JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

INDICE N. 6/2020

FABIO BOTTA 1 “Nemica del marito, ostile alla natura”: l'aborto entro e fuori il matrimonio negli ordinamenti dell'Impero d'Oriente

YOLANDA MANEIRO VÁZQUEZ 34 La giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla gig economy: il caso di Uber

ANTONIO IACCARINO 53 L’orizzonte giuridico dell’incontro con l’altro

CALOGERO MICCICHÉ 93 L’amministrazione e le sue responsabilità patrimoniali ai tempi dell’emergenza da Covid-19

CHIARA MARENGHI 113 Direttiva sul whistleblowing e ordinamento italiano: qualche riflessione in vista dell’attuazione

TOMMASO PIETRELLA 129 Illecito e sanzione: il valore precettivo del ne bis in idem oltre il diritto penale

MARTA LAMANUZZI 166 Il cyberbullismo. Prospettive criminologiche e giuridico-penali a partire dalla l. 71/2017

ALESSANDRO MAZZULLO 220 Disclosure e sustainable finance. Dall'informazione del cliente alla conformazione del mercato sostenibile

PAWEŁ MALECHA 243 Alcune riflessioni sui poteri decisori del Superiore gerarchico (can. 1739)

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INDICE N. 6/2020

MANLIO MIELE 257 La sinodalità tra principio e metodo: brevi note

ERRATA CORRIGE 283

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FABIO BOTTA Professore ordinario di Istituzioni di diritto romano, Università di Cagliari

“Nemica del marito, ostile alla natura”: l'aborto entro e fuori il matrimonio negli ordinamenti dell'Impero d'Oriente

English title: “Her husband's foe, hostile to nature”. Abortion within and out of Wedlock in the Laws of the Eastern Roman Empire DOI: 10.26350/18277942_000007

Sommario: 1. Premesse. 2.“Maritum liberis fraudare”. I giuristi classici e le forme dell'aborto illecito: a) l'aborto entro il matrimonio (il repudium come sanzione). 3. b) l'aborto durante e dopo il matrimonio (i Severi e la ‘pena’ criminale). 4. c) ... ma non fuori del matrimonio: Pauli Sent. 5,23,14 = D. 48,19,38,5. 5. ... e Ulp. (33 ad ed.) D. 48,8,8. 6. Giustiniano di fronte ai κάνονες: l'aborto tra lesione della “spes filiorum” e lex Cornelia de sicariis et veneficis. 7. Dal Corpus Iuris ai Basilici: l'aborto fuori ed entro il matrimonio e l'έμβρυοκτονία come φόνος. 8. L'‘anomalia’ isaurica: Ecl. 17,36 e l'aborto (come πορνεία) fuori del matrimonio. 9. Conclusioni: l'aborto nel ‘sistema repressivo’ dell'Impero d'Oriente, tra pena pubblica e penitenza canonica.

1. Premesse

Il tema del procurato aborto, della sua rilevanza giuridica e della sua punibilità nella storia, presenta, quasi per definizione, aspetti di particolare delicatezza per le inferenze (o, talvolta, i pregiudizi) ideologici che inevitabilmente gli si connettono1.

 Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. Il titolo, traduzione libera dell'espressione “ἄδικος καὶ περὶ τὸν ἄνδρα καὶ περὶ τὴν φύσιν” con la quale nella Nov. 31 di Leone VI il Saggio si descrive colei che abortisce volontariamente, è scelto nella convinzione che essa riassuma al meglio le ‘ragioni’ di chi ha voluto che quel fatto fosse ‘crimine’ da Caracalla ai Macedoni. 1 Se il tema non può essere affrontato se non tenendo alla mano quella sorta di ‘enciclopedia’ (‘confusa’ forse, ma senza dubbio esaustiva e di enorme utilità: forse solo ora un po' datata) dell'aborto nei diritti antichi che è la monografia di E. Nardi, Procurato aborto nel mondo greco e romano, Milano 1971 (che solo per mancanza di spazio ho citato con estrema parsimonia. Di E. Nardi, vd. altresì, Aborto e omicidio nella civiltà classica, in ANRW., vol. II/13, Berlin-New York 1980, pp. 366 ss.), ai fini di una prima ricognizione bibliografica, relativa soprattutto alle fonti di età severiana,

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Proprio perciò le fonti che ci trasmettono la riflessione del pensiero giurisprudenziale e le determinazioni normative che riguardano il problema dell'interruzione volontaria della gravidanza si sono offerte spesso a interpretazioni sovrastrutturali, nelle quali talvolta si sovrappongono distorsioni esegetiche ad affermazioni volutamente o involontariamente forzate che spesso si traducono in quelli che sembrano malintesi sui testi e sui contesti in cui i primi vengono a inserirsi. così come recepite nella Compilazione giustinianea - dato l'elevato numero e la diffusione dei prodotti editoriali sul tema -, sufficientemente affidabili, perché progressivamente aggiornati, risultano i numerosi contributi che, su quelle stesse fonti, con coerente fedeltà alla medesima linea interpretativa, ha prodotto M.V. Sanna, Aborto (voce), in Enciclopedia di Bioetica e Scienza giuridica, vol. I, Napoli 2009, pp. 20 ss.; Ead., La rilevanza del concepimento nel diritto romano classico, in SDHI., 75, (2009), pp. 147 ss.; Ead., Spes animantis, da una lex regia ad Adriano, in Revista general de derecho romano, 18, (2012), ivi anche Ead., Ancora sul concepito; Ead., Spes nascendi - spes patris, in AUPA., 55, (2012), pp. 519 ss.; Ead., Φάρµακα, medicamenta, pocula: il procurato aborto da una lex regia di Romolo a Giustiniano, in Annali Cagliari, 62, (2009/2020), vol. I, Napoli 2020, pp. 685 ss. La studiosa annuncia ulteriori interventi sul tema. Di talché, per le finalità delle presenti note, alla precedente assai estesa letteratura farò ricorso solo quando strettamente funzionale all'argomentazione. Successivamente, tra gli altri, adde, (ma i contenuti tendono necessariamente ad essere conformi; gli andamenti espositivi e le argomentazioni fortemente assimilabili), D. Annunziata, Il procurato aborto in diritto romano. Brevi cenni su D.48,8,8, in LR., 7, (2018); P.L. Carucci, Sulla tutela del concepimento e della gioventù dalle origini al Principato. Principî e politiche, in TSDP., 11, (2018). Contra, invece, L. Di Pinto, Procurato aborto nei giuristi severiani, in ΚΟΙΝΩΝΙΑ, 37, (2013), pp. 317 ss. Ampia ricognizione di letteratura e analisi di maggior respiro sono in C. Terreni, Me puero venter erat solarium. Studi sul concepito nell'esperienza giuridica romana, Pisa 2009, pp. 271 ss. Ora anche Ead., Il procurato aborto: ragioni di un’indagine romanistica e problematiche attuali, in Roma e America, 40, (2019), pp. 433 ss. Ulteriore recentissimo ragguaglio bibliografico in I. Ruggiero, Ricerche sulle Pauli Sententiae, Milano 2017, pp. 320 ss.. Per tutto il resto rinvio ai saggi di Y. Thomas raccolti in La mort du père. Sur le crime de parricide à Rome, Paris 2017, soprattutto le pp. 95 ss. (note alle pp. 245 ss.), ove i risultati raggiunti sono frutto di un pensiero che non necessita di aggettivi ma invece solo di riflessione. A quelle pagine, salutando l'annuncio di una loro prossima edizione in italiano, delego con fiducia il compito di rappresentare le mie opinioni qualora differissero da quelle da altri finora espresse sul generale tema della regolamentazione romana dell'interruzione volontaria della gravidanza. In quelle pagine, infatti, essa è da intendere indirizzata alla tutela, esclusivamente e solo, del «droit paternel» - quando vi è e perché vi è (o perché vi sarebbe stato), sulla ‘persona’ del nascituro e sul ventre della madre -, che è indubitabile struttura portante di una società (e di un diritto) patriarcale quale quello romano, ma che deve essere ormai interpretato non sempre e non solo come archetipico fondamento strutturale del dominio assoluto su cose e persone ma altresì - come perlopiù nei saggi raccolti ora in AA.VV., Anatomie della paternità. Padri e famiglia nella cultura romana, Lecce 2019 - quale primario «criterio d'appartenenza» - rilevante quindi anche nella sua contingente assenza - e dunque come «relazione valoriale» tra gli individui che vi hanno parte, destinata in definitiva a ponderare la collocazione di quei soggetti in tutte le ‘organizzazioni di gruppo’ in cui si articola per intero e verticalmente il corpo sociale.

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Malintesi ed equivoci in cui, mai forse come in questo caso, sono incorsi molti e anche grandissimi studiosi: sulla repressione dell'aborto nei sistemi romano e bizantino, come si vedrà, addirittura i massimi tra gli investigatori ottocenteschi, Mommsen 2 e Zachariä von Lingenthal 3 , influenzando in tal modo, e perciò a volte deviando o, all'inverso, suscitando, anche su quelle basi interpretative, il successivo dibattito. Per questa ragione, intendo qui attenermi il più possibile ai testi, limitando allo stretto necessario quanto di ipotetico il rispetto dovuto alle fonti e la necessaria onestà nell'uso degli strumenti esegetici e interpretativi propri della nostra scienza legittimino.

2. “Maritum liberis fraudare”. I giuristi classici e le forme dell'aborto illecito: a) l'aborto entro il matrimonio (il repudium come sanzione)

Può dunque dirsi, in estrema sintesi, che l'aborto volontario, in qualsiasi modo - violento o meno - procuratosi dalla donna, risulta nella storia del diritto a Roma, fino all'età severiana, esclusivamente quale causa di ripudio della moglie; o, perlomeno, può dirsi che non si è a conoscenza di fonti che né esplicitamente né implicitamente ci riferiscano di una repressione di quella condotta per mezzo di una pena pubblica. È ben probabile quindi che il repudium, legittimo a fronte di quella condotta femminile, per gli effetti che sprigionava sulla sorte dei beni dotali autorizzando il marito all'esercizio di retentiones, fosse considerato sanzione più che sufficiente per la lesione della spes mariti, dell'aspettativa cioè dolosamente frustrata del marito ad avere figli dalla legittima consorte. Di ciò si ha palese riscontro per mezzo di

Sch. Sin. 12.34 : [...] ὁμοίως καὶ ὁ Paulos βιβλίῳ ζʹ τῶν ad [S]abinum τίτλῳ λγʹ. ἐκεῖ πλατέως φησὶ περὶ τῆς ἀμβλωσάσης γυναικός, ὃτι ἡ ἄκοντος τοῦ ἀνδρὸς ἀμβλώσασα ζημιοῦται ἕκτῃ τῆς προικὸς ὡς τεκοῦσα. et rell.4

2 Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, p. 636 s. 3 K.E. Zachariä von Lingenthal, Geschichte des griechisch-römischen Rechts, Berlin, 1892, 2a ed., p. 347 s. 4 FIRA. II2, 646 s. ([...] Similiter et Paulus libro VII ad Sabinum titulo XXXIII. Ibi enim late loquitur de muliere quae abortum fecit, quod si inuito uiro abortum fecerit, sexta dotis multatur, quasi peperit et rell.)

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Sebbene, dunque, l'aborto fosse in sé eticamente comunque e generalmente stigmatizzato (come l'intero complesso delle testimonianze di età romana segnalano5), costituendo per il diritto causa di imputabilità del discidium alla moglie quando commesso da costei invito viro, le ritenzioni esercitabili dal marito sulla dote di lei sembrerebbero comunque non essere imputate ai suoi mores. Non dunque per mezzo della retentio propter mores - almeno a seguire lo scoliaste di Ulpiano qui richiamante l'autorità di Paolo che di ciò avrebbe trattato πλατέως nel suo libro VII ad Sabinum6 - si sarebbe quantificata la sanzione patrimoniale irrogabile alla donna per il caso, ma per mezzo di quella propter liberos (come l'altra, anch'essa tuttavia esercitabile solo per culpa della mulier) nella misura di un sesto della dote e attraverso una fictio di equivalenza: ὡς τεκοῦσα, ‘come se avesse partorito’. Certo è dunque che tale sanzione veniva comminata alla ripudiata per un atto commesso durante il matrimonio. Dalla fonte non può, però, esplicitamente ricavarsi, né sappiamo aliunde, se il medesimo regime (o comunque una qualche sanzione) potesse applicarsi anche a colei che, già divorziata/ripudiata per altre cause - specie se divorziata consensualmente o addirittura per colpa del marito -, ledesse il medesimo diritto maritale liberandosi del feto concepito durante il matrimonio.

3. b) l'aborto durante e dopo il matrimonio (i Severi e la ‘pena’ criminale)

Di repressione penale dell'interruzione volontaria di gravidanza si ha notizia solo a partire da una costituzione di Settimio Severo e Caracalla richiamata da Marciano

D. 47,11,4 (Marc. 1 reg.): Divus Severus et Antoninus rescripserunt eam, quae data opera abegit, a praeside in temporale exilium dandam: indignum enim videri potest impune eam maritum liberis fraudasse, e, in precedenza, con diversa formulazione, da Trifonino

D. 48,19,39 (Tryph. 10 disp.): Cicero in oratione pro Cluentio Habito scripsit Milesiam quandam mulierem, cum esset in Asia, quod ab

5 Vd. infra nt. 11. 6 O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, (= Pal.), I, Lipsiae 1889, col. 1273 s. (= Paul., L. 1767): [de iure dotium].

4 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 heredibus secundis accepta pecunia partum sibi medicamentis ipsa abegisset, rei capitalis esse damnatam, sed et si qua visceribus suis post divortium, quod praegnas fuit, vim intulerit, ne iam inimico marito filium procrearet, ut temporali exilio coerceatur, ab optimis imperatoribus nostris rescriptum est, il quale ultimo riproduce con estrema precisione un passo della pro Cluentio (11,32) che è stato e continua a essere oggetto di un vivacissimo dibattito (sull'ambiente cui è da ascriversi il fatto narrato; sulla giurisdizione competente a conoscerne; sul diritto, dunque, applicato; sulla stessa fattispecie punita) rispetto al quale può solo qui dirsi che non permette comunque all'interprete, visti il contesto in cui la narrazione ciceroniana si colloca e la funzione che essa vi svolge con esplicita natura di exemplum singulare, di giungere alla conclusione di asseverare - nel diritto romano - come generale, fondata e diffusa, all'altezza temporale già dei primi anni 70 a.C., una prassi repressiva dell'illecito che vi si dice sanzionato quale res capitalis7. Il rescritto severiano, d'altra parte, tenendo conto della giustapposizione/sovrapposizione dei contenuti che i due giuristi gli imputano, sembra tuttavia chiaro circa la descrizione della condotta punita e l'individuazione sia del soggetto autore del crimine, sia del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice: per Marciano l'aborto punito con l'esilio (qui temporaneo; altrove, vedremo, perpetuο, con contraddizione tra le fonti che non mi sembra, allo stato, sanabile) è quello della donna sposata perché ha defraudato il marito dei figli. Trifonino che ‘colora’ il portato della costituzione con il richiamo ciceroniano (al fine, credo, di dare profondità storica e supporto ‘culturale’ a un'innovazione effettivamente fino ad allora estranea alla stessa mentalità romana8, ma anche andando perciò molto oltre il dettato

7 Per tutti e condivisibilmente D. Nörr, Cicero-zitate bei den klassischen Juristen, in Ciceroniana 3, Atti del III Colloquium Tullianum, 1978, pp. 122 ss. (ove precedente letteratura), per il quale (p. 125) trattasi qui di «peregrines Recht» (cfr. E. Nardi, Procurato aborto, cit., p. 221 s.), usato da Trifonino «vorbildlich». Per Nörr, infatti, il passo della Pro Cluentio sarebbe stato l'autorevole strumento utilizzato dal giurista, nella funzione di «Konsiliar des Septimius Severus» (richiamando Paul. 3 decr. D. 49,14,50: Tryphonino suggerente), al fine di influenzare l'inasprimento di regime disposto per l'illecito dagli imperatori attraverso il rescritto. Contra, reputando, senza altre prove né dimostrazioni, applicabile già in età ciceroniana la lex Cornelia de sicariis et veneficis all'aborto procurato, P.L. Carucci, Sulla tutela, cit., p. 26. 8 Vd. nt. precedente e M. Wibier, Cicero’s Reception in the Juristic Tradition of the Early Empire, in P. J. du Plessis (ed.), Cicero's Law. Rethinking Roman Law of the

5 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 stesso del rescritto quanto alla pena irrogabile) specifica e chiarisce quale sia l'area dei soggetti punibili dalla prescrizione imperiale aggiungendo quello che sarebbe comunque un postulato logico della stessa anche nella formulazione marcianea (e che, visto l'oggetto ‘de iure dotium’ del X libro delle disputationes, ausilia l'interprete nell'eventuale prova di chi potesse anche essere sanzionata patrimonialmente, per Trifonino, in ordine ai beni dotali9) ribadendo quale sia il bene giuridico tutelato dalla norma e cioè la spes mariti: è pertanto punita anche la divorziata che, abortendo volontariamente il frutto della disciolta unione coniugale, abbia sottratto comunque il figlio al padre 10.

Late Republic, Edimburgh 2017, p. 108: «not only did Tryphoninus apparently find no juristic authorities who had formulated a view in line with the rescript before, he referred to a peregrine (not Roman) case found in a by-then centuries-old courtroom speech. That is to say, the reference to Cicero must have served to create some sort of precedent or parallel for the opinion expressed in the rescript, and we should note that Tryphoninus apparently considered Cicero sufficiently authoritative as to make the rescript more palatable to a wider juristic audience». 9 Pal., II, col. 365 (= Tryph. L. 40). Vd. altresì, ivi, nt. 1 e col. 364 nt. 3 ove il passo è riferito al tema della retentio propter liberos. 10 Che costei non dovesse perciò sentire particolare ‘amicizia’ per l'ex marito è, direi, in re ipsa, tant'è che la figura di ‘nemica’ del marito per la moglie che abortisce volontariamente il figlio legittimo è utilizzata ancora da Leone VI in Nov. 31 (P. Noailles - A. Dain, Les Novelles de Leon VI le Sage, Paris 1944, p. 124 ss. = S. N. Troianos, OΙ NΕΑΡΕΣ ΛΕΟΝΤΟΣ ϛ´ ΤΟΥ ΣΟΦΟΥ, Athena 2007, p. 128 s.). Tuttavia in Eisag. 21,4, (JGR. II, 301) l’inimicizia tra i coniugi è rappresentata come causa di divorzio consensuale (cfr. L. Burgmann, Eine Novelle zur Scheidungsrecht, in FM., 4, [1981], pp. 107 ss.; ma vd. ora F. GORIA, Le Novelle giustinianee e l'Eisagoge, in L. Loschiavo - G. Mancini - C. Vano [curr.], Novellae Constitutiones. L'ultima legislazione di Giustiniano tra Oriente e Occidente da Triboniano a Savigny, Napoli 2011, p. 79 e ntt.). Pertanto, scambiare, come è stato ellitticamente suggerito, l'aggettivo inimicus presente in Trifonino per un ulteriore elemento della fattispecie punibile mi sembra sinceramente eccessivo, per di più se si considera che inimicus è definito, dallo stesso Tryph. (11 disp.) D.23,3,78,2, il marito divorziato al quale l'ex moglie, proprietaria del fondo, richiede con l'actio rei uxoriae la restituzione/rinuncia dell'usufrutto istituito a suo vantaggio a titolo di dote, con un significato del termine, quindi, che può trovare un qualche senso anche nel contesto del frammento alla nostra attenzione. Nel medesimo contesto, però, può - ma con la piena coscienza di sforzare alquanto il testo - congetturarsi che l'espressione (considerando inimico marito non dativo ma ablativo assoluto) svolga, nel passo del giurista severiano, funzione analoga a quella che in Sch. Sin. 12,34 riveste il genitivo assoluto ἄκοντος τοῦ ἀνδρὸς: che manifesti cioè quel dissenso del titolare del diritto circa l’atto abortivo che rende questo pertanto illecito e punibile. Vien da notare, infatti, che è solo nello scolio sinaitico - e non nei (o negli altri?) frammenti giurisprudenziali utilizzati sul medesimo tema nella Compilazione - che esplicitamente si attribuisce valore al mancato consenso/dissenso del marito (o dell'ex marito) all’aborto del figlio legittimo quale elemento costitutivo dell’illecito. Quanto tale considerazione rafforzi la ricognizione dell’aborto punibile in età classica (o, comunque, ‘precristiana’) che qui si sostiene, credo possa valutarsi da un lato attraverso una riflessione di C. Cupane - E. Kislinger, Bemerkungen zur Abtreibung in Byzanz, in JÖB., 35, (1985), p. 24, per i

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4. c) ... ma non fuori del matrimonio: Pauli Sent. 5,23,14 = D. 48,19,38,5

Dunque, visto l'oggetto tutelato dalla norma incriminatrice e il dettato dei giuristi che la richiamano, alla luce della storia repressiva stessa dell'illecito come precedentemente regolato e punito, non può non dirsi che solo la donna sposata o la divorziata gravida del disciolto matrimonio è autrice del crimine in parola. Ergo, se questo fosse commesso da chiunque non rivestisse quegli status personali, l'illecito non risulterebbe punito né punibile per il diritto criminale. L'affermazione è, stando alla lettura delle fonti a nostra disposizione, banale, e così è risultata e risulta per larghissima parte della dottrina. Per di più essa è come vedremo di importanza capitale per la ricostruzione del regime successivo dell'aborto punibile almeno fino al IX secolo nel diritto orientale e va ribadita dunque con decisione a fronte di alcune diverse, recenti e meno recenti, prese di posizione che invece reputano di estendere già in età ‘classica’ l'area dei soggetti criminalmente punibili a tutte le donne, senza distinzioni di statuto personale, non tenendo nel debito conto, a mio avviso, le indicazioni delle fonti circa l'oggetto tutelato dall'intervento repressivo imperiale e la finalità stessa di questo. Perché è altrettanto ovvio che più si amplia l'area delle donne il cui aborto volontario è punito con pena criminale, più si svaluta la ratio repressiva

quali l'estensione e ‘generalizzazione’ della repressione dell'aborto avvenute, come si vedrà, per mezzo della particolare collocazione adottata nella Compilazione per Ulp. D. 48,8,8 implicitamente esclude che da quel momento in poi abbia più rilevanza penale la volontà maritale rispetto alla prosecuzione o all'interruzione della gravidanza (non però ai fini del ripudio. Vd. Theod. Brev. 22,14 [ἡ ἐπίτηδες καὶ παραγνώμην αὐτοῦ ἀμβλωθρίδιον ποιοῦσα διὰ τὴν πρὸς αὐτὸν ἔχθραν. K.E. Zachariä von Lingenthal, in G.E. Heimbach, Anekdota, III, Lipsiae 1843, p. 34: si ex proposito et invito eo ob odium in ipsum medicamentum abortivum paraverit] e poi ancora da Nov. Leonis VI, 31. Cfr. J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance (4e - 7e siècle), vol. I, Le droit impérial, Paris 1990, p. 310) e, dall'altro, credo possa misurarsi su un passo (che, esponendo la ‘nuova’ etica cristiana, è, come spesso nei Padri della Chiesa in tema di crimini sessuali, in polemica - qui implicita - col diritto vigente) di Aug., de nuptiis et concupiscentia, 1,15,17 (PL. 44, 423 s.): Aliquando eo usque pervenit haec libidinosa crudelitas, vel libido crudelis, ut etiam sterilitatis venena procuret; et si nihil valuerit, conceptos fetus aliquo modo intra viscera exstinguat ac fundat, volendo suam prolem prius interire quam vivere; aut si in utero iam vivebat, occidi antequam nasci. Prorsus si ambo tales sunt, coniuges non sunt: et si initio tales fuerunt, non sibi per connubium, sed per stuprum potius convenerunt. Si autem non ambo sunt tales, audeo dicere, aut illa est quodammodo meretrix mariti, aut ille adulter est uxoris. Nel senso della tesi che qui sostengo, sul passo agostiniano vd. G. Jerouschek, Mittelalter. Antikes Erbe, weltliche Gesetzgebung und Kanonisches Recht, in R. Jütte (hrsg.), Geschichte der Abtreibung. Von der Antike bis zur Gegenwart, München 1993, p. 49.

7 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 indicata dai giuristi classici, cioè il ‘defraudare’ il marito dei suoi figli, più si accede, in via indiretta se non surrettizia, ad una visione dell'aborto, già in età classica, come lesione della ‘autonoma’ vita del feto. E ciò - intendo ribadire - non perché non possano rinvenirsi anche autorevoli supporti a tale conclusione nel pensiero precristiano, tanto nella riflessione ‘medica’, quanto nella speculazione etica, quanto infine generalmente nella ‘cultura letteraria’ del periodo11 (alcuni particolari dello stesso succitato passaggio della pro Cluentio lo significherebbero), ma perché non vi è prova che di tali riflessioni o considerazioni (nemmeno quell'eventuale applicazione, semmai del tutto contingente, di una generica e ovvia humanitas che ci si sforza di rinvenire in qualche pronuncia giurisprudenziale o imperiale su temi contigui12) vi sia il depositato nelle fonti giuridiche romane relative alla repressione criminale dell'aborto. A tal riguardo va detto che la teoria che qui si avversa fa leva, per ragioni più o meno necessitate (o, se si vuole, nobilitate) da una percezione ideologica del problema-aborto, su due fonti giurisprudenziali. Si tratta di Pauli Sent. 5,23,14 (recepita dai giustinianei, sotto il titolo de poenis, in D. 48,19,38,513) e di Ulp. (33 ad ed.) D. 48,8,8:

Pauli Sent. 5,23,14: Qui abortionis aut amatorium poculum dant, etsi id dolo non faciant, tamen quia mali exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur: quod si ex hoc mulier aut homo perierit, summo supplicio adficiuntur.

Come si vedrà, vi è stato un diffuso fraintendimento della fonte che, come si diceva in premessa al nostro discorso, può in origine imputarsi anche all'opera dello stesso Mommsen. Ciò non tanto però perché il grande romanista abbia errato nell'esegesi del passo, quanto perché - vista la collocazione di questo all'interno della trattazione della repressione del procurato aborto nello Strafrecht - la sua lettura dell'inciso etsi id dolo

11 Più che sufficienti per fornirne un’idonea informazione su un numero di occorrenze notevolissimo, trattato altresì in una letteratura copiosissima, confido che appaiano le ricognizioni di R. Jütte, Griechenland und Rom. Bevölkerungspolitik, Hippokratischer Eid und antikes Recht. Abtreibung in den frühen Hochkulturen, in R. Jütte (hrsg.), Geschichte der Abtreibung, cit., pp. 29 ss.; di M. Laarmann, Abtreibung in der Antike. Aspekte einer Thematisierung im altsprachlichen Unterricht, in Forum Classicum, 47, (2004), pp. 282 ss. e di E. Kislinger, Abtreibung (voce), in K.-H. Leven (hrsg.), Antike Medizin. Ein Lexikon, München 2005, coll. 5 ss. 12 Su alcuni dei quali vd. ora G. Brescia, Il figlio spes patris nella declamazione latina e nell’immaginario letterario e giuridico, in Camenae, 23 (2019), pp. 3 ss. 13 Con varianti minime nel testo. Vd. Mommsen- Krüger, CIC., I, 21a ed., ad h. l.

8 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 non faciant, inteso come «nicht in der Absicht diesen also Behandelten weiter ein Leides anzutun»14, avrebbe potuto generare - e in effetti ha generato - un cortocircuito interpretativo in buona parte della dottrina successiva. Mommsen difatti ha ragione nel vedere nell'inciso che la punizione della condotta consistente nella cessione del poculum (che è, si noti, sia abortionis che amatorium) sarebbe sganciata dall'intenzione del cedente di arrecare danni ulteriori alla persona che lo assume (e quindi anche dall'intenzione di causarne la morte; il che è sufficiente a spiegare la collocazione del passo sub lege Cornelia de sicariis et veneficis nel contesto dell'operetta pseudopaolina), purché però non si voglia estendere l'ivi espressa irrilevanza del dolo alla stessa azione vietata e con ciò intendere che sarebbe punita anche la dazione ‘inconsapevole’. Per la punibilità della cessione si prescinde, cioè, dal dolo di uccidere (o, se si vuole, come per Mommsen, dal dolo di ledere l'integrità fisica del cessionario), ma, proprio perché la dazione è vietata e punita in sé in quanto mali exempli res est 15 , essa deve essere necessariamente consapevole e voluta16. Come si diceva, quindi, non è l'esegesi del passo ma la trattazione che ne fa Mommsen in tema di interruzione punita della gravidanza a far sì che la fonte sia stata in genere portata a supporto dell'altra (Ulp. D.48,8,8) che subito si vedrà, intravvedendovi la testimonianza della sottoposizione

14 Th. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 637 nt. 1. 15 Cfr. Marcian. (14 Inst.) D. 48,8,3,2. 16 Contra, E. Höbenreich, Due senatoconsulti in tema di veneficio (Marcian. 14 inst. D. 48.8.3.2 e 3), in AG., 208, (1988), p. 86, che si fa sviare nella ricostruzione della fattispecie come «somministrazione, anche non dolosa, di abortivi o di afrodisiaci», dalla finalità di ‘semplificazione’ della prova dell'elemento soggettivo del reato cui è anche destinata la particolare formulazione della norma così come si presenta nel passo in esame (si prescinde dalla ‘prova’ del dolo d'omicidio, come invece nella repressione di altre fattispecie di veneficio). Non convince, infatti, a mio avviso, la conseguenza che così si trae che ai fini dell'applicazione della stessa (ibidem, nt. 36): «non ci si può scagionare adducendo di aver ignorato la natura della sostanza somministrata». Si verrebbe così a punire, seguendo l'ipotesi ora esposta, la cessione inconsapevole di sostanza della cui natura vietata il cedente fosse consapevole. A mio avviso, invece, la consapevolezza della natura della pozione (e pertanto della sua pericolosità), unita alla volontà di cederla, sostiene la punibilità per la condotta descritta nella Sententia. Tale condotta è dunque dolosa; irrilevante è invece il dolo per l'omicidio che ne conseguisse. In definitiva del tutto corretto mi sembra quanto sosteneva già C. Ferrini, Diritto penale romano. Teorie generali, Milano, 1899, p. 107 s., il quale leggeva così il passo: «manca il dolo, dice Paolo, ma intende il dolo richiesto dalla lex Cornelia [l'animus occidendi]; non il dolo in genere, ossia la coscienza di far cosa cattiva e vietata. Non si vuole la morte; ma si vogliono altri effetti riprovati dal diritto». Cfr., tra gli ultimi, anche G. Redl, Die fahrlässige Tötung durch Verabreichung schädigender Substanzen im römischen Strafrecht der Prinzipatszeit, in RIDA., 52, (2005), 319 s.

