Premio ”Piero Gazzola” per il restauro del patrimonio monumentale piacentino 2006-2015

Premio ”Piero Gazzola” per il restauro del patrimonio monumentale piacentino 2006-2015

FAI Associazione Dimore Associazione Palazzi Storici Delegazione di Piacenza Storiche Italiane di Piacenza Promosso da: Associazione Dimore Storiche Italiane, Delegazione di Piacenza Associazione Palazzi Storici di Piacenza FAI - Fondo Ambiente Italiano, Delegazione di Piacenza

Con il patrocinio della Soprintendenza belle arti e paesaggio per le province di Parma e Piacenza

Con il contributo di:

Comitato scientifico del premio Gazzola 2015: Anna Còccioli Mastroviti, Soprintendenza belle arti e paesaggio per le province di Parma e Piacenza Domenico Ferrari Cesena, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza - professore emerito della University of California at Berkeley, già Capo Delegazione FAI di Piacenza Marco Horak, Presidente dell’Associazione Palazzi Storici di Piacenza Carlo Emanuele Manfredi, Delegato per Piacenza dell’Associazione Dimore Storiche Italiane Anna Riva, Archivio di Stato, Piacenza Luciano Serchia, architetto, già Soprintendente beni architettonici e paesaggistici per le province di Parma e Piacenza Valeria Poli, storico dell’architettura

A cura di: Luciano Serchia, Anna Còccioli Mastroviti

Le tavole 1, 2, 3, 4, 5 sono state appositamente elaborate per questo volume dall’architetto Claudio Maccagni, sulla base della cartografia storica e di altre fonti iconografiche e documentarie in rapporto ai temi architettonici e urbanistici tra il Cinquecento e gli inizi del Novecento.

Fotografie di: Piergiorgio Armani; Giovanni Boccaccia, Archivio di Stato Piacenza; Anna Còccioli Mastroviti; Paolo Cordera; Benito Dodi; Masoero e De Carlo Architetti Associati, Milano; Paolo Pagani e Sergio Morlacchini; Luciano Serchia; Marcello Spigaroli

I curatori ringraziano il direttore dell’Archivio di Stato di Parma e Valentina Bocchi; il direttore e il personale tutto dell’Archivio di Stato di Piacenza; Massimo Baucia responsabile del Fondo Antico della biblioteca comunale Passerini Landi, Piacenza; Carlo Emanuele Manfredi,Piacenza; Padre Roberto Ortega, responsabile Archivum Generalis Teatino, Roma; Marinella Pigozzi dell’Università di Bologna.

La riproduzione dei documenti conservati all’Archivio di Stato di Piacenza è stata autorizzata con prot. 7/2015; la riproduzione dei documenti conservati all’Archivio di Stato di Parma, fondo Mappe e disegni, vol. 22, è stata autorizzata con prot. 3029/V.9.3 del 7/10/2015

Stampa a cura di: Ticom Piacenza, 2015

Sul frontespizio: M. Merian, Pianta di Piacenza, 1688 (Piacenza, biblioteca comunale Passerini Landi) Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Prefazione G. Paolo Bulla, direttore Archivio di Stato, Piacenza

Instromenti, scritture e libri di casa Cigalla. Una importante tessera per la tenuta degli archivi famigliari a Piacenza nei secoli XVII e XVIII Anna Riva

Piacenza: società, cultura architettonica e attività produttive secoli XV-XIX Luciano Serchia

Per una ricostruzione della storia urbana di Piacenza Valeria Poli

Palazzi, chiese, complessi conventuali: vettori trasformatori dell’impianto urbano di Piacenza Luciano Serchia, Anna Còccioli Mastroviti

Il cantiere di restauro di palazzo Cigala Fulgosi Sergio Morlacchini, Paolo Pagani

Bibliografia

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Nota dei curatori

Il “premio “Piero Gazzola”, giunto nel 2015 alla sua decima edizione, ha avviato un percorso culturale nella città di Piacenza principalmente finalizzato a far emergere quegli aspetti qualitativi del restauro architettonico che hanno interessato i brani più significativi del tessuto edilizio cittadino, sia sotto il profilo storico, sia per il loro valore artistico. Ad una prima parte dedicata alla rilettura critica della storia urbana di Piacenza, seguono in forma sintetica le schede relative agli edifici premiati dal 2006 al 2015, indagati però in rapporto al contesto degli isolati nei quali sorgono, con l’intento di fare emergere in quale misura detti palazzi hanno contribuito a modificarne il disegno. Ma non si tratta solo di questo. Se nel centro storico di Piacenza si possono contare circa 185 palazzi, la loro ragguardevole densità urbana e le loro caratteristiche planimetriche dispiegano sul e nel paesaggio del centro storico un tessuto connettivo compositivo e un’ organizzazione morfologica che contribuiscono a definire e a identificare l’immagine complessiva e le invarianti morfologiche di questo peculiare paesaggio urbano. Ciò significa che il palazzo piacentino costituisce un elemento fondamentale del lessico architettonico di questo contesto, il quale travalica, in vario modo, i limiti fisici determinati dalle quinte edilizie che si affacciano sulla rete stradale circostante, per divenire esso stesso un punto limite, o punto singolare, in alcuni casi contribuendo a configurare e riconfigurare la rete stradale cittadina. Gli aspetti più specificamente architettonici del palazzo si legano perciò a quelli urbanistici in untutto inscindibile, determinando un sistema molto più complesso, ove la dimensione privata, che si rispecchia nella forma del singolo edificio, s’interseca con quella pubblica dell’impianto urbano, in un rapporto dialettico che si esplica su più livelli: politici, economici, urbanistici e architettonici. Piacenza si distingue quindi dagli altri grandi centri storici dell’Italia settentrionale per il ruolo assunto dal palazzo nobiliare nel processo trasformativo urbano sviluppatosi già alla fine del Medioevo, ma che ha assunto una rilevanza sempre più grande dal Cinquecento fino alla metà dell’Ottocento quando, con l’Unità d’Italia, incominciò a manifestarsi un’attività di pianificazione urbana più attenta ai problematici mutamenti del contesto politico e sociale italiano. In definitiva, il palazzo piacentino può considerarsi come uno dei principali vettori generatori del processo trasformativo urbano sostenuto dall’iniziativa fondamentalmente privata del ceto nobiliare. Questa caratteristica ha determinato in Piacenza una continua ridefinizione dell’impianto urbano focalizzata all’interno dei singoli isolati, che sono stati quindi oggetto di un processo modificativo che ha coinvolto non tanto il suo disegno perimetrale, quanto piuttosto l’organizzazione planovolumetrica dei fabbricati cresciuti al loro interno. L’unico tentativo di riconfigurare il disegno della città fu espletato intorno alla metà del Cinquecento con l’apertura dello stradone Farnese che tuttavia, rimasto interrotto, non riuscì a determinare le giuste condizioni per avviare trasformazioni aventi una valenza urbana. Neppure i provvedimenti napoleonici, sebbene definiti all’interno di una revisione rivoluzionaria dei modelli insediativi urbani, riuscirono a incidere significativamente sul disegno degli isolati così come erano stati concepiti e trasformati dal Medioevo in poi. Così che la storia urbana di Piacenza è contrassegnata da una’ulteriore singolarità: quella di trovarsi di fronte ai modelli insediativi imposti dalla modernità che con il loro linguaggio, privo di qualità, ha saturato gli spazi intra moenia, ponendosi come manufatti alieni precipitati ai margini di un tessuto architettonico secolare totalmente diverso per forma, materiali e colore.

Luciano Serchia Anna Còccioli Mastroviti

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Prefazione

Non si può dire, come si disse l’anno passato, “un palazzo, un archivio” poiché, pur conservando l’Archivio di Stato un archivio Cigala Fulgosi, o meglio nuclei di un archivio Cigala Fulgosi, non c’è traccia fra quelle carte del palazzo di cui oggi si premia il restauro. Allora dovranno e potranno venirci in soccorso altre fonti, legate alla prosopografia e soprattutto alla memoria dei luoghi, in senso toponomastico ed onomastico. In effetti esponenti dell’antica famiglia alla quale è collegato il bel palazzo - stirpe che deriva probabilmente da Prete Fulgoso, il Presbyter Fulgoxius console del comune di Piacenza almeno otto volte dal 1131 al 1157 - possedettero in città più di un palazzo oltre a quello di Via S. Franca 41: un altro è poco distante, sulla stessa direttrice, al n. 45, due sono in Via Scalabrini, al n. 6 già dimora dei Radini Tedeschi e degli Appiani d’Aragona e al n. 49 già proprietà dei Mansi. Una famiglia che espresse nel Novecento militari di rango, alcuni finiti tragicamente: il generale Alfonso fu fucilato dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e fu decorato alla memoria con medaglia d’oro al valor militare; il figlio di lui Giuseppe fu decorato di medaglia d’oro al valor militare per un’impresa marinara compiuta nel 1941 e nel 2000 gli fu intitolata una nave pattugliatrice della Marina Militare; un altro figlio, il tenente dell’aviazione Agostino Giorgio medaglia d’argento nel 1942, fu abbattuto nel Mediterraneo nel giugno 1943. Torniamo al palazzo Cigala del civico 41 di Via S. Franca. La via è lunga, consta di quattro tratti ed è intersecata o costeggiata da cinque strade a partire da Via S. Antonino per finire al Viale Passeggio Pubblico che insiste sulle mura farnesiane. Lungo tre tratti sono presenti ancora numerose eccellenze architettoniche, spesso frutto dell’accorpamento di più edifici: Casa Mirra – Neri ai numeri 1 e 3 e palazzo Scotti di Sarmato al n. 8 (primo tratto); Casa Ronzoni al n. 14, Casa Marzolini al n. 23, Casa Pizzati al n. 16 (secondo tratto); il Teatro dei Filodrammatici e il Conservatorio Nicolini già chiesa e monastero femminile cistercense di S. Franca dei nn. 33 e 37, il Palazzo Bernardi Morandi al n. 43, Palazzo Enel, Palazzo dell’Agenzia Interregionale per il fiume Po, Palazzo Buzzetti e Palazzo Breviglieri già Monastero di S. Siro ai nn. 36, 38, 42 e 44 (terzo tratto). La via che prende il nome dal monastero cinquecentesco nel Novecento fu battezzata Via Solferino ma per scongiurare ogni suggestione francofila nel 1943 tornò all’antica denominazione. Infine segnalo una di quelle coincidenze che spesso emergono a ben scavare. Ai lavori di rifacimento e di trasformazione del compendio cistercense contribuirono due insigni professionisti: Pietro Berzolla riedificò l’entrata del Liceo Musicale bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale, Giovanni Gazzola progettò nel 1908 la facciata del Teatro. Giovanni, buono a sapersi, fu il padre di Piero, l’architetto e soprintendente a cui è intitolato il Premio per il restauro del patrimonio monumentale piacentino di cui ricorre quest’anno il decennale.

Gian Paolo Bulla direttore dell’Archivio di Stato di Piacenza

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INSTROMENTI, SCRITTURE E LIBRI DI CASA CIGALLA. Un’importante tessera per la tenuta degli archivi famigliari a Piacenza nei secoli XVII e XVIII1 Anna Riva

L’archivio Cigala Fulgosi è stato depositato presso l’Archivio di Stato di Piacenza in tre distinti versamenti due a distanza ravvicinata nel 19892 e uno nel 20073. La famiglia Cigala, probabilmente originaria di Bobbio, rimase per secoli presente nel territorio piacentino, in particolare in val Trebbia e in val Tidone dove si concentravano i maggiori beni e l’esercizio dei diritti, anche se non mancavano beni in città, dove la famiglia possedeva case e palazzi4. Il fondo nei secoli è stato oggetto di diverse sistemazioni, e, nel Settecento, di vero e proprio riordino, che fu operato quando una vera e propria “furia classificatoria” investì gli archivi cittadini5. Sull’archivio si intervenne anche nel secolo successivo e, anche in questo caso, ne rimane traccia sulle carpette dei documenti come ha ben dimostrato Cornelia Bevilacqua che nel biennio 2000-2002 ha inventariato il fondo nell’ambito del progetto Storie di casa negli archivi delle famiglie piacentine, promosso dall’Archivio di Stato di Piacenza in collaborazione con la Fondazione di Piacenza e Vigevano e con la Banca di Piacenza6. Un terzo e ultimo intervento, che si è potuto datare alla prima metà del secolo XX, ha visto la numerazione progressiva di tutti gli atti e il loro inserimento nelle cassette antiche, scombinando tutto il sistema classificatorio precedente7. Di questo archivio, purtroppo, non esistono repertori e, quindi, non è possibile stabilire la reale entità degli ordinamenti e soprattutto, se è giunto fino a noi integro, anche diversi indizi – segnature, carpette vuote, mancanza di strumenti di corredo, lasciano supporre che tanto materiale sia andato perso, complice anche i tre versamenti effettuati da diversi membri della famiglia che detenevano separatamente diversi spezzoni dell’archivio. I documenti coprono un arco temporale dal XII secolo al XX, e, in parte, sono ancora conservati in tredici cassette lignee originali sopravvissute. La maggior parte delle carte è costituita da atti privati di carattere economico patrimoniale – testamenti, passaggi di proprietà, locazioni, convenzioni, dichiarazioni di pagamento, censi ecc. – anche se non mancano, all’interno del piccolo Diplomatico, documenti più importanti come patenti, processi, cause e liti, e atti pubblici come ad esempio bullae e brevia. L’archivio contiene anche documenti relativi al monastero di San Benedetto di Piacenza, poi Sant’Agostino, al monastero di San Savino e atti delle famiglie confluite come i Mancassola, i Radini Tedeschi e gli Appiani d’Aragona, signori di Piombino inurbatisi a Piacenza nel XVI secolo e imparentatisi coi Cigala nell’Ottocento8. Il fondo consta di 528 unità archivistiche, tra le quali sono da segnalare 86 pergamene dal XII al XVI secolo; a questi sono da aggiungere i documenti pervenuti con l’ultimo versamento9. La documentazione, ancora nella seconda metà dell’Ottocento venne classificata per materie, secondo la tradizione settecentesca che vide la più imponente sistemazione dell’archivio, in base a diverse categorie, ad esempio testamenti, donazioni e inventari, convenzioni, divisioni e permute, doti e fini, beni di Gragnano ecc.10. Il riordino non tenne dunque conto delle nuove teorie archivistiche e del metodo storico che vedeva il rispetto dell’ente produttore delle carte e della loro naturale sedimentazione e che si era venuto affermando nel corso del XIX secolo. L’intervento si inserisce, comunque, a pieno titolo nell’arretrato clima archivistico piacentino che ancora negli anni intorno al 1870 vide Luciano Scarabelli riordinare l’archivio storico del Comune per materia, nonostante l’esempio di molti importanti archivi civici, soprattutto toscani ed emiliani11. L’archivio a tutt’oggi anche se inventariato si presenta disordinato, probabilmente per ragioni d’uso e di poca cura, come dimostrano anche i tanti, troppi, interventi che nel tentativo di sistemare i documenti hanno finito per creare un complicato labirinto di carte. All’atto del deposito in Archivio di Stato, poi, alcune cassette originali ormai deteriorate furono sostituite con faldoni cartacei di maggiori dimensioni, che inglobarono più contenitori antichi, facendo, così, perdere anche un’importante caratteristica estrinseca, che avrebbe potuto essere molto utile per stabile l’entità dell’intervento settecentesco. Lo studio su questo archivio ha portato alla scoperta di un significativo documento inedito, che getta nuova luce sulla tenuta degli archivi di famiglia nel secolo precedente a quello dei Lumi, quando venne organizzata la maggior parte degli archivi piacentini12. Il documento è l’inventario dei beni fatto stilare dopo la morte di Cesare Cigala da Roderio Lodena Cigala, in qualità di tutore di Mario, Isabella, Cornelia e Olimpia figli delquondam Cesare. Il documento viene redatto il 7 settembre 1647 dal notaio piacentino Ottavio Malaraggia sulla base dell’elenco di beni più ristretto contenuto nel testamento del 16 aprile 164213. Il puntuale elenco viene compilato a Piacenza in sala inferiori domus in qua decessit infrascriptus perillustris dominus Cesar Cigalla, in vicinia ecclesiae Maioris respicente per fenestras viridarium dicte domus che la famiglia aveva in affitto dal Capitolo della Cattedrale.

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Dopo il formulario iniziale il documento prosegue elencando minutamente gli oggetti all’interno di ogni stanza, cominciando ovviamente dal primo piano; le stanze appaiono ben arredate con credenze, credenzoni, buffet, canterani, casse, tavoli sedie ecc. Numerosi sono anche i quadri soprattutto a soggetto sacro – san Francesco, san Carlo, sant’Antonio da Padova, Pietà, Madonne, – ma anche ritratti di famiglia (Carlo Cigalla), imperatori romani non specificati, paesaggi e soggetti floreali. Vengono minuziosamente elencasti anche gli oggetti in peltro, in rame e in vetro con indicazioni sommarie dello stato di conservazione e, quindi, del valore – gramo, usato, novo, buono – Nella «camera sopra il portone della carrozza», utilizzata come camera da letto, oltre ai letti e alla relativa biancheria conservata in cassoni, sono elencati e descritti gli abiti del defunto. Nella «dispensa di sopra» un’altra cassa d’albera con cartara e chiave con entro scritture, cioè una cassa con serratura e chiave contenente documenti non meglio specificati. Nella stessa stanza sono conservate le armi di Cesare: un petto e schina da soldato per il signor Cesare a botta, l’armatura completa del signor Cesare e nel «camerino del servidore» uno spadone da due mani. Il documento continua con l’inventario della biancheria, contenuta in una cassa di noce, lasciata da Cesare alla figlia Olimpia. A pagina 23 il documento continuaSeguita l’inventario dell’instromenti, scritture e libri ritrovati da me Roderico Lodena Cigalla tuttore antedetto, in cui l’estensore dell’elenco distingue chiaramente tra documenti redatti dal notaio – instromenti – copie, memorie, processi, cause e documenti in genere – scritture – e libri. Dall’inventario comincia ad emergere, fin dalle prime voci, il lessico archivistico che costituisce una delle caratteristiche salienti di questo documento. Oltre alla tipologia dei diversi contenitori delle unità archivistiche – filza14, carniere15, mazzo o mazzetto16, cartone17 – per le singole unità, distingue tra processi, testamenti, cause, scritture e documenti amministrativi (cedoloni, conti), patenti ecc.; col termine libro, in questa sezione dell’inventario, viene, invece, identificato il registro. Di ogni unità archivistica si indica il titolo specificando se è scritto sul piatto della filza o della camicia di cartone o su un biglietto; vengono anche elencati il numero di documenti contenuti che, sommati, ammontano a qualche centinaia. I documenti, quindi, erano conservati in contenitori disomogenei, ordinati per pratica o affare. Non deve stupire la competenza del Malaraggia, la buona conoscenza del latino e gli studi giuridici gli permettevano di leggere e capire la natura giuridica dei documenti. Ancora nel secolo successivo i più importanti archivisti che operarono a Piacenza e che portarono in città le teorie archivistiche più avanzate mettendo mano ai maggiori fondi documentari di famiglie gentilizie e di enti religiose erano avvocati o notai, soprattutto di area emilana, modenese e bolognese, in particolare18. A pagina 24 figurano due carnieri e un mazzo di documenti con le rispettive segnature, indicate conun simbolo, con un sistema analogo a quello rinvenuto nella biblioteca capitolare di Sant’Antonino in un inventario della fine del Quattrocento19. L’archivio era, quindi, ordinato e organizzato con un sistema di segnature che permetteva di collocare e ritrovare i documenti nel loro ordine; l’estensore del documento fornisce, quindi, l’immagine di un archivio ben tenuto e custodito dalla famiglia in due locali differenti: nel primo vi è solo una cassa di documenti non meglio identificati, forse di poca importanza, mentre nel secondo c’è la maggior parte della documentazione che viene descritta minuziosamente e in parte è ancora conservata20 . Il notaio con la voce item un mazzo di scritture intitolato «varii scartafazzi» per non esservi dentro niente in sostanza, esprime un giudizio di valore sulla documentazione che ritiene di nessun conto. Di seguito la trascrizione del documento:

Primo una filza d’intrumenti intitolataFilza d’instromenti di Casa Cigalla diversi, nella quale vi sono instrumenti numero cent’ottantuno. E più un’altra filza d’instromenti intitolata Filza d’instromenti diversi, nella quale vi sono instrumenti numero novantasette. E più un carniero d’instromenti con il segno . . entro il quale vi sono doi mazzi d’instromenti in carta pergamena; uno contiene instromenti numero ottantre e l’altro numero quaranta. E più un altro carniere segnato col presente segno . . con entro doi mazzi d’instromenti, uno che contiene instromenti numero cinquantacinque et nell’altro numero settantatre. Item un mazzo segnato col presente segno nel quale vi sono processi numero sedeci. E più un altro mazzo di scritture intitulato Iura illorum de Bonhominibus con entro quindeci instromenti, varie scritture numero cinque con un libro sopra il quale vi sono varie partite. E più una filza con sopra un bilietto qual dicePro bonis relictis per dominum de Blanchis ad favores domini Iohannis Francisci Cigallae, nella quale vi sono instromenti numero tredici et varie altre scritture e liste. E più un mazzo entro il quale vi sono l’infrascritti instromenti processo et altro concernenti all’interessi dei Mancassola: Primo: un processo del quondam signor Cesare Mancassola contro il quondam signor Giovanni Aloisio Mancassola Criale; secondo: una filza con entro undeci instromenti et varie altre scritture e confessi scritti a mano: terzo: un mazzo d’instromenti quali sono in tutto numero trentatre: : un processo e sentenza del signor Francesco Mancassola contro il signor Andrea Minuti sotto il Zu(di)thio; quinto il testamento di Antonio Mancassola autentico; sesto: un processo intitulato Pro illustrissimo domino marchione Malvicino contra dominum Mancassolam; septimo: un altro processo intitolato Pro illustrissimo domino Mancassola contra Monasterium Sancti Siri; Octavo: un processo pro Cigallis contra Mancassolam e Volpino. E più un altro mazzo di scritture, processi, instrumenti et altri concernenti all’interessi dei Carandini nel quale si contengono l’infrascritte cose: doi libri un grande et un piccolo nelli quali vi sono scritte varie partite et entro varie scritture; secondo: e con confessi sopra li quali vi è una filza con entro quindeci instromenti; terzo: un processo fatto dalli signori Carandini contro li signori Mancassola; quarto un processo fatto dalli signori21 Carandini contro li Scala e Berni con entro tre instroemnti autentici; quinto: un cartone nel quale vi sono diverse allegazioni e quattro instromenti seguiti tra Carandini e Mancassola; sesto: e più un altro mazzo con entro trenta instromenti, ceduloni, conti et altro; settimo: un processo intitulato Pro illustrissimo domino Francisco Carandina Mancassola contra moniales Sancti Siri; ottavo: e più un mazzo entro il quale vi sono tre processi,

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un quinternetto con una consegna concernente all’interessi di Castelletto. E più un altro mazzetto di scritture nel quale vi sono l’infrascritte scritture: primo: un cartone di color celeste nel quale vi sono due instromenti, un processo e sei scritture contro Girolamo Roncarolo a favore dei signori Cigalla e Hospitale Grande; secondo: un deposito autentico con il con il processo et essecutione contro Danielle Bonetti a favore del signor Giovanni Francesco Cigalla; terzo: un termine tolto per li Mancassola e Cigalla a favore del secondo insieme con l’ess contro il signor Mancassola; quarto: un cartone con entro varie allegationi e doi instromenti cioè le fini di donna Antonia cattarina Cigalla e due confessi, uno autentico e l’altro scritto a mano contro le monache di santo Raimondo. E più un mazzetto legato per il longo entro il quale vi sono varie patente per il passo di Trebia e altro. E più un altro mazzetto concernente all’interessi de Caraffini di Parma legato per il longo con entro una copia del testamento di Mario Caraffino e due o tre altri instromenti. E più una filza di confessi per li fitti che si pagano ogn’anno intitolato Filza de pretti (sic). E più un’altra di confessi havuti per occasione delli livelli quali si pagano ogn’anno alle monache. Item un’altra filza di confessi diversi concernenti alla casa Cigalla intitolata la Filza dei confessi diversi. E più il processo fatto da GiovanniFrancesco Cigala contro il Fisco per li beni che erano dell’illustrissimo conte carlo Cigalla. Item un processo contro Ascanio Marazzano compito con entro una molestia, un’intromento di pagamento, un instromento di censo, un instromento di conservato, il processo, la sentenza, la licenza di far pignorare, una relazione della pignorazione et una citazione mandata al signor Cesare Cigalla ad istanza delle moneche dell’Annunciata. Item un altro processo simile a quello di sopra contro Giovanni Battista Marazzano entro cui sono tre instromenti et varie altre scritture. Item un altro cartone di color azuro con entro tre processi avanti monsignor vicario, uno per il Cigalla contro il signor Annibale Cigalla e l’altro contro il Lavello et l’altro contro il signor conte Ludovico Caraciolo Item un instromento di censo constituito per Giovanni Felice e Quinto Metello a favore del cavaliere Agostino Pavero Fontana; item un altro instromento di deposito fatto per li signori Cigalla per la dote della signora Ipsecretta ?; item un altro confesso fatto da Quinto Metello a favore de’ signori Sanseverini per la suddetta dote. Tutti e tre legati in uno; item un cartone entro il quale vi sono le allegationi fatte per la legitimatione di Giovan Francesco Cigalla, una non legitimata; item un mazzo di scritture intitolato varii scartafazzi per non esservi dentro niente in sostanza. Poi quinterenetti de beni di Valconasso. (*)

Non si sa se i documenti fossero collocati in un armadio o su scaffali. Dopo aver inventariato i documenti, seguita l’inventario de libri ritrovati da me Rodenico Lodenia Cigalla, tutore antedetto. Non essendo specificata un’altra stanza è molto probabile che i libri fossero conservati nello stesso locale, dei documenti secondo l’uso antico degli archivi-biblioteche. Le centinaia di volumi danno conto oltre che della cultura della famiglia delle professioni liberali che esercitavano i suoi componenti. Numerosi sono i volumi di medicina tra i quali la Practica copiosa in arte chirurgica ad filium Aloisium di Giovanni da Vigo, l’opera omnia di Galeno, il Libro delle Quatro Infermità Cortigiane di Luis Lobera de Avila, il Subsidium Medicinae di Durante Scacchi, i Segreti Medicinali di Pietro Bairo, Del reggimento della peste di Leonardo Fioravanti ecc. Per quanto riguarda i libri “sacri” ci sono più copie della Bibbia e dei Vangeli, anche in volgare. Non mancano i libri per l’ufficio divino – messali ecc. – e le opere agiografiche tra le quali levitae di santi locali o particolarmente venerati nel Piacentino (san Raimondo Palmerio, san Corrado, san Rocco). Per quanto riguarda i classici sono presenti le opere degli autori più diffusi come ad esempio la Storia naturale di Plinio, i commentari di Cesare, le opere di Cicerone, l’Eneide di Virgilio anche in volgare, le Metamorfosi di Ovidio una copia delle quali in volgare. Ci sono anche Petrarca e Boccaccio, verosimilmente con il Canzoniere e il Decameron ma anche Guarino, Bembo, Sannazzaro e l’Ariosto22. L’archivio doveva essere in perfetto ordine ancora nel primo trentennio del Settecento; Un documento non datato ma databile dopo il 1724, in base alla data interna dei documenti contenuti, riporta un copioso elenco di documenti estratti dall’archivio di famiglia forse per fini amministrativi o legali23. I regesti, compilati in ordine cronologico, sono corposi e ben scritti. Accanto a ogni regesto la mano novecentesca, forse di un Cigala, di cui si è detto sopra ha apposto segni e numeri di controllo, a dimostrazione che nei primi decenni del Novecento molti atti erano ancora conservati. Il fondo documentario risulta conservato organicamente in armadi chiusi a chiave in documento del 1743, forse quando venne effettuato il primo riordino. Il notaio specifica che si tratta di due credenzoni, quindi in esso potrebbero essere confluiti, sistemati in cassette di legno, tutti i documenti conservati nelle vecchie unità, cioè i carnieri, i cartoni ecc. e forse in quest’epoca saranno state abolite le vecchie segnature simboliche non più utili a ritrovare la documentazione, che aveva subito una nuova sistemazione. L’atto, redatto il 28 giugno 1743 dal notaio Giovanni Bernardino Rovellini è il testamento del conte Raffaele Cigala Fulgosi, figlio del conte Girolamo e della contessa Antonia Agazzari, con il quale Raffaele istituisce eredi i suoi figli Girolamo, Antonio, Giovanni e Maria Gaetana e usufruttuaria e curatrice dei figli la moglie contessa Ippolita Arcelli da Corticelli24. In allegato c’è l’inventario dei beni stilato il 4 agosto 1753 dal notaio piacentino Domenico Maraschi, nel quale si legge che viene compilato: «Nella casa di Piacenza sotto la vicinanza di San Michele… di abitazione dei detti signori25». Il Palazzo, che figura anche nella mappa della città di Piacenza affrescata nella loggia del palazzo Vescovile intorno al 1748 circa, si trova all’angolo tra via Sopramuro e via Felice Frasi (l’antica via San Michele) ai numeri civici 10-12; già nel 1737 era del conte Raffaele Cigala Fulgosi, mentre nel 1765 era del conte Girolamo. Nel 1810 era del conte Giuseppe Cigala, ma poi fu alienato al canonico Campelli26. Nel guardaroba è conservato l’archivio, che, entrando nell’asse ereditario, veniva lasciato al primogenito e lo seguiva nei suoi spostamenti; i documenti erano così passati dalla casa nella zona del Duomo a quella in via Felice Frasi. All’inizio del documento si legge:

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E così nella guardarobba: un credenzone grande di legno dolce con la sua cimasa dipinta a marmo, con chiave e cartara nel mezzo, ed altre due cartare e chiavi nelle parti laterali con quattro governi nel mezzo ed un solo per parte, entro del quale vi sono diverse scritture concernenti gli ineteressi di casa Cigalla… Altro credenzone di legno dolce con sua cimasa e con cartara e chiava nel mezzo ed altre due cartare e chiavi nelle parti laterali, entro cui vi sono pure altre scritture concernenti gli interessi come sopra». La vedova Ippolita Arcelli da Corticelli testa il 22 marzo 177627 e chiama eredi i suoi figli Girolamo, Antonio, Giovanni e Gaetana, moglie del conte Francesco Arcelli di Bilegno. Nel 1778, il 22 febbraio, l’esecutore testamentario redige l’inventario dei suoi beni dal quale si apprende che l’erede universale è Girolamo, il primogenito. Purtroppo, il documento non menziona l’archivio, che pure dovette passare nelle disponibilità del conte Girolamo, ma è prodigo di informazioni sui beni mobili personali della defunta: mobili, abiti, biancheria personale e per la casa, libri di devozione, articoli da toeletta, argenteria, e, soprattutto, gioielli. Le gioie si specifica che devono essere conservate da Girolamo e dai suoi discendenti ad uso delle dame di casa Cigala, mogli dei primogeniti. Il corredo comprende anelli d’oro con pietre preziose di colore – rubini, smeraldi ecc. – e diamanti, orecchini e bracciali, bottoni d’argento massiccio e in filigrana, collane d’oro, d’argento e in pietre dure – ambra, avorio ecc – e oltre seicento perle piccole divise in più fili, alle quali si sommano le perle grosse e mezzane. I gioielli sono elencati anche a parte in documento redatto dal gioielliere Marc’Antonio Magrini, che stima l’intera collezione 14.221, 3 lire. (*)

(*) La trascrizione non rispetta i capoversi dell’originale. 1 L’argomento trattato nel presente contibuto è, per ragioni di stampa, contenuto; sarà ampliato nel corso dell’intervento al convegno per il decennale del Premio Gazzola (Piacenza, 9 ottobre 2015) e nei relativi atti, ai quali si rimanda. 2 Bevilacqua 2003, pp. 91-96. L’A. ha inventariato il fondo (27 cassette lignee e 7 volumi) e ne ha redatto il relativo strumento di corredo. 3 Più recentemente, nel 2007, altre 82 buste sono state donate all’Archivio di Stato di Piacenza da Agostino Borromeo erede di Agostino Cigala Fulgosi. Quest faldoni contengono soprattutto carte della famiglia Appiani d’Aragona, pertanto questo fondo è stato definito, forse con troppa leggerezza, “Archivio Appiani”, anche se, ormai, i documenti hanno perso la loro originaria autonomia e sono venuti a formare con con il fondo principale e gli altri delle famiglie confluite un labirinto documentario difficilmente districabile. Le carte di quest’ultimo versamento sono state inventariate da Patrizia Anselmi e saranno consultabili da ottobre 2015, quando il presente contributo sarà già in stampa. Per gentile concessione dell’autrice, che qui si ringrazia, si è potuta consultare almeno l’introduzione allo strumento di corredo. 4 Per le vicende della famiglia si vedano Le antiche famiglie 1979, s.v.; Bevilacqua, Tra Val Tidone e Val Trebbia, p. 94. 5 Riva 2003, pp. 117-140, pp. 130-139 che a tutt’oggi costituisce l’unico studio sulla professione dell’archivista in epoca moderna a Piacenza. 6 Il progetto, promosso dall’Archivio di Stato di Piacenza in collaborazione con la Fondazione di Piacenza e Vigevano e della Banca di Piacenza, è ancora in corso e negli anni ha visto il riordino dei seguenti archivi: Anguisola di Vigolzone, Cigala Fulgosi, Anguissola di Cimafava, Nasalli, Barattieri di San Pietro, Morando (in collaborazione con ASAGES), Pallastrelli di Celleri, Casati Rollieri (in parte), Scotti di Fombio e Sarmato, Gazzola di Settima (in corso). 7 Quest’ultimo intervento non era stato datato da Bevilacqua, che comunque giustamente l’aveva individuato come successivo ai primi due; è stato con ogni probabilità effettuato intorno agli anni Quaranta del Novecento. Sulla parte inferiore del dorso delle cassette lignee di fattura tardosettecentesca con una etichetta a stampa nella parte superiore «Archivio di Casa Cigala», sono state incollate delle fascette in carta bianca con dei numeri latini in inchiostro nero a normografo, che rimandano al numero interno dell’atto stampato su piccole etichette a francobollo incollate sulle camice dei documenti. Questo sistema, applicato alle camicie settecentesche e ottocentesche, si ritrova anche su documenti incamiciati ex novo come ad esempio un fascicolo del 1871 (b. 9.5) chiuso in un foglio A4 piegato in due, sul quale a biro una mano novecentesca – forse di un Cigala? – in corsivo ha scritto un breve regesto giu(gno) 1871. Vertenza nella quale Giuseppe Cigala era padrino. 8 Le antiche famiglie 1979, p. 189. 9 Si veda la nota 3. 10 Bevilacqua 2003, p. 92 11 Per il clima archivistico cittadino e l’opera di Scarabelli si veda Bulla, Riva in Anelli 2009 pp. 183-198, in particolare il secondo paragrafo Scarabelli archivista del Comune di Piacenza, alle pp. 189-198. 12 Si veda la nota 5. 13 Segnatura attuale b. 17/20: antica segnatura ex busta Testamenti, Donazioni ed Inventari, Cassetta 2da n. 62. Repertorio 1° foglio 10, segnatura novecentesca 54. 14 La filza tradizionalmente indica un fascio di atti o fogli manoscritti, che costituisce un’unità organica all’interno di una serie documentaria continua; il termine rimanda all’uso di infilzare le carte in un lungo chiodo o in una cordicella e poi legarle tra due cartoni. 15 Carniere indica probabilmente una borsa di tela o cuoio capace di spitare diversi fascicoli. 16 Il termine mazzo indica un contenitore generico per i documenti; oggi in tal senzo si utilizzano i temini busta o faldone. Probabilmente il diminutivo mazzetto indica un contenitore di minore dimensione. 17 Col termine cartone si indica con ogni probabilità uno spesso foglio di cartone utilizzato come camicia di un fascicolo o di più fascicoli o atti. 18 Tra questi spiccano sicuramente Antonio Cavazzi e Luigi Grillenzoni. Cfr. Riva 2003 19 Non stupisce il sistema delle segnature che per Riva 1997, pp. 47-51 20 Si veda l’inventario di Cornelia Bevilacqua alla finca contenuto. 21 Segue dalli signori ripetuto nel testo. 22 Per ragioni di spazio si rimanda l’analisi approfondita della biblioteca ad altra sede. 23 Busta 11/4. A fianco di ogni atto, la mano novecentesca che troviamo anche su altre camicie ha annotato a matita dei numeri e dei segni di controllo, indice che i documenti erano ancora in archivio. 24 Busta 7/21 La linea della famiglia discendente da Girolamo († 1715), marito di Antonia Agazzari e di Giulia dei conti Mancassola, continuò con il figlio di primo letto Raffaele († 1746) che da Ippolita dei conti Arcelli di Corticelli († 1778) ebbe Gaetana, moglie delconte Francesco Arcelli Fontana († 1744), Girolamo e Giovanni. Il primogenito Girolamo († 1808) da Teresa Perletti († 1791) ebbe Luigi († 1832) che, sposato con Gaetana Scribani Rossi (†1817) ebbe diversi fifli tra i quali Pietro († 1866) che sposò Anna Appiani d’Aragona († 1882), unendo, così, le due famiglie. 25 Siboni 1986, s.v. La chiesa, ora scomparsa, si trovava nell’isolato all’angolo tra le odierne vie XX Settembre e Felice Frasi, dove ora sorge un imponente esercizio commerciale. 26 Fiori, 2008, t. 6, pp. 37-38. 27 busta 9.6a e 9.6b

9 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

TAV. 1 Renovatio urbis nel XVI secolo

mura viscontee

mura farnesiane e castello pentagonale

via Emilia e via Francigena

strade urbane realizzate

strade urbane progettate

10 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

11 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Pianta di Piacenza con le vecchie mura medievali, le nuove mura bastionate e i principali rivi urbani, XVI secolo (Parma, Archivio di Stato)

12 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

PIACENZA: SOCIETÀ, CULTURA ARCHITETTONICA E ATTIVITÀ PRODUTTIVE secoli XV-XIX Luciano Serchia

Piacenza tra Cinquecento e Settecento Le riflessioni che seguono nascono nell’ambito di un più ampio progetto di studio, ancora incorso,e costituiscono un primo tentativo di rilettura critica di alcuni dei più significativi contributi storiografici dedicati, in anni più o meno recenti, alla città e alle sue architetture. Secondo lo storico Pierre Racine “[….] tra il 1278 e il 1281 [si disegnò] la nuova figura della città [di Piacenza] con la chiesa dei Minori [San Francesco] simbolo della protezione religiosa sulle istituzioni civili e il palazzo laico del Gotico, simbolo del trionfo dell’aristocrazia mercantile. Da una parte il ghibellino Ubertino Landi, che si appoggiò sui Minori, particolarmente rispettosi della popolazione. Dall’altra il guelfo Alberto Scoto, che con il palazzo Gotico intese affermare lo spirito laico del popolo, staccandosi dalla Cattedrale e creando un nuovo polo nella vita politica comunale. Fu questo un momento molto importante nella storia di Piacenza. Per le due creazioni lavorarono due uomini: l’uno, guelfo, fece edificare una «domus» comunale laica; l’altro, ghibellino, donò ai Minori, soldati per eccellenza del papato, un «templum» che consentì loro di inserirsi nel cuore della società comunale urbana”1 . La Domus Societatis Mercatorum et Paraticorum, il palazzo gotico, divenne quindi il simbolo rappresentativo di un libero comune, capace di espandere le proprie relazioni economiche ben oltre i confini territoriali, attraverso il crescente potere politico e le molteplici iniziative intraprese dai commercianti. In questo periodo, il reticolo ortogonale di epoca romana era ancora chiaramente intellegibile, nonostante che il tratto urbano della via Emilia (l’attuale via Roma) non fosse più l’asse portante su cui si reggeva l’impianto medievale. La vicinanza del Po e la presenza del canale Fodesta, collegamento diretto tra la città e il fiume, avevano totalmente ribaltato la prospettiva insediativa della città. Nel 1315 Galeazzo Visconti, signore di Milano, ubicò la sua roccaforte nel versante nord della città, in prossimità della darsena di approdo del canale e della porta Fodesta; scelta che condizionò anche la successiva collocazione del palazzo di Ottavio Farnese. Nel tardo medioevo, il fermento urbanistico del XIII e XIV secolo piacentino si tradusse in una rete stradale caratterizzata da una serie di diverticoli, ramificati e tortuosi, come dei rigagnoli d’acqua sparsi tra i caseggiati per lo più cresciuti in modo caotico, quasi come un organismo biologico costituito da molecole dalle dimensioni e forme le più varie, compenetrate e affastellate le une nelle altre e sulle altre; rete ancora inclusa nella vecchia cinta muraria e intersecata al suo interno dal recinto quadrangolare delle mura viscontee, costruito intono al 1340. Per Marinella Pigozzi2 la città medievale era cresciuta addensandosi lungo i corsi d’acqua che costituirono la base organica dei suoi quartieri e delle sue successive cinte murarie. A suo parere, la zona del mercato di S. Antonino e quella del duomo e degli edifici annessi risentivano dell’andamento curvilineo del rivo di S. Agostino. Inoltre, nel settore ovest, piazza Borgo, situata fuori le mura tardo romane, era divenuta il punto di riferimento di un nuovo quartiere dove fervevano varie attività commerciali correlate alla presenza di numerosi mulini che utilizzavano le acque dei rii Beverora, Piccinino e Follo per la follatura dei tessuti e della carta. In un contesto urbano così articolato, a stento si riconosceva la via Francigena e la via Aemilia, le due arterie che dipartendosi da porta S. Lazzaro, a est, s’incuneavano tra i meandri degli isolati medievali formando una sorta di fuso allungato, la così detta “focaccia allungata” o “placentula”, per poi separarsi verso ovest, la prima in direzione della porta di San Antonio, che conduceva a Pavia, Alessandria, Torino; e la seconda in direzione della successiva porta Borghetto che conduceva al Po e a Milano. Come consuetudine negli impianti medievali, le due strade non erano percepite come percorsi unitari, ma come una serie di ambiti contigui, ciascuno identificato da un toponimo diverso dall’altro. La via Francigena era composta dalle attualivia Scalabrini, via Sant’Antonino, corso Garibaldi, piazza Borgo e via Taverna (nel XVIII secolo: il Guasto, il Borgo, Strada Levata); e la via Aemilia composta dalle attuali via Roma e via Borghetto, che nella cartografia del XVIII secolo erano denominate rispettivamente strada di Sopra o di San Lazaro e strada di Borghetto. I singoli tratti stradali s’identificavano con gli isolati, le contrade, o con una delle chiese principali che sorgevano lungo il loro percorso, contribuendo a creare una sorta di micro paesaggio urbano, i cui confini non necessariamente coincidevano con un determinato perimetro stradale, ma si espandevano e contraevano formando dei non meglio definiti ambiti urbani, mutevoli nel tempo, frutto di una complessa combinazione di fattori sociali, economici-produttivi, politici, culturali e religiosi. Si potrebbe dire che le contrade erano simili a nebulose, dove le singole particelle dell’aggregato si attraevano e respingevano dando luogo a fenomeni osmotici a catena, diffusivi e inversivi. A esempio, via Scalabrini faceva parte della contrada ghibellina degli Anguissola, famiglia dell’antica nobiltà piacentina, che qui aveva le proprie dimore. Dopo la vittoria dell’esercito spagnolo di Carlo V a Pavia (1525), il papa Clemente VII fece costruire le nuove mura cittadine, affidandone il progetti a Pietro Francesco da Viterbo, già attivo nelle difese di e Orzinuovi. L’impegnativa opera fu però costruita sotto la supervisione di Antonio da Sangallo il Giovane,

13 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 architetto di fiducia del papa, il quale, evidentemente, considerava Piacenza un caposaldo fondamentale per le sue strategie politiche3. È altrettanto evidente che un intervento del genere imponeva anche una diversa visione del sistema insediativo urbano, molto più rarefatto rispetto al denso aggregato dei fabbricati medievali, come per altro aveva suggerito sin dalla metà del Quattrocento. Con breve del 26 marzo 1527 papa Clemente VII dispose l’espropriazione di aree, caseggiati e conventi proprio per non ostacolare il libero dispiegamento delle strutture difensive. Sparirono così l’ospedale di S. Giuseppe, le chiese di S. Cristoforo e S. Biagio, l’intero borgo mercantile e “marinaro” di S. Leonardo vicino il Po, subito fuori le mura, e il monastero dei Minori Osservanti intitolato a Santa Maria di Nazareth4. Nel 1543, il cardinale legato Uberto Gambara diede seguito alla costruzione di porta Borghetto progettata dall’ingegnere Fredenzio Tramello, figlio di Alessio. Sulla porta venne inserita la targa Farnesiam Portam, emblema dei disegni politici che papa Paolo III aveva riservato alla città5. Come in tante altre realtà urbane del periodo, le nuove regole difensive resero anche necessario liberare da ingombri di qualsiasi natura e tipo (dai fabbricati, alle piantagioni e ai seminati) un’ampia fascia all’esterno delle mura per un raggio che raggiungeva le due miglia. Si tratta della ben nota “tagliata” realizzata per facilitare l’osservazione delle manovre nemiche, rappresentata in una pianta di Piacenza della metà del Cinquecento6. Non a caso nello stesso anno in questo più diradato panorama periferico urbano, furono impartite disposizioni per impiantare i gelsi sugli argini dei canali e presso le nuove mura. Per Artocchini7 e Romani8 la coltura dei gelsi, del baco da seta e la produzione di “zendadi e tocche d’oro”, erano in quel periodo le uniche attività economiche non vessate da gravose esazioni fiscali. Alla creazione del ducato di Parma e Piacenza, voluto da papa Paolo III (1545), è legata a una serie di eventi politici e militari che incisero anche sul sistema insediativo delle grandi famiglie nobiliari, tanto che alcune di esse, di tradizione guelfa, acquisirono case nelle contrade ghibelline e viceversa. All’indomani del suo insediamento, il duca Pier Luigi Farnese, istituì i nuovi estimi, che estese anche ai territori delle famiglie nobili di origine feudale d’investitura imperiale (i Pallavicino, i Landi ecc.), al fine di legittimare la sua sovranità e rivendicare su tutto il territorio ducale la piena giurisdizione sull’amministrazione della giustizia. Inoltre, obbligò i nobili a risiedere in città almeno per una parte dell’anno in uno dei palazzi di loro proprietà. Secondo Affò, i provvedimenti assunti da Pier Luigi destarono un diffuso malcontento e una crescente opposizione della nobiltà, che raggiunse livelli esplosivi con la decisione del duca di costruire una nuova fortezza cittadina, immagine tangibile di una volontà politica finalizzata al controllo assoluto sul territorio sottoposto al suo9 dominio . La propaganda anti farnesiana arriva a parlare del duca come di un nuovo Busiride (figura mitologica greca) e del castello come di un’opera demoniaca. Per dare la misura del livello cui era giunta l’opposizione dei nobili piacentini, Gosellini scrisse un dialogo immaginario tra Anguissola e Camillo Pallavicino, dove il primo si esprimeva con queste parole: “Quanto a me risolutissimo sono di togliere la vita a questo famelico lupo rapace, a questo drago arrabbiato [….]”10. Su un piano politico di più ampio respiro, don Diego Hurtado de Mendoza (1503/1504 - 1575), ambasciatore prima a Venezia e poi a Roma, scrisse un altro dialogo immaginario tra Caronte e l’anima di Pier Luigi, dove si mostrò un convinto difensore degli interessi imperiali di Carlo V in Italia, ostacolando, con il suo raffinato agire diplomatico, le aspettative di dominio dei Farnese. Per altro verso, lo storico Capasso si espresse con toni altrettanto accesi nei confronti di Ferrante Gonzaca, scrupoloso esecutore della volontà imperiali di Carlo V e tra i principali artefici della rovina di Pier Luigi, definendolo il “nibbio feroce” e il “rinnegato italiano”; mentre vide nel castello pentagonale una struttura architettonica ben protetta, dove il duca Pier Luigi avrebbe potuto vigilare sulla capitale e sul ducato, sostenendo in questo modo il “soave gioco della Chiesa”11. Per Soldini, attorno al castello pentagonale si coagularono delle esasperate polemiche che ne fecero il luogo di una battaglia “retorica” dei temi macchiavellici sul potere, comunque espressione di un programma politico di progressivo contenimento delle autonomie e facoltà decisionali del ceto nobiliare locale. Il castelle fu quindi tramutato da strumento di difesa militare e di sicurezza dei cittadini in una rocca del tiranno “sede di un potere incontrollabile e arbitrario”12. A parere di questo studioso, l’iniziale favorevole ed esplicita adesione di papa Paolo III all’iniziativa del figlio Pier Luigi si stemperò in un più cauto atteggiamento con lo svilupparsi delle vicende correlate alla politica imperiale di Carlo V13. Non vi è dubbio che la costruzione del castello pentagonale richiese una mobilitazione straordinaria di risorse economiche e la ricerca di materiale da costruzione anche recuperando quello proveniente dalle demolizioni di fabbricati preesistenti che intralciavano le operazioni costruttive. Le fonti storiche riferiscono che nel 1547 la fabbrica progrediva velocemente con l’impiego di “ doi milia lavoratori et segli lavora die et notte volendo che sia fornitta fra S.to Michele prossimo e si dice che quando sia fornita sara la più fortte che sia in Italia”14. Intanto, poco prima dell’inizio dei lavori della nuova fortezza, si concludevano anche i lavori delle nuove mura cittadine, quasi a voler indicare una continuità tra l’una e l’altra operazione che però era del tutto casuale. Le mura perimetrali della città furono presidiate da nove bastioni e quattro piattaforme15. Il castello pentagonale, già previsto a ridosso del tratto meridionale delle mura, in prossimità del bastione di S. Antonino, trovò la sua definitiva collocazione in una posizione più spostata verso ovest, vicino al bastione di S. Benedetto. La soluzione adottata, in addossamento interno alle mura, riprese quella che il Peruzzi aveva previsto per l’ammodernamento del vecchio castello medievale di S. Antonino situato vicino al bastione omonimo sullo stesso versante sud

14 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 delle mura (cfr. B. Adorni, Progetti, cit., pp. 357-359, dove illustra i disegni degli Uffizi nn. 459A, 460A e 461A). La storiografia ha attribuito a Benedetto Zaccagni, detto il Torchiarino, a Domenico Gianelli (o Giannelli) e a Giovan Battista Calvi, tutti della cerchia di Antonio da Sangallo il giovane, la paternità del progetto del castello pentagonale16. In un disegno del Torchiarino, conservato all’Archivio di Stato di Parma, Giovan Battista Calvi delineò il pentagono del castello, sovrapposto alle tracce punteggiate del sistema viario allora esistente e alla strada Gambara, rappresentando anche l’ingombro planimetrico del monastero di San Benedetto. La punta esterna del pentagono seguiva la sagoma esistente del baluardo di San Benedetto, proteso verso la campagna; sicché per dare spazio al nuovo manufatto si rese necessario sostituire i due cavalieri delle mura, appena costruite, con due nuovi baluardi. Sebbene nei registri di cantiere Domenico Gianelli compaia solo dal 1547, sembra che la sua collaborazione al progetto abbia avuto inizio nello stesso periodo in cui era coinvolto Calvi e, in ogni caso, a lui si devono le opere di ultimazione del cantiere eseguite sotto le disposizioni del Ferrante Gonzaga (1507-1557), nuovo governatore Milano (dal 1546 al 1554) per volere dell’imperatore di Carlo V, subentrato nella fortificazione della città dopo la morte di Pier Luigi per mano del nobile piacentino Giovanni Anguissola (10 settembre 1547). Ferrante, ammirato dal lavoro svolto da Pier Luigi, profuse tutto il suo impegno per completare l’opera, comunicando il suo entusiasmo a Carlo V in una missiva: “Ho trovato questo castello fornito del tutto in quanto à la facciata, che guarda la città, et tanto bello, et forte, che io oso dire apertamente essere il più bello di Christianità”17. Dunque, nonostante gli evidenti contrasti politici, Ferrante vide nell’opera di Pier Luigi quella di un principe illuminato, capace di apportare delle profonde modifiche innovative nella città di cui era divenuto il dispotico signore. Che fosse questa la fama di cui godeva tra alcuni dei suoi contemporanei, lo dimostrano le parole d’elogio usate da un veneziano residente a Milano durante la sua visita della città: “Il Duca havea principiato à far drizzar le strade, e fabricar nelli lochi vacui, che molti ve ne sono, se vivea anchora qualc’anno si pensa, che haveria redutto la Città in più bell’essere di quello che è [….]18. D’altra parte, Ferrante non ostacolò questo processo di rinnovamento urbano di cui si intravvedevano gli indirizzi programmatici nei vari provvedimenti assunti dalla Commissione di Politica e Ornamento istituita da Pier Luigi. Infatti, con Ferrante si riprendono con convinzione alcuni dei provvedimenti e disposizioni precedentemente assunti dalla stessa Commissione, come l’esame della richiesta presentata dal nobile Melchiorre Fulgoso nel 1551 per costruire una casa “degna del suo grado”19, o la proposta di costruire la strada di S. Nicola dei Cattanei (1554), già decisa dal Duca20. Sebbene Ferrante negò di aver dato il suo assenso all’allargamento della strada Gambara (lo stradone Farnese) da 24 a 40 braccia su istanza presentata dai deputati della Commissione di Politica e Ornamento nel 1551, perché riteneva più che sufficiente la larghezza precedentemente definita, non si può certo affermare che di tali intendimenti ne volesse fare tabula rasa21. La richiesta della Commissione documenta che a quella data il tratto più orientale della strada non era ancora finito, anche se i Canonici Regolari di San Giovanni in Laterano avevano già incominciato a costruire il loro grande complesso conventuale di Sant’Agostino, assecondando in questo le intenzioni programmatiche che aveva precedentemente illustrato il cardinal legato Gambara, l’ideatore dello stradone. La decisione era stata presa dai Canonici Regolari perché costretti ad abbandonare, non senza un congruo risarcimento del danno, la loro chiesa e convento di San Benedetto, situati nel mezzo del nuovo impianto del castello pentagonale. Ma il loro convento non fu il solo a farne le spese. Oltre a vari edifici d’abitazione, fu anche demolito il complesso delle monache di San Bernardo per ampliare la piazza del castello secondo il disegno dell’architetto Gianelli22. Probabilmente, lo stesso Gianelli svolse anche altri incarichi riguardanti le trasformazioni dell’impianto urbano, più di quanto poté fare l’ingegnere del comune Giovanni Antonio Bonadeo, forse suo subordinato, attivo negli anni Trenta del Cinquecento nelle fortificazioni della città. Ferrante Gonzaga, uomo d’armi, come Pier Luigi, aveva però acquisito, per necessità d’ufficio, una visione politica e strategica più ampia del suo rivale, più incline a comporre le istanze dei poteri locali con gli interessi politici dispiegati sul campo dall’imperatore. In definitiva seguì l’onda delle trasformazioni urbane piacentine con l’animo del conservatore amante delle strutture fortificate. Con il trattato di Gand (22 settembre 1556), Ottavio Farnese tornò a dominare l’intero territorio del ducato ma con l’obbligo di lasciare nella cittadella pentagonale un presidio permanente di soldati spagnoli obbligo che perdurò per i successivi trent’anni. Dopo lo smantellamento dell’imponente e odiata architettura pentagonale, attuato durante i moti del 1848, restano oggi solo poche tracce: le due entrate laterali indipendenti del bastione di San Benedetto o della Trinità rivolto verso la campagna con un tratto delle mura e l’articolata struttura dell’accesso unico e le casematte del bastione di S. Giovanni o Gonzaga, mentre degli altri tre bastioni del pentagono, costruiti ex novo, restano solo delle vaghe impronte sul terreno. Secondo Pigozzi (1991) si potrebbe affermare che il carattere ecclesiastico della città, nella sostanza un feudo pontificio, assunse connotazioni più imperiali con il Trattato di Gand. Le architetture ecclesiastiche, come quelle di Alessio Tramello, influenzate dalle opere bramantesche, emergevano nel paesaggio urbano ancora nei primi decenni del Cinquecento e nuove prospettive urbane si aprirono con la costruzione della nuova cinta muraria. Nel 1548, la Commissione di Politica e Ornamento propose l’apertura di una nuova strada che avrebbe dovuto affiancare il canale Fodesta,collegando il Palazzo con la nuova Porta Fodesta (1538-40). Così, si sarebbe venuto a creare un asse infrastrutturale esterno alla città che avrebbe accentuato il cambiamento

15 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 del sistema espansivo rivolto verso il Po. Inoltre, secondo la studiosa, nel 1544 il nuovo assetto urbano conferito alla piazza del duomo esprimeva con chiarezza gli intenti della politica dinastica farnesiana, che tuttavia non ebbe modo di espletare fino in fondo le interrelazioni tra potere e città per le improvvide posizioni assunte da Pier Luigi, e per la “realpolitik” della dinastia farnesiana rientrata a Piacenza nel 1556, in seguito al Trattato di Gand. Altri fattori contribuirono a depotenziare l’impronta dei Farnese sulla città. Se nel Quattrocento i palazzi Landi e Scotti da Fombio avevano arricchito il panorama urbano con la loro architettura sfarzosa e culturalmente aggiornata, nel Cinquecento la nobiltà piacentina, venuto meno l’obbligo di risiedere in città, preferì manifestare altrove la propria simbolica magnificenza. In buona sostanza, per la Pigozzi, le scelte edilizie attuate da Pier Luigi e dai suoi successori non cambiarono significativamente le cose sotto il profilo urbanistico. I Farnese non riuscirono neppure a conferire un’impronta dinastica alla via Cittadella, la strada che collegava piazza Cavalli con la rocca viscontea. Infatti, il nuovo palazzo ducale rimase a lungo imprigionato in un settore periferico della città; e quando nel 1558 si realizzò la strada da Nazaret a Torricella lo si fece soprattutto per collegare il palazzo alla porta S. Lazzaro che conduceva a Parma attraverso la via Emilia, sempre in una zona periferica della città. Più in generale, se l’architettura religiosa del Cinquecento si poneva spesso come fondale prospettico di uno specifico scenario urbano, a Piacenza questo non accade, e le chiese sono invece allineate conle quinte stradali, come gli altri fabbricati civili della schiera edilizia. Solo il duomo aveva questa valenza scenica, ma ricavata attraverso specifiche operazioni urbanistiche attuate con piccoli interventi protrattesi nel tempo senza un costrutto unitario. La studiosa rammenta che ancora nel 1622 i monaci di S. Sisto mimetizzarono la facciata della chiesa, situata alla fine dell’asse prospettico della via omonima, dietro l’antistante portico con l’arco centrale chiuso da un portone. A conferma di questa interessante osservazione della studiosa si possono citare i casi dei numerosi complessi conventuali sorti tra Cinquecento e Settecento nei vari isolati della città, sia centrali sia periferici, dove la chiesa conventuale, ad aula doppia, quella pubblica e quella riservata, è in genere posizionata in angolo tra due strade che delimitano l’isolato e la facciata, quasi sempre schermata da un recinto murario o da una cancellata, non sempre rivolta verso l’arteria principale. Si tratta quindi di un sistema principalmente adottato nell’architettura conventuale particolarmente densa a Piacenza. Se nel corso del Cinquecento l’assetto urbanistico delle contrade rimase fondamentalmente quello dell’impianto tardo medievale, il precostituito sistema insediativo delle grandi famiglie nobiliari cambiò radicalmente, al punto che alcune di esse, di tradizione guelfa, acquisirono case nelle contrade ghibelline e viceversa. In una pianta dei primi dell’Ottocento, conservata nell’Archivio di Stato di Piacenza, via Scalabrini è ancora raffigurata con i nomi delle principali chiese che vi si affacciano: strada di San Paolo, di S. Anna e di S. Salvatore. Tra tutti questi toponimi, prevalse l’ultimo, riferito alla chiesa intitolata a S. Salvatore, un tempo parrocchia, situata sull’attuale piazzale Roma, alla confluenza delle vie Roma (già strada S. Lazzaro) e via Scalabrini. La chiesa, chiusa al culto nel 1868, fu trasformata in magazzino e il titolo di parrocchiale trasferito alla chiesa di S. Anna, di origini altomedievali, nella quale si conservavano preziose testimonianze di pittura lombarda. Il convento fu trasformato in magazzino sul finire dell’Ottocento. La strada avrebbe dovuto chiamarsi dal 1887 “via della Lega lombarda” per ricordare i preliminari della pace di Costanza firmati nella basilica di S. Antonino. Nel 1923, la chiesa di S. Salvatore fu demolita per attuare uno degli ennesimi piani di “risanamento urbano” e i lavori promossi per l’eliminazione delle barriere ottocentesche. Infine, il 22 ottobre 1935, l’amministrazione comunale, con delibera n. 662, dedicò l’antico tracciato stradale a G. Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza dal 1876 al 1905. I maggiori interventi di riqualificazione e di rinnovo edilizio di via Scalabrini si collocano fra Cinquecento e Settecento, a cominciare dall’apertura dei grandi cantieri religiosi e di alcune grandi dimore nobiliari. In questo periodo, la strada si configura, infatti, come vera e propriavia nobilium, lungo la quale prospettano le dimore dei marchesi Appiani d’Aragona Borromeo (dal 1595), dei conti Giacometti (inizio XVIII secolo), Pallastrelli (fine secolo XVII), Giandemaria (inizio secolo XVIII). L’austera eleganza architettonica che caratterizza i fronti principali dei palazzi gentilizi e l’imponenza degli edifici religiosi, fra i quali la chiesa e il complesso di S. Vincenzo dei Teatini, conferiscono alla strada un ostentato decoro monumentale. Oltre al complesso del Seminario e all’ex Convento della Neve, attuale sede universitaria, lungo la strada si trovano anche alcune delle più interessanti soluzioni architettoniche degli spazi residenziali e delle rispettive aree a giardino. Perciò, se la vicina via Guastafredda è caratterizzata da un’edilizia abitativa priva di caratteri monumentali, sia nella configurazione architettonica, sia nella ricerca stilistica, le quinte architettoniche di via Scalabrini, di assoluta rilevanza storico-architettonica e tipologica, si presentano invece, unitamente a quelle che si affacciano sulla vicina piazza S. Antonino, come preziose testimonianze di una rinnovata forma urbis. I mutamenti della toponomastica stradale coinvolsero molte altre strade urbane aventi le più varie caratteristiche: larghe, lunghe, strette, tortuose e corte. Molti diverticoli stradali e cantoni ciechi di epoca medievale furono fatti, rettificati o allargati definitivamente cancellati. In genere, i toponimi medievali delle strade rimandavano a eventi, a consuetudini sociali e ai nomi di alcuni edifici storici, civili, produttivi e religiosi, situati lungo i percorsi o nelle immediate vicinanze. Costituivano quindi dei vessilli delle contrade, ciascuna caratterizzata da strette

16 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 relazioni di vicinato e da condivisi valori identitari. Invece, la toponomastica farnesiana incominciò a introdurre una certa enfasi retorica, in genere rispecchiata nei nomi delle battaglie vinte e nelle personalità che si erano distinte sotto il profilo politico, religioso e culturale. Infine, con l’unità d’Italia, si ricorse a una toponomastica celebrativa e commemorativa, che inneggiava alle glorie risorgimentali, ai luoghi di famose ed eroiche battaglie e alle personalità che a vario titolo avevano contribuito a costruire “l’edificio” della nazione. Quindi, i cambiamenti della toponomastica seguono e riflettono il processo di trasformazione dell’impianto urbano e segnalano nel tempo la perdita di testimonianze del passato, materiali e immateriali, di cui restano poche vestigia storiche, ammantate da significati secolari, monumentali e simbolici, ma quasi decontestualizzate perché “liberate” dai poveri fabbricati addossati e inquadrate in nuove prospettive e di più vasto raggio. In definitiva, all’identità di vicinato, intesa come appartenenza a una ristretta comunità di contrade, unita dagli stenti del vissuto quotidiano, subentra una nuova identità che, nel cancellare progressivamente le nebulose e brulicanti relazioni del vecchio micro paesaggio urbano, si espande su un orizzonte sempre più impersonale. Se gettiamo uno sguardo all’attività produttiva della città nel corso del Cinquecento, ci accorgiamo di una realtà sociale costituita da un coacervo di relazioni economiche e abitative compenetrate tra loro senza particolari distinzioni funzionali e tipologiche. Nel 1559, Ottavio Farnese introdusse in città la tessitura con oro e argento e concesse di piantumare i gelsi sugli spalti della città, da S. Ambrogio al cavaliere di Campagna, per incrementare la produzione della seta. La presenza di filatoi è documentata sul rivo Beverora, sul nuovo stradone Farnese (presso S. Stefano) e lungo il cantone Trebbiola, vale a dire nei settori ovest, sud e nord est della città. Secondo alcuni studiosi, sembra che questo tipo di attività abbia determinato uno specifico impianto abitativo e produttivo costituito da ambienti per l’abitazione e per il lavoro, con la superfice della copertura utilizzata come “chiodera” per stendere e asciugare le tele lavorate. Nei pressi del filatoio “Grande”, lungo la strada delle Benedettine furono costruite case a schiera di due piani, dotate di cortili, orti per la coltivazione della vite, per le piante di fico e di “moroni”, oltre a eventuali aree prative23. Lo stesso Ottavio Farnese promosse nel 1575 un “estimo” della città, poi ripetuto dai suoi successori Alessandro e Ranuccio per altri venti anni, dal quale si evince quale fosse la distribuzione delle abitazioni appartenenti a vari ceti sociali. Secondo M. A. Romani24, nella parrocchia di S. Maria di Galiverta, situata vicino al Po e al canale Fodesta, abitavano 48 “navaroli” e 28 pescatori; i ricchi mercanti del tessuto in panno e seta e dei prodotti caseari risiedevano nelle zone comprese tra il duomo e piazza Cavalli e tra palazzo Madama e il castello. Più nello specifico, nelle “vicinanze” o isolati situati nei pressi del duomo vivevano 50 mercanti, 55 possidenti e 65 “artisti”, ovvero lavoratori autonomi o dipendenti. Per questo studioso, il censimento di Ottavio definisce un quadro sociale, dove le fonti di reddito sembrano molto più diversificate rispetto a quelle dell’estimo del 1545, nel quale prevalevano invece attività legate al settore agricolo. D’altra parte, a Piacenza si incominciarono a svolgere dal 1579 le “Fiere dei Cambi”, segno che la città era divenuta uno dei punti di riferimento della finanza25. Piacenza, già gravitante nella sfera economica di Milano, prima con i Visconti, poi con gli Sforza, mantenne questo rapporto privilegiato anche con gli Spagnoli dominatori delle terre lombarde.

Nelle rare mappe del Cinquecento i quartieri della città corrispondono al numero e alla denominazione delle porte: S. Lazzaro, Fodesta, Borghetto, S. Antonio, del Castello, del Soccorso, S. Raimondo, considerate anch’esse più delle barriere daziarie che delle vere e proprie strutture difensive. A loro volta i quartieri sono suddivisi in “vicinanze” (o isolati) identificate dai nomi delle chiese principali che sorgono al loro interno. Per Pigozzi (1991) i perimetri degli isolati sono parzialmente definiti dal tracciato dei rivi che li “dividono” o “accorpano” in “una spontanea e poco mutabile definizione urbana”. In realtà, i numerosi rivi più che dividere gli isolati li attraversano anche passando sotto i fabbricati, specie quando si tratta di organismi architettonici di maggiore ingombro planimetrico. I rivi sono spesso utilizzati come canali di scolo, dove confluiscono le acque scure dei residui domestici e in questo caso, l’andamento dei canali non è mai tangente alle facciate dei caseggiati, ma penetra con un’angolazione casuale nelle sagome dei caseggiati. Inoltre, molti dei rivi secondari di uso domestico, non produttivo, furono spesso coperti e dunque nascosti alla trama di superfice. Conseguentemente, la morfologia degli isolati cinquecenteschi non mutava tanto lungo i perimetri ma piuttosto nell’assetto interno, nella misura in cui, per varie ragioni, si dava seguito all’accorpamento di più fabbricati. Lorenzo Molossi26 descrisse una Piacenza con numerosi Horti Farnesiani recintati, interconnessi con i palazzi e i monasteri e interrelati con i rivi urbani derivati dal Trebbia: S. Savino, S. Agostino, Beverora, Piccinino, Santa Vittoria. Secondo questo autore, due sono i segni che la contraddistinguono sotto il profilo idrografico: la vicinanza dello sbocco del Trebbia nel Po, corso d’acqua privilegiato per l’approvvigionamento del sale; e i rivi che l’hanno plasmata con il loro andamento sinuoso. In città si snodano vari tipi di rivi: quelli per addurre le acque all’interno dei palazzi, delle case e dei conventi, come ad esempio nei conventi di S. Agostino e di S. Siro sullo stradone Farnese; e quelli caratterizzati dalla presenza di mulini utilizzati per attività produttive, come nel “cenobio” benedettino di S. Siro. Nel 1685 in città si contavano 25 mulini, collegati ai filatoi, alle concerie, alle fornaci e alle rimesse delle derrate cerealicole del ricco territorio circostante. Ottolenghi rammentava

17 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 che nel 1593 fu realizzato il “taglio” del Po nel territorio di Caselle su disegno del bolognese Scipione Datteri e la direzione di Alessandro Bolzoni27. Un secolo più tardi si sistemarono gli argini su progetto di Giovan Battista Barattieri e nel 1754 furono eseguite altre opere di consolidamento. Il progetto del Datteri si rivelò molto importante per la sicurezza del contado e della città, e per l’aiuto offerto dal nuovo disegno idrografico alla produzione agricola del territorio circostante. Il beneficio economico che ne trasse la città è misurabile nei mutamenti del tessuto urbano generatisi nel XVII e XVIII secolo attraverso le iniziative soprattutto dei privati, che finanziarono anche opere aventi finalità pubbliche, come l’ospedale, la biblioteca e il collegio Alberoni, costruito al di fuori delle mura nel settore est della città. Secondo Anton Francesco Villa, Pier Luigi Farnese scelse “non senza causa stantia più presto in Piacenza che in Parma prima di havere assai più abondantia de pan, polame, comodità de caxe et più numero de gentilhomini, oltre le diverse mercantie che havemo nui de più, e più forte e bella città insieme con il Po fiume in el qualle più volte se ne piliava spasso”28. Dunque, Piacenza, città di frontiera e di passo, lambita dal grande fiume offriva al nuovo duca maggiori opportunità strategiche, politiche, militari ed economiche. L’istituzione del ducato (1545) voluta da Paolo III Farnese per suo nipote Pier Luigi (1503-1547) non determinò dei radicali cambiamenti all’assetto dell’impianto medievale della città. L’idea di renovatio urbis che Pier Luigi aveva per Piacenza era minata da un approccio non sistemico, finalizzato a raggiungere degli obiettivi, anche strategici e militari, che consolidassero in tempi relativamente brevi la sua signoria sull’intera città, coinvolgendo solo alcune parti dell’impianto urbano. La prematura morte di Pier Luigi, avvenuta nel 1547, impedì di avviare molte delle opere previste, che furono perciò portate a termine dai suoi successori nel corso della seconda metà del Cinquecento e nei primi anni del Seicento e non tutte secondo gli iniziali intendimenti. La decisione presa dal cardinal legato Uberto Gambara (4 aprile 1542-24 aprile 1544) il 18 ottobre 1543 di far costruire la strada Gambara, poi denominata Stradone Farnese dal 1581, e quella assunta dal suo immediato successore Marino Grimani (24 aprile 1544-24 agosto 1545) di abbattere la chiesa di S. Giovanni Evangelista (1544) per allargare la piazza del Duomo, costituiscono le premesse fondamentali di questo processo trasformativo; decisioni che, per Bruno Adorni (1982), dovettero ottenere l’approvazione di papa Paolo III, prima che Pier Luigi divenisse duca e proprio per favorirne l’insediamento. Oltre alla decisione di aprire la prima grande arteria stradale a sud della città, prevalentemente sulle aree ortive che a quella data arrivavano fino alle mura, il cardinale Gambara prese in rapida successione altre due importati decisioni di rilievo urbanistico: quella di demolire il vecchio castello di S. Antonino (10 aprile 1543); e quella di istituire la commissione della “Politica et Ornamento” della città (1° marzo 1544). Con il secondo provvedimento si ponevano le basi amministrative per governare il processo di sviluppo dei piani urbanistici, l’emanazione di norme sulle procedure espropriative, le valutazioni sugli indennizzi e l’emanazione di specifici regolamenti sulle caratteristiche dimensionali che avrebbero dovuto assumere i fabbricati in rapporto ai nuovi fronti stradali. Il termine “ornamento” che qualificava il titolo di questa commissione, come quella istituita dal duca Pier Luigi tre anni più tardi (1547), allude non tanto all’aspetto decorativo dei fabbricati, quanto, piuttosto, alla necessità di dotare le nuove costruzioni di altezze e ingombri planimetrici adeguati, allineamenti specifici, gronde di coronamento, marciapiedi in mattonato di laterizio o lastricati in pietra e di canalette di scolo per le acque. Ci troviamo cioè di fronte a una sorta di “regolamento urbano” ante litteram sebbene concepito per essere applicato solo per alcune parti della città. Le norme venivano di volta in volta definite e anche modificate nel corso del tempo, a seconda dei progetti esaminati dai sei componenti la commissione, sia quelli da realizzare su iniziativa della stessa commissione, riguardanti prevalentemente l’apertura di nuove strade, sia quelli presentati da privati per la costruzione o ristrutturazione delle abitazioni. Nei due termini “politica” e “ornamento” confluivano dei significati che investivano gli indirizzi e le scelte programmatiche, le disposizioni sulle dimensioni dei fabbricati, sulla dislocazione dei lastricati delle strade e dei fittoni in pietra, i così detti “colonelli”, per il “commodo” dei passanti lungo le principali piazze e strade. Il termine politica, che attiene all’arte di amministrare la cosa pubblica, proprio perché arte, seguiva un percorso discriminatorio, teso ad attribuire una preminente gerarchia ad alcuni ambiti urbani rispetto ad altri. E anche l’ornamento, da intendersi come decoro urbano, rientrando nelle categorie dell’etica e dell’estetica, apriva il campo a soluzioni qualitative da riservare solo ad alcune parti del tessuto urbano, introducendo, di fatto, delle discriminanti che lasciavano tendenzialmente campo libero all’iniziativa privata dei ceti più abbienti rispetto a quella della mano pubblica. In definitiva, la capacità della commissione di “Politica et Ornamento” di governare le complesse dinamiche trasformative dell’impianto urbano era fin dalla nascita parzialmente compromessa da un’intrinseca ambiguità e fragilità istituzionale che le impedivano di esercitare una vera e propria pianificazione urbana; e a Piacenza, questa specifica tendenza rimarrà tale ben oltre l’unità d’Italia, soprattutto per l’ingombrante presenza delle famiglie nobili, interessate a perpetuare la “magnifica” immagine dei propri casati. I motivi che portarono alla decisione di costruire la nuova strada sono indicati nell’atto fondativo dello stradone del 18 ottobre 1543. In questo documento, scritto in latino, si descrive di una città medievale che, pur essendo ben fortificata, non presenta un soddisfacente sistema stradale e disposizione degli edifici, costituiti

18 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 da abitazioni poco luminose e strette (incolendi angustias). Ragion per cui, la nuova strada avrebbe conferito “decoro” e un vantaggioso ampliamento della città medievale; e i cittadini vi avrebbero potuto costruire le proprie dimore, attirati dalla sua bellezza e dalla salubrità dell’aria (traduzione compendiata del testo in latino, in Adorni 1982). Il nuovo tracciato, descritto nel documento, avrebbe ripercorso l’andamento della vecchia strada di S. Bernardino, rettificandone il percorso e allargandone la carreggiata a 28 braccia (13,15 m), fino alle chiese di “Santa Chiara e di San Raimondo” (ovvero fino all’incrocio dell’omonima strada), per poi proseguire, deviando ad angolo ottuso e sempre in linea retta e con la stessa larghezza di 28 braccia, fino “alla porta di strada Levata o di S. Antonio”. Per il tratto centrale dello stradone, compreso tra la chiesa di S. Bernardino (dove ora è situata la chiesa dei Cappuccini) e la chiesa di S. Benedetto (già inclusa nella cittadella di Pier Luigi), le nuove trasversali, da interconnettere ad angolo retto, avrebbero dovuto avere una larghezza di 15 braccia (7 metri circa), “per comodità pubblica e degli edifici da costruire”, e un andamento in linea retta fino alle mura o ai bastioni. Per il tratto centrale dello stradone si precisano anche le dimensioni che avrebbero dovuto assumere, gli affacci delle nuove case: 26 braccia (12,21 m) di altezza minima fino alla gronda; 3,5 braccia (1,64 m) per l’altezza dei tetti, su entrambi i versanti del percorso; mentre nei tratti terminali, l’altezza dei nuovi fabbricati non avrebbe dovuto essere inferiore a 18,5 braccia (8,73 m). È anche indicato l’obbligo per tutti i cittadini del circondario, compresi gli ecclesiastici di vendere le aree libere ai cittadini che ne avessero fatta richiesta e ai prezzi stabiliti nel provvedimento. Nel caso in cui i proprietari si fossero opposti, le aree libere e gli orti sarebbero stati espropriati e incorporati nelle fortificazioni della città, a quella data in fase di costruzione. Inoltre, tutte le aree libere che si affacciavano sul tracciato dello stradone sarebbero state espropriate per una larghezza di 4 braccia. Infine, sono indicate le procedure amministrative e sanzionatorie per meglio garantire l’esecuzione del nuovo tracciato. Si tratta dunque di un vero piano urbanistico particolareggiato, nel quale si scorge una visione che avrebbe voluto, per così dire, scardinato, almeno sotto il profilo concettuale, il disegno della città medievale. Nel frattempo, lascia però vedere anche i limiti della soluzione adottata, calata all’interno di una zona periferica, defilata dai nodi nevralgici del sistema stradale medievale che si voleva razionalizzare. Tra gli obiettivi prioritari del cardinale Gambara sembra dunque che vi fosse anche quello di collegare con un percorso più rapido il settore urbano orientale con la porta S. Antonio, verso Pavia, Alessandria e Torino, più “commodo” della via Francigena, incuneata nel vecchio fuso medievale. Per altro, va rammentato che, secondo Leonardo, Piacenza era una città di “passo” e inoltre che già dal tardo medioevo era considerata un nodo strategico sia sotto il profilo militare sia commerciale. Il tratto più occidentale della nuova strada rimase tuttavia incompiuto per la decisione, già assunta nel 1544, di costruire il castello pentagonale all’interno delle mura, nei pressi della porta di S. Antonio. Al duca Pier Luigi spettò comunque la decisione finale, presa l’anno successivo che tolse allo stradone una delle principale ragione per le quali era stato ideato. Tra il 1547 e il 1558, la nuova “Congregazione sopra l’ornato”, voluta da Pier Luigi nel 1547, emanò una serie di provvedimenti sul costruendo Stradone Farnese riguardanti la demolizione, in tutto o in parte, dei caseggiati interferenti con il nuovo tracciato stradale e la configurazione dei nuovi corpi di fabbricati che in parte modificavano le precedenti indicazioni contenute nell’atto fondativo della strada, come l’incremento dell’altezza massima consentita dei nuovi fabbricati da 18,5 a 20 braccia da costruirsi nei tratti terminali della strada previsto nell’atto della Congregazione datato 7 giugno 158629. Nelle “grida” pubblicate tra il 21 dicembre 1556 e il 3 giugno 1558, i Farnese, che erano appena tornati a governare la città, manifestarono il proprio scontento per il lento procedere dei lavori, nel corso dei quali si incontrarono degli ostacoli, tecnici e burocratici, come quelli sorti per la demolizione di due case che intralciavano il tracciato in corrispondenza della strada di San Raimondo o quelli concernenti la rateizzazione dei pagamenti per la vendita delle aree, riportati nella delibera della Commissione di Politica e Ornamento del 10 ottobre 1585. Gli storici si sono interrogati se la contraddittoria decisione di costruire il nuovo castello pentagonale volesse in qualche modo annullare gli effetti dei provvedimenti assunti dal cardinale Gambara, non particolarmente graditi da papa Paolo III. Sta di fatto che nella seconda metà del Cinquecento il collegamento con la porta di S. Antonio fu comunque garantito da una serie di aggiustamenti stradali, congiungendo il tratto eseguito con il cantone Venturini (strada che ha mantenuto lo stesso toponimo), lo stradone del Castello (il primo tratto dell’attuale viale Malta) e il cantone Valverde (ancor oggi così denominato). Adorni (1982) sintetizzò efficacemente l’intera operazione in questi termini: “Così questa strada, che partiva dalle mura e non da una porta [quella di S. Lazzaro a est], neppure arrivava a una porta [quella di S. Antonio a ovest], rimanendo una strada cieca, senza nessuna funzione di collegamento, nonostante la sua lunghezza di 800 metri per il solo tratto costruito”. Verso oriente, il tratto iniziale della nova strada, seguiva probabilmente il vecchio tracciato della strada di San Bernardino, che a ridosso degli spalti era approssimativamente collegata con il “cantone della muraja” (l’attuale via Moroni) e con la strada S. Anna, vale a dire il tratto finale di via Scalabrini. Solo alcune delle opere stradali secondarie previste nell’atto fondativo del 18 ottobre 1543 furono portate a termine, come ad esempio la rettifica della strada che dal complesso di San Vincenzo conduceva allo Stradone, documentato in una delibera della Commissione di Politica e Ornamento del 1564. Il carattere

19 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 episodico e disorganico della pianificazione del sistema stradale interrelato allo Stradone trova conferma nell’iniziativa della Commissione di Politica e Ornamento (atto del 22 gennaio 1589) di procedere alla costruzione di un nuovo tratto stradale tra lo stradone e le mura in prossimità del cantone Santo Stefano, e precisamente tra il monastero di San Bartolomeo vecchio e la proprietà del conte Muzio Benzone. Nonostante il chiaro intento programmatico, la strada, che era già stata prevista al tempo di Pier Luigi Farnese e forse in parte anche realizzata (nel documento del 1589 si afferma che a quella data se ne conservavano “evidenti vestigia”), non sembra sia mai stata completata. E in effetti, come già aveva osservato Adorni (1982), la strada in questione appare come ancora da realizzare nella pianta della zona retrostante il Duomo disegnata da Alessandro Bolzoni30, e nelle piante di Piacenza del Florimi (1612) e di van Schoel (1622)31, ma non nelle piante settecentesche e ottocentesche della città. Sicché, permangono forti dubbi circa la sua effettiva realizzazione. Sta di fatto che, tre secoli più tardi, Emilio Nasalli Rocca così descriveva l’atmosfera di malinconica solitudine che si respirava lungo lo Stradone Farnese: “Lo stesso tranvai che lo attraversa non riuscì a svegliarlo dalla morte. I carrozzoni si spopolano di passeggeri prima di giungervi e passano vuoti per la vuota strada, gittandovi in vano sbuffi di fumo, di sibili e scampanellate pel caso fortuito che qualcosa di vivo, uomo o bestia, avesse a sboccare colà. Una vaporiera in una via lasciata a mezzo da un cardinale Gambara nel secolo XVI appare come una visione fantastica, strana, inverosimile”32. D’altra parte, l’atmosfera di solitario abbandono che avvolgeva lo stradone Farnese era in qualche modo già stata avvertita dalla stessa Amministrazione comunale che nella delibera consigliare del 10 maggio 1865 differenziò la rete stradale urbana in tre categorie, in rapporto al grado d’importanza e di concentrazione delle sedi istituzionali, amministrative, bancarie, commerciali, professionali e al grado d’interconnessione con i nodi viari extraurbani, escludendolo dalla rete di prima categoria, cui era riservata la possibilità di disporre di marciapiedi in granito e di rotaie per i carri e le carrozze. Del resto, fin dalla nascita dello stradone, si erano manifestate delle chiare avvisaglie circa ilmododi come sarebbero andate a finire effettivamente le cose. Lungo il tratto realizzato, poche erano le fabbriche preesistenti e poche restarono quelle che furono costruite nel corso dei secoli successivi. Carenti erano e restarono soprattutto le residenze nobiliari, vettori generatori e attrattori del processo di rinnovamento del decoro urbano almeno fino alla prima metà dell’Ottocento. L’analisi del processo storico insediativo lungo lo stradone Farnese ci consente di affermare che il progetto della nuova arteria stradale di Gambara, recepito da Pier Luigi Farnese, deroga in parte da quello che sarebbe poi divenuto l’usuale modus operandi delle trasformazioni urbane attuate dal Seicento fino all’Unità d’Italia, perché concepito con una ben definita idea di città, finalizzata a innovare il tessuto convulso e irregolare dell’impianto medievale. Il progetto voleva forse dimostrare quale dovesse essere la giusta direzione da intraprendere in un contesto sociale, economico e politico preso nei vortici di eventi in rapida evoluzione. E per farlo erano stati adottati tutti i provvedimenti tecnici e amministrativi che ne facilitassero l’esecuzione. L’idea di base era sostenuta da una volontà di razionalizzazione e di semplificazione del disegno urbano ereditato dal passato medievale da sperimentare in una zona non ancora compromessa dai densi caseggiati aggregati lungo strade strette e tortuose. Se si vuole è un’idea maturata prima negli argomenti filosofici trattati dall’Alberti nei suoi tre libri de Familia (1437) e poi esplicitati nei suoi dieci libri del (1485), che aprirono la coscienza critica verso una nuova volontà umanistica, decisa a sostituire gli scorci ravvicinati dello spazio medievale con orizzonti visivi pianificati all’interno di una rete stradale più razionale e geometrica. Si pensi ad esempio alle modifiche apportate all’orografia dei terreni per costruire lo stradone Farnese. Certo, gli impedimenti furono tanti e il precipitare degli eventi politici vanificò in gran parte l’importante operazione urbanistica, tanto che dal Seicento in avanti la strada fu come risucchiata all’interno di una prassi che vedeva nel palazzo nobiliare il fulcro generatore di ogni modificazione del micro paesaggio urbano di Piacenza.

