Un secolo di…

Qualche giorno prima del lockdown dello scorso anno, che ha messo in ginocchio l’Italia e il mondo, ebbi l’onore di intervistare la signora Erminia Manfredi, moglie del compianto Nino, per il libro Il ventennio d’oro del cinema italiano- 4 lustri di illustri, edito da Graus Edizioni. In quell’occasione, così vibrante di emozioni, per un autentico e passionale estimatore di Nino Manfredi, ne uscì un ritratto ancora più vero di quello che è stato l’attore, tra il privato e il pubblico. Alla mia domanda se vi erano differenze tra il Manfredi privato e il Manfredi del cinematografo, la signora Erminia rispose così:

“Mio marito, dal punto di vista lavorativo, era l’esatto specchio di quello che lui era nella sua vita privata. Era una persona molto seria e faceva tutto con serietà, nel senso che era molto metodologico e si preparava su tutto. Ad esempio, quando gli proponevano un film, studiava il suo personaggio in maniera tale da entrare completamente nella parte e farla sua. Per esempio, quando ha fatto Geppetto, nel Pinocchio di Comencini, per prepararsi alla parte, pur non avendone l’età, andava di fronte alla nostra casa, a Roma, nel Giardino degli Aranci, a vedere come giocavano i bambini. Il tutto per delineare un Geppetto ancora attivo, desideroso di giocare, che poi grazie a questi “studi” è diventato quel personaggio immortale, che tutti noi continuiamo ancora ad ammirare. Mio marito amava un po’ tutti i personaggi che interpretava, perché in ognuno metteva sempre tutto se stesso e la sua professionalità, ma ad ognuno era in grado di donare sfumature sempre diverse, che fosse Pane e cioccolata o che fosse Brutti, sporchi e cattivi”. Da questo estratto di quell’intervista, che porto sempre nel cuore, fuoriesce tutta l’essenza di quello che è stato il metodologico Nino Manfredi, che rimane ad oggi, esattamente a 100 anni dalla sua nascita un punto di riferimento assoluto nella storia del cinema italiano e della commedia all’italiana, del quale è ritenuto uno dei “4 mostri”, assieme a Sordi, a Gassman e a Tognazzi. Versatile e incisivo, poliedrico e magnetico, come pochi, nel corso della sua carriera ha alternato con uguale vigore ruoli comici e drammatici di notevole efficacia, risultando probabilmente il più grande di tutti, nella sua capacità di entrare nel ruolo e regalarci personaggi immortali. La signora Erminia, ha parlato dello strepitoso e struggente Geppetto del Pinocchio di Luigi Comencini; ma il tutto va continuato ed ampliato con il Dudù di Operazione San Gennaro; con il meraviglioso padre di famiglia dell’Italia del boom de Il padre di famiglia; o ancora il leggendario Pasquino di Nell’anno del Signore. Ce ne siamo scordati tanti e potremmo continuare per ore, fino a far diventare questo articolo un saggio vero e proprio, magari da pubblicare.

Eppure non basterebbe neanche un libro per ricordare la grandezza di un attore, che fa parte del patrimonio storico ed emotivo del nostro Paese: un personaggio familiare, che fa parte di noi stessi, di quello che siamo stati e di quello che siamo. 101 film interpretati, tra il 1949 di Torna a Napoli e il 2003 de La fine di un mistero. In mezzo, 9 (record assoluto al maschile), 6 Nastri d’Argento, 4 Globi d’oro e soprattutto la Palma d’oro a Cannes 1971, come miglior opera prima per il suo capolavoro emotivo dal titolo Per grazia ricevuta. Basterebbe questo palmares, per inquadrare Nino, anzi Saturnino, perché questo era il suo vero nome all’anagrafe; ma non basta, perché la sua grandezza non è quantificabile in una stima di quanto il suo lavoro abbia influenzato tutta la commedia, durante gli anni del fulgore della commedia all’italiana e anche nei decenni successivi.

Alcuni di questi film sopravvivono sulle vette più elevate del nostro cinema; altri ancora navigano più in basso; ma tutti gli oltre 100 delineano quella che è stata la maestria metodologica di Manfredi, il più grande nel tuffarsi nel personaggio regalandoci interpretazioni sempre diverse, ma sempre particolarmente realistiche ed efficaci. Dopo una notevole gavetta, fatta di tante particine sparse qua e là, il meritato successo arriva alla fine degli anni ’50, con titoli come Carmela è una bambola, L’impiegato e Audace colpo dei Soliti Ignoti o Anni ruggenti, che ci consegnano un attore diverso dal classico panorama cinematografico nazionale. E i titoli della seconda metà degli anni ’60, non fanno altro che confermare in pieno quell’intuizione. Proprio in questo decennio, Manfredi mette a segno passo dopo passo numerosi successi, fino a quel 1969, che lo issa come miglior attore italiano dell’annata, per quello che sarà il suo anno mirabilis. Nel solo quinquennio 1964-69 è protagonista di oltre 20 film, tra film a episodi come Le bambole o I cuori infranti e lungometraggi interamente basati sulle sue straordinarie capacità di attore a tutto tondo, quali Straziami, ma di baci saziami, Italian secret service e Operazione San Gennaro, ambientato all’ombra del Vesuvio e impreziosito da un prestigioso intervento del grande Totò; per finire con Il padre di famiglia, uno dei migliori Manfredi di sempre, perfetto nel tratteggiare, come già anticipato sopra, il ritratto di un padre di famiglia alle prese con tutte le problematiche sociali e lavorative degli anni ‘60. Un piccolo gioiello diretto dal regista Nanni Loy.

Ma soffermiamoci un attimo su Italian secret service del 1967, un sottovalutato, ma divertente incrocio tra commedia all’italiana e parodia dei film di spionaggio americani. È il momento migliore della carriera di Nino Manfredi che addirittura nel 1968 si aggiudica due David di Donatello ex- aecquo sia per Italian secret service che per Il padre di famiglia. Caso più unico che raro nella storia della cinematografia mondiale: un ex-aecquo con se stesso. Ciò sta a significare che le sue interpretazioni, ormai, sono tutte di enorme spessore ed è forse l’attore più richiesto del panorama italiano, tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70. Infatti, è proprio in questo periodo, che l’attore prende piena consapevolezza di sé, dopo anni di gavetta, entrando sull’accogliente carro della commedia all’italiana. Anno dopo anno l’attore scala le vette, pur mantenendo un profilo basso, ravvisabile rispetto agli ingaggi medi degli altri colleghi del periodo: Mastroianni 120 milioni di lire, Tognazzi 50 e Manfredi (si fa per dire) soltanto 30, anche se con un movimento oscillatorio.

Infatti, a seconda del suo gradimento rispetto alla sceneggiatura era consono alzare o diminuire la richiesta, tenendo in mente vari fattori, quali lo studio approfondito del personaggio e i giorni di impegno sul set. Non c’è da sorprendersi, il tutto rientrava in quella grande attenzione che il professionista Manfredi, diffondeva nel suo lavoro: metodo, precisione e orgoglio. Molto spesso era solito inserire con grande vigore, modifiche in seno di sceneggiatura, attirando non di rado, polemiche accese con il regista di turno, quanto più era qualificato il secondo, tanto meno era disposto a cedere il passo. E così, ad esempio sul set di Nudo di donna, nel 1981, avviene un proverbiale e acceso diverbio tra Nino Manfredi e il regista Alberto Lattuada, con quest’ultimo che decide di abbandonare anzitempo il set, e il primo che prenderà le redini del lavoro portandolo a compimento.

Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, Manfredi continua quel processo di maturazione, che lo rende uno degli attori più amati del panorama nazionale.

Nominiamo, dunque, le sue migliori pellicole. Nel 1969 è impegnato sul set di Straziami, ma di baci saziami (1968), gioiellino di comicità paradossale e popolana, tutta giocata sul gusto per il calco filologico e deformante della subcultura popolare, del patetico da fotoromanzo e del romanticismo da festival di Sanremo, che contiene alcune delle più belle battute degli sceneggiatori Age e Scarpelli. Il trio di protagonisti è semplicemente sublime: Manfredi, Tiffin e Tognazzi; mentre il regista è Dino Risi.

L’elenco delle interpretazioni memorabili di Nino Manfredi, strettamente nell’ambito del film a episodi, del quale, va quì ricordato, Manfredi fu uno dei massimi specialisti, si arricchisce nel 1969, di un film Vedo nudo, diretto anch’esso da Dino Risi, che rimane, come film corale, uno dei migliori assoli dell’attore romano. Il migliore dei sette sketch che lo compongono è proprio l’ultimo, ovvero quello che dà il titolo al film e che è rimasto nella memoria collettiva. E’ la storia di un pubblicitario che vede denudate tutte le donne che incontra, ma quando crede di essere guarito la stessa devianza psichica si manifesta con gli uomini. L’episodio, il più divertente del film corale, si basa tutto sulla prova del grande Nino Manfredi e sulle sue espressioni facciali alle prese con le visioni “nude”, che sono da antologia della risata e da scuola di recitazione. Un cortometraggio molto conosciuto anche all’estero, dato anche il grande successo commerciale del film, tanto che pare sia stato preso ad esempio, quando nel 2000 la regista Nancy Meyers ad Hollywood firmò la pellicola What women want, con Mel Gibson. Anche quella è la storia di un pubblicitario alle prese con l’altro sesso, ma stavolta invece di vederle nude, acquista il potere “magico” di ascoltare il loro pensiero. Una prova in più del fatto che il cinema americano, ha spesso tratto spunto da quello italiano, sempre precursore dei tempi.

Quello stesso anno l’attore prende parte a Nell’anno del Signore, campione di incassi della stagione, il quale può essere considerato come il più grande film in costume della storia del cinema italiano. In un cast a dir poco eccelso – Sordi, Tognazzi, la Cardinale, Salerno – si staglia l’interpretazione del vero protagonista del film: Nino Manfredi. Sublime nel tratteggiare Pasquino, il ciabattino, lo storico autore di invettive contro il Papa, nella Roma papalina del 1825. La splendida interpretazione gli valse sia il Nastro d’argento che il David di Donatello come miglior attore protagonista della stagione 1969. Fu proprio con questo film che Manfredi e Magni iniziarono una fruttuosa e redditizia collaborazione, consolidatasi negli anni con In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1991), secondo e terzo capitolo della trilogia sulla Roma papalina di metà Ottocento, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra clero pontificio, aristocrazia e popolo.

Proprio Nell’anno del Signore rappresenta il primo capitolo di questa trilogia con almeno una perla destinata a entrare nella storia del cinema. Esattamente la scena finale –quando Pasquino intuisce che il potere trae forza dalla sua mancanza di emotività, rispetto al popolo che “c’ha er core” – è geniale e allo stesso tempo commovente. Spiega al suo discepolo interpretato da Pippo Franco che “…li morti così con una burla de processo pesano più peggio e cor tempo diventano la cattiva coscienza del padrone… perché solo sul sangue versato viaggia la barca della rivoluzione”.

Insomma, sacrificare due carbonari per risvegliare la coscienza del popolo: i primi vaggiti d’Italia 35 anni prima di Garibaldi, in un film realizzato all’alba dei tumulti che caratterizzeranno gli anni ’70 e che il cinema nazionale ha prontamente descritto.

