PREFAZIONE

Per conoscere meglio questa Storia a noi vicina, ma soprattutto per vivere la storia con gli occhi di chi l’ha vissuta e di chi l’ha fatta, oggi vi proponiamo un importante selezione di brani scritti e curati dal nostro socio e concittadino Emilio Luigi Parlato. Attraverso queste pagine prende vita la “sua” storia; una storia che insinuandosi tra Storia e microstoria percorre un lasso temporale che va dai primi del Novecento sino agli anni Settanta e percorre distanze geografiche che vanno dall’allora Libia Italiana alla nostra Castrofilippo, offrendoci uno spaccato di vita vissuta, i ricordi, le sensazioni e le emozioni proprie di chi la storia non solo la studia… ma la vive e l’ha vissuta giorno per giorno, l’ha visto scorrere davanti a se ed è stato egli stesso artefice della storia che oggi leggiamo sui libri di scuola. Il nostro grazie a quanti come il signor Parlato sono stati “artefici” del nostro presente e della nostra contem- poraneità, consegnandoci un’Italia Libera e Democra- tica, ed un grande invito alla lettura a tutti voi… Grazie!.

Giovanni Rizzo Presidente Pro Loco Castrofilippo

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4 INTRODUZIONE

Questi brevi racconti sono le pagine della mia vita di bambino, giovane e uomo maturo. Sono passati tan- ti anni, la memo- ria e l’oblio possono aver trasformato qualche dettaglio ma l’essenziale è nella sua autenticità. Un ringraziamento particolare lo devo a mia figlia, Lina, senza la quale questo libro non avrebbe avuto modo di esistere. In queste pagine mi accompagna sempre la cara presenza della mia Concettina, che rivedo come la visione di un film, fedele compagna di tutte le mie vicissitudini. Se fosse ancora presente, il mio racconto sarebbe stato più ricco, grazie ai suoi suggerimenti, ma Lei, purtroppo, non c’è più. Per questo Le dedico queste pagine in perenne ricordo.

Emilio Luigi Parlato

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EMILIO LUIGI PARLATO

DIARIO Ricordi di

La mia vita in un racconto

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8 CAPITOLO I

Ricordi di Libia e della Centrale di Gharian

Il bisonte di Gharian

Mi chiamo Emilio Luigi Parlato, sono nato a Tripoli il 14 maggio 1923 e al momento di lasciarla abitavo in Via Raffaello 31. Vi accenno ad una piccola parte della mia vita a Tripoli e parte della mia infanzia. Dal settembre del 1929 ho frequentato la prima elementare dai Fratelli Cristiani, in via Roma, scuola che prima di me avevano frequentato i miei fratelli Carmelo, nato il 1920 e che poi ha vissuto a Latina, e Vincenzo, nato il 1914, che ora vive vispo e arzillo a Grosseto, assistito dalla figlia. Poi sono passato alla scuola Roma in Via Lazio, lì ho avuto dei bravi insegnanti, il maestro Mario Villani e Piazza. Finite le elementari, sono passato all’istituto magistrale G. Pascoli, di cui ricordo il prof. Contino di Italiano, Latino, Storia e Geografia. Intanto mio padre Antonio andava avanti con la vita lavorativa, aprendo al porto un bar che andava a gonfie vele, ma dal 10 Giugno 1940 con l’entrata in guerra dell’Italia, tutto è peggiorato.

9 Il 21 Aprile 1941 il bombardamento aereo-navale colpì la città e il porto, loro obiettivo prelibato, e dopo pochi giorni le navi BIRMANIA e CITTA’ di BARI, ancorate al pontile “24 gennaio”, cariche di armi e bombe, furono colpite in pieno giorno dagli aerei inglesi. Il BIRMANIA, con lo scoppio delle bombe che conteneva, si spezzò in due e parti di esso volarono anche sulla banchina, distruggendo tutto ciò che vi era intorno, schiacciando persino la gente che cercava rifugio. Quel mattino di inferno mio padre, mio cognato Poma Giuseppe, Gennarino, il cameriere ed io eravamo al lavoro al bar, come al solito e ci siamo salvati per miracolo. Ma questo è stato l’ultimo giorno, poiché il nostro bar era stato distrutto, e noi quattro, che eravamo lì presenti, osser- vammo quelle distruzioni, increduli, ancora tremanti, ma vivi grazie a Dio, con solo qualche superficiale ferita. Alla fine della guerra, in Africa, gli Inglesi governavano a Tripoli, ho trovato lavoro al P.W.D. che aveva le sue officine in Sciara El Seidi e ci sono stato per più di dieci anni. Noi avevamo il compito e la responsabilità di far funzionare bene tutte le centrali elettriche della Tripolitania, come quelle di Zuara, Gharian, Iefren, Giado, Nalut, Beni Ualid, Misurata ecc. A capo del P.W.D. vi era un maggiore inglese che aveva il suo ufficio al palazzo del Governo, al principio di Corso Sicilia. Mentre osservatore sempre vicino a noi c’era il sergente Staff Watson. Il capo officina era Vittorio

10 Malinconico, una persona veramente esperta del ramo. Lo Staff Watson si limitava al controllo di tutto, era Malinconico che dirigeva i lavori e, con il passare del tempo, mi affidava lavori di grande responsabilità. Un giorno mi affidò un lavoro da eseguire nella centrale elettrica di Gharian, si trattava di fare il ripasso generale ad un grosso motore, il LANGHEN WOLF, da noi conosciuto come “ Il Bisonte” per le sue grandi dimensioni. Dato che questo era un lavoro molto lungo, io e il collaboratore che avevo scelto, Trovato Isidoro, abbiamo avuto il permesso di portare anche le famiglie, più il mio fedele aiutante Baschir, nativo di Socna (HON). Per lui indossare il camice di meccanico era un vanto, una conquista. (Faccio i nomi, sperando che qualcuno di loro possa riconoscersi ed avere il piacere di risentirci). Mi erano state concesse per la prima volta cose che ad altri non lo erano state, non avevo più nulla da chiedere. Nel giorno della partenza, con due macchi- ne, lasciammo Tripoli uscendo da porta EL Azizia, passando per Azizia superandola, e dopo avere affron- tato il ciglione arrivammo a Gharian ad un’altezza di settecento metri. Siamo stati accolti con molta gentilezza ,anche per rispetto delle nostre famiglie, sia da Rotolo, il capo centrale, che dal personale, tre italiani e tre libici. Non sto a descrivere i sacrifici che abbiamo dovuto affrontare, io, Trovato e Baschir per arrivare al comple- tamento dell’opera, per la rimessa a nuovo del motore

11 LANGHEN WOLF, e fare un lavoro con attenzione e onestà, anche verso Rotolo e i suoi operai. Il lavoro a Gharian era durato cinquanta giorni, ma ora doveva essere collaudato dal superiore di Tripoli.

12 Il collaudo

L’indomani sono arrivate due macchine, in quella da carico vi erano due bombole di aria di riserva, in caso fallisse il primo avviamento. Nella jeep vi erano Malinconico, il sergente Staff Watson e il Maggiore in persona. Appena li ho visti ho detto fra me: “Oh Madonna mia, fa’ che tutto vada bene!” L’ora X stava per scoccare, ma ormai non era più compito mio. L’ operatore di turno fa girare il motore con una grossa leva, portandolo al punto giusto di partenza, si mette ai volantini delle bombole d’aria, io ero accanto a lui, mi fece un sorriso di incoraggiamento e aprì le valvole dell’aria. Il motore cominciò a roteare, la grande e pesante ruota del volano girava e i tre pistoni, uno alla volta, ricevevano a turno lo sbuffo d’aria che faceva vincere il punto morto agli altri due. L’operatore, muovendo delle apposite leve, fece partire il motore, la sua grossa marmitta sistemata fuori, riprese il suo rumore abituale, che da un po’ di tempo non si sentiva più. Io e Malinconico non siamo rimasti solo ad osservare, ma dopo la messa in moto, eravamo attorno al motore, toccandolo in tutte le sue parti per sentirne il calore, come si fa con un malato che si alza dopo una lunga

13 degenza in ospedale; eravamo pronti, lì, ad assisterlo nei suoi primi passi o giri di motore. Dopo che ci tranquillizzammo, Malinconico sparì e tornò con una bottiglia di spumante, che svuotammo, brindando tutti insieme, comprese le nostre famiglie. Ricevetti una stretta di mano dal Maggiore e dallo Staff Watson, da Malinconico, invece, soltanto una pacca sulle spalle che valeva molto di più. Non ho avuto premi speciali in denaro, ma il rispetto e la richiesta della mia opera per altri guasti successivi e per altri lavori importanti. La sera facemmo la prova di carico, fornendo corrente a tutta Gharian con il motore LANGHEN WOLF che seppe sopportare il peso. L’indomani abbiamo caricato persone e bagagli per tornare, non senza rimpianti, a Tripoli salutati dai dipendenti e dalle loro famiglie; con noi, erano stati gentili. Mi scuso se non ho citato i nomi dei tre operatori italiani e dei tre libici, non è stato per negligenza, ma questi nomi li ho proprio dimenticati. Di questo ne ha colpa oggi solo la mia memoria. Se loro o chi per loro leggeranno quanto da me narrato, spero si ricorderanno di me. Ho diverse foto che ci ritraggono insieme durante la permanenza a Gharian, dove eravamo tutti ancora giovani e forti.

14 CAPITOLO II

Da Tripoli a Hon orizzontarsi nel deserto

Bashir

Anche questo è un mio ricordo, si tratta di un altro viaggio di lavoro, quando ero ancora al P.V.D., ma questa volta si trattava di arrivare ad Hon, distante dalla capitale 650 chilometri, di cui 450 in pieno deserto, per recuperare dei motori che ad Hon non servivano. Avremmo dovuto partire con tre macchine, capeggiate, la prima da due responsabili inglesi con l’autista arabo, nella seconda dovevo esserci io con il secondo autista arabo e nella terza il collega di lavoro, Del Cuoco, con il terzo autista arabo. Il mio aiutante Bashir, nativo di Socna, località a pochissimi chilometri da Hon, non era stato messo in lista per poter venire, ci è rimasto molto male e mi ha pregato affinchè venisse con noi. Io ne ho parlato con il solito caro Malinconico, sempre pronto ad ascoltarci, dicendo che Bashir, essendo del luogo, poteva esserci utile. Per mezzo suo Bashir è entrato nella lista. Saggia decisione, perché poi ci è tornato utile. Dietro suo consiglio, abbiamo portato della roba, che lì non avremmo potuto trovare, come pasta e pane

15 in abbondanza, il primus per la cottura dei cibi e alcune pentole. Dovevamo stare circa 15 giorni.

