Torino Ensemble Modern Teatro Astra Franck Ollu direttore

Domenica 21.IX.08 George Benjamin ore 21 Into the Little Hill

George Benjamin (1960)

Viola, Viola, per due viole (1997)

Three Miniatures, per violino (2002) A Lullaby for Lalit A Canon for Sally, Lauer Lied

Into the Little Hill (2006) Testo di Martin Crimp

Commissionata da Festival d’Automne à Paris con Fondation pour la Musique Ernst von Siemens, Opéra National de Paris, Ensemble Modern con Fondazione Forberg-Schneider

Coproduzione di Festival d’Automne à Paris, Opéra National de Paris, Ensemble Modern, T&M, Oper Frankfurt, Lincoln Center Festival, Wienerfestwochen, Holland Festival, Liverpool, Capitale Europea della Cultura 2008

Ensemble Modern Franck Ollu, direttore Jagdish Mistry, violino Geneviève Strosser, Garth Knox, viole Anu Komsi, Hilary Summers, contralto

Daniel Jeanneteau, scenografia e messa in scena Marie-Christine Soma, collaborazione artistica e luci Olga Karpinsky, costumi

Videoimpaginazione e stampa • la fotocomposizione - Torino Nastri di magnesio

In un testo scritto per la musica manca per forza qualcosa, e quello che manca è la musica. La scrittura è come una spugna che, senza disintegrarsi, deve lasciar pene- trare la musica. George e io, quando ci siamo incontrati la prima volta e abbiamo parlato (lui mi ha consigliato di ascoltare Hilary Summers che cantava Boulez – io gli ho passato un pezzo di Nick Cave...), abbiamo anche discusso di cinema e mi è sembrato che scri- vere un libretto potesse essere come scrivere un romanzo “dimenticato” – un libro tipo Entre les Morts di Boileau e Narcejac per esempio, del quale si ricorda solo che è stato superbamente trasformato in film da Alfred Hitchcock con La donna che visse due volte (film nel quale la musica di Bernard Hermann, giustamente, ha un ruolo fondamentale). Il romanzo “esigeva” il film per raggiungere la completezza. Come del resto il dramma Pélléas et Mélisande di Maeterlinck (secondo me) svela tutto il suo valore solo come libretto per Claude Debussy. Il libretto non deve attirare l’attenzione su di sé. Orizzontalmente, deve raccontare una storia chiara. Verticalmente, ha bisogno di penetrare in profondità. E, al con- trario di un dramma, un testo scritto per la musica può talvolta permettersi di resta- re immobile, mentre la musica, per lenta che sia, è sempre in movimento (dal punto di vista drammatico, le Passioni di Bach raggiungono il loro obiettivo grazie alla “non-narrazione” delle arie, perché sono loro che ci seducono). Da bambino ero affascinato dagli esperimenti di chimica e ho sempre rimpianto di aver dovuto scegliere tra la “Scienza” e le “Arti”. Mi piaceva soprattutto il nastro di magnesio. Si tratta di un metallo grigio, smorto e inoffensivo che si presenta sotto forma di serpentina striata. Ma quando lo si accende, specialmente in un ambien- te costituito da ossigeno puro, brucia sprigionando un’intensa luce bianca. Il mio compito è stato cercare di fabbricare questo metallo. Quello, molto più arduo, del compositore, di aggiungervi l’ossigeno per farlo fiammeggiare.

Martin Crimp

George Benjamin. L’assoluto della scrittura

Presto riconosciuto come musicista d’eccezione – Messiaen, che fu suo professore quando aveva sedici anni, non esitò a paragonarlo al giovane Mozart – George Benjamin occupa un posto a parte nel contesto della musica contemporanea. Dopo i debutti strepitosi, dove la maestria della scrittura orchestrale e la forza poetica dell’immaginazione abbagliarono, si è ritirato in se stesso lavorando a una ricerca dell’assoluto, che l’ha portato a una sorta di ascesi e a un’ostinata ricerca stilistica. Dopo due pezzi giovanili già molto riusciti, una Sonata per pia- noforte e un Ottetto (1978), ha prodotto colpo su colpo, tra il 1980 e il 1982, tre capolavori che testimoniano una maturità precoce, Ringed by the Flat Horizon, A Mind of Winter e At First Light (lavori che evocano immagini poetiche di Eliot, Stevens e Turner); poi impiegherà più di dieci anni per scrivere i tre grandi pezzi seguenti, Antara, Upon Silence e Sudden Time, legati a temi più astratti e meno immediatamente seducenti. Per George Benjamin l’assoluto arriva con la scrittura. È in essa che si intrecciano le complesse relazioni tra la sua prodigiosa immaginazione armonica, che tende a fare della sonorità un elemento a sé stante, una pura presenza, e la preoccupa- zione di una scrittura polifonica in cui le voci intrecciate, i diversi strati tempo- rali creano relazioni organiche e una continuità formale dinamica (l’insegna- mento di Alexander Goehr, nella linea di Schönberg, ha così portato a compi- mento quello di Messiaen). Ma se per George Benjamin l’armonia, considerata come questione centrale della musica del XX secolo, gli fu offerta come un dono – sviluppato con accanimento da un’esplorazione sistematica di migliaia di con- figurazioni in tutte le posizioni possibili – la linearità polifonica è stata una con- quista faticosamente raggiunta, lo sforzo di trasformare in una forma fluida e multipla delle sonorità di irradiante bellezza. Benjamin è rimasto fedele ai valori del mestiere, alle nozioni che, dalla seconda guerra mondiale, sono state sommerse da ondate successive. La sua scrittura si basa sulla nota e le sue molteplici combinazioni, piuttosto che su sonorità e strut- ture complesse che le annullerebbero in quanto tali; allo stesso modo ha mante- nuto l’articolazione di verticale e di orizzontale, con l’attenzione per la melodia che ne deriva, nonché la forma come narrazione, con i suoi sviluppi necessari e imprevedibili. L’espressione della sua musica restaura quella sovranità di un sog- getto che era stata messa in crisi dal pensiero strutturalista e post-strutturalista, che ha dominato la modernità artistica del dopoguerra; essa si sottrae alle tenta- zioni “neo” che le si erigevano contro. Per Benjamin superare le aporie seriali non significava rimettere in gioco l’idea del materiale, il quadro stesso del pensiero musicale, bensì risolvere certi proble- mi. Nel suo cammino Benjamin si è tenuto lontano dalle decostruzioni di Lachenmann e dalle saturazioni di Ferneyhough, come d’altronde dalle tecniche bouleziane, senza dubbio troppo vicine e pericolose per lui. Le sue idee sono direttamente legate alla realtà sonora, alla fatica della scrittura, e non poste a priori; esse sono determinate da un’ipersensibilità al fenomeno sonoro, per la quale un fugace alone armonico al di sopra di una linea melodica, o una leggera oscillazione su una nota, suscitano un’intensità di emozioni che in altri compo- sitori richiederebbe un gesto imponente, un brusco cambiamento di , uno shock. È per questo che a prima vista le sue opere conservano qualcosa di classico. Ma la bellezza che ne emana, troppo vicina a ciò che abitualmente si intende con questa parola, vela una trama interiore che è di natura più inquietante. Dietro la minuzia quasi maniacale della scrittura, il gusto del dettaglio e della precisione, si celano gesti ampi, lirici e violenti, sonorità talvolta dure e crudeli. Dal che emerge un equilibrio molto personale tra frammentazione e fluidità, momenti di estasi e di deflagrazione, un gioco imprevedibile basato su aspettative sempre diverse, ma ricche di felicità passeggere che assumono l’aspetto di un polverio luminoso. È proprio questa dialettica del momento cesellato nella sua perfezione – ogni sonorità è controllata, ogni “accordo” suona a meraviglia – e di un movi- mento impetuoso, esuberante, legato alla struttura polifonica (accumulazioni sot- terranee e deflagrazioni improvvise) che genera il mistero affascinante di questa musica. Non la si può cogliere nella sua totalità perché solo attraverso le sue metamorfosi assume un significato; inoltre la sua trasparenza, un’alchimia rara, non è che apparenza rispetto a processi temporali sotterranei e misteriosi. La complessità consiste in questa inafferrabile ricchezza che l’orecchio interno del compositore capta al di là degli schemi razionali di accumulazione e di calcolo, lontano dai processi derivanti dalle strutture precompositive o dai sistemi, e che mira a restaurare la potenza del poetico. È immergendosi nelle partiture che si coglie completamente la portata e la forza, e che si comprende, attraverso le abili inflessioni della scrittura o la volatilità delle sonorità, fino a che punto esse esprimono qualcosa di tormentato e di visio- nario. La musica di Benjamin non facilita il compito del critico, perché si concede tra- mite la sua stessa strutturazione, e solo così; essa si manifesta nella tensione di una forma che si costruisce nota su nota. È una musica pura. Ed esige un orec- chio sensibilissimo, capace di cogliere sia le relazioni tra i suoni sia la loro aura, quel mondo interiore dove la fantasia dell’infanzia, il suo senso del meraviglioso e del terrificante, si uniscono a una coscienza affinata per la quale ogni nota, ogni segno, ogni momento possiedono un significato pieno e sconvolgente.

Il cammino di George Benjamin

«Sii ciò che divieni!». L’ingiunzione, che rovescia la nota formula di Nietzsche, potrebbe applicarsi all’opera benjaminiana colta nel movimento della sua evoluzio- ne. Pochi compositori infatti, dopo una serie di opere già riuscite che hanno rac- colto un consenso quasi generale, trovano il coraggio di rimettersi in discussione. La ricerca dell’essenza stessa del musicale e dell’organicità, la considerazione della dimensione storica del materiale, i cui segni più evidenti sono l’attenzione per un’armonia funzionale e una scrittura contrappuntistica rinnovata, al di là della facciata brillante e iridata delle prime opere, spiegano il significativo rallentamen- to del suo ritmo di produzione dopo l’esplosione creativa degli esordi (tra il 1979 e il 1982: Sonata per pianoforte, Ottetto, Ringed by the Flat Horizon, A Mind of Win- ter, At First Light).