Procedendo velocemente, negli anni ’70, vanno citate altre memorabili interpretazioni. Come Per grazia ricevuta (1971), che segna l’esordio in un lungometraggio di Nino Manfredi come regista, il quale è comunque anche il protagonista del film, con una regia dal sapore naif e un soggetto indubitabilmente nostrano e originale, a metà tra spiritualità e psicoanalisi, sulle conseguenze della cattiva educazione religiosa. Record di incassi della stagione 1970/71. Nino Manfredi, come già accennato sopra, vinse la prestigiosa “Palma d’oro” al Festival di Cannes per la miglior opera prima. Molte scene rimaste nella storia. Capolavoro senza tempo, esattamente come C’eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola, omaggio nostalgico, amaro e sincero al cinema italiano e più in generale ad un pezzo di storia e al tempo che passa inesorabile.

Abbiamo poi anche Pane e cioccolata (1974), a detta di molti, il miglior film della carriera di Nino Manfredi. Elogio dell’italiano all’estero con tante scene entrate nell’immaginario popolare. Manfredi si supera, in un’interpretazione attenta e precisa e vince con merito il David di donatello come miglior attore protagonista. In ultimo citiamo, alcuni film che rientrano nel Manfredi più strettamente drammatico. Un esempio su tutti, Brutti, sporchi e cattivi (1976), un film volutamente sgradevole, ambientato in una borgata degradata della capitale, dove Manfredi offre un’ottima prova della sua straordinaria poliedricità.

E poi abbiamo gli ultimi grandi “fuochi”, scintille di grande cinema d’autore. Parliamo de Il giocattolo (1979), splendido apologo sulla violenza privata, con un Manfredi drammatico che convince appieno; e soprattutto Cafe express (1980), nei panni del venditore abusivo di caffè sui treni Michele Abbagnano, a detta di molti la sua interpretazione più intensa e sofferta. E per questo film Manfredi vinse l’ennesimo Nastro d’argento della sua sfolgorante carriera.

Insomma, fa davvero piacere, che nonostante stiamo vivendo un 2021 complicatissimo, le celebrazioni in onore di Nino Manfredi, siano molteplici in tutto il nostro Paese: pubblicazioni, documentari inediti, omaggi televisivi e numerosi articoli a lui dedicati. Questo vuol dire, che abbiamo ancora una speranza. Abbiamo ancora la speranza che la cultura possa elevarci, che la cultura possa educarci e che quindi la memoria di chi ha reso grande questo nostro martoriato Paese, non si perda mai, nell’oblio degli abulici tempi moderni.

Perciò dobbiamo gridare con forza CIAO NINO ovunque lui sia…e studiarlo, amarlo al pari degli altri suoi colleghi, perché appassionarsi al nostro cinema vuol dire imparare qualcosa di più su di noi e vuol dire fare cultura, quella con la C maiuscola.

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Il meglio del cinema italiano nel 2020

In questo disgraziatissimo e maledetto 2020, con la Pandemia da Covid-19 che ancora non sembra darci tregua, il comparto culturale (congressi, conferenze, teatri, cinema, musei) è quello che più di tutti ha sofferto l’immobilismo che ha bloccato il mondo. Il cinema ovviamente ha lavorato a singhiozzo e si è adattato forzatamente alla moda dello “smart working”, che ormai ha conquistato il mondo. Lo “smart working” nel caso del cinematografo, ha creato un momento a suo modo epocale: la maggior parte dei film usciti nel panorama mondiale e nazionale sono approdate sulle varie piattaforme di streaming online come come Rakuten TV, Infinity TV, Google Play, Chili, TIMvision, Prime Video, Sky, Netflix o anche YouTube in versione a pagamento. I cinema sono rimasti aperti, tra restrizioni e condizionamenti molto variegati, almeno fino ai primi giorni di marzo; per riaprire poi, in estate, ma con una programmazione ridotta; e riprendendo poi, un certo vigore tra settembre ed ottobre, quando un nuovo DPCM, ne ha previsto la chiusura a partire dal 26 ottobre, in concomitanza con l’inizio della seconda ondata della pandemia.

In questo contesto molto angosciante e avvilente per tutto il comparto cinematografico, le pellicole italiane uscite, in qualunque maniera, nella maledetta annata 2020, toccano le 240 unità. Un numero cospicuo, bisogna dirlo, che testimonia come il nostro cinema, sia in ripresa e goda di una certa freschezza di idee, non parimente riscontrabile una decina di anni fa, ad esempio.

Scopri il nuovo numero: Simply the best È indubbio che quest’anno passerà alla storia come l’anno della pandemia. Così come indubbio che quest’anno ha portato malessere sociale, psichico ed economico. Ma dobbiamo sforzarci di cogliere un bagliore di luce anche in un anno così buio.

Da qui una carrellata dei migliori film italiani dell’annata, tenendo conto di vari fattori, come la popolarità degli attori impiegati, l’effettivo valore delle pellicole e infine del successo popolare, estendibile anche in campo internazionale.

TOLO TOLO, di Luca Medici [Checco Zalone]

Al suo quinto film Checco Zalone, debutta alla regia, firmandosi con il suo vero nome di Luca Medici. Lo fa con il suo copione forse più contestato, di sicuro il più ambizioso, arricchito anche da una certa vena di critica politica, che lo eleva certamente dai suoi lavori precedenti. Sembra un’era fa, ma un tempo nel nostro Paese si parlava solo di immigrazione. Checco offre la sua versione: libera, graffiante, molto più della visione dei democratici del nostro Parlamento. Un film che ha diviso spettatori e politica, ma che resta la tragicommedia (a fuggire dall’Africa all’Italia stavolta è un italiano stesso) che nessun altro saprebbe fare. Incassi in calo: dai quasi 66 milioni di lire di Quo vado, ai 46 dell’attuale film. Tanto basta per risultare campione di incassi annuali ed entrare quindi nella storia del cinema italiano.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

GLI ANNI PIU’ BELLI, di Gabriele Muccino

Remake dichiarato e in se, strepitoso omaggio a C’eravamo tanto amati, capolavoro di Ettore Scola, è la storia di tre amici (, , ) divisi dalla Storia e dalle storie personali; e di una donna (Micaela Ramazzotti) che proprio nel corso della loro vita si legano e si allontanano. Ne esce una cavalcata (meravigliosamente girata) dagli anni ’80 a oggi che ci riguarda tutti, nessuno escluso. Con sottofondo di Claudio Baglioni: «Noi che sognavamo i giorni di domani, per crescere insieme mai lontani», che si lega un po’ alla frase simbolo del film di Scola, recitata dal grande Nino Manfredi: “Credevamo di cambiare il mondo e invece è il mondo che ha cambiato noi”. Nelle parti di , Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli, il quartetto di attori non fa rimpiangere il passato e ci regala uno squarcio di poesia, che ci riporta ai fasti di un tempo. (Qui trovate la nostra recensione completa)

FAVOLACCE, dei fratelli D’Innocenzo

Vincitore all’ultima Berlinale dell’Orso d’Argento per la sceneggiatura, il film dei puntuali fratelli D’Innocenzo, è una commedia familiare di periferia che fonde Pier Paolo Pasolini e Tim Burton, e lo fa con un linguaggio stilistico, elegante e trasognante, che non può lasciare indifferenti. Disturbante, divertente, necessario, fresco e innovativo, ha in , il suo punto di forza. Proprio quell’Elio Germano che può essere considerato davvero l’attore dell’anno.

ODIO L’ESTATE, di Aldo, Giovanni e Giacomo

Odio l’estate è l’ultima fatica del leggendario trio composto da Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti. Una pellicola che restituisce al trio i fasti del proprio glorioso passato. E questa volta non si rimane delusi. Odio l’estate ha qualcosa di ognuno dei film storici del trio: ti fa pensare, ti fa ridere e alla fine lascia una velatura di malinconia. Nel film si ritrova il solito Aldo fanfarone, il solito Giovanni pignolo e il solito Giacomino perfezionista maniacale con il punto di forza di un affiatamento collaudato e di un’amicizia sincera che dura da sempre, quasi a voler smentire, una volta per tutte, i soliti detrattori, che avevano preannunciato o sperato in un disfacimento del trio. E invece no, Aldo, Giovanni & Giacomo, dopo alcune scialbe prove sono tornati più convinti di prima al cinema, con una sceneggiatura importante, ben scritta, e con un ritorno al passato.

(Qui trovate la nostra recensione completa)

FIGLI, di Giuseppe Bonito

Figli, già monologo reso celebre in tv da , è la commedia all’italiana dell’annata. Mastandrea è anche il protagonista, insieme a Paola Cortellesi, dell’adattamento cinematografico. La parabola dei genitori (non giovanissimi) che affrontano le fatiche erculee della crescita di un secondo figlio è costellata delle tenerezze e delle malinconie della vita di tutti. Ma è anche un resoconto infallibile della società di oggi: i protagonisti ultraquarantenni sono per primi gli eterni “figli”, schiacciati dalla generazione precedente.

HAMMAMET, di

Raccontare gli ultimi sei mesi di Bettino Craxi è l’obiettivo, difficile e ambizioso dell’ultimo film di Gianni Amelio. Sono passati 20 anni dalla sua fine prematura in Tunisia, complesso dire se pochi o molti per cominciare a guardare con il giusto distacco il discusso leader politico socialista. Ma Gianni Amelio con la complicità di un Pierfrancesco Favino reso straordinariamente somigliante ci prova e ci riesce bene; rientrando in quel filone che negli ultimi anni ha visto alcuni dei più importanti registi italiani affrontare la difficile materia di proporre una serie di personaggi politici che hanno segnato la storia del Paese: dal dittico cinematografico Loro di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi, a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio sul rapimento, la detenzione e l’omicidio di , senza dimenticare il Giulio Andreotti de Il divo, sempre di Sorrentino.

(Qui trovate la nostra recensione completa) IL GRANDE PASSO, di Antonio Padovan

Strepitosa commedia lunare, opera seconda del regista veneto Antonio Padovan; che si serve della classe interpretativa di Stefano Fresi e Giuseppe Battiston e della loro incredibile somiglianza fisica; Il grande passo è un film ricco di ingredienti, situazioni e personaggi fuori dal comune. Il tutto ruota, però, attorno ad un unico grande sogno: raggiungere la luna solo con le proprie forze. Un fratello ostinato, tanto da costruire un vero e proprio razzo spaziale nella sua cascina di campagna; ed un altro, bonario, accomodante, comprensivo, che ha a cuore le sorti del fratello, che ha visto pochissimo nella sua vita, ma che è l’unico in grado di comprendere il suo malessere. Battiston e Fresi spaziano perfettamente tra il toccante e l’esilarante, tra il grottesco e il surrealismo, regalandoci scampoli di quella che può essere definita la “nuova” coppia del cinema impegnato. Già perché la pellicola è davvero una spanna sopra la media delle commedie all’italiana attuali. Il sogno dello spazio e dalla vita extraterrestre sono ben descritti, così come la capacità di questo film, di far sognare il pubblico, ed infondere positività, strappando risate amare, ma intelligenti. Il talento dei suoi due protagonisti e un finale davvero sorprendente ed azzeccato, rendono la pellicola, per chi ama davvero il cinema italiano d’autore, una gemma preziosa.

