al produsage di Bruns (2006). Le mod sono prodotti trasformativi, che modificano un prodotto già esistente, in maniere che risultano impossibili ad altre industrie (Küklich,

107 2005; Postigo, 2010). In questo senso, i modder non sono semplicemente dei content creator, ma rappresentano una forza trasformativa che mira a riappropriarsi dei prodotti videoludici tramite la personalizzazione del contenuto (Jenkins, 2002; Shivonen, 2011). Facendo ciò, si espongono a dei rischi, tra cui quelli legati al rapporto con le aziende e i publisher, detentori dei diritti e della proprietà intellettuale sui prodotti modificati (Hong, 2013; Coleman & Dyer-Whiteford, 2005). Il rischio principale è che le aziende si approprino del lavoro dei modder, capitalizzando sulla passione dei loro utenti (Küklich, 2005). Tale rischio si inserisce in un discorso più ampio, che riguarda la natura dell’attività del modding e del prosumerismo in generale.

3.2.2 La pratica del playbour

L’attività e la pratica dei prosumer si inseriscono in un discorso contraddittorio, che riguarda tutto il digital labour (Hong, 2013), in cui il lavoro è “simultaneously given and unwaged, enjoyed and exploited” (Terranova, 2000, p. 33). Il lavoro dei prosumer non è inseribile in nessuna definizione tradizionale di lavoro, né nelle categorie di gioco o di attività piacevole (Küklich, 2005). La parola playbour, parola macedonia formata da play e labour, è stata coniata da Küklich nel 2005 proprio per descrivere il lavoro dei modder all’interno dell’industria videoludica, basandosi sugli scritti di Terranova (2000) e di Postigo (2003) e sull’emergenza della pratica del modding nei primi anni ’90 (Sotamaa, 2007). Tuttavia, questo termine può essere esteso a tutta la pratica del produsage e della nuova creatività nel Web 2.0 (Hong, 2013). Il playbour pone una sfida alla concezione tradizionale di labour, e a tutta la tradizione economica basata sul rapporto produttore/consumatore (Coleman & Dyer-Whiteford, 2005; Postigo, 2008). Ponendo parzialmente al di fuori della logica economica le loro motivazioni, i modder, così come i content creator, si pongono in opposizione con la tradizionale pratica lavorativa (Hong, 2013; Coleman & Dyer-Whiteford, 2005). Il playbour, infatti, descrive una situazione unica in cui si trovano ad operare i modder e, più in generale, i content creator: i modder, modificando un gioco per passione e per piacere, generano quello che è chiamato un productive leisure, un’attività piacevole e produttiva al tempo stesso (Küklich, 2005; Postigo, 2003). Il fatto che la pratica del modding sia così legata all’idea di gioco e di attività piacevole è ciò che la distingue da altre forme di produsage, come lo sviluppo open-source: mentre questo viene ormai visto come una fonte di lavoro e di guadagno seria e rispettabile, al modding, e alle attività di

108 content creation legate al mondo videoludico in generale, vengono ancora associate le connotazioni negative della parola “gioco”, come la non-produttività (Küklich, 2005). Il produsage, tuttavia, rimane produttivo, nonostante i suoi prodotti siano principalmente immateriali, dunque il playbour non può essere categorizzato facilmente nelle attività di piacere o di gioco, come gli hobby, nonostante la forte componente amatoriale (Postigo, 2003). Grazie ai diritti di copyright, come abbiamo visto, le aziende possono capitalizzare sulla produzione dei consumatori, appropriandosi del loro lavoro ed inserendolo nei loro processi produttivi (Küklich, 2005; Fulcher, 2004). Tale “re-commodification” (Coleman & Dyer-Whiteford, 2005, p. 941) del lavoro dei modder è possibile in quanto la loro attività è “dilaogic rather than disruptive, affective more than ideological, and collaborative rather than confrontational” (Jenkins, 2002, p. 167). Tuttavia, il playbour non può essere categorizzato in nessun tipo di lavoro, nonostante ne condivida alcune caratteristiche:  il modding è comparabile al lavoro retribuito, nel fatto che in nessuno dei due casi il lavoratore possiede il frutto del suo operato (Küklich, 2005). I modder non possono ricevere royalties o accampare diritti sul lavoro che svolgono su giochi protetti da copyright, in quanto la proprietà intellettuale rimane in mano al publisher (Postigo, 2003), e i rari casi in cui l’azienda retribuisce i modder non possono certo far pensare ai modder come a degli impiegati o dei dipendenti (Küklich, 2005; Terranova, 2000);  il modding può essere ravvicinato al lavoro freelance, in quanto i modder si assumono tutti i rischi legali e finanziari del loro lavoro (Küklich, 2005). Tuttavia, mentre il lavoro freelance è regolato da contratti, ciò non è previsto per i modder;  il modding può assomigliare anche al lavoro volontario, in quanto ne condivide le motivazioni di fondo, come la passione, il senso di comunità e la costruzione della propria identità (Postigo, 2003). Tuttavia, mentre il volontariato riguarda le industrie non-profit, il modding è strettamente legato ad un’industria for-profit come quella videoludica (Küklich, 2005). Küklich descrive la community dei modder come una “dispersed multitude” (2005, p. 12), cioè una community che non riesce ad aggregarsi e a difendere la sua posizione all’interno del mercato, proprio a causa dei nuovi mezzi di distribuzione, che disperdono i prodotti nel network di internet (Küklich, 2005). Questo è anche causato dal duplice desiderio che muove l’attività dei modder: di essere liberi di produrre ciò che vogliono e, nello stesso

109 tempo, di ottenere il riconoscimento da parte delle compagnie dietro i giochi (Küklich, 2005; Au, 2002; Postigo, 2003). L’appropriazione da parte delle aziende del lavoro dei modder e dei content creator può portare all’alienazione dei diritti degli utenti sul loro prodotto, e allo sfruttamento (exploitation) del loro lavoro (Küklich, 2005).

3.2.2.1 Il playbour come pratica economica e culturale

Nel rapporto tra le aziende e i prosumer, si assiste all’incontro della pratica del prosumerismo con la teoria neoliberista del mercato (Hong, 2013; Shivonen, 2011). Tale teoria, emersa attorno agli anni ’70, si riferisce ad un sistema economico che privilegia la libertà imprenditoriale e di mercato, che supporta i diritti di proprietà e la deregolazione e che si oppone al controllo dello stato sull’economia (Hong, 2013; Harvey, 2005). Con la diffusione del world wide web, l’assenza di controllo governativo su internet e la facilità con cui le aziende possono gestire la proprietà intellettuale dei propri prodotti (Hong, 2013), ha fatto sì che le attività dei prosumer divenissero un’estensione del pensiero e della cultura neoliberale (Binkley, 2011). Le pratiche di self-organization e di self- empowerment sono radicate nella quotidianità dei content creator, e l’ideologia neoliberista vi si riflette, attraverso le modalità con cui queste pratiche creano valore per il mercato (Brown, 2005; Hong, 2013; Shivonen, 2011). Il lavoro dei content creator è ricercato dalla nuova economia del Web 2.0, in quanto si tratta di lavoro a bassissimi costi, in cui il surplus dei lavoratori può essere facilmente raccolto dall’industria: il tanto sognato free labour dell’economia 2.0, in cui le aziende ritengono strategicamente valido delegare parte dei rischi legati all’innovazione e allo sviluppo alla sua community (Hong, 2013; Postigo, 2010; Terranova, 2000). Dall’altra parte, come abbiamo visto nel Capitolo 1, il modding può essere inserito all’interno di pratiche culturali di riappropriazione, da parte dei consumatori, dei prodotti di proprietà (Shivonen, 2011; Postigo, 2003), e di partecipazione culturale (Jenkins, 2002). C’è chi ha voluto vedere nell’attività dei modder una forma di contestazione della proprietà intellettuale e un ritorno ai beni common-based, condivisi da tutta la community, nella scia della cultura hactivist degli anni ’90 e ‘00 (Coleman & Dyer-Whiteford, 2005; Dyer-Whitford, 2002; Shivonen, 2011). Il modding può certamente configurarsi come resistenza, da parte degli utenti, a forme economiche considerate scorrette, provenienti da un sistema capitalistico di competizione spietata come è l’industria videoludica (Dyer- Whitford, 2002). Tuttavia, la partecipazione culturale, come descritta da Jenkins (2002),