Armonie luminose

At First Light conclude la prima fase creativa di Benjamin. Il pezzo, che scatenò un coro unanime di lodi, fu scritto per la London Sinfonietta che lo eseguì sotto la dire- zione di Simon Rattle nel novembre 1982. È il lavoro di un compositore di venti- due anni dotato di mezzi eccezionali. Scritto per quel tipo di formazione cameri- stica introdotto da Schönberg con la Kammersinfonie op. 9 (1906), che consisteva in un ridimensionamento della grande orchestra ridotta a un gruppo di solisti (in questo caso, quintetto di fiati, corno, tromba, , piano/celesta, due per- cussioni e quintetto d’archi), il pezzo si ispira a un quadro di Turner, Norham Castle Sunrise, esposto alla Tate Gallery di Londra. In questo quadro, esemplare della fase pre-impressionistica dell’autore, la struttura non viene più dal disegno propria- mente detto, ma da una diffrazione dello spettro luminoso, che crea un vago e quasi irreale mélange, e degli impasti intrecciati di colori, in uno stato di liquidità e fusio- ne della materia. Si può azzardare un’analogia tra questa immagine e l’opera del compositore, sebbene, come nel caso di Debussy, è la pittura a tradurre una ricer- ca musicale, essendo l’elemento naturale il simbolo e non il pretesto di un’idea musicale che non si appoggia più su criteri tradizionali. Si potrebbe anche invoca- re, accanto a quella di Debussy, l’influenza intrecciata di Scriabin, con la sua ricer- ca di equivalenza tra suono e colore, di Schönberg, col famoso pezzo centrale del- l’opera 16, il cui titolo evocatore è Farben (Colori), o di Messiaen, con le sue sine- stesie suoni-colori. Indubbiamente l’opera deve a ciascuno di questi illustri prede- cessori l’atmosfera appassionatamente estatica e la ricerca di strutturazione della forma a partire dalle sonorità in quanto tali (per Benjamin le sonorità sono una fusione della struttura armonica e dei timbri). La prima parte, molto breve, introduce d’emblée la dialettica su cui si basa l’ope- ra, quella di una relazione mutevole tra tessiture indefinite e suoni brillanti, di una chiarezza accecante (la tromba piccola su una delle sue note più sonore). Dia- lettica che si arricchisce di un gioco tra accordi pieni e ornamentazioni virtuosi- stiche, strutture di suoni complesse e profili melodici autonomi (tromba e oboe), conducendo, dal punto di vista formale, verso un’opposizione tra momenti stati- ci e momenti dinamici, all’interno di un’autentica drammaturgia del fenomeno sonoro. Ne scaturisce un tono incantatorio che ricorda Varèse, quelle fissazioni su una nota o un intervallo, quelle ripetizioni melodiche, quegli appelli sonori che sembrano venire da un mondo arcaico. È uno degli aspetti più affascinanti di que- sto pezzo nel quale si percepisce la presa di possesso di un territorio: l’integra- zione di gesti semplici, rozzi e imperativi all’interno di una scrittura raffinata, colorata e sensibile, come se la violenza gestuale della Sagra della primavera venisse resa dall’orchestra dell’Uccello di fuoco. Se la seconda parte di At First Light, costruita in maniera quasi simmetrica, inizia dopo un lungo silenzio nel quale ancora echeggiano le opposizioni sonore del primo movimento, la terza parte, con la sua insistenza piena di dolcezza sulla terza minore colorata da cop- pie di strumenti diversi, è incatenata alla seconda da un silenzio composto. Ha l’aspetto di una trasfigurazione, soprattutto per la ripresa di elementi precedenti in un’ottica nuova; costruita come un crescendo, si conclude in zampilli di luce. Benjamin fa suonare il piccolo gruppo con la pienezza e la ricchezza degne di una grande orchestra, grazie alla scelta giudiziosa degli intervalli, degli accordi e della loro disposizione nello spazio; grazie anche a mescolanze originali, all’utilizzo delle percussioni, del pianoforte e della celesta oltre che a suoni-pedali. Gli asso- lo sfruttano i registri estremi, come nel sorprendente duo dell’ottavino nel regi- stro grave e del contrabbasso in quello acuto al centro del secondo movimento. La straordinaria morbidezza della scrittura strumentale si inserisce infine in un ritmo armonico fluttuante nel quale l’ascoltatore è ora immerso nel suono, ora trascinato nel suo flusso irresistibile, metafora possibile per un’arte della compo- sizione che mira all’interazione tra momenti estatici, ove zampillano forze indo- mite, e momenti dinamici pienamente controllati.

Oscure invenzioni

Three Inventions, commissionato da Betty Freeman per il settantacinquesimo anni- versario del festival di Salisburgo, ed eseguito sotto la direzione del compositore dall’Ensemble Modern nel luglio 1995, è affidato a un ensemble allargato rispetto a quello di At First Light: sette legni, quattro ottoni, arpa, pianoforte e due percus- sioni, nove archi. Si potrebbe pensare che passando da quattordici a ventiquattro esecutori, Benjamin abbia cercato un suono di maggiore ampiezza. Tuttavia il com- positore non cerca più la fusione sonora, l’effetto di masse colorate, un’armonia- timbro sensuale; lavora invece sulla sovrapposizione di strati sonori trattati polifo- nicamente. La sonorità nasce dalla scrittura, più particolarmente da successioni melodiche che formano armonie latenti o manifeste. Queste talora adottano una struttura diatonica che, all’inizio dell’opera, produce un colore chiaro, quasi bian- co, una sensazione di leggerezza e di serenità rafforzata dalla scrittura in suoni pun- genti e dalla strumentazione scelta (pianoforte solo, arpa, vibrafoni, pizzicati degli archi). Le immagini che appaiono progressivamente ampliano la fragile tessitura, ma nel momento in cui la musica pare voler cambiare carattere, il flicorno svilup- pa un assolo dove vengono riprese le note iniziali, diversamente distribuite. Il secondo movimento, che inizia con il corno inglese, introduce opposizioni di carattere segnate da una scala dinamica in cresta e da una scrittura cromatica più spiccata, che prende veramente forma con l’intervento delle viole. Ma è soprat- tutto l’articolazione ritmica a caratterizzare la seconda parte: il movimento è vivace, le accentuazioni irregolari, i disegni melodici incisivi e spigolosi. Questa musica nervosa sbocca in una scrittura degli archi che suonano come una gigan- tesca chitarra, rinforzati dall’arpa e dal pianoforte, che accompagnano un cre- scendo drammatico di strati indipendenti che si sovrappongono, fino a un asso- lo trionfale del clarinetto che ristabilisce una certa unità. In questa danza imma- ginaria la scrittura secca può sembrare una reinterpretazione della sonorità pun- tillistica dell’inizio dell’opera. La fine del movimento è brusca, come in ogni parte dell’opera. Dalla sonorità cupa dell’inizio del terzo pezzo (controfagotto in funzione melo- dica, trombone e archi gravi discendenti, sonorità di gong rafforzata, come per una campana), si capisce che l’opera segue una progressione drammatica e che la seconda parte aveva la funzione di condurre alla soglia di un nuovo stato della materia e dell’espressione. Del resto i tre pezzi sono di lunghezza crescente, come a confermare l’idea che è il finale a dare senso all’opera nella sua interezza. Il terzo pezzo riprende l’idea di un’accelerazione e di una tensione crescenti, ma l’evento atteso, il passaggio a un’altra dimensione, qui si intride di catastrofe. Se le strutture diatoniche sono ancora presenti, è sullo sfondo, essendo la parte ante- riore della scena occupata dai tratti rapidi degli archi, più cromatici, autentiche colate di lava, oppure flusso interiore misterioso e minaccioso dal quale scaturi- sce un’armonia straziante. Sarebbe necessaria una descrizione dettagliata per spiegare la densità formale ed espressiva di questo pezzo, costruito in maniera implacabile, come una scalata in più tappe fino a una conclusione apocalittica realizzata col colpo brutale dei due bass drums gravi. Vi si ritrova una potenza di espressione noir che tende costantemente agli estremi, una forma di espressioni- smo ove tornano certe atmosfere di Ringed by the Flat Horizon, come se la tessi- tura polifonica, sottoposta a una pressione estrema, e tuttavia costretta dalla sua stessa legge interiore, nello spirito di una diabolica ciaccona, arrivasse al limite dell’implosione. Passato lo sgomento, ci si meraviglia che una tale progressione del suono e dell’espressione sia stata possibile con un ensemble ridotto e in un tempo così breve. L’impressione nasce anche dai momenti contrastanti, tra i quali una pagina di bellezza iridescente, affidata agli archi, prima dell’ultimo crescen- do drammatico: la visione di un mondo trascendente, ove l’assolo di violino sca- glia terze liriche verso un cielo profano, su uno sfondo di armoniche, raggiun- gendo un aldilà sensibile che ricava dal suo carattere effimero tutta la sua forza d’espressione. Three Inventions è una pietra miliare nella carriera di Benjamin, e nell’ampiezza del suo percorso – il passaggio imprevedibile dal candore iniziale alla drammaticità della fine – una delle opere più riuscite, un ritratto sorprendente dell’uomo e del compositore.