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I PREDATORI, di Pietro Castellitto

La miglior opera prima dell’anno è scritta, diretta e interpretata da Pietro Castellitto, figlio d’arte del padre Sergio, che con I predatori ha vinto il premio Orizzonti per la sceneggiatura a Venezia 77. Un’idea di cinema personale ma già molto identitaria, e invidiabile per la sua chiarezza. C’è uno sguardo generazionale, fulminante e irriverente su questo scontro tra sottomondi (famiglia popolare, grezza e neofascista, posta in contrapposizione con quella ricca, borghese e radical chic), che però Pietro sviluppa su toni grotteschi e surreali, elaborando con un’ironia disarmante anche un certo giustificato complesso edipico. Per un’analisi antropologica degli italiani che vale più di mille trattati, travestita da filosofic-satira pronta a esplodere come una bomba a orologeria. Un ottimo debutto, che certamente verrà confermato con l’opera seconda, già in cantiere per il 2021.

VOLEVO NASCONDERMI, di Giorgio Diritti

Ancora Elio Germano, attore italiano dell’anno, senza se e senza ma. Questa volta al servizio del rigore di Giorgio Diritti. E del “genio e sregolatezza” (psichica: ma lì sta il genio) di Antonio Ligabue, il più celebre dei nostri pittori naïf. Anche in questo caso, un biopic che biopic non è, bensì opera pittorica, introspettiva, lieve sugli emarginati di tutti i luoghi e di tutti i tempi. E sui loro talenti (in)compresi. Immersa in un’Italia di provincia che raramente è stata così concreta, umana, realistica. Una collaborazione, quella tra Diritti e Germano, capace di generare il meglio del connubio autore-attore. E che non è ovviamente passato inosservato: al secondo è andato l’Orso d’Argento per la miglior interpretazione maschile all’ultimo Festival di Berlino.

PADRENOSTRO, di Claudio Noce

Lo scorso 12 settembre sul palco della 77esima edizione del più prestigioso e del più antico Festival del Cinema, ovvero Venezia, un emozionatissimo Pierfrancesco Favino riceve la Coppa Volpi, come miglior interprete maschile proprio per il film di Claudio Noce. L’avvenimento si erge come uno dei momenti più prestigiosi del cinema italiano del nuovo millennio. D’altronde Favino è ormai il miglior attore italiano degli ultimi vent’anni e l’interpretazione del vicequestore Alfonso Noce, assassinato nel 1976 per mano dei Nuclei Armati Proletari, negli anni di piombo, è resa con incredibile bravura e profondità drammatica, davvero senza eguali. Il film di Claudio Noce, sul proprio padre dell’Alfonso, interpretato da Favino, scava nei meandri del dramma del terrorismo, che colpì l’Italia e le più giovani generazioni, in quelli che furono definiti i “bui” anni ’70.

L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE, di Sydney Sibilia

Sydney Sibilia è un regista d’azione, innovativo nel panorama cinematografico italiano. Ha una poetica rude, ma che lascia il segno, e pone lo sguardo sul rapporto tra libertà individuale e potere costituito. La storia è di quelle italianissime, anarchiche e poco conosciute: l’avventura sessantottina quasi inconsapevole di un nerd d’altri tempi, Giorgio Rosa, che fondò uno Stato indipendente al largo delle acque di Rimini, mettendo in crisi Governo italiano, Consiglio d’Europa e ONU. Primeggia ancora una volta Elio Germano, ma c’è anche altro che luccica: una Matilda De Angelis deliziosamente bolognese e delicatamente seducente; e poi Zingaretti e Bentivoglio versione super caratteristi. Un cast perfetto per plasmare la nuova commedia all’italiana a immagine e humour del suo intelligente autore.

MISS MARX, di Susanna Nicchiarelli

Un film sulla figlia minore di Karl Marx, Eleanor, la quale porta avanti l’eredità politica del padre Karl, avvicinando i temi del femminismo e del socialismo, partecipando alle lotte operaie e combattendo per i diritti delle donne e per l’abolizione del lavoro minorile. La regista Susanna Nicchiarelli, fa ballare Eleanor (un’ottima Romola Garai) sulle note di un pezzo dei Downtown Boys come fosse Courtney Love. È proprio quel “punk”, tra le altre intuizioni, a lanciare Miss Marx oltre il biopic. Attenzione però: non si tratta di un film femminista, ma semplicemente “libero”, come ha spiegato la Nicchiarelli.

IL GIORNO E LA NOTTE, di Daniele Vicari

Una pellicola che detiene un primato da guinness: il primo “smart film” della storia del cinema. Le riprese sono cominciate nella Fase 2 e sono state rese possibili dal fatto che gli attori – in alcuni casi si tratta di coppie nella vita oltre che sulla scena – si riprendono da soli da casa propria, grazie alla propria attrezzatura tecnica. L’idea non è solo quella di fare un esperimento cinematografico ma anche quella di tradurre, dal punto di vista creativo, questo particolare momento storico, caratterizzato da isolamento e restrizioni della libertà, con tutte le conseguenze del caso, nel bene e nel male. Vicari porta con sé un cast d’eccellenza: Vinicio Marchioni e Milena Mancini (coppia nella vita, in quarantena insieme alla famiglia), Dario Aita, Elena Gigliotti, Barbara Esposito, Francesco Acquaroli, Isabella Ragonese, Matteo Martari, Giordano De Plano. Tutti comunicano tra di loro in video attraverso le varie piattaforme online, così come gli attori anche il regista è a casa sua e dirige il cast a distanza.

(Qui trovate la nostra recensione completa) DIVORZIO A LAS VEGAS, di Umberto Riccioni Carteni

Un road movie garbato, divertente, fresco e ben congeniato, che si ispira alle commedie romantiche americane, con tanto di lieto fine annesso. I protagonisti della storia sono Giampaolo Morelli e Andrea Delogu, bella, brava e disinibita al suo primo ruolo cinematografico; ben supportati da Grazia Schiavo, Ricky Memphis e Gianmarco Tognazzi in partecipazione straordinaria. La storia è piuttosto ben congegnata negli snodi (pur all’interno delle esagerate circostanze comiche), ma sono soprattutto i dialoghi a fare centro, e a risultare divertenti e romantici: il che è davvero una rarità nel cinema italiano contemporaneo di commedia.

DNA- DECISAMENTE NON ADATTI, di Lillo & Greg

Lasciato, non a caso per ultimo, Dna- Decisamente non adatti è il più bel film di genere comico dell’annata: nona fatica della coppia composta da Lillo & Greg, al secolo Pasquale Petrolo e Claudio Gregori. I due tornano al cinema, dopo tre anni di assenza, con una commedia decisamente azzeccata: surreale, dissacrante, esplosiva. La loro è un’accoppiata intelligente, che dopo i tanti successi radiofonici e televisivi, ha saputo farsi spazio anche nel cinematografo. E questa volta si testano, con risultati eccellenti, per la prima volta anche dall’altra parte della cinepresa. Il racconto si lascia seguire e i due seguono tutte le regole della commedia popolare italiana, riuscendo ad inserire la loro vena comica originale, che fa leva su giochi di parole intelligenti e gustose parodie. Al loro fianco Anna Foglietta, sempre brava e sempre nella parte. Insomma quello di Dna- Decisamente non adatti è un divertissement, davvero consigliabile, soprattutto in momenti così difficili, come quelli attuali.

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Una garbata commedia raffinata, un po’ road-movie, un po’ commedia romantica all’americana. Questo è Divorzio a Las Vegas, ben recitata da Giampaolo Morelli e Andrea Delogu nei ruoli principali, e ben supportata da Grazia Schiavo e Ricky Memphis nei panni dell’avvocatessa Sara e Lucio; con la partecipazione straordinaria di Gianmarco Tognazzi, sempre attento e perfettamente nella parte. La storia è piuttosto ben architettata negli snodi della trama, ma sono soprattutto i dialoghi a fare centro, e a risultare divertenti e romantici: il che è davvero una rarità nel cinema italiano contemporaneo di commedia.

I l c a s t p r i n c i p ale del film “Divorzio a Las Vegas”.

Il film poi, bisogna dirlo, è fresco ed originale nell’intuizione di raccontare una storia d’amore interamente attraverso le scene dei film americani, e la Delogu, al suo primo film, sorprende per bravura e sensualità. Si spoglia anche parecchio, ma di un nudo artistico e velato, che comunque non urta gli spettatori più sensibili. Il film di Umberto Carteni, ha poi molte altre carte da giocare: è realmente girato nei luoghi reali di Las Vegas e dei brulli paesaggi del Nevada, che rendono lo stesso film, molto suggestivo anche dal punto di vista iconografico.

La pellicola, uscita in sala lo scorso 8 ottobre, si fa quasi promotrice di una voglia di rinascita del nostro cinema, alla luce del recente lockdown, che ha praticamente bloccato non solo noi, ma anche tutto l’indotto cinematografico. Una voglia di rinascita che si inserisce in quel filone dei film italiani ambientati all’estero, che era diffusissima soprattutto negli anni a cavallo tra il decennio dei ’60 e dei ’70, e che vedeva ad esempio in Tognazzi-padre uno dei suoi migliori frequentatori.

Divorzio a Las Vegas è dunque un film che consigliamo, un dignitoso passatempo dell’Italia di oggi, sospesa tra la paura di una nuova ondata pandemica; e il sogno di una vita più agiata e più serena.

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Favolacce - Il film

Vincitore dell’Orso d’Argento a Berlino per la Migliore sceneggiatura, Favolacce, film di Damiano e Fabio D’Innocenzo, si issa, quasi senza ombra di dubbio, come la migliore pellicola della falcidiata annata 2020. Speriamo che il cinema possa riprendersi nel corso dell’estate e del prossimo autunno, ricordando come il suddetto film avrebbe già dovuto approdare nelle sale cinematografiche lo scorso 16 aprile, poi bloccato per la pandemia da Covid-19 che ha posto l’Italia in lockdown. Qualche giorno fa, in seguito alla riapertura delle sale cinematografiche, datato 15 giugno, alcuni film hanno avuto, è proprio il caso di dirlo, il coraggio di ripresentarsi lì dove la magia del cinematografo ottiene la sua massima espressione, ovvero in sala.

Favolacce è uno di questi “eroi” che cercano di prendere in mano il cinema italiano. Una favola nerissima, ma vera, in cui la coppia di autori ha riversato, attraverso la voce di un narratore, il vuoto pneumatico di figure parentali (con in più un docente) che dovrebbero insegnare a vivere ai propri figli mentre invece hanno perduto qualsiasi capacità di positività e di sguardo sul futuro.

I D’Innocenzo ci propongono solo tinte scure e a uno sguardo superficiale si potrebbe pensare che di pessimismo oggi ne circola già abbastanza senza bisogno di ulteriore impegno. Di fatto però non è così. Perché questa più che una favola nera è (ci si perdoni il gioco di parole) una favola ‘vera’. Basta leggere le cronache quotidiane per rendersene conto.

E se nelle favole nere non ci sono principi azzurri qui invece ce ne sono ben due. Sono i D’Innocenzo che, concentrando in una sorta di overdose narrativa il negativo sempre più presente nella società contemporanea, anche se con una diffusione a macchia di leopardo, ci vogliono ammonire. Ci ricordano che sempre più spesso i draghi dell’insensibilità e dell’amoralità (travestita da perbenismo di facciata) si annidano in quelle grotte che sono diventate certe abitazioni in cui solo apparentemente c’è tutto ciò che occorre. Questo film è la lancia che utilizzano per aiutarci a prenderne coscienza e ad iniziare a stanarli per poi sconfiggerli.

Il film, tutto poggiato sulle meravigliose spalle di Elio Germano, ormai l’attore italiano più importante del panorama nazionale, ha ottenuto anche 9 nominations ai Nastri d’Argento, tra cui quella più prestigiosa come Miglior film. In questa speciale categoria, il film sembra essere il favorito alla vittoria finale. Nella 75esima edizione, del prossimo 6 luglio, sapremo il verdetto.