9 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 a sanzione di una particolare forma di commissione del crimine di procurato aborto - consistente nella somministrazione del poculum abortivum - che, invece, la fonte non considera. Essa sembra descrivere, invece e infatti, un tardo ampliamento extra ordinem del veneficium a una fattispecie esterna all'area di quelle già punite ex lege Cornelia. Vi si costruisce un reato di pericolo17, anticipando la tutela del bene vita (o, se si vuole, integrità fisica) - ma solo di colei (o colui) che ingerisce la pozione potenzialmente perniciosa - già col divieto della cessione stessa della sostanza e punendo quella condotta a prescindere, come si è detto, dall'esistenza di un dolo di uccidere, ma anche indipendentemente dal fatto che essa abbia causato un effettivo esito letale. La morte del(la) percipiente - sganciata dal dolo ex lege Cornelia - è infatti intesa come evento oggettivamente imputabile, per il puro nesso eziologico, all'autore della condotta di somministrazione vietata; evento il cui avverarsi determina l'irrogazione della pena più grave, il summum supplicium, a fronte di pene meno gravi nel caso di concretamento del ‘solo’ reato base. Qui la donna che assume il poculum abortivum è solo vittima e non certo autrice o coautrice dell'illecito: lo dimostra, da un lato, il disinteresse della fonte circa la volontà o meno della percipiente a dar così causa al proprio aborto e, dall'altro, la totale irrilevanza che ha nella sententia lo status di costei, venendovi in rilievo unicamente la persona umana (di ovvio sesso femminile, nel caso) la cui vita è messa in pericolo. E ciò, in definitiva, perché la norma con la repressione dell'aborto «hat ... unmittelbar nichts zu tun» 18 . Ogni contraria conclusione legittimerebbe interpretazioni francamente paradossali19: ad esempio, dato che, nella stessa norma, con la dazione dell'abortivum si punisce anche quella dell'amatorium, qualora si voglia considerare il divieto della prima finalizzato alla repressione delle pratiche abortive, dovrebbe allora dirsi che col divieto

17 Così anche A. Wacke, Fahrlässige Vergehen im römischen Strafrecht, in RIDA., 26, (1979), p. 533. 18 Del tutto condivisibilmente così B. Sinogowitz, Studien zum Strafrecht der Ekloge, Athenai 1956, p. 110 s.: «die Verbreichung von Abortivmitteln ebenso wie die von Liebestränken hat mit dem Delikt der Abtreibung unmittelbar nichts zu tun, den hierdurch wandte man sich in erster Linie gegen die Bereitung von Gift- und Zaubertränken und die dadurch bewirkte Gefährdung von Menschleben, schützte damit also die werdende Mutter, nicht aber den Embryo». Corretta altresì l'esegesi del passo di C. Terreni, Me puero, cit., pp. 289 ss. (con bibliografia precedente): «l'illecito contemplato non si identifica nell'aborto ma indifferentemente nella somministrazione di pocula abortionis e di pocula amatoria». 19 Vd. ad es., negli AA. citati da I. Ruggiero, Ricerche, cit., p. 327 s., i quali, interpretando il passo come esplicitamente regolativo del procurato aborto, discutono di problematiche del tutto estranee allo stesso, quale quella della tutela del nascituro.

10 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 della seconda si intende reprimere qualunque attività erotico/amatoria? E quale ruolo, diverso da quello di altra possibile vittima dell'illecito, svolgerebbe, in quest'ottica, l'homo, indicato alternativamente alla mulier come soggetto del ‘perierit’ nella proposizione finale del frammento? A me sembra indubitabile che egli non possa essere altri che colui il quale sia stato percettore (solo, per ovvie ragioni di genere) di un amatorium, salvo che, per sostenere una tesi contraria, si voglia invece affermare - come, a mio avviso paradossalmente, si è fatto - che con homo ivi si intenda il nascituro20. Ma ancora, se invece così fosse, che senso avrebbe avuto allora vietare nella stessa norma la cessione dell'amatorium? Dunque, pur impugnando il rasoio di quell'inglese, così meritorio per il progresso delle scienze umane e pure così negletto, per ribadire che nel passo in esame si dice quel che si legge e cioè che vi si vieta di cedere certi tipi di pozioni onde non dar causa a un (potenziale) avvelenamento, e quindi ripetendo che unico bene tutelato dalla norma (di pericolo) è la vita (o comunque l'integrità fisica) del soggetto percipiente il poculum, tuttavia se qualcosa deve concedersi alla tesi che qui non si condivide, ciò è che, per mezzo della minaccia della pena prevista per altro fine dalla norma, potesse comunque ottenersi, sebbene indirettamente ma altresì inevitabilmente, l'effetto, del tutto secondario ma conseguenziale, di dissuadere di fatto da pratiche abortive (ovviamente di e su qualunque donna, sposata o meno), ma segnatamente e solo da quelle attuate mediante assunzione di sostanze (non dunque ‘ogni’ pratica destinata a quello scopo), vanificando, credo, anche sotto questo profilo, gli sforzi tesi a sostenere che sia la spes nascendi del concepito ad essere, in qualche modo, oggetto della tutela apprestata dalla norma.

20 Così A. Matthaeus, De criminibus, Neapoli 1772, vol. I, p. 142 (esplicitamente contro la - a mio avviso esatta - tradizione interpretativa di Duareno e Cuiacio), affermava che «homo, plerique referant ad eum, cui poculum praebitum est; rectius tamen meo quidem iudicio faciemus, si infinitam significandi vim tribuamus, referentes id non tantum ad eos, quibus pocula amoris, aut abortionis praebentur; sed et ad foetum, qui iam homo erat, cum abigeretur. Homo autem intelligitur, qui formatus est: informis foetus spes magis hominis quam homo». La lettura che in tal modo si propone di Pauli Sent. 5,23,14 (= D. 48,19,38,5), viene a sostenersi comunque su una pur autorevolissima dottrina - perlopiù di diritto intermedio - che si appoggia sul principio (a sua volta fondato su una risalente riflessione ‘scientifica’, vd. infra nt. 38) espresso nella Glossa Exilium, ad. l. Divus, 4 de extraordinariis criminibus (D. 47,11,4): Ante quadraginta dies: quia ante non erat homo: postea de homicidio tenetur secundum legem Moysi, vel legem Pompeiam de parricidiis […]. Una ricognizione di tale dottrina è operata da P. Ferretti, L’identità del concepito: la ‘contraddizione’ del pensiero giurisprudenziale classico nelle diverse letture della dottrina, in Diritto@Storia, 7, (2008), che correttamente la definisce (sulla scorta di E. Nardi, Procurato aborto, cit., p. 148 nt. 6; p. 416 nt. 273) «tuttavia sfornita di una concreta base testuale».

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Né rileva, a mio avviso, che l'interpretazione contraria del passo delle Sententiae sia assai risalente, giacché se, ad esempio, la si rinviene nel Synodicon del vescovo anglicano William Beveridge a metà del XVII secolo 21 , ciò è per il tentativo di trovare antecedenti nel diritto giurisprudenziale alla normativa canonica repressiva dell'aborto (su cui ora torneremo), e soprattutto nel mettere in relazione il canone 21 del Concilio di Ancyra con il canone 8 di Basilio da Cesarea, senza però tener conto del fatto che in quest'ultimo canone, in tema di omicidio, il Padre Cappadocio evidentemente stravolge lo schema stesso della sententia (senza citarla, ma avendola evidentemente come modello 22 ), suddividendo in due la fattispecie incriminata, distinguendo cioè la somministrazione dell'amatorium da quella dell'abortivum, per punire quest'ultima come omicidio (anche del feto, dal Santo equiparato a tal fine all'essere umano formato) in capo alla medicamentaria, aggiungendo - con logica inevitabile a quel punto - come ulteriore e distinta fattispecie omicida (ovviamente del solo concepito), anche quella di colei che interrompe in quel modo la sua propria gravidanza23.

5. ... e Ulp. (33 ad ed.) D. 48,8,8

Ne consegue che chi intende dimostrare che già nel diritto classico è punito l'aborto volontario non della sola donna sposata (o divorziata) ma

21 W. Beveridge, Synodikon, sive Pandectae canonum SS. Apostolorum et conciliorum ab ecclesia graeca receptorum, Oxonii 1672, p. 179. 22 O avendo davanti la fonte, a noi sconosciuta, del passaggio delle Sententiae. Il tutto, meritevole di approfondimento, potrebbe risultare comunque estremamente interessante per datazione, precisazione dei contenuti e delle aree di circolazione dell'opera pseudopaolina nel IV secolo. 23 Basil., can. 8 (G.A. Rhalles - M. Potles, Σύνταγμα τῶν Θείων καὶ ἱερῶν κανόνων, I-IV, Athenai 1852/54 [= RP.], IV, 114): [...] Καὶ μέντοι, κἂν δι' ἅλλην τινὰ αἰτίαν πείεργον φάρμακόν τις ἐγκεράσῃ, ἀνέλῃ δὲ, ἑκούσιον τιθέμεθα τὸ τοιοῦτον· οἱον ποιοῦσιν αἰ γυναῖκες πολλάκις, ἐπαοιδαῖς τισι καὶ καταδέσμοις πρὸς τὸ ἐαυτῶν φίλτρον ἐπάγεσθαί τινας πειρώμεναι, καὶ προσδιδοῦσαι αὑτοῖς φάρμακα, σκότωσιν ἐμποιοῦντα ταῖς διανοίαις. Αἱ τοιαῦται τοίνυν ἁνελοῦσαι, εἰ καὶ ἄλλο προελόμεναι, ἄλλο ἐποίησαν, ὅμως διὰ τὸ περίεργον καὶ ἁπηγορευμένον τῆς ἐπιτηδεύσεως ἐν τοῖς ἐκουσίως φονεύουσι καταλογίζονται. Καὶ αἱ τοίνυν τὰ ἀμβλωθρίδια διδοῦσαι φάρμακα φονεύτριαί εἰσι καὶ αὐταὶ, καὶ αἱ δεχόμεναι τὰ ἐμβρυοκτόνα δηλητήρια (= PG. 32, 678: [...] Atque etiamsi quis propter aliquam aliam causam curiosum pharmacum miscuerit, et interfecerit, id pro voluntario ducimus; ut saepe faciunt mulieres, quae quibusdam incantationibus et amuletis ad sui amorem aliquos attrahere conantur, dantque eis pharmaca mentibus tenebras offundentia. Hae ergo, si interfecerint etiamsi aliud volentes, aliud fecerint, tamen propter curiosum et prohibitum opus inter voluntarios homicidas reputantur. Itaque et quae praebent pharmaca abortum cientia, sunt et ipsae homicidae, sicut et quae venena fetum necantia accipiunt).

12 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 di qualunque donna senza differenze di status, deve far leva, e fa leva addirittura quale perno di sistema, su un frammento di Ulpiano24:

D. 48,8,8 (Ulp. 33 ad ed.): Si mulierem visceribus suis vim intulisse, quo partum abigeret, constiterit, eam in exilium praeses provinciae exiget.

Poiché, a tutta prima, i contenuti del passo non sembrano divergere da quelli rinvenibili nei succitati frammenti di Marciano e Trifonino, il più interessante dei problemi che alla lettura di questo si presentano all'interprete è certamente quello dell'investigazione delle ragioni che consigliano i compilatori a collocarlo, visto il suo portato, sotto il titolo 48.8 del Digesto: de lege Cornelia de sicariis et veneficis. Stupisce invece che si sia voluto trarre dall'uso del ‘generico’ (così, talvolta, si è detto25) termine mulier nel frammento la conseguenza che Ulpiano, diversamente dai coevi Trifonino e Marciano e forse innovando e ampliando la portata repressiva dell'illecito, volesse che fosse punito l'aborto di qualunque donna e non solo della sposata o divorziata durante la gravidanza. Stupisce26, perché a me sembra sufficiente far caso che la sede originaria del frammento è il libro XXXIII ad edictum di Ulpiano (da Lenel titolato

24 P. Ferretti, 'In rerum natura esse. In rebus humanis nondum esse', Milano 2008, p. 114 s.; e vd. M.V. Sanna, Φάρµακα, cit., p. 706 ss., ove ricognizione altresì della letteratura recenziore che sembra sostenere siffatta tesi. Non così R. Mentxaka, El aborto en el derecho romano: Consideraciones sobre las fuentes juridicas clásicas, in Estudios de Deusto, 31, (1983), p. 314 s., che anzi, dopo aver ipotizzato che leggendo «la redacciòn actual del texto de Ulpiano, parece que era indiferente el que la mujer fuera casada, soltera, viuda o divorciada», esclude categoricamente tale interpretazione del testo, intendendolo «en su redacciòn actual [...] como interpolado». Il che è da condividersi nei limiti in cui si intenda qui l'uso del frammento come ‘interpolatorio’; e ciò è qualora un testo che, per quanto mantenuto nella sua genuina formulazione, tuttavia, escerpito da una sua originaria sedes materiae e collocato in una differente, sia utilizzato per esprimere e venga ad esprimere, nel diverso contesto in cui viene inserito, un significato radicalmente difforme da quello che possedeva. 25 C. Terreni, Me puero, cit., p. 295, ma per giungere a conclusioni del tutto diverse da quelle avversate in testo. Diversamente, M.V. Sanna, Φάρµακα, cit., p. 695, parla di «formulazione generale» (riferibile, sebbene ellitticamente, anche alla schiava), in ordine alla «circostanza che Ulpiano adoperi il termine mulier, senza fare alcun cenno a un eventuale marito o ex-marito», sì che ci si possa chiedere se «il giurista intendesse riferirsi all’aborto posto in essere da qualunque donna e non necessariamente da una donna sposata o divorziata». 26 A fortiori perché certo lo strumento palingenetico ha già avuto funzione decisiva nell'esegesi dei frammenti in questione e con conclusioni analoghe a quelle in testo. Per tutti E. Nardi, Procurato aborto, cit., p. 423 s. e nt. 293; R. Mentxaka, El aborto, cit., pp. 312 ss. (a p. 313 nt. 39 la conforme dottrina precedente); e, da ultima, C. Terreni, Me puero, cit., p. 296.

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"de re uxoria") 27, che si occupa infatti senza alcun dubbio del commento del titolo XX dell'editto (nella ricostruzione dello stesso Lenel) e precisamente della clausola che il grande romanista tedesco titola “soluto matrimonio dos quemadmodum petatur”28 mutuandone la dicitura dal titolo 24.3 del Digesto sotto il quale i compilatori collocano la stragrande quantità di materiale proveniente da quel libro dell'opera di Ulpiano (e va aggiunto che i restanti frammenti che i giustinianei vi estraggono sono tutti in tema di restituzione della dote). Se non la prova definitiva, certo, credo che queste considerazioni rappresentino tuttavia un pesante indizio del fatto che la mulier di cui si tratta in D. 48,8,8, nella sede originaria dell'opera ulpianea fosse la divorziata/ripudiata (o, se si vuole, la ripudianda) e che la problematica dell'aborto volontario entrasse, con tutta probabilità, nella trattazione del giurista di Tiro riguardo al meccanismo delle retentiones dotali. Lenel (coerentemente con le sue stesse notazioni sopra ricordate in ordine alla collocazione palingenetica del passo di Trifonino) commenta, infatti, il frammento con una nota secondo la quale «ad retentionem, quae propter liberos fit, haec pertinere colligi potest ex Sinait. 12 extr.», con richiamo allo scolio sinaitico in precedenza considerato29.

6. Giustiniano di fronte ai κάνονες: l'aborto tra lesione della “spes filiorum” e lex Cornelia de sicariis et veneficis

Il regime classico dell'istituto mi sembra pertanto chiarissimo e molto coerente: da un'iniziale sanzione della donna sposata con l'addebito del divorzio per il procurato aborto, si passa nell'età dei Severi ad una repressione criminale extra ordinem del fatto illecito, punendo ancora e soltanto la donna sposata o divorziata gravida e inasprendo la tutela così esplicitamente prestata alla spes liberorum del marito30.

27 Pal. II, col. 645 (= Ulp. L. 959). 28 O. Lenel, Das Edictum perpetuum, Leipzig 1927, 3a ed., pp. 303 ss. (XX, § 113). Circa il nostro frammento vd. ivi, p. 303 nt. 3. 29 Pal. II, col. 645 nt. 3. 30 Riproduco qui, anche perché esplicitamente sintetica dei risultati raggiunti da E. Nardi, Procurato aborto, cit., pp. 214 ss.; 413 ss. quanto impeccabilmente e, a mio avviso, conclusivamente già affermava D. Nörr, Cicero-zitate, cit., p. 122 s.: «zu erinnern ist daran, daß nach römischer Auffassung die Abtreibung zwar aus moralischen Gründen verworfen wurde, daß sich strafrechtliche Sanktionen - nicht zum Schutze des nasciturus, sondern zum Schutze des Ehemannes - erst seit der Severerzeit finden, die dann in der Spätantike generalisiert werden. Als zivile Sanktion durfte der geschädigte Ehemann bei der Ehescheidung im Verfahren der retentio ein

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È piuttosto la sistemazione giustinianea a risultare ambigua e poco perspicua, collocando i tre sopra citati frammenti giurisprudenziali sul tema in sedi diverse del Digesto: nel titolo de extraordinariis criminibus, il passo di Marciano, nel de poenis quello di Trifonino, sotto il de lege Cornelia de sicariis et veneficis il frammento di Ulpiano31. L'ipotesi che a me pare la più suggestivamente probabile è che può ben essere che quest'ultima collocazione - la ragione della quale, si è detto, appare per molti aspetti il punto di maggiore interesse per lo storico del diritto - discenda da un'assimilazione dell'aborto all'omicidio 32 ,

Sechstel der dos zurückbehalten. So ist es kein Zufall, daß sowohl Ulpian (D. 48,8,8) als auch Tryphonin die strafrechtliche Sanktion der Abtreibung im Rahmen des Dotalrechtes behandeln». Sulla medesima linea interpretativa, vd. altresì, E. Höbenreich - G. Rizzelli, Scylla. Fragmente einer juristischen Geschichte der Frauen im antiken Rom, Wien-Köln-Weimar, 2003, p. 151; F. Lamberti, Concepimento e nascita nell'esperienza giuridica romana. Visuali antiche e distorsioni moderne, in Serta iuridica. Scritti dedicati dalla Facoltà di Giurisprudenza a F. Grelle, vol. I, Napoli 2011, p. 362 s. 31 Per quanto detto, si spiegano perfettamente, pertanto, le collocazioni dei passi di Marciano e Trifonino, tenendo conto della ‘sistematica classica’ della repressione criminale perlopiù seguita dai giustinianei nella redazione dei libri terribiles del Digesto (vd. D. Mantovani, Digesto e masse bluhmiane, Milano 1987, pp. 163 ss.). Può addossarsi allora una qualche responsabilità per il sostanziale ‘disordine di sistema’, che discende dall'inserimento invece del passo ulpianeo sotto il titolo 48,8 del Digesto (nella parte perciò relativa ai publica iudicia) da parte dei redattori di questo titolo, al fatto che quest'ultimo frammento provenga dalla massa sabiniana (appartenendo ai ll. 26-52 in. ad edictum di Ulpiano [BK n. 4] attribuiti per lo spoglio alla commissione sabiniana: vd. P. Krüger, CIC., I, 21a ed., Addit. I, p. 927; D. Mantovani, Digesto, cit., p. 27 e nt. 51; p. 90) e gli altri due dalla papinianea (vd. Mommsen - Krüger, CIC., I, 21a ed., sub hh. titt.)? A parziale soluzione del quesito credo possa ricordarsi che concordemente il frammento ulpianeo viene identificato come ‘coda’ della massa sabiniana nel titolo de lege Cornelia de sicariis et veneficis. In quanto tale, esso dunque può rappresentare in quel titolo una «deviazion[e] legat[a] a motivi sostanziali» (meno probabile è che la natura di coda di massa del passo sia riconducibile ad altre motivazioni compilatorie quali quelle che intendono gli excerpta così collocati come frammenti «la cui collocazione, inizialmente incerta, è stata decisa quando già una o più masse erano state inserite ovvero il titolo completato [...], inizialmente posti sotto una rubrica successivamente estintasi ovvero collocati in un titolo dal quale furono poi rimossi a favore di un altro»). Vd. D. Mantovani, Digesto, cit., pp. 60 ss. [praecipue ‘tabella’ a p. 62] , ove si concorda sul punto con l'opinione di F. Bluhme, Die Ordnung der Fragmente in den Pandectentiteln, in ZGR., 4, [1820], pp. 396 ss., e, sempre sul punto specifico riguardante il nostro frammento, la si trova coincidente con quella di A.M. Honoré, The editing of the Digest Titles, in ZSS., 90, [1973], pp. 284 ss. [«Table 1»]). 32 Che deve escludersi avvenga per la ragione, perciò non del tutto convincente, addotta da C. Cupane - E. Kislinger, Bemerkungen, cit., p. 24, secondo i quali i giustinianei avrebbero collocato il frammento ulpianeo sotto il titolo 48,8 in ragione dei suoi contenuti e cioè per dar conto, in quella sede, della repressione della cessione degli abortiva come (condotta assimilabile al) veneficium. Ciò perché, da un lato, nulla nel passo di Ulpiano può indurre a vedervi richiamate le modalità ‘chimiche’ del procurato

15 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 estendendo, nella visione dei compilatori, l'area della responsabilità a donne di qualunque status personale, sotto l'influenza del pensiero etico dei Padri della Chiesa in generale e per equiparare il trattamento del fenomeno nel diritto imperiale a quello del diritto canonico in particolare. Ciò permetterebbe, a mio avviso, di vedere nell'uso ‘interpolatorio’ che i giustinianei hanno fatto di Ulp. D. 48,8,833 il riflesso sul piano del diritto mondano dei princìpi in specie ricavabili dai canoni 2 e 8 presenti nella I epistula canonica di Basilio di Cesarea 34 . In quest'ottica, dunque, si potrebbe affermare che solo nell'uso giustinianeo del passo, il termine ‘mulier’, utilizzato nel contesto originario per la sola sposata/divorziata, acquisterebbe effettivamente generalità35. Deve però notarsi che, al di fuori del Digesto, nella Compilazione non v'è traccia di repressione criminale dell'aborto. Sulla scia del Codex Theodosianus, ove anche infatti non appare mai esplicitamente considerato, nel repetitae praelectionis si tratta di aborto volontario in C. 5,17,11,2, costituzione del 533, ma unicamente quale causa di legittimo ripudio da parte del marito. Si ha conferma di tale funzione in Nov. 22,16,1, che all'aborto fa conseguire l'imputazione alla donna del ῥεπούδιον

aborto (semmai quelle ‘chirurgiche’) e, dall'altro, perché, di riflesso, dovrebbe imputarsi così ai compilatori un ancora più ‘disordinato’ raccordo con la collocazione di Pauli Sent. 5,23,14 in D. 48,19. 33 Solo genericamente, ad analoghi risultati giungono P. Sardi, L'aborto ieri e oggi, Brescia 1975, p. 97 s.; R. Mentxaka, El aborto, cit., p. 316; per la tesi contraria, per tutti già A. Maschi, Il concepito e il procurato aborto nell'esperienza antica, in Jus, 22, (1975), pp. 389 ss. 34 Basil., can. 2 (RP. IV, 96) Φθείρασα κατ᾽ ἐπιτὴδευσιν, φόνου δίκην ὐπέχει. et rell. (= PG. 32, 672: Quae de industria fetum corrupit caedis poenas luit. et rell.); can. 8 (vd. supra nt. 24). Vd. anche Joannes Jejun. Περὶ φόνου (RP. IV, 443); Epist. Niceph. Chartophyl. (RP. V, 400). Insisto nel pensare che si tratti di riflessi del pensiero dei Padri e in particolare di Basilio (pensiero che si riflette evidentemente nei canoni stessi citati) perché, se pure non vi è dubbio che le lettere canoniche del Padre Cappadocio dovessero ampiamente circolare nella cultura orientale condizionandola (per tutti, vd. E. Karabélias, Perception et influences du droit romain dans l’oeuvre normative de Basile de Césarée, in Ch. Papastathis (ed.) Byzantine Law, Proceedings of the International Symposium of Jurists, Thessaloniki 2001, pp. 37 ss.), solo la seconda e la terza saranno introdotte, a partire dal 550 nella Collectio L tit., rielaborazione, come è noto, da parte di Giovanni Scolastico, di una precedente Collectio LX tit. (edita dopo il 534, tuttavia) ove non erano raccolti i canoni dei Patres ma invece certamente quelli dei ‘dieci grandi concili’ tra cui quello di Ancyra (cfr. per tutti e generaliter N. van der Wal - J.H.A. Lokin, Historiae iuris graeco-romani delineatio, Groningen 1985, p. 52 s.; D. Ceccarelli Morolli, Il diritto dell'Impero romano d'Oriente, Kanonika/21, Roma 2016, pp. 154 ss., ove letteratura essenziale). 35 Così anche C. Terreni, Me puero, cit., 295 s.

16 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 con lucro della dote e delle donazioni prenuziali da parte del marito36. L'interruzione volontaria di gravidanza scompare poi anche dalle cause legittime di discidium in Nov. 117,837. Al netto dunque delle incongruità rilevate e sempre tenendo conto dei dubbi che sottostanno al sempiterno quesito del valore del Digesto nella prassi delle corti bizantine, per poter riconoscere una qualche coerenza sistematica al regime dell'aborto volontario nel diritto della Compilazione, dovrà reputarsi che la repressione criminale dell'interruzione di gravidanza sia ivi affidata alle sole prescrizioni ricavabili dalle pronunce giurisprudenziali contenute nel Digesto e, tra queste, vedervi prevalente - per la sua generalità nella formulazione, per la sua collocazione sistematica e, pertanto, per la sua aderenza, così obliquamente ottenuta, ai princìpi dominanti nella canonistica orientale - Ulp. D. 48,8,8.

7. Dal Corpus Iuris ai Basilici: l'aborto fuori ed entro il matrimonio e l'έμβρυοκτονία come φόνος

Che un tale ribaltamento di regime nella repressione dell'aborto volontario - non più solo donne sposate o divorziate quali autrici dell'illecito, ma ciascuna donna; pena disposta a tutela del feto (anche)

36 [...] Εἰ γὰρ ἡ γυνὴ τοσαύτῃ κατέχοιτο πονηρίᾳ, ὡς καὶ ἐξεπίτηδες ἀμβλῶναι καὶ τὸν ἄνδρα λυπῆσαι καὶ ἁφελὲσθαι τῆς ἐπὶ τοῖς παισὶν ἐλπίδος [...] ἄδεια δέδοται παρ' ἡμῶν τοῖς ἀνδρἀσι πέμπειν αὐταῖς ῥεπουδια, καὶ κερδαίνειν τὰς προῖκας καὶ τὰς προγαμιαίας ἔχειν δωρέας et rell. (Auth.: Si enim mulier tanta detineatur nequitia, ut etiam ex studio abortum faciat virumque contristet et privet spe filiorum [...] licentia datur a nobis viris mittere eis repudia, et lucrari dotes et antenuptiales habere donationes et rell.) Ancora nella legislazione corrente di Giustiniano, come è evidente dal testo della Novella, in caso di aborto, leso è sempre e solo il diritto maritale (e non si fa alcun cenno all'‘omicidio del feto’), a dimostrazione, a mio avviso, che in tema di regime di divorzio, venisse comunque (preliminarmente o solo) in considerazione l'offesa a quell'interesse. D'altronde, vista la collocazione di D. 48,8,8 sub lege Cornelia de sicariis et veneficis e comunque visti i frammenti giurisprudenziali in tema di aborto punito con pena criminale, potrebbe ben supporsi che alla sanzione del ripudio (con lucro della dote) si aggiungesse, per la moglie colpevole, la pena colà prevista all'esito di un giudizio criminale a parte, sul modello, d'altronde, del regime del divorzio conseguente ad adulterio (vd. Nov. 117,8,2 e cfr. F. Goria, Studi sul matrimonio dell'adultera nel diritto giustinianeo e bizantino, Torino 1975, p. 31). 37 Così come tra le cause di ripudio scompare la menzione dell'aborto anche nell'epitome di Nov. 22,16 presente nel Syntagma di Atanasio (Athan. 10,2,13: D. Simon - S. Troianos, Das Novellensyntagma des Athanasios von Emesa, Frankfurt a.M. 1989, p. 314). Ma, s'è visto, essa è presente, invece, e descritta con notevole efficacia, in Theod. Brev. 22,14. Sulle Novelle citate vd. M.V. Sanna, Spes nascendi, cit., p. 542 nt. 71 e p. 543 nt. 72 = Ead., Φάρµακα, cit. pp. 704 ss. La studiosa argomenta sul testo della collezione latina (Schöll - Kroll, CIC., III, 8a ed., p. 157; p. 551; ma Nov. 117 = Auth. 112).

17 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 quale homo, senza distinzioni relative al tempo di gestazione38, e non della (sola) spes mariti - sia già da imputare ai giustinianei (pur con tutti i dubbi che sorgono dalla considerazione delle predette incongruenze rilevabili nel sistema della Compilazione), potrebbe avere particolare accreditamento qualora si considerasse come lineare e coerente con tali presupposti lo sviluppo della normativa successiva in Oriente, tanto canonica che imperiale39. E lineare e coerente sembrerebbe tale sviluppo qualora si consideri, come a me pare che effettivamente sia, tendenzialmente conformata sul paradigma repressivo fissato, come s'è detto, dai canoni 2 e 8 di Basilio di Cesarea, sia - sul piano del diritto interno alla Chiesa - la configurazione del canone 91 del Concilio in Trullo del 692 d.C.40, sia, ma al termine del IX secolo, quella delle norme imperiali del Prochiron (e dell'Eisagoge) 41 e dello stesso testo dei Basilici (che parafrasa D. 47,11,4), il quale, nella sua essenzialità, è difficilmente ascrivibile all'Anonimo ed invece palesemente dipendente - certamente quanto alla pena - dalla normativa imperiale vigente42.