Un testo “cancellato”

Rispetto all’opera precedente, Palimpsests ci offre una nuova prospettiva. L’organi- co indica un ulteriore progresso nella concezione dell’ensemble, a metà strada tra il gruppo di solisti e l’orchestra sinfonica. Stavolta il compositore non si acconten- ta di un organico standard, sebbene allargato, ma crea il suo universo sonoro. Certi strumenti, i violoncelli, gli oboi e il fagotto spariscono (resta però un controfagot- to). La disposizione prevede cinque violini, tre viole e quattro contrabbassi sulla sinistra; quattro flauti, quattro clarinetti, un controfagotto e quattro altri contrab- bassi sulla destra; dietro, una prima fila con tre corni, quattro trombe, una tromba bassa, due tromboni e una tuba, e una seconda fila con tre percussioni. Il pianoforte e la celesta, dietro il gruppo degli archi, fanno pendant con le due arpe piazzate die- tro il gruppo dei fiati. Rispetto alle due opere precedenti, Palimpsests si allontana notevolmente dall’at- mosfera “impressionista” o “espressionista” grazie a una scrittura più austera e obiettiva. Non vi si trovano né le magiche riverberazioni sensuali dei timbri presi in se stessi, tipici di At First Light, né l’oscura polifonia e la drammatizzazione verso le quali tendevano le Three Inventions, bensì una ricerca di trasparenza e di rigore quasi formale, un lavoro di cesello, un gioco con l’idea puramente musi- cale. Resta naturalmente la bellezza armonica della scrittura, restano anche le metamorfosi a partire da un motivo iniziale, nonché la cura di legare tra di loro i movimenti, per differenti che possano apparire. Tutto inizia con una specie di canzone dei clarinetti che mescola diatonismo e cromatismo in modo tale che non se ne distingue la genealogia. La canzone costituisce la base di un vasto pro- cesso di trasformazioni e di sviluppi che si realizza in una scrittura polifonica su grande scala. Si comprende quindi che la scelta dell’organico è strettamente lega- ta al desiderio di chiarezza di questa polifonia, e meno al colore dei timbri che alla loro funzione. Se Benjamin riesce a fare intendere distintamente gli archi che, a prima vista, sembrano dover essere sommersi dalle forze che li circonda- no, è perché ogni gruppo di strumenti dispone di una scrittura specifica, come suggerisce la disposizione. La canzone diventa una fanfara di ottoni, paesaggio minaccioso entro il quale si dissolve in sonorità puntillistiche, mentre al di sotto proliferano immagini rapide, incisive, nervose che passeranno ai diversi gruppi e che talvolta si spaventano del loro stesso movimento. Fin dall’inizio ci sono accentazioni decise sotto forma di accordi massicci o di linee spezzate, in uno stile quasi carteriano, dalle quali cresce la tensione drammatica; infine il pia- noforte e le tastiere delle percussioni dispiegano figurazioni virtuosistiche, quasi lampi o missili sonori che conferiscono una certa lucentezza. Tutto il primo movimento potrebbe essere paragonato a una forma di ritornelli e couplets, con una sorprendente rottura quando, alla fine, il ritornello risuona ai violini in lon- tananza, a causa delle “sordine da hotel”, e poi in maniera scheletrica nelle per- cussioni strofinate. Interviene a questo punto una Coda inattesa, evocante la sonorità dell’inizio di Three Inventions, che introduce un’atmosfera onirica, con un suono di carillon che porta alla perorazione. Il secondo movimento riprende gli elementi del primo ma disposti diversamente, in un intrico complesso che sarebbe inutile descrivere con le parole. Quando un corno in sordina e uno senza dialogano sullo sfondo di armonici degli archi, si potrebbe pensare che il pezzo si concluderà con l’esaurimento del suono. Ma i pezzi di Benjamin si sottraggono sistematicamente a questi finali morenti diventati così convenzionali nella musi- ca contemporanea; così una Coda vivace riprende il materiale sotto un aspetto nuovo che l’accordo finale interrompe bruscamente. Dobbiamo pensare che un terzo movimento dovrebbe “cancellare” definitivamente la canzone iniziale, già coperta dalla densità del contrappunto nel secondo pezzo, lasciando che le raffi- gurazioni ritmiche e virtuosistiche del finale proliferino fino all’ebbrezza, fino alla trascendenza? Palimpsests è dedicato a Pierre Boulez che ne diresse la prima esecuzione con la London Symphony Orchestra, committente dell’opera, nel febbraio 2000 (il primo pezzo) e nell’ottobre 2000 (entrambi i pezzi). La danza

Dance Figures per orchestra, composto nel 2004 su commissione del Théâtre de La Monnaie per una coreografia di Anna Teresa de Keersmaeker, e parallelamente dalla Chicago Symphony Orchestra che ne diede la prima mondiale con la direzio- ne di Daniel Barenboim nel maggio 2005 e dal festival “Musica” di Strasburgo che ne propose la prima europea sotto la direzione del compositore nel settembre 2005, è un’opera che segna, per la composizione formale, una frattura con le precedenti. Abbandona infatti lo sviluppo organico su grande scala a vantaggio di una divisio- ne in nove parti brevi e fortemente caratterizzate. Esse si presentano come studi per orchestra, studi di carattere e di movimento, e come una riflessione sulla scrittura del balletto ove si percepiscono gli influssi di Debussy, Ravel e Stravinsky. La scrit- tura pare semplificata, senza che Benjamin rinunci minimamente alle sue geniali sonorità, e lascia emergere linee melodiche pure, talvolta ornate o sdoppiate al fine di conferire loro una sonorità arcaica, fintamente popolare, addirittura orientaliz- zante (come nel secondo pezzo). Queste linee si staccano dal sottofondo orchestra- le, come la viola nel quinto pezzo; oppure diversi gruppi di timbri si agglomerano, come nel terzo pezzo. La scrittura orchestrale oscilla tra le sonorità della musica da camera, come all’inizio con gli archi divisi, o nel terzo e nell’ottavo pezzo, e gli effetti massicci, che raggiungono un punto culminante nel “martellato” del sesto pezzo, ove si ritrova quella crudeltà che attraversa tutta l’opera di Benjamin e che produce, col suo superamento, la chiarezza antiromantica della scrittura. Il pezzo più drammatico è il quarto, con le sue opposizioni di sonorità e dinamiche, i suoi gesti dolci e brutali, la sua imprevedibilità. L’insieme di questo lavoro, che a un primo ascolto sembra di fattura quasi tradi- zionale, gioca sull’intervallo tra momenti individualizzati senza mediazione (seb- bene si percepiscano, sullo sfondo, elementi di interconnessione tra le diverse parti). Nell’impasto sonoro di Dance Figures, magnifica lezione di efficacia orche- strale, si ritrova un elemento centrale dello stile benjaminiano: quella gioia pura del suono, il piacere fisico delle armonie e dei ritmi, quella dimensione quasi tattile che già si percepiva nell’esuberanza della Sonata per pianoforte, scritta a diciotto anni, e che si ritrova in tutte le opere attraverso dispositivi differenti. Se le opere di Benja- min possiedono una grande densità di scrittura, condensando gesti ampi all’inter- no di durate modeste – e qui pensiamo alla non-pesantezza mozartiana – esse cer- cano anche di raccontare storie ricche di nuovi sviluppi con il solo aiuto delle note della scala. Pur nella sua struttura frammentata, Dance Figures possiede una dimensione narrativa che non ha nulla a che vedere con un qualsiasi programma o forma di rappresentazione. Quest’opera “di circostanza” potrebbe inaugurare una nuova maniera nel cammino del compositore, legata a progetti drammaturgici, e per la quale la logica narrativa propria delle opere di musica pura verrebbe annul- lata a vantaggio di una scrittura più frammentata, capace di adattarsi alle situazio- ni mutevoli della scena. Un ritorno quindi al fantastico del debutto dopo l’ascesi del periodo intermedio. Le miniature

Viola, Viola enuncia già dal titolo uno degli elementi centrali della composizione: il gioco di specchi tra i due strumenti realizzato dal passaggio costante delle stes- se note e delle stesse figurazioni da una viola all’altra. Benjamin ha dichiarato di aver pensato, mentre rifletteva sui problemi posti da questa formazione insolita suggerita da Takemitsu, all’immagine tradizionale della viola, alla sua «voce malinconica nascosta nell’ombra». Il risultato però, ha proseguito, è un pezzo dal carattere «fiero ed energico, che si è imposto da solo». Il fatto che ai due violisti venga affidato il medesimo materiale conduce a un’amplificazione naturale della sonorità, a un gioco di risonanze moltiplicate. E da questo scaturisce la potenza della proiezione sonora di questo duo giubilante. I motivi melodici sono punteg- giati da accordi spesso secchi e arricchiti di rapide figurazioni che sprigionano un’armonia potenziale. Fino alla metà il pezzo si sviluppa in maniera omogenea, raggiungendo un punto massimo di forza, dopo di che il materiale è più articola- to, più éclaté, e gioca su opposizioni di sonorità, di gesti e di espressioni. Sulla partitura si leggono indicazioni come molto energico, leggerissimo!, subito soste- nuto appassionato, wild!, feroce, con fuoco... L’ultima parte del pezzo è invece più dolce. Come in tutte le composizioni di Benjamin, la difficoltà della scrittura, che esige un grande virtuosismo, non oltrepassa mai la tecnica tradizionale e non ricorre né a sonorità deformate né a intonazioni anomale né a modalità esecutive atipiche. Sono solo note, si potrebbe dire; sì, ma che note! Il pezzo è stato commissionato dall’Opera di Tokyo quando ne era direttore il compositore Toru Takemitsu; la prima esecuzione con Yuri Bashmet e Nobuko Imai risale al settembre 1997. Three Miniatures per violino solo è del 2001 e fu eseguito in forma completa da Irvi- ne Arditti nel marzo 2002 (il primo dei tre pezzi era stato già interpretato da Jagdish Mistry in India). Sono tre piccoli pezzi pieni di tenerezza. Il primo è una ninnanan- na, A Lullaby for Lalit, e mostra in tutta semplicità come si può sviluppare un’intera frase a partire da uno stesso punto (in questo caso un do diesis), e quindi approdare a una trasfigurazione tramite gli armonici del violino. Il secondo, più ritmico ed ener- gico, è un canone, A Canon for Sally, giocato sulle reiterazioni sempre più serrate delle stesse note o accordi, scritto in ritmi dispari. L’ultimo, Lauer Lied, inizia con una sorta di accompagnamento immaginario, in pizzicato, dal quale nasce una semplice melo- dia accompagnata dagli stessi pizzicati, che finisce la sua corsa sulla nota più grave del violino (rendendo così onnipresente il do diesis iniziale...).