110 non cerca di sostituirsi alla produzione industriale, ma di instaurare un dialogo con essa, di confrontarsi e di collaborare al fine di migliorare l’esperienza dei consumatori (Jenkins, 2002; Postigo, 2010). In questo senso, i modder si trovano in una posizione privilegiata rispetto all’industria e alla fanbase, in quanto costituiscono una forza innovativa che l’industria è interessata ad ascoltare e ad incoraggiare (Postigo, 2010).

3.2.2.2 Giocare lavorando o lavorare giocando?

La cultura neoliberista, dunque, si riflette anche nel lavoro e nelle pratiche di self- management dei modder, che, attraverso il loro hobby, possono accumulare un capitale sociale e simbolico (Hong, 2013; Shivonen, 2011). I modder, nel loro lavoro, devono quindi stare attenti a produrre comunque contenuti di qualità, se vogliono aprirsi una strada verso il mondo del lavoro e mantenersi economically viable (Hong, 2013; Rose, 2000). Il mondo professionale videoludico, e, in generale, del prosumerismo, richiede che l’individuo pensi a sé stesso come ad un’azienda, economizzando il proprio lavoro per ottenere dei bargaining chips, dei mezzi di scambio, con cui entrare nell’industria (Hong, 2013; Bruns, 2010; Ashton, 2011). Questa pratica neoliberista non si ferma ai modder che indirizzano il loro lavoro verso una possibile assunzione, ma è pervasiva e si estende a tutto il mondo del modding (Hong, 2013). Un’etica del lavoro robusta caratterizza il lavoro dei modder e dei content creator, ma il loro lavoro non può essere inquadrato soltanto in un’ottica di vantaggi economici: in quanto attività partecipatoria, il modding prende vita in un “affective cultural space” (Hong, 2013, p. 992), un ambiente dove i creatori possono trovare soddisfazione per le proprie creazioni e affermare la propria identità e la propria creatività, senza che l’elemento economico del lavoro diminuisca questi sentimenti. L’espressione creativa, unita alla cultura neoliberista del miglioramento di sé in ottica economica (Brown, 2005), ha donato ai modder e ai content creator una maniera per unire gioco e lavoro, passione e produttività, divertimento e organizzazione (Hong, 2013; Shivonen, 2011). È dimostrato, da diverse interviste (Hong, 2013; Poor, 2013), come i modder non si illudano delle loro possibilità all’interno dell’industria: solo una piccolissima parte riesce a sostentarsi tramite le proprie creazioni e a fare della propria passione un lavoro. Allo stesso modo, non si illudono del fatto che la loro attività sia solo un gioco, esterno a delle logiche di mercato: lo dimostra il tempo e l’energia che impiegano nelle loro creazioni, incluse le attività di marketing e di social management che devono gestire nell’interazione

111 con la community (Hong, 2013; Shivonen, 2011). I modder sono consumatori consapevoli della loro posizione all’interno della community e dell’industria, e la loro attività non può essere inquadrata unicamente né in un’ottica economica ed utilitaristica, né nell’ottica del gioco e della partecipazione (Shivonen, 2011).

112 CAPITOLO 4: Aspetti legali

In questo capitolo analizzeremo più in dettaglio le questioni, già precedentemente citate, legate agli aspetti legali dell’industria videoludica. Per prima cosa cercheremo di inquadrare la questione del copyright nell’ambito videoludico, poi parleremo di come il controllo della proprietà intellettuale da parte delle aziende possa influenzare l’azione degli utenti e di come si situano le mod a livello legale.

4.1 Il copyright dei videogiochi

A causa della loro natura complessa, i videogiochi hanno sempre posto problemi e questioni per quanto riguarda l’applicazione del diritto d’autore. Come abbiamo visto nel Capitolo 1, i videogiochi sono formati da un contenuto audiovisivo e da un software, o engine, che gestisce il contenuto e permette agli utenti di interagirvi (Wallace, 2014; Postigo, 2010). Dunque, i videogiochi non sono un’opera singola dai contorni precisi, ma un insieme di elementi, che possono essere individualmente protetti, se sufficientemente originali e creativi (Ramos et al., 2013). Ad esempio, è possibile proteggere un singolo personaggio, l’audio originale, il setting o il codice di un videogioco. Il vero problema sorge quando si cerca di proteggere un intero gioco in quanto opera singola (Ramos et al., 2013): si tratta di un’opera audiovisiva, multimediale o, puramente, di un software? Inoltre, lo sviluppo di un videogioco riguarda molte differenti figure professionali, soprattutto a seguito dei suoi recenti sviluppi e dell’incremento della complessità dei giochi (Casillas, 2014; Ramos et al., 2013). Il numero di persone che lavorano ad un videogioco è avvicinabile a quelle che lavorano ad un film per l’industria cinematografica, e i problemi sono simili: l’autorialità di un individuo rispetto ad un altro dipende dal suo coinvolgimento nello sviluppo e dal rapporto che ha con il publisher (Ramos et al., 2013). Un altro elemento di complessità è l’utilizzo, da parte dei developer, dei cosiddetti middleware, cioè software pubblicati da terze parti per lo sviluppo di un gioco (ad esempio, l’Unreal Developement Kit e altri motori grafici o fisici). L’utilizzo dei middleware risparmia tempo agli sviluppatori, che non devono creare un engine da zero, ma pone altri problemi di natura legale: in un videogioco non si può proteggere il

113 16 100% del codice, ma solo quegli snippets15F originali degli sviluppatori (Ramos et al., 2013). Le applicazioni del copyright nell’ambito dell’industria videoludica riguardano soprattutto la distribuzione e la copia illegali delle opere (Casillas, 2014). Nell’epoca del Web 2.0 e a seguito della diffusione della distribuzione digitale, la protezione del diritto d’autore riguarda soprattutto la distribuzione illegale di copie piratate di un gioco e il problema dei “cloni”, analizzato brevemente nel Capitolo 1 (Casillas, 2014). Tuttavia, il problema è anche estendibile alla pratica del modding e alle sue implicazioni, cioè alla modificazione di contenuto proprietario da parte degli utenti (Joseph, 2018; Spare the Mod, 2012; Kow, 2010; Kawashima, 2010).