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I film italiani sulla Liberazione

Una data di straordinaria importanza per il nostro Paese, mai come quest’anno tornata di moda in periodo di quarantena forzata, causa Coronavirus. Eppure quel benessere, del quale oggi godiamo, quella democrazia tanto agognata e sperata, affonda le sue radici in quel 25 aprile simbolico del discorso di Sandro Petrini, pochi giorni prima che quel 2 maggio 1945 le forze alleate entrassero a Berlino, ponendo così fine alla seconda guerra mondiale.

“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”

Il cinema italiano non si è poi, risparmiato nel raccontare quegli attimi di speranza, di ribellione di un popolo che voleva rinascere, che voleva riprendere la propria vita in mano, pur senza scordare il sacrificio, di uomini, resi eroi dalle circostanze, in nome del futuro della propria Patria e dei propri figli.

Quella “Liberazione” ricordiamo, non avvenne in maniera unitaria in tutta Italia, ma ebbe inizio da quel famigerato 8 settembre 1943, nel quale l’Italia cambiò schieramento firmando l’armistizio con le Forze Alleate, inglesi, francesi, americane e russe, riprendendo la guerra contro l’oppressore nazi- fascista. Fu una Liberazione graduale, dalla Sicilia a salire.

Il gioiello da tesaurizzare, su tutti, che meglio descrive quei momenti è “Tutti a casa”, del 1959, di Luigi Comencini, che inquadra perfettamente il caos di quei giorni, attraverso l’interpretazione memorabile di , il quale veste i panni del sottotenente Alberto Innocenzi, il quale vede squagliarsi la sua compagnia e si mette in marcia verso casa. Visto deportare un compagno dai nazisti, dopo la fuga dal padre (Eduardo De Filippo) che lo vorrebbe arruolato nell’ R.S.I., giunge a Napoli col soldato Ceccarelli (Reggiani) decidendo da che parte stare e cominciando a sparare contro i tedeschi: sono le quattro giornate di Napoli, quelle dal 24 settembre al 28 settembre 1943, quella ribellione del popolo napoletano che portò alla liberazione della città partenopea. Aiutato da un Alberto Sordi a dir poco sublime, conciliando felicemente il tono umoristico con quello drammatico, Comencini contribuisce a spezzare il muro di silenzio calato negli anni ’50 sulla Resistenza, affrontando con efficacia, e ottima precisione storica, un momento cruciale della nostra storia, accuratamente ignorato dal cinema italiano fino a quel momento.

Arriva, dunque il periodo in cui tutta l’Italia è in attesa dell’arrivo delle truppe Alleate, che significa Liberazione dall’oppressore nazi-fascista e la fine della guerra. Il sud-Italia viene già liberato all’alba del fatidico 8 settembre 1943. A Napoli la Liberazione avviene il 28 settembre di quello stesso anno, al termine delle storiche “Quattro giornate di Napoli”. A Roma gli Alleati sarebbero entrati solamente il 4 giugno del 1944, dopo una strenua resistenza tedesca lungo la linea di Gurov, o definita anche Caesar, posta nella zona poco sopra Anzio, dove avvenne lo storico sbarco, che insieme a quello di Norimberga, ha deciso l’esito della seconda guerra mondiale. La Liberazione significava commozione, democrazia, libertà, fu una gioia per tutti.

Film come “Napoli milionaria” (1950), nato dalla penna artistica di Eduardo De Filippo, descrivono alla perfezione il sentimento di rinascita del popolo italiano. La voglia di ricostruire, la voglia di raccontare gli scempi della guerra, per costruire un mondo migliore per i propri figli. L’alba di un giorno nuovo, la speranza di una ricchezza d’animo e di una stima reciproca ormai persa. La speranza, il senso della commedia stessa è un messaggio che Eduardo, dapprima rivolge alla sua Napoli ma che poi varca il confine, arriva al mondo, a tutti coloro che hanno subìto e che aspettano che passi la notte.

Altro ritratto magnifico, che ci ricostruisce l’eroismo italiano in chiave “Liberazione” è quello de Il generale Della Rovere (1959), pensato e scritto per , che interpreta magistralmente la figura di un imbroglione che durante la guerra finisce in prigione sotto le mentite spoglie di un generale dell’esercito italiano. Alla fine, l’imbroglione riscatterà la sua misera vita andando a morire con grande dignità, come se fosse veramente il generale Della Rovere, non rivelando importanti notizie che avrebbero messo in serio pericolo di vita partigiani e gente civile.

CI sono altri momenti di storia Patria sulla Liberazione destinati a rimanere nella storia. Uno dei migliori a cogliere gli attimi di attesa che culminano nella gioia della Liberazione è “Il cambio della guardia”, splendido film del 1962, interpretato da Fernandel e Gino Cervi, reduci dal successo della serie di “Don Camillo e Peppone”. La pellicola tratta dal romanzo “Avanti la musica” di Charles Exbrayat, narra la storia di due amici, Mario e Attilio (Gino Cervi e Fernandel) ai tempi dell’arrivo degli alleati a fine seconda guerra mondiale. Se nella saga di “Peppone e Don Camillo”, Cervi ha sempre fatto il comunista e Fernandel il prete cattolico, qui ad Ardea le cose si sono ribaltate. Cervi ha recitato la parte del gerarca fascista e Fernandel dell’antifacista. Nella coproduzione italo- francese – filmata sulla rocca della città – il podestà di Ardea, Mario Vinicio (Cervi), dà i poteri a un antifascista, Attilio Cappellaro (Fernandel), tanto i loro due figli stanno per sposarsi e tutto rimane dunque in famiglia. Ma sorgono degli inconvenienti, perché gli americani tardano ad arrivare e i gerarchi fascisti mettono loro i bastoni tra le ruote. A fine film, finalmente arrivano le truppe alleate e la commedia si chiude con la commozione della Liberazione tanto auspicata.

Possiamo continuare citando altri film a loro modo esplicativi del particolare momento storico: Il partigiano Johnny (2000). Il regista Guido Chiesa gira la versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio con l’attore Stefano Dionisi nei panni del soldato disertore che si unisce alla Resistenza e che insieme a Fabrizio Gifuni (Ettore) racconta quegli anni, dal 1943 al 1945 circa, da un punto di vista umano e personale.

Il terrorista (1963). Film di Gianfranco De Bosio ed interpretato, fra gli altri, da Gian Maria Volonté, Philippe Leroy e Raffaella Carrà. Il regista si rifà alla sua esperienza nella Resistenza veneta, nella quale ha partecipato a Padova per dare a questo film – come descrive il critico Gianni Rondolino – un impianto ideologico molto forte e uno stile asciutto che racconta la storia di un uomo che prova a fondare un GAP (Gruppo di azione patriottica) a Venezia nel 1943.

Un giorno da leoni (1961). Nanny Loy descrive i sentimenti della Resistenza da un punto di vista umano e popolare. I suoi giovani, i personaggi di Michele, Gino e Danilo, che decidono di abbracciare la lotta oppure no, sono umani, a volte eroici e a volte indifferenti ma molto iconici del clima di quel periodo e delle scelte che fecero molti ragazzi. Per i quali spesso l’adesione alla Resistenza fu anche momento di crescita personale dopo un primo sentimento di naturale paura.

A luci spente (2004). Diretto da Maurizio Ponzi il film racconta l’evoluzione di un set cinematografico romano sullo sfondo della primavera-estate del 1944. Nel cast l’attrice Giuliana De Sio e Giulio Scarpati partecipano ad una storia di trasformazione personale e artistica, dove anche il cinema capisce di non poter più girare lo sguardo di fronte alla realtà della guerra ma deve in molti casi farsi racconto ‘impegnato’ dell’attualità.

La ragazza di Bube (1963). La storia d’amore tra la contadina Mara (Claudia Cardinale) e il partigiano Bube (George Chakiris) vista dal regista Luigi Comencini e tratta dal romanzo di Carlo Cassola. Un ritratto umano e sentimentale di come venivano vissuti i rapporti amorosi divisi dalla guerra.

E poi vorremmo concludere con un piccolo grande miracolo, quello di Vittorio De Sica, di Cesare Zavattini e de La porta del cielo. “La porta del cielo” è un film del 1944 diretto da Vittorio De Sica e sceneggiato da Cesare Zavattini, e pur non essendo, da un punto di vista tecnico, tra i loro film più acclamati, è però quello che più di ogni altro assume grande rilevanza per capire “l’uomo De Sica” e “l’artista De Sica”. La genesi del film è particolarissima, perché se è facile raccontare i difetti di un uomo grande, grandissimo come Vittorio, è meno facile dare il senso della sua generosità, della sua fantasia e dell’affettuoso sortilegio in cui con il suo carisma era capace di avvolgere chiunque avesse vicino. De Sica e Zavattini con questo film, non solo avevano compiuto un vero e proprio atto eroico, ma erano riusciti, evidenziando nella regia un’attenzione al particolare verista, a dare lo spunto per i loro successivi capolavori neorealisti, ma anche per quelli di Visconti e di Rossellini. De Sica, specialmente, era riuscito a fare quello che altri avevano tentato senza successo: cambiare il cinema per cambiare se stessi. De Sica riuscì attraverso questo piccolo film, commissionato dal Vaticano, a salvare dalla deportazione tantissimi ebrei, se ne contano più di 800: da brividi! Il risultato? uno straordinario, involontario miracolo operato dal cinema, che quando è buon cinema, sa essere più vero della realtà. Le riprese del film iniziarono il primo giorno di marzo del 1944. Dentro la Basilica di San Paolo, fuori le mura. Vi sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Che non è in guerra con nessuno. Lì fu girata l’ambientazione della chiesa di Loreto. Lì fu costruito il set con il treno che trasporta i malati. Lì avvenne il “piccolo grande miracolo”. Il fulcro della trama è la storia di un gruppo di malati in viaggio verso Loreto per chiedere il miracolo della guarigione alla Madonna.

De Sica impose la presenza del suo grande amico e sceneggiatore di sublime livello Cesare Zavattini, con il quale scriveva i suoi film e avrebbe scritto i capolavori futuri. La sceneggiatura della “Porta del cielo” fu redatta da Zavattini, Adolfo Franci e Diego Fabbri, imposto dalla produzione vaticana e ben introdotto nella Curia. Nonostante la presenza vigile del garante Fabbri, prevalse l’irruenza delle idee del grande Zavattini, sostenute ovviamente da De Sica. Nel copione il miracolo non c’era. I malati infatti si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire. Non fuori nelle forze soprannaturali. E di chi poteva essere questa idea, se non di quell’ateo e ingegnoso Zavattini? Ma il vero miracolo si compì e fu un altro. Poche sere prima dell’inizio delle riprese, nell’ultima decade di febbraio per la precisione, mentre De Sica e Zavattini mettevano a punto gli ultimi accorgimenti di sceneggiatura, assistettero ad una deportazione di ebrei romani. Due camion, uno con i bambini e le donne e l’altro con gli uomini. Tornati a Cinecittà, hanno cominciato a scritturare partigiani, ebrei, amici di intellettuali e si sono chiusi, dalla mattina dopo, nella splendida Basilica di San Paolo, sotto la protezione della bandiera vaticana: alla fine erano più di 800 persone, che vivevano lì dentro. Tutti i componenti della troupe ebbero uno speciale permesso di circolazione. Un’assicurazione sulla vita firmata Città del Vaticano. Tra questi ovviamente anche De Sica e Zavattini. Ed anche la Mercader. L a l o c a n d i n a d e l f i l m “ L a p o r t a d e l cielo” del 1944 diretto da Vittorio De Sica.