Philippe Albèra Lo strano straniero

Non capita spesso: con Into the Little Hill Martin Crimp ha dato a George Benja- min un testo che è allo stesso tempo per la musica (Text for Music, recita il sot- totitolo del suo singolare libretto) e sulla musica. Ecco infatti, dopo tante ver- sioni storiche, una nuova trasposizione dell’inesauribile leggenda del pifferaio magico di Hamelin, una favola sugli effetti della musica, la sua magia, la sua forza incantatrice e trascinante, ma anche sui suoi rapporti sempre ambivalenti con il potere. Martin Crimp si inserisce dunque in una lunga sequenza di adattamenti letterari e cinematografici. Viene dopo i fratelli Grimm, che inclusero il racconto nelle Deutsche Sagen; dopo Robert Browning, autore di un lungo poema epico intito- lato The Pied Piper of Hamelin; dopo Bertold Brecht e la sua Vera Storia dell’ac- calappiatore di topi di Hamelin; e dopo Marina Cvetaeva che usò questa trama narrativa per una “satira lirica” dalle risonanze politiche. Crimp tuttavia si ispi- ra più direttamente ad altre fonti meno note: ad Apollinaire, col suo Musicien de Saint-Merry, e ad antiche versioni inglesi come quella di Nathaniel Wanley del 1774, e quella ancora precedente di Richard Verstegen del 1605. È in quel primo adattamento inglese, all’alba del XVII secolo, che Martin Crimp ha trovato il dettaglio che dà il titolo all’opera: la piccola collina, the little hill. Cosa costituisce dunque la conturbante attualità di questo sorprendente libretto? E cosa resta di una favola che affonda le sue radici nel Medio Evo? Cosa soprav- vive del vecchio racconto, all’origine del quale alcuni hanno creduto di poter riconoscere una storia di bambini banditi a causa di una pestilenza, mentre altri vi vedono la trasfigurazione narrativa di un episodio di emigrazione collettiva? Il sindaco della città di Hamelin diventa qui un ministro. Un ministro tollerante, ecumenico, disposto persino ad accettare i topi della leggenda (che per la Cve- taeva erano rivoluzionari affamati, senza fede né legge), dal momento che essi sanno stare al loro posto. Ma la folla non è d’accordo. Dal ministro, in cambio del voto, pretende che elimini i topi, quella brulicante plebaglia che turba la sua tranquillità. Durante una notte insonne il ministro trova in casa sua, nella camera della sua bambina addormentata, lo strano straniero che non manca mai in tutte le ver- sioni storiche della leggenda. Stavolta però, non solo non è vestito di colori variopinti (bunt per i fratelli Grimm, pied per Browning), ma è anche privo di occhi, di naso e di orecchie; è praticamente senza faccia, senza gli organi dei sensi, colui che detiene il potere – o il contro-potere – di servirsi a suo piaci- mento dell’incantamento della musica. «La terra – dice in una frase che decu- plica la tradizionale forza della seduzione sonora – la terra ha la forma che le conferisce la mia musica». Come nella maggior parte delle varianti derivate dai fratelli Grimm, il singolare musicista stringe un patto con la politica: in cambio di una somma di denaro, libererà la città dai topi. Il garante della transazione è l’innocenza dell’infanzia, la figlia del ministro. In un dialogo commovente la bambina chiede ripetuta- mente, insistentemente: «Perché i topi devono morire, mamma?». La morte dei topi non si vede. È annunciata, descritta, ma mai rappresentata. Assume un carattere ossessivo col diniego del ministro: «Non c’è stato nessuno sterminio – dice al musicista privo degli organi dei sensi – hanno scelto di andarsene di loro volontà». In questo modo il politico vorrebbe cancellare il suo debito con la musica. Ma la musica esige quanto le è dovuto: «And music?» insiste lo straniero, come per chiamare all’appello un debito di coscienza rimosso. Le ultime battute tra la madre e la figlia, portata via per vendetta come tutti i bambini della città, arrivano da lontano come in un sogno ed evocano un mondo sotterraneo, sfuggito alla memoria; una specie di risvolto di questo mondo (il nostro) di cui nessuno vuole pagare il prezzo. «E più scaviamo – dice la bambina – più luminosa arde la musica». Ma chi può udirla?

Peter Szendy

Se desiderate commentare questo concerto, potete collegarvi al calendario presente sul sito www.mitosettembremusica.it dove è attivo uno spazio destinato ai commenti degli spettatori Intervista a George Benjamin (ottobre 2006)

Cosa l’ha spinta verso il genere oggi così problematico del teatro musicale? E quali sono i suoi principali riferimenti in questo campo? Ho sempre amato l’opera. Del resto le mie radici sono nel teatro, perché quando ero studente ho scritto e diretto molta musica di scena. Ho riflettuto a lungo sul pro- blema del teatro musicale e ho cercato mezzi, temi e testi senza mai trovare quel- lo che volevo. Non posso parlare di modelli veri e propri ma solo di opere che amo. Ai primi posti metto Pelléas et Mélisande, Wozzeck, Boris Godunov, Parsifal e Tri- stano, Kat’a Kabanova e Jenufa...

Nella sua lista mancano le opere dei due compositori che sono inevitabilmente pre- senti nella coscienza di ogni compositore britannico, Britten e Tippett... Britten è un notevole compositore per la scena e io amo soprattutto Billy Budd, e The Midsummer Marriage di Tippett è una riuscita eccellente.

Perché ha scelto la forma del teatro da camera piuttosto che quella dell’opera tra- dizionale? Prima di tutto per ragioni pratiche, legate all’idea di una tournée. Tuttavia non sono sicuro che l’opera funzioni al giorno d’oggi, nonostante esempi importanti come Saint François d’Assise di Messiaen o Le Grand Macabre di Ligeti. Con Martin Crimp abbiamo voluto fare qualcosa di più modesto e dare un’impressione di ampiezza partendo da mezzi limitati. Era una sfida. Inoltre, non ho sempre voglia di affron- tare grandi organici e mi piace molto scrivere per ensemble!

Ha collaborato con Martin Crimp per la stesura del libretto, gli ha fatto delle richie- ste precise, gli ha suggerito di modificare il testo? Abbiamo discusso molto, Martin Crimp e io, per quasi un anno prima che io ini- ziassi a comporre. La nostra collaborazione è stata molto profonda; lui conosce bene la musica e ha scritto questo testo proprio per me. E pur avendogli chiesto ini- zialmente molte cose, quando ho ricevuto il testo definitivo non ho voluto cam- biare neppure una parola. Il suo linguaggio è semplice e strano al tempo stesso, carico di emozioni molto intense. Ha inventato questo principio di narrazione con- divisa che è anti-naturalistico; i narratori interpretano infatti vari ruoli senza tra- sformarsi in personaggi reali sulla scena. Questo permette di raccontare una storia senza cadere in un realismo che oggi non è più concesso all’opera, soprattutto a causa del cinema. So bene che esiste la tendenza a non raccontare più delle storie, ma quando vado a teatro o all’opera mi interessa il destino dei personaggi e di con- seguenza la narrazione mi sembra necessaria.

Ha parlato di semplicità e di stranezza mescolate, cosa che mi sembra definisca bene la sua musica; leggendo la partitura, mi ha colpito la semplicità della scrittu- ra. Per esempio ci sono molte strutture diatoniche... La scrittura musicale per la scena dev’essere più semplice di quella destinata a un concerto, non fosse altro perché l’attenzione non è concentrata soltanto sulla musi- ca. Nel nostro caso, in cui ogni cantante ricopre più ruoli, era essenziale che il mate- riale musicale fosse sufficientemente trasparente per rendere comprensibile il testo e la drammaturgia. Quanto al diatonismo, non ne ho paura! Penso che utilizzare una scrittura di tipo dodecafonico ponga seri problemi all’opera (tranne che nelle mani geniali di un Berg), la scrittura vocale è troppo densa, fatica a coincidere in maniera percettibile con la continuità armonica. Per questo la mia scrittura vocale fa un uso limitato del cromatismo. Volevo che le linee vocali fossero sempre in primo piano e si integrassero alle tessiture strumentali. Detto ciò, la mia musica non è mai tonale né totalmente diatonica, è costruita su processi armonici complessi. La scelta strumentale è piuttosto insolita: per quale ragione? La scelta dell’organico modifica forse l’immaginazione musicale? Volevo essere stimolato da un organico inedito. Non tollero l’idea di ripetermi, di scrivere per un organico che ho già utilizzato. Avevo un limite: un massimo di quin- dici strumentisti. Ho provato decine di versioni prima di arrivare alla scelta defini- tiva. Non avevo mai scritto per i corni di bassetto né per il flauto basso o il cym- balon, pur amando molto queste sonorità. La scelta dell’organico influisce notevol- mente sull’immaginazione musicale. Cercavo un suono con grande risonanza, mi serviva quindi un registro grave impor- tante. Solo il flauto basso ha un ruolo figurativo che fa riferimento alla leggenda del Pifferaio magico. Si dice sempre che la musica destinata a trascinare i topi debba essere penetrante o grottesca; invece io penso che debba essere seducente. Così ho composto una lunga melodia per il flauto basso molto dolce e ornata che attraver- sa l’intera scena 5. Il flauto basso tornerà alla fine di Into the Little Hill, ma sfrut- tato in modo molto diverso. I corni di bassetto giocano un ruolo fondamentale, sono al centro della sonorità e sono quasi sempre presenti.