16 Viaggio a Hon

Le macchine sono state caricate, oltre agli attrezzi di lavoro e la nostra roba, anche di due fusti di 200 litri di acqua per bere e per i radiatori delle macchine e bidoni di benzina di scorta; legate ai laterali le lamiere bucate da usare in caso di insabbiamento insieme alle pale per spalare la sabbia. Hon è una località della Tripolitania , che confina con il Fezzan; la sua oasi, ricca d’acqua e di 40.000 palme da dattero, contava 3.500 abitanti. Siamo partiti, capi colonna gli inglesi, in seconda posizione io e in terza Del Cuoco. Questo era l’ordine di marcia, non erano permessi prove di velocità o sorpassi, e questo è rimasto fino ad un certo punto. Consci del percorso e delle difficoltà che ci attendevano, perché avevamo studiato tutto a tavolino, abbiamo percorso la litoranea che va verso la Cirenaica e sorpassati Homs, Leptis Magna, Zliten e Misurata, lasciamo la litoranea e prendiamo la strada che va verso sud, all’interno, superando el Gheddahia; in serata e prima che facesse buio, siamo arrivati a Bu Ngem, dove abbiamo pernottato, passando la nostra prima notte in pieno deserto. Gli inglesi avevano fissato l’ora della partenza per la tarda mattinata, ma i libici, che di deserto ne capivano sicuramente più di noi, hanno

17 consigliato di partire appena faceva giorno; infine gli inglesi si sono arresi, avevano capito che bisognava viaggiare nelle ore più fresche e anche perché tra Bu Ngem e Hon non c’ era nessuna altra località, ma solo sabbia e bisognava arrivare prima di sera, per non restare isolati di notte. I tendoni di copertura delle macchine sono stati arrotolati in alto, in modo da lasciare circolare l’ aria in tutta la macchina, mentre il sole faceva il suo lavoro in quella zona desertica, portando la temperatura in alto. Abbiamo dovuto ricorrere più volte ai fusti d’ acqua, sia per noi che per i radiatori che bollivano e mettere stracci bagnati sulle pompe ACI della benzina, che con il calore si bloccavano, facendo fermare il motore. Noi approfittavamo di queste continue fermate per mettere qualcosa sotto i denti e rinfrescarci il viso. Ma sono arrivate anche le dune di sabbia, che con i loro spostamenti avevano invaso quel poco di pista carrabile che si poteva vedere. Alt! La macchina di testa si è fermata e subito dopo anche noi . L’inglese, con la bussola in mano ci indicava quale, secondo lui, era la direzione da seguire, ma questa era sbarrata dalla sabbia, che vi si era stabilita. Uno degli autisti, e precisamente il mio, non era d’accordo a seguire quella direzione, ne indicava un’altra, ma avremmo dovuto superare qualche montagnola di sabbia e lui era sicuro che subito dopo,

18 avremmo trovato nuovamente la pista che avevamo perso. Continuava a spiegare che era pratico del deserto, prendeva manate di sabbia e le buttava in aria e ci faceva vedere il vento dove le portava, per far capire che, se avessimo continuato per la direzione della bussola, ci saremmo insabbiati, e indicava l’ altra direzione. L’ inglese cominciò ad innervosirsi e a dire parolacce nella sua lingua, una di queste era “fuck you”. L’ arabo, che aveva ricevuto quelle parole anche a Tripoli e ci era abituato, lì, in pieno deserto dove si sentiva a casa, non le tollerò affatto e prendendo l’ inglese per il bavero, gli ricambiò la parolaccia. Noi, preoccupati per la piega che aveva preso l’ accesa discussione, cercavamo di dividerli. I due inglesi, si sono guardati e, forse perché si sono visti in minoranza, hanno aderito, anche se a malincuore, a quello che diceva l’ autista e tutti insieme abbiamo seguito le sue indicazioni. Si è molto lavorato, spostando una avanti all’ altra le lamiere che ci permettevano di fare avanzare le macchine poco alla volta; tutti abbiamo lavorato, anche gli inglesi, non erano superiori, si guardava solo alla sopravvivenza. Abbiamo superato la parte più morbida della sabbia che si era spostata col vento e abbiamo trovato quella più dura, più solida, che ci ha permesso di arrivare alla pista, senza più l’aiuto delle lamiere, che abbiamo sistemato dentro le macchine. Qui, fermi ormai

19 sul duro, vedevamo la soddisfazione dell’autista arabo, e la mortificazione dell’ inglese. Quest’ ultimo, ha fatto un gesto veramente nobile, che non ci aspettavamo; è andato verso l’arabo e gli ha stretto la mano, ammettendo la sua superiorità in tema di deserto; abbiamo applaudito. Non contento di questo, l’ inglese disse: “OK, ora il capo colonna sei tu, vai avanti”. Così abbiamo proseguito il viaggio, con la mia macchina in testa, senza più intoppi e senza difficoltà, sotto il sole cocente. All’imbrunire siamo arrivati ad Hon, esausti, ma trovando degli alloggi abbastanza decenti. Ci siamo divisi in settori di nazionalità, in uno gli inglesi, in un altro gli italiani e nell’altro gli arabi. Bashir, il mio aiutante, non ha fatto parte del gruppo degli arabi perché la stessa sera è andato a Socna, distante qualche chilometro, dove abitava la sua famiglia; andava la sera e tornava la mattina per il lavoro.

20 Permanenza a Hon

A causa del forte caldo, il primo giorno di lavoro è andato male, per i giorni successivi ci siamo organizzati, cominciando prestissimo e sospendendo nelle ore più calde. Ero abituato al caldo di Tripoli, ma quello di Hon era terribile. Anche gli stessi arabi del luogo, sparivano ad un certo orario e poi ricomparivano. Le serate le passavamo scambiandoci le visite, è capitato che una volta gli inglesi sono arrivati mentre stavamo cucinando, forse spinti dal profumino che si sentiva e sono rimasti a mangiare da noi. Abbiamo fatto una spaghettata, l’ abbiamo condita con un sughetto che era la fine del mondo, roba da leccarsi i baffi. Gli inglesi l’ hanno ben gradita e ci hanno invitato per la sera seguente. Anche da loro si è mangiato bene, non ho gradito solo l’ abitudine di bere latte a tavola. Bashir non ha voluto essere da meno e ci ha invitati a mangiare il cuscus a casa sua, a Socna, dove siamo stati accolti molto bene. Io non so cosa Bashir avesse raccontato di me alla sua famiglia, un fatto era certo, suo padre si era messo al mio fianco, e non finiva più di domandarmi di suo figlio, chiedendomi come si comportava, cosa faceva, orgoglioso di quel figlio, che indossava il camice da meccanico.

21 Arrivato il momento del pranzo, siamo stati invitati, dopo aver tolto le scarpe, ad entrare in una stanza dove c’era una grande stuoia, sulla quale ci siamo seduti incrociando le gambe. Al mio fianco c’era sempre il padre di Bashir, che mi invitava a mangiare, quasi volesse imboccarmi. Eravamo tre razze, seduti allo stesso desco e questa fratellanza era molto bella. Ad un tratto alle nostre narici è arrivato un odore meraviglioso, che si sprigionava dalle pietanze. Noi europei siamo stati serviti nei piatti, gli arabi hanno mangiato tutti insieme, prendendo il cibo con le mani da una grande conca di legno, da dove ognuno seguiva la sua direzione, andando verso il centro, senza sconfinare nella parte dell’ altro. La mamma di Bashir è comparsa per servirci il pranzo, ma non si è seduta con noi. Il cibo era piccantissimo e ogni tanto dovevo fermarmi per respirare e bere sorsi d’acqua. Poi è arrivato il rito del thè, preparato usando foglie essiccate con una operazione molto lunga, inframmezzata da chiacchiere e racconti. Si usano diverse caffettiere, dalla prima esce il primo thè, che ha un gusto aspro e fortissimo. Nella seconda caffettiera si mettono a bollire le foglie già sfruttate ottenendo un thè meno forte e più leggero. Poi si passa alla terza caffettiera dalla quale fuoriesce un thè leggerissimo al quale si aggiungono un po’ di noccioline. Questo era il thè che preferivo a Tripoli; quando in

22 officina interrompevamo il lavoro per fare il thè, anche se pagavo la mia parte per intero, prendevo sempre il terzo bicchierino con le noccioline. Nel pomeriggio Bashir ci ha fatto visitare Socna, un centro più importante di Hon, che contava 1.500 abitanti, appartenenti all’oasi di Giofra che era stata il capoluogo prima di Hon. Era situata su una piccola altura, in una conca ricca d’acqua e di palmeti con numerosi pozzi, molto caratteristici, costruiti con uno scivolo del terreno in pendenza che facilitava e rendeva meno faticoso il lavoro dell’animale addetto al sollevamento. Nei giorni successivi abbiamo lavorato alacremente, anche perché i nostri viveri si assottigliavano sempre più ed eravamo arrivati a cibarci di pane duro ammollato con l’acqua e uova che si trovavano in abbondanza, anche se nell’aprirli, dovevamo stare attenti alla loro freschezza, molto in forse, dato il caldo. Quando il lavoro fu terminato, abbiamo caricato la nostra roba, per partire la mattina dopo all’alba, pregustando la gioia del ritorno.

23 Ritorno a casa

Questa volta, durante il viaggio, non ci sono state difficoltà, la pista era quasi sgombra e siamo arrivati la sera, per il pernottamento a Bu Ngem, dove avevamo fatto la prima tappa all’andata e dove c‘era una piccola oasi e i resti di un vecchio fortino dei Romani. La mattina dopo siamo ripartiti, e dopo un centinaio di chilometri, superando el Gheddahia, abbiamo puntato su Misurata, distante altri 130 chilometri; ormai si sentiva già l’odore del mare. Finalmente ecco Misurata, città di circa 5.000 abitanti, con una fiorente industria di tappeti e un popolato quartiere di italiani. Ormai, arrivare a Tripoli era una passeggiata, la litoranea era tutta asfaltata e si poteva viaggiare senza sbalzi. Passati Zliten e Homs, nel pomeriggio siamo arrivati, facendoci annunciare da colpi di clacson nei cortili del P.V.D., accolti con grande entusiasmo. Finalmente ero sulla strada di casa, avviandomi, pensavo che mia moglie e mia figlia avrebbero stentato a riconoscermi, tanto ero diventato nero. Invece, dopo un attimo di smarrimento, all’apertura della porta, sono stato accolto da entrambe come un eroe, il reduce che ritorna a casa dopo la guerra. Ritrovando gli affetti familiari, la nostra cucina e una comoda vasca da bagno colma d’acqua calda, le mie stanchezze sono passate e di quei giorni è rimasto

24 solo un bel ricordo, che permane ancora indelebile nella mia mente.