38 Sul punto, però, che richiede per necessità ben altri approfondimenti rispetto a quelli cui si destinano queste note, val solo la pena notare quella che B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111 nt. 1, definiva l'«Inkonsequenz» interna al pensiero della canonistica orientale. A fronte delle recise affermazioni di Basilio in particolare nel cit. can. 2 circa l’irrilevanza del discutere se e quando il feto sia effettivamente formato, stanno le più incerte e dubbiose (e altresì assai più tarde) considerazioni di Balsamon, comm. ad can. 2 S. Basilii (RP. IV, 96) e di Matth. Blast., Γ, 28 (RP. VI, 200). Analiticamente, sul punto, con eccellente e utilissima ricognizione e discussione delle fonti giuridiche, patristiche, canonistiche e letterarie tanto orientali quanto occidentali, C. Cupane - E. Kislinger, Bemerkungen, cit., pp. 25-36 (con ampia letteratura). Per le medesime considerazioni nella sola patristica occidentale, vd. anche G. Jerouschek, Mittelalter, cit., p. 45 s. 39 Ragguaglio bibliografico in C. Cupane - E. Kislinger, Bemerkungen, cit., p. 22 s. nt. 6. 40 Conc. in Trullo can. 91 (RP. II, 518): Τὰς τὰ ἀμβλωθρίδια διδούσας φάρμακα καὶ τάς δεχομένας τὰ ἑμβρυοκτόνα δηλητὴρια τῷ τοῦ φονέως ἑπιτιμίῳ καθυποβάλλομεν. (= PG. 137, 826: Eas quae dant abortionem cientia medicamenta, et quae foetus necantia venena accipiunt, homicidae poenis subjicimus). 41 Proch. 39,71 (JGR. II, 225): Ἐὰν γυνὴ ἔγκυος γένηται καὶ ἐπιβουλεύσῃ τῇ ἰδίᾳ γαστρὶ πρὸς τὸ ἐκτρῶσαι, τυπτομένη ἐξοριζέσθω (C.E. Zachariae, Ὁ Πρόχειρος Νόμος, Heidelberg 1837, p. 253: Si mulier gravida facta ventri suo struxerit insidias, ut abortiat, verberata relegator) = Eisag. 40, 65 (JGR. II, 365). 42 Bas. 60,22,4, (A VIII, 2913): Ἡ ἐπὶτηδες ἐκτρώσασα τυπτομένη ἐξορίζεται (= Heimb. V, 645: Quae data opera abegit partum verberata relegatur). Si noti che nella compilazione macedone non trova spazio D. 48,8,8 (come non lo trova anche in Nomoc. XIV tit., 13.10 [RP. I, 312]). Lo trova, invece, l'indice di D. 48,19,39, in Bas. 60,51,36 (A VIII, 3082): Τρυφ. Ἡ ἐπὶ χρήμασιν ἐκτρὼσασα κεφαλικῶς τιμωρεῖται. ἡ δὲ μετὰ τὸ διαζύγιον πρὸς μῖσος τοῦ ἀνδρὸς τοῦτο ποιήσασα, προσκαίρως ἐξορίζεται (= Heimb. V, 869 [Bas. 60,51,35]: Quae accepta pecunia partum abegit capite punitur. Quae vero

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Lette quelle fonti in questa chiave, si sarebbe sempre di fronte ad un crimine (più o meno direttamente ma non sempre esplicitamente) equiparato all'omicidio43, a sempre più probabile tutela del bene giuridico rappresentato dall'embrione-homo, proprio perché se ne individuano le potenziali autrici in tutte indistintamente le donne, senza differenza di status, oltre alle loro complici, medicamentariae o mammane44. All'inverso, devono registrarsi le contrarie conclusioni di Beaucamp45 che - centrate principalmente sulla normativa macedone - forse eccessivamente esaltando alcuni contenuti della Nov. 31 di Leone VI, ove ancora si identifica (ma io direi, anche) nella lesione dell'aspettativa maritale l'illiceità dell'interruzione volontaria della gravidanza da parte della donna coniugata46, interpretano in tutt'altra chiave da quella qui

post divortium odio mariti id fecit, ad tempus relegatur). Ancora del frammento di Trifonino si veda l'epitome di Cobidas in EApp. 5,6 (Burgmann - Troianos, FM., 3, [1979], p. 109), riguardante, forse non a caso, solo la prima parte del passo. 43 Non credo quindi che la particolare differenza di pena con l'omicidio sia giustificata sempre, e cioè sotto qualunque regime regolativo dell'illecito, dalla considerazione di doversi tener conto di circostanze attenuanti come quella relativa alla necessità di nascondere un concepimento illegittimo o illecito (per tutti, sinteticamente, M.H. Congourdeau, rec. di S.N. Troianos, Ἡ ἄμβλωση κατὰ τὸ Δίκαιο τῆς Ἀνατολικῆς Ὀρθοδόξου Ἐκκλησίας, Athenai 1987, in RÉB., 47, [1989], p. 314); in particolare se quella motivazione possa o debba essere invece assunta come ratio stessa della repressione della condotta vietata (su cui diffusamente infra). L'attenuazione della penitenza canonica, disposta in generale già con il can. 8 di Basilio (si mitiga una ‘precedente’ scomunica a vita con una a tempo, di durata decennale), potrebbe aver certo influito sulla commisurazione della pena imperiale; di più, a mio avviso, il fatto che il reato - data la discontinua configurazione dell'illecito nel diritto canonico e, conseguentemente, nel diritto ‘mondano’ - si sia inizialmente indirizzato, nel diritto d'Oriente, proprio a reprimere l'aborto del frutto di rapporti illegittimi o illeciti e, in particolare, delle non coniugate, come si vedrà subito oltre, rende possibile supporre che si sia mantenuta la medesima sanzione così fissata anche al momento del definitivo ampliamento dell'area dei soggetti potenziali autori dell'illecito. Vd., al contrario, le diverse motivazioni portate ad esplicazione della pena ecclesiastica e dei suoi riflessi su quella imperiale di J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance (4e - 7e siècle), vol. II, Les pratiques sociales, Paris 1992, p. 326, onde si ricava un'incoerenza complessiva da cui l'A. deduce che nelle norme ‘mondane’ l'aborto non sarebbe mai stato assimilato all'omicidio rimanendo sempre nell'area della lesione «aux droits du mari». 44 J. Zhishman, Das Eherecht der orientalischen Kirche, Wien 1864, p. 753, con particolare riguardo alla normativa canonica (ma non distinguendo tra i possibili contenuti di Conc. Ancyr. can. 21 e Basil., cann. 2 e 8). 45 J. Beaucamp, La situation juridique de la femme à Byzance, in Cahiers de Civilisation Médievale, 20, (1977), p. 164. 46 In realtà, il contenuto normativo della Nov. 31 di Leone VI il Saggio (supra nt. 10; infra nt. 64) - dedicata esattamente a risolvere la contraddizione evidenziata nella legislazione corrente giustinianea tra Nov. 22,16 e Nov. 117,8, in tema di aborto della prole legittima, facendo prevalere la più severa delle due costituzioni - si appoggia su una più complessa prospettazione ideologica. Infatti, si giustifica la reintroduzione del

19 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 proposta quella normativa evidenziandone soprattutto le differenze da quella canonica. Sottolineando inoltre l'assenza nelle norme imperiali di qualunque riferimento alla tutela del feto (esplicita invece nei canoni) e svalutando, a mio avviso eccessivamente, invece, l'uso ‘generalizzante’ (qui ormai concretamente effettivo) del termine ‘γυνή’ che vi viene fatto, Beaucamp giunge così a sostenere addirittura un'opposizione, sul punto, tra diritto imperiale mediobizantino, nell'intero suo sviluppo, e diritto canonico, per vedere invece mantenuta nel primo una continuità col diritto giustinianeo, inteso, a sua volta, come esplicitamente ricognitivo e conservativo della regolamentazione classica del fenomeno; continuità, per di più, dimostrata, per la bizantinista francese, dall'irrilevanza di D. 48,8,8 nelle raccolte imperiali e nomocanoniche del periodo, e finalizzata, pertanto, alla preservazione di una configurazione dell'aborto «comme une faute envers le mari et non comme un meurtre». A quest'ultima argomentazione può, invero, obiettarsi che a maggior dimostrazione del fatto che D. 48,8,8 possa avere rivestito, nella Compilazione, sostanzialmente il compito di ‘succedaneo’ normativo della prevalente canonistica - sui cui princìpi Giustiniano avrebbe inteso orientare il regime dell'interruzione volontaria di gravidanza - sta proprio la sua mancata utilizzazione quale referente normativo nelle fonti imperiali mediobizantine che, invece, per la maggior libertà di forma di cui godevano rispetto a quelle, compilatorie, cui si era astretto

ripudio per quel motivo perché non può pretendersi che un marito continui a coabitare con colei che ha posto in essere un atto che, insieme, contrasta la natura (e perciò nega l'in sé teleologico del matrimonio cristiano, la procreazione [vd. J. Zhishman, Das Eherecht, cit., p. 753]), e lo oltraggia nella vita del figlio che a lui solo appartiene: «[...] Ἄτοπον γάρ μοι φαίνεται καὶ παντελῶς ἄδικον τὴν ὅυτω προφανῶς τὴν πρὸς τὸν ἄνδρα δυσμένειαν ἐπανῃρημένην δι' ὧν τῷ ἐκείνου λωβᾶται σπέρματι, ἀφίμι γὰρ ὅτι καὶ τῆς κοινῆς ἐπἰβουλος φύσεως, συγκατοικίζειν αὐτῷ. Εἰ γὰρ τοὺς εἴς τι ἔτερον ἔργον [τὴν] βλάβην ποιουμένους ὡς ἐχθροὺς ἀποτρεπόμεθα, πῶς ἂν τὴν εἰς τὸ πάντων ἀναγκαιότατον καὶ τιμιώτατον τῆς παιδοποιΐας ἔργον ἀνυστὴν ζημίαν φέρουσαν ὡς οἰκείαν ἔξει ὁ ζημιούμενος παρ' ἑαυτῷ, ἀλλ' οὐκ ἀποπέμψεται ὡς ἐπίβουλον καὶ πολεμίαν; τί γὰρ ἄν ἐναργέστερον σημεῖον ἐπιζητήσει ἔτι ὥστε ἰδεῖν ὅτι δύσνους ἡ γυνὴ τῷ ἀνδρί; Πῶς δ'οὐχὶ φανερὸν ὅτι ἐν τῷ κατ' ἐκείνου φρονεῖν τῆς πρὸς τὸ ζῆν παρόδου ἀποστερεῖ τὴν γονήν; Et rell.» (Noailles-Dain, Les Novelles, cit., p. 124: Il me paraît absurde et tout à fait injuste que cette femme continue à cohabiter avec son mari, elle qui porte una haine à ce point déclarée qu'elle en détruit la semence, sans parler de la trahison qu'elle commet aussi contre la nature en général. En effet, si nous repoussons comme ennemis ceux qui nous portent tort dans quelque autre affaire, comment celle qui inflige un dommage définitif à l'oeuvre de procréation, la plus utile et la plus honorable de toutes, pourra-t-elle être gardée chez lui, dans son intimité, par l'homme outragé, au lieu d'être renvoyée comme traîtresse et ennemie? Quelle prove plus claire, en effet, pourra-t-on chercher pour constater l'hostilité de la femme contre son mari? Comment ne sarait-il pas évident que c'est par un mauvais dessein contre lui qu'elle empêche l'enfant d'arriver à la vie?).

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Giustiniano, più facilmente avrebbero potuto conformarsi (scegliendo peraltro le modalità con cui formularlo) sul principio fissato in origine dai canoni di Basilio, ai quali si era aggiunto, nel frattempo, l'autorevole can. 91 del Quinisextum. Viene altresì in tal modo a comprendersi, a mio avviso, la mancata considerazione del frammento ulpianeo tanto nei Basilici (ove si generalizza il portato degli altri contenuti normativi della Compilazione in tema di aborto, ampliando a tutte le donne l'area delle possibili ree) quanto - surrogato, nel principio che esprime, da quegli stessi canoni che ‘rappresentava’ nella Compilazione - nel Nomocanone in XIV titoli (ove è più che sufficiente e anzi naturale, per lo scopo visto, rifarsi direttamente a quei canoni)47. Più in generale, tuttavia, deve dirsi che è probabile che la visione del fenomeno espressa da Beaucamp sia discendente dall'‘errore’, sopra segnalato, imputabile a Zachariä von Lingenthal sul punto oggetto di queste note: che cioè il regime repressivo dell'aborto sia, per tutto lo sviluppo del diritto orientale, in (quella che si afferma essere la) continuità del disposto giustinianeo, reputando, ancora nei secoli VI-IX, autrici del crimen in parola le sole donne sposate, e, di conseguenza, oggetto della tutela apprestata ancora il (solo) diritto paterno48. Per contrasto, a me pare che la non condivisibilità della descrizione del fenomeno che si legge in Zachariä (e, di conseguenza, in Beaucamp) sia ancor più evidente proprio quando si consideri che l'incoerenza che può rinvenirsi e si rinverrà nell'evoluzione del regime normativo sia canonico che imperiale non è da imputare ad una dissonanza tra l'uno e l'altro, giacché a me sembra del tutto evidente che l'ampliamento (riscontrabile in tutte le norme sopra citate) dell'area dei soggetti possibili autori dell'illecito sia in rapporto immediatamente conseguenziale con la diretta tutela del nascituro apprestata da quelle medesime norme e quindi che non si può non giungere alle conclusioni in precedenza avanzate. Dunque se linearità e coerenza nell'evoluzione tanto dell'ordinamento della Chiesa quanto di quello dell'Impero nella regolamentazione

47 Nomoc. XIV tit., 13,10 (vd. supra nt. 42), ove, sotto un titolo che è in sé una summa delle morfologie assunte dall'illecito nell'esperienza giustinianeo-bizantina (περὶ τῶν πορνευουσῶν, καὶ ἀναιρουσῶν τὰ τικτόμενα, ἤ ποιουσῶν φθόρια), si rinvia a Conc. Ancyr. can. 21; Conc. in Trullo can. 91; Basil. cann. 2; 8; 52; D. 47,11,4. Deve necessariamente notarsi, a mio avviso, che, pace Beaucamp, tra le diverse modalità di concretamento dell'aborto sunteggiate nel titolo citato, non v'è spazio (o perlomeno non la si rende esplicita in alcun modo) proprio per la lesione dell'aspettativa paterna alla progenie. 48 K.E. Zachariä von Lingenthal, Geschichte, cit., p. 347. L’ampliamento dell’area repressiva alle non coniugate sarebbe riscontrabile, per l’A. tedesco, solo a partire dai Basilici.

21 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dell'illecito fosse da escludere, ciò sarebbe per ragioni diverse e condurrebbe a conclusioni opposte a quelle addotte e raggiunte dal grande bizantinista tedesco e, quindi, dall'autorevole studiosa francese. Deve considerarsi, infatti, che l'esistenza di significative varianti (che si traducono, come si vedrà, in ambiguità interpretative) rinvenibili nella formulazione dei canoni e nella loro conseguente ricaduta pratica - connessa altresì con la rapsodica articolazione della repressione del procurato aborto nella legislazione imperiale tra isaurici e macedoni - trova ragione proprio nella discontinuità rispetto al regime ‘classico’ dell'interruzione volontaria di gravidanza (per la teoria avversata recepito e tramandato da Giustiniano) che si percepisce in quelle fonti, in ogni caso indirizzate a configurare una del tutto nuova morfologia dell'illecito sia nei soggetti puniti, sia nell'oggetto (o negli oggetti) tutelati.

8. L'‘anomalia’ isaurica: Ecl. 17,36 e l'aborto (come πορνεία) fuori del matrimonio

In effetti la formulazione della normativa canonica sembra seguire due percorsi non coincidenti, poiché al modello repressivo già delineato nei cann. 2 e 8 di Basilio di Cesarea non può non contrapporsi quello che sembra trovare origine nel (più risalente ancora)49:

49 Il Synodum Ancyranum (314 d.C.?) dispone col can. 21 quello che Balsamon, comm. ad can. 21 Conc. Anc. (RP. III, 64) definisce l'«ὄρος ἀρχαιοτέρος ἐκκλησιαστικός», benché il medesimo canone nella sua stessa formulazione faccia trasparire l'esistenza di precedenti disposizioni. Contrariamente a quanto sostengono, tra gli altri, R. Mentxaka, El aborto, cit., p. 316; G.M. Oliviero Niglio, Lo status femminile nei canoni conciliari e nella legislazione imperiale della tarda antichità, Ariccia 2016, p. 175 s., è tuttavia quantomeno dubbio, a mio avviso, che tali precedenti possano riconoscersi nei cann. 63 e 68 del Concilio di Elvira (J. von Hefele, Conciliengeschichte nach den Quellen bearbeitet, vol. I, 2a ed., Freiburg 1873, pp. 184; 186 s.), vuoi, perché la condotta è riferita solo a donne sposate e a catecumene (a seguito del loro adulterium), vuoi, soprattutto, perché il tenore degli stessi non necessariamente sembra concernere una condotta abortiva quanto piuttosto infanticida (salvo vedere effettivamente coincidenti e non solo analoghi i due comportamenti, come invece, a chiaro esempio, nelle epistole canoniche di Basilio di Cesarea), vuoi anche per le opposte aree geografiche di incidenza e per il diverso rango dei due Sinodi. Per considerazioni analoghe vd. P.E. Christianakes, Ἡ ἀπόπειρα ἐκκλησιαστικοῦ ἐγκλήματος, Athena, 1978, p. 571 s. Dubbi altresì espressi da M.-H. Congourdeau, Un procès d'avortement à Constantinople au 14e siècle, in RÉB., 40, (1982), p. 110 nt. 38, la quale si domanda, infatti, se i canoni di Elvira «seraient-ils parvenus jusq'aux Pères d'Ancyre ou faut-il chercher en Orient une autre “ancienne loi” aux termes identiques?» (si noti però che l'A. vede represse nei canoni occidentali esplicite fattispecie d'aborto).

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Conc. Ancyr. can. 21: Περὶ τῶν γυναικῶν τῶν ἐκπορνευουσῶν, καὶ ἁναιρουσῶν τὰ γενώμενα, καὶ σπουδαζουσῶν φθόρια ποιεῖν, ὁ μὲν πρότερος ὅρος μέχρις ἐξόδου ἐκώλυσε, καὶ τούτῳ συντίθενται. Φιλανθρωπότερον δέ τι εὑρόντες, ὡρίσαμεν δεκαετῆ χρόνον κατὰ τοὺς βαθμούς τούς ὡρισμένους πληρῶσαι50, che trova evidente recezione51 nella legislazione isaurica in

Ecl. 17, 36: Ἐὰν γυνὴ πορνεύσῃ καὶ γίνεται ἔγκυος καὶ ἐπιβουλεύσῃ τῇ οἰκείᾳ γαστρὶ πρὸς τὸ ἐκτρῶσαι, τυπτομένη ἐξοριζέσθω52.

La differenza tra le due tradizioni, come può facilmente notarsi, è che nella formulazione isaurica, rispetto alle norme patristico-canoniche coeve (ad esclusione, appunto, dell'antico canone ancirano) e alla successiva regolamentazione macedone53, vi è l'inserto di un elemento in più: l'avere la donna commesso πορνεία.

50 RP. III, 63 (= PG. 137, 1186: De mulieribus quae sunt fornicatae, et fetus in utero perimunt et fetuum necatoriis medicamentis faciendis dant operam; prior quidem definitio usque ad vitae exitum prohibebat, et ei quidam assentiuntur; sed humanitate tamen utentes, decrevimus ut decennium per grados praefinitos impleant). 51 Quanto alla funzione della disposizione dell'Ecloga, val la pena notare, con B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111, che deve essere escluso che essa svolga ruolo di mera integrazione della disciplina riconducibile alla Compilazione (presupponendo una continuità della vigenza di questa), nella quale «die Abtreibung eines ehelichen Kindes schon [...] unter Strafe stand»; piuttosto, sulla base del medesimo ragionamento, verrebbe, viceversa, da notare come potrebbe invece imputarsi al can. 21 del Concilio di Ancyra l'obiettivo (e l'effetto) di completare, per ciò che concerneva l'ordinamento canonico, l'ambito repressivo del procurato aborto, punito dal diritto criminale pubblico, a quell'altezza temporale, solo quando riguardasse la prole legittima. 52 L. Burgmann, Ecloga. Das Gesetzbuch Leons III und Konstantinos' V, Frankfurt a.M., 1983 (= Burgmann), 238: Wenn eine Frau hurt, schwanger wird und ihre Leibesfrucht abzutreiben versucht, soll sie geschlagen und verbannt werden. 53 In realtà, già nella formulazione della corrispondente norma in EA 17,29 (Simon - Troianos, FM., 2, [1977], p. 73) scompare l'elemento della πορνεία (mentre si sottolinea che l'aborto è punito καθ'οἰονδήποτε τρόπον), dimostrando dunque, che l'applicazione di un regime orientato su una regola che limita in modo siffatto la repressione criminale dell'aborto deve essersi data in una finestra temporale obiettivamente ristretta, imponendosi invece immediatamente una norma (almeno nell'interpretazione se non nella prassi, vista la natura di quel compendio) del tutto più generale. Ciò non toglie (piuttosto aumenta l'ambiguità normativa che si innesta su siffatta duplicità di formulazione delle norme repressive dell'interruzione volontaria di gravidanza) che la norma dell'Ecloga sia, invece, conservata in EPA 17,19 (JGR. VI, 42), in parallelo con una norma di portata più generale collocata in EPA 17,27 (JGR. VI, 44, in consonanza, d’altronde, con la natura e la funzione di EPA). Sulla fonte delle disposizioni più generali riportate nei compendi privati tra VIII e IX secolo (a mio avviso incontestabilmente la tradizione che si diparte dai canoni basiliani più volte citati, quindi il diritto della Chiesa), si vd. però B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 113 nt. 1, per il

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L'inserto è tutt'altro che irrilevante, poiché l'elemento tende a collocare la disposizione nell'area della tutela della pudicizia54, la quale si aggiunge, se si vuole, quale oggetto protetto dalla norma (ma in realtà così lo si oscura), all'integrità del nascituro 55 . La repressione dell'impudicizia parrebbe anzi essere prevalente rispetto all'altra finalità della norma (connessa all'omicidio del feto), se è vero, come pare, che, nella formulazione dell'Ecloga, l'aver commesso πορνεία condizioni la punibilità stessa della condotta abortiva56, ma altresì, viceversa, che il tentare o concretare l'interruzione di gravidanza costituisca la ragione della sottoposizione a pena criminale della condotta impudica57. Se, dunque, per il legislatore isaurico, non tutte le donne che abortiscono sono punite, ma solo quelle che hanno commesso πορνεία (e per di più, se ciò avviene solo se vi è un rapporto eziologico tra quella condotta e la pratica abortiva), è legittimo porsi il quesito se tutte le donne, perciò, senza differenza di status, possano essere punibili in quanto possibili autrici della condotta descritta dalla norma. Nell'indeterminazione dell'area dei soggetti punibili così come individuati dalla disposizione di Leone III, può tuttavia nuovamente sottolinearsi l'inapplicabilità generale, come già notato polemicamente da Sinogowitz e poi da tutta la successiva dottrina fino ai più recenti studi di Troianos, della già esposta lettura delle fonti proposta da Zachariä von Lingenthal. Orientato a vedere riprodotta sempre - per prima nella normativa isaurica - la struttura del crimine che egli reputa disegnata dai compilatori giustinianei (ma in realtà dei ‘classici’) - in particolare riguardo ai soggetti ivi intesi come imputabili: le nuptae -, Zachariä ne forza comunque i limiti morfologici affermando, infatti, che l'Ecloga limiti la punibilità al

quale una norma siffatta «aus einer Summe von D. 48,8,8 oder von einer verloren Novelle stammt». 54 J. Beaucamp, La situation juridique, cit., p. 164, concede che l'Ecloga «envisageait l'avortement en relation avec le débauche». 55 Di ciò si ha, credo, indiretta dimostrazione, per l'uso di norme riferibili ai due ‘modelli’ indicati, nella successiva EPrM che colloca in 19,17 (JGR. VI, 268), sotto il titolo περὶ πόρνων καὶ μοιχῶν καὶ φθορέων καὶ ἀσελγὼν, la norma di Ecl. 17,36 e, sotto il titolo περὶ φονέων καὶ γοήτων, in 21,18 (JGR. VI, 271), la norma di EA 17,29, le quali, dunque, se lette in un rapporto che sia ‘di sistema’, verrebbero così a rispondere a logiche di repressione criminale tra loro probabilmente differenti e tuttavia tra loro connesse. Vd. S.N. Troianos, Ὁ «Ποινάλιος» τοῦ Έκλογαδίου, Frankfurt a.M. 1980, p. 95. 56 Sulla πορνεία come «antefatto non punibile» nella fattispecie della norma isaurica, vd. F. Botta, “Per vim inferre”. Studi su stuprum violento e raptus nel diritto romano e bizantino, Cagliari 2004, p. 219 nt. 109. 57 Vd. B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111 s.: «Leon III [...] mit seiner Vorschrift auch indirekt gegen die Unzucht vorgehen».

24 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 caso della donna sposata che avesse commesso πορνεία e che pertanto interrompesse una gravidanza ‘illegittima’58. Incontestabile è seguita, credo, l'obiezione di Sinogowitz59, ed è di logica sistematica: la γυνὴ πορνεύσῃ non può essere mai la donna sposata, giacché l'illecito sessuale della stessa, che essa abortisca o meno, configurerebbe μοιχεία, adulterio60, la cui pena, espressa in Ecl. 17.2761, il taglio del naso, è assai più grave di quella irrogata in Ecl. 17,36 per l'aborto, consistente nella battitura e nell'invio in esilio. Considerando dunque assorbita nell'adulterio e nella pena irrogata per quel crimen la punibilità della donna coniugata per la condotta abortiva conseguenza di un rapporto illecito, risulta altresì evidente che, in generale, rispetto alla nupta si assiste a un radicale ribaltamento del regime ‘classico’ di repressione del crimen, scomparendo nel diritto degli Isaurici qualsivoglia norma tesa in sé a punirla per l'aborto commesso. Ciò è chiaro, infatti, se si considera che anche l'aborto ‘doloso’ da parte della donna sposata che abbia come oggetto il frutto del rapporto coniugale - per definizione legittimo - non può perciò essere effetto di πορνεία e dunque risulterebbe non sussumibile sotto la norma in esame e pertanto non punito (almeno in forma di pena criminale) nel sistema dell'Ecloga. Salvo reputare, quindi, che tale assenza di previsione sia imputabile ad una lacuna dell'ordinamento repressivo, dovrà allora supporsi che l'interruzione volontaria della gravidanza legittima sia stata punita con sanzioni ‘endoconiugali’, perlopiù patrimoniali - e cioè considerando sanzione in sé il repudium62 (pur con tutte le perplessità

58 K.E. Zachariä von Lingenthal, Geschichte, cit., p. 347. 59 B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 112 nt. 1. 60 Ad onta del fatto che in Ecl. 2,9,2 (Burgmann, 182), in cui si regolamentano le cause di ripudio, la condotta adulterina della donna sia espressa col verbo πορνεύειν (λύεται ὁ ἀνὴρ ἀπὸ τῆς γυναικὸς διὰ τοιαύτας αἰτίας· ἐὰν ἡ γυνὴ αὐτοῦ πορνεύσῃ et rell.). Ma sul punto vd. A. Laiou, Sex, Consent, and Coercion in Byzantium, in Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies, Washington 1993, p. 129 che espressamente vi riconosce un uso atecnico del termine al posto del più corretto μοιχεύειν. 61 Ὁ εἰς γυναῖκα ὕπανδρον μοιχεύων ῥινοκοπείσθω καὶ αὐτὸς καὶ ἡ μοιχαλίς et rell. (Burgmann, 234: Wenn jemand mit einer verheireteten Frau die Ehe bricht, dann soll ihm und der Ehebrecherin die Nase abgeschnitten werden et rell.). 62 Vd. Ecl. 2,9,2 (supra nt. 60): Λύεται ὁ ἀνὴρ ἀπὸ τῆς γυναικὸς διὰ τοιαύτας αἰτίας· ἐὰν ἡ γυνὴ αὐτοῦ πορνεύσῃ, ἐὰν ἐπιβουλεύσῃ οἰῳδήποτε τρόπῳ τῇ ζωῇ αὐτοῦ ἢ ἐπισταμένη ἑτέρους ἐπιβουλεύοντας μὴ καταμηνῦσῃ αὐτῷ, καὶ ἐὰν λωβή ἐστιν. (= Burgmann, 183: Der mann wird von seiner Frau aus folgenden Gründen geschieden: wenn die Frau hurt; wenn sie ihm auf irgendeine Weise nach dem Leben trachtet oder, obwohl sie weiß, daß andere dies tun, es ihm nicht mitteilt; wenn sie aussätzig ist).

25 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 che per il pregresso63 sorgono dalla lettura della Nov. 31 di Leone VI il Saggio64) - e affidando alla pena ecclesiastica la probabile funzione di stigma sanzionatorio di quell'illecito femminile65. Ed infatti, dalla condivisibile affermazione di Troianos, secondo il quale l'ordinamento criminale ‘si accontentava’, per l'illecito ‘non adulterino’ delle donne sposate, dell'irrogazione della penitenza canonica 66 (affermazione pronunciata al termine di un ragionamento e contrario al cui esito si deduce che l'Ecloga abbia, in positivo, punito con pena ‘pubblica’ l'aborto volontario concretato o tentato esclusivamente e solo dalle innuptae), credo debba potersi giungere altresì ad una più ampia conclusione: e cioè che, escludendo, da un lato, che le non coniugate punite dalla norma fossero le sole prostitute (contro una lettura che, ancorché autorevole tra gli studiosi a noi contemporanei67, e risalente già

63 Per buona parte investigato da F. Goria, Tradizione romana e innovazioni bizantine nel diritto privato dell'Ecloga privata aucta. Diritto matrimoniale, Frankfurt a.M. 1980, pp. 98 ss. Là ove vi si prendono in considerazione le fonti in tema di ripudio unilaterale per giusta causa precedenti la legislazione macedone non compare significativamente il procurato aborto. 64 La reintroduzione con Nov. 31 da parte di Leone VI dell'aborto volontario tra le cause di imputazione del divorzio alla moglie (vd. supra ntt. 10; 46) suggerisce che in precedenza il regime dello stesso fosse perlomeno oggetto di variabili interpretazioni (punti di vista sul dato nella letteratura in C. Terreni, Me puero, cit., p. 300 ss. e ntt.) e, soprattutto per il tema che qui ci occupa, segnala altresì il totale disinteresse dell'imperatore per una repressione criminale di quell'atto (della donna sposata per la prole legittima), cosa che risulterebbe assai più in linea con la (altrove vituperata) normativa isaurica (pur anche, come s'è visto, a sua volta ambigua), che con la produzione canonica e, soprattutto, con le disposizioni di Prochiron, Eisagoge e degli stessi Basilici, riferibili alla sua stessa dinastia, (quale che sia la cronologia delle pubblicazioni delle diverse raccolte normative imputabili ai macedoni), che pure, come s'è visto, dando, a mio avviso, mostra di recepire i canoni basiliani e il can. 91 del Conc. in Trullo, puniscono l'aborto volontario di ogni donna (indifferentemente dal suo statuto personale e, soprattutto, spezzando ogni nesso tra aborto e fornicazione). 65 Così S.N. Troianos, Ὁ «Ποινάλιος», cit., p. 93, sulla scia di B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111. Per entrambi la normativa isaurica, come s'è visto, deve però intendersi «συμπλήροσις τῆς ἰουστινιανείου νομοθεσίας». 66 S.N. Troianos, Ὁ «Ποινάλιος», cit., p. 93: «ἐπὶ τῶν ἐγγάμον [...] ἠρκέσθησαν πιθανῶς εἰς τὰς ὑπὸ τῆς κανονικῆς νομοθεσίας προβλεπομένας ἐκκλησιαστικὰς ποινάς». 67 Ivi, p. 93 nt. 14, (ma travisando B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111 s.), reputa la norma esempio della lotta alla prostituzione propria della politica criminale di Leone III. Più recentemente, meno perspicuamente e, forse, eccessivamente generalizzando, M.H. Congurdeau, Les variations du désir d'enfant à Byzance, in A. Papaconstantinou - A.-M. Talbot (edd.), Becoming Byzantine. Children and Childhood in Byzantium, Harvard 2009, p. 49 (ove altra letteratura). Nell'edizione francese di J. von Hefele, Conciliengeschichte, cit., p. 240 (nella precedente tedesca, tuttavia, si trova la versione: «die Weiber welche Unzucht treiben»), d'altra parte, il ‘τῶν γυναικῶν τῶν ἐκπορνευουσῶν’ del can. 21 del Concilio di Ancyra è reso con riferimento alle «femmes qui se prostituent» (J. Hefele - H. Leclercq, Histoire des Conciles d'après les documents

26 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ad Aristeno 68 , appare indebitamente restrittiva della norma e del significato assai più largo del verbo πορνεύειν che essa utilizza69), dall'altro mi sembra legittimi una rivisitazione del complessivo sistema sanzionatorio dell'Impero d'Oriente. Questo trova, a mio avviso, il più idoneo banco di prova proprio nell'articolazione della punizione per gli illeciti connessi alle condotte (e alla morale) delle donne, in capo alle quali essi sono sempre meno sanzionati, con pena pubblica, a partire dal regime di adulterium e stuprum instaurato con le Institutiones giustinianee.

