Il Ciambellino di Rigomagno Tra storia e leggenda

Testi: Ariano Guastaldi

Disegni: Beppe Battaglia, Giovanni Beduschi, Aldo Bortolotti, Ernesto Cattoni, Athos Careghi, Marco Fusi, Roberto Mangosi, Danilo Paparelli, Pierpaolo Perazzolli, Tiziano Riverso

Collana “Il digitale del Colle” - Iniziativa della Pro loco Rigomagno RIGO 2012 03 07

Realizzazione editoriale: Edizioni Luì Via Galileo Galilei, 38 - Chiusi (Siena)

© Copyright 2008. Per l’edizione e-book marzo 2012. Per l’opera editoriale: Edizioni Luì. Per i disegni: i singoli autori. Tutti i diritti riservati. È permessa la stampa e la divulgazione purché non per !ni commerciali.

i Prefazione

Questa pubblicazione è la riedizione digitale di quella del 2008 (realizzata in bianco-nero, a forma di quaderno e ormai esaurita), data alle stampe per ricordare i quarant’anni della Sagra del Ciambellino e per dare i primi punti di riferimento «per chi – come fu scritto al tempo – vorrà un giorno interessarsi alla storia della cucina rigomagnese, di cui il Ciambellino rappresenta un punto fermo. Per far ciò abbiamo utilizzato quanto offerto sull’argomento dal nostro sito internet, rielaborandolo alle nuove e diverse esigenze del supporto cartaceo…» Sono trascorsi solo quattro anni ed ora trasformiamo quei documenti per adattarli alle nuove esigenze dell’e-Book. Anche oggi, come nel 2008, abbiamo appro!ttato delle amicizie con i migliori vignettisti italiani, acquisite per tramite della nostra manifestazione estiva “il Colle degli Ulivi”, per rendere gra!camente più interessante (e soprattutto prezioso) questo volume. I disegni questa volta sono a colori. Grazie a tutti. Dalla Sagra del Ciambellino alla storia… o viceversa?

«Il Ciambellino di Rigomagno, tanto imitato e mai uguagliato»

disegno di Aldo Bortolotti. Due note di inquadramento storico sulla sagra

La Sagra del Ciambellino ebbe origine nei giorni di Pasqua del 1968 quando alcuni giovanotti se ne andarono, casa per casa, a chiedere un contributo in ciambellini per fare una festa in paese. Il fatto oggi può apparire curioso ma al tempo non lo era affatto. In primo luogo perché, malgrado il “boom economico”, di soldi in giro non ce n’erano molti e poi perché la pratica del contributo in natura era stata largamente usata in passato, specialmente nelle nostre campagne, da essere considerata una sorta di tradizione. Non erano lontani, per esempio, i tempi del “Sega la vecchia”, quando il padrone di casa pagava con i prodotti del podere e nessuno, neppure lontanamente, ipotizzava una forma di pagamento diversa. È probabile che qualcuno non sappia di che cosa stiamo parlando. Brevissima parentesi, quindi, giusto per accennare ad un argomento che, per la sua complessità, diffusione e per ciò che ha rappresentato, dovrebbe essere trattato in ben altro modo.

disegno di Giovanni Beduschi.

4 ••• Il “Sega la vecchia” era una sorta di spettacolo, cantato e recitato, su un copione sempre diverso, ma più o meno con lo stesso !lo conduttore. Per comodità e per rendere il concetto più facile da inquadrare visivamente, lo potremmo de!nire come una sorta di Musical. Paragone che non ci soddisfa, se non altro perché, quando nelle nostre campagne si “segava la vecchia”, in America – al massimo – segavano gli alberi, per abbrustolire i bisonti appena cacciati. Speriamo, quanto meno, che l’esempio serva ad inquadrare visivamente l’oggetto del nostro racconto. E quindi andiamo avanti. Queste rappresentazioni erano pensate, organizzate ed interpretate da un gruppo, più o meno numeroso, di “artisti” (e buontemponi) del luogo, accompagnati, di solito, da una !sarmonica (intendendo, alla maniera antica, strumento e suonatore come un tutt’uno). Si esibivano nelle case, in particolare quelle di campagna, spostandosi dall’una all’altra, sera dopo sera. La loro performance iniziava davanti alla porta di casa. Cantando rime scherzose e spesso personalizzate sul nome e le caratteristiche del podere o del capoccia (il capo di casa), chiedevano il permesso di poter entrare. Poi si sceglieva la stanza più adatta alla rappresentazione: non di rado, specialmente nelle serate fredde, la scelta ricadeva sulla stalla e il divertimento era assicurato (non tanto per la stalla ma per l’interpretazione, sempre brillante e scherzosa). Ad opera !nita, sempre cantando, gli attori chiedevano un segno tangibile del gradimento dei loro sforzi. Di norma veniva concesso, ma non in ragione della bravura degli artisti, ma a seconda delle possibilità economiche della famiglia ospitante. Si raccoglievano uova, carne di maiale, vino e, ma più raramente, animali da cortile. Con le cibarie raccolte, !nita, per così dire, la stagione teatrale, la compagnia del “Sega la vecchia” faceva la sua bella cena. •••