Il cymbalon è presente a causa della leggenda del Pifferaio magico che fa ricompa- rire i bambini in Transilvania? La presenza del cymbalon non ha nulla a che vedere con questo, ma in un certo senso la sua sonorità è collegata allo Straniero, al patto che ha stretto col Ministro e alle sue conseguenze. Viene posto al centro del dispositivo scenico.

Ha concepito una forma generale, calcolato la costruzione drammaturgica, oppure si tratta piuttosto di una forma di montaggio? Ci sono due parti e delle scene distinte. Volevo che la divisione dei ruoli fosse molto chiara. Ogni personaggio ha la sua scrittura specifica, cosa che obbliga le cantanti a cambiare stile quando cambiano personaggio. Particolarmente appassionanti mi sembrano i cambiamenti emotivi dei “Narratori” e la loro evoluzione nel corso del- l’opera. Per me si è trattato di mettermi al servizio di ogni momento teatrale e per ognuno di trovare maniere diverse di scrivere. Non volevo assolutamente una “con- tinuità wagneriana”. Ci sono scene in cui si sovrappongono parecchi generi di scrit- tura, parecchi tipi di sentimenti, come nella scena della Madre e della Bambina, dove la tranquillità dell’una si oppone alla paura dell’altra, con sullo sfondo la musica ammaliatrice dello Straniero. Oppure nell’ultima scena, che mescola la musica dello Straniero già lontano, i canti gioiosi dei bambini che lo seguono e i lamenti delle madri abbandonate. Philippe Albèra

Tutti i testi sono stati tradotti dal francese da Maria Clara Pasetti Sinossi

Prima Parte

I. La Folla II. Il Ministro e la Folla III. La Folla Alla vigilia dell’elezione, la Folla inferocita chiede al Ministro che vengano stermi- nati i topi che hanno danneggiato le proprietà. Il Ministro tenta di difenderli e di spiegare che anch’essi hanno un posto nella società («Il topo è nostro amico») ma la folla ribadisce la propria richiesta: «Uccidilo e avrai il nostro voto».

IV. Il Ministro e lo Straniero Durante una notte insonne, il Ministro trova uno Straniero senza volto chinato sul letto della figlia. La Straniero, alla domanda del Ministro che gli chiede come sia riuscito a entrare in casa, risponde che è stato possibile con un incantesimo grazie alla musica: «Con la musica posso aprire un cuore / con la stessa facilità con cui tu apri una porta / e scivolarci dentro / guidare gli schiavi alla fabbrica / o paziente- mente dipanare le nuvole / annerire ogni particella di luce / o rendere la notte luminosa come il magnesio. / Con la musica posso fermare la morte / o far preci- pitare un torrente di topi dal limite della terra: / la scelta spetta a te». Il Ministro gli promette una grande somma di denaro in cambio dello sterminio dei topi e della sua rielezione. Lo Straniero lo incita a giurare, attraverso la figlia addormentata, di mantenere la promessa, e si mette al lavoro.

Interludio

V. Madre e Figlia La Figlia del Ministro è alla finestra con sua madre guardando la massa di topi: «Perché i topi devono morire, mamma?» e lei risponde «Perché rubano le cose che noi teniamo sotto chiave», dice la madre. «Un topo non è umano». Ma per la Figlia, i ratti sono come esseri umani: indossano abiti e curano i propri figli. La moglie del Ministro cerca di tranquillizzare la Figlia: «No, solo i topi delle favole indossano cappelli e cappotti e portano bambini». Lei insiste dicendo che i ratti devono mori- re «con dignità» e porta via la bambina dalla finestra. Seconda Parte

VI. Nella mente del Ministro Il Ministro è stato rieletto. Nella sua mente egli ode il «clamore riconoscente» della Folla e uno strano palpitare del suo cuore.

VII. Il Ministro e lo Straniero Lo Straniero torna a reclamare la propria ricompensa «per lo sterminio». Il Mini- stro afferma che i ratti non sono stati sterminati, bensì «hanno scelto di andarsene per loro volontà». Egli nega ogni obbligo da lui preso nei confronti dello Straniero e aggiunge che tutta la musica è «accessoria» e che quindi non deve essere pagato per questo. Quando lo Straniero ricorda al Ministro che ha dato la sua parola d’o- nore davanti alla sua bambina addormentata, il ministro preso dall’ira lo allontana.

Interludio

VIII. Madri e Figli Per tutta la città, le madri si svegliano per cercare i loro figli dispersi nel buio della notte. Anche la Moglie del Ministro chiede al marito, «Dov’è mia figlia?». Lei sente i bambini rispondere che sono andati sottoterra, «nel cuore della Piccola Collina», attratti dalla luce. Quando lei chiede di smettere di mentire e di tornare a casa, essi rispondono che quella è la loro casa:

È questa la nostra casa. La nostra casa è sotto terra. Sotto terra con l’angelo. E più scaviamo più luminosa arde la sua musica. Non vedi? Non vedi? Non vedi? Into the Little Hill Testo di Martin Crimp

Soprano The Crowd Narrator The Stranger The Minister’s Child Contralto The Crowd Narrator The Minister The Minister’s Wife

Part One I. The Crowd [1+2] Kill them they bite kill them they steal kill them they take bread take rice take bite steal foul and infect damage our property burrow under our property rattle and rattle the black sacks. Kill and you have our vote.

II. The Minister and the Crowd [1] The Minister greets the crowd selects a baby to kiss in the green April light for the black eye of the camera smiles, grips the baby, thinks: We have no enemies. We live peacefully in the shadow of the Little Hill. On the horizon of our city are banks and steeples, the quarter-moons of minarets. We accept all faiths because we believe intelligently believe in nothing. And what’s wrong thinks the Minister with a rat? A rat knows its place avoids light clings as a rat should to the walls and only steals from the stacked-up plastic sacks what we have no appetite to eat. The Minister passes back the baby says to the electorate: please think the rat is our friend. My own child is in her element feeding her black rat and cutting its claws. Even this baby – who knows? – may owe its life to a rat in an experiment. But the people spit back over the metal fence. Soprano La Folla Narratore Lo Straniero La Figlia del Ministro Contralto La Folla Narratoer Il Ministro La Moglie del Ministro

Prima Parte I. La Folla [1+2] Uccidili mordono uccidili rubano uccidili prendono il pane prendono il riso prendono mordono rubano sporcano e infettano danneggiano le nostre case scavano sotto le nostre case sventrano e scuotono i sacchi neri. Uccidili e noi voteremo per te.

II. Il Ministro e la Folla [1] Il Ministro saluta la folla sceglie un bambino da baciare nella verde luce d’aprile per l’occhio nero della macchina fotografica sorride, afferra il bambino, pensa: Noi non abbiamo nemici. Noi viviamo in pace all’ombra della Piccola Collina. Sull’orizzonte della nostra città si scorgono banche e campanili, le falci di luna dei minareti. Noi accettiamo tutte le fedi perché non crediamo, giudiziosamente non crediamo in nulla. E qual è il problema, pensa il Ministro, con i topi? Un topo sa stare al suo posto, evita la luce, si arrampica come dovrebbe sui muri e ruba nei mucchi di sacchi di plastica solo ciò di cui noi non abbiamo appetito. Il Ministro restituisce il bambino dice ai suoi elettori: per favore, riflettete, il topo è nostro amico. Mia figlia è nel suo elemento quando nutre il suo topo nero e gli taglia le unghie. Anche questo bambino – chi lo sa? – forse deve la vita a un topo da laboratorio. Ma la gente sputa in risposta al di sopra della transenna di metallo. III. The Crowd [1+2] Kill them they bite kill them they steal kill them they take bread take rice take bite steal foul and infect damage our property burrow under our property rattle and rattle the black sacks. We want the rats dead. [1] But no animal not one animal must suffer neither must our children brave and intelligent with bright clear eyes ever see blood.

IV. The Minister and the Stranger [1] Night comes but not sleep. What are those sparks? Rats feeding on electricity. What is that sound? Rats digesting concrete. And that? Pause. And that? In his daughter’s bedroom he finds a man a man with no eyes, no nose, no ears finds him stooped over his sleeping child while the black rat rattles its wheel. Who are you? says the Minister How did you get into my house? [2] «I charmed my way in» says the man with no eyes, no nose, no ears and with music I will charm my way out again With music I can open a heart as easily as you can open a door and reach right in march slaves to the factory or patiently unravel the clouds blacken each particle of light or make night bright as magnesium. With music I can make death stop or rats stream and drop from the rim of the world: the choice is yours. [1] «But the world – says the Minister – is round». [2] «The world – says the man – is the shape my music makes it: the choice is yours». Pause [1] What do you want, says the Minister. [2] What have you got, says the man, money? [1] Money? [2] Have you got money? [1] Have I got what? money? [2] «Yes money – says the man – have you got money?». [1] What d’you want money for? [2] To live, says the man. [1] Ah. [2] Yes. III. La Folla [1+2] Uccidili mordono uccidili rubano uccidili prendono il pane prendono il riso prendono mordono rubano sporcano e infettano danneggiano le nostre case scavano sotto le nostre case sventrano e scuotono i sacchi neri. I topi, noi li vogliamo morti. [1] Ma nessun animale, neppure uno, deve soffrire e i nostri figli non devono coraggiosi e intelligenti coi loro grandi occhi chiari mai vedere il sangue.