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Tripoli - Arco di Marco Aurelio

Tripoli - Cattedrale

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Tripoli – Fiera Internazionale

Tripoli - Moschea Sidi Beliman

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Tripoli - Palazzo del Governatore

Tripoli - Piazza Cattedrale

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Tripoli – Piazza Italia

Sciara Adriano Pelt – Lungomare

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Sciara Omar El Muktar (ex corso sicilia)

Tripoli veduta dal mare

30 CAPITOLO III

Ricordi e Peripezie di un Tripolino

Fuga da Tripoli

Il presente racconto va inserito subito dopo lo scoppio delle navi Birmania e Città di Bari, che hanno distrutto, al porto, nel 1941 il bar di proprietà della mia famiglia. Io allora ero diciottenne; mio padre, già grande, a causa di quel bombardamento, è rimasto senza lavoro. Noi, stanchi di tutto quello che avevamo passato, volevamo allontanarci dalla guerra, che specialmente al porto era stata particolarmente dura. Dato che i miei genitori erano siciliani, scegliemmo la Sicilia come luogo tran- quillo, in cui la guerra non sarebbe arrivata, così credevamo. Lasciavamo Tripoli con dolore, anche perché una mia sorella si era sposata e voleva restare; due miei fratelli, uno del 14 e uno del 20, erano sotto le armi e combattevano sui fronti libici. Prefettura e Questura ci fornirono tutti i documenti necessari e il 15 ottobre del 1941 fummo pronti a partire. I nostri familiari, restanti, ci accompagnarono fino alla casa Littoria, nei pressi del

31 lungomare, e lì con dei pullman già pronti, siamo partiti per l’aeroporto di Castel Benito.

L’unico mezzo di trasporto disponibile era un aereo militare, un trimotore, Bianchi SM79, in nostra attesa, da poco arrivato portando dall’Italia soldati e riforni- menti. Salimmo con un gruppo formato tutto da donne e bambini; gli unici uomini eravamo mio padre, poco più che cinquantenne ed io diciottenne. L’equipaggio era formato dal pilota e da un aviere che fungeva da mitragliere. Le mitraglie erano tre, una al centro, che fuoriusciva dalla torretta ed era azionata dall’aviere che, seduto su un sediolo rotante, poteva sparare in tutte le direzioni; le altre due erano posizionate nei due fianchi. Quando l’aviere capì che l’unico uomo disponibile a sparare ero io, cominciò in fretta e furia ad istruirmi sul funzionamento dell’arma in caso di necessità,

32 raccomandandomi di non sparare verso la coda dell’aereo, né verso l’ala, ma solo in linea diritta, al resto avrebbe pensato lui. Il mio battesimo di volo è avvenuto così, in una situazione drammatica. Lasciando la terra ferma, avevamo davanti solo mare e cielo; all’altezza di , base inglese, il pilota fece segno all’aviere di stare all’erta, e lui si piazzò alla mitraglia centrale, assegnandomi quella di destra. Eravamo tutti paralizzati dal terrore, le donne pregavano e io, con l’arma in mano, cercavo di bucare le nuvole con gli occhi alla ricerca del nemico. Per fortuna, quel momento interminabile passò senza incidenti e guar- dando giù ecco improvvisamente la Sicilia, che vedevo per la prima volta, non piatta come l’Africa, ma con le sue montagne, che io vedevo storte, dato che l’aereo stava virando per atterrare. Prima di toccare terra l’aviere rientrò le mitraglie, chiudendo gli sportelli; eravamo a Castelvetrano, ma prima di scendere, ringraziammo il pilota per la sua bravura ed io abbrac- ciai l’aviere, di cui mi consideravo un collega. Quei bravi ragazzi non li ho più visti, chissà che fine avranno fatto.

33 Arrivo in Sicilia

Era il 15 ottobre 1941. Scesi, ci siamo inginocchiati ed io ho baciato per la prima volta il suolo italiano, terra che osservavo con grande meraviglia, nel vederne il colore diverso da quello di Tripoli e nel toccarne la solidità diversa dalla sabbia. Negli uffici municipali di Castelvetrano, ci hanno registrato come profughi e accompagnati alla stazione sul treno per Agrigento. Anche questa esperienza è stata una novità, per il mezzo sul quale non avevo mai viaggiato e per il paesaggio che continuava a sorprendermi. Arrivati a Castrofilippo, siamo stati accolti dalla famiglia di mia mamma, che ci ha messo a disposizione una casa. Prima che finisse il 1941, mi impiegai al Comune, come responsabile dell’ufficio Anagrafe bestiame, in cui venivano registrati tutti gli animali da lavoro del paese e forniti di carta d’identità, che doveva essere mostrata, in un eventuale controllo da parte dei carabinieri, anche per strada. La mia competenza comprendeva anche la leva militare per i muli, che, quando occorreva, potevano essere requisiti dall’esercito. Quando era necessario, arrivava una commissione di ufficiali veterinari, per visitare i muli, che, se venivano dichiarati abili, poteva- no essere requisiti e utilizzati in guerra . La popolazione veniva avvisata dell’arrivo della commis- sione, alcuni giorni prima, da un banditore con un

34 tamburo. Questa requisizione era obbligatoria, nessuno poteva esimersi; anche se veniva pagata a prezzi stabiliti dal governo, il contadino veniva privato del suo mezzo di lavoro a cui era molto affezionato. A causa della guerra e quindi della mancanza di personale maschile, facevano parte del numero degli impiegati anche le donne. Una di queste faceva la dattilografa, si chiamava Concettina, e dato che esisteva una sola macchina da scrivere, tutti ci rivolgevamo a lei ed io in modo particolare.

35 Chiamata alle armi

Il sabato pomeriggio, detto sabato fascista, era desti- nato alle esercitazioni mili- tari, che avvenivano in un grande piazzale, dove noi giovani, in attesa della chiamata alle armi, ci addestravamo. Un giorno fui chiamato dal Federale, che mi propose di parte- cipare ad un corso a Roma per l’attestato di “Primo Cadetto”, che sarebbe durato un mese. Accettai con entusiasmo, desideroso di conoscere la Capitale e partii con altri “fortunati”. Alla stazione di Roma ci accolse un gerarca, che prima di accompa- gnarci al campo di Monte Mario, ci avvertì che lì dentro si faceva sul serio e che, se qualcuno voleva ritirarsi, era meglio lo facesse subito. Quel mese è stato sfiancante per la severità della disciplina e della ginnastica, ma anche per la mancanza di una adeguata alimentazione. Alla fine sono venuti alcuni osservatori dalla Germania, Giappone e Spagna ad ammirare la nostra sfilata a passo romano di parata. Tornato a casa, con l’attestato di “Primo Cadetto”, sono stato nominato istruttore premilitare e con me i giovani

36 hanno provato la vera ginnastica. A gennaio del 1943, fui chiamato alle armi e assegnato al 6° reggimento di fanteria della divisione Aosta, posta fra Palermo e Trapani, in difesa della costa nord-occidentale; in vista di un eventuale sbarco nemico, ci esercitavamo alle armi e ai combattimenti. Tutto ciò durò fino al 10 luglio 1943, data del vero sbarco, che avvenne invece nelle coste a sud dell’isola, lontano dalla nostra posizione. Quindi io non mi trovai subito ad affrontare il nemico appena sbarcato, ma la mia divisione si scontrò dopo pochi giorni con le truppe americane, che risalivano dal sud, mentre noi dai dintorni di Palermo andavamo verso il centro della Sicilia, a Nicosia, in provincia di Enna, dove ho avuto il battesimo del fuoco, per tentare di fermarli. Ma questa era pura illusione, perché nelle grandi battaglie che abbiamo sostenuto nei pressi di Troina, parte dei nostri reparti furono sconfitti o presi prigionieri o riuscirono a risalire lo stretto di Messina. Io mi trovai nel mezzo di una grande ritirata disordinata, che ci portò fino a Troina, tenendo questa nuova posizio- ne per cinque giorni. Sembrava che gli americani aves- sero premura, agguerriti sempre più, facevano ripetuti attacchi terrestri e aerei; in uno di questi, alcuni gruppi caddero prigionieri, tra quei soldati, c’ero io. Era il 5 agosto 1943. Leggendo oggi i libri di storia a questo proposito, il generale Bradley, comandante del 2° corpo di Armata

37 americano, ebbe a dire che a Troina fu combattuta la più impegnativa e sanguinosa battaglia che gli Americani sostennero durante l’intera campagna di Sicilia. La mia prigionia durò pochi giorni, perché gli Americani, che esaminavano la situazione e la provenienza di ogni prigioniero, si accorsero che provenivo da una zona già da loro conquistata e, senza perdere tempo, per non dover portare appresso il peso di questi prigionieri, firmarono un documento dove risultavo prigioniero sulla parola e in cui mi impegnavo sul mio onore, a non prendere più le armi contro gli anglo-americani; con esso dovevo presentarmi, giunto in paese, al Comando che ormai era nelle loro mani. Aperti i cancelli del campo solo per i fortunati come me, che abitavano a sud, mi avviai verso casa, che distava da lì circa 200 chilometri, che percorsi un po’ a piedi e un po’ su carretti di passaggio, guidati da carrettieri mossi a compassione del mio aspetto estenuato, ma che mi davano un po’ di respiro.