9. Conclusioni: l'aborto nel ‘sistema repressivo’ dell'Impero d'Oriente, tra pena pubblica e penitenza canonica

Sotto quest’ultimo profilo, infatti, la surricordata affermazione di Troianos può così contestualizzarsi in relazione a quanto può dedursi da autorevoli studi sulla sanzione criminale statuale in età giustinianeo- bizantina70, nei quali implicitamente si suggerisce che la pena pubblica risulti in concreto inserita in un sistema integrato con la pena canonica, essendo percepibile, dall'analisi delle motivazioni sottese all'irrogazione della pena statuale (ad esempio nelle Novelle giustinianee), la sua primaria funzione retributiva, intesa come necessaria e inevitabile sempre ma, in alcuni significativi casi, ‘solo’ quando insufficiente dovesse risultare un meccanismo ‘emendativo’ della colpa. E ciò sia in forma alternativa - e quindi rimesso, esplicitamente o no, alla penitenza ecclesiale -, sia in forma preventiva/aggiuntiva, dipendente cioè dalla minaccia stessa della medesima pena afflittiva71 o dall'ulteriore esplicita previsione dell'irrogazione anche di pene canoniche. originaux, vol. I.1, Paris 1907, p. 323). Nel senso del testo, però, E. Nardi, Procurato aborto, cit., p. 496. 68 Aristen., comm. ad can. 21 Conc. Ancyr. (RP. III, 64): αἰ πόρναι λαμβανούσαι φθόρια et rell. (= PG. 137, 1188: Meretrices medicamenta noxia accipientes et rell.). 69 Sulla nozione di πορνεία nel diritto penale mediobizantino, significativa perlopiù del reato maschile di impudicizia (e sul dibattito intercorso sul punto nella bizantinistica), mi sia concesso rinviare a F. Botta, “Per vim inferre”, cit., pp. 212 ss. e ntt. 70 È quanto credo si possa dedurre da F. Sitzia, Aspetti della legislazione criminale nelle Novelle di Giustiniano (1990), in Scritti di diritto romano, vol. II, Da Giustiniano al Diritto romano d'Oriente, Napoli 2020, pp. 215 ss. 71 Circa la 'συμφονία' normativa tra Stato e Chiesa nell'Impero d'Oriente, le fonti che se ne occupano e le materie normalmente deferite alla normazione/giurisdizione ecclesiastiche, si vd. per tutti il classico lavoro di H.-G. Beck, Nomos, Kanon und Staatsraison in Byzanz, Wien 1981, passim. Vd. altresì più recentemente K.G. Pitsakis, Les Novelles dans le droit canonique oriental, in L. Loschiavo - G. Mancini - C. Vano

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In questo quadro, apparendo del tutto plausibile, dunque, che, per il diritto dell'Ecloga, la lacuna di una previsione repressiva dell'interruzione dolosa della gravidanza ‘legittima’ da parte della coniugata venisse colmata da un rinvio implicito alla normativa e alla pena canoniche, si può cercare altresì di precisare la portata della prescrizione repressiva espressa in positivo da Ecl. 17,36. Per la sua formulazione, infatti, la norma, che individua l'autrice dell'illecito nella γυνὴ πορνεύσῃ, sembrerebbe rendere sanzionata, come si è detto, una condotta di impudicizia, altrimenti non punibile, imputabile alle sole donne non sposate, le quali, evidentemente, non possono che abortire se non i frutti indesiderati di relazioni vietate72. Se, dunque, si intende che, condivisibilmente, Sinogowitz73 individua la ratio della disposizione isaurica nel disvalore attribuibile alla motivazione dell'atto punito, rappresentata, con la formula espressiva di Troianos, dalla «συγκάλυψις τῆς ἠθικῆς παρεκτροπῆς»74 - estratta assai probabilmente dalla stessa motivazione usata da Basilio nel canone 5275, ove si punisce il parto κατὰ τὴν ὀδὸν, il parto clandestino e destinato all'abbandono del neonato (nelle fonti dell'età bizantina generalmente trattato congiuntamente, e con reciproca assimilazione concettuale, all'aborto76),

(curr.), Novellae Constitutiones, cit., pp. 91 ss., cui adde, per informazioni generali ma altresì fondamentale bibliografia recenziore, D. Ceccarelli Morolli, Il diritto, cit., pp. 144 ss. Per la rilevanza dei canoni espressi anche dai concili regionali, sui limiti della complementarità di questi e della normativa imperiale vd., tra gli altri, R. Macrides, Nomos and kanon on paper and in Court, in R. Morris (ed.), Church and People in Byzantium, Birmingham 1990, pp. 61 ss. 72 E. Patlagean, Sur la limitation de la fécondité dans la haute époque byzantine, in Annales ESC, 24, (1969), p. 1360. 73 B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111, che imputa appunto la medesima motivazione repressiva tanto ai canoni quanto alla norma imperiale. 74 S.N. Troianos, Ὁ «Ποινάλιος», cit., p. 93, il quale però (come s'è detto anche supra, nt. 43) considera tale ‘nascondimento dei fuorviamenti etici’ causa di attenuazione della pena (canonica e, quindi, imperiale) per equiparazione all'omicidio involontario (come in Basil., can. 52, cit.). Contra, giustamente a mio avviso, sul punto C. Cupane - E. Kislinger, Bemerkungen, cit., p. 32 nt. 67, ai quali risulta difatti «unglaubhaft daß die Kirche mit einer eingeschränkten Strafherabsetzung letzlich und indirekt die πορνεία aus ihrer Sicht “erleichtern” wollte». 75 RP. IV, 207. Ma vd. anche can. 33 (RP. IV, 175). 76 Balsamon, comm. ad can. 2 S. Basilii (RP. IV, 96). Vd. B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 111 nt. 1. Sulla pratica dell'infanticidio, nelle sue varie forme e per i suoi diversi scopi, nel periodo, vd. E. Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance, 4e- 7e siècles, Paris, 1977, p. 116; p. 363. Vd. anche, per aspetti del diritto nell'XI secolo, G. Buckler, Women in Byzantine Law, in Byzantion, 11, (1936), pp. 412 ss. Su aborto e infanticidio quali strumenti di ‘pianificazione’ delle nascite nella cultura e nelle società antiche, vd. generaliter, E. Eyben, Family Planning in Graeco-Roman Antiquity, in Ancient Society, 11/12, (1980/81), pp. 5 ss.

28 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 affermandosi che esso avviene per nascondere la colpa, per celare il peccato commesso (συγκαλύψειν ... τὴν ἁμαρτίαν) 77 - credo possa definitivamente considerarsi che in Ecl. 17,36 si venga a reprimere, per il fatto dell'aborto concretato o tentato, una condotta di impudicizia, a quello eziologicamente collegata, altrimenti non soggetta a pena pubblica. Nel diritto mediobizantino, come s'è detto, tale regime riguardava tutte le donne non coniugate, tanto le viduae quanto le virgines. Se però le condotte impudiche delle prime non sono oggetto della legislazione penale isaurica (e in realtà nemmeno della successiva produzione normativa imperiale78), potendosi pertanto solo dedurre che esse per tali fatti non venissero punite79 (con implicito rinvio alla normativa e alla

77 Che questo sia infatti solo quello delle «femmes en situation irrégulière, prostituées, ou tout au moins femmes libres», come ipotizza E. Patlagean, Sur la limitation, cit., 1361 ss., sulla base principalmente del Penitenziale (Kanonikon) attribuito a Giovanni IV Nesteutes 'il Digiunatore' (J. Morinus, Commentarius Historicus de disciplina in administratione sacramenti poenitentiae, vol. I.1, Antiqui Poenitentiales, Paris, 1651, p. 84 = RP. IV, 443. Vd. V. Grumel, Regestes des Actes du Patriarcat de Constantinople, vol. I.1, Paris, 1972, n. 270) - su cui letteratura anche in C. Cupane - E. Kislinger, Bemerkungen, cit., p. 36 nt. 82 - nel quale, sul declinare del VI secolo, si raccomanda «particulièrement» di tenere in considerazione per questo ‘peccato’ vedove o donne dedicate a Dio («des femmes seules encore une fois»), non lega con un'altra considerazione - il cui fondamento si rinviene anche nel più tardo commentario di Zonara al can. 2 di Basilio (RP. IV, 98 - che ha però portata più ampia -: λάθρα γυναῖκές τινες ἀνδράσι συμφθειρόμεναι, συλλαμβάνουσι· φόβῳ δὲ γονέων ἴσως ἢ δεσποτῶν, ἢ ἑτέρων τινῶν, ἐπιττηδεύουσι τῶν ἑμβρύων ἀποβολὴν et rell. [= PG. 138, 590: Mulieres quaedam occulte cum viris corruptae concipiunt, metu vero parentum forte, vel dominorum, aut aliorum quorundam, student conceptum ejicere et rell.]) e a Conc. in Trullo can. 91 (= PG. 137, 828) - che la bizantinista francese articola e cioè che questa sia la motivazione all'aborto di «femmes qui veulent cacher une faute à leurs parents ou à leurs maîtres», dunque di donne non ‘libere’ ma soggette a poteri paterni o dominicali. 78 Un revirement normativo si avrà solo (e, non a caso, su sollecitazione del Patriarca Athanasios I) nel 1306 con la Nov. 26 di Andronico II (JGR. I, 535). Vd. M.A. Tourtoglou, Παρθενοφθορία καὶ εὕρεσις θησαύρου, Athenai 1963, pp. 68 ss.; A. Laiou, Sex, cit., p. 143 s.; F. Botta, “Per vim inferre”, cit., p. 295 s. e nt. 73. 79 Perché era punito l'uomo con cui la πορνεία s'era compiuta (Ecl. 17,19; 17,20 [Burgmann, 230]). Vd. F. Botta, Ecl. 17,21: alle origini dell'obbligo giuridico di fedeltà reciproca tra coniugi, in Studi per G. Nicosia, vol. II, Milano 2007, pp. 88 ss. (ove precedente letteratura). D'altronde già in forza di I. 4,18,4, e secondo quanto ci riferisce Evagrio Scolastico, Hist. eccl., 4,30 (Bidez - Parmentier, 179 = Niceph. Call., Hist. eccl., 17,19 [PG. 147, 267]), nella normativa imperiale il privilegio concesso alle donne si estendeva fino al punto di permettere a qualunque donna che, pur esercitando il meretricio, avesse simulato di aver avuto consuetudo o di avere comunque intrattenuto rapporti sessuali con un uomo per finalità diverse dal lucro, di comunque denunciare il fatto, accusando l’uomo di stuprum e ricavare da ciò un vantaggio patrimoniale al quale il fisco avrebbe partecipato (ancora F. Botta, “Per vim inferre”, cit., p. 215 nt. 100). D'altra parte, vd. Procop., Anekd. 9,19; 17,16, sugli aborti (concretati o tentati, comunque impuniti) di Teodora prima del matrimonio (vd. C. Cupane - E. Kislinger,

29 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 pena ecclesiastica ricadendosi, anche in questo caso, nella sostenuta ‘sussidiarietà’ tra ordinamento imperiale e canonico80), esplicitamente senza pena è la παρθένος per il rapporto sessuale in cui ha volontariamente preso parte:

Ecl. 17,29: Ὁ συγγινόμενος κόρῃ παρθένῳ, προαιρέσει μὲν τῆς κόρης, ἀγνοίᾳ δὲ τῶν αὐτῆς γονέων, ἐν ὑστέρῳ δὲ τούτων διαγινωσκόντων, εἱ μὲν θελήσει λαβεῖν αὐτὴν καὶ θελήσουσι καὶ οἱ γονεῖς αὐτῆς, γινέσθω τὸ συνάλλαγμα· εἱ δὲ ἓν τῶν μερῶν οὑ θελήσει, εἰ μέν ἐστιν εὔπορος ὁ φθορεύς, διδότω τῇ φθαιρείσῃ κόρῃ χρυσίου λίτραν μίαν· εἰ δέ ἐστιν ἐνδεέστερος, διδότω τὸ ἥμισυ τῆς ὑποστάσεως αὑτοῦ· εἰ δὲ παντελῶς ὑπάρχει πένης καὶ ἀνεύπορος, τυπτόμενος καὶ κουρευόμενος ἐξοριζέσθω81.

Nella norma, seguendo una linea di politica legislativa che esentava la donna (non sposata e non Deo dicata) dalla pena per i reati contro la pudicizia - linea, come s'è detto, già instaurata da Giustiniano 82 - si addossa al solo seduttore la sanzione che nel diritto romano ‘classico’ era prevista per entrambi i compartecipi di quel crimen, dalla legge augustea denominato stuprum. Ma tale sanzione, pecuniaria perlopiù, è necessariamente alternativa al matrimonio riparatore e definisce l'obbligo imposto al partecipe maschile dello stuprum/φθορά, di risarcire il danno arrecato all'onore della fanciulla83, la cui perdita di reputazione, nella quale sarebbe sicuramente incorsa con conseguente irreparabile e perpetua limitazione della vita di relazione 84 , rappresentava il portato di una drastica sanzione sociale

Bemerkungen, cit., p. 21; J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance (4e - 7e siècle), vol. II, Les pratiques sociales, cit., p. 326 e ntt.). 80 Così espressamente B.A. Leontaritou, Ἐκ γυναικὸς ἐρρύη τὰ φαῦλα. Η γυναικεία εγκληματικότητα στο Βυζάντιο, in S.N. Troianos (ed.), Ἐγκλημα και Τιμωρία στο Βυζάντιο, Athenai 1997, p. 221. Vd anche F. Botta, “Per vim inferre”, cit., p. 218 nt. 109. 81 Burgmann, 236. 82 Cfr. Proch. 39,65 (JGR. II, 224) = Bas. 60,37,78 (A VIII, 2996). Come modello di entrambe le disposizioni, si vd. ancora I. 4,18,4. Cfr. F. Botta, “Per vim inferre”, cit., pp. 186 ss. 83 Per tutti mi sia permesso rinviare a F. Botta, “Per vim inferre”, cit., pp. 187 ss. e ntt., soprattutto p. 188 nt. 29 (ove precedente letteratura). 84 Vd. l'esplicita motivazione della disposizione (e anche della mitigazione della sanzione canonica che tiene conto dell'incancellabile dedecus che incorre sulla διεκορὴθη), espressa da Balsamon, comm. ad can. 26 S. Basilii (RP. IV, 159 s.): τὴν μὲν παρθένον ἴσως μετὰ τὴν φθορὰν οὐδεις αἱρετίσεται πρὸς γάμον λαβεῖν, καὶ εἰ μὴ παραξωρηθῇ τῷ φθορεῖ γαμηθῆναι, περιλειφθήσεται ἄτιμος καὶ ἐλέους ἀξία· ἡ δὲ πορνευθεῖσα οὑ ζημιοῦται τοσοῦτον, ἐὰν μή γαμηθῇ τῷ πορνεύσαντι μετ' αὐτῆς· παρ' ἐτέρου γὰρ διεκορὴθη (= PG. 138, 674 ss.: Virginem quidem post ei allatum stuprum nemo fortasse volet in

30 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 proiettata comunque anche sulle norme di diritto canonico85. Se, dunque, la perdita dell'onorabilità è, seguendo Laiou86, nei fatti la ‘pena’ per la φθορά, per lo stuprum volontario commesso dall'innupta e se, pertanto, l'aborto (come esplicitamente detto per il parto clandestino) può rappresentare un modo sostanzialmente fraudolento per nascondere l'evidenza di tale disonore87 e quindi per sottrarsi al conseguente castigo canonico e sociale che esso comporta, allora la norma isaurica che lo sanziona, punendo per questo motivo la πορνεία di colei che altrimenti non sarebbe incorsa in una pena criminale, può meglio intendersi quando la si voglia considerare inserita in quel sistema repressivo integrato nel quale il diritto penale pubblico - specie circa gli illeciti lesivi della pudicizia - ‘sceglie’ (esplicitamente o meno) di svolgere funzione suppletiva dell'ordinamento sanzionatorio canonico (e, per l'effetto, sociale)88. Verrebbe così a inverarsi ulteriormente il postulato di Troianos secondo il quale, la progressiva mitigazione delle pene e, soprattutto, la riduzione stessa del numero e delle fattispecie dei reati sessuali contemplati dagli ordinamenti imperiali come meritevoli di pena criminale hanno comportato una non rara sostituzione della pretesa penale pubblica con

matrimonium accipere, et nisi illi permittatur ei qui stupraverit nubere, dedecore affecta ac miserabilis relinquetur. Quae autem fornicata est non tanto afficitur, si ei quocum ipsa fornicata est non nupserit: est enim ab alio devirginata). Per il precedente, riguardo all'abducta, già Iust. C. 9,13,1,3b. 85 Basil., cann. 26 e 38 (RP. IV, 157; 182). Cfr. M.A. Tourtoglou, Παρθενοφθορία, cit., pp. 68 ss.; A. Laiou, Sex, cit., p. 143 s. 86 A. Laiou, Sex, cit., p. 144: «if marriage did not take place, the girl was most probably shamed and dishonored, even if there were no public parading involved. This would have been a deterrent more powerful than the law was for men, and it may be the reason why the law does not, usually, mention a specific punishment for the woman: the woman’s punishment would have taken place outside the realm of law, the man’s inside it». 87 B. Sinogowitz, Studien, cit., p. 112. 88 Se ne ha l'esempio più esplicito in EA 17,32 (FM., 2, cit., p. 73): Ὁ ἔχων γυναῖκα καὶ πορνεύων τοῖς ἐκκλησιαστικοῖς ἐπιτιμίοις ὡς πόρνος καταδικαζέσθω καὶ τούτοις ὑποβαλλέσθω· εἰ δὲ τὰ ἐπιτεθησόμενα αὐτῷ καταφρονῶν μὴ παραφυλάξῃ κανονικὰ ἐπιτίμια, τὸ ἥμισυ μέρος τῆς αύτοῦ περιουσίας τῷ δημοσίῳ μέρει εἰσκομιζέσθω (= EPA 17,29 [JGR. VI, 44 = E.H. Freshfield, A Revised Manual of Roman Law (Ecloga Privata Aucta), Cambridge 1927, p. 81: A married man who commits fornication shall be punished according to Ecclesiastical Law. And if the delinquent refuses to submit himself to the Canonical punishments imposed upon him, one-half of his property shall be forfeited to the Public Treasury]). Sulla disposizione, la sua ratio e la dottrina che l'ha tenuta ad oggetto, rinvio a F. Botta, “Per vim inferre” , cit., p. 220 nt. 116.

31 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 quella propria del diritto ecclesiastico89. In definitiva, in ordine a questo particolare profilo della συμφονία tra Impero e Chiesa riguardante il sistema repressivo, è alla normativa canonica che sembra primariamente deferito il compito di discriminare e quindi sanzionare le condotte ‘eticamente valutabili’, e in particolare quelle sessuali, che il diritto imperiale, di volta in volta, reputa di voler riconoscere o meno meritevoli di pena pubblica 90 ; è all'ordinamento ecclesiastico, infatti, che è riconosciuta la funzione ‘naturale’ di valorizzare o, all'inverso, di stigmatizzare del tutto efficacemente - per i valori dominanti in quel periodo storico e in quel contesto culturale - la posizione dei fedeli tutti e in particolare della donna, in specie riguardo alla tutela della pudicizia, escludendola, isolandola da, o, all'inverso, includendola in quella fitta trama di relazioni che costituisce l'essenza della Ἐκκλησία come comunità (e, quindi, del corpo sociale che per intero rappresenta) nella quale essa è inserita.

Abstract: Classical ages juridical sources classify abortion as a damage to the husband’s spes liberorum. The sole culprit is the married woman who is sanctioned with repudation and curtailment her dowry. For the same ratio it is pursued as crimen through an imperial rescript by Severus and Caracalla with extension of the penalty also towards divorced women. One can suppose that (also) the homicide of the fetus is punished by the Compilation since such precept, under canon law, is perceived through an ‘interpolatory’ use by Ulp. (33 ad ed.) D. 48,8,8 that extends the area of punishable subjects to all women. Such regime carries on till the Macedonian dynasty, with the exception of Ecl. 17,36 that ascribes it, for its πορνεία, only to the innuptae, leaving the punishment of all other women to the ecclesiastical order as a further example, under Byzantine law, of the reciprocal integration of the repressive systems of both Church and Empire, particularly evident in the of wrongful acts consistent in ethically relevant behaviour.

89 S.N. Troianos, Ἐρως και νόμος στο Βύζαντιο, in Id. (ed.), Ἐγκλημα και Τιμωρία, cit., p. 201: «πολλών αξιόποινων πράξεων γύρω από τη σεξουαλική ζωή είχε πολύ περιοριστεί η δίωξη [nel diritto imperiale], σε τρόπο ώστε όχι σπάνια να παρατηρείται αντικατάσταση της ικανοποιήσεως της ποινικής αξιώσεως της Πολιτείας από εκείνη της Εκκλησίας». 90 È questo, in buona sostanza, il fenomeno che A. Laiou, Mariage, amour et parenté à Byzance aux XIe -XIIIe siècles, Paris 1992, p. 67 s., affermandosi tributaria degli assunti della Histoire de la Sexualité di M. Foucault (I-III, Paris 1976-1984), rende chiaro quando afferma che «par l'Église, principal arbitre de la moralité publique et privée, [...] furent élaborées [...] les normes et la réalité du comportement sexuel à Byzance»; disposizioni normative e comportamentali che assumono valenza di «normes ideologiques explicites». Nella continua dialettica, comunque non sempre piana, come s'è visto, tra il diritto della Chiesa e quello che la studiosa chiama «l'État», inteso come «le second juge de la moralité publique», la soluzione da cui discende l'individuazione delle norme di condotta e delle sanzioni ivi previste che, in quell'ambito, sono accettate dalla «société laique», dipende per Laiou, dunque, dalla considerazione della misura nella quale, nel corso dello sviluppo della storia sociale e giuridica dell'Impero d'Oriente, «Église et État étaient tantôt en accord, tantôt en conflit».

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Key words: abortion, patria potestas, lex Cornelia de sicariis et veneficis, homicide, Compilation of Justinian, νόμοι-κάνονες, byzantine criminal law, πορνεία.

33 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

YOLANDA MANEIRO VÁZQUEZ Lecturer in Labour Law and Social Security Law, Faculty of Law, University of Santiago de Compostela

La giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla gig economy: il caso di Uber

English title: Case law of the Court of Justice with regard to the gig economy: the case of Uber DOI: 10.26350/18277942_000008

Summary: 1. The consideration of Uber as a transport service by the Court Of Justice. 1.1. Judgment of 20 December 2017, Asociación Profesional Elite Taxi and Uber Systems Spain, S.L. 1.2. Judgment of 10 April 2018, Uber France SAS. 2. The importance of the concept of “information society services” as opposed to that of “transport services.” 3. Information society services and their associated risks. 4. the consequences of these judgments on an internal level. 4.1. Working Time. 4.2. Remuneration. 5. References.

1. The consideration of Uber as a transport service by the Court of Justice

The irruption of platforms and the new operating models they offer has shaken up the traditional rules of regulatory application that, with greater or lesser legal certainty, have governed until now. Similar to the nature of the business offered by the platforms, this phenomenon has expanded beyond national borders. From the moment in which these companies operate in a supranational area, the legislation of a single state reveals itself to be, on many occasions, insufficient to encompass and organize all aspects of this business. By way of a perfect storm, the platforms have not only been able to play with the internationalization of their services, but also, like a good sleight of hand, have managed to circumvent basic legal categories—such as working in the employ or under the direction of another, within the realm of labor relations—which thus far had served as

 This paper, subjected to double blind peer review, is part of the research project RTI2018-097917-B-100, entitled Challenges of Spanish Labor Law in the Context of the Doctrine of the Court of Justice on Social Policy and Fundamental Rights, of the Ministry of Science, Innovation and Universities.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 essential pillars for the legal classification of various social and economic realities. The traditional battle between economic liberalization and regulatory restrictions in favour of guarantees and legal certainty has played another essential role in this matter. It is still ironic that modernity, at the hands of the latest technological advances, has obligated old concepts of labor law (taken for granted thus far) to be put on the table to analyse them under a new prism that allows their redefinition and, with it, their best accommodation to the new technological realities. Hyperconnectivity, commonly referred to as a typical feature of technology platforms, has also been reflected in the regulatory field: for the analysis and regulation of the platform economy, the reduced space offered by a single branch of the legal system (or even national regulation itself) is insufficient. The two judgments of the Court of Justice related to the activity of the Uber platform, the focus of this paper, are demonstrative of the fact that this task far exceeds the scope of national rights. Interestingly, neither of the judgments has an origin in labor, but both have very important repercussions in this area. The first, from a chronological point of view, is of Spanish and commercial origin. The second, of French origin, comes from criminal proceedings. However, as will be seen, both open avenues towards important regulation of this issue at the national, supranational or community level, according to the desire of the States. The question referred for a preliminary ruling shows here all its power as an element to generate harmonization of European legislation. The electronic component, so characteristic of the functioning of digital platforms, has threatened the legal nature of the service and the regulations that apply to it. The services Directive, which excludes transport services, shares its liberalizing objective with the platforms to the extent that it aims to guarantee providers the effective exercise of the freedom of establishment and the freedom to provide services between Member States, without the restrictions of national rights. On the contrary, European transport regulations oblige its providers to comply with quality and driving safety standards, such as licenses, authorized vehicles, the condition of the vehicle and corresponding insurance. The determination of the legal nature of the activity provided (in this case, by Uber, but extendible to activities carried out by other similar platforms) became the primordial element for being subjected to one regulation or another.

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1.1. Judgment of 20 December 2017, Asociación Profesional Elite Taxi and Uber Systems Spain, S.L.

In 2015, an action filed the previous year was brought before the Commercial Court No. 3 of Barcelona by an association of taxi drivers in the city of Barcelona called the Asociación Profesional Elite Taxi. The defendant was Uber Systems Spain, S.L, a company related to Uber Technologies Inc. In said action, Elite Taxi included a declarative claim and two convictions. For the first, it sought a declaration that the activities of Uber Systems Spain violated the legislation in force and amounted to “misleading practices and acts of unfair competition within the meaning of Ley 3/1991 de Competencia Desleal (Law No 3/1991 on Unfair Competition) of 10 January 1991.” For the taxi drivers’ association, these charges clearly resulted from the fact that neither Uber Systems Spain nor the non-professional drivers of the vehicles had the licences and authorisations required under the Regulation on taxi services in the metropolitan area of Barcelona of 22 July 2004. Given this situation, Elite Taxi also requested a double conviction: that Uber Systems Spain cease its unfair conduct “consisting of supporting other companies in the group by providing on-demand booking services by means of mobile devices and the internet,” and secondly, the prohibition of engaging in such activity in the future. In order to resolve these claims, the Commercial Court considered it first necessary to learn whether or not Uber required prior administrative authorisation to provide its activity. The answer required, however, a previous resolution of another main question: whether the services provided by Uber Systems Spain are to be regarded as transport services (and therefore subject to the prior authorisation requirement), or information society services (not subject to such authorisation); or, alternatively, if it was a combination of both types of services. The distinction between these three possibilities was not trivial from the moment that, if the service provided was included in Directive 2006/123/EC 1 or Directive 98/34/EC 2 , Uber’s practices could not be considered unfair.

1 Directive 2006/123/EC of the European Parliament and of the Council of 12 December 2006 on services in the internal market. 2 Directive 98/34/EC of the European Parliament and of the Council of 22 June 1998 laying down a procedure for the provision of information in the field of technical standards and regulations.

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1.2. Judgment of 10 April 2018, Uber France SAS

A year later, in 2018, with the previous judgment not yet handed down, the Court of Justice, once again in the Grand Chamber, delved into the nature of the services provided by another Uber subsidiary, this time by Uber France SAS. The question referred for a preliminary ruling was of French origin and was presented in the context of a criminal proceeding initiated by Mr. Nabil Bensalem against Uber France SAS, which he accused of misleading commercial practices, the aiding and abetting of the unlawful exercise of the profession of taxi driver, and the unlawful organisation of a system for putting customers in contact with persons carrying passengers by road for remuneration using vehicles with fewer than 10 seats, punishable under Loi nº 214-1104 du 1er. Octubre 2014 relative aux taxis et aux voitures transport avec chauffeur with imprisonment and a fine. The French jurisdiction 3 found Uber France guilty of misleading commercial practices, but not guilty of aiding and abetting the unlawful exercise of the profession of taxi driver. Regarding the third issue, it harboured doubts about the accusation of unlawful organisation of a system for putting customers in contact with non-professional drivers. Thus, it stayed the proceedings to refer the question for a preliminary ruling on whether the French Transport Code constitutes a “rule on Information Society services” [Article (Art.) 1.5 Directive 98/34], or a rule on “services in the field of transport” [Art. 2.2.d) Directive 2006/123].

2. The importance of the concept of “information society services” as opposed to that of “transport services”

As a result of the two judicial issues raised, the Court of Justice handed down the judgments of December 20, 2017, Asociación Profesional Elite Taxi and Uber Systems Spain, S.L.4, and of April 10, 2018, Uber France SAS5. The relevance of these rulings resides both in the answer they offer to the questions formulated by the national courts, as well as in the importance of those not formulated, but which derive from the prior ones. Regarding the latter, it is obvious that the civil and criminal origin of the litigations has impeded their analysis from the point of view of labor

3 Ruling of Lille First Instance Court of 17 March 2016. 4 Case C‑434/15 (ECLI:EU:C:2017:981). 5 Case C-320/16 (ECLI:EU:C:2018:221).

37 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 issues. Although neither the Spanish Commercial Court nor the Regional Court, Lille, France specifically raised any of these issues, the shadow of labor concerns remains present in both judgments. However, after the classification of the type of activity developed by Uber as a transport service, there is also the transcendence that said classification could achieve when assessing the nature of Uber as an employer, and the possible classification of the relationship between Uber and its drivers as employment. Demonstrative of this is the opinion made by the Advocate General in the Elite Taxi case. His concluding observations pointed out that the indirect control Uber exerts over its drivers does not necessarily imply their classification as employed workers. However, he avoids speaking out on the classification that would proceed, given that this question, in the words of the Advocate General, “is wholly unrelated to the legal questions before the Court in this case.”6 The wide doctrinal debate that these and other resolutions have given rise to has allowed the labor doctrine to study the employment nature (or not) of the relationship between Uber and its drivers7. However, the analysis of this matter far exceeds the scope of this work. The essential objective of the two judgments mentioned here is to situate Uber on the level of EU law and determine whether its operating should be subject to said law, and to what extent 8 . For this purpose, its

6 To that effect, in section 54 of the Opinion, different judicial resolutions that have addressed the controversy regarding the status of drivers with respect to Uber were highlighted, including the judgment of the London Employment Tribunal of 28 October 2016, Aslam, Farrar and Others -v- Uber (Case 2202551/2015), the decision of the Audiencia Provincial de Madrid No 15/2017 of 23 January 2017 in an action between Uber and the Asociación Madrileña del Taxi, as well as the order of the Tribunale Ordinario di Milano of 2 July 2015 (cases 35445/2015 and 36491/2015). 7 See, among others, I. Beltrán de Heredia Ruiz, Work in the Platform Economy: Arguments for an Employment Relationship, Huygens Editorial, 2019; A. Ginès i Fabrellas, A.-S. Gálvez Durán., Sharing economy vs. uber economy y las fronteras del Derecho del Trabajo: la (des)protección de los trabajadores en el nuevo entorno digital, InDret 2016, n. 1; J.M. Goerlich Peset, La prestación de servicios a través de plataformas ante el Tribunal de Justicia: el caso Uber y sus repercusiones laborales, La Ley Digital (LALEY 6292/2018); J., Mercader Ugina, El mercado de trabajo y el empleo en un mundo digital, Revista de Información Laboral, 2018, n.11 (BIB 2018\13994); J., Mercader Ugina, La prestación de servicios en plataformas profesionales: nuevos indicios para una nueva realidad, in Trabajo en Plataformas Digitales: innovación, Derecho y mercado, Aranzadi, 2018, p. 155 ss.; A. Todolí Signés, El trabajo en la era de la Economía Colaborativa, Tirant lo Blanch, Valencia, 2017, p. 223 ss. 8 M.C. Escande-Varniol, Uber est un service de transport, mais quel statut pour les chauffeurs?, Semaine sociale Lamy, 2018, n. 1804, p. 5: “Un autre enjeu moins visible

38 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 classification, either as an information society service or as a transport service, determines whether regulation of Uber’s operating conditions is subject to the requirements of the freedom to provide services, or if it has to be included in shared competences, although not yet exercised, of the European Union and of the Member States in the area of local transport. Even though the operating method of Uber is well known, to adequately classify its activity it is necessary to highlight some of its main features. First, the Uber platform in the European Union is managed by Uber BV, a company governed by Netherlands law and a subsidiary of Uber Technologies Inc. What is of interest here is that this platform allows, through the corresponding Uber app installed in a smartphone, requesting an urban transport service in cities where Uber is present. The application recognizes the user’s location and, depending on where he or she is, locates drivers that are available in the vicinity. When a driver accepts the trip, the application informs the user, displaying the driver’s profile and an estimated fare to the destination. After the transport of the user, the fare is automatically charged to the bank card which the user is required to enter when signing up to the application. In addition, through this application, the user can rate the driver, in the same way that the driver can rate the passenger. The importance of the rating resides in its ability to determine exclusion from the platform those who obtain a score below a certain threshold. The Court of Justice has wanted to highlight in both judgments, as a main element, the double nature of the services provided by Uber. A first activity is that which is provided within the framework of the relationship between the application and the client requesting the services. It consists of putting the latter in contact with a driver capable of making the requested trip in the required time. The second activity, on the other hand, is that which links Uber with its drivers, selected by the platform algorithm among the most suitable (by proximity and by the fulfilment of other conditions) to provide the final service. In view of this dual activity, the difficulty of fitting all of the services provided by this company into the frame of information society services,

immédiatement dans cette affaire est le rôle d’harmonisation du droit des plateformes électroniques de services que la CJUE est appelée à jouer dans un espace européen où les montages de sociétés sont faits, comme c’est le cas en l’espèce, pour optimiser l’application des droits nationaux en l’absence d’harmonisation fiscale et sociale”.