5 Ma torniamo al nostro Ciambellino ed ai moti del ’68. Mentre nelle grandi città i giovani tiravano i sassi alla polizia, ed a Woodstock si predicava che era meglio fare l’amore e non la guerra, a Rigomagno, che queste cose le sapevano benissimo, pensarono che sarebbe stato più rivoluzionario concentrarsi sui ciambellini. Tanto è vero c’è ancora chi si ricorda, e rafforza il discorso con un classico «doventassi ceco se ’un è vero» che “il Che” si nutriva solo di ciambellini e che Mao avrebbe avuto meno pensieri, se tutte le mattine avesse inzuppato un ciambellino nel caffellatte. Da allora è passato tanto tempo, ed oggi, quelli che erano giovani nel ’68, non ricordano più tanto bene e così, interrogati sulle motivazioni !loso!che che li mossero a tanto impegno, per la maggior parte hanno risposto con un inequivocabile: «Boh!» Mentre i più chiacchieroni si sono avventurati in risposte più complesse, del tipo: «Si diceva che i ciambellini di Rigomagno erano i meglio di tutti... e allora...». Qualcuno poi l’ha buttata in politica con discorsi chiaramente di parte del tipo: «I nostri ciambellini si meritavano una festa...» In fondo però la motivazione più probabile si può riassumere con il più spontaneo e onnicomprensivo: «Tanto per fa’ qualcosa...» Può sembrare poco, ma bisogna considerare che loro non avevano la possibilità di svariarsi con i programmi televisivi che abbiamo noi oggi. Per non dire poi che la maggior parte non aveva nemmeno il televisore.

disegno di Tiziano Riverso.

6 Da sempre, o quantomeno !n dove arrivano i ricordi, a Rigomagno la Domenica in albis è festa. E qui occorre fare un inciso per spiegare che, dalle nostre parti, quando si dice che la tal domenica è festa si vuol dire che non è una domenica normale, ma che è festa per davvero. Si diceva che la Domenica in albis a Rigomagno era festa. Questo, tanto per cominciare, comportava la colazione col ciambellino ed un pranzo di tutto rispetto. Poi, in piazza, era possibile incontrare gente che non si vedeva da tempo: parenti e amici che se ne erano andati dal paese in cerca di fortuna... «Ma te sei il !gliolo del poro Beppe della Casaccia... e questo sarebbe il tu’ citto? Com’è cresciuto: fra un paio d’anni ti mangia la pappa in capo... Vieni, si va a casa mia a piglia’ un pezzo di ciambellino col vinsanto...»

Nella piazza principale non mancavano le bancarelle di venditori ambulanti che formavano un piccolo mercato. E c’era sicuramente anche un cantastorie che narrava delle avventure di Nicche, famoso brigante d’altri tempi, quando la Valdichiana si chiamava solo Chiana, o meglio “Chiane”. Ai giovani d’oggi verrà sicuramente alle mente la Nike e penseranno ad un errore di battitura. Nessun errore, il brigante era soprannominato proprio Nicche (o Gnicche a seconda della zona e dell’in#essione dialettale). Se volessimo perdere tempo ed andare a veder bene in un passato, molto remoto, alla !ne ci imbatteremmo nella Nike di Samotracia, la personi!cazione della vittoria. Niente di nuovo sotto il sole: anche lei aveva a che fare con lo sport, anche se non produceva abbigliamento o accessori per lo stesso. Ma dicevamo del cantastorie, una !gura importante per la cultura contadina del Novecento. Le storie, rese accattivanti da rime semplici, erano attinte direttamente dalla cronaca del tempo, sulla quale si ricamava un po’, esattamente come oggi, salvo che allora contenevano spesso sane morali ed erano quasi sempre e comunque dalla parte della povera gente. Se tra le nebbie inglesi della foresta di Sherwood, c’era chi rubava ai cattivi armigeri del principe Giovanni per donare ai poveri, tra le brume della Valdichiana, c’era chi, nascosto tra le fronde di un testucchio (versione di acero campestre che cresce solo in Valdichiana), tendeva l’agguato al fattore del conte di Palazzuolo per riprendergli il conigliolo (rabbit in inglese) che aveva estorto subdolamente alla povera (e ovviamente graziosa) contadinella. disegno di Marco Fusi.