4.1.1 Legislazione internazionale

Seguendo lo studio di Ramos, López, Rodríguez, Meng e Abrams del 2013, promosso dalla WIPO (World Intellectual Property Organization), proviamo ad analizzare brevemente gli elementi comuni delle diverse applicazioni nazionali delle leggi sul copyright. Innanzitutto, quali sono le fonti internazionali di riferimento per i videogiochi? Vi sono due convenzioni storiche a regolare il diritto d’autore globalmente:  la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, adottata a Berna nel 1886, amministrata dal 1967 dalla WIPO ed aggiornata, nel 1996, nel WIPO Copyright Treaty (WCT), per integrare la Convenzione di Berna alla nuova società dell’informazione;  la Convenzione Universale sul Diritto d’Autore di Ginevra, del 1952, ormai in disuso e sostituita in quasi tutti gli aspetti dall’Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPs), promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio a Marracash nel 1994, che regola la tutela della proprietà intellettuale negli scambi commerciali dei paesi aderenti. La più moderna definizione di copyright ci viene dunque dal WCT, che ha implementato al meglio possibile le nuove sfide delle tecnologie informative e del Web 2.0 con l’ultimo aggiornamento della Convenzione di Berna, risalente al 1971. Il copyright promosso dalla Convenzione si applica a tutte le produzioni “in the literary, scientific and artistic domain,

16 Frammenti di codice

114 whatever the mode or form of its expression” (Convenzione di Berna, 1971, Articolo 2). La Convenzione definisce uno standard di protezione delle opere in tutti gli stati membri, garantendo ai possessori del copyright un certo numero di diritti (Convenzione di Berna, 1971), riconosciuti come diritti esclusivi di autorizzazione:  il diritto di traduzione dell’opera;  il diritto di produrre adattamento dell’opera;  il diritto di riprodurre in pubblico le opere drammatiche e musicali e di recitare le opere letterarie;  il diritto di comunicare al pubblico le performance di queste opere;  il diritto di trasmissione delle opere;  il diritto di riprodurre l’opera in qualsiasi maniera, inclusa, in certi casi, la riproduzione senza autorizzazione;  il diritto di usare l’opera come base per un’opera audiovisiva. La Convenzione di Berna (1971) si basa su tre principi fondamentali (Articolo 3): 1. il diritto d’autore deve essere tutelato da tutti gli Stati che ne fanno parte reciprocamente (internazionalizzazione); 2. l’esercizio dei diritti non è vincolato alla condizione che l’opera sia tutelata nel paese d’origine (principio di indipendenza); 3. non è necessario registrare l’opera affinché questa sia tutelata (principio della tutela automatica). L’ultimo principio si riferisce alla convenzione per cui un’opera dovrebbe essere tutelata una volta che viene “fissata” (fixed) dall’autore, ovvero registrata su qualsiasi supporto fisico (Ramos, 2013), senza il bisogno di registrarla. Gli Stati membri possono richiedere, nell’adattamento della convenzione, che le opere siano registrate, ma devono comunque concedere la tutela anche alle opere di quegli Stati che non la richiedono. Tale principio è la ragione per cui gli Stati Uniti hanno aspettato 95 anni prima di diventare membri della Convenzione, non volendo modificare la loro legislazione in fatto di copyright, e preferendo adottare la CUA nel 1952. Con il WIPO Copyright Treaty si è cercato di trasporre tali norme al mondo digitale. Il copyright, al giorno d’oggi, non copre soltanto le opere artistiche e letterarie, ma anche i software, i database e le risorse di codice (WCT, 1996). Inoltre, il WCT estende i diritti derivanti dalla proprietà del copyright, integrando:

115  il diritto di distribuzione, cioè la possibilità di rendere disponibile al pubblico l’opera originale o delle riproduzioni attraverso la vendita o il trasferimento di proprietà;  il diritto di noleggio commerciale del prodotto (rental);  il diritto di comunicazione al pubblico, attraverso qualsiasi mezzo, includendo la comunicazione interattiva e on-demand tipica di internet. Ciascuno di questi è un diritto esclusivo, soggetto a limitazioni ed eccezioni. Il WCT obbliga i paesi membri a prevedere un’adeguata tutela giuridica per i detentori di diritti attraverso delle misure tecnologiche di protezione (MTP) adeguate, affinché le opere non vengano utilizzate in modi non autorizzati dagli autori (WCT, 1996, Articolo 11). Né nel WTC, né nel TRIPs, i videogiochi sono nominati direttamente (Ramos et al., 2013). Piuttosto, ci si riferisce ai videogiochi come opere letterarie, opere audiovisive o software degne di protezione, a seconda della legislazione del paese in cui il videogioco viene sviluppato. Tuttavia, una legislazione apposita per i videogiochi ancora non è stata pensata e le numerose questioni che sorgono dall’utilizzo improprio di un prodotto videoludico sono generalmente risolte attraverso i contratti d’uso (Ramos et al., 2013). Andiamo ora a vedere quali sono le norme di legge in merito in quegli Stati in cui si concentrano le forze produttive dell’industria videoludica: America, Europa, Cina e Giappone.

4.1.1.1 Il copyright in America

In America, l’applicazione della Universal Copyright Convention di Ginevra del 1952 ha dato vita al Copyright Act del 1976, che non riconosce i videogiochi come categoria protetta a sé stante, ma li fa rientrare nella sua Sezione 102, definendoli “original works of authorship fixed in any tangible medium of expression […] from which they can be perceived, reproduced, or otherwise communicated, either directly or with the aid of a machine or device” (17 USC § 102, 1992). Non essendoci una direttiva chiara al riguardo, i videogiochi possono essere riconosciuto come literary works, visual arts works oppure audiovisual works, a seconda dell’elemento predominante del singolo videogioco (Ramos et al., 2013). L’obbligo di registrazione delle opere presso l’U.S. Copyright Office richiede all’ente che desideri registrare il copyright di un videogioco come opera intera, di scegliere tra queste tre categorie. Altri strumenti per proteggere certe parti di un

116 videogioco sono le patenti, per le parti funzionali come software specifici, e i trademarks, per il titolo o i nomi dei personaggi (Ramos et al., 2013). L’autorialità di un videogioco viene riconosciuta in America, solitamente, ai publisher o ai producer del videogioco, e mai agli impiegati o ai dipendenti di un’azienda, come specificato nella Sezione 201.b del Copyright Act (Ramos et al., 2013). I diritti morali, a differenza dei paesi Europei, non permettono ai dipendenti di reclamare l’autorship di un videogioco, per la Sezione 101 del Copyright Act. I contributi degli utenti, invece, come le mod e altro contenuto, sono regolati in forma scritta tramite le licenze d’uso dei software, di cui l’EULA è la forma più comune, come vedremo successivamente. Il copyright, infatti, può essere trasferito, totalmente o in parte, attraverso le licenze, come specificato nella Sezione 201.d (Ramos et al., 2013). Inoltre, il Copyright Act prevede la dottrina del fair use, sotto cui le produzioni derivanti dall’opera originale possono ricadere senza violare il copyright. Vedremo più avanti nel dettaglio questa dottrina. Il Copyright Act del 1976 è stato potenziato attraverso il Digital Millennium Copyright Act del 1998 (DMCA), che implementa il WTC del 1996 all’interno del sistema giudiziario americano, per adattare la legge alle innovazioni digitali. Il DMCA rafforza la protezione sui prodotti digitali, per agire contro la pirateria e il fenomeno dell’hacking (Cobia, 2008). Tuttavia, è stato ampiamente criticato per favorire le aziende e i detentori di copyright, garantendo ulteriori strumenti per controllare la competizione e imporre una censura sui contenuti (Cobia, 2008; Quilter & Urban, 2005). L’Electric Frontier Foundation (2010) ha più volte denunciato gli effetti negativi del DMCA, in quanto soffoca e reprime la libertà d’espressione, mette in discussione la dottrina del fair use e sfavorisce la competizione.