Il clima di guerra, la persecuzione contro gli ebrei, l’attesa della liberazione ( le notizie che arrivavano per radio, davano le truppe alleate ad un passo da Roma, ed esortavano la popolazione a resistere che la liberazione era vicina), la finzione del film e l’extraterritorialità garantita da quella Basilica trasformavano quel luogo sacro in uno scenario da film di Bunuel, in cui le persone erano praticamente costrette, in maniera quasi claustrofobica, dalle persecuzioni che avvenivano all’esterno a rimanervi tappate dentro. C’erano un sacco di ebrei dentro, alcuni famosi come Piperno, Lattes e addirittura Carlo Levi, e poi Modena, e tanti tanti partigiani. Le autorità nazi- fasciste erano perfettamente a conoscenza di ciò che stava succedendo all’interno della Basilica, ma non potevano intervenire per l’extraterritorialità di quella Basilica, a tutti gli effetti territorio vaticano. De Sica era stato anche informato da Monsignor Montini, di prestare attenzione, perché le autorità fasciste sapevano perfettamente cosa stava accadendo là dentro. Arrivò poi un’alba, quella del 4 giugno 1944, e le riprese continuavano quella mattina, stranamente presto, molto presto. Roma era ferma e calma quella mattina. Ma nell’aria si avvertiva un’atmosfera diversa e mentre, come da un mesetto a questa parte De Sica continuava a girare senza pellicola e avrebbe continuato anche per mesi in attesa della liberazione, si udirono da fuori i rumori dei carri armati americani, delle grida della gente in festa: le truppe alleate avevano sfondato, era finita, gli americani erano entrati nella Capitale, Roma era stata liberata, almeno nella Capitale la guerra era finita. E la commozione ebbe il sopravvento, la grande paura era passata e gli 800 ebrei poterono dire grazie all’intuizione e all’eroismo di De Sica, di Zavattini e di tutta la troupe.

Si compì il miracolo di un film nel film, il miracolo di una nazione che rifiorisce dalle miserie, partendo dalla descrizione realistica degli scempi causati dalla guerra: era nato il Neorealismo. Anche il grande scrittore Ennio Flaiano, rimase commosso ed estasiato dalla maniera in cui si svolse il film, e cosa accadde intorno al film stesso, rimase anch’egli estasiato dal miracolo che si compì, uno scritto dello stesso Flaiano, apparso il 6 maggio 1945 sul settimanale “Domenica” dice:

“La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo, mi sembra, è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà. Non si legge il diario di produzione di questo film senza restare sbalorditi per la serie di incidenti drammatici che ne rallentarono il corso. Basterà ricordare che il 3 giugno scorso, mentre a pochi chilometri di distanza si decideva la battaglia per Roma, 800 persone tra comparse e tecnici vari erano agli ordini del regista nell’interno della Basilica di San Paolo, intenti a girare, mostrando un disprezzo per la guerra che soltanto Archimede avrebbe condiviso. De Sica raccontava che gli aveva chiusi praticamente a chiave, altrimenti qualcuno sarebbe anche, stoltamente, potuto scappare. E rideva come di uno scherzo riuscito. Il film è stato girato a Roma durante i mesi dell’occupazione tedesca. Probabilmente sarebbe rimasto incompiuto se non fosse stato di proposito una risposta a quell’occupazione, agli atti che la caratterizzarono, e addirittura alla filosofia che l’aveva fatalmente provocata come episodio di una guerra diretta più contro l’Uomo che contro determinate nazioni”.

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Film d’autore, del maestro Gabriele Salvatores, Tutto il mio folle amore è un road-movie girato con grazia, eleganza ed empatia. Un genere che Salvatores ha sempre avuto nel cuore, perché gli consente il recupero di una libertà espressiva che, come in passato, prende la forma del viaggio iniziatico. Tutto il mio folle amore prende il titolo da un verso della canzone di Domenico Modugno “Cosa sono le nuvole”, a sua volta titolo dell’episodio di Capriccio all’italiana diretto da Pier Paolo Pasolini.

C l a u d i o S a n t a maria nei panni di Willi in una scena del film “Tutto il mio folle amore”.

Tutto il mio folle amore nasce dal romanzo “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas, che a sua volta nasceva dalla storia vera di un padre e il suo figlio autistico in viaggio attraverso le Americhe. Nel film di Salvatores l’America è molto più vicina e la malattia di Vincent non ha nome, ma comporta momenti imbarazzanti, sbalzi di umore, entusiasmi incontenibili e brusche frenate: non solo da parte del ragazzo ma anche di un padre che non ha mai voluto (o saputo) diventare adulto. Willi è “strano” tanto quanto Vincent, e a ben guardare è “strana” anche Elena, da cui il figlio ha ereditato non soltanto il bel viso. L’unico “normale” sembra essere Mario che però, con la sua concretezza meneghina, è ben cosciente che la “stranezza” arricchisce la sua vita altrimenti monotona, anche perché per mestiere – fa l’editore letterario – è sempre in cerca di un’originalità autentica nel raccontarsi.

Il trio di professionisti affermati che lo circonda fa generosamente da sponda alla sua energia vitale: Claudio Santamaria presta a Willi la sua fragilità e malinconia (e interpreta benissimo Modugno), Valeria Golino tira fuori la sua componente anarchica e inquieta, e è garanzia di sollievo comico (e buon senso). Ma quello che lo spettatore può portare a casa dopo la visione del film è la sensazione profonda di aver assistito a quel ritorno alle origini di Salvatores, ovvero alle atmosfere di quella magica quadrilogia di pellicole come Mediterraneo e Puerto Escondido, che sono rimaste nella memoria collettiva.

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5 è il numero perfetto - Il film

Il 29 agosto scorso, è uscito nelle sale un film, che inaugura la “nuova” annata del cinema italiano, la quale si preannuncia ricca di pellicole interessanti. Parliamo di “5 è il numero perfetto”, film di Igor Tuveri, con un trio d’eccezione: , Valeria Golino e . Il film è un piccolo e delizioso affresco della Napoli degli anni ’70, resa con tutte le atmosfere tipiche di quegli anni: una certa cupezza di fondo, un certo colore ed un certo folklore, che rendono la storia molto suggestiva, anche da un punto di vista iconografico. Abbiamo Toni Servillo, nei panni di Peppino Lo Cicero, un sicario di seconda classe della camorra in pensione, costretto a tornare in azione dopo l’omicidio di suo figlio; ma abbiamo anche Carlo Buccirosso amico e complice di una vita, nei panni di Totò o’macellaio; e Valeria Golino nei panni di Rita, l’amante di Lo Cicero. Il trio cercherà di far luce sull’omicidio di Nino Lo Cicero, innescando tutt’una serie di azioni criminose, ma anche la scintilla per cominciare una nuova vita. T o n i S e r v i l l o e C a r lo Buccirosso in una scena del film “5 è il numero perfetto” di Igor Tuveri.

Il suo autore Igor Tuveri, in arte Igort, splendido fumettista e sceneggiatore, trae questo film da sé stesso. L’opera omonima a fumetti, è del 2002, ed è il suo libro a fumetti più popolare, vincitore di numerosi premi internazionali, tra cui la prestigiosa Fiera del Libro di Francoforte. Questo noir napoletano, ricco di suggestioni, di atmosfere e di sfumature, ha avuto un lavoro di casting molto lungo e ragionato, proprio in ragione del particolare adattamento del fumetto ai tempi e ai metodi del cinematografo. Ed è proprio nella scelta degli attori, la metà dell’opera di un film che risulta azzeccatissimo: tutti i personaggi hanno trovato l’attore giusto che ha offerto loro carne, sangue e voce. A partire da Toni Servillo che aderisce con grande partecipazione alle azioni e ai pensieri di un uomo che vede la propria attività di killer come un lavoro faticoso che ha una propria (distorta) morale. Lui, Buccirosso, Golino e tutti gli altri fino ai ruoli minori sanno offrire caratterizzazioni da cinema anni ’70 innervate da uno sguardo, quello di Igort, che sa come andare ‘oltre’ la storia riuscendo a far diventare protagonisti gli spazi e gli edifici in ogni inquadratura.

Qui si vede l’anima dell’artista eclettico che, tavola dopo tavola, ha dovuto ‘ambientare’ le proprie storie con tutta la libertà che offre il disegno. Questo non è però stato di ostacolo alla ricerca delle location ma, sembrerebbe, di stimolo all’individuazione delle vie, dei palazzi, delle scale in cui collocare le vicende. Un film quindi, che sorprende, dove anche il minimo dettaglio assume un senso e che è stato presentato, fuori concorso, in “prima assoluta”, la mattina del 29 agosto al Festival del Cinema di Venezia, nella sezione “Giornate degli autori”, ottenendo scroscianti applausi, per poi essere proiettato a partire dalla stessa serata, in oltre 200 sale cinematografiche nazionali.

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Ma cosa ci dice il cervello - Il film

Iniziamo dall’epilogo: Ma cosa ci dice il cervello consegna a Paola Cortellesi, splendida protagonista del film, il Nastro d’Argento come miglior attrice di commedia, un giusto riconoscimento ad una donna del cinema, che ogni anno che passa diventa sempre più brava, sempre più interprete dei vizi e delle virtù della donna italiana. In questo potremmo forse paragonarla a Monica Vitti? Probabilmente è la più vicina, perché è quella che più di tutte, al giorno d’oggi, nell’ambito della commedia riesce meglio a comprendere come siano le donne italiane del nuovo millennio.

Le avrà probabilmente giovato l’accoppiata non solo artistica con Riccardo Milani, regista del suddetto film e suo compagno di vita. Al suo quarto film con il regista, dopo Scusate se esisto, Mamma o papà e Come un gatto in tangenziale, Paola Cortellesi è utilizzata in una parodia delle spy story di spionaggio all’americana, che mette in risalto il suo grande talento comico. P a r t e d e l c a s t d e l f i l m “Ma cosa ci dice il cervello”.

Come in tutti i film di spionaggio che si rispettino, anche quelli parodistici, si viaggia per il mondo. Si gira a Roma, a Mosca proprio nella Piazza Rossa, a Siviglia e perfino per le vie del mercato di Marrakech.

Lo stesso regista, all’ottava edizione di Ciné-Giornate di cinema, ha descritto così il suo film, che poi sarebbe uscito qualche giorno dopo, ovvero il 18 aprile scorso:

“Una commedia sociale per raccontare un Paese che ha bisogno di risvegliarsi dal torpore. Proprio come farà la sua protagonista, Paola Cortellesi, donna abituata alle angherie del quotidiano, alle prepotenze del traffico e che un giorno, rincontrando amici di vecchia data, avrà la forza per alzare la testa e smuovere qualcosa, magari rimettendo le cose al proprio posto”.

Le avventure che vive l’agente segreto interpretato da Paola Cortellesi, con sferzante ironia, possono essere viste come un tentativo comunque riuscito, di raccontare il nostro Paese, in chiave di divertimento e di riflessione sui tempi moderni.

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10 giorni senza mamma - Il film

Commedia brillante, “10 giorni senza mamma” è l’ennesima fatica sostenuta dal talento comico di Fabio De Luigi, in questo determinato momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è stato già pochi mesi fa, a novembre, in sala con “Ti presento Sofia”, al fianco di Micaela Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle costole ed una nuova fidanzata.

Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli, anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma” (Valentina Lodovini, bellissima) decide di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente, per lavoro e per pigrizia: guai a catena.

E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si presta a meraviglia ad una tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle vicende in cui si ritrova invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte malinconia di un padre che ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che non comprende a pieno il ruolo di una madre full time.

In questo si nota la volontà degli sceneggiatori di scrivere un prodotto diverso, sia pure nell’ambito della commedia brillante. Così facendo, creano un lavoro dal retrogusto amaro, che convince soprattutto nel rapporto di questo padre con i suoi tre figli, e soprattutto in quello, ancora salvabile, con la propria partner.

E quindi appare chiara la forte volontà di portare sul grande schermo tematiche attuali quali la frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il difficile connubio famiglia/lavoro. E specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui è stato scritto il personaggio interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore (finalmente) contemporaneo. Il film rimane come uno dei migliori prodotti brillanti dell’annata, che si prospetta proficua per il nostro cinema e per la commedia, all’alba del nuovo decennio.

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Mattina presto: il telefono squilla, con la fastidiosa suoneria personalizzata di tua moglie, ti svegli di soprassalto e ti riprendi a fatica, ma poi realizzi che sei in un letto non tuo, che la casa intorno a te, benché famigliare, non ti appartiene e, cosa peggiore, che la donna nuda accanto a te non è tua moglie.

Lo so, a qualcuno potrà sembrare l’incipit di un film alla “Una notte da leoni”, ma sarebbe fuoristrada, il film è italiano, come gli attori e il regista Volfango De Biasi (Come tu mi vuoi, Iago, Natale a Londra – Dio salvi la Regina). Ma il film è anche il remake del campione d’incassi francese del 2017 Alibi.com di Philippe Lacheau.

Ma torniamo al nostro spaventato personaggio: cosa fare quando, dopo una notte di bagordi con la tua amante, ti addormenti e non rientri a casa da tua moglie? E per di più hai il collo pieno di segni (leggete succhiotti) della passione? Beh, le soluzioni sono 2: o scappi con l’amante o chiami i professionisti dell’’Agenzia dei Bugiardi. Il nostro sprovveduto amico decide per la seconda opzione.

Dall’altra parte del telefono ti risponde Fred, il sempre più bravo e maturo Gianpaolo Morelli, che con fredda risolutezza ti dice subito cosa devi fare e, contemporaneamente, elabora e mette in moto un piano per riscattare la tua colpevole scappatella agli occhi di tua moglie e dei tuoi suoceri, intanto accorsi a casa tua.

Cambio scena: il campanello suona a casa tua, tua moglie inviperita viene ad aprire e ti trova malconcio su di una sedia a rotella con un collare ortopedico, scortato da un infermiere del 118 ed un poliziotto della stradale, i quali le spiegano che hai avuto un brutto incidente rientrando a casa per non investire il cane di un cieco. Fantastico, sei passato in un attimo da marito fedifrago ad eroe, salvando matrimonio ed amante e rimettendoci solo un telefonino e una macchina.

Tornati in agenzia, scopriamo che l’infermiere altri non è che Diego (lo stralunato ed esilarante Luigi Luciano), l’esperto informatico dell’agenzia, e che il poliziotto era lo stesso Fred, titolare e performer dell’Agenzia dei Bugiardi, specializzata a fornire alibi a mariti e mogli infedeli, ma anche altri servizi a tutta una serie di personaggi insospettabili. Cambio scena: Fred sta cercando personale, e lo vediamo intento a fare un colloquio ad un candidato, Paolo (l’attore e conduttore televisivo Paolo Ruffini), al quale spiega le motivazioni, il funzionamento e i servizi dell’agenzia.

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Insomma, un’attività di successo, remunerativa e con un bacino di clienti pressoché illimitato. Tutto bene, tutto bello, addirittura con un certo risvolto sociale giacché, come spiega Fred al candidato Paolo, l’idea dell’Agenzia nasce da un suo personale dramma familiare che gli ha fatto maturare l’opinione che è “meglio una bella bugia che una brutta verità!”, frase usata pure come slogan aziendale.

Il film procede con vari interventi salva bugiardi durante la settimana di prova del candidato Paolo; tutto fila liscio fino a quando, e qui arriva il plot del film, all’agenzia non si rivolge un ricco uomo d’affari, Alberto (il sempre bravo Massimo Ghini), che espone all’agenzia un problema di difficile gestione.

Senza voler svelare altro del film, che consiglio di vedere, veniamo alla critica vera e propria. Il film gira bene, gli attori si innestano perfettamente gli uni sugli altri, la regia è lieve, la sceneggiatura solida (entrambe di Volfango De Biasi) e le situazioni che l’Agenzia dei Bugiardi è chiamata a risolvere, benché al limite dell’assurdo, sono credibili ed esilaranti. Il film per la prima parte è girato soprattutto in interni, stanze, alberghi, etc., ma nella seconda parte si apre all’esterno con scenografie naturali ben sfruttate, fra cui spicca un resort di lusso in Puglia, meta gettonatissima dalle produzioni italiane ed estere. G i a n p a o l o M o r e l l i e Diana Del Bufalo sul set del film.

Su tutto spiccano, come succede in questo tipo di commedie, le interpretazioni degli attori, tutti bravi, ma tra di esse emergono quelle di Gianpaolo Morelli, sempre più credibile e a suo agio nei ruoli borderline sia al cinema che in tv, di Massimo Ghini, attore maturo e pieno di sfumature, di Alessandra Mastronardi, frizzante e poliedrica attrice che si muove perfettamente fra cinema e fiction, commedia e drammatico, e della sorprendente Diana Del Bufalo (Amici, La profezia dell’armadillo, Puoi baciare lo sposo), che interpreta con ironia e voglia di prendersi in giro il ruolo di W Cinzia (non viva ma doubleV) che fa da collante a tutti i personaggi del film.

La Del Bufalo, che attualmente è nelle sale sia con questo film che con il mediocre “Attenti al Gorilla” di Luca Miniero, canta, sui titoli di coda, in un videoclip musicale che, parodiando Baby K, prende in giro il rap italiano con tanto di twerking, vestiti animalier, ambientazioni urban-pop, e che da solo merita i soldi del biglietto.

Per concludere, possiamo dire che il film regala 102 minuti di divertimento, senza parolacce, condito con una discreta dose di riflessione sociologica su cosa la nostra società di consumatori compulsivi è diventata. Il regista sembra dirci che oggi si compra, ma soprattutto si consuma, di tutto: matrimoni, infedeltà, scappatelle e, ahimè, se tutto è in vendita, allora anche la verità e le bugie sono sul mercato e possono essere acquistate dal miglior offerente e manipolate dall’abile professionista. Una metafora di internet, dei Big Data, delle fake, della disinformazione, un film che fa ridere con un po’ di amarezza e riflettere con un senso di disgusto.

Per approfondire:

■ #10yearschallenge: complotto di Facebook o semplice fenomeno social? ■ Utilizzo dei dati, Facebook e Cambridge Analytica, in parole semplici! ■ Fake Politics Mentre scrivo questa recensione (21 gennaio), il film è 5° al Box Office, con un incasso totale di 893.223 euro a quattro giorni dall’uscita, il 17 gennaio 2019, battendo nel weekend addirittura il blockbuster Aquaman, che si ferma a 864.559 euro.

Non ci resta che il crimine - Il film

Non ci resta che il crimine, di Massimiliano Bruno, uscito in quasi 400 sale (la potenza del produttore Fulvio Lucisano e della 01 distribution), poggia tutta la sua popolarità sul trio di protagonisti davvero d’eccezione: Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi. Accanto a loro un Edoardo Leo di indolente ironia nei panni di Renatino De Pedis, capo della famigerata Banda della Magliana. Non ci resta che il crimine è un mix volutamente dichiarato tra Non ci resta che piangere e Smetto quando voglio.

U n a s c e n a d e l f i l m “ Non ci resta che il crimine”, con i 4 prtagonisti Alessandro Gassman, Gianmarco Tognazzi, Edoardo Leo e Marco Giallini vestiti e truccati come i Kiss.

Il titolo è un omaggio all’ironia del primo leggendario film, il crimine fa parte del plot. E’ la storia di uno sfaccendato trio di amici che mostra ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana. Un giorno i tre si trovano catapultati, tramite un cunicolo spaziotemporale, esattamente nel 1982 durante i Mondiali di calcio, in un salto nel tempo curioso e ricco di interesse spettacolare.

Lo stesso Marco Giallini, ospite d’onore in Sicilia, all’Ortigia Film Festival, aveva raccontato in anteprima quello che sarà il film e la sua connotazione di omaggio e in se di commedia d’avventura: “Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci resta che piangere, ma lo abbiamo ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo. Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano ai turisti i luoghi della Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno usciamo da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo in mezzo alla banda vera in un salto temporale curioso da oggi a quegli anni lì. Ci sarà parecchio da ridere”.

Quello del film in costume, con un cortocircuito spazio-temporale che proietta i nostri “eroi” indietro nel tempo, in epoche remoto o anche meno remote è una delle più affascinanti tecniche di suggestione cinematografica e siamo sicuri che questa stessa pellicola avrà la forza per sopravvivere in mezzo a tante commedie coeve, dove manca quel pizzico di originalità, indispensabile per emergere.

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Il Ministro - Il film

Favola nera, anzi nerissima, che ha avuto una distribuzione limitata, sul complicato intrigo di corruzione e connivenze in cui molti si muovono, e a cui alcuni hanno venduto l’anima tout court. Nessuno è innocente in questa storia, e il cinismo crudele che anima tutti i personaggi non li abbandonerà dalla prima all’ultima scena, mostrando un coraggio e una coerenza narrativi non comuni nel cinema italiano contemporaneo, sempre pronto alla deriva piaciona e buonista. Inquietante la didascalia iniziale prima dei titoli di testa che avverte: “storia probabilmente accaduta”, il che la dice tutta sull’attualità della storia e sulle sue dinamiche. Il film però va ben oltre, è un ritratto attento, ironico e cattivo su usi e costumi della società di oggi, a prescindere dalle vicende politiche. L’immoralità politica e le abitudini poco pulite (diciamo così) sembrano in effetti una naturale conseguenza di modi maleducati e irrispettosi al limite della legalità di una intera società. Da lla pri m a sc en a si int uis ce su bit o ch e il fil m no n far à sc on ti sul la pe rs on ali tà de l pr ot ag on ist a, no n cerca di rendercelo simpatico. Franco, uno splendido e inusuale Gianmarco Tognazzi, è continuamente incazzato e in tensione, spende e spande soldi a casaccio: per comprare un vino costosissimo (un Sassicaia che “…non si sposa però bene con il coniglio” – l’episodio alla enoteca è uno dei più simpatici) e ingaggiare all’ultimo momento una escort che si rivelerà in seguito “solo” una ballerina di burlesque (Jun Ichikawa). Per far bella figura non si fa problemi a comprare cocaina da uno strozzino chiamato “Il Pitone” e nascondere nella scrivania del suo studio la valigetta con la maxitangente. Franco non si fa scrupoli nemmeno nel sedurre e indurre alla prostituzione la sua affascinante cameriera di colore (Ira Fronten) una volta accortosi che al ministro non dispiacerebbe. Franco è quindi un protagonista antipatico, irresponsabile e sicuramente negativo. Di contro abbiamo la moglie e il cognato che non sono di meno: egoisti e privi di qualsiasi morale condivisa. Possiamo sperare nel ministro? Sarà lui la svolta positiva alla storia? Quello che ci farà ricredere sulla politica italiana?