38 Ritorno a Tripoli

Arrivato a casa e dopo un periodo di riposo, tornai a lavorare all’ufficio Anagrafe bestiame, dove incontrai i vecchi colleghi e quella dattilografa, che mi aveva colpito in precedenza, tanto che ci fidanzammo e poi ci sposammo, in un giorno particolare, il 29 aprile 1945. Quel giorno, era domenica, suonarono le campane a festa, credevamo che fossero per noi, invece sapemmo che era finita la guerra e che l’Italia era libera, ma nel nostro piccolo paese, questa grande notizia era arrivata con quattro giorni di ritardo. Nei giorni che seguirono il matrimonio, la mia mente e quella dei miei genitori era rivolta di nuovo verso quella Tripoli, che eravamo stati costretti a lasciare, anche perché vi abitavano un fratello, ormai tornato dalla prigionia e una sorella sposata. Ma questa volta Tripoli non era più italiana e ancora non c’erano servizi di linea. Data la voglia di rientrare della mia famiglia, alla quale si era unita anche la mia giovane sposa, cercammo un traghettatore o come si direbbe oggi, uno scafista. Lo trovammo a Siracusa, al porto. Lui prendeva tempo, perché non si fidava, ma poi acconsentì e raccolse settanta persone che dovevano attraversare il Mediterraneo in moto- peschereccio, ma questa volta partendo dalla Sicilia. Il viaggio fu un’altra avventura, prima per raggiungere a gruppetti con piccole barche il natante che aspettava al

39 largo e poi per affrontare due notti e due giorni di navigazione. Tutti i movimenti dell’imbarco sono avve- nuti di sera tardi, per evitare i controlli; il motore era un’ Isotta Fraschini, aveva un bel rombo e questo mi dava fiducia; presto ci siamo trovati in alto mare. Per fortuna era estate e il mare era calmo, ma attorno a noi c’era solo mare, sole e il buio della notte. Dovevamo avere pazienza e pregare. Fattosi giorno, i marinai ci invitarono a fare silenzio e restare chini e coricati sul fondo, perché eravamo nei pressi di Malta ed era prudente non farsi vedere. Dopo un altro giorno di navigazione, venuta la sera, i marinai ci avvisarono che non mancava molto, infatti dopo un paio d’ore vedemmo delle luci e finalmente la terra. Il motore venne messo al minimo, ora la barca si muoveva appena. Il capo dei tre marinai col binocolo osservava la terra vicina a quelle luci, era quello il punto dello sbarco; eravamo davanti ad una spiaggia, il lido di Tripoli, come dire, davanti casa. In precedenza avevamo osservato un passeggero che parlottava con il capo barca, all’arrivo capimmo che era un familiare dei proprietari del lido, dove in quel momento si stava svolgendo una serata danzante. Aspettammo in silenzio la fine della festa e poi fu messa in acqua una piccola barca, dove presero posto il nostro compagno con un marinaio. Dopo circa mezz’ora ecco arrivare due grosse barche, i cui rematori erano arabi, i quali, nella gioia di

40 vedere il loro padrone, si prodigarono, con parecchi viaggi, a portarci a terra. I marinai rimasti a bordo, nel salutarci ci chiesero di non buttare il cibo che ci era avanzato, perché poteva servire a loro nel viaggio di ritorno. L’ Isotta Fraschini si rimise in moto e prima che noi toccassimo terra, era scomparsa. Ci siamo calati scalzi sul bagnasciuga, toccando terra. Gli Albanesi nel 2000 e poi gli Africani hanno copiato da noi. La famiglia del nostro compagno di viaggio è stata gentile, nel suggerirci come non farci trovare dalla polizia, altrimenti c’era l’arresto e il rimpatrio. Come Dio volle raggiungemmo la nostra casa, riabbracciando i nostri familiari increduli.

41 Permanenza a Tripoli

Così ritrovammo le nostre abitudini, amicizie, luoghi che avevamo lasciato ma non dimenticato, mentre per mia moglie tutto era nuovo e veniva conquistata dalle bellezze della città, di cui le avevamo tanto parlato e che lei stava provando e assaporando. Non persi tempo per cercarmi un lavoro; anche se, essendo arrivato clandestinamente, ero sprovvisto di documenti, mi presentai agli uffici delle officine P.W.D. e trovai due persone che discutevano, poi seppi che erano lo staff Watson , seduto alla scrivania , e Vittorio Malinconico, il capo officina. Alla mia richiesta di lavoro, lo staff rispose affermativamente, chiedendo il mio nome e un documento. Gli dissi il nome, facendo finta di cercare il documento, che sapevo di non avere; nello stesso tempo, contando su quell’altro signore, Malinconico, che mi ispirava un’istintiva fiducia, senza essere visto dall’inglese, gli feci un gesto significativo con la mano e lui, capendo al volo, assicurò lo staff che si sarebbe occupato della questione. Lo staff si allontanò, raccomandandomi di tornare l’indomani, puntuale al lavoro con i documenti. Rimasti soli, il mio salvatore mi chiese se ero arrivato con le barche, e capita la situazione, mi assicurò che lì mi sarei trovato in buone mani e potevo stare tranquillo. Per

42 merito suo ho fatto la mia carriera di operaio meccanico, anzi posso dire che diventai il suo beniamino, perché per qualunque problema si rivolgeva a me. Un’ altra persona che mi stimava molto, era il maggiore inglese, che comandava tutte le officine collegate ed aveva il suo ufficio in corso Sicilia, al Palazzo del Governo. Ogni tanto veniva ad ispezionare i reparti con la sua macchi- na privata, una Hillmann. Mentre si fermava per le ispezioni, voleva che gli controllassi la macchina, ed io cercavo di farlo contento. Una volta, invece, telefonò a Malinconico, chiedendo che lo raggiungessi al suo ufficio. Arrivato lì, tutto emozionato e non sapendo cosa voleva il maggiore da me, mi vidi consegnare le chiavi della sua macchina, che doveva servire per portare in giro la moglie, ma ad una condizione, che non la facessi assolutamente guidare. A casa, trovai già pronta la signora che, uscendo, si avviò verso il posto di guida. Io fui più svelto di lei, le aprii lo sportello di dietro e mi infilai al posto di guida. Volle essere portata ai magazzini generali inglesi, e, all’uscita, risalendo in macchina, cominciò a fare conversazione, mentre io la osservavo dallo specchietto retrovisore. Poi sorridendo mi chiese di guidare ed io, altrettanto sorridendo le risposi di nò. Al che, lei domandò se era suo marito che me lo aveva raccomandato e alla mia risposta affermativa, smise di insistere. Questa fu la prima delle tante uscite in macchina che facemmo insieme.

43 Ormai i soldati inglesi, di turno all’entrata, mi conoscevano e mi facevano entrare senza problemi. Nelle successive uscite, ogni tanto tornava a chiedere di guidare, ed io alla fine, persi la mia fermezza, concedendole il posto di guida e sedendole accanto. Capii subito il motivo dei divieti del maggiore, la signora era una spericolata ed io temevo per tutti e due. Le chiesi cosa sarebbe successo se il marito fosse venuto a saperlo e candidamente mi rispose che non sarebbe stata certo lei a dirglielo. Da quella volta ha guidato sempre lei. Ad agosto del 1948, la mia famiglia aumentò, nacque una bambina, in via Raffaello n. 31. Tutto era andato bene, ma dopo una settimana mia moglie ebbe delle complicazioni; chiamai il primario del reparto chirurgia, professor Regoli, che la fece immediatamente ricoverare. Ora dovevo tutti i giorni recarmi in ospedale e rispuntava quel problema, che ancora non avevo risolto, la mancanza di documenti. Anche se avevo “amici” inglesi, non avevo osato ancora sollevare questo argomento, forse sbagliando, temendo di perdere il lavoro. Avevo un grande amico francescano, padre Illuminato Colombo, che proteggeva ed aiutava chiunque avesse bisogno. Mi rivolsi a lui, raccontandogli le mie vicissitudini e quali conoscenze avessi sul lavoro. Lui contattò il maggiore inglese, che comandava in polizia e, dopo una settimana, fui convocato. Seppi,

44 dopo, che erano state chieste informazioni su di me al capo del P.W.D., proprio quel maggiore, che si fidava di me, affidandomi la macchina con la moglie. Il capo della polizia, infatti, mi confermò che la mia situazione si era sbloccata proprio grazie a lui, che aveva garantito per me. Con il tanto sospirato documento, mi recai al lavoro e venni a sapere da Malinconico che il maggiore mi voleva al Palazzo del Governo; quando arrivai, mi chiese se avevo sistemato tutto ed io sorridendo, gli mostrai il documento, che dovevo a lui. Per ringraziarlo, nell’andarmene scattai sull’attenti, battendo i tacchi, riconoscendo la sua superiorità e magnanimità. Ho già raccontato tutto quello che ho vissuto in guerra e nella Tripoli degli anni del dopoguerra, quando ormai la città non era più italiana ed erano entrati gli inglesi; tanto che io lavoravo, come ho già detto, per loro al P.W.D. Proprio in quel luogo ho conosciuto per caso, il signor Tullio Mantovani, che aveva la sua officina in sciara Bu Harida. E’ venuto in visita al P.W.D. e assieme al capo Malinconico ha fatto il giro tra i reparti. Quel giorno io ero intento ad un lavoro di alta precisione, collocare il bareno in un basamento di motore per la barenatura e l’adattamento delle bronzine di banco di un motore a sei cilindri, che stavo mettendo a nuovo. L’ospite, che era un esperto nel campo, rimase colpito da quello che stavo facendo, tanto che, nell’andarsene, mi invitò a visitare la sua officina; poi, quando lo feci, mi

45 propose di fare dello straordinario da lui, fuori dalle mie ore di lavoro. Accettai, anche per arrotondare le entrate. La sua officina aveva reparti di torneria, di motori industriali, saldature elettriche e autogene con forno di raffreddamento. Fuori, un vasto cortile conteneva rotta- mi ferrosi di qualsiasi tipo e forma, che venivano recupe- rati da varie zone e servivano a creare pezzi nuovi, dato che non arrivavano più i pezzi originali di ricambio dalle fabbriche italiane. Nella sua officina era iniziata anche la costruzione di grosse presse, che dovevano servire ad eliminare laminati leggeri, filo spinato, residuati di guer- ra di tutte le battaglie che si erano svolte in Libia. Questo lavoro gli era stato commissionato dalla ditta Citexco. Nello straordinario che facevo da lui, imparai il loro funzionamento nei minimi particolari. I primi anni cinquanta videro la partenza degli inglesi da Tripoli e anche la mia uscita dal P.W.D. Un altro lavoro già l’avevo, però il P.W.D. mi aveva formato come operaio, avevo conosciuto persone degne di ogni rispetto, dallo staff Watson , al maggiore a cui dovevo i miei sudati documenti e che mi aveva onorato della sua amicizia e soprattutto Vittorio Malinconico, che non potrò mai dimenticare per la stima vicendevole che avevamo l’uno per l’altro. Con la fine di questo lavoro, fui assunto dall’officina meccanica Mantovani, arrivando proprio nel momento della istallazione delle presse della Citexco, dove lui mi mandò. Ora si apriva un altro

46 capitolo della mia vita, salivo di grado, perché alla Citexco avevo i diritti dovuti a tutti i lavoratori regolari, compresa l’assistenza per me e la mia famiglia. Fui assegnato al funzionamento delle presse. La mano d’opera era tutta araba, io solo ero italiano. In un quadrato di raccolta, infisso nel terreno, venivano gettati e sistemati dagli arabi, vari pezzi di ferro e altro materiale ferroso; quando il quadrato si riempiva, veniva chiuso con uno sportello rinforzato da grosse barre di ferro. Io avevo il compito di azionare dei sollevatori, che, con una pressione di 200 atmosfere, spingevano una grossa piastra all’interno della pressa e tutto quel materiale diventava una balla quadrata, che all’apertura dello sportello con grosse mazze, veniva sollevata a mano da un arabo, dall’aspetto di un ercole, di nome Slim. Questo lavoro durò circa un anno e mezzo e alla fine tornai alle officine Mantovani, addetto ai motori industriali. Slim mi si era molto affezionato e mi pregò di trovargli qualcosa da fare. Mantovani, nella sua officina, aveva bisogno di un guardiano notturno ed io gli raccomandai lui, che riuscì subito gradito al principale per il suo fisico. Gli fu assegnata una baracca; Slim mi pregò di chiedere se poteva portare anche la moglie, ma Mantovani era restio. Io lo convinsi, che, se ci fosse stata la moglie, sarebbe stato più legato a quel posto, anche durante il giorno, e così fu, perché Slim, per la gratitu-