4.1.1.2 Il copyright in Europa

Le leggi sul copyright vigenti nell’Unione Europea provengono da direttive comuni, e sono generalmente armonizzate tra i diversi Stati, anche se con alcune differenze. Le direttive, che mirano a tradurre nella UE le convenzioni di cui gli Stati sono membri, come la WCT e la TRIPs, sono diverse: la Copyright Duration Directive del 1993, integrata dalla Copyright Term Directive del 2006; l’Enforcement Directive (o IPRED) del 2004; l’Information Society Directive del 2001 e la recente Directive on Copyright in the Digital Single Market del 2019. In nessuna di queste direttive il videogioco è definito

117 in maniera esatta, ma è lasciata all’adattamento da parte degli Stati la specifica definizione, caso per caso:  in Italia, non ci sono riferimenti diretti ai videogiochi nella Legge 22 aprile 1941, n. 633, che disciplina il diritto d’autore e il copyright, né nei suoi adattamenti più recenti (Legge 9 gennaio 2008, n. 2). Gli unici riferimenti, in tale Legge, si trovano nell’Articolo 171-ter f-bis, che definisce le infrazioni, e l’Articolo 181-bis, che impone l’obbligo del bollino SIAE su tutte le opere audiovisive. La definizione dello statuto legale del videogioco viene quindi dalla giurisprudenza e dalla dottrina (Ramos et al., 2013): il Giudizio Atari del 1983 definisce i videogiochi come “immagini in movimento”, classificandoli come opere audiovisuali. La successiva sentenza 25 maggio 2007 (Giudizio Dalvit) riconosce l’insufficienza di tale definizione, classificandoli come opere multimediali, cioè “un prodotto che combina, simultaneamente, in una forma digitale, testo, elementi grafici, suoni, immagini e software” (Cunegatti, 2000);  in Francia, i videogiochi non sono definiti in maniera specifica, ma sono considerati “ouvre de l’esprit” (prodotti della mente) e, in quanto tali, protetti dalla legge generale sul diritto d’autore e sul copyright, come espresso nel Code de la Propriété Intellectuelle (CPI), Articolo L 112-1 (Ramos et al., 2013). La giurisprudenza più recente ha identificato la complessità dei videogiochi, impossibili da riportare ad un’unica categoria, e dunque è possibile proteggere le diverse componenti, come il contenuto e l’engine (Ramos et al., 2013; Martin- Lalande, 2011);  nel Regno Unito, il copyright è regolato secondo il Copyright, Designs and Patents Act del 1988 e dalle aggiunte che vi sono state fatte nel tempo per adattarlo alle nuove direttive europee e ai diritti digitali (Ramos et al., 2013). I videogiochi non sono inclusi direttamente, ma ricadono sotto la dicitura di enterprenurial works o di artistic works, a seconda degli attori coinvolti (Copyright, Designs and Patents Act, 1988, s 1(1)). Anche il sistema giudiziario inglese ha un sistema per gestire le eccezioni nel copyright, denominato fair dealings, ma è molto più restrittivo e specifico del fair use americano. Gli altri paesi europei presentano situazioni simili: non si trova una vera e propria definizione di videogioco, né sono considerati provvedimenti specifici, ma sono generalmente categorizzati tra i prodotti degni di copyright in quanto prodotti letterari, audiovisivi o multimediali (Ramos et al., 2013). A parte l’Italia, che richiede una

118 registrazione presso la SIAE, negli altri paesi il processo di ottenimento di un copyright è automatico, e segue la dottrina del WCT. Inoltre, le leggi dei diversi Stati sono pensate per essere integrate con le direttive europee nei casi applicativi.

4.1.1.3 Il copyright in Cina

Tutti i lavori letterari, artistici, sociali, ingegneristici e informatici sono protetti in Cina dalla Legge sul Copyright della Repubblica Popolare Cinese del 2010 (PRC Copyright Law), che adatta internamente il WTC e il TRIPs, di cui la Cina è membro. Non si fanno riferimenti diretti ai videogiochi, che, tuttavia, possono comporsi di diversi elementi protetti dalla Legge, o possono configurarsi come software eleggibili di protezione (Ramos et al., 2013). Inoltre, la Regulations for Computer Software Protection del 2002 include, generalmente, tutti i programmi che si basano su un software, e dunque, anche i videogiochi, nel suo regime di protezione. A livello di diritti morali, in Cina l’autorialità è riconosciuta anche ai singoli attori che lavorano alla produzione di un videogioco e, nel caso di lavoro dipendente, in cui i diritti rimangono all’azienda, i dipendenti hanno comunque diritto ad un’attribuzione (Ramos et al., 2013). La legge sul copyright cinese è considerata particolarmente debole e inefficace nel combattere la pirateria e gli episodi di contraffazione (Ramos et al., 2013). Questo è vero anche nei riguardi dei videogiochi, come dimostra la causa tra la Nexon, un publisher coreano, e la cinese Tencent, in cui la corte ha stabilito che un gioco, per essere considerata una copia ed infrangere la legge sul copyright, non può soltanto copiare l’idea da un altro gioco, e che l’idea di gameplay non è suscettibile a una protezione (Ramos et al., 2013).

4.1.1.4 Il copyright in Giappone

Il Giappone tutela i prodotti creativi e culturali attraverso il suo Copyright Act del 1970, tuttavia, non c’è un riferimento diretto ai videogiochi in quanto tali, che, dunque, sono spesso stati categorizzati come “opere cinematografiche” (Articolo 2 (3); Ramos et al., 2013). Inoltre, il codice al di sotto del gioco può essere protetto come literary work per lo stesso Copyright Act (Articolo 10). Come nel common law americano, i diritti sulla creazione di un prodotto videoludico rimangono all’autore, al publisher o al producer del prodotto, e non sono trasferibili ai dipendenti (Ramos et al., 2013). Il Copyright Act

119 include una formula per sfruttare quei giochi i cui diritti non siano attribuibili ad un individuo o ad un’azienda (Articolo 67): tali giochi sono denominati orphan works e può essere ottenuta la licenza per modificarli o lavorarvi (Ramos et al., 2013).