IV. Il Ministro e lo Straniero [1] Viene la notte ma non il sonno. Cosa sono quelle scintille? Dei topi che si nutrono di elettricità. Cos’è quel rumore? Dei topi che digeriscono il cemento. E quello? Pausa. E quello? Nella camera di sua figlia trova un uomo un uomo senza occhi, senza naso, senza orecchie lo trova chino sulla sua bambina addormentata mentre il topo nero fa girare cigolando la sua ruota. Chi sei? dice il Ministro. Come sei entrato in casa mia? [2] «Sono entrato con un incantesimo» dice l’uomo senza occhi, senza naso, senza orecchie e grazie alla musica con lo stesso incantesimo uscirò. Con la musica posso aprire un cuore con la stessa facilità con cui tu apri una porta e scivolarci dentro guidare gli schiavi alla fabbrica o pazientemente dipanare le nuvole annerire ogni particella di luce o rendere la notte luminosa come il magnesio. Con la musica posso fermare la morte o far precipitare un torrente di topi dal limite della terra: la scelta spetta a te. [1] «Ma la terra – dice il ministro – è rotonda. [2] «La terra – dice l’uomo – ha la forma che le conferisce la mia musica: la scel- ta spetta a te». Pausa [1] Che cosa vuoi, dice il Ministro. [2] E tu che cos’hai, dice l’uomo, denaro? [1] Denaro? [2] Hai del denaro? [1] Ho cosa? del denaro? [2] «Sì, del denaro – dice l’uomo – hai del denaro?». [1] Perché vuoi del denaro? [2] Per vivere, dice l’uomo. [1] Ah. [2] Sì. [1] Ah. [2] Yes. [1] To live. [2] Yes money to live. [1] And how much money does a man need to live? Pause As much as that? [2] Yes. [1] As much money as that? [2] That’s what it takes to unravel the clouds, says the man. [1] «Not clouds rats destroy the rats see me re-elected – smiles the Minister – and I’ll double it». [2] The choice is yours. [1] I’ll double it you have my word. [2] Your word is dead. [1] I swear to you by god. [2] Your god can’t be trusted. Swear by your sleeping child. [1] What has this to do with my child? [2] Swear to me by your sleeping child because your sleeping child unlike your god unlike your word unlike your smile is innocent. Pause [1] «Hmm – smiles the Minister in a tiny voice, in a voice too soft to wake the Minister’s wife – I swear». [2] In that case says the man I will begin.

Interlude V. Mother and Child [2] Why must the rats die, Mummy? [1] Tom, he was a piper’s son He learnt to play when he was young. [2] Why must the rats die, Mummy? [1] And all the tune that he could play Was “Over the hills and far away”. [2] Why do they have to die? [1] Because says the Minister’s wife. [2] Because what, Mummy? [1] Because they steal the things we’ve locked away. [2] What have we locked away, Mummy? [1] All the bread, all the fruit, all the oil and electricity. [2] Why have we locked them away, Mummy? [1] Because of how hard we’ve worked for them. [2] Haven’t the rats worked? [1] A rat only steals a rat’s not human. [2] But those ones are wearing clothes. [1] How can a rat wear clothes? [2] That one’s holding a suitcase. [1] No. [2] That one’s holding a baby. [1] No only rats in storybooks wear hats and coats and carry babies. [1] Ah. [2] Sì. [1] Per vivere. [2] Sì, del denaro per vivere. [1] E di quanto denaro ha bisogno un uomo per vivere? Pausa Tanto così? [2] Sì. [1] Tanto denaro così? [2] È quello che ci vuole per dipanare le nuvole, dice l’uomo. [1] «Non le nuvole, i topi, stermina i topi, garantiscimi la rielezione – sorride il Ministro – e io raddoppierò la somma». [2] La scelta spetta a te. [1] La raddoppierò, hai la mia parola. [2] La tua parola è morta. [1] Te lo giuro su dio. [2] Del tuo dio non ci si può fidare. Giuralo sulla tua bambina addormentata. [1] Cosa c’entra mia figlia con questo? [2] Giuramelo sulla tua bambina addormentata perché la tua bambina addormentata al contrario del tuo dio al contrario della tua parola al contrario del tuo sorriso è innocente. Pausa [1] «Uhm – sorride il Ministro con una vocina, una voce troppo dolce per svegliare la moglie del Ministro – lo giuro». [2] In questo caso, dice l’uomo, io comincio.

Interludio V. Madre e Figlia [2] Perché i topi devono morire, Mamma? [1] Tom, he was a piper’s son He learnt to play when he was young. [2] Perché i topi devono morire, Mamma? [1] And all the tune that he could play Was “Over the hills and far away”. [2] Perché devono morire? [1] Perché, dice la moglie del Ministro. [2] Perché cosa, Mamma? [1] Perché rubano le cose che noi teniamo sotto chiave. [2] Cos’è che teniamo sotto chiave, Mamma? [1] Tutto il pane, tutta la frutta, tutto il petrolio e l’elettricità. [2] Perché li teniamo sotto chiave, Mamma? [1] Perché abbiamo lavorato duro per averli. [2] I topi non hanno lavorato? [1] Un topo non fa altro che rubare, un topo non è umano. [2] Ma quelli indossano dei vestiti. [1] Come può un topo indossare dei vestiti? [2] Quello là ha una valigia. [1] No. [2] Quella tiene in braccio un bambino. [1] No, solo i topi delle favole indossano cappelli e cappotti e portano dei bambini. [2] She’s dropped it. [1] No. [2] She’s dropped the baby. [1] No. [2] And the others look are running over it running over the baby’s face. [1] Come away from the window. [2] She’s screaming, Mummy, she’s screaming the other rats won’t stop! Pause Will there be blood? [1] Says the Minister’s wife: Of course not. [2] Then how will they die? [1] With dignity, sweetheart. The rats will stream like hot metal to the rim of the world [2] How can they stream like metal? [1] grip and cling then over the gold-ringed rim [2] How long will they grip and cling? [1] drop, my sweetheart, as hot rain.

Part Two VI. Inside the Minister’s Head (1) [2] Under a clear sky the Minister steps from the limousine re-elected reaches over the metal fence to shake hands with the crowd. What’s that sound? The grateful shriek of the people. And that? Pause And that? [1] There is no other sound. [2] There is another sound. [1] There is no other sound. [2] There is another sound: the sound of his heart. The sound of the Minister’s heart humming in the Minister’s head under the clear May sky. Listen.

Inside the Minister’s Head (2) [1+2] Kill them they bite kill them they steal kill them they take bread take rice take bite steal foul and infect damage our property burrow under our property rattle and rattle the black sacks. Kill and you have our vote.

VII. The Minister and the Stranger [1] His head lies on his desk between the family photograph and the file marked “extermination” eyes level with the last rat left alive caged on his desk [2] L’ha fatto cadere. [1] No. [2] Ha fatto cadere il bambino. [1] No. [2] E gli altri, guardano, gli passano sopra, passano sulla faccia del bambino. [1] Vieni via dalla finestra. [2] Lei grida, Mamma, lei grida, gli altri topi non vogliono fermarsi! Pausa Ci sarà del sangue? [1] Dice la moglie del Ministro: Certo che no. [2] Allora come moriranno? [1] Con dignità, cuor mio. I topi scorreranno come un torrente di metallo fuso fino all’estremo limite della terra. [2] Come possono scorrere come metallo? [1] tenendosi e aggrappandosi poi dal bordo cerchiato d’oro [2] Per quanto tempo si terranno e si aggrapperanno? [1] precipiteranno, cuor mio, come una pioggia calda.

Seconda Parte VI. Nella testa del Ministro (1) [2] Sotto un cielo sereno il Ministro scende dalla limousine rieletto passa un braccio attraverso la transenna di metallo per stringere le mani della folla. Cos’è quel rumore? Il clamore del popolo riconoscente. E quello? Pausa E quello? [1] Non c’è nessun altro rumore. [2] C’è un altro rumore. [1] Non c’è nessun altro rumore. [2] C’è un altro rumore: il rumore del suo cuore. Il rumore del cuore del Ministro ronza nella testa del Ministro sotto il sereno cielo di maggio. Ascoltate.

Nella testa del Ministro (2) [1+2] Uccidili mordono uccidili rubano uccidili prendono il pane prendono il riso prendono, mordono, rubano, sporcano e infettano danneggiano le nostre case scavano sotto le nostre case sventrano e scuotono i sacchi neri. Uccidili e noi voteremo per te.