Il sistema stradale nel Cinquecento: rettifiche e allargamenti A Piacenza, la visione d’insieme degli interventi di rettifica e allargamento di alcune strade risalenti all’impianto medievale e di apertura di nuove strade, progettate e solo in parte realizzate nel corso del Cinquecento, si è rivelata un’operazione di difficile interpretazione per gli incerti riferimenti topografici determinati soprattutto dalle modifiche apportate alla toponomastica citata nelle fonti documentarie, per altro ampiamente consultate dagli specialisti del settore, unitamente alla cartografia storica, nel tentativo di localizzare gli interventi effettivamente eseguiti. La composizione in un quadro d’unione del catasto, redatto tra il 1809 e il 1847, consente di disporre di uno strumento di analisi e di verifica della città murata, dove si possono ancora distinguere le suddivisioni particellari dei singoli isolati e quindi, in una certa misura, i caratteri morfologici distributivi del tessuto edilizio medievale e della rete stradale. Gli atti della Commissione di Politica e Ornamento, istituita dal cardinale Gambara e riproposta da Pier Luigi Farnese, subito dopo la costituzione del ducato, dimostrano che nell’arco di tempo compreso tra il 1548 e il 1590, furono attuati vari interventi di raddrizzamento e allargamento delle strade medievali e l’apertura di un ridotto numero di nuove strade. Se si esclude il cantiere dello Stradone Farnese, l’unico ad avere una dimensione urbana, quasi tutte le altre

20 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 opere stradali furono concepite più semplicemente per rimuovere gli ostacoli più ingombranti dell’affastellato aggregato edilizio medievale, in maggioranza concentrate nel settore nord est, in particolare intorno all’asse di penetrazione di porta San Lazzaro-Cittadella, sede della residenza ducale, e nella zona centrale gravitante intorno al Duomo, sede della residenza vescovile. Bruno Adorni ha insistito nell’attribuire a Pier Luigi un presunto disegno di renovatio urbis, mettendo in evidenza tutte quelle operazioni di razionalizzazione dell’impianto stradale che, sebbene attuate o completate dopo la sua morte, furono programmate durante il suo breve governo del ducato. Se si accetta che la volontà del duca era quella di rinnovare il volto della città, non vi è dubbio però che le episodiche e discontinue opere urbanistiche effettivamente realizzate non offrano alcun sostegno all’ipotesi sostenuta da Adorni. Certo, non si trattò di una strategia programmatica ben definita e neppure di veri e propri progetti che possono assimilarsi a un “piano particolare” urbanistico riconducibile a Pier Luigi, ma solo di tante piccole operazioni disseminate nell’aggrovigliato e tortuoso sistema dei cantoni e vicoli che si diramavano tra e negli isolati medievali e dell’apertura di nuovi e brevi tratti stradali lungo le direttrici del sistema stradale imperniato sulla scacchiera di epoca romana, prolungato verso le mura ancora isolate dai fabbricati periferici da una fascia continua di ortivi e aree libere. Se tutto questo è stato considerato come il frutto di un piano urbanistico organico e coerente, allora si potrebbe anche sostenere, con altrettanta ragione, che si trattò di un ben misero piano rispetto ai grandiosi progetti stradali attuati a Roma e a Genova nello stesso periodo. È molto più probabile che i nuovi brevi tratti stradali realizzati a Piacenza, proprio perché innestati sulle direttrici stradali secondarie, avessero semplicemente lo scopo di razionalizzare gli insediamenti nel settore nord e di rendere disponibili all’edificazione le aree libere più vicine alle mura. Sul versante opposto, il cardinale legato Uberto Gambara, nell’illustrare i benefici che il suo asse stradale avrebbe apportato alla città, sosteneva che i nuovi residenti avrebbero potuto respirare dell’aria più salubre in un contesto urbano sostanzialmente privo di vecchi caseggiati, se si escludono i grandi complessi conventuali e alcune dimore nobiliari che preesistevano nella zona, dove le aree ortive si estendevano fino alle mura. Le zone della città e le strade interessate da rifacimenti stradali nel corso della seconda metà del Cinquecento passarono al vaglio della Commissione di Politica e Ornamento, i cui atti, qui riordinati e illustrati in rapida sequenza cronologica, sono stati attentamente esaminati da B. Adorni (1982). Nel 1548, nella zona nord est della città fu realizzata una “strada nova che va da Nazaret e referise sul cantone di Trebbiola”, l’attuale via Benedettine. Secondo lo studioso si tratta della zona dove un tempo si trovava il convento dei SS. Giovanni e Paolo, poi occupato dai Francescani minori osservanti che vi si erano trasferiti dopo la distruzione del convento di Santa Maria di Nazareth avvenuta in occasione della costruzione delle nuove mura bastionate nel 1528. Nel documento della Commissione, datato 30 agosto 1548, si dà notizia di un’altra nuova strada che conduceva a porta Fodesta33, costruita in sostituzione di quella vecchia (via Genocchi), ma in posizione sfalsata rispetto all’asse della porta, per adeguarne il tracciato alle moderne esigenze dell’architettura militare. In questo documento si riferisce anche che Pier Luigi aveva fatto progettare una nuova strada presso San Nicolò, non completata, e un’altra strada, mai realizzata, il cui tracciato doveva passare tra il monastero di S. Barnaba (forse situato tra via S. Bartolomeo e via Mazzini), via Molineria (ora via San Nicolò) e il “rivo macinatore”, per poi proseguire fino alle mura. Nello stesso anno, il documento conservato presso la Biblioteca Comunale di Piacenza (Mss. comunali, Gorla, 474, n. 303) attesta che era stata aperta la strada Volpina, nei pressi di San Giuliano,34 così detta dal nome del capitano Francesco Volpe Landi, e la strada “prope ecclesiam s.ti Martini in foro placentiae, Castanee nuncupata”, cioè via della Castagna, non rappresentata nelle piante sette e ottocentesche della città35. Il documento della Commissione, datato 17 febbraio 1548, precisava che la larghezza della strada Volpina non avrebbe dovuto essere superiore a 12,5 braccia (5,87 m). Con atto del 24 gennaio 1555, la Commissione di Politica et Ornamento deliberò l’apertura di due nuove strade nella stessa zona est: la prima, per collegare le case del cantone Trebbiola al “cavaliere” situato fra il baluardo di porta Fodesta e la “piattaforma” di S. Ambrogio (via Abbondanza), e questo “pro ornamento et comodo publico” e per migliorare la fortificazione della città; la seconda, per collegare, allargando anche un tratto di strada preesistente, la piattaforma di S. Ambrogio alla piccola chiesa di Santa Maria della Torricella. Per Adorni, nel primo caso si tratterebbe del cantone Abbondanza, cioè l’antico tratto di cantone Trebbiola che dall’incrocio con la strada che andava dal convento dei SS. Giovanni e Paolo al cavaliere della Torricella (ora via delle Benedettine) conduceva alla piccola chiesa di Santa Maria dell’Abbondanza. Sarebbero quindi due i tratti di strade che erano già stati progettati al tempo del duca Pier Luigi. In un successivo documento del 10 gennaio 1559, la Commissione pubblicò l’elenco dei cittadini chiamati a rifondere i danni subiti dal conte Manfredo Landi per l’abbattimento di una casa, di sua proprietà, per allargare la strada che dal convento dei SS. Giovanni e Paolo conduceva fino alla Torricella (via Benedettine), cioè la zona di Santa Maria di Torricella. Ancora in un documento del 22 marzo 1559, la Commissione rammentava che il prolungamento stradale dal cantone Trebbiola al “cavaliere” della Torricella era stato progettato dall’architetto e matematico “di S. Eccellenza il duca Ottavio” Francesco Paciotto (1521-1591), ingegnere della stessa Commissione, che aveva da poco terminato il progetto del nuovo grande palazzo ducale.

21 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

In due distinti documenti del 1° giugno 1560 e del 25 febbraio 1561, la Commissione diete notizia della rettificazione del tortuoso cantone dell’Abbadia, situato nella zona nord est della città, approssimativamente corrispondente all’attuale viale Abbadia e a via Giarelli. La rettificazione della strada fu probabilmente completata dall’ingegnere militare Genesio Bressani nel 1594, nel tratto che da via delle Benedettine arriva fino al “cavaliere” di S. Ambrogio. Inoltre, va tenuto presente che l’assetto di questo settore urbanofu completamente trasformato nella seconda metà dell’Ottocento con la realizzazione del giardino pubblico. Nel documento della Commissione datato 23 dicembre 1557 si da notizia di una strada vecchia, situata nei pressi di San Bartolomeo dei Gesuiti, sostituita da una nuova strada (forse strada San Bartolomeo, nel settore nord ovest della città). Nel documento della Commissione del 22 gennaio 1589 si riferisce del completamento di tre strade che “tenderanno verso il Po”, che essendo “vicine alle fornaci, facilmente et presto si riempiranno di case”. Si tratta delle due strade S. Monaca e Nazaret (le attuali via S. Monica, via Montagnola e cantone della Filanda) i cui cantieri erano già stati avviati da Pier Luigi. Nel successivo documento della Commissione, datato 14 aprile 1590, le strade citate diventano cinque. Dall’elenco però scompare la strada di S. Monaca, sostituita dalla “strada sul Monte”, e una delle due strade aggiunte è denominata “strada Abbattia, di S. Savino” (cantone Abbadia). Secondo Adorni, la “strada sul Monte” va identificata con via Montagnola vicina alla strada S. Monaca, per cui resta incerto se i lavori di completamento riguardassero l’una o l’altra strada. Si tratta in ogni caso di strade tutte situate nella zona nord est della città. Assume una particolare importanza, l’atto che la Commissione di Politica e Ornamento emanò il 29 luglio 1616, perché ci consente di focalizzare l’attenzione sullo stato di degrado in cui versava la zona nord est della città, proprio quella dove si era concentrata la gran parte delle opere stradali realizzate nel corso del secolo precedente. Nel documento sono riportate le lamentele di otto proprietari di edifici situati lungo la strada “che va dalla strada Trebiola, sino al mercato delle bestie”36, che correva cioè nei pressi del bastione della Torricella. Per costoro, la strada era così disastrata “che gli cavalli vano sotto nel fango sino alla panza”. Perciò, la strada doveva essere inghiaiata, in primo luogo perché utilizzata dallo stesso duca quando si recava dalla Cittadella a Parma, e in secondo luogo per “comodità” dei cittadini che si recavano alla chiesa di S. Ambrogio, appena restaurata, e degli stessi abitanti dei caseggiati che si affacciavano lungo il suo percorso. Le motivazioni degli otto proprietari, benché chiaramente “interessate”, offrono una testimonianza di prima mano sul disagio provocato dal ristagno delle acque di scolo lungo i tracciati stradali centrali e periferici, spesso causa di infiltrazione nei piani scantinati, come nel caso del tratto di strada di via Taverna, aperto nel 1557. Questo problema rimase pressoché irrisolto fino e oltre il 1860, quando più sistematici divennero i provvedimenti assunti dalla Commissione d’ornato per allontanare le acque piovane dai caseggiati costruiti sui lati delle strade; provvedimenti che coinvolsero anche la zona in argomento, dove, nel Cinquecento lo spessore dei rilevati stradali non doveva essere molto potente, comunque utile a compensare i grandi dislivelli dei terreni, specialmente nel versante nord della città, caratterizzati da una morfologia con pendenze progressivamente crescenti verso le mura e il Po. Delle opere di ammodernamento della rete stradale furono attuate anche in altri settori della città, ma anche in questo caso le operazioni eseguite non possono ricondursi a un piano urbanistico predefinito o a un’ideazione progettuale unitaria, essendo di volta in volta motivate da non meglio precisate esigenze di decoro, correlate alla necessità di provvedere alla rimozione dei guasti più evidenti provocati dalla secolare mancanza di manutenzioni della rete stradale medievale. Nel 1557, nella zona sud ovest della città, fu aperto un tratto di strada nei pressi di San Nazzaro e Celso “de sotto dalla strada Romea [l’attuale via Taverna] appresso alle confine dello hospitale grando de detta città” (l’attuale cantone San Nazzaro). Da un successivo documento della Commissione, datato 27 ottobre 1584, apprendiamo che gli abitanti dei caseggiati sorti su entrambi i lati di questa strada si lamentavano per la mancanza di canalette di scolo che provocava sistematici allagamenti degli scantinati; inoltre, i già citati documenti della Commissione, rispettivamente datati 1° giugno 1560 e 25 febbraio 1561, attestano che era prevista la realizzazione di due nuove strade: la prima, per collegare “le scalinate” di Santa Maria di Campagna con il baluardo di Campagna; la seconda, “che si parte da S. Sepolcro et và a cavaliere da S. Maria di Borghetto”, per prolungare via San Sepolcro oltre via Cantarana. Nel documento della Commissione del 9 marzo 1589 si riferisce che il Monte di Pietà aveva chiesto e ottenuto dalla stessa Commissione il risarcimento dei danni subiti per l’abbattimento delle case di sua proprietà, prospicenti la sede dell’istituto, che interferivano con l’allargamento della nuova carreggiata stradale. Si tratta dell’attuale strada del Monte, situata nei pressi di piazza del Borgo, nella zona sud ovest della città. Va rammentato che il Monte di Pietà aveva acquistato nel 1566 il palazzo di Tommaso Fontana, il quale, dopo essere stato restaurato e ampliato, divenne la sede definitiva del pio istituto. In seguito, la strada dove sorge il palazzo cambiò nome in cantone del Monte. Un altro settore dove si appuntarono le attenzioni del governo cittadino è la zona intorno al Duomo, il punto focale religioso della città. La lettura del documento del cardinale Domenico Grimani (1461-1523), conservato nella Biblioteca comunale di Piacenza (Mss. comunali, Gorla) ha consentito ad Adorni di ricostruire quali

22 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 fossero le varie operazioni di decoro che si intendevano attuare intorno al Duomo. In una pianta, databile all’ultimo quarto del Cinquecento sono rappresenti: il Duomo, la piazzetta limitrofa e l’assetto del versante sud della stessa cattedrale. Qui, al tempo del governatore Ferratino (verso il 1528), era stato chiuso un angusto vicolo e aperta una nuova strada, dal tracciato rettilineo, per congiungere la piazzetta con la chiesa della Pace situata in via Scalabrini. La didascalia della pianta spiega che l’apertura della nuova strada aveva comportato la demolizione di alcune case addossate al “III claustrum” del Duomo che sporgevano sensibilmente dalla facciata, come per altro si può osservare nella pianta copiata da Camillo Guidotti, dove i caseggiati demoliti appaiono a tratto puntinato37. Rispetto a questo stato di cose, in un primo momento era stato previsto l’abbattimento della chiesa di San Giovanni Evangelista e dei caseggiati claustrali situati a sud del Duomo perché la parte di piazza già realizzata potesse assumere una forma rettangolare più grande e quasi simmetrica. L’intera operazione avrebbe però richiesto la distruzione di due isolati situati tra via Chiapponi e via Pace, divisi da cantone Tarocco. Era inoltre prevista l’apertura di via del Vescovado, poi realizzata dal vescovo Paolo Burali (1511-1578) e di via Volpina, che, come sappiamo, fu in seguito realizzata sotto Pier Luigi Farnese (1548) e il governo imperiale per congiungere il rettifilo stradale di via via S. Tommaso con la piazza del Duomo38. Nel già citato documento della Commissione, datato 17 febbraio 1548, oltre alle indicazioni sulla larghezza della carreggiata che avrebbe dovuto assumere la strada Volpina, si davano anche disposizioni per la costruzione di portici intorno alla piazza del Duomo. Secondo Adorni, sebbene le operazioni previste siano state realizzate solo in parte, queste faraoniche intenzioni progettuali avrebbero avuto un senso solo se considerate nell’ambito di un’imminente trasformazione di Piacenza in capitale del ducato farnesiano, interpretazione che senz’altro condividiamo. Sta di fatto che successivamente, il governo della città si ridusse a più miti consigli. Nella pianta della zona retrostante il Duomo, disegnata da Alessandro Bolzoni (1547-1636) appare una strada che rettifica il cantone della Stoppa. Inoltre, la Commissione, nell’ordinanza del 21 aprile 1584 disponeva l’ampliamento di una strada stretta e irregolare situata tra il Duomo e la piazzetta sulla quale prospettava il palazzo del conte Anguissola. Nell’ordinanza, la Commissione spiegava che la decisione di ampliare la strada era stata presa perché la preesistente strada medievale non consentiva il passaggio di due carri transitanti in direzioni opposte e aggiungeva che la tortuosità del vecchio tracciato impediva la visuale prospettica della porta e della parte orientale del Duomo, nascosti da quel che si presume fossero delle affastellate casupole (nel testo originale: “cum strata [….] sicque obliqua si ut orientalis porta ac memorati incliti templi pars pena sepulta et absque prospectu huiusce modi generoso et antiquo aedificio cumpetenti permaneat”); specificazione, quest’ultima, che ci consente anche di capire meglio il significato attribuito al termine “decoro” in quel torno di tempo. La stessa soluzione appare anche in una pianta probabilmente disegnata per l’occasione da Alessandro Bolzoni, dove sono tratteggiati, con puntinatura, i casamenti che s’intendevano distruggere per una larghezza corrispondente all’allineamento della strada con il perimetro della piazzetta su cui si affacciava il palazzo degli Anguissola. In definitiva, se la maggior parte di questi interventi fu motivata da esigenze di “decoro”, e se consideriamo che, sotto il profilo concettuale, nel termine confluiscono significati che uniscono le responsabilità etiche ai voleri estetici, si potrebbe affermare che i rinnovamenti avviati a Piacenza nella seconda metà del Cinquecento rispondevano a un’esigenza di svecchiamento del tessuto medievale, evitando però di alterare più di tanto la struttura spaziale che rispecchiava l’organizzazione sociale voluta dal potere politico, di fatto in mano al ceto nobiliare, che a Piacenza non poteva che assumere un’inclinazione prevalentemente privatistica, conservatrice dei privilegi e pronta a soffocare qualsiasi altra iniziativa dei ceti meno elevati che non fosse conforme al decoro urbano così come da loro stessi concepito e praticato.

La committenza patrizia nell’età dei Farnese: il patrimonio in città e gli interessi in villa A Piacenza, tra la metà del XVII secolo e quello successivo, se si prescinde dalle scelte operate dalla Corte che risiedeva nel palazzo sull’attuale piazza Cittadella - la cui costruzione, come si ricorderà, fu decisa da Ottavio Farnese e dalla sua sposa, Margherita d’Austria - le modificazioni alla forma urbis dipendono essenzialmente dalla costruzione di nuove, monumentali fabbriche private. Insieme al moltiplicarsi delle iniziative architettoniche private, si assiste anche alla costruzione di alcuni edifici religiosi, in genere ricavati all’interno di siti dalle dimensioni limitate. Basti pensare alla chiesa di S. Chiara e all’oratorio delle Teresiane sullo Stradone Farnese, a S. Raimondo sull’omonima strada. Sono anni in cui la Corte non impone un programma organico di ristrutturazione della città, nonostante la crescita della popolazione e il diversificarsi delle attività produttive. Nel 1646, i mercanti costruirono la loro nuova sede nel centro della città, vicino al palazzo del Comune adornandola di portici e colonne binate, alla maniera deli palazzi milanesi di Pellegrino Tibaldi (1527-1596) e nel 1679 Ranuccio II Farnese volle realizzare un grande filatoio, “edificio per architettura e commodi unico in tutta Europa”, di strada Trebbiola, nelle adiacenze del monastero e della chiesa doppia delle Benedettine. In apertura al 1600 le casate della più alta nobiltà cittadina sono gli Anguissola, i Landi, i Malvicini Fontana e gli Scotti. In particolare, i Landi svolsero un ruolo primario nella storia di Piacenza, contribuendo a disegnare la

23 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 fisionomia della committenza patrizia dal Rinascimento a tutto il Settecento. Gli Scotti di Vigoleno e di Sarmato, i Marazzani Visconti e i Landi, i Baldini e i Malvicini Fontana avevano beni che si estendevano dalla val Tidone all’attuale Oltrepò alla val Nure, e in città detenevano altre numerose fonti di reddito. Dopo l’esperienza rinascimentale dei palazzi Landi e Scotti da Fombio, la residenza nobiliare si espresse a Piacenza attraverso la progettazione di alcune dimore, ora create ex novo, ora ampliate attraverso l’aggregazione di singole unità, come nei palazzi Baldini (dal 1664), Costa (dal 1680), Cavazzi della Somaglia (fine secolo XVII), Giacometti inizio XVIII secolo), Mischi (dal 1709), Marazzani Visconti (XVI secolo e XVIII secolo)39. L’apertura del cantiere dei conti Cavazzi della Somaglia su Strà Levata nella seconda metà del Seicento, e la sua prosecuzione, dopo la morte del promotore, il conte Orazio (1698), sostenuta con efficace pragmatismo dal figlio Annibale Maria (+1729), sono il segno tangibile del potere e del ruolo rivestito nella vita cittadina da una delle più illustri famiglie delle città40. La loro nuova, fastosa residenza, come le iniziative coeve di altri casati, s’inquadra all’interno di un più ampio programma edilizio che investe le preesistenti residenze familiari, radicalmente trasformate sotto il profilo architettonico e pittorico decorativo. Le residenze nobiliari della città si arricchiscono quindi di rilevanti episodi architettonici, per lo più inseriti nella preesistente trama cittadina, voluti da committenti che spesso si contrapponevano agli indirizzi programmatici e politici espressi dalla Corte. In questo periodo, il lavoro degli architetti si definisce all’interno di un formulario stilistico tendente a esaltare le scelte di gusto della committenza e oscillante tra la ricerca di spazi intimi e aspirazioni a un eloquente monumentalismo, tra complessità e chiarezza compositiva. Le soluzioni progettuali elaborate dagli architetti per le dimore patrizie riflettono spesso la cultura della committenza. Lo confermano gli inventari patrimoniali del XVIII secolo delle biblioteche patrizie, dove figurano diversi trattati di architettura. Il De architectura di Vitruvio, la Nuova architettura familiare del Capra, L’architettura militare, l’Abecedario Pittorico dell’Orlandi, il Trattato di Prospettiva sono registrati nella biblioteca del marchese Giovanni Antonio Baldini, oltre a numerosi testi di storia, di etica e di filosofia41. Volumi di filosofia, di retorica e di storia, ma soprattutto i trattati cinquecenteschi di agronomia e di architettura militare conferiscono una particolare fisionomia alla biblioteca del palazzo dei conti Douglas Scotti di Sarmato42. A tutto questo si aggiunge l’influenza esercitata dai grandi modelli lombardi, in realtà non troppo estesa, che tuttavia è maggiormente avvertibile nel centro urbano e, in misura minore, nelle invenzioni per la fabbrica di villa nel territorio agricolo del circondario. L’incremento e/o il consolidamento del patrimonio economico delle famiglie patrizie sostengono le ambizioni private e orientano le scelte della committenza verso operatori con una solida esperienza professionale. Vetustà del casato, elevato censo e larga disponibilità finanziaria caratterizzano l’aristocrazia piacentina, alle cui richieste i vari Domenico Valmagini (Brusimpiano, 1649-Arcisate,1730), Paolo Cerri (Piacenza, 1635-1700) e il figlio Ignazio (Piacenza,1656-1723), Domenico Cervini (Piacenza, 1689-1756), forniscono le competenze tecniche più adeguate. Il primato del casato si manifesta anche per mezzo di una “magnifica” dimora, o “casa dominicale”, come frequentemente era indicata negli inventari. Le scelte tipologiche e funzionali sono strettamente correlate all’edificazione dei singoli palazzi. Il salone di rappresentanza e lo scalone nobile, introdotti nei palazzi bolognesi fin dal primo Seicento, esprimono meglio di altri elementi architettonici, le scelte pur sempre dettate da una volontà di adeguamento e di rinnovo della dimora. Dalla metà del Seicento, numerosi sono i palazzi costruiti ex novo o ristrutturati: da palazzo Baldini su via S. Siro, a palazzo Costa su strada S. Lazzaro, ai palazzi Marazzani Visconti e Zanardi Landi su piazza S. Antonino, ai palazzi Douglas Scotti da Vigoleno su via S. Giovanni, Malvicini Fontana su strada al Teatro, Mischi su via Garibaldi, Anguissola di Grazzano e Scotti di Sarmato, rispettivamente su strada S. Lazzaro e via S. Siro angolo via Giordani. Come dimostrano le incisioni di Pietro Perfetti (1761), si tratta di edifici che nel tessuto cittadino emergono più per l’estensione delle facciate che per la presenza di particolari inserti decorativi; caratteristica, questa, che tendenzialmente accomuna anche il disegno di altre residenze nobiliari, cui non sono estranei i modelli lombardi, la duratura incidenza delle felici soluzioni messe a punto dal bolognese architetto e scenografo Ferdinando Galli Bibiena e le soluzioni pavesi e di area astigiana43. Le dimore dell’aristocrazia, portato delle scelte di una classe comunque attenta a consolidare il potere economico oltre che politico, destarono l’attenzione del Salmon che nel 1751 ne fornì una descrizione dettaglia44. Sicché a Piacenza il processo di rinnovamento urbano è principalmente sostenuto dalle grandi famiglie dell’aristocrazia, non dalla volontà e/o da programmi edilizi della Corte. Se la politica farnesiana promosse episodi architettonici all’insegna di un circoscritto gigantismo dimensionale45, l’aristocrazia piacentina preferì una progettazione “privata”, di carattere non “esplosivo”, quasi sempre orientata verso una contenuta monumentalità, spesso ricavata da accorpamenti di preesistenze edilizie in nuovi complessi immobiliari, almeno fino ai primi decenni del Settecento. La febbre edilizia contagia poi anche alcune famiglie della nobiltà minore, che intervengono sulle proprie abitazioni per renderle il più possibile conformi al modello predominante della residenza gentilizia. Le ricerche ancora in corso sui committenti, costruttori e palazzi, potranno meglio indicare il grado dell’influenza esercitata dai grandi modelli, anche se fin da ora sipuò confermare la forte impronta dei committenti sulle soluzioni architettoniche adottate. Lo spoglio documentario negli archivi gentilizi mostra un ampio e articolato fronte al cui interno si muovevano letterati, matematici,

24 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 uomini di Corte e, più raramente, dilettanti di architettura. A Piacenza si occuparono di architettura e di matematica Gian Carlo Novati (+1747), autore del palazzo di via Nicolò dei Cattanei (attuale Mazzini, 64) e il conte Giovan Francesco Barattieri46. Al conte Giovanni Antonio Baldini (+1716), fratello di Giacomo Maria, promotore dell’ampliamento della dimora su via S. Siro, si deve la stesura dell’inedito Tractato della Pittura47, cui seguì il più modesto lavoro di Rossane della Somaglia Landi (1774), Li Cinque Ordini di architettura48. In apertura al Settecento il trattato del Baldini inaugura, in sede locale e con scarso seguito, una stagione che in ambito nazionale fu ricca di vivaci discussioni teoriche sui temi dell’architettura e della pittura. Più in generale, la famiglia nobiliare s’identifica con la “casa” e spesso con l’intera contrada, dove è stata costruita. Questo senso allargato di possesso, ben documentato per i casati degli Scotti e dei Malvicini Fontana, è forse uno dei motivi che impedirono alle trasformazioni attuate nella città farnesiana di raggiungere il respiro spaziale della Roma di Sisto V (1585-1590)49, caratterizzato, come è noto, da “amplissime” strade. L’ascesa delle famiglie all’ordine nobiliare è controllata dal principe, unica autorità che può conferire tale riconoscimento con il rilascio di diplomi o di lettere patenti. Nell’affaccendata rincorsa al titolo nobiliare, numerose famiglie medievali scompaiono e i vuoti provocati dalle estinzioni, sono colmati dalle nuove nobilitazioni concesse dal duca, di cui beneficiano sia famiglie originarie della città, sia quelle insediatesi in seguito, che si affermano sulla scena cittadina per accorti traffici mercantili e attività produttive o per le cariche ricoperte nella pubblica amministrazione locale e nell’esercito ducale. La politica intrapresa dai primi Farnese, tesa a incrementare la locale aristocrazia con nuove nobilitazioni, come per esempio nel caso dei Cigala, che nel 1569 si fecero attestare dalla Comunità di Piacenza l’antica nobiltà della famiglia, proseguì anche con i successori, sino al 1731 e all’estinzione della dinastia Farnese, ma fu ripresa quasi inalterata dai Borbone, eredi del ducato fino ai rivolgimenti politici conseguenti all’invasione francese del 179650.

Il sistema della residenza nobiliare A Piacenza il palazzo è il segno tangibile del prestigio dinastico raggiunto dalla famiglia patrizia, che rende concreta e visibile la continuità della presenza del casato sulla scena urbana. Le dimensioni della dimora, i suoi ornamenti e gli arredi testimoniano lo status di chi vi abita, la sua consistenza patrimoniale e il tenore di vita; dunque la residenza patrizia non può che obbedire a un rigoroso codice di rappresentanza. La pur vivace res aedificatoria che si registra in città nell’età farnesiana risponde a due esigenze strettamente correlate: il nobile che promuove la costruzione o l’ampliamento del proprio palazzo non può prescindere dalla duplice esigenza della “commodità”, ossia della funzionalità della casa, e del decoro, inteso anche come contributo all’abbellimento offerto alla città. Ed è proprio dal combinato disposto fra queste due esigenze che prende forma la residenza nobiliare a Piacenza. Ciò significa che la locale aristocrazia aderì a una linea di condotta connotata da sfarzo e utilità, ben presto codificati in specifiche norme costruttive. Durante gli anni di Ranuccio II Farnese (1630-1694) e del suo secondogenito, Francesco (1678 -1727), la committenza aristocratica promosse un’attività edilizia senza pari, anche con l’implicito obiettivo di ricondurre in un unico ambito, quello privato, il proprio primato sociale ostentato attraverso la magnificenza delle nuove fabbriche. Nella documentazione consultata, tutti i costruttori, “edificatori” e “restauratori” pongono l’accento sull’impegno finanziario fuori dall’ordinario e l’enorme quantità di denaro investiti per l’edificio, a dimostrazione dell’alto valore, anche simbolico, che la famiglia attribuiva alla propria residenza. La costruzione di un edificio nobile e bello significa “restituire” alla comunità parte di quegli onori che essa ha tributato ai suoi illustri cittadini. Lo ricorda Vincenzo Giustiniani (1564-1637) nel suo Discorso sopra l’architettura [….], quando avverte che nel costruire un palazzo “si deve avere anco mira all’ornamento pubblico e generale della città e della patria, alla quale ciascuno è in obbligo di corrispondere né commodi et onori che da essa si riceve giornalmente”51. L’attenzione all’ornato investe quindi il palazzo nobiliare di un attributo qualitativo che si riflette sull’intera città. Perciò, l’impresa della famiglia da privata si fa anche pubblica, associando la “casa” alla città. La magnificenza della fabbrica, la sua qualità pubblica spiega anche perché l’architettura rivesta un così alto valore simbolico, del tutto singolare rispetto ad altri beni della famiglia. Sono queste caratteristiche che ne giustificano lo statuto privilegiato, e fanno sì che sia conservato con particolari attenzioni attraverso le future generazioni del casato52. Il decoro, tratto distintivo della maggior parte delle dimore patrizie farnesiane, è spesso giocato su diversi registri formali e stilistici, che rispecchiano lo stretto e mutevole rapporto intercorrente tra “pubblico” e “privato”, da palazzo Baldini, della prima metà del Seicento, fino agli edifici della seconda metà del secolo successivo. L’antitesi esterno-interno che distingue, fra gli altri, i palazzi Cavazzi della Somaglia, Scotti di Castelbosco e Barattieri su Strà Levata, Douglas Scotti di Vigoleno e Mulazzani Maggi su via S. Giovanni, caratterizza un’edilizia concepita nel nome di una persistente tradizione e di una cultura che negli spazi interni esibisce le innovative e ricercate invenzioni progettuali di architetti e decoratori. Più in generale, per gli esterni sono privilegiate soluzioni all’insegna della continuità o della reiterazione conforme. Gli schemi planivolumetrici più frequentemente adottati sono quelli propri della residenza nobiliare riscontrabili nelle dimore sabaude dell’età barocca e tardobarocca, definiti sulla sequenza di androne, portico, scalone, loggia e salone d’onore, ma i condizionamenti imposti dai costi dei materiali, dal loro trasporto e dalle lavorazioni spesso determinano

25 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 numerose variazioni sul tema53. Nel Settecento, la res aedificatoria di Piacenza, che non ha pari in Emilia, è pertanto contrassegnata da una certa continuità, mai o quasi mai coinvolta in un organico programma urbanistico. La città ostenta con progressività “fabbriche magnifiche” che all’esterno indugiano verso un certo pauperismo architettonico, in contrasto con lo sfarzo degli interni, come negli edifici di via al Teatro, vera e propria via nobilium, le vie Scalabrini, S. Giovanni e S. Lazzaro (attuale via Roma); e nessuno di questi assi viari è di apertura farnesiana, come la strada Gambara e via delle Benedettine, sulla quale sorge l’omonima chiesa costruita (1677-1681) dal ticinese Domenico Valmagini per volere munifico del duca Ranuccio II Farnese54. La città non tardò a qualificarsi come una “città di palazzi”55 e, potremmo aggiungere, come una città di architetti e maestranze, anche forestieri, impegnate nella costruzione di facciate, di scale scenografiche e di cortili. Sono scalpellini, picapietre, stuccatori lombardi e luganesi e soprattutto architetti e scenografi. Accanto al più noto Ferdinando Galli Bibiena (Bologna,1657-1743), al servizio della Corte dal 168756, che impresse una svolta decisiva nell’architettura costruita e nell’affine settore dell’architettura dipinta, si registrano le presenze dei suoi immediati allievi e seguaci, gli architetti e quadraturisti Marc’Aurelio Dosi (Piacenza,1676-1757)57, i cugini G. Battista (Piacenza,1675-1735) e Andrea Galluzzi (Piacenza,1689-Modena, 1743c.)58, Domenico Cervini (Piacenza,1689-1756)59, autore, quest’ultimo, di originali sperimentazioni sul tema della scala, Paolo e Ignazio Cerri e Domenico Cervini, quindi i forestieri Luigi Vanvitelli, responsabile della ristrutturazione del palazzo del marchese Fogliani a Castelnuovo Fogliani e l’imolese Cosimo Morelli, impegnato nella progettazione del palazzo del marchese Ranuccio Anguissola di Grazzano (1772). Figure di operatori molto diverse tra loro e di differente formazione, alcune delle quali contemporaneamente impegnate nell’architettura, nella quadratura e nella scenografia. L’eterogeneità della provenienza geografica dei singoli artisti contribuì a vivacizzare il clima culturale della città che, dopo gli episodi cinquecenteschi di promozione ducale e aristocratica (si pensi a palazzo Radini Tedeschi60), non fece registrare personalità di rilievo, almeno fino alla metà del Seicento. A partire dalla seconda metà del Seicento e per tutto il secolo successivo, le soluzioni messe a punto dagli architetti emiliani per approntare il theatrum architectonicum, voluto dalla nobiltà cittadina, furono invece integrate da altre invenzioni elaborate da architetti di cultura e di gusto ora lombardo, ora romano. Pur nella persistente continuità dei temi compositivi fondamentali, si trattava di conferire nuova importanza ad alcuni elementi architettonici cui si attribuiva un più alto grado di rappresentanza nell’itinerario del palazzo: porticati, scaloni e saloni, elementi primari nell’ambito dell’evoluzione delle tendenze, tese a differenziare gli spazi pubblici e privati. Così, nel palazzo si distinguono sempre più le funzioni d’apparato da quelle riservate alla residenza, agli ospiti e alla servitù. Nell’età barocca e tardobarocca, la preminenza gerarchica della città sul territorio agricolo circostante trova un’indiretta conferma nell’elevato numero di soluzioni di carattere scenografico che connota l’architettura residenziale nobiliare. Gli architetti, stimolati a ricercare soluzioni formali e tipologiche anche ardite, propongono nuove soluzioni spaziali e funzionali, come nel palazzo del conte Orazio Cavazzi della Somaglia (dal 1698). In apertura al XVIII secolo, l’impianto a U, articolato su tre ali, con androne terreno, cortile d’onore porticato e giardino disposti su un unico asse direzionale, ricorre frequentemente oltre che nei palazzi piacentini anche nelle dimore di Brescia e di Milano61. Ma a Piacenza, l’eterogeneo e multiforme disegno degli isolati medievali, per lo più costituiti da fabbricati di piccole dimensioni, cortili e orti, stretti e lunghi, richiedeva degli accorpamenti molto più impegnativi e complessi non sempre perseguibile, in ragione dell’eccessiva frammentazione e irregolarità delle aree da ricostruire e dei fabbricati da ristrutturare. Da qui, il ripiegamento su schemi compositivi dove l’ingresso del palazzo era situato in posizione eccentrica rispetto al prospetto principale e al cortile porticato collegato all’androne. Si organizzano su un impianto a U i palazzi Costa (dal 1680), Giacometti (inizio XVIII secolo), Anguissola di Grazzano (1774-1777) e Douglas Scotti di Sarmato (1782). Pertengono invece al secondo schema, fra gli altri, i palazzi Chiappini di via X Giugno (fine secolo XVII), Ghizzoni Nasalli di via Serafini (XIX secolo), Casati (1700-1704) e Malvicini Fontana (dal 1680 e post 1727); questi due ultimi con l’anomala disposizione del cortile d’onore tangente l’androne. Inoltre, l’alta densità edilizia degli isolati, consente solo raramente un’organizzazione dell’impianto articolata intorno a tre cortili, come nei palazzi Baldini (dal 1674) e Anguissola di Cimafava Rocca (secolo XVIII). Sovente la continuità spaziale è garantita dall’allineamento su un unico asse direzionale dell’androne, cour d’honneur e del giardino. Esempi interessanti sono offerti dai palazzi Costa, Appiani d’Aragona Borromeo (dal 1595) e Anguissola di Cimafava (1752). Per supplire alle ristrettezze del sito, inserito in un tessuto urbano densamente aggregato, i nuovi edifici nobiliari del Seicento e del Settecento presentano una sequenza degli spazi spesso coadiuvata da illusionistici fondali prospettici che prolungano lo spazio apparente su orizzonti più vasti o mitigano l’irregolare disposizione dei corpi di fabbrica dietro immaginifiche architetture dipinte. Elemento centrale nella riorganizzazione di vecchi edifici o nella creazione di nuovi fabbricati sono i temi del collegamento verticale e dell’apparato ornamentale e celebrativo da conferire al salone di rappresentanza. Nel Settecento, a Piacenza, “città di palazzi”62, come del resto nelle vicine Crema e Cremona, la scala, caratterizzata da balaustre in pietra e in ferro battuto, è quasi sempre declinata in termini monumentali63. Il

26 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 protagonismo della scala si riscontra, infatti, nei palazzi Costa, Somaglia (1707-1709), Mulazzani Maggi (ante 1714), Douglas Scotti di Vigoleno (1726), Chiappini e nel Casino Nicoli Scribani (fine XVII secolo-ante 1712)64. Il raffronto condotto sul materiale cartografico dei secoli XVII e XVIII rende ragione della crescita dei cantieri residenziali e della loro incidenza qualitativa sul tessuto urbano. Si delinea cioè uno scenario complesso, generato da influenze, suggestioni culturali e programmi varati in tempi diversi, ma pur sempre all’insegna del decor di vitruviana memoria. Cronisti e viaggiatori descrivono Piacenza come una città ricca di eleganti dimore, ma il decoro non è tanto perseguito in nome di un’idea di virtù civile, quanto piuttosto per soddisfare il “comodo” dei privati. Si procede senza un piano organico e di qualificazione urbana che tenti di ricomporre le contraddizioni sociali che lacerano il tessuto edilizio di alcune parti della città, molto degradate e impoverite. Ciò nonostante, la feconda res aedificatoria è in qualche modo imbrigliata da normative che obbligano i privati a costruire edifici salvaguardando l’ornamento e il decoro urbano. Le facciate, maggiormente coinvolte dagli allargamenti e riallineamenti stradali, sono in genere caratterizzate da cortine uniformi, continue, dietro le quali si aprono cortili d’onore e giardini. I documenti della Politica et Ornamento insistono su espressioni quali “bellezza et ornamento della città”, si moltiplicano le suppliche per l’occupazione di suolo pubblico, le autorizzazioni per chiudere rientranze, i cantoni ciechi, o per riallineare le sporgenze. La costruzione di nuovi palazzi diviene essa stessa occasione di ammodernamento dell’impianto stradale medievale, si pensi ad esempio all’allargamento e alla regolarizzazione di via Chiapponi attuati su iniziativa del privato, interessato a nobilitare la facciata del palazzo omonimo. Quello del rapporto tra pubblico-privato, tra individuo e collettività, è un tema già presente nei trattati del Cinquecento: Pietro Cattaneo, Sebastiano Serlio e Andrea Palladio insistono sul concetto di convenientia. All’interno di questa dinamica s’inseriscono anche varie figure che esercitano le professioni, interessati a conferire ai propri fabbricati una veste architettonica più aulica e rappresentativa. In definitiva, la cura che il committente riserva al palazzo è mirata a rafforzare la propria presenza in città e a ribadire la propria identità nei confronti di altre autorità cittadine. Sebbene sia difficile individuare a Piacenza una via nobilium come la genovese arteria Balbi65, perfettamente conclusa nella sua rappresentazione dello splendore nobiliare, i protagonisti di questa parata architettonica sono in ogni caso gli esponenti della nobiltà che ricoprivano incarichi amministrativi e diplomatici anche presso la Corte. In molti palazzi cittadini si attuano riforme sia dei prospetti verso strada, nel tentativo di occultare sconvenienti irregolarità poco confacenti all’esigenza del decoro urbano e della famiglia, sia degli interni, fatti oggetto di radicali abbellimenti nei primi decenni del Settecento. Lo testimoniano alcune dimore dell’alta aristocrazia: il palazzo di Carlo Orazio Cavazzi conte della Somaglia, del conte Filippo Douglas Scotti di Vigoleno e la dimora dei marchesi Mandelli. Perciò, non è la mediocritas che guida l’edilizia residenziale a Piacenza in età barocca. Il palazzo Cavazzi della Somaglia, come del resto il palazzo dei marchesi Baldini, si conforma perfettamente alla cultura dell’epoca, essendo costruito per “bellezza et ornamento della città”, è “bene collettivo” a vantaggio del singolo, in questo caso del conte Orazio prima, del conte Annibale Maria poi. Questi importanti cantieri riflettono il desiderio di apparire della famiglia. Così, tra Sei e Settecento, il palazzo patrizio s’identifica con il “nuovo” spazio pubblico, dove si manifestano anche i riti mondani della sfera privata. Superato lo scoglio dell’autorizzazione dalla Congregazione di Polizia e Ornato per l’occupazione di suolo pubblico, di piccole o anche di grandi dimensioni, si procedeva alla demolizione di preesistenti caseggiati per dare lo spazio necessario all’erigendo palazzo e\o per ampliare il palazzo più vecchio, rimodellandone le forme secondo progetti più ambiziosi e funzionali. Esemplari sono i casi dei palazzi delle famiglie Mischi66 e Maruffi. Quest’ultima, originaria di Milano, si trasferì a Piacenza all’inizio del Cinquecento. Un’accorta politica matrimoniale accrebbe il prestigio sociale e il patrimonio dei Maruffi, che già alla metà del Seicento anteposero al proprio il cognome dell’antica e illustre casata piacentina Villa. L’archivio Maruffi conserva una ricca documentazione dei loro beni sparsi sul territorio (a Caorso, a Pieve Dugliara in val Trebbia, a Castel S. Giovanni) e nell’attuale lodigiano. Le indagini finora eseguite hanno permesso di ricostruire l’organizzazione distributiva del progetto originario del palazzo di Piacenza, gli arredi, la “libreria” (1742)67 e la collezione di dipinti68. Inoltre, l’inventario testamentario del conte Carlo Luigi I Villa Maruffi (+1713), sposo di Margherita dei conti Borghi (+1718), conferma che la costruzione o la ristrutturazione della dimora avvenne seguendo ben definiti principi funzionali, anche quando si realizzano ardite invenzioni di atri e scaloni d’onore. Il tipo più ricorrente dei palazzi piacentini è quello a U rivolto verso l’interno dell’isolato. Sull’asse direzionale androne terreno passante - corte d’onore si dispongono il giardino e, da ultimo, l’orto, come nei palazzi Costa, Baldini e Douglas Scotti da Vigoleno. Lo scalone è generalmente ricavato su un lato del cortile o entro un apposito vano come nel caso del palazzo progettato da Cosimo Morelli (1772) per il marchese Ranuccio Anguissola di Grazzano. Le dimensioni dell’edificio sono in genere correlate all’immagine del casato; ma un edificio più grande comporta necessariamente un maggiore numero di ambienti di servizio. Sovente la dimora è articolata su due corti, l’una nobile, l’altra rustica, in rari casi attorno a tre cortili, come in palazzo Baldini. Negli isolati di grandi dimensioni, il palazzo tende a occupare l’angolo, disponendo la corte rustica verso l’interno. Lo schema distributivo degli impianti si adegua alle nuove esigenze con la costruzione di scale di

27 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 servizio e di ambienti per la servitù e di fabbricati rustici ricavati sul retro. Tutti i maggiori palazzi di città sono caratterizzati da un sistema di spazi di rappresentanza e di servizio, opportunamente differenziati sotto il profilo formale e funzionale. È talvolta presente la “camera d’estate”, che in palazzo Marazzani Visconti si affacciava sul cortile d’onore. Nel palazzo settecentesco69 si accentua l’esigenza di un’organizzazione privata e familiare. Negli archivi privati si conservano talvolta accordi stipulati con i confinanti e copie degli atti necessari per l’occupazione di suolo pubblico. L’impegno economico richiesto per la costruzione delle fabbriche è forse il principale motivo della lunga durata dei cantieri e dell’avvicendarsi di più figure di committenti che spesso dava luogo a differenti scelte di gusto, con inevitabili ripercussioni sull’omogeneità della fabbrica, come ad esempio nel palazzo Marazzani Visconti di piazza S. Antonino o nella villa che la famiglia possedeva a Montanaro70; come ai continui aggiornamenti e ridimensionamenti che interessarono, negli anni settanta del Seicento, i lavori di ristrutturazione di palazzo Baldini, dovuti alla diminuita disponibilità di spazi e di risorse economiche.

Il sistema abitativo a Piacenza nel Settecento Nella prima metà del Settecento, il Giornale Zanetti e la pianta della città dipinta nel palazzo vescovile nel 1748 offrono un interessante spaccato sul sistema insediativo delle dimore signorili di Piacenza. L’Indice di tutte le parrocchie e di tutte le case appartenenti alle rispettive parrocchie di questa città, datato 1737, meglio noto come Giornale Zanetti dal nome del suo estensore che lo redasse nell’ambito del riordino amministrativo, promosso dall’allora governo austriaco (1736-1744) per gestire in modo più efficace ed efficiente il problema degli alloggiamenti dello Stato maggiore e degli ufficiali stanziati in città, è una vera e propria mappatura delle residenze nobiliari e consente di individuare un numero elevatissimo di palazzi, che, per ampiezza e prestigio, avrebbero potuto ospitare gli ufficiali austriaci. Lo Zanetti così descrive le finalità del compito ricognitivo che gli era stato affidato: “ed opportuno il fare visita di tutte quelle case, che puonno sembrar capaci dall’alloggio e succedendo tali, si destinassero in esse rispettivamente le camere a proporzione d’ogni rango d’uffiziali, omettendone poi quelle che saranno giudicate privileggiate [….] col destinarne rispettivamente di casa in casa che sarà giudicata capace, le camere e scuderie secondo il comodo di quelle […]”. La ricognizione ha inizio il 21 maggio 1737 e si conclude il 27 agosto dello stesso anno. La descrizione è molto puntuale, poiché indica non solo i singoli proprietari e la consistenza del nucleo familiare, distinto tra “padroni di casa” e “servitori”, ma anche se gli edifici, case o palazzi che siano, sono abitati dal proprietario, concessi in affitto, vuoti o “in fabrica” (in costruzione), precisando poi la presenza di corti, orti, giardini, bassi servizi. Inoltre, per ogni casa è indicata la presenza di botteghe, il numero degli appartamenti e dei vari ambienti che lo compongono, distinti in: rustici, ordinari, civili, famigliari e nobili, e per destinazione d’uso: oratori, alcove, studi, archivi, biblioteche, salotti, camere da letto, guardaroba, gabinetti, gallerie, logge, cucine, dispense, guarda cucina, sbratta cucina, mezzanini, cantine, solai, stalle e rimesse. Inoltre, quando presenti, per ogni edificio sono indicati: il “bocchirale” (androne d’ingresso), la “cagnatera” (?) e la “bugandara” (vale a dire la lavanderia). Per gli appartamenti, definiti “civili”, lo Zanetti indica l’affaccio su strada o verso il cortile; mentre lo scalone è raramente indicato con tale nome e più spesso come “scala nobile”, “scala civile” e “scala grande”. Le scale di servizio sono invece indicate come “scala piciola” o “scaletta”. In alcuni casi è presente anche la “scala segreta”. Il “portone civille” e il “portone rustico” sono invece i due tipi d’ingresso che in genere contraddistinguono gli edifici descritti dallo Zanetti. Nell’Indice sono anche elencati gli edifici religiosi e il numero degli occupanti distinti in: “religiosi sacerdoti, novizzi, chierici, conversi, servitù secolare”. L’Indice, quindi, non si limita a elencare il numero degli edifici, ma registra puntualmente la loro funzione e la categoria o livello qualitativo cui appartiene, con il chiaro intento di selezionare le abitazioni ritenute sufficientemente decorose e idonee per ospitare le gerarchie del contingente militare austriaco. Secondo Valeria Poli, l’Indice dello Zanetti sulla consistenza e sulle caratteristiche abitative degli edifici di Piacenza offre un’indiretta testimonianza della politica urbana adottata dai Farnese prima delle trasformazioni del periodo borbonico71. Questa interpretazione è del tutto condivisibile, quanto al passato prossimo del ducato farnesiano. Va però evidenziato che il principale obiettivo dell’Indice era quello di pianificare una sorta di “occupazione pacifica” delle dimore di proprietà nobiliare e clericale in possesso di determinate caratteristiche qualitative. Sarebbe poi spettato al governo austriaco decidere quali tra queste dimore potevano essere escluse dall’occupazione, non a caso indicate dallo Zanetti come “privileggiate”. Pertanto, non è improbabile che tra gli intenti del governo austriaco vi fosse quello di ridefinire un organigramma del ceto nobiliare su cui poter contare per il raggiungimento dei propri obiettivi politici e militari. La Poli ha inoltre analizzato l’Indice fornendo degli utili dati statistici. I 3.422 edifici censiti ospitavano una popolazione composta di 28.265 unità (esclusa quella del clero regolare femminile). Tra questi edifici, 1.082 (il 31,6% del totale) avevano una destinazione commerciale; 897 (il 26% del totale) una destinazione mista, commerciale e residenziale; 894 (il 26,13 % del totale) erano occupati direttamente dal proprietario. Rispetto al numero di fabbricati censiti, la nobiltà titolata ne possedeva 314 (il 9,17 %). Di questi edifici, 118 (il 37,57 %) erano direttamente utilizzati dai proprietari; 4 (l’1,27 %) erano abitati dai proprietari insieme ad affittuari; e 192

28 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

(il 61,14 %) erano utilizzati solo da affittuari. Tra questi ultimi, 15 fabbricati erano affittati ad altri nobili e 12 a persone non titolate. Quindi, secondo V. Poli, in numero delle famiglie appartenenti alla nobiltà titolata che deteneva, a vario titolo, una “casa” in città ammontava a un totale di 149. In fine, tra i beni immobili censiti, lo Zanetti enumerò anche 34 osterie, nell’insieme costituite da 261 camere, e 29 edifici, definiti “caserme” di proprietà privata che all’occorrenza venivano affittate. Sempre secondo quanto riferisce Poli, le “case” censite si concentravano nelle mani di 1.021 proprietari (il 29,8 % del totale); inoltre, il raffronto con la percentuale dei proprietari degli immobili urbani del XVI secolo (stimata al 40%), evidenzia che, a parità di popolazione, questa categoria di persone era sensibilmente diminuita nell’arco di circa un secolo e mezzo. Se i dati elaborati sono attendibili, si potrebbe ragionevolmente sostenere che la contrazione del numero di proprietari registrati nel XVIII secolo sia in realtà dovuta al trasferimento in città di un certo numero di popolazione contadina, sostanzialmente priva di risorse economiche e dunque incapace di acquistare un’abitazione. Per altro verso, si potrebbe anche sostenere che il decremento dei proprietari di immobili urbani sia dovuto anche a un progressivo processo di accorpamento di fabbricati preesistenti di piccole dimensioni, posseduti da una popolazione poco capiente, costretta o invogliata a vendere il proprio immobile per fare spazio alle nuove dimore nobiliari che, nel corso di questo stesso intervallo temporale, crescendo mediamente di dimensioni, si espandevano sui lotti ancora liberi e sulle altre aree liberate dalla demolizione dei fabbricati del frammentato aggregato insediamento medievale situati intorno alla vecchia dimora nobiliare che si intendeva ristrutturare. Le ricerche finora effettuate sulle fasi di costruzione e trasformazione dei fabbricati nobiliari lasciano pensare che si tratti proprio del combinato disposto di un articolato e complesso fenomeno sociale, economico e di costume, con indicativi riflessi sul piano architettonico e sul tessuto urbano. Stando alla statistica elaborata dalla Poli, le 149 famiglie appartenenti alla nobiltà titolata che possedevano un immobile in città è ben superiore ai “122” fabbricati delle famiglie nobili elencati e topograficamente rappresentati nella pianta di Piacenza dipinta nel palazzo Vescovile nel 1748. A ben vedere, si tratta di un raffronto improponibile per vari motivi. Intanto perché nella pianta dipinta nella loggia del palazzo Vescovile si attribuisce a due famiglie la proprietà di più palazzi; poi perché il numero dei palazzi effettivamente rappresentati nella pianta all’interno dei vari isolati è di 125; e in ultimo perché l’anonimo autore della pianta quasi certamente non poté avvalersi di una sistematica ricognizione topografica della città, anche se segnalò con una specifica numerazione le dimore nobiliari presenti nei vari isolati72. Va inoltre considerato che l’autore di questa pianta definì l’elenco dei palazzi nobiliari tenendo probabilmente conto solo di quegli edifici che ai suoi occhi presentavano delle particolari caratteristiche qualitative che in qualche misura emergevano dal tessuto edilizio urbano, tralasciando tutti gli altri che presentavano una veste architettonica più modesta. In ogni caso, questa pianta è di grande importanza documentaria, perché rappresenta, sebbene in modo approssimato, la perimetrazione dei vari isolati urbani e la rete stradale, compresi i vicoli e i “cantoni ciechi”, presenti in città a quella data. Dalla comparazione della mappa del Vescovado con quella ricavata dall’unione degli isolati, rilevati in occasione dell’elaborazione del catasto tra il 1809 e il 1847, si traggono utili informazioni sul processo trasformativo che investì la città tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Lo studio degli isolati entro i quali si situano i sette palazzi, cui è stato conferito il “Premio Piero Gazzola” tra gli anni 2005 e 2014, ai quali ora si aggiunge il palazzo Gigala Fulgosi per l’edizione del 2015, mostra una progressiva tendenza alla saturazione delle aree libere presenti all’interno dei singoli isolati. Il processo di accorpamento dei fabbricati più piccoli diventa più evidente specialmente negli isolati delimitati dalla rete stradale risalente all’impianto medievale, dove scompaiono anche antiche chiese, alcune di origine altomedievale e tardo paleocristiana. Si assiste inoltre, alla ridefinizione dei perimetri degli isolati in seguito ai molteplici interventi di rettifica e allargamento delle strade attuati in apertura dell’Ottocento e proseguiti fino ai primi decenni del Novecento, spesso su iniziativa degli stessi proprietari dei palazzi nobiliari, come accadde nel caso del già ricordato isolato di palazzo Chiapponi. Il fenomeno ha motivazioni complesse, frutto di un intreccio d’interessi, non sempre districabile, tra i diversi attori della scena urbana: il potere ducale, la Chiesa, e il ceto dei nobili titolati, accomunati da una visione politica e amministrativa essenzialmente conservatrice. Dopo la pace di Aquisgrana, il ducato sotto il nuovo governo borbonico (1748-1792) entrò nell’orbita politica delle corti di Spagna e degli Asburgo, che in varia misura condizionarono gli orizzonti e le ambizioni politiche dei suoi regnanti. La riforma fiscale varata dal potente primo ministro Giglielmo Du Tillot nel 1764 con l’introduzione della Prammatica manimorte e l’Editto di perequazione e carichi pubblici, preludio di un processo liberatorio degli istituti giuridici del ducato, avrebbe garantito entrate fiscali adeguate a una corte che ambiva confrontarsi con i grandi regnanti d’Europa. E non è un caso che, tra le quattro circoscrizioni amministrative in cui era suddiviso il ducato, Piacenza, città di palazzi, fu quella che più si oppose al nuovo regime giuridico. D’altra parte va considerato che i Borbone, trasferendo a Parma la capitale politico amministrativa del ducato, lasciarono, di fatto, ai nobili piacentini campo libero alle iniziative concernenti gli interventi architettonici ed urbani realizzati nella seconda metà del Settecento. Si giustificherebbe così, secondo la Matteucci l’intensa

29 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 attività edilizia riguardante in particolare la costruzione di sontuosi palazzi e dimore nobiliari73. Emblematico è il caso della nuova “selciatura” in marmo di piazza Cavalli, centro civico della città, promossa nell’ottava decade del XVIII secolo dalla “Congregazione degli Edili”, costituita da membri della nobiltà locale, cui fece seguito un progetto di “abbellimento” della stessa piazza elaborato dall’architetto piacentino Lotario Tomba. La proposta prevedeva la ricostruzione del palazzo del Governatore, situato sul lato nord della piazza, e il conseguente spostamento delle botteghe ospitate nelle arcate terrene del vecchio edificio, sotto i portici di palazzo Gotico, opportunamente riaperti e riadattati per l’occorrenza. La definitiva abolizione dell’istituto del maggiorasco e dei rigidi vincoli imposti dall’istituto del fidecommesso, prevista dal Codice Napoleonico (1809), nonostante le modifiche apportate da Maria Luigia, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla (1814-1847), dopo il congresso di Vienna, rimise in movimento una società ferma alla primogenitura del patrimonio immobiliare, che sicuramente accelerò il processo dei cambiamenti a partire dai primi decenni dell’Ottocento. Nel 1752, nel quadro delle iniziative finalizzate a sostenere l’industria della seta, furono piantati tremila gelsi sulle mura urbane e nel 1760 si obbligò la popolazione del ducato a piantare 15 gelsi per ogni cento pertiche di terreno agricolo. Nel giro di pochi anni i gelsi messi a dimora raggiunsero il ragguardevole numero di 18.360 esemplari. Nello stesso anno il duca Filippo creò a Piacenza la Congregazione del Pavaglione e la fiera delle “gallette”. Degli otto componenti la Congregazione, sei erano nominati dalla comunità comunale e due dal Collegio dei mercanti. Il nuovo istituto si occupava di regolare la coltura dei gelsi, il mercato dei bozzoli e della concessione delle licenze per la filatura. A Piacenza, differentemente dal sistema produttivo adottato in altre realtà urbane circonvicine, come a Bologna, dove i mulini a ruota idraulica per la produzione della seta erano concentrati in specifici comparti urbani, si continuò a coinvolgere l’intero tessuto urbano per la produzione della materia prima, anche al fine di garantire un uso a ciclo continuo della mano d’opera inurbata. Lorenzo Molossi (1832) pose l’accento sull’utilizzo proto industriale delle acque cittadine, menzionando le fabbriche di maioliche, le concerie, le tintorie, le stamperie, i cotonifici, le seterie dei vari Prella, Frasi, Galloni e i filatoi dei Perinetti, Zerga, Rossi e Tavecchio. All’interno della città, i tintori e i molinari risiedevano preferibilmente negli isolati di S. Maria del Tempio, S. Giacomo, S. Sepolcro; i tessitori nelle contrade di S. Maria in Galiverta, S. Salvatore e S. Savino; mentre chi godeva di redditi fondiari faceva costruire i propri palazzi negli isolati di S. Savino, S. Giacomo e S. Antonino. Le trasformazioni urbane erano dunque prevalentemente imposte da un disorganico agglomerarsi di funzioni abitative e produttive. La storiografia interessata alle problematiche sociali ed economica concorda nel ritenere che dagli anni venti-trenta del Seicento incominciò una lunga fase depressiva, causa di un vistoso calo demografico e della crisi che investì ampi settori della produzione manifatturiera di Piacenza. La crisi indusse i rappresentanti più dinamici dell’economia urbana a trasferirsi dalla città nel contado, privo dei vincoli imposti dalle corporazioni degli artigiani e dei commercianti e caratterizzato da costi del lavoro sensibilmente inferiori. A partire da quella soglia temporale il contado divenne quindi la sede privilegiata delle attività tessili precedentemente localizzate in ambito urbano e la sua vitalità economica fu anche accompagnata da una crescita della popolazione rurale. Secondo Belfanti74, il tasso di crescita di Piacenza tra il 1600 e il 1730 è decisamente inferiore a quella del suo contado, e su questo divario si basa la fondamentale tesi storica del “declino” dell’economia piacentina sei e settecentesca. Perciò, se la città nella seconda metà del Cinquecento, insieme a tante altre città padane, fece registrare una fase di prosperità, che lasciava intravedere un ulteriore espansione economica, tale prospettiva si rivelò ben presto fallace, perché la società e l’economia piacentina si ibernarono “nelle brume seicentesche”75. Per Barbot (2008)76, nel corso della parabola dinastica farnesiana (1545-1731), Piacenza vive in successione un’importante fase di crescita economica e demografica, una crisi drammatica intorno al 1630 e “un lungo periodo di riaggiustamento e di faticosa ricerca di nuovi equilibri”. Tra il 1579 e il 1622, secondo Fernand Braudel (1986)77, Piacenza ricopre un ruolo fondamentale nell’economia mediterranea e di tutto l’Occidente, capace di attrarre in città “l’aristocrazia del denaro” con le sue fiere di cambio di Bisenzone78. Una tragica sequenza di guerre, carestie e pestilenze che, associata al trasferimento delle élites dirigenti e degli interessi economici urbani verso l’attività agricola e la “rendita fondiaria”, segnò il declino della città che non fece che peggiorare prima con la perdita della fiera di Bisenzone e poi con il definitivo trasferimento della corte a Parma. Piacenza quindi, da polo commerciale e finanziario di livello europeo, che con qualche punto d’arresto, manifestatosi in concomitanza della carestia del 1590-9379 si mantenne pressoché inalterato fino al 1630 circa, nel corso del secondo Seicento e del Settecento retrocesse progressivamente a livello di centro urbano d’importanza locale80. Cristoforo Poggiali81, nelle sue Memorie storiche raccontò dei nefasti lutti provocati a Piacenza dalla grande peste del 1629-31. Nel volgere di poco tempo la popolazione della città si ridusse di 19.300 persone, pari al 57,6% dei 33.038 residenti intra muros registrati nel censimento del 1618, il numero più alto raggiunto dalla popolazione urbana tra il 1546, anno del primo censimento voluto da Luigi Farnese, che registrò 25.146 abitanti, e il 1737, quando, nonostante i nuovi nati e gli innesti di immigrati, si contarono 28.056 persone. Nel periodo compreso tra il primo e l’ultimo censimento (circa due secoli), la popolazione era cresciuta di appena 2.910 unità, a

30 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 dimostrazione che eventi catastrofici, come, carestie, epidemie, guerre, terremoti e altre calamità naturali hanno sempre determinato, almeno fino all’epoca dello sviluppo industriale, un andamento demografico caratterizzato da una curva di tipo sinusoidale o più precisamente da una curva asintotica che raggiunto un determinato apice, corrispondente a un evento catastrofico, precipita verticalmente verso il basso per poi ricrescere quasi secondo lo stesso andamento della prima funzione matematica. Però, a Piacenza, eventi di tipo politico ed economico hanno di fatto alterato la curva dei modelli demografici, peggiorandola ulteriormente82. Per alcuni studiosi, il minor dinamismo demografico della città rispetto al territorio circostante andrebbe letto come l’affermazione della “proto industria rurale” a discapito del modello produttivo della manifattura urbana83. La Barbot ha studiato la recessione economica dei Seicento in rapporto alla forma urbis assunta da Piacenza o, per meglio dire, ai fenomeni reattivi e trasformativi indotti alla sua forma urbis dal combinato disposto dei fattori economico e demografico. Tra i censimenti del 1546 e del 1737 la studiosa ha ravvisato che gli ambiti parrocchiali, denominati “cure”, altrimenti dette anche “vicinanze”, si ridussero da 52 a 40 unità, come per altro già rilevato da altri, e per facilitare la lettura dei fenomeni trasformativi ha proposto la suddivisione della città intra muros in tre fasce geografiche: la corona periferica esterna, che segue l’andamento delle mura cinquecentesche, la corona mediana e il nucleo interno, delimitato da piazza Duomo, strada Dritta, piazza Grande (piazza Cavalli) e Borgo. Questo modello sarebbe, a suo parere, determinato dalla presenza del Po, che ha limitato l’espansione dell’impianto urbano verso nord, e dalle grandi direttrici di traffico commerciale. Il confronto dei dati raccolti dai censimenti del 1546 e 1737 dimostrerebbe che la fascia esterna della Piacenza farnesiana sarebbe quella dove si registra la maggiore concentrazione degli abitanti, rispetto al nucleo centrale, nel suo complesso meno densamente popolato, a differenza di molte città dell’antico regime, dove invece si registra uno nucleo centrale più densamente popolato e una periferia intercalata da vuoti, demografici e insediativi. E inoltre che nell’arco dei due secoli il divario tra fascia periferica e nucleo centrale si accentua ulteriormente. Ciò sarebbe dovuto, secondo la studiosa, al manifestarsi della peste che avrebbe favorito lo spostamento della popolazione nelle zone marginali a discapito di quelle centrali. E tutto questo misurato sulla variazione del numero di abitanti nelle varie “vicinanze”. Nell’arco temporale qui preso in considerazione, le perdite maggiori si registrerebbero nel settore “che dalla parrocchia di S. Dalmazio s’irradia verso nord est”, mentre per gli incrementi la studiosa non ravvisa alcuna logica nella distribuzione geografica. Ad esempio, nella parrocchia di S. Nicolò dei Cattanei ha rilevato un aumento di popolazione pari all’888%, a fronte di una diminuzione del 26% registrata nell’attigua parrocchia di S. Tommaso. Le cause di questo processo migratorio interno, ma, si potrebbe aggiungere, in parte dovuto anche ad apporti esterni, andrebbero ricercate nelle differenti gerarchie sociali della popolazione, suddivise in rapporto alla ricchezza, all’onorabilità, alla professione, al genere e all’età, e nei percorsi di mobilità individuale e familiare scaglionati in ambiti cronologici tra loro diversi. In definitiva, la struttura sociale di Piacenza si dispiegherebbe ai nostri occhi come “un’articolata piramide millefoglie”, costituita da vari elementi distintivi che s’incrociano costantemente. A parere della studiosa, intorno alla fine del XVI secolo, la corona periferica della città ospitava poco meno della metà della popolazione, in maggioranza “artisti” (artigiani) e “possidenti”. La corona periferica si presentava invece come una “sorta di Giano bifronte” dove convivevano le dimore nobiliari delle casate più prestigiose insieme a caseggiati e botteghe di artigiani e mercanti scarsamente specializzati, per lo più dediti alla fabbricazione dei tessuti di lana e delle calzature. I pescatori e i navaroli si concentravano invece nelle vicinanze di Santa Maria di Gariverta, presso il canale Fodesta. I molinari tra San Salvatore e le parrocchie contigue, attraversate da piccoli canali lungo i quali si attestavano quasi tutti i mulini della città; mentre a ridosso delle mura ferveva l’attività di un folto gruppo di fruttaroli e ortolani. Nella corona mediana si concentrava la più parte degli immobili di media e grande dimensione di proprietà di possidenti appartenenti per oltre il 90% alla fascia medio alta. A parere della Barbot, la marcata funzione abitativa di questa corona tendeva a inframezzarsi con le attività degli artisti (artigiani) e dei mercanti con l’approssimarsi al nucleo centrale; zona elettiva, questa, del commercio organizzato e della potente “aristocrazia del denaro”. Non a caso in piazza Cavalli si teneva quattro volte l’anno “la fiera di Besenzone”, frequentata da finanzieri e banchieri di tutta Europa. Nel 1596, l’Estimo dei Commercianti registra mercanti da panno, da seta, spicciari e formaggiari84. L’aristocrazia mercantile era composta di mercanti “puri”, non più di 58 ditte che da sole detenevano il 41,7% dell’intero ammontare del capitale censito nel 1596. A distanza di un secolo l’Estimo Mercantile fa invece registrare un deciso incremento dei mercanti generici e dei retaglianti e la riduzione speculare dei trafficanti all’ingrosso e dei mercanti specializzati, in particolare quelli del panno di lana e de tessuto di seta. La trama delle intersecazioni dei rapporti sociali in un determinato ambito urbano è così complessa che per poterla decifrare sarebbe necessario avvalersi dell’analisi delle forme frattali. Se dunque è sempre utile intersecare i dati spaziali con quelli demografici, economici e sociali, non sempre si riesce a delineare un quadro sufficientemente attendibile della realtà urbana e in particolare quella di Piacenza, caratterizzata da alcune particolarità che non sempre si adattano a un modello interpretativo basato su uno spazio radiocentrico, per altro più calzante in altre realtà urbane della pianura Padana. La corona periferica di Piacenza era

31 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 densamente popolata e restò tale fino a tutto l’Ottocento avanzato, come dimostrano le mappe storiche già esaminate, in particolare le carte tematiche sulle trasformazioni urbane appositamente elaborate per questo volume. Anzi, la periferia urbana di Piacenza si distingueva dalle altre periferie delle città padane per una consistente presenza di grandi complessi conventuali, che costituivano piccole comunità, quasi autonome; e poiché in genere occupavano aree urbane piuttosto estese, erano anche caratterizzate da una bassa densità demografica, rispetto agli aggrovigliati insediamenti della corona intermedia e del nucleo centrale. Per cui si può affermare che l’ellittica disposizione dell’impianto urbano di Piacenza, con il suo asse maggiore allineato con l’andamento del Po, determinò una sorta di costrizione dello spazio abitativo lungo il margine settentrionale della città, dove, per ovvie ragioni, si registra nell’arco del tempo e per fattori geografici, morfologici, politici ed economici, la maggiore concentrazione degli episodi costruttivi, specialmente quelli legati alla rappresentanza politica, militare strategica e produttiva (la vicinanza del Po e la prossimità dei corsi d’acqua secondari affluenti in riva destra). Nel settore est e ovest si coagularono altri insediamenti abitativi e produttivi lungo le direttrici di comunicazione per Alessandria Torino e per Genova, sempre più diradati nei margini più lontani di detti assi stradali; mentre la zona sud della città era quella dove si registrava la maggiore concentrazione dei grandi complessi conventuali, i cui orti e aree prative si estendevano fino a raggiungere gli spalti delle mura farnesiane. Da qui, l’accentuata presenza di fruttaroli e ortolani dediti alla coltivazione agricola all’interno delle mura urbane per soddisfare in primis la richiesta alimentare delle varie comunità conventuali, e poi per vendere le eccedenze alla popolazione urbana. Si trattava perciò di attività commerciali esercitate all’interno dei conventi, che in genere ospitavano anche la casa dell’ortolano. Ragion per cui, il modello spaziale proposto dalla studiosa in tre distinte fasce non trova riscontro nella realtà insediativa di Piacenza storicamente definita. Si potrebbe forse parlare di due fasce, la più esterna della quale addensata sui versanti nord e nord est fino alle mura, e negli altri versanti caratterizzate da una densità insediativa progressivamente rarefatta in particolare nel settore sud. Inoltre, va considerato che lo spopolamento registrato nel settore centro nord est rilevato dalla studiosa andrebbe posto in relazione al decadimento di alcune attività produttive e con il venir meno di alcuni assi di comunicazione e di approvvigionamento dei materiali da e verso la città, come quello determinato dal progressivo insabbiamento della darsena del canale Fodesta nel settore nord della città, causa principale del decadimento delle vicinanze periferiche extra moenia dei pescatori e dei navaioli. Si deve inoltre aggiungere che l’indice della densità demografica intra muros andrebbe studiato anche in correlazione al numero, alle dimensioni e alla distribuzione dei palazzi nobiliari nei singoli isolati suddivisi per fasi cronologiche tra Seicento e Settecento. Si scoprirebbe così che la dinamica insediativa del ceto nobiliare sembra seguire una logica legata alla consistenza e alla disponibilità patrimoniale; e se condividiamo la tradizionale interpretazione storica, secondo la quale tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del secolo successivo i possidenti preferirono trasferirsi nel contado, assumendo atteggiamenti economici volti a incrementare il proprio patrimonio attraverso la rendita fondiaria, dovremmo anche accettare che il rilevante numero di fabbricati nobiliari costruiti in questo periodo all’interno della città, senza eguali nelle altre realtà urbane della pianura Padana e in apparente contraddizione con la crisi economica del periodo in esame, determinò di fatto un processo insediativo eterodiretto dal contado. Ragion per cui le dimore nobiliari urbane assumerebbero in questo periodo la valenza di nuclei insediativi di rappresentanza più che vere e proprie nuclei residenziali costantemente abitati nel corso dell’anno. E ciò implicherebbe una mobilità stagionale che renderebbe ancor più incerta la dinamica dei flussi demografici, poiché ogni nucleo residenziale del ceto nobiliare ospitava anche un certo numero di servitori che alimentava il mercato urbano. In questo periodo quindi gli edifici nobiliari della città andrebbero considerati per un verso come elementi catalizzatori dei processi trasformativi dell’impianto urbano e, per altro verso, come elementi disgregativi del tessuto edilizio più minuto e dunque come vettori destabilizzatori delle attività produttive artigianali e commerciali intra moenia. La Barbot ha anche preso in considerazione l’organizzazione sociale della città attraverso l’analisi dell’Estimo civile, del Catasto degli Artisti e dell’Estimo mercantile cui corrispondono le categorie sociali dei possidenti, degli artisti (artigiani, afferenti alle varie corporazioni urbane) e dei mercanti85. Con la riforma Salviati del 1530, la popolazione urbana era suddivisa in cittadini, residenti entro le mura e ammessi a eleggere i membri del Consiglio Generale e l’Anzianato, i massimi organi di governo della città, e gli abitanti, in altre parole tutti quelli che pur dimorando in città non avevano il diritto di eleggere i propri rappresentanti in seno ai due organismi di governo. I cittadini (“cives”) erano a loro volta suddivisi in tre ordini sociali: dei Magnifici (nobili titolati); dei Nobili (aristocratici non titolati detti anche “semplici”); dei Populares (i cittadini non nobili). Ciascuna di queste categorie era abilitata a eleggere un terzo dei rappresentanti del Consiglio Generale. Ciò non significa che tutti i Populares, di qualsiasi censo fossero portatori, accedevano al Consiglio Generale, poiché nei due secoli presi in esame la studiosa ha costatato che solo l’élite mercantile e artigianale era sostanzialmente ammessa ai vertici politici della città, in quanto riconosciuti come cittadini ricchi. L’Estimo mercantile descrive una pluralità di figure professionali che esercitavano la propria attività “imprenditoriale” avendo a disposizione il capitale necessario per la produzione e/o per la distribuzione di beni e di servizi86.

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Dagli studi effettuati rispettivamente da Maffini (1982)87, Gariboldi (1983)88 e Boscarelli (1986)89 sul ceto nobiliare piacentino emerge che in poco meno di cinquanta anni ( tra il 1646 e il 1694), il terzultimo duca Farnese Ranuccio II nominò 134 nuovi nobili “Semplici” e 118 nobili titolati, vale a dire un numero di nobili quasi otto volte superiore a quello creato dai suoi predecessori. E poiché al ceto nobiliare accedevano quei Populares che avevano un rilevante patrimonio fondiario, si delinea un quadro nel quale la dinamica sociale della seconda metà del Seicento era tendenzialmente condizionata da una politica economica volta a privilegiare la rendita fondiaria e conseguentemente a disincentivare l’attività imprenditoriale, commerciale e artigianale, preferibilmente esercitata in ambito urbano. In una prospettiva temporale più ampia, la curva della mobilità sociale tra il ceto dei Populares e quello dei nobili registra delle fasi costantemente ascendenti nella seconda metà del Cinquecento, una fase di discendente nella prima metà del Seicento e un’impennata alla fine del Seicento, sebbene il numero delle casate che “contano” non sembra variare di molto. Per Barbot negli anni venti-trenta del Seicento molte delle famiglie ai vertici dell’Estimo mercantile incomincia a scalare anche i vertici dell’Estimo civile che, nel censire il patrimonio fondiario, attributo tipico del ceto nobiliare, da anche la misura di quanto fosse ambito il titolo nobiliare tra gli aspiranti appartenenti al ceto dei Populares. Per alcuni studiosi, tali dinamiche sociali tracciano un quadro nel quale l’élite economica urbana sembra aver abdicato alla sua vocazione imprenditoriale per abbracciare uno stile di vita imperniato sulla rendita, minando così alle fondamenta le prospettive di sviluppo economico manifestatesi nel corso del “florido” Cinquecento. Tuttavia, secondo De Maddalena (1982)90, sebbene la recessione economica del Seicento estendesse i suoi tentacoli ben oltre i confini dello stato farnesiano, i possidenti della città non rinnegarono affatto il negotium per l’otium, ma estesero i loro profitti rivolgendo l’attenzione ai rendimenti sicuri offerti dall’acquisto di case e terreni. Va inoltre precisato che “l’aristocrazia del denaro” costituiva una frazione piuttosto esigua dei possidenti. Secondo Romani91, a Piacenza, nel 1596, dei 5.500 nuclei familiari censiti nell’Estimo mercantile, solo 589 detenevano dei capitali e tra questi solo 60 nuclei circa potevano essere considerati una élite mercantile. Per questo autore, appartenevano alla categoria dei nullatenenti i cosiddetti poveri vergognosi, vale a dire i nobili decaduti che, se non volevano rinunciare al ceto cui appartenevano, dovevano astenersi dal lavorare e dal mendicare, e sopravvivere con l’aiuto offerto dalle istituzioni cittadine92. Tra i poveri vi erano i forestieri e i miserabili, tra i quali si distinguevano vagabondi e nomadi, fatti oggetto di numerose Grida emanate dal Consiglio Generale tra il 1545 e il 1730, perché spesso considerati responsabili del diffondersi delle epidemie e mal tollerati dai “veri poveri”, gli unici meritevoli, secondo le Grida di essere aiutati93. Seguendo la linea interpretativa di Barbot, le Grida offrono uno spaccato moto interessante sugli indirizzi politici assunti nel corso del tempo dal Consiglio Generale. Negli anni più drammatici della crisi seicentesca le autorità ducali e municipali intervengono più volte per disciplinare l’ordine pubblico, la fiscalità, la sanità, gli spettacoli di piazza, le fortificazioni e le questioni annonarie. Vengono anche emanate disposizioni per regolare i mercati urbani. A parere della studiosa, il rilevante numero delle Grida e la varietà delle materie trattate indicano che il governo cittadino aveva piena consapevolezza della necessità di salvaguardare i valoro costitutivi della città, della sua importanza come snodo di comunicazione e luogo privilegiato del mercato europeo, dal cambio di valute ai banchi di commerci dalle botteghe dei retaglianti ai grossisti specializzati, dalle fiere delle mercanzie a quelle delle della grande finanza internazionale. Le Grida, intensificatesi soprattutto tra il 1606 e il 1667, testimoniano efficacemente gli intendimenti delle autorità che avvertivano la necessità di delimitare dei più netti confini tra le classi sociali, dopo che la grande apertura alla mobilità del secondo Cinquecento aveva consentito a molti Populares di accedere nell’universo dei privilegiati. In conclusione, per Barbot, gli estimi seicenteschi sembrano illustrare un sistema economico che trasforma la sua armatura produttiva variandola e “dequalificandola”, e, per evitare di perderla definitivamente, moltiplica i mestieri e le varie attività, in un crescendo di confusione professionale, che coinvolgono anche le corporazioni dei commerci e delle produzioni specializzate che finiscono per cedere all’onda d’urto delle trasformazioni. Non tutte però sono segnate da parabole discendenti. Tra il 1678 e il 1685, su iniziativa ducale, si costruisce un grande mulino a ruota idraulica, alla quale si affianca, nei successivi trent’anni, una quarantina di altri filatoi, che testimoniano di un’intensa attività produttiva. Nel 1737, in città, è ancora presente una dozzina di filatoi e nel 1768 operano aziende per la filatura della seta, dotate di 419 fornelli che garantiscono una produzione annua di 16.760 pesi di seta. Sembrerebbe quindi che nello scorcio del Settecento il cuore produttivo della città si sposti verso la periferia, luogo di “passo” di tutte le mercanzie.