39 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 regulated by Directives 98/34/EC9 and 2000/31/EC10 or, on the contrary, as a transport service, under Directive 2006/123/EC11. Its classification as an information society service would imply that Uber’s activity could benefit from the principle of freedom to provide services under the terms guaranteed by the community norms, including Art. 56 Treaty on the Functioning of the European Union (TFEU) 12 . On the contrary, a transport service may be restricted in its activity by national prior authorization requirements. Examples of these restrictions are, in the Spanish case, the Regulation on taxi services in the metropolitan area of Barcelona, or, in the French case, the aforementioned Loi nº 214-1104 du 1er. Octubre 2014 relative aux taxis et aux voitures transport avec chauffeur. In this way, Art. 2(a) of Directive 2000/31, which refers to Art. 1(2) of Directive 98/34/EC, classifies services provided in exchange for remuneration, remotely, electronically and upon individual request of a recipient. This Directive aims to guarantee the effectiveness of the freedom to provide services of the information society. The distinctive and determining feature of this activity is that it is “entirely transmitted, conveyed and received by wire, by radio, by optical means or by other electromagnetic means” (Art. 1.2). The adverb “entirely” should not be understood literally. Along with services that are provided completely electronically, there are so-called composite services, in which a part of the service must be provided or delivered physically. A good example of this is online sales, where the physical delivery of the product to the buyer is essential so that the service can be understood as completed. Directive 2000/31/EC does not provide for the application of coordinated field to services provided electronically. This exclusion has an important consequence: Member States are free, within the limits outlined by other provisions of Union law, to restrict the freedom of providers by means of rules relating to services not provided electronically.

9 Directive 98/34/EC of the European Parliament and of the Council of 22 June 1998 laying down a procedure for the provision of information in the field of technical standards and regulations. 10 Directive 2000/31/EC of the European Parliament and of the Council of 8 June 2000 on certain legal aspects of information society services, in particular electronic commerce, in the Internal Market ('Directive on electronic commerce'). 11 Directive 2006/123/EC of the European Parliament and of the Council of 12 December 2006 on services in the internal market. 12 Art. 56 TFEU: “Within the framework of the provisions set out below, restrictions on freedom to provide services within the Union shall be prohibited in respect of nationals of Member States who are established in a Member State other than that of the person for whom the services are intended”.

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In the case of composite services—provided in part electronically and in part through physical means—these could be limited, in the non- electronic part, by the coordinated field. However, the admission of these restrictions has been conditioned, logically, so that the non-electronic service on which the restriction operates constitutes an accessory part of the online service, which appears as the main one. What are called composite services constitutes a tertium genus that, in no way, excludes the application of two rules simultaneously. Thus, the Directive on electronic commerce covers those activities that are genuine and exclusive to information society services, but does not imply that the classification of an activity as a service of the information society can, in itself and by itself, make other parts of the service meaningless. Consequently, the main criterion for determining the applicable legislation for a composite service must be the possibility or impossibility of separating the services that comprise it. In the second case, it would be necessary to determine to what extent the different services that make up the composite services are “intrinsically linked,” and, if it is not possible to provide them separately, the economically dominant one would have to be identified. Regarding composite services, therefore, a legal fiction allows considering the service as having been completed electronically13 and, in consequence, deserved to be classified as an information society service only and when the non-electronic service is economically independent of the main one, or when it constitutes the main provision of the composite service (Art. 1.2 Directive 98/34/EC). The service provided by Uber has been understood as a composite service, since it includes a provision to connect passengers with drivers through smart phone software and, in addition, another physical transport service, which cannot be dematerialised or, consequently, transmitted “entirely” electronically. However, the main issue was to determine whether said electronic component was sufficient

13 The judgment of December 2, 2010, Ker-Optika bt v ÀNTSZ Dél-dunántúli Regionális Intézete, case C-108/09 (ECLI:EU:C:2010:725), in the area of online sales of contact lenses, is considered a national standard that limits the marketing of contact lenses exclusively to establishments specializing in medical instruments and prohibits their online sale contrary to Articles 34 and 36 TFEU and Directive 2000/31/EC. For the Court, the national standards concerning the marketing of contact lenses fall within the scope of Directive 2000/31/EC, in so far as they refer to the sale of such contact lenses online. On the other hand, the national standards related to the delivery of these contact lenses constitute only the execution of a contractual obligation, so the standard related to delivery should not affect the provision of the principal service.

41 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 to be considered “economically independent” and the main part of the complete service. If this analysis were applied to the service offered by Uber, it would not have any autonomous economic value without the transport component, which, in turn, is regulated in other regulatory groups. Therefore, the answer must be that services of compound or composite provision depend on all relevant applicable legislation and not only on electronic commerce standards, since the fact that they are also electronic commerce services does not exclude them from the scope of application of transport laws. This is due to a simple reason: a service whose main non-electronic component is otherwise regulated should not be able to evade said regulation by introducing an aspect of electronic commerce. If not, it would mean that medical, financial or tourism services, for example, could circumvent legal regulation by introducing an innovative electronic component14. The cornerstone of this issue resides in the interpretation that the Court of Justice has offered of the “preponderant control” that Uber exerts over its transport provision, equating it almost to the direct provision of said service with its own means. Uber is described as “a classic transport service,” which does much more than intermediate between supply and demand, as it is the company itself that creates the offer, regulates its essential characteristics and organizes its operation. However, the fact that Uber is not the owner of the vehicles, which are essential to complete the transport operation, does not prevent the classification as a classic transport service. The reason is that Uber “controls all relevant aspects of an urban transport service”: the price, the minimum safety requirements for both vehicles and drivers,15 the accessibility of the transport offer, especially at times and places of greater demand, the conduct of the drivers through the rating system and, finally, the possibility of expulsion from the platform. This implies, according to the Elite Taxi judgment, the control of “the economically significant aspects of the transport service offered through its platform.” And such control, although not exercised

14 M. Barrio Andrés, Breve comentario a la sentencia Uber: cómo regular los servicios compuestos o mixtos en la economía digital, La Ley Digital (LALEY 115/2018). 15 Although these vary in each State, they generally include the number of doors of the vehicles, their age limit, compliance with the requirements of technical inspection or compulsory insurance, the driving license that drivers must have or lack of a criminal record, among others.

42 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 through classic subordination, is carried out through an indirect control16 based on financial incentives and a performance ratings system that “makes it possible to manage in a way that is just as — if not more — effective than as management based on formal orders given by an employer to his employees and direct control over the carrying out of such orders.”17 This direct and indirect control over the entire service and the inability of drivers to carry out their own activity independently make the platform the true essential element of transport provision, without which this would be a mere application of booking taxis18. They also differentiate it from intermediary platforms, such as those that allow you to book a hotel or purchase airline tickets, from the moment when these booking platforms do not exert any prior control of access to the activity, as Uber does with its drivers, nor do they prevent the traveller from obtaining tickets or hotels through other providers, with rates, schedules or different conditions from those offered on their platforms. Thus, from the moment in which the transport of the passenger from one point to another constitutes the essential objective of the service and the connection between the client and the application is only a preparatory and instrumental element of the main provision, said connection does not constitute the autonomous or main activity of transport provision. And this prevents, consequently, that Uber’s activity is classified as an information society service and benefits from the principle of liberalisation recognized by Directive 2001/31/EC. On this point, the reasoning of the Opinions of the Elite Taxi and Uber France cases are enormously revealing. As indicated in the first, “it would be pointless only to liberalise a secondary aspect of a composite supply if that supply could not be freely made on account of rules falling outside the scope of the provisions of Directive 2000/31.” Such liberalisation would be only apparent and “not only would… [it] fail to attain its objective, it would also have adverse consequences, leading to legal uncertainty and diminished confidence in EU legislation.” 19 The application of the regulations on information society services regarding composite services for provisions that are neither independent nor main

16 A. Ginès i Fabrellas-S. Gálvez Durán., Sharing economy vs. uber economy y las fronteras del Derecho del Trabajo: la (des)protección de los trabajadores en el nuevo entorno digital, InDret 2016, n. 1, p. 17 ss. 17 Section 52 of the Opinion in Elite Taxi. 18 Section 56 of the Opinion in Elite Taxi. 19 Section 31 of the Opinion in Elite Taxi.

43 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 would be contrary to the literal wording of the provisions examined, and would breach its objective and generate legal uncertainty, in so far as other provisions could be regulated differently in national law, as is the case for a specific area such as transport20. Thus, the Advocate General indicates that if the connection activity were liberalised in the case of Uber, Member States would be free to make its exercise impossible through regulating transport activity. The only result of this liberalisation would be absurd: the State in which the service provider is established would benefit from its establishment through investments or the generation of employment, but at the same time prevent the provision of the service in its territory, by virtue of the regulations regarding provisions not included in Directive 2000/31/EC. This would imply a considerably unwanted effect if, in the case of Uber, the operation of the platform is not formally prohibited, but, due to the service model itself (based on non-professional drivers) the transport activity cannot be pursued in compliance with the law. The place of Uber in the field of transport services, if not as a carrier itself, but as an organizer of transport services, in the sense indicated in Art. 2(2)(d) of Directive 2006/123/EC, excludes it from the scope of the Directive and includes it in the exception to the freedom to provide services contained in Art. 58(1) TFEU and is governed by Art. 90 and the ensuing articles. European harmonisation has always had transport policy as one of its main objectives from the moment it became one of the oldest policies, and the Treaty of Rome pursued the removal of obstacles at the borders of the Member States with the objective of facilitating the free movement of people and goods21. From the first attempts to regulate the professional training of transport carriers in the directives of the 80s, to more specific regulation through the codecision procedure established by the Maastricht Treaty, under Art. 75 Treaty on European Union (TEU), common conditions were established in terms of access to the profession, recognition of qualifications and other aspects that tried to facilitate the free establishment of transport carriers in the national and international sector.

20 Section 15 of the Opinion in General Uber France. 21 J.M. Miranda Boto, Las competencias de la Comunidad Europea en materia social, Thomson-Reuters Aranzadi, 2009, p. 254-255.

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Directive 2002/15/EC of the European Parliament and of the Council of 11 March 2002, on the organisation of the working time of persons performing mobile road transport activities22, is intended to establish minimum requirements in relation to the organisation of working time in order to improve the health and safety protection of persons performing mobile road transport activities and to improve road safety and align conditions of competition (Art. 1). However, as with the previous Directive 93/104/EC, self-employed workers are also excluded from the scope of Directive 2002/15/EC. Urban transport has been and continues to be a heavily regulated sector, as it could not be otherwise under the justification of guaranteeing the safety of passengers or controlling the quality of service provision23. The new technologies used by the platforms and their innovative operating systems have tried to bypass this regulatory rigidity through new models of urban mobility that, as a smoke screen, have hindered the task of identifying the applicable regulations for its operation. The main problem that Uber has faced, as a VTC platform, has been that of competition with the transport sector by taxi, which constitutes a mode of urban transport subject to extensive and restrictive regulation.24 Those who operate through VTC licenses, on the other hand, enjoy more flexible regulation, while they are not subject to legal limits on price regulation, mandatory rest periods or schedule limitations that do apply to taxis25. The weak balance that maintained the relative peace between both transport models was based on the small number of VTC licenses, whose ratio, until 2009, remained at 1 for every 30 taxi licenses. The situation

22 Recital 10: “In order to improve road safety, prevent the distortion of competition and guarantee the safety and health of the mobile workers covered by this Directive, the latter should know exactly which periods devoted to road transport activities constitute working time and which do not and are thus deemed to be break times, rest times or periods of availability. These workers should be granted minimum daily and weekly periods of rest, and adequate breaks. It is also necessary to place a maximum limit on the number of weekly working hours.” 23 S. Rodríguez Marín, Aspectos jurídicos de la economía colaborativa y bajo demanda en plataformas digitales, in S. Rodríguez Marín-A. Muñoz García (Coords.), Aspectos legales de la economía colaborativa y bajo demanda en plataformas digitales, Wolters Kluwer, 2018, p. 55 y ss. 24 As indicated by S. Rodríguez Marín (op. cit., p. 56): within the taxi sector three models can be identified: taxis that circulate on public roads; those parked at specific stops reserved for them; and those which go specifically to provide a previously contracted service. Vehicles that operate with VTC authorizations, as in the case of Uber, “compete only with the third operating model, being prohibited by law from operating in either of the other two ways.” 25 S. Rodríguez Marín, op. cit., p. 56.

45 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 erupted with the liberalisation of the sector by what was called the Omnibus Law, 26 which abolished the quantitative limitations on VTC licenses and was in force from 2009 until its repeal by RD 1057/2015.27 RD 1076/2017, of December 29, then established new restrictions in relation to the use of authorisation for leasing vehicles with drivers, preventing the transmission of licenses until two years had elapsed since the original issue and forcing the communication of roadmaps before the start of each service.28 These regulations include a set of limits and restrictions on passenger transport in vehicles with drivers that clearly affect the activity carried out by Uber and other platforms. Restrictions and limitations that, on the one hand, they would not be obliged to follow if they were to be considered information society services companies. On the other hand, they are territorial in nature, which contrasts openly with the vocation of international expansion that characterizes technological platforms.

3. Information society services and their associated risks

The limited interest that the Uber France judgment seemingly presents for our internal legislation is more than compensated for by the suggestive conclusions drawn by the same Advocate General who dealt with the opinion of Elite Taxi. It is worth mentioning an important provisional detail: when Mr. Szpunar wrote the opinion of the Uber France judgment, the Elite Taxi judgment had not yet been handed down and, therefore, the Court of Justice had not yet classified Uber as a transport service. This is why this opinion attempts to address Uber’s activity from the other side, leaving the back door that would allow Uber to escape unpunished from this scenario tightly closed.

26 Law 25/2009, of December 22, amending various laws to adapt to the law on free access to service activities and their exercise. 27 Royal Decree 1057/2015, of November 20, which modifies the Regulation of the Land Transport Law, approved by Royal Decree 1211/1990, of September 28, on the lease of vehicles with drivers, to adapt it to Law 9/2013, of July 4, which modifies Law 16/1987, of July 30, on Land Transport, and Law 21/2003, of July 7, on Aviation Security. In turn, this RD is completed with Order FOM/2799/2015, of December 18, which modifies Order FOM/36/2008, of January 9, which develops the second section of the Chapter IV of Title V, on the matter of leasing vehicles with drivers, of the Regulation of the Land Transport Law, approved by Royal Decree 1211/1990, of September 28. 28 Currently, the Resolution of March 15, 2019, of the Directorate General of Land Transportation, which announces the entry into operation of the Communications Registry of Services for Leasing Vehicles with Drivers and its conditions of use, is in force since April 1, 2019.

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This contrary temporary circumstance justifies the fact that the Uber France judgment barely holds back in the detailed analysis of the preliminary question raised, from the moment in which, just a month before, the Elite Taxi judgment had been handed down, which resolved the substantial part of this issue. Very briefly, one should remember that the question referred for a preliminary ruling by the Regional Court, Lille, dealt with the possible consideration of a precept of the Gallic Transport Code as a technical regulation to the effect of Directive 98/34/EC, which establishes an information procedure regarding technical rules and regulations and those relating to information society services. The French precept sanctioned, with fines and jail sentences, “the organisation of a system for putting customers in contact with persons carrying on” the activities of the carriage of persons by road for remuneration using vehicles with fewer than 10 seats “where such persons are neither road transport undertakings entitled to provide occasional services (…) nor taxi drivers, or two or three-wheeled motorised vehicles or private hire vehicles.” From the moment in which the Elite Taxi judgment classified Uber as a transport service and excluded its status as an information society service, the solution to this question referred for a preliminary ruling was a simple one. The Uber France judgment stated that, as a transport service, Directives 98/34/EC and 2006/123, intended for information society services, are unenforceable. Therefore, it did not go into analysing the classification of the articles of the French Transport Code29 as a technical regulation or the notification requirement. However, as already indicated, the true value of this judgment, in terms of its possible impact on national rights (including Spanish) resides in what is pointed out in the opinion offered by the Advocate General. It openly warns of the danger that may arise from an extensive interpretation of the concept of “information society service” and the possible consequences of the failure to notify of a national provision that constitutes a technical regulation.30

29 Arts L. 3120-1 and L. 3124-13. 30 In Paragraph 36 of the Opinion, Mr. Szpunar, while recognizing that it would be strange for the Court to depart from its Opinion in the Elite Taxi case and classify Uber as an information society service and not as a transport service, expresses its desire to also analyse the issue of the effects arising from the failure to notify, “for the sake of completeness (...) because the answer to that question will give a fuller picture of the position.”

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The indicated danger derives from the requirement contained in Art. 8 of Directive 98/34/EC. It mandates that any draft technical regulation that affects an information society service must be notified by the national government to the Commission. And more importantly: the failure to notify constitutes a procedural flaw in the of technical regulations, which leads to its inapplicability to individuals. With notable acuity, the Advocate General points out the following: “an individual who wishes to escape the application of a rule [such as the French Transport Code, which prohibits and penalises the organization of a transport system without the appropriate licenses] may rely on the fact that it has not been notified, without there being any need to determine whether the rule is substantively contrary to the freedoms of the internal market.” This upper hand was, precisely, taken advantage of by Uber in this case, by opposing the enforceability of the prohibition of the French Transport Code by considering it a technical regulation and having proved that its processing had not been notified to the Commission, in breach of what was ordered by the Directive. The opinion highlights and warns that “the resulting unenforceability may even benefit operators whose activities, while falling within the scope of the rule in question, do not amount to information society services, in particular, because their role is not limited to services provided by electronic means,” as is the case with Uber. This reasoning is what also allows the Advocate General’s approach to be explained in his opinion: avoiding addressing the classification of Uber’s activities in the light of Directive 2006/123 (remember that the Elite Taxi31 judgment had not yet been issued), and focusing on question as to whether or not the provision of French law constituted a technical regulation and should have been notified, in accordance with what was ordered by Directive 2006/123/EC. To resolve this issue, it was necessary to delve into the main element, which is none other than the definition of what is to be understood by technical regulation and, after that, the classification (or not) of the French prohibition as such regulation. According to the amended Directive 98/34/EC, a technical regulation is one that meets several conditions: it only refers to information society services; it contains a rule regarding access to service activities and their exercise; and it is necessary

31 Paragraph 14 of the Opinion refers to, in regard to the classification of the services provided by Uber (or UberPop, in this case), the Opinion presented in the Elite Taxi case.

48 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 that such requirements have the specific aim and purpose of regulating said services explicitly and well. The opposite operation is as important as defining what is to be understood by technical regulation. Thus, those that do not refer to information society services or that only refer to such services in an implicit or incidental manner are excluded from this condition.32 The prohibition contained in the French Transport Code was not intended to prohibit or completely regulate the provision of transport services. Far from it, it only tried to prohibit and punish the activity of intermediary in the illegal exercise of transport, so that the activity of intermediary carried out with respect to a legal transport service was outside its scope. Its regulation of services is therefore purely incidental. Once the consideration of this rule as a technical regulation has been removed, any notification duty is also eliminated and, more importantly, with it any escape route based on the inapplicability of this rule for breach of the notification duty. The fact that the nature of the regulatory standard is, in this case, criminal, has no influence, but, as the opinion indicates, the fact that the provision “does not prohibit and does not penalise an activity which is in the nature of an information society service in a general fashion, but only in so far as the activity amounts to an act of complicity in the exercise of another activity, one that is illegal and, moreover, one that falls outside the scope of Directive 98/34, as amended.” It is obvious that this reasoning was not part of the Uber France judgment from the moment that the Elite Taxi judgment had already configured Uber as a company that provides a transport service. However, these conclusions open the door to the admission of national rules that prohibit the provision of passenger transport services without the appropriate licenses established in the legislation of each Member State, and even, that punish their infringement with prison or substantial fines, exempting them from the requirement of notification and with it their non-application due to a lack of such registration.

4. The consequences of these judgments on an internal level

32 Section 31 of the Opinion is especially expressive: “If every national provision that prohibited or punished intermediation in illegal activities had to be regarded as a technical regulation merely because the intermediation most likely takes place by electronic means, then a great number of internal rules in the Member States, written and unwritten, would have to be notified as technical regulations.”

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In recent years there have been academic works that analysed the employed or autonomous nature of the relationship between Uber and its drivers, especially in light of the judgments of the Court of Justice mentioned here. From the point of view of the labor doctrine, there is an unanimous clamour towards the recognition of the nature of the labor relationship, even in spite of the notorious blurring of the notion of working under the direction of another with which the platforms have been known to play, and Uber has been no exception. The admission of the nature of the labor relationship between Uber and its drivers would lead to formidable repercussions for both them and the company itself, from the moment when the rules and obligations of labor law and social security would inevitably fall on both. Even more so if these workers are considered to be lacking, until now, collective instruments that can qualify the application of these standards, given that in Spain no initiative for collective bargaining of working conditions has yet been implemented. The characterization of Uber drivers as employed workers in the service of the platform would have numerous consequences from the point of view of the cited regulations. Among them, two matters are particularly important: remuneration and working time, since the particularities of both within the framework of the platform have been expressly used by Uber to justify the lack of an employment relationship with its drivers.

4.1. Working time

Spanish regulation on the transport of passengers with a driver does not contain limitations on working time or rest periods to which drivers must be subjected. But this does not imply that these limits do not exist, from the moment in which, in its enactment in Spain, the scheduled working day limitations would apply in general within Arts. 34 to 38 of the Workers’ Statute. The absence of covenants or collective agreements on the matter is a huge difficulty when managing a circumstance as particular as working time on a platform like Uber. This is because the company does not impose time restraints, but work on demand depending on the acceptance of trips by the driver, which may vary completely on each day of activity. This ability to choose, as is obvious, would be limited by the restrictions imposed by the link to the platform, which requires you to accept a minimum number of proposed trips and

50 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 maintain a minimum connection time to avoid “disconnection” from the platform.

4.2. Remuneration

Another essential characteristic of Uber is, precisely, “piecework” remuneration, based exclusively on the trips actually made. This calculation does not take into account the time that the driver is available to the platform without receiving any commission. On this issue, the legislative initiatives carried out in other countries around Spain, such as Portugal or Italy, which have tried to regulate and protect the conditions of platform workers dedicated to passenger transport, are encouraging. First, there is the presumption of employed status provided for in Portugal33, through Law 45/2018, of August 10, on the legal regime of activity of individual and paid passenger transport in unidentified vehicles of digital platforms. Alternatively, in the Italian legislation (Decree-Law 3 September 2019, nº 101), there is the non- direct recognition of employment with respect to the relationship that unites the platform workers with the companies. While Portuguese legislation contains a specific section on labor law and contains labor obligations for digital platforms (training, civil liability insurance, daily workday limits...), the Italian legislation provides for a title dedicated to work services carried out through digital platforms by self-employed workers, which tries to extend to them a good part of the typical rights of employed persons; in particular, in terms of wages and working time limits.

5. References

M. Barrio Andrés, Breve comentario a la sentencia Uber: cómo regular los servicios compuestos o mixtos en la economía digital, La Ley Digital (LALEY 115/2018). I. Beltrán de Heredia Ruiz, Work in the Platform Economy: Arguments for an Employment Relationship, Huygens Editorial, 2019. M.C. Escande-Varniol, Uber est un service de transport, mais quel statut pour les chauffeurs?, Semaine sociale Lamy, 2018, n. 1804, p. 5.

33 About this issue, J. Leal Amado–T.Coelho Moreira, A lei portuguesa sobre o transporte de passageiros a partir de plataforma electrónica: sujeitos, relações e presunções, Labour & Law Issues, 2019, vol. 5, n. 1, p. 71 ss.

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A. Ginès i Fabrellas, A.-S. Gálvez Durán., Sharing economy vs. uber economy y las fronteras del Derecho del Trabajo: la (des)protección de los trabajadores en el nuevo entorno digital, InDret 2016, n. 1, p. 17 ss. J.M. Goerlich Peset, La prestación de servicios a través de plataformas ante el Tribunal de Justicia: el caso Uber y sus repercusiones laborales, La Ley Digital (LALEY 6292/2018). J. Leal Amado–T. Coelho Moreira, A lei portuguesa sobre o transporte de passageiros a partir de plataforma electrónica: sujeitos, relações e presunções, Labour & Law Issues, 2019, vol. 5, n. 1, p. 71 ss. J. Mercader Ugina, El mercado de trabajo y el empleo en un mundo digital, Revista de Información Laboral, 2018, n.11 (BIB 2018\13994). J. Mercader Ugina, La prestación de servicios en plataformas profesionales: nuevos indicios para una nueva realidad, in Trabajo en Plataformas Digitales: innovación, Derecho y mercado, Aranzadi, 2018, p. 155 ss. J.M. Miranda Boto, Las competencias de la Comunidad Europea en materia social, Thomson-Reuters Aranzadi, 2009, p. 254-255. S. Rodríguez Marín, Aspectos jurídicos de la economía colaborativa y bajo demanda en plataformas digitales, in S. Rodríguez Marín-A. Muñoz García (Coords.), Aspectos legales de la economía colaborativa y bajo demanda en plataformas digitales, Wolters Kluwer, 2018, p. 55 y ss. A. Todolí Signés, El trabajo en la era de la Economía Colaborativa, Tirant lo Blanch, Valencia, 2017, p. 223 ss.

Abstract: The irruption of digital platforms in multiple economic and social sectors has been especially intense in the on-demand transport sector and has generated questions regarding the adequacy of legal regulations created for other times and other social realities. The two judgments handed down by the Court of Justice in 2018 classified Uber as a transport company. The purpose of this paper is to analyse the important consequences that the application of a strongly interventionist, territorial regulation, based on passenger safety and quality control in the service provision, entails for the sector, regardless of the classification as employment, or not, of the relationship between Uber and its drivers.

Key Words: Uber, transport service, information society service, Court of Justice, employment.

52 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

ANTONIO IACCARINO Professore straordinario di Filosofia del diritto, Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano

L’orizzonte giuridico dell’incontro con l’altro*

English title: The juridical horizon of the encounter with the other DOI: 10.26350/18277942_000009

Sommario: 1. Una proposta di ontologia della relazione. 2. Pensare la giustizia per ripensare il pensiero sul diritto. 3. Il contributo della filosofia del diritto. 4. Il principio della fraternità e il riconoscimento dell’altro. 5. Il rifugio nel diritto e la proposta della restorative justice. 6. Tre paradigmi: il perdono, la fiducia, la responsabilità. 7. La Chiesa di fronte al male radicale. 8. Conclusione.

1. Una proposta di ontologia della relazione

L’evoluzione della complessità delle interconnesse relazioni sociali chiede anche al diritto canonico il rinnovante impegno nello studio e nell’analisi di nuovi concetti idonei a consentire un’adeguata interlocuzione fra la Chiesa e il mondo giuridico non ecclesiale, attraverso una proposta antropologicamente fondata. Tale originale approccio accende energie positive e permette di allargare l’orizzonte del diritto attraverso un percorso cooperativo e costruttivo tra discipline diverse. In questo senso, l’analisi qui formulata, necessariamente flessibile e aperta a tutti quegli elementi di novità che potranno aggiungersi, si snoda tra i presupposti relazionali del diritto e i principi metagiuridici alla base degli ordinamenti giuridici, con riguardo anche al diritto canonico. L’intento di questo contributo, attraverso un approccio ermeneutico al rapporto tra verità e giustizia, è quello di tratteggiare le peculiarità dell’esperienza giuridica che si fa poi vero e proprio ordinamento giuridico, civile e canonico. Questa prospettiva muove a partire da una proposta meta-giuridica di senso, di logos1, quale autentica sintesi tra verità e temporalità, libertà della persona e situazione storica entro la

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 Sul tema v., V. Vitiello, Logos (voce), in Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Enciclopedia filosofica, vol. VII, Milano 2006, 6756.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 quale la persona agisce 2 nel dialogo tra identità e differenza 3 . Le argomentazioni qui esposte mirano a presentare le ragioni di una proposta di riflessione che muove dalla convinzione che il diritto non è il risultato razionalistico di una mente ordinativa, ma è luogo, strumento e segno della creatività del logos, inteso come linguaggio e come unità dialogante dei logoi4, cioè della parola. Da questo nucleo teoretico si diffonde un richiamo autentico al vivere la relazione in società, orientando un agire progressivo per la progrediente realizzazione del bene5, disponibile ad affermare continuamente il bisogno di un pensiero nuovo e sempre rinnovato, capace rispondere dinamicamente ai singoli problemi storici nell’esperienza organizzata del diritto. Il rischio da evitare è quello di bloccare il pensiero in una teorizzazione che declassi il sistema normativo da una forma totale e significante del mondo del diritto, a una semplice rappresentazione dei fenomeni empirici del diritto, con il rischio di ridurre il contenuto vivo del diritto nel formale contenitore normativo, fino a neutralizzarlo6. In sostanza, qualunque evento storico che evidenzi i limiti temporali dell’ordinamento non si pone unicamente nella determinazione dell’organizzazione statuale definita e definitiva, bensì nella prospettiva di una realizzazione sociale tra i soggetti tale da immettere nella storia un lievito di trasformazione ‘fondata da’ e ‘aperta a’ quel fondamento che è logos, che opera a partire dal dialogo 7 , ed è orientato a definire l’evoluzione del fenomeno giuridico e dell’ordinamento quale tessuto relazionale di norme. Nella forma del relazionarsi gli uni agli altri si nasconde il ‘tesoro sociale’ della comunità, quella cultura sociale che

2 Cfr. P. Coda, Il logos e il nulla, Roma 2003; id., Logos (voce), in P. Coda – G. Filoramo, Dizionario del Cristianesimo, vol. II, Torino 2006, pp. 623-630. 3 Cfr. L. Alici, Natura e persona: la ‘differenza’ della libertà, in L. Congiunti – A. Ndreca – G. Formica (a cura di), Oltre l’individualismo. Relazioni e relazionalità per ripensare l’identità, Roma 2017, pp. 171-183. 4 Cfr. G. Bombelli, Occidente e ‘figure’ comunitarie, I, Un ordine inquieto: koinonia e “comunità” radicata. Profili filosofico-giuridici, Napoli 2013, pp. 275-286. 5 Scrive Tommaso d’Aquino: “Inest homini inclinatio ad bonum secundum naturam rationis quae est sibi propria: sicut homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de Deo et ad hoc quod in societate vivat”. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a 2. 6 Si veda, V. Frosini, Ordinamento giuridico [filosofia] (voce), in Enciclopedia del diritto, XXX, Milano 1958-2004, p. 646. 7 Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Milano 1997, pp. 19-20.