47 dine, anche se non aveva un compito preciso, si rendeva utile in ogni modo, e Mantovani capì di aver fatto un buon affare. Tullio non lavorava, ma dirigeva con la sua costante presenza tutti i reparti dell’officina. Aveva preso l’abitudine di cominciare il suo giro dal mio reparto e con il tempo prese a parlare con sempre maggior confidenza. A volte questi colloqui venivano sospesi, perché usciva con la sua Austin, restando fuori un po’ di tempo e al suo ritorno, ripassava da me e riprendeva, come se continuasse il discorso interrotto, dicendo: “Allora, hai capito?” - La prima volta non riuscii a seguirlo, poi capii e alla sempre stessa domanda, lo precedevo, continuando, come se non ci fossimo mai interrotti. Aveva la passione per le moto, che venivano messe a punto, per le gare, nella sua officina; partecipava, come capitano dei Diavoli neri, allo speedway motociclistico, che si svolgeva sotto l’albergo dei Mehari e che richiamava un folto pubblico di tifosi. Io, insieme a mia moglie e mia figlia, non mi perdevo una gara e in queste occasioni, incontravo la moglie e il figlio di Mantovani, che lo seguivano. Con il tempo mi confidò che aveva in mente di lasciare Tripoli, perché la vita cominciava a farsi difficile; la giovane generazione libica mal ci sopportava, inutili erano i ripetuti appelli di re Idris, rivolti a loro per il rispetto verso di noi. Molto diverso era invece l’atteg-

48 giamento dei più anziani, specialmente quelli che aveva- no condiviso con noi il lavoro. Mantovani era originario del Veneto e lì pensava di tornare, impiantando un’officina, anzi mi aveva proposto di seguirlo e lavorare ancora con lui. A me il discorso piacque, tanto che ne parlai in famiglia. Anche mia moglie aveva notato il diverso comportamento, a volte irrispettoso del libici, dato che lei era in contatto con la gente in strada, forse più di me. Per questo motivo cominciammo a valutare la situazione, anche perché le comunicazioni aereo-navali con l’Italia si erano riaperte; la Tirrenia aveva destinato il piroscafo Argentina, che da Napoli, toccando Siracusa e Malta, raggiungeva Tripoli e viceversa. Fui informato dal mio principale; che doveva mancare per un po’ di tempo per recarsi in Italia e in quel periodo io dovevo sostituirlo, facendo un po’ da sorvegliante lavoratore. Ci riuscii abbastanza bene, tanto che al suo ritorno, Mantovani trovò tutto tran- quillo e ritornò alla carica nell’invitarmi a seguirlo, dato che ormai la sua idea si stava concretizzando. Essendo arrivato il momento della decisione finale anche per me, mia moglie mi suggerì di andare in Sicilia, al suo paese, per vedere come si viveva e se c’erano possibilità di lavoro. L’idea non era proprio da scartare, valeva la pena fare questa prova; perciò chiesi un permesso al principale, che me lo accordò, di mancare

49 un mese per recarmi in Italia. In realtà il passaporto era valido tre mesi, ma io non ne parlai.

50 Ritorno in Sicilia

Era il mese di giugno 1955. Arrivati in Sicilia, mia moglie ritrovò i suoi genitori, fratelli e sorelle, mentre io pensavo al da farsi. Castrofilippo era ed è ancora, un paese agricolo, i suoi abitanti coltivavano la terra manualmente e, raramente, con mezzi meccanici. Proprio in uno di questi mi imbattei un giorno; in un garage c’era un operaio che stava montando un motore in un trattore, mentre il padrone dell’officina, che ho conosciuto dopo, era seduto al fresco. Chiesi il permesso di entrare e mi informai sul lavoro che si stava svolgendo, facendo delle domande pertinenti, dalle quali si capiva che ero del mestiere. Quel motore era stato revisionato a Caltanissetta, alle officine O.M.; a quella notizia le mie orecchie si drizzarono e chiesi informazioni all’operaio che, senza parlare, mi indicò il signore seduto fuori, al quale chiesi se avevano bisogno di un operaio, ma lui, non conoscendomi, titubava e mi pose molte domande sulla professione. Io oltre a nominare motori e macchine su cui avevo lavorato, spiegai anche la mia situazione di profugo precario ed il breve tempo, che avevo, di prendere una decisione, che doveva essere definitiva, data l’importanza del passo che mi apprestavo a fare.

51 Fui invitato ad una prova pratica in sede, a Caltanissetta. Arrivato a casa, raccontai la notizia che mi sembrava importante e risolutiva per il nostro futuro a mia moglie, che ne fu felice. All’inizio della settimana, mi recai sul posto del nuovo lavoro e diedi prova delle mie capacità, dato che fui cambiato continuamente, proprio per tastarmi, nei vari settori. Data la distanza dal mio paese, abitavo in una locanda per tornare il sabato sera; ma già quel primo sabato il principale, pagandomi la prima settimana di lavoro con una cifra che giudicai superiore a quella che prendevo a Tripoli, mi informò che potevo ritornarvi per sistemare la mia posizione e per prendere definitivamente posto all’O.M. Dissi che avevo altri giorni di permesso e volevo essere ancora messo alla prova, andò a finire che quei giorni superarono il mese che avevo chiesto al principale di Tripoli. Nel frattempo, arrivò una lettera da parte di mio fratello, che aveva incontrato Mantovani adirato per la mia assenza ingiustificata e mi informava che, persistendo così le cose, avrei potuto non trovare più il mio posto. Questo mi fece decidere e ripartii con la mia famiglia alla volta di Tripoli. Dato che mio fratello aveva accennato sommariamente la mia situazione, trovai ad accogliermi un Mantovani inaspettatamente sorridente e curioso di sapere tutte le novità del mio nuovo lavoro in Italia. Io lo accontentai, gli dissi come stavano ormai le cose e che sarei partito per sempre. Lui, con grande

52 magnanimità volle che tornassi, per quei giorni che restavano, al lavoro, prendendo ore di permesso per sbrigare le pratiche per la partenza. Mi mise a disposizione persino la sua macchina, per eventuali spostamenti, dato che dovevo vendere la mia balilla.

Lasciare Tripoli definitivamente non era così facile come poteva sembrare, era stato difficile entrarvi clande- stinamente, ma era pure difficile uscirne. Si doveva dimostrare di non avere pendenze con la polizia, cause, contravvenzioni, una dichiarazione liberatoria del padro- ne di casa, bollette pagate di acqua, luce, gas. Quando tutte queste pratiche furono espletate e fu fissato il giorno della partenza, conclusi il lavoro da Mantovani salutando tutti, i compagni di lavoro, Slim,

53 ma soprattutto lui, Tullio che, avvicinandosi a me per stringermi la mano, mi disse: “non hai avuto fiducia in me! ciao e buona fortuna” - Non ho potuto e saputo rispondere. Sarà stato un rimprovero o un complimento? Se avessi ascoltato lui, oggi, invece del siculo avrei parlato il veneto.

54 Addio a Tripoli

Comunque auguro a lui, se mi leggerà, e alla sua famiglia tanta fortuna che, sicuramente, avrà avuto nella sua terra natia. Arrivato il giorno della partenza, tutta la famiglia venne a salutarci in via Raffaello, la strada che ci aveva visti crescere, quanti ricordi, quando sul marciapiede mia figlia pedalava sul triciclo, fatto da me. Sulla strada per il porto, cercavo di imprimermi bene nella memoria tutto ciò che vedevo, la scuola delle suore bianche, con suor Erminolda, la maestra di mia figlia, per tre anni, la chiesa della Madonna della Guardia, dove andavamo a messa la domenica, corso Sicilia, piazza Italia, piazza Castello e poi tutto il lungomare Bastioni fino al porto, dove ci attendeva la nostra nave “Argentina”. Questa volta non era un viaggio di piacere, era una partenza definitiva; mettendo i piedi sulla scaletta della nave ci trovammo già in suolo italiano. Dal molo dov’era ancorata la nave, si vedeva la cupola e il campanile della Cattedrale, le due torri del palazzo della previdenza sociale, la torre del banco di Roma, la torre del palazzo del Governo, il maestoso e splendido lungomare alberato di palme con le due alte colonne, le guglie e i merletti del Grand Hotel, tutto il palazzo della cassa di risparmio, il Castello e tanti tetti di case bianche, caratteristiche

55 della città. Questo era quello che i nostri occhi avevano potuto fotografare prima che calassero le ombre della sera del 5 Settembre 1955, lasciando in noi come una negativa, che restava custodita nella memoria e nel ricordo. Al suono della sirena, la nave cominciò a staccarsi dalla banchina e sembrava che dicesse definitivamente: Addio, mia bella e cara Tripoli! - Lasciavamo questa città, insieme ad un lungo periodo della nostra vita, trascorsa in quella terra che era stata la quarta sponda dell’Italia e che poi si era rivelata come l’odissea dell’Italia in Africa. Oggi a distanza di tanti anni mi è rimasta la nostalgia delle sue bellezze create dalla intelligenza, maestria, bravura di architetti, ingegneri, tecnici e operai specializzati italiani, che hanno saputo costruire strade, ferrovie, viadotti, allontanando il deserto dalla città e al suo posto costruito palazzi degni di fare invidia a tutte le nazione del mondo. A Siracusa, la mattina del 7 settembre, eravamo attesi dai funzionari della Prefettura, che, dopo aver control- lato il foglio di via, rilasciato dal consolato italiano di Tripoli, mi fornirono un attestato da portare al comune di Castrofilippo, in cui si comunicava il mio stato di profugo, assegnandoci il “generoso“ sussidio, una tantum, di dodicimila lire per me, capo famiglia, e cinquemila cadauno per mia moglie e mia figlia.