33 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

TAV. 2 Pianta di Piacenza con i palazzi nobiliari

residenze nobiliari rappresentate nella mappa affrescata in palazzo vescovile, 1748

residenze nobiliari non rappresentate nella mappa del 1748

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35 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Nella pagina precedente: Pianta di Piacenza con i palazzi nobiliari, 1748 In nero: i palazzi nobiliari nella pianta; in rosso: altri palazzi nobiliari non rappresentati nella medesima pianta. L’ingombro planimetrico dei palazzi corrisponde a quello attuale, ma in origine potevano avere un’estensione maggiore o minore. I numeri racchiusi nella parentesi quadra […], si riferiscono a quelli indicati nella mappa del 1748. Alcuni dei palazzi rappresentati in questa mappa oggi non sono più esistenti, o sono stati ampiamente modificati.

Via Taverna Via Tempio Via Verdi Case dei conti Parma, 23-25 [27] Palazzo non [22] Palazzo Malvicini Fontana [58] Palazzo Scotti di Fombio, 37 identificato, 29 di Nibiano, 13-15 [59] Palazzo Anguissola [28] Palazzo Marliani Palazzo Marchesi , 23 di Vigolzone, 39 Anguissola, 56 [21b] Palazzo Douglas Scotti di [57] Palazzo Scotti di Castelbosco, San Giorgio Della Scala, 42 Marazzani, 48 Via Nova [21a] Palazzo Scotti Fioruzzi, 40 [60] Palazzo Cavazzi della Palazzo Gulieri, 36 Palazzo Cotta Somaglia, 66 Palazzo Zanardi, 26 Cremonesi, 37-39 [61] Palazzo Barattieri, 70-72 Casa Lanzoni, Zovanoli, 18-22 Via S. Antonino Via Castello Via S. Siro Palazzo Falconi, 3 [31] Palazzo Conti, poi Casali, 20 [48] Palazzo Crollalanza, Scotti, 21 [11] Palazzo Scotti di Sarmato,17 [15] Palazzo Scotti di Sarmato, 42 Casa Gnocchi, 7 Palazzo Guerra, Nicelli Casa Zovanoli, 36 [50] Palazzo Nicelli di di Muradello, 21 [16] Palazzo Arcelli Guardamiglio, Pistoni, 9 Palazzo Anguissola [14] Palazzo Casoni [49] Palazzo Spelta, 26 da Travo, 23 Palazzo Scotti di San Giorgio, 31 Palazzo Gusani Camia, 64 Via Maddalena Palazzo Landi di Rivalta, 35 [10] Palazzo Baldini Radini [12] Palazzo Arcelli, 14-18 [45] Palazzo Anguissola di Tedeschi, 72-76 [13] Palazzo Pusterla, 12 S. Damiano, 38 [47] Palazzo Anguissola, 32-34 Strada alle Cappuccine Via Somaglia [51] Palazzo Serafini [33] Palazzo Fabri [17] Palazzo Bracciforti, 12 Via Santa Franca Stradone Farnese Via Garibaldi Palazzo Ronzoni, 14 [2] Palazzo Landi di Palazzo Paveri Fontana, 21 Palazzo Pizzati, 16 Chiavenna, 32 [52] Palazzo Mischi, 24 [9] Palazzo Cigala Fulgosi, 41 [4] Palazzo Anguissola di Palazzo Anguissola [8] Palazzo Bernardi Morandi, 43 Podenzano, 25-27 di Altoè, 34 Casa Marzolini, 23 [5] Palazzo Pallavicino [53] Palazzo Scotti di Agazzano, 36 Palazzo Nicelli di Coli, 29 di Scipione, 21-23 [54] Palazzo Sanseverino Palazzo Fagioli, 38 [3] Palazzo Salvatico, 29 d’Aragona, 60 [1] Palazzo Dal Verme, 49 [56] Palazzo Portapuglia, 62 Strada San Raimondo [6] Palazzo Mancassola Palazzo Cerri Gambarelli, 64 [9] Palazzo Volpelandi [7] Palazzo Rocchetti Casa dei Teatini, 69 Palazzo Manzini, Piazza S. Antonino Via Scalabrini Ghizzoni, Faustini, 77 [44] Palazzo Marazzani Visconti, 2 [43] Palazzo Rossi Trevani, 4 [56] Palazzo Volpe Landi, 83 Palazzo Dalla Spezia, [42] Palazzo Appiani Marzolini, 6 d’Aragona Borromeo, 6 Via Croce Case del Capitolo di Palazzo Giacometti, 7 [55] Palazzo Tedaldi di S. Antonino, 3, 4, 5 Palazzo Scribani Rossi, 26 Tavasca, 2-4 [20] Palazzo Zanardi Palazzo Lusardi, Sforza, 31 Palazzo Ardizzoni Calvi, 14 [46] Palazzo Landi, 10 Palazzo Giandemaria, 33 [34] Palazzo Mansi, Cigala Via San Giovanni Via Giordani Fulgosi, 49 [41] Palazzo Pallastrelli, [24] Palazzo Malvicini Fontana, Palazzo Anguissola d’Altoè, 5 Arcelli Fontana, 8 Fogliani d’Aragona, 7 [19] Palazzo Landi [40] Palazzo Anguissola di San [23] Palazzo Arcelli-Tirotti, 12 [18] Palazzo Anguissola Damiano, Passerini, 10 [26] Palazzo Mulazzani Maggi, 15 di Cimafava, 2-4 [39] Palazzo Gragnani, 12 [30] Palazzo Douglas Scotti di Palazzo Cotta Giordani, 8 [37] Palazzo Moraggi, 46 Vigoleno, 17 [35] Palazzo Civardi, 50 Palazzo Rossi Devoti, 22 [38] Palazzo Caraccioli, 44 Casa Tacca, Curtarelli, 26 [32] Palazzo Barattieri, 67 [25] Palazzo Volpari, 28 Casa Marazzani Visconti, 61 [29] Palazzo Sanseverino, Palazzo Croci, Pizzati, Caracciolo, 38 Fioruzzi, 68

36 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Via Torta Via San Marco Via Nicolini [33] Palazzo Fabri, 7-13 Palazzo Visdomini, 27 Palazzo Pallastrelli, 2 [101] Palazzo Borghi, 16 Palazzo Gobbi, 8 Piazza Cattedrale [109] Palazzo Asinelli, 31 Palazzo Rocci, 10 [89] Palazzo Bardetti Palazzo Cattaneo, Omati, 12 Via Borghetto [36] Palazzo Roncovieri, 15 Via Campagna Palazzo Toscani, 2 e,f,g Via Carducci [62] Palazzo Coppalati, 14 -16 [113] Palazzo Landi, 7 Palazzo Dellavalle, 85 [99] Palazzo Torti, 10 [93] Palazzo Costa Ferrari, [65] Palazzo Trissino da [114] Palazzo Arcelli di Bilegno, 11 Sacchini, 11 Lodi, 103-105 [108] Palazzo Soprani, 16 Palazzo Mulazzani, 47 [117] Palazzo Zeni, 23 Via Roma [64] Palazzo Catanei [115] Palazzo Nicelli, 29-31 [87] Palazzo Villa Maruffi, 103 [63] Palazzo Paveri [116] Palazzo Carasi, 27 [88] Palazzo Anguissola [66] Palazzo Tedeschi [118] Palazzo Caracciolo, 33 di Grazzano, 99 [121] Palazzo Costa, 80 Via S. Eufemia Via San Sisto [122] Palazzo Marazzani, 68 [78] Palazzo Nicelli, Rota [119] Palazzo Affaticati, 6 Palazzo Gobbi, Massari, 43 Pisaroni, 11-13 Palazzo Conti, Fava, 47 [77] Palazzo Platoni, 15 Via Cittadella [123] Palazzo Novati, 48 [80] Palazzo Sanviti, 10 [98] Palazzo Radini Tedeschi, 39 [79] Palazzo Casati [96] Palazzo Pila Strada della Torricella [111] Palazzo Borghi, 34 [120] Palazzo Barattieri [112] Palazzo Arcelli della Via Sopramuro Minuta, 36 Palazzo Bertamini Lucca, 60 Via XX Settembre Palazzo Tirelli Volpari Palazzo Corvi, 65 [105] Palazzo Chinelli Via Frasi [104] Palazzo Grossi [72] Palazzo Gazzola, 8 Via X Giugno Via San Tommaso [70] Palazzo Cigala, 12-16 Palazzo Chiappini, 3 [71] Palazzo Marchetti, 23-25 Palazzo Rezzoalli, 20 [83] Palazzo Fontana, Gazzola, 14 [106] Palazzo Ferrari Via Pace Via Gregorio X Via Poggiali [68]* Palazzo Anviti Palazzo Scrivani, 27 [68]* Palazzo Cavagni [103] Palazzo Paveri Fontana, Vicolo Serafini Ricci Oddi, 24 Via Chiapponi [97] Palazzo Serafini, 4 [102] Palazzo Scotti di [67] Palazzo Chiapponi, 20-24 Palazzo Ghizzoni Nasalli, 12 Montalbo, 39 [69] Casa Scotti Chiapponi, 27-29 [110] Palazzo Pozzi, 43

Via Mazzini Via Romagnosi [91] Palazzo Morando, 41 Palazzo Galli, 14 [90] Palazzo Falconi Segadelli, 74 [73] Palazzo Lampugnani, 22 [92] Palazzo Ferri [74] Palazzo Leoni, 24-30-32 [95] Palazzo Rocca Palazzo Zamberti, 55 [94] Palazzo Morandi, 33 [84] Palazzo Novati, 64 [75] Palazzo Tedaldi, 34-36 Cantone Mosca [76] Palazzo Parletti, 46 [81] Palazzo Cassola, 60 [85] Palazzo Mansi, [82] Palazzo Ferrari, 62 Anguissola, Tirotti, 10 [86] Palazzo Scala, Bordi Via Mandelli [107] Palazzo Mandelli, 14 * Il numero è ripetuto due volte nella mappa [100] Palazzo Suzani, 4 del 1748.

37 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piacenza, palazzo Rota Pisaroni

38 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Palazzo Rota Pisaroni: cortile d’onore e scalone

39 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piacenza, palazzo Costa

40 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piacenza, palazzo Scotti di Sarmato, cortile d’onore e giardino

41 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

TAV. 3 Piacenza, chiese e conventi all’inizio del XIX secolo

censimento conventi 1803-1806

censimento chiese

42 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

43 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piazza Duomo, secolo XIX (Parma, Archivio di Stato)

Chiesa di S. Maria di Campagna, secolo XIX (Parma, Archivio di Stato)

44 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

La basilica di S. Antonino e i palazzi Zanardi Landi e Anguissola di Cimafava, secolo XIX (Parma, Archivio di Stato)

Chiesa delle benedettine, secolo XIX (Parma, Archivio di Stato)

45 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Planimetria del duomo di Piacenza e dei fabbricati contermini secolo XVIII (Parma, Archivio di Stato)

Pietro Perfetti, Palazzo Madama, fronte porticato sul cortile (Parma, Archivio di Stato)

46 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

“Disegno della chiesa et fabbrica fatta e da farsi alla B. V. della Torricella”, secolo XVII (Parma, Archivio di Stato)

Pietro Perfetti, “Veduta in elevazione della Fiera di Piacenza”, secolo XIX (Parma, Archivio di Stato)

47 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

TAV. 4 Le trasformazioni urbane nell’Ottocento

strade urbane di Ia categoria strade urbane di IIIa categoria

strade urbane di IIa categoria principali opere stradali

48 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Espropri Napoleonici Conventi (a) Santa Franca (b) San Raimondo (c) San Siro, (d) San Giovanni in Canale (e) Madonna di Campagna (f) Annunciata (g) Carmine (h) San Sisto (i) Santo Sepolcro (l) Benedettine, (m) San Bartolomeo, (n) San Bernardo San Giacomo

Viabilità e Barriere daziarie (1) Porta Nuova (stazione ferroviaria) (2) San Raimondo, Barriera Genova (3) San Lazzaro, Apertura mura - Barriera Roma (4) S. Antonio Apertura mura - Barriera Torino; Viale Risorgimento 1848 -1908; Nuovo Ponte stradale sul Po 1908; Collegamento Stradone del Castello – Porta Torino; Viale Beverora; Viale SantAmbrogio (5) Stazione Tramvie su viale Sant’Ambrogio 1908

Militari e Caserme (o) Le Casermette (Convento di Valverde) (p) Colombaia militare (Convento della Maddalena poi Foro Boario) 1806 (q) Arsenale (Castello) nel biennio 1879-1880 (r) Caserma Carabinieri viale Beverora (s) Caserma Cavalleria (SantAgostino) 1863 (t) Caserma Alfieri (Dogana) (u) Ospedale Militare 1863 (v) Torrioni Fodesta e (z) Borghetto 1820-1850

Altre opere pubbliche (6) Nuovo cimitero Ospedale 1780 (7) Teatro Municipale 1803/1804 (Palazzo Landi Pietra) (8) Faxall (Wauxhall ) “Cours Marie Louse” 1807 (9) Piazza d’armi sullo stradone del Castello Giardino Merluzzo 1872 (Santa Maria degli Angeli) (10) Ospizio Vittorio Emanuele 1879 (palazzo Radini Tedeschi) (11) Foro Boario fuori porta San Raimondo 1881 (12) Chiesa e convento del Carmelo 1884 (13) Nuovo Carcere 1872 - 1884-1887 - 1889 (14) Nuovo Macello Comunale 1891-1894 (15) Mercato Coperto 1892 (chiesa di san Gervaso) (16) Scuola Superiore Romagnosi 1860 ?? (17) Scuola Elementare Rione Giordani 1891- 1893 (Convento San Siro) (18) Scuola Elementare Rione Taverna 1905 (19) Scuola Elementare Rione Mazzini 1907- 1909 (Convento San Gregorio Magno) (20) Scuola Elementare Rione Alberoni 1912 (21) Istituto sordomuti Madonna della Bomba 1903 (22) Ospedale Psichiatrico (23) Nuovo ingresso Ospedale (24) Gazometro su viale Risorgimento (25) Collegio San Vincenzo 1910 (26) Case popolari via Beverora 1910 (27) Case popolari via Capra Primo stralcio 1910

Ferrovia Alessandria-Piacenza e Milano- Piacenza 1859/1861 Giardino Margherita - Stazione 1893 Porta Nuova (stazione ferroviaria)

49 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

L’impianto urbano di Piacenza nell’Ottocento Le conquiste napoleoniche dei vecchi ducati italiani segnano un decisivo, tumultuoso, quanto effimero, cambiamento di regime politico, ma anche l’avvio di un processo di rinnovamento degli istituti e delle convenzioni sociali e di incisive trasformazioni del tessuto urbano. Se per Napoleone la pianificata rete delle strade imperiali di prima, seconda e terza classe costituì il presupposto strategico per sostenere i suoi ambiziosi programmi di sviluppo e controllo degli estesi territori conquistati, la conoscenza delle complesse realtà urbane divenne il presupposto basilare per una moderna e unificata gestione delle attività amministrative e fiscali dei comuni italiani. Lo strumento cartografico prescelto per questo fondamentale obiettivo fu il moderno catasto urbano che nel ducato di Parma, Piacenza e Guastalla fu avviato in seguito ai decreti imperiali del 3 novembre 1802 e del 20 ottobre 1803. Un’iniziativa del genere era stata già avviata con il “Censimento” promosso a Parma dal ministro Du Tillot nel 1765 con l’Atlante Sardi (mappa dettagliata dell’impianto urbano suddivisa in fogli), e con l’inizio del rilievo catastale della città, sull’esempio di quello predisposto a Milano nel 1735. Il 28 gennaio 1806, caduto in disgrazia Moreau de Saint Méry, Amministratore Generale degli Stati di Parma Piacenza e Guastalla, subentrò il prefetto Nardon che suddivise il territorio ducale in 13 comuni (“mairies”) con decreto del 20 marzo 1806. Inoltre, con successivo decreto del 15 aprile 1807 dispose “le operazioni di Catasto degli Stati di Parma e Piacenza”94. Nel 1808 il ducato cessò di esistere e, ad eccezione del principato di Guastalla, il restante territorio entrò a far parte del neo istituito Dipartimento del Taro. Le operazioni dei rilevamenti catastali iniziarono nel 1809 e, dopo la caduta dell’Impero (1814), continuarono con Maria Luigia d’Austria fino al 1849. I fogli catastali di Piacenza, elaborati con paziente costanza nel corso di40lunghi anni, sono stati appositamente assemblati tra loro e restituiti in un’unica mappa catastale della città con la rappresentazione particolareggiata degli isolati. La mappa consente di chiarire i rapporti spaziali intercorrenti tra le dimore nobiliari, i grandi complessi conventuali e il frammentato disegno dell’edilizia minore, unitamente a un’attendibile rappresentazione della rete stradale urbana, in una fase in cui non erano ancora stati avviati i numerosi interventi di rettifica e allargamento del preesistente impianto stradale risalente in gran parte al medioevo. L’unione dei fogli catastali del primo Ottocento è stata quindi utilizzata come base di riferimento per l’elaborazione delle varie carte tematiche che in questo volume illustrano i processi trasformativi che hanno interessato il tessuto urbano della città dal Cinquecento in avanti. Le vicende delle decisioni assunte dal governo francese durante l’occupazione di Piacenza sono state attentamente studiate da Monica Visioli che ha restituito un quadro dettagliato e documentato sul processo trasformativo dell’impianto urbano piacentino innescato dai vari provvedimenti napoleonici, che per vari motivi non ebbe modo di essere attuato, rimanendo in larga parte un disegno programmatico95. Contrariamente alla teoria politica, cara a Macchiavelli, secondo la quale se si voleva mantenere il completo controllo dei territori conquistati era necessario distruggere il sistema dei precedenti governi, Napoleone riteneva invece che per gli stati annessi alla Francia fosse sufficiente mutarne la struttura funzionale. Infatti, nel suo Machiavel commenté (1815) precisava che le trasformazioni urbane dovessero essere governate attraverso le politiche amministrative, piuttosto che imposte d’imperio. Questo diverso approccio politico chiarisce meglio di altre considerazioni quali fossero gli obiettivi politici che Napoleone aveva riservato per Piacenza. La posizione a ridosso del Po ne faceva una città di rilevante interesse militare e uno tra i principali punti strategici dell’Italia settentrionale. Per questo motivo la città fu inserita in un primo momento tra le principali piazzeforti dell’Italia nord occidentale. Tuttavia, Napoleone, su consiglio del generale Chasseloup, dispose con decreto del 1807 di escluderla da questo elenco, poiché considerata troppo grande e poco difendibile. Ciò nonostante, la sua posizione strategica restava rilevante e per questa ragione egli decise di presidiare la città con un contingente armato acquartierato nel castello pentagonale farnesiano96. Come documenta un resoconto del periodo dell’occupazione militare nel 1806, a Piacenza, le truppe erano alloggiate nel palazzo Farnese, complesso nel quale potevano essere ospitati fino a 2.500 soldati, nel convento di San Sepolcro, dotato di una scuderia per 500 cavalli, e nel convento di San Bartolomeo, riservato soprattutto agli ufficiali. Inoltre, l’antica struttura della fiera dei Cambi, situata nei pressi di palazzo Farnese, era stata adibita a scuderia, mentre fin dal 1798 il grande convento di Sant’Agostino, che si affaccia sullo stradone Farnese, era stato utilizzato per gli alloggiamenti della truppa e come officina per la fabbricazione degli equipaggiamenti militari97. Al termine dell’occupazione, il governo francese non s’impose drasticamente, come in genere avvenne negli altri dipartimenti, ma si affermò gradualmente, attraverso una serie di provvedimenti tra i quali quelli, non di secondaria importanza, indirizzati a creare le condizioni più favorevoli per una più razionale conoscenza del territorio che avrebbe sicuramente facilitato le attività amministrative e l’organizzazione burocratica del nuovo sistema di governo. È questo il caso della “numerizzazione” di tutte le case di Parma e Piacenza disposta dal governatore Moreau de Saint Méry nel 1803, in concomitanza con l’avvio delle operazioni di rilievo catastale98. La “numerizzazione” consentiva di leggere il territorio in modo univoco e nuovo, più diretto e pratico, sostituendo le vecchie e incerte indicazioni di “strada”, “quartiere” e “vicinia”. A Piacenza l’operazione, coordinata dal commissario Bertolini, fu affidata a Lotario Tomba, ingegnere della Congregazione di Polizia99. Nel 1795, lo stesso architetto aveva disegnato la “Pianta della città di Piacenza con le isole tutte numerizzate secondo il collocamento dellepietre e divise in

50 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 quattro classi con colori” su specifiche indicazioni del governo cittadino. Anche nel 1803 Tomba suddivise la pianta della città in quattro quadranti con epicentro su piazza Cavalli. I fabbricati furono identificati con una numerazione progressiva con inizio da piazza Cavalli. Inoltre, nella pianta di Tomba solo le piazze dei Cavalli (o piazza Grande), del Duomo, della Cittadella, del Borgo e di Sant’Antonino furono identificate con il termine “piazza”; e ciò lascia intendere quanto la città fosse densamente insediata, almeno nella corona più interna, imperniata piazza Cavalli, principale punto gravitazionale dell’intero sistema urbano. Quindi, la numerizzazione avrebbe consentito di identificare e quantificare i caseggiati situati nei singoli isolati. Più in generale, l’operazione, estesa su tutti i territori dell’impero dal governo francese, fu concepita per ragioni strategiche e commerciali e in funzione degli interventi di ripristino e di regolarizzazione della rete stradale urbana ed extraurbana. Infatti, nel vasto e articolato piano delle strade imperiali francesi, Piacenza si collocava sulla direttrice della strada di prima classe che, attraverso il passo del Moncenisio, collegava Parigi a Torino e a Roma. Rientra nell’ambito di questa strategia la costruzione del nuovo Teatro di Piacenza, sicuramente una delle imprese di rinnovamento della forma urbis più significative di quel periodo. Nel 1803, dopo l’incendio che nel 1798 aveva distrutto il vecchio teatro ducale della Cittadella, situato nel settore nord della città, alcuni nobili piacentini commissionarono all’architetto Lotario Tomba il progetto di un nuovo teatro da costruirsi nell’angolo sud occidentale di piazza Sant’Antonino, dove sorgeva il palazzo nobiliare di proprietà del conte Francesco Landi Pietra100. In un primo momento il teatro fu riservato alla sola nobiltà; e ciò porta chiaramente in evidenza il tradizionale atteggiamento dei duchi piacentini di lasciare le principali iniziative edilizie di rilevanza urbana in mano ai privati. Le cose incominciarono a cambiare con il governo napoleonico che, nel dare più ascolto alle richieste della comunità, ruppe in qualche misura le consolidate tradizioni politiche e amministrative della città, come nel caso della “promenade pubblique” sui bastioni di Sant’Agostino, il Wauxhall. Nel 1784, una società di gentiluomini, appositamente costituita, aveva promosso la realizzazione del pubblico passeggio nelle aree liberate dagli spalti e su un tratto delle mura nel versante sud della città, a intenzione dei “boulevards” parigini (Adorni, 1980). Nel 1807, il Consiglio degli Anziani decise di trasformare questo pubblico passeggio in grande viale alberato “con sedili di pietra”. A questo stesso anno risalgono i primi atti riguardanti la razionalizzazione del tracciato stradale tra Piacenza e Genova, finalizzato a rinsaldare il ruolo della città come rotta commerciale, da allacciare all’impianto urbano nei pressi di porta San Raimondo, proprio là dove terminava la passeggiata del Wauxhall, nel settore sud occidentale delle mura farnesiane. Dunque, agli inizi dell’Ottoento, la città tenta di aprirsi al territorio, di travalicare la barriera delle mura bastionate e di adottare una diversa strategia insediativa nella distribuzione delle varie funzioni pubbliche urbane, non più o non solo da situare all’interno delle mura. L’antico mercato del bestiame, il foro boario, da tempo immemorabile collocato in piazza della Torricella (settore nord est), a poca distanza dal Duomo, fu trasferito all’esterno di porta San Raimondo con decreto del prefetto Nardon del 6 settembre 1806, in coincidenza con l’applicazione della tassa su alcune merci e generi di consumo. Secondo De Maddalena, il trasferimento del foro boario all’esterno delle mura fu accolto con favore anche dal ministro degli affari interni francese Champagny, poiché avrebbe garantito il rispetto delle più elementari norme igieniche e migliorato le condizioni della salute pubblica101. L’intervento metteva inoltre d’accordo sia le esigenze del governo francese sia quelle prospettate della comunità piacentina, interessata a migliorare i collegamenti tra la rete urbana e quella extraurbana e a evitare imposizioni daziarie sfavorevoli alla cittadinanza. Inoltre, l’amministrazione francese, al fine di assicurarsi la riscossione dell’imposta sulle halles et marchés, promulgata con decreto del 29 maggio 1807, cercò di riorganizzare anche le altre aree libere periodicamente o permanentemente adibite a mercato urbano. In seguito all’occupazione del ducato e alla confisca di alcuni beni immobili necessari agli alloggiamenti militari, furono drasticamente ridotti gli Enti religiosi scampati alle soppressioni del 1805 con decreto imperiale del 25 aprile 1810. Questa disposizione, che nel dipartimento del Taro divenne operative il 26 settembre dello stesso anno, a Piacenza determinò l’abolizione di 29 congregazioni religiose. L’acquisizione di conventi e di ampie aree ortive al patrimonio dello stato offrì la possibilità al governo francese di utilizzarne una parte per altre funzioni pubbliche e di venderne un’altra parte al fine di ricavarne degli indubbi vantaggi economici. Il 20 marzo del 1811 il ministro degli affari interni francese Montalivet chiese al prefetto barone Dupunt Dalporte dettagliate informazioni sui complessi religiosi di Parma e Piacenza incamerati dal demanio e non venduti a privati. Per rispondere in modo circostanziato alla richiesta del ministro, furono predisposti due specifici dossier, conservati presso gli Archivi Nazionali di Parigi, nei quali due funzionari, scelti dal prefetto tra la nobiltà locale (i maires) di Parma e Piacenza, i sotto prefetti delle due città e il direttore del demanio illustrarono le loro proposte di riuso. Nove erano gli ex conventi presi in esame dal dossier di Piacenza messi a disposizione della cittadinanza per essere trasformati in complessi manifatturieri, scuole, gallerie coperte e bagni pubblici. I due conventi di Santa Franca e di San Raimondo furono destinati all’assistenza pubblica e concessi alla Commissione degli Ospizi Civili. I due conventi, situati nello stesso isolato, lambito dalla strada che da piazza Cavalli conduceva a porta San Raimondo, potevano essere riuniti in un’unica grande struttura che, a giudizio dal prefetto, era perfettamente idonea per assistere le orfane e ospitare i collegi piacentini di Santo Stefano e di San Carlo, ancora situati in sedi

51 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 separate difficilmente controllabili e organizzabili. Per il convento di San Siro, situato sullo stradone Farnese, fu confermata la trasformazione in un liceo, come già previsto nel decreto imperiale del 23 maggio 1806; mentre la Gendarmeria poteva essere inserita nel convento di San Giovanni in Canale. Inoltre, quest’ultimo complesso disponeva di grandi spazi, come l’ex biblioteca dei domenicani, che potevano essere utilizzati per le raccolte di oggetti di interesse scientifico e come sede di un istituto che fosse al contempo sede museale, centro culturale ed, eventualmente, anche orto botanico, potendo usufruire dell’ampio giardino annesso alla struttura. Il convento della Madonna di Campagna, situato all’estremo nord occidentale della città, a ridosso dei bastioni, fu destinato in parte a laboratorio per la produzione della cera e in parte per la manifattura di tessuti di lana merinos, di recente introduzione nel dipartimento del Taro. Per la sede della Borsa si propose il convento della Madonna di Piazza che occupava quasi l’intero isolato, situato nei pressi di piazza Cavalli, tra la contrada San Nicolò (attuale via Mazzini) e la contrada San Marco, e circondato da numerose botteghe gravitanti su piazza Cavalli, polo commerciale della città, oltre che centro civico. La sua posizione privilegiata era così appetibile che nel 1812, a qualche mese di distanza dalla data di compilazione dei dossier, l’architetto Lotario Tomba, su specifica richiesta del maire di Piacenza, predispose un progetto per trasformare l’ex convento in una galleria di dipinti antichi; ma nonostante la soddisfacente disposizione degli ambienti e la loro buona illuminazione, il progetto rimase lettera morta, e il complesso fu successivamente venduto a privati e trasformato in abitazioni. Dunque, l’Amministrazione francese, superati i convulsi momenti della conquista, avviò una nuova fase, che coinvolse la città in un effettivo rivolgimento del suo tessuto urbano, mettendo a disposizione della comunità alcuni dei grandi conventi per attività manifatturiere, gallerie d’arte e bagni pubblici; e questo in sintonia con le attese della comunità piacentina. I principali interessati all’acquisto degli ex conventi erano cittadini di estrazione borghese, piuttosto che nobili, più cauti a intraprendere iniziative poco gradite alla Chiesa e timorosi che eventi così eclatanti potessero essere messi in discussione da futuri provvedimenti di reintegro dei legittimi proprietari102. I conventi di piccole dimensioni furono quelli che più attrassero l’interesse degli imprenditori privati, perché più facilmente trasformabili in abitazioni o sostituibili da nuovi fabbricati da destinare al mercato immobiliare. Certo è che la soppressione di chiese e conventi fu causa di una grande dispersione e frammentazione di dipinti e sculture che si erano fino allora conservati in raccolte sufficientemente protette; sicché il prefetto Dalporte, nel sollevare la necessità di trovare una degna sistemazione agli oggetti d’arte confiscati, propose di accoglierli nella scuola dell’Istituto Gazzola e successivamente nel convento di San Pietro che sarebbe potuto divenire, insieme alla sua biblioteca, un importante punto di riferimento culturale per l’intera città. D’altra parte, i progetti per la scuola liceale di San Siro e quello per il nuovo istituti scientifico di San Giovanni in Canale mostrano una chiara volontà di dotare la città di strutture culturali adeguate alle aspettative della comunità che voleva in qualche modo dimostrare di essere all’altezza di Parma, capoluogo del dipartimento del Taro. Non tutti gli edifici conventuali furono però riutilizzati. Per alcuni di essi si propose la demolizione, come nel caso del convento dell’Annunciata. L’area del complesso, situato a poca distanza della piazzetta del Borgo, vertice del sistema viario che conduceva alla porta di Sant’Antonio e alla chiesa della Madonna di Campagna, poteva essere utilizzata per creare una nuova piazza da destinare alle attività del mercato alimentare e dunque come polo alternativo al centro polifunzionale di piazza Cavalli. Così, il vecchio schema radiocentrico, risalente all’impianto medievale, sarebbe stato integrato in un sistema urbano più articolato e più facilmente accessibile alla popolazione del settore occidentale della città, privo di un servizio commerciale di tipo integrato e ancora caratterizzato da un tessuto insediativo commisto di abitazioni e attività produttive e manifatturiere. Secondo la Visioli seguono lo stesso obiettivo di adeguamento del sistema distributivo dei servizi collettivi, i provvedimenti presi nel 1811 per accentrare gran parte delle beccherie nell’ex convento del Carmine, situato sul lato sud ovest di piazza della Cittadella, e quelli per spostare il mercato del bestiame fuori porta San Raimondo a sud ovest della città103. Si tratta in buona sostanza di una sorta di piano di decentramento ante litteram riguardante alcune delle attività mercatali, al fine di riservare il centro civico della città alle attività amministrative, delle professioni liberali, finanziarie e di rappresentanza delle varie istituzioni cittadine distribuite lungo le arterie stradali imperniate su piazza Cavalli. Anche la proposta di demolire l’ex convento di San Bartolomeo situato nel versante orientale dello stradone Farnese, contenuta nel dossier del 1811 e avanzata dal “vice-maire” Foresti, rientra nel piano di aggiornamento migliorativo dell’impianto urbano. La demolizione del complesso avrebbe infatti, reso più agevole il collegamento tra lo stradone Farnese, rinominato nel 1807 “rue Friedland”, in memoria della vittoria di Napoleone sulle armate russe, con la passeggiata del Wauxhall, anch’essa rinominata “Cours Marie Louse”. L’obiettivo era quello di creare due distinti accessi alla passeggiata sui bastioni: il primo sull’area liberata dell’ex convento di San Bartolomeo, a est dello stradone; e il secondo di fianco all’ex convento di Sant’Agostino, a circa metà del percorso. Inoltre, più a ovest, sullo stesso stradone Farnese, s’intendeva trasformare l’ex convento di San Siro in una “promenade couvert”, dotata di bagni pubblici, da utilizzare nei mesi invernali, in alternativa alla promenade del Wauxhall, utilizzata preferibilmente d’estate. Alcune delle proposte illustrate nel dossier del 1811 furono portate avanti, almeno fino al 1813, atre subirono invece delle sostanziali modifiche ofurono

52 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 abbandonate, come quella di raccogliere gli “oggetti d’interesse artistico” nella biblioteca dell’ex convento di San Giovanni in Canale, giudicata nella missiva, scritta dal “vice-maire” Foresti al prefetto del dipartimento nel 1812, non sufficientemente adeguata alla nuova funzione, sebbene fosse ben illuminata da numerose finestre. Un altro importante capitolo affrontato dai funzionari francesi, autori del dossier del 1811 riguarda gli istituti di detenzione, per la sicurezza dell’ordine pubblico e per l’amministrazione della giustizia. Il problema fu affrontato soprattutto in rapporto all’applicazione del codice napoleonico e alla necessità di decentrare le vecchie strutture penali ereditate dal sistema farnesiano e borbonico, per lo più concentrate in piazza Cavalli. Fin dal 1573 Ottavio Farnese aveva inserito le prigioni per crimini comuni nel lato ovest di palazzo Gotico, di fronte alla beccheria grande, verso la chiesa di Sant’Ilario. Nel palazzo gotico si trovavano anche gli uffici dell’amministrazione penale; mentre i detenuti per reati politici erano reclusi nel castello. La distribuzione degli ambienti carcerari è documentato in un progetto, forse databile alla seconda metà del XVIII secolo, redatto per conferire al complesso un assetto architettonico meglio illuminato e più salubre. Nel marzo del 1806 Junot, governatore degli ex-ducati borbonici, propose a Napoleone di costruire a Parma e Piacenza due “maisons de corrections” per 150-200 “vagabondi e mendicanti”, al fine di alleggerire le incombenze dei pochi tribunali esistenti, assorbiti dagli impegni dell’ordinaria amministrazione della giustizia. Con ordinanza prefettizia del 1° settembre 1806 iniziarono i lavori di adattamento dell’ex convento di San Sepolcro di Piacenza, soppresso con precedente decreto imperiale del 9 giugno 1805 e poi riutilizzato come ospedale militare e alloggiamento di truppe; mentre la chiesa conventuale fu adibita a scuderia. I lavori eseguiti sono documentati in un disegno di Lotario Tomba del 1811104. Ai monaci benedettini, fondatori del convento del Santo Sepolcro nel 1055, subentrarono i monaci olivetani che, dal 1484, lo ricostruirono integralmente. Il complesso monastico occupava un intero isolato, situato nel settore nord ovest della città, tra piazza Borgo e la chiesa di Santa Maria di Campagna, e si estendeva verso sud fino alla strada di Sant’Antonio o strada Levata, come ben illustra la pianta che si conserva presso l’Archivio di Stato di Parma, databile ai primi anni dell’Ottocento105 . In questo settore della città, attraversato da numerosi rivi e canali, si erano insediati vari filatoi e oleifici. Quindi, come è già stato più sopra rilevato, la zona era caratterizzata da grandi complessi conventuali e da un tessuto edilizio molto frammentato, prevalentemente manifatturiero. Nel 1811, Fouché, ministro degli affari interni francese, decise di ospitare nell’ex convento del Santo Sepolcro i soli detenuti politici, sul modello del penitenziario realizzato nel monastero francese di Pierre Chátel nel dipartimento dell’Ain, ma la proposta non ebbe seguito106. Ancora nel marzo del 1812, nel dossier trasmesso dal prefetto Dupont Delporte al Conseil des Batiments Civils di Parigi si ribadiva l’urgenza di avviare i lavori per la maison de réclusion piacentina. Napoleone però, nel frattempo aveva deciso di concedere all’amministrazione militare i due ex conventi di San Sisto e del Santo Sepolcro per trasformarli in caserme; ma le lungaggini burocratiche non consentirono di portare avanti questo programma alternativo. Sicché l’ex convento rimase un reclusorio per criminali comuni, vagabondi e prigionieri politici fino alla caduta del governo francese. Nel 1817, Maria Luigia consegnò il complesso agli Ospizi Civili di Piacenza e l’anno successivo fu inglobato nel limitrofo Ospedale Grande, unitamente alla strada che, nel separare i due istituti, collegava la contrada di Santa Maria di Campagna con la strada di Sant’Antonino. Nella pianta del Toschi del 1833, la strada interposta tra i due complessi appare già chiusa all’interno dell’Ospedale. In conclusione, nel 1811, Napoleone dispose il trasferimento delle prigioni di Piacenza in una parte di palazzo Farnese, per altro già occupato dalle truppe. I lavori di adattamento, iniziati il 25 settembre del 1812, non erano però ancora ultimati nel dicembre dell’anno successivo. Dunque, anche in questo caso, i sopraggiunti eventi politici e militari che coinvolsero l’impero in quel periodo non consentirono di portare a termine l’operazione, e palazzo Farnese continuò a essere utilizzato ancora per vario tempo come caserma e parte del palazzo Gotico in parte come una prigione. Tutti gli studiosi che si sono interessati dei flussi demografici di Piacenza, sono concordi nel considerare la popolazione urbana sostanzialmente stabile o in leggera flessione dal primo Seicento all’Ottocento ein costante crescita nel contado. La prolungata stasi demografica della città è un chiaro sintomo di un sistema sociale caratterizzato da una stagnazione economica tendenzialmente depressiva, che certamente non favoriva la crescita della popolazione urbana, dipendente in massima parte dalla produzione agricola del circondario, organizzata in una rigida ripartizione di proprietà fondiarie in mano al ceto nobiliare e clericale, salvo alcune marginali aree agricole sfruttate da piccoli proprietari, impegnati nelle coltivazioni cerealicole e nell’allevamento del bestiame, prevalentemente destinati all’autoconsumo. Non sono estranee a questo stato di cose le convenzioni giuridiche del fidecommesso e del maggiorasco che regolavano la trasmissione dei beni patrimoniali e l’istituto della manomorta che sottraeva i beni fondiari al pagamento delle imposte sulla vendita e sulla successione. A Piacenza, queste radicate convenzioni sociali erano state in parte depotenziate da due provvedimenti di legge del ducato emanati nel 1764 durante l’amministrazione del primo ministro Du Tillot, noti con il nome di “Prammatica delle Manimorte”, che soppressero alcuni ordini religiosi e abolirono i privilegi fiscali sui beni ecclesiastici. Inoltre, nel 1768 fu istituita la “Regia Soprintendenza ai luoghi pii”, con l’intento di controllare e indirizzare le attività di trasformazione del patrimonio architettonico religioso. Con la Restaurazione, i

53 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 provvedimenti napoleonici sulla cancellazione dei diritti delle “Manimorte” furono notevolmente attenuati; sicché in questa ambigua situazione si preservarono pressoché inalterati i privilegi vantati dai ceti nobiliare e clericale sul patrimonio immobiliare, privilegi che produssero effetti distorcenti anche sulla forma urbis, nella misura in cui il palazzo nobiliare acquisì sempre più lo status di fulcro catalizzatore del processo di trasformazione dell’impianto urbano, in sostanza costituito da un’edilizia povera variamente aggregata intorno agli organismi architettonici principali. Il disegno urbano, disorganico e casuale, veniva così sostanzialmente sottratto al governo della mano pubblica. Va inoltre tenuto presente che se la città medievale aveva un’impronta prevalentemente finanziaria e commerciale, dal Cinquecento in avanti divenne anche un importante caposaldo strategico militare, dotato di strutture difensive che, in qualche misura, limitarono le iniziative di riqualificazione del tessuto urbano. Si prenda ad esempio il caso della cinta muraria urbana. Rispetto alla fortificazione viscontea, caratterizzata da una forma allungata a fuso sull’asse est ovest, le nuove mura farnesiane, realizzate negli anni centrali del Cinquecento, restrinsero sensibilmente i vertici est ovest del perimetro murato, che assunse così una forma più contratta sullo stesso asse est ovest. Inoltre, nella seconda metà del Cinquecento, la costruzione del castello pentagonale all’interno del tratto sud ovest delle mura determinò una vera e propria espropriazione di una rilevante parte dello spazio urbano che, di fatto, impedì nei tre secoli successivi, con riverberi indicativi fino ai nostri giorni, di estendere la rete stradale anche sul quel lato della città, a cominciare dallo stradone Gambara e dal sistema di arterie secondarie che tendenzialmente prolungava la maglia quadrata dell’antico impianto romano, come si era verificato nel versante nord est, entro le mura. Nell’Ottocento, la stratificata e complessa eredità del passato condizionò molto il processo di adeguamento alle nuove funzioni urbane del tessuto cittadino. Scuole, caserme, mercato del bestiame, istituti finanziari, furono fondamentalmente collocati nell’asfittica rete stradale medievale, nonostante i timidi aggiustamenti attuati prevalentemente nel Cinquecento. A questo proposito va rammentato che nella prima metà del Settecento, lo Zanetti aveva censito 29 edifici privati, definiti “caserme”. L’alto numero di edifici privati, utilizzati per una funzione così specifica, era dovuto al ruolo strategico militare che Piacenza continuava ad avere in quel periodo e che, conseguentemente al trattato del 10 giugno 1817, mantenne inalterato anche sotto il governo di Maria Luigia (1814-1847) fino e oltre l’Unità d’Italia. Tuttavia, l’ingombrante presenza militare non incise in modo traumatico sulla preesistente forma urbis, se si escludono gli interventi, alcuni dei quali solo progettati, attuati sulle arterie stradali gravitanti sul nuovo cardo di via Vittorio Emanuele II-via Risorgimento e sul vecchio decumano della via Francigena, poiché le caserme furono in massima parte ricavate in alcuni grandi complessi conventuali. Effettivamente, le riforme sociali previste dal Codice Napoleonico (1809) crearono i presupposti giuridici per attuare dei veri rivolgimenti nella forma urbis di Piacenza. Se teniamo presente il giornale Zanetti (1737) e la serie di piante dei complessi conventuali, elaborata intorno al 1806, sulla base delle disposizioni impartite dal governatore Moreau de Saint Méry (1750-1819), cioè subito dopo la proclamazione di Napoleone Bonaparte a re d’Italia (9 giugno 1805), ci rendiamo conto che l’estensione complessiva delle aree conventuali 1 occupava circa /4 dell’intera superfice della città. Si trattava quindi di un vasto patrimonio, costituito da fabbricati perimetrati da muri, totalmente riservato alle funzioni religiose; tante “piccole città” con proprie funzioni urbane la cui amministrazione dipendeva dall’autorità vescovile. L’iniziale elenco dei 30 complessi conventuali appartenenti a vari ordini religiosi soppressi di Piacenza e provincia colpiti dai provvedimenti di esproprio fu però molto ridimensionato. Ciò nonostante, il sommovimento politico e sociale determinato dalle riforme napoleoniche aprì la strada a un processo di trasformazione del tessuto edilizio urbano, non fosse altro per i lavori di abbattimento e di adattamento di questi complessi religiosi alle funzioni più disparate: abitazioni, teatri, negozi, sedi di nuovi istituti religiosi e profani e più tardi, nel XX secolo, anche sale cinematografiche. Venuto meno il secolare torpore della città dei palazzi, dei conventi e delle chiese, la città si aprì a nuove iniziative economiche, sociali e culturali, fondamentalmente dovute all’attività di privati cittadini. Nel 1807 alcune strade della la città furono illuminate con trecento “fanali a riverbero” ed emanate disposizioni per lo spostamento delle macellerie dal viottolo che da piazza Cavalli conduceva a Sant’Ilario nei locali del convento dei Carmelitani. Dunque, il tessuto minuto della città sembra finalmente uscire da una dimensione di generale anonimato. S’incomincia a intravvedere anche una diversa attenzione dell’Amministrazione comunale per le attività commerciali disseminate lungo le strade pubbliche e in particolare in quelle zone della città, dove la tutela del decoro era considerata prioritaria, a cominciare dal centro civico di piazza Cavalli. In definitiva, si ha la netta impressione che l’amministrazione pubblica, più che guidare il processo trasformativo della città, seguisse le sollecitazioni e le iniziative dei privati cittadini, non più e non solo rappresentati dal ceto nobiliare, ma anche dalla nascente classe borghese, a Piacenza costituita da una élite del mondo finanziario, commerciale e delle professioni libere, che si appropria del centro storico per adattarlo alle proprie nuove necessità; anzi, per Spigaroli, ne rivede le coordinate spaziali e la distribuzione dei punti di riferimento, mettendo in campo nuove esigenze speculative legate ai profitti garantiti dalla rendita fondiaria107. Ciò nonostante, nella sostanza, il quadro d’insieme non cambia. Tra il 1860 e il 1915 il riordino dell’assetto urbano si attua attraverso la costruzione di nuove sedi istituzionali, finanziarie, commerciali e militari, che non modificano più di tanto i

54 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 riferimenti spaziali delle vecchie sedi di rappresentanze. Piuttosto, è la rete stradale ereditata dal passato che è aggiornata ai nuovi standard. Spigarolo ha suddiviso il processo trasformativo della città del secondo Ottocento e dei primi anni del Novecento in tre periodi: dal 1860 al 1875; dal 1875 alla fine del secolo; e dall’inizio del XX secolo fino alla prima guerra mondiale. A suo parere, nel primo periodo si assiste a un generale entusiasmo di rinnovamento. Tra il 1859 e il 1861 si realizzano gli allacciamenti della rete ferroviaria con Bologna, Torino e Milano e si predispongono progetti per razionalizzare i collegamenti stradali con la Liguria, rimasti tuttavia inevasi. Tutto sommato, si stenta ancora a uscire dagli orizzonti municipalistici. La proprietà e la rendita fondiaria sono e restano in mano alla nobiltà agraria, restia a innovare l’organizzazione dei sistemi produttivi e a investire sulla meccanizzazione del lavoro agricolo. Nel 1860, l’Amministrazione comunale istituisce la “commissione d’ornato; nel 1864 pubblica “il regolamento di pulizia urbana”; e nel 1865 “il regolamento d’edilizia e ornato”. Si avvia così un nuovo processo di riordino urbano, ma ancora una volta senza un piano predefinito. Vari sono i lavori di rettifica della rete stradale avviati dall’Amministrazione pubblica all’interno delle mura: le strade del Teatro, di San Raimondo e di Castello, nel 1861; via Chiapponi e via Tre Ganasce, nel 1863; via San Giovanni, nel 1867. L’allargamento di via Chiapponi, situata nel settore centro-orientale della città, può essere assunto come caso emblematico del processo trasformativo dell’impianto urbano, sostanzialmente sostenuto dalla nobiltà locale fin dall’epoca farnesiana, processo che ancora nella seconda metà dell’Ottocento sfuggiva all’esclusiva iniziativa della mano pubblica. Via Chiapponi fu modificata allor quando “restaurato, ed in parte riformato, il palazzo [Chiapponi] internamente ed esternamente rimaneva a provvedere allo sconcio dell’angustia della via che ad esso metteva”108. Federico Scotti, allora proprietario del palazzo, dopo aver stipulato delle apposite convenzioni con il Municipio nel 1863 e 1865, fece in parte demolire tre abitazioni che aveva precedentemente acquistato sul fronte opposto della strada per essere ricostruiti con nuove facciate stilisticamente affini a quella del palazzo. Infatti, risalgono al 1862 alcuni elaborati planimetrici, firmati dall’ingegnere Pietro Borella, relativi ai fabbricati in argomento. Secondo il disegno di progetto, conservato nel fondo Fabbriche, acque, strade dell’Archivio di Stato di Piacenza, dei tre nuovi fabbricati, quello centrale doveva essere costruito in posizione più arretrata e delimitato sul d’avanti da “una piccola e graziosa aiuola chiusa da una cancellata in ferro”, allineata alla nuova carreggiata stradale. I tre edifici non furono realizzati secondo le indicazioni progettuali109. Attualmente l’affaccio dell’edificio centrale è articolata su tre livelli: il piano terra è caratterizzato da due ingressi inseriti in una superficie bugnata, mentre i due piani superiori sono scanditi da cinque assi di finestre, quelle del primo piano sormontate da cornici architravate e quelle dell’ultimo prive di cornici. Dei due fabbricato posti ai lati, quello in angolo al vicolo Marazzani presenta un balcone al primo piano e finestre dotate di cornice su mensole a voluta e quello a nord, verso il cantone di S. Giorgino, l’attuale via Sopramuro, identificato come ex casa Gasparini, reca tre soli assi di finestre al primo e al secondo piano. Nella convenzione stilata tra il Comune di Piacenza e il conte Scotti il 16 maggio 1863 furono stabiliti gli oneri spettanti a ciascuna delle parti e in particolari che “la linea del rettifilo della strada Chiapponi sarebbe fissato parallelamente al Palazzo del sig. C.te Scotti partendo dal punto in cui il prolungamento della parete della casa Marazzani incontra le attuali case del sig. C.te Scotti […]” secondo il disegno allegato all’istanza. Il Comune avrebbe corrisposto al conte la somma di 4.000 lire per l’acquisto del suolo e il conte avrebbe dovuto ultimare i lavori di allargamento entro il 31 agosto per consentire al Comune d’installare le “rotaie” entro l’inverno. Nel documento della Commissione d’Ornato del 30 luglio 1863 si precisava che il progetto di regolarizzazione e allargamento di via Chiapponi, esaminato anche dagli ingegneri G. Antonio Perreau e Carlo Lupi, avrebbe facilitato il transito dei carri e delle merci numerosi soprattutto nei giorni di mercato110. Via Chiapponi fu inoltre interessata da altri interventi di allargamento che si protrassero fino al 1869. Negli stessi anni appaiono anche le prime barriere daziarie lungo il giro delle mura. La prima fu costruita nel 1863 tra i bastioni di Sant’Ambrogio e di San Lazzaro, nei pressi della stazione ferroviaria (zona nord est), congiuntamente a una nuova porta; seguirono poi, in sostituzione delle porte preesistenti, quelle di San Raimondo, nel 1869 e di San Lazzaro, nel 1871. Porta Borghetto, sulla direttrice che andava a Milano, chiusa nel 1864, fu riaperta poco dopo per le proteste degli abitanti della zona, perché costretti a fare un ampio giro del perimetro murato, ma come semplice varco di circondario, sintomo inequivocabile che qualcosa stava cambiando nel vecchio sistema delle comunicazioni stradali della città. L’area della stazione ferroviaria è forse quella dove si attuarono le trasformazioni più incisive del preesistente tessuto edilizio, divenendo uno dei principali poli funzionali della città, insieme alle nuove sedi istituzionali. Il progetto dell’ingegnere Perreau, approvato nel 1860, prevedeva l’apertura di una nuova strada per collegare il centro della città con la stazione. Nel 1863 si individuano i settori delle mura che dovevano essere abbattuti; e nel 1864 si da seguito alle espropriazioni e alle demolizioni dei caseggiati di via delle Orfane e di via Benedettine, procedendo poi alla realizzazione del piazzale antistante al fabbricato viaggiatori e del latistante nuovo grande giardino. Lo “sventramento” dell’isolato di Santa Maria degli Angeli, situato davanti la chiesa di San Savino (risalente al X secolo), per la creazione del giardino, approvato con regio decreto del 1872, nonché l’apertura del grande giardino pubblico, il giardino Margherita su progetto di Giuseppe Roda (1888-1890), consentirono in

55 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 seguito di completare il disegno dell’area ferroviaria, raccordandola con via San Lazzaro111. Dopo la nascita del regno d’Italia, tutti i beni del demanio ducale passarono sotto le competenze del governo statale. Nel 1863, il ministero della Guerra fece costruire l’ospedale militare nei pressi della porta S. Raimondo. L’Amministrazione comunale, venuta meno l’importanza strategica di Piacenza come piazza forte di confine, rivendicò la proprietà delle opere di difesa e dei fabbricati occupati dai militari. L’operazione avrebbe anche potuto andare in porto se l’opinione pubblica piacentina non avesse obiettato che la presenza di contingenti militari in città garantiva delle “gradite entrate nelle casse comunali” a condizione che fossero loro assegnati dei “buoni acquartieramenti”. Per questo motivo il Comune preferì donare al Ministero della Guerra il complesso conventuale di Sant’Agostino e i fabbricati del Foro Boario (già appartenenti al convento della Maddalena), per ospitare un reggimento di cavalleria, contribuendo alle spese di acquartieramento con un contributo di 200.000 lire. Inoltre, avviò con il Ministero della Giustizia delle trattative per il trasferimento delle carceri giudiziarie dal Municipio, dove erano ospitate fin dal XVI secolo, in una nuova struttura da costruire accanto a palazzo Darmstat (palazzo Madama). Nel 1865 furono predisposti tre distinte versioni progettuali del nuovo impianto: rispettivamente elaborate dall’ingegnere romagnolo Giuseppe Mengoni (1829-1877); dall’Ufficio Tecnico Comunale e dall’architetto piacentino Giuseppe Telamoni. Le lungaggini burocratiche si protrassero oltre il 1872, quando l’operazione fu finalmente condotta in porto. L’architetto Telamoni progettò anche la trasformazione di palazzo Gotico, attuale sede del Municipio, in un complesso più grande che avrebbe dovuto estendersi da piazza Cavalli alla strada del Guasto (corso Garibaldi). La sua proposta, che prevedeva la demolizione della chiesa di Sant’Ilario e dei fabbricati contermini per far posto al nuovo complesso, provocò le vivaci reazioni dello stesso Mengoni e di Camillo Boito (1836-1914), più propensi a conservare alcune delle stratificazioni storico- architettoniche. Nel 1871 iniziarono i lavori di restauro e di riassetto del palazzo secondo un disegno alquanto diverso dalle concezioni stilistiche del Telamoni, altrimenti oggi ci troveremmo di fronte a una sorta di indistinta commistione architettonica tra gotico e neo gotico, esaltata da torrette angolari coronate da merli. L’iperattività dell’Amministrazione comunale non si fermò solo a questo. Nel 1864 il Comune chiese al Ministero della Guerra il permesso di demolire le mura cittadine; e nel 1872 di poter utilizzare la piazza d’armi, situata nella spianata del demolito castello pentagonale, per la fiera d’Agosto. Agli stessi anni risale anche il nuovo tracciato di via del Risorgimento, una delle opere più rilevanti del ridisegno urbano messo in campo nel quindicennio post unitario. Almeno nelle intenzioni progettuali, la nuova arteria stradale doveva divenire, uno dei tratti che componevano il nuovo cardo, l’asse di attraversamento nord sud, in allineamento con via San Raimondo a sud e in prosecuzione della stradina delle Saline, a nord, collegato direttamente ai ponti sul Po. L’intero tracciato, imperniato su piazza Cavalli, di fatto portò al declassamento della vecchia strada Borghetto, l’ultimo tratto del percorso stradale che attraversava la città da oriente a occidente, utilizzata fin dall’epoca medievale per andare a Milano. La rete stradale si ricompone quindi in una diversa prospettiva rispetto al vecchio sistema urbano, che per un verso ripropone una sorta di primato gerarchico di piazza Cavalli e, per l’altro, tende a promuovere una distribuzione più articolata delle nuove funzioni della città, in un’ottica progettuale di tipo policentrico, ma pur sempre limitata all’interno del giro delle mura. Con delibera del 10 maggio 1865, l’Amministrazione comunale dispone la suddivisione della rete stradale urbana in tre categorie, secondo un criterio che manifesta chiaramente l’intenzione di ridefinire le gerarchie delle arterie stradali che nel medioevo caratterizzavano il micro paesaggio urbano basato su uno specifico raggruppamento d’isolati. Operazione difficile da realizzare, che certamente richiedeva idee coordinate e pianificate per cercare di raggiungere gli effetti desiderati. Nella prima categoria rientravano via San Raimondo, a sud, e via delle Saline e via Crosa a nord di piazza Cavalli, che però terminavano contro il recinto dell’area utilizzata dalle “Fiere dei Cambi”, adiacente al Farnese. Secondo Spigaroli, le altre strade classificate di prima categoria erano quasi tutte quelle della maglia ortogonale risalente all’impianto romano e i collegamenti di queste con le due porte est e ovest, vale a dire la strada di S. Lazzaro (via Roma) e la strà Levata (via Taverna) con la sua prosecuzione nelle contrade del Guasto (corso Garibaldi), di S. Antonino e di S. Salvatore (via Scalabrini)”112. Nella pianta della rete stradale interna al perimetro murario di Piacenza (Tav. 4), sono evidenziate in nero le strade di prima categoria, in arancione quelle di seconda e in grigio quelle di terza. Dalla suddivisione appare evidente che la gerarchia della rete stradale definita dall’Amministrazione comunale privilegiava la scacchiera di epoca romana e i suoi prolungamenti attuati nel corso della seconda metà del Cinquecento, soprattutto quelli in direzione est e ovest; la vecchia via Francigena (strà Levata, contrada del Guasto e contrada di San Salvatore), che collegava la porta di San Lazzaro, a est con la porta di Sant’Antonio a ovest, verso Torino; e l’asse trasversale che da porta San Raimondo, a sud, conduceva al centro nevralgico del sistema, piazza Cavalli, per spegnersi poi in prossimità di piazza Cittadella. In questa classificazione stradale si scorge quindi una visione miope dello sviluppo della città, basata su un modello che sostanzialmente privilegiava il solo nucleo centrale, dove non a caso i marciapiedi delle strade di prima categoria potevano essere pavimentati con lastricati di granito e le carreggiate dotate di rotaie per il passaggio dei carri e delle carrozze, mentre, di converso, il “decoro” delle strade di seconda e terza categoria poteva essere tranquillamente trascurato.

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Come si può osservare nella pianta, lo stradone Farnese è incluso tra le strade di seconda categoria, come il tratto orientale della via Francigena (via Scalabrini). Gli unici tracciati su questo versante della città che nel secondo Ottocento furono inclusi nel gruppo di prima categoria sono: la strada San Lazzaro (via Roma) e un tratto di via Benedetta che conduceva a Torricella, vale a dire verso la stazione ferroviaria. Quello che sorprende è che il disegno stradale cinquecentesco, comprendente anche la strada da “Nazaret al cantone Trebbiola” (progettata dall’architetto Francesco Paciotto nel 1556), che da palazzo Farnese conduce a Torricella e alla porta San Lazzaro e dunque a Parma, presenta un più ampio respiro urbano rispetto a quello che emerge dalla suddivisione in subordinate gerarchiche del primo periodo post unitario. Dovremmo pertanto chiederci perché i pianificatori ottocenteschi non presero in considerazione il completamento del tratto occidentale dello stradone, come per altro espressamente previsto dal governo napoleonico nel decreto del 15 agosto 1809, posto che l’ostacolo che ne aveva impedita la realizzazione, il castello pentagonale farnesiano, era stato rimosso nel corso dei moti del 1848. L’Amministrazione comunale preferì invece cedere alle richieste dei commercianti e utilizzare l’area di risulta del castello per la Fiera agostana. Se le amministrazioni comunali del periodo post unitario avessero incluso nei loro programmi urbanistici il completamento dello Stradone Farnese, perfezionandone il progetto con più appropriati collegamenti in corrispondenza delle testate est e ovest, Piacenza sarebbe divenuta la prima città d’Italia a sfoggiare una moderna “tangenziale” interna alla cinta muraria su cui far convergere l’infrastrutturazione dei nuovi insediamenti residenziali. I corti orizzonti urbanistici dell’Amministrazione comunale di Piacenza trovano qualche motivo di giustificazione nella crisi economica che incominciò ad attanagliare la nazione già agli inizi degli anni settanta dell’Ottocento. Da qui la necessità di utilizzare le poche risorse economiche disponibili per risolvere i problemi più impellenti, come quelli determinati dalla crescente disoccupazione della popolazione urbana. Nelle Notizie statistiche intorno la città e il comune di Piacenza, del 1856, Pietro Salvatico descrive un quadro d’insieme a dir poco preoccupante. I quartieri di S. Brigida, Cantarana, S. Agnese, Torricella e i caseggiati intorno a S. Salvatore, la cui superfice complessiva copriva più di due terzi dell’area perimetrata dalle mura, erano ridotti in pessime condizioni igieniche sanitarie, definite da Spigaroli “subumane”. Tra il 1856 e il 1871 il numero delle abitazioni diminuisce da 3.871 a 3.358 (423 unità in meno), dovuto al processo di accorpamento delle unità immobiliari, alimentato dalla costruzione delle sedi istituzionali e dei nuovi centri finanziari e commerciali, per lo più collocati su specifici assi preferenziali, in massima parte coincidenti con le strade considerate dall’Amministrazione comunale di prima categoria. Questo fenomeno si era già ampiamente manifestato, con costante intensità, tra Seicento e Settecento, quando il minuto tessuto edilizio dell’impianto medievale di molti isolati, distribuiti in un ambito urbano più allargato, fu investito da rilevanti accorpamenti determinati dalla costruzione dei numerosi palazzi nobiliari. Ma a metà Ottocento, la popolazione urbana cresce da 29.262 a 32.264 unità; sicché, il combinato disposto tra il minor numero delle unità abitative e il maggior numero di popolazione urbana non fece che peggiorare la densità abitativa e conseguentemente gli standard igienici sanitari. Va inoltre tenuto presente che in città non erano stati adottati particolari provvedimenti di bonifica sanitaria dopo le epidemie di colera del 1835 e del 1856. Per far fronte a questo stato di cose, l’art. 3 del Regolamento di edilizia e ornato, pubblicato nel 1865, prevedeva “la copertura dei canali di scolo e di irrigazione che attraversano i caseggiati”, operazione che richiedeva dei consistenti investimenti economici, tanto che l’Amministrazione comunale nel 1867, con il manifestarsi dell’ennesima epidemia di colera, dovette far fronte a un impegno di spesa di 45.000 £. e di altre 60.000 £. per opere pubbliche non meglio precisate, probabilmente impegnante per la manodopera disoccupata utilizzata per la demolizione di caseggiati, di porte e tratti della cinta muraria e per la rettificazione delle strade. Del resto, fin dal 1859, l’Amministrazione comunale vide crescere i propri debiti per fare fronte alle spese occorrenti per l’istallazione dell’illuminazione a gas e per il restauro del teatro comunale; tanto che nel 1876 il debito complessivo contratto con gli istituti finanziari salì fino a 800.000 £. Nonostante la crisi economica, il capitale privato continuò ad affluire nelle varie associazioni bancarie della città. Risalgono al 1871 le sedi della Cassa di Risparmio e della Banca Popolare. Secondo Spigaroli, le associazioni bancarie private preferirono trovare sistemazione nella zona più centrale, mentre le istituzioni pubbliche si attestarono lungo le direttrici principali, vale a dire l’asse viale Risorgimento-via Cavour-corso Vittorio Emanuele e la sequenza delle contrade S. Antonio (via Taverna), del Guasto (corso Garibaldi), S. Antonino, S. Salvatore (via Scalabrini) e S. Lazzaro (via Cavallotti). Alla fase recessiva che investì l’intero Paese dopo il raggiungimento nel 1876 del pareggio di bilancio, seguì la grave crisi economica del 1892-1897. Nel 1879 l’Amministrazione di Piacenza era riuscita a ridurre i prestiti bancari a 662.500 £., grazie anche alla riduzione degli investimenti sulle opere pubbliche. Ciò nonostante, nel 1878 si attuò: l’allargamento di via San Raimondo; nel 1879 la sistemazione della strada della Torricella e la costruzione del ricovero per anziani Vittorio Emanuele II in via Campagna, dietro il complesso degli Ospizi Civili. Nel biennio 1879-1880 si eseguirono opere manutentive che coinvolsero buona parte del reticolo stradale interno alla cinta muraria; si rettificò Strà Levata (via Taverna), congiunta alla direttrice esterna verso la val Tidone, Pavia, Torino, rimuovendo un tratto del bastione di S. Antonio; e si demolì la porta S. Antonio, sostituendola con una barriera daziaria. Inoltre, l’area di risulta del castello farnesiano, distrutto perché sede dell’odiato presidio asburgico,

57 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 dove dal 1860 si teneva la fiera del bestiame, fu occupata dai capannoni dell’arsenale militare, nonostante fosse stata appena ampliata l’area espositiva. Al 1880 risale la decisione dell’Amministrazione comunale di far rimuovere i “colonnotti” che delimitavano i bordi della piazza del Duomo, per ridefinirne il perimetro con cordoli di granito e con filari di alberi. La decisione però non ebbe seguito. Subito dopo si predispose un progetto che prevedeva il completo isolamento della cattedrale e la riorganizzazione dei lati sud e ovest della piazza. Tuttavia, la mancanza dei fondi necessari per realizzare l’impegnativa opera rese vana anche questa audace proposta; sicché, l’Amministrazione comunale, ridotta a più miti consigli, avviò, nel 1894, i lavori di restauro del complesso monumentale del Duomo su progetto dell’architetto Camillo Guidotti (1853-1925). Al 1880 risale l’iniziativa dell’Amministrazione comunale di far predisporre un programma generale riguardante l’espansione urbana oltre il tracciato delle mura, cui seguì, nel 1882, la decisione di procedere con specifici studi preliminari. L’importante programma di sviluppo urbano, frustato dalle contingenze economiche del momento, rimase sospeso nel limbo delle idee incompiute, tornando ad affacciarsi nel dibattito pubblico piacentino solo dopo la fine del XIX secolo. In una città densa di esasperate contraddizioni architettoniche e urbanistiche le cose da fare erano molte e, nell’imbarazzo della scelta, l’Amministrazione comunale preferì dare priorità al consueto repertorio di opere pubbliche. Nel 1881 l’architetto Colla predispose numerosi disegni di variante al progetto di “restauro” del palazzo Municipale, dove l’edificio appare completamente isolato dal preesistente isolato da una piazzetta situata a ridosso del fronte posteriore. Questa proposta non ebbe una grande fortuna, poiché nel 1883, un anno dopo il parere negativo espresso da vari ministeri, le operazioni di restauro si ridussero alla sola sistemazione della copertura, mentre tutti gli altri lavori di “ripulitura” previsti nel progetto dovettero attendere fino al 1908 per essere realizzati con parziali aggiustamenti. Ancora nel 1881 il foro boario fu trasferito fuori porta San Raimondo, di fronte all’Ospedale militare, e tra il 1881 e il 1885 si ordinarono e allargarono le strade Torricella, al Teatro e Chiapponi. Nel 1884, si demolì un gruppo di case a ridosso della chiesa dei SS. Simone e Giuda, di origini altomedievali, per creare lo spazio necessario alla sede della Cassa di Risparmio. Nel 1885, ultimate le espropriazioni dei fabbricati, iniziarono finalmente i lavori per la costruzione del giardino vicino alla stazione ferroviaria. Per Spigaroli (1982), il completamento delle demolizioni progettate lungo le strade delle Orfane, di Torricella e delle Benedettine rese possibile collegare in modo indiretto la stazione ferroviaria e l’area intorno alla chiesa di San Savino con la via San Lazzaro (l’attuale via Roma). Tutto questo in perfetta aderenza alla nuova visione radiocentrica che si voleva conferire alla città, basata sulla maggiore infrastrutturazione delle principali arterie urbane e sugli allargamenti delle strade Chiapponi, Tre Ganasce (via Legnano) e della via al Teatro, questi ultimi giustificati dalla necessità di ricondurre nel disegno d’insieme il Duomo e il Teatro situati in posizione decentrata. Negli anni compresi tra il 1889 e il 1893, si portarono a compimento interventi già iniziati e se ne iniziarono dei nuovi. Nel 1889, il seicentesco palazzo Madama fu inglobato nel nuovo complesso carcerario situato nell’area antistante al palazzo del Tribunale. L’operazione ha alterato i suoi caratteri distributivi interni, precludendolo alla vista della città con un’alta muraglia. Nel 1891 iniziarono i lavori per il nuovo e più moderno macello pubblico in via San Salvatore; nel 1892, si costruì un mercato coperto nell’area di risulta della demolita chiesa di San Gervaso, risalente al periodo paleocristiano; nel 1893, fu inaugurata la scuola Giordani nell’area dell’ex convento di San Siro, situata tra la contrada Sant’Agostino e lo stradone Farnese; e, nello stesso anno, per ridefinire il perimetro della piazza Borgo si arretrarono i fronti delle abitazioni antistanti la chiesa di Santa Brigida e si demolirono i caseggiati addossati sul lato nord dell’edificio religioso. Per Spigaroli (1982), le demolizioni attuate nelle zone di Borgo, nel giardino della stazione ferroviaria e nelle aree contigue alle chiese di San Gervaso e dei SS. Simone e Giuda vanno considerate tra le più “importanti” modificazioni del preesistenze tessuto urbano attuate nel corso del secondo Ottocento. L’attenzione delle élites era anche rivolta alle mura urbane, considerate l’ostacolo fisico principale all’espansione della città. Il tema era già emerso nel 1864, ma non era mai stato affrontato con sistematicità. Gli interventi erano stati limitati alla demolizione del tratto di mura nei pressi della stazione ferroviaria, alle modifiche apportate alle porte urbane e alla costruzione dei caselli daziari. Inoltre, le espropriazioni napoleoniche di molti complessi conventuali, piccoli e grandi, tra i quali quelli di San Sisto, delle Benedettine, del Carmine, di San Bartolomeo, di San Bernardo, di Santa Franca e di San Giacomo, e tra questi ce n’erano alcuni che da soli o insieme ad altri occupavano un intero isolato, avevano determinato le condizioni favorevoli per avviare un più incisivo processo di trasformazione dell’impianto urbano che già alla fine dell’Ottocento aveva segnato le sorti di alcuni isolati. Le aree e i fabbricati dei complessi espropriati furono in parte oggetto di speculazioni edilizie, in parte rioccupati da nuove istituzioni pubbliche, religiose e militari, ma con volumi e forme in genere estranei agli impianti preesistenti. Sicché, alcuni di questi complessi rimaneggiati si avvertono come delle fratture nel tessuto urbano, altri come nuovi organismi di forme e tipologie le più varie che in alcuni casi travalicano i vecchi confini conventuali, pregiudicando o condizionando lo sviluppo ordinato degli intorni urbani. Le ferite prodotte da questo processo insediativo sono ancora oggi visibili, tanto che la città è come se fosse suddivisa in comparti poco permeabili, in alcuni casi addirittura chiusi in fortilizi murati oltre i quali si ergono come delle “chimere” piovute dal cielo

58 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 i grandi condomini di sette e più piani, muti testimoni della devastazione perpetrate nel paesaggio storico urbano ed espressione di un’architettura priva di qualsiasi qualità. Per altri aspetti, nella seconda metà dell’Ottocento, Piacenza dovette affrontare dei grandi problemi emersi alla coscienza collettiva con l’avvio del processo di modernizzazione, sospinto da eventi storici che aprirono le porte a nuovi rapporti sociali, economici e politici, non ultimi quelli determinati dalle precarie condizioni igieniche che attanagliavano anche molte altre città italiane. Dai risultati del censimento promosso dallo Stato in tutti i comuni del regno, pubblicati nel 1886, ma riferito ai dati acquisiti nel 1881, apprendiamo quali erano le condizioni igienico sanitarie della città. “L’acqua potabile non è di buona qualità, perché viene facilmente inquinata dalle materie di scolo delle latrine e degli acquai [….]. Sono poche le case di più di tre piani. In generale si può dire che il numero e l’ampiezza delle abitazioni corrispondono ai bisogni della popolazione; ma, agli estremi della città, il più delle volte i poveri debbono abitare in case basse, umide e ristrette. Molti cortili sono pochi netti e con difficile scolo delle acque. Le case sono generalmente fornite di latrine, delle quali parte immette nei pozzi neri e parte nelle fogne, dove scorrono i canali irrigatori. […] Gli acquai comunicano spesso con le latrine […]. Fra le malattie infettive furono gravi specialmente il morbillo (1883-84), la difterite (1872-1883); il vaiolo nel 1871; la febbre tifoide è endemica, ma si notò una recrudescenza speciale nell’estate del 1878. Il colera si manifestò nel 1836, 1849, 1854, 1855, e 1865-66-67, la prima, quarta e quinta volta con molte vittime. La sifilide è diffusa, ma non vi sono dispensari speciali. Le case di tolleranza sono 5, le quali ricettano in media 20 prostitute; altrettante si possono calcolare quelle viventi in case private” [….]. L’industria è poco sviluppata [….]. Laboratori reputati insalubri sono l’officina per la depurazione del grasso del bue, e la relativa fabbricazione di candele di sego, il deposito di materie fertilizzanti, ricavato dalle latrine e dagli orinatori e due depositi di ossa e di censi [….]”113. Un istruttivo spaccato di questo stato di cose appare nel progetto predisposto nel 1880 dall’ingegnere Giuseppe Manfredi, destinato a rimanere solo sulla carta, riguardante il “risanamento” del quartiere di Cantarana, considerato tra i più degradati della città. La proposta prevedeva la demolizione di una “quarantina” di abitazioni miserevoli” situate nei pressi della chiesa di S. Sepolcro, su iniziativa dalla Società dei Negozianti ed Industriali che avrebbe coinvolto 322 abitanti raggruppati in 105 nuclei familiari. Lo stato di degrado in cui versavano gli edifici fu così descritto da Manfredi: “[…] quelle casupole […] sono tutte fatte sull’identico modello. All’esterno un muro screpolato per ogni verso, ed interrotto da vani di una porticciuola e di alcune finestrucce rassomiglianti piuttosto a feritoie, costituisce tutto l’insieme della facciata. Infiliamo una di quelle porte ed eccoci in un corridoio lungo e stretto, dalle pareti insudiciate di grasso; all’esterno un cortile di nome ed una concimaia di fatto. Ma ciò non è tutto: entriamo in una stanza di quei meschini edifici, perché ogni stanza rappresenta l’abitazione di una famiglia. […] Ecco perché tali condizioni siano favorevoli allo svolgersi dei morbi infeziosi, e rappresentano quindi un pericolo allarmante per l’Igiene Pubblica. L’essere poi queste case situate nella parte più depressa della città, sono, ad ogni piena del Po, immerse per qualche metro d’acqua, il che apporta disagi, danni e spesso gravi pericoli ai loro inquilini” (in Spigaroli, 1982). Manfredi, evidenziò con toni dispregiativi, alcune delle caratteristiche tipologiche di questi edifici, affastellati gli uni accanto agli altri: facciate dissestate e dunque in precarie condizioni statiche, con una porta d’ingresso e alcune piccole finestre che assomigliano a “feritoie”, disposte su due piani; ambienti umidi che si affacciano su corridoi lunghi e stretti, interconnessi ai cortili retrostanti definiti delle “concimaie”, dove si trovano le latrine e i lavatoi. Fornisce anche delle generiche e indirette informazioni sull’indice di affollamento delle abitazioni: un nucleo familiare per “stanza”, mediamente costituito da tre a quattro persone. Accenna inoltre alle periodiche inondazioni del Po che, sul versante nord ovest della città, una delle zone orograficamente più basse, dovevano essere considerate dagli abitanti del luogo come una delle tante afflizioni da subire con rassegnazione, anche quando colonie di topi invadevano le strade e le scalinate per sfuggire all’acqua risalente: calamità da cui non ci si poteva difendere. Se confrontiamo questo preoccupante quadro con le altrettanti preoccupanti “Notizie statistiche intorno la città e il comune di Piacenza”, forniteci da Pietro Salvatico nel 1856, non si può certo dire che le condizioni di quartieri come S. Brigida, S. Agnese, Torricella e S. Salvatore e quelle dello stesso quartiere Cantarana fossero migliorate nell’arco di 30 anni. Se poi confrontiamo il basso o infimo livello qualitativo delle abitazioni di queste contrade con gli alti standard qualitativi dei 3.422 appartamenti nobiliari o di proprietà delle classi più agiate, censiti dallo Zanetti nel 1737, ne scaturisce un quadro d’insieme, dove tutto si mescola, dove i ricchi e i poveri sono ancora legati da rapporti relazionali espletati in uno spazio urbano diversificato diverso sotto l’aspetto funzionale, dove l’edilizia minuta è ancora abbarbicata alle “pendici” degli edifici nobiliari. Si potrebbe pertanto concludere che a Piacenza il faticoso cammino delle numerose opere di rettifica e di allargamento delle strade e dei modesti diradamenti degli isolati attuate nel corso della seconda metà dell’Ottocento e dei primi anni Novecento riuscì solo in parte a modificare la sua impronta storica insediativa, sicuramente meno di quanto in seguito fecero i grandi condomini del secondo dopo guerra precipitati all’interno della cinta muraria farnesiana come manifesti di una presunta modernità, causa di un vero e proprio collasso delle relazioni identitarie che si rispecchiavano nel vecchio tessuto urbano.