54 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 nell’aprire a una ricerca libera della verità, è ethos del vivere in societate8, quale struttura incentivante a superare l’agire ideologico e utilitaristico9. Per quanto attiene al diritto canonico, ha favorito questa prospettiva il consolidamento del peculiare orientamento interdisciplinare e comparati- stico che ruota intorno alla prospettiva dinamica della norma missionis10. Questo principio può meglio essere inteso come ‘mens legislationis canonicae’ e presupposto strutturale per l’elaborazione di un pensiero dinamico sul diritto11. La norma missionis può essere compresa come nucleo fondante all’origine del diritto canonico ma che si accredita insieme come parametro ermeneutico ed esperienza paradigmatica non solo per l’ordinamento canonico; infatti, la sua è anche proposta e occasione di ampliamento dell’orizzonte culturale e interculturale12 degli altri ordinamenti giuridici, al fine di affermare il valore universale dell’esperienza giuridica come relazione di umanità e quindi, della persona13.

8 Cfr. I. Mancini, L’ethos dell’Occidente, Genova 1990. 9 In proposito v., N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano 2008, p. 7. 10 Cfr. M.J. Arroba Conde, Il metodo del diritto: comparazione e Utrumque Ius, in Apollinaris, 90 (2017), pp. 265-272; Id., L’esperienza e l’identità dell’Institutum Utriusque Iuris, in M. De Benedetto (a cura di), Il diritto amministrativo tra ordinamenti civili e ordinamento canonico. Prospettive e limiti della comparazione, Torino 2016, pp. 17-34; v. anche Id., La Iglesia como presencia (reflexión desde el derecho canonico), in Vida Religiosa, 86 (1999), pp. 185-187; Id., La Norma Missionis en la reforma procesal, in Vergentis, 6 (2018), pp. 21-38. 11 Scrivono M.J. Arroba Conde e M. Riondino: “Con l’espressione norma missionis si fa riferimento a un nucleo di natura normativa in quanto, pur riferito a un evento trascendente (il destino di salvezza) e inteso come avente un oggetto liberatore (proprio dalla schiavitù della legge), è formulato e compreso come un mandato: andare in tutto il mondo, annunciare il Vangelo e fare discepoli battezzando e insegnando ad agire secondo quanto appreso. Tale nucleo normativo dà senso all’esistenza della Chiesa come testimone di una salvezza che, pur chiamata a compimento definitivo nella vita eterna, si costruisce in questo mondo, e al servizio della quale si pone una disciplina maturata per essere fedeli ai contenuti essenziali dell’annuncio, per consolidarsi come comunità e per rispondere alle sfide che nel corso del tempo, ha posto l’adempimento di tale missione”. M.J. Arroba Conde – M. Riondino, Introduzione al diritto canonico, 3a ed., Milano 2019, p. 2. 12 Cfr. M.J. Arroba Conde, Basi ecclesiologiche e limiti intrinseci di una rinnovata produzione normativa locale, in Folia Canonica, 10 (2007), p. 160; v. inoltre, G. Renard, Contributo allo studio dei rapporti tra Diritto e Teologia. La posizione del Diritto canonico, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 16 (1936), p. 517; A. Iaccarino, Introduzione al diritto canonico, in M.J. Arroba Conde (a cura di), Manuale di diritto canonico, Città del Vaticano 2014, pp. 16-22. 13 Si veda, L. Avitabile, Fenomenologia giuridica e comunità nell’opera di Edith Stein, in L. Avitabile – G. Bartoli – D.M. Cananzi – A. Punzi, Percorsi di fenomenologia del diritto, Torino 2007, p. 40; G. Bombelli, Persona, comunità e il problema della dignità, in Jus, 63 (2016), pp. 349-382; V. Melchiorre, Per un’ermeneutica della

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2. Pensare la giustizia per ripensare il pensiero sul diritto

La comprensione dei formanti classici, legislativi, dottrinali e giurisprudenziali, dunque, si arricchiscono del formante teologico, per comprendere in modo più autentico e complesso la portata del dettato normativo in relazione alla dinamicità dell’esperienza dalla quale parte, ed è già presente come attesa, la più ampia istanza di giustizia. In tal senso, con il termine giustizia può essere globalmente inteso l’instaurarsi di relazioni sempre nuove che si intersecano e si strutturano tra le persone, aprendo al riconoscimento dell’altro come alterità e libertà, nel dialogico confronto fra posizioni differenti, per il pieno riconoscimento della persona, nella sua storicità prospettica sulla verità14. La giustizia chiama l’altro, lo convoca e si anima nel dialogo che nasce da questo incontro che indaga il senso stesso della relazione nel nesso della verità che ricongiunge l’uno all’altro. La giustizia è relazione e amplifica un senso di partecipazione che supera i singoli individui, tanto che essa si sviluppa all’interno delle relazioni storiche, libere, dialogiche e plurali perché non insistono sul principio della reciprocità ma dell’alterità, e allo stesso tempo, essa si proietta all’oltre, trascende l’esperienza e ne apre gli orizzonti, con uso ampio della ragione, per proiettarsi alla ricerca della verità che nell’uomo è forma iustitiae e notio boni15. Ogni persona vive e anima lo spazio del pluralismo e in esso afferma con forza e decisione la propria singolare identità che, nell’universale dell’intreccio delle relazioni, si fa relazionalità dialogica. La sfida del pluralismo è nel saper cogliere il senso del porsi in relazione, del dialogare esigente che ricompone le diversità e apre a esiti di verità e novità in uno spazio di reale communitas16. Il superamento delle tentazioni escludenti ed isolazioniste che l’immunitas17 suggerisce, aprirà la sfida costruttiva per un riconoscimento autentico tra le diversità, perché nessuno possa dirsi escluso, ma ciascuno sia proporzionato all’altro18.

persona, in A. Pavan – A. Milano (a cura di), Persona e personalismi, Napoli 1987, p. 289. 14 Cfr. A. Iaccarino, Nessuno resti escluso. La giustizia oltre i confini, Città del Vaticano 2013, p. 22. 15 Cfr. Agostino d’Ippona, De Trinitate, VIII, 3, 4; Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2. 16 Cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 2006. 17 Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino 2013. 18 Si veda, G. Del Vecchio, La giustizia, Roma 1946, p. 3; Dante Alighieri, De monarchia, II, V, 1.

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Ed è proprio il dinamismo della giustizia a sorreggere la proposta dialogico-relazionale che vede la persona soggetto attivo in questa ricerca, integrante l’essenza della giustizia nella prospettiva della partecipazione dialogica a una comune ricerca che superi ogni relativismo storicistico. La persona è scrigno ermeneutico che conserva, vivendola con gli altri, l’ulteriorità della giustizia e, come se fosse essa stessa modello è calco della giustizia, la porta alla luce come norma agendi, nella giusta misura dell’agire19. Ecco, dunque, che la giustizia si trova continuamente nella esigente necessità di rispondere a tre sfide, che senza cedere alle pressioni del presente, possano far guardare ai tempi lunghi della storia: la sfida del senso della giustizia, quale continua capacità di porre al centro la persona nella sua singolare unicità; la sfida dell’altro, perché nella relazione plurale e dialogica non vi siano mai esclusi; la sfida dell’uno, quale incessante richiamo all’unicità della verità nella molteplicità delle sue diverse interpretazioni, per contrastare relativismi e ideologie. A partire dalla ricerca sul dato storico, nella fedeltà alle fonti, giuristi di diversa estrazione e provenienza, animati dall’impegno a essere fedeli alla verità 20 , si trovano nella possibilità di esplorare terre di frontiera e accettare la sfida della relazione, fatta di ascolto reciproco, conoscenza, dialogo e comprensione21, nella sicura convinzione che il pensiero nasce e cresce solo nelle relazioni, anche imperfette, ma dialoganti. Questa esperienza argomentativa di ‘ontologia della relazione’22 è radicalmente filosofica23, perché rivela la verità24, smaschera il prassismo e consente di avviare un ‘ripensamento’ radicale del diritto25. Un pensiero senza verità si avvilisce nell’azione o si identifica con essa e un’azione senza verità si assolutizza nell’ideologia. Da qui l’importanza di ripensare il pensiero sul diritto come attività a tutti gli effetti vivente, a partire dalla sua intrinseca natura di esperienza di relazione reale, plurale e dialogica, perché ermeneutica, capace sempre di trascendersi e trovare irrinunciabilmente soluzioni concrete ai nuovi

19 Cfr. Agostino d’Ippona, De Trinitate, VIII, 6, 9. 20 Si veda, R. Di Ceglie, Il diritto come ‘relazione’: per un’analisi metafisica, in P. Gherri (a cura di), Categorialità e trascendentalità del Diritto, Roma 2007, p. 85. 21 Cfr. G. Giorgio, La via del comprendere. Epistemologia del processo di diritto, Torino 2015. 22 Cfr. A. Iaccarino, Responsabilità e istituzionalità in prospettiva filosofica, in Apollinaris, 82 (2009), p. 181. 23 Cfr. E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova 1993, p. 4. 24 Come sottolineato da Benedetto XVI, “la verità, infatti, è ‘logos’ che crea ‘dia-logos’ e quindi comunicazione e comunione”. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 29.6.2009, Città del Vaticano 2009, n. 4. 25 Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Torino 1971, p. 105.

57 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 problemi e alle nuove sfide giuridiche che seguono la vita degli uomini oltre i confini già tracciati26. Una prospettiva, questa, che richiama e coinvolge anche il diritto canonico perché ripensare il pensiero sul diritto significa anche non stancarsi mai di realizzare la novità missionaria e relazionale dell’ordinamento della Chiesa, anche attraverso l’invito pressante perché esso rinnovi sempre la sua programmazione sistematica e si faccia pungolo e lievito utopico non solo riguardo l’attività ecclesiale, ma anche nei confronti delle istituzioni della società. Testimoniare il suo mandato missionario nei dinamismi della storia significa, per il diritto canonico, non mutuare i modelli interpretativi dagli ordinamenti civili, ma in autentico spirito di dialogo, dimostrare il suo carattere estroverso, per offrire il proprium potenziale ermeneutico quale contributo alle istanze di una società in continuo cambiamento, ma che al suo interno conserva, mai tradite, le domande ‘di giustizia’ sull’autenticità del valore della relazione nell’ottica del pluralismo. Questa dinamica coinvolge sia gli interpreti che le discipline, e necessita di un coinvolgimento personale a riconoscere gli altri nelle plurali ragioni, anche confliggenti, e di uno sviluppo delle argomentazioni che si apra alla dimensione non solo interdisciplinare, tra le discipline, ma anche transdisciplinare, oltre le singole discipline27, superando la pigrizia della quiete e riconoscendo la novità del logos del reale, quale corrispondenza tra il pensiero e la realtà, anche con il rischio di un apparente scompiglio.

3. Il contributo della filosofia del diritto

Il diritto si presenta come un evento, nel senso che passa attraverso le nostre mani ma non è fermo nelle nostre mani; esso chiede la nostra presenta e la nostra partecipazione, poiché di questo evento non conosciamo la forma o il contenuto, ma intuiamo che si colloca nel percorso non preventivato di ciascuno. Nella lettera enciclica Populorum Progressio, papa Paolo VI scriveva che lo sviluppo dei popoli passa per lo sviluppo integrale dell’uomo e, affermando che il mondo soffre per la

26 Cfr. G. Bombelli, Diritto, comportamenti e forme di ‘credenza’, Torino 2017, pp. 205-268. 27 Cfr. Francesco, Costituzione apostolica Veritatis Gaudium, 8.12.2017, in AAS, 110 (2018), pp. 9-10, n. 4; si veda, inoltre, S. Rondinara, Dalla interdisciplinarità alla transdisciplinarità. Una prospettiva epistemologica, in Sophia, 0 (2008), pp. 61-70; Id., Ontologia trinitaria ed epistemologia della transdisciplinarità, in P. Coda – A. Clemenzia – J. Tremblay (a cura di), Un pensiero per abitare la frontiera, Roma 2016, pp. 51-62.

58 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 mancanza pensiero, convocava gli uomini di riflessione e di pensiero, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità ad aprire le vie che conducono a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere e l’allargamento del cuore28. La filosofia del diritto risponde ancora oggi a quella convocazione per cercare quegli spazi di intelligenza performativa che diano forma a un pensiero non progettato, dialogante con il tempo dell’essere che viviamo, strutturato con senso regolativo e apertura veritativa, per affermarlo quale autentico strumento di dialogo nel lessico della valorizzazione dei beni relazionali29 per la persona, che si pongono al servizio della persona 30 e che acquisiscono senso dal rapporto e dall’incontro con l’altro. Per queste ragioni, si comprende come la filosofia del diritto sia autenticamente una terra di confine, perché impegna il pensiero dei giuristi all’ulteriorità rispetto al tecnicismo o al rigido formalismo, allenandoli a riconoscere il pensiero in ogni sfumatura della vita, cogliendone ogni frammento di verità nel dialogo31 che ci svela chi siamo, la nostra alterità, la nostra fraternità e prossimità all’altro. Il nucleo interpretativo di questa esperienza di giustizia e per la giustizia, dal quale traggono forza concetti quali verità, giustizia, dialogo, misericordia, inclusione relazionale, equità, alterità, fraternità, fiducia o perdono, è la persona-in-relazione e da questo sforzo ermeneutico si articola un’architettura cognitiva di riconoscimento dell’altro e che al diritto chiede un linguaggio non solo descrittivo, ma anche argomentativo32. La verità, la giustizia, il dialogo, la misericordia, l’equità o anche la fraternità sono spesso considerate categorie intrinsecamente totalitarie, improponibili a una società postmoderna molto spesso liquida e che ha paura di principi ‘formanti’ vivi, quelli cioè che danno forma a un pensiero che è interpretazione e pertanto, chiede partecipazione innovativa di ciascuno e cura dell’altro per poter essere realisticamente

28 Cfr. Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, 26.3.1967, in AAS, 69 (1967), pp. 298-299, n. 85. 29 Cfr. P. Donati, Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità, Soveria Mannelli 2019; P. Donati – R. Solci, I beni relazionali. Che cosa sono e cosa producono, Torino 2011; M. Nussbaum, The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, Cambridge 2001, pp. 343-371. 30 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6.8.1993, in AAS, 85 (1993), p. 1197, n. 79. 31 Cfr. P. Coda, Il Concilio della Misericordia, Roma 2015, p. 255. 32 Cfr. P. Coda, Introduzione, in id. (a cura di), La questione ontologica tra scienza e fede, Roma 2004, p. 13; F. Viola – G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari 2002, pp. 3-4.

59 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 rivelato33. Questa prospettiva è urgente per la riflessione sul diritto perché esso possa sempre di più essere dinamico e alimentato da una giustizia da intendere come esperienza relazionale performativa della realtà, senza nostalgia per un efficientismo meccanicista, per un logicismo narcisista, per un’ingegneria sociale o senza indugiare nella retrotopia 34 , quel pensiero che afferma che ciò c’era prima, qualunque cosa fosse, era meglio. La forza profetica della filosofia del diritto è racchiusa in un equilibrio dinamico e instabile perché vuole insegnare tutto il Diritto, e non una sua singola parte e aiutare ad apprendere come muoversi nell’intricato groviglio delle relazioni. In tal senso, sono ricche di forza le parole di Enrico Opocher, per il quale “la filosofia del diritto, come, in genere, tutta la filosofia, sembra avere, piuttosto, un compito rivoluzionario e cioè quello di dissolvere le certezze dell’esperienza nella problematicità e, quindi, di porre nella coscienza il germe delle più profonde trasformazioni”35. Occorre riscoprire, dunque, la sana utopia positiva e concreta della realtà36, che non si adegua al presente e che all’apatia risponde con la passione, all’atarassia preferisce la partecipazione, che all’indifferenza risponde con l’impegno. Una particolare forma di utopia questa, che ha due principi guida: il primo, la giustizia non può mai chiudersi ed esaurirsi in un rapporto senza prospettiva ulteriore; il secondo, “la ‘cosa- diritto’ non è un’idea, non è un valore e non è neppure un insieme di procedure sociali, ma è un’impresa comune tra esseri liberi e autonomi, ma bisognosi gli uni degli altri per realizzare ognuno una vita ben riuscita”37. Nell’ambito di questo sforzo per il ripensamento del pensiero sul diritto spicca il contributo teoretico e pratico della giustizia riparativa 38 .

33 Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., pp. 99-103. 34 Cfr. Z. Bauman, Retrotopia, trad. it., Roma-Bari 2017. 35 E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, cit., p. 5. 36 Si veda, Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens, 14.5.1971, in AAS, 63 (1971), p. 426, n. 37, trad. it., in Enchiridion Vaticanum, 4, Bologna 1982, n. 473; J. A. Péres Tapias, Mito, ideología y utopía. Posibilidad y necesidad de una utopia no místificada, in Gazeta de Antropología, 6 (1988), p. 37; A. Iaccarino, Legittimazione e limiti degli ordinamenti giuridici tra mito e utopia, in G.L. Falchi – A. Iaccarino (a cura di), Legittimazione e limiti degli ordinamenti giuridici, Città del Vaticano 2012, pp. 60-62; S. Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni, Milano 2018, pp. 78-96. 37 F. Viola – G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, cit., p. 455. 38 Si veda, L. Walgrave, Restorative Justice, self interest and responsible citizenship, Devon 2008. T. Marshall ha affermato: “Restorative Justice is a process whebery all the parties with a stake in a particular offense come together to resolve collectively how to deal with the aftermath of the offense and its implications for the future”. T. Marshall,

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Argomentando una proposta sulla funzione della pena all’altezza delle sfide della complessità del reale, in grado, cioè, di andare oltre le tradizionali argomentazioni sul significato espiatorio della pena o di quelle sul suo valore puramente rieducativo che emarginano la vittima, l’intento qui proposto è quello di ragionare e riconnettere insieme il fondamento veritativo della relazione, la dinamica dialogica dell’incontro con l’altro e la prospettiva di fraternità quale risposta al male nel superamento della logica riequilibrante della bilancia.

4. Il principio della fraternità e il riconoscimento dell’altro

Assistiamo al moltiplicarsi di frontiere e all’aumentare di tensioni sulle linee di confine politico, economico e sociale che contraddistinguono l’attualità; così, quasi come migranti in cerca di pace, possiamo guardare al diritto come a un rifugio dialogico, e attraverso l’ermeneutica e l’interpretazione, orientare la nostra attenzione alle sfide poste al diritto in tutte quelle situazioni nelle quali la complessità sembra ingovernabile e il fatto del pluralismo pare investito da una incertezza significativa inconciliabile con l’idea di stabilità delle relazioni39. Il giurista non può, quindi, rinunciare a interrogarsi sullo scopo e sulla forza del diritto, sia come impresa cooperativa volta a coordinare le azioni sociali, sia come tecnica normativa, capace di tradurre la legge in prova di dialogo tra sistemi giuridici, sia come paradigma in grado di generare e definire legami, apertura universale per comporre la pluralità nell’unità,

The evolution of restorative justice in Britain, in European Journal of Criminal Policy and Research, 4 (1996), p. 37; H. Zehr, The Little Book of Restorative Justice, Intercourse 2002; H.-J. Albrecht, Restorative Justice – Answers to questions that nobody has put forward, in E. Fattah – S. Parmentier (eds.), Victim policies and criminal justice on the road to restorative Justice, Leuven 2001, pp. 295-314; J. Burnside – N. Baker (eds.), Relational Justice: Repairing the Breach, Winchester 1994; M. Wright, Justice for Victims and Offenders: a Restorative Response to Crime, Hook 1996; J. Blad, Civilisation of Criminal Justice: Restorative Justice Amongst other Strategies, in D. Cornwell – J. Blad – M. Wright (eds.), Civilising Criminal Justice. An International Restorative Agenda for Penal Reform, Hook 2013, pp. 209- 254; D. Van Ness – K. Heetderks Strong, Restoring Justice. As Introduction to Restorative Justice, Cincinnati 2015. 39 Cfr. P. Parolari, Migrazioni, interlegalità, pluralismo giuridico, in Rivista di filosofia del diritto, 7 (2018), pp. 42-45; A.J. Arnaud, Le sfide della globalizzazione alla modernità giuridica, in M. Vogliotti (a cura di), Saggi sulla globalizzazione giuridica e il pluralismo normativo, Torino 2013, pp. 77-94; S. Veca, Dell’incertezza, Milano 2006, pp. 118-127; Id., La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Roma-Bari 2001, pp. 3-40.

61 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 perché nessuno rimanga escluso e ciascuno si riconosca nell’altro e ne abbia cura. Non si tratta, allora, di pensare la reciprocità, ma di pensare in reciprocità, nel dialogo e nell’ascolto dell’altro. A seconda dei diversi aspetti che possono dare caratterizzazione formale al diritto, come quello della produzione, della sua interpretazione, della sua applicazione e della individuazione del tipo di interessi che le singole discipline tutelano, occorre ri-pensare il diritto, cioè ri-verificare i valori che ne argomentano il senso autentico di relazione, oltre il puro e semplice ordine, arrivando a creare un’unità tra linguaggi, nell’unità del dialogo in cui i molti linguaggi vengono provocati40. Si tratta di un nuovo stile del pensare, non di una speculazione assertiva che parte da una concettualizzazione astratta, ma un quaerere comunitario, un cercare insieme41. Si va così evidenziando il carattere relazionale dell’ethos dell’esperienza giuridica, non quale prospettiva del singolo che si eleva per un massimo rendimento morale, ma quale interconnessione reciproca supportata da uno specifico spazio comunitario, quale spatium verae fraternitatis42. In questo senso, è utile recuperare il principio spesso dimenticato della fraternità43, non intendendola come beneficienza, benevolenza o semplice solidarietà, ma come assunzione di responsabilità44 nei confronti degli altri, di ciascun altro che, seppure estraneo, è riconosciuto altro in relazione con il sé. Ripensare il diritto significa anche rifiutare ogni indifferenza e aprirsi alla contaminazione reciproca delle relazioni e all’impegno perché non vi siano mai muri, ma confini intesi come spazio di contaminazione e tempo di dialogo e di cura con e per l’altro. È importante riattualizzare la fraternità nell’ottica della cura per l’altro, quale categoria non meramente prescrittiva dell’etica pubblica; essa è

40 Cfr. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, trad. it, Roma 1996, p. 107. 41 Cfr. A. Clemenzia, Pensare l’ontologia trinitaria sulla scia di Klaus Hemmerle, in P. Coda – A. Clemenzia – J. Tremblay (a cura di), Un pensiero per abitare la frontiera, cit., p. 12. 42 Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 7.12.1965, in AAS, 58 (1965), p. 1055, n. 37; P. Coda, Antropologia teologica e agire umano nel mondo nella Gaudium et spes, in Lateranum, 55 (1989), pp. 195-204; Id., Il rapporto tra Chiesa e società, in M. Adinolfi – A. D’Attorre (a cura di), Religione e democrazia, Roma 2009, p. 147. 43 Cfr. A. Cosseddu (a cura di), I sentieri del giurista sulle tracce della fraternità. Ordinamenti a confronto, Torino 2016; M. R. Manieri, Fraternità. Rilettura civile di un’idea che può cambiare il mondo, Venezia 2013. 44 Cfr. G. Palombella, On the Potential and Limits of (Global) Justice through Law. A Frame of Research, in Rivista di filosofia del diritto, 6 (2017), pp. 21-23.

62 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 riserva etica conformativa della società e performativa di un diritto che non è bilanciamento formalistico tra pretese di diritti, ma cura per il vivere e il relazionarsi in società. La fraternità è un principio forse dimenticato o quantomeno offuscato dall’utilitarismo e dal profitto, spesso invocati come regole nei rapporti sociali, ma che occorre riscoprire nella sua originalità45. La fraternità è un principio inclusivo e irriducibile, nonché centro di un rinnovante concetto di cittadinanza intesa come uguaglianza responsabile tra persone, nell’ottica del riconoscimento reciproco, dell’ascolto e della solidarietà46. L’esperienza storica ci mostra, inoltre, che al venir meno della fraternità, quale principio performativo la realtà delle relazioni sociali, anche il diritto soffre un indebolimento, tanto che alla forza del diritto si sostituisce il diritto della forza, quello, cioè, che cerca rivali, afferma reciprocità negative e nel difendere la pace prepara la guerra (si vis pacem, para bellum)47. Se è vero che ciascun uomo è ricettore di cura in momenti diversi della vita e che nessuno di noi sarebbe oggi quel che è senza un tu, se non avessimo cioè ricevuto cure già immediatamente dopo la nascita, l’essere figlio è il primo modello delle relazioni umane e la fraternità è il principio di realtà a esso connesso: non posso scegliere di essere fratello, ma sono definito come tale da mio fratello perché lo ricevo in dono senza scambio48. L’essere fratello è struttura e modo di essere proprio dell’uomo e il nostro esistere si qualifica in base alla nostra risposta, si o no, a questa condizione di alterità. Al pari di altri principi quali l’amicizia, la solidarietà o la generosità, la fraternità valorizza la forza della differenza senza scivolare in un’uniformità schiacciante, tanto che l’altro dice qualcosa che io da solo non posso affermare, e nel momento in cui io affermo l’altro, mi riconosco nel mio essere uomo in relazione. In questo senso, la fraternità non è una prescrizione da realizzare, ma un fondamento dal quale partire49. Il medesimo principio può essere riportato all’ambito dell’etica pubblica che chiede al diritto di testimoniare l’alterità e l’altruismo della giustizia e non la singolarità e l’individualismo del potere o dell’arrogante forma-

45 Cfr. A.M. Baggio (a cura di), Il principio dimenticato. La fraternità nella riflessione politologica contemporanea, Roma 2007. 46 Si veda, Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, 3.10.2020, Città del Vaticano 2020. 47 Cfr. E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Roma-Bari 2006, pp. 139-149. 48 Cfr. P. Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé, Milano 2017, pp. 94-97. 49 Cfr. E. Resta, Il diritto fraterno, Roma-Bari 2005, p. 17.

63 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 lismo. Là dove il diritto trova la forma di un principio ordinatore, sintesi tra cultura e tecnica, la fraternità non è vissuta sulla base del sangue ma della legge, tanto da diventare condizione per la fondazione della comunità politica; allo stesso tempo, l’altro, la persona, è il diritto umano sussistente, l’essenza del diritto50 e rappresenta la chiave interpretativa per ripensare la riflessione sul diritto nei termini di scoperta relazionale, interpretazione e argomentazione da condividere, sostanziando ogni formalismo. La fraternità può diventare per il diritto un principio vivente e umanizzante, che tesse i legami delle relazioni umane, così che il chiunque diventi il ciascuno, permettendo di considerare fratello anche colui che non è ammesso all’esistenza51. La fraternità si regge su relazioni imperfette e rapporti asimmetrici perché basati sul principio del prendersi cura dell’altro. La fraternità è, dunque, struttura umana e caratteristica dell’approccio alla giustizia intesa come relazione performativa della realtà nel contesto sociale e giuridico, tanto che il diritto può essere inteso come espressione della gratuità del riconoscimento dell’altro nella sua insopprimibile dignità personale, sociale e relazionale52. Alla domanda posta da Caino, “sono forse io il custode di mio fratello?”, sarà allora possibile rispondere “si, sono io il custode di mio fratello, sono io il suo primo responsabile perché me ne prendo cura”.

5. Il rifugio nel diritto e la proposta della restorative justice

Sulla porta della scuola voluta a Barbiana da don Lorenzo Milani sono scolpite le parole ‘I care’, mi faccio carico, me ne preoccupo, e lo faccio prendendo parte, partecipando, respingendo gli indifferenti sordi alla

50 Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, in A. Nicoletti – F. Ghia (a cura di), Opere di Antonio Rosmini, vol. XXVIII, Roma 2015; P. Landi, La filosofia del diritto di Antonio Rosmini, Torino 2002, pp. 63-67. 51 Cfr. E. Resta, Il diritto fraterno, cit., p. V. 52 Cfr. L. Eusebi, Rinunciare alla pena di morte, in Aggiornamenti sociali, 59 (2008), pp. 104-115; J.M. Souvirón Morenilla, Notas sobre la fraternidad como principio político e juridíco, in Sophia, 8 (2015), pp. 44-75; H. Hofmann, La promessa della dignità umana, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 76 (1999), pp. 620- 650; M. R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana, in Rivista critica del diritto privato, 25 (2007), pp. 67-103; S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari 2012, pp. 179-199; G. Resta, La dignità, in S. Rodotà – P. Zatti (a cura di), Trattato di biodiritto, vol. I, Ambito e fonti del biodiritto, Milano 2010, pp. 259-296; F. Viola, Lo statuto normativo della dignità umana, in A. Abignente – F. Scamardella (a cura di), Dignità della persona. Riconoscimento dei diritti nelle società multiculturali, Napoli 2013, pp. 283-295.

64 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 voce dell’altro che chiede giustizia e che rimane solo, escluso. Questo slogan, usato nel ‘900 da molti attivisti dei diritti civili, rappresenta emblematicamente un cambio di prospettiva che permette di passare dal reclamo del diritto all’affermazione del dovere all’impegno, animando una rete di relazioni che sono fuori dello scambio e della convenienza, fino a stabilire un grado di cittadinanza diverso e più ampio. Il prendersi cura di Caino tocca e stravolge, dunque, il paradigma tradizionale che presiede alla convivenza umana e che identifica l’agire secondo giustizia come necessaria simmetria dei comportamenti sulla base di un giudizio verso l’altro, totalizzante l’altro, nella valutazione che se ne da, oltre lo spazio e il tempo. Nei rapporti della vita quotidiana, nelle relazioni interculturali e politiche, così come nel diritto e nel sistema penale in particolare, il principio della corrispettività esige che ogni rapporto nasca da un giudizio rispondente all’alternativa positivo/negativo, amico/nemico, puro/impuro, sano/malato, innocente/colpevole e che delimiti a priori la possibilità stessa di una relazione 53 . In questo senso sarà sempre facile trovare un elemento nell’altro per giustificare l’agire identitario e negativo nei suoi confronti, generando atteggiamenti di indifferenza, di difesa, di rifiuto, di espulsione54. L’immagine della bilancia55 esprime plasticamente il senso positivo di una risposta di bene al bene, ma principalmente manifesta la condanna di ciò che giudichiamo negativo agendo contro chi è ritenuto artefice o solo espressione di quel negativo. Questa visione non condiziona solo il giudizio interpersonale, ma pervade lo spazio di riflessione collettiva attraverso l’idea che nel diritto penale, nell’attribuzione del corrispettivo, si possa trovare il rimedio giuridico a ogni male sociale e a ogni istanza di giustizia56. Tale premessa assume una

53 Cfr. L. Eusebi, Fare giustizia: ritorsione al male o fedeltà al bene?, in L. Eusebi (a cura di), Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale, Milano 2015, p. 3; Id., Dinnanzi all’‘altro’ che ci è problema. L’‘incostituzionalità’ di ogni configurazione dell’‘altro’ come nemico, in Archivio giuridico, 229 (2009), pp. 433- 454; Id., Profili della finalità conciliativa nel diritto penale, in Aa. Vv., Studi in onore di Giorgio Marinucci. Teoria della pena e teoria del reato, vol. II, Milano 2006, pp. 1109-1127; G. Mannozzi – G. Lodigiani (a cura di), Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna 2015. 54 Cfr. L. Eusebi, Rinunciare alla pena di morte, cit., pp. 104-115; A. Sen, Identità e violenza, trad. it., Roma-Bari 2006, pp. 3-5. 55 Si veda, A. Simone, Rappresentare il diritto e la giustizia nella modernità. Universi simbolici, iconografia, mutamento sociale, Milano 2016. 56 Si veda, F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna 2019, p. 23; L.M. Friedman, Total Justice, New York 1985; Id., The Republic of Choice: Law, Authority and Culture, Cambridge MA 1990; J.N. Shklar, I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva

65 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 importanza determinante in relazione allo sviluppo normativo della risposta al male; essa si configura come sistema sanzionatorio basato sul principio della responsabilità penale personale e incentrata sul nesso spazio-tempo che impedisce di ampliare la dimensione del giudizio sull’azione verso il passato o verso il futuro57. Il rischio è quello di cadere dal fatto al sospetto, cioè in quel pregiudizio che porta a pensare che il male è insito nell’uomo o nel suo ruolo nella comunità e che si agisce male perché si è intrinsecamente malvagi o si proviene da un contesto di disarmonia sociale; così come, d’altra parte, è importante conservare la razionale lucidità per non trasportare al futuro, in modo addirittura indeterminato, il giudizio negativo posto in essere nel corrispettivo della sanzione. Dilatare il tempo/krónos del male è un pericolo per le relazioni di comunità perché ne imprigiona la capacità dinamica di progredire e ampliarsi nel tempo; al contrario, il tempo del bene/kairós, è dilatato per permettere di manifestare nel tempo futuro della relazione ogni possibilità di conversione e di cambiamento, rendendo possibile la “ricerca di una nuova grammatica nel trattamento delle offese”58. Se partiamo dal presupposto che il diritto, autenticamente inteso, libero da domini e condizionamenti di forza, è gratuità del riconoscimento dell’altro, di ciascun altro, ecco che il diritto si offre oggi come un rifugio di accoglienza e la giustizia diventa una giustizia diversa che non si limita a una ritorsione verso coloro che hanno commesso ingiustizia, ma che impegna ad agire per il bene dell’altro. La giustizia ‘diversa’ rifiuta il modello retributivo che concepisce la pena come una sofferenza e si distingue per un carattere riparativo, restaurativo, riconciliativo. Come affermato da Luciano Eusebi, si tratta di “una giustizia intesa non già per remunerare, secondo il criterio del corrispettivo, ma, nel senso letterale del termine, a giustificare, cioè a rendere nuovamente giusti rapporti segnati da prevaricazioni, fratture, odio. In questo senso, a fare giustizia”59. Il paradigma retributivo guarda alla sanzione secondo un’ottica di continuità orizzontale che a un fatto attribuisce un giudizio e al male fa

sorte, trad. it., Milano 2000; B.M. Bilotta, Forme di giustizia tra mutamento e conflitto sociale, Milano 2008. 57 Cfr. H. Jonas, Il principio di responsabilità, Torino 2009. 58 M. Bouchard – F. Ferrario, Introduzione, in Id., Sul perdono: storia della clemenza umana e frammenti teologici, Milano 2008, p. VIII. 59 L. Eusebi, Fare giustizia: ritorsione al male o fedeltà al bene?, cit., 7; v. inoltre, S. Grigoletto, Una questione di conio. Modelli di Giustizia a confronto per un ripensamento della pena, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 103-114.