56 La mia vita lavorativa in Sicilia si è svolta tra l’O.M. di Caltanissetta e, in seguito, l’apertura di una officina in proprio nel paese che mi ospitava, Castrofilippo; l’officina fu affiancata, in seguito, anche da un distributore di benzina, per cui la mia vita divenne sempre più intensa, ma per fortuna piena di soddis- fazioni da parte di clienti del paese e del circondario. Ho continuato a seguire le vicende di Tripoli, che considero ancora oggi la mia città, anche perché i miei fratelli e sorelle erano rimasti lì. Li ho seguiti nei tragici avvenimenti del 1970, il loro forzato rimpatrio, la difficile ricerca di una località dove stabilirsi, fino agli ultimi fatti di questi mesi, a Tripoli, che mi hanno colpito nel profondo, nel vedere le macerie dei luoghi tanto amati. Oggi ho la fortuna di avere raggiunto gli ottantanove anni, di avere una discreta salute, una buona memoria e la possibilità di scrivere, soprattutto con l’aiuto dei miei cari, senza i quali sarebbe stato impossibile il mio accesso a Internet. Ho anche un fratello maggiore, che ha raggiunto la veneranda età di 98 anni, vive a Grosseto, accudito dalla figlia e con il quale mi sento spesso. Vivo perciò di ricordi, di lettere, di scambi di opinioni, da parte di tanti amici sconosciuti sparsi in tutta Italia. Questo è stato possibile solo grazie a Paolo Cason, che con la sua straordinaria pazienza raccoglie e mette insieme le voci di noi esuli. Grazie Paolo, grazie anche a quelli che mi

57 hanno letto e contattato e a quelli che mi leggeranno e mi contatteranno; con sempre Tripoli nel cuore, saluto tutti.

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60 CAPITOLO IV

Ricordi Tripolini di Gioventù

La mia infanzia

Finora ho raccontato episodi della mia vita, avvenuti quando ero già in età matura, questa volta vorrei soffermarmi su avvenimenti accaduti prima del 1943, sconosciuti ai giovani nati dopo quella data, stuzzicando i ricordi di quelli della mia età, ma continuando sempre a parlare di Tripoli, nome caro a tanti di noi, che vi hanno vissuto. Sono nato in questa bella città da genitori siciliani, che si chiamavano Carmela Sferrazza e Antonio Parlato. Carmela era nata a Castrofilippo il 2 Dicembre 1892, aveva altri fratelli più grandi, di cui uno, Salvatore, stabilito da alcuni anni in America. Nel 1908, i fratelli più grandi decisero di raggiungerlo negli Stati Uniti, per cercare fortuna, portando con loro anche la sedicenne Carmela, che con una sorella cominciò a lavorare in laboratori tessili, mentre i maschi si dedicarono alla manutenzione bituminosa della strade, incontrando

61 tanti altri siciliani, che come loro si adattavano ai lavori più umili e pesanti.

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63 Mio padre era nato a Favara il 19 Marzo 1888. Anche lui era emigrato in America e aveva intrapreso la strada di molti come lui, incontrando nel luogo di lavoro dei castrofilippesi. Quando si vive lontano dalla patria, conoscere persone che abitavano vicino al tuo paese d’origine, sembra di respirare la stessa aria, per cui il giovane Antonio, lavorando con i maschi della famiglia Sferrazza, si era talmente sentito parte di loro, da conoscere e frequentare anche il resto della famiglia, il ramo femminile, per cui presto Carmela e Antonio, attraverso vari inviti, simpatizzarono, tanto che, quando al principio del 1911, i fratelli Sferrazza decisero di ritornare al paesello, Antonio, pur non facendo parte della famiglia, decise di fare altrettanto. Naturalmente anche tra Favara e Castrofilippo ci si scambiava qualche visita e l’amicizia continuava. Proprio quell’anno l’Italia aveva intrapreso una guerra con la Turchia per il possesso della Libia. La vinse e molti avventurosi giovani vi si recarono, per trovare una sistemazione migliore. Tra questi intrepidi garibaldini c’era Antonio, mai stanco di provare altre emozioni, che, prima della partenza, andò a salutare la famiglia Sferrazza, promettendo alla giovane Carmela che sarebbe ritornato. Erano i primi anni del 1912. In quella terra deserta, tutto si doveva costruire e creare dal nulla e lui cominciò con quello che sapeva fare: il falegname.

64 Aprì una bottega, costruendo con le proprie mani mobili e suppellettili, che servivano ai nuovi abitanti di Tripoli. Il suo pensiero però era rivolto a Castrofilippo, a quella giovane, a quella promessa. Infatti nei primi mesi del 1913 ritornò, si presentò alla famiglia Sferrazza, accompagnato dai suoi genitori e il 4 Maggio 1913 Antonio e Carmela, uniti in matrimonio, compirono il viaggio di nozze alla volta di Tripoli, sulla motonave “Arborea”. Le cose andarono bene per il giovane Antonio, che, con l’aumento della famiglia, ebbe il coraggio di iniziare una nuova attività, aprendo, in una via molto centrale di Tripoli, corso Vittorio Emanuele, un bar, che intitolò Concordia. Si trovava di fronte al Palazzo di Giustizia, perciò era frequentato da tanta gente e funzionari del palazzo e per essi mio padre produceva tante specialità come la granita di puro limone in estate e i “pupi” di zucchero nel periodo dei morti. Era il 14 Maggio 1923, quando ho visto la luce, in Zenghet Hassuna Pascià n.12. Sebbene fosse una piccola strada, si trovava al centro della città ed univa due grosse arterie importanti, corso Vittorio Emanuele e via Lombardia, poi diventata via Costanzo Ciano. Il mio arrivo è stato accolto con grande festa da mamma, papà, mio fratello Vincenzo, di 9 anni, Angela di 8 e Carmelo, che anni ne aveva 3. Nel 1929 è nata l’ultima, Maria, quando io avevo già 6 anni e frequentavo la scuola dei

65 Fratelli Cristiani, in via Roma. Conservo di quell’anno, una foto di gruppo con i due Fratelli, insegnanti e noi, 39 alunni, con il tricolore al centro. Poi sono passato alla scuola Roma per completare le elementari. Nella scuola cattolica era stato possibile iscrivermi senza presentare documenti; passando alla scuola Roma, pubblica, che richiedeva un documento di identità, mia madre, al Comune, si trovò di fronte ad una grande sorpresa. Il figlio, che per sette anni aveva conosciuto e chiamato Luigi, aveva un primo nome Emilio. Il mistero si svelò a casa, quando mio padre, messo alle strette, confessò che, dato che ero il terzo figlio maschio e padre e suocero erano stati accontentati nel nome, recandosi all’ufficio anagrafe con l’accordo, tra marito e moglie di chiamarmi Luigi, in un impeto di ribellione e di novità, pensò ad un nome nuovo per la famiglia, chiamandomi Emilio Luigi. Ma, molto coraggiosamente, di questa decisione, non fece parola con nessuno, tanto che tutti, e anche lui, mi chiamavano solo Luigi. Dopo, con il passare degli anni, essendo tutti abituati a chiamarmi così, sono rimasto Luigi o Luigino; anche per i Castrofilippesi sono ancora “zi Luigì” e per i miei nipoti nonno Gigi. Uso Emilio per le firme ufficiali e per il codice fiscale. Alla scuola pubblica avevo un bravo maestro Mario Villani, che era molto severo e pretendeva il massimo dell’attenzione, usando, qualche volta, la bacchetta sulle

66 nostre mani. Anche di questa scuola ho le pagelle, quella del ‘33 e quella del ‘36 con scritte un po’ in grassetto Opera Balilla e fasci Littori, infatti eravamo inquadrati alla G.I.L. “Gioventù Italiana del Littorio”, che un po’ nelle ore di educazione fisica e un po’ il sabato pomeriggio, chiamato sabato fascista, ci teneva in forma, nelle palestre e negli stadi dove avveniva pure il saggio ginnico “ il 24 maggio ”, anniversario dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. Si partecipava con grande entusiasmo prima come Balilla, poi come avanguardista, quindi come giovane Fascista, secondo l’età. La nostra divisa ginnica consisteva in un paio di pantaloncini neri, una maglietta bianca a maniche corte, orlata da una fettuccia nera alle maniche e al collo, al centro del petto un fascio con fronde ai lati e scarpette da ginnastica. Le giovani Italiane portavano scarpette da ginnastica, calzini bianchi, gonna nera a pieghe, camicetta aderente al corpo, con una grande M, che simboleggiava il nome del Duce. Oltre la scuola frequentavo pure la chiesa e mi rivedo in Cattedrale ad ascoltare la messa domenicale e al catechismo del pomeriggio, e dopo la benedizione, tutti di corsa, passando dalla sacrestia e dal cortile attorno al campanile, a prendere i posti migliori per assistere alle proiezioni del cinema parrocchiale. Mi ricordo di aver visto un film con Amedeo Nazzari, era Luciano Serra pilota, che impersonava uno dei nostri

67 eroi nella guerra in Abissinia. Ricordo il vescovo Vittorino Facchinetti, padre Umile Oldani, padre Illuminato Colombo, quest’ultimo molto amico della mia famiglia. Aveva l’abitudine di andare in bicicletta e passando per Collina verde, dove abitavano ormai i miei genitori, si fermava per riposare, prima di raggiungere la chiesetta di quella zona, accettava una bibita, chiacchierando cordialmente, sotto un bell’albero di limone lunario. Durante il periodo scolastico, mio fratello Carmelo ed io abbiamo avuto l’idea di allevare bachi da seta, naturalmente per hobby, non per commercio, anche se ciò ci portava via molto tempo che doveva essere dedicato allo studio. Alcuni coetanei ci hanno fornito delle uova di bachi, attaccati su un grande foglio di carta bianca, per come erano state deposte dalla farfalla; erano grandi come una testa di spillo, di colore giallo e diventavano scuri man mano che il baco incominciava la sua vita, poi dopo circa tre mesi di incubazione, nasceva un vermetto dalla grandezza di tre millimetri, che forava l’uovo. Noi sempre attenti a questi eventi che aspettavamo con ansia, eravamo già pronti con le più piccole e tenere foglie di gelso, di cui loro si cibavano voracemente. I primi tempi della nascita erano i più faticosi, ci voleva tanta attenzione e cura, perché i bachi erano così piccoli che quasi non si vedevano, ma mangiavano continua-

68 mente. Quando diventavano grandi come una sigaretta e prendevano un bel colorito giallo dorato salivano su dei rametti a croce, che noi ci eravamo procurati negli alberi di gelso, cominciavano a tessere la seta, chiudendosi nel bozzolo, dove restavano chiusi, trasformandosi in crisa- lide. Quando questa rompeva il bozzolo e ne usciva, divenuta farfalla, il nostro gioco-lavoro era terminato. Andando ancora un po’ indietro nel tempo, chi si ricorda di Busadiya? Era un vecchietto smilzo e magro, aveva appesi al corpo dalla testa ai piedi molte cose, lattine, specchietti e ossa che producevano strani suoni, facen- doli dondolare con i suoi movimenti. Aveva anche il tamburo, che annunziava il suo arrivo, e quando qualche spettatore gli buttava una monetina, con una finta battaglia, la faceva scomparire, catturandola, e così viveva con poco, divertendo noi ragazzi. Continuando a parlare di vecchie usanze, non si possono dimenticare i forni arabi. Erano proprio caratteristici, si indovinava la loro presenza dal buon odore che sprigionavano. Si entrava da un portoncino abbastanza largo e al piano terra si trovava un assito in tavole che serviva ad appoggiare ciò che ognuno portava da infornare. Dopo queste tavole c’era una buca larga circa sessanta centimetri, dove stava il fornaio, che si vedeva solo dalla cintola in su e che aveva alle spalle il forno, dove veniva cotto tutto ciò che la gente portava,