La commedia di Giorgio Amato è di quelle cattive, anzi cattivissime, politicamente scorrette verso qualsiasi categoria, amare come sapeva essere la migliore commedia all’italiana dei tempi d’oro. Questa commedia non è sicuramente di quelle che mette d’accordo tutti, di quelle accomodanti dove la risata è strappata dalla battutaccia o dal luogo comune. La risata che ne scaturisce è di quelle amare, che lasciano il ghigno una volta passata. Il malcostume politico è una conseguenza dei comportamenti poco puliti di chi la politica non la fa, una sorta di assuefazione all’illegalità o comunque ad una maleducazione diffusa. Tra i personaggi in questione non c’è mai una parvenza di pentimento o di ripensamento verso ciò che stanno facendo, la corruzione è un comportamento dovuto per ottenere ciò che si vuole.

Il film è sorretto da un ottimo cast, su tutti il protagonista, Gianmarco Tognazzi, presente in quasi ogni scena, che riesce a mantenere un ritmo e un livello sempre alto fino al finale che rasenta il grottesco. Tognazzi sa stare al centro dell’attenzione e allo stesso tempo dare il giusto spazio ai compagni di lavoro. Un ruolo quello di Gianmarco Tognazzi, che è quasi un omaggio ai ruoli più riprovevoli interpretati dal padre Ugo. Poi c’è Fortunato Cerlino, il ministro “perfetto”, quello che ognuno di noi vorremmo vedere al governo in questi ultimi anni. La cena che ci viene raccontata nel film, e che è la sequenza centrale del film, pare prendere vita da uno dei tanti articoli letti, o dalle notizie apprese nei telegiornali, e la memoria fa presto ad andare ai festini in maschera organizzati dai nostri politici nazionali. Ma quello che rende il film divertente e per nulla scontato sono proprio i personaggi femminili, che non sono relegati a puro oggetto del desiderio e merce di scambio per i loschi affari, ma al contrario si rivelano essere le menti più astute di tutta la combriccola. Amato, insomma costruisce una galleria di nuovi mostri senza possibilità di redenzione, ma ognuno animato da una disperazione di fondo che rende l’etica un fantoccio nelle mani dell’economia. L’ispirazione è chiaramente la commedia all’italiana anni ’60, il modello è quello della cattiveria castigatrice di Monicelli, Salce e Risi. Questa del film “Il Ministro” è una bella commedia caustica, come non se ne vedono da un po’ nella nostra cinematografia, e meriterebbe quell’attenzione, che ad esempio, hanno commedie e pellicole molto meno meritevoli di questa.

Chef – La ricetta perfetta – Il Film

Carl Casper è un noto chef di un altrettanto celebre ristorante di Los Angeles che viene a conoscenza dell’imminente visita del critico gastronomico Michel Ramsey, per il quale decide di preparare un menù innovativo e coraggioso. Ma la creatività e la passione dello chef vengono presto gelate dal proprietario del ristorante, Riva, che gli intima di seguire scrupolosamente il vecchio menù, collaudato da oltre un decennio. La serata è un fiasco: il critico stronca sul suo seguitissimo blog non solo il menù, ma attacca sul personale lo stesso chef, dichiarando la sua delusione per ciò che era diventato una grande promessa della cucina quale era stato, agli inizi della carriera, Carl Casper.

Da questa stroncatura, che diviene presto virale, prende avvio il tema centrale di questa deliziosa (in tutti i sensi) commedia del 2014 dal titolo “Chef – La ricetta perfetta”, scritta, diretta, prodotta ed interpretata da Jon Favreau, che la maggior parte di noi ricorda come l’interprete di Happy Hogan, la guardia del corpo di Tony Stark, alias Robert Downey Jr., nei film della serie “Iron Man”, dei quali è anche regista dei primi due.

Reduce dal fiasco, sia di botteghino che di critica, del suo precedente film del 2011 “Cowboys & Aliens”, Jon Favreau torna alle origini, proponendo una commedia dal sapore indie e dal taglio autoriale, nel quale in controluce si può leggere la biografia artistica del regista, da sempre in lotta con il cinema di Hollywood, che cerca di spegnere, questa la sua opinione, la sua verve creativa. Ed allora, negli scontri con Riva, il proprietario del ristorante (interpretato da Dustin Hoffman), e con il critico Ramsey (interpretato da Oliver Platt), possiamo leggere la delusione e la rabbia di Casper come una rappresentazione della rabbia del regista Favreau verso lo star system hollywoodiano. I n f a t t i i l f i l m ha un taglio molto intimista, dato proprio dalla biografia del suo autore che traspare in molti dialoghi e scene.

Ma torniamo alla trama del film: dopo la stroncatura del critico Carl Casper, molto arrabbiato, decide di sfidare via twitter proprio lo stesso esperto, rinvitandolo al ristorante per proporre, finalmente, il suo menù creativo. Saputo della sfida, il proprietario Riva affronta Casper e, dopo una violenta discussione, lo licenzia, impedendogli di preparare il suo menù, affidando le redini della cucina al suo chef in seconda, Tony (l’attore Bobby Cannavale), al quale viene ordinato di seguire scrupolosamente il collaudato menu del ristorante. Anche questa seconda sfida è un fiasco, che il critico documenta in tempo reale sui social. La serata ha un tragico epilogo quando, infuriato per i commenti al vetriolo dell’esperto, Carl Casper corre di volata al ristorante e, davanti a tutti gli altri clienti, al suo staff ed al proprietario, litiga ed urla in faccia a Ramsey, ancora seduto al suo tavolo. Il tutto, ripreso da un cliente, diventa un video, ancora più virale del precedente, che inevitabilmente mina la credibilità e la carriera stessa di Carl Casper.

Ma qui, come spesso succede anche nella vita reale, insieme alla caduta ed alla sconfitta arriva pure l’opportunità, interpretata dalla sua ex moglie, Inez (l’attrice ed ex modella Sofía Vergara), che gli propone un viaggio a Miami e l’opportunità di reinventarsi come chef di un food truck. Dapprima riluttante, ma via via sempre più convinto, Carl Casper trasforma un diroccato furgone in una vera cucina viaggiante per offrire i famosi panini cubani lungo tutto il percorso che lo porterà a bordo del suo furgone da Miami a Los Angeles. Un tour gastronomico da costa a costa dove, ad ogni tappa, cresce l’attesa dei clienti per i panini dello chef. In questa lenta odissea Carl Casper è accompagnato dal figlio, Percy (l’attore Emjay Anthony), che si cura di creare e amministrare le pagine social dell’attività, e da uno dei suoi chef in seconda che aveva al ristorante di Riva, Martin (l’attore John Leguizamo), che lo aiuta nelle preparazioni sulla cucina viaggiante.

Senza voler svelare altro sulla trama di questo gustoso film, sarebbe interessante affrontare ed approfondire alcuni dei ricchi spunti che questa pellicola offre a tematiche come il successo professionale, il marketing e i social media, che sono così importanti per la nostra rivista. Pe r pri m a co sa si tra tta di un a sto ria di ca du ta, fal li me nt o, ris ali ta e ris ca tto es em pl ar e e cr ed ibi le co me poche; il film si concentra fortemente sull’importanza del cambio di prospettive che bisogna assumere quando una carriera gastronomica, ma potrebbe essere di qualsiasi altro tipo, raggiunge una fase di impasse o di stop. Carl Casper capisce lentamente, ma profondamente, che quando un lavoro non ci rende più felici, il disastro è dietro l’angolo e che parole come cambiamento e ridimensionamento possono essere le chiavi di un nuovo successo, non solo professionale, ma anche personale. Tornando alle origini del suo lavoro, ricominciando, lui chef rinomato, come semplice cuoco di un food truck, riscoprendo profumi e sapori dimenticati, letteralmente Carl si re-innamora della sua professione, e noi sappiamo quanto sia importante amare quello che si fa.

In secondo luogo il film affronta l’importanza fondamentale che in certi momenti della vita assumono le tematiche del viaggio e del cambio geografico di attività. Carl Casper riannoda i fili lacerati della sua trama gastronomica, tornando nella città di Miami, dove aveva mosso i primi passi come chef, scoprendo per la seconda volta tutti quei motivi che lo avevano spinto a fare della cucina il suo mestiere e la sua ragione di vita. Anche in questo caso noi sappiamo quanto alle volte, lungo i nostri percorsi professionali, quando perdiamo motivazioni e mordente, sia importante fermarsi, magari tornare alle origini delle nostre scelte, per ricordarci le motivazioni che, allora, ci spinsero ad agire, al fine di poterle riutilizzare per superare le crisi odierne, di qualunque natura esse siano, professionali, familiari o esistenziali.

In terzo luogo, ed è l’aspetto meno scontato del film, la rinascita di Carl Casper come chef è documentata passo passo dal diario virtuale che il figlio dipana su social network come Twitter, Facebook ed Instagram, che rappresentano una parte importante del successo della nuova attività on the road. Qui gli insegnamenti che possiamo trarre sono svariati e molteplici, ma fra tutti si impone quello dell’importanza che lo storytelling sta assumendo nelle campagne pubblicitarie non solo social. La storia coast to coast, riportata sui profili social dal figlio dello chef, infarcita di curiosità, foto divertenti, ricette, successi e soste, appassiona prima centinaia, poi migliaia di utenti, tutti potenziali clienti, che il food truck incontra nelle città lungo il suo percorso per tornare a casa. Il bisogno di storie e di serialità, così evidente nella scrittura di soggetti e sceneggiature di serie tv di successo, ci dice inequivocabilmente che, se pure al mondo i lettori sono sempre meno, il bisogno di storie è comunque in crescita.

Il film, insomma, è un solido prodotto cinematografico, diretto alla vecchia maniera, con un cast di primo livello ed interpretazioni credibili ed efficaci, ma, accanto a questo, esso rappresenta un ottimo esercizio di marketing e management applicato, ci insegna l’importanza di concetti spesso astrusi come il cambio di prospettive, lo storytelling, il ritorno alle origini delle nostre scelte di vita e da ultimo affronta l’importanza del cambiamento cui spesso la vita ci costringe. Il film ci dice, o meglio, ci racconta e chiarisce una delle più belle massime del poeta Thomas Eliot quando scrisse: “Non smetteremo mai di esplorare, di cercare, di sperimentare e dopo innumerevoli giri torneremo al nostro punto di partenza per scoprire quel posto per la prima volta”.

Come spesso ho scritto e detto, un buon film non è solo un buon film, ma è sempre qualcosa di più. Buona visione.

I modelli artistici del cinema italiano: il realismo di Verga, Lega, Fattori e Guttuso

“Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica.”

Akira Kurosawa

La definizione del maestro giapponese Akira Kurosawa, è quella che semplifica meglio l’essenza del termine Cinema e il legame indissolubile che lega la “settima arte” a tutte le altre arti. Anche e soprattutto qui da noi, considerato che il primissimo esempio di convergenza tra Arte e Cinema in Italia è ravvisabile nel legame tra il realismo della pittura, quella della corrente verista dei Macchiaioli, su tutti Silvestro Lega e Giovanni Fattori, che con i loro dipinti, descrivevano l’ambientazione popolare, meridionale, contadina, dell’Italia di metà ottocento; e quella della letteratura di Giovanni Verga, anch’essa basata sul verismo popolare, soprattutto del meridione e delle campagne.