VII. Il Ministro e lo Straniero [1] La sua testa riposa sulla scrivania tra la fotografie della famiglia e il fascicolo intitolato “sterminio” gli occhi all’altezza dell’ultimo topo ancora in vita in gabbia sulla sua scrivania rattling its wheel. How much he loves it! How much he loves the last rat left alive! How much it resembles him! Same eyes! [2] «Same bright clear eyes – says the man with none – same brave intelligence, same appetite». [1] «How – says the Minister – did you find me here?». [2] «I followed the sound», says the man with no ears. [1] What sound? [2] The sound of the crowd. The sound of the crowd humming inside your head like a refrigerator in summer. And with no nose I could smell blood. [1] «What do you want», says the Minister. [2] «What do I want – says the man – money». [1] Money? [2] I’d like my money. [1] You’d like your what? money? [2] «Yes money – says the man – as I was promised». [1] Promised money by who? [2] By you, says the man. [1] Ah. [2] Yes. [1] Ah. [2] Yes. [1] By me. [2] Yes for the extermination. [1] «There was no extermination – says the Minister placing his hand gently over the word – there was no extermination: they left they chose to leave of their own free will». [2] You swore by your sleeping child. [1] They left of their own free will what money? the money has been spent on barbed wire and on education on planting our Little Hill with trees. [2] And music? [1] on cleaning the sea [2] And music? [1] we’ve built new walls lit the streets policed dark alleyways we’ve purified the air. [2] And music? [1] «All music – smiles the Minister – is incidental». [2] You swore by your sleeping child because your sleeping child [1] I don’t like demands [2] unlike your god [1] I don’t like threats [2] unlike your word [1] I don’t like your tone of voice: [2] unlike your tone of voice [1] You will now leave! [2] is innocent. che fa girare cigolando la ruota. Come lo ama! Come ama l’ultimo topo ancora vivo! Come gli assomiglia! Gli stessi occhi! [2] «Gli stessi occhi chiari e brillanti – dice l’uomo che ne è privo – la stessa coraggiosa intelligenza, lo stesso appetito». [1] «Come – dice il Ministro – mi hai trovato qui?». [2] «Ho seguito il rumore», dice l’uomo senza orecchie. [1] Che rumore? [2] Il rumore della folla. Il rumore della folla che ronza dentro la tua testa come un condizionatore d’estate. E senza naso non potevo sentire il sangue. [1] «Cosa vuoi», dice il Ministro. [2] «Cosa voglio – dice l’uomo – denaro». [1] Denaro. [2] Vorrei i miei soldi. [1] Tu vorresti i tuoi cosa? soldi? [2] «Sì, denaro – dice l’uomo – come mi è stato promesso». [1] Denaro promesso da chi? [2] Da te, dice l’uomo. [1] Ah. [2] Sì. [1] Ah. [2] Sì. [1] Da me. [2] Sì, per lo sterminio. [1] «Non c’è stato nessuno sterminio – dice il Ministro, ricoprendo dolcemente la parola con la mano – non c’è stato sterminio: sono partiti, hanno scelto di andar- sene, di loro volontà». [2] Tu avevi giurato sulla tua bambina addormentata. [1] Sono partiti di loro volontà, che denaro? il denaro è stato speso per il filo spi- nato e per l’istruzione, per piantare alberi sulla nostra Piccola Collina. [2] E la musica? [1] per pulire il mare [2] E la musica? [1] abbiamo costruito dei muri nuovi, illuminato le strade, reso sicuri i vicoli bui, abbiamo purificato l’aria. [2] E la musica? [1] «Tutta la musica – sorride il Ministro – è accessoria». [2] Tu hai giurato sulla tua bambina addormentata perché la tua bambina addormentata [1] non mi piacciono le pretese [2] al contrario del tuo dio [1] non mi piacciono le minacce [2] al contrario della tua parola [1] non mi piace il tono della tua voce: [2] al contrario del tuo tono di voce [1] vattene subito! [2] è innocente. Pause [1] So the man left. [2] Whereupon he began another tune.

Interlude VIII. Mother(s) and Child(ren) [1] Each cradle rocks empty each cage-like cot each narrow bed empty but still warm. Each hot dent in a child’s pillow still smells of a child’s hair each sheet’s still feel it wet with spit. The Minister’s wife says says to the Minister Minister’s wife says «ah, ah» says to the Minister Minister’s wife «ah, ah» says to the says to the says to the Minister «ah» says «ah» says «Where is my child? my child» says to the Minister «WHERE IS MY CHILD?» 2 appears in the distance, not visible to 1. [2] As dolly was milking her cow one day… [1] MY CHILD. [2] …Tom took his pipe and began for to play… [1] WHERE IS MY CHILD? [2] Here look in the light look ha! can’t you see? [1] Where? What light? [2] Inside the Little Hill under the earth we’re burrowing under the earth ha! can’t you see? [1] «There is no light under the earth: don’t – says the Minister’s wife – tell lies». Come home to us. [2] Oh yes there is light under the earth streams of hot metal ribbons of magnesium particles particles of light [1] Don’t lie to us: come home. [2] And the deeper we burrow the brighter it burns ha! can’t you see? [1] Don’t lie to us. A child can’t burrow under the earth. streams of hot metal ribbons of magnesium particles particles of light. Don’t lie to us: come home. [2] This is our home. Our home is under the earth. With the angel under the earth. And the deeper we burrow the brighter his music burns. Can’t you see? Can’t you see? Can’t you see? Pausa [1] Allora l’uomo se ne andò. [2] Whereupon he began another tune.

Interludio VIII. Madre/i e Figlia/i [1] Dondolano culle vuote ognuna in forma di gabbia ogni lettino è vuoto e ancora caldo. Ogni tiepida impronta sul cuscino di un bambino conserva ancora l’odore dei capelli di un bambino ogni lenzuolo è ancora, toccatelo, umido di saliva. La moglie del Ministro dice, dice al Ministro, la moglie del Ministro, dice «ah, ah», dice al Ministro la moglie del Ministro, «ah, ah», dice al, dice al, dice al Ministro, «ah», dice «ah», dice «Dov’è mia figlia? mia figlia», dice al Ministro «DOV’È MIA FIGLIA?» 2 appare lontano, invisibile a 1 [2] As dolly was milking her cow one day... [1] MIA FIGLIA. [2] ... Tom took his pipe and began for to play... [1] DOV’È MIA FIGLIA? [2] Qui, guarda, nella luce, guarda, ah! non vedi? [1] Dove? Che luce? [2] Nel cuore della Piccola Collina, sotto terra, noi scaviamo sotto la terra, ah! non vedi? [1] «Non c’è luce sotto terra: non mentire», dice la moglie del Ministro. Torna a casa. [2] Oh sì c’è luce sotto terra torrenti di metallo fuso nastri di magnesio particelle particelle di luce [1] Non mentirci: torna a casa. [2] E più scaviamo più è luminoso ah! non vedi? [1] Non mentirci. Un bambino non può scavare sotto la terra. torrenti di metallo fuso nastri di magnesio particelle particelle di luce. Non mentirci: torna a casa. [2] È questa la nostra casa. La nostra casa è sotto terra. Sotto terra con l’angelo. E più scaviamo più luminosa arde la sua musica. Non vedi? Non vedi? Non vedi?

Traduzione italiana di Maria Clara Pasetti George Benjamin si è fatto conoscere con un pezzo per orchestra, Ringed by the Flat Horizon, eseguito ai BBC Proms quando aveva appena vent’anni. È nato nel 1960, ha cominciato lo studio del pianoforte a sette anni e della composizione a nove. Nel 1976 entra al Conservatoire National Supérieur de Musique di Parigi nelle classi di Olivier Messiaen (composizione) e Yvonne Loriod (pianoforte). Nel 1987 l’Ircam gli commissiona Antara per il decimo anniversario del Centre Pompidou, e nel 1992 l’Opéra Bastille gli offre una “carte blanche”. George Benja- min ha diretto la prima esecuzione di Sudden Time al primo festival Meltdown (1993) e Three Inventions al festival di Salisburgo (1995). Pierre Boulez con la London Symphony Orchestra ha diretto Palimpsests nel 2002 per l’inaugurazione di “By George”, un festival di nove concerti dedicato alle opere di George Benjamin che includeva anche Shadowlines, interpretato da Pierre-Lau- rent Aimard. Alle composizioni di Benjamin sono state dedicate alcune retrospetti- ve: Bruxelles/Ars Musica (2003), Tokio (2003), Berlino (2004-2005), Strasburgo/ Musica e Madrid (2005). È stato compositore in residenza al festival di Lucerna 2008. Dal 1999 ha stabilito una stretta collaborazione col festival di Tanglewood (USA), nonché con l’Ensemble Modern e la London Sinfonietta, che dirige spesso. Ha tenu- to a battesimo opere di Wolfgang Rihm, Unsuk Chin, Gérard Grisey e György Lige- ti. Nel 1999 ha diretto Pelléas et Mélisande su invito del teatro La Monnaie di Bruxelles. Nel 2006 ha diretto l’orchestra del Concertgebouw, l’Orchestre Philarmonique de Radio France e i Berliner Philharmoniker. George Benjamin vive a Londra e occupa la cattedra di Composizione Henry Pur- cell al King’s College. È stato consulente artistico per il programma della BBC, Sounding the Century, dedicato alla musica del XX secolo. Nel 2001 ha ricevuto il Premio Schönberg per la composizione, conferito dalla Deutsche Sinfonieorchester. Le sue opere sono incise da Nimbus Records (www.wyastone.co.uk) e sono pubbli- cate da Faber Music a Londra (www.fabermusic.co.uk).

Nato nel 1956 a Dartford nel Kent, Martin Crimp ha studiato all’università di Cambridge. Nel 1991 lavora a New York come autore in residenza, nel 1993 ottie- ne il John Whiting Award for Drama e nel 1997 diventa drammaturgo del Royal Court Theatre di Londra. Le sue prime opere vengono prodotte dall’Orange Tree Theatre di Richmond: Living Remains (1982), Four Attempted Acts (1984), Defini- tely the Bahamas (1987), Dealing with Clair (1988), Play with Repeats (1989); le suc- cessive dal Royal Court Theatre: No One Sees the Video (1990), Getting Attention (1991), Attempts on her Life (1997) e The Country (2000). Scrive inoltre per la radio (Three Attempted Acts) e firma numerosi adattamenti: La vedova allegra di Franz Lehár (New York, MET, 2000), Il trionfo dell’amore di Marivaux (1999), Le serve di Jean Genet (1999), Il misantropo di Molière (1996), Roberto Zucco di Bernard-Marie Koltès (1997) per la Royal Shakespeare Company, e Le sedie di Eugène Ionesco (1997). Le sue opere sono tradotte e rappresentate in molti paesi europei.