7 Il cantastorie era sempre accompagnato da un assistente, il quale, per pochi centesimi, vendeva “la canzone” (un micragnosissimo fogliettino di carta, raramente piegato in due, con il testo della storia). Non è difficile trovare, ancora oggi, persone di una certa età che ricordano perfettamente tutta una canzone. A titolo di puro assaggio si riporta un’ottava di un episodio sentito tante volte per la Valdichiana: –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Federico Bobin, da piccolino Appunto principiava a camminare; Di campagnuolo si fe' cittadino E col padre dentro Arezzo, andiede a stare. Questo ragazzo fa come lo spino, Che nasce aguzzo per voler bucare, Porta in tasca un coltello fatto a cricche, Per soprannome fu chiamato Gnicche.

Se lo però ti dà le chicche, E a' quindici anni ancora non è giunto Vuol bene a !ori, quadri cuori e picche, E per il giuoco dorme poco o punto, Vestir vorrebbe da persone ricche; E' ghiotto quanto il gatto intorno a l'unto Tu vuoi star tanto ben, ma che arte fai? Manuale e scaccin da paretai.

[...] Un giorno in un caffè va lo sfrontato. Gnicche, ci trova il Sindaco a sedere, lo saluta e gli va al destro lato. – Mi conosce? chi sono vuol sapere? Fo’ il sindaco ancor’io e molti ho tassato ma più di lei io faccio il mio dovere, perché lei ha tassato la bassa gente, mentre io tasso i signori solamente! –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

8 La festa di Rigomagno, quindi, altro non era che una sana, povera, piccola festa di paese. Finita la miseria, con le prime automobili (ma la motivazione è molto più complessa), !nì anche la festa. Poi, come già detto, nel 1968 riprese vita. La sagra che il gruppo di giovani inventò, non si sa se per sommo studio, o per semplice caso, ridette vita alla vecchia festa della Domenica in albis. A quella prima festa, che potremmo de!nire “dell’era moderna”, al posto del cantastorie, fu chiamata la banda musicale di e da allora, per molti anni, c’è sempre stata una banda di paese a fare un po’ di rumore di sottofondo ai discorsi di sempre: «Ma mi’ chi si vede...» «O allora?» La festa d’altri tempi era stata ripresa, più o meno con gli stessi ingredienti. In questi ultimi anni però, un po’ per la non perfetta “salute” delle bande musicali paesane, un po’ per la cura dei particolari tipica dell’attuale Pro loco, nel programma della festa sono stati inseriti gruppi che si rifanno alla tradizione popolare toscana. Sicuramente, strada facendo, la festa subirà ulteriori cambiamenti, e francamente ce lo auguriamo, perché si deve camminare con tempi. Speriamo però di non perdere il carattere tradizionale che ha caratterizzato 40 anni di Sagra del Ciambellino.

disegno di Beppe Battaglia.

9 Due note per introdurre l’aspetto religioso nella festa, perché ci aiuta ad ipotizzare il motivo della scelta della Domenica in albis per la sagra. Prima di tutto vediamo perché “in albis”.

«Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune» (At 2,42-47). Nella tradizione cristiana le vesti battesimali sono bianche. Anticamente i neo!ti, battezzati nella notte di Pasqua, le indossavano per otto giorni deponendole la Domenica successiva che per questo si chiamava “Domenica in albis deponendis”.

Vediamo ora il Patrono della comunità. Il Patrono di Rigomagno è san Marcellino papa. Secondo la tradizione Marcellino salì al Soglio ponti!cio il 30 giugno 296. Morì, decapitato, durante le persecuzioni di Diocleziano, il 25 ottobre 304. Il Santo viene ricordato il 26 aprile, ma la gente di Rigomagno non ha memoria di feste in quella data. I più anziani rammentano antiche feste religiose nel periodo primaverile con Messe solenni e, in modo particolare, pranzi all’aperto, riservati ai preti intervenuti alla Messa. Lo ricordano perché, al tempo bambini, erano loro a servire a Messa e in tavola. Non ricordano però di processioni, divertimenti, o quant’altro. Non è da escludere, visto il periodo pasquale e le condizioni del paese (piccolo e povero), che non ci si potesse permettere troppe feste e che, in qualche modo, si fosse cercato di porvi rimedio conglobando la festa del Patrono con quella della Domenica in albis. In disegno di Aldo Bortolotti. effetti appare poco probabile che una comunità non festeggiasse in alcun modo il proprio Patrono. Tuttavia, al momento, non abbiamo dati certi in proposito. Inquadrata storicamente la festa, vediamo ora di prenderne in considerazione il soggetto principale: il Ciambellino.