69 dietro pagamento di pochi soldi, che lui faceva scivolare in una fessura fatta apposta sull’assito. Anche io sono stato assiduo frequentatore di quei forni, infatti mia mamma, con l’aiuto di mia sorella Angela preparava a volte pane, pietanze, biscotti, battezzati da noi “tripolini”, e incaricava me o mio fratello di portarli al forno arabo più vicino, che si trovava in via Liguria, strada che andando in su e girando a sinistra sboccava in via Vittorio Veneto, conosciuta dai vecchi tripolini come Sciara Macchìna. Avevamo preso l’abitudine di consumare queste delizie, anche quando andavamo tutti al bosco Littorio, che si trovava tra porta Benito e porta Azizia, all’ombra degli eucaliptus, per festeggiare la Pasquetta. Il bosco Littorio, all’origine era un’ampia area sabbiosa; negli ultimi anni venti, durante il governatorato di Badoglio, fu trasformata in parco pubblico, ombreggiato da gigantesche piante di eucaliptus , dove le famiglie passavano intere giornate. Un’altra opera memorabile per la realizzazione dovuta alla volontà ed intelligenza italiana, fu nei primi anni trenta, la via Balbia, che univa la Tripolitania alla Cirenaica, mentre prima le due provincie erano di fatto materialmente separate. Prima della litoranea, le poche agevoli piste del gran deserto sirtico potevano essere difficilmente attraversate a causa delle sabbie invadenti. La nuova strada di circa 2000 chilometri lungo tutto il litorale libico, con i suoi ponti,

70 le case cantoniere disseminate ogni 50 chilometri, per la sua continua manutenzione, rese rapido ed agevole il percorso. E’ stata sfruttatissima la barzelletta secondo la quale Balbo dice orgogliosamente a dei capi tribù in un ricevimento a palazzo:- Vedete? Prima con le vostre carovane impiegavate tre settimane per andare da Tripoli a Bengasi, ora ci potete arrivare in una sola giornata!- -E’ vero, risponde il capo tribù, ma cosa faremo negli altri venti giorni?- Nel periodo estivo, ogni anno mio papà prendeva in affitto sulla spiaggia, nella zona chiamata tomba dei Caramanli, sul lungomare Badoglio, un pezzetto di terra, con l’obbligo di sistemarvi una cabina in legno. Essendo mio papà falegname, ne ha costruito una con la collaborazione di tutti noi, quella era una abitazione che usavamo per tre mesi e qualche volta qualcuno di noi restava a dormire, potendo ammirare il mare di sera e ai primi albori. Proprio di mattina presto, prima che la spiaggia si popolasse, mio fratello Carmelo ed io praticavamo un tipo personale di pesca subacquea. Prendevamo due pentole grosse e profonde, attaccavamo al loro fondo un impasto di mollica di pane e formaggio grattugiato e le coprivamo con un panno bianco, lasciando un foro di circa tre centimetri al centro. Con le pentole, andavamo in mare, fino a che l’acqua non ci arrivava al mento, piano piano, facevamo riempire le pentole dal buco, e le depositavamo sul fondo, ritornan-

71 do a riva. Dopo un po’ di tempo ritornavamo al largo, correndo quando l’acqua ci arrivava ai ginocchi e allo stomaco, rallentando quando ci arrivava al collo. Tenevamo gli occhi aperti anche sott’acqua e potevamo vedere un’infinità di pesci che gironzolavano attorno al buco della tela per entrarvi, fino a riempire la pentola. Rapidamente a testa in giù, la afferravamo con una mano, chiudendo con l’altra il buco, avviandoci verso riva, portando in trionfo il nostro bottino. Questa operazione veniva ripetuta, fino ad ottenere un pasto abbondante per tutta la famiglia. Da ragazzo, dopo le ore scolastiche, ho lavorato presso una parrucchiera per signora, al pian terreno del palazzo Gadzischi, in via Vittorio Veneto, prima d’arrivare alla Cattedrale. La proprietaria era triestina, la signorina Ines Kavalla. Ho cominciato come ragazzo di bottega, poi ho preso a rispondere al telefono, prendere appuntamenti e fare qualche shampoo. Quando la Ines faceva le ondulazioni, io riscaldavo e le porgevo i ferri adatti, che dovevano essere ben caldi, ma non bruciare i capelli. Per sentirne il calore, avvicinavo il ferro alla guancia, se era troppo caldo, lo facevo roteare velocemente, per raffreddarlo e poi glielo porgevo; con essi Ines creava delle belle pettinature. Con me lavoravano altre due ragazze, ma la più brava era la Ines. Una volta si è assentata per una ventina di giorni, per andare in Italia, ci ha affidato il suo salone, alle ragazze il lavoro di parrucchiera, a me le

72 chiavi del negozio, la cassa, il libro delle entrate e uscite, compito che io ho svolto con gran serietà e precisione. Al suo ritorno, Ines ha trovato tutto a posto e mi ha elogiato. Ma quel viaggio era servito per tastare il terreno nella sua città e ben presto vi è ritornata, cantando “Trieste mia”.

73 L’Officina

Mentre ero ancora a scuola, l’Italia si preparava alla guerra in Africa orientale, era il 1935. I nostri soldati guidati da due grandi generali, Badoglio dal fronte eritreo e Graziani dal fronte , con travolgenti manovre, dopo aver occupato Adua, Amba Alagi e altri punti nevralgici, ben presto presero Adis Abeba e tutto il resto del territorio, sconvolgendo l’esercito etiope. Con questa conquista il nostro re poteva fregiarsi del titolo di Imperatore d’Etiopia. Io da casa mia seguivo con molta attenzione e amor patrio tutti i commenti dati per radio, in una parete tenevo appesa una grande carta dell’Abissinia, dove c’erano segnate tutte le località e ad ogni conquista, vi spillavo una bandierina. Ho sempre avuto la passione per la meccanica, che poi è diventato il mio mestiere. Nel 1935 sono entrato come apprendista nelle officine Santagati e Covato e ho avuto la fortuna di essere assegnato ad un bravo maestro. Questa officina si trovava in corso Sicilia, quasi di fronte al palazzo Tascone, era autorizzata ed ha vinto la gara di appalto con le forze armate italiane, per la riparazione di tutti i mezzi fuori uso. Al principale venivano assegnate dalle autorità 15 macchine da rimettere a nuovo, per lo più camionette 615, camion 38 SPA , lancia3RO. Venivano

74 portate al nostro deposito ed ogni reparto faceva il suo lavoro, chi in carrozzeria, chi in verniciatura, chi all’impianto elettrico, chi di frenatura e noi al motore, cambio e differenziale. Il mio maestro ed io prendevamo in consegna un motore, che veniva sistematicamente smontato e pulito, si portavano al comando militare i pezzi fuori uso che venivano sostituiti con quelli nuovi. Io, con del cartoncino, facevo tutte le guarnizioni occorrenti e pronte per il montaggio. Porgevo al maestro i pezzi, bulloni dadi, tutti puliti ed allineati per grandezza e misura, il motore veniva montato e si faceva rullare nel banco prova. Con il tempo, il maestro ha cominciato a farmi montare qualche pezzo, controllando tutto, ma dandomi sempre più fiducia. Quando il mezzo era pronto in tutte le sue parti e rimesso a nuovo, veniva caricato con delle zavorre, tali, da raggiungere la sua portata e passava al controllo e revisione dell’esercito. Passata la revisione, si consegnavano i mezzi rimessi a nuovo, se ne prendevano altri dal deposito dell’esercito e si ricominciava da capo. Durante la corsa automobilistica dei Milioni, abbinata alla Lotteria di tutta Italia, arrivavano a Tripoli, le macchine da corsa con le loro scuderie, che venivano ospitate in varie officine o autorimesse, nei giorni antecedenti la corsa. Una di queste officine era quella dove lavoravo io in corso Sicilia. Per noi quei giorni erano una festa, specialmente per quelli della mia età. I

75 loro meccanici ci permettevano di curiosare e di toccare le grosse ruote e qualche volta anche dare una mano a spingere le macchine, a metterle in moto e posteggiarle nei box, di cui la nostra officina era dotata, mentre fuori, al cancello, la gente si affollava curiosa, e tanti miei coetanei mi pregavano di farli avvicinare e io mi sentivo invidiato e pieno di gioia. Poi quando si disputava la corsa, mio fratello ed io avevamo il permesso dei miei genitori di allontanarci fino al circuito della Mellaha. Arrivavano i più forti assi internazionali di allora, Achille Varzi, Tazio Nuvolari, Brilli Peri, Taruffi, Borzacchini, vi erano anche piloti stranieri come Langh ed altri, che con le loro Mercedes ed Autounion, davano del filo da torcere alle nostre Alfa Romeo, Maserati, ecc. Allo stadio di Tripoli venivano pure i più famosi ciclisti, Bartali, Magni, nella pista, attorno al campo da gioco facevano le loro competizioni di velocità, di americana a coppie e qui, io, attaccato alla rete di protezione, sistemata tra le tribune e la pista, ho avuto la fortuna di parlare e toccare Bartali, che si era fermato proprio davanti a me, per aspettare il compagno che faceva il suo turno di corsa. Che grande emozione! Queste sono continuate assistendo alle gare dei corridori tripolini, con il trio più in vista degli assi del pedale Cason, Berti, Vella. Tripoli si è distinta anche nel pugilato, con il bravo e forte Santino De Leo, peso massimo, che aveva il mulino in sciara Macchìna e noi assistendo ai suoi incontri ed ai

76 suoi poderosi uppercut e pesanti diretti, lo incitavamo gridando “dai sciara Macchìna”. E’ arrivato a conquistare il titolo di campione europeo. Un altro bravo campione è stato Vincenzo Anastasi, che conquistò il titolo europeo dei pesi mosca. Era molto dinamico, sembrava danzasse sul ring, mentre combatteva e metteva a segno i suoi veloci diretti e i suoi ripetuti uno- due. Con lui ho avuto più vicinanza, perché, dopo sposato, sono andato ad abitare in via Raffaello, 31. Questa strada cominciava da Corso Sicilia e finiva in via Ponchielli. Tra queste due grosse vie, ve ne erano altre trasversali, come via Bellini, via Verdi, via Vignola, via Canova, in una di queste vi era lui, Vincenzino, che aveva il panificio dove io ogni mattina compravo il pane. Era bello rivedersi dopo un suo incontro e discutere e complimentarsi della sua vittoria sul ring. Anche il nuoto aveva la sua importanza e si concludeva con la gara regina annuale della traversata del porto, dove si cimentavano i più forti nuotatori fondisti. Non dimentichiamoci del calcio. A Tripoli vi erano diverse squadre dilettanti, che facevano furore e si distinguevano, come l’Ittiad, con l’attaccante Zentuti, bravissimo a realizzare bei gol. Un avvenimento che merita essere ricordato e al quale ho assistito personalmente è stato l’arrivo di Mussolini a Tripoli. Era il 18 Marzo 1937. Da qualche settimana prima del suo arrivo, ogni sera, perché doveva arrivare di sera, si