66 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 seguire altro male; ovvero, il bene è ridotto a una nozione di simmetria, risultando del tutto autonomo dal contenuto intrinseco dell’agire e l’intervento sanzionatorio richiede adempimenti che si impongono alla volontà, generando sofferenza. Con molta forza Francesco D’Agostino stigmatizza questa visione retributiva: “Punire implica far soffrire. Ma la sofferenza che è il portato della pena non è una qualificazione estrinseca, un accessorio (per così dire) della pena stessa, che possa all’occorrenza (come molti s’illudono) esser tolto via dalla pena. La sofferenza è inerente alla pena, poiché la pena non ha altro fine che quello di umiliare una volontà tracotante” 60 . E se queste parole non fossero abbastanza definitorie, anche Vittorio Mathieu61 è fermo nel sostenere che la pena entra in crisi se non si da al punire il suo significato di far soffrire secondo giustizia. Nella consapevolezza che il male commesso non può essere cancellato e che ogni ritorsione costituisce di fatto un raddoppio del male62 e non una compensazione, la giustizia non può essere riconosciuta nell’immagine tradizionale della bilancia, la quale o resta squilibrata nell’insoddisfatta giustizia o è irreparabilmente immobile nel tempo, dopo l’artificiosa ricomposizione dell’equilibrio statico dei suoi piatti. Una giustizia ‘diversa’ sollecita un impegno concreto nel progettare percorsi di riparazione e di responsabilizzazione con riguardo al male commesso, tali che essi non rispondano a una reazione negativa al negativo, ma diano argomentazioni attrattive, attraverso ragioni dialogiche, perché la risposta al male sia “secondo l’intelligenza di una elaborazione conforme al bene”63.

6. Tre paradigmi: il perdono, la fiducia, la responsabilità

L’istintiva re-azione retributiva ‘occhio per occhio, dente per dente’ può lasciare spazio al paradigma di una giustizia dal volto umano che agisce64

60 F. D’Agostino, La sanzione nell’esperienza giuridica, Torino 1993, p. 121. 61 Cfr. V. Mathieu, Perché punire. Il collasso della giustizia penale, Macerata 2007, p. 169. 62 Cfr. M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena. Contro la pena come raddoppio del male, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 56 (2013), p. 1207. 63 C.M. Martini, Non è giustizia. La colpa, il carcere e la parola di Dio, Milano 2003, p. XIX. 64 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it., Milano, 2001, p. 177; J. Deridda, Perdonare, trad. it., Milano 2004; v. L. Passerin Glazel, Atto norma tipo. Tra pragmatica e ontologia del diritto, Roma 2012, pp. 111-138.

67 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 includendo, ‘occhio più occhio, dente più dente’65. La ricomposizione tutta intera del volto dell’altro è metafora dell’ispirazione etica all’inclusione, perché nessuno resti escluso, rafforzando la cultura del perdono, quale atto umano cooperativo da compiere anche nella messa in opera degli istituti giuridici66, per rinunciare alla ritorsione e agire con fiducia alla ricostruzione cooperativa della relazione, e quindi, liberare spazio per un diverso futuro67 e attuare azioni di responsabilità verso il reo, la vittima, e la comunità, tali che si distacchino dal passato. a) Il perdono: relazione cooperativa di giustizia La logica della bilancia spinge a pensare la giustizia come la dovuta consequenzialità indifferente delle azioni e a relegare il perdono nell’ambito della dimensione personale del singolo che è ben disposto a rinuncia a quel che gli è dovuto. Occorre annullare, inoltre, l’incantamento che porta a far coincidere la rinuncia alla reciprocità dei comportamenti, e quindi anche la stessa disponibilità al perdono, come una superficiale e buonista rinuncia alla giustizia68. Al contrario, perdono è una parola eccedente 69 che valorizza l’esperienza giuridica di un significato ulteriore che arricchisce, perché interviene sull’altro nella sua immobilità e lo avvicina, lo rende prossimo70 persino a se stesso, offre la possibilità del ritorno alla relazione e al ritrovamento della sua stessa alterità e al suo essere-per l’altro oltre la relazione mancata71. Questa possibilità al ritorno, che è donata, ha una seconda prospettiva, quella performativa72, perché già anticipa l’esito della sua attesa, non

65 Prendo questa espressione da una valido e intelligente elaborato presentato da suor Mary Ann Mariavilla nell’ambito del corso Teorie della Giustizia, nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Lateranense. 66 Cfr. L. Eusebi, Misericordia: ‘superamento’ del diritto o ‘dimensione’ della giusti- zia?, in V. Sala (a cura di), Diritto e misericordia, Roma 2017, pp. 34-41. 67 Cfr. S. Natoli, La giustizia che salva. Sradicare l’ingiustizia, praticare la misericordia, in L. Ciotti – S. Natoli, Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, Torino 2012, pp. 91-92. 68 Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della XXXV Giornata mondiale per la pace Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono, 1.1.2002, n. 3. 69 Cfr. A. Iaccarino, Il principio di equità alla prova dell’esercizio della giurisdizione. [Una certezza ‘altra’], in Vergentis, 4 (2017), p. 338. 70 Cfr. R. Mancini, Perdono, rinascita e giustizia, in C. Torcivia (a cura di), Il perdono che genera la vita. Oltre il predominio della giustizia retributiva, Trapani 2012, pp. 27-42. 71 Cfr. L. Eusebi, La Chiesa e il problema della pena. Sulla risposta al reato come sfida giuridica e teologica, Brescia 2014, pp. 77-80. 72 Si veda, J. L. Austin, How to do things with words, Cambridge 1962; M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Milano 1995.

68 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 condizionandola a un’azione corrispettiva di conversione, ma testimoniando che la relazione più grande e fruttuosa è quella che non ha paura del tradimento perché è offerta liberamente e gratuitamente 73, senza contraccambio o condizioni. Tale ricchezza non è solo facilmente donata74 ma anche responsabilmente ricevuta da colui che la pone in essere, perché consente di uscire dall’indifferenza e offre libertà dalla immunitas dell’innocenza di colui che ha subito l’ingiustizia. Occorre troncare il debito, non l’oblio 75 , e pur tra risentimento e sospetto, l’ingiustizia subita non può autorizzare ad abbandonare la relazione per rinchiudersi nella memoria di ciò che è stato76, slegata dal futuro. Come terzo aspetto, uscendo fuori dalla logica simmetrica della bilancia, la relazionalità del perdono è exemplum per la ritrovata relazione di comunità, oltre il binomio vittima-offensore, tanto da accreditarsi come paradigma per un agire veritativo, plurale e partecipativo: veritativo, perché non vi può essere perdono senza verità, e la verità non è mai di parte ma sempre dialogica; plurale, perché ciascuno è nello sguardo dell’altro senza possibilità di accantonamento o di esclusione; partecipativo, perché coinvolgente nel cercare una risposta al male che sia originale e non scontata. Il perdono è, dunque, intrinsecamente una relazione cooperativa connessa alla giustizia77, quale esperienza di riconoscimento e dialogo e, senza escludere l’esigenza e l’impegno per la riparazione, è aiuto per restaurare le relazioni e reintegrare persone e gruppi nella dinamica comunitaria. Il perdono può, quindi, essere integralmente annoverato nel lessico della restorative justice e inteso in senso inclusivo e transculturale, nell’impegno a integrare il principio di fraternità e della cura per l’altro all’interno dell’esperienza giuridica, tanto che, con le parole di Luciano Eusebi, esso si propone come “una caratteristica coessenziale – e non un’alternativa tanto elevata, quanto incidente dal punto di vista del diritto – alla giustizia, superando la prospettiva classica

73 Cfr. R. Mancini, Ontologia della gratuità, in Annuario filosofico, 32 (2016), pp. 418- 441. 74 Cfr. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, trad. it., Bologna 2000, p. 110. 75 Cfr. P. Ricoeur, Il perdono può guarire?, in Hermeneutica. Annuario di filosofia e teologia, (1998), p. 160 ss; 76 Cfr. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, trad. it., Milano 2003. 77 Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della XXXV Giornata mondiale per la pace Offri il perdono, ricevi la pace, 1.1.1997, n. 5.

69 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 orientata a confinare il rilievo del perdono entro l’ambito dei rapporti privati”78. b) La fiducia: una nuova prassi nel punire Il modello della giustizia riparativa non è né un programma né un metodo79 e non si ferma al momento punitivo80 perché ‘eccede’ il crimine come fatto materiale e normativo. Per questo motivo, la giustizia riparativa è una esperienza che da voce alla verità attraverso l’altro81, non privilegia il quantum della punizione e, utilizzando una dialettica partecipativa e comunicativa, si impegna a chiarire le responsabilità connesse agli illeciti affinché simili gesti non tornino a ripetersi82. La restorative justice traccia un progetto di fiducia e definisce un percorso significativo circa il rapporto triadico reo-vittima-società, in modo tale che la risposta al reato non sia pensata contro il suo autore bensì come una opportunità per il medesimo, e la pena stessa si riveli non solo come la privazione di un bene, ma un autentico progetto di bene. Inoltre, l’approccio dialogico favorisce il rapporto dell’agente di reato con l’ordinamento giuridico 83 , confermando implicitamente l’autorevolezza della legge violata84, e attiva una relazione conciliativa in grado di incidere positivamente sulla ‘comunanza’85 dei legami feriti dal comportamento

78 L. Eusebi, La Chiesa e il problema della pena, cit., pp. 76-77; si veda anche, I. Schinella, Giustizia e perdono, in Rivista di teologia morale, 138 (2003), pp. 229-241; S. Rostagno, Perdono e diritto, in Hermeneutica. Annuario di filosofia e teologia, (1998), pp. 131-156. 79 Cfr. M.L. Hadley, Introduction: Multifaith. Reflection on criminal justice, in M.L. Hadley (a cura di), The Spiritual Roots of Restorative Justice, Albany 2001, p. 9. 80 Cfr. D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, trad. it., Milano 2018, pp. 11- 12. 81 Cfr. C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, in Aa. Vv., Dignità e diritto: prospettive interdisciplinari, Lecce 2010, p. 115. 82 Cfr. L. Eusebi, La pena: quale verità?, in M. Manzin (a cura di), Funzione della pena e terzietà del giudice nel confronto fra teoria e prassi, Trento 2002, pp. 52-53; F. Reggio, Giustizia dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, Milano 2010; Id., Dialogical Justice: Philosophical Considerations for Re-thinking the Reaction to Crime in a Restorative Way, in D. Cornwell – J. Blad – M. Wright (eds.), Civilising Criminal Justice, cit., pp. 315-346. 83 Cfr. L. Eusebi, Dinnanzi alla fragilità rappresentata dall’errore: giustizia e prevenzione in rapporto alle condotte criminose, in Il Regno, (2006), 17, pp. 564-575. 84 Cfr. I. Marchetti – C. Mazzucato, La pena ‘in castigo’. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano 2006. 85 Cfr. C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, cit., p. 106.

70 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 illecito, restaurando relazioni che il male ha interrotto e riattivando il dialogo86. Il male crea divisione, lacera le relazioni e, corrodendo la fiducia nella relazione, lascia sempre nuovi esclusi oltre i nuovi muri di una giustizia idealizzata nell’immagine della bilancia; una giustizia ‘diversa’, rifugio per il diritto stesso, ha come ambizione la valorizzazione della fiducia e ha come simbolo un ponte che riallaccia i legami più che sancire divisioni, nella sicura convinzione che vi è una “asimmetria necessaria tra il delitto e la pena”87 dalla quale non è possibile prescindere. Ripensare il diritto impegna a ripensare un diritto penale quando esso tende a sostituire il binomio offeso-offensore con quello di legge-infrazione 88, attribuendo maggior valore alla violazione della legge che all’offesa alla vittima 89. Attuare questa conversione del pensiero sul diritto penale per una nuova mentalità penalistica e una nuova prassi del punire90, comporta prendere coscienza dell’aver troppo spesso “conferito in termini del tutto preminenti al diritto penale il compito di prevenire la criminalità”91. In concreto e sulla base di questi orientamenti, il carcere uscirebbe dalla legittimità della violenza e recupererebbe la funzione di extrema ratio nei casi in cui sussista il serio pericolo della reiterazione di reati gravi 92,

86 Si veda, A. Iaccarino Il diritto penale canonico come sistema di giustizia riparativa, in L. Eusebi (a cura di), Una giustizia diversa, cit., pp. 103-113; G. Mannozzi, La giustizia riparativa come forma di Umanesimo della giustizia, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 19-30; G. A. Lodigiani, Nozioni ed obiettivi della Giustizia riparativa. Il tentativo di un approccio olistico, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 31-42; L. Eusebi, La colpa e la pena: ripensare la giustizia, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 43-63; A. Da Re, Giustizia riparativa e relazione, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 79-90; L. Sanò, Perdono e riparazione, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 115-124. 87 Francesco, Lettera ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’Associa- zione Internazionale di Diritto Penale e al III Congresso dell’Associazione latino- americana di diritto e criminologia, 30.5.2014, in Monitor Ecclesiasticus, 129 (2014), p. 459. 88 Cfr. P. Ricoeur, Amore e giustizia, Brescia 2000; Id., Il diritto di punire, Brescia 2012. 89 Si veda, P. Ricoeur, La giustizia dello Stato e l’etica della vittima, in Vita e Pensiero, (2005), p. 17; A. Cosseddu, Ripensare la legalità nello ‘spazio’ giuridico contempora- neo: un ‘ponte’ fra teoria e prassi, in Id. (a cura di), I sentieri del giurista sulle tracce della fraternità, cit., pp. 40-43. 90 Cfr. E. Wiesnet, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, trad. it., Milano 1987, p. 170. 91 L. Eusebi, Appunti critici su un dogma: prevenzione mediante retribuzione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 49 (2006), p. 1158; cfr. Id., La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa? Sul rapporto fra riforma penale e rifondazione della politica criminale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 45 (2002), pp. 76-115. 92 Cfr. E. Wiesnet, Pena e retribuzione, cit., pp. 166-167.

71 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 potendosi privilegiare pene non detentive e altri strumenti quali la mediazione93, libera e mai imposta, o la messa alla prova94. Inoltre, non troverebbero più forza quei propositi di proporzionata esemplarità o quelle istanze vendicative che giustificano pene estreme come la pena di morte95, non solo quando si paga con la vita, ma anche in tutti quei casi in cui l’ergastolo è esso stesso una pena di morte nascosta96 e manifesta disinteresse per il recupero dell’autore del reato, condannato a essere espulso socialmente. Un condiviso principio di responsabilità fondato sulla fiducia può creare capacità di forgiare paradigmi nuovi per nuovi stili di vita 97 incentrati sul riconoscimento del volto dell’altro 98 e sull’impegno ad agire per il bene di tutti. Come ha scritto Paul Ricoeur, “a questo punto dovrebbe essere la coppia composta dalla vittima e dal suo offensore a passare nuovamente in primo piano nella prospettiva di un ripristino e di una ricostruzione del vincolo sociale, piuttosto che in quella di una repressione a catena del crimine”99. c) La responsabilità: azioni comuni per ridurre le attività criminose Un ulteriore passaggio riguarda il problema di come si intenda riaffermare la norma trasgredita, evitando le conseguenze negative del fatto illecito oltre che ulteriori violazioni. In questo senso, il tema della prevenzione si interseca in maniera radicale con la salvaguardia della

93 Si veda, G. Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparativo su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano 2003; M. Riondino, La ‘mediazione’ come decisione condivisa, in Apollinaris, 84 (2011), p. 630; M. Bouchard – G. Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione, Milano 2005; A. Sammassimo, Messa alla prova e personalismo di ispirazione cristiana. Brevi riflessioni in margine al volume ‘Minori devianti a Milano. Ricerca interprofessionale sulla messa alla prova’, in Jus. Rivista di scienze giuridiche, 60 (2013), pp. 463-475; A. Lorenzetti, Giustizia riparativa e dinamiche costituzionali. Alla ricerca di una soluzione costituzionale preferibile, Milano 2018. 94 Si veda, G. De Leo – P. Patrizi, Psicologia della devianza, Roma 2004, pp. 73-74; M. Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, in G. Palombarini (a cura di), Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, Milano 1999, pp. 161-190; L. Eusebi, Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 40 (1997), pp. 811-837; M. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione minorile, in Apollinaris, 82 (2009), pp. 447-466. 95 Cfr. V. Mathieu, Perché punire, cit., pp. 251-271. 96 Cfr. Francesco, Discorso alla delegazione dell’associazione internazionale di diritto penale, 23.10.2014, in Monitor Ecclesiasticus, 129 (2014), p. 465. 97 Si veda, F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela della vittima, Milano 2003, pp. XIV e 577-582; P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova 1954, p. 63 ss. 98 Cfr. Z. Bauman, Una nuova condizione umana, trad. it., Milano 2003, p. 12. 99 P. Ricoeur, La giustizia dello Stato e l’etica della vittima, in Vita e pensiero, 88 (2005), p. 64.

72 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dignità umana. Il superamento del modello retributivo della giustizia chiede un impegno argomentativo per declinare i possibili indirizzi per una proficua gestione delle realtà negative nei rapporti sociali in grado di superare il paradigma della bilancia. Provando a formulare una proposta, l’ulteriore incedere del ragionamento coinvolge i diversi modi che possono essere o no moralmente accettabili per raggiungere la finalità della prevenzione. Sarebbe crudele e profondamente arbitrario qualificare come giusta una pena alla quale non le si attribuiscano degli obiettivi; così come non sarebbe risolto il problema sulla giusta finalità della pena se la prevenzione fosse irrazionalmente orientata alla massimizzazione dell’intimidazione o alla neutralizzazione del reo, poiché la dignità del reo non svolgerebbe alcun ruolo a vantaggio del mero esercizio della forza100. Il primo paradigma per integrare la pura previsione dei reati è quello della corresponsabilità preventiva primaria, quale doveroso impegno sociale a perseguire e tutelare la salvaguardia del consenso riguardo il bene comune relazionale101 messo alla prova dall’agire antigiuridico, attraverso l’assunzione comune di indirizzi e azioni volti a ridurre le attività criminose. Il secondo paradigma è peculiare del momento sanzionatorio vero e proprio e si propone come opzione per la prevenzione mediante la reintegrazione, quale testimonianza dialogica della presa in carico del diritto irrinunciabile al ravvedimento e alla conversione, sia da parte del reo, sia della vittima, sia della società. Il terzo paradigma, che ricomprende i primi due, è quello di recuperare la parola per dire la verità, nel dialogo attento e premuroso, senza forzature, garantendo a tutti la possibilità di dimostrare la capacità di bene ancora inespressa della relazione. Inoltre, nella particolarità dei contesti in cui è stata trasgredita una norma, la sua autorevolezza violata può a ben vedere essere restaurata e anzi, migliorata, tanto di più quanto sarà dinamica la rielaborazione delle condotte pregresse da parte del reo, insieme alla sua stessa disponibilità a mettere in atto una serie di condotte riparative102. Queste due prospettive

100 Cfr. L. Eusebi, La pena: quale verità?, cit., pp. 56-57. 101 Cfr. P. Donati, Scoprire i beni relazionali, cit., pp. 55-60. 102 Si veda, L. Eusebi, Quale prevenzione dei reati? Abbandonare il paradigma della ritorsione e la centralità della pena detentiva, in M. L. De Natale (a cura di), Pedagogisti per la giustizia, Milano 2004, pp. 65-114; Id., Appunti critici su un dogma: prevenzione mediante retribuzione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 49 (2006), pp. 1157-1179; Id., Riformare gli strumenti della prevenzione penale, in Dialoghi, 13 (2013), pp. 13-18; Id., Per uscire dal vicolo cieco: oltre la reciprocità del ‘male per male’, in Parola Spirito e Vita. Quaderni di lettura biblica, 59 (2009), pp. 273-292.

73 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 permettono di ripensare la pena in termini di ricentramento della relazione dopo il reato, per immaginare spazi nuovi per sanzioni che permettano azioni di responsabilità verso la vittima, riducendo la centralità simbolica di un carcere senza chiavi 103 o della morte, che diventa idealizzazione salvifica ed espiazione purificatrice collettiva.

7. La Chiesa di fronte al male radicale

La proposta della giustizia riparativa si prefigura come il paradigma più aderente al nucleo teoretico del sistema sanzionatorio canonico, in quanto rispondente alla dimensione missionaria di fedeltà al Vangelo e annuncio della buona novella anche attraverso lo strumento del diritto. Il nucleo teoretico di questa prospettiva è nella valorizzazione della centralità della ‘persona in relazione’, pienamente inserita nel centro istituzionale della comunità, che è profetica manifestazione della ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia nell’esperienza storica di relazione e di dialogo. All’apparente immobilità della situazione storica che vede il male ripetersi a sé stesso nel perpetrarsi di azioni delittuose, ciascun ordinamento si sforza di offrire una risposta credibile perché la giustizia torni a essere principio di etica pubblica e attributo delle relazioni sociali. L’annuncio del Vangelo che si cala nella missionarietà dell’agire della Chiesa dà speranza e porta alla vittoria il diritto e la giustizia104 nel tempo degli uomini; tale annuncio non può che rivelare anche il tempo compiuto del Regno di Dio, trasfigurando il krónos in kairós e indicando la via della conversione105, perché non vie è piacere nella morte del malvagio, ma nel fare in modo che egli desista dalla sua condotta e viva106. Il diritto canonico opera una lettura diversa dell’elemento ‘tempo’, che non è solo successione ordinata di fatti, ma è tempo qualificato e ricco nella sua essenza di verità relazionale. Il senso stesso degli accadimenti non si riscontra nella successione dei singoli fatti storici, partendo dalla legge e arrivando alla sanzione, ma attraverso una lettura più ampia che attua una ‘frantumazione’ della continuità. In questa pienezza del tempo non vi è un male al quale deve seguire il bene, ma vi è il bene quale alternativa al male, la giustizia quale superamento escatologico del

103 Cfr. L. Eusebi, L’ergastolo, una pena di morte nascosta, in Munera. Rivista europea di cultura, (2015), pp. 39-49; I. Mereu, La morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Roma 2000. 104 Cfr. Mc 12, 20-21; Is 42, 1. 105 Cfr. Mc 1, 15. 106 Cfr. Ez 18, 23.

74 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 giudizio, la Risurrezione quale rinascita rispetto al peccato 107 . La relazionalità tra Dio e l’uomo e degli uomini tra di loro si conferma luogo della centralità della rivelazione e della salvezza, perché l’unico giudizio di condanna, irrevocabile, riguarda soltanto il divisore (διά-βολον) tra Dio e l’uomo. Missione, profezia e utopia sono tre concetti utili a indicare tre proposte di riflessione sulla giustizia riparativa nell’ambito del diritto canonico riguardo il contributo del magistero, con particolare riferimento al contributo di Papa Francesco (missione), le potenzialità espresse o non ancora elaborate delle norme penali canoniche (profezia), il tema della risposta al male nel caso specifico della pena di morte nella riflessione ecclesiale (utopia). a) Missione: la risposta comunitaria al male La ‘giustizia del primo passo’108, propria di un diritto intrinsecamente fondato su basi dialogico-relazionali, deve caratterizzare con chiarezza la riflessione cristiana sulla pena nell’orizzonte della giustizia riparativa. Tale impegno può essere investito per testimoniare il valore culturale del diritto canonico in relazione alla riflessione sui principi generali del diritto in dialogo con gli ordinamenti statuali, permettendo alla Chiesa di essere presente nel dibattito pubblico riguardo la natura, le finalità, l’applicazione della pena e il suo ‘valore relazionare’, al fine di sostenere e incoraggiare il pensiero e l’azione per un rinnovamento del diritto penale che abbia al suo centro la piena valorizzazione del bene persona. Per svolgere questa riflessione è possibile prendere le mosse da una lettera109 di Papa Francesco del 2014 e da due suoi discorsi del 2014110 e del 2019111 all’Associazione Internazionale di Diritto Penale. Papa Francesco sviluppa in questi tre testi una riflessione incentrata sul tema della giustizia all’interno di concrete relazioni intersoggettive, quali sono quelle chiamate ad argomentare la risposta al male dei reati, soffermandosi sui temi della pena, della pena di morte e dell’ergastolo. In

107 Cfr. A. Iaccarino, La pena canonica tra relazione interrotta e restaurata. Una ri- flessione sul diritto penale canonico, in Paradoxa, 3 (2009), pp. 52-53. 108 Cfr. F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, Bologna 2006, pp. 210-213; E. Wiesnet, Pena e retribuzione, cit. 109 Cfr. Francesco, Lettera ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’Asso- ciazione Internazionale di Diritto Penale, 30.5.2014, cit., pp. 458-462. 110 Cfr. Francesco, Discorso alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 23.10.2014, cit., pp. 462-470. 111 Cfr. Francesco, Discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazio- ne Internazionale di Diritto Penale, 15.11.2019, cit., n. 2.

75 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 particolare, il primo documento segue a distanza di sessant’anni le parole rivolte da Papa Pio XII al VI Congresso internazionale di diritto penale (1953) 112 e permette di cogliere l’evoluzione e la maturazione della riflessione della Chiesa Cattolica per quanto concerne l’ambito della giustizia riparativa, modello relazionale umanizzatore e genuinamente riconciliativo, che si contrappone a una considerazione del male come colpa che ha bisogno di una pena per ristabilire una proporzione quantitativamente equilibrata. Papa Francesco ha contributo in maniera importante a orientare il magistero pontificio in materia penale nella convinzione che “la Chiesa propone una giustizia che sia umanizzatrice, genuinamente riconciliatrice, una giustizia che porti il delinquente, attraverso un cammino educativo e di coraggiosa penitenza, alla riabilitazione e al totale reinserimento nella comunità”113. Il Pontefice ha ribadito a chiare lettere un concetto già ampiamente conosciuto all’interno dell’ordinamento canonico, quale sistema di giustizia autenticamente relazionale e che rimanda all’instaurarsi sempre nuovo di relazioni personali e plurali114, e cioè che la risposta al delitto deve rappresentare sempre un progetto con caratteristiche intrinsecamente diverse da quelle del delitto stesso, intendendo dare voce al negativo che in esso si manifesta per superarlo, così da vincere la straordinaria ingiustizia che ammette l’esclusione di ‘vite di scarto’115. Papa Francesco sottolinea l’esigenza di marcare l’irrinunciabile diversità qualitativa tra delitto e conseguenze sanzionatorie, impegnando il giurista

112 In questo discorso il Papa dedicò molta attenzione alla dimensione dell’espiazione. Cfr. Pio XII, Discorso ai partecipanti al VI Congresso Internazionale di Diritto Penale, 3.10.1953, in AAS, 45 (1953), p. 743. L’anno successivo Pio XII si rivolse ai Giuristi Cattolici sottolineando il valore morale della sofferenza causata dalla pena. Cfr. Pio XII, Discorso ai partecipanti al VI Convegno Nazionale di studio della Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, 5.12.1954, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVI, Città del Vaticano 1955, pp. 277-289. Nel discorso rivolto ai Giuristi Cattolici nell’anno 1955, avente per tema la liberazione dalla colpa, Pio XII introdusse i temi della riconciliazione e della riparazione. Cfr. Pio XII, Discorso All’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, 5.2.1955, in AAS, 47 (1955), p. 75. 113 Francesco, Lettera ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’Asso- ciazione Internazionale di Diritto Penale, 30.5.2014, cit., p. 461. 114 Si veda, M. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione penale nel diritto penale canonico, Città del Vaticano 2018; A. Iaccarino, Il diritto penale canonico come sistema di giustizia riparativa, cit., p. 111; G. Capograssi, Considerazioni conclusive, in F.L. de Oñate, La certezza del diritto, Milano 1968, p. 261. 115 Cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, trad. it., Roma-Bari 2005, p. 107.