10 Che cos’è il ciambellino?

Dicesi ciambellino un dolce a forma di ciambella del diametro di circa 20 centimetri, presente nelle tavole delle popolazioni senesi ed aretine della Valdichiana, dalla colazione della mattina di Pasqua alla domenica successiva o poco oltre. Si consuma prevalentemente a !ne pasto, rompendolo grossolanamente con le mani ed abbinandolo al Vinsanto; oppure a colazione inzuppato nel caffellatte. I !ni buongustai lo assaporano al naturale inzuppandolo, con movimento rapido e leggermente avvitato (la pratica richiede duri anni di studio), in acqua (ovviamente non frizzante) alla temperatura 18º C. (se vi sembra una sciocchezza, pensate a Bond, James Bond, quando dice a quale temperatura deve essere bevuto il Sake). Si sconsigliano prove del tipo “grosso modo” eseguite cioè senza la necessaria preparazione, perché producono risultati pessimi. Piuttosto, in mancanza di una conoscenza speci!ca, ci si limiti ad inzuppare il ciambellino, a seconda dell’orario, nel Vinsanto o nel cappuccino. Naturalmente si può iniziare ad disegno di Roberto Mangosi. inzuppare nel Vinsanto !n dal mattino presto e continuare per tutto il giorno, ma poi, a sera, dove lo inzuppi? Riguardo allo inzuppare nel cappuccino, pratica deliziosa in grado di riconciliare chiunque con il resto del mondo, occorre avvertire che, laddove possibile sarebbe meglio optare per il più antico caffellatte fatto con la moka. Approfondiamo le motivazioni relative a quest’ultimo confronto, perché, oltre ad essere dense di signi!cati altamente morali c’è il rischio, se taciuti, di apparire “!ssati”, come si usa dire nell’alta Chiana. Non ce ne dovrebbe essere bisogno, data la nostra ben nota serietà. Il nostro dire dovrebbe essere preso ed applicato senza commenti. Ma in questo mondo non c’è più rispetto per nessuno, specialmente per quelli seri, ed allora lo spiegheremo, però solo una volta e rapidamente: vediamo di prendere le cose al volo. Dunque. Il cappuccino è tale se ha una bella schiuma: e questo è buono. La schiuma ammorbidisce la crosta croccante del ciambellino: e questo non è buono. La pasta interna del ciambellino appena imbevuta di cappuccino caldo, non è buona... è ottima. Da l’alta Chiana qualcuno potrebbe dire: «Alò (che potremmo tradurre nel texano moderno come on), come se fa a ’nzuppare l’interno e lasciare moderatamente croccante la parte de fòri?» La risposta è: provando e riprovando, non è difficile.

11 Non dovremmo dire altro, ma vista l’alta funzione educativa del presente lavoro, non possiamo tacere l’elemento più importante che concorre al buon esito della “inzuppata”: il Ciambellino di Rigomagno. Due sono gli elementi che fanno la differenza: la crosta e la porosità variabile. La crosta, per la presenza dell’uovo è leggermente idrorepellente – ma quel tanto che basta per fermare la schiuma – mentre (e questa è la genialità) le “screpolature” lasciano passare facilmente la parte liquida del cappuccino. La porosità, maggiore all’esterno del 25% (prima di dire sciocchezze pensate ancora a James Bond, questa volta al Vodka-Martini agitato non mescolato: sono i dettagli – come sempre – che fanno la differenza), agevola la bagnatura progressiva e costante che prende il nome di “inzuppatura”. Con il caffellatte invece, come si usa dire, «si va in discesa». Non ci sono particolari procedure da mettere in atto perché la schiuma è inconsistente; ed il sapore del caffè, fatto con la moka, rafforza il sapore di antico. Tuttavia, come diceva Totò, de gustibus...

L’origine del ciambellino standard è da ricercarsi tra le tradizioni legate ai riti della Settimana Santa (perché, per esempio, simbolizza la corona di spine della Passione di Gesù), ma anche nei riti legati alla primavera e alla fertilità (per la forma, per l’uovo, e via dicendo). La sua diffusione, con poche varianti sostanziali, ma con una quantità incredibile di sfumature, riguarda l’intera Valdichiana. Con altri metodi e tempi, ciambelle simili, o comunque riconducibili alla stessa tipologia di dolce, si trovano in tutta Italia. Una variante in zona, non molto diffusa ma che merita di essere citata, è il così detto Ciambellino bollito, attestato a dalla !ne del 1800 e, con alcune varianti, nella zona casentinese. Gli ingredienti e buona parte delle modalità, sono le stesse del ciambellino tradizionale, ma il risultato è completamente diverso, tanto che appare strano che non gli sia stato attribuito un altro nome. Il ciambellino bollito, a causa del procedimento di cottura (prima viene bollito e successivamente messo in forno), si presenta disegno di Danilo Paparelli. 12 con una consistenza notevole. L’odore, per all’abbondanza di semi di anice aggiunti all’impasto e per la generosa spennellatura con liquore di anice prima di essere infornato, è molto intenso. Il sapore è decisamente dolce, sia per la grande quantità di anice, sia per lo zucchero con cui viene ricoperto prima di essere messo in forno. In!ne l’aspetto: il ciambellino bollito si presenta come se fosse formato da due ciambelle sovrapposte a causa di un taglio, praticato lungo tutta la parte esterna della circonferenza, in modo che “possa tenere” più zucchero. La lavorazione è molto laboriosa e delicata, in particolare la bollitura, durante la quale piccoli errori di temperatura, tempo di immersione e movimento dell’acqua, possono far dividere la ciambella e produrre rotture. Un tempo, quando questo accadeva, si usava dire che la massaia “volava tutto fuori dalla !nestra” e molto spesso non in senso !gurato. Il Ciambellino bollito, quindi, è un dolce molto duro e gustoso che deve essere consumato velocemente perché tende a perdere gran parte degli aromi e ad indurire ulteriormente e molto in fretta. Per questa somma di complicazioni la sua diffusione non ha mai raggiunto quella del ciambellino, per così dire, tradizionale. È anche per questo che sono molto scarse le notizie che lo riguardano.