77 provavano l’illuminazione, le sfilate dei meharisti, con i loro cammelli, che procedevano a passo ondeggiante, e, al suono delle trombe, i reparti di cavalleria al galoppo. Io partecipavo pure per quello che mi competeva, inquadrato nei reparti della gioventù. Dopo le prove, la grande notte è arrivata, con l’entusiasmo di tanti, mai si era vista Tripoli così illuminata a giorno, imbandierata e festosa. Il Duce arrivava da Bengasi, percorrendo la via Balbia, opera grandiosa, che univa la Cirenaica alla Tripolitania, da poco costruita e che portava il nome del governatore. Arrivato a Tripoli, Mussolini percorse a cavallo tutto il lungomare Volpi, poi si è immesso in piazza Castello, dove, sempre a cavallo, ha tenuto un discorso. Ha proseguito per corso Vittorio, passando davanti la Cattedrale, e ancora fino al palazzo del governatore, anche questo inondato di luce. Mi sentivo, e sicuramente anche tanti altri, orgoglioso di appartenere ad un popolo così glorioso. Poi gli avvenimenti sono precipitati, ma nessuno quella notte avrebbe immaginato come. Quando gli Italiani erano arrivati a Tripoli, nel lontano 1911, (tra essi c’era mio padre), avevano trovato solo deserto; la loro industriosità rese quel deserto un giardino. La colonizzazione agricola fu una delle cose più belle creata, poi, nel periodo fascista. Nacquero dal nulla, nel deserto, popolati dai coloni, interi villaggi,

78 come Oliveti , Bianchi, Giordani, Breviglieri, Crispi, Garibaldi, Micca, Marconi ed altri. La mattina del 3 novembre 1938 fu una giornata veramente storica per la Libia. Più di una decina fra i più grandi piroscafi italiani, tra i quali anche qualche transatlantico, tutti imbandierati e inalberati con il “gran Pavese”, arrivarono nel porto di Tripoli, con un carico di ventimila italiani, venuti ad arricchire con il loro lavoro la “Quarta sponda”. Da quelle navi sbarcarono tutti i ventimila, uomini, donne, bambini e con un lungo corteo, ordinato, a piedi, dal porto arrivarono fino a piazza Castello. Era una fiumana di gente, che silenziosa, camminava in mezzo ad ali di folla plaudente. Assistevo commosso a questo grandioso spettacolo, pensando che anche la mia famiglia ed io, avevamo contribuito, con il lavoro, a rendere più bella Tripoli. Dalla piazza Castello, dopo il discorso del governatore e la benedizione del vescovo Facchinetti, i ventimila partirono alla volta dei loro villaggi, a bordo di centinaia di automezzi militari. Al loro arrivo, ogni famiglia trovò una bella casetta arredata, la mucca, il pollaio, un pezzo di terreno da coltivare e tutti gli attrezzi agricoli. Quei villaggi, con il lavoro dei coloni italiani, poi sono diventati centri abitati, dove gli arabi del luogo hanno visto che anche dalla sabbia, potevano nascere alberi, ulivi, viti, aranceti.

79 La guerra a Tripoli

Nel 1939 l’Europa entrò in guerra, e noi a Tripoli incominciammo a sentire le prime privazioni di beni, di cui fino a quel momento avevamo beneficiato. Nel pomeriggio del 10 giugno 1940 il popolo di Tripoli sentì alla radio e nelle piazze il discorso del Duce, che aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna; anche io ero lì, illudendomi, come tanti altri che sarebbe stata una passeggiata. Ma la stessa sera, subimmo il primo bombardamento da aerei francesi, partiti dalla Tunisia. Questo fu il primo shock, giunto così rapidamente e inaspettato. Ma un altro ne doveva ancora arrivare, la morte improvvisa di , che, nel recarsi ad ispezionare le truppe al confine con l’Egitto, a bordo di un SM79, era stato abbattuto dalla nostra stessa contraerea, che si trovava sulla nave San Giorgio, ancorata nel porto di Tobruk. La notizia fu accolta con grande sbalordimento, ma anche col dispiacere di aver perso, così banalmente, per un errore, si disse, di identificazione, un personag-gio tanto rispettato anche dai nemici ed avversari.

80 All’imponente funerale, formato da otto bare, il 29 giugno 1940, partecipammo tutti, nessuno escluso. Al suo posto fu nominato il generale , perché generale dell’esercito e protagonista in Etiopia, mentre Balbo era stato un triunviro della marcia su Roma.

(Funerali di Italo Balbo)

A Tripoli cominciò la vera guerra, continui bombardamenti di aerei inglesi provenienti da Malta, ci costringevano a correre dentro i rifugi e nelle campagne fuori città. Noi abitavamo a Collina verde, distante tre chilometri da Tripoli, e lì, chi dentro casa, chi attendato nel giardino adiacente, passavamo le notti. Nella notte del 21 Aprile 1941, dopo un’ora di bombardamenti, abbiamo visto, come d’incanto, tutto illuminato. Gli aerei inglesi avevano sganciato dei razzi illuminanti, a

81 cui erano agganciati dei piccoli paracadute; quelle luci erano i segnali dei luoghi da colpire. Mentre noi guardavamo quelle luci, si scatenò il finimondo. Per quarantacinque minuti si sentirono passare proiettili, non più sopra le nostre teste, ma striscianti, perché erano proiettili da 305 sparati dalle navi della flotta inglese. L’indomani, scendendo in città, trovammo un disastro, Tripoli era irriconoscibile, ovunque macerie di fabbricati che erano stati distrutti, senza incontrare la più piccola resistenza da parte nostra. Al porto oltre alla distruzione di navi, sul piazzale davanti al nostro bar, trovammo un proiettile da 305 inesploso, che aveva centrato in pieno il faro ed era venuto a cadere davanti al bar. Dopo che i genieri lo resero innocuo, con l’incoscienza della gioventù, mi feci scattare una foto, con un piede sopra, come se fosse stato preda di guerra. Il rifugio della Banca d’Italia, invece, era stato centrato in pieno da uno di quei proiettili, che esplodendo, aveva provocato tanti morti; esso era stato costruito per le bombe aeree, ma non ha resistito a quelle navali, che provenivano orizzontalmente. La guerra negli anni 40-41 in Africa settentrionale si svolse aspra da tutti e due i fronti, Graziani avanzò con le truppe italiane oltre il confine con l’Egitto fino ad occupare Sidi Barrani e Massa Matruk, ma non andò oltre. I miei due fratelli più grandi erano sui fronti di combattimento. Gli inglesi e gli italo-tedeschi, comandati

82 dal generale Rommel, la volpe del deserto, si fronteggiavano, finchè l’esercito inglese, travolgendo quello tedesco, entrò a Tripoli, era il 23 gennaio 1943. Questa volta, non ho potuto seguire questa guerra, segnando le vittorie con le bandierine, come avevo fatto con quella d’Etiopia, sia perché non ci furono vittorie, sia perché l’ho vissuta sulla mia pelle e c’era poco da stare allegri. Arrivato a questo punto delle mie narrazioni e dalle date, mi accorgo che anche la mia gioventù è passata, ma mi restano, intatti, tutti i ricordi. Termino, salutando tutti i lettori, ma in particolare il caro Paolo Cason, che con la sua tenacia, continua a tenere vivo il suo sito e a tenerci uniti, a lui va un indimenticato ricordo e un grazie di cuore.

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84 Perché questo libro

Leggendo i racconti del Sig. Emilio Luigi Parlato, non nascondo di avere provato una forte emozione e ho voluto raccogliere le pagine scritte e pubblicate sul sito di Paolo Cason, nella sezione “Caro diario…” http://www.paolocason.it/Libia/Pagine/Caro%20diario.html previa autorizzazione del Sig. Emilio.

Questi racconti, sono uno spaccato, oltre che della vita del Sig. Emilio, anche di una Sicilia che ha vissuto momenti duri, in cui riconosciamo i sacrifici dei nostri padri, in una terra flagellata dalla povertà e dall’emi- grazione.

Questo libro, già e-book, nasce per la volontà di non perdere questo patrimonio culturale, che investe in pieno il nostro piccolo centro, Castrofilippo, che altri- menti potrebbe andare perso per il mancato rinnovo di uno spazio web ed essere cancellato per sempre dalla memoria degli uomini.

Grazie, pertanto, al Sig. Emilio per avere autorizzato questa raccolta e grazie ancora per avermi emozionato con la speranza che emozioni anche altri lettori.

Calogero Cinquemani

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86 Ringraziamenti

A tutti i miei familiari che mi hanno supportato, sopportato, seguito e aiutato.

A Giovanni Rizzo Presidente della Pro Loco Castrofilippo, che ha fatto da padrino alla mia storia e ai suoi collaboratori.

Per ultimo, non certo per importanza, a Lillo Cinquemani, paziente e intelligente coordinatore di queste pagine, il cui incitamento e aiuto hanno reso possibile la realizzazione di un sogno che mi ha riem- pito di orgoglio.

Emilio Luigi Parlato

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88 INDICE

PREFAZIONE...... 3 INTRODUZIONE ...... 5 CAPITOLO I ...... 9 Ricordi di Libia e ...... 9 della Centrale di Gharian...... 9 Il bisonte di Gharian ...... 9 Il collaudo ...... 13 CAPITOLO II ...... 15 Da Tripoli a Hon ...... 15 orizzontarsi nel deserto...... 15 Bashir...... 15 Viaggio a Hon...... 17 Permanenza a Hon...... 21 Ritorno a casa...... 24 CAPITOLO III ...... 31 Ricordi e Peripezie di un Tripolino ...... 31 Fuga da Tripoli...... 31 Arrivo in Sicilia ...... 34 Chiamata alle armi...... 36 Ritorno a Tripoli...... 39 Permanenza a Tripoli ...... 42 Ritorno in Sicilia ...... 51 Addio a Tripoli...... 55 CAPITOLO IV...... 61 Ricordi Tripolini di Gioventù...... 61 La mia infanzia ...... 61 L’Officina...... 74 La guerra a Tripoli ...... 80 Perché questo libro...... 85 Ringraziamenti ...... 87

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