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1 Racine 1997, p. 21 2 Pigozzi 1991, pp.11-27 3 Sulla figura di P. F. da Viterbo si cfr. Concina 1973 4 Adorni 1982, p. 46 5 Adorni 1982 6 Manfredi 1982, pp.173-182; Adorni 1982, p. 135 7 Artocchini 1967 8 Romani 1967 9 Affò 1821, p.118 10 Gosellini 1864 11 Capasso 1923-24, pp. 417-458 12 Soldini 1991, pp.11-69 13 Adorni 1982, pp.151-156 14 Villa 1862, pp. 171-173; Maggi, Artocchini 1967,pp. 387-391 15 Villa 1862,pp.216-223, cit. anche in Poggiali 1761,p. 180 16 Poggiali 1757-1766, p.180; Affò 1821, p.97 17 Piacenza, 21-9-1550, in ASPr, Gonzaga di Guastalla, b. 42/7-8, registro 1550 18 Febo Capello, in ASVe, Archivio proprio Milano, reg. I, Milano, 29.5.1548, f. 35v, citata in Soldini 1991, p. 65 19 Supplica letta il 15.4. 1551, in ASMi, Cancelleria, b. 127, doc. 402, citata in Soldini 1991, p. 65 20 Supplica di Simone Magnago trasmessa al podestà di Piacenza e letta il 22.5.1554, in ASMi, Cancelleria, b. 118, citata in Soldini 1991, p. 65 21 Il deputato Arrigoni a Ferrante, Piacenza 16.2.1551, e risposta allegata, in ASMi, Cancelleria, b. 125, docc. 240 e 241, citato in Soldini 1991, p. 65 22 Gli atti relativi (stima economica dei caseggiati) in ASMi, Cancelleria, b. 99, doc. 104, doc. 223 e bb. 94, doc. 52 e 96, doc. 306). 23 Sulle “chiodere” in ASPc, Congregazione Politica e Ornato, cart. 1, fasc. 5 (1551); fasc. 14 (1560). 24 Romani 1978 25 Nel fondo Pallastrelli della Biblioteca Comunale Passerini-Landi si conservano numerosi Capitoli delle fiere de Cambi della città di Piacenza 26 Molossi 1832 ad vocem Piacenza, pp. 360-392 27 Ottolenghi 1969 28 Villa 1862 29 ASPc, Congregazione sopra l’ornato, cartella 1. fasc. 12; cartella 3, fasc. 1 30 ASPr, Mappe e disegni, 21/41; Còccioli Mastroviti 2008, pp.75-118 31 Biblioteca Comunale Passerini-Landi, Piacenza (BCPc), pubblicata in Pigozzi 2008, pp. 204-205 32 Nasali Rocca 1909, pp.319-320 33 Il tratto di via X Giugno da via Benedettine a porta Fodesta 34 È il tratto della attuale via Romagnosi da piazza Dumo alla cinta di Piazza viscontea 35 Fiorentini la individua nell’attuale vicolo San Pietro, anch’essa allora interrotta dalla cinta di Piazza viscontea 36 L’ultimo tratto di via Benedettine, probabilmente realizzato come sedime in base al progetto di Paciotto, ma mai veramente sistemata come strada 37 Guidotti 1919, pp. 16-19 38 Si ricostruisce cioè il tracciato romano della odierna via Romagnosi, che era stata interrotto, nel periodo visconteo-sforzesco, dalle mura che cingevano la piazza 39 Còccioli Mastroviti 2009, pp.336-364 40 Còccioli Mastroviti 2009, pp. 336-364 (con bibl. precedente); Coccioli Mastroviti 2015a, pp.91-138; Poli 2015, pp. 5-37 41 ASPc, Archivio Baldini, cassetta +, vol. III, fasc, 21, Inventario Legale di tutti li Beni trovasti nell’Eredità del fu Sig. Conte Abbate Giannantonio Baldini..., 25 gennaio 1727; ma si veda anche Anelli, L. Maffini, Viglio 1986. 42 ASPc, Archivio Douglas Scotti di Sarmato, cassetta X, Inventario ....1834 43 Si legga al proposito il saggio di Matteucci in Matteucci, Stanzani 1991, pp. 17 – 39; un nodo problematico, ma di grande interesse e ancora in parte da sondare, concerne l’architettura residenziale di Casale Monferrato ove per tutta la prima metà del Settecento rimane forte il legame con la cultura padana. Si vedano Perin 1995, pp. 127-139 e Perin 1999, pp. 83-95. 44 Salmon 1751 45 Pigozzi 1999, pp.94 ss. 46 Autore di opuscoli di fisica ottica fu Carlo Barattieri, mentre al fratello Gian Francesco, morto nel 1802, astronomo e matematico, si deve il calendario celeste e la meridiana sulla facciata del palazzo del Governatore in piazza Grande. Per l’attività dell’architetto Gian Carlo Novati (+1747) cfr. Matteucci 1979 passim. 47 Tractato della Pittura dell’Abate Co. Gio. Antonio Baldini ridotto... allo studio di quest’arte..., B. C. Passerini Landi, Piacenza, Ms. Pallastrelli 257. 48 B. C.Pc, R. della Somaglia, Li Cinque Ordini di architettura, Ms. Comunale 346.13. 49 Simoncini 1990 50 Manfredi 1979, pp. 9 - 60. 51 Giustiniani, ed 1981 52 Questo tema è stato oggetto di ampie trattazione da parte di Renata Ago, ai cui studi rimando. Si cfr. Ago 1990; Eadem 1997, pp. 223- 238; ma anche Goldthwaite 1995 53 Tra i materiali più frequentemente impiegati nelle dimore dell’aristocrazia si registrano i marmi di Condoglia, la località della val d’Ossola posta sulla riva destra del fiume Toce. In marmo di Candoglia sono i portali dei rinascimentali palazzi Landi (del Tribunale), Scotti da Fombio e Barattieri. 54 Pigozzi 1993, pp. 61-63. 55 Su questo aspetto cfr. Matteucci 1979 56 D. Lenzi 1980, pp.263-264; Còccioli Mastroviti 1990, pp. 723-724; Lenzi, Bentini 2000; in particolare per l’attività di Ferdinando architetto e l’incidenza che la sua rivoluzionaria invenzione della “veduta per angolo” ebbe sull’architettura costruita anche nel ducato farnesiano si vedano Matteucci 1982, pp. 129-139; Matteucci 1997, pp. 35-53; Matteucci 2000, pp. 53-68. 57 Còccioli Mastroviti 1992, pp.524-526 58 Còccioli Mastroviti 1990b pp. 725-727; Còccioli Mastroviti 1998c, pp.753-755, e pp. 764-765. 59 Fiori 1980 ad vocem 60 Adorni 1982

60 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

61 Cfr. Cappelletto 1964, pp. 341 - 497; Lechi 1983; Scotti 1987, pp. 159 - 182; Matteucci 1988, pp. 259 - 294; Barocco lombardo, barocco europeo, “Arte lombarda”, n.s., 1991, 3-4; Bossaglia, Terraroli 1991; e ibidem, L’architettura, a cura di Giordano, pp. 360 ss. (con bibliografia). 62 Matteucci 1979, p. 9 63 Matteucci 1980, pp. 3-15; Matteucci, in Sciolla, Terraroli 1995, pp. 45-54; A. M. Matteucci 1997, pp. 35-54; Matteucci 2000, pp. 53-68. 64 Il tema della scala è stato per la prima volta affrontato da Matteucci, 1979 quindi anche per le residenze di villa dalla medesima studiosa in Matteucci, Manfredi, Còccioli Mastroviti 1991, scheda pp.136-145; Matteucci in Matteucci, Stanzani 1991, pp. 17-39 65 Su questo tema e, in particolare, su Strada Balbi a Genova, rinvio agli studi di Poleggi 1987; Poleggi 1992, pp. 18 - 28 66 Burresi, Còccioli Mastroviti 2012, pp. 243-274 67 Archivio Maruffi, Piacenza, in part. le bb. 2,3,61, fasc.5. 68 Archivio Maruffi, Piacenza, b. 69, Inventario s.d., ma secolo XVIII, carte n.n. 69 Cfr. Simoncini 1995 70 Per una più dettagliato esame del palazzo di città rinvio a Còccioli Mastroviti 1994, pp. 21-24 71 Poli 1998, pp. 75-86 72 I “segni” o numeri indicati sulla mappa sono 123, ai quali si aggiungono i numeri “9” e “56” (sottolineati nella mappa). I nomi delle famiglie di “nobili titolati” sono 84. Le famiglie Anguissola e Scotti possiedono 8 palazzi ciascuno; gli Arcelli 6, i Landi 4, Barattieri-Ferrari-Nicelli- Gazola 3, e le famiglie Borghi-Caraccioli-Cigala-Costa-Gazola-Marazzani-Morandi-Paveri-Tedaldi 2. Pertanto, se la somma dei palazzi elencati è pari a 123, tenuto conto che i palazzi identificati con i numeri 27, 49 e 84 non corrispondono all’elenco delle famiglie e che il palazzo identificato con il numero 68 è attribuito a due diverse famiglie, se ne deduce che 123+3-1=125 ! 73 Matteucci 1979, p. 11 74 Cfr. Belfanti 1984, pp. 101-131 75 Cfr. De Maddalena Vol. VII, pp.1081 -1091, p.1085 76 Barbot 2008, pp. 75-121 77 Braudel 1986, p. 405 78 Cfr. anche Cecchini 2006, pp. 2-24 79 Sulla carestia del 1590-93 e sulle sue conseguenze cfr. Romani 1983, pp. 1305-1323; Idem 1993, pp. 127-140 80 Su questo argomento si cfr. Gariboldi, 1989, pp. 177-204; Subacchi 1996, pp. 64-65 81 Poggiali, Tomo Xl, pp. 96-97 82 Sulla demografia cfr. Belfanti 1948, pp. 101-131 83 Cfr. Sella 1982; Faccini 1988 84 Maffini 1985, pp. 1-24 85 ASPc Congregazione ed ufficio del compartito dell’estimo 86 ASPc, Congregazione e ufficio del compartito dell’estimo, «Grida che li Mercanti della Città diano le liste delle loro mercantie et che li Massari diano la Notta degli Artisti», 4. lv. 1601, b. 8 87 Maffini 1982, pp. 1-24, p. 19 88 Gariboldi 1983, pp.1-33 89 Boscarelli 1986, pp. 1-33 90 Maddalena 1982 91 Romani p. 47 92 Cfr. anche Ricci 1966 93 Berengo 1999, p. 596 94 Raccolta di leggi, decreti e rispettivi atti di pubblicazione per gli Stati di Parma e Piacenza dopo il primo luglio 1805 sotto l’Impero francese, 5 voll., Piacenza 1806, III, pp. 146-149 95 Visioli 1997,pp. 241-283 96 Copia del decreto napoleonico del novembre 1807 è conservata in ASPr, Dipartimento del Taro, b. 150 (1808, 19 aprile). 97 Siboni 1986,p.24; Idem, in Palazzo Farnese 1960, pp. 87-121 98 Sulle operazioni di “numerizzazione” dei fabbricati di Parma e Piacenza cfr. Marchesini, 1986, pp. 43-68; Marchesini 1992, pp. 79-101 99 ASPC, Fabbriche, acque, strade, serie Strade cittadine, b. 1, Massime per la numerizzazione delle case, e botteghe, 30 giugno 1803 e ASPr, Carte Moreau de Saint Méry, b. 15, fase 4, Numerizzazione delle case do Piacenza, 14 luglio 1803). 100 Ricci, Anelli 2007 101 De Maddalena 1960, pp. 63-64; sull’argomento si cfr. anche Pelagatti, a.a. 1974-75, pp. 75-77 102 L’elenco dei beni immobili di proprietà delle congregazioni religiose piacentine è conservato in ASPC, Culto, b. 24, fasc. 3. Sull’argomento si cfr. Spaggiari 1961, p. 36; Ghebbioni 1985-1986; Pederzani 1994 103 Visioli 1997, p. 263 104 Sull’argomento cfr. BCPc, ms. Com. 352, c. 13 G. Gerbaix de Sonnaz, Piente interne delle Chiese soppresse che conservano ancora i loro fabbricati nella città di Piacenza con sunto storico a ciascuna delle medesime, 1894 105 ASPr, Mappe e disegni, vol. 22, n. 102. Sul complesso di San Sepolcro si cfr. Spigaroli s.d., pp. 19-22 106 Le varie decisioni assunte sulla destinazione d’uso del complesso del Santo Sepolcro sono documentate nelle lettere conservate presso l’Archivi Nazionale di Parigi e precisamente: ANP, F 16 547: lettera del prefetto al ministro dell’interno Montalivet, 9 marzo 1810 e decreto prefettizio del 3 maggio 1810; ANP, F 13 1656: lettera del prefetto Nardon al ministro dell’interno, 31 luglio 1810; ANP, F 16 547, rapporto inviato dal prefetto Nardon al ministro dell’interno, 27 luglio 1811 107 Spigaroli 1980, pp. 570-609 108 Alessio 1880,p. 108 109 Còccioli Mastroviti, Serchia 2013 110 Còccioli Mastroviti 2013, pp. 7-21 e Serchia 2013, pp. 23-36 111 Còccioli Mastroviti 1998f, pp. 225-234 (con bibliografia precedente) 112 Spigaroli 1980, p. 570-608 113 Spigaroli 1980, p. 589

61 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Progetto di giardino sugli spalti delle mura, secolo XIX (Piacenza, Archivio di Stato)

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Pianta della città di Piacenza, redatta in occasione della fiera del 1908 1 Direzione d’artiglieria; 2 Padiglione S. Antonio; 3 Caserma di cavalleria Carlo Alberto; 4 Magazzino direzione Genio e colombaia militare; 5 Ospedale militare; 6 Alloggi nell’ex convento di S. Giovanni; 7 Infermeria cavalli; 8 Caserma di fanteria Giuseppe de Sonnanz; 9 Caserma di fanteria Felice Gazzola; 10 Caserma d’artiglieria; Ferdinando di Savoia; 11 Torrione Borghetto (carcere militare); 12 Padiglione Borghetto; 13 Magazzino pontieri; 14 Brigantino pontieri; 15 Nuova Porta Umberto I; 16 Caserma del Genio “Umberto I”; 17 Caserma del Genio “Vittorio Emanuele II”; 18 Spianata per esercitazioni militari; 19 Caserma di fanteria Farnese; 20 Magazzino pontieri nell’ex chiesa del Carmine; 21 Torrione Fodesta; 22 Caserma Pietro Cella; 23 Caserma Jacopo Dal Verme; 24 Magazzino sussistenze militari nell’ex chiesa di S. Lorenzo; 25 Comando di Divisione, di Brigata, di Artiglieri da Costa e biblioteca militare nel palazzo Morando; 26 Caserma di fanteria delle Preservate; 27 Caserma Sforza Pallavicino; 28 Caserma di fanteria nell’ex convento di S. Anna; 29 Magazzini S. Lazzaro

62 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Progetto di porto a Piacenza-planimetria generale, inizio secolo XX (Piacenza, Archivio di Stato)

Planimetria dell’area della stazione ferroviaria con il giardino Giuseppe Roda, Progetto dei pubblici giardini della città di Piacenza, Margherita e il giardino Merluzzo (Piacenza, Archivio di Stato) secolo XIX (Piacenza, Archivio di Stato)

63 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Avviso prosecuzione lavori intorno al Castello, Il bastione di S. Lazzaro durante i lavori di demolizione (da Rivista dell’Attività Municipale 1928) 1848 (da Gentile 1990)

Guglielmo della Cella, Progetto per la nuova barriera di porta S. Raimondo, 1865 (Piacenza, Archivio di Stato)

64 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piacenza, Barriera Cavallotti con l’edificio del mercato

Manifesto per l’inaugurazione del nuovo ponte sul Po, 1908 (Piacenza, Il portale neogotico del ponte ferroviario sul Po (da Caccialanza 2013) Archivio di Stato)

65 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piacenza, stazione ferroviaria (collezione privata)

Via Milano, oggi via Cavour (collezione privata)

66 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

LA RICOSTRUZIONE DELLA STORIA URBANA DI PIACENZA Valeria Poli

Il contributo si propone di ricostruire, grazie all’approccio metodologico della storia urbana1, il rapporto tra le dinamiche insediative e le tipologie architettoniche della città di Piacenza nella considerazione della interrelazione tra le trasformazioni fisiche della città e le istituzioni politiche e amministrative, gli aspetti economici e tecnici e quindi, in generale, tra la cultura e la società2. Alla luce dell’approccio metodologico disciplinare scelto, gli elementi costitutivi del modello insediativo urbano sono considerati l’andamento degli assi viari, la tipologia delle mura, la forma degli isolati, il parcellario e le tipologie architettoniche3. È quindi possibile, nell’ambito di una analisi condotta sul lungo periodo, l’individuazione delle soglie storiche corrispondenti ai mutamenti del sistema politico che influenzano la trasformazione del modello insediativo e delle tipologie architettoniche. Si è quindi scelto di focalizzare l’attenzione, tramite un approfondimento sulla media e breve durata, su una soglia particolarmente significativa considerata la prima fase della storia dell’urbanistica4 che precede quella ritenuta il periodo di formazione dell’urbanistica, intesa come disciplina con caratteri autonomi, individuata tra il 1858 e il 19145. Enrico Guidoni, nella premessa alla storia dell’urbanistica del Cinquecento, ricorda come tale periodo rappresenti, secondo una consolidata tradizione storiografica, “l’età del passaggio, a volte graduale, a volte traumatico, tra un assetto economico-politico medievale e un assetto moderno”. Lo stretto legame che viene ad istituirsi tra l’arte della guerra, l’organizzazione della città e la nuova arte di governarla, permette anche di ripensare la tradizionale periodizzazione caratteristica della storia dell’architettura6. L’indagine documentaria permette di riscontrare l’esistenza di normative, in materia edilizia, che disciplinano l’intervento privato orientando le dinamiche insediative e le scelte tipologico-stilistiche7.

Attività edilizia e disciplina urbanistica in età farnesiano borbonica Il modello insediativo di ampliamento, costituito da assi stradali radiali rispetto alle porte urbane, determina una edificazione a pettine avvalendosi di una tipologia edilizia a destinazione commerciale e produttiva. Si tratta della casa a schiera, detta anche lotto gotico, caratterizzata dalla monocellularità del fronte (5-6 m circa), dalla comunanza dei muri laterali con le attigue case a schiera, dalla presenza dell’area di pertinenza dal lato opposto al fronte, dal conseguente doppio affaccio contrapposto e dalla possibilità di accrescimento per occupazione progressiva di tale area e dalla rigorosa appartenenza del fronte al margine di un percorso. La ricostruzione dei caratteri tipologici della edilizia residenziale mercantile, permette di evidenziare, rispetto alle tipologie della tradizione vitruviana (domus priva di atrio, domus a semiatrio), una maggiore continuità sia a livello planimetrico che distributivo. Un significativo rinnovamento tipologico è quello verificabile, invece, nel caso della residenza aristocratica che, rispetto alla domus ad atrio, è articolata su più livelli di fabbrica. La trasformazione tipologica della residenza aristocratica, dalla casa torre al palazzo, è strettamente legata alla nuova concezione di città che determina l’obbligo alla stabile residenza, emanato durante la signoria viscontea, già nel 13388, previsto per almeno quattro mesi all’anno nel 14189 e per sei mesi nel 1525 riconfermato durante il principato farnesiano nel 154510. La legislazione statutaria, in materia di disciplina edilizia11, viene integrata da precise norme in età moderna che permettono di gestire la trasformazione della città: si tratta del decreto del 17 luglio 1493, emanato a Milano e trasmesso a Piacenza il 7 maggio 1494, che concede il diritto di preferenza per l’acquisto delle case del vicino a chi si impegna a erigere costruzioni più decorose per beneficio pubblico prevedendo anche norme per l’esproprio per pubblica utilità12. L’acquisto è previsto ad un prezzo maggiorato di un quarto rispetto alla stima corrente come viene confermato il 26 marzo 150713. È di questa norma che si avvale Clemente VII nel breve papale del 26 marzo 1527, pubblicato in occasione della costruzione delle fortificazioni, che impone a chiunque possedesse orti o terreni liberi, soprattutto quelli adiacenti alle strade pubbliche, “aut alias de novo designandas via”, di venderli al prezzo stabilito da due periti a chi voleva costruire14. Gli aspetti economici, sociali e territoriali che caratterizzano le fortificazioni alla moderna, mostrano la profonda connessione fra ordinamento politico nuovo e architettura militare moderna. Risulta evidente come si vogliano, in questo modo, legare le due occasioni di trasformazione della città, il tracciamento di nuove mura e di nuove strade, avvalendosi dello strumento della demolizione alla luce del ripensamento del significato stesso di strada come specchio del nuovo concetto di ornato esteso a tutto il tessuto urbano. La strada e l’edificio risultano strettamente connessi secondo i nuovi criteri di decoro. Francesco De Marchi afferma che “quando si vuol far favor alla casa d’un amico in laudarla, si dice, ella è in una bella strada, longa, larga e dritta, con una larga e dritta e bella facciata”15. Gli atti prodotti dal Consiglio generale della Magnifica Comunità di Piacenza registrano numerose provvigioni,

67 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 in esecuzione di quanto stabilito dal corpus legislativo statutario relativo alla politica urbana, avvalendosi dei tecnici della Comunità, già nel 1514 qualificati come ingegneri ad politica, che avevano anche il compito di stimare la casa di abitazione che i nuovi cittadini dovevano costruire per un valore di almeno 200 scudi16. La novità introdotta dal duca Pier Luigi Farnese, con l’ordine del 17 gennaio 1547, è la creazione di una congregazione di politica et ornamento ossia di un organismo, con il compito della gestione sia ordinaria che straordinaria della città, che dispone dei mezzi economici e di un personale stabile (gli edili, il perito e l’architetto)17. L’analisi documentaria dell’opera della congregazione, sul lungo periodo (1547-1804), evidenzia una attività edilizia disciplinata da un attento controllo esteso a tutto il tessuto urbano. La città, quindi, si costruisce attraverso l’interazione tra il pubblico e il privato mediante lo strumento della licenza edilizia che viene concessa riconoscendo al privato il ruolo di fondamentale artefice dellarenovatio urbis. Si tratta di favorire l’edificazione su strada mediante una trasformazione tipologica, resa possibile dall’applicazione del già ricordato diritto di prelazione esercitato sul vicino (1494, 1507, 1582), legando quindi la proprietà privata e la trasformazione dello spazio pubblico cioè ornato e politica in quanto il sistema di finanziamento degli interventi pubblici (per es. pavimentazioni di strade e piazze o l’indennizzo dei proprietari per la creazione di strade e piazze) si basa sulla tassazione della proprietà privata in relazione alla dimensione del fronte su strada18. È la congregazione, attraverso i suoi tecnici, che ha il compito di “determinare il sito opportuno per le nuove fabbriche di case o palazzi, i quali si avranno da edificare secondo la forma e modelli che saranno dati da essi deputati, quali dovranno pure determinare il giusto prezzo delle case cedute o vendute”19. Inizialmente prevale la logica di occupazione di spazi inedificati (vacui, orti, guasti, cove di cantoni muti), per favorire l’accorpamento di più lotti contigui soprattutto lungo le strade pubbliche, ma anche all’interno degli isolati. L’esigenza di decoro comporta la scomparsa quasi sistematica dei cantoni muti ossia dei vicoli o passaggi tra edifici, retaggio della suddivisione dei lotti di proprietà che si erano trasformati in ricettacolo di immondizie, comportando la richiesta di inglobarli in nuove costruzioni o di chiuderli con portoni. La strada diviene anche occasione per definire l’aspetto della proprietà pubblica del suolo urbano colpendo sistematicamente i portici e le volte che attraversano le strade che si configurano come indebite occupazioni del suolo pubblico. La licenza disciplina qualunque intervento di trasformazione che incida sul suolo pubblico; infatti viene concessa sia quando si prevede una occupazione di suolo pubblico, ossia di uscire dai fondamenti, ma anche quando al contrario è previsto un arretramento e anche quando invece nella richiesta si specifica di servirsi del fondamento già fatto20. Se la costruzione di una abitazione cittadina, di un valore prestabilito di almeno 200 scudi e in zona centrale, è la conditio sine qua non per ottenere la residenza21, la sua ristrutturazione è strettamente legata all’ottenimento del titolo nobiliare, a partire dalla concessione di nobiltà semplice (riconoscimento concesso dalla Magnifica Comunità) per arrivare all’accesso nell’ordine dei magnifici (in virtù del titolo nobiliare concesso dal Duca). È possibile ricostruire una serie di interventi di trasformazione, non più tipologica, ma di ridefinizione architettonica che, a partire dalla metà del XVII secolo, si legano inscindibilmente alla politica farnesiana di nobilitazione di famiglie che avevano raggiunto la possibilità di vivere more nobilium. La residenza urbana diviene quindi lo specchio del percorso nella promozione sociale compiuto dal proprietario. Agli eletti sopra l’ornamento et politica si rivolge il legato pontificio cardinal Gambara quando ne conferma l’elezione, il 1 marzo 1544, riconoscendone l’importanza per rendere esecutivo l’atto del 18 ottobre 1543 per la pianificazione della strada Gambara poi chiamata stradone Farnese22. Il piano urbanistico piacentino è valutabile a partire dalla realizzazione del fronte bastionato, ma è verificabile su tutto il tessuto urbano dove si concretizza un preciso programma di riordino viario anticipando i più celebrati piani urbanistici dell’età tardo cinquecentesca. Lo stradone Farnese rappresenta in questo senso un unicum nell’area padana. È proprio con questo cantiere, e la precisa normativa inerente, che Enrico Guidoni individua il passaggio dall’urbanistica medioevale a quella moderna23. Bruno Adorni ricorda che il nuovo asse viario a confine tra la città costruita e gli orti, come testimoniato dalle prime planimetrie urbane24, è il risultato della applicazione di una precisa normativa al precedente tracciato della strada di S. Bernardino, non a caso indicata come “strada nuova di S. Bernardino”25, che costituiva un percorso alternativo alla più antica francigena come testimoniato dalle presenze di numerosi edifici a dedicazione mariana costruiti dal XII al XIII secolo26. Che si trattasse della applicazione di una precisa normativa ad un asse viario già esistente, anche se scarsamente edificato, risulta evidente nell’atto costitutivo, del 18 ottobre 1543, nel quale si predispongono le norme per le vendite e per gli espropri di terreni e di edifici27 riconfermate con grida del 21 dicembre 155628. Precise regole sono stabilite per le nuove costruzioni per le quali è prevista l’altezza minima di 26 braccia della facciata (m. 12,20869)29 alle quali vanno aggiunte tre braccia e mezzo di altezza del tetto (m 1,64) per entrambi i lati della strada dalla chiesa di S. Bernardino (attuale chiesa dei Cappuccini) fino alla chiesa di S. Benedetto (compresa poi nel castello), mentre nei tratti terminali di 18 braccia e mezzo (m 8,73). Tale distinzione ha anche influenza sul valore del terreno: 150 lire alla pertica nella prima zona e 100 nella seconda. In realtà il documento dispone l’allargamento della strada di S. Bernardino, dalle mura alla chiesa di S. Chiara e S. Raimondo, che dovrà essere larga 28 braccia (m 13,14), e il suo prolungamento “piegando con un angolo ottuso” fino alla porta

68 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 di strada Levata. Tutte le strade trasversali saranno invece larghe 15 braccia (m 7,04)30. In realtà tale strada non verrà realizzata secondo il progetto originario, ma “di verso Beverora resta intercisa et guasta per la fabrica del novo castello construtto”31. L’originario progetto dello stradone Farnese, modificato in seguito alla decisione di costruire il castello pentagonale di Pier Luigi Farnese (1547)32, prevedeva, infatti, la creazione di un percorso diretto di collegamento tra le porte S. Lazzaro (est) e S. Antonio (ovest). La costruzione della cittadella pentagonale determina il ripensamento della zona ovest dove la strada Gambara (attuale viale Malta), invece di condurre direttamente alla porta S. Antonio, utilizza la “via che va in Campagna” (attuale via Valverde) per deviare sul percorso storico della via di Strada Levata (attuale via Taverna) o proseguire, uscendo di fianco alla chiesa di S. Giuseppe, immettendosi nella via Campagna33. Oltre allo stradone Farnese è da ricordare anche un piano di intervento sulla rete stradale che crea una serie di collegamenti tra il tessuto edificato e il fronte bastionato intervenendo soprattutto in quella zona inedificata che, inglobata già dalla città sforzesca, ora diviene occasione dell’ultimo ampliamento del tessuto urbano34. In alcuni casi si tratta di valorizzazione di percorsi già esistenti, come testimoniato dal prolungamento delle direttrici viarie come le attuali vie Giordani e S. Franca35. Già nel 1553 si afferma che “il tutto succederà a ornamento predetto secondo la forma delli ordini quali permettano che li vacui della città si debbano ornare di case attio la città diventa più popolosa et habitata di quello se trova esser”36. Il piano delle Cinque Strade, aperte con grida del 14 aprile 159037, in particolare nella zona a nord-est (Benedettine, strada Trebbiola, Abbadia, S. ta Monaca e di Nazareth)38, che “per essere vicine alle fornaci, facilmente e presto si riempiranno di case”39, si inserisce nel programma di apertura e rettifica dell’intero sistema stradale: si tratta di via Benedettine dal 154740, della strada Volpina (l’attuale via Romagnosi) dal 154841, strada verso porta Fodesta nel 154842, la strada nuova di S. Nicolò dal 1554 (attuale tratto terminale di via Mazzini)43, cantone dell’Abbadia dal 156044, via S. Vincenzo dal 156445, strada del Monte di Pietà dal 156446 e strada che va a S. Bartolomeo nel 155747. Il 22 gennaio 1590 si era già affermata la necessità di aprire quattro strade una delle quali già tracciata al tempo del duca Pier Luigi che “caminarà dalla strada farnese verso mezzogiorno alle mura della città, e le altre tre tenderanno verso il Po”48: dovrebbe trattarsi del prolungamento di via S. Stefano49 non realizzata50, di via Benedettine, via Trebbiola, via Abbadia, alle quali verrà aggiunta, il 14 aprile 1590, la strada del Monte (strade trasversali di via Benedettine)51. Altro intervento documentato, verso il 1590, soprattutto a livello iconografico, è quello alla confluenza tra la strada di Guastafredda e l’attuale via Nicolini52 e dell’attuale via Mochi nel 1595 testimoniato dall’unica iscrizione in pietra conservata, pur in assenza di riscontri documentari, che indica anche l’originario nome della strada “via Colona” testimoniato anche dalla mappa affrescata in Vescovado (1748 ca.). Il programma viario risulta da completare ancora nel 1594 come testimonia la planimetria, realizzata da Genesio Bressani, “della parte mal terrapienata alli terragli di Piacenza” che indica il cantone Trebbiola, Abbadia e di S. Sepolcro53. Il riordino del sistema stradale ha il compito di creare il collegamento, tramite una sorta di circonvallazione e le nuove laterali poste a pettine, con i luoghi ritenuti maggiormente significativi soprattutto sotto l’aspetto economico e politico. La nuova trama viaria risulta impostata secondo la logica delle croci di strade permettendo di riscontrare l’attenzione ad alcuni luoghi urbani puntando sulle potenzialità scenografiche fornite dalla creazione di piazze in relazione all’emergenza monumentale54. Si pensi alla raggiera di strade che era previsto si immettesse nella piazza trapezoidale davanti alla chiesa di S. Benedetto, ma soprattutto alla serie di interventi che porteranno alla creazione della piazza del Duomo. L’apertura di via Pace, in retta linea, è seguita dalla demolizione della chiesa di S. Giovanni de Domo nel 154555 che rende necessario il tracciamento dei nuovi accessi come la strada Volpina dal 1547 (via Romagnosi) e la strada attraverso il palazzo vescovile nel 1569. La piazza diviene, allora, luogo privilegiato della scena urbana soprattutto attraverso l’adozione dell’uniformità di facciata con la scelta dei fronti porticati che saranno realizzati nel 1601 anche nel palazzo vescovile56. All’attenzione da parte del governo pontificio per la piazza, tradizionalmente ghibellina, corrisponde da parte del governo farnesiano uno spostamento dell’attenzione verso il centro guelfo e laico (le attuali piazza Cavalli e piazza Cittadella), ma anche nei confronti dell’asse dell’antica via Francigena, dove si insedieranno la maggior parte degli ordini riformati, in concomitanza con la creazione del mito storiografico di S. Antonino cattedrale matrice57. Il mito è documentato a partire da Umberto Locati (1564)58, attivo presso l’Ufficio della Santa Inquisizione (che si insedia in città il 21 luglio 1542) e sarà poi consacrato dal canonico Pier Maria Campi (1651)59. Tale circostanza è forse spiegabile ricordando che il ritorno dei Farnese, nel 1556, determina quella che Domenico Ponzini definisce una “politica confessionale e giurisdizionalistica” caratterizzata dalla “interazione tra il campo spirituale e quello politico”60. La riaffermazione dell’asse mercantile-guelfo della città è testimoniato dai cantieri delle nuove fondazioni o ristrutturazioni di complessi conventuali: S. Giuseppe (1566), S. Maria della Neve (1583), S. Maria della Pace (1587), S. Ulderico (1590), S. Vincenzo (1595)61. Per il collegamento con il centro cittadino è, invece, prevista la creazione di una piazza e della strada (l’attuale via Cittadella), già documentata nel 1559 quando Francesco Paciotto, scrivendo al duca, avverte che “non si guardi altrimenti dove verrà la porta, perchè la piazza non ha da stare come sta hora, ma come gli dirò poi

69 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 a bocca, che sono sicuro che gli piacerà”62. La sistemazione rendeva necessarie numerose demolizioni già iniziate nel 1546 per la giostra63 proseguendo poi con il complesso conventuale di S. Gregorio e della chiesa di S. Fruttuoso64. È la congregazione di politica et ornamento a gestire la realizzazione della strada, dal 1595 al 1601, affrontando il delicato problema dell’esproprio a partire dal riparto delle spese per l’indennizzo. I primi riscontri documentari risalgono al 1595 quando, il 20 maggio, si viene a conoscenza della necessità di demolire la facciata e la torre della chiesa di S. Maria di Piazza, recentemente costruita, e ricostruirli in posizione più arretrata per l’ampliamento della “strada che va dalla piazza granda al palatio di S. A.S.”65. Anche se l’ordine per reperire i fondi necessari è datato il 14 febbraio 160166, sulla base delle stime degli edifici sottoscritte dal Alessandro Bolzoni67, il progettato allargamento non avrà esito mancando la volontà politica in considerazione dell’interruzione del cantiere del palazzo nel 160268. Il palazzo Radini Tedeschi, costruito in contemporanea con il palazzo Farnese dallo stesso progettista Jacopo Barozzi detto il Vignola (1561), è da considerarsi nell’ambito del più ampio progetto di riordino in senso monumentale previsto per il sistema piazza grande-strada e piazza della Cittadella, sfruttando al contempo la presenza del sagrato davanti a S. Fermo già documentato nel 155369. L’attività della congregazione prosegue, nel corso del XVIII secolo, nella gestione del rapporto tra pubblico e privato organizzando la manutenzione delle strade e la collocazione dei “colonelli”, anche davanti al Collegio di S. Lazzaro (richiesta nel 1760)70, a difesa di “cantonate”, sagrati71 e più in generale dei marciapiedi. Dopo aver avviato e gestito il processo di mutamento tipologico della città, nella considerazione della strada a cortina continua come asse portante della nuova concezione del decoro urbano, prosegue nella concessione di chiusura di cantoncelli e cantoni muti ed interviene direttamente per la scomparsa totale dei guasti72. Si prescrive che “quando accadono diruamenti di case e che fra il termine di sei mesi non sono redificate s’intendono traslato il dominio a questa ill. congregatione”73 che può effettuare lavori di consolidamento gestendo l’immobile fino a quando il proprietario non risarcisce le spese sostenute74. Di competenza della congregazione sono le concessioni di licenze per interventi sui fronti stradali che rendono necessaria la rettifica, non solo su quelli principali, ma anche sugli affacci secondari, evidenziando come la residenza si trasformi in una sorta di organismo urbano per la molteplicità di funzioni, articolate intorno a corti e giardini, comportando la trasformazione in costruzioni anche di muri di cinta75. Mentre non viene più messo in discussione il principio della concessione di occupazione di suolo pubblico a titolo oneroso, è necessario regolamentare il sopralzo di edifici (di interi piani o di “specole” ossia altane), interventi nei confronti dei quali ci si trova di fronte inizialmente ad un vuoto legislativo, soprattutto gestendo il contenzioso tra privati76. La pianta della città affrescata nel Vescovado (1748 ca), che identifica le 123 residenze della nobiltà titolata, permette di identificarne anche la logica insediativa. Sono privilegiati i confini del nucleo romano dove e il tessuto insediativo della prima espansione medioevale, in particolare lungo il percorso della via Francigena (le attuali via Campagna, via Taverna, via Garibaldi, via S. Antonino,via Scalabrini) e lungo i tratti iniziali di alcune direttrici radiali a sud (le attuali via S. Franca, via Castello, via Roma) dove è testimoniato un significativo processo di accorpamento di unità edilizie a schiera. Attraverso l’indagine sul titolo di godimento della proprietà immobiliare da parte della nobiltà titolata, documentata dall’indice del 173777, è emersa la corrispondenza tra la funzione della residenza e la tipologia architettonica definibile come palazzo o casa da nobile78. L’ingresso può essere centrale oppure eccentrico, rispetto alla corte principale, condizionando la presenza, al piano terreno, rispettivamente di due appartamenti o di uno solo. Quando sono attestate due corti, la seconda viene qualificata come “corte rustica”, spesso dotata di un secondo portone di ingresso. La corte e il giardino vengono considerati come spazi di distribuzione e non come qualificanti l’edificio, come invece negli atti notarili di compravendita o nei testamenti. I collegamenti verticali sono indicati come “scala nobile”, “scala civile” o “scala grande”, raramente come “scalone”, a volte “scala piciola”, per distinguerla dalla scala nobile, o “scaletta” o “scala segreta”. La ricostruzione della tipologia del palazzo, attraverso le varianti dei caratteri distributivi, permette di considerarlo un organismo complesso a livello di funzioni (di rappresentanza, di residenza e di servizio), ma anche dal punto di vista sociale. Parte integrante del nucleo familiare, unico o allargato, è la servitù che viene indicata, infatti, residente nel palazzo. A livello dell’analisi dei caratteri distributivi, si riscontra una particolare attenzione all’individuazione del percorso d’onore costituito da ingresso, androne, cortile, scalone, loggia o galleria e salone d’onore. In più occasioni le licenze indicano la necessità di fabbricare i “servigi necessari”, aggiungere “maggiori e belle stanze”, documentando anche la presenza di appartamenti distinti ai diversi piani che trovano corrispondenza nelle qualifiche dei locali distinti tra rustici, ordinari, civili, famigliari e nobili79.

Attività edilizia e disciplina urbanistica alla fine dell’Ancien Regime e durante la Restaurazione Bisogna aspettare gli ultimi decenni del XVIII secolo per riscontrare un mutamento nella politica urbana che, dall’ornato delle strade costituito dalle residenze private, sposta l’interesse verso la piazza come spazio pubblico e come nuovo scenario della vita sociale. Già a partire dalla metà del secolo è documentata un’attenta trasformazione nell’uso della piazza, che comincia ad essere qualificata come “dei cavalli”, testimoniata dalla

70 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 trasformazione del palazzo Grande con una serie di interventi di manutenzione ampliando lo spazio destinato agli uffici amministrativi dal 1757 al 179180. La fine della città Ancien Regime si concretizza in una serie di interventi volti a definire il moderno concetto di piazza a partire dal dibattito relativo alla ristrutturazione, tra il 1780 e il 1798, con la nuova selciatura, la regolamentazione nella dislocazione delle funzioni commerciali81 e la costruzione del palazzo del Governatore in sostituzione delle Volte di Piazza. Un’interessante documentazione relativa al dibattito della trasformazione della piazza presenta i due schieramenti opposti: la linea ostile alla chiusura dei portici (i proprietari delle botteghe), l’altra che propugnava “l’abbellimento” comprendendo anche l’allargamento della strada Dritta82. Dopo la costruzione del palazzo del governatore (1784), viene scelto il vicino palazzo Galli, in via Mazzini, come residenza dell’amministratore dei ducati di Parma Piacenza e Guastalla ministro Moreau de Saint Mery (1805)83. La piazza si trasforma quindi in un centro direzionale civico come verrà riaffermato in più occasioni. Si pensi alla riapertura della chiesa di S. Francesco come tempio civico dedicato a S. Napoleone dove, non a caso, il 10 maggio 1848 si procede allo spoglio dei risultati del plebiscito per l’annessione al Piemonte. Contemporanea è anche la ridefinizione dello spazio presso la basilica di S. Antonino a partire dall’intervento di eliminazione della pesa del fieno richiesta nel 1782, ottenuta nel 178684, e seguita dalla scelta di collocarvi nel 1804 il nuovo teatro, dopo la distruzione di quello della Cittadella, trasformandolo in Municipale nel 180685. La riscoperta della funzione civile e politica dello spazio urbano e l’importanza attribuita dall’amministrazione francese ai problemi della viabilità, è concretizzata dalla toponomastica e della numerazione civica. A Piacenza, già nel settembre del 1795, erano state poste pietre per segnare con numeri alcuni quartieri della città86, ma l’operazione è eseguita nel 1803, durante l’amministrazione di Moreau de Saint Mery. Nelle istruzioni che, dal 14 luglio 1803, presiedono all’esecuzione dei lavori87, riguardo alle scelte dei materiali, a Piacenza si prevede di impiegare tre materiali differenti: marmo di Carrara, pietra di Cassano, mattoni “ossia taveloni di terracotta” secondo una prestabilita importanza dei luoghi e degli edifici. “In marmo si eseguirà la numerizzazione di tutto il contorno della Piazza Grande, delli fabbricati tutti camerali e pubblici, delle chiese, dei conventi, de conservatori e degli altri luoghi di pubblico istituto, dei palazzi e degli altri fabbricati al di cui proprietario così piaccia. Come pure le denominazioni delle strade che si diramano dalla Piazza, delle strade maestre e di alcune altre principali. In pietra di Cassano le denominazioni di tutte le altre strade, cantoni e vicoli ed i numeri delle case civili e delle botteghe de mercanti e trafficanti. In mattoni il numero per le piccole e povere case, e per le botteghe degli artieri fuori delle strade maestre o principali specialmente”88. La nomenclatura e la numerizzazione, insieme alla pavimentazione, l’illuminazione delle strade, la regolamentazione delle insegne e delle botteghe in rapporto al suolo pubblico e la ricerca degli allineamenti edilizi configurano l’affermarsi non solo di una visione urbanistica, oltrechè edilizia, dell’organizzazione cittadina, ma rispecchiano la volontà di introdurvi una razionalità che non è soltanto estetica, ma deve anche essere sociale89. Si tratta di interventi che non incidono a livello di mutamento della forma urbis, ma del concetto stesso di città: lo stato civile e il nuovo catasto rompono lo storico vincolo di appartenenza alla vicinanza, l’illuminazione (che inizia a Piacenza il 29 marzo 1807) prolunga in termini di tempo la fruizione della città affermando la gerarchia degli spazi urbani, l’acquisizione dei beni ecclesiastici, in seguito al processo di secolarizzazione della città, costituisce una delle strade che vengono percorse per costruire solide basi immobiliari nell’ambito della trasformazione dello status sociale. Da ricordare inoltre lo spostamento delle sepolture dalle chiese e dai cimiteri parrocchiali, dettato da precise norme igieniche, che incontrerà notevoli resistenze e sarà accompagnato da un esteso dibattito accademico: si dovrà attendere il progetto di Lotario Tomba (1819-1821) per la realizzazione di un unico cimitero concepito come una vera e propria città alternativa90. La normativa in materia edilizia, durante la Restaurazione, è raccolta dal cav. Francesco Cornacchia, vice segretario della terza divisione del Ministero di Grazia e Giustizia, nel dizionario dei Lavori Pubblici considerati nei loro rapporti colla legislazione l’amministrazione e la giurisprudenza91. Il corpus legislativo è costituito non solo dal codice civile del Ducato, basato sulla legislazione francese, ma anche dal testo fondamentale in materia rappresentato dal Regolamento delle fabbriche acque e strade del 182192 integrato da specifici decreti e pareri di illustri giuristi ed economisti tra i quali Melchiorre Gioia. Il Decreto Sovrano e Regolamento per l’amministrazione delle Fabbriche, Acque e Strade e pel servigio degl’Ingegneri dello Stato, pubblicato a Parma il 25 aprile 1821, si propone di riunire in una sola amministrazione, con competenza su tutto lo Stato, la gestione dei Lavori pubblici che precedentemente si avvaleva di differenti uffici per ogni Ducato con competenza distinta tra la città e il territorio93. È evidente nella dichiarazione iniziale la volontà di legare “la solidità, sicurezza e salubrità degli edifizi, la facile comunicazione fra le città e i paesi, la difesa efficace contro le irruzioni dei fiumi e torrenti, e l’uso delle acque correnti, sia per l’irrigazione sia pel movimento delle macchine, e per qualunque altro scopo” all’inquadramento amministrativo delle figure professionali in ambito tecnico. L’articolazione in quattro sezioni (prescrizioni edilizie, manutenzione delle strade, manutenzione degli argini e gestione degli acquedotti, disciplina del corpo degli Ingegneri) riflette, seppur sotto forma di categorie di lavori, una nuova ottica territoriale che permette di legare città e territorio. La prima e la seconda sezione del Regolamento, distinte tra “fabbriche e discipline diverse” e “mulini” (34 artt.)

71 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 e “strade pubbliche” (81 artt.), sono quindi il primo vero e proprio regolamento dei Lavori Pubblici che resterà in vigore fino all’Unità d’Italia. Ritenendo che la città si possa considerare il risultato dell’interazione tra il pubblico e il privato, visto come rapporto tra la disciplina urbanistica e l’attività edilizia, si è condotta una capillare indagine sulla documentazione prodotta dall’attività amministrativa relativa al rilascio delle concessioni edilizie. È stato così possibile ricostruire puntualmente le strategie, i progetti e le regole che presiedono alla trasformazione della città individuando le dinamiche insediative delle funzioni residenziali, commerciali, industriali Il risultato dell’intervento, a livello di immagine urbana, è evidente nel confronto tra le due descrizioni fornite da Lorenzo Molossi (1832-34) e Gaetano Buttafuoco (1842). Nel 1834, le strade sono indicate come “mediocremente ampie, e spesso non proporzionate all’altezza degli edifici” ad esclusione dello stradone Farnese che “per la sua posizione solitaria, ed eccentrica lo rende inanimato”. “Circa il selciato vi sono guai, ma vi ha il comodo di una buona illuminazione notturna fatta con 300 fanali a riverbero”94. Nel 1842 Buttafuoco poteva affermare che “Piacenza ha edifizii pubblici e privati e parecchie chiese da esserne superba qualunque più cospicua città; ha tre piazze: contrade bastantemente spaziose e regolari, illuminate di notte da 292 fanali a riverbero: i quartieri o rioni della città sono numerati in tavolette di pietra, le case in tavolette di mattoni... terminati di porsi in quest’anno 1841. Le contrade sono ciottolate, i marciapiedi per lo più a mattoni in coltello, sebbene davanti gli edifizii più signorili e quelli che si vanno ricostruendo ed abbellendo sieno fatti in parte di pietra arenaria ed in parte di granito”95. Gli atti prodotti dall’Ufficio Tecnico, testimoniano la periodica sistemazione dei condotti e del selciato delle strade principali che vengono dotate di “rotaie in granito”. Sembrerebbe proprio la motivazione di miglioramento del traffico veicolare, unita all’aumento di decoro determinata dalla regolarizzazione della strada, a determinare il primo intervento di rettifilo che interessa i collegamenti tra la principale arteria della città, la strada di S. Raimondo (corso Vittorio Emanuele II), la strada di S. Giovanni e la strada al Teatro (via Verdi). Il 6 aprile 1848 il podestà chiede all’ingegnere del Comune Giuseppe Pavesi di fare i disegni e la stima degli indennizzi per il piano di rettifilo dell’isolato da contrada del Guasto a strada di S. Giovanni96. Il progetto, il 26 maggio 1848, viene presentato al parroco di S. Alessandro “considerando il bisogno di detto allargamento che riuscirà di abbellimento della città nostra” che prevedeva la demolizione di parte della casa del Capitolo, di tre botteghe e soprattutto della cappella della Natività affrescata da Ferdinando Galli detto il Bibiena97. La demolizione degli edifici, come dimostra il piano del 184898, non prevedeva la demolizione della chiesa che verrà attuata dopo l’Unità99. Il piano di rettifilo, in esecuzione del decreto sovrano n. 117 del 16 gennaio 1856, viene avviato con acquisti già il 18 novembre 1856 e verrà portato a termine in età postunitaria come testimoniato dall’acquisto, il 25 ottobre 1866, della chiesa e canonica di S. Alessandro e case attigue e la stima, il 18 marzo 1867, delle case in via S. Giovanni dal palazzo Fogliani all’angolo con via S. Raimondo100. L’intervento può dirsi concluso, il 24 dicembre 1884, con l’acquisto della casa all’angolo con la strada al Teatro101. Un altro piano di rettifilo, motivato da necessità viabilistiche in stretto collegamento con il riordino della piazza102, è quello che interessa, nel 1862, la via Chiapponi e la strada delle Tre Ganasce (via Legnano) che determina acquisti di edifici da demolire da parte del Comune103. Un progetto che avrebbe modificato il sistema viabilistico del cuore della zona commerciale storica della città, è invece quello che, a partire dal 1861, interessa la piazza del Borgo. Il piano prevedeva il rettifilo della via Castello104 e della via Beverora105 e soprattutto il suo prolungamento per il collegamento diretto con la piazza Borgo. Il progetto, nonostante la demolizione nel 1864 della casa Talamoni all’angolo con la via Castello106, non ebbe però seguito. Con delibera comunale del 10 maggio 1865, viene stabilita una gerarchia del tessuto viario stabilendo tre categorie di strade distinte per quanto riguarda la pavimentazione, la tipologia del marciapiede, la presenza di carraie e l’illuminazione107. Agli interventi sul tessuto urbano, che confermano la gerarchia dei percorsi storici, si aggiungono quelli motivati da esigenze viabilistiche di più ampio respiro che rendono necessari i collegamenti tra la città murata e l’esterno. La creazione di varchi nella cerchia muraria, per la realizzazione delle barriere daziarie108 in sostituzione delle porte urbane, determina il riordino viario della circonvallazione interna109 e dei nuovi collegamenti con il tessuto storico. L’apertura della barriera daziaria di S. Raimondo (1865)110 e la costruzione dell’Ospedale militare (1868- 9), determinano la realizzazione di un nuovo tratto di strada (l’attuale via Palmerio) nel 1870111 che si collega allo stradone del Castello (viale Malta)112 attraverso il prolungamento di via Beverora che verrà interessato da un piano di allineamento nel 1912113. Il risultato, a conclusione della prima fase di interventi, è testimoniato dall’ing. Guglielmo Della Cella nel 1890. Le “strade che mettono alle nuove barriere della città, aperte in sostituzione delle vecchie porte, anguste troppo, nell’ultimo ventennio, hanno acquistato aria e luce ed un libero prospetto... I corsi e le strade principali sono a ruotaie di granito e selciate in sassi, ma per verità diffettanti tutte di scolo per le acque pluviali, che le allagano in più luoghi sconciamente quantunque la pulizia delle stesse non sia punto trascurata”114.

72 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Particolare attenzione viene riservata soprattutto a due interventi di ampio respiro, sia per i tempi che per l’iter seguito, che determineranno la trasformazione del tessuto urbano. Si tratta dei collegamenti con il ponte sul Po (1848) e con la ferrovia (1859)115 che riconfermano lo storico rapporto con la sponda lombarda e, al contempo, il ruolo dell’antico cardo della città116. La collocazione della stazione ferroviaria determina la necessità di un collegamento attraverso una breccia nelle mura che rende necessario avviare l’iter di approvazione da parte delle autorità militari. Il 29 novembre 1859 viene concesso il permesso dal Genio militare al Comune per l’apertura della porta, ma sarà solo in seguito alla convenzione tra la direzione del Genio militare e il Comune, del 26 marzo 1860, che potrà essere realizzata la breccia nelle mura per la porta Nuova iniziata l’8 maggio 1865117. Passando alla scala architettonica, la competenza amministrativa “su tutti gli abbellimenti”, a norma del Regolamento del 1821, è delegata al podestà che, ad esclusione di “oggetti di grande entità” per i quali è prevista l’approvazione del “superiore Governo”, concede, previa la consultazione dell’ingegnere, la licenza richiesta. Si tratta dell’ingegnere del Comune affiancato, in caso di interventi su strade dello Stato, dall’ingegnere di Sezione. Occasionalmente poteva essere nominata una “commissione di ornato”, per risolvere problemi specifici, affiancando all’ingegnere un professore di pittura. Si tratta “di costruire edifici nuovi e di riparare le facciate delle case, quand’anche facessero fronte sulle strade dello Stato, aprendo o chiudendo porte e botteghe; di fabbricar nuovi piani”. La “solidità, sicurezza e salubrità degli edifizi” si raggiunge attraverso un intervento qualificato come restauro, nettamente distinto dalla meno frequente ricostruzione, che consiste in una trasformazione dell’edificio mediante accorpamenti di zone rustiche o di più unità abitative, ampliamenti e sistemazione delle zone cortilizie, ma soprattutto sopralzi che rendono necessario razionalizzare il sistema dei collegamenti verticali con l’adozione di un unico vano scale interno118. L’attività di controllo dell’edilizia privata, in applicazione del Regolamento, riconosce al tecnico il ruolo di interprete di un preciso programma politico. È ampiamente documentata la prassi di richieste inoltrate dal materiale esecutore dell’intervento, in vece del privato committente, che diviene quindi l’interlocutore privilegiato del tecnico comunale e al quale viene poi materialmente indirizzata la concessione edilizia podestarile. Dall’analisi della documentazione risulta evidente come l’attività edilizia coinvolga non solo la facciata, ma anche l’intero organismo edilizio. Non si tratta di avvallare semplicemente la richiesta del privato, ma di indirizzarla in modo che possa contribuire al raggiungimento di quella idea di razionalità, tipicamente ottocentesca, capace di legare, nell’intervento a scala urbana, i principi estetici e quelli etici. Tale compito è spesso ingrato in quanto il privato, attraverso il suo capomastro, tende a sottrarsi alle prescrizioni facendo appello a motivazioni di carattere per lo più economico. Le prescrizioni del tecnico pubblico, basate sui nuovi criteri di modernità, prendono a modello indiscusso le scelte effettuate a Milano. L’adeguamento all’uso moderno o alla milanese, prescritto per il rilascio della licenza, comporta la sistematica sostituzione del sistema di aperture, di botteghe e portoni, con l’adozione di serrande che si aprono verso l’interno e con insegne non più appese, affermando che “il buon gusto non può più tollerare il barbaro sistema”, ma dipinte sopra l’apertura. Se sono documentati alcuni casi di concessione in deroga a tale criterio di modernità, soprattutto in strade poco frequentate, più rigido è invece il rispetto di prescrizioni tendenti a dare un ordine all’edificio. In applicazione all’articolo del Regolamento che proibisce qualunque tipo di sporgenza nella facciata “oltre le linee naturali delle strade” (art. 16), arrivando a proibire anche la manutenzione di balconi esistenti119, si prescrive la sostituzione sistematica della gronda sporgente a travi in vista con un cornicione anche nei casi di muro di cinta concesso in sostituzione di un edificio. Il tecnico pubblico arriva a fornire sagome in “giusta scala” per impedire che si realizzino di “capricciosa sagoma e di mal calcolate membrature”: il cornicione è infatti costituito da diverse parti in relazione all’altezza della casa. Le “disposizioni edilizie adottate in questa città, ad altri prescritte e con buon esisto eseguite a lustro della stessa, in specie quella di sostituire una cornice alla detestata grondaia,” non da tutti vengono rispettate provocando lo sdegno dell’ing. Pavesi che chiede al podestà di non transigere solo perché è il marchese Paveri Fontana perché, in caso contrario, non avrebbe avuto “più coraggio di fare prescrizioni consimili”120. La finalità dell’intervento è “la solidità e decenza” “a termini dell’esatta Architettura” ricordando che l’edificio deve essere “gradevole alla vista”, “con una regolare distribuzione voluta dall’arte e dai principi architettonici” mediante aperture in numero e proporzione in relazione alla dimensione del fronte, al carattere dell’edificio e al livello di fabbrica con particolare attenzione al piano nobile. Il principio compositivo è quello modulare euritmico che prescrive “la giusta piombatura e proporzionata luce” di tutte le aperture. Più difficile invece l’adozione di un sistema moderno nella rete di smaltimento delle acque pluviali. Si decide infatti “di prescrivere a modo di consiglio“ che la “cornice sia munita della canala o navetta con un canone che diriga l’acqua a seconda della facciata che per un quarto sarà inestato nel muro, che le acque condotte dal canone possano venire sul marciapiede mediante una pietra solcata che la diriga sulla strada con canale verticali”121. I risultati raggiunti in alcuni casi presi ad esempio, come il palazzo Soprani in via Borghetto di fronte al Carmine, non sono facilmente applicabili in edifici come la casa di Nicola Mensi, in contrada Diritta 97-101, che nel 1823, ottiene da Carlo Tomba di porre ancora “i tubi all’uso antico”122.

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Il Regolamento affronta la disciplina relativa alla sostituzione di edifici in casi di precaria condizione statica situazione alla quale ci si appella anche quando la valutazione dei costi-benefici consiglia di chiedere la demolizione senza ricostruzione123. È possibile, in conclusione, poter individuare, nel decoro applicato alla scala urbana, l’emergere di un criterio selettivo. Il rapporto con la storia del passato è infatti visto attraverso la città, che ne è l’incarnazione, e nella logica coerenza delle scelte formali sembra di sentir riecheggiare istanze del funzionalismo lodoliano. Il passato barocco è quindi disprezzato, mentre emerge una certa affinità culturale con il classicismo accademico124 e viene riconosciuta l’autorità indiscussa del Palladio125. Tale patrimonio legislativo confluisce, in età postunitaria, nelRegolamento del 1867126, che viene indicato come di Edilizia e Ornato, la cui applicazione è affidata all’Ufficio Tecnico affiancato dalla Commissione d’Ornato chiamata a risolvere particolari situazioni in deroga. L’attività di gestione della trasformazione urbana, sia nei confronti del pubblico che del privato, non conosce soluzioni di continuità come testimoniato dalle serie archivistiche delle concessioni edilizie127 e dell’Ufficio tecnico128.

Il fenomeno della riconversione edilizia è soprattutto quello della riconversione del patrimonio edilizio religioso dopo il processo di soppressione degli ordini religiosi che, tra il 1805 e 1810, ha determinato la scomparsa di 41 dei 45 ordini religiosi presenti a Piacenza. Nel 1811 viene predisposto un dossier contenente una serie di proposte per il riuso di tale patrimonio, che comprende però solo nove casi rispetto ai ventinove soppressi l’anno precedente, indicando differenti tipologie di intervento riassumibili nella riconversione (militare, manifatturiera, assistenza pubblica), che prevede un differente uso delle chiese rispetto ai conventi, o nella totale distruzione in ossequio ad un nuovo criterio di decoro urbano e soprattutto per esigenze viabilistiche129. Il fenomeno della privatizzazione aveva già interessato i conventi di piccole dimensioni, per lo più destinati al mercato immobiliare; mentre rimanevano a disposizione del governo S. Franca, S. Raimondo, S. Giovanni in Canale, i conventi della Madonna di Campagna e della Madonna di Piazza, l’Annunciata, S. Bartolomeo, S. Sisto, S. Siro. Se nel caso degli ambienti conventuali demaniali è documentato il frequente riuso per le pressanti esigenze militari130, non ha invece molta fortuna il tentativo di destinare i locali a edifici scolastici, come avvenuto per breve tempo in S. Agostino (il collegio Gerardin), mentre non ha avuto seguito il progetto di trasformazione in scuola elementare dell’ex convento di S. Franca nel 1822131. Sorte meno gloriosa è quella che spetta ai relativi edifici religiosi e a quella parte del patrimonio alienata a privati132 che, quando risulta economicamente svantaggiosa la riconversione, come quella attuata nel convento di S. Maria di Piazza trasformato in botteghe dal 1824133, viene votata all’abbandono o alla demolizione per recupero di materiale. Il complesso di S. Bartolomeo vecchio è progressivamente demolito (dal 1822) per trasformarlo in fornace di mattoni134, il complesso di S. Siro, a partire dalla chiesa nel 1830, viene quasi totalmente demolito135, la chiesa “alias di Loreto” si concede al proprietario di demolirla (nel 1833) “avendo bisogno del materiale di muratore”136; mentre il complesso della Maddalena, che dal 1821 viene destinato ad orto botanico, viene demolito tra il 1847 e il 1848 per dare lavoro alla manodopera e in seguito collocarvi il foro Boario137 per ordine del Governo provvisorio del 1848138. La stessa sorte avrebbe dovuto toccare anche a S. Agostino, divenuta di proprietà privata, che viene poi riscattato dal Comune139. Altra tipologia di riconversione, documentata nel corso del XIX secolo, è stata quella di destinare gli edifici religiosi a luoghi ricreativi e culturali: il Teatro Romagnosi nell’ex chiesa di S. Francesco di Paola (nel 1866)140, il Teatro Nazionale di S. Franca nella ex chiesa (1861)141 trasformata poi radicalmente in Teatro dei Filodrammatici (1908)142; mentre divengono cinematografi anche due chiese parrocchiali soppresse: la chiesa di S. Matteo (1903) e quella di S. Ulderico (1906). Maggior fortuna ha avuto la destinazione militare. Tra il 1815 e il 1816 “Visto il decreto Imperiale 23 aprile 1810 col quale viene in massima stabilito che saranno dati in piena proprietà alle città nelle quali sono situate le caserme ospedali manutenzioni, corpi di guardia e altri fabbricati militari. Visto lo speciale decreto 25 agosto dello stesso anni che in eseguimento del decreto 2 aprile con quale viene stabilita la forza della guarnigione di Piacenza in 1300 dei quali 500 di cavalleria, 2000 di fanteria e 800 cavalli” passano dal governo al comune “gli ex conventi della Maddalena, delle Ritirate, dei Carmelitani (non compresa la chiesa e sue pertinenze) e di S. Francesco di Paola”143.

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1 La storia urbana è nata nel XX secolo dall’applicazione del metodo storiografico delle Annales. Tale approccio metodologico e disciplinare è alla base dei contributi forniti dagli studiosi dell’AISU (Associazione Italiana di Storia Urbana) fondata nel 2001. 2 Poli 2009, pp. 97-106. 3 Tale approccio metodologico è stato applicato nell’attività di ricerca del Laboratorio costruzione storica della città, diretto dal prof. Gian Piero Calza, presso il Politecnico di Milano (sede di Piacenza). 4 Spagnoli 2008; Spagnoli 2012. 5 Calabi 2004, p. 3. 6 Guidoni, Marino 1982, pp. 3-4. Si veda anche: De Seta, Le Goff 1989; Poli in corso di stampa 7 La ricostruzione della storia urbana della città di Piacenza è oggetto di studio, da parte di chi scrive, alla scala del lungo e medio periodo, attraverso l’individuazione delle soglie storiche significative, nell’ambito delle monografie già pubblicate e in corso di studio per la casa editrice Tip. Le. Co. 8 Poggiali, VI, pp. 151-3 9 Boselli II, pp. 154-5. 10 Archivio di Stato di Parma (ASPr), gridario, 7 luglio 1525: obbligo alla residenza in città per sei mesi all’anno per chi ha la cittadinanza. Ripubblicata il 13 marzo 1545. Adorni, 1982, pp. 49-50. 11 La legislazione statutaria del 1323, data del più antico statuto, è codificata nel 1391. Gli statuti sono pubblicati a stampa nel 1560. Statuta et decreta antiqua civitatis Placentiae 1560. L’edizione del 1391 è stata pubblicata da Bonora 1860. Libro IV, rubrr. 21, 60, 61. Libro VI, rubr. 137. 12 Archivio di Stato di Milano (ASMi), registri Panigarola, 17 luglio 1493. Romby, 1989, pp. 13-14, 28. 13 Archivio di Stato di Piacenza (ASPc), lettere di Governo, reg. I. 17 giugno 1493, f. 130. Il registro I è andato perso, ma il testo del documento si trova anche in: ASPr, gridario, vol. IV. ASPc, lettere di Governo, reg. K., 26 marzo 1507, f. 109. 14 ASPr, gridario, vol. 5, ASPc, gridario giudiziario, vol. XIV, atto n. 4, Biblioteca Comunale di Piacenza (BCPc), MS Comunali, (Gorla), 474, n. 260. Adorni 1982, p. 46 15 F. De Marchi, Dell’architettura militare, Brescia, 1599. Libro I, cap. XXXI. 16 ASPc, gridario, 7 luglio 1525: Stabilisce il valore della casa di almeno 200 scudi e l’obbligo di residenza per almeno 6 mesi all’anno per chi ha la cittadinanza piacentina Viene riconfermato il 13 marzo 1545. Adorni, 1982, pp. 49-50. 17 ASPr, gridario, vol. 6, n.128; BCPc Bancone Pallastrelli, cartella diplomi, privilegi…, cit. in Adorni 1982, pp. 50-51. 18 ASPc, congregazione sopra l’ornato, b. 2. 7 marzo 1582. 19 ASPr, gridario, vol. 6, n.128. BCPc Bancone Pallastrelli, cartella diplomi, privilegi… citato in Adorni 1982, pp. 50-51 20 Poli 2011, pp. 8-38. 21 ASPr, gridario, 7 luglio 1525: obbligo alla residenza in città per chi ha la cittadinanza piacentina. Stabilisce il valore della casa di almeno 200 scudi e l’obbligo di residenza per almeno 6 mesi all’anno. Viene riconfermato il 13 marzo 1545. Adorni, 1982, pp. 49-50. 22 ASPr, gridario, vol. 6, n.110. BCPc, Ms Comunali (Gorla), 474, n. 266; Adorni 1982, pp. 30-34, 64-67 23 Guidoni, Marino 1982, pp. 306-307. 24 ASPr, mappe e disegni, vol. 21, 1. Adorni 1982, p. 134. ante 1545. La datazione dipende dal fatto che compare ancora il castello di S. Antonino (distrutto nel 1545). 25 Pianta di Piacenza del 1547 ca. pubblicata da E. Nasalli Rocca nel volume dedicato al Palazzo Farnese del 1965.; Adorni 1982, p. 136. 26 S. Maria di Betlemme (1180) collocata nell’area dell’attuale chiesa di S. Anna in via Scalabrini, S. Maria di Galilea (1222) nell’area dell’attuale Arsenale militare, S. Maria di Nazareth (1229) nell’area dell’attuale Ospedale militare e S. Maria di Gerusalemme (1229) nell’area dell’attuale complesso conventuale delle Teresiane sullo Stradone Farnese; Poli 2005, pp. 5-6; Poli 2015, p. 6, fig. 1. 27 ASPr, gridario, vol. 6, n.110. BCPc, Ms Comunali (Gorla), 474, n. 266. Adorni 1982, pp. 31-32, 64-67 28 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 21 dicembre 1556. Adorni 1982, pp. 54-55. 29 Il braccio da muro piacentino = m 0,4696 30 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 18 ottobre 1543 cit. in Adorni 1982, pp. 64-67. 31 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 26 gennaio 1548 cit. in Adorni 1982, pp. 67-68. 32 Poli 2011, pp. 21-22. 33 La strada, documentata ancora nelle planimetrie urbane del XIX secolo, è oggi ricostruibile solo nei tratti terminali: la via Valverde e l’accesso carraio da via Campagna di fianco alla chiesa di S. Giuseppe all’Ospedale. Poli 2015, p. 17. 34 ASPr, mappe e disegni, vol. 21, 1. Adorni 1982, p. 134. ante 1545. 35 ASPc, mappe e disegni, b. 5, n. 21. Continuazione dell’andamento del rivo Comune dalla Colonna alla città, Giovan Paolo Goffrini, 6 agosto 1820. Testimonia il prolungamento della via Giordani, antica strada del borgo di S. Antonino, nella “strada vecchia non usata” che si ricollega alla strada Podenzana e la “strada di Rivergaro” ideale prosecuzione della via S. Franca. 36 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 1 gennaio 1553. 37 ASPc, congregazione di politica et ornamento, 22 gennaio 1589, 14 aprile 1590. Adorni pp. 91-92. 38 Le strade S. Monaca e di Nazareth dette anche la Montagnola trasversali di via Benedettine da non confondersi con la via del Monte di Pietà. 39 ASPc, politica et ornamento, 3, 22 gennaio 1589, 14 aprile 1590, cit. in Adorni pp. 91-92. 40 ASPc, politica et ornamento. Dal 13 aprile 1547 al 29 luglio 1616 cit. in Adorni 1982, pp. 84-87. 41 ASPc, politica et ornamento, b. 1. Dal 17 febbraio 1548 al 20 febbraio 1548 cit. in Adorni 1982, pp. 83-84. 42 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 30 agosto 1548 cit. in Adorni 1982, p. 82. 43 Tracciata all’epoca di Pier Luigi, nel 1554 si deve ancora decidere se realizzarla o restituire i soldi esatti. ASPc, politica et ornamento, b.1. 2 dicembre 1554. Nel 1588 si ordina ad un privato che non aveva ancora arretrato la sua casa di farlo entro quattro giorni. ASPc, congregazione di politica et ornamento, b. 3. 26 luglio 1588. 44 ASPc, politica et ornamento, b. 1. Dal 1 giugno 1560 al 25 febbraio 1561 cit. in Adorni 1982, p. 88. 45 ASPc, politica et ornamento, b. 1. Dall’8 ottobre 1564 al 6 febbraio 1565 cit. in Adorni 1982, pp. 89-90. 46 ASPc, politica et ornamento, bb. 1-3. Dal 16 maggio 1564 al 9 marzo 1599 cit. in Adorni 1982, pp. 90-91. 47 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 23 dicembre 1557 cit. in Adorni 1982, p. 93. 48 ASPc, politica et ornamento, b. 3. 22 gennaio 1590 cit. in Adorni 1982, pp. 91-92. 49 ASPc, politica et ornamento, b. 1. 13 agosto 1555. 50 La strada è chiaramente visibile nei tratti progettati di collegamento a quelli già esistenti, che avrebbero previsto il collegamento tra via Prevostura e le mura della città, nella planimetria, databile al 1589, redatta da Alessandro Bolzoni. ASPr, mappe e disegni, vol. 21, 41 cit. in Adorni 1982, p. 141. 51 Adorni 1982, p. 38. 52 Nella planimetria, databile al 1589, redatta da Alessandro Bolzoni, è visibile un edificio all’angolo tra le due strade del quale si prevede la

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demolizione. LA mappa, dell’ASPr, mappe e disegni, vol. 21, 41 è stata pubblicata da Adorni 1982, p. 141. A questo intervento si dovrebbe riferire l’intervento sulla muraglia del palazzo Pallastrelli. ASPc, politica et ornamento, b. 3. 11 marzo 1581, Poli 2011, p. 136. 53 La mappa, dell’ASPr, governo farnesiano, fabbriche ducali e fortificazioni, b. 6 è pubblicata da Adorni 1982, p. 143. 54 Si vedano, a questo proposito, i documenti pubblicati da Adorni 1982, pp. 79-93. ASPc, congregazione di politica et ornamento, strade aperte o rettificate dal 1544 al 1590. 55 Boselli III, p. 127. 56 ASPc, politica et ornamento, b. 4. 3 agosto 1601 cit da Pigozzi in Spigaroli 1999, pp. 138-140. 57 Piva 1994, pp. 243-257; Poli 2011, pp. 30-31. 58 Locati 1564. 59 Campi I, pp. 53-54. 60 Ponzini 1999, p. 245. 61 Poli 2011, pp. 30-31, 166-174, 178-183. 62 ASPr, epistolario scelto, architetti, 4 agosto 1559. 63 Poggiali IX, p. 98. 64 Campi I, p. 259. La chiesa di S. Gregorio si trovava in piazza Cittadella angolo via Gregorio X e forse di fronte era la chiesa di S. Fruttuoso. 65 ASPc, politica et ornamento, b. 2. 20 maggio, 11 agosto, 30 settembre 1595. 66 ASPc, politica et ornamento, b.4. 14 febbraio 1601. 67 ASPc, politica et ornamento, b. 4. 30 luglio 1600: pagamento a Bolzoni per le stime e il disegno della strada. 68 Poli 2011, p. 31. 69 ASPc, politica et ornamento, b.1. 15 ottobre 1553. 70 ASPc, politica et ornamento, b. 23. 10, 15 giugno 1760. Si ricorda la collocazione nel 1739 lungo lo stradone Farnese contemporaneamente alla selciatura. ASPc, politica et ornamento, b. 22. Cedolone per la spesa per il salegato nel stradone di S. Agostino tra 1739 e 1740. 71 Si pensi ai “colonelli” a difesa dei marciapiedi dei complessi conventuali di S. Franca (ASPr, mappe e disegni, vol. 22, n. 66) e dell’Annunciata (ASPr, mappe e disegni, vol. 22, n. 74) 72 Di grande interesse, a questo proposito, due documenti grafici che presentano, tra XVII e XVIII secolo, alcuni tratti di cortine stradali nella zona delle attuali via Campagna e via Abbondanza. ASPc, mappe e disegni, Pubblicata in Adorni p. 144. Strada che da Campagna va a S.Sepolcro, II metà XVIII secolo. BCPc, mappe e disegni, cassetto 8, n. 7, in Poli 1998 fig. 2. 73 ASPc, politica et ornamento, b. 17. Anno 1689. 74 ASPc, politica et ornamento, b. 18. 15 settembre 1707. 75 Poli 1997, pp. 35-49. 76 ASPc, politica et ornamento, b. 19. 1726: ricorso delle monache dello Spirito Santo contro il capitano Lanza. 77 BCPc, Ms Pallastrelli n. 263, Indice di tutte le parocchie e di tutte le case appartenenti alle rispettive parocchie di questa città di Piacenza, 1737. Il documento è ora disponibile anche in edizione anastatica curata da Giorgio Fiori 2005. Il manoscritto è stato oggetto di una serie di indagini da parte di chi scrive, Poli 1997a, Poli 1998, Poli 1999a. 78 Poli 1997a, pp. 113-142. Poli 1998, pp. 75-86. Còccioli Mastroviti 2009, pp. 336-364. Si vedano anche i risultati dell’indagine condotta nel vicino contesto cremonese da Jean 2000. 79 Poli 1998, pp. 75-86; Poli 2015, pp. 20-26 80 Nel 1757 sono necessari restauri al tetto del teatro nel palazzo Grande (ASPc, lettere di Ministri e Magistrati Governativi (lettere), cas. 10), realizzati nel 1760 (ASPc, lettere, cas. 14) e proseguiti nel 1795 (ASPc, lettere, cas. 47), nel 1770 si parla di realizzare un “ingresso decente a codesto palazzo del governo con portone che corrisponda a quello esistente in facciata del palazzo chiudendo l’andito” verso il collegio dei Mercanti (ASPc, lettere, cas. C, nel 1788) si sostituisce anche l’arredamento del palazzo del Governo (ASPc, lettere, cas. 38) nel 1791 viene sistemato l’ufficio dell’uditore civile (ASPc, lettere, cas. 42). 81 Dovrebbe riferirsi proprio a questa serie di interventi precedenti alla realizzazione del palazzo del Governatore, la serie di planimetrie, firmate dal perito Giuseppe Razzetti, relative all’organizzazione della piazza dal punto di vista della collocazione dei banchi di mercato, ma anche del disegno della pavimentazione (ASPr, mappe e disegni, vol. 23, n. 3) che in altre planimetrie appare differente prevedendo una quadrettatura regolare e una stella al centro (ASPr, mappe e disegni, vol. 23, nn. 1,4), mentre altre planimetrie si riferiscono esclusivamente all’articolazione del palazzo Grande (ASPr, mappe e disegni, vol. 23, nn. 2, 10). 82 ASPr, Edilità dello Stato, b. 4, fasc. 7, sottofascicolo III cit. in Còccioli Mastroviti 1990. 83 Poli 1999, pp. 6-8. 84 È infatti datata 1782 la richiesta, da parte dei canonici di S. Antonino, per la demolizione di un edificio per la pesa del fieno a sinistra della chiesa documentata da uno scambio epistolare tra il governo di Parma e il governatore di Piacenza (ASPc, lettere. cas. 33. 12 novembre 1782.) ottenuta nel 1786 (ASPc, lettere, cas. 36. 16 giugno 1786), e da un supporto cartografico del 1759 nella quale è indicata non solo la pesa del fieno, ma anche l’angolo del palazzo poi Anguissola ancora proprietà del sig. Barbieri e il palazzo Landi Pietra poi sostituito dal teatro Municipale (ASPc, mappe e disegni, b. 10, 1. Anche in copia del 1862). 85 Còccioli Mastroviti in Spigaroli 1999, pp. 187-208. 86 È infatti datata 1782 la richiesta, da parte dei canonici di S.Antonino, per la demolizione di un edificio per la pesa del fieno a sinistra della chiesa documentata da uno scambio epistolare tra il governo di Parma e il governatore di Piacenza (ASPc, lettere. cas. 33. 12 novembre 1782.) ottenuta nel 1786 (ASPc, lettere, cas. 36. 16 giugno 1786), e da un supporto cartografico del 1759 nella quale è indicata non solo la pesa del fieno, ma anche l’angolo del palazzo poi Anguissola ancora proprietà del sig. Barbieri e il palazzo Landi Pietra poi sostituito dal teatro Municipale (ASPc, mappe e disegni, b. 10, 1. Anche in copia del 1862). 87 ASPr, Moreau de Saint Mery, b. 14-15, fasc. IV Edili e Ufficio della riparazione. Numerizzazione delle case di Piacenza. 88 ASPr, Moreau de Saint Mery, b.14-15, fasc. IV. Osservazioni al governatore di Piacenza di L. Tomba, ingegnere della Congregazione di polizia di Piacenza del 30 giugno 1803. 89 Marchesini 1986, pp. 43-68. 90 Còccioli Mastroviti 1990, p. 227. 91 Cornacchia 1853-4. 92 Decreto Sovrano e Regolamento per l’amministrazione delle Fabbriche, Acque e Strade e pel servigio degl’Ingegneri dello Stato, 25 aprile 1821, in: Raccolta generale..., anno 1821, Parma, Tipografia Ducale, 1822. 93 Poli 2000a, pp. 925-1004. 94 Molossi 1832-34, p. 365. 95 Buttafuoco 1842. 96 ASPc, ufficio tecnico, b. 28. 97 Migliorini 1997, p. 51. 98 Migliorini 1997, p. 53.

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99 Migliorini 1997, p. 52. 100 ASPc, ufficio tecnico, b. 58. 101 ASPc, ufficio tecnico, b. 29. Mappe e disegni, 2973. 102 La piazza del Duomo è interessata da un piano di riordino dal 1850 al 1880 nell’ambito del quale si inserisce la nuova facciata del palazzo vescovile (1859), cfr. Corso, Quagliaroli, in Spigaroli 1999, p. 245. Un ulteriore progetto inedito, rimasto sulla carta, prevedeva un allargamento della piazza mediante l’arretramento dei portici in prosecuzione della via Chiapponi e la realizzazione sul lato dell’isolato tra via Chiapponi e via Pace (1880). ASPc, mappe e disegni, 4229, 4233. 103 ASPc, ufficio tecnico, b. 58. Mappe e disegni, 872, 1365, 4494, 4570, 2610. 104 ASPc, mappe e disegni, 0844, 4742, 2646. 105 Spigaroli 1980; Corso, Quagliaroli, in Spigaroli 1999, p. 244, p. 583, ASPc, mappe e disegni, 2720, 0111. 106 ASPc, ufficio tecnico, b. 58. 107 Corso, Quagliaroli, in Spigaroli 1999, pp. 226, 243 108 1851-1909 distruzione della porta Fodesta e creazione del collegamento con il ponte sul Po. 1857 distruzione di un tratto delle mura per il collegamento alla stazione ferroviaria con la creazione della barriera daziaria detta porta Nuova davanti ai giardini Margherita. 1864- 1869 distruzione della porta S. Raimondo per la costruzione dell’Ospedale militare di via Palmerio e costruzione della barriera daziaria. 1871-1925 demolizione della porta S. Lazzaro e di un tratto della cortina verso via Roma per la costruzione della barriera daziaria e verso la stazione (attuale area Borgo Faxall). 1880 apertura della barriera daziaria a porta S. Antonio (barriera Torino). 109 ASPc, ufficio tecnico, bb. 5, 8, 26, 29, 34, 46, 58. 1860-1913 progetti di strade di circonvallazione interna di collegamento tra le barriere daziarie e la realizzazione di viali. ASPc, mappe e disegni, nn. 6032, 1444, 5923. 110 ASPc, Mappe e disegni, nn. 868, 5261. 111 ASPc, ufficio tecnico, b. 48. 5 febbraio 1870: progetto strada davanti all’ospedale da porta S. Raimondo a piazza delle Armi del Castello 1871 appalto lavori 112 ASPc, ufficio tecnico, b. 18, 1883 raccordo stradone castello con la nuova porta S. Antonio.Ibidem, b. 27, 1904 progetto di piano regolatore di allineamento dello stradone del castello fino alla cancellata del rione Piacentino. 113 ASPc, ufficio tecnico, b. 4. 11 maggio 1912: allineamento nuova strada tra stradone Castello e la strada dell’Ospedale militare. 114 Della Cella 1890, p. 99. 115 Il 28 giugno 1859 viene inaugurato il collegamento con Bologna, il 24 maggio 1860 il collegamento con Stradella e il 14 novembre 1861 il collegamento con Milano. 116 Si veda, a questo proposito, la creazione del sistema di cittadelle in età viscontea (di Fodesta, di Piazza e di S. Antonino) e di due porti sul Po (Darsena e Bergantino), Poli 2007, pp. 7-20. 117 ASPc, ufficio tecnico, b. 48. 118 Poli 2000, pp. 168-170. 119 Con decreto sovrano del 31 ottobre 1833, in deroga a quanto disposto dal Regolamento, si permette la costruzione di balconi o poggioli ad una altezza maggiore di 3,5 m e con sporgenza non superiore all’ammattonato del marciapiede. Raccolta generale delle leggi… 1833. 120 ASPc, concessioni edilizie, b. 1.18 luglio 1825: lettera dell’ing. Pavesi al podestà per inadempienza del marchese Paveri Fontana nell’esecuzione della sua casa “vicino a S. Eufemia”. 19 luglio: protesta del marchese per la sospensione dei lavori. 121 ASPc, concessioni edilizie, b. 1, 24 maggio 1825: prescrizioni dell’ing. Pavesi alla richiesta del 10 maggio presentata dal capo mastro Giuseppe Sartori per l’Albergo delle Tre Ganasce nell’omonima contrada, attuale via Legnano, al numero civico 4. 122 ASPc, concessioni edilizie, b. 1, 2 giugno 1823. 123 ASPc, concessioni edilizie, b. 2, 26 gennaio 1828: richiesta di demolire una casa presso porta Borghetto in quanto è possibile affittarla solo a “persone d’equivoca forma”. 124 ASPc, concessioni edilizie, b. 2, 15 giugno 1827: prescrizioni dell’ing. Pavesi alla richiesta del 4 giugno di intervento sulla facciata della chiesa di S.Maria dei Pagani. Consiglia di intonacare per esempio la chiesa di S. Maria dei Pagani semplificandola e rendendola quindi più grandiosa 125 ASPc, concessioni edilizie, b. 2.,25 settembre 1826: richiesta di sistemazione della facciata della chiesa di S.Martino in Foro. 28 settembre 1826: risposta alla commissione nominata 126 Regolamento di edilizia e di ornato colle modificazioni prescritte dalla deputazione provinciale con deliberazione 25 maggio 1867 e dal Ministero dei Lavori Pubblici con decreto 14 agosto 1867, Municipio di Piacenza, Piacenza, Tipografia Giuseppe Tedeschi, 1867. 127 La serie Concessioni edilizie, depositata presso l’Archivio di Stato, è costituita da 57 buste che raccolgono documentazione dal 1810 al 1905. La documentazione successiva, che si trovava presso l’Archivio Storico del Comune, è attualmente presso L’archivio dell’ufficio Urbanistica del Comune. 128 La serie Ufficio tecnico, depositata presso l’Archivio di Stato, è costituita da 78 buste che raccolgono documentazione dal 1801 al 1937. 129 Visioli 1997, pp. 257-264. Poli 2010, pp. 3-22. Poli 2015a. 130 La trasformazione del patrimonio demaniale in comunale e la destinazione militare è ricostruibile mediante l’analisi della documentazione contenuta nell’Archivio di Stato di Piacenza, Edifici pubblici e monumenti cittadini. 131 ASPc, edifici pubblici e monumenti cittadini, 12 marzo 1822, Pianta dimostrativa dell’ex convento di S. Franca che deve divenire scuola elementare, firmata da Lotario Tomba ing. del comune. 132 Si ricorda il caso della ex chiesa di S. Maria in Soffredo “ridotta ad uso abitazione” accorpandola alla canonica: ASPc, fabbriche, acque e strade, concessioni edilizie, b. 1, 21 agosto 1823. 133 ASPc, fabbriche, acque e strade, concessioni edilizie, b. 1. 1824. 134 ASPc, fabbriche, acque e strade, concessioni edilizie, bb. 1-2; ASPc, mappe e disegni, n. 1946, Tipo del locale denominato San Bartolomeo vecchio di Piacenza con fabbricati e case vicine ove il sig. Peretti vorrebbe costruire una fornace, ing. Francesco Perotta, 1825. 135 ASPc, fabbriche, acque e strade, concessioni edilizie, b. 3, 18 aprile 1830, 1 aprile 1831, richiesta di Bartolomeo Rossi “di demolire la parte di chiesa di S.Siro ancora esistente”. 136 ASPc, fabbriche, acque e strade, concessioni edilizie, b. 3, 12 e 31 dicembre 1833: richiesta e licenza di demolizione della chiesa alias di Loreto. Còccioli Mastroviti 1990, pp. 193-236. 137 ASPc, edifici pubblici e monumenti cittadini, 1821-1834, ex complesso della Maddalena trasformato in orto botanico; 1841-1920, Foro Boario per mercati e fiere nell’ex convento della Maddalena demolito nel 1847-48 (l’area, poi destinata a caserma dei Vigili del Fuoco, è ora occupata dal liceo Colombini). 138 Raccolta dei decreti, risoluzioni e determinazioni emanati nel ducato di Piacenza, tomo unico, Piacenza, Tip. Antonio del Majno, 1848, n. 13, 27 marzo. La chiesa e il monastero della Maddalena, fondati nel 1337 dalle suore francescane dette le Repentite, sono soppressi nel 1810. La demolizione del complesso lascia posto alla colombaia militare che diventata poi caserma dei Vigili del Fuoco a sua volta distrutta nel 1955 per la costruzione dell’istituto magistrale “Colombini”.

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139 ASPc, edifici pubblici e monumenti cittadini, 1847-48, progettata demolizione di S. Agostino: 23 marzo 1848, sospese le demolizioni iniziate; 18 agosto 1847, intimazione al proprietario Domenico Baldini di sospendere fino alla concessione del permesso. 140 ASPc, edifici pubblici e monumenti cittadini, 9 dicembre 1866, richiesta di Chicelero Francesco, proprietario del nuovo Teatro Romagnosi, che ha preso in affitto una sala e diversi locali al piano superiore nella casa di fronte al teatro che chiede di poter aggiungere al teatro stesso come caffè e ristorante (“si rende indispensabile la costruzione di una galleria pensile che attraversa la strada di S. Francesco di Paola”); 17 dicembre, assenso di massima della commissione di ornato. 141 ASPc, edifici pubblici e monumenti cittadini, 1861-1873, cancellata di fronte al Teatro Nazionale di S. Franca: 29 febbraio 1861, richiesta di Carlo Caracciolo appaltatore per teatro diurno e notturno attiguo alla caserma di S. Franca; 26 marzo 1861, calcolo del valore del materiale da demolirsi e delle spese di demolizione. 142 Poli 2004, pp. 27, 126. 143 ASPc, edifici pubblici e monumenti cittadini, 1815-1816 ex conventi e chiese ceduti al comune dal Governo.