Per quanto attiene nello speci!co al nostro ciambellino, le notizie e gli aneddoti non mancano. Abbiamo addirittura la possibilità di rifarci ad un libro, ormai considerato una fonte, a cui, ovviamente, si rimanda il lettore. Si tratta di: G. Beduschi - M. Fusi - A. Guastaldi, “E allora si fa Repubblica per conto nostro – Storia di Rigomagno, tra mito e leggenda, a 715 anni dalla fondazione”, edito nel 2007. L’opera presenta il Ciambellino analizzando l’aspetto antropologico e sociale dell’ambiente in cui, verso la !ne del XIII secolo, subì quella trasformazione che lo renderà celebre in tutto il mondo. Il volume, piacevole e, al tempo stesso, esaustivo, non tratta direttamente di ricette ma dell’ambiente nel quale si sono formate. Non cerca l’effetto, ma la causa, non vuole piacere, ma far capire.

13 La trattazione è portata avanti da due frati, il domenicano Dionisio da Rigomagno ed il francescano Celso partenopeo (...e parte napoletano, come ci tiene a precisare). Dall’opera in questione apprendiamo che il Ciambellino di Rigomagno (che deve scriversi con la maiuscola) è nato nel secondo quarto della prima metà del 1200 nel convento delle Vallesi presso Rigomagno. Fra Dionisio ignora, giustamente peraltro, il ciambellino canonico, ossia quello “normale” largamente diffuso nella zona, perché privo di qualsivoglia segno di distinzione. Volendo, se ne potrebbe giusto parlare se venisse fatto con tre buchi, ma in ogni caso non meriterebbe la fatica di un libro. Non proseguiamo oltre per non morti!care quanti non hanno la possibilità di gustare il Ciambellino di Rigomagno.

Dall’opera citata apprendiamo che l’ultima evoluzione del Ciambellino avvenne per caso, al pari di molte importanti invenzioni: vedi la scoperta dell’America, la ruota, il fuoco, e via dicendo. Accadde, infatti, che un fraticello, di ritorno dal pollaio con una cesta piena di uova, inciampasse nell’unico gradino della cucina: «... Quindi la catastrofe e poi il silenzio... I frati sgranarono gli occhi: erano in periodo di digiuno. Sgomento!!! Uno dei frati cucinieri prese un pennello e, chinandosi, prima tentò di rimettere i tuorli e gli albumi dentro i pezzi più grossi dei gusci; poi prese ad intingere il pennello e ad agitarlo, all’inizio molto disegno di Marco Fusi, da “E allora si fa Repubblica per conto nostro”. delicatamente, poi sempre più freneticamente. Con la faccia un po’ inebetita si girò verso i confratelli, quasi cercasse conforto, ma nel passare da un volto all’altro, incontrò quello severissimo del Padre Guardiano, il quale era in evidentissima posizione di sparo. E stava proprio per sparare, quando il frate cuciniere si scosse, si rialzò, e con fare quasi distaccato, come se fosse una cosa che aveva sempre fatto negli ultimi trent’anni, si diresse verso i vassoi di Ciambellini pronti per la cottura, e dopo averli ben squadrati, con l’aria di chi la sa lunga, sembrò fare due conti e poi li spennellò ben bene. Quindi fece cenno con la mano che potevano passare alla cottura.

14 Come a dire: ‘Ragazzo, inforna!’ Lampo di genio, disperazione, ispirazione? Non si sa. Fatto è che quando i Ciambellini furono sfornati, si presentarono con una doratura mai vista; ed il sapore poi... senza paragone! [...] Con il tempo si sono fatte tante supposizioni, sono state raccontate tante storie. Documenti, ovviamente, non si sono trovati, testimonianze dirette men che meno. Niente di certo si può dire se non che ad un certo punto, nelle case di Rigomagno, nel periodo pasquale, appare il Ciambellino alla maniera delle Vallesi. Con gli anni alcuni ingredienti segreti furono sostituiti, probabilmente a causa della perdita dei cercatori di radici, bacche e !ori, non rimpiazzati in tempo, o forse perché certe piante non crescevano più. Tuttavia i Ciambellini che si facevano nella zona, erano ancora di gran lunga i migliori [...]» [“E allora si fa Repubblica...” cit.].