Il realismo giunge a pieno compimento, però nel cinema, con i capolavori neorealisti, grazie alla rivoluzione epocale operata da Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, i quali ripresero l’insegnamento e l’ideologia verghiana, per portare il cinema nella realtà sociale della gente comune, per strada, e descriverne i piccoli e grandi problemi, rendendo così il cinema lo specchio della società. La scoperta che l’elemento realista, che affonda le sue radici in Verga, Fattori e Lega, si coniuga perfettamente con il mezzo cinematografico, sarà una svolta epocale, perché tutto il cinema che verrà dopo di “Ossessione” (1943, Luchino Visconti), “Roma città aperta” (1945, Roberto Rossellini) e “Ladri di biciclette” (1948, Vittorio De Sica), sarà basato sulla descrizione veritiera della realtà sociale dei tempi contemporanei, su tutti la “commedia all’italiana”, destinata a segnare un’epoca. In quello stesso periodo, così ricco di pulsioni artistiche, per la “nuova” Italia che usciva da anni di sanguinosa guerra, si sosteneva anche l’opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza fu Renato Guttuso, i cui dipinti, ancora una volta di ambientazione popolare e contadina, apparivano come riferimento ideale per il primo genere cinematografico italiano post-bellico: il Neorealismo. Peraltro Guttuso, massimo esponente della corrente della pittura neorealista, poteva segnare il trait- d’union tra il realismo ottocentesco di Verga e dei Macchiaioli, e quello cinematografico contemporaneo alla sua arte pittorica.

Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell’immediato dopoguerra, il neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa (Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini, con Alberto Sordi), che rappresentano il punto cardine di trasformazione del Neorealismo in Commedia all’Italiana.

L’ora legale - Il Film

Ficarra & Picone e la commedia “intelligente”.

“L’ora legale”, settima fatica del duo composto da Ficarra & Picone, è uno dei film comici più intelligenti degli ultimi vent’anni. Resterà questo film, resterà fra venti/trenta/quarant’anni, come documento storico-politico dell’Italia di inizio XXI secolo. Resterà come è rimasta la migliore commedia all’italiana del secolo scorso. Resterà perché finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di parlare della nostra realtà, ovviamente deformata attraverso una sguardo esilarante. Resterà perché il duo osa un finale amaro, profeticamente realista, come fossimo in una delle commedie all’italiana, di Sordi, di Gassman e perché no, anche di Franco Franchi & Ciccio Ingrassia.

E come somigliano alla celebre coppia, così tanto rivalutata al giorno d’oggi, e non somigliano solo per la chiara comunanza geografica. Ficarra & Picone affondano le loro radici nell’humus culturale dei pupi siciliani, della Sicilia borbonica ottocentesca, dello sberleffo verso il potere, e la arricchiscono con annotazioni comiche e sociologiche adattate ai tempi moderni. La grazie e la finezza comica sono state sempre loro prerogative, ma ne “L’ora legale”, a tutto ciò si aggiunge la capacità di raccontare abitudini e modi di essere collettivi del popolo italiano.

Così facendo allargano lo sguardo sulla descrizione di un’intera comunità, dei suoi vizi e dei suoi tanti difetti, lontano anni luce ( in meglio ) rispetto alla favola buonista, meccanica e ripetitiva di un Siani a corto di idee. E la maniera in cui Ficarra & Picone si utilizzano è straordinaria e dimostra che dietro alla coppia, c’è una solida cultura comica, intelligente, raffinata, popolare. I due sono un corpo estraneo vagamente surreale, capaci di scardinare la logica lineare della narrazione, e difatti danno tanto spazio ai caratteristi di turno, come Antonio Catania e Sergio Friscia, squinternati vigili di provincia. Riescono dunque a sbozzare tante figurine deliziose, come si faceva nella “grande” commedia all’italiana dei vari Sordi, Manfredi, Gassman…Che delizia, perché reale, il microcosmo de “L’ora legale”, amaro, amarissimo, pieno di ipocrisie, di false amicizie, di egoismo.

Un trattato sociologico di estrema efficacia, che si pone una domanda importante: che Paese vogliamo essere? Siamo davvero pronti per un mondo dove le regole vengono rispettate da tutti, noi compresi? E ancora, per citare una battuta del film: l’Italia, l’onestà, se la può permettere? L’ora legale resterà in ogni caso un documento del momento storico-politico che stiamo attraversando, sospeso tra paura e speranza, tra la curiosità e il timore di scoprire qual è Italia che ci meritiamo davvero. Dalla sala si esce soddisfatti, per aver visto un “vero” film comico, come si facevano una volta, ma si esce anche con l’amaro in bocca, perché è un film che fa riflettere se siamo davvero così. Un film che merita 4 stelle su scala di 5, perché quando la comicità non è banale, sfonda, eccome se sfonda, rasentando il capolavoro.

E ci fa capire una cosa: che le favole ridanciane e fine a se stessi dei cinepanettoni, stanno incominciando a segnare il tempo, e che il film comico quando è intelligente ha una carica magnetica più efficace di un film drammatico, nell’ambito puramente sociologico. Certo, Ficarra & Picone procedono sulla falsariga della maschera di Checco Zalone, ma la arricchiscono con più qualità, meno volgarità e meno parolacce. La coppia non ha mai steccato al cinema, perché ha buone idee, ha un ottimo affiatamento, diverte con stile, ma questa volta ha davvero trovato la strada giusta, per affiancare alla classica comicità all’italiana, l’ambizione di una commedia di costume.

Ci sono arrivati per tappe, in progressione, con grande “intelligenza”, quella che manca a molti autori italiani. E gli incassi, volano, volano, a sfondare il muro dei 10 milioni di euro, dopo soltanto 10 gg di programmazione. E hanno compiuto un altro miracolo, quello di mettere d’accordo pubblico e critica, praticamente all’unisono. Può sembrare banale, eppure storicamente qui da noi, non è quasi mai stato così.

L’abbiamo fatta grossa - Il Film Domenico Palattella (122)

Nato da un’idea del solito, trascinante , “L’abbiamo fatta grossa” è un film nuovo, di rottura, un’opera che si prende il rischio di voler rappresentare lo specchio dei tempi attuali e si inoltra fra le strade della Roma umbertina, storicamente quella meno frequentata dal cinema. Un cinema quello di Verdone, che nasce dall’osservazione comica della realtà e dalla costruzione puntuale, ironica e affettuosa di “caratteri”. Laddove però Verdone osa di più, è nella scelta di avere come coprotagonista del suo venticinquesimo film il grande Antonio Albanese, della commedia all’italiana moderna, l’attore più sensibile e più talentuoso. Reduce dalla meraviglia de “L’intrepido”(2013), lodato al festival di Venezia, nel quale sembra davvero uno “Charlot dei tempi moderni”, con quel suo viso triste e quel sorriso venato di malinconia. Carlo Verdone e Antonio Albanese, attori brillanti di “rango” superiore, per la prima volta insieme, pescano abbondantemente nel proprio repertorio personale fatto per entrambi di maschere tragicomiche che tanto ci hanno dato in passato, e costruiscono una commedia venata da uno stile malinconico che giova al film.

Il lavoro registico imponente di Verdone, che lima pazientemente situazioni e battute alla ricerca dei ritmi, dei tempi, degli incastri giusti con il profilo e lo stile del coprotagonista, riesce a legare perfettamente la sua comicità “realista”, con quella funambolica, fisica e surreale di Albanese. E se entrambi, singolarmente, sono in grado di cogliere e riprodurre il ridicolo di una situazione o di un personaggio, il binomio diventa addirittura travolgente quando il ritmo del film tende a salire, per intenderci quando c’è da scappare o da restituire refurtive. La comune goffaggine, insieme alla furbizia e alla perizia nel riprodurre gli italici dialetti, produce infatti effetti portentosi. I due protagonisti, Carlo stesso e Antonio Albanese (new entry nella variopinta galleria di partner che sempre Verdone ha scelto con curiosità e disponibilità, e questa è una combinazione più audace di altre), si pongono come due ingrigiti ragazzi spaventati ed eccitati dall’averla, appunto, fatta grossa. Come in un’avventura per adolescenti un po’ antiquata. Astratta come un gioco senz’altro scopo che il gioco stesso, priva di qualsiasi aggancio a quanto accade realmente intorno. Carlo è un detective privato tanto malridotto da vivere con la vecchia zia un po’ picchiatella. Antonio (in realtà il personaggio si chiama Yuri Pelagatti, e l’altro Arturo Merlino) invece è un attore forse dotato ma tanto abbattuto dall’abbandono della moglie da non ricordare più una battuta e di conseguenza ridotto al lastrico. L’incontro avviene perché quest’ultimo pretende di far pedinare l’ex moglie per dimostrarne, inutilmente, l’infedeltà. La diversità di “gioco” e di provenienza, cesellata dal lungo lavoro sulla coppia effettuato da entrambi, tende a non sentirsi. Giustamente Verdone non vuole “domare” Albanese, che è un condensato di pura energia, ma lasciandolo immerso nella commedia, fa uscire quel suo lato poetico così mirabilmente “sfruttato” da Francesca Archibugi in “Questione di Cuore” o da Silvio Soldini in “Giorni e nuvole”.

S’incontrano perché Yuri assume Arturo per avere prove dell’infedeltà della moglie e si trovano fra le mani una valigetta con un milione di euro, inanellando una serie di avventure a dir poco rocambolesche fra maldestri travestimenti e scambi di persona, fughe e inseguimenti. Ci sono momenti esilaranti (tutta la sequenza nel solarium) e si ride parecchio, anche se il film, per la verità, manca un po’ di ritmo. Riuscita appare invece, la vena malinconica che avvolge questa commedia vecchio stampo, tutta giocata sugli equivoci e sulla goffaggine dei due protagonisti. Si punta molto sulla coppia degli interpreti, che si compensano bene. Verdone e Albanese sono accomunati da una malinconia sottile – e umanissima – che è uno degli indubbi tratti distintivi del film, e i loro personaggi hanno la faccia onesta e sincera, oltre che l’ingenuità, di due perfetti antieroi.

Negli ultimi venti minuti il film però, decolla: diventa una satira dolente e assai politica dell’Italia di oggi, in cui le brave persone si muovono con difficoltà sempre crescenti. Il film si conclude con un gesto liberatorio: sberleffo sonoro nei confronti del «sistema» cui i due protagonisti, Yuri e Arturo, non esitano a ricorrere. Una pernacchia nei confronti del politico-ladro che li ha fatti finire dietro le sbarre ma anche di tutto ciò che esso rappresenta. Lode particolare alla giunonica Lena, interpretata dalla cantante lirica armena Anna Kasyan, vera scoperta del film, che interpreta la fidanzata di Verdone. Kasyan ha tempi impeccabili, un’esuberanza e una comicità fisica istintive che travolgono immancabilmente Arturo-Carlo, ben felice di lasciarsi investire, o di opporre al fiume in piena della donna il suo miglior cialtronismo da antico e moderno interprete dell’italiano medio, vero erede dell’Albertone nazionale, con il quale Verdone è cresciuto artisticamente. L’ alchimia tra questi due assi della nostra commedia moderna, è dunque scattata, e anche il pubblico ha dimostrato di gradire: 3 milioni e mezzo di euro incassati soltanto nel primo week-end. Un film da vedere, che si erge dalla mediocrità dilagante del cinema attuale.