Planimetria della chiesa e del convento di San Raimondo con parte dello stradone Farnese , secolo XVIII (Parma, Archivio di Stato)

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Planimetria della città di Piacenza con gli isolati nei quali ricadono i palazzi del Premio Restauro 2006-2015

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Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 per il restauro del patrimonio monumentale piacentino

Palazzi, chiese, complessi conventuali vettori trasformatori dell’impianto urbano di Piacenza

Luciano Serchia e Anna Còccioli Mastroviti

Palazzo Anguissola di Grazzano (2006) Palazzo Ghizzoni Nasalli (2007) Palazzo Paveri Fontana, Castel San Giovanni (2008) Rocca e villa Anguissola Scotti, Agazzano (2009) Chiesa dei Teatini di San Vincenzo (2010) Palazzo Mischi (2011) Palazzo Rocci Nicelli (2012) Palazzo Chiapponi (2013) Palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio (2014) Palazzo Cigala Fulgosi (2015)

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TAV. 5 Lo sviluppo urbano dello stradone Farnese

Palazzi Chiese e conventi

1. Palazzo Salvatico (XVIII sec.) 1. Le Teresiane (XVII sec.) 2. Palazzo Anguissola di Podenzano (XVIII sec.) 2. Cappuccini (XV sec.) 3. Palazzo Pallavicino (XVI sec.) 3. S. Bartolomeo Vecchio (XVI sec.) 4. Palazzo Landi di Chiavenna (XVIII sec.) 4. S. Agostino (XVIII sec.) 5. Palazzo Scotti di Sarmato (fine XVIII sec.) 8. S. Chiara (XVII sec.) 9. Le Convertite (XVI sec.) 11. S. Siro (XVI sec.) 12. S. Raimondo (XVI-XVIII sec.)

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83 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Palazzo Anguissola di Podenzano sullo stradone Farnese

Palazzo Salvatico sullo stradone Farnese

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IL SISTEMA URBANO DELLO STRADONE FARNESE DAL CINQUECENTO ALL’OTTOCENTO Luciano Serchia, Anna Còccioli Mastroviti

In qualunque modo si voglia giudicare la nuova strada voluta dal cardinal legato Uberto Gambara nel 1543 lungo il vecchio tracciato di via S. Bernardino, nel settore sud della città, è piuttosto evidente che essa rappresenta un momento di rottura nel processo trasformativo dell’impianto urbano di Piacenza, in una fase in cui si affacciavano all’orizzonte nuovi scenari politici che avrebbero determinato un diverso modo di amministrare il potere delle istituzioni cittadine e conseguentemente una diversa visione nella pianificazione delle attività edilizie, da sempre in mano alle grandi famiglie nobiliari piacentine, proprietarie di possedimenti immobiliari e fondiari, urbani ed extraurbani. Se a Piacenza, già alla fine del Quattrocento-inizio del Cinquecento, le trasformazioni degli isolati medievali erano essenzialmente affidate ai sempre più frequenti interventi di accorpamento del frammentato tessuto insediativo degli isolati medievali per fare posto ai grandi palazzi nobiliari, ai conventi e alle chiese, la costruzione dello stradone Farnese determinò il primo grande momento di respiro urbano regolamentato dalla Commissione di politica e ornamento istituita dallo stesso cardinale Gambara e confermata due anni più tardi da Pier Luigi Farnese, primo duca della dinastia. Gli obiettivi politici del duca s’infransero contro le resistenze del ceto nobiliare, che mal digeriva i suoi atteggiamenti dispotici, e contro le sue stesse contraddittorie decisioni strategiche e militari che impedirono il completamento del tratto più occidentale del nuovo tracciato stradale. Tuttavia, non vi è dubbio che se il suo agire politico avesse avuto più fortuna, Piacenza sarebbe divenuta una città di palazzi affacciati su belle strade, alla stessa stregua di alcune grandi città del tardo Rinascimento italiano. Sullo stradone Farnese insistevano ben nove complessi conventuali e precisamente da est verso ovest: le Teresiane (1690), le Cappuccine (1614), i Cappuccini di S. Bernardino (1470; XVI secolo), le monache domenicane di S. Bartolomeo vecchio (post 1505), le monache Francescane convertite (1573), i canonici Lateranensi di S. Agostino (1570), S. Siro (1629), le monache francescane di S. Chiara (1605) e S. Raimondo (XVII - XVIII secolo). Oltre a questi importanti complessi religiosi, sullo stradone insistono anche alcune grandi dimore nobiliari. Iniziando da est s’incontrano: il palazzo Dal Verme (XV- XVIII secolo) (ora della Congregazione delle Figlie di S. Anna), sulla sinistra; palazzo Landi di Chiavenna (inizio XVIII secolo), sulla destra; palazzo Salvatico (XVII secolo), sulla sinistra in angolo a via Giordani e, a seguire, i palazzi Anguissola di Podenzano (fine XVII secolo), Pallavicino (XVI secolo); subito dopo l’incrocio con via S. Franca, il palazzo Barattieri poi Fantoni (XVII secolo), sulla sinistra. Tutti i complessi conventuali furono rilevati e rappresentati in pianta intorno al 1806 in occasione del censimento avviato dal governatore Moreau de Saint Méry, all’epoca governatore di Parma e Piacenza. Queste piante sono state ricomposte all’interno della mappa complessiva della città (Tav. 3), elaborata dall’architetto Claudio Maccagni sulla base dell’impianto catastale dell’età luigina e nel particolare planimetrico dello stradone Farnese elaborato dallo stesso Maccagni (Tav. 5). Il complesso delle Teresiane sorgeva all’inizio dello stradone, nel lato di sud est, e occupava una vasta area che si estendeva fino ai “rampari” delle mura farnesiane. Il complesso era contornato da un muro confinante sui lati est e sud con i “rampari”, sul lato ovest con la strada dalla Corniana (l’attuale ultimo tratto di via F. Torta) e a nord con lo stradone Farnese. La “strada della Corniana” collegava la città alla cascina oggi “Corneliana” che preesisteva alle stesse mura. L’Ordine delle Carmelitane Scalze, autorizzato con breve di papa Clemente X, fu introdotto a Piacenza dal vescovo Giuseppe Zandemaria (1673). Il cantiere del convento, sostenuto da cospicue donazioni come quella di Eleonora d’Este1, fu avviato nel 1684, e diretto dall’architetto piacentino Paolo Cerri (1635-1700). Al primo cantiere, “in cappo allo Stradone”2, seguì quello della chiesa (1690), diretto dallo stesso Paolo Cerri fino alla morte, nel 1700, allorché gli subentrò il figlio Ignazio3. Il complesso conventuale fu soppresso una prima volta in età napoleonica (1810), poi ristabilito (1835), quindi nuovamente soppresso nel 1866. In seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale (1943 e 1945), subì gravi danni e fu completamente demolito nel 19624. L’area di risulta fu in seguito occupata dagli attuali condomini. Nella mappa del 1806 compaiono una chiesa doppia, una grande area ortiva, un frutteto, due prativi e numerosi ambienti. Chiesa doppia, l’una riservata alle monache di clausura, ricavata dietro il vano presbiteriale, l’altra ai fedeli5. I fabbricati conventuali occupavano in realtà meno di un quarto dell’intera superficie del perimetro e uno stretto e lungo fabbricato del complesso lungo il quale correva una strada interna marginava a nord la zona destinata a prato e a frutteto più prossima ai rampari. La chiesa delle Teresiane6, unica parte superstite del complesso conventuale, con pianta a croce greca, due cappelle simmetriche corrispondenti ai bracci della croce, ha la facciata in fregio allo stradone Farnese, come la chiesa di Santa Chiara, situata alla fine dello stesso asse stradale e sul medesimo versante sud. Sul versante di destra dello stradone Farnese, sorge, ampiamente trasformato, l’antico complesso delle

85 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 monache Cappuccine che lo hanno posseduto fino al 1810. Il complesso, costituito dalla chiesa, dedicata a S. Carlo, e dal convento, risale al 16147. Nel 1729 fu ricostruita la sola chiesa, poi chiusa al culto in età napoleonica (1810), e riaperta nel 1893, in concomitanza con il rifacimento della sola facciata. Il convento subì varie trasformazioni. Dopo il 1867 fu adattato per il Seminario; nel 1894 fu sottoposto ad ulteriori rifacimenti e modifiche; nel 1895 si attuarono altri interventi per ospitare l’istituto C. Colombo degli Scalabriniani nella manica prospiciente via Torta, in angolo con lo stradone Farnese. Nella pianta del 1806 il complesso risulta costituito da due chiostri colonnati: il primo, prossimo alla chiesa, di forma rettangolare allungata, e il secondo, situato vicino allo stradone Farnese, di forma quasi quadrata. Inoltre, un’ampia area ortiva, delimitata da un recinto murario, si affacciava sull’attuale cantone Caccialupo, nella pianta del 1806 denominato “cantone del Cazzalovo”. La chiesa era e continua a essere preceduta da un “piazzale”, separato dalla via Francesco Torta (già strada delle Cappuccine) da un recinto murato; caratteristica questa che, come nelle chiese dei Cappuccini, di S. Raimondo e del Carmelo, consente ancora oggi di riconoscerne l’appartenenza ad un antico complesso conventuale, dove lo spazio della piazza, di fruizione pubblica, si compenetra con quello, a valenza sacra, del sagrato. Le origini dell’attuale insediamento conventuale dei Cappuccini, risalgono alla seconda metà del Quattrocento ad opera del terziario regolare Giacomo da Piacenza che nel 1482 ne fece dono a un ramo dei francescani Amadei, i quali vi rimasero fino alla soppressione dell’ordine, nel 1570, quindi subentrarono i Cappuccini che avviarono nuovi lavori. Tra il 1719 e il 1871 la chiesa, dedicata a S. Bernardino e in seguito anche a Santa Rita, fu più volte rimaneggiata fino ad assumere l’attuale moderno aspetto nel 1970-1971. Il convento fu soppresso una prima volta nel 1810 con i decreti napoleonici, e una seconda volta nel 1866 per volere del governo italiano. Entrambi i provvedimenti non ebbero tuttavia seguito. Dopo il 1945, quando la chiesa e il convento subirono gravi danni, s’intrapresero lavori di ristrutturazione e di ammodernamento e il complesso raggiunse la forma attuale. Nella pianta del 1806 la parte edificata del complesso occupava un tratto dello stradone Farnese compreso a est dalla strada della Corniana (attuale via F. Torta) e, a ovest, dall’attuale via Rosa Gattorno, realizzata negli anni 1950/60 sul tracciato del rivo San Savino che faceva da confine tra i conventi dei Cappuccini e di San Bartolomeo Vecchio. In una precedente pianta, forse del 1703, appare l’innesto dell’attuale via Gattorno con lo stradone Farnese e, sul lato destro, una parte della chiesa e del convento dei padri Cappuccini, sul lato sinistro, parte del muro di cinta che delimitava l’orto del convento delle monache Domenicane. Questo preziosa carta documenta in dettaglio l’ingresso laterale alla chiesa dei Cappuccini con l’antistante sagrato che, a quella data, risultava sopraelevato di otto gradini rispetto al piano dello stradone Farnese e delimitato da cinque “colonelli”. Lungo il limite sud del sagrato correva un muro che interrompeva il tratto di strada interposto tra i due conventi. Oltre questo sbarramento, sul lato del convento dei Cappuccini correva il rivo S. Savino che nella carta del 1703 appare scoperto solo per un breve tratto. Dunque, in questo documento la preesistente struttura architettonica del complesso dei Cappuccini risultava essere sopraelevata sia rispetto allo stradone Farnese, sia allo stradello laterale. Si deve inoltre far osservare che con la costruzione dello stradone non furono apportate modifiche sostanziali all’impianto del complesso conventuale, il quale mantenne l’ingresso sullo stradello laterale che s’innesta perpendicolarmente all’asse dello stesso stradone Farnese. Da qui, la singolare soluzione del sagrato della chiesa sopraelevato. Il monastero di S. Bartolomeo vecchio, che dipendeva dall’abbazia di S. Savino, fu probabilmente fondato da Pietro Vago nel 1312. La cronaca del Musso registra lo stato del monastero verso il 1430 “derelitto affatto e vuoto di persone, eccetto che dall’Abate, o Prior solo con un compagno, o servitore, e conseguentemente privo del debito culto, e honor di Dio”8. Nel 1505 passò alle monache Benedettine, quindi alla Domenicane che ricostruirono la chiesa intitolandola a S. Caterina, per poi ridedicarla a S. Bartolomeo. Tra il 1515 e il 1517 fu costruito il dormitorio da mastro Gherardo Dallavalle, situato su un lato del chiostro. Tra il 1553 e il 1556 la chiesa fu ricostruita da mastro Bartolomeo Magnani. Il monastero fu soppresso nel 1810, e venduto a privati. Chiesa e convento furono quindi demoliti e nel 1881 iniziò la costruzione di palazzo Barbiellini Amidei su parte dell’area del vecchio impianto conventuale9. Nella pianta del 1806 è rappresentata la chiesa doppia: quella pubblica, con accesso dallo stradone Farnese, e quella riservata alle monache con accesso dal cortile interno, entrambe ad aula unica rettangolare. Il convento presentava, a quell’epoca, un’alta densità di fabbricati delimitati sul lato est da un giardino, sul lato ovest da un’area ortiva, entrambi prospicenti lo stradone, sul lato di sud ovest da un’ampia area ortiva divisa dai fabbricati del complesso da un lungo porticato colonnato. Sul quadrante di sud est l’area prativa presentava invece una forma molto irregolare, probabile risultato di un processo di crescita delle “camere” conventuali la cui disposizione lascia presumere che nel convento fossero in vigore delle regole di tipo cenobitico, almeno fino all’inizio dell’Ottocento. L’area occupata da questo convento, pur di estensione inferiore rispetto a quella degli altri complessi conventuali attestati lungo lo stradone Farnese, era tuttavia densamente edificata e dotata di tutte le strutture accessorie di una piccola comunità (portineria, parlatori, capitolo, refettorio, cucina, dispensa, latrine, bugandaia, due legnaie, cantina, tinaro, casa del fattore).

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Subito dopo il convento di S. Bartolomeo vecchio e palazzo Dal Verme, sorgeva il monastero delle Convertite delle monache Agostiniane10. Il complesso, fondato nel 1573, fu soppresso nel 1810 e venduto a privati. Oggi è utilizzato per uffici e abitazioni. Nella mappa del 1806 l’impianto conventuale presenta caratteristiche distributive analoghe a quelle del vicino convento di S. Bartolomeo vecchio. La parte pubblica della chiesa doppia, aveva l’accesso sullo stradone; mentre alla parte riservata alle monache si accedeva dalla sagrestia e dal porticato che si affacciava su due cortili interni e vari ambienti con le stesse destinazioni d’uso. L’estensione dell’area occupata dal complesso è sicuramente la più piccola rispetto a tutti gli altri insediamenti conventuali presenti sullo stradone Farnese, sebbene dotata di quattro piccoli cortili, di un cortile rustico e di un’area ortiva di forma rettangolare allungata sul lato di sud est. La storia dell’antico complesso conventuale di S. Agostino è legata a quella dei Canonici Regolari Lateranensi che ebbero in Piacenza, soprattutto nei secoli XV e XVI, una ricca comunità sostenuta da cospicue risorse finanziarie. Il primitivo insediamento dei Canonici Lateranensi era nel monastero dei vallombrosani diS. Benedetto, poi incluso nel 1547 nella cittadella pentagonale del duca Pier Luigi Farnese11. La Magnifica Comunità di Piacenza offrì ai Canoni Lateranensi il monastero dei SS. Giovanni e Paolo, che sorgeva sullo stradone Farnese. Non contenti di quanto loro assegnato, i Canonici inoltrarono una supplica a papa Giulio III al fine di potere demolire le vecchie strutture e aprire il cantiere della nuova fabbrica, che intitolarono a S. Agostino. Dopo avere ottenuto l’assenso del papa (con breve del 29 aprile 1550), ed elaborato un apposito progetto, nel 1554 si diede avvio ai lavori per il monastero che si protrassero fino al 1573, quindi iniziò il cantiere della nuova chiesa. La cartografia dei successivi secoli XVII, XVIII e XIX rappresenta con chiarezza l’articolazione dell’intero complesso dei Canonici Lateranensi, all’interno del quale si individuano le aree cortilive, claustrali, ortive. Il primo chiostro, a partire dallo stradone Farnese, è caratterizzato da un’articolazione a loggiato tuscanico e trattamento delle superfici a ornato rustico. Il secondo chiostro è delimitato dalla loggia terrena con semicolonne di ordine tuscanico, mentre il piano superiore è caratterizzato da un ordine ionico. Nel terzo chiostro il loggiato terreno è di ordine tuscanico, con lesene; al piano superiore la loggia ha lesene di ordine ionico. Nel chiostro centrale quadrato, le facciate sono articolate da due ordini sovrapposti: dorico al piano terreno, ionico al piano superiore, in linea con il dettato della trattatistica e della tradizione vitruviana che ebbe largo successo nell’architettura del Rinascimento e, in particolare, nell’architettura post albertiana. Nel corso dei secoli successivi il monastero fu oggetto di minimi interventi, fra i quali la costruzione di una scala ellissoidale con gradini a incasso entro un vano con lanterna. Il Giornale Zanetti del 1737, così descriveva il monastero: “primo claustro camere sedici, camini otto ove alloggia una compagnia del reggimento Wachtendonk, camera una del portinaio. Nel corridore a terreno verso il giardino un piccolo appartamento consistente in una saletta con camino, una camera con arcova. Segue la camera del fuoco comune, seguono verso il giardino camere sette, camini quattro, segue verso mezzogiorno il refettorio, una cucina e dispensa. Verso sera un appartamento del padre abbate di Governo Chiappini, consistente in una sala con camino e camere due. Doppo una stanza del pane. Passando il cortile rustico vi sono li sotterranei capaci di cavalli ottanta circa. Una rimessa, una camera del cocchiere, scuderia del convento per otto cavalli, camera una rustica, ritornando allo stesso claustro, al camera della barberia. Dormitorio superiore salendo per la scala nobile verso il giardino e verso il primo claustro camere diciannove tutte abitate da Padri Religiosi, il noviziato da una parte e dall’altra sedici camere alla metà del detto dormitorio, andando verso sera camere diciotto in parte occupate da conversi et altri della famiglia. Nella loggia da mattina a sera la libreria vecchia et una camera, la libreria nuova e due camere del vestiario. Segue verso al chiesa camere due e l’archivio et un camerino ad uso della canzeleria del monistero, camini due. Nella facciata del Stradone camere sei, camini due, un picolo oratorio detta l’infermeria vecchia”. Nel suo complesso la struttura non ha subito manomissioni e alterazioni, almeno fino agli interventi ottocenteschi, allorché, in seguito alle soppressioni napoleoniche, anche il monastero di S. Agostino fu trasformato in caserma. La chiesa di S. Agostino, verosimilmente progettata nel 1550, ma costruita dopo il 1573 e consacrata nel 1579, sembra differenziarsi dalla tendenza all’epoca dominante nell’architettura ecclesiastica, che alla tradizionale suddivisione dello spazio in tre navate, andava sostituendo un unico grande spazio assembleare (chiesa del Gesù di Roma, S. Fedele di Milano, chiesa del Redentore di Venezia). L’impianto della chiesa è longitudinale a croce latina a cinque navate, con transetto sviluppato oltre il profilo delle navate laterali, con deambulatorio intorno alla zona presbiteriale. Non è ancora completamente risola la paternità progettuale dell’intero complesso “il più sontuoso e magnifico” nelle parole di Montaigne, che visita Piacenza il 24 ottobre 1581. Sul volgere del Settecento le facciate del monastero e della chiesa furono interessate da importanti lavori. La documentazione attesta che dopo il 1779 i Canonici provvidero al rifacimento, in marmi, della preesistente facciata in cotto. Per la facciata di S. Agostino fu indetto un concorso, che ebbe larga eco, e al quale parteciparono, fra gli altri, il ravennate Camillo Morigia, l’imolese Cosimo Morelli, Simone Cantoni ticinese e l’architetto locale Lotario Tomba, forse anche Francesco Milizia, il cui nome è menzionato in un manoscritto

87 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 della Biblioteca di Forlì. Camillo Morigia, vincitore del concorso, elaborò due versioni del progetto. La facciata realizzata è scompartita da quattro colonne ioniche di ordine gigante, su alti plinti, ed è coronata da un timpano al centro dal quale due monumentali angeli reggono l’emblema dell’Ordine dei Canonici di S. Agostino. Le quattro colonne ioniche inquadrano tre portali arcuati: entro la lunetta di quello centrale, molto più alto dei due laterali, s’inserisce il busto di S. Agostino affiancato da due angeli. Lo schema compositivo della facciata richiama quello che L. Battista Alberti adottò nel Tempio Malatestiano di (1452-1460), ma rispetto alla soluzione albertiana, dove i tre archi rincassati sono poco scalati, quella della chiesa piacentina rimanda più direttamente all’arco di trionfo romano. La facciata fu eretta fra il 1785 e il 1792; pochi anni dopo, nel 1798, i Canonici Lateranensi furono soppressi e la chiesa fu destinata a magazzino militare nel 1801. Intorno al 1816 l’ala sud del monastero fu adibita a educandato femminile (Collegio di S. Agostino), e l’ala nord utilizzata come distilleria. L’intero complesso fu poi ceduto dal demanio all’Ospedale di Parma che nel 1827 lo alienò a certi Mulazzi di Lodi. Il progetto dei nuovi acquirenti prevedeva la demolizione dell’intero edificio, ma una società costituita da nobili e da cittadini piacentini, guidati dal conte Luigi Anguissola Scotti, riscattò la proprietà dell’intero complesso nel 1828, divisa poi nel 1829 tra gli Anguissola Scotti e il Comune di Piacenza. Nel 1860 la chiesa e il monastero furono donati allo Stato; nel 1863 il convento fu acquisito dal Comune di Piacenza e nel 1869 trasformato in caserma. L’ala sud dell’ex convento fu distrutta nel 1945 dai bombardamenti, con la conseguente perdita dell’antico refettorio nel quale si trovava l’affresco del pittore milanese Gian Paolo Lomazzo (1567). In seguito ricostruita in forme simili alla struttura preesistente ma con l’aggiunta di un piano, fu occupata dagli alloggiamenti militari sino al 1993 circa, quando era sede del Distretto Militare di Leva, poi trasferito a Bologna. Le caratteristiche architettoniche e monumentali del complesso emergono per importanza su tutte le altre costruzioni conventuali situate sullo stradone Farnese, potendo ben confrontarsi su scala urbana con l’opera di Alessio Tramello nel Santo Sepolcro. La presenza di una comunità monastica organizzata all’interno di un vasto impianto non poteva non disporre di una fonte di alimentazione idrica autonoma. Due distinte mappe, rispettivamente di Giuseppe Razzetti del 1766 e di Francesco Sartorio del 1776 raffigurano il canale che, dopo avere attraversato i rampari di S. Agostino, entrava nell’area ortiva sud ovest del convento, prossima alla strada che dallo stradone conduceva alle mura (nell’impianto catastale di epoca luigina denominata strada di S. Agostino, attuale via Giordani)12. In entrambe le piante, il canale, prima di entrare nel recinto murario del convento, si divarica in due distinti rami, uno dei quali adduceva acqua al convento di S. Agostino (proseguendo a sud di sant’Antonino, poi a ovest del Duomo e nei pressi di Santa Maria dell’Abbondanza, si univa al rio San Savino e insieme sfociavano nel canale Fodesta) e l’altro a quello del vicino complesso di S. Siro. Va però precisato che nelle due piante l’andamento del canale segue un percorso diverso ed è indicato come “rivo S. Agostino” in quella del 1766 e come “canale del filatoio”13 in quella del 1776 e inoltre in questa seconda pianta il tracciato del canale lambisce il locale della bugandaia che notoriamente richiedeva una grande quantità di acqua pulita. Notizie certe sulla chiesa di S. Siro risalgono al 1056 quando il vescovo Dionigi la ottenne in uso dai canonici di S. Antonino per adibirla a monastero femminile. Fu probabilmente in quell’occasione che si ricostruì la chiesa sotto la regola di S. Benedetto14. Il complesso monastico fu ristrutturato intorno alla metà del Cinquecento, sembra con l’impiego di materiale proveniente dalla demolizione della chiesa e del monastero della Maddalena, che sorgevano in via Beverora, angolo via Maddalena. La chiesa e il convento di S. Siro furono integralmente ricostruiti nel 1629 per volontà del conte Orazio Anguissola. Il monastero fu soppresso nel 1810 e i fabbricati acquistati dall’impresario Bartolomeo Rossi che procedette alla demolizione della chiesa e di parte degli edifici conventuali, riutilizzando il materiale di risulta per nuove costruzioni. L’area liberata dalle demolizioni fu acquistata dal Comune di Piacenza nel 1924 e assegnata a Giuseppe Ricci Oddi per la costruzione della attuale Galleria d’Arte Moderna progettata da Giulio Ulisse Arata e inaugurata nel 193115. Nella pianta del 1806 lo schema distributivo dell’impianto replica in massima parte quello degli altri impianti conventuali sorti lungo lo stradone Farnese. In questo schema è ricorrente la posizione della chiesa, preferibilmente scelta su uno degli angoli dell’isolato e con portale d’ingresso situato su una delle trasversali allo stradone Farnese. In particolare, l’ingresso della chiesa di S. Siro, anch’essa ad aula doppia, si affacciava su strada S. Siro (attuale via Giordani), preceduto da una piccola piazza o sagrato, delimitata da una fila di “colonelli” sul margine della carreggiata. Il convento aveva due giardini, uno dei quali delimitato da un quadriportico colonnato e l’altro da porticati disposti solo su due lati. Intorno al cortile rustico a sud erano collocati: la bugandaia, due locali adibiti a tinaro, un portichetto, la legnara e la dispensa. La restante parte del convento sui lati sud ed est era occupata da una vasta area ortiva che si estendeva dallo stradone Farnese fino alla strada di S. Siro (attuale via Giordani). Il convento di Santa Chiara è l’ultimo dei grandi insediamenti conventuali che delimita il lato sud della testata terminale ovest dello Stradone Farnese, in prossimità dell’incrocio con strada San Raimondo (corso Vittorio Emanuele II) e di fronte all’altro grande convento di San Raimondo sul quale è opportuno riflettere con maggiore attenzione per le testimonianze offerte dalla sue sedimentazioni architettoniche, rivelatrici della

88 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 configurazione urbana intorno allo stradone Farnese prima che fosse aperto. A est, il convento confinava con i palazzi del conte Mancassola e del conte Rocchetti, a sud, con le aree prative che si estendevano fino alle mura e a ovest con una serie di caseggiati che nell’impianto catastale di epoca luigina presentavano ancora un ingombro planimetrico stretto e lungo di tipologia gotica. Secondo Ettore De Giovanni16, a Piacenza, nel 1229, a sei anni di distanza dall’approvazione della Regola dei Frati Minori da parte di papa Onorio III (1223), e ad appena tre anni dalla morte di San Francesco, furono edificati due conventi: il primo, dedicato a San Francesco, situato nel settore sud occidentale delle mura cittadine, presso l’antica porta di San Lorenzo (una delle sette porte della città, costruita nel 1236, denominata porta San Raimondo, dal 1276); il secondo, dedicato a Maria Vergine, oggi scomparso, situato “dove al presente è il Molino a Torchio da Olio detto della «Peste della Polvere”, altrimenti denominato “molino della polvere d’archibugio” dove erano le monache di Santa Chiara, dette anche “delle Richiuse o di San Damiano”. Nella pergamena conservata nell’Archivio Capitolare della Cattedrale di Piacenza, datata 6 maggio 1229, si riferisce che il vescovo di Piacenza Alberico Cossadoca (1217-1235) autorizzò le monache di Santa Chiara a costruire il proprio convento fuori porta San Raimondo (nei pressi dell’attuale Ospedale militare), dunque non lontano dal convento dei confratelli francescani. Nella trascrizione di un manoscritto del 1753, riportato nell’articolo “L’ex Convento di Santa Chiara”, pubblicato sul quotidiano “La Verità” del 13 settembre 1881, si precisava che il primitivo convento delle Clarisse era ubicato a est della chiesa e dell’ospedale di San Cristoforo ad argines, oggi scomparso, in un’area prativa di proprietà degli eredi del conte Carlo Perletti. Pier Maria Campi rammenta che nel 1278 i frati Minori iniziarono la costruzione della nuova chiesa, dedicata alla SS. Annunziata, nell’area originariamente occupata dal palazzo del conte Ubertino Landi e dai caseggiati appartenenti agli Avogradi dei Bonifaci, ai Malgari dei Cucherli, ai Ficiani, agli Stretti e ai Bacini, tutti situati nei pressi della piazza Grande (piazza Cavalli)17. Dieci anni più tardi, papa Nicolò IV autorizzò i frati Minori a cedere il convento, dove ancora vivevano, alle monache Clarisse. Per Nasalli Rocca nel 1336, le “suore dell’ordine di San Damiano” si rifugiarono nel vecchio convento dei frati Minori fondato nel 1229 e dedicato a San Francesco, “nell’area dove ora nello Stradone Farnese sorgono gli edifici di Santa Chiara”18. Le suore, appena insediate, dedicarono il convento a Santa Chiara e completarono i portici del chiostro con archi gotici. L’originaria chiesa francescana doveva essere orientata sull’asse est ovest, parallelo allo stradone Farnese. L’edificio, che già nel Quattrocento era in precarie condizioni, fu integralmente ricostruito con una pianta a croce greca e orientamento nord sud, ortogonale allo stradone. La nuova chiesa, iniziata nel 1604 e ultimata nel 1608, fu consacrata dal vescovo Claudio Rangoni (1596-1619)19. Nel corso del XVII secolo si attuarono altre importanti opere che trasformarono il vecchio convento trecentesco di cui si conservarono alcune importanti vestigia. La convenzione stipulata il 19 giugno 1618 tra la Badessa Clara Olimpia e Annibale Somaglia, erede dei conti Barattieri, documenta la costruzione di un alto muro lungo i confini con gli orti acquistati dai fratelli Barattieri e con i fabbricati di proprietà del conte Annibale della Somaglia20. Nelle fonti d’archivio non vi sono però espliciti riferimenti su eventuali opere eseguite nei fabbricati conventuali che delimitavano il grande chiostro di pianta quadrata, salvo i vaghi accenni contenuti in una ricevuta di pagamento del 27 marzo 1669, dove si riferisce di una “misura dell’orto in Piacenza datto per li Conti Mancassola, alle M.M. RR. Monache di Santa Chiara per alargare il loro monastero”21. Tuttavia, le osservazioni effettuate sul campo indicano che il portico ad archi acuti realizzato nel Trecento intorno al chiostro fu assorbito all’interno di una nuova struttura porticata, ancor oggi sormontata, sui lati ovest e sud, da due ordini loggiati, tutti caratterizzati da archi a tre centri di chiara impronta seicentesca, specialmente le arcate su pilastri bugnati del doppio loggiato del lato ovest, simili per caratteristiche architettoniche e stilistiche alle omologhe arcate del chiostro di Santa Maria della Neve, oggi sede del Politecnico di Milano, disegnate da Bartolomeo Casati e realizzate da Pier Paolo Bergamaschi nel 1627, cioè lo stesso capomastro che tra il 1604 e il 1608 aveva operato nella chiesa di Santa Chiara. Al capomastro Giuseppe Marioni (circa 1745-1817), che nel 1782 aveva predisposto una perizia per lavori da eseguirsi nel monastero di Santa Chiara, fu corrisposto due anni più tardi un compenso di 480 lire per aver elaborato un disegno e un piccolo modello dei nuovi edifici che si intendevano costruire nel convento. Nel verbale della visita pastorale effettuata dal vescovo Gregorio Cerati (1730-1807) il 20 settembre 1788, il monastero appariva ridotto in uno stato “malconcio, incommodo o disadatto, in qualche parte minacciante rovina, e in qualche parte besognoso di riparazioni”22; tanto che il vescovo prese la decisione di far ricostruire l’intero complesso a cominciare dal refettorio e dalla cucina situati nell’ala est. Le motivazioni che portarono a questa decisione sono chiaramente espresse nel “Mastro per la Nuova Fabbrica del Monastero di Santa Chiara in Piacenza” (1789-1793)23. La monaca che compilò il testo riferiva che: “È da ritenersi preliminarmente, che la struttura antica del Monistero, tuttoché colocato sulla migliore strada della Città ed avente l’aspetto più brillante, e più grazioso dalle colline del Piacentino, era una struttura delle più infelici e perniciose. La strada pubblica, e maestra, che tiene il lungo di essa era elevata oltre il piano terreno del Monistero di più braccia, e quindi quell’umidità, che tanto è ingenita e naturale alli terrapieni s’insinuava talmente nelle Camere del Pianterreno medesimo, che riescivano pressoché micidiali a chi le avesse volute abitare. Li muri tutti, e perché in buona parte composti di creta, e perché eretti senz’un ordine solido, e regolare avevano ceduto all’urto del

89 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 tempo; ed il tutto insomma adombrava uno specchio di ruina imminente, di abitazione impossibile di azzardo continuo”. Dunque, da questo documento si apprende che buona parte dei muri preesistenti era costituita da mattoni crudi di argilla e che il rilevato sul quale era stato costruito lo stradone Farnese, alto quasi l’intero piano terra dell’ala nord del complesso, era causa di costanti infiltrazioni di acqua piovana che rendeva ancor più malsani gli ambienti schierati lungo il fronte stradale. Le osservazioni sul campo hanno però rivelato che alcuni dei muri di epoca trecentesca sono in realtà costituiti da mattoni cotti in fornace e allettati con malte di argilla priva di calce. Sicché si potrebbe anche supporre che l’anonima autrice di quel documento non avesse una conoscenza specifica di quali fossero le caratteristiche costruttive delle murature. In ogni caso, può anche essere che i muri fossero costituiti da mattoni crudi, poiché, nella pianura padana, tale tecnologica costruttiva era piuttosto diffusa, in particolare negli edifici rurali, e praticata con continuità almeno fino a tutto il Quattrocento. Inoltre, se lo stradone era impostato su un alto terrapieno, si dovrà convenire che almeno fino al Trecento il livello del terreno era più basso di quello dell’attuale carreggiata stradale e che un certo numero di fabbricati costruiti dopo lo stradone siano stati anch’essi impostati su colmature dei terreni naturali. Che l’assetto orografico fosse effettivamente questo lo dimostra il fatto che nel 1604 la chiesa cruciforme di Santa Chiara fu impostata sulle strutture murarie della chiesa preesistente, di cui restano visibili tracce a livello delle attuali fondazioni. In particolare, nel muro dell’ala nord che sostiene l’impalcato della chiesa seicentesca e che guarda verso il chiostro si conservano due varchi, rispettivamente coronati da un arco a pieno centro e da un arco ogivato, entrambi caratterizzati da ghiere di mattoni di laterizio “pettinati”, il primo dei quali databile alla prima metà del XIII secolo e il secondo alla prima metà del XIV secolo. Inoltre, lo spiccato dei pilastri che sostengono le arcate del portico dell’ala nord del chiostro, oggi quasi tutto crollato, è più basso di circa 90 centimetri rispetto agli omologhi sostegni del porticato seicentesco. Se ne deduce quindi che l’ala nord del convento, l’unica che conserva ancora delle testimonianze architettoniche risalenti all’impianto duecentesco e trecentesco, giace sull’originale livello del terreno, più basso dell’attuale livello stradale di circa 1,60 m; mentre lo spiccato dei muri della chiesa cruciforme e delle altre ali del convento furono adeguati, in tutto o in parte, al livello del terrapieno dello stradone Farnese. Ciò significa che l’originaria orografia del terreno dell’area conventuale declinava da sud verso nord con una certa pendenza e che probabilmente questo andamento caratterizzava anche alcuni altri tratti dello stradone Farnese. Del resto, per rendersene conto, basta osservare il tracciato dei canali, perpendicolare agli spalti delle mura cittadine, che alimentavano i vicini conventi di S. Siro e di S. Agostino. Subito dopo la decisione del vescovo Gregorio Cerati, la badessa Luigia Teresa Malaspina affidò i lavori di ricostruzione dell’ala est al capomastro Giuseppe Marioni. Nel “Mastro per la Nuova Fabbrica” (1789-1793)24 sono elencate le varie destinazione d’uso degli ambienti della nuova ala est. Al piano interrato: varie cantine, torchio da vino, un ambiente per la conservazione della frutta e due “fresche” dispense al di sotto della “celleria”. Al piano terra: “Cucina, sbratta cucina, scala di servizio, lavatoio, refettorio, scaldatoio, scalone principale con camera e andito, camere per le portinaie, quattro parlatoi due interni e due esterni, portineria, corridoio sul quale si apre la porta di ingresso, celleraria con suo atrio e verso le mura della città, altra camera”. Al primo piano: “similmente costrutto, un loggiato si sviluppa da nord a sud dell’edificio con diverse camere poste sopra a quelle del Piano Terra, con tre camere poste sopra la celleria ed una verso le mura”. Al secondo piano: il granaio, situato verso lo stradone Farnese. La pianta del 1806 rappresenta il piano terra dell’intero complesso, dove la distribuzione funzionale degli ambienti dell’ala est sembra corrispondere, a grandi linee, alla descrizione del “Mastro per la Nuova Fabbrica”. Tuttavia, la disposizione della sala coperta da volte a crociera su pilastri quadrati, situata in adiacenza all’androne d’ingresso, come la pianta della bugandaia che sorge isolata al margine sud ovest degli orti, non corrispondono all’attuale impianto. Altre differenze, come la posizione dello scalone, possono forse essere attribuite a errori di rappresentazione, ma sicuramente non l’ambiente situato sulla testata nord dell’ala est; sicché si deve prendere in considerazione che dopo il 1806 siano state introdotte altre modifiche nella struttura costruita dal capomastro Marioni. Sulla base delle nuove disposizioni emanate da Napoleone Bonaparte con decreto del 9 giugno 1805, Moreau de Saint Méry, “Amministratore Generale degli Stati di Parma Piacenza e Guastalla” dopo la morte di Ferdinando di Borbone (9 ottobre 1802), fece disporre l’inventario dei beni patrimoniale dei conventi femminili di Santa Chiara, Valverde, Maddalena e Orsoline. Alla compilazione del “Processo verbale” riguardante il patrimonio di Santa Chiara era presente la badessa, Luigia Teresa Malaspina25. Con successivo decreto imperiale del 13 settembre 1810 furono soppressi tutti gli ordini religiosi. A Piacenza e provincia il provvedimento interessò 30 complessi conventuali. Nel processo verbale del 29 settembre 1810, firmato da Giuseppe Curtarelli, Commissario dei conventi soppressi di Piacenza, è espressamente citato anche il “Convento dei Francescani di Santa Chiara di Piacenza”26. Tuttavia il provvedimento di soppressione non ebbe seguito. Il Prefetto di Piacenza, con lettera del 15 ottobre 1810 comunicava al Commissario imperiale l’elenco ufficiale dei conventi piacentini effettivamente soppressi, dal quale quello di Santa Chiara era stato definitivamente escluso. Così, il convento, benché acquisito al demanio dello Stato, divenne, insieme al convento delle Teresine, il ricovero

90 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 delle religiose di tutti i conventi femminili soppressi di Piacenza. Nel 1845, la duchessa Maria Luigia d’Austria istituì la “Casa di Ritiro per donne e di educazione per fanciulle”, concedendo al neo istituto l’ex convento di Santa Chiara, la chiesa esterna, l’orto e gli edifici rustici di pertinenza. È più che probabile che in quella circostanza la configurazione architettonica dell’ala est, come rappresentata nella pianta del 1806, sia stata modificata sovrapponendo alla facciata che guarda verso il chiostro l’attuale ordine dorico gigante su alto basamento e con l’ampliamento della sala coperta da volte a crociera su pilastri in un impianto a L con arcate a pieno centro aperte su due dei quattro lati che delimitano l’adiacente cortile interno. In seguito, il convento fu occupato dalle truppe austriache, da quelle francesi, poi da quelle del Regno Sardo e da quelle italiane fino al 12 novembre 1861. Il complesso subì quindi vari rimaneggiamenti imposti dalle esigenze militari. Nel 1865 il così detto “Stallazzo di Santa Chiara”, situato a destra della chiesa, da sempre parte integrante del complesso conventuale, passò in proprietà degli Asili infantili di Piacenza. Nel 1889, l’architetto piacentino Camillo Guidotti (1853-1925) arricchì la facciata della chiesa con due pinnacoli disposti sui lati del coronamento27. Agli inizi del Novecento, nonostante gli sforzi profusi prima dalle Clarisse e poi dal Pio Ritiro, le condizioni di degrado raggiunte dal convento divennero sempre più palesi e preoccupanti. Rapidi cenni sul suo stato conservativo compaiono nell’inventario redatto dal Pio Ritiro nel 1904: “[….] Esso dividesi in due parti: la prima detta – la parte nuova – è dal lato di levante: conta due piani attraversati questi da mezzogiorno a sera da ampio corridoio della lunghezza di metri settantadue con dodici ambienti al pianoterreno e quindici camere con cinque camerini al piano superiore. Ha solai e cantine. La seconda detta - la parte vecchia - stendesi a Nord-Ovest con venticinque stanze e corridoi al pianoterreno; al piano superiore ha tre loggiati fiancheggiati da dodici camere con dieci solai sovrapposti alle stesse. Questa seconda parte si trova piuttosto in cattivo stato per vetustà e per difetto di congrue riparazioni rese indifferibili dalla mancanza di mezzi. Annessa al Fabbricato evvi la Chiesa disegnata a forma di croce greca, con torre fornita di tre campane di bronzo”28. Pochi anni più tardi, nel 1922, Ettore De Giovanni così descrisse lo stato del convento: “Dissi pocanzi che esistono ancora 35 archi antichi, ma qui bisogna specificare. Degli archi rivolti a settentrione, chiamiamoli così, (e son dieci: ne manca uno - è evidente riscontrandoli con quelli posti a meriggio - sostituiti da un pilastro) sei sono alterati, consumati per rifacimento, soli quattro ci ricordano, per dir così, la loro origine e uno di essi anzi è chiuso da scala di posteriore data. Il lato occidentale del chiostro ha tredici arcate intatte, il lato meridionale offre alla vista e alla ammirazione undici belle arcate conservate più o meno, più un’arcata che s’interna e si congiunge al lato orientale completamente rifatta in tempi recenti”. Aggiunse inoltre che “Il chiostro è fatto di bei laterizi gradinati con archi a sesto acuto postati su pilastri senza cornice d’imposta, parte dei quali accerchiati da ghiere, con fregi in sottosquadro. Parecchie arcate del braccio nord furono rifatte, forse perché cadenti nel secolo XVI, d’imitazione, ben avvertibile alla qualità del materiale”29. Nel 1910, gli Asili infantili di Piacenza, vendettero a Pietro Galli lo “Stallazzo di Santa Chiara”30 composto da casa, stalla, fienile, rimesse e cortile31. Così la parte rustica dell’antico complesso conventuale di Santa Chiara passò definitivamente in mano a privati. Con Legge n° 394 del 13 maggio 1971 il diritto d’uso gratuito e perpetuo goduto dal Pio Ritiro di Santa Chiara fin dal 1845 sul complesso conventuale fu ridimensionato alla sola ala est e limitato nel tempo fino al 2065. Il 24 aprile 1974 fu sottoscritto l’atto di compravendita del complesso tra l’Intendenza di Finanza di Piacenza, e la Pia Società S. Francesco Saverio per le missioni estere, con sede in Parma, divenuto esecutivo il 18 luglio 1974. Iniziò così un altro processo di trasformazione dei fabbricati conventuali riadattati alle esigenze dei Padri Saveriani con una diversa articolazione degli spazi interni, specialmente nelle ali sud e ovest, le più disastrate. La parte centrale dell’ala sud fu addirittura sopraelevata di un piano e le arcate del secondo loggiato tamponate con sottili pareti di mattoni. Intanto, il degrado strutturale del complesso avanzava inesorabile. Sul quotidiano “Libertà” del 31 dicembre 1967 Armando Siboni scrisse un articolo dal titolo molto eloquente: “Anche il chiostro di S. Chiara sta andando in completa rovina”. Il 24 settembre 1979 tornò a scrivere sullo stesso giornale che “il Chiostro sta crollando un pezzo per volta e fra tre o quattro anni costituirà soltanto un tema di ricerca per gli studiosi di storia ecclesiastica”. I Padri Saveriani lasciarono definitivamente Piacenza nel 2002 e l’ex convento di Santa Chiara fu venduto alla Fondazione di Piacenza e Vigevano il 28.4.2004. Finiva così una vicenda secolare e se ne apriva un’altra: quella del recupero di una testimonianza storica e architettonica che, differentemente dai palazzi nobiliari piacentini, espressione di un’ostentata magniloquenza artistica, conserva nei suoi sodi murari, alcuni dei quali ancora murati con malte ricche di terra argillosa, i segni di un’arte muraria povera, costituita da mattoni di laterizio riutilizzati più volte e provenienti da altre fabbriche della città. Gli alti muri che ne delimitano il perimetro a stento riescono a contenere l’arrogante e squalificata invadenza dell’alta schiera di condomini che si affacciano sugli orti del convento quasi a volerne fagocitare il sereno isolamento: quello che in verità caratterizzava il paesaggio urbano dell’intero versante sud dello stradone Farnese almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento.

91 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Non sono invece molto numerose le dimore nobiliari erette lungo lo stradone Farnese32. Come si è già accennato, procedendo da est verso ovest, sul lato sud s’incontrano i palazzi dal Verme, Salvatico, Anguissola di Podenzano, Pallavicino di Scipione, Barattieri poi Fantoni; sul lato nord dello stradone sorge palazzo Landi di Chiavenna. La mappa del catasto ducale è di grande interesse, poiché testimonia l’assetto distributivo di tre importanti palazzi: Salvatico, Anguissola di Podenzano e Pallavicino di Scipione compresi fra le attuali vie S. Franca e Pietro Giordani, inseriti in una vasta area verde che raggiungeva il viale del Pubblico Passeggio, tracciato sugli spalti delle mura farnesiane. Dei tre grandi edifici storici, il palazzo Salvatico sembra essere quello che ha maggiormente risentito delle trasformazioni attuate nel corso del Novecento, specie nell’articolazione planimetrica e distributiva degli ambienti. Il palazzo dei conti dal Verme, al civico 49, oggi della Congregazione delle figlie di S. Anna, ordine fondato da Rosa Custo Gattorno, è una monumentale dimora costruita nel XV secolo dai Bracciforti. L’edificio che nelle forme attuali risale alla seconda metà del XVIII, risultato delle trasformazioni avviate dai conti Dal Verme, si eleva su tre piani fuori terra. Il fronte principale, in fregio allo stradone Farnese, sarebbe stato ridisegnato nel tardo Settecento da G. Battista Ercole (1750-1811) (Matteucci 1979, p.319; Fiori 2006, p. 151). Di rilevante interesse storico architettonico è il palazzo dei conti Salvatico, al civico 29, in angolo con via Giordani. La mappa del catasto ducale rappresenta il palazzo articolato attorno a due cortili, di cui quello centrale, d’onore, tuttora esistente, con un corpo di fabbrica che si sviluppa a sud est, su un impianto rettangolare, lungo la strada di S. Agostino (attuale via Pietro Giordani). Dal confronto fra la mappa del catasto attuale e quella del catasto ducale, si evince che il volume del palazzo in fregio allo stradone Farnese non ha subito sostanziali variazioni planimetriche. Risulta invece alterato lo stato dell’immobile che prospetta su via Giordani. La porzione est del palazzo, che su questo fronte ospitava le pertinenze e le scuderie, è stata infatti abbattuta intorno alla prima metà del Novecento. I fronti interni sul cortile sono intonacati. Il prospetto sullo stradone Farnese si distingue per la sua altezza maggiore rispetto agli altri corpi della fabbrica. Nella porzione ovest, confinante con palazzo Anguissola di Podenzano, è ricavato l’ingresso fra due coppie difinestre simmetricamente disposte. Al piano nobile le cinque bucature sono caratterizzate da cornici a fascia che sotto il davanzale assumono un andamento a onda; le cinque finestre rettangolari del sottotetto, anch’esse con cornici a fascia, sono di dimensioni ridotte. Cornici marcapiano in mattoni di laterizio scandiscono i livelli del piano terreno, del piano nobile e del sottotetto. Dall’androne terreno, con volte a crociera quadripartita, si raggiunge il cortile d’onore porticato sui lati nord ed est, caratterizzato da un ordine dorico. Il portico di controfacciata sul lato nord è sormontato al piano nobile da un loggiato, tamponata nel corso del Novecento, quando furono aperte le cinque coppie di finestre ad arco entro ciascuna delle cinque campate. A questa porzione di fabbrica, oggi identificata con il numero civico 29, si connette un corpo di fabbrica più piccolo, ma con un analogo trattamento della superficie muraria in mattoni di laterizio e una regolare distribuzione delle bucature sui tre livelli fuori terra. Le finestre di questa parte sono però prive di cornici. Palazzo Salvatico confina con il palazzo che fu del conte Venceslao Anguissola di Podenzano. Attualmente presenta una configurazione planimetrica a U irregolare; ma in realtà, l’originario nucleo seicentesco si sviluppava su un blocco lineare in fregio allo stradone Farnese. Uno dei bracci dell’attuale impianto a U è costituito dal corpo di fabbrica della palazzina Breviglieri, l’elegante immobile realizzato su progetto dell’architetto Mario Bacciocchi (Fiorenzuola d’Arda, 1902-Milano, 1974) alla metà del Novecento, sul lato sud ovest dell’antico palazzo Anguissola di Podenzano (Matteucci 1979; Fiori 2006). Dai tre ingressi si accede ai due cortili e al grande giardino che si sviluppa sul retro, in comproprietà con l’attigua palazzina Breviglieri. Il disegno della facciata dell’imponente dimora si articola su due piani fuori terra, più un sottotetto, illuminato da piccole finestre rettangolari e riflette gli stilemi compositivi diffusi in città nel Rinascimento. Si tratta infatti di una facciata in mattone di laterizi, ritmata da 10 assi di finestre al piano terra e da tredici assi al piano nobile. Dei tre ingressi, quello identificato con il numero civico 25 è di dimensioni maggiori e arricchito da conci di mattoni disposti a ventaglio. Appena sotto un cordolo basamentale si aprono le finestre delle cantine di forma rettangolare e di dimensioni più ridotte rispetto a quelle dei livelli superiori, ancora protette dalle originarie grate metalliche. L’assetto compositivo del fronte principale sullo stradone Farnese è inoltre impreziosito dalla presenza di grandi specchiature rettangolari disposte in corrispondenza delle finestre, su entrambi gli ordini. Dalla fabbrica emerge in altezza il doppio volume (oggi modificato all’interno) del salone d’onore al piano nobile, secondo uno schema molto diffuso sia nei palazzi piacentini sia nelle dimore senatorie bolognesi dell’età barocca. Il fronte di palazzo Anguissola di Podenzano presenta una maggiore attenzione per il dettaglio e l’invenzione formale, svolta sul tema della concatenazione verticale delle aperture. All’esterno s’impone per la monumentalità della soluzione a blocco dal quale emerge il volume del salone d’onore. L’architetto sembra avere perseguito un indirizzo rigorista attraverso la rilevante riduzione dei partiti decorativi e la riproposizione di motivi canonici comuni al classicismo barocco. La scala non presenta caratteri di particolare monumentalità. Come nei modelli bolognesi e/o romani elaborati allo scadere del Seicento, si svolge su due rampe entro un

92 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 vano a pianta rettangolare e conduce al piano nobile ove gli spazi degli attuali appartamenti sono il risultato di interventi di rifunzionalizzazione attuati anche nel corso del Novecento. Ciò nonostante, nel complesso, il palazzo conserva pressoché inalterate le caratteristiche disegnative dell’impianto originario. Una delle più antiche residenze nobiliari sullo stradone è senza dubbio palazzo Pallavicino di Scipione, al civico 21, sviluppato su un lungo e basso fronte in fregio allo stradone, in angolo a via S. Franca. L’edificio, con pianta a U rimase in proprietà ai Pallavicino fino all’estinzione della famiglia avvenuta nel 1776, allorché pervenne ai Fogliani d’Aragona, quindi ai conti Petrucci e, nel 1898, ai Cella, ai cui discendenti tuttora appartiene. Un portico su colonne di ordine dorico caratterizza la controfacciata, nel quale sono affrescati due Pallavicino a cavallo vissuti nel secondo Quattrocento, entrambi di nome Giovanni. Nella parte più a ovest dello stradone, poco prima della chiesa di S. Chiara, sorge palazzo Fantoni, portato della ristrutturazione del palazzo che nel 1623 i conti Cavazzi della Somaglia cedettero in permuta ai conti Barattieri33. Palazzo Fantoni, su tre piani fuori terra, attualmente edificio condominiale, è dotato di due ingressi che immettono rispettivamente l’uno a un cortile porticato su pilastri, sormontato da un arioso loggiato e l’altro in un cortile voltato a crociera, porticato su colonne doriche, sormontato da un loggiato finestrato su pilastri. Il lato nord dello stradone Farnese è siglato da un’unica struttura emergente per qualità architettonica e per importanza del casato: palazzo Landi di Chiavenna. Il monumentale palazzo occupa un’area pressoché rettangolare, compresa fra cantone S. Stefano, a est e via Gaspare Landi a nord; sul lato ovest il palazzo confinava con casa Pozzi. Nell’archivio dei marchesi Landi di Chiavenna si conserva la ricca documentazione del cantiere, seguito dapprima da Battista Landi (1722), fratello del marchese Pompeo, diplomatico farnesiano residente nella parrocchia di S. Stefano, quindi dal conte Francesco Maria Landi nel 1731-1735, quella relativa ai lavori progettati dall’ingegnere e architetto Giuseppe Razzetti nel 1753 e l’ultima campagna settecentesca, firmata da Francesco Boschetti nel 1774 e 1783 (Matteucci 1979). La documentazione iconografica comprende anche numerosi altri elaborati di progetto oltre a quelli di Razzetti: di Antonio Tomba (1803) e di Paolo Gazola (1834), determinati rispettivamente da un’occasione nuziale e dalla necessità di rifunzionalizzare gli spazi abitativi posti nell’ala di levante dell’edificio, e di Guglielmo della Cella, questi ultimi relativi alla biblioteca del palazzo (1857)34. L’organizzazione degli ambienti interni del palazzo risponde alla duplice esigenza della funzionalità e della rappresentazione. Dall’androne terreno, voltato a botte, si accede al cortile d’onore centrale, fulcro attorno al quale si organizza l’edificio. Il progetto di Razzetti prevedeva un androne atre navate scandito da quattro coppie di colonne secondo uno schema che, pur raro nelle residenze di Piacenza, era stato adottato da Ignazio Cerri (1717) nell’atrio di palazzo Douglas Scotti di Vigoleno. Sia questo, che gli altri elaborati dell’ingegnere Razzetti si caratterizzano per una certa grandiosità degli spazi, temperata da una distribuzione razionale. Sull’asse androne terreno-cortile d’onore si apre l’accesso secondario al palazzo che prospetta su via S. Vincenzo, funzionale alle scuderie che in origine ospitavano 20 cavalli. Inoltre, il collegamento fra i tre piani del palazzo era ampiamente disimpegnato da sei scale; un numero elevato, ma non eccezionale se si considera che nei palazzi di Piacenza, oltre allo scalone d’onore, solitamente esistevano da tre a cinque scale di servizio. Lo scalone d’onore del palazzo, situato sul lato est del cortile, si svolge su due rampe parallele prive della scenografica monumentalità ideata da Razzetti. L’originario progetto prevedeva, infatti, l’inserimento dello scalone a est dell’atrio, ma con affaccio diretto sulla corte nobile, secondo una soluzione affine a quella adottata in palazzo costa sul volgere del Seicento, e ricondotta dalla Matteucci a Ferdinando Galli Bibiena. Nelle intenzioni del Razzetti lo scalone monumentale avrebbe dovuto svolgersi su tre rampe, delimitate da un vano a pozzo; soluzione spaziale inedita alla cultura architettonica locale. L’intervento di Antonio Tomba, occasionato dal matrimonio del marchese Ferdinando con Angela dei marchesi Grimaldi Granata di Genova nel 1803, fu seguito da quello di una schiera di decoratori milanesi impegnati a conferire nuova veste alle singole sale del piano nobile. I lavori rientravano in una più ampia campagna conclusa alla metà degli anni trenta dell’Ottocento da Paolo Gazola che elaborò una serie di progetti per la risistemazione dell’appartamento di levante (1834). A Gazola si deve l’ampliamento delle sale terrene verso strada, il ridisegno di una saletta e dell’attigua camera da letto dotata di bagno e guardaroba al piano nobile. Nei suoi interventi si scorge una volontà progettuale all’insegna della funzionalità e della comodità dell’abitare, sempre più spogliati da quei tratti di sfarzo che a Piacenza avevano permeato le soluzioni progettuali degli architetti fino alla metà degli anni venti dell’Ottocento.

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1 BCPc, Notizie delle Chiese di Piacenza, Ms. Com. 212, c. 148, in cui si ricorda il lascito di 3000 scudi romani effettuato da Eleonora d’Este in occasione dei voti presi a Modena. Cfr. Pettorelli 1924, pp. 97-98. 2 ASPr, Conventi e Confraternite, LXXX, S. Giuseppe di Piacenza, Carmelitane Scalze, b.14, fasc. n.14, Acquisto d.a Corniana, Spese per la Fab.ca. 3 Fiori 1998, p.64 4 ASPr, Mappe e disegni, vol.22, 98. Il convento si trovava nella zona dell’attuale via Gaspare Landi. Cfr. anche Siboni 1986, pp. 24-25; Còccioli Mastroviti 2006, pp. 193 ss. 5 Pigozzi 1993, pp. 61-63; Longeri, Pighi 2005, pp.119-166; Còccioli Mastroviti 2006, p.193. 6 Fiorentini in “Il Nuovo Giornale”, 26 gennaio 1974; Cattadori 1979, p. 78; Poggiali XII, pp. 150-151; Fiorentini 1985, pp. 254-255. 7 Fiorentini 1984, p. 150 ss.; Fiori 2006, p. 230 8 Cit. in Siboni 1986, p. 26 9 Fiori 2006, pp. 150-151 10 Siboni 1986, p. 27 11 Dodi 1937, pp. 139-144; Arisi 1978, pp. 140-145; Adorni, 1982, pp. 371-395; Siboni 1986, p. 24; Fiori 2006, pp. 144 ss. 12 ASPc, Congregazione sopra l’ornato, bb. 24 e 25 13 In via Santa Franca, all’incirca ove oggi sorge il Palazzo ex Enel, c’era il filatoio di San Siro; poi il rivo perseguiva, attraversando Corso V. Emanuele, fino alla Beverora 14 Siboni 1986, p. 25 15 Mangone 1993 16 De Giovanni 1992, pp. 3-4 17 Campi, p. III, libro XX, p. 3 18 Nasalli Rocca 1904; Idem 1909,p. 322 19 ASPc, Notarile, Notaio M. A. Lunini, 1605-1606 20 ASPr, Conventi e Congregazioni religiose, serie Monasteri soppressi, Retrovendite, Locazioni, Acquisti, Convenzioni, Elenchi di monache, LXXXIII, b. 31, 19 giugno 1618 21 ASPr, Conventi Congregazioni religiose, serie Monasteri soppressi, Miscellanea, LXXXIII, b. 34, 27 marzo 1669, in Genocchi, a.a. 2006-2007 22 AVPc, Visita della Chiesa e del Monastero di Santa Chiara e riscontro fedele a ciascun punto contenuto nella Carta Preparatoria alla Sacra Visita del Vescovo. Gregorio Cerati, 20 settembre 1788, vol. 4, pp. 2-17 23 ASPr, Conventi e Congregazioni religiose, serie Monasteri soppressi, Mastro per la Nuova Fabbrica del Monastero di Santa Chiara in Piacenza, LXXXIII, 1789-1793, registro 8, p. 2 24 ASPr, Conventi e Congregazioni religiose, serie Monasteri soppressi, Mastro per la Nuova Fabbrica del Monastero di Santa Chiara in Piacenza, LXXXIII, 1789-1793, registro 8, p. 3 25 ASPr, Conventi e Confraternite, LXXXIII, Santa Chiara di Piacenza, Clarisse 26 ASPr, Inventari dei beni dei monasteri soppressi, vol. 142, 1810 27 ASPc, Concessioni edilizie, b. 38 28 ASPc, Pio Ritiro Santa Chiara, Amministrazione, pacco 23, Inventari di beni mobili e immobili, “Pio Ritiro di Santa Chiara. Inventario dei beni costituenti il patrimonio del detto Pio Ritiro”, 1904 29 De Giovanni 1922, pp. 4-5 30 ASPc, Pio Ritiro Santa Chiara, Amministrazione, b. 27, fasc. 27/3 “Causa Galli. Istituto Saveriano”, copia del contratto rilasciato per uso amministrativo, 25 marzo 1949 31 ASPc, Pio Ritiro Santa Chiara, Amministrazione, b. 27, fasc. 27/3 “Causa Galli. Istituto Saveriano”, copia del contratto rilasciato per uso amministrativo, 25 marzo 1949 32 Sempre opportuno Matteucci 1979 33 Fiori 2006, pp. 131-136 34 Còccioli Mastroviti 1994; Eadem 1995

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Il palazzo dei marchesi Landi di Chiavenna in una antica fotografia Portale di palazzo Landi di Chiavenna

La chiesa e il convento di S. Agostino e, in angolo, palazzo Salvatico

95 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Pianta dell’isolato con palazzo Anguissola di Grazzano e i limitrofi palazzi Villa Maruffi e Mansi Tirotti

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PALAZZO ANGUISSOLA DI GRAZZANO * via Roma, 99

Il palazzo “nuovo” del marchese Ranuccio Anguissola sorge nel quartiere nord est di S. Lorenzo, della Cattedrale, uno dei quattro grandi quartieri in cui era divisa, ab antiquo, la città di Piacenza. Nonostante alterne e non sempre felici vicende abbiano interessato nei secoli il quartiere, esso resta il più vasto della città, con oltre 1200 edifici. Cantone della Mosca, la vicina via Nicolini e via Guastafredda sono arterie urbane che attraversano parte dell’attuale quarto quartiere di Piacenza. Strada S. Lazzaro, ossia la porzione urbana dell’antica via Emilia, aveva un’importanza strategica sia per la circolazione esxtraurbana, sia per quella interna alla città. In quest’area, la maggiore per numero di edifici storici, era sorta l’antica città romana. Questa zonaè caratterizzata dalla presenza di dimore nobiliari e di edifici di un certo interesse, oltre a numerosi edifici religiosi, fra i quali la Cattedrale, le chiese di S. Lorenzo e delle Benedettine, quest’ultima di promozione farnesiana, S. Savino e S. Francesco. Il quartiere è noto anche come quartiere dei Landi, per il fatto che questa grande famiglia del patriziato cittadino, una delle quattro maggiori della città, aveva qui le proprie residenze. I quartieri a est di Piacenza erano sedi delle roccaforti ghibelline dei Landi e degli Anguissola, quelli a ovest ospitavano le dimore delle famiglie guelfe degli Scotti e dei Fontana. Nella seconda metà del Quattrocento i Landi costruirono un monumentale palazzo (attuale palazzo dei Tribunali) nei pressi della gotica chiesa di S. Lorenzo. L’isolato all’interno del quale sorge il palazzo è compreso fra cantone della Mosca, strada S. Lazzaro (attuale via Roma) e la piazzetta S. Maria degli Angeli, area oggi occupata dal giardino antistante la chiesa di S. Savino. Oltre al palazzo Anguissola di Grazzano, all’interno dell’isolato sono presenti i palazzi Villa Maruffi e Mansi Tirotti, rispettivamente con il prospetto principale su strada S. Lazzaro e su cantone Mosca. Sul lato est, completano l’isolato una serie di altri edifici tra i quali restano fabbriche risalenti all’impianto medievale disposte nell’angolo di sud est. Va osservato che la grande area libera che caratterizzava la porzione interna di quest’angolo dell’isolato nell’impianto catastale dell’età ducale, fu progressivamente occupata da fabbricati di epoca più moderna. Dell’antico impianto luigino restano pertanto i grandi cortili interni dei tre palazzi e la grande area libera che oggi costituisce il nucleo gravitazionale intorno al quale sono distribuiti i vari corpi di fabbrica appartenenti a tre complessi monumentali. L’area sulla quale sorge l’attuale palazzo Mansi Tirotti, era in precedenza occupata da parte del palazzo cinquecentesco dei conti Anguissola di Vigolzone e dalle sue pertinenze rurali, documentato dal Giornale Zanetti del 1737. Il palazzo e le pertinenze rurali, non meglio precisabili planimetricamente, pervennero ai marchesi Mansi di Lucca in seguito a permute del 1759 e del 1761. Nel 1810 proprietario era il marchese Raffaele Mansi. Sia gli Anguissola di Vigolzone, sia i Mansi sono famiglie rilevanti nella storia dell’architettura a Piacenza. Il marchese Raffaele Mansi è discendente di Raffaello, vero e proprio costruttore delle fortune della famiglia che nel 1667 aveva acquistato la tenuta e il marchesato della Fontanazza (comune di S. Pietro in Cerro) e subito dopo varie case a Saliceto, a S. Pietro in Cerro, nell’area fra Caorso e Polignano. L’attuale palazzo presenta una configurazione planimetrica trapezoidale, con accesso sia su cantone della Mosca 10, sia su via Guastafredda 16, e si articola attorno al grande cortile d’onore, in asse al quale, ma in posizione tergale, si apre un cortile di servizio. Dall’ingresso su cantone della Mosca, attraverso un androne voltato a botte, si accede al cortile d’onore, porticato su tre lati, che faceva parte dell’antico palazzo degli Anguissola di Vigolzone, caratterizzato da archi a tutto sesto su colonne doriche binate, colto rimando alle soluzioni sperimentate a Milano da Pellegrino Tibaldi (1527-1596). Il portico, articolato in campate quadrangolari, coperte da volte a crociera, assume, come in tanti altri palazzi nobiliari piacentini, il ruolo di uno spazio mediatore tra l’ambito pubblico e quello privato. Una porzione del palazzo che prospetta su cantone della Mosca, fu integralmente rimaneggiata nel 1909 su progetto dell’ingegnere Giovanni Gazzola (Ziano,1871-Piacenza,1962), su committenza dell’intagliatore piacentino Medardo Tirotti. Questo progetto rientra nella fase modernista dell’attività di Gazzola, nel corso della quale sperimenta le semplificazioni secessioniste negli elementi decorativi di aperture, cornici marcapiano, con ampie concessioni al sintetismo romano tradocinquecentesco e al classicismo, non senza rifiutare in alcuni particolari architettonici dell’interno, le coeve sperimentazioni liberty. L’attuale facciata, articolata su tre piani fuori terra, presenta un basamento bugnato a liste orizzontali, interrotto dal centro dal portale arcuato perimetrato da cornici modanate strombate verso l’interno, mutuate da un repertorio tardo medievale, come suggerisce la conformazione dei capitelli d’imposta dello stesso arco di coronamento a tutto sesto. I due balconi del piano nobile, disposti ai lati dell’asse centrale, negano la gerarchia imperniata sul cortile principale, come anche le partizioni delle altre bucature e del cornicione su mensole del coronamento, distribuiti in modo seriale per fasce orizzontali. Gli elementi decorativi, come il fregio interposto fra le finestre dell’ultimo piano e le testine che ornano gli architravi delle finestre del piano nobile, svelano la vocazione eclettica di Gazzola che, sebbene ispirato a un’idea modernista dell’architettura, continuava ad indugiare verso un decorativismo di maniera.

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L’altro palazzo nobiliare, già dei conti Villa Maruffi, sorge in adiacenza a palazzo Anguissola di Grazzano, su strada S. Lazzaro. I Maruffi, presenti a Piacenza dal XV secolo, avevano accumulato ingenti ricchezze con l’esercizio di attività commerciali e con le professioni liberali. In seguito a legami matrimoniali accrebbero i loro beni con quelli, altrettanto cospicui, dei Villa e, per disposizione fidecommissaria di Francesco Maruffi, i suoi discendenti aggiunsero al proprio il cognome Villa, antica famiglia forse originaria della città di Valencia, in Spagna. Nel 1852 il palazzo fu destinato dal conte Carlo Luigi III Villa Maruffi, ultimo discendente della famiglia, a ricovero per anziani. Anche questo palazzo fu costruito sulle preesistenze di vecchie case già di proprietà dei Villa, fra il 1685 e il 1690. La lapide posta sul basamento della colonna dorica dello scalone d’onore, ricorda infatti che il palazzo fu costruito nel 1690. La Congregazione di Polizia e Ornato concesse al conte Carlo Luigi Villa Maruffi, il permesso di costruire una nuova facciata rettificata rispetto a quella del caseggiato preesistente, che aveva un andamento irregolare. L’impianto è caratterizzato da un grande volume articolato su due cortili interni, sul primo dei quali si affaccia un’ala porticata con arcate su colonne doriche che dà accesso allo scalone d’onore che si svolge su tre rampe, con balaustra in pietra, inserito in un vano a tutta altezza coperto da una splendida volta a ombrello riccamente decorata nel tardo XVIII secolo, ma con un gusto ancora tardo manierista. La lunga e alta facciata costruita in mattoni di laterizio, come numerosi altri palazzi piacentini del Cinque e del Seicento, non è mai stata completata, come peraltro denuncia l’assenza del cornicione di coronamento. Il complesso, benché ampiamente rimaneggiato anche in tempi recenti, mantiene ancora intellegibile l’impianto tipologico originario, frutto di un processo di svuotamento del frammentario insediamento edilizio medievale che ha consentito di ridurre drasticamente la densità insediativa dell’isolato. Tuttavia dei tre grandi edifici nobiliari solo palazzo Anguissola di Grazzano presenta un’articolazione planimetrica più organica, legata al grande cortile interno intorno al quale sono distribuiti i corpi di fabbrica, questi sì impaginati entro un perimetro dall’andamento fortemente irregolare. La decisione di costruire palazzo Anguissola di Grazzano, dopo la ricognizione effettuata nel 1773 dall’architetto Cosimo Morelli (1732-1812), si tradusse in un’operazione economica piuttosto gravosa che impegnò il marchese a lungo, a partire dal 1773. Nonostante il fitto tessuto edilizio che connotava questa area della città, l’iniziativa del marchese Ranuzio, volta ad aumentare la lautitia della propria dimora cittadina, gli avrebbe consentito di raggiungere quell’amplitudinem che, unita alla pulchritudinem, era requisito indispensabile alla lautitia di una dimora. La nuova costruzione sorge sull’area del preesistente fabbricato degli Anguissola, testimoniato da due rilievi eseguiti da Cosimo Morelli nel 1772. La nuova residenza sorge a ovest del palazzo che il conte Carlo Luigi Maruffi si era fatto costruire fra il 1685 e il 1690 sulle case già di proprietà dei Villa. Cosimo Morelli nella Descrizione della Fabbrica, manoscritto (1774?) di 52 carte privo di disegni, ma da riferire ai progetti del palazzo di strada S. Lazzaro 99, così esordisce: “Onde sia veramente Palagio, e perciò nulla … vi manchi di magnifico, di teatrale, di luminoso,(…) e di comodo…”. “Il vecchio fabbricato” si configurava infatti come “un aggregato di case tutto disordinato con piani disuguali, e che in varie parti era minaccioso ed impossibile a ricavarne punto una abitazione nobile”. La planimetria della vecchia fabbrica testimonia l’irregolarità del sito e del cortile di servizio a est, porticato a sud, l’esiguità del cortile d’onore porticato solo sui lati nord e ovest, l’irregolarità dell’impianto del secondo cortile di servizio dal quale si accedeva alla scuderia, l’area del grande giardino, dotato di ghiacciaia, a sud. L’erigenda nuova fabbrica, non solo doveva “essere più comoda e conveniente” alle esigenze della famiglia, bensì conferire “maggiore Ornato a questa Città”, come recita un documento coevo della Congregazione sopra l’Ornato. Il “nuovo” palazzo “fabbricato a tutte mie spese” fra il 1774 e il 1776, come scrisse il marchese Ranuccio Anguissola, fu eretto dopo avere demolito il preesistente e più antico palazzo del quale la famiglia era “in possesso da secoli addietro”. Il progetto di Cosimo Morelli, “Romano Architetto” come egli si definiva, fu eretto in soli tre anni sotto la direzione del capo mastro luganese Giuseppe Magistro (?) modificando radicalmente l’impianto preesistente. Le planimetrie e la citata Descrizione della Fabbrica chiariscono “interamente ed anzi minutissimamente tutta l’Idea” elaborata da Morelli e finalizzata a ottenere una “fabbrica la più conveniente, la più propria, e più perfetta, che dar si possa, onde sia veramente Palagio, e … nulla affatto vi manchi di magnifico, di teatrale, di luminoso… e di comodo”. L’androne terreno, a tre navate con campate rettangolari e quadrate, immette al nuovo portico, aperto sui lati nord, est e ovest, composto da campate quadrangolari delimitate da 10 colonne e da una coppia di pilastri. Il cortile d’onore, “capacissimo, quadrato, perfetto”, come lo descrive Cosimo Morelli, misura 40 braccia piacentine; segue, verso sud, un secondo cortile di una lunghezza appena maggiore, dal quale si accede attraverso l’androne di servizio all’ingresso delle carrozze, aperto “per angolo” su cantone Mosca. Un altro cortile è quello, su pianta rettangolare, ma di più piccole dimensioni aperto a est, dopo la demolizione e la riorganizzazione degli ambienti “fuori squadro” del vecchio palazzo. Questo cortile, tuttora esistente, comunicava sempre verso sud, attraverso uno stretto e lungo passaggio coperto da volte a crociera, con un ulteriore più ampio spazio libero a pianta trapezoidale irregolare. Esistono due versioni planimetriche: nella prima lo spazio è identificato come “corticella” sulla quale si affacciavano le scuderie; nella seconda, come giardino, descritto da Morelli come“ben capace ed assai proprio”. L’architetto non

98 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 riteneva necessaria la presenza di più cortili nelle “fabbriche nobili, quantunque grandiose e magnifiche”, sia perché in città l’esiguità dei lotti avrebbe impedito l’apertura di grandi aree cortilive, sia perché ciò “che rende più stimabile, teatrale e godibile in un gran Palagio si è un ben ornato, e ben vasto Cortile”, ma siano sufficienti un cortile d’onore e un cortile rustico e se il sito fosse stato particolarmente ampio, era preferibile un giardino “come appunto qui si vede in questa Fabbrica”. Questo giardino, che confinava con il palazzo del marchese Raffaello Mansi, a sud, ed oggi scomparso, si articolava su due livelli, con aiuole simmetriche. L’area sopraelevata occupava infatti un “sito bisquadro”, per la quale Morelli suggeriva “varij comparti di vaghi e scelti fuori”. Tra i disegni di progetto compare anche quello del muro perimetrale del giardino ornato con una soluzione di raffinata architettura di verzura con nicchie e porte. Al centro di una triade di nicchie di verzura, su un alto basamento a pianta circolare su quattro livelli, doveva essere collocata la statua di Nettuno, divinità del mare. Anche in questo caso si trattava di una soluzione inedita a Piacenza, città nella quale si registra una lunga consuetudine di fondali prospettici dipinti nei cortili e nei giardini. Straordinaria anche l’invenzione creata per l’ingresso delle carrozze. Nella ricerca di uno sfarzo inedito l’architetto ricava l’ingresso delle carrozze sul lato sud est dell’edificio che affaccia sullo stretto cantone Mosca, ponendolo in asse con l’ingresso principale su strada S. Lazzaro. L’architetto mirava a conciliare il fattore estetico con quello funzionale, avvalendosi di un artificio che, mascherando l’infelice spazio di accesso, muta l’orientamento delle preesistenti scuderie, dapprima collocate in un vano lungo e stretto con direzione sud- nord. Il nuovo ingresso per le carrozze, ricavato dalla demolizione di un vano scala e di parte delle vecchie scuderie, poste a sud, assume ora una struttura ad emiciclo, che da un lato, a ovest, si apre sulle scuderie, dall’altro, a nord, attraverso uno stretto androne a crociera immette nel cortile d’onore. In palazzo Anguissola di Grazzano, l’uso della cortina laterizia connota fortemente l’immagine esterna, a sottolineare, nella prima età neoclassica, il gusto per un’architettura severa e priva di sovrastrutture decorative. Sia il fronte principale sia quello su cantone Mosca sono interamente in mattoni di laterizio, con superficie di finitura sagramata che ora presenta la colorazione tipica rosso bruno, ma che in origine doveva essere connotata almeno nelle membrature architettoniche principali e secondarie, comprese le cornici delle finestre, da una colorazione che avrebbe dovuto simulare i colori di una pietra naturale. Il laterizio faccia a vista ha avuto larga fortuna in città, già dal Cinquecento, soprattutto nell’architettura civile, poi solo parzialmente e gradualmente sostituito dall’intonaco. La facciata con “ornati di bassissimo rilievo, di pochissima spesa e durevolissimi”, è un sottile gioco di simmetrie trasgredito al piano terreno con l’apertura eccentrica del portale dettata dal preesistente ingresso, la cui posizione rimase quindi immutata. Il disegno di facciata appare strettamente connesso alla riforma di quelle parti del palazzo che mal si adattavano al nuovo prospetto. In particolare, il ritmo della rigorosa disposizione dei finestrati, rimanda a modelli romani (palazzo Doria Pamphilj, Gabriele Valvassori 1730 c.). Il fronte principale del nostro palazzo, con la “lunga e magnifica fuga di undici finestre in fila”, cela il lungo e difficile studio del progettista che non vuole trascurare nulla e rendere “al più possibile, ben perfetta, e godibilissima” la fabbrica. Nell’organizzazione dei livelli, l’architetto non enfatizza il piano nobile, ma ne scandisce l’ordine compositivo nel più ampio e uniforme disegno della facciata. La suddivisione tra i vari livelli è affidata a cornici marcapiano, mentre agli angoli si conferma la presenza di cantonali a bugnato, seguendo una pratica edilizia e un gusto piuttosto diffusi nelle dimore gentilizie della città. Il monumentale portale, serrato fra paraste di ordine tuscanico, immette all’atrio a tre navate, che ripropone una impostazione cinquecentesca romana. L’irregolarità del lotto favorisce l’invenzione del grandioso atrio a triplice cancellata, ricordo di quello di palazzo Aldrovandi a Bologna, e l’inedita soluzione delle prospettive. Il palazzo del marchese Ranuzio Anguissola presenta infatti una planimetria atipica con un androne a tre navate, monumentalizzato da una triplice fila di pilastri. Il riferimento va ricercato nella cultura architettonica romana del Cinquecento, nel sangallesco palazzo Farnese, poi esportato al nord, nella Mantova gonzaghesca, a palazzo Te, da Giulio Romano. L’androne si apre sulla corte d’onore, anch’essa decentrata rispetto alla planimetria dell’edificio. Presenta impianto rettangolare, secondo il dettato della trattatistica. Pietro Antonio Barca suggeriva infatti che “Piazze, cortili, vestiboli, quanto più si avvicinaranno alla proporzione quadrata, tanto più saranno lodati” Il cortile d’onore del nostro palazzo è privo di portico sul lato opposto all’entrata, secondo uno schema rintracciabile, a Piacenza, nel cortile secondario cinquecentesco del Palazzo Landi dei Tribunali, nei palazzi del Monte di Credito su Pegno, Casati, Costa, Cigala Fulgosi e Scotti di Sarmato. Alla cultura romana cinquecentesca e settecentesca, rimanda il fronte sul cortile d’onore. Qui, l’impaginato su doppio ordine del corpo di fabbrica che fronteggia l’ingresso evoca soluzioni giuliesche nell’uso del bugnato che fascia le colonne di ordine ionico del portale, e un ritmo classicheggiante nell’uso dell’arco riquadrato dall’ordine, mentre le cornici delle finestre del piano nobile ricordano le soluzioni messe a punto da Ferdinando Fuga (1699-1782 ) nel palazzo della Consulta, ultimato nel 1737, una delle opere più significative nell’ampio programma di rinnovamento edilizio promosso da papa Clemente XII. Ilmotivo della greca, che fregia la cornice che divide il piano terra dal primo piano, interrotta dal balconcino con pseudo serliana centrale di ordine ionico, fa esplicito riferimento alla cultura neoclassica. Il fronte sul cortile, così impaginato e solo minimamente variato nella soluzione di coronamento a balaustra adottata per nascondere l’inclinazione del tetto, si configura come vero e proprio oggetto architettonico-decorativo incastrato nel telaio

99 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 del palazzo. Il trofeo d’armi previsto da Morelli in asse alla finestra centrale, è stato sostituito in seguito dallo stemma del casato, dipinto al di sopra della pseudoserliana. Lo “Scalone magnifico”, luminoso e ben comodo” descritto da Morelli, è ricavato nel braccio nord est del portico tra i due cortili dai quali riceve una grande luminosità, seguendo in questo alcuni celebri esempi di palazzi bolognesi, ma non si arresta al piano nobile. Svolgendosi per due piani secondo modelli romani, presenta una soluzione tipologica inedita a Piacenza, già proposta nella Roma barocca. Il riferimento è alla berniniana scala di palazzo Barberini. La prima rampa si affaccia sul portico del cortile d’onore, secondo uno schema già utilizzato, alle metà del XVIII secolo, da Domenico Trifogli in palazzo Tozzoni a Imola e in altre dimore bolognesi. Questa soluzione suscitò molto interesse tra gli architetti del tempo, al punto da essere oggetto, da parte dello stesso progettista, di una successiva ripresa (1793) nella dimora romana del suo protettore, papa Pio VI Braschi. Nonostante l’irregolarità del lotto, Cosimo Morelli riesce a conferire all’impianto quell’ordine e quella razionale magnificenza dei palazzi signorili più prestigiosi, derogando in questo dalla prassi costruttiva piacentina, tesa a recuperare, per quanto possibile, le preesistenze architettoniche nei nuovi impianti. Salendo lo scalone d’onore che approda alla galleria “che porta comodamente ad ogni appartamento” si entra nel “salone grandioso…che serve a due nobilissimi Appartamenti di tre camere l’uno, coi loro Gabinetti”, conformemente alle indicazioni della trattatistica architettonica. La costruzione, che si affaccia su strada S. Lazzaro, si qualifica quindi come un monumentale intervento architettonico a scala urbana. In conclusione, la vicenda architettonica della dimora del marchese Ranuccio Anguissola di Grazzano, un palazzo in “una città di palazzi”, costituisce, negli ultimi decenni del Settecento, il felice momento conclusivo di quella straordinaria ripresa costruttiva che ha segnato la città dall’età barocca e tardo barocca attraverso il contributo di un grande architetto capace di superare le consuetudini progettuali degli architetti locali, ideando soluzioni del tutto innovative per la città.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2006 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Anguissola di Grazzano, Ticom, Piacenza 2006

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Pianta dell’isolato con palazzo Ghizzoni Nasalli

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PALAZZO GHIZZONI NASALLI * via Serafini, 2

L’isolato di palazzo Ghizzoni Nasalli fa parte del quartiere dei Landi, o di S. Lorenzo, detto anche della Cattedrale, uno dei più antichi della città, compreso all’interno del perimetro romano. L’isolato attuale è delimitato da cantone Serafini a sud ovest, via Cavour a ovest, via Gregorio X, già strada della Morte a nord, e via X Giugno, già strada di Fodesta, a est. Rispetto all’impianto edilizio rappresentato nella pianta catastale dell’età ducale, l’attuale isolato presenta un evidente ridimensionamento soprattutto lungo il tratto che si affaccia su via Cavour, oggetto di un importante opera di allargamento realizzato tra il 1905 e il 1908 sulla base di un progetto finalizzato a determinare le condizioni di prestigio e decoro di una delle principali arterie cittadine che costituiva “il cardo” di collegamento tra la piazza Grande e il ponte sul Po verso Milano. L’intervento di ampliamento di via Cavour si colloca all’interno di un lungo processo di adeguamento della rete stradale del centro storico cittadino, che in età farnesiana e borbonica si esplicava principalmente attraverso l’iniziativa privata, mentre dal 1860 è sempre più diretto dall’iniziativa pubblica. Processo che tuttavia a Piacenza non ebbe mai la possibilità di essere definito attraverso un vero e proprio piano regolatore, se non a cominciare dai primi anni del terzo decennio del Novecento. La quinta architettonica del lato orientale di via Cavour, vale a dire quella che delimita il nostro isolato, fu integralmente ridisegnata su progetto degli architetti Arnaldo Nicelli (1876-1946) ed Ernesto Pirovano (1866-1934). Ciò comportò una integrale ridimensionamento delle particelle catastali del primitivo impianto ottocentesco, alcune delle quali furono accorpate in unità immobiliari di più ampio ingombro planimetrico. Anche il piccolo isolato frapposto fra il cantone Serafini, via Roma e via Cavour, autentico relitto dell’antico impianto medievale, fu in parte interessato dal ridisegno della quinta architettonica del “cardo” urbano di via Cavour. L’istanza del decoro consigliò infatti i due architetti Nicelli e Pirovano di nascondere il vicolo Serafini dietro un portale architravato su mensole a volute incluso all’interno di un garbato disegno di facciata di palazzo di impronta chiaramente liberty, costruito su progetto dello stesso Nicelli nel 1914. Anche la strada di Fodesta, sul versante est dell’isolato, era stata interessata fin dalla metà del Cinquecento dai provvedimenti scaturiti dalla Commissione di Politica e Ornamento che intendeva procedere all’apertura di nuove strade nella zona nord della città, coinvolgendo anche il tratto di via delle Benedettine da via Genocchi a cantone Trebbiola, e il tratto che andava alla chiesa della Torricella, la cui attuazione si concretizzerà con il progetto dell’urbinate Francesco Paciotto (1521-1591), che nel 1556 era stato nominato maestro di strada e all’epoca era architetto e ingegnere militare di Ottavio Farnese. Anche i fronti stradali di Fodesta sono il risultato di parziali accorpamenti del più frammentato disegno edilizio del preesistente impianto medievale. Alla fine di questo processo trasformativo dell’isolato, palazzo Ghizzoni Nasalli è l’unico fabbricato che, nel modificare un impianto più antico di cui si scorgono le tracce nel cortile, ha determinato un ampio vuoto interno articolato in un’area cortilizia rettangolare e in un molto più ampio giardino delimitato sul lato nord da una serra. Sull’area ove sorge l’attuale palazzo, insistevano una serie di case di proprietà Pinci, vendute ai de’ Magistris Pisone che ancora le abitavano nel 1737 e nel 1765. In questo periodo non si esclude che le case siano state trasformate in una dimora più funzionale e decorosa. Alla fine del Settecento (1799) questa fu alienata alla famiglia Ghizzoni, che ne commissionò la ricostruzione all’architetto Perego nel 1820. Al termine della lunga diatriba intercorsa fra il primo progettista incaricato dalla famiglia, e l’Ufficio Tecnico del Comune, entrò in scena l’architetto piacentino Giuseppe Pavesi autore del progetto della sola facciata, datato 1839. La struttura del caseggiato preesistente dovette condizionare molto il progetto dell’architetto Perego, il quale fu costretto a disporre l’ingresso principale sull’angolo di destra della facciata, evidentemente unico varco di penetrazione verso l’interno, allineato all’incirca con l’asse centrale principale degli spazi liberi del cortile e del retrostante giardino; quest’ultimo non a caso delimitato su via Gregorio X dal prospetto della serra, caratterizzato da otto campate scandite da colonne doriche sormontate da una trabeazione con metope e triglifi di chiara derivazione “greca”. All’interno di ogni campata, in posizione più arretrata rispetto alle colonne libere, si staglia una serie di arcate a tutto sesto che risultano come imprigionate, e quasi soffocate, dalla severa intelaiatura dell’antistante ordine dorico trabeato. A ben vedere, il severo disegno della serra, peraltro molto simile alle colonne trabeate che delimitano un tratto del lato sinistro dell’androne, trasformato in portico del cortile, sembra distanziarsi dall’analogo motivo trabeato, su colonne doriche, che suddivide in tre specchiature il corpo centrale del piano nobile della facciata. Non si può pertanto escludere che questa quasi impercepibile distanza stilistica sia da attribuirsi al passaggio di mano dall’architetto Perego all’architetto Pavesi, la cui cifra stilistica, nell’ordine dorico di facciata, sembra quasi indugiare su un insistito ornamentalismo particolarmente evidente sul fregio della stessa trabeazione.