4.1.2 L’EULA e la proprietà sui videogiochi

Vediamo ora come, nell’ambito dell’industria videoludica, le aziende proprietarie di diritti esercitino il controllo sulla distribuzione e la riproduzione dei loro lavori. Vi sono diversi metodi attraverso cui le aziende possono esercitare i loro diritti di proprietà sui videogiochi, e la maggior parte sono definiti da rapporti contrattuali tra l’azienda e i consumatori (Ramos et al., 2013). Una licenza è un contratto con il quale il titolare dei diritti di sfruttamento di un prodotto software definisce le norme e le limitazioni nell’uso e nella circolazione di quel prodotto, a seguito della cessione di parte dei diritti. Vi sono diversi tipi di licenze disponibili, che si differenziano per il grado di controllo che i detentori dei diritti esercitano sul software: le licenze, infatti, si dividono in closed- source, se riguardano un software proprietario, ed open-source, se il software invece è libero (Troan, 2005). Il primo strumento di protezione closed-source è l’EULA (End-User License Agreement), un contratto legale tra il proprietario di un software e l’utente utilizzatore, che descrive in dettaglio i termini e le condizioni d’uso del prodotto (Bashir et al., 2015; Spare the Mod, 2012). Un videogioco, quindi, è concesso in licenza d’uso all’utente, attraverso la distribuzione, che può essere fisica o digitale. La licenza d’uso del software deve essere accettata all’utente per accedere al prodotto, ma il fatto che questo sia possibile normalmente solo in seguito all’acquisto ha fatto sorgere diverse lamentele. Altre critiche all’EULA riguardano la difficoltà di comprensione del testo, scritto in un astruso linguaggio legale, e il conseguente scarso interesse che gli utenti dimostrano per la licenza (Wallace, 2014). Per quanto riguarda il contenuto prodotto dagli utenti, l’EULA ne regola la proprietà in modalità differenti (Wallace, 2014):  attraverso una licenza esclusiva, che dà diritto di utilizzo commerciale e distribuzione del contenuto creato dagli utenti alla casa di sviluppo del software o del gioco, che quindi può riutilizzarlo come e quando vuole. È il caso del recente Warcraft III Reforged, di Starcraft II e di altri titoli in cui l’azienda desidera mantenere un maggiore controllo sull’IP (Wilde, 2020);

120  attraverso una licenza non-esclusiva, che preserva i diritti di proprietà intellettuale dell’azienda sul contenuto del gioco, ma permette agli utenti di distribuire loro stessi il contenuto che creano. È il caso dei giochi di case di sviluppo come Bethesda o CD Projekt Red, che desiderano puntare sulla creatività degli utenti per potenziare l’offerta dei loro prodotti;  attraverso una licenza aperta (open license), che permette a tutti di modificare il prodotto originale e distribuire il contenuto creato tramite il software, seguendo le linee-guida offerte dall’EULA.

4.2 La proprietà delle mod

Kow e Nardi (2010) intitolano “Who owns the mods?” il loro studio sulla proprietà delle modificazioni dei videogiochi. Se la proprietà intellettuale di prodotti digitali è un argomento nebuloso, le leggi riguardanti il modding e la creazione di contenuto originale da parte degli utenti sono praticamente inesistenti (Wallace, 2014; Kawashima, 2010). In generale, si può dire che le leggi e le convenzioni adottate in materia di copyright e di diritto d’autore sono estremamente difficili da applicare alla creatività 2.0 e alla nascita della figura del prosumer (Kawashima, 2010). Una ragione per questa complessità può essere ricercata nella concezione tradizionale dell’artista su cui tali convenzioni si basano, cioè come unico e indivisibile detentore dei diritti – sia questo un individuo o una società. Nelle pratiche di prosumerismo che si basano sul Web 2.0, come abbiamo visto nel Capitolo 3, la produzione non è individuale ma collettiva, partecipatoria, e trasformativa dei contenuti (Jenkins, 2002; Kawashima, 2010): gli utenti di una community rielaborano o creano dei contenuti in compartecipazione con gli altri utenti. È chiaro che definire un autore unico a cui afferire i diritti nella molteplicità della community è quantomai complesso. Un’altra ragione può essere ricercata nella ratio utilitaristica che vive dietro le convenzioni sul diritto d’autore e sulle leggi riguardanti il copyright: queste sono scritte, infatti, per proteggere principalmente gli interessi economici degli autori (Kawashima, 2010; Wallace, 2014). Al contrario, le ragioni dei prosumer, come abbiamo visto, non possono essere ricondotte unicamente a calcoli utilitaristici, ma riguardano anche motivi intrinseci, legati alla passione, al divertimento e all’identità degli utenti (Bruns, 2006;

121 Jenkins, 2002; Postigo, 2008). Tali interessi complicano l’applicazione delle leggi, in quanto non sono così facilmente difendibili o classificabili. Il problema non è legato soltanto al copyright e alla gestione della proprietà intellettuale, ma anche alla protezione dei diritti dei prosumer. Le piattaforme su cui gli utenti operano, che contengono un’enorme quantità di dati, non sono ancora state regolate, e il problema del dispossesso dei dati e dei prodotti dei consumatori da parte di aziende e governi è un problema molto attuale (Marsden, 2018; Competition & Markets Authority, 2015). Non entreremo nel merito di questa complessa questione, ma basti dire che tale problema si ricollega al dispossesso delle mod create dagli utenti e alla regolazione del modding.

4.2.1 Definizione legale delle mod

Come può essere definita legalmente una mod? Nel Capitolo 1 abbiamo avvicinato le mod ai derivative products, nel caso in cui vengano effettivamente commercializzate. La definizione propria delle mod, tuttavia, si avvicina più a quella di derivative works (Spare the Mod, 2012; Wallace, 2014). Un derivative work è definito come “a work based on or derived from one or more already existing works” (U.S. Copyright Office, 2013, p. 1), verso cui gli enti proprietari dei diritti sono normalmente tutelati (Wallace, 2014). A tutelare gli interessi delle aziende intervengono le licenze d’uso dei software, di cui abbiamo fatto menzione prima, come l’EULA: normalmente, nella licenza d’uso di un videogioco vi è indicato il trattamento riservato alle mod (Wallace, 2014; Spare the Mod, 2012). Per decidere se un lavoro di un utente è un derivative work, si analizzano le similarità con l’opera originale, in termine di risorse prese da essa (Wallace, 2014). In questo senso, le mod agiscono quasi totalmente a partire dall’opera originale: che ne modifichino i contenuti o che ne alterino il codice o l’engine, le mod si basano sempre sul possesso quantomeno di una copia dell’opera originale (Wallace, 2014; Postigo, 2010). Se una mod permette a chi la scarica di giocare integralmente al gioco originale, rientra nella sfera della pirateria informatica ed è considerata una pratica illegale (Kow e Nardi, 2010; Wallace, 2014). Se, invece, una mod è definita derivative work, può essere considerata una pratica illegale, ma può anche essere protetta dalla licenza d’uso o rientrare nella dottrina del fair use (Wallace, 2014; Spare the Mod, 2012). Ad esempio, nel caso in cui nell’EULA di un gioco sia indicato che il contenuto creato attraverso l’utilizzo del toolkit fornito dall’azienda non costituisca una violazione della licenza, gli

122 utenti potranno creare derivative works senza timore di essere accusati di illecito. La dottrina del fair use è più complessa, e non è applicabile in tutti gli Stati.