Questo per quanto riguarda la storia antica. Prendendo ora in esame quella più vicina a noi, vediamo che, anche nella ridotta estensione della zona storica disegno di Ariano Guastaldi da “E allora si fa Repubblica per conto nostro”. del ciambellino, si riscontrano diversità negli ingredienti e nella preparazione, non solo tra i diversi paesi, ma spesso anche tra le famiglie dello stesso borgo. Gusti personali, tradizioni diffuse con i matrimoni, reperibilità delle materie prime ed altre varianti, non permettono di codi!care “La ricetta”. Tuttavia esiste! Lo sapevano bene quei tedeschi che qualche anno fa giunsero a Rigomagno, con discorsi strani sulla “luna”, su l’arte... ogni tanto li sentivi borbottare: «Das ricetten...». I tedeschi vanno lasciati stare per le ricerche, ma non ci fu niente da fare. Un giorno se ne andarono senza sapere perché. Ma siccome il mondo gira, a distanza di tempo lo abbiamo capito: si erano imbattuti nei “Guardiani del Gram”, temutissimi giannizzeri da secoli a guardia della “Ricetta”.

15 Con la tenacia che ci distingue e baldanzosi come legionari romani, dopo anni di ricerche siamo riusciti a scoprire l’identità di un Cavaliere custode del Gran: era la gioviale, tranquilla e conturbante Loridana! «Noo!» E invece sì, era proprio lei. Aveva ingannato tutti. Aveva detto che veniva dal Sud, e in ciò non aveva mentito. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che fosse tanto a sud. La Loridana era una delle ultime amazzoni guardiane della preziosissima Ricetta nascosta nel Gram. Subdolamente e con l’inganno le abbiamo sottratto il prezioso tesoro e, dopo giorni di studio, siamo venuti al !ne a capo dell’arcano. La ricetta era piegata e ripiegata su se stessa per occupare il minor spazio possibile. Sulla prima piegatura, su quella che potremmo de!nire “copertina”, si leggeva la scritta «Gram»: era lei! Dettaglio sulla scritta, dettaglio sui nostri occhi spalancati, pausa e poi domanda: «che vorrà dire?» Ed ancora: «in che lingua sarà scritta?» «Ovviamente in inglese» disse il solito bischero, al quale in coro fu risposto: «te sei scemo – motivando subito dopo la classi!cazione con – perché guardi troppi !lm americani!» Torniamo alla scritta. Forse era in aramaico antico, o forse in turcomanno... «Sì, sì in turcoman... quello lì» disse qualcuno, mentre qualcun altro, molto più pratico, aveva già iniziato a dispiegare l’antico plico. Per anni, forse per secoli, non era disegno di Ernesto Cattoni. stata aperto per tema di sortilegi, maledizioni, o sventure. Lo si nominava, e a bassa voce, mettendo insieme quei pochi, ormai consunti caratteri: «gram...» Via la prima piega, via la seconda: pausa. Poi la terza: ripausa... Poi, velocemente (non si sa mai), la terza, la quarta, la quinta... Il foglio era ormai quasi completamente spiegato e qualcuno cominciò a leggere: «Gram... mi 100 di zucchero...» Ok, la cosa potrà sembrare non seria e, se volete, potete anche ridere, ma questo, chiamiamolo, equivoco, ha preservato dalla sicura perdita una vecchia e preziosa ricetta. Quanto vecchia non sapremmo dire, ma una notazione di !anco agli ingredienti, nella quale si legge «questa ricetta era della mi’ pora nonna Armida che glielaveva data la su’ nonna Gesuina», ci consente di fare un bel salto indietro nel tempo. «O ridete ora!»

16 Per non correre il rischio di perdere de!nitivamente la ricetta... la pubblichiamo, anche se così corriamo il rischio che ce la rubino, ma tant’è.

La ricetta classica

Quella che segue, e non potrebbe essere diversamente, è una ricetta classica ma, per così dire, mediata. Mediata dal tempo, dai luoghi, dal clima... Gli ingredienti sono dati in uova e non “a persona” perché il ciambellino intero non viene considerato una porzione e perché una ipotetica porzione da colazione non può essere equiparata a quella di !ne pranzo, né tanto meno allo stuzzichino o al passatempo pomeridiano e/o notturno.

Ingredienti per 10 uova: farina q.b. 700 g di zucchero 100 g di vaniglia 250 g di burro 100 g di liquore 50 g di semi di anice 1/4 di bicchiere d’olio extra vergine di oliva di Rigomagno 1 limone e un’arancia grattugiati 3 bustine di lievito naturale. disegno di Tiziano Riverso.