Palazzo Ghizzoni Nasalli deve essere rapportato al contesto urbano della città farnesiana che, nel corso dell’Ottocento, andava rinnovando molte delle sue fabbriche, soprattutto quelle riferibili alla committenza

103 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 borghese. Il palazzo è il prototipo del nuovo modo di abitare che si diffonde a Piacenza nel XIX secolo. Si riducono le dimensioni degli spazi e delle scale. Lo scalone principale, che si svolge su due rampe, non è particolarmente innovativo. Esso si innesta ortogonalmente all’androne terreno, per poi svolgersi su due rampe disposte in parallelo. In definitiva dietro le forme del progetto Pavesi si celano soluzioni di rilevante interesse compositivo, senza peraltro raggiungere i livelli eccezionali di alcune altre dimore dell’aristocrazia piacentina. Come si è detto, il progetto per la “Facciata della Casa dell’ill.mo Sig. Luigi Ghizzoni” è datato 1839. Il disegno (Piacenza, Archivio di Stato) rappresenta un fronte con ingresso eccentrico, un ordine terreno bugnato, il piano nobile ritmato da semicolonne doriche, nel corpo centrale lievemente in aggetto, e da finestre sormontate da cornice centinata, ornate da putti e da sculture allegoriche. La facciata è impostata su tre piani fuori terra, ritmata dalla alternanza di pieni e di vuoti, dalla varietà delle forature, dalla raffinatezza dei dettagli ornamentali. Il tutto condotto con sobrietà plastica, nell’affinità con il gusto decorativo proprio della cultura lombarda di quel periodo, sostenuta da Antonio Amati e da Pelagio Palagi. Nell’insieme, il quadro di facciata e il telaio degli ordini riflettono abbastanza puntualmente il progetto di Giuseppe Pavesi. Il sistema di articolazione del fronte principale è organizzato su tre livelli. Il comparto centrale è quello che mostra una maggiore articolazione plastica delle membrature che mutano da livello a livello. Il piano terra è segnato da un sobrio e severo bugnato orizzontale entro cui si collocano tre finestre prive di elementi decorativi. Il piano nobile è scandito da un elegante ordine dorico tripartito a sostegno di una rigida trabeazione arricchita da un fregio in stucco che scherma, su un piano sensibilmente più arretrato, l’impaginato delle tre finestre centinate nelle cui lunette sono raffigurazioni plastiche di soggetto mitologico. Il terzo piano replica in una versione appena più arricchita l’impaginato del piano terra, ma con finestre contornate da cornice e concluse da architravi appena in rilievo. Le due ali laterali sono connesse al comparto centrale sullo stesso piano arretrato delle finestre centinate del piano nobile. In questo progetto si avverte un significativo scostamento dagli schemi compositivi tradizionali, laddove diventa prepotente la contraddizione tra le sottolineature gerarchiche del corpo centrale, privo del portale di ingresso, che invece è apparentemente replicato nei due portali arcuati simmetrici sulle stesse ali. Qui inoltre, solo il portale di destra è direttamente connesso al giardino interno attraverso il lungo androne; mentre nella specchiatura del finto portale di sinistra è inserita una semplice finestra arcuata che dà luce ad un ambiente interno. In questa facciata, l’architetto, pur avvalendosi degli stilemi neoclassici, proposti attraverso un sapiente gioco di scarti sui piani, utilizza gli elementi architettonici per impreziosire, quasi all’eccesso, il corpo centrale. Il balcone del piano nobile è sostenuto da cinque mensole, al di sotto delle quali, in luogo dell’usuale portale di ingresso, si apre la finestra centrale della terna basamentale. Sembra quindi evidente che Pavesi abbia dovuto cedere a un compromesso, coniugando gli elementi volumetrici del lessico neoclassico, con elementi ornamentali che indugiano ancora ad un linguaggio “passatista”. Il risultato dell’operazione è tuttavia innovativo laddove scompagina i termini della composizione non tanto per soddisfare una propria esigenza di gusto, quanto per risolvere le anomalie della struttura architettonica preesistente, equiparando, quasi su uno stesso livello, i tre assi verticali della composizione. Va inoltre osservato che nel disegno originale il corpo centrale presenta tutte le parti più aggettanti connotate da una colorazione giallo ocra, opportunamente stemperata da giallo d’ombra e nero carbone, mentre le due ali laterali e la parete di fondo del piano nobile sono colorate da una tonalità giallo ocra più intensa e scura, evidentemente per sottolineare la gerarchia subordinata di questa compagine rispetto alle parti più emergenti. Le originarie tonalità cromatiche permangono ancora sul basamento bugnato sull’ordine ionico del livello superiore, e su tutte le membrature delle finestre e dell’elegante cornicione di coronamento che abbraccia l’intera larghezza della facciata. In definitiva, l’architetto Pavesi, sebbene costretto a rinunciare al rigore gerarchico della simmetria definita su un asse centrale, in qualche misura evidenziata dal manifesto aggetto del balcone, introduce attraverso un artificio architettonico una diversa simmetria bilanciata sui due portali laterali e sul balcone centrale, che in parte attenua il rigore neoclassicista per aderire ad uno schema dell’impianto planimetrico del palazzo condizionato dai fabbricati preesistenti. L’androne di accesso al cortile e al giardino, con volta a botte, si trasforma, nel tratto finale, in un portico che delimita un primo cortile sulla sua sinistra, articolato da tre colonne doriche architravate che sostengono una volta a botte in perfetta continuità strutturale e architettonica con quella dell’androne, dando l’illusione di un più lungo asse di penetrazione nel corpo della fabbrica. La presenza del granito rosa di Baveno nelle colonne, conferma il largo utilizzo di questo materiale nei cortili dei palazzi piacentini, lo stesso delle mensole di sostegno al balcone e delle semicolonne doriche della facciata. La corte interna è separata dal giardino da un muro serrato fra due alti pilastri. Sulla facciata sud di questo cortile in corrispondenza del suo asse centrale si conserva, a livello di piano terra, un portale trabeato sostenuto da paraste doriche entro il quale è oggi presente una finestra centinata che forse nel progetto Perego era un varco di accesso arcuato a tutto sesto. Sul fronte ovest del cortile si conservano, nell’attuale impaginato architettonico, i resti di una colonna in arenaria connessa a ghiere di arcate in cotto incassati nella parete che, insieme alle colonne in laterizio presenti all’ultimo piano nel fronte

104 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 est dello stesso cortile, fanno parte della struttura del loggiato dell’antico palazzo de’ Magistris Pisone. Il cancello, con lo stemma del casato, posto al limite del braccio di portico che delimita il lato est del cortile, immette al giardino, chiuso sul lato di fondo nord, da una serra neodorica. Qui, la facciata è articolata in otto campate, scandite da colonne doriche, e da due brevi intervalli delimitati ai lati da paraste che sostengono una trabeazione “alla greca” con tanto di metope e triglifi. Nelle quattro campate centrali sono collocate le ampie porte vetrate che immettono nella serra. Quindi, nel suo disegno d’insieme, la serra presenta dei moduli compositivi le cui connotazioni architettoniche tendono a focalizzare l’attenzione sulla terza, quarta, quinta e sesta campata, lasciando ai margini rispettivamente le prime due campate a sinistra, e le ultime due campate di destra. Dunque lo spazio rettangolare del giardino presenta una disposizione governata unicamente dalla scansione del colonnato trabeato, del tutto autonoma dai ritmi determinati dalle membrature architettoniche del portale trabeato presente sull’asse centrale della facciata sud del cortile. Inoltre l’asse di penetrazione dell’androne traguarda verso l’ottava campata di destra del colonnato trabeato della serra, determinando così l’unico punto di interconnessione percettiva tra l’antistante spazio del cortile e quello del retrostante giardino. In questa sottile trama di relazioni visive tra il corpo principale e il corpo di fondo della serra, si intravvede tutto lo sforzo compiuto dall’architetto progettista di definire un sistema compositivo di insieme quanto più vicino possibile alla tipologia del palazzo seicentesco e settecentesco, calato all’interno di un sito dall’andamento stretto e lungo e alquanto irregolare, per lo più condizionato dalle preesistenze architettoniche. Il risultato Nonostante questi vincoli il risultato raggiunto riesce, attraverso un gioco percettivo definito da membrature architettoniche disposte in modo seriale, a dissimulare le costrizioni determinate dallo spazio preesistente. In conclusione quindi si potrebbe affermare che l’inerzia culturale imposta dalla tradizione architettonica piacentina continuava, ancora nei primi decenni dell’Ottocento, a manifestare i suoi effetti anche quando erano venuti meno i parametri spaziali necessari per un organico dispiegamento dello schema tipologico barocco.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2007 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Ghizzoni Nasalli, Ticom, Piacenza 2007

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Pianta del catasto ducale con il viale di accesso e il palazzo dei marchesi Paveri Fontana a sud

106 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

PALAZZO PAVERI FONTANA * Castel San Giovanni

Alle porte dell’abitato di Castel San Giovanni, in località Caramello, a sud di Fontana Pradosa, sorge palazzo Paveri Fontana con le pertinenze rurali. Le ragioni che addussero i Paveri Fontana ad attestarsi sul territorio di Fontana Pradosa, Castel San Giovanni, Sarmato e Borgonovo sono sia di carattere storico (infeudazione imperiale del 1004 adiacente ai territori che la famiglia già possedeva), sia economico, legate alla fertilità del suolo e perciò agli interessi economici cui la famiglia aveva posto molta attenzione. I Paveri Fontana fanno parte, con gli Arcelli Fontana e i Malvicini Fontana, dell’antichissimo e potente consorzio gentilizio dei da Fontana che risale agli inizi del secolo XI, con vasti possedimenti in val Tidone. Il casato è proprietario della possessione di Caramello almeno dal Quattrocento, come confermano alcuni documenti dell’Archivio di famiglia. È sintomatico ricordare che la gravissima crisi finanziaria che colpì la famiglia nel 1833 alla morte del marchese Ferdinando, figlio di Demofilo V, fu affrontata con la vendita dei palazzi di Piacenza e di Parma, dei loro arredi, e di tutte le proprietà terriere inclusi i latifondi di Piozzano (oltre 4000 pertiche), Fontana verso Po (oltre 3550 pertiche), Mezzanini di qua e di là dal Po, alle porte di Piacenza (3000 pertiche), con l’esclusione del solo nucleo di Caramello.

Il preesistente impianto della villa, forse risalente al Quattrocento, probabilmente caratterizzato da forme più compatte e affatto diverse dalle attuali, fu trasformato sulla base di un ben definito disegno ideologico e culturale concepito nel Settecento conciliando la “retorica” della villa con la “pratica” e con il paesaggio agricolo circostante. Nel piacentino, il processo di “costruzione” del territorio è principalmente dovuto all’iniziative dell’alta aristocrazia, interessata fin dal Rinascimento alla letteratura sulla villa e, soprattutto, ai trattati e ai manuali di agronomia e di cultura agraria, come documenta la presenza dei testi di Agostino Gallo, Camillo Tarello, Giuseppe Falcone nelle biblioteche nobiliari della città. Già agli inizi del Seicento, la nobiltà piacentina, antica o di più recente conio, rivolse i suoi interessi verso il contado e a consolidare e incrementare il patrimonio fondiario e immobiliare, non limitandosi a raccogliere i ricavi determinati della rendita ma anche al controllo diretto dell’amministrazione dei fondi agricoli e talvolta anche a exercitia rusticana. Una prima conseguenza della gestione diretta del patrimonio fondiario è la diffusione nel contado di edifici di villa che non solo facilitava la cura dei terreni nei periodi delle semine e dei raccolti, ma contribuiva a rafforzare il ruolo e il prestigio della casata, in modo speculare ai palazzi esibiti in città. All’ideologia della “vita in villa” espressa nel trattato di Vincenzo Scamozzi (Venezia 1615) rimandano “la strada lunga […] e con le piante di qua e di là […] per poter andare all’ombra”, ossia il lungo viale alberato che si diparte dalla via Emilia, e la villa del marchese Gaetano Paveri Fontana, perché collocata “nel mezo delle possessioni come il core nel mezo dell’animale […], e non lungi da qualche bella strada […] pubblica”. Il teorico vicentino ricordava che “le case suburbane” potevano “essere di molte sorti”, riconducibili “in tre specie cioè communi, onorevoli e magnifiche”, e in effetti, il palazzo-villa di Caramello afferisce alla tipologia delle residenze suburbane “magnifiche”, perché eloquente espressione della volontà “del padrone che fabbrica” e degli architetti che desiderano “essere eccellenti” per affermare la magnificenza cui ambisce il committente. Un’attenta rilettura del trattato di Vincenzo Scamozzi e della documentazione d’archivio evidenzia la perfetta convergenza fra il committente appartenente a un alto livello della scala sociale e, in quanto tale, capace di adeguato “giudicio”, e l’eccellenza dell’architetto manifestata dalla “magnificenza” del manufatto edilizio, la quale consiste nella moltiplicata dovizia dell’”ornamento”. Ai “casini di delizia” sorti anche nel piacentino fin dal tardo Quattrocento (emblematico il caso de La Sforzesca a S. Antonio di Castell’Arquato, in val d’Arda), si affiancano, fra Sei e Settecento, nella piena e nella tarda età farnesiana, sfarzose residenze di villa costantemente collegate con la proprietà fondiaria che le circonda e di cui esse sono fulcro organizzativo nonché sede amministrativa. Numerose testimonianze, ancorché di dimensioni contenute e dunque non paragonabili alle soluzioni progettuali ideate e messe a punto per alcune ville dello Stato di Milano e Veneto, si conservano ancora nei piccoli centri lungo la via Emilia, da Agazzino a Rottofreno a Sarmato verso Castel San Giovanni e sulle prime pendici collinari della val Tidone. Le grandi proprietà fondiarie erano infatti prevalentemente localizzate in zone di pianura e pedemontane, il che giustifica la presenza di numerosi insediamenti di villa e delle pertinenze rurali in queste stesse aree. Con il cantiere della villa si avviava anche il ridisegno del fondo nobiliare. Basti pensare ai casi di Corneliano, in val Nure e di Tavernago in val Luretta. Nella cartografia del periodo farnesiano e nelle successive testimonianze cartografiche e pittoriche si riflettono gli impianti aulici di residenze e di giardini, di lunghi viali di accesso che agganciano la villa all’intorno. Stradoni alberati e assi viari ombreggiati da filari di pioppi segnano e disegnano la presenza aristocratica. La villa è perno del territorio-campagna tramite il prolungamento degli assi che governano edifici e giardini in lunghi e rettilinei viali. L’organizzazione della campagna è scandita da canali e da strade interpoderali che tramano il territorio relazionandosi, secondo una calcolata sintassi distributiva, con

107 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 le emergenze architettoniche, rurali e di delizia. Un lungo viale alberato traguarda nell’avancorte del castello già Trissino da Lodi alla Bastardina, nel Comune di Agazzano, e a Corneliano, in prossimità dell’accesso alla villa, il viale si divarica disegnando una y i cui bracci proseguono rispettivamente nella corte rurale l’uno, nella campagna l’altro. Non si tratta di percorsi viari e di tracciati alberati paragonabili a quelli che attraversano i giardini delle ville di delizia lombarde testimoniati dalle incisioni del bolognese Marc’Antonio dal Re (1726 e 1743). Nel ducato farnesiano sono infrastrutture percorribili in carrozza, funzionali a collegare la residenza di villa con le pertinenze rurali, con il territorio, con il parco venatorio, con l’oratorio e con la strada pubblica. Il territorio agricolo viene così parzialmente modificato dal committente secondo un disegno funzionale al nuovo insediamento residenziale. È quanto si verifica anche a Caramello, ove il sito ameno, incrocio di acque (rio Panaro) e di strade, accoglie il palazzo e le pertinenze rurali, strutture necessarie all’organizzazione del lavoro agricolo. Il palazzo e la tenuta di Caramello sono documentati da due cabrei: il primo, del 1763, testimonia l’estensione delle proprietà e la trama dei percorsi interpoderali, ma non il lungo viale di pioppi che conduce al palazzo, a quella data ancora collegato alla strada pubblica attraverso un percorso situato sul versante est della dimora. Il secondo rappresenta l’assetto topografico “della possessione di Caramello”, commissionato dal marchese Gaetano Paveri Fontana ed eseguito nel maggio 1765. I cabrei erano degli utili documenti, predisposti per gestire i fondi agricoli sotto il profilo economico-giuridico, ma che potevano essere anche utilizzati come “manifesti” celebrativi di una classe sociale che si autorappresenta nelle terre possedute. L’interesse del nobile proprietario a una puntuale ricognizione del patrimonio fondiario è dimostrato dai numerosi cabrei nel fondo Mappe e disegni dell’Archivio di Stato di Piacenza. Nel corso del XVIII secolo il cabreo perde la finalità giuridica, pur mantenendo un’importanza documentaria nell’amministrazione dei fondi agricoli. I rilievi catastali, eseguiti nel primo decennio dell’Ottocento e in età luigina costituiscono il moderno tentativo di misurazione topografica di tutto il territorio e attraverso la lettura di una di queste mappe è possibile avere una visione d’insieme della tenuta di Caramello dei Paveri Fontana che chiarisce la funzione dominante e catalizzatrice che esercitava a quel tempo il palazzo, centro dell’insediamento rurale. Ad eccezione dell’alto muro in mattoni che delimita il brolo a sud del palazzo, la restante parte dell’ampio giardino a nord, a est e ovest del complesso residenziale non presenta alcuna cesura con la campagna circostante, il palazzo si pone quindi come l’epicentro dell’intero sistema. La creazione del giardino è coeva alla ristrutturazione della preesistente dimora. Il lungo viale di pioppi, nella varietà piramidale, che si diparte dalla via Emilia e approda all’ingresso del palazzo, rappresentato nel catasto napoleonico (1809), costituisce l’asse prospettico privilegiato della tenuta, vero e proprio cannocchiale che inquadra il palazzo e il grande parterre antistante, organizzato su un disegno geometrico proprio del giardino “all’italiana”, arricchito da una peschiera di forma rettangolare allungata, ornata da statue su balaustra, alimentata da acque incanalate dalle colline rappresentate anche nei cabrei sopra citati. La peschiera, che il recente intervento di restauro (2007-2008) ha recuperato nella sua interezza, ospitava cigni e una piccola imbarcazione, come documentano alcune fotografie dell’Archivio dei marchesi Paveri Fontana. Il ricambio d’acqua della peschiera garantiva anche l’alimentazione del lago presente nel vicino boschetto, ove giungeva attraverso un sistema di canalizzazioni sotterranee e di saracinesche, per poi confluire nel vicino rio Panaro, che scorre a est del palazzo, tuttora esistente. Il palazzo costituisce dunque il punto focale dell’asse prospettico viale-giardino-peschiera, impostato su un disegno longitudinale interrotto dalla presenza, a est, del boschetto. L’originario assetto settecentesco del giardino è stato alterato intorno alla metà del XIX secolo con la creazione di un’area boschiva e l’abbandono della simmetria e delle forme geometriche che avevano caratterizzato fino ad allora gli impianti dei giardini “all’italiana”. Nel boschetto esistevano due piccoli ponti in muratura con sponde ricurve in ferro battuto, non più in loco, ma conservate in una delle pertinenze rurali. Sul retro si stende un grande prato, interamente cintato. Molto probabilmente quest’area era in origine occupata dal brolo, cui era possibile accedere anche da un cancello ricavato nella cinta a ovest, tuttora esistente fra pilastri quadrangolari in mattoni di laterizio. La quota di questa area verde, piuttosto grande, è leggermente più bassa rispetto al piano del cortile d’onore. Essa era un tempo arricchita da una peschiera dal profilo irregolare, ricavata a sud del palazzo, oggi non più esistente, utilizzata per l’irrigazione dei terreni. La larghezza del prato (o brolo) corrispondeva a quella del palazzo, come suggeriva l’Idea dell’architettura universale (1615) di Vincenzo Scamozzi.

Dalle fonti documentarie si apprende che fu il marchese Gaetano Paveri Fontana responsabile dell’avvio del cantiere del palazzo di Caramello, principale regista della propria autocelebrazione architettonica. Nel 1729 il marchese Gaetano promosse il restauro della chiesa di Fontana Pradosa, la fece decorare e vi fece porre intorno al prato antistante “cippi marmorei”, quindi, nel 1739, “Caramelli veteribus aedificiis deturbatis novam domun peramplam / ita ut nunc conspicitur sumptuose excitavit” . La trasformazione settecentesca della dimora di Caramello in sfarzosa “residenza di delizia” è dunque il portato di una calcolata operazione calata all’interno di un’estesa proprietà che da secoli apparteneva alla famiglia. Non è facile seguire l’iter del cantiere della dimora che alla morte del marchese Gaetano Paveri Fontana, privo di discendenti diretti,

108 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 passò al nipote primogenito ex fratre Demofilo V, e rimase ai suoi discendenti diretti fino ad oggi nella persona del marchese Luca Paveri Fontana. L’esame dei fondi archivistici, della cartografia, delle note di conti e, soprattutto, la rilettura della ricca documentazione conservata nell’archivio Paveri Fontana, i disegni relativi al palazzo che la famiglia possedeva in Piacenza, sull’attuale via Poggiali 24, consentono di ricostruire l’evolvere del cantiere architettonico di Caramello, non di quello decorativo, ma, soprattutto, di ricostruire il disegno complessivo, le strategie edilizie di questa grande casata, le connessioni perdute fra architetti e committenti. Fra i primi interventi documentati a Caramello, a partire dal 1712, si collocano quelli in cui sono coinvolti l’architetto Ignazio Cerri (Piacenza, 1656-1723), figlio del più noto Paolo (Piacenza,1635-1700), discendente di una famiglia di costruttori largamente documentati a Piacenza fra Sei e Settecento, e il più celebre Marc’Aurelio Dosi (1676- 1757). Ignazio Cerri è attivo, con il padre, nel cantiere della villa Conti, oggi Baffi, a Vallera (1687), quindi in quello del Monte di Pietà a Piacenza dal 1700 al 1713, e a lui si deve anche il progetto del palazzo dei conti Douglas Scotti di Vigoleno (attuale palazzo della Prefettura) su via S. Giovanni 15, che confermano la fama raggiunta dall’architetto e la stima di cui godeva presso le più importanti famiglie dell’aristocrazia cittadina. La presenza di Marco Aurelio Dosi a Caramello nel 1713, conferma l’ipotesi da tempo avanzata di una sua frequentazione dei Bibiena. Quadraturista e scenografo, a Dosi si devono i progetti per le chiese di S. Lorenzo a Cortemaggiore e di S. Raimondo a Piacenza, di cui si conserva il disegno per la facciata (1731), numerosi apparati effimeri e vasti cicli di decorazioni a quadratura a Piacenza e nel monastero di S. Colombano a Bobbio. Il vero e proprio progetto di trasformazione dell’antico insediamento di Caramello in residenza “di delizia” decollerà però solo nel 1739. Una preziosa documentazione, solo in parte edita, consente di fissare l’avvio dei lavori nel secondo decennio del Settecento. Lo confermano il contratto del 5 settembre 1713, con il mastro Giuseppe Ziani, abitante in Piacenza nella vicinia di S. Sepolcro, quello stilato nel 1714 con il marmorino Francesco Rossi per la realizzazione degli scalini in miarolo (granito) rosso, l’accordo siglato il 28 ottobre 1715 con Francesco Boschetti. Quest’ultimo è anche attivo nel cantiere del palazzo dei marchesi Landi di Chiavenna sullo stradone Farnese 32, e in quello del palazzo del conte Domenico Maria Scotti di Sarmato su via S. Siro. Nel 1783 Antonio e Pietro Mauro Boschetti sono responsabili dei lavori di ampliamento di palazzo Casati su via Gazzola, a conferma del fatto che la locale aristocrazia si avvaleva sovente dei medesimi operatori di accertata professionalità, sia per il palazzo di città, sia per la residenza suburbana. La seconda fase del cantiere è cronologicamente ascrivibile ai tardi anni trenta. Al 1738-1739 risalgono alcuni importanti contratti: con i picapietra luganesi Gian Angelo (1684?-Piacenza, 1754) e Giuseppe Durini per la posa in opera di balaustri in pietra di Roccapolzana ( località della val Tidone, prossima a Rocca d’Olgisio), per la realizzazione delle basi e capitelli in pietra di Cassano per le colonne; con i mastri Gaspare Pisani e Antonio Maria Fracassi, per la fattura di basi, capitelli e balaustri delle finestre. La presenza dei luganesi Francesco Rossi, Giuseppe e Gian Angelo Durini “maestro di marmi” a Caramello, quest’ultimo documentato nei più prestigiosi cantieri del sacro a Piacenza, ove si era stabilito dal marzo 1708, e nel territorio (a Castell’Arquato nella Collegiata), conferma l’ampia attività esercitata dai luganesi sul territorio e il largo consenso di una committenza colta ed esigente quale era quella delle famiglie nobili dalle quali questi marmorini ricevettero i maggiori incarichi. Il 17 marzo 1739 il marchese Gaetano Paveri Fontana sottoscrive un nuovo contratto, questa volta con il capomastro di Sarmato Francesco Tomba, figlio di Andrea e padre del più celebre Lotario (Sarmato,1749- Piacenza,1814), architetto del Teatro Municipale di Piacenza (1804), incaricandolo della “fabbrica che esso intende fare in d.to luogo di Caramello secondo il dissegno della stessa fatto dal sig. Ferdinando Bibiena Bolognese”. Il contratto obbligava il capomastro Tomba a “non rimoverlo, e mutarlo”, ma a seguire “perfettamente secondo d.to dissegno, e non altrimenti (…) con la riserva però a detto Sig. Marchese di poter far visitare d.ta fabbrica da qualsiasi architetto a lui piacerebbe”. Questo importante documento (1739) dell’Archivio Paveri Fontana chiarisce quindi che il progetto fu firmato da Ferdinando Galli Bibiena, che a Francesco Tomba fu affidato il ruolo di puro esecutore e inoltre che la progettazione architettonica fu sviluppata nel corso dell’esecuzione dei lavori grazie anche al contributo dello stesso committente che interagì con il celebre architetto.L’interesse dilettantistico del marchese Gaetano per l’architettura era comune ad altri membri dell’alta aristocrazia del tempo. Ne abbiamo precise testimonianze in ambito piacentino, con Carlo Orazio Cavazzi conte della Somaglia (+1698), responsabile dell’avvio del cantiere di Stra Levata 66 (attuale via Taverna), portato avanti dal figlio, il conte Annibale Maria (+1729) e nel vicino ambito pavese, ove gli esempi più celebri sono quelli dei marchesi Botta Adorno e di Luigi Malaspina. La presenza di Ferdinando Galli Bibiena (Bologna, 1657-1743) nel cantiere di Caramello, e quella del figlio Antonio (Parma,1700-Milano,1774), al servizio della medesima famiglia, che lo coinvolgerà nel 1773 commissionandogli la trasformazione, poi in parte non realizzata, del palazzo di via Poggiali 24, lascia pensare che l’operazione fosse inserita in un ben definito programma di “politica dinastica” di cui il palazzo di Caramello costituiva l’epilogo trionfale. Dal portale aperto sulla via Emilia si genera il lungo asse viario al termine del quale si erge la monumentale residenza costituita da un grande blocco rettangolare con al centro il cortile porticato su

109 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 un solo lato, ai margini territoriali dell’attuale provincia di Piacenza. Il fronte nord della villa, ritmato da sei bucature al piano terreno su uno zoccolo a scarpa alto circa 1,5 m, interrotte al centro dall’ingresso ad arco fra pilastri bugnati cui corrisponde, al piano nobile, una grande finestra dotata di finto balconcino, presenta un più recente coronamento “alla romana”, al centro del quale è stato ripristinato lo stemma del casato. Altrimenti caratterizzato è il fonte sud, verso il brolo e la campagna, quasi dispositivo scenografico che nel partito centrale, emerge in altezza per due piani. Elemento distintivo del fronte secondario del palazzo è il portico terreno a tre fornici, vero e proprio spazio filtrante fra il giardino, la corte nobile a nord e il paesaggio rurale sul retro. Il portico alleggerisce la compatta struttura muraria, diversamente organizzando i percorsi al piano terreno. I documenti d’archivio consentono di ricostruire, ad annum, l’andamento dei lavori in questa parte della fabbrica. Maggiore importanza riveste l’”Informatione dela fabbrica del Ill.mo Sig. Mse”, un documento privo di data, ma la cui grafia sembrerebbe riferibile all’architetto Marc’Aurelio Dosi. Possiamo supporre si tratti della minuta di una lettera indirizzata a Ferdinando Galli Bibiena, dal quale Dosi auspicava di ottenere l’autorizzazione ai lavori. Non è escluso infatti che Marc’Aurelio seguisse direttamente il cantiere, in assenza di Bibiena. Il documento, che potrebbe datarsi al 1738-1739, attesta che “il Signor Marchese vuole fare una …fabbrica più ampla ed una scalla grande di 4 andate, si è considerato di allargare detta salla 19 braccia, per havere il sito capace di fare una scalla comoda per ascendere, e di studiare il più facile per l’entrata della salla,(…) come ne appare dal disegno(…)”. Si tratta della puntuale descrizione di alcuni suggerimenti, poi non completamente attuati. Dalla lettura di questo documento si apprende anche che “si è pensato di fare le 3 loggie di sotto, due dalla parte avanti e soppra quella tutta la salla grande, e farli nel muro di mezzo finestre acciò si faccia bel vedere e come pure la loggia che introduce al giardino farla tutta apperta, dentro e fuori per godere bella vista(…). Dalla preziosa testimonianza apprendiamo che il marchese Gaetano avrebbe voluto una struttura dotata di “quattro torrette quadre” agli angoli, “acciò sopra quelle si formase li belvederi con ornato di cupolette graziose, ed entro à quelli formarvi gabinetti di molta comodità come studiolo, sito da abbiti, ed altre cose domestiche”. Non essendo però stato predisposto alcun disegno, è evidente che si trattava di “un’idea del Sig. Ma.se” lasciata al “libero pensiero e capriccio del Sg.r Bib.na”. Non è escluso che questa idea, di grande originalità, sia nata da una suggestione esercitata sul marchese Gaetano dal palazzo Ducale di Colorno, che peraltro egli frequentava, articolato su un impianto dotato di torri angolari. Le quattro torri belvedere, se fossero state effettivamente realizzate, avrebbero consentito di osservare il panorama da angolazioni diverse. Purtroppo non si conserva alcuna testimonianza iconografica relativa ai lavori di questa fase. Dal “Libro delle giornate delli Muratori di Caramello 1739”, dell’Archivio Paveri Fontana, si ricostruiscono i numerosi pagamenti alle maestranze (1739-1741, 1743; 1762 e 1763). L’8 giugno del 1739 è firmato il contratto con il picapietra Antonio Corvini per la fornitura di basamenti e capitelli in pietra di Cassano, probabilmente da utilizzare per le 12 colonne del portico terreno. L’avvio dei lavori per la costruzione del portico potrebbe pertanto collocarsi in quello stesso anno. Il 2 ottobre 1739 il marchese Gaetano Paveri Fontana firma un accordo con i picapietre Gasparo Pisani e Antonio Maria Fracassi per la posa in opera della balaustra della scala e per le cornici delle finestre; il successivo 27 ottobre lo stesso Pisani sottoscrive una nota per 4 basamenti, 4 capitelli e 4 colonne. I pagamenti a Gaspare Pisani sono documentati fino al dicembre 1743. A lui si deve la messa in opera delle colonne del grande portico sud, ove l’indubbia rigidità del blocco residenziale è felicemente attenuata, su questo prospetto, dall’invenzione dello spazio filtrante, ampiamente traforato. Il motivo dei bugnati che rinserrano colonne e pilastri, nel rimandare a soluzioni altrove sperimentate da Ferdinando, basti pensare al Cortile corrispondente ad arsenale, del Museo Teatrale della Scala, conferisce al sistema un’immagine di “soda architettura” che tende a dissolversi nel vano scala e nello stesso portico terreno in un gioco dialettico fra forti elementi contrastati con trafori e trasparenze. L’intervento settecentesco e il progetto bibienesco s’innestano su preesistenti strutture murarie come lascia chiaramente intendere l’analisi condotta sull’architettura della fabbrica. Lo conferma lo schema a blocco chiuso dei quattro corpi, di forma tendenzialmente quadrata, disposti attorno al cortile. L’architetto offre una soluzione non consueta nelle residenze di villa della campagna piacentina: una corte quadrangolare aperta sul paesaggio retrostante da un portico a doppia navata, voltato a crociera, che sfonda completamente l’ala sud della villa. Coppie di colonne di ordine dorico e pilastri fasciati da grossi dadi reggono al centro archi ribassati e, ai lati, archi a tutto sesto. Sul fronte sud si genera così quello spazio filtrante consueto all’agire scenografico dell’architetto, quadraturista e scenografo bolognese, che aveva già sperimentato un’analoga soluzione nella reggia dei Farnese a Colorno (Parma), ove aveva rotto il chiuso schema castellano traforandone la sola ala attigua al torrente. All’arioso portico terreno del palazzo Paveri Fontana, e al suo spazio diaframmato in modo così teatrale, si contrappongono il fronte principale e quelli est e ovest sul cortile, più austeri, quasi tetragoni, che nulla concedono al decorativismo dei singoli vocaboli: il bugnato, le classiche cornici delle finestre, di memoria cinquecentesca e bramantesca, e il calcolato alternarsi dei modelli centinati e a timpano. La presenza di serliane e di aperture ad arco, il trattamento a bugnato del portale principale, ma anche i grandi dadi che imprigionano i pilastri del portico terreno, estranei sino a quel momento all’architettura locale, il proseguire

110 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 del motivo del bugnato nel soprastante corpo di fabbrica verso la campagna e agli angoli del palazzo, denunciano la compresenza di due calcolate e non antitetiche logiche progettuali generanti esiti innovativi e sorprendenti. Le parti più rappresentative e di maggior qualità architettonica del palazzo sono il portico terreno e lo scalone d’onore che conduce al piano nobile e al salone delle feste. L’uso del bugnato e dei frontoncini, il rispetto della “soda architettura” di Caramello rimandano ai progetti di Francesco Galli Bibiena (Bologna, 1659-1739) fratello di Ferdinando, per villa La Redondina, concepiti fra il 1714 e il 1739. Anche nel caso della Redondina, progettata, ma forse mai realizzata, per il proprio nucleo familiare sulle pendici delle colline bolognesi, la fabbrica primitiva fu regolarizzata e ricondotta alla forma rettangolare, rinserrata tra due ali parallele addossate ai lati maggiori che imprimono al sedime dell’edificio una forma più prossima al quadrato. Gli esiti sono tuttavia diversi da quelli raggiunti a Caramello, ove si è in presenza di un doppio percorso di nove brevi rampe che si svolgono ortogonalmente tra loro fino ad approdare a un vasto ballatoio a emiciclo. Da un accordo stilato il 27 febbraio 1741 con il picapietra Anton Maria Fracassi e mastro Gasparo Pisani si apprende della volontà di avviare i lavori per “la scalinata nel primo cortile che deve servire d’entrata ad Atrio maggiore di mezzo, nel atrio nuovo”. Si tratta verosimilmente della scalinata che ancora collega il portico al brolo, posto a sud del palazzo, e non dello scalone d’onore che invece è allogato in un vano a doppia altezza, coperto da volta a padiglione, e illuminato dal sottostante portico e da quattro finestre, tre delle quali aperte sulla parete di fondo, una in corrispondenza del ballatoio di arrivo al piano nobile. Il vano scala è coperto da una volta a padiglione, solcata da numerose nervature, di memoria borromiana che scaricano sulla sottostante cornice marcapiano in corrispondenza delle paraste che ritmano l’intera superficie muraria del vano. Le paraste presentano la stessa orditura a bugne dei pilastri del sottostante portico; le finestre e le porte del piano nobile, come peraltro quelle che si affacciano sul portico al piano terreno, recano cornici analoghe a quelle che ornano il fronte principale nord della villa. Il tema dello scalone sviluppato già nel Seicento da Paolo Canali e Gian Giacomo Monti in palazzi Fantuzzi (1680) e Marescotti a Bologna, trova nel Settecento altre straordinarie invenzioni progettuali nel Piemonte sabaudo, in ambiente napoletano e genovese, a conferma del periodo di straordinaria fertilità inventiva e di intensa attività edificatoria. Lo scalone d’onore di palazzo Paveri Fontana conduce direttamente al grande salone, a doppio volume, sostenuto dal sottostante portico e illuminato da un doppio ordine di finestre. Il salone delle feste si sviluppa su una superfice di 13 x 9 m e per un’altezza di 8,40 m da terra alla volta. L’illuminazione è garantita da sei grandi finestre disposte a gruppi di tre sui lati lunghi. Sia il salone al piano nobile, sia gli altri ambienti e le sale terrene, sono coperti da importanti volte unghiate. La villa è anche dotata di altre due scale di servizio, rispettivamente nei corpi nord e nord est. La collocazione asimmetrica dei corpi scala - lo scalone d’onore è situato a sinistra dell’ingresso principale, nel corpo di fabbrica traforato a sud, un’altra scala è collocata nella manica nord, funzionale alla distribuzione dei vani del fronte principale - suggerisce una differenziazione gerarchica tra gli stessi ambienti.

Le pertinenze rurali Il palazzo di Caramello era al centro di una dinamica attività che si sviluppava su quattro proprietà finitime tra loro: quella propriamente detta di Caramello, quella di Parasacco a ovest, la tenuta Francia a sud e la Fornace a nord, oltre la via Emilia, per una superficie complessiva di oltre 250 ettari. Le case bracciantili ospitavano un elevato numero di lavoranti con le loro famiglie. La corte rustica, riferibile al XIX secolo, si sviluppa a sud della residenza dominicale. È costituita da due lunghi corpi di fabbrica già adibiti a stalla e fienile, da due sole superstiti case “de’bracenti”, come venivano indicati i lavoranti la terra, da una struttura porticata adibita a ricovero attrezzi e dalla grande casa del fattore confinante con il giardino a sud del palazzo. Sulla corte si affacciano la stalla dei buoi e la vaccheria, sul cui ingresso, a parete, era una coppia di teste di tori. Le caratteristiche architettoniche e materiche delle stalle e dei soprastanti fienili sono quelle tipiche dei fabbricati rurali: pilastri in mattoni di laterizio, pareti intonacate e/o risolte a gelosia per l’areazione del fienile che a Caramello è privo di murature laterali. Particolarmente interessante è il disegno del lungo corpo di servizio, la fattoria prima citata, che si sviluppa a ovest della corte rustica, articolato su due piani fuori terra. Si tratta di un fabbricato già registrato nella cartografia catastale dell’età napoleonica. Da un confronto con la mappa catastale attuale si evince che la struttura aveva in origine una dimensione più ridotta e una configurazione planimetrica a L. Allo stato attuale, l’edificio, coperto da un tetto a due spioventi, delimita il lato sud est dell’area verde retrostante la villa, verso la quale oppone un fronte particolarmente ricercato nel ritmo e nel disegno delle bucature e della grande apertura ad arco che originariamente garantiva l’accesso al palazzo. Questo edificio, intonacato sul lato est che delimita il brolo, è costruito in mattoni di laterizio. Sulla testata sud si intravvedono tracce di una differente articolazione delle aperture, testimonianze di una ricercata progettualità che ha saputo conferire al fronte una dignità propria dell’architettura aulica.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2008 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Paveri Fontana, Ticom, Piacenza 2008

111 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

112 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

113 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Pianta della rocca e castello di Agazzano, secolo XVIII (collezione privata)

Mappa delle possessioni d’Amola e Rivasso con parte del castello di Agazzano, secolo XIX (Milano, Università Cattolica del S. Cuore, Archivio Visconti di Modrone)

114 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

ROCCA E VILLA ANGUISSOLA SCOTTI * Agazzano

Fin dal Trecento, signori del territorio di Agazzano, borgo a oriente del torrente Luretta, furono gli Anguissola, una delle quattro grandi e potenti casate piacentine. I loro feudi e possedimenti si estendevano anche nelle altre vallate dell’attuale provincia di Piacenza. La val Luretta è, con l’attigua val Tidone, la più occidentale delle valli della provincia di Piacenza. Attraversata dal torrente Tidone che nasce nell’Appennino pavese, questa valle è particolarmente interessante sia dal punto di vista paesaggistico, sia per le tipologie architettoniche delle sue testimonianze storico-artistiche. Ville, castelli, insediamenti rurali, connotano sia le zone di pianura, sia quelle di collina e la cartografia storica mostra che il sistema villa-area verde-oratorio qui ricorrente è diretta espressione di uno specifico modello culturale, politico ed economico. Nel piacentino, l’aristocrazia, fra Sei e Settecento, nell’assumere un atteggiamento più conservativo nella gestione del proprio patrimonio, si rifugia spesso nel contado, dove assume il controllo diretto dei fondi agricoli appartenenti al casato. La vivacità imprenditoriale che aveva caratterizzato la città, almeno fino alla devastante crisi demografica causata dalla pesta del 1630, viene in un certo senso abbandonata, e il nobile proprietario torna a rivestire i panni del signore che però amministra direttamente il proprio patrimonio fondiario e immobiliare. È quanto si può asserire per il casato che possiede il tenimento di Agazzano. In questa congiuntura di crisi economica strisciante, il nobile preferisce coniugare la componente “agraria” e “industriosa” della vita in villa (così puntualmente descritta nella trattatistica e da Vincenzo Scamozzi, L’idea dell’architettura universale, Venezia 1615), all’esigenza di visibilità esterna e di autocelebrazione. Viene così a definirsi il sistema residenziale in esame, la sua rilevanza architettonica, la portata “ideologica” della stessa e il suo carattere organico alla mutata ideologia aristocratica della villa, tradizionalmente sancita dalla trattatistica rinascimentale e propiziata dalla diffusione che questa ebbe in ambito locale nella tarda età farnesiana e oltre. La principale fonte di reddito anche per le grandi casate era la terra, che non solo rappresentava la forma di investimento privilegiato, ma anche una sorta di status symbol. La campagna non rappresentava solo una forma d’investimento, ma era il luogo dell’amministrazione e del governo diretto del territorio agricolo. La residenza di villa nella campagna piacentina è sovente “osservatorio” aperto alla contemplazione di colline, prati, boschi, canali, ma, soprattutto, luogo deputato al vigile controllo dei terreni lavorati e riflette, in questo, la logica speculativa che governa il pensiero di Vincenzo Scamozzi. Il governo della terra è reso possibile inoltre da una sua diretta conoscenza. Lo dimostrano i cabrei. L’impulso alla rilevazione cartografica, nel piacentino, risale al XVII-XVIII secolo, sostenuto dalle grandi famiglie dell’aristocrazia e dagli ordini religiosi, interessati alla ricognizione del proprio patrimonio. Dalla cartografia si evince che il sistema insediativo storico è diffuso in modo omogeneo sul territorio e caratterizzato da centri abitati di piccole dimensioni, come Tavernago, Mottaziana, Sarturano, Breno di Sotto, Bilegno, Grintorto e Campremoldo Sopra. Si tratta di borghi di pianura o di prima collina che costituiscono una vera e propria rete d’insediamenti rurali con peculiari caratteristiche edilizie. Sistemi a corte aperta, di grande interesse storico-culturale, a corte chiusa, come nella vicina zona lombarda, o complessi costituiti da corpi di fabbrica disposti a L costituiscono le tipologie prevalenti nella zona, dove al segno forte del Po e a quelli dei torrenti, Tidone, Luretta, e delle loro valli, s’intrecciano il reticolo delle strade e degli insediamenti rurali e di villa e la distesa tessitura delle coltivazioni agricole. Ne scaturisce un disegno del paesaggio che ancor oggi conserva in parte caratteristiche sedimentate nell’arco degli ultimi secoli con sapiente equilibrio tra emergenze naturalistiche e architettoniche. In particolare, l’area compresa fra gli insediamenti di Tavernago, Bastardina, Mirabello, Breno di Sotto, Bilegno, Mottaziana, Campremoldo, Grintorto, è particolarmente ricca di testimonianze edilizie, castellane e di villa auliche, radicate e antiche, ampiamente descritte nella Relazione del viaggio in Valtidone che l’arciduchessa Maria Amalia compì fra il 29 agosto e il 2 settembre 1773. La disponibilità finanziaria e l’istituto del fedecommesso, vincolo giuridico utilizzato dal XVI secolo grazie al quale i patrimoni immobiliari poterono consolidarsi sul lungo periodo senza smembrarsi a ogni generazione, costituirono la base degli investimenti rivolti a consolidare il prestigio e il ruolo primario della casata. Inoltre, un ruolo non secondario giocò la conoscenza della trattatistica architettonica e agronomica, come dimostra l’interesse per la vita in villa e per la campagna che traspare dagli scritti dal Cinquecento al Seicento e dalla trattatistica di argomento agronomico documentata nelle biblioteche nobiliari della città. È l’apologia della vita rurale e campestre quella offerta da Bartolomeo Taegio, famoso giureconsulto lombardo e cultore di emblematica, nel suo testo La villa, dialogo pubblicato nel 1559 sulla scorta di quella moda letteraria concernente i diletti della campagna che produsse tuttavia anche una vera e propria trattatistica sul “praedium rusticum”. Se si prescinde dall’Opus ruralium commodorum del bolognese Pier Crescenzi, scritto in apertura al Trecento sulla scorta della trattatistica latina dei vari Varrone, Catone e Columella, si dovrà attendere il testo di Agostino Gallo, Le dieci giornate dell’agricoltura et de’ piaceri della, per una più moderna impostazione del problema. La nuova vaga et dilettevole villa, del carmelitano piacentino Giuseppe Falcone, edita a Pavia nel 1597, e

115 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 subito ristampata a Brescia (1599), è dedicata a Bernardino Mandelli, conte di Caorso, esponente di antica e prestigiosa famiglia, celebrata per “Nobiltà, virtuti, arme, e facoltà”, che a Piacenza nel Settecento risiedeva nell’omonimo palazzo di via Mandelli. Il filo conduttore di questo importante trattato è dichiarato giànel frontespizio, ove il Falcone specifica che si tratta di “Opera d’Agricoltura, più che necessaria, per chi desidera d’accrescere l’entrate, de suoi poderi”, “utile a tutti quelli che fanno professione d’agricoltura per piantare, allevare, incalmare arbori, coltivar giardini, seminar campi, secondo la qualità di terreni & paesi, edificar palaggi, case, & edificj pertinenti alla villa”. Il trattato si apre con i “privilegi della villa”, e precisa le “quattro cose” che, “ben composte fanno una bella e buona villa, o podere...”, ossia “terra, aria, acqua e sole...” . Ma “ve ne sono altre assai cose, quali sono accessorie: come sono casa da Padrone, da Massaro, portico, stalla, pozzo, torchio, giardino, peschiera, fiumicelli, animali, arnesi rustici e cose simili”. Egli suggerisce di costruire la villa lontano dalla strada maestra, perché sarebbe “come un hosteria, albergo e ricetto comune: ove concorrono diversi che ti rubano e danneggiano, in diversi modi, le cose” (ed. Venezia 1603, p. 45). Per quanto concerne l’articolazione degli spazi Falcone ritiene necessario che siano funzionali al ruolo direttivo del nobile che “stando…da basso su l’uscio sotto il portico, e di sovra alle fenestre, vedrà tutt’il cortile, per poter meglio scoprire tutta la villa, chi và chi viene e ciò che si fa ivi d’intorno”(p. 46). Falcone s’intrattiene poi sul giardino che “largo, e lungo, secondo la proportione delle forze tue e della villa tua” dovrà essere preferibilmente protetto da un muro piuttosto che da una siepe viva a fini di garantire una maggiore sicurezza. Fra Rinascimento ed età barocca, nella centrale stagione del governo farnesiano, la campagna piacentina va arricchendosi di ville, di medie e grandi dimensioni, che progressivamente sostituiscono e/o si affiancano alla dimora fortificata. Ciò nonostante la realtà architettonica che va configurandosi non è paragonabile a quella dello stato di Milano, dettagliatamente rappresentata nelle incisioni di Marc’Antonio dal Re (1726 e 1743). Non sono residenze sfarzose, eccezion fatta per alcuni casi emblematici, quali la rocca e la villa di Agazzano, villa Cigala Fulgosi, Borromeo a Tavernago e palazzo Paveri Fontana a Caramello. In questi casi non si tratta di residenze erette all’interno di uno spazio “costruito” nella vasta campagna che si trasforma in giardino, e che in parte gravita sulla corte rustica, dotata di fabbricati colonici necessari alla conduzione del fondo. La villa è parte integrante del fondo agricolo, si erge in genere al centro della tenuta e svolge più ruoli: estetici e funzionali, di lavoro e di raccolta. La villa-azienda agricola, secondo un modello affine a quello presente nel bolognese, ebbe una larga fortuna anche nel ducato farnesiano, ove le ville combinano l’otium e il negotium, secondo i precetti resi celebri da Vincenzo Tanara nel suo L’economia del cittadino in villa (Bologna 1644). Il castello permane tuttavia la residenza privilegiata dell’alta nobiltà. Ciò nonostante le mutate esigenze dell’abitare imposero cambiamenti e modifiche, anche strutturali, come peraltro dimostra la villa dei conti Anguissola Scotti. Alla rocca di Agazzano, d’impianto rinascimentale, si affianca una sfarzosa residenza di villa con impianto a U e le ali rivolte verso il borgo. Andrea Corna ricorda che il castello nel Trecento apparteneva ai Visconti. In realtà Alberto Scotti era signore del luogo già nel 1301, epoca in cui il Comune di Piacenza gli concesse di utilizzare l’acqua del torrente. I Visconti gli sottrassero il castello prima del 1318, essendo lo Scoto di parte guelfa. Si deve agli stessi Visconti la costituzione della contea di Agazzano, assegnata dapprima a Giovanni Scotti, nipote di Alberto. Nemici degli Arcelli, signori della val Tidone – il loro centro feudale era Borgonovo- possedevano estesi beni feudali anche nella vicina val Luretta. Gli Arcelli, potenti già nel XIII secolo, resero gli Scotti sospetti a Filippo Maria Visconti, il quale li privò nuovamente dei loro possedimenti nel 1412, affidando Agazzano a Bartolomeo e Filippo Arcelli. Gli Scotti rientrarono in possesso di Agazzano e di altri loro feudi nel 1415. Nella seconda metà del Quattrocento, gli Scotti avviarono in Agazzano la costruzione di un complesso difensivo, in parte su preesistenti fortificazioni da loro acquisite all’inizio del secolo, che comprendeva due fortilizi tra loro contigui: la rocca e il castello, che rimasero ai conti Scotti del ramo di Agazzano fino alla metà del Settecento, allorché, in seguito all’estinzione della discendenza maschile, i due edifici divennero di proprietà dei figli di Margherita Scotti di Agazzano (+1762) moglie del conte Girolamo Anguissola di Podenzano (+1769). Il conte Ranuzio Scotti di Agazzano, padre di Margherita, istituì nel suo testamento (1741) una primogenitura per ciascuna delle sue tre figlie, lasciando la maggior parte dei beni, fra cui il castello di Agazzano e il palazzo di Piacenza su strada del Guasto (attuale via Garibaldi 36), alla figlia Margherita con l’obbligo di assumere il cognome Scotti, di portare lo stemma e di assegnare il nome Ranuzio a ogni primogenito. I discendenti di questo ramo sono proprietari della rocca e della villa. Nella seconda metà del Settecento il castello fu ampiamente rimaneggiato e trasformato in residenza di villa, come si presenta attualmente. Il sistema residenziale costituito dall’antica rocca, protagonista di un impegnativo intervento di restauro, e dalla villa, riflette le ambizioni della famiglia e l’esigenza di esprimere nel fasto un proprio ordine estetico e di rappresentarlo con le diverse forme dell’arte negli spazi dell’architettura, in modo da potere mostrare insieme potenza e virtù. Il sistema delle due strutture residenziali sorge al margine est dell’abitato di Agazzano e domina la sottostante ariosa vallata della Luretta. La rocca e la villa sono inserite in un territorio di grande importanza storico-naturalistica, connotato da una trama colturale segnata da elementi

116 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 ora costituti da alberi, da edifici isolati, da manufatti idraulici, ora da elementi lineari, quali assi stradalie canalizzazioni. Purtroppo la documentazione iconografica relativa alle due residenze è scarsa. Una delle più antiche testimonianze risale alla prima metà del Settecento. Si tratta di una bella mappa del 1740, che raffigura la “Pianta della Rocca e Castello di Agazzano del sig. Co. Ran. Scotti 1740”. Il cabreo non solo documenta l’impianto degli edifici fortificati, ma anche il contesto territoriale più prossimo, nel quale sono tracciate la strada “che va alla chiesa”, la “strada che va al mercato”, le aree prative, ortive e una grande vigna. La Rocca, solitamente ricondotta al pieno Quattrocento, sarebbe stata integralmente riedificata da Bartolomeo Scotti dopo il 1478. Nella mappa del 1740 è rappresentata a sud del castello. Si tratta di una struttura a impianto quadrangolare, circondata da un ampio fossato, tuttora in essere, con quattro torri circolari agli angoli e grande cortile al centro. Attualmente, la rocca presenta una pianta quadrata con tue torri rotonde agli angoli sud ovest e sud est del fronte principale. Alla rocca si accede da un ponte, in origine levatoio, a sua volta preceduto da un rivellino molto imponente tanto che lo potrebbe definire un vero e proprio dongione isolato (C. Perogalli 1972), cui si accedeva attraverso un altro ponte levatoio. Si tratta di una soluzione costruttiva che evoca quella messa a punto nel castello dei conti Marazzani Visconti a Paderna. Ad Agazzano tuttavia la soluzione si presenta più complessa. Un analogo apparato si trovava sul fronte nord ovest. La comunicazione tra la rocca e il castello era garantita da una struttura sospesa, forse un ponte sul fossato che immetteva al torrione quadrangolare tuttora esistente a sud dell’attuale villa. Si deve rilevare l’inedito sistema residenziale, costituito dalle due fabbriche contigue, che, a differenza di Cortemaggiore, dove il “Palagio de’ Palavicini” e “l’Antica Rocca de’ Palavicini” riconoscibili nella mappa della città della fine del XVIII secolo, sono coevi, ad Agazzano invece risalgono a fasi storiche differenti. Gli interventi promossi nel corso dei secoli successivi ridisegnarono solo parzialmente la struttura della rocca, come l’apertura dell’arioso loggiato che gira su tre lati del cortile che occupa circa metà della pianta del fortilizio. Sul lato sud ovest è addossata un’edicola a protezione di un pozzo, mentre sul lato d’ingresso, a sud est, la presenza di due opposte rampe di scale che portano alla quota della loggia, movimenta la composizione del fronte. Le rampe che conducono alla loggia, ricavate nella possente cortina muraria della loggia stessa, risultano pertanto coperte e il muro appare traforato da sottili pilastri in cotto che sostengono delle colonnine rinascimentali in granito. La soluzione adottata ha conferito un effetto di trasparenza alla doppia scala controbilanciato dal possente volume del maniero. Non è dato conoscere con sicurezza i tempi e i modi di questo intervento, che s’ipotizza possa collocarsi nel momento in cui Domenico Cervini e Giuseppe Cozzi, alcuni dei più originali architetti del Settecento a Piacenza dopo Ferdinando Galli Bibiena, andavano elaborando scenografiche e inedite proposte progettuali sul tema della scala. La grandiosità dell’architettura si sposa con la teatralità barocca del cortile e sembra confermare l’inclinazione della famiglia ad assecondare inusuali soluzioni architettoniche, del tutto inedite quanto al rapporto con il contesto e innovative per lo svuotamento provocato nel volume dell’edificio. Si stabilisce così un vibrante rapporto interattivo tra il complesso nel suo insieme e il paesaggio circostante. Sul lato nord ovest del cortile, privo di loggia, si affaccia il corpo di fabbrica che occupa circa l’altra metà dell’edificio. Si tratta di una struttura cronologicamente riferibile al tardo Rinascimento. La mappa del 1740 mostra l’originaria configurazione delle due strutture che rimanda a quella, purtroppo perduta, della Rocca Pallavicino a Cortemaggiore, dove però il fossato cingeva entrambi gli edifici, e non la sola rocca come ad Agazzano. Il castello fu invece completamente trasformato in villa, verosimilmente dopo il 1740, anno cui risale la mappa più volte ricordata, nella quale il castello presenta un impianto piuttosto irregolare, con due soli torri quadrangolari, una scala a chiocciola, altre due strette scale e un portico terreno a L, dotato di un giardino segreto all’interno dell’area cortiliva. Vi appaiono anche un piccolo oratorio e ampie strutture di servizio, fra le quali una grande scuderia (Maggi, Artocchini 1967, pp. 84-90; 1984, pp. 128). Colpiscono, nella mappa, l’organizzazione degli ambienti, di forme diverse, piuttosto irregolari, e la presenza di una scuderia e di un porticato a L a dieci campate, voltato a crociera. Particolarmente indicativo è il giardino segreto, ben riconoscibile dal muro di protezione, disegnato all’italiana, con quattro aiuole rettangolari speculari a un asse di percorrenza centrale, probabilmente un vialetto inghiaiato. L’architetto incaricato della trasformazione dell’antico maniero seguì un ordine compositivo chiaro creando un sistema di relazioni spaziali funzionali e talora inedite, confacenti alle mutate esigenze dell’abitare e del vivere in villa. L’impianto a U dell’antica struttura castellana, rivolto a ovest, è caratterizzato da un portico su tre lati con le due ali prolungate nell’avancorte nobile a ovest, e da una bella recinzione ad andamento mistilineo che ne scherma parzialmente il volume. All’antica struttura castellana pare risalgano le due torri a nord. Particolare interesse presenta la torre nord ovest, al cui interno si conserva una decorazione a quadratura riconducibile alla cerchia di Francesco Natali. La rocca e la villa sono circondate da un grande giardino realizzato sull’area del fossato prosciugato e spianato con un terrapieno dagli Anguissola Scotti nell’ultimo scorcio del XVIII secolo. Sui fianchi, sul retro e tutto intorno

117 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 alla rocca si estende un sistema di giardini e “giardinetti”, collegati anche agli spazi di rappresentanza e ad essi legati visivamente, vera e propria “integrazione scenica”. La documentazione conservata ci informa che nel 1793 il conte Ranuzio, figlio di Giovanni e nipote del conte Girolamo, commissionò a Luigi Villoresi, architetto direttore del parco della villa reale di Monza, il disegno per un grandioso parco nella sua residenza di Rivergaro. Nella loro complessa articolazione di giardini terrazzati, tagliati da lunghi viali alberati, i progetti per il parco della villa di Rivergaro, di cui si conserva la memoria grafica in collezione privata, costituiscono un unicum sul territorio, senza dubbio uno degli episodi di più rilevante qualità nella storia del giardino di villa nel tardo Settecento. Si devono allo stesso conte Ranuzio i progetti per l’altra sua residenza suburbana, quella di Agazzano. Qui egli “teneva un allevamento di cinghiali, cervi, pavoni ed uccelli vari il cui mantenimento molto costava ma con scarsi risultati perché le malattie e forse più l’incapacità del personale addetto, liquidarono in pochi anni tutti gli animali”. All’inizio del Novecento un altro conte Ranuzio Anguissola Scotti s’interessò al parco di Agazzano, promuovendone un altro abbellimento. Attualmente il giardino della villa, popolato da alcuni alberi secolari e specie esotiche che dovevano appartenere al parco romantico precedente, è organizzato “all’italiana” con grandi aiuole simmetriche, e nella stagione estiva è arricchito da numerosi vasi di agrumi. Una lunga balconata, arricchita di statue e di vasi, si affaccia ariosa sul torrente Luretta.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2009 per il restauro dei palazzi piacentini. Rocca Anguissola, Ticom, Piacenza 2009

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Pianta dell’isolato con la chiesa di San Vincenzo e le limitrofe chiese di S. Maria della Pace, S. Stefano e palazzo Lusardi Sforza

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CHIESA DI SAN VINCENZO * via Scalabrini

La chiesa di S. Vincenzo, su via Scalabrini angolo via San Vincenzo, con l’annessa Casa (ovvero convento) dei Teatini, sorge sull’area dove esisteva un antico edificio dedicato all’omonimo santo, ricostruito nel 1278 a cura del canonico della cattedrale Giovanni Bussi. La Casa, dotata di uno “spatioso giardino”, secondo la descrizione di Pier Maria Campi, occupava l’area tra le attuali vie S. Vincenzo e Gaspare Landi. La via intitolata a G. Battista Scalabrini ricorda uno dei più attivi vescovi piacentini, che resse la diocesi dal 1876 al 1905, anno della sua morte. In passato la strada era detta di S. Salvatore e nel suo tratto finale vi sorgeva l’omonima chiesa. G. Nasalli Rocca nel suo Per le vie di Piacenza (1909) sosteneva che questa strada era presente già nel 1294, tesi non confermata da Stefano Fermi (1920). L’attuale via Scalabrini dalla quale si dipartono le vie di S. Vincenzo, S. Stefano e cantone delle Gandine, nonché l’attuale via Torta, era comunque una importante strada di transito, in antico percorsa dai pellegrini. Tra i primi provvedimenti assunti dal vescovo di Piacenza, Paolo Burali, nell’ambito della politica spirituale sostenuta dalla diocesi, dopo la conclusione del Concilio di Trento (1563), si annovera anche la fondazione della Casa dei Teatini. Il complesso religioso fa parte di un più ampio isolato delimitato a nord dalla strada S. Salvatore (attuale Scalabrini), a est da cantone S. Stefano, a sud da strada delle Cappuccine (oggi Gaspare Landi), e a ovest da cantone S. Vincenzo. Si tratta di uno tra i più grandi isolati che caratterizzavano l’impianto urbano medievale nel settore di sud est della città, a nord dell’asse dello stradone Farnese. Sul margine orientale, delimitato dal cantone di Santo Stefano e in parte dalla strada delle Cappuccine, si situava la serie di piccoli edifici che ancora agli inizi dell’Ottocento riflettevano l’impianto urbano medievale, caratterizzato da fronti su strada di modesta larghezza e superfici ortive sui fronti interni, sorti nelle più immediate vicinanze degli orti dell’antica chiesa di Santo Stefano, il cui nucleo originario risaliva al IX secolo. Questa chiesa fu poi ricostruita dopo il Mille affiancata, nella parte retrostante, da un ospedale, poi aggregato a quello fondato nel 1471 presso S. Maria di Campagna. Successivamente, nel 1573, ne entrarono in possesso i Padri Somaschi che vi rimasero fino al 1769. In età napoleonica anche questa chiesa fu espropriata e riaperta al culto nel 1874, dopo che erano stati realizzati alcuni lavori, fra i quali l’ampliamento del coro. La parrocchia venne soppressa nel 1901 e la chiesa adibita a magazzino (legnaia), fino a quando fu acquistata dalle suore Giannelline che utilizzarono gli ex spazi ospedalieri come convitto femminile. Nel 1949 l’architetto Piero Berzolla restaurò la facciata cancellando definitivamente le decorazioni pittoriche eseguite nella seconda metà dell’Ottocento da Giorgi, conferendole l’attuale assetto materico cromatico neoromanico con il paramento di laterizio faccia a vista e ridisegnando le due grandi finestre arcuate che illuminano le navate laterali. Il complesso conventuale delle monache Benedettine di S. Maria della Pace che occupava, all’inizio dell’Ottocento, la parte preponderante del settore centrale in argomento, fu incominciato nel 1535-36, dopo che le suore ebbero l’autorizzazione dal vescovo Catelano Trivulzio di acquisire una serie di caseggiati che occupavano l’area dall’impianto architettonico, che non doveva essere molto dissimile dalla frammentaria congerie di edifici situati sul versante nord occidentale dello stesso isolato. Si può quindi ritenere che il nuovo impianto conventuale abbia prodotto, come in altri casi consimili, una radicale trasformazione del sistema insediativo medievale, creando gli spazi liberi necessari per la realizzazione del nuovo grande impianto conventuale. Si tratta quindi, nella sostanza, di un intervento di grande rilevanza urbanistica, in questo caso promosso dalle istituzioni religiose che, pur non avendo come finalità l’obiettivo di raggiungere un assetto più razionale del tessuto edilizio urbano, come ad esempio si può sistematicamente constatare nei processi di risanamento igienico e di razionalizzazione degli standard edilizi della seconda-tarda metà dell’Ottocento, attuati per mano pubblica, produsse tuttavia una radicale innovazione nel tessuto edilizio medievale, inserendosi quindi all’interno di quel più grande processo di trasformazione urbana alimentato da iniziative che a Piacenza erano state per lo più sostenute, fin dal Rinascimento, dalle grandi famiglie patrizie. La chiesa, che si affaccia su via Scalabrini, costituita da una doppia aula, la parte pubblica e quella riservata alle monache, presenta una facciata attribuita ad Alessandro Bolzoni (Piacenza, 1547-48 - 1636), architetto del duca di Parma e Piacenza, cartografo, e ingegnere della Congregazione di Polizia e Ornato (Còccioli Mastroviti 1993a). Il suo ipotizzato coinvolgimento nel cantiere della chiesa lascia presumere che il duca non aveva rinunciato a determinare le linee guida del suo intento programmatico di rinnovamento delle fabbriche, affidando a un suo funzionario il controllo progettuale di un organismo architettonico che, sebbene destinato ad un uso religioso, avrebbe dovuto comunque restituire una immagine sufficientemente rappresentativa del nuovo assetto urbano. La facciata è stata giudicata di non particolare interesse architettonico. Lomazzo, già nel 1584, riteneva questo tipo di operazioni realizzate da “architetti pratici intorno alle fabbriche, solamente per via di materia e discorso di fare, senza alcun invenzion loro, dei quali ne è piena tutta l’Italia, mercé di Sebastiano Serlio, che veramente ha fatto più ammazzacani architetti, che non aveva peli in barba; i quali, ancora che facciano

121 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 fabbriche a furia, tuttavia non vi si vede dentro quel grillo dell’arte; cioè quello spirito che già dipinse in persona della pittura un antico pittor greco” (G.P.Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, Milano 1584, cit. in Adorni 1982, p. 414). La facciata, tuttavia, non è del tutto priva di interesse formale e stilistico. Se da un lato la grande serliana, che sfonda la parete cieca del quadro centrale del secondo ordine architettonico sembra indulgere alle indicazioni della trattatistica di Serlio, mettendo in evidenza le contraddizioni del sistema compositivo che si determinano soprattutto in rapporto all’ampia campitura centrale del primo ordine, dall’altro esprime nella forte vibrazione chiaroscurale della fitta serie ritmica delle mensole che sostengono le cornici del timpano di coronamento, una spinta innovativa che potrebbe essere ricondotta proprio alle intenzioni programmatiche del duca, interessato a rivestire il tessuto architettonico cittadino di una qualità formale rispondente alle esigenze della nuova politica urbana. Che Bolzoni non fosse un architetto capace di interpretare appieno il ruolo che gli era stato affidato, sono a lui attribuite anche le facciate delle chiese di S. Giuseppe dell’Ospedale Grande (1568) e di S. Bernardo, lo si può arguire dalla anomala presenza della finestra cruciforme che interrompe la piatta uniformità della parete di fondo del timpano di coronamento, solitamente utilizzata negli impianti romanici e medievali nella testata orientale delle chiese, come fonte di illuminazione della zona del sacrario dell’abside centrale. In seguito ai decreti napoleonici il complesso conventuale fu soppresso nel 1810; nel 1821 i locali dell’ex convento furono adibiti a collegio delle orfane e la chiesa, declassata a oratorio, fu riaperta al culto. Nel 1859, in occasione delle guerre di Indipendenza, i locali dell’ex convento furono requisiti per l’alloggiamento delle truppe prima austriache e poi piemontesi. Successivamente il complesso, divenuto di proprietà degli Ospizi Civili, fu dotato di nuovi locali. Dopo l’Unità d’Italia, e il cambio di destinazione d’uso del convento si determinarono le condizioni per una sua radicale trasformazione. Dei tre chiostri facenti parte dell’antico complesso e il grande orto posto a sud resta solo il chiostro quadriporticato adiacente alla chiesa e parte di uno dei quattro cortili, oggi delimitato da una perimetrazione molto più ampia che include anche lo spazio dell’ex giardino limitrofo, più a sud, appartenente allo stesso convento. La grande area ortiva di forma rettangolare, con il lato lungo parallelo a via Gaspare Landi, e l’intera ala meridionale del convento, documentate nella pianta del 1803-1806, sono oggi integralmente scomparse e l’ampia area di risulta occupata da un grande fabbricato articolato in più volumi occupato dall’A.S.P. Città di Piacenza. Sul margine nord est dell’isolato in angolo tra via Scalabrini e cantone S. Stefano, sorge palazzo Lusardi Sforza. La documentazione d’archivio conferma che nel 1715 i padri Somaschi vendettero l’edificio ai Lusardi, che ne mantennero la proprietà fino al 1810. L’immobile, identificato nel catasto ducale come casa con orto, appartenne poi a Domenico Giangori, quindi agli Ansaldi, che nel 1843 lo trasformarono e ampliarono. Nel 1939 pervenne ad Ascanio Sforza, ai cui discendenti tuttora appartiene. La documentazione catastale luigina precisa che il palazzo era costituito da corpo padronale, posto in angolo tra via Scalabrini e cantone S. Stefano, e un corpo secondario, lungo e stretto, prospiciente su cantone S. Stefano che ospitava i servizi, le scuderie e le carrozze. I due corpi delimitavano un’area cortilizia rettangolare a cui si accede attraverso il portale arcuato in posizione decentrata verso destra della facciata su via Scalabrini. I due prospetti su strada del palazzo, articolati su tre livelli, sono caratterizzati da uno zoccolo basamentale a bugnato a liste orizzontali, e da due ordini di finestre: quelle del piano nobile più grandi di quelle del piano di sottotetto. La monotona serialità delle bucature, la quasi anonima profilatura delle modanature del cornicione e la mancanza di elementi architettonici e decorativi intorno alle finestre e al portale arcuato, fanno di questo edificio una versione in tono minore di quella serie di edifici progettati nella prima metà dell’Ottocento tra cui quello di palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio segna forse una delle espressioni più misurate e garbate della temperie neoclassica. Per altro verso, la tipologia dell’impianto pur avvicinandosi al sistema distributivo ereditato dalla tradizione barocca, mostra chiaramente quel progressivo impoverimento della rappresentatività dello spazio architettonico determinato dal sostituirsi della committenza borghese, in questo caso priva di importanti risorse economiche, a quella nobiliare. Solo il complesso conventuale dei Teatini occupava l’intera estensione dell’isolato compreso fra via Scalabrini e via Gaspare Landi, mentre i margini sud dell’orto del convento di S. Maria della Pace risultavano ancora nell’impianto catastale luigino totalmente libero da costruzioni; non così lo stesso margine meridionale del convento di S. Stefano e di palazzo Lusardi, già occupato dalla schiera di edifici medievali con orti al loro interno. Negli anni ottanta del Cinquecento, i Teatini inviarono a Piacenza padre Andrea Avellino, napoletano, all’epoca visitatore della provincia lombarda, in occasione dell’avvio dei lavori della loro nuova Casa. Sembra che inizialmente l’obiettivo principale dei Teatini fosse quello di costruire la sola Casa. Si può quindi presumere che solo in un secondo momento i padri ampliarono il progetto prevedendo anche la costruzione della nuova chiesa. L’appoggio dei duchi Farnese e successivi (1579) finanziamenti della contessa Eleonora Scotti di Agazzano, nonché parte dell’eredità del vescovo Burali consentirono ai Teatini di finanziare i lavori del cantiere, intrapresi nella primavera 1579. Negli anni successivi (tra il 1586 e il 1588) i Padri acquisirono ben nove case nelle aree adiacenti, al fine di disporre dello spazio necessario per portare a compimento l’ambizioso progetto. Inoltre,

122 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 nel 1600, “fu dato principio alla fabbrica di questa Chiesa che in dodici anni fu perfezionata in modo che nell’anno 1612 fu aperta con molta solennità […]”. Il progetto, tuttora conservato presso l’Archivio generale dei Teatini a Roma, e convincentemente attribuito all’architetto napoletano Pietro Caracciolo, rappresenta: la chiesa, il “claustro per secolari”, l’“Oratorio”, il “Refettorio novo”, la sagrestia a pianta rettangolare, il piccolo cimitero, una stanza quadrata “per Becchieri” (macelleria), la cucina vecchia, la cucina nuova, la “Loggia sop. al rivo” e un grande giardino che si estendeva fino all’attuale via Gaspare Landi. La loggia e il refettorio vecchio erano situati nel braccio meridionale che chiude il convento verso il giardino, nel cui cantiere, fin dal 1578, sono documentati interventi di scavo e lavori per la deviazione del rivo. Dalle fonti si apprende che l’antico orto di S. Vincenzo si estendeva a sud della chiesa, “dalla porta laterale del Cimitero della nuova Chiesa d’hoggidì infin al capo dell’angolo” (Ms. Comunale 598, f.97). L’ampliamento del complesso conventuale avvenne dunque attraverso la progressiva acquisizione di fabbricati e di aree ortive preesistenti, secondo una prassi che, a Piacenza, seguirono anche i Gerolamini di S. Savino, allorché nel 1503 decisero di ingrandire il chiostro verso il viridarium. Nel 1630 i padri Teatini incaricarono mastro Domenico Cerri della costruzione del “primo claustro verso la strada della loro casa” che era stata già avviata sul volgere del Cinquecento. Il completamento del chiostro riqualificava una area di preesistenze disomogenee, tra le quali erano anche le case acquistate dai padri tra il 1580 e il 1590. Nel cantiere del secondo chiostro del convento, ancora parzialmente conservato, e che sorge sul fianco orientale della chiesa, è invece documentato Giacomo Agostini, zio del più noto architetto della chiesa di S. Paolo (1686). La storiografia piacentina e la guidistica locale sostanzialmente basate sulle Memorie storiche di Cristoforo Poggiali (1761), avevano concordemente tramandato come anno di apertura del cantiere il 1595, non specificando se vi fosse inclusa anche la chiesa. È invece ipotizzabile che il 1612 abbia segnato la fine dei lavori della chiesa e l’apertura al culto, secondo quanto riferito da Poggiali seguito poi da Luciano Scarabelli, Gaetano Buttafuoco, Leopoldo Cerri, come peraltro risulta anche dalla Relazione vera, sincera et accurata… conservata presso l’Archivio romano dei Teatini. La distribuzione planovolumetrica della chiesa piacentina, dal pronunciato andamento longitudinale della croce nell’inviluppo rettangolare dell’invaso con cupola nel punto di imposta del transetto e braccio presbiteriale a fondo piatto, rivela grande rigore e chiarezza spaziali. La planimetria conservata all’Archivio di Stato di Parma, databile tra il 1803 e il 1806, raffigura una grande aula divisa in tre navate con quattro cappelle affrontate. Nelle navate laterali lo spazio si compone per una aggregazione di cellule geometriche regolari, ed ogni arcata della navata centrale delimita, con gli archi trasversali, una cupola, dando origine a uno spazio ripartito in nette sezioni geometriche. La navata centrale è a botte lunettata con finestre aperte nelle unghie rialzate. La luce penetra sia dalla finestra di facciata, sia da quelle sopra citate, aperte nelle unghie, sia dalle quattro grandi finestre ricavate nel tamburo della cupola impostata sul quadrato di incrocio tra navata centrale e transetto, perno dominante dell’intera composizione che recupera, nella distribuzione a tre navate, la tipologia diffusa in epoca di Controriforma della chiesa con transetto incluso nel perimetro murario laterale. La facciata, eretta nel primo decennio del Seicento, ma non completata almeno nelle membrature architettoniche del coronamento, riflette echi della Maniera tardo cinquecentesca, benché proposti con un più spiccato movimento dinamico delle membrature architettoniche verticali, dispiegate sull’impaginato della facciata a intervalli molto serrati, resi plasticamente evidenti dalla presenza di semi pilastri che inquadrano le specchiature con nicchie, sia nell’ordine inferiore, sia in quello di più ridotta altezza, del livello superiore. Il rimando, neppure troppo celato, a soluzioni proposte dalla trattatistica e vicine ai modi di Giacomo Barozzi da Vignola, si giustifica con un richiamo all’architetto e al suo celebre manuale,l’Idea delli cinque ordini, peraltro esplicitato nell’accordo stilato nel 1605 fra i Teatini e il Carrà “…lavorate come quella base che dal Vignola è detta Attigurga senza pezze”. L’aspetto più sorprendente di tale sistema compositivo non si ravvisa tanto nella organizzazione del livello dorico inferiore, caratterizzato da una imponente trabeazione con cornicione molto aggettante, quanto piuttosto nello sviluppo dell’ordine ionico superiore incongruamente appoggiato su alti plinti basamentali in stridente accordo con la contenuta altezza delle paraste forse così dimensionate per rendere comunque percepibile, nella contratta vista scorciata dal basso verso l’alto, l’articolazione architettonica e plastica delle stesse membrature. Ed è proprio questo che connota l’impianto della facciata di una visione più decisamente barocca. Il complesso conventuale, all’interno del quale sono ospitati alcuni uffici comunali, è attualmente fortemente compromesso dai numerosi interventi, non sempre pertinenti, che si sono susseguiti nel corso degli anni, a cominciare da quelli successivi all’editto napoleonico che ha decretato, anche a Piacenza, la soppressione di numerose sedi conventuali e chiese. La chiesa dei Teatini fu infatti soppressa nel 1810 e acquisita con una parte del convento da Bartolomeo Rossi nel 1819. Un’altra parte del convento fu acquisita da certo Bartolomeo Prella che la fece poi demolire fra il 1832 e il 1833, e la parte restante rimase nelle disponibilità del Demanio. La chiesa e quella parte di convento già di proprietà Rossi, pervennero al canonico don Gaetano Lanati che nel 1822 ottenne dalla duchessa Maria Luigia l’autorizzazione a riaprire al culto l’edificio sacro. A Lanati

123 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 subentrò Domenico Cigala Fulgosi, che anche grazie all’appoggio della contessa Amalia Marazzani Visconti Terzi acquisì quella parte del convento rimasta al Demanio è la destinò ad attività educative dei Fratelli delle scuole cristiane (1843). Nel 1912-13 i Fratelli delle scuole cristiane eseguirono dei lavori di ampliamento del complesso, con la costruzione dell’ala su via Gaspare Landi e ulteriori ampliamenti sono registrati nel 1934. I Fratelli delle scuole cristiane, qui attivi dalla metà dell’Ottocento, abbandonarono l’edificio nel 1972, allorché l’intero complesso fu acquisito dal Comune di Piacenza.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2010 per il restauro dei palazzi piacentini. Chiesa dei Teatini di San Vincenzo, Ticom, Piacenza 2010