4.2.1.1 Le mod come fair use

Alcuni studiosi hanno argomentato a favore dell’inclusione delle mod all’interno della pratica di fair use di un prodotto (Spare the Mod, 2013; Kawashima, 2010; Postigo, 2008; Shivonen, 2011). Per fair use si intende una disposizione legislativa che regolamenta, sotto certe condizioni, l’uso di contenuti protetti da copyright (U.S. Copyright Office, 2013). Inizialmente adottato in America con il Copyright Act del 1976 (Sezione 107), venne poi introdotto in altri Stati del mondo, tra cui l’Italia, con la Legge del 9 gennaio 2008 n. 2 (Muscillo, 2017), e l’Unione Europea, con l’IPRED 2 del 2007. Dunque, anche se un prodotto di un utente è definibile derivative work, se è coperto dal fair use, non costituisce reato (Wallace, 2014). Nella legislazione americana, ci sono quattro condizioni in cui la dottrina del fair use possono essere applicate (17 USC § 107, 2012):  lo scopo e la natura dell’uso del contenuto, soprattutto se è in relazione con un utilizzo commerciale. Come dal preambolo alla sezione 107, si può parlare di fair use se lo scopo del lavoro è critico, didattico, parodico o di ricerca. Tali scopi rientrano nella natura “trasformativa” del lavoro (Wallace, 2014): se il lavoro aggiunge qualcosa di nuovo all’opera originale, ridefinisce il suo significato o trasforma il mezzo di espressione, è più facile considerarlo fair use;  la natura dell’opera protetta, cioè se l’opera è creativa o fattuale, e se è stata pubblicata o no. Un lavoro che si basa su un’opera creativa viene considerato più raramente fair use (Wallace, 2014);  la quantità e l’importanza della parte utilizzata dell’opera per il derivative work, in relazione al suo insieme;  le conseguenze di questo uso sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta. Questo è considerato il fattore più importante per quanto riguarda la dottrina del fair use, e si considera non solo l’impatto del lavoro sul mercato potenziale o sul valore dell’opera, ma anche quello che il lavoro ha sul posizionamento di eventuali altri derivative work creati dall’azienda che detiene i diritti dell’opera (Wallace, 2014). Ci sono argomenti a favore ed argomenti contro l’estensione della dottrina del fair use alle mod. La nota Spare the Mod dell’Harward Law Review (2012) suggerisce che alle

123 mod dovrebbe essere concesso il fair use, in particolare alle total conversion, e vi si richiede un adattamento della legge sul copyright americana per favorire lo sviluppo dello user-generated content. Anche Baldrica (2007) e Rosen (2005) definiscono la legislazione attuale concernente il mondo del modding e dei contenuti generati dagli utenti come inefficace e insufficiente, e premono per una maggiore protezione per gli utenti. McKay (2011) si spinge oltre e sostiene che l’intero corpus del Digital Millennium Copyright Act andrebbe rivisto, rendendo automaticamente qualsiasi lavoro creato dagli utenti per scopi non commerciali un fair use del prodotto originale, e inserendo normative per punire le violazioni, da parte delle aziende, dei diritti degli utenti. Wallace (2014), d’altro canto, smentisce l’idea che le mod possano essere del tutto soggette al fair use, in quanto in nessun modo soddisfano le condizioni poste dalla Sezione 107 del Copyright Act. Vediamo in che modo le quattro condizioni vengono discusse nel riguardo delle mod:  spesso, lo scopo di una mod non è commerciale, in quanto sono distribuite gratuitamente sulle piattaforme di aggregazione (Postigo, 2010). Dunque, la discussione si concentra sulla natura della mod: per Wallace (2014), le mod non sono trasformative nel loro scopo, in quanto, spesso, non rientrano all’interno dei parametri previsti dalla Sezione 107, cioè di critica, didattica o parodia. Per Baldrica (2008), invece, sostiene che la concezione di “trasformativo” sia difficilmente applicabile ai videogiochi, in quanto combinazione di due elementi, l’engine e il contenuto (Spare the Mod, 2012);  per quanto riguarda la natura dell’opera originale (creativa o fattuale), dipende in larga parte dalla visione che la legge ha dell’opera, in questo caso, del videogioco, e può variare da Stato a Stato, come abbiamo visto (Ramos et al., 2013). Considerare un videogioco un’opera creativa o di finzione rende più difficile applicare il fair use (Wallace, 2014), mentre considerare solo gli elementi informativi del videogioco, come il codice o l’engine, permette più propriamente di parlare di fair use, ma limita la visione d’insieme del prodotto come l’unione di due componenti inseparabili (Baldrica, 2008; Postigo, 2010);  il terzo fattore, che considera la porzione di gioco riutilizzata, tende ad andare contro alla definizione di fair use, in quanto le mod riutilizzano l’intero gioco come base si cui operare (Wallace, 2014). Tuttavia, anche in questo caso si deve considerare in che modo le diverse parti del gioco sono protette: una mod che agisce soltanto sul codice non andrebbe a toccare il contenuto, e se il codice non

124 è ritenuto meritevole di protezione, la mod potrebbe ricadere nel fair use (Baldrica, 2008). Altri autori sostengono che questo fattore non è determinante, in quanto le mod, come derivative works, non possono fare altro che agire sul gioco completo (Spare the Mod, 2012);  il quarto fattore è più determinante, in quanto esamina l’impatto che la mod può avere non soltanto sul mercato attuale e potenziale del gioco, ma anche sul mercato di eventuali sequel e riutilizzi dell’IP. In questo caso, una mod non può essere considerata fair use, in quanto sviluppa idee che invadono lo spazio di un eventuale riutilizzo del materiale coperto da copyright (Wallace, 2014). Tuttavia, si può argomentare che una mod, in quanto necessita del gioco originale per funzionare, non possa rubare spazio sul mercato al prodotto originale, agendo, ad esempio, da sostituto (Spare the Mod, 2012; Baldrica, 2008; Postigo, 2010). Inoltre, come abbiamo visto, i benefici derivanti dalle mod possono avvantaggiare anche le aziende, potenzialmente allargando il mercato. In definitiva, l’invocazione del fair use per una mod riguarda soltanto quei casi in cui una corte è chiamata a giudicare una potenziale infrazione della licenza d’uso di un gioco. Il problema non sussiste se nella licenza la proprietà delle mod e dei contenuti creati dagli utenti è già specificata (Spare the Mod, 2012). Inoltre, le aziende, anche se non specificano le disposizioni nella licenza d’uso, potrebbero essere più interessate a incoraggiare l’attività della community che a proteggere le proprietà intellettuali, e quindi possono adottare una politica di laissez-faire nei confronti degli utenti, anche se, di fronte alla legge, i loro contenuti potrebbero essere facilmente dichiarati illeciti in quanto derivative works (Wallace, 2014).