Esecuzione: Montare gli albumi a neve. In un altro recipiente sbattere i tuorli con lo zucchero (nel senso che prima si mettono i tuorli nello zucchero e poi si sbattono con la frusta), aggiungere la vaniglia, il limone grattugiato, il burro fuso, l’olio, il liquore, gli albumi montati a neve e la farina (lentamente, con calma, prendetevi il tempo necessario: la preparazione deve essere un piacere); amalgamare bene e in!ne aggiungere il lievito. Lasciar lievitare q.b. e poi lavorare l’impasto sulla spianatoia: se risulta troppo morbido aggiungere altra farina !no a che non si attacca più alle mani. Fare delle palline

17 (sopra alla spianatoia infarinata), intingere l’indice nell’olio e in!larlo al centro della pallina, girare velocemente, ma senza esagerare, !no a formare una ciambella del diametro di 15-20 cm). Disporre nel vassoio di cottura imburrato per benino e infornare a forno caldo (250 gradi), per 20-25 minuti.

[Note legali: il numero delle uova non è ripetuto tra gli ingredienti perché implicito nel titolo; la farina non è meglio quanti!cata perché le variabili dipendono in larga parte dal sistema personale di lavorazione. In ogni caso non si assumono responsabilità per insuccessi perché i risultati, come si dice in termini legali “dipendono dal manico”].

La “dose” della Bibe

(ma... attenzione alla Nice) disegno di Aldo Bortolotti.

C’era una volta, tanto tempo fa, anzi: una volta non c’era altra possibilità per fare un dolce, o una marmellata o una conserva, se non quella di rivolgersi al farmacista del paese per farsi preparare “la presina” da aggiungere all’impasto. La presina era un piccolo involucro di carta contenente un preparato a base di conservanti, lievito, ed estro del farmacista. Alla gente di campagna non andava giù l’idea di dover andare dal farmacista anche quando stava bene e così a Rigomagno furono piuttosto felici quando scoprirono che ne potevano fare a meno. La salvezza fu la Bibe (la bottegaia del paese) che cominciò a preparare le dosi pronte: «Bibe dammi la dose pe’ Ciambellini.» «Quante ova» (da noi le uova sono tondeggianti e, quindi, senza la “u”). «Venti.» «Pronti... serve altro?»

18 Per dirla tutta al tempo la custode della Ricetta era la Nice. Lei conservava il segreto e lo tramandava come meglio poteva. Ma la Bice, insisti oggi, insisti domani, alla !ne riuscì a farsela dare. Per completezza di informazione occorre dire che la Nice non è che non la volesse dare la dose, il fatto è, diceva: «è inutile che vi do la ricetta e poi voi fate come vi pare!» Ed il punto era proprio questo: qualcuna pensava che mettendo più zucchero i ciambellini venissero più dolci, qualcuna metteva più anice perché così profumavano di più; e poi «non ci mettono il rum perché so’ sceme, io ce l’ho sempre messo – dice la Nice – e vengono più boni!»

La realtà, in effetti, è che il ciambellino si presta a moltissime e facili varianti: la tentazione di personalizzarlo, per farlo più buono dell’amica era un gioco a cui in poche riuscivano a sottrarsi. Il gioco era tanto diffuso che è giunta !no a noi la tradizione di scambiarsi i ciambellini con amiche e parenti. Se non fosse per fare un confronto e stilare una sorta di classi!ca, che senso avrebbe lo scambio? E, soprattutto, perché la solita domanda, che ricorre anche oggi: «Questi ciambellini di chi sono?» «Della Tosca» «E quest’altri?» «Della zi’ Fernanda»

Nel tempo si è avuta una proliferazione di varianti, tanto che non è facile disegno di Giovanni Beduschi. parlare oggi di una ricetta assoluta legata ad un metodo univoco. Diversa sorte, invece, quella del Ciambellino di Rigomagno. Il borgo piccolo, l’isolamento, la distanza dai grossi centri, non hanno permesso contaminazioni profonde: poche le varianti e di scarso valore, tanto che possiamo affermare con assoluta certezza che il Ciambellino di Rigomagno è il discendente diretto del leggendario Ciambellino del Convento delle Vallesi de Regu Magnum, come scriveva Leonardo da Vinci... Ma questa e un’altra storia che racconteremo un’altra volta. Se si scoprono tutte le carte ora, che si fa nei prossimi anni?

19 In ogni caso, quella che segue è l’ultima mitica dose della Bibe – certi!cata dalla Nice – la pubblichiamo per dovere storico ma ci corre l’obbligo di avvisare che non è la ricetta che fa il Ciambellino di Rigomagno ma “il manico” (vd. nota legale precedente).