Progetto della chiesa di San Vincenzo, 1600 (Roma, Archivio Generale dei Teatini)

Pianta della chiesa di San Vincenzo, 1724 (Piacenza, Archivio di S. Giorgio in Sopramuro)

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Pianta dell’isolato con palazzo Mischi con il limitrofo palazzo Malvicini Fontana e la scomparsa chiesa di S. Alessandro

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PALAZZO MISCHI * via Garibaldi, 24

Palazzo Mischi occupa un quinto circa dell’angolo di nord ovest dell’isolato delimitato a nord dalla strada del Guasto (oggi Garibaldi), a est dalla strada di S. Raimondo (oggi V. Emanuele), a sud dalla strada di S. Giovanni, a ovest dal Cantone de’ Cavalli. L’angolo di sud ovest è invece occupato dal più grande impianto di palazzo Malvicini Fontana (1624), poi Fogliani d’Aragona, mentre la parte centrale del settore di sud est era occupata dalla seicentesca chiesa di S. Alessandro e dai fabbricati ad essa associati. Del palazzo Mischi si parlerà oltre, ma intanto è opportuno ricordare che il grande palazzo Malvicini Fontana, con la sua lunga facciata che prospetta su via S. Giovanni, sorge sulle strutture architettoniche di preesistenti edifici già in possesso della famiglia nel XV secolo. I lavori di ristrutturazione sebbene iniziati nel 1624, si protrassero, almeno per la facciata principale, fino al 1712 quando il marchese Erasmo Malvicini Fontana richiese alla Congregazione di Polizia e Ornato di potere rettificare il perimetro occupando parte del sedime stradale. Questa operazione comportò anche la saturazione dell’area libera adibita a orto del preesistente impianto situata nell’angolo fra la strada S. Giovanni e Cantone de’ Cavalli e l’assorbimento del quadriportico cinquecentesco che delimitava il cortile interno più grande più prossimo a cantone de’ Cavalli. Il complesso chiesa e fabbricati di S. Alessandro, è invece il risultato di un processo di razionalizzazione di varie fabbriche del precedente impianto medievale, di proprietà dei canonici che gestivano la chiesa. Come si è visto per l’isolato di palazzo Chiapponi, anche in questo isolato si conserva il relitto di un cantone cieco che dalla strada di S. Raimondo penetra all’interno parallelamente alla strada del Guasto, interrompendosi in prossimità della proprietà dei marchesi Mischi; cantone ora di proprietà privata, ma che serviva anticamente a disimpegnare gli accessi dell’eterogeneo raggruppamento di edifici che sorgevano all’interno dello stesso isolato. La chiesa, a cinque navate, fu ricostruita nel 1644 conservando, della preesistente, solo l’antico coro. Nel 1773 fu ricostruita anche la canonica. Nel 1856, soppressa la parrocchia, fu demolita in parte la fiancata e rifatta la facciata su disegno di Giovanni Brugnoli. Nel 1864 la chiesa fu adibita a teatro, quindi, nel 1867-68 ebbe inizio la progressiva distruzione dell’impianto fino a quando, nel 1919, fu costruito il cinema Iris, su progetto dell’architetto Arnaldo Nicelli (1876-1946), nascosto dietro a un fronte di gusto liberty, di proprietà Leonardi. È evidente quindi che la storia delle trasformazioni architettoniche e urbanistiche di questo isolato, trova i momenti più decisivi nell’arco temporale compreso fra la seconda metà del Seicento e la seconda metà dell’Ottocento – secondo decennio del Novecento. Trasformazioni che tuttavia non hanno cancellato del tutto le preesistenze edilizie dell’antico impianto medievale, il quale doveva suddividere l’attuale perimetro dell’isolato in ambiti più piccoli, come peraltro testimonia la presenza del vicolo cieco sopra citato. Palazzo Mischi nasce nei primi decenni del Settecento, per volontà del marchese Benedetto Mischi, dall’accorpamento di sei case preesistenti, acquisite in momenti successivi dallo stesso marchese negli anni dal 1663 al 1709, la prima come dote della moglie, le altre per acquisto, delle quali quattro prospettanti su via Garibaldi e due, unificate, con accesso da cantone dei Cavalli. L’impianto planimetrico complessivo del palazzo, molto articolato, organizzato intorno a ben quattro cortili, fornisce un chiaro indizio del fatto che il grande palazzo nobiliare venne realizzato sfruttando strutture e spazi liberi degli edifici precedenti, che non furono quindi completamente rasi al suolo ed eliminati nella fase costruttiva settecentesca, ma assorbiti condizionando l’assetto del nuovo palazzo, le cui strutture inglobano probabilmente alcune delle murature appartenute alle sei case originarie. Dall’esame della planimetria attuale del palazzo si osserva in particolare che la suddivisione dell’impianto nella zona retrostante alla facciata di via Garibaldi potrebbe con facilità corrispondere alla partizione muraria delle quattro case situate lungo questa via: riscontriamo infatti una partizione regolare di quattro ambienti - di cui quello comprendente l’androne centrale ulteriormente suddiviso a metà - scanditi da murature portanti e di ampiezza pari a circa quattro metri ognuno, una dimensione che richiama la larghezza degli stretti lotti a schiera di origine medievale. Ci troviamo infatti in una delle prime zone di espansione urbana al di fuori della vecchia città romana, lungo l’asse di via Garibaldi, che nacque originariamente come primo percorso extramurale della via Francigena, attestatosi all’esterno del circuito murario dell’872 nella zona sud-ovest della città almeno a partire dal X secolo, come testimoniato dalle date di fondazione delle numerose chiese poste lungo tale asse. Le due case acquistate su cantone dei Cavalli dal marchese con rogito del 1706, risultano anch’esse tuttora parzialmente identificabili nello schema planimetrico e negli alzati del palazzo: la zona terminale del prospetto di cantone dei Cavalli presenta infatti un arretramento della muratura rispetto al filo della facciata, in corrispondenza di un setto murario portante ad essa perpendicolare, a delimitare un corpo di fabbrica annesso al palazzo, ma tuttora chiaramente individuabile sul fronte esterno, che non venne uniformato e unificato al resto della facciata, ma rimase da essa distinto per la mancata esecuzione del cornicione e dell’apparato decorativo a quadratura. La presenza del portale scolpito su cui troneggia lo stemma della famiglia Bianchi, originaria proprietaria dell’immobile, è un ulteriore elemento che ci porta a riconoscere in questa porzione del palazzo la struttura di

127 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 una o di parte delle due case unite acquisite dal marchese nel 1706. Il prospetto principale del palazzo su via Garibaldi, presenta una visibile asimmetria conferitagli dalla posizione del portale centrale e del sovrastante balcone, che non sono perfettamente centrati sulla mezzeria del prospetto, ma se ne discostano di circa mezzo metro, elemento questo fortemente indicativo del fatto che la facciata non fu riedificata integralmente, ma impostata sulle compagini murarie degli edifici preesistenti. In effetti, nel corso dei lavori di restauro del prospetto (2010-2011)è stata fortuitamente rinvenuta anche una significativa traccia materiale afferente alla fase edilizia pre-settecentesca: si tratta di un resto di muratura affrescata retrostante il fronte su via Garibaldi, venuta alla luce a causa di alcuni mattoni smossi e decoesi. È stato così possibile osservare che almeno in questa zona la facciata creata nel Settecento era in realtà una controfacciata di limitato spessore, costituita da uno strato di mattoni in foglio, addossata ad una muratura portante di mattoni che presenta resti di intonaco affrescato, la quale avrebbe quindi costituito il prospetto su strada di una delle case accorpate per creare il palazzo: la sua posizione fa supporre si trattasse della terza casa acquistata lungo via Garibaldi con rogito del 1703, precedentemente di proprietà del monastero di S. Maria delle Grazie, che, stando al lacerto di decorazione rinvenuto, avrebbe avuto anch’essa una facciata ornata con elementi architettonici dipinti. Sul frammento è infatti riconoscibile un tratto di trabeazione databile entro i secoli XVI-XVII, ornata con un festone vegetale sovrapposto ed eseguita in colori vividi e brillanti, che, vista l’altezza da terra, corrispondente al secondo piano attuale, avrebbe potuto rappresentare la cornice marcapiano di separazione tra primo e secondo piano oppure, più probabilmente, il cornicione terminale di sottogronda dell’edificio. Sulla facciata del palazzo poi costruita nei primi decenni del Settecento, caratterizzata dal bel portale centrale in arenaria e dal balcone con soletta in pietra e con la preziosa ringhiera in ferro battuto, elementi che formano il perno compositivo dell’intero fronte, fu realizzata una decorazione a quadratura dipinta secondo la tecnica del mezzo fresco, formato da cornici marcapiano e grandi riquadri a campitura uniforme, su cui si stagliava il ricco disegno plastico delle edicole ornamentali delle finestre, diversificate su ognuno dei tre piani e in special modo nella “colonna” centrale del prospetto. Le modanature dipinte in forte scorcio prospettico dal basso verso l’alto intorno alla porta finestra del balcone e alla soprastante finestra conferiscono al sistema dell’asse principale della facciata una enfasi singolare, viepiù sottolineata dal risalto della parete rispetto alle ali laterali. Lo stesso schema venne riproposto anche sulla facciata secondaria di cantone dei Cavalli, pur senza gli elementi centrali. Su questo prospetto le tonalità di colore furono intensificate rendendole più scure e cariche rispetto alle cromie chiare e luminose della facciata di via Garibaldi, come a voler accentuare l’effetto d’ombra già naturalmente causato dalla ridotta larghezza della strada e dalla conseguente vicinanza degli edifici del lato opposto. Le vicende biografiche del promotore del palazzo di via Garibaldi, il marchese Benedeto Mischi (1641- 1721), sono state ricostruite da Fiori. Per quanto attiene all’articolazione della dimora di via Garibaldi 24, è possibile sostenere che Claudio, figlio ed erede del marchese Benedetto, ne promosse la riconfigurazione con l’ampliamento dell’oratorio, che confinava con la proprietà dei marchesi Malvicini Fontana. La riunificazione e la riorganizzazione complessiva dei singoli edifici di cui il marchese Benedetto Mischi entrò in possesso a partire dalla fine del Seicento e nei primi anni del Settecento, risale agli anni immediatamente successivi al 1720. Secondo Fiori «verso il 1710 il Mischi fece erigere le quattro logge del cortile e la bella scala». L’articolazione planimetrica del palazzo si sviluppa attorno al cortile d’onore quadriporticato, secondo uno schema non molto diffuso in città. La peculiarità del cortile d’onore del nostro palazzo consiste nel fatto che reca tre campate ad arco sia sul lato nord, verso strada, sia sul lato sud, e due sole campate, di luce maggiore, sugli altri due lati est e ovest. Le campate sono rette da colonne tuscaniche in granito e pilastri angolari in muratura. In palazzo Mischi, lo scalone d’onore è allogato sul lato sud del cortile. L’attribuzione all’architetto piacentino Giuseppe Cozzi (1671-1712) troverebbe conforto nelle stringenti analogie che esso palesa con la scala del casino Nicoli Scribani di S. Antonio a Trebbia. Il nome dell’architetto compare in un rogito del 1709 relativo all’acquisizione, dalla confraternita della SS. Trinità, di una casa posta nella vicinanza della chiesa di S. Ilario: l’architetto Cozzi e Giuseppe Cremonesi, citati nell’atto, furono i periti incaricati della stima. Il blocco stereometrico del palazzo non lascia trasparire all’esterno la genialità delle soluzioni perseguite da Cozzi all’interno, ove, sul lato sud del cortile, si avverte il disegno del molteplice gioco delle rampe che conducono dal livello terreno al sottotetto del palazzo. Le rampe si svolgono attorno a una pianta semidodecagonale. Il lato lungo del poligono corrisponde ai ballatoi di arrivo, sostenuti da esili colonne. Prima di giungere al piano nobile, parte un’altra rampa che serve l’appartamento a sud del palazzo. Una soluzione molto suggestiva e scenografica quella ideata dal Cozzi per questa scala, che annulla l’effetto di vano chiuso, e la rende un unicum nel panorama, pur ricco e originale, della scala barocca a Piacenza. La larghezza dei gradini si restringe progressivamente man mano che si sale. Lo svolgersi delle rampe avviene infatti secondo la concezione della «veduta per angolo», ossia lungo direttrici oblique, in una ardita ricerca di effetti scenografici cui era uso Ferdinando Galli Bibiena (Bologna, 1657-1743). Questa “manovra” compositiva testimonia un particolare interesse per il rapporto tra spazio “pieno” e spazio “vuoto”, e non va intesa come un semplice

128 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 esercizio di virtuosismo progettuale dell’architetto, bensì come un’inedita invenzione che con generatrici – direttrici che si aprono a visuali sempre diverse, plasma il volume interno del complesso con sovrapposizioni di visuali sempre variabili. Nell’articolazione planimetrica dell’edificio nobiliare, emerge la differenziazione adottata nel sistema dei percorsi, all’interno dei quali risultano separati quello aulico da quello di servizio. Si configurava così un percorso funzionale e di servizio in dirittura assiale ovest-est, che consentiva il transito di merci e materiali in assoluta autonomia rispetto all’uso nobiliare dell’edificio. Nell’Ottocento il palazzo fu interessato da altri lavori, come ci testimonia la documentazione conservata nel fondo Concessioni edilizie presso l’Archivio di Stato di Piacenza. Nel 1843 fu sopraelevata, su disegno di Giacomo Sartorio, una parte del palazzo, verosimilmente la porzione di fabbrica sud, che prospetta su un cortile quadrato, il cortile rustico; nella seconda metà del secolo furono aperte quattro botteghe sul fronte su via Garibaldi (1866) e alcune finestre sul fronte che prospetta su cantone dei Cavalli, dove era l’ingresso delle carrozze (1870). Nell’Archivio privato dei marchesi Mischi si conserva un disegno di progetto, privo di firma e di data, che rappresenta il fronte principale del palazzo su via Garibaldi, con sei finestre alpiano terreno disposte simmetricamente ai lati del portale e una proposta di apertura di due botteghe con portale monumentale, stilisticamente coerente con quello dell’ingresso principale. Si tratta di un progetto precedente a quello del 1866 che, se fosse stato realizzato, avrebbe comportato il ridisegno delle aperture nell’ordine terreno. Su cantone dei Cavalli nel 1888 furono aperte due botteghe, su disegno di Paolo Pantrini; altri lavori risalgono al secondo decennio del Novecento, per volere del marchese Benedetto Mischi. Tutti questi interventi non alterarono la qualità dell’ornato, che - cosa apparentemente insolita a Piacenza - è rappresentato da una sfarzosa decorazione a quadratura di memoria bibienesca. La decorazione pittorica, nel palazzo dei marchesi Mischi, non solo investe le volte dello scalone d’onore, di sale e salotti al piano nobile, ma si estende anche ai fronti del palazzo, sia quello principale, sia il fronte secondario. La campagna decorativa che, stante una prima lettura stilistica, potrebbe risalire cronologicamente al terzo decennio del Settecento e pertanto coincidere con la fase dei lavori promossi dal marchese Claudio, riflette il gusto e la strategia di comunicazione del committente in un città ove, allo stato attuale degli studi, non sembrerebbe sussistere una tradizione di facciate dipinte. Dalla lettura delle fonti del XVIII secolo, emergono altre testimonianze, alcune delle quali riconducibili al catalogo di Camillo Alsona. Se confrontate con le architetture illusorie realizzate da questo quadraturista, attivo alla metà del Seicento, quelle che ornano la facciata principale e il fronte su cantone dei Cavalli del palazzo dei marchesi Mischi evidenziano una ben diversa matrice. Soprattutto, l’analisi dei dettagli e la cifra stilistica di quelle del fronte principale denunciano la paternità di un quadraturista colto e aggiornato sia sulle soluzioni architettoniche messe a punto nella Roma barocca, sia sulle invenzioni divulgate dal cremonese Francesco Natali, il più brillante quadraturista attivo nella Piacenza tardo barocca, vicino nei modi a Ferdinando Galli Bibiena.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2011 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Mischi, Ticom, Piacenza 2011

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Pianta dell’isolato con palazzo Rocci Nicelli e i limitrofi palazzi Gobbi e Cattaneo

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PALAZZO ROCCI NICELLI * Via Nicolini,10

Palazzo Rocci sorge su via San Paolo, al civico 10, antico asse viario che corre a est del Duomo e termina su via G.B.Scalabrini. Via San Paolo, attuale via Giuseppe Nicolini, è una strada dell’antico quartiere dei Landi o di San Lorenzo, detto anche della Cattedrale, a est della città. Il quartiere dei Landi è uno dei quattro quartieri in cui era anticamente divisa la città di Piacenza. Ricco di importanti edifici sacri, i ghibellini marchesi Landi vi possedevano il monumentale palazzo, oggi sede dei Tribunali, e vi risedevano altre famiglie patrizie, tra le quali i Bertamini, i Ferrari Sacchini, i Chiappini e i Gazzola. Palazzo Rocci sorge fra il settecentesco palazzo Gobbi a nord, e il palazzo dei conti Cattaneo a sud. Alla lacunosità delle fonti documentarie e alla carenza di informazioni sul cantiere, necessarie per comprendere l’iter costruttivo dell’edificio, rispondono in parte alcune fonti iconografiche. Tra le più antiche è la pianta della città di Piacenza, affrescata nella loggia di palazzo Vescovile, del 1748, nella quale sono rappresentati 123 palazzi nobiliari, tutti puntualmente identificati topograficamente e nelle proprietà. Successiva a questa rappresentazione, è la mappa del catasto ducale del secondo decennio dell’Ottocento. In entrambe queste testimonianze, il palazzo occupa un lotto che si estende fra vicolo San Paolo e l’attuale via Nicolini. La mappa del catasto ducale restituisce, con ricchezza di segni grafici gli aspetti tipologici del tessuto edilizio di quest’area urbana, le sue gerarchie e le funzioni, riconoscibili nelle corti porticate, nelle posizioni degli ingressi e nella loro diversa dimensione. La configurazione a fuso allungato dell’isolato, tratto distintivo di un processo aggregativo di origini medievali, ha determinato un processo riconformativo dei fabbricati costruiti al suo interno, orientati prevalentemente sull’asse est-ovest con i fronti principali su via Nicolini. I singoli fabbricati quindi presentano una disposizione planimetrica relativamente stretta e lunga come i tre palazzi Gobbi, Rocci Nicelli e Cattaneo che ha notevolmente condizionato la loro disposizione architettonica, rendendo evidenti gli aggiustamenti dettati dalla necessità di adeguare il modello ideale del palazzo alle effettive dimensioni del lotto. Dal manoscritto Zanetti si apprende che nel 1737 palazzo Gobbi era di proprietà del nobile Giovanni Gobbi, quindi di certo Felice Pellizzari (1765) cui subentrò, nel 1810, l’ingegnere Antonio Delfante, la cui attività è ampiamente documentata sia in città, sia sul territorio. Fra gli ultimi proprietari, nel XIX secolo, è ricordato don Andrea Bertucci. Palazzo Gobbi presenta un impianto planimetrico a “C” rovesciata, con unico ingresso su via Nicolini. L’ingresso carraio, attraverso un portale ad arco, introduce all’area cortiliva, di limitate dimensioni. L’ingresso è ricavato in posizione eccentrica: si apre infatti nella porzione nord del prospetto, al confine con palazzo Rocci Nicelli. Il portale è qualificato dall’uso del bugnato, secondo una tradizione piuttosto diffusa nelle dimore della città. Lungo l’androne terreno è posto un cancello in ferro battuto, forse ottocentesco. L’androne terreno, o “bochirale”, nella lessico dei cantieri locali, traguarda sulla corte interna con piccolo giardino. Non si esclude che l’attuale configurazione del palazzo sia il risultato di un accorpamento di più fabbricati, come consuetudine a Piacenza nella riorganizzazione o ricostruzione dei palazzi nobiliari soprattutto tra il Seicento e il Settecento. L’impianto del palazzo, benché aderisca al modello tipologico “a corte”, presenta un assetto compositivo costituito da due nuclei edilizi diversi. E’ infatti molto probabile che l’originario nucleo settecentesco, con fronte su via Giuseppe Nicolini, sia stato ampliato nel corso del XIX secolo con l’aggiunta di un secondo corpo di fabbrica che prospetta su vicolo San Paolo. Il settecentesco palazzo Cipelli Cattaneo, poi Omati, al civico 12 di via Nicolini, si articola su una pianta allunata, con cortile centrale e presenta un fronte piuttosto esteso caratterizzato da un ritmo regolare di bucature, prive di cornici, estese su tutti i tre piani. Le vicende costruttive di palazzo Rocci Nicelli sono documentate anche dalle piante di Piacenza che fra Settecento e Ottocento registrano, più o meno puntualmente, gli sviluppi delle aree urbane (ASPc, Mappe e disegni). L’impianto planimetrico del palazzo, che si articola attorno a due cortili disposti in sequenza a est della porzione che affaccia su via Nicolini, è rimasta sostanzialmente immutata dall’Ottocento a oggi. Lo attesta l’analisi comparata della cartografia catastale del 1950, del 1902 e del secondo decennio del XIX secolo. Il palazzo presenta una pianta allungata, con asse di penetrazione principale da via Giuseppe Nicolini a ovest e ingresso secondario su vicolo San Paolo a est. Il sito sul quale insiste è “fuori di squadro” (S. Serlio), ossia è un lotto irregolare. In questi casi, la trattatistica rinascimentale, e Sebastiano Serlio in primis, suggerivano di assegnare alla corte d’onore il compito di elemento di organizzazione spaziale e di regolarizzazione geometrica, mentre le differenze dimensionali o di giacitura date dal contorno del lotto venivano assorbite da ambienti di varia forma. Dei dieci casi esposti da Serlio, uno è analogo a quello di palazzo Rocci, che presenta due lati su strada e due vicinali, ossia confinanti con proprietà contigue. Nei palazzi del barocco e dell’età neoclassica, il punto nodale dell’organizzazione planimetrica è costituito dal sistema atrio-cortile-scala. L’atrio o l’androne architettonicamente qualificato, e una scala ampia e luminosa, sono considerati indispensabili al decoro della residenza. E’ raro che le esigenze rappresentative

133 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 si concentrino sul portale e nella zona d’ingresso, ma si risolvono nel cortile e nello scalone. Difficilmente a Piacenza l’androne (“bochirale”) è sostituito dall’atrio (eccezionali i casi di palazzo Anguissola di Grazzano su via Roma 99; palazzo Douglas Scotti di Vigoleno, attuale palazzo della Prefettura, su via S. Giovanni 17). Il tema architettonico dell’atrio, elemento importante nella pratica edilizia rinascimentale a Roma (palazzo Farnese), a Genova e nella trattatistica (il riferimento è a Palladio e alle sue proposte di atrii a quattro colonne su modelli vitruviani), non ha successo a Piacenza, soprattutto perché ostacolato dalla frammentazione dei corpi di fabbrica preesistenti e dalle anguste dimensioni del sito. La corte è quindi per ragioni per così dire fattuali più consona all’impianto del palazzo su lotto urbano chiuso fra proprietà contigue, come nel caso di palazzo Rocci Nicelli. Se analizzate nel contesto delle residenze nobiliari barocche e tardo barocche, e soprattutto nei casi dei palazzi di dimensioni più grandi, si riscontra un certo numero di corti minori variamente disposte intorno alla corte d’onore con funzioni di servizio al piano terra e di affaccio al piano superiore. Di solito una delle corti di servizio ospitava le stalle e le rimesse per le carrozze e, al contrario della corte d’onore che, ove le condizioni lo consentono, tende a mantenere un perimetro regolare, la corte di servizio ha, nelle dimore di Piacenza come per esempio nei palazzi milanesi, forma irregolare, adattandosi così alle diverse giaciture dei corpi di fabbrica e dei muri di confine (per esempio palazzo Anguissola di Grazzano) e non presenta mai la ricchezza di portici e colonne della corte principale. Nel Giornale Zanetti nel palazzo sono descritti più appartamenti. Sappiamo così che l’appartamento del piano terreno, tuttora esistente, “a sinistra entrando” si articolava in “una sala con camino, camere una con arcova e camino-segue la cucina et una piccola saletta con camino”; “a metà della scala due camerini- App.to sup. verso strada, una camera, e due camerini”. L’articolazione degli ambienti al piano terreno è rimasta sostanzialmente invariata rispetto alla descrizione dello Zanetti, benché rivisitato, sotto il profilo decorativo, in età neoclassica, come l’alcova che conserva una volta a botte decorata da un elegante motivo a rosette entro finti cassettoni. Interessanti sistemi di coperture a volta e a crociera sono presenti in altri ambienti al piano terreno, posti a nord del corpo di fabbrica. L’appartamento di rappresentanza è situato al primo piano, il piano nobile, caratterizzato da sale di maggiore altezza rispetto a quelle degli altri piani. Palazzo Rocci inoltre, possedeva una scuderia per tre cavalli. Il quasi anonimo prospetto del palazzo su via Nicolini nel quale si apre l’ingresso principale in posizione eccentrica, lascia trasparire tracce di un impianto più antico, che potrebbe risalire al Quattrocento o Cinquecento, rivisitato in epoca settecentesca con l’ampliamento delle finestre e forse del ridisegno della mostra bugnata che contorna l’arcuato portale di ingresso e del cornicione di coronamento. Le finestre infatti, ora prive di cornici, dovevano forse essere caratterizzate da elementi decorativi pittorici o a rilievo, molto probabilmente cancellati da recenti interventi manutentivi. Il sistema distributivo del palazzo è costituito da un percorso aulico, formato dalla sequenza androne terreno-portico-scalone-galleria-salone, attorno al quale si organizza lo schema distributivo dell’intero organismo residenziale. L’androne terreno, di non ampie dimensioni, sebbene spazioso, voltato a botte, è terminato dal cortile d’onore, porticato sul lato di controfacciata, voltato a crociera, con archi su colonne in granito di ordine dorico. Il portico, ortogonale all’asse principale del palazzo, conduce alla scala allogata in posizione laterale. Il palazzo è organizzato attorno a due corti in profondità, di cui la prima è la corte d’onore e la seconda è corte di servizio. Ciò non significa che il cortile è raddoppiato secondo un tema caro alla cultura architettonica romana del tardo Seicento e del primo Settecento. Il riferimento è al progetto per una residenza romana degli Este, redatto probabilmente intorno al 1670, e al progetto di palazzo principesco elaborato da Filippo Barigioni forse nel 1696 per un concorso indetto dall’Accademia di S. Luca. In entrambi questi casi un braccio di fabbrica in asse con l’ingresso, collegato con un atrio spazioso, e aperto da portici al piano terreno, divide in due unità uguali un cortile a sviluppo trasversale. Il tema del raddoppiamento del cortile non è presente nella Piacenza del Sei e del Settecento. Il cortile d’onore, sul quale prospetta un balconcino realizzato nel 1887, ha un impianto rettangolare. Più articolato è invece il secondo cortile, in origine di servizio. La sequenza portale-androne-cortile, che negli impianti barocchi è rigorosamente impostata su un unico asse, preferibilmente centrale, qui si dissolve in spazi che a stento riescono a evocare le connotazioni architettoniche delle dimore signorili. In conclusione, la disposizione sequenziale degli impianti barocchi come sopra brevemente accennato, non trova riscontri in palazzo Rocci Nicelli per l’impossibilità di perseguire quel modello compositivo in ragione del fatto che il lotto dove insiste il fabbricato è lungo e stretto e fortemente irregolare, eredità di un passato medievale che evidentemente si era mantenuto sostanzialmente intatto fino alla fase di rivisitazione architettonica dell’intero palinsesto.

* Il presente testo rielabora parte di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2012 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Rocci Nicelli, Ticom, Piacenza 2012

134 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

135 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Pianta dell’isolato con palazzo Chiapponi e i limitrofi palazzi Trevani e Appiani d’Aragona di Piombino

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PALAZZO CHIAPPONI * Via Chiapponi, 20-24

Il palazzo Chiapponi sorge nel quartiere di San Lorenzo o della Cattedrale, a est della città ed è incluso in un isolato di forma irregolare, delimitato a ovest da via Chiapponi, a nord e parzialmente a est da cantone del Tarocco, ancora a est da cantone della Pace, mentre a sud il palazzo è delimitato da un cantone cieco che muore all’interno dello stesso grande isolato ora perimetrato a sud dalla strada di San Salvatore (attuale via Scalabrini). La singolarità della riorganizzazione del palazzo è dovuta al fatto che solo le facciate che prospettano rispettivamente e direttamente su via Chiapponi e cantone del Tarocco furono oggetto di una integrale riprogettazione che prevedeva anche la demolizione parziale o totale di corpi di fabbrica che presentavano volumi in sporgenza rispetto al nuovo e più largo assetto viario; mentre il prospetto sul vicolo cieco a destra della facciata principale mantenne pressoché inalterate le caratteristiche architettoniche della propria storia medievale. Inoltre, va anche precisato che di tutti i prospetti solo quello di via Chiapponi venne ideato con chiari intenti di aulica rappresentanza, mentre gli altri due prospetti su cantone del Tarocco presentano una eterogenea articolazione che riflette a grandi linee gli accorpamenti parziali del tessuto architettonico pervenuto alla fine del Settecento ancora relativamente frammentato. Nell’isolato insistono anche i palazzi Trevani, in angolo via Chiapponi-via Scalabrini, e Appiano d’Aragona in angolo via Scalabrini- via Pace. Nel loro insieme i tre palazzi occupano i 5/6 dell’intera superficie dell’isolato. È evidente quindi che l’irregolarità di questo isolato è dovuta all’accorpamento di un sistema di isolati più piccoli, divisi tra loro da cantoni ciechi, di cui resta unico relitto quello che attualmente delimita il fronte sud del palazzo. Si tratta probabilmente di una delle poche testimonianze ancora intellegibili dell’antico impianto medievale che caratterizzava questo isolato e quelli immediatamente contigui, oggetto di un lungo processo di trasformazione promosso dalla Congregazione di Politica e Ornamento fin dal 1547, per migliorare la viabilità e il decoro dell’impianto urbano. Del primitivo impianto di palazzo Trevani, costruito dal capitano Antonello Rossi, al servizio degli Sforza di Milano, nel 1455 come attesta una lapide oggi conservata al Museo Civico di Piacenza, resta il portale di ingresso, decorato con gli acciarini dell’emblema araldico. Intorno al 1616 la facciata del palazzo sarebbe stata decorata, secondo la Matteucci (1979,p. 313) da Gian Antonio Alsona, padre del più famoso Camillo, quadraturista, al quale il Manoscritto Frati 33 della Biblioteca Passerini Landi attribuisce “prospettiva del cortile e fregio della sala” dello stesso palazzo Trevani. A lui si devono anche la decorazione dell’atrio della chiesa di S. Sisto e, a Milano, le quadrature nel salone terreno di palazzo Crivelli di via Pontaccio (prima del 1648).Nel 1723 il palazzo pervenne ai conti Trevani che ne mantennero la proprietà fino all’inizio del XIX secolo. Palazzo Appiani d’Aragona di Piombino prospetta con la sua lunga facciata su via Scalabrini seguendone l’andamento curvilineo. Sul fronte opposto sorge la chiesa dei Teatini di S. Vincenzo. I conti Radini Tedeschi, importante famiglia della nobiltà locale, costruirono il palazzo a partire dal 1595, che, in seguito al matrimonio di Gerolama Radini Tedeschi con Gerolamo Appiani d’Aragona nel 1633 pervenne in proprietà a questo illustre casato che lo mantenne fino all’inizio del XIX secolo allorché passò dapprima al banchiere Ponti quindi, nel 1874, ai conti Cigala Fulgosi e, per eredità, ai conti Borromeo penultimi proprietari. Della prima fase cinquecentesca resta il portale arcuato, sormontato dallo stemma del casato Radini Tedeschi, delimitato da lesene decorate con candelabre, concluse da protomi leonine. Il soprastante balcone con ringhiera in ferro battuto, fu inserito nel XVIII secolo, quando il palazzo fu sopralzato di un piano, e organizzato su un cortile porticato su tre lati con il quarto lato a nord aperto verso il giardino rimaneggiato dai Cigala Fulgosi nel XIX secolo. La facciata settecentesca fu organizzata su tre ordini di finestre caratterizzate, quelle del piano nobile e del soprastante, da semplici cornici prive di modanature con orecchie appena sporgenti. L’ampia superficie con una compatta cortina muraria in mattoni di laterizio venne conclusa da unaltoe sporgente cornicione riccamente modanato. Il cantiere fu avviato nel 1723 da Pier Maria come attesta la documentazione conservata nel fondo Concessioni edilizie dell’Archivio di Stato di Piacenza, che tuttavia non consente di ricostruire in toto l’iter del cantiere. Anche questo palazzo, come alcuni altri della nobiltà a Piacenza, è stato ampliato in seguito alla progressiva acquisizione di unità immobiliari limitrofe. Il conte Chiapponi acquistò le case su vicolo del Tarocco ai numeri civici 4 e 6 registrate nel manoscritto Zanetti del 1737 come edifici rispettivamente dotati di due camere e una bottega da falegname, la casa all’epoca della confraternita di S. Rocco, e quella del paratico dei calzolai. L’operazione promossa dal conte Pier Maria si estrinsecò in un intervento di consistente ampliamento, tesa alla definizione di un palazzo dominicale prestigioso. Il corpo del palazzo che oggi si trova ai numeri 20 e 24 di via Chiapponi e che termina con i cantoni del Tarocco e del Piombino, disegna un lotto che fin dall’epoca medievale è documentato con l’attuale perimetro. La pianta di Piacenza (1748) affrescata nella loggia del palazzo Vescovile, è fonte diretta cui fare riferimento per l’arco cronologico settecentesco: essa testimonia l’infittirsi dell’edificato. Vi compaiono palazzi, chiese, mulini:

137 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 l’insula relativa a palazzo Chiapponi si individua a ovest della Cattedrale, ma sarà ancora più chiaramente leggibile nella mappa del catasto ducale del secondo decennio del XIX secolo. Qui il palazzo si articola su un impianto planimetrico a blocco, serrato fra un’edilizia minuta a nord e a est. Le fasi del cantiere meglio documentate si confermano tuttavia essere quelle riferibili al XIX secolo. Al 1804 risalgono le valutazioni eseguite dall’ingegnere G. Antonio Tocchi, sullo stato del palazzo e sulla situazione della fabbrica. L’ingegnere descrive un edificio che si affacciava su una strada “molto angusta, per cui rendevasi difficile e l’ingresso, e l’uscita da detta casa ad un legno con soli due cavalli”. Inoltre “la facciata a detta strada era irregolare, e l’appartamento inferiore aveva pochissima luce, e le cantine sotto del medesimo erano quasi inutili per il suo rialzamento di fondo, e non si poteva levare questo per il pericolo, che l’acqua che scorre ivi in un canale sotto della strada, non filtrasse in dette cantine. Il cortile della casa era angusto; un altro appartamento era reso quasi inabitabile dallo strepito delle scuderie, e dal fumar delle cucine, che sotto vi si trovavano”. All’ingegnere Tocchi si deve il progetto dell’attuale facciata; a Francesco Meneghelli, mastro documentato in altri cantieri nobiliari di Piacenza della fine del Settecento, si deve la direzione lavori. Di grande interesse ai fini della comprensione del cantiere dell’inizio dell’Ottocento, è la biografia di Ferdinando Scotti, scritta da Felice Alessio e pubblicata nel 1880. Il capitolo XV del volume tratta dei lavori del palazzo di Piacenza e della rettifica di via Chiapponi. Il poligrafo piacentino ricorda che il corpo di fabbrica era distribuito su due soli piani, escludendo le cantine; è documentata l’annessione di un edificio a fianco, oggi al numero civico 24, nonché di due case nel cantone del Tarocco e di altri corpi nel vicolo del Tarocco; venne ridisegnato il profilo stradale anche abbattendo e, successivamente, ricostruendo, parte degli edifici prospicienti il palazzo. L’Alessio fornisce numerose informazioni circa lo stato del palazzo precedente l’intervento promosso dal conte Daniele Scotti, attingendo ampiamente alla relazione di G. Antonio Tocchi prima citato. Riferisce infatti che il conte Ferdinando “Cominciò dal comperare, il 7 Settembre 1837, la casa, che anticamente credesi facesse corpo col suo palazzo, per riunirla ad esso, dalla Contessa Giuseppa Luigia Ornati; e dopo questa compra si accinse a riformare tutto il palazzo insieme, internamente ed esternamente. Rifece presso che tutte le porte, le finestre, cambiando l’ordine per la simmetria. Alzò d’un piano tutta la casa, la compartì in varii appartamenti comodi, ben arieggiati, e quelli del primo piano anche grandiosi; vi ricostrusse varie scale, ed il grande scalone. Riordinò il cortile migliorandone l’entrata principale; in essa fecevi un bell’atrio ornato di colonne di granito, dei quattro stemmi della casa in basso rilievo di terra cotta, e di due nicchie con entro due busti, anch’essi in terra cotta, l’uno del Conte Daniele Chiapponi, da cui il palazzo col feudo di Rezzanello passò agli Scotti; l’altro del Conte Daniele Scotti, lo zio del Conte Ferdinando, che il lasciò erede di quasi tutto il suo (...). Regolarizzò la facciata riordinandone le aperture delle finestre, ornandola con bugnato a rilievo, con cordonati a finta pietra ad olio cotto, e colorandone il fondo a color mattone; con un balcone in granito, sopra cui collocò un grande stemma della famiglia in basso rilievo. Ed a fine poi di render tutto il palazzo più arieggiato, e perciò salubre, acquistò due casette poste al nord del palazzo, nel così detto cantone del Tarocco, e le atterrò”. All’inizio del Novecento, in un articolo uscito sul Piccolo giornale della democrazia (9-VIII-1905) Leopoldo Cerri descriveva l’edificio, supponendo che i lavori dovevano essere stati svolti dallo stesso ingegnere Tocchi, alludendo probabilmente alle case, prima citate, unite al nuovo corpo di fabbrica. Egli infatti ricorda che “(...) annesse al vecchio palazzo Chiapponi erano alcune case trecentesche d’una delle quali è un visibile avanzo verso il cantone del Tarocco, consistente in un arco di porta che spicca per il colore (...)”. Poco oltre annotava anche “(…) Altro tratto di fabbricato della stessa epoca è nell’angiporto [vicolo cieco], a destra del palazzo, che serve ad uso fienile. Vi si riscontrano al piano superiore due finestre chiuse arcuate a pieno centro, il cui archivolto e i relativi stipiti sono coperti per una zona tutt’intorno da una leggera scialbatura di calce liquida. Sotto, altra identica, pure chiusa, il cui arco sembra girato su due centri, e sarebbe così un precursore di quell’acuto che due secoli dopo prese nome di Tudor; e a terreno traccia di stipite di porta. Sotto la gronda si nota una finestrella arcuata, che da luce al solaio, fatta in materiale greggio, ma però d’origine (...)”. Le due “finestre chiuse arcuate “e la porta di cui parlava Cerri, sono tuttora leggibili sul lato sud est del palazzo. La documentazione d’archivio rende ragione dei numerosi lavori intrapresi nella seconda metà dell’Ottocento e, più precisamente, di quelli svolti fra il 1862 e il 1869. Risalgono infatti al 1862 alcuni elaborati planimetrici, firmati dall’ingegnere Pietro Borella, relativi ai fabbricati che sorgevano di fronte al palazzo e dei quali era prevista la demolizione per l’ampliamento e la rettifica della strada. Si tratta, più precisamente, degli edifici di proprietà del conte Ferdinando Scotti, compresi fra palazzo Marazzani a sud e casa Grandi a nord. Dalla lettura della convenzione del 16 maggio 1863, stilata fra il Comune di Piacenza e il conte Scotti, e dalla lettura del verbale della Commissione d’Ornato, si apprende quanto era stato deliberato, si conoscono gli oneri a carico del Comune e quelli a carico di Ferdinando Scotti; che “la linea del rettifilo della strada Chiapponi sarebbe fissato parallelamente al Palazzo del sig. C.te Scotti partendo dal punto in cui il prolungamento della parete della casa Marazzani incontra le attuali case del sig. C.te Scotti (…)” secondo il disegno allegato all’istanza. Le case da demolire (parzialmente) erano due, l’una confinante con casa Gasparini, verso il cantone di S. Giorgino

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(via Sopramuro) l’altra posta in angolo al vicolo Marazzani. La regolarizzazione e il conseguente ampliamento di via Chiapponi sarebbero stati funzionali anche al transito delle merci e dei carri, numerosi soprattutto nei giorni di mercato. I lavori per la ricostruzione delle facciate, su progetto approvato e autorizzato dal Comune. Il disegno per la “riduzione delle Case del C. Ferdinando Douglas Scotti” è interessante perché raffigura il fronte del fabbricato residenziale tripartito, connotato da bugnato nelle sole ali laterali del piano terreno; una cornice marcapiano separa il piano terreno dal piano nobile, ritmato da 10 bucature rettangolari dotate di cornice architravata; altrettante sono le finestre del terzo piano fuori terra, ma prive di cornici e di dimensioni inferiori rispetto a quelle del sottostante piano nobile. Il corpo centrale di questo lungo edificio fra palazzo Marazzani e casa Grandi, risultava così rientrante rispetto all’asse stradale e l’ingresso principale era previsto in asse a quello di palazzo Chiapponi. Via Chiapponi venne modificata allorquando restaurato, ed in parte riformato, il palazzo internamente ed esternamente rimaneva a provvedere allo sconcio dell’angustia della via che ad esso metteva ( F. Alessio,1880). Ferdinando Scotti aveva acquistato tre case che sorgevano dirimpetto al suo palazzo e, dopo avere stipulato una prima convenzione con il Municipio nel maggio 1863, cui ne seguì un’altra il 13 gennaio 1865, le fece in parte abbattere per potere rettificare e allargare la strada. Gli edifici avrebbero dovuto essere ricostruiti con facciate stilisticamente affini a quella del palazzo Chiapponi, e ritirato più indentro la casa di mezzo, vi pose innanzi una piccola, ma graziosa aiuola, chiusa da una cancellata in ferro (Felice Alessio 1880,p. 1108). Dell’aiuola e della cancellata in ferro non restano tracce; le tre case prospicienti palazzo Chiapponi che si elevano su due piani fuori terra oltre quello terreno, presentano soluzioni diverse da quella, aulica nell’invenzione di un fronte a trittico, veniva rappresentata nel disegno della metà dell’Ottocento conservato nel fondo Fabbriche, acque, strade dell’Archivio di Stato di Piacenza. Attualmente l’edificio centrale, con pseudo bugnato al livello terreno reca due ingressi; cinque assi di finestre con cornici architravate al primo piano e altrettante finestre, prive di cornice, all’ultimo piano. Una maggiore qualificazione decorativa presenta il fronte della casa posta in angolo al vicolo Marazzani, con balcone al primo piano e finestre dotate di cornice su mensole a voluta. Infine, a nord, il corpo di fabbrica dell’ex casa Gasparini, reca tre soli assi di finestre al primo e all’ultimo piano. Le vicende storico-architettoniche di palazzo Chiapponi mostrano due fondamentali fasi costruttive e trasformative, cronologicamente ascrivibili ai primi decenni del Settecento, la prima, e ai primi decenni dell’Ottocento, la seconda. Nella sua prima fase il palazzo venne articolato in due corpi di fabbrica, aventi probabilmente due distinte facciate su via Chiapponi, con due ingressi separati e due assi di penetrazione indipendenti correlati ai rispettivi cortili interni. È in questa prima fase che si procede agli abbattimenti e agli accorpamenti delle fabbriche medievali preesistenti e a regolarizzare gli spazi liberi e i fronti sulle due strade laterali e sul tratto di facciata liberata nel versante posteriore; mentre nella seconda fase primo ottocentesca le due facciate su via Chiapponi furono verosimilmente unificate in una nuova veste architettonica di stampo neoclassicista, che coinvolse anche la prima parte dei due risvolti d’angolo dell’isolato. All’esterno, l’edificio assume così una connotazione architettonica che contrappone al rigore compositivo della facciata principale il diversificato palinsesto delle restanti facciate, prive di una coerente unità compositiva, se si esclude la serie regolare delle alte finestre rettangolari, allineate orizzontalmente con quelle del prospetto principale, che fregia il primo e secondo piano delle due facciate rispettivamente sul cantone del Tarocco e sul vicolo del Tarocco. La presenza di due piccole finestre ovali sulla facciata del cantone del Tarocco, conformate e dimensionate secondo un lessico di chiara impronta seicentesca, testimonia che le rivisitazioni architettoniche settecentesca e ottocentesca non cancellarono totalmente alcune delle precedenti fasi trasformative che sicuramente interessarono almeno una quota parte di questo stesso prospetto. Un aspetto più medievale manifesta invece la facciata sullo stradello privato, privo di denominazione, che delimita il complesso verso sud, dove sul paramento di laterizio faccia vista permangono ancora tangibili tracce di finestre e di varchi tamponati, forse risalenti al Quattrocento. Qui, più che su tutti i restanti fronti liberi del palazzo, l’intervento settecentesco sembra si sia limitato a regolarizzare, in termini alquanto approssimativi, le già discontinue linee dei coronamenti delle fabbriche medievali preesistenti; mentre i segni più significativi del successivo rimaneggiamento ottocentesco sono principalmente ravvisabili nella articolata forma, variamente sporgente, delle linee di gronda, che peraltro sono state anche in parte interessati da ulteriori modifiche introdotte forse nel primo Novecento. Su questo prospetto non mancano inoltre i tentativi di raccordare tra loro i piani sfalsati del paramento, specie in corrispondenza della linea di sutura con l’impaginato architettonico classicista realizzato sulla facciata principale nel primo Ottocento e che fu sensibilmente risvoltato su questo lato del palazzo anche per cercare di nascondere, senza riuscirci del tutto, l’irregolare svolgimento del prospetto secondario. D’altra parte, la visuale prospettica colta da via Chiapponi di questo angolo del palazzo è così ristretta che a stento si riesce a percepire la mancata unitarietà architettonica del complesso. A dominare la scena urbana è principalmente l’imponente e alta facciata di via Chiapponi, articolata su tre livelli: il basamento, delimitato da una doppia cornice marca piano e marca davanzale; il piano nobile scandito da alte finestre, bordate da cornici concluse da architravi

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sostenuti da mensole in moderato aggetto; il secondo piano, di altezza più ridotta, con finestre più piccole, in asse con quelle sottostanti, anch’esse bordate da cornici appena sporgenti dal piano della parete; il fregio superiore bucato da finestrelle rettangolari, prive di modanature di contorno, che danno luce al piano di sottotetto; e il prominente cornicione di coronamento, sostenuto da una fitta serie di mensole. Lo schema architettonico che traspare dalle membrature orizzontali e dalla scansione delle finestre di questa facciata riflette, in buona sostanza, i principi compositivi ampiamente sperimentati nel corso del Seicento e del Settecento, fondamentalmente incentrati sulla graduatio, verticale e orizzontale, sorretta dalla simmetria bilaterale, anche se la forma di tutte le membrature è declinata secondo il linguaggio classicista del primo Ottocento, scevro dalle ridondanze ornamentali tardo barocche. Lo schema però è come costretto all’interno di una maglia più rigida, sia in pianta che in alzato, che riduce al minimo il plasticismo architettonico e decorativo dell’impianto; e questo molto probabilmente è dovuto ai vincoli imposti dalla conformazione delle due preesistenti facciate settecentesche, che evidentemente non consentivano di dare maggiore enfasi, e quindi riconoscibilità, agli elementi costitutivi della composizione architettonica basata sui principi della graduatio. Va in primo luogo segnalato che questa facciata, unitamente al corpo di fabbrica immediatamente adiacente, è più alta di un piano rispetto al restante complesso settecentesco, come per altro testimonia il doppio cornicione di coronamento della controfacciata che verso l’interno delimita il cortile maggiore. Qui, il cornicione del livello inferiore presenta un profilo modanato con un’ampia gola che lo differenzia nettamente dai più semplici e meno pronunciati profili del cornicione superiore. Accertato quindi che nella fase del rimaneggiamento ottocentesco si pose mano ad una radicale revisione dell’impianto della facciata principale si potranno meglio comprendere i limiti compositivi del suo schema architettonico. Se infatti soffermiamo l’attenzione sullo sviluppo longitudinale della facciata si noterà che il movimento delle superfici parietali è quasi schiacciato su uno stesso piano, scostandosi alquanto dall’usuale schema compositivo della graduatio. Il corpo centrale, articolato in tre assi di finestre, avanza leggermente rispetto alle contigue pareti di fondo che si dispiegano su entrambi i lati del portale di ingresso. A loro volta, quest’ultime, sono scandite da tre assi di finestre; mentre le due campate che seguono verso le estremità, contrassegnate da un solo asse di finestre, presentano lo stesso avanzamento parietale del corpo centrale. E fin qui gli elementi architettonici di facciata sono distribuiti in perfetta simmetria bilaterale. Ma alla compagine architettonica a destra dell’asse centrale si aggiunge un ulteriore campata, scandita da un asse di finestre e da un portale di ingresso secondario dalla forma arcuata, la cui superficie parietale è arretrata sullo stesso piano della parete di fondo. Ne consegue, una serie di assi finestrati, diversamente connotati, così articolata: a-b-b-b, nel versante di sinistra; b-c-b, al centro; b-b-b-a-d, nel versante di destra. Pertanto, nel suo insieme, lo schema compositivo della facciata contraddice clamorosamente sia la regola della graduatio, sia quella della simmetria bilaterale. Nonostante il gioco degli avanzamenti e degli arretramenti dei piani di facciata sia ridotto all’essenziale, il dispositivo architettonico, colto nel suo insieme, riesce in una qualche misura a restituire un’immagine che tenta di conformarsi alla regola della graduatio, anche grazie alla posizione dei quattro pluviali in rame volutamente incassati nella parete di fondo proprio in corrispondenza delle linee verticali che intercettano lo sfalsamento delle campate laterali e del comparto centrale. Questo quasi impercettibile sfalsamento delle superfici parietali della facciata non sembra possa attribuirsi ad una autonoma scelta progettuale, quanto piuttosto all’impossibilità di risolvere l’organismo architettonico con ben altri avanzamenti e arretramenti. Si può dunque ragionevolmente ipotizzare che il precostituito assetto delle due quinte architettoniche settecentesche impediva di smuovere i piani della nuova facciata ottocentesca più di quanto si fosse voluto. Inoltre, va tenuto presente che l’avanzamento del comparto centrale e dei due simmetrici laterali era in qualche modo limitato dalla necessità di non invadere più di tanto la carreggiata stradale di via Chiapponi.

* Il presente testo è la rielaborazione di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2013 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Chiapponi, Ticom, Piacenza 2013

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Pianta dell’isolato con palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio e i limitrofi palazzi Zanardi Landi, Scotti Fioruzzi e la scomparsa chiesa di S. Martino in Borgo

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PALAZZO DOUGLAS SCOTTI DELLA SCALA DI SAN GIORGIO * Via Verdi,42

Il palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio fa parte dell’isolato delimitato a nord dalla strada di S. Antonino, a est da piazza S. Antonino, a sud da via al Teatro (via Verdi), a ovest da cantone S. Martino. L’andamento irregolare del perimetro dell’isolato è dovuto alla presenza dei due tracciati medievali del cantone di S. Martino e della via S. Antonino e dalle opere di adeguamento e rettifica eseguite sul tracciato dell’antica via al Teatro nel 1861 (Spigaroli 1980). Fanno parte dell’isolato anche i due palazzi Zanardi Landi sul versante est, che prospetta sulla chiesa di S. Antonino, e palazzo Scotti Fioruzzi che delimita l’angolo tra strada al Teatro e cantone S. Martino. Risalivano invece ad una fase medievale le due chiese di S. Maria in Cortina, prospiciente lo slargo di via al Teatro, e di S. Martino in Borgo che chiudeva l’angolo di nord ovest tra l’omonimo cantone e via S. Antonino. Dal confronto tra l’impianto catastale luigino e quello attuale non traspaiono sostanziali modifiche alla conformazione delle particelle catastali, salvo alcuni accorpamenti dei fabbricati interposti tra il palazzo Zanardi Landi e Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio prospicienti su via S. Antonino e la radicale trasformazione dell’impianto dell’ex chiesa di S. Martino in Borgo. E’ quindi questo uno dei pochi isolati del cento storico cittadino che ha mantenuto pressoché inalterata la sua conformazione planimetrica almeno dagli inizi dell’Ottocento. La piccola chiesa di S. Martino in Borgo, di fondazione anteriore al Mille, costituita da un unico ambiente voltato a ogiva intorno al 1400, venne modificata nella facciata nel 1611, e fu soppressa nel 1895. Nel 1900 trasformato in abitazione civile utilizzando i muri di fondazione senza modificazioni del perimetro esterno, l’edificio religioso, precedentemente costituito dalla chiesa e annessa canonica, fu sopralzato di due piani. Al piano terra furono ricavate anche botteghe. La chiesa di S. Maria in Cortina, ricostruita intorno al Mille, fu rimaneggiata in epoca tardo gotica (1478). Resti della precedente chiesetta altomedievale si conservano al di sotto dell’impianto tardogotico, unitamente a testimonianze di epoca romana. Nel 1536 la chiesa, già parrocchia, fu declassata ad oratorio e annessa alla parrocchia di S. Antonino. Nel 1856 fu aperta una porta laterale sul fianco destro, poi richiusa, nel 1899, in occasione di lavori di restauro. La singolare posizione della chiesa, incuneata tra la facciata di palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio, e la facciata ovest di palazzo Zanardi Landi, è dovuta alle sue origini tardo antiche (V secolo). Quindi, i due palazzi limitrofi, risalenti entrambi al XV secolo, ma i cui impianti planimetrici furono il risultato di un processo di accorpamento di caseggiati di epoca tardo medievale, si pongono come due corpi quasi estranei rispetto al contenuto volume della chiesetta, una delle poche testimonianze, ancora intellegibili, di quel micro paesaggio urbano dell’epoca medievale. Il margine sud est dell’isolato è delimitato dal grande palazzo Zanardi Landi, oggi sede di istituto di credito, con ingresso su via Verdi 48 e sullo fronte est e nord, angolo via S. Antonino, dall’altro palazzo dello stesso casato Zanardi Landi. L’attuale edificio su via Verdi 48, è il risultato dell’accorpamento di vari caseggiati, alcuni dei quali acquistati dagli Zanardi Landi tra il XV e il XVI secolo, altri nel corso del XVII secolo prospicienti piazza S. Antonino. Nel 1737 il palazzo apparteneva al conte Bartolomeo Zanardi che l’anno successivo promosse una serie di lavori di sistemazione e di ampliamento. Dal 1765 al 1810 il palazzo rimase in proprietà al conte Felice. Risalgono al XIX secolo il ridisegno delle facciate su via Verdi e su piazza S. Antonino quest’ultima intercalata da un grande terrazzo. L’altro palazzo dei conti Zanardi Landi in angolo fra la piazza e la via S. Antonino, pervenne a Bartolomeo Zanardi Landi di Veano nel 1698 (Fiori 2006, p. 45). La facciata su piazza S. Antonino fu ridisegnata da Donnino Bertolini nel 1853 su commissione del conte Francesco Zanardi Landi, poi rimaneggiata nel 1861 su disegno del tecnico comunale G. Inganni dove le finestre dell’ultimo piano presentano una doppia soluzione di forma quadrata e rettangolare, come di fatto è stata poi effettivamente realizzata (Còccioli Mastroviti 1994). Nel corso dei lavori furono introdotte modifiche al disegno di Inganni, poiché le attuali due facciate sulla piazza e su via S. Antonino presentano oggi strette bucature comprese tra la cornice del terzo ordine di finestre e il cornicione di coronamento. Sorge sull’antica strada al Teatro (oggi via Verdi, 40), il palazzo che fino alla metà del Settecento apparteneva ai conti Scotti, poi a Giuseppe Fioruzzi, presidente del Tribunale di Piacenza dal quale pervenne per eredità ai marchesi Malvicini Fontana. Il palazzo si eleva su tre piani fuori terra con fronte principale scandito da quattro bucature al piano terreno, nel quale si apre il portale arcuato, e cinque nei due piani superiori. L’asse centrale riceve una forte accentuazione sia dalla presenza in asse al portale della finestra con balconcino sormontata da cornice, che interrompe l’orizzontalità della fascia marcapiano, sia dal robusto cornicione che in quel punto è risolto con una cuspide a timpano. La configurazione architettonica della facciata su via Verdi sembra avere mantenuto le sue caratteristiche stilistiche settecentesche, prima che il palazzo passasse in proprietà ai Fioruzzi. Va però fatto rilevare che questa facciata sembra estendersi oltre i limiti dei suoi ambienti interni, tanto è vero che parte degli spazi occupati dalle adiacenti sale del palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio, oggetto di un importante intervento di ristrutturazione condotto fra il 1820-1837/38, invade una

143 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 porzione della facciata di palazzo Fioruzzi. Si tratta di un accorgimento architettonico del tutto singolare, che probabilmente nasce da una intricata questione di proprietà confinanti. Tuttavia Antonio Tomba ha voluto comunque salvaguardare il decoro di palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio, inteso come anello di congiunzione tra gli interessi della sfera privata con quelli della sfera pubblica, sia dell’impianto settecentesco sia di quello che ha ridefinito nella terza decade dell’Ottocento. Testimonianza significativa dell’architettura a Piacenza nell’età neoclassica, è il cantiere del palazzo del conte Federico Scotti di San Giorgio (+1835). Il nostro palazzo, nell’isolato di S. Maria in Cortina, è documentato da una cospicua serie di disegni che consentono di ricostruire l’iter del cantiere. In attesa che il riordino dell’intero archivio dei conti Gazzola, oggi depositato presso l’Archivio di Stato di Piacenza consenta di chiarire alcune questioni inerenti il cantiere del palazzo piacentino di strada al Teatro, sarà opportuno partire dalle fonti del XVIII secolo, che attestano la presenza del palazzo “da S. Maria in Cortina”. È la pianta di Piacenza, affrescata nella loggia del palazzo Vescovile, una delle prime testimonianze, cui seguono la descrizione del 1737, ossia l’Indice di tutte le parrocchie esistenti in questa città di Piacenza, e le rappresentazioni catastali del XIX secolo: la mappa del catasto ducale del secondo decennio XIX secolo, la mappa del catasto 1871, quella del catasto 1891 e infine quella del catasto del 1902. Nella mappa del Vescovado sono rappresentate le isole edificate, e le singole residenze nobiliari sono indicate ciascuna con un numero. L’area occupata dal palazzo dei conti Scotti si configura laconicamente con un andamento trapezoidale. L’unica testimonianza particolareggiata che descrive gli interni del palazzo, prima dell’intervento di Antonio Tomba (1832) e di Paola Gazola del terzo decennio dell’Ottocento, è quella del 1737, che descrive la “Casa del sig. Co. Carlo Scotti -App. Inf. à sinistra entrando Una saletta in fabrica, due camerine con un camino-verso una picola corte altre due camere camini uno, qual’App. serve p. uso del Sig. Co. Pr. Paolo Scotti. A’ destra il tinello p. la servitù scuderia e rimessa in fabrica- App. sup. salendo p. la scala nobile verso S. M. in Cortina una saletta con camino, una piciola cucina- à sinistra segue l’app. Nobile sup. , una sala con cam. Un salotto con camino, un Oratorio, e due camere civili con un camino - doppo altre due cam. Famigliari- verso strada una sala con cam. e cam. due nobili, e due famigliari. Padroni 3 servitù 5”. Questa puntuale descrizione ci dà l’idea di una residenza signorile non certamente fastosa, costituita da un androne che a sinistra disimpegnava l’appartamento di Paolo Scotti; mentre a destra erano collocati il tinello per la servitù e, in fase di costruzione, la scuderia e la rimessa. La descrizione in argomento non dice nulla circa lo scalone che conduceva al piano nobile, il quale presentava alla sua destra una saletta con piccola cucina, e a sinistra l’appartamento nobile vero e proprio ove si contavano sei camere, due sale, un salotto e un oratorio. Questa descrizione lascia quindi pensare che il palazzo settecentesco non avesse una configurazione architettonica compiuta, tanto è vero che si accenna ad ambienti ancora in fase di costruzione o di ristrutturazione. Va inoltre osservato che i rilievi dello stato di fatto del complesso, redatti dal perito Antonio Tocchi nel 1823, prima della riorganizzazione neoclassica, rappresentano il piano terra del fabbricato con un androne decentrato rispetto all’asse centrale della facciata, che conduce al cortile interno dotato di un unico braccio di portico, in continuità con lo stesso androne passante e con un’ulteriore corte interna delimitata da semplici muri perimetrali sui lati est e ovest. Il lato nord di questo cortile presenta invece un ulteriore corpo di fabbrica arricchito da un portico sulla sua facciata, ma anch’esso privo di simmetria rispetto al corpo retrostante. Questa planimetria dà quindi conto di una distribuzione degli ambienti piuttosto disorganica, che lascerebbe pensare ad un raggruppamento di fabbriche preesistenti, forse quattro-cinquecentesche, sulle quali ancora nella prima metà del Settecento la proprietà interveniva con il non compiuto tentativo di conferirle una maggiore omogeneità e razionalità architettonica. Del ricco corpus di disegni dell’Archivio dei conti Gazzola, oltre ai disegni realizzati da Antonio Tocchi fanno parte una planimetria esplicativa dell’intervento di “riforma” del palazzo progettata da Antonio Tomba (1832); 17 elaborati in scala (dal 1834 al 1837) riguardanti ambienti e particolari architettonici e decorativi di Paolo Gazola. Rispetto agli elaborati relativi allo stato di fatto del Tocchi (1823), negli elaborati di progetto dell’architetto Tomba appaiono evidenziate con campitura rossa le modifiche architettoniche predisposte, le quali mettono bene in evidenza le radicali opere di trasformazione che si intendevano apportare alla fabbrica preesistente, al fine di conferirle un assetto razionale modellato sulla tipologia tradizionale del palazzo piacentino, vale a dire costituito dalla sequenza portale di ingresso e androne passante sull’asse centrale della facciata, cortile d’onore quadriporticato aperto su un secondo cortile disassato rispetto al primo. Appare evidente, nel progetto di Tomba, lo sforzo di conferire alla disorganica distribuzione della struttura preesistente, un adeguato decoro conforme agli stilemi neoclassici. L’architetto infatti si preoccupa di spostare il precedente ingresso con androne passante situato sul margine destro della precedente facciata al centro della nuova composizione, inglobando il vecchio androne e una parte residuale dello spazio libero limitrofo, nel nuovo volume del corpo di fabbrica. In questo modo la nuova facciata acquisisce una maggiore larghezza rispetto alla precedente, operazione utile a determinare le condizioni di un sistema di aperture di finestre formalmente bilanciato sull’asse centrale, anche se non totalmente simmetrico. L’unico elemento monumentale al piano terra, oltre

144 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 lo scalone, è costituito dalla sala ovale ricavata sulla sinistra dell’androne di ingresso, appositamente ottenuta riconfigurando massicciamente gli spessori del preesistente ambiente rettangolare con l’evidente intenzione di qualificarla come un salotto di primo ricevimento. Non risultano invece realizzati il rombo della saletta contigua entro il perimetro rettangolare dell’ambiente preesistente, né la volta a crociera che nel progetto di Antonio Tomba caratterizza l’ultima parte dell’androne terreno. Oltre l’androne l’architetto Antonio Tomba riconfigura integralmente l’impianto del cortile creando ex novo quattro bracci di portico perimetrali, quelli sui lati sud e nord formalmente uguali tra loro anche se di larghezza leggermente diversa e quelli sui lati est e ovest, anch’essi speculari tra loro, ma con una larghezza sensibilmente inferiore rispetto agli altri. Una tale disposizione rende evidente le difficoltà insuperabili incontrate dall’architetto nel risolvere con un minore numero di demolizioni possibili l’assetto architettonico e strutturale preesistente. Certo è che la soluzione qui adottata è alquanto distante dagli organismi architettonici omologhi della temperie neoclassica, in quanto privi di armonici rapporti tra le parti. Un’analoga impacciata armonia si osserva anche nella disposizione del nuovo scalone posizionato sul margine destro del portico orientale del cortile, cioè nella stessa posizione del vecchio scalone, anch’esso organizzato su due rampe parallele. In questo caso l’architetto avanza di alcuni gradini la prima rampa di accesso e include le due nuove rampe in un unico volume, separate al centro da un sistema colonnato e coperto da un’unica grande volta a schifo. Non è chiaro se l’attuale balaustra, costituta da pilastrini in granito e da un pesantissimo corrimano, debba attribuirsi a Tomba o se più verosimilmente lo stesso architetto abbia riutilizzato una vecchia balaustra, probabilmente proveniente da altro cantiere, adattandola nel nuovo assetto della scala. D’altra parte, anche il cancello in legno e in ferro caratterizzato da una struttura che simula la rete in uso ai pescatori, con l’inserto di pigne e un reticolo squadrato e geometrico nella zona inferiore, sembra essere anch’esso di reimpiego, come lasciano chiaramente intendere le pesanti cerniere che connettono il cancello agli stipiti dell’androne. Ma è nella facciata che Antonio Tomba raggiunge un felice equilibrio classicista. Le ricerche effettuate presso l’Archivio di Stato di Piacenza hanno permesso di rintracciare un fondamentale documento che attribuisce all’architetto il disegno della facciata. Si tratta dell’istanza che il conte Federico Scotti Della Scala di San Giorgio presentò al Podestà di Piacenza il 21 luglio 1835 per ottenere l’autorizzazione a eseguire i lavori sulla facciata del palazzo, ultima parte dell’edificio che a quella data non era ancora stata interessata dai lavori. Su questo specifico argomento il conte Federico Scotti così si esprime “[….] Cosicche la Contrada già molto interessante per le sue Comunicazioni, e recentemente abbellita della Facciata del nuovo Teatro, acquisti una nuova decenza per la mia casa. Chè anzi, accioche tanto il pensiero delle novità interne, quanto quest’altro dell’esteriore abbellimento, sortir potesse un effetto il più misurato; tutto è per il disegno dell’Egregio nostro Architetto Signor Antonio Tomba in data 27 Febbraio 1832. Ma il disegno della Facciata porta un’apparente divisione di essa in tre parti; la media delle quali con qualche avanzamento sulla Piazzetta confinante alla Contrada. È ben vero, che questa Piazzetta per l’intera corrispondenza al mio fronte,non è che un seguito della stessa Ragione, riconosciuto dalla Commissione Edilizia, che era in vigore al tempo borbonico, allorche nel 1775 venne per la prima volta selciata a spese tutte del fu ottimo mio Genitore; e da me ricordato all’Antecessore di Lei con lettera dé 14 Gennaio 1829 in circostanza di un deposito di neve. [….]”. La licenza a eseguire i lavori fu concessa il 26 luglio 1834. Una delle preoccupazioni del conte Federico riguardava l’avanzamento della parte centrale della facciata rispetto al limite del fabbricato preesistente. Sotto il profilo amministrativo non si tratta di una modifica di poco conto, poiché l’avanzamento della parte centrale della facciata sarebbe stato realizzato a discapito dello spazio pubblico; e il conte, consapevole delle difficoltà di superare questo ostacolo, non perse l’occasione di rammentare al Podestà che le spese per selciare la piazzetta antistante erano state sostenute dalla sua famiglia. L’avanzamento della parte centrale fu poi effettivamente eseguito come per altro è stato riscontrato nel corso del recente restauro. Poiché Antonio Tomba morì nel 1836, è probabile che possa avere inizialmente seguito i lavori della facciata. In ogni caso, l’architetto, probabilmente ispirato dalla più che percepibile presenza monumentale del vicino teatro e in linea con le esperienze professionali dello zio, ideò un sistema compositivo di garbato e sottile linearismo di stampo minimalista e razionalista. La moderata larghezza della nuova facciata, che ricordiamo è stata ampliata di un’asse di finestre rispetto al precedente impianto settecentesco, presenta una quasi impercettibile sporgenza dei tre assi di finestre intermedi, rispetto ai due assi di finestre laterali, che pone in primo piano la parte centrale rispetto alle due ali. Pertanto, nella facciata di palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio, le sottolineature orizzontali definite dalla fascia che delimita le finestrelle del sottotetto, dalla serie delle finestre timpanate del piano nobile e dall’alto zoccolo sul quale sono impostate le finestre del piano terreno, che si prolungano, senza soluzioni di continuità, sia sulle due parti arretrate sia su quella centrale in avanzamento, determinano un gioco plastico prevalentemente bidimensionale. Tomba dimostra così di aver pienamente recepito le istanze estetiche e programmatiche del nuovo linguaggio, forzando finanche i parametri planimetrici del sito con l’allargamento della facciata sul lato sinistro. In definitiva, lo spoglio portale arcuato è forse l’elemento architettonico ove si coagula il punto di trapasso dal tramontante recente passato al nuovo linguaggio.

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Per il piano nobile non vi sono disegni firmati da Antonio Tomba che ci possano illustrare quali fossero le sue iniziali intenzioni progettuali, ma si conservano una serie di disegni inerenti i vari ambienti e particolari costruttivi e decorativi, firmati dall’architetto Paolo Gazola e datati alcuni 1834, la maggior parte 1837. A partire dal 1834-1835 l’architetto Paolo Gazola sembra avere sostituito Antonio Tomba nella direzione del cantiere. Nei suoi disegni traspare la tematica dell’art de bien vivre, tesa a raggiungere la comodità e il lusso, alcune delle preoccupazioni essenziali di quegli anni. Pur nell’assenza del progetto di riorganizzazione generale del piano nobile, appare evidente che l’articolazione delle sue pareti divisorie è perfettamente congruente con la distribuzione dei muri portanti riorganizzati da Tomba al piano terra. I criteri distributivi degli ambienti del piano nobile seguono pedissequamente gli indirizzi forniti dalla trattatistica e da Francesco Milizia che illustrava come dovessero essere organizzati gli appartamenti di comodità (salotti, anticamere e alcova), di società (sala di conversazione e cabinet/studiolo) e di parata (salone di ricevimento). Sono recepiti anche i suggerimenti offerti dalla trattatistica di ambito francese, ovvero la salle à manger, che è sovente di forma ovale, ma anche ottagonale, come è stata concepita nel palazzo dei conti Scotti Della Scala di San Giorgio. La distribuzione degli ambienti interni del piano nobile, riflette tuttora l’articolazione degli anni trenta-quaranta dell’Ottocento e consente di comprendere l’avvenuto aggiornamento tipologico verso la moderna cultura francese ad apartement, con una parte di rappresentanza, compresa la galleria, le zone private e di servizio più defilate. Anche l’architetto Gazola incontra le stesse difficoltà di adattamento della fabbrica preesistente alla nuova configurazione. A ridosso del braccio nord del portico progettato da Tomba, Gazola inserì un’ ulteriore appendice triangolare, dotata di una arcata su uno dei lati sghembi del triangolo, al fine di collegare il cortile d’onore con il disassato cortile secondario. Superato l’androne ed entrati nel cortile d’onore, la fuga terminale dell’asse centrale collima con una delle spalle su cui è impostato l’arco sghembo dell’appendice triangolare ideata da Gazola. Pur mancando l’infilata prospettica tra i due cortili, si avverte tuttavia la presenza di un ulteriore spazio che stimola la percezione “per angolo” a proseguire oltre i limiti spaziali del primo cortile. Al di sopra del braccio nord del portico e dell’appendice triangolare, Gazola inserì un terrazzo. Nei tre disegni (1837) da lui predisposti, appare entro i limiti del triangolo una nicchia semicircolare fornita di apposita seduta e un basamento gradonato sul quale si erge un plinto modanato che offre appoggio ad un arredo vegetale. Se si osserva la pianta dell’intero complesso, si noterà che questa appendice triangolare, oggi priva degli arredi sopra descritti, è collocata esattamente in corrispondenza dell’asse centrale della facciata. E’ quindi evidente che Gazola volesse creare una sorta di punto focale della prospettiva terminale del primo cortile, con un articolato elemento architettonico concepito in modo da essere percepito anche con una angolazione prospettica molto scorciata dal basso verso l’alto. In conclusione, Antonio Tomba dimostra, più di Gazola, di incidere più profondamente sul palinsesto architettonico tardo settecentesco del palazzo, proponendo modifiche costruttive che consentono di conferire un adeguato respiro architettonico alla facciata neoclassica, programmata in accordo con la committenza, dimostrando anche di avere una capacità interpretativa tra lo spazio privato e quello pubblico urbano più coerente con le linee di sviluppo che incominciavano a delinearsi nel processo urbanistico della città già nei primi anni venti e trenta dell’Ottocento.

* Il presente testo rielabora parte di quanto pubblicato in Premio Piero Gazzola 2014 per il restauro dei palazzi piacentini. Palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio, Ticom, Piacenza 2014

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Pianta dell’isolato con palazzo Cigala Fulgosi, con palazzo Bernardi Morandi e i conventi di Santa Franca e S. Raimondo

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PALAZZO CIGALA FULGOSI Via Santa Franca, 41

Il palazzo è inserito in un grande isolato sul margine sud occidentale della città murata, delimitato dallo stradone Farnese a sud, dalla strada di San Raimondo a ovest, da via San Siro a nord, da via Santa Franca a est. La scarsità della documentazione storica utile a ricostruire le fasi progettuali di palazzo Cigala Fulgosi, non ha prodotto, fino ad ora, studi adeguati all’importanza di questo manufatto e al ruolo svolto sulla scena urbana, e le rappresentazioni cartografiche non forniscono un apporto sostanziale alla comprensione dell’evoluzione dell’edificio. A fronte di una documentazione particolarmente ricca per i beni e le tenute che la famiglia aveva a Sarturano, Tavernago, Agazzano e delle informazioni recuperate sull’altra dimora che i Cigala Fulgosi possedevano in Piacenza, il palazzo di via San Salvatore, l’attuale via Scalabrini 49, sull’importante cantiere di via Santa Franca i documenti di cui disponiamo, allo stato attuale, sono davvero esigui. Ci si dovrà pertanto riferire a fonti indirette e dirette, disegnate e scritte. Le vicende costruttive dell’edificio sono documentate dalle piante di Piacenza che fra Cinque e Settecento registrano, più o meno puntualmente, gli sviluppi del quartiere di S. Antonino e del cantiere nobiliare protrattosi fino all’età neoclassica. Le vedute di città e, più precisamente, le antiche piante di Piacenza, a cominciare da quelle disegnate sul volgere del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento da Paolo e da Alessandro Bolzoni, ingegnere e cartografo ducale, alla pianta di Piacenza di Van Schoel (1612), già rappresentano l’isolato nel quale sorge il nostro palazzo. Risalgono al XVIII e al XIX secolo piante e vedute di città più dettagliate, quali per esempio la mappa dipinta nella loggia del palazzo Vescovile del 1748: sono 123 le dimore ivi elencate, vi si individuano palazzo Cigala Fulgosi, con il numero 70, e il progressivo saturarsi dell’edificato. Nella pianta della città del tardo XVIII secolo (ASPr)1 sono rappresentati palazzi, chiese, mulini, e palazzo Cigala Fulgosi a est del complesso di S. Raimondo. Nella mappa del catasto ducale, del secondo decennio del XIX secolo, il palazzo appare ben delineato, e occupava una vasta area, ancora in gran parte conservata, che si estendeva fino allo stradone Farnese, sul quale si apriva l’ingresso rustico delle carrozze in corrispondenza dell’attuale numero civico 6. L’isolato in argomento, di pianta trapezoidale irregolare, è occupato per circa metà della sua estensione superficiale dai due complessi conventuali di S. Raimondo, nell’angolo sud ovest, e di Santa Franca, nell’angolo di nord est. La chiesa di S. Raimondo, fondata nel XII secolo e intitolata ai Dodici Apostoli, pervenne alle monache Cistercensi nel 1414, le quali commissionarono i lavori per la costruzione del loro monastero a cominciare dal 1574. Tra il 1577 e il 1597 furono realizzati il nuovo campanile, la colombaia ed eseguite altre opere di completamento nel convento. La nuova chiesa, ricostruita a partire dal 1729 e consacrata nel 1733 dal vescovo Gherardo Zandemaria, sorge su progetto dell’architetto e scenografo Marc’Aurelio Dosi (1676- 1757), da alcuni ritenuto allievo di Francesco Galli Bibiena a cui viene attribuita la chiesa di S. Barbara a S. Arcangelo di Romagna e alla cui facciata sembra essersi in qualche misura ispirato l’architetto piacentino nella soluzione architettonica adottata per la facciata della chiesa di S. Raimondo. Nel suo disegno però vi appare una notevole contrazione all’allusione dello spazio scenografico e una più concreta traduzione all’ordito architettonico della flessuosità geometrica pulsante delle superfici concave e convesse, sottolineate dai plastici aggetti delle membrature verticali. Quel che manca nella sua facciata è in effetti il rapporto con le quinte architettoniche che delimitano il cortile che si affaccia sulla strada di S. Raimondo, definite da membrature architettoniche tra loro dispaiate, che accentuano il mancato legame con il contesto urbano circostante, nota questa tra le più qualificanti dell’immaginifico architettonico del barocco romano (Francesco Borromoni, S. Ivo alla Sapienza) e torinese. Il monastero fu soppresso nel 1810, alienato a privati nel 18122, ed riacquisito dalla ex monaca M. Teresa dei conti Villa Maruffi, che nel 1827 restituì chiesa e convento alla loro originaria funzione che tuttora assolvono3. La pianta dell’intero complesso monastico, conservata nel fondo Ispezione Patrimonio dello Stato all’Archivio di Stato di Parma, firmata da Carlo Gazola e allegata a una perizia descrittiva del bene che lo Stato intendeva alienare, datata 1819, illustra in modo dettagliato le caratteristiche architettoniche e funzionali del complesso e rappresenta in modo circostanziato la serie di colonnotti che delimitavano i marciapiedi disposti lungo lo stradone Farnese e che continuavano anche su via S. Raimondo. La loro presenza documenta che, all’inizio del XIX secolo, seguitavano ad essere applicate le disposizioni impartite dalla Congregazione di Politica et Ornamento, creata nel 1547, per la gestione e manutenzione delle attività edilizie in ambito urbano, oltre a sottolineare il prestigio che le strade così delimitate godevano all’interno del tessuto viario cittadino. Va infatti rammentato che i colon notti servivano a delimitare i marciapiedi, selciati per lo più da mattoni di cotto disposti a spinapesce e /o da lastre di pietra arenaria, dalla carreggiata stradale per evitare che i carri e le carrozze arrecassero danno al passaggio dei viandanti e ai passi carrai. Dalla loro presenza si potrebbe quindi anche stabilire una gerarchia della rete stradale urbana, in vigore almeno fino all’Unità d’Italia, quando nel 1865 venne suddivisa in tre categorie. Alla prima, quasi sempre caratterizzata da marciapiedi e rotatoie per carri e carrozze, appartenevano la strada S. Raimondo, delle Saline e Crosa (attuale asse corso V. Emanuele - viale

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Risorgimento) e quasi tutte le strade della maglia ortogonale risalente all’impianto romano e i collegamenti con le due porte a est e a ovest, vale a dire la strada di S. Lazzaro (via Roma) e stra Levata (via Taverna) con la sua prosecuzione nella contrada del Guasto (via Garibaldi), di S. Antonio, e di S. Salvatore (via Scalabrini); mentre tutte le altre strade urbane furono relegate negli elenchi della seconda e terza categoria (M. Spigaroli 1980). Subirono una sorta di declassamento quindi, lo stesso stradone Farnese, la contrada di Fodesta, via Borghetto e via S. Eufemia che tra gli anni sessanta e ottanta dell’Ottocento persero quelle caratteristiche di assi gravitazionali del sistema urbano. Il fatto quindi che ancora nel secondo decennio dell’Ottocento lo stradone Farnese e via S. Raimondo fossero dotati di colonnotti, dimostra, in un certo senso, che tali arterie stradali continuavano ad esercitare un ruolo abbastanza centrale nel settore sud ovest della città. La chiesa di S. Franca, iniziata nel 1546, fu conclusa e aperta al culto nel 1555; i lavori al convento, avviati nel 1549, si protrassero fino al 1578. La chiesa aveva navata unica, un grande transetto entrambi voltati a botte e il convento fu dotato di un ampio chiostro di pianta rettangolare, con portici e loggiati con arcate su colonne. Il monastero, soppresso nel 1810, e dapprima di proprietà del demanio, divenne nel 1848 sede della Guardia Nazionale Civica e di un presidio del Genio Militare; nel 1908 divenne suola di musica quindi Conservatorio intitolato al musicista Giuseppe Nicolini. Nello stesso anno la chiesa fu trasformata in teatro, denominato Filodrammatica, su progetto dell’ingegnere Giovanni Gazzola (Ziano Piacentino,1871-Piacenza,1962), la cui facciata presenta garbate soluzioni di art nouveau che interrompono la monotonia architettonica delle quinte che si affacciano sulla attuale via S. Franca, e si presenta come uno dei pochi esempi liberty, su modelli milanesi e piemontesi più che emiliani, insieme a casa Milza (1914), all’albergo S. Marco, a palazzo Romagnoli di corso V. Emanuele II e al palazzetto Rizzi di via Mazzini. Le cornici delle finestre, in cemento grigio che accentua la bicromia sul rosa chiaro dell’intonaco, in analogia con temi grafici jugendstil, hanno andamento curvilineo. Dunque, questa facciata rientra nella tendenza modernista di Gazzola, che forse meglio esprime la sua cifra stilistico-costruttiva come peraltro ha dimostrato nei progetti per casa Neri (1906) su via S. Franca,1 in angolo a via S. Siro. L’edificio conventuale che negli anni quaranta del Novecento ospitava il liceo musicale, fu colpito dai bombardamenti dell’11 gennaio 1945 che distrussero il fronte principale su via S. Franca, il salone dei concerti e parte del loggiato. Dopo la guerra l’architetto Pietro Berzolla (1898-1984) riprogettò l’attuale ingresso a emiciclo, conservando parte della preesistente struttura di fabbrica. L’ingresso è caratterizzato da un perimetro ad esedra semicircolare su quattro arcate sormontato da un ampio terrazzo dotato di balaustra a colonnine. Il balcone semicircolare è delimitato, su un piano più arretrato, da tre facciate, quella centrale articolata da paraste doriche trabeate è conclusa da un frontone triangolare. Berzolla, profondo conoscitore dell’architettura antica e della storia, autore di interventi di restauro a Piacenza, adotta qui una soluzione architettonica di impostazione classicista orientata al recupero del linguaggio cinquecentesco, forse con l’intento di conferire una giusta enfasi nobilitante all’impaginato architettonico della struttura, in ossequio alla tradizione del linguaggio neoclassicista frequentemente adottato nella costruzione dei teatri come in quello di Piacenza, avendo però l’accortezza di interconnettere l’esedra di ingresso con il cortile interno, secondo una interpenetrazione prospettica tra le parti che riconduce percettivamente lo spazio interno verso il fronte stradale esterno. Berzolla quindi, forse ispirato dai vuoti provocati dai bombardamenti, crea una enclave aperta nella compatta quinta architettonica della strada, arretrando molto più all’interno l’ingresso della scuola di musica, come peraltro si osserva, sebbene con tutt’altri effetti spaziali, nella facciata della chiesa di S. Raimondo, che funge da fondale prospettico arretrato rispetto al sagrato che lambisce il limite stradale. Il vuoto così generatosi su strada S. Franca diviene uno degli elementi più caratterizzanti del nuovo assetto architettonico, del tutto singolare nel paesaggio della strada, sebbene la non felice giustapposizione tra loggiato semicircolare e perimetrazione rettangolare lasci trasparire una non risolta equazione spaziale d’impronta chiaramente eclettica. A ben vedere, i due complessi conventuali di S. Raimondo e di S. Franca, presentano sui fronti interni ampi spazi ortivi posti in continuità tra loro e separati da muri divisori. Si tratta dello stesso tipo di impianto che caratterizza anche i fronti interni di palazzo Cigala Fulgosi e di palazzo Bernardi Morandi ed anche quelli interni dei caseggiati disposti lungo l’angolo fra via S. Siro e strada S. Raimondo. Le mappe del XVIII e del XIX secolo infatti attestano che l’accesso alla chiesa e al convento di S. Raimondo avveniva dalla strada “alla Porta di S. Raimondo”, ma al convento si poteva accedere anche da un “portone rustico”, posto sullo stradone Farnese, non più esistente. Alla fine di via S. Franca sorge il palazzo, rimaneggiato intorno alla metà dell’Ottocento, che nel XVII secolo apparteneva ai Bernardi Morandi. Il palazzo, citato anche nel Giornale Zanetti del 1737, poi pervenuto in proprietà Rossi, nel 1853 fu oggetto di significativi interventi che modificarono la facciata conferendole un’impronta di stampo neoclassico. Nella relazione tecnica allegata al disegno della facciata, dell’ingegnere piacentino Giuseppe Pavesi (1853), si precisava che gli ornati sarebbero stati “simili alla facciata dell’Ill.mo Signor conte Francesco Cigala”, ossia a quelli del contiguo palazzo dei conti Cigala Fulgosi al civico 41. Il palazzo si articola su un impianto planimetrico a U, svolgentesi attorno a un cortile porticato su un solo lato.