4.2.1.2 La ownership delle mod

Abbiamo visto come si relazionano le mod alle leggi sul copyright. Tuttavia, all’interno delle community, in cui non vigono leggi che proteggono gli autori, come ci si comporta verso la proprietà delle mod? In altre parole, qual è l’atteggiamento nei confronti dell’owner della mod? Kow e Nardi (2010) definiscono come, all’interno della community di utenti, si riconosca un senso di ownership dei contenuti: il creatore della mod ne è anche il possessore, anche se tale diritto non è regolato da leggi o contratti (Kow & Nard, 2010; Kawashima, 2013; Joseph, 2018). Questa ownership sulle mod si inserisce in un sistema etico di collective work, in cui il lavoro e volontario e sregolato: un modder può

125 abbandonare lo sviluppo di una mod per qualsiasi motivo, a meno che la mod non stia venendo finanziata attraverso delle piattaforme (come Kickstarter o Patreon). Inoltre, se un modder abbandona un progetto, la ownership può passare ad altri utenti che si offrono di portare avanti quel progetto, mantenendo viva l’innovazione (Kow & Nardi, 2010; Shivonen, 2011). La proprietà individuale di una mod incoraggia gli utenti ad assumere decisioni strategiche autonomamente, riguardanti la qualità della mod e i tempi di sviluppo (Kow & Nardi, 2010). Poiché i modder devono essere imprenditoriali per far sì che le proprie creazioni abbiano successo, è nel loro interesse garantire mod di qualità e mantenerle aggiornate (Hong, 2013). Inoltre, i modder possono appoggiarsi alla community, cercando collaboratori per portare avanti il lavoro o migliorare la qualità di una mod, oppure “eredi” che ne raccolgano il progetto nel caso in cui lo sviluppo si fermasse (Kow & Nardi, 2010). Ciò segnala una supremazia della creatività e del lavoro volontario rispetto alle logiche di proprietà, quantomeno nel mondo ristretto dei modder: infatti, al di fuori della community, tale ownership spesso non è riconosciuta dalla maggior parte degli utenti, a cui interessa soltanto la qualità dell’esperienza di gioco. Si può anche vedere come, nel mondo dei modder, la proprietà sia un ostacolo all’espressività e alla creatività, in quanto intralcia il lavoro della community e la cultura partecipativa (Joseph, 2018). Tale ownership sulle mod può essere riconosciuta dalle aziende in diversi modi, oppure può essere negata. Il riconoscimento della proprietà su un contenuto genera allineamento positivo rispetto ai creatori e alla community, che vedranno riconosciute le loro capacità e il loro potenziale creativo, e saranno spinti alla creazione di ulteriore contenuto (Kow & Nardi, 2010; Postigo, 2008; Sotamaa, 2007). Al contrario, una negazione della ownership causerà un disallineamento tra l’azienda e i suoi utenti, che saranno meno incentivati a produrre, se sanno che c’è il rischio di incorrere in sanzioni legali.

4.2.2 La strategia aziendale

Come abbiamo visto, l’azienda ha diversi modi per difendersi dall’uso improprio dei prodotti pubblicati. Tuttavia, come abbiamo visto nel Capitolo 2, più l’azienda estende e rafforza il controllo sui contenuti creati dagli utenti, meno può sfruttare i benefici e le esternalità derivanti dall’azione degli user network (Postigo, 2008; Kawashima, 2010; Kushner, 2006). Quindi, all’entrata sul mercato, l’azienda si trova di fronte ad una scelta, che può declinarsi in soluzioni diverse, con effetti diversi sulla community:

126  l’azienda può controllare completamente le proprie IP, ricorrendo alle leggi sul copyright per scoraggiare le azioni degli utenti sui suoi prodotti e la creazione di mod e add-on (Kawashima, 2010; Postigo, 2010). In questo caso, è difficile che si crei una community interessata allo sviluppo di mod, e tutti i processi di innovazione e produzione restano fermamente in mano all’azienda. È il caso di quasi tutti i giochi per console e mobile games, e anche di molti giochi blockbuster per il personal computer, dove il mantenimento dell’IP è più importante della creatività e dell’innovazione;  l’azienda può utilizzare l’EULA o altre licenze per garantirsi la proprietà su tutti i contenuti creati dagli utenti. In questo caso, anche se l’azienda rilascia un toolkit o degli strumenti per il modding, la proprietà di tutti i contenuti ritorna sempre all’azienda (Shivonen, 2011; Kow & Nardi, 2010). In questi casi, l’azienda deve saper bilanciare molto bene la protezione dell’IP con l’incoraggiamento della community, per non creare disallineamenti di aspettative. È il caso della Blizzard con World of Warcraft, che ha concesso gli strumenti alla community per lo sviluppo di add-on per il gioco, mantenendone però il controllo, avendo così la possibilità di inserire alcuni add-on nel gioco ufficiale, tramite le patch. In questi casi, come evidenziato da Davidici-Nora (2014) e Kow e Nardi (2010), la Blizzard ha però disatteso la propria fanbase, non tanto per l’inclusione delle loro creazioni nel gioco originale, operazione vista come un riconoscimento della qualità e delle capacità del modder, ma piuttosto per aver vietato la pubblicità e i solleciti alle donazioni collegati alla distribuzione degli add-on. Ciò è stato visto dagli utenti come un disinteresse nei confronti della community, e molti hanno abbandonato l’attività della creazione di add-on in quanto non riuscivano più a sostenerlo come lavoro (Kow & Nardi, 2010);  l’azienda può decidere di basare una buona parte della proposizione di valore sulla creazione di contenuto da parte degli utenti. È il caso di quei giochi, come The Sims o Minecraft, in cui il valore del gioco sta nell’interazione tra gli utenti e gli sviluppatori, e il gameplay è focalizzato sulla creazione di contenuti originali (Shivonen, 2011). Anche qui, l’azienda può decidere di lasciare maggiore o minore libertà agli utenti, aprendo o chiudendo il prodotto a seconda dei casi;  l’azienda può lasciare completa libertà agli utenti, escludendosi dalla proprietà dei contenuti originali e delle mod. È il caso della Valve e della Bethesda, che hanno

127 scommesso sulla creatività dei propri utenti rilasciando toolkit e altri strumenti per i propri giochi senza tentare di forzare i propri diritti sulla community. La scelta si è dimostrata vincente: Skyrim, anche grazie al supporto fornito da Valve tramite lo Steam Workshop per la distribuzione e l’aggregazione delle mod, è il gioco più moddato di sempre, con una produzione che non accenna a fermarsi a 10 anni dal rilascio dell’IP (Joseph, 2018; Postigo, 2007). Tuttavia, anche in questo caso, l’azienda deve fare attenzione, in quanto, una volta concessa autonomia ai consumatori, non è così facile riassumerne il controllo: ne è un esempio il caso delle paid mod nello Steam Workshop, che ha causato un generale malcontento nella community (Joseph, 2018). La proposta di Valve, di rendere le mod più meritevoli per Skyrim a pagamento, ha spezzato la fanbase, che si è sentita defraudata della propria libertà e della propria libertà espressiva. La stessa “dispossessione” dei contenuti (Joseph, 2018), con le stesse reazioni, avviene in quelle piattaforme di social network, come YouTube e Twitch, in cui le aziende lasciano un’iniziale libertà agli utenti, per poi rafforzare il controllo una volta che il profitto della piattaforma si è stabilizzato (Joseph, 2018; Küklich, 2005).