Fondato nel 1980 e con sede a Francoforte dal 1985, l’Ensemble Modern è uno dei massimi ensemble a livello mondiale di musica contemporanea. Attualmente è composto da 18 solisti provenienti da diverse parti del mondo come Argentina, Bul- garia, Germania, India, Israele, Giappone, Polonia e Svizzera, ciascuno dei quali contribuisce all’Ensemble con il proprio bagaglio culturale. L’Ensemble Modern è famoso per il suo speciale lavoro e un’organizzazione che non ha eguali in tutto il mondo. Tutti i membri sono responsabili della selezione e si occupano di progetti, coproduzioni e questioni finanziarie. Il suo programma, unico e di alto livello, con- siste in musica per teatro, danza e progetti video, musica da camera e concerti orchestrali. Negli anni passati l’Ensemble ha fatto tournée in Russia, Sud America, Giappone, Australia, India, Korea, Taiwan e Stati Uniti. Si esibisce regolarmente in rinomati festival e in sedi prestigiose, come Lincoln Center Festival a New York, Festival d’Automne a Parigi, Holland Festival ad Amsterdam, Lucerne Festival, Klangspuren in Schwaz, Festival di Salisburgo, Alte Oper Frankfurt, Oper Frankfurt, Konzerthaus Berlin e MaerzMusik Berliner Festspiele, Philharmonic Orchestra di Essen e il Fest- spielhaus Baden-Baden. L’Ensemble Modern tiene circa cento concerti l’anno e cerca sempre di mantenere un alto grado qualitativo e di autenticità, lavorando a stretto contatto con i compositori stessi. I musicisti preparano in media 70 nuovi lavori ogni anno, venti dei quali sono prime mondiali. Nel 2003, la Kulturstiftung des Bundes ha nominato l’Ensemble Modern uno dei massimi “fari” tedeschi della cultura contemporanea. Grazie a questo importante riconoscimento, ha ricevuto nel 2004 un importante finanziamento quinquennale dalla stessa Kulturstiftung des Bundes a sostegno di tre importanti “pilastri” del- l’Ensemble Modern – l’Ensemble Modern Orchestra, l’International Ensemble Modern Academy e i progetti più significativi dell’Ensemble. L’Ensemble Modern è finanziato dalla Kulturstiftung des Bundes, dalla Città di Francoforte, dalla Deut- sche Ensemble Akademie, dallo Stato federale dell’Assia, dalla GEMA Foundation e da GVL. hr2-kultur – partner culturale dell’Ensemble Modern www.ensemble-modern.com

Ensemble Modern Dietmar Wiesner, flauto, flauto basso Nina Janßen, John Corbett, corno di bassetto Udo Grimm, clarinetto basso Valentín Garvie, Sava Stoianov, cornetto Uwe Dierksen, trombone Rumi Ogawa, cymbalon, percussioni Jagdish Mistry, violino Patrizia Pacozzi, violino, mandolino Geneviève Strosser, viola Garth Knox, viola, banjo Eva Böcker, Michael M. Kasper, violoncello Martin Schöne, contrabbasso Franck Ollu, direttore

Ensemble Modern è sostenuto da Kulturstiftung des Bundes Deutsche Ensemble Akademie Città di Francoforte Stato dell’Assia GEMA Foundation GVL

I musicisti di Ensemble Modern ringraziano la Aventis Foundation per il finanziamento di un posto nell’Ensemble Nato a La Rochelle, Franck Ollu compie la sua formazione musicale a Parigi, stu- diando corno con George Barboteu e André Cazalet e composizione con Jean- François Zygel. Nel 1990 diventa membro dell’Ensemble Modern e si trasferisce a Francoforte. Per diversi anni studia direzione d’orchestra con Jonathan Nott e nel 2000 diventa assistente dell’Ensemble Intercontemporain di Parigi e dell’Ensemble Modern Orchestra diretta da Pierre Boulez. Ha diretto diverse formazioni, tra cui l’Orchestre du Conservatoire de Paris, la Kam- merensemble, l’Ensemble Recherche, l’Asko Ensemble, l’Ensemble Intercontempo- rain, la Queensland Symphony Orchestra, l’Ensemble Avanti!, l’Elision Ensemble. Ha tenuto a battesimo le prime mondiali di diversi compositori tra cui Hans Zen- der, York Höller, Emmanuel Nunes, Heiner Goebbels e Wolfgang Rihm.

Anu Komsi è un interprete versatile che spazia dal Rinascimento al contempora- neo. Il suo repertorio operistico comprende più di quaranta ruoli, che includono Lulu, Zerbinetta, Norina, Rossignol di Stravinsky, oltre alla sua recente performance virtuosistica in Neither di Morton Feldman. Come solista si è esibita con numerose orchestre di rilievo, diretta fra gli altri da Roger Norrington, Oliver Knussen, Sakari Oramo, Rudolf Barshai, Jukka-Pekka Saraste, George Benjamin. La sua collaborazione con Esa-Pekka Salonen è iniziata nel 1988 con la prima mondiale della sua opera Floof, seguita da trentina di repli- che in tutto il mondo. La Komsi è stata recentemente nominata direttore artistico della Kokkola Opera, una nuova compagnia operistica che ha sede nella sua città natale in Finlandia, Kokkola appunto: vi ha cantato il ruolo di Susanna nelle Nozze di Figaro nel 2006 e di Rosalinda nel Pipistrello di Strauss nel 2007. I suoi impegni futuri includono nuove produzioni con Cité de la Musique, Casa da Musica di Porto, Oper Frankfurt e Alte Oper Frankfurt, oltre a una tournée con Salonen e la Los Angeles Philharmonic e al debutto con la San Francisco Symphony diretta da Oramo.

Hilary Summers è nata nel sud del Galles e ha studiato musica alla Reading Uni- versity, proseguendo poi presso la Royal Academy of Music e il National Opera Stu- dio di Londra. Specializzata nel repertorio barocco, lavora regolarmente con molti ensemble europei che suonano su strumenti antichi, come l’Academy of Ancient Music e Christopher Hogwood, Les Arts Florissants e William Christie, The King’s Consort e Robert King, The English Concert e Andrew Manze. Profonda conoscitri- ce e amante appassionata della musica contemporanea, si esibisce in occasioni pre- stigiose come Le marteau sans maître di Boulez, eseguito in tutta Europa sotto la direzione del compositore e l’Ensemble Intercontemporain, la cui registrazione ha riscosso il plauso incondizionato della critica. È stata la prima interprete del ruolo di Stella in What Next di Elliott Carter alla Berlin Staatsoper, diretta da Daniel Barenboim, e del ruolo di Irma in Le Balcon di Peter Eötvös al Festival di Aix-en- Provence nel 2002. Ha registrato numerose colonne sonore per il cinema con musi- che di Nyman, oltre a interpretare il ruolo principale nella sua opera Facing Goya, scritto appositamente per lei. I suoi progetti futuri prevedono esibizioni con l’En- semble Intercontemporain diretto da Boulez al Festival di Lucerna e il debutto con l’Orchestre de Paris.

Jagdish Mistry è nato a Bombay ed è immigrato in Inghilterra nel 1975 per stu- diare violino, prima alla Yehudi Menuhin School e poi alla Guildhall School of Music and Drama di Londra. Fra il 1986 e il 1992 ha guidato il Mistry String Quar- tet, in residenza all’Università di York, con il quale ha effettuato numerose tournée in Europa e Asia e inciso musiche di Edward Elgar, Arnold Bax ed Elizabeth Macon- chy e ha partecipato regolarmente alle trasmissioni radiofoniche della BBC. Nel 1994 è stato invitato a far parte dell’Ensemble Modern, con cui ha registrato di recente lavori del compositore americano George Antheil, eseguendo la Prima Sonata per violino e il brano Printemps. Nel 1993 Mistry è stato primo violino ospi- te dei London Musici, in tour e come solista. Inoltre dall’aprile 1997 è stato primo violino ospite dell’Orquesta Ciudad de Granada. Suona un J. B. Vuillaume, Parigi 1853.

Dopo aver studiato viola a Strasburgo, Geneviève Strosser ha vinto un master al Conservatorio di Parigi e ha seguito masterclass con Nobuko Imai, Bruno Giuran- na, Yuri Bashmet, Franco Donati, e György Kurtág. Con un repertorio che va da Bach alla musica contemporanea, si esibisce regolarmente con la Chamber Orche- stra of Europe diretta da Abbado, Harnoncourt e altri, ed è membro del Quartetto Vellinger. Suona anche con numerosi ensemble di musica contemporanea come Ensemble Intercontemporain, Klangforum Wien, London Sinfonietta, Contrechamps. Recentemente ha debuttato come solista con la Gewandhausorchester di Lipsia, la Hilversum Radio Orchestra (diretta da Peter Eötvös), l’Orchestra della Radio di Stoc- carda (diretta da Heinz Holliger). Ha la suo attivo opere di Holliger, Eötvös, George Aperghis e Stefano Gervasoni, che ha composto un concerto per lei; con Paul Sil- verthorne ha presentato Viola, Viola a New York in prima esecuzione americana. La Strosser insegna musica da camera al Trinity College di Londra e viola alla Musikhochschule di Basilea.

Nato in Irlanda, Garth Knox è cresciuto in Scozia e ha studiato al Royal College of Music di Londra, vincendo numerosi premi in strumento e in musica da camera. Ha suonato con gli ensemble più prestigiosi, con un repertorio che va dal barocco al contemporaneo. Nel 1983 è stato invitato da Boulez a far parte dell’Ensemble Intercontemporain, con cui ha partecipato a festival e tournée. Nel 1990 si è unito al Quartetto Arditti, con il quale ha eseguito numerosi lavori di autori contempo- ranei come Ligeti, Kurtág, Berio, Xenakis, Cage, Stockhausen. Nel 1998 ha lascia- to il Quartetto per concentrarsi sulla carriera di solista, con recital in tutto il mondo. Ora vive a Parigi, dove recentemente si è dedicato alla viola d’amore, esplo- randone le possibilità nella musica moderna e creando un repertorio per questo strumento. Insegna viola al Musikene di San Sebastian.