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Il muro perimetrale in mattoni di laterizio cinge il grande giardino e delimita la proprietà a ovest, separandola dagli orti delle monache cistercensi di S. Raimondo. L’impianto planimetrico a U, rappresentato nella cartografia catastale dell’età ducale, è confermato da tutte le successive mappe catastali. Il lungo fronte di palazzo Bernardi Morandi su via S. Franca, caratterizzato da stilemi neoclassici, è scandito da otto assi di finestre al secondo e terzo piano, che al piano terra si riducono a sette, per l’inserimento del grande portale arcuato disposto in modo asimmetrico, sormontato da un ampio balcone aggettante. La facciata, nella sua austerità, rimanda alla severa semplicità del prospetto ideato da Antonio Tomba per palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio. L’estensione del fronte del palazzo è di un asse di finestre più ampio rispetto a quello dell’attiguo palazzo Cigala Fulgosi. Ultimo dei fabbricati su via S. Franca, angolo stradone Farnese, è l’attuale edificio condominiale, su tre piani fuori terra, che ha accesso dallo stradone Farnese, costruito entro la seconda decade del Novecento, sui resti dei rustici connessi al palazzo Cigala Fulgosi, elencati nel Giornale Zanetti del 1737 e anch’essi confinanti con gli orti di S. Raimondo. Questo isolato quindi è costituito da una serie di edifici relativamente omogenei al loro interno e distanziati da ampie aree ortive le quali arrivano fino a marginare parte dello stradone Farnese e parte di via S. Siro, almeno nell’impianto catastale ducale del 1820 circa. Si tratta dunque di un sistema insediativo che non è costantemente caratterizzato da fronti stradali interamente costruiti, ma intercalati da fasce verdi che attraversano senza soluzioni di continuità una fascia interna da nord a sud. Questa fascia inedificata costituì fin dal primo impianto di palazzo Cigala Fulgosi l’asse di penetrazione delle carrozze, sull’appena costruito stradone Farnese. L’impianto del primitivo edificio risale alla fine del Quattrocento, primi anni del Cinquecento ed era fin da allora caratterizzato da un portico e sovrastante loggiato che fregiava interamente l’ampia superficie del fronte interno che si affacciava sugli orti di S. Raimondo. Questa particolare soluzione architettonica trova dei rari esempi nel sistema portico-loggiato del fronte ovest interno di palazzo Farnese, ossia la cittadella viscontea realizzata verso la fine del Quattrocento e varianti sullo stessa tema del doppio ordine loggiato, dalla fine del Quattrocento in avanti, come per esempio in villa la Falconiera a Quarantoli di Mirandola (Modena), a villa Ugolini a Castellina di Soragna (Parma) e a villa Pallavicino a Busseto, ma in palazzo Cigala Fulgosi si distingue per essere uno dei rari esempi dell’architettura piacentina che fu realizzato in un contesto urbano di per sé alquanto decentrato rispetto all’impianto medievale, solo caratterizzato dalla presenza di insediamenti religiosi conventuali che, sebbene risalenti a fasi medievali, acquisirono le proprie connotazioni architettoniche nel corso del XVI secolo. Si può quindi sostenere che l’impianto tipologico del doppio ordine loggiato del quattrocentesco palazzo Cigala Fulgosi rifletta la tipologia delle dimore signoriliextra moenia, importate forse qui per la prima volta nell’ambito del contesto urbano piacentino. La fondazione rinascimentale del palazzo in un ambito territoriale posto a sud della città, e dunque al polo opposto rispetto al quattrocentesco palazzo Landi e a palazzo Scotti da Fombio, sulla via per Torino, non è senza significato, soprattutto se si considera che l’asse viario sul quale esso sorge è uno di quelli sui quali si indirizzano gli interessi di manutenzione, miglioramento e riqualificazione fin dall’epoca del cardinal legato Gambara. Infatti se nel primo Cinquecento alcune importanti architetture religiose qualificano le aree a ovest della città - penso alle architetture tramelliane - nel 1543 l’apertura della strada Gambara, prima ancora dell’investitura del ducato a Pier Luigi Farnese (1545), stava a significare la volontà di razionalizzazione di una vasta area a sud della città, ricca di orti e giardini; poi la nuova definizione architettonica e urbanistica del duomo e della sua piazza, dal 1544, con il collegamento diretto al polo civico e a quello politico, connoteranno la città che Pier Luigi Farnese governerà per due soli anni (1545-1547) e che i Farnese riotterranno dagli Spagnoli solo nel 1556. È con la cultura architettonica rinascimentale, barocca e del razionalismo sette e ottocentesco, che si relazionano le vicende del cantiere di palazzo Cigala Fulgosi. L’intero isolato incominciò ad acquisire una propria impronta architettonica intorno alla fine del Quattrocento con la costruzione e/o ricostruzione dei due complessi conventuali e la costruzione ex novo di palazzo Cigala Fulgosi, che quindi non è tanto il risultato di un processo di accorpamento di fabbricati medievali, ma di un vero e proprio disegno progettuale realizzato su un’area che, alla fine del Quattrocento, doveva ancora essere prevalentemente libera. Vi sono però alcuni aspetti dell’impianto tipologico, costituito da un corpo allineato sul fronte strada e da un corpo ortogonale connesso sul lato destro, che lasciano dubitare che l’area di sedime fosse totalmente libera nel momento in cui fu avviata la fabbrica tardo quattrocentesca. Va infatti rammentato che il fronte che prospetta il giardino interno era sicuramente caratterizzato dalla presenza di un portico forse colonnato e da un sovrastante loggiato, questo sicuramente a sei arcate su colonne con capitelli dotati di foglie lanceolate di derivazione tardo quattrocentesca, ma con la prima arcata di destra molto più piccola delle contigue arcate. Questa anomalia è oggi nascosta da un piccolo volume a lato del corpo principale, aggiunto, insieme all’altro volume simile, sul lato sinistro, nei primi decenni del Novecento, modificando l’impianto architettonico del palazzo nella sua versione ottocentesca. La prima e l’ultima arcata del loggiato sono rispettivamente connesse a mensole: quella di sinistra, al corpo di fabbrica ortogonale alla facciata, quella di destra al muro di confine con l’adiacente palazzo Bernardi Morandi. Sicché si deve presumere che il corpo di fabbrica ortogonale situato a destra della facciata sia

151 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 stato costruito contemporaneamente al loggiato, o che preesistesse all’impianto tardo quattrocentesco con caratteristiche e forme oggi impossibili da ricostruire. In ogni caso ciò significa che il portico loggiato della facciata sul giardino, sebbene mutuato dalla tipologia architettonica tardo quattrocentesca dei fabbricati a blocco isolato, relativamente diffusi in ambito rurale, ebbe qui una trasposizione in un blocco non unitario, ma già articolato a L, e dunque asimmetrico, e solo per connotare la facciata interna del corpo principale e non anche quella esterna che prospetta sulla strada di S. Franca. Questo comportò anche una diversa disposizione tipologica da quella della struttura architettonica da cui ha avuto origine, vale a dire dal blocco unico, di forma quadrangolare, con affaccio loggiato bilaterale, a uno schema planimetrico costituito dal corpo centrale articolato su una doppia serie di ambienti che guardano rispettivamente verso la strada di S. Franca e verso il loggiato interno e dunque indirettamente verso il giardino. Non sappiamo se in questa fase tardo quattrocentesca la facciata su via S. Franca presentasse un sistema di assi di finestre correlato al sistema delle arcate del loggiato interno; certo è che nel corso del recente restauro sono venute allo scoperto le tracce del portale di ingresso originale situato immediatamente a destra di quello attuale, che sul prospetto interno corrisponde alla seconda arcata di sinistra del portico loggiato; mentre le tracce di una duplice arcata sono apparse sul muro di fondo dello stesso portico loggiato in corrispondenza tra la prima e la seconda arcata di destra che collegavano il portico con la scala che conduceva al piano nobile collegata anche con il piano interrato. Quindi, lo schema distributivo del palazzo tardo quattrocentesco era caratterizzato da un portale e da un androne di ingresso voltato disposti in perfetta simmetria rispetto ai tre assi di finestre distribuiti su entrambi lati; mentre l’androne si connetteva al portico loggiato in posizione asimmetrica e decisamente decentrata a sinistra del suo asse centrale. Guardando quindi la facciata dal giardino il sistema distributivo appariva costituito dall’androne e dal portale inquadrato nella seconda arcata di sinistra e dalla doppia arcata di ingresso allo scalone situata a cavallo tra la prima e la seconda arcata di destra, determinando così una assetto distributivo per certi versi sorprendente, perché privo di correlazione con l’apparente assetto rigorosamente simmetrico del prospetto su via S. Franca. Non sappiamo quando sia stato modificato l’impianto tardo quattrocentesco del palazzo e, in particolare, quando siano state chiuse le arcate del loggiato caratterizzate da capitelli a foglia lanceolata. Certo è che nel corso del recente restauro sono state rinvenute, sulla facciata che prospetta verso il giardino, importanti resti di un apparato pittorico con volatili variopinti librati in volo su un cielo attraversato da nubi e lumeggiato dai toni caldi aranciati del tramonto. Si venne così a configurare un impaginato architettonico e decorativo del prospetto interno della fabbrica strettamente correlato all’orizzonte verde del prospiciente giardino, il cui accesso era situato lungo lo stradone Farnese nella muraglia esistente al confine con gli orti del monastero di S. Raimondo. Questa decorazione è marginata, nella parte superiore, da una linea orizzontale che si presume indicasse il limite dell’altezza della fabbrica oltre il quale era impostata la copertura. Piccole finestre di forma rettangolare, interrompono la continuità della superficie pittorica secondo intervalli che non corrispondono alla scansione ritmica delle sottostanti arcate del loggiato. Ciò potrebbe far supporre che la decorazione e le finestrelle rettangolari, sicuramente sincrone tra loro, appartengano ad una fase successiva all’impianto tardo quattrocentesco che, a giudicare dalle caratteristiche stilistiche dell’ornato, potrebbe essere databile alla fine del Cinquecento - inizio del Seicento. La linea che delimita la decorazione sul suo margine superiore è più bassa di circa un metro rispetto all’attuale imposta del tetto, a dimostrazione del fatto che in una successiva fase, che con ogni probabilità si può collocare nei primi decenni dell’Ottocento, l’impianto dell’edificio è stato innalzato. L’intervento coincise con la riorganizzazione architettonica in veste neoclassica. Resta incerto se nella seconda fase seicentesca la decorazione sia stata realizzata mantenendo in essere il sistema del loggiato, oppure se le arcate siano state tamponate in quella stessa fase. La superficie decorata nella parte bassa, prossima alle curve estradossali delle arcate del loggiato, non presenta alcuna traccia di delimitazione netta, ma prosegue verso il basso e si interrompe solo perché è venuto meno l’intonaco di supporto. Pertanto non vi sono elementi testimoniali che possano suffragare l’una o l’altra ipotesi. Le finestrelle della fase seicentesca davano probabilmente luce ad un piano di sottotetto, forse non abitabile o riservato alla servitù. Neppure la consultazione delle fonti archivistiche ha offerto lumi circa le fasi trasformative del palazzo. Non si conosce infatti il nome della famiglia proprietaria tra il XV e gli inizi del XVII secolo. Dalle fonti tuttavia si apprende che Taddea Fulgosi (+1660), appartenente al più antico patriziato di Piacenza, ha portato in dote ad Aurelio Cigala (+1686) il palazzo di via S. Franca 41 insieme ai numerosi possedimenti suburbani e al castello di Sarturano. Ebbero due figli, Orazio e Girolamo e i loro discendenti aggiunsero al proprio anche il cognome materno, perpetuando così la memoria dell’illustre casato Fulgosi. I Fulgosi, documentati in Piacenza fin dall’inizio del XII secolo, e i cui membri rivestirono prestigiosi incarichi pubblici, nel XV secolo diedero origine a due rami della famiglia: il ramo di Antonio, che si estinse alla metà circa del Seicento, e il ramo di Bartolomeo che si estinse con i figli di Cesare, fra i quali Taddea (+1660), sposa di Aurelio Cigala. I conti Cigala, una famiglia di origine bobbiese, sono documentati in Piacenza nel XIV secolo, con Giovanni Cigala, a quell’epoca giudice collegiato, lettore di diritto canonico e di istituzioni civili, nonché autore della

152 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 riforma degli statuti piacentini. Nel 1405 fu podestà di Crema. I suoi discendenti intrecciarono legami con le più importanti famiglie piacentine anche grazie a studiate strategie matrimoniali al punto che nel 1569 fu riconosciuta la nobiltà della loro famiglia. Nel Cinquecento il casato Cigala si divise in quattro rami: il ramo di Aurelio, di Gian Felice, di Bartolomeo I e di Sempronio. Il ramo di Aurelio aveva beni a Pontenure e a Ferrara; i discendenti del ramo di Gian Felice (+1559) possedevano il castello di Careggio in Valtidone; al ramo di Bartolomeo I (+1562), che si estingue con Maria nel XIX secolo, appartennero Bartolomeo II (+1611), suo figlio Cesare sposo di Ersilia Cremaschi con la quale risiedeva in una casa di proprietà del Capitolo della Cattedrale (1643). Il figlio Mario (+1691) abitava invece nella parrocchia di S. Paolo, nel palazzo sull’attuale via Scalabrini 49. I figli di quest’ultimo, Cesare (+1777) e Francesco (+1769), furono creati nobili dal duca don Filippodi Borbone il 26 febbraio 1750, e iscritti tra i magnifici della classe Anguissola nello stesso anno. L’aggregazione alla classe Anguissola, o ad una delle quattro grandi famiglie presenti in Piacenza, era obbligatoria per tutte le famiglie alle quali veniva concessa la cittadinanza o nobiltà piacentina4. Nell’editto del 22 luglio 1530, il cardinal legato Giovanni Salviati istituzionalizzò la divisione in quattro categorie sociali, riconoscendo ufficialmente la distinzione tra nobiltà titolata e non titolata, in essere già nel Quattrocento. A Piacenza si registravano così i tre ordini dei nobili titolati, i nobili non titolati, e il terzo ordine di mercanti e artigiani. “Magnifici, Patrizi, Popolari” erano denominati questi tre gruppi secondo una distinzione che si radicò nella mentalità piacentina. Il conte Francesco Cigala, permutò una propria abitazione di via Caccialupo con il palazzo di via Scalabrini 49 nel quale risiedeva nel 1765. Si tratta della residenza già di proprietà dei conti Anguissola di S. Polo che nel 1759 l’avevano acquisita in permuta dai marchesi Mansi. Dal ramo di Sempronio discende, tra gli altri, Aurelio (+1686), sposo di Taddea Fulgosi che diede origine a due distinte linee della famiglia: quella di Orazio (+1708), che si estinse nel 1772, e quella di Girolamo (+1715) che perdurò oltre il 1977. Raffaele (+1746), figlio di Girolamo, era proprietario del palazzo di via Frasi 10 (l’antica via San Michele), ereditato poi dal figlio primogenito Gerolamo (+1808)5. Questo palazzo, pervenuto in proprietà al conte Giuseppe Cigala nel 1810, fu poi alienato al canonico Campelli, subendo nel corso del Novecento, varie trasformazioni. Dalla linea di Orazio, discende il conte Carlo Cigala Fulgosi, che nel 1737 risiedeva nel palazzo di via S. Franca, ereditato dal conte Girolamo che vi risiedeva nel 1810 e dai suoi successori che ne mantennero la proprietà fino ai primi decenni del Novecento allorché passò ai Chiapponi che lo hanno alienato agli inizi del XX secolo. Da quanto sopra esposto si può dunque presumere che l’originaria fabbrica tardo quattrocentesca sia stata forse in parte modificata entro la prima metà del Seicento in occasione delle nozze di Aurelio Cigala con Taddea dei conti Fulgosi, e che poi sia rimasta pressoché inalterata fino agli importanti lavori di trasformazione della metà circa dell’Ottocento. La più antica e certa fonte scritta che descrive l’immobile è l’Indice di tutte le parrocchie esistenti in questa città di Piacenza del 1737, meglio noto come Giornale Zanetti dal nome del suo estensore che lo compilò per ragioni fiscali e per censire i palazzi di maggior prestigio che avrebbero potuto ospitare gli ufficiali austriaci allora in città (1736-1744). Sono anche indicati le destinazioni d’uso dei vari ambienti, tra cui oratori, alcove, studi, archivi, biblioteche, salotti, camere da letto, guardaroba, e gabinetti e la distribuzione dei percorsi interni, gallerie, logge, scale nobili e di servizio. Il censimento descrive il patrimonio immobiliare del centro cittadino sia quello secolare, sia quello di proprietà ecclesiastica, precisando se gli edifici sono abitati dal proprietario, in affitto, vuoti o “in fabrica” (cioèin costruzione). Dal censimento si ricava che appartenevano alla nobiltà titolata piacentina 314 edifici, pari al 9,17% dell’intero patrimonio edilizio (3422 “case”), di cui 118 edifici (pari al 37,57%) goduti direttamente dalla proprietà, 4 edifici (pari all’1,7%) parzialmente affittati, 192 edifici (pari al 61,14%) esclusivamente affittati a terzi. Nella casa dei conti Cigala Fulgosi lo Zanetti descrive tre appartamenti, due dei quali situati al piano terra, ed uno al piano nobile e precisamente “[…] App. Inf. à destra entrando una saletta con camino, camere quattro con due camini, segue la cucina et una piciola camerina - Salendo la scala piciola, e così sopra la cucina una camera et un piciolo gabinetto. à sinistra entrando una camera con camino, et un camerino la rimessa scuderia per cavalli cinque - App.to Sup. verso strada salendo la Scala Nobile una sala con camino alla di cui destra, camere due, camini uno - à sinistra verso strada altre camere trè et un camino Padroni 1-servitù 3.”6. Gli aspetti più sorprendenti di questa descrizione sono sostanzialmente due: il primo relativo al fatto che il manoscritto Zanetti non registra la presenza della loggia che invece segnala nella descrizione di molti altri palazzi; il secondo riguarda l’appartamento del piano nobile, descritto “verso strada”, vale a dire su via S. Franca. Infatti, individua a destra del primo ambiente due camere e, a sinistra, verso strada, altre tre camere. Si deve quindi ritenere che il primo ambiente si trovasse di fronte alla scala nobile, dal quale si poteva accedere a due ambienti collocati e destra e ad altri tre collocati a sinistra. Dunque se diamo credito a questa descrizione dovremmo anche ritenere che la scala nobile, indicata dallo Zanetti, non fosse più quella collocata nelle prime due campate di sinistra del portico loggiato, ma piuttosto la scala situata sulla testata nord del portico e che quindi la originaria scala tardo quattrocentesca sia stata demolita prima del 1737, con ogni probabilità in occasione del matrimonio di Taddea Fulgosi con Aurelio Cigala, nei primi decenni del Seicento, quando

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è verosimile che siano stati attuati dei lavori di adattamento per i nuovi residenti. Solo in questo modo la descrizione fornita dallo Zanetti del terzo appartamento avrebbe una sua logica distribuzione topografica, il che fa ragionevolmente supporre che anche il loggiato tardo quattrocentesco sia stato tamponato prima del 1737 per ricavare quell’ambiente situato in corrispondenza dello sbarco della scala. Quanto poi all’identificazione dell’architetto e/o degli architetti convocati a palazzo, sia nella prima fase rinascimentale, sia nella successiva fase barocca coincidente con la proprietà di Aurelio Cigala Fulgosi, la totale assenza di documentazione diretta costringe a ragionare sugli elementi formali, nonché a cercare relazioni indiziarie da un lato verso quel milieu di gravitazione culturale lombarda, dall’altro verso quelle figure e maestranze presenti nei cantieri dell’alta nobiltà nel Seicento. Il trasferimento della scala dalla sua originaria posizione nell’angolo di sud est all’angolo opposto di nord ovest, dovette anche determinare lo spostamento dell’androne d’ingresso tardo quattrocentesco, dalla seconda campata di sinistra del portico alla terza campata. Sembra quindi di capire che il primo appartamento terreno fosse costituito da otto ambienti, sette dei quali al piano terra, in parte sul fronte strada e in parte nell’ala nord, comunicanti tra loro attraverso un corridoio ricavato sotto il primo pianerottolo della scala nobile; un ambiente con gabinetto al piano superiore, forse un mezzanino. Il secondo appartamento era invece costituito da una camera e da un camerino; mentre la rimessa e la scuderia per cinque cavalli dovevano essere situati sulla testata occidentale dell’ala nord. Nel corso dei lavori si è potuto accertare la presenza dell’originario atrio d’ingresso, stretto e lungo e coperto da una volta lunettata, in asse con la seconda arcata di sinistra del portico loggiato che si affaccia verso il giardino. A destra dell’antico atrio si trovano due ambienti, entrambi di pianta rettangolare, originariamente coperti da volte unghiate, il primo di dimensioni doppie rispetto all’altro, la cui conformazione, simile a quella del primo ambiente a sinistra dell’attuale atrio d’ingresso, è riconducibile alla prima fase costruttiva dell’impianto, mentre le volte a schifo, che coprono il primo ambiente di sinistra del piano terra e tutti gli ambienti del primo piano sul fronte strada sono forse riconducibili ad una prima fase trasformativa, forse circoscrivibile ai primi decenni del Seicento. Al piano nobile il grande salone a sinistra della scala, reca l’originario soffitto ligneo cassettonato, sostenuto da travi su mensole a volute che scandiscono la superficie in cinque campate rettangolari. Ogni cassettone è ornato da rosette intagliate e dipinte in oro, riquadrato da profili modanati dipinti con tonalità verdastre, ripetute anche sulle superfici delle travi e delle mensole. Dunque, se l’ornato plastico del soffitto si avvicina agli stilemi del tardo Rinascimento, il cromatismo d’insieme dell’ordito rimanda invece a soluzioni in voga nel Settecento. Presumibilmente, entro la prima metà dell’Ottocento, fu attuata una seconda importante riforma della struttura architettonica del palazzo, da attribuire a uno degli immediati successori del conte Girolamo Cigala Fulgosi (+1808), forse Luigi (+1832). L’edificio acquisì una nuova veste architettonica sulla facciata che prospetta su via S. Franca e sulle tre facciate interne che si affacciano verso il giardino e una nuova veste decorativa soprattutto nelle sale voltate del piano nobile. La consultazione del materiale delle Concessioni edilizie, conservato presso l’Archivio di Stato di Piacenza, ha fornito alcune interessanti informazioni circa il rifacimento avvenuto nel 1853, della facciata del contiguo palazzo Bernardi Morandi, all’epoca “di ragione del Signor Avvocato Rossi”7. L’istanza allegata al progetto concessionato, firmato dall’ingegnere piacentino Giuseppe Pavesi e datato 5 aprile 1853, precisa che gli ornati del palazzo dovevano essere “simili alla facciata dell’Ill.mo Signor conte Francesco Cigala”. Ciò fa supporre che, a quella data, il fronte del nostro palazzo fosse già stato ampiamente ridisegnato. L’intervento ottocentesco sembra conformarsi a una serie di altri aggiornamenti architettonici che investirono alcuni altri palazzi piacentini nella prima metà del secolo; ma l’impianto a L del fabbricato non consentì di raggiungere dei risultati compositivi basati su una rigorosa simmetria bilaterale imperniata sull’asse centrale, sia perché il portale di ingresso e il correlato androne sono incardinati sul terzo asse di finestre e non sul quarto da sinistra, sia perché l’impianto planimetrico a L pregiudicava la possibilità di avere due corpi di fabbrica laterali bilanciati simmetricamente sull’asse centrale della facciata. Palazzo Cigala Fulgosi appartiene alla tipologia delle dimore - sono in tutto 175 a Piacenza - dotate di cortile porticato su un solo lato, quello di controfacciata. Il portico, su colonne in granito, è di ordine dorico. Le cinque campate quadrangolari del portico sono coperte da volte a crociera. Nell’articolata ricchezza delle tipologie dei cortili porticati, non si registra, a Piacenza la presenza del portico trabeato, con la sola eccezione del cortile a ordini sovrapposti, di memoria richiniana, di palazzo Ferrari Sacchini su via Carducci,11, e il cui utilizzo, auspicato da Leon Battista Alberti, soprattutto per i cortili dei palazzi dei “cittadini principali”, incontrò maggior fortuna a Milano, nei primi trent’anni del Seicento, nei cortili dei palazzi privati. Nelle dimore di Piacenza i cortili dotati di portico su un solo lato sono presenti nelle quattro combinazioni: in controfacciata, sul lato sinistro, sul lato destro, sul lato di fronte all’entrata8. Il cortile di palazzo Cigala Fulgosi appartiene a quest’ultima tipologia. Si è detto che il loggiato della facciata verso il giardino fu chiuso prima del 1737 e forse anche suddiviso in molteplici ambienti. In questa stessa fase trasformativa si spostò il portale d’ingresso con l’androne, coperto da una volta a botte ribassata (il cosiddetto “bochirale”) che reca ancora una decorazione stilisticamente

154 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 riferibile alla metà dell’Ottocento, sul terzo asse di finestre da sinistra, e lo scalone dall’angolo di sud est all’angolo di nord ovest. L’ingresso al palazzo, attraverso l’androne terreno, voltato a botte, traguarda verso l’abside e il campanile della chiesa di S. Raimondo senza alcun ostacolo interposto; quadro prospettico ancora oggi avvertibile, memoria di un micro paesaggio urbano che caratterizzava alcuni degli isolati più periferici del centro cittadino. L’ignoto architetto dell’intervento ottocentesco ricavò sulla manica di destra due arcate su pilastro intermedio, coperte da volta a crociera, mentre sul versante sud, la sola presenza dell’alto muro divisorio con il fabbricato contiguo, impedì di costruire un analogo organismo architettonico, tanto che dovette ricorrere ad un espediente di illusionismo ottico con la realizzazione di un portico dipinto scandito da tre arcate su colonne doriche, le cui tracce permangono ancora solo parzialmente intellegibili sulla parete muraria. L’impianto del palazzo nobiliare a Piacenza presenta frequentemente la successione di androne terreno, portico, cortile, giardino. Sovente, il progettista, esperto scenografo, utilizza come fondali vere e proprie architetture, come nel caso del giardino di questo palazzo, o dei palazzi Appiani d’Aragona Borromeo e Scotti di Sarmato, che traguardano prospetticamente l’uno sul campanile del Duomo, l’altro sulla chiesa di S. Agostino. A ben vedere tra portico reale della manica nord, e portico dipinto sulla parete di confine sud, non vi è alcuna similitudine architettonica; per cui si potrebbe anche ipotizzare che il portico della manica nord possa anche appartenere all’ultima fase trasformativa delle facciate che prospettano sul giardino, realizzata nei primi decenni del Novecento con l’inserimento dei due volumi aggettanti calibrati sul passo rispettivamente della prima campata di sinistra e della prima campata di destra del portico, la prima molto più piccola della seconda. Questi due piccoli corpi di fabbrica, alti quanto la sommità del piano loggiato, hanno profondamente alterato l’impianto architettonico e decorativo delle pareti che prospettano sul giardino, così come dovevano essere state concepite entro la prima metà dell’Ottocento, di fatto impedendo di definire meglio quale fosse il reale intendimento progettuale dell’anonimo architetto. Una visione compositiva di chiara ascendenza neoclassica si intravvede invece nello schema compositivo della facciata su via S. Franca. Qui l’architetto divise l’alzato su tre livelli: il primo costituito da un alto basamento bugnato, che nel corso del restauro ha riacquisito un timbro cromatico di colore grigiastro ben appropriato, entro il quale trovano spazio le piccole finestre che illuminano il piano scantinato e le grandi finestre rettangolari munite di inferriate, prive di cornici di contorno, distribuite rispettivamente due a sinistra e quattro a destra del portale di ingresso. Da osservare che l’asse verticale del portale arcuato è sensibilmente più spostato a destra rispetto all’asse delle finestre dei due piani superiori; ma la presenza dell’alta fascia marcapiano, nell’introdurre una pausa orizzontale nel dispiegamento delle membrature, attenua questo disassamento che è anche ulteriormente dissimulato dalla serialità decorativa che caratterizza tutte le sette finestre del primo piano, connotate da piatte cornici concluse da un architrave aggettante. Anche il terzo piano fuori terra è definito da sette assi di finestre, ma di altezza minore, sebbene contornate da cornici dai profili modanati plasticamente più avvertibili rispetto a quelle dell’ordine inferiore. Ne scaturisce un insieme compositivo che, sebbene impostato su un ordine gerarchico che conferisce una calibrata rilevanza alle finestre del piano nobile, l’assenza di ostentate membrature decorative riconduce l’insieme all’interno di una visione garbatamente “funzionalista”, come cioè poteva essere interpretata da un architetto che, informato del lessico classicista di stampo lodoliano, non poteva non guardare ad altri edifici neoclassici piacentini, come ad esempio alla facciata di palazzo Douglas Scotti Della Scala di San Giorgio, riformata su progetto di Antonio Tomba (1832). L’accostamento con le architetture di Tomba trova inoltre una ulteriore conferma se si confrontano le due soluzioni architettoniche riguardanti rispettivamente lo scalone di palazzo Dougals Scotti Della Scala di San Giorgio e quello del nostro palazzo. In entrambe sono presenti finestre semicircolari di tipo termale, anche se nel palazzo dei conti Douglas Scotti la più moderata altezza del volume della scala non consentì di articolare le superfici parietali con membrature architettoniche verticali; mentre nello scalone Cigala Fulgosi fasce orizzontali e verticali scompartiscono le pareti con ritmi calibrati sul passo delle finestre termali, vere e finte, che corrono lungo la fascia sommitale del volume interno appena sotto l’ampia cornice che sostiene una volta a schifo dal profilo molto ribassato. Qui infatti l’architetto per illuminare adeguatamente lo scalone, ne alzò il volume al di sopra dei tetti della manica nord, in modo da fare affluire la luce attraverso le vere finestre aperte sulla parete nord e ovest, lasciando cieche le corrispettive finestre sulle pareti est e sud. La scala, allogata in un vano a tutta altezza illuminato da luci ad arco, non si arresta al piano nobile, ma prosegue al secondo piano fuori terra. La ringhiera in ferro battuto presenta un disegno geometrico regolare, di esecuzione ottocentesca, così come al XIX secolo sembrerebbe di potere riferire anche l’esecuzione delle porte di accesso al piano nobile e al secondo piano. Gli ambienti interni, soprattutto quelli del piano nobile, furono anch’essi oggetto di una rivisitazione pittorica. Il loggiato, che riteniamo fosse stato tamponato agli inizi del Seicento, fu diviso con nuove partizioni nel XIX secolo, in modo da creare una serie di ambienti l’uno infilato all’altro (dalla pianta stato di fatto) collegati attraverso nuove aperture agli ambienti voltati che si affacciano su via S. Franca. Si tratta, in particolare, delle tre sale attigue che si aprono en enfilade dopo il salone d’onore, il cui apparato pittorico delle superfici

155 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 intradossali delle volte è caratterizzato da motivi vegetali inseriti all’interno di riquadrature geometriche (triangoli, rombi, trapezi, ottagoni). La sala che conclude il loggiato verso sud, confinante con palazzo Bernardi Morandi, fu probabilmente realizzata nel corso del Seicento e forse anche decorata in quello stesso periodo. Successivamente, fu ridecorata nel corso dei lavori di ristrutturazione neoclassica. La volta di questa sala presenta grottesche intercalate da cartelle entro le quali sono rappresentati paesaggi con inserti di architetture classiche, il cui schema compositivo è affine a quello degli ornati dipinti nelle sale di palazzo Ghizzoni Nasalli di via Serafini 12, e di palazzo Fogliani di via S. Giovanni 7. La sala successiva presenta una superficie voltata suddivisa da riquadrature di varie forme geometriche entro cui sono inseriti motivi decorativi giocati sui toni ocra chiaro e monocromi grigi, arricchiti da racemi, strumenti musicali, trofei e forme decorative fantastiche in parte mutuate dal repertorio delle grottesche. In un terzo ambiente la volta è solcata da una struttura filiforme che richiama il treillage e i pergolati naturalistici di memoria tardorinascimentale. Ampiamente reinterpretato nel corso del Seicento e del Settecento, questo motivo è qui rappresentato con un’evidente intenzione geometrizzante, sebbene arricchita da rosette in corrispondenza dell’incrocio del graticcio. Alcuni stilemi decorativi di queste sale, sono propri della cultura neoclassica diffusa a Piacenza da G. Battista Ercole (1750-1811) e dai suoi seguaci. I riferimenti più prossimi, ancorché di qualità superiore, s’individuano in alcune sale terrene di villa Rocca a Corneliano e nel castello Trissino da Lodi, meglio noto come La Bastardina, a Sarturano nel comune di Agazzano. Architetto, decoratore e scenografo, G. Battista Ercole è figura poliedrica dell’età neoclassica a Piacenza, autore di soluzioni decorative di raffinata eleganza che in alcuni punti evocano i contrasti cromatici e i particolarismi decorativi di Felice Giani (1758-1823). L’intensa attività dell’Ercole, che sugli anni ottanta del Settecento aveva acquisito una posizione di grande prestigio, assestandosi su livelli qualitativi prossimi a quelli raggiunti dal più celebre decoratore bolognese Antonio Basoli (1774-1848), fa supporre che egli potesse avvalersi della collaborazione di aiuti. Il suo repertorio deve infatti avere avuto larga diffusione e consenso presso la committenza nobiliare piacentina (Còccioli Mastroviti 1988, pp. 34-52). Pertanto, non si può escludere che abbia influenzato gli anonimi decoratori attivi nel palazzo dei conti Cigala Fulgosi, dove l’evidente disomogeneità dei caratteri stilistici lascia supporre delle fasi realizzative prolungatesi nell’arco di almeno un decennio. Il giardino del palazzo, si estende oltre il cortile d’onore ornato da un pozzo in pietra, delimitato a sud dal finto portico dipinto sul muro di confine con palazzo Bernardi Morandi, e a nord dalla quinta architettonica entro cui si colloca la doppia arcata di portico che riteniamo anch’essa realizzata nel corso della riorganizzazione ottocentesca. Il giardino confina a ovest con gli orti del monastero delle monache cistercensi di S. Raimondo. Fino all’Ottocento, a sud della città, e soprattutto in quest’area prossima allo stradone Farnese, erano numerosi i giardini patrizi e gli orti conventuali, di cui si conservano ampie testimonianze. Nel corso dei restauri, eseguiti da settembre 2011 all’ottobre 2014, si è ritenuto opportuno privilegiare le due fasi costruttive e trasformative principali che avevano interessato l’edificio tra il tardo Quattrocento e l’Ottocento, vale a dire il recupero delle colonne, dei capitelli di pietra arenaria e delle arcate del loggiato che prospetta sul giardino, e l’intero impaginato architettonico e decorativo conseguente alle trasformazioni ottocentesche, quest’ultimo definito attraverso una attenta lettura delle originarie superfici cromatiche sia interne sia esterne, che hanno restituito all’insieme dell’edificio quell’unità compositiva tanto raccomandata da Cesare Brandi nella sua celebre Teoria del restauro del 1963.

1 ASPr, Mappe e disegni, vol. 22/1 2 ASPr, Inventario dei beni dei conventi soppressi 1805-1810. 3 E. Conca OSB 2011, pp.101-170 4 Biblioteca Passerini Landi, Piacenza (BCPc), Relatio Processus facti in causa D. Labadini pro eius petita receptione in utrumque Collegium, Libri Pallastrelli,4,III opuscolo, cit. anche in C.E. Manfredi, G. di Gropello, 1979, p.31; le antiche famiglie, p. 21 5 Cfr. il testo di Anna Riva in questo volume 6 BCPc, Indice delle parrocchie e delle case di Piacenza, Ms Pallastrelli 263 7 ASPc, Concessionie edilizie, ad annum 1853 8 L. Summer, 2005, pp. 77-98

156 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Palazzo Cigala Fulgosi, decorazione con volatili sul fronte verso il giardino

Particolari dei capitelli della loggia aperta sul fronte verso il giardino

157 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Particolare dell’ultima campa della loggia aperta sul fronte verso il giardino

158 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Particolari della decorazione con volatili sul fronte verso il giardino

159 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Piacenza, palazzo Cigala Fulgosi su via Santa Franca

160 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

IL CANTIERE DI RESTAURO Sergio Morlacchini, Paolo Pagani

Come abbiamo avuto modo di rilevare altre volte nel corso degli incontri promossi nell’ambito del “Premio Gazzola”, la Piacenza settecentesca e neoclassica risulta ampiamente indagata e descritta, del resto si tratta di una storia che si snoda ancora con evidenza sotto i nostri occhi. I grandi palazzi dell’epoca si sono sostanzialmente salvati dall’impatto violento con la modernità. Ciò che invece risulta ancora da approfondire è la conformazione della struttura urbana della Piacenza fra ‘500 e ‘600, la storia cioè della Piacenza farnesiana. Riguardo a questo periodo le fonti archivistiche sono molto più avare, ma soprattutto molto più scarse sono le testimonianze raccolte sul campo dai singoli restauri. Non ci riferiamo certo alle grandi fabbriche farnesiane che ancora oggi punteggiano il centro storico cittadino, ma all’organizzazione del tessuto edilizio cinquecentesco ed alla collocazione dei palazzi nobiliari dell’epoca. Se visitiamo l’intorno di S. Sisto, per esempio, o di S. Sepolcro tra gli antichi vicoli riusciamo ancora ad intravedere la configurazione delle cortine edilizie cinquecentesche, il taglio dei palazzi dell’epoca e anche come questi si siano modificati con l’aggiunta di un secondo piano che trasformava in piano abitabile gli originari locali di sottotetto. Possiamo affermare che il tessuto edilizio cinquecentesco era in generale più basso di un piano, mentre gli odierni isolati non erano saturati come poi li abbiamo ricevuti in eredità dall’Ottocento. Era una città fatta di rivi e canali, dove gli orti e i giardini si incuneavano tra l’abitato e dove i palazzi nobiliari erano anche ville di campagna. Fino al 1950 Piacenza era tutta ricompresa all’interno delle mura farnesiane; nel corso dell’Ottocento è documentata la generale sopraelevazione del tessuto edilizio preesistente e la sua saturazione. Nel corso del XVII secolo la struttura urbana non aveva registrato sostanziali modificazioni, da quando cioè la corte si era trasferita a Parma, Piacenza era diventata città di conventi e di acquartieramento di truppe. Nel XVIII secolo si assiste alla fioritura dei grandi palazzi barocchi ed alla totale trasformazione dell’immagine della città farnesiana. Come avvenga però questa trasformazione e cosa rimanga oggi dei due secoli precedenti non è sufficientemente indagato e costituisce un’interessante frontiera di studi per storici ed architetti. La vicenda del restauro di palazzo Cigala Fulgosi risulta di grande interesse proprio in quanto aiuta a comprendere le modalità ed i processi di questa trasformazione almeno nella porzione di città in cui è sito il palazzo. La successione delle planimetrie storiche a partire da quelle più antiche del XVII secolo fino ad arrivare a quelle napoleoniche e successive ci illustra in modo esemplare la trasformazione dell’isolato preso in esame a partire dal periodo farnesiano. Nella planimetria del 1580-1610 è già riportata la sagoma del palazzo inserita all’interno di una vasta area di orti e giardini che correva da stradone Farnese fino all’attuale chiesa di S. Raimondo. Va inoltre notato come l’accesso principale al palazzo sembra che fosse collocato proprio sullo stradone Farnese, attraverso un percorso che raggiungeva anche S. Raimondo. Il rapporto tra il palazzo ed il giardino era dunque fondamentale, come sarà poi sostanzialmente dimostrato dal lavoro di restauro eseguito sulla facciata interna, restauro nel corso del quale riemergeva la decorazione ad affresco con cielo e volo di uccelli. Un palazzo di città dunque configurato anche come villa di campagna. La saturazione edilizia dell’isolato avviene in epoca umbertina, solo a fine Ottocento, con la chiusura della quinta edilizia su stradone Farnese e la soppressione del percorso di accesso dal giardino. Ma il palazzo indicato nelle antiche mappe del ‘600 era lo stesso edificio che compariva poi nel catasto napoleonico ed in quelli successivi? Nelle schede storiche elaborate nel recente passato palazzo Cigala Fulgosi veniva succintamente catalogato come palazzo neoclassico, famoso in quanto l’androne di ingresso presentava la bella inquadratura sulla chiesa di S. Raimondo. Ma delle vicende più antiche rilevate dalle antiche planimetrie cosa era rimasto? Qui inizia la storia delle indagini “svolte sul campo” all’inizio dei lavori di restauro, storia che si è conclusa, possiamo dirlo, con la riscoperta dell’antico palazzo di epoca farnesiana che continuava a “vivere” all’interno del palazzo neoclassico. La struttura dell’antico loggiato cinquecentesco era del tutto visibile nonostante i successivi tamponamenti; colonne, capitelli e le antiche volte a crociera erano leggibili, nonostante le manomissioni, le tramezzature e le superfetazioni. L’antico solone cassettonato è stato di più difficile ricostruzione, in quanto gli interventi di tramezzatura del ‘900, le decorazioni e le dipinture della stessa epoca ponevano dubbi sull’esatta ricostruzione storica dell’ambiente. Di grande interesse poi è stata la riscoperta nelle cantine del primo tratto dell’antico scalone cinquecentesco, demolito agli inizi dell’Ottocento e sostituito dall’attuale scalone neoclassico. È stato poi individuato l’antico androne originale del palazzo, che si trovava posizionato esattamente in asse all’antica facciata. Questo spazio presenta le dimensioni in larghezza tipiche dell’epoca (mt. 2.40 – 2.50). Anche tale elemento fu sostituito in epoca neoclassica dall’attuale androne che ha comportato però un disassamento nel disegno di facciata. Ricordiamo infine il restauro della decorazione sulla facciata interna raffigurante un volo di uccelli sullo sfondo

161 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 di un cielo con nuvole (a questa decorazione si è accennato all’inizio). Tutto questo lavoro, qui descritto succintamente, ma eseguito nel corso di mesi e mesi di indagini svolte in stretto rapporto con la Soprintendenza, ci ha permesso di giungere alla ricostruzione dell’antico palazzo cinquecentesco non demolito, ma inglobato nella ristrutturazione neoclassica. Come si evince dagli elaborati grafici allegati si trattava di un edificio costituito da piano terra, da un piano nobile e da locali di sottotetto con funzioni di servizio; l’androne centrale, loggiato al piano primo, e grande salone cassettonato. Lo scalone d’onore era situato sulla testata opposta a quella dove si trova l’attuale ed era inglobato nella sequenza degli spazi interni, contrariamente a quella che sarebbe poi stata l’interpretazione barocca di questo elemento architettonico. L’obiettivo prioritario del progetto di restauro si è basato dunque sulla riproposizione degli elementi originari cinquecenteschi.

Il restauro La sommatoria dei vari interventi edilizi che si sono susseguiti sul palazzo, sono riassumibili in tre fasi: - la costruzione avvenuta presumibilmente nel XVI secolo, - la completa ristrutturazione nei primi anni dell’800, - l’intervento di modernizzazione avvenuto agli inizi del 900. A ciò seguono le seguenti precisazioni: - per quanto concerne “IL PALAZZO DEL XVI SECOLO”, è possibile affermare che: a) la scala menzionata nella relazione, citata dallo Zanetti nel 1737 era posta sul lato sinistro entrando dall’androne principale su via S. Franca, di cui si è trovata testimonianza nelle cantine; b) verso il cortile il loggiato al piano primo era affrescato sulle volte, infatti dai saggi eseguiti si è riscontrata continuità di tali decori con la facciata, e quindi è vero che il loggiato è stato tamponato in epoca successiva; c) il salone con soffitto a cassettoni, non era frazionato ma era costituito da un unico ambiente, ciòè dimostrato dal fatto che la trave sporgente dal muro non è finta ma passante verso il camino, e la struttura portante sul tetto dimostra che il muro al piano secondo è stato appeso per non gravare sulla trave sottostante; d) i capitelli delle colonne si presentavano con la lavorazione simile alle colonne presenti in palazzo Sanseverino (XVI secolo), e così pure i motivi delle mensole del cassettone; e) un ulteriore saggio nel pavimento del piano secondo, ha portato alla luce una decorazione ed una foratura tipica dell’innesto di un trave in legno, presumibilmente anche questa sala era con soffitto a cassettoni successivamente rimosso per essere sostituito con uno spazio voltato. - per quanto concerne IL PALAZZO NEOCLASSICO (primi ‘800) è possibile affermare che il nuovo scalone viene realizzato fino al secondo piano a seguito della demolizione della scala cinquecentesca, realizzando poi il nuovo disegno della facciata su via Santa Franca; facciata che poi nel 1853, ispirerà anche il vicino conte Bernardi Morandi. Inoltre presumibilmente in questa fase vennero tolti altri soffitti in legno per eseguire soffitti con le volte in mattoni; - per quanto concerne gli interventi sul “palazzo del ‘900”, è possibile affermare che il conte Chiapponi acquista il palazzo nei primi anni del ‘900 e lo ristruttura completamente. Le esigenze abitative in quegli anni erano cambiate e per poter aggiungere i bagni e cucine, al piano primo, senza rovinare la spazialità delle stanze fu costretto a tamponare il loggiato, in questo modo si crearono nuovi ambienti. Sempre con lo stesso intervento venne sopraelevato in parte il piano secondo per trasformare quelli che erano spazi della servitù nel sottotetto ottocentesco in nuovi alloggi da mettere a reddito. Testimonianza di questo intervento è Il tetto a capanna, che a seguito di questa sopraelevazione, presenta una pendenza diversa sulla falda verso il cortile rispetto a quella in via S. Franca, ed il colmo è spostato, rispetto la mezzeria del fabbricato. Al piano primo venne frazionato il salone cinquecentesco, rinnovandolo con le decorazioni del decoratore piacentino Alberto Aspetti. Sullo scalone venne creata una decorazione a lesene. I vari interventi succedutisi nei secoli hanno costituito materia di ragionamento delle varie problematiche che ha dovuto affrontare il progetto di restauro, al fine di restituire un palazzo leggibile in tutte le sue epoche e sovrapposizioni storiche senza confusione tra di esse. Le indagini si sono concentrate sulle testimonianze ritrovate in loco, testimonianze ben leggibili dell’impianto del palazzo. Sono state compiute le indagini sulle decorazioni pittoriche, sono state analizzate le malte per il tamponamento del loggiato da due differenti laboratori. Da tali analisi effettuate sulle stratificazioni delle stesure di colore interne e sulle malte non è stato possibile trovare un collegamento che ci potesse dimostrare che il loggiato cinquecentesco fosse stato tamponato in periodo neoclassico e adibito a galleria. Si è riscontrata omogeneità nello strato più antico, a base di intonaco di calce sovrapposto da scialbi bianchi, su tutta la parete interna (lato est) del loggiato e anche nelle volte. Analizzando le stesure di colore verso la parete ovest, non vi è mai coerenza invece tra le varie porzioni tamponate fra una colonna e l’altra. Entrando, dallo scalone neoclassico il tamponamento frontale è stato eseguito in mattoni forati del periodo risalente agli anni 40’/50’, ed è stato posto sopra alla

162 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 continuazione del pavimento in seminato del pianerottolo dello stesso scalone neoclassico. Partendo da destra il primo tamponamento presentava varie manomissioni dovute all’ampliamento verso ovest, di questa porzione di fabbricato, avvenuto nel Novecento; il secondo, il terzo e il quarto tamponamento presentavano la lunetta sopra la finestra, mentre il quinto non presentava la lunetta ma una riquadratura completamente diversa. La sesta campata più stretta presentava l’arco ancora intero ben conservato con la colonna alla sua destra ed il peduncolo in incastro dell’arco al muro di confine. Le campionature prelevate di malta di allettamento dei mattoni analizzate da diversi laboratori, ci hanno rivelano l’utilizzo sia di calce aerea che di cemento. La prima volta a crociera, arrivando dallo scalone, presentava una decorazione vegetale su tutte e quattro le vele; tale decorazione non proseguiva nelle campate successive dove si riscontravano tracce di stesure azzurre velate quasi ad imitare un cielo per creare una prospettiva illusoria di continuità tra interno ed esterno. Certamente in epoca neoclassica lo scalone era collegato direttamente al loggiato senza porta di accesso. Da tutte queste indagini si sono riscontrate le prove inequivocabili che il tamponamento del loggiato avvenne nel Novecento, tra le due guerre, mentre in epoca neoclassica lo stesso loggiato risultava ancora libero. Tutto ciò costituisce la ragione per cui il progetto di restauro si è posto tra gli obiettivi prioritari, la riscoperta e la riproposizione degli elementi originali del palazzo cinquecentesco, come è avvenuto anche nel recupero spaziale del salone. Il progetto ha previsto pertanto il recupero della spazialità originale del loggiato, lo svuotamento delle antiche arcate ed il restauro dell’intero loggiato in tutte le sue componenti e caratteristiche, non ultime le decorazioni pittoriche originali del tardo Cinquecento con cielo e rondini poste in facciata, decorazioni riscoperte al di sotto dell’attuale cornicione. La riapertura di tale tamponamento ha riequilibrato sicuramente il rapporto scalone/loggiato. con tale proposta progettuale si è ritrovata la luminosità dello scalone esaltandone la geometria e l’architettura neoclassica e si è rinnovata la lettura della stretta relazione intercorrente tra il loggiato con il sottostante porticato ed il giardino interno del palazzo. Pertanto l’obiettivo prioritario del progetto di restauro fondato sulla riscoperta e la riproposizione degli elementi originali cinquecenteschi può essere così sintetizzato: A) il recupero dell’antico loggiato che evidenzia gli elementi originari cinquecenteschi quali colonne, capitelli volte a crociera. Sicuramente palazzo Cigala Fulgosi nel XVI secolo aveva l’accesso principale dal giardino e ciò spiegherebbe l’impianto a corte con porticato e loggiato nonché la particolare decorazione pittorica che abbiamo rinvenuto sulla facciata interna, decorazione che costituisce quasi uno specchio del cielo secondo una chiara tradizione cinquecentesca presente anche nei palazzi bolognesi. B) Recupero della spazialità originaria del salone cinquecentesco posto al piano primo del palazzo, con la demolizione delle tramezzature create nel dopoguerra per la suddivisione dell’originario spazio in due sale. Il soffitto a cassettoni con disegno a riquadri incorniciati a forma regolare con rosette poste al centro di ogni riquadro, con cornice decorata a scalpello a muro sulle pareti, e mensole decorate porta travi, cassettone per manifattura e geometria identico a quello di palazzo Fogliani, anch’esso cinquecentesco. Per il recupero delle decorazioni presenti su tutti e tre i lati del salone è stato effettuato un lavoro di pulitura e restauro come previsto nelle relazioni già presentate a cura della ditta Rizzi Luigi Restauri, sul quarto lato (tramezza realizzata negli anni 1920/1930) si è proceduto ad effettuare lo stacco, con successiva ricollocazione sulla parete con il camino in fondo a nord. A tal proposito il laboratorio di restauro di Luigi Rizzi e Federica Cattadori ha prodotto una specifica relazione al fine di descrivere l’intervento di stacco e per illustrare quella che dovrebbe essere l’immagine finale dopo i lavori di restauro. Le decorazioni sono state protette sul fronte con delle tele ed incassate in una controforma per poter effettuare lo stacco; sono poi state fissate su pannelli sandwich in vetro resina e ricollocate nel salone. Si precisa che l’intervento è stato presentato anche alla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e Etnoantropologici di Parma e Piacenza completo di tutta la documentazione utile all’ottenimento del parere nel dicembre 2011. Per quanto concerne il cassettone è stato effettuato il lavoro di restauro ligneo e ripristino delle originarie tinte cinquecentesche uniche nel sottostrato della vernice (gomma-lacca) data nel dopoguerra e pertanto senza dubbio rimaste inalterate fino nel primo Novecento. A tal proposito è stata eseguita la relazione del laboratorio di restauro RRR di Marco Tansini Petrali per la descrizione dell’intervento specifico effettuato. C) Restauro al piano terra del porticato con colonne in granito sormontate dai capitelli, in pietra bianca. Da tutti questi interventi è emerso con chiarezza la consistenza delle parti cinquecentesche che ad opera ultimata assumono una rilevanza esemplare e testimoniano una storia che sembrava del tutto scomparsa. Nella porzione di fabbricato posta verso ovest, ristrutturata in epoca più recente (anni 50/60), che visibilmente presenta mattoni fatti a macchina, canne fumarie in laterocemento, e non presenta soffitti a volte, ma solai piani in laterocemento, si è pensato di collocare una nuova scala di collegamento a servizio interno dell’appartamento padronale per collegare il piano primo e secondo. Nella stessa zona, come si vede dalle tavole di progetto finale, si è proceduto anche alla necessaria collocazione di un ascensore. Il progetto non

163 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 ha però trascurato il restauro delle presenze neoclassiche quali la spazialità dello scalone costruito nei primi anni dell’Ottocento ed il prezioso apparato decorativo delle volte. Nell’ambito del restauro dello scalone neoclassico vanno visti gli interventi moderni di inserimento di alcuni serramenti vetrati che esaltano il rapporto tra lo scalone stesso ed il loggiato. Si tratta del serramento d’ingresso posto sulla testata d’arrivo dello scalone e dei due serramenti che chiudono simmetricamente le due testate del loggiato. Tale scelta progettuale è dettata dalla esigenza di tenere il più possibile trasparente tutta la visione del loggiato e del suo sistema con gli importanti particolari delle colonne, dei capitelli e degli archi, ben visibili all’arrivo dello sbarco dello scalone neoclassico al piano primo, tutti particolari recuperati nella loro interezza sia dal punto di vista delle caratteristiche architettoniche che tipologiche originali. Con questa soluzione progettuale si rispetta l’incremento di luminosità apportato dal loggiato allo scalone, e si assicura il collegamento della porzione abitativa più antica verso via S. Franca, con la zona recuperata verso ovest, meno antica e senza particolare pregio architettonico, parte in cui è stata ricavata la zona dei servizi.

Il restauro delle decorazioni pittoriche neoclassiche Sala 1: Nel saggio effettuato sono stati ritrovati i seguenti strati: rasatura gessosa, tracce di filettature tardo novecentesche, decorazione a losanghe, scarse tracce di decorazione più antica eseguite a secco (non recuperabile nella sua interezza), intonaco a calce. L’intervento è consistito nel recupero, durante la fase di discialbo, del terzo strato che rappresenta una decorazione a losanghe in un discreto stato di conservazione. La decorazione si presentava con alcune lacune dovute sia alla caduta di stesure a secco sia a causa di interventi posteriori che hanno interessato il risarcimento dell’intonaco. Le pareti sono in gran parte rintonacate con malta cementizia, i piccoli lacerti più antichi mostravano le picchiettature su intonaco coperto da stesure di scialbo bianco a calce. Sala 2: Il soffitto rappresentava elementi architettonici lineari che riquadrano decorazioni floreali afinto stucco, girali vegetali ed elementi faunistici. Nel soffitto, principalmente monocromo, risaltano alcuni decori policromi. Il fascione decorativo al di sotto della cornice aggettante richiama alcuni elementi floreali. Le pareti si presentavano in gran parte rintonacate con malta cementizia; i piccoli lacerti più antichi, in prossimità delle finestre, mostravano le picchiettature realizzate su intonaco coperto da stesure di scialbo bianco a calce. Sala 3: La decorazione principalmente monocroma imita finti stucchi e all’internodi riquadrature geometriche sono presenti finti bassorilievi motivi vegetali e ornamentali. Nella volta del soffitto si evidenziano alcuni elementi policromi. Sala 4: Il soffitto è arricchito da piccoli riquadri con visioni paesaggistiche inseriti in un contesto decorativo creato con elementi vegetali, esili festoni, foglie e animali fantastici. Spiccano le coloriture vivaci realizzate probabilmente a tempera su una base di calce. Sulle pareti, al di sotto del cornicione, è presente una fascia decorativa il cui fondo risulta ridipinto. Gli ambienti presi in considerazione presentavano problematiche simili. I soffitti dipinti avevano problemi di gore di umidità, sali e fenditure, ed erano inoltre evidenti anche numerose cadute di colore, in modo particolare nella sala 4 (vedi planimetria allegata) dove lo strato pittorico necessitava di una preliminare riadesione. Erano visibili anche alcune lacune e crepe di varia entità, probabilmente dovute all’assestamento della struttura. Le infiltrazioni di acqua piovana dall’estradosso avevano provocato in alcune zone la presenza di sali sulla superficie. Nella realizzazione dei soffitti si presume che siano stati utilizzati per il fondo originale e alcuni decori i colori a calce, mentre per le tinte più vivaci pigmenti legati ad una sostanza organica. I fondi si presentavano ridipinti e in molte zone le ridipinture erano scontornate in modo impreciso le decorazioni che in più punti risultano coperte. Dove è stato possibile si è proceduto all’asportazione delle ridipinture di tonalità più scura; questo intervento ha messo in risalto la decorazione originale che risultava in più parti nascosta. Il lavoro di restauro ha visto come prime fasi di intervento il preconsolidamento e la pulitura delle superfici; dopo sono state asportate le ridipinture nella misura in cui lo strato originale lo permetteva. Dopo la prova di resistenza dei colori alle sostanze acquose, è stata eseguita una spolveratura generale con pennelli morbidi e gomme sintetiche Wishab, facendo molta attenzione ai decori che si presentavano in diverse parti sollevati a scaglie (in particolare nella sala 4). Per questo motivo si è effettuato un consolidamento del colore con: iniezioni di resina metacrilica molto diluita in soluzione acquosa (previa veicolazione di acqua e alcool) o mediante l’utilizzo di nanoparticelle. Si è proceduto in seguito all’asportazione meccanica delle stuccature non congrue o sormontanti l’originale mediante l’utilizzo di scalpellini. Successivamente si è proceduto per la superficie dipinta con una pulitura a trasmissione, previa prova di sensibilità alle sostanze acquose, con l’utilizzo di carta giapponese e acqua deionizzata. Sulle ridipinture è stata eseguita una pulitura con soluzione basica di carbonato d’ammonio a pH controllato, interponendo carta giapponese, per asportarle nella misura in cui lo stato di conservazione delle stesure originali lo permetteva. Nelle zone coperte da una rasatura gessosa è stato effettuato inizialmente un discialbo meccanico con martellini e bisturi, successivamente è stato necessario applicare un impacco supportante di carbossilmetilcellulosa e seppiolite con soluzione

164 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015 di carbonato d’ammonnio opportunamente diluito. Infine le superfici sono state neutralizzate con acqua deionizzata. Nelle zone intaccate da agenti biodegradanti si è utilizzato un biocida specifico (Preventol: dodecildimetildiciclororenzilammoniocloruro), in soluzione acquosa a pH controllato cercando di togliere il più possibile le alterazioni provocate sulla superficie e per inibire la loro formazione. Sulle efflorescenze e incrostazioni saline causate da precedenti infiltrazioni d’acqua, si è svolta una desalinizzazione con acqua deionizzata applicata o con carta giapponese o attraverso impacchi con polpa di cellulosa. È stato effettuato un controllo dell’adesione dei vari strati di intonaco e si è proceduto ad un consolidamento con calci idrauliche specifiche prive di sali solubili (come riportato nella scheda tecnica). La fase di stuccatura è stata eseguita in modo differenziato a seconda delle necessità: le lacune più profonde sono state stuccate con una malta di base ottenuta da una miscela di calce idrata, calce idraulica, coccio pesto, sabbia di fiume e polvere di marmo; la granulometria è stata direttamente proporzionale allo spessore della lacuna. Le lacune superficiali e le piccole fenditure sono state occluse con malta composta da calce idrata, carbonato di calcio o polvere di marmo e sabbia di fiume. Il diametro degli inerti è stato scelto in base alla granulometria dell’intonaco originale. L’integrazione pittorica è stata eseguita con colori ad acquerello e pigmenti naturali sulle lacune di colore dei decori, per ripristinare la corretta leggibilità dell’opera nel rispetto del passaggio del tempo, mentre i fondi sono stati ritoccati con colore a base di latte di calce e terre naturali. In corso d’opera è stata realizzata una scheda di restauro descrittiva delle varie fasi, dei materiali e delle dosi dei prodotti utilizzati per l’intervento; comprensiva di documentazione fotografica.

La corte interna ed il giardino Infine grande attenzione è stata dedicata al ridisegno degli spazi esterni, profondamente manomessi dagli interventi del Novecento. Tale recupero si è basato sulla sequenza prospettica tipica degli spazi interni dei palazzi nobiliari settecenteschi a Piacenza. Fin dalle prime fasi di indagini storiche su palazzo Cigala Fulgosi era apparsa evidente l’importanza del rapporto tra il palazzo stesso ed il giardino coronato sul fondo dalla vista della chiesa di S. Raimondo. Il frammento (oggi restaurato) della decorazione pittorica con nuvole e volo di uccelli, che un tempo doveva ornare tutta la facciata porticata verso il giardino, ne è una testimonianza palese. Agli inizi del Cinquecento, quando il palazzo fu costruito con ampio porticato al piano terreno e sovrastante loggiato al piano primo, l’area compresa tra l’attuale via S. Franca e lo stradone Farnese era interamente inedificata, occupata da orti e giardini. Dalle planimetrie storiche, inoltre, abbiamo testimonianza che il palazzo godeva di due accessi: uno posto sull’attuale via S. Franca, il secondo, l’ingresso d’onore, su una strada che dallo stradone Farnese conduceva alla chiesa di S. Raimondo e successivamente piegava verso la corte d’onore del palazzo. Le indagini svolte sulle planimetrie storiche hanno portato alla luce un ricco materiale documentario riguardante questa porzione di città; nonostante ciò la documentazione risulta insufficiente a ricostruire nel dettaglio l’organizzazione ed il disegno originale dell’area verde. Prima dei lavori di restauro il giardino presentava la configurazione raggiunta negli anni ’60, con vialetti in ghiaietto, piccole siepi di bosso e un disegno banale che voleva ricalcare il giardino all’italiana. Nel proporre oggi una sistemazione organica dell’area verde del palazzo, in sintonia con il lavoro di restauro fin qui svolto, ci siamo rifatti ad alcuni esempi di palazzi storici piacentini tutt’ora esistenti. Da tale ricerca risulta che la sequenza caratteristica nella prospettiva interna dei palazzi nobiliari piacentini è costituita da: - corte d’onore cinta su tre lati da porticato, pavimentata in ciottoli del Fiume Trebbia, spesso scandita da trottatoi in granito per il passaggio delle carrozze. - Quinta di separazione tra la corte d’onore ed il giardino, costituita da una balaustra in pietra oppure, nei casi più aulici, da un’architettura di pilastri ed archi vera e propria. - Giardino sul fondo che in alcuni casi (come in palazzo Douglas Scotti di Sarmato) mantiene il disegno del giardino all’italiana. La nostra proposta progettuale ha riproposto tale sequenza, senza tuttavia cadere nel falso storico. Per questa ragione, come separazione tra giardino e corte d’onore, si è previsto una siepe di bosso alta circa un metro, situata all’altezza dell’ala storica del palazzo. Un cancello antico, anch’esso basso e con semplice funzione ornamentale, con la funzione di elemento terminale del percorso realizzato in trottatoi di granito. La corte d’onore è stata interamente pavimentata in ciottoli di fiume, secondo la tradizione. Il giardino, una volta ripulito dei vialetti posticci realizzati negli anni sessanta del Novecento, ha avuto una sistemazione a prato con il mantenimento delle alberature esistenti poste lungo il perimetro. Una piccola piazzuola, sempre in granito, è stata posta sulla testata del percorso a sottolineare l’assialità dell’intera composizione. In questa posizione è stata ricollocata l’antica vera del pozzo. Il rigore con cui è previsto il disegno ed i materiali della corte d’onore dovrebbero mettere in grande risalto anche la finta architettura posta sul lato sinistro, concepita come virtuale prolungamento del porticato.

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Rilievo della facciata su via Santa Franca con la rappresentazione dell’originario ingresso cinquecentesco al palazzo

Proposta cromatica per il recupero della facciata neoclassica su via Santa Franca

166 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Planimetria del piano terreno Androne terreno con il cortile d’onore e il giardino sul fondo

Particolati dei capitelli della loggia durante il restauro

167 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Palazzo Cigala Fulgosi visto dal giardino

Il fronte con doppio loggiato verso il giardino

168 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Particolare della decorazione sopra la loggia del piano nobile

Decorazione della volta di una sala al piano nobile, XIX secolo

169 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Salone d’onore al piano nobile

Salone d’onore, particolare della cassettonatura lignea del XVI secolo e del sottostante fregio

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Salone d’onore al piano nobile: particolari del fregio dipinto, XX secolo

Salone d’onore, particolari delle mensole lignee del soffitto cassettonato

171 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Decorazioni di due sale al piano nobile , XIX secoolo

Decorazioni di due sale al piano nobile, particolari , XIX secolo

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Decorazione di una sala al piano nobile, XIX secolo

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Fonti

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Archivio di Stato, Parma (ASPr): Conventi e confraternite Fabbriche ducali e fortificazioni Governo Farnesiano, fabbriche ducali e fortificazioni Gridario Mappe disegni Mastro farnesiano.

Archivio di Stato, Piacenza (ASPc): Allegazioni in cause Alloggi militari Archivio Anguissola di Vigolzone Archivio Arcelli di Corticelli Archivio Baldini Radini Tedeschi Archivio Barattieri di S. Pietro in Cerro Archivio Casati Rollieri Archivio Cigala Fulgosi Archivio Mancassola Pusterla Archivio Marazzani Visconti Terzi Archivio Nicelli Archivio Douglas Scotti di Fombio e Sarmato Atti consortili e registri archiviati Carte e manoscritti di storici ed eruditi piacentini, Raccolta Crescio, Cerri, Pancotti del Collegio Morigi Catasto ducale Catasto della provincia di Piacenza, Terreni, mappe Collegio dei mercanti e paratici Concessioni edilizie Congregazione sopra l’ornato Culto Fabbriche, acque e strade, concessioni edilizie Lettere di Governo Lettere Ducali alla Comunità Mappe e disegni Pio Ritiro Santa Chiara

Biblioteca Comunale Passerini Landi, Piacenza (BCPc): Indice delle parrocchie e delle case di Piacenza, Ms. Pallastrelli 263 R. della Somaglia, Li Cinque Ordini di architettura, Ms. Comunale 346.13. Notizie delle chiese di Piacenza, Ms. Comunale 212 Notizia delle famiglie nobili titolate e non titolate di Piacenza, 1792, Ms. Pallastrelli 172

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174 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

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175 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

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176 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

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177 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

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Sciolla, V. Terraroli, Bergamo 1995, pp. 45-54 Matteucci 1997 - A.M. Matteucci, I Galli Bibiena nell’architettura del Settecento, in I Galli Bibiena. Una dinastia di architetti e scenografi, Atti del Convegno (Bibiena, 26-27 maggio 1995) a cura di D. Lenzi, Arezzo 1997, pp. 35-53 Matteucci 2000 - A.M. Matteucci, I Bibiena e l’architettura tardo barocca, in I Bibiena, una famiglia europea, cat. mostra a cura di D. Lenzi, J. Bentini, Venezia 2000, pp. 53-68 Matteucci 2003 - A. Maria Matteucci, Bologna città di palazzi, in Il sistema delle residenze nobiliari. Stato Pontificio e Granducato di Toscana (Atlante tematico del barocco in Italia), a cura di M. Bevilacqua, M. L. Madonna, Roma 2003, pp. 235-242 Matteucci 2007- Architettura in Emilia tra Settecento e inizi Ottocento in Un nuovo teatro applauditissimo. Lotario Tomba architetto e il Teatro Municipale di Piacenza, Atti della Giornata di studi (Piacenza, Cappella di Palazzo Farnese, 4 dicembre 2004), a cura di G. Ricci e V. Anelli, Piacenza, 2007, pp. 45-65 Matteucci 2008 - Scale del Bibiena a Piacenza, in Premio “Piero Gazzola” per il restauro dei palazzi piacentini, Palazzo Peveri Fontana, a cura di A. Còccioli Mastroviti, Piacenza 2008, pp. 22-26. Matteucci 2012 - “Antonio di Vincenzo a San Petronio. Principe dell’architettura bolognese”, “Portici, scaloni e palazzi da monarca. L’originalità dell’architettura barocca bolognese”, “Nemo Propheta in Patria. Pelagio Palagi, l’eccellente trascurato”, in Da Bononia a Bologna. Percorsi nell’arte bolognese: 189 a.C. - 2011, a cura di G. Pellinghelli del Monticello, Torino 2012, pp. 63-66, 270-277, 341-345. Migliorini 1997 - S. Migliorini, La chiesa di S. Alessandro a Piacenza e il “rettifilo di contrada S. Raimondo”, in “Strenna Piacentina” 1997 Mocarelli 2008 - L. Mocarelli, Alla ricerca di un nuovo equilibrio: l’economia piacentina in età farnesiana, in Storia economica e sociale di Piacenza e del suo territorio. I L’età farnesiana (1545-1732), a cura di L. Mocarelli, Piacenza 2008, pp.5-25 Molossi 1832-1834 - L. Molossi, Vocabolario topografico dei Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, Parma 1832-1834 Morsia 2000 - D. Morsia, La vita religiosa nel Settecento, in Storia di Piacenza. Dai Farnese ai Borbone 1545-1802, t.II, Piacenza 2000, pp. 811-845 Nasalli Rocca 1904 - E. Nasalli Rocca, in Indicatore ecclesiastico, 1904, pp. CLXII-CLXIV Nasalli Rocca 1909 - G. Nasalli Rocca, Per le vie di Piacenza, Piacenza 1909 Nasalli Rocca 1965 - E. Nasalli Rocca, Notizie documentarie su alcuni aspetti dell’urbanistica piacentina e sulla sua regolamentazione nel sec. XVI, in “Bollettino Storico Piacentino”, 1965, pp. 23-32 Ottolenghi 1969 - E. Ottolenghi, Storia di Piacenza dalle origini sino all’anno 1918, Piacenza 1969 Perin 1999 - A. Perin, Palazzi di Casale, in Da Musso a Guala, cat. a cura di G. Romano, C. Spantigati, Casale Monferrato 1999, pp. 83-95 Perin 1995 - A. Perin, Le residenze dei marchesi Mossi nel casalese, in L’uso dello spazio privato nell’età dell’Illuminismo, Atti del Convegno (Firenze, 9-11 giugno 1994), a cura di G. Simoncini, Firenze 1995, pp. 127-139 Pettorelli 1924 - A. Pettorelli, L’Oratorio delle Teresiane, in “Bollettino Storico Piacentino”, 1924, pp. 97-98. Pigozzi 1991 - M. Pigozzi, Architettura d’acqua in Piacenza dal Rinascimento all’Ottocento, in M. Pigozzi, A. Cóccioli Mastroviti, Architettura d’acqua in Piacenza, Secoli XVI-XIX, Piacenza 1991, pp. 11- 27 Pigozzi 1993 - M. Pigozzi, Otto progetti per l’Immacolata Concezione di Piacenza, in “Il disegno di architettura”, n. 8, novembre 1993, pp. 61-63. Pigozzi 1999 - M. Pigozzi, le piazze di Piacenza nel Rinascimento, in Piacenza, La città e le piazze, a cura di M. Spigaroli, Piacenza1999, pp.94 ss. Pigozzi 2007 - M.Pigozzi, Palazzo Farnese a Piacenza, in Emilia Romagna rinascimentale, a cura di Fabrizio Lollini, Milano 2007, pp. 143-150 Pigozzi 2015 - M. Pigozzi, Arte e scienza conciliabili a Bologna nel secolo XVII, in Prospettiva, colore e luce nell’illusionismo architettonico. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Atti del Convegno internazionale (Firenze- Montepulciano, 9-11 giugno 2011), a cura di S. Bertocci, F. Farneti, Roma 2015 Piva 1994 - P. Piva, La cattedrale di Piacenza nell’alto Medioevo (dalla documentazione storica al mito storiografico e ritorno), in “Bollettino Storico Piacentino” 1994 Poggiali 1757-1766 - C. Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, 12 voll., Piacenza 1757-1766 Poleggi 1987- E. Poleggi, La strada dei “signori” Balbi, in Il Palazzo dell’Università di Genova. Il Collegio dei Gesuiti nella Strada dei Balbi, Genova 1987 Poleggi 1992 - E. Poleggi, Dalle mura ai saloni, un rinnovo segreto, in Genova nell’età Barocca, a cura di E. Gavazza, G. Rotondi Terminiello, cat. mostra di Genova, Bologna 1992, pp. 18 - 28 Poli 1997 - V. Poli, Attività edilizia e disciplina urbanistica nel periodo farnesiano-borbonico, in “Strenna Piacentina” 1997, pp. 35-49 Poli 1997a - V. Poli, Piacenza nel rilevamento del 1737 della congregazione degli alloggi militari, in “Archivio Storico per le prov. Parmensi” 1997, pp. 113-142 Poli 1998 - V. Poli, Proprietà immobiliare e nobiltà titolata a Piacenza nel 1737, “Strenna Piacentina” 1998, pp. 75-86 Poli 1999 - V. Poli, Le associazioni del nuovo palazzo dell’agricoltura, Piacenza 1999 Poli 1999a - V. Poli, Proprietà immobiliare ecclesiastica nel rilevamento del 1737, “Strenna Piacentina” 1999, pp. 50-66 Poli 2000 - V. Poli, Attività edilizia e disciplina urbanistica a Piacenza agli inizi del XIX secolo, “Strenna Piacentina” 2000, pp. 168-170 Poli 2000a - V. Poli, Urbanistica-storia urbana-architettura, in Storia di Piacenza: dai Farnese ai Borbone (1545-1802), t.II, Piacenza 2000 Poli 2004 - V. Poli, Modernità e tradizione nell’architettura a Piacenza (1900-1940), Piacenza 2004

178 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Poli 2005 - V. Poli, Romanico e gotico nell’architettura medioevale a Piacenza (997-1447), Piacenza 2005 Poli 2007 - V. Poli, Rinascimento nell’architettura a Piacenza (1447-1545), Piacenza 2007 Poli 2009 - V. Poli, Residenza e città: le dinamiche insediative e la storia urbana di Piacenza, in F. Achilli, D. Fanzini, V. Poli, C. Raschiani, Popolare la città. 100 anni di case popolari a Piacenza, Milano 2009 pp. 97-106 Poli 2010 - V. Poli, Il patrimonio architettonico ecclesiastico urbano nel XIX secolo: riconversioni, nuove costruzioni e restauri, “Bollettino Storico Piacentino”, 2010, fasc. 1, pp. 3-31 Poli 2011 - V. Poli, Classicismo e anticlassicismo nell’architettura dell’età della maniera a Piacenza (1545-1620), Piacenza 2011 Poli 2015 - V. Poli, Città e residenza urbana a Piacenza: il caso di palazzo Cavazzi della Somaglia, in Palazzo Cavazzi della Somaglia, a cura di V. Poli, Piacenza 2015, pp. 5- 43 Poli 2015 a - V. Poli, La città di Piacenza e l’architettura religiosa scomparsa, Piacenza 2015. Ponzini 1999 - D. Ponzini, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa, in: Storia di Piacenza: dai Farnese ai Borbone (1545-1802), Piacenza 1999 (Tomo I) Racine 1997- P. Racine, Ubertino Landi et Alberto Scoto, Piacenza 1997 Raccolta di leggi 1807 - Raccolta di leggi, decreti e rispettivi atti di pubblicazione per gli stati di Parma e Piacenza dopo il primo luglio 1805 sotto l’Impero Francese, III, Piacenza 1807 Ricci 1966 - G. Ricci, Povertà, vergogna, superbia. I declassati fra Medioevo e Età moderna, Bologna 1966 Ricci, Anelli 2007 - Un nuovo teatro applauditissimo. Lotario Tomba architetto e il teatro Municipale di Piacenza, Atti della giornata di studi (Piacenza,4 dicembre 2004), a cura di G. Ricci, V. Anelli, Piacenza 2007 Riva 1997- A. Riva, La Biblioteca Capitolare di S. Antonino di Piacenza (secoli XII-XV), Piacenza 1997 Riva 2003 - A. Riva, L’archivio Anguissola di Vigolzone nell’Archivio di Stato di Piacenza (con una nota su alcuni archivisti operanti a Piacenza nel secolo XVIII, in “Bollettino Storico Piacentino”, 98, 2003, pp. 117-140 Romani 1969 - M. A. Romani, La gente, le occupazioni e i redditi del piacentino. Da un estimo della fine del secolo XVI, Parma 1969 Romani 1978 - M.A. Romani, Le corti farnesiane di Parma e Piacenza (1545-1622). Potere e società nello stato farnesiano, Roma 1978 Romani 1983 - M. A. Romani, La carestia del 1590-93 nei ducati padani: crisi congiunturale e/o crisi di struttura?, in Studi in Onore di Gino Barbieri. Problemi e metodi di storia economica, Pisa 1983, pp. 1305-1323 Romani 1993 – M.A. Romani, La finanza pubblica dei ducati padani in tempo di carestia (c. 1590-1593), in La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. di Vittorio, Bari 1993, pp. 127-140 Romby 1989 - G.C. Romby, La costruzione dell’architettura nel cinquecento. 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Siboni, Le antiche chiese, monasteri e ospedali della città di Piacenza. (Aperte, chiuse, scomparse), Piacenza 1986 Simoncini 1990 - G. Simoncini, “Roma restaurata”. Rinnovamento urbano al tempo di Sisto V, Firenze 1990 Simoncini 1995 - G. Simoncini, L’uso dello spazio privato nell’età dell’Illuminismo, 2 voll., Firenze 1995 Società e cultura nella Piacenza del Settecento 1979 - Società e cultura nella Piacenza del Settecento, catalogo della mostra (Piacenza, ottobre-novembre 1979), 7 voll., Piacenza 1979 Società e cultura nella Piacenza del Settecento 1979a - Società e cultura nella Piacenza del Settecento, catalogo della mostra (Piacenza, ottobre-novembre 1979), II, Architettura, decorazione, scenografia, Piacenza 1979 Soldini 1991 - N. Soldini, Strategie del dominio: la cittadella nuova di Piacenza (1545-1556), in «Bollettino Storico Piacentino», LXXXVI, 1991, pp. 11-69 Spagnoli 2008 - L. Spagnoli, Storia dell’urbanistica moderna. Dal Rinascimento all’età delle Rivoluzioni (1400-1815), Bologna 2008. Spagnoli 2012 - L. Spagnoli, Storia dell’urbanistica moderna. Dall’età della borghesia alla globalizzazione (1815-2010), Bologna 2012 Spigaroli 1980 - M. Spigaroli, L’urbanistica, in Storia di Piacenza. Vol. V. L’Ottocento, Piacenza 1980, pp. 570-609 Spigaroli 1999 - Piacenza. La città e le piazze, a cura di M. Spigaroli, Piacenza 1999 Statuta et decreta antiqua civitatis Placentiae 1560 - Statuta et decreta antiqua civitatis Placentiae, Brescia 1560 Storia economica e sociale di Piacenza e del suo territorio. I L’età farnesiana (1545-1732), a cura di L. Mocarelli, Piacenza 2008 Stradario piacentino 1919 - Stradario piacentino. Elenco ragionato di tutte le vie, piazze e porte della città di Piacenza con notizie storiche intorno alla costruzione, alle vicende, ai nomi delle stesse, Piacenza 1919 Subacchi 1996 - P. Subacchi, La ruota della fortuna. Arricchimento e promozione sociale in una città padana in età moderna, Milano 1996 Summer 1989 – L. Summer, Materiali per le fabbriche piacentine provenienti dal bacino del Verbano, in «Archivio storico per le province Parmensi», serie IV, XLI, 1989, pp. 311-371 Summer 2005 – L. Summer, I cortili porticati a Piacenza, in Cose piacentine d’arte offerte a Ferdinando Arisi, a cura di V. Anelli, Piacenza 2005, pp. 77-98 Tanzi 2013 – A. Tanzi, Scenografie di scale nella Piacenza farnesiana e oltre. Scale del Rinascimento, in «Hevelius’ webzine», marzo 2013 Tanzi 2013a – A. Tanzi, Scale del secondo Cinquecento, in «Hevelius’ webzine», marzo 2013

179 Premio “Piero Gazzola” 2006-2015

Tanzi 2013b – A. Tanzi, Scaloni: “grandi macchine” per salire dall’età barocca a quella tardobarocca, in «Hevelius’ webzine», giugno 2013 Tanzi 2013c – A. Tanzi, Scaloni dell’età neoclassica, in «Hevelius’ webzine», settembre 2013 Tanzi 2014 – A. Tanzi, Palazzo Casati e l’architettura nobiliare a Piacenza in età farnesiana, in «Bollettino Storico Piacentino», fasc.2, 2014, pp. 193-236 Vignola e i Farnese 2003 - Vignola e i Farnese, Atti del convegno internazionale (Piacenza 18-20 aprile 2002), a cura di C.L. Frommel, M. Ricci, R. Tuttle, Piacenza 2003 Villa 1862 - A. F. Villa, Cronaca, in Monumenta Historica, Parma 1862 Visioli 1997 - M. Visioli, Piacenza in età napoleonica: evoluzione del tessuto urbano e riuso del patrimonio edilizio, in “Bollettino Storico Piacentino”, fasc.2, 1997, pp. 241-283 Zambarbieri 2010 – A. Zambarbieri, Il Settecento, in Storia della Diocesi, a cura di P. Vismara, Brescia 2010, pp. 103-138

In corso di stampa V. Poli, Teoria e prassi nei cantieri di architettura militare del XVI secolo: il contributo piacentino, “Archivio Storico per le province Parmensi”

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ISBN 9788890459627