128 CONCLUSIONI

Per concludere il discorso sviluppato in questa tesi, citiamo un caso molto recente che ha coinvolto l’industria videoludica e ha riguardato da vicino il mondo del modding. Nel gennaio 2020, la Activision Blizzard ha rilasciato Warcraft III Reforged, un remake del suo classico videogioco Warcraft III del 2001, da cui, come abbiamo visto in questa tesi, è derivata una grande mole di mod e prodotti fan-made. Da queste mod è nato uno dei generi più apprezzati e giocati negli ultimi anni, il genere MOBA. Tuttavia, il lancio di Reforged ha suscitato numerose polemiche tra gli appassionati del gioco e del genere: in molti hanno criticato i numerosi bug, la mancanza di molte delle features originali del gioco, soprattutto riguardanti il multiplayer, e, in generale, la disattesa di molte promesse che la Activision Blizzard aveva fatto ai fan in fase di sviluppo (Brown, 2020; Deppe, 2020). La reazione della community è stata principalmente negativa di fronte ad un gioco che molti ritengono fatto uscire troppo presto, senza che fosse effettivamente finito (Kain, 2020). In molti hanno chiesto un rimborso del gioco, e una cattiva gestione dei forum e delle risposte degli utenti ha causato ancora più astio nei confronti della casa di sviluppo. Oltre alle modifiche grafiche, Activision Blizzard ha ritenuto opportuno ritoccare anche 17 l’EULA16F del gioco, garantendosi la proprietà esclusiva su tutto il contenuto creato dagli utenti tramite il software, inclusi “titles, computer code, themes, objects, characters, character names, stories, dialog, catch phrases, locations, concepts, artwork, animations, sounds, musical compositions, audio-visual effects, methods of operation, moral rights” (Warcraft III EULA). Tutte le mod e le mappe create dagli utenti utilizzando gli asset del gioco, quindi, sono di proprietà esclusiva dell’Activision Blizzard (Wilde, 2020). La licenza è quindi passata da un modello non-esclusivo ad un modello esclusivo. Inoltre, l’EULA vieta espressamente l’uso di contenuto di terze parti nelle mod. Il significato di questa decisione va ricercato forse nella volontà di Blizzard di non ripetere la vicenda DotA, in cui i diritti dell’omonima mod creata a partire da Warcraft III sono stati comprati da Valve nel 2012 e utilizzati per produrre DotA II (Wilde, 2020). Blizzard non è nuova a questo tipo di cambiamenti, avendo fatto lo stesso con Starcraft II nel 2013 (Starcraft II EULA). Tuttavia, si tratta di un notevole cambiamento rispetto

17 End-User License Agreement

129 all’ambiente fan-friendly a cui la community si era abituata. Come abbiamo visto, un ambiente legale permissivo incoraggia la creazione di mod e contenuto, e questo, a sua volta, può incrementare l’attrattività e la diffusione del gioco. Per 20 anni, ormai, i fan di Warcraft III hanno goduto di una notevole libertà, e questo ha contribuito a mantenere l’attività della community attorno ad esso viva e produttiva. Alla luce di quanto visto finora in questa tesi, la mossa di Activision Blizzard non può che far pensare ad una regressione, da un modello di business aperto, capace di inglobare l’attività dei consumatori al suo interno, ad un modello chiuso in cui la casa di sviluppo è l’unico agente attivo nella catena. Questa tesi ha voluto esaminare il fenomeno del modding nelle sue diverse ramificazioni e l’impatto che ha avuto e che continua ad avere sull’industria videoludica. Tale ricerca non pretende di essere esaustiva, e rimangono molte aree da esplorare più a fondo. Soprattutto, un’analisi caso per caso dell’applicazione delle politiche aziendali per la gestione del contenuto creato dagli utenti può costituire un ampliamento della ricerca. Inoltre, l’emergenza di nuovi mercati e l’espansione del mercato mobile pongono nuove sfide alla gestione della creatività dei consumatori. Un altro aspetto degno di essere analizzati riguarda la pratica del modding in quanto appropriazione culturale, identitaria ed artistica del medium videogioco. Come abbiamo visto, c’è ancora molta strada da fare prima che l’interazione tra il consumatore e l’azienda raggiunga un’implementazione e una regolamentazione veramente efficace, ma l’industria videoludica si trova in una posizione privilegiata rispetto ad altre industrie: il modding è una pratica unica nel suo genere, ad oggi inapplicabile ad altri settori dell’intrattenimento. Come tale, può essere considerato un banco di prova per l’implementazione dei processi di co-creazione all’interno dei modelli economici vigenti. Le industrie creative dovrebbero guardare ai videogiochi come esempio di modernizzazione del modello di business classico nell’era del Web 2.0.

130 BIBLIOGRAFIA

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152 INDICE DELLE FIGURE

Figura 1 – Ricavato dalla vendita digitale di videogiochi nel 2018 (SuperData, 2018)... 8 Figura 2 – I paesi con il ricavato maggiore in dollari per il mercato videoludico (NewZoo, 2018) ...... 10 Figura 3 – Ricavato globale diviso per aree geografiche (NewZoo, 2018) ...... 12 Figura 4 – La dimensione del mercato PC (Video Gaming Africa, 2017) ...... 14 Figura 5 – World of Warcraft senza add-on (sopra) e con add-on attive (sotto) (WoW Interface, 2019) ...... 25 Figura 6 – Comparazione tra il prima e il dopo nella mod Enhanced Lights and FX per Skyrim, sviluppata per migliorare la luce ambientale dall’utente anamorfus nel 2012 (NexusMods, 2020) ...... 27 Figura 7 – L’ambiziosa mod Enderal per Skyrim, che mira a creare un intero nuovo mondo partendo dall’engine originale. Sviluppata dal team SureAI e rilasciata nel 2016 (NexusMods, 2020) ...... 28 Figura 8 – Dati del sito Nexus Mods riguardanti il numero di downolads e di utenti registrati tra il 2015 e il 2019...... 36 Figura 9 – La costruzione del mercato secondo il modello P2P (Davidici-Nora, 2013) 51 Figura 10 – La costruzione del mercato secondo il modello F2P (Davidici-Nora, 2014) ...... 56 Figura 11 - Il value network dell’industria videoludica (Elaborazione personale) ...... 66 Figura 12 – Il value network comprendente l’attività dei consumatori (Elaborazione personale) ...... 69 Figura 13 – Rappresentazione semplificata del modello platform (Newton, 2017)...... 79 Figura 14 – I quattro processi della core transaction (Moazed, 2016) ...... 80 Figura 15 – La tassonomia di Bartle (1996) ...... 86 Figura 16 – Tassonomia della gaming community (Burger-Helmchen & Cohendet, 2011) ...... 88 Figura 17 – Tassonomia dei modder (Elaborazione personale) ...... 96 Figura 18 – Alcune motivazioni dei modder (Poor, 2014) ...... 98 Figura 19 – Modello di catena del valore del produsage (Bruns, 2010) ...... 104

153 INDICE DELLE TABELLE

Tabella 1 – I quattro modelli di business dell’industria videoludica (Locke & Urhínová, 2017) ...... 50 Tabella 2 - La value chain tradizionale e le attività primarie dei diversi attori (Elaborazione personale) ...... 60 Tabella 3 – La value chain moderna, con le attività primarie dei diversi attori (Elaborazione personale) ...... 65 Tabella 4 – Il valore per i consumatori (Holbrook, 1999) ...... 100

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