Dose per 10 ova - 800 g di zucchero - 4 presine di lievito - 300 g di burro - 1 stecca e mezzo di vaniglia - 2 limoni - 1 bicchiere con un mix (q.b.) di maraschino, rum, strega - 15 g di anice in grani - 30 g di ammoniaca - farina q.b.

Ulteriore avviso... amichevole, più che legale. Si tenga ben presente che, oltre agli ingredienti giusti, sono gli accorgimenti che riportiamo di seguito, che fanno il vero Ciambellino di disegno di Athos Careghi. Rigomagno.

• Primo: la spennellatura, che consiste nello stendere, con un pennello, dell’uovo sbattuto sopra il ciambellino, un momento prima di infornare.

• Secondo: l’impepata, che consiste nel distribuire sopra il ciambellino, da un’altezza di circa 20 cm, un pizzico di zucchero non meglio quanti!cabile, della serie q.b.

• Terzo elemento, che non si può de!nire ingrediente ma che determina la riuscita del prodotto: il forno a legna, perché, per esempio, la perfetta cottura della pasta interna non deve andare a scapito della doratura, e non solo per motivi di ordine estetico: l’uovo steso con la spennellatura deve mantenere le proprie caratteristiche.

20 Il forno, per motivi noti solo agli addetti ai lavori (ma alla !ne hanno ragione loro, beninteso) viene riscaldato con legni diversi – si dice – per il “bilanciamento degli aromi”. Ogni capo forno ha il proprio bilanciamento ideale (che cambia da forno a forno) ed i propri legni, tra i quali però non può mancare lo “scopo”, in particolare quello femmina... e qui si rischia di cadere in un ginepraio, perché l’argomento è molto serio ma il terreno si presenta alquanto scivoloso. Nelle nostre campagne, ma non sapremmo dire per quale estensione territoriale, le scope (quelle per spazzare, note anche come ramazze, granate, ecc.) o erano di saggina, o erano semplicemente “scope”. «Maria! tirami la scopa!» «Di saggina?» «Ma che voi sagginare, devo spazza’ la stalla... tirami la scopa!» Dialogo tra moglie e marito in un podere qualsiasi delle nostre zone, in un tempo non particolarmente remoto, diciamo 50-60 anni fa, più o meno: in ogni caso, questo era il concetto di “scopa”. E lo scope venivano fatte con lo scopo: così è sempre stato e nessuno ha mai avuto a che ridire. Il problema è che oggi si deve complicare tutto e allora, per argomentare meglio il discorso, e far capire che le scope non vengono fatte nei magazzini dell’Ipercoop, cerchi il nome scienti!co dello “scopo”. Siccome con Internet si trova tutto, ti colleghi alla rete e ti rendi subito conto che trovi tutto, veramente tutto... anche se non esattamente ciò che ti saresti aspettato! Per non farla troppo lunga, quella che segue è la “stringa” di controllo di un noto motore di ricerca: Results 1 - 10 of about 13,600,000 for scopo. (0.24 seconds) disegno di Danilo Paparelli. Traducendo signi!ca che sono state trovate 13 milioni e 600 mila pagine pubblicate – nel mondo – che in qualche modo hanno a che fare con la parola “scopo”. La stringa è in inglese perché è stata fatta volutamente una ricerca mondiale, non limitata cioè ai soli “Siti” italiani. Bene, come accennato, in tutta questa massa di informazioni, almeno scorrendo le prime pagine indicizzate, non c’è traccia della pianta con cui si facevano le scope !no a non molto tempo fa.

21 Andando però a sfogliare i meno tecnologici libri si trova anche qualcosa di diverso, per esempio, nel dizionario Garzanti: “scopa 1 s. f. – pianta arbustacea comune nelle macchie e nei boschi, usata per confezionare granate per la pulizia dei pavimenti (fam. Ericacee). scopa 2 s. f. – arnese di forma varia per spazzare il pavimento, in genere consistente in una sorta di grossa spazzola fatta di rami di erica o saggina, oppure di setole o di !lamenti di materia...” Dopo di che trovi che esiste anche lo Scopo, che appartiene alla Famiglia delle Ericaceae, e che c’è uno “Scopo femmina” Erica scoparia ed uno “Scopo maschio” Erica arborea. Ci fermiamo qui perché non possiamo essere più precisi in proposito e anche perché è già complicato dover ipotizzare un mix di legni; accettare poi l’esistenza di uno scopo femmina ed uno maschio e dover scegliere quale e in che misura, è fuori dalle nostre possibilità intellettive. Ciò non di meno la faccenda è molto più seria di quanto l’abbiamo descritta. E non ci riferiamo soltanto alla questione del forno... A proposito di forno: che non venga in mente a nessuno di utilizzare un forno a micro onde perché i cavalieri del Gram non sarebbero affatto contenti.

disegno di Ernesto Cattoni.

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