76 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ad affrontare una sfida culturale, giuridica e teologica116, per collocare la giustizia nella dimensione pienamente umana e razionale, relazionale e dialogica, e poter quindi superare lo schema rigido della risposta al reato in termini di retribuzione e di corrispettività; l’obiettivo è quello di argomentare una giustizia ‘altra’, capace di tracciare un progetto che coinvolga tutte le parti nella ricerca della verità più intera e non solo esteriore, cioè l’unica capace di motivare un impegno riparativo che possa rendere giusti i rapporti umani feriti. Come osservato da L. Eusebi, “il diritto della Chiesa, pertanto, non si rappresenta il christifidelis delinquens come solo e tale da essere lasciato solo, come sofferente nella pena, a seguito del suo crimine, bensì lo considera sia in relazione alla vittima (la singola persona e la communitas), sia in relazione alla stessa autorità: soggetti i quali, dunque, non assumono il ruolo di semplici spettatori in attesa di scuse, ma quello di compartecipi nella (e della) dinamica riconciliativa (cfr. 2 Cor 1, 4)”117. Papa Francesco rafforza una prospettiva di giustizia concreta e includente, pienamente riparativa e in grado di opporsi al male proprio perché essa impara dalla relazione a progettare in vista del bene di tutti dinnanzi al male, tutelando ogni vita e guardando al carcere solo come extrema ratio118. Una tale riflessione è molto coerente con la visione di giusto del Vangelo, con il senso di giustizia divina e in linea con la pratica veterotestamentaria della tzedaka 119 che opera nel rib 120 , quando si

116 Cfr. M.J. Arroba Conde – M. Riondino, Introduzione al diritto canonico, cit., p. 168. Si veda, inoltre, M. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione penale, cit., p. 185; L. Eusebi, Giustizia ‘riparativa’ e riforma del sistema penale canonico. Una questione, in radice, teologica, in Monitor Ecclesiasticus, 130 (2015), pp. 515-535; A. Acerbi – L. Eusebi (a cura di), Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, Milano 1998. 117 L. Eusebi, La Chiesa e il problema della pena, p. 168; si veda, inoltre, M. Riondino, Justicia restaurativa y derecho penal canónico. Aspectos sustanciales, in Anuario de Derécho Canónico, 3 (2014), pp. 13-30. Riguardo la peculiarità dell’apporto proveniente dal Codice di diritto canonico per le Chiese orientali, si veda N. Loda, Il canone 1401 CCEO quale ‘ianua’ dell’ordinamento penale canonico ed il superamento del modello retribuzionistico. Semantica e valutazione delle fonti, in Apollinaris, 80 (2007), pp. 241-331. 118 Cfr. Francesco, Discorso alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 23.10.2014, cit., pp. 463-464. 119 Si veda, E. Wiesnet, Pena e retribuzione, cit.; L. Eusebi, La Chiesa e il problema della pena, cit., pp. 32-34; Id., Pena canonica e tutela del minore, in Aa. Vv., Il diritto canonico nella missione della Chiesa, Città del Vaticano 2020, p. 188. 120 “Esso presuppone una crisi delle relazioni interpersonali e tende al loro ristabilimento mediante la riconciliazione dei contendenti, la quale si attua in due momenti: confessione della colpa da parte di chi è in torto con la richiesta di remissione, e concessione del perdono con un atto di misericordia che annulla la collera

77 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 riconosce la colpa perché si accoglie la misericordia, a immagine del patto di alleanza di JHWH con Israele e con ogni popolo, per difendere il diritto dei deboli121; al contempo, essa è particolarmente importante nell’ottica del dialogo interdisciplinare con il diritto degli Stati122, per provocarli a una riflessione più ampia e responsabile riguardo il bene della persona e il riconoscimento dei suoi diritti. b) Profezia: il fine riparativo e il carattere medicinale della pena Il fine riparativo e quello riconciliativo, tradotti nel carattere spiccata- mente medicinale che pervade l’intera legislazione penale canonica123 e che “non può trascurare l’impegno costante a comprendere le cause dell’errore e della fragilità di chi ha violato la legge”124, sono principi irrinunciabilmente connessi alla rivelazione cristiana e al magistero della Chiesa e pertanto, essi si impongono quali strutture di autentica libertà per rafforzare l’irrinunciabile diritto alla conversione proprio sia di ciascun fedele sia della comunità125. La colpa non cancella la dignità di un uomo e lascia aperto il cammino della speranza, del rinnovamento, anche se esso è impegnativo. In tal senso, la pena non può esaurire la propria efficacia nell’imporre una privazione o una sofferenza, quale mera risposta a posteriori per un’offesa già determinatasi di un particolare bene giuridico126; al contrario, la pena può aprire la strada, seppur faticosa, a un progetto di bene da perseguire insieme. Con le parole di Ivo Lizzola,

da parte dell’offeso”. P. Coda, Giustizia e grazia. Il paradosso del Crocifisso, in Filosofia e Teologia, 15 (2001), p. 518; cfr. P. Bovati, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Roma 1986; G. Zagrebelsky, Pena e riconciliazione, in M. Borsari – F. Francesconi (a cura di), Peccato e pena. Responsabilità degli uomini e castigo divino nelle religioni dell'Occidente, Modena 2007, pp. 196-203. 121 Cfr. R. Di Paolo, Il servo di Dio porta il diritto alle nazioni, Roma 2005, pp. 143-145. 122 Cfr. L. Eusebi, Sull’imputazione soggettiva nel diritto penale canonico. Un confron- to con i sistemi penalistici statuali, in Monitor Ecclesiasticus, 129 (2014), pp. 197-209. Su questo aspetto, con particolare riferimento allo Stato della Città del Vaticano, si veda, L. Eusebi, Giustizia ‘riparativa’ e riforma del sistema penale canonico, cit., pp. 533-535. 123 Cfr. Francesco, Discorso ai partecipanti alla sessione plenaria del Pontificio Consi- glio per i Testi Legislativi, 20.2.2020. 124 Cfr. Francesco, Discorso di apertura del 91° anno giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, 15.2.2020. 125 Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 17.2.1979, in AAS, 71 (1979), p. 425, n. 3. 126 Cfr. L. Eusebi, Responsabilità morale e giuridica del governo ecclesiale. Il ruolo dei Vescovi in rapporto ai fatti illeciti dei chierici nel diritto canonico e nel diritto italiano, in Apollinaris, 83 (2010), p. 244.

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“la pena non deve far morire la speranza in chi è nella colpa: questa è l’attenzione da curare nel dare forma alla pena”127. Il fine riparativo e il carattere medicinale della sanzione alimentano necessariamente anche quella comunicazione dialogica che è alla base della conversione inclusiva del reo, della singola vittima e della comunità128, e la affermano con audacia, di fronte alla presunzione di un idealismo penale che giustifica la sanzione con “la pretesa capacità di rafforzare la fiducia nel sistema normativo e nella aspettativa che ogni individuo assuma un ruolo nella società e si comporti secondo ciò che da lui ci si attende”129. Non da ultimo, il fine riparativo e il carattere medicinale che si sostanziano nella risposta al male da parte dell’ordinamento giuridico canonico, testimoniano l’impegno per la piena ricerca della verità, che non si accontenta di limitare la giustizia lasciandola all’immobilità di una bilancia che cerca una simmetria e un equilibrio meramente storico130. In

127 I. Lizzola, La risposta al reato. Oltre il diritto di punire: prospettive pedagogiche, in L. Eusebi (a cura di), Una giustizia diversa, cit., p. 44. 128 Cfr. G. Bombelli, Occidente e ‘figure’ comunitarie, I, Un ordine inquieto: koinonia e “comunità” radicata, cit., pp. 327-339. 129 Francesco, Lettera ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 15.11.2019, cit., n. 2. Nella prospettiva della giustizia dialogica e ripativa, nel solco del magistero di Papa Francesco, una sfida significativa attiene all’analisi della funzione svolta dalla pena canonica relativamente ai delitti di abuso sessuale commessi da chierici nei confronti di minorenni, in quanto tipologie criminose complesse. Scrive in proposito Luciano Eusebi: “Sono delitti, quelli di abuso sessuale contro minorenni, oggettivamente gravi e tali da incidere in maniera drammatica sul futuro delle vittime, con rischio di recidiva cospicuo, correlati, tuttavia, a un background psicologico, se non psico-patologico, assai intricato e, dunque, necessitanti rispetto ai loro autori di percorsi rielaborativi, o terapeutico-rielaborativi, laboriosi, come pure di un accompagnamento spirituale specifico; in ogni caso – ma questo è un aspetto comune a gran parte dei reati – assai poco condizionabili in termini di deterrenza intimidativa”. L. Eusebi, Pena canonica e tutela del minore, cit., p. 188. 130 Una prospettiva di ispirazione tendenzialmente retributiva è quella che riguarda il diritto penale dello Stato della Città del Vaticano. Il diritto vaticano “riconosce nell’ordinamento canonico la prima fonte normativa e il primo criterio di riferimento interpretativo” (legge vaticana sulle fonti del diritto del 1.10.2018 n. LXXI, art. 1, co. 1), e questo particolarissimo aspetto ha “contribuito a svelare l’autentico spirito del diritto vaticano, il quale corre sui medesimi binari di quello canonico, entrambi indirizzati verso una meta coincidente” [G. Boni, Sulle recenti leggi penali vaticane e sulla loro ‘canonizzazione’, in N. Marchei – D. Milani – J. Pasquali Cerioli (a cura di), Davanti a Dio e davanti agli uomini. La responsabilità fra diritto della Chiesa e diritto dello Stato, Bologna 2014, p. 227]; tuttavia, il titolo II (artt. 4-12) della legge vaticana n. VIII dell’11.7.2013 (Norme complementari in materia penale), riguardo delitti relativi all’ambito sessuale contro i minori, prevede pene di carattere detentivo, sostanzialmente analoghe a quelle dei diversi ordinamenti civili. Cfr. ivi, pp. 191-192; si veda, inoltre, C.M. Fabris, Le recenti riforme del diritto penale vaticano varate da Papa Francesco in tema di protezione dei minori e delle persone vulnerabili, in

79 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 questo senso, tale proposta può essere significativa anche nell’ottica di riforma del libro VI del Codice di Diritto Canonico sia sul piano teoretico, sia su quello dell’innovazione normativa a favore della partecipazione della vittima, del cambiamento di condotta da parte del reo, nonché delle garanzie processuali sia per la vittima sia per il reo. Senza dubbio, l’extrema ratio dell’applicazione delle sanzioni testimonia la specifica forza coercitiva dell’ordinamento giuridico canonico e la necessità di porre in essere una risposta al male adeguata a soddisfare la dimensione punitiva in cooperazione coordinata con il fine salvifico della Chiesa, rimanendo in dialogo con i principi giuridici alla base della dimensione associativa degli ordinamenti statuali131. Allo stesso tempo, il ragionamento che parte dai presupposti della giustizia riparativa è ancor più forte alla prova del sistema sanzionatorio canonico, che conserva sempre la sua missionarietà non solo nella sua finalità ultima di salus animarum, ma soprattutto come strumento per tutelare l’identità della Chiesa e il bene relazionale della comunità132, attraverso la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia e l’emendamento del reo che nasce dal pentimento sincero e dal riconoscimento della colpa (can. 1341). In effetti, secondo le norme del Codice di Diritto Canonico, il delitto non sempre ha un legame diretto con la pena, e questa, in base al principio della non obbligatorietà dell’azione penale, può anche non essere irrogata (can. 1348) o definita secondo parametri più blandi in rapporto alla gravità del delitto133. Inoltre, nella possibilità di definire

Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 23 (2009), pp. 397-416; P.A. Bonnet, Le fonti normative e la funzione legislativa nello Stato della Città del Vaticano, in Archivio giuridico, 229 (2009), pp. 457-559; G. Dalla Torre, Aspetti della giustizia vaticana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it) 2013, n. 18; Id., L’attività giudiziaria nello Stato della Città del Vaticano e la legge fondamentale, in Ius Ecclesiae, 13 (2001), pp. 347-367; G. Corbellini, Leggi e disposizioni della Città del Vaticano, Città del Vaticano 2007. 131 Si veda, in proposito, V. De Paolis, Aspetti teologici e giuridici nel sistema penale canonico, in Aa. Vv., Teologia e diritto canonico, Città del Vaticano 1987, pp. 175-194; F. D’Agostino, Fondamenti filosofici e teologici della sanzione penale, in Monitor Ecclesiasticus, 114 (1989), pp. 1-16; M. Ventura, Pena e penitenza nel diritto canonico postconciliare, Napoli 1996; G. Urru, Punire per salvare. Il sistema penale nella Chiesa, Roma 2001; L. Gerosa, Delitto e pena nel diritto canonico, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. IV, Torino 1990, pp. 345-358; E. Colagiovanni, Devianza e istituzione ecclesiastica, in Monitor Ecclesiasticus, 114 (1989), pp. 105-112. 132 Cfr. G. Feliciani, Le basi del diritto canonico, Bologna 1995, pp. 124-126; Z. Grocholescki, Ius canonicum et caritas, in Periodica, 83 (1991), pp. 9-17; G. Di Mattia, Il diritto penale a misura d’uomo, in Apollinaris, 64 (1991), pp. 747-770; M. Riondino, La ‘mediazione’ come decisione condivisa, cit., pp. 622-623. 133 Si veda, M. Riondino, Connessione tra pena canonica e pena statuale, in Aa. Vv., Questioni attuali di diritto penale canonico, Città del Vaticano 2012, p. 200; R. E.

80 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 modalità alternative di reazione al delitto, l’ordinamento canonico rinuncia a punire il reo se a seguito di una monitio egli si ravvede e modifica i suoi atti; e ancora, colui che ne ha l’autorità può procedere alla remissio dopo aver valutate le ragioni che hanno portato all’imposizione o alla dichiarazione della pena, e se tali ragioni sono venute meno (can. 1354). Nel rispondere al male, conversione e riconciliazione possono così essere considerati i due principali capisaldi dal giudizio penale canonico e l’imposizione di una sanzione va considerata in relazione a queste due irrinunciabili finalità 134 . In tal senso, si può comprendere come l’ordinamento penale canonico escluda la valenza retributiva della sanzione se si prende in considerazione, ad esempio, la pena della scomunica, anche nella sua più severa modalità di inflizione latae sententiae, per il solo fatto di aver commesso il delitto135. Il principale effetto della scomunica è quello di dichiarare una rottura della comunione di fede, ma sempre tendendo la mano al reo, così, il ripristino della comunione dipende in primo luogo da una risposta responsabile di libertà136, cioè dalla volontà di ‘conversione’ dello scomunicato di recedere dal suo comportamento, unitamente alla remissione della pena, operata dall’autorità, che permette di affrettare i tempi della riconciliazione137. Il nucleo della giustizia penale canonica, intesa come relazionalità penale, si configura come imperniato sul principio della premura138, del prendersi cura della persona, attraverso lo sforzo risocializzativo di partecipazione che coinvolga vittima, comunità e reo, e quindi, riconoscendo la riconciliazione come un vero e proprio elemento giuridico e non meramente accessorio al diritto, per riallacciare la relazione

Jenkins, Nullum crimen, nulla poena sine lege: the principle of legality in modern canonical theory and practise, in R. J. Kaslyb (ed.), Essays in honor of Sister Rose McDermott. Institutiones Iuris Ecclesiae, vol. I, Washington DC 2010, pp. 368-394. 134 Come affermato da Michele Riondino, “to consider the penalty as an instrument to restore justice, which is based on the identity of the Church, appears to be a more incisive approach, as it expresses not only the objectives of the sanction but also the contents and criteria for the application of the sanction”. M. Riondino, Function and application of the penalty in the Code of Canon, in Jus-online (2020), p. 177. 135 Cfr. L. Eusebi (a cura di), La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, Milano 1989, pp. 149-162; Id., La Chiesa e il problema della pena, cit., pp. 116-117; M. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione penale, cit., p. 16. 136 Cfr. K. Rahner, Colpa – responsabilità – punizione nel pensiero della teologia cattolica, in L. Eusebi (a cura di), La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, cit., pp. 149-162. 137 Cfr. R. Botta, La norma penale nel diritto della Chiesa, Bologna 2001, pp. 116-118. 138 Cfr. K. Barth, La pena non può riparare il male, in L. Eusebi (a cura di), La funzione della pena, cit., pp. 141-142.

81 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 mediante il diritto139. Il vero sforzo culturale è quello di non accontentarsi di un’applicazione burocratica delle pene, ripetitiva e facile risposta al male nel solco di una mera logica di ritorsione; al contrario, restaurando la relazione e ricominciando il dialogo, si possono sfruttare gli ampi spazi di duttilità della risposta sanzionatoria che il diritto canonico prevede nei confronti dell’illecito140. Il bisogno di restaurare la relazionalità penale è particolarmente sentito nel diritto canonico anche in ragione della sua componente viva, la comunità, quale soggetto pubblico personale e relazionale, nucleo di tutta l’esperienza ecclesiale e giuridica141. La dolorosa ferita del delitto altera la relazione di comunità ben oltre la dinamica reo-vittima, sia perché molti dei delitti canonici non prevedono nello specifico una singola vittima, sia perché l’azione delittuosa pone tutta la comunità alla duplice prova della corresponsabilità al male e dell’esigenza di una risposta di comunità all’ingiustizia. Questo aspetto rileva, inoltre, per l’ampiezza del numero di delitti che possono essere ascritti a chierici, anche in ragione della loro particolare posizione all’interno della comunità cristiana. A tal proposito sono particolarmente significative le parole di Benedetto XVI rivolte ai vescovi della Conferenza episcopale d’Irlanda nel 2006 riguardo i casi di abusi sessuali su minori nell’ottica della relazionalità di comunità: “Le ferite causate da simili atti sono profonde, ed è urgente il compito di ristabilire la confidenza e la fiducia quando queste sono state lese. Nei vostri sforzi continui di affrontare in modo efficace questo problema, è importante stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure

139 Cfr. E. Wiesnet, Pena e retribuzione, cit., pp. 118-119; M. Riondino, El paradigma de la justicia restaurativa: manifestación de misericordia en el derecho penal de la Iglesia, in Vergentis, 10 (2020), pp. 83-98. 140 È il caso del delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni. Quantomeno nel linguaggio, i toni dell’art. 6, § 2 delle Normae de gravioribus delictis del 21.5.2020 [“il chierico che compie i delitti di cui al § 1 sia punito secondo la gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione”] sembrano tuttavia rimandare alle categorie tipiche delle classiche previsioni sanzionatorie retributive. In questi casi, secondo la proposta di Luciano Eusebi, “andrebbe previsto, già in sede giuridico-canonistica, che all’eventuale dimissione si accompagni l’offerta di precisi supporti intesi all’accompagnamento del dimesso nella nuova condizione di vita, quali che siano le eventuali sanzioni disposte nei suoi confronti dal diritto penale dello Stato (e, pertanto, anche nel caso in cui il chierico si trovi in carcere)”. L. Eusebi, Pena canonica e tutela del minore, cit., p. 190. In questo senso, è da auspicare una riflessione anche sull’istituto della sospensione del processo con messa alla prova. 141 Cfr. P. Valdrini, Comunità, persone, governo. Lezioni sui libri I e II del CICI 1983, Città del Vaticano 2013, pp. 18-19.

82 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi”142. Nel sottolineare il bisogno di mettere in campo azioni preventive verso il ripetersi di fatti tanto gravi, Benedetto XVI non manca di ribadire il bisogno di verità per guarire non solo le vittime, ma anche tutti coloro che sono colpiti da atti che scuotono il sentimento di giustizia della comunità143. In questa ottica, appare auspicabile una risposta inclusiva, che salvi la relazione e che permetta a tutti, vittime, colpevoli e complici, di uscire dall’isolamento nel quale il delitto li ha condotti, per tornare a incontrarsi, sulla via del dialogo e del perdono, per dare maggiore concretezza alla finalità della riparazione dello scandalo e, orientati alla salus animarum che ciascuno è già chiamato ad anticipare vivendola e testimoniandola, “mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto”144. Il monito evangelico alla conversione risuona esigente nelle stanze della giustizia penale e chiede che il rapporto con l’altro non sia fondato su un giudizio, quasi che questa sia una premessa a ogni relazione autentica- mente giuridica dopo un delitto, ma suggerisce un’opzione di bene che restauri la relazione interrotta dal delitto e, alla luce della verità, si ponga come alternativa all’esperienza del male145. In tal senso, la ricerca della giusta risposta al delitto riguarda primariamente la scelta dei fini e dei modi che devono caratterizzare tale risposta, quasi ad anticiparne i frutti.

142 Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza episcopale di Irlanda in visita ‘ad limina Apostolorum’, 28.10.2006; cfr. Id., Lettera ai cattolici dell’Irlanda, 19.3.2010, n. 5; M. Riondino, La Convenzione di Lanzarote. Aspetti giuridici e canonici in tema di abuso sui minori, in Apollinaris, 86 (2013), pp. 166-169. Dopo aver creato nel 2014 una commissione pontificia permanente “con lo scopo di promuovere la tutela della dignità dei minori e degli adulti vulnerabili, attraverso le forme e le modalità, consone alla natura della Chiesa” (Francesco, Chirografo per l’istituzione della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, 22.3.2014, in Monitor Ecclesiasticus, 130 (2015), pp. 295-296), Papa Francesco ha ulteriormente ribadito che “occorre continuare a fare tutto il possibile per sradicare dalla Chiesa la piaga degli abusi sessuali sui minori e aprire una via di riconciliazione e di guarigione in favore di coloro che sono stati abusati”. Francesco, Lettera ai Presidenti delle Conferenze episcopali e ai Superiori degli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica circa la Pontificia Commissione per la tutela dei minori, 2.2.2015, in L’Osservatore Romano, 3 febbraio 2015, p. 8. 143 Cfr. N. Bartone, Il conflitto d’obbligo tra autorità ecclesiastica e autorità statale e il crimine di sesso del presbitero con il minore nella normativa comparata e interordinamentale, in Aa. Vv., Questioni attuali di diritto penale canonico, cit., p. 151. 144 Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium, 21.11.1964, in AAS, 57 (1965), p. 44, n. 40. 145 Cfr. M. Riondino, Function and application of the penalty in the Code of Canon, cit., pp. 178-179.

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Nella riparazione del male, dunque, il reo non subisce una sofferenza o un trattamento lesivo della sua dignità, ma onora il proprio essere persona libera e relazionale; tuttavia, questa conversione richiede un significativo impegno da parte dell’autore del delitto nella revisione della sua vita e una rispondente disponibilità della vittima ad aprirsi alla riconciliazione. Tale partecipazione ha bisogno di preparazione e di attenzione anche da parte dell’autorità preposta a punire, soprattutto in ragione delle possibili strumentalizzazioni delle presunte vittime nel denunciare (can. 1390)146. Questo discorso ha particolare rilevanza in relazione a quelle situazioni che vedono in essere delitti che offendono in modo grave la comunità e affermano il bisogno di instaurare adeguate pratiche comunitarie di dialogo 147 . La mediazione liberamente accettata tra vittima e reo e l’utilizzo abituale della procedura giudiziale rispetto a quella amministrativa (can. 1720, n. 2), che per sua natura favorisce e struttura il dialogo della relazione giuridica perché sia detta la verità sul delitto148, sono certamente i due più efficaci strumenti per favorire, ove possibile, un autentico percorso riconciliativo condiviso149. Se da una parte è auspicabile la più ampia e creativa capacità di restaurare le relazioni di comunità, allo stesso tempo, sottolinea Luciano Eusebi, “manca completamente, nell’ambito delle pene canoniche attuali previste, e segnatamente in quelle delle pene espiatorie, strumenti rivolti a motivare in concreto l’autore del delitto nel senso di una revisione critica delle proprie condotte e di un affrancamento dalle medesime per il futuro, nonché tali da concretizzarsi in percorsi riparativi e, se possibile, riconciliativi” 150 . Gli ampi ambiti di discrezionalità che sono presenti all’interno della procedura penale canonica debbono motivare un più significativo sforzo di riflessione in dottrina e in sede legislativa affinché siano pensate regole procedurali che offrano un’adeguata ed estesa garanzia dei diritti difensivi151 nell’ottica dell’accertamento della verità e della neutralizzazione dell’arbitrio: nella fase dell’indagine previa (can.

146 Cfr. M. Riondino, Connessione tra pena canonica e pena statuale, cit., p. 218. 147 Cfr. ibid. 148 Cfr. L. Eusebi, Le forme della verità nel sistema penale e i loro effetti. Giustizia e verità come ‘approssimazione’, in G. Forti – G. Varraso – M. Caputo (a cura di), ‘Verità’ del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, Napoli 2014, pp. 155-174; Id., Dirsi qualcosa di vero dopo il reato: un obiettivo rilevante per l’ordinamento giuridico?, in Criminalia, (2010), pp. 637-655. 149 Cfr. P. McCold, Restorative Justice and the Role of Community, in B. Galaway – J. Hudson (eds.), Restorative Justice. International Perspective, New York 1996, pp. 85- 102. 150 L. Eusebi, Pena canonica e tutela del minore, cit., p. 199. 151 Cfr. ivi, pp. 201-208.

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1717, § 1); riguardo l’assunzione di quei “provvedimenti necessari affinché si eviti il rischio che i fatti delittuosi ipotizzati possano essere reiterati”152; nella scelta tra via giudiziale o extragiudiziale153, valutando un previo consenso dell’accusato 154 ; nella messa in atto delle possibili misure cautelari previste in qualunque stadio del processo (can. 1722); nella fase giudiziale della raccolta delle prove, anche quando è in atto un procedimento penale secondo il diritto dello Stato155. In questa ottica, con particolare riferimento alla vittima, Michele Riondino rileva inoltre che “occorre migliorare le previsioni attuali circa la partecipazione della vittima nel processo penale giudiziale, attualmente ridotta alla sua costituzione come parte che esercita l’azione contenziosa per il risarcimento dei danni causati dal delitto (can. 1729) nella formula dell’intervento di un terzo (can. 1596), con la non irrilevante limitazione derivante dalla facoltà concessa al giudice di differire il giudizio sui danni finché abbia pronunciato la sentenza penale”156. Particolare importanza potrebbe avere una specifica previsione normativa riguardo l’ascolto della vittima, con specifica attenzione alla vittima minore di età 157 o della persona vulnerabile158. Altre limitazioni sono l’impossibilità di partecipare al processo di appello se la parte non si costituì in primo grado (can. 1729, § 3), o il divieto di prendere visione degli atti prima della sentenza (can. 1598)159.

152 Conferenza Episcopale Italiana, Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, 24.6.2019, 6.2. 153 Si veda, A. D’Auria, La scelta della procedura per l’irrogazione delle pene, in Aa. Vv., Questioni attuali di diritto penale canonico, cit., pp. 113-133; D. Cito, Le procedure penali nel diritto canonico, in Aa. Vv., Il diritto canonico nella missione della Chiesa, cit., pp. 161-183. 154 Cfr. L. Eusebi, Pena canonica e tutela del minore, cit., p. 207. 155 Cfr. ivi, p. 205. 156 M. Riondino, Connessione tra pena canonica e pena statuale, cit., p. 225. 157 Con le dovute attenzione e fatte salve le specificità dell’ordinamento canonico, possono essere di ispirazione le disposizioni dell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e, per quanto attiene all’ordinamento italiano, l’art. 315 bis c. c. che prevede il diritto al minore “di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano” e l’art. 155 c. c. che recepisce il testo della suddetta Convenzione. Cfr. A. Di Tano, Disgregazione dell’unione familiare e tutela dei figli minori, in Monitor Ecclesiasticus, 132 (2017), pp. 315-326. 158 Francesco, Motu proprio , 7.5.2019, in L’Osservatore Romano, 10 maggio 2019, p. 10. 159 Cfr. M.J. Arroba Conde, Sub can. 1729, in A. Benlloch Poveda (a cura di), Comentario al Codígo de derecho canónico, Valencia 1993, p. 742; M.J. Arroba Conde, Justicia reparativa y derecho penal canónico. Aspectos Aspectos procesales, in Anuario de derecho canónico, (2014), pp. 31-51.

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L’avvento del Regno di Dio in Cristo modifica in maniera sostanziale i rapporti tra l’uomo e Dio e degli uomini tra loro, abbattendo ogni muro di separazione e riconciliando tutti in Cristo; e anche nel giudizio, ciascuno è coinvolto all’interno di un legame vitale, agapico, rivelando un rapporto ‘eccedente’, inesauribilmente arricchente e che, nella ricerca della verità, riconosce ciascun altro. Come ha affermato Gustavo Zagrebelsky, “riconciliazione infatti significa ricominciare a camminare e a cercare insieme. In fondo l’obiettivo massimo dei discorsi sulla giustizia è proprio questo: dimostrare che la ricerca della giustizia, e la ricerca della giustizia in comune, è conforme alla nostra essenza umana”160. c) Utopia: il rifiuto della pena di morte Le riflessioni sulle ragioni e sulla funzione che giustificherebbero la pena di morte sono presenti nella storia del pensiero delle relazioni di giustizia tra gli uomini e trovano nella concezione organicistica dello Stato uno dei più ostici baluardi. Tuttavia, sebbene pressoché minoritari, non sono mai mancati argomenti fortemente contrari al perpetuarsi di questa pratica di giustizia, e se nel Settecento si colloca la diffusione delle ragioni a favore dell’abolizione di questo tipo di pena, già la filosofia classica si è interrogata sull’etica del punire161. Quella che si è andata delineando e ampliando è una sempre più marcata distinzione tra bene e male162, tra violenza giusta e violenza ingiusta, tra uccisione per collera e uccisione per zelo della giustizia163, tra malum passionis e malum actionis. La pena di morte recide drasticamente e in via definitiva la relazione con l’altro; determinando la fine della sua stessa vita, essa annulla la soggettività dell’agente di reato e deroga all’imperativo del mutuo riconoscimento fra gli individui come soggetti titolari di diritti fondamentali, in primis la vita. La pena di morte esprime radicalmente, quindi, quanto nelle relazioni intersoggettive rappresenta il male radicale e di questo male ne attua un esercizio ponderato e ritualizzato 164 , escludendo ogni percorso assistito di recupero.

160 G. Zagrebelsky, Pena e riconciliazione, cit., p. 211. 161 Cfr. E. Cantarella, I supplizi capitali. Origine e funzione delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano 2011. 162 Cfr. P. Prodi, Una storia della giustizia, Bologna 2001, pp. 39-40. 163 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, 146; R. Di Ceglie, Tommaso d’Aquino: la concezione della pena nella prospettiva della civiltà dell’amore, in Paradoxa, 3 (2009), pp. 60-63. 164 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976.

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Il rifiuto della pena di morte va collocato sul piano etico, in definitiva, quale rifiuto di una riproposizione analogica del male e di un utilizzo per qualsiasi finalità di mezzi costituenti di per sé un male, perché tali da assimilare l’altro a un oggetto suscettibile di distruzione 165. Come già ricordato da Cesare Beccaria166, oltre all’inutilità della pena di morte dal punto di vista della finalità preventiva del reato, questa pratica sanzionatoria fa decadere nella coscienza civile il rango di principio di intangibilità della vita espresso proprio dalle norme penali a tutela di quel bene. La giustizia riparativa indica alla società che essa stessa è la prima testimone della credibilità e della rispettabilità dei precetti penali, perché l’esempio della risposta al male è testimonianza anche dell’autorevolezza dei presupposti della norma trasgredita167. In questo senso, la pena di morte si qualifica quale strumento finalizzato a esprimere la gravità dell’illecito commesso, non considerando che la vittima, piuttosto, “necessita che sia fatta verità sulla vicenda che l’ha colpita, che quest’ultima sia riconosciuta come un’ingiustizia e che la medesima possa servire, quantomeno, per evitare il suo ripetersi, a danno di altri, in futuro. Ma ciò si realizza nel modo più convincente proprio quando avvenga attraverso il coinvolgimento dell’agente di reato”168. La proposta della giustizia riparativa pone la verità al centro della sua ricerca e recuperando, dunque, l’humanitas delle relazioni, si prende cura dell’altro, di ciascun altro, perseguendo il bene comune relazionale, cercando essa stessa di ri-costruire il bene in termini inclusivi e coinvolgenti, senza censure o esclusioni dalla comunità169. Il contributo offerto dal pensare il diritto penale canonico nell’ottica della restorative justice, per rinunciare ad affermare il disvalore della condotta criminosa in relazione all’entità della pena e alla sua dimensione afflittiva,

165 Cfr. L. Eusebi, Pena di morte, in V. Melchiorre (a cura di), Enciclopedia filosofica, vol. IX, Milano 1996, 8458-8459; Id., Motivazioni politico-criminali della rinuncia della pena di morte, in Aa.Vv., Per un XXI secolo senza pena di morte, Milano 2009, pp. 63-78. 166 Si veda, C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano 2014, XXVII, p. 95; N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1990, pp. 179-182; G. Silvestrini, Non solo Beccaria. Il diritto di punire fra utopia e riforma, in Filosofia politica, 34 (2015), pp. 533-546; D. Ippolito, Contratto sociale e pena capitale. Beccaria vs. Rousseau, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 91 (2014), pp. 589-620 [fascicolo monografico dal titolo ‘Un pacifico amatore della verità’. 250 anni dopo Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria]. 167 Cfr. L. Eusebi, Rinunciare alla pena di morte, cit., pp. 104-115; L. Eusebi, Cautela in poena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 58 (2015), p. 471. 168 L. Eusebi, Fare giustizia: ritorsione del male o fedeltà al bene?, cit., p. 18. 169 Cfr. S. Mocellin, Ripensare la giustizia nella prospettiva della comunità: dai nuovi paradigmi del welfare alla Restorative Justice, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 137-148.

87 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ha orientato anche un ulteriore sviluppo riparativo in relazione al tema della pena di morte. La pena di morte è stata sempre una tematica molto vicina alla vita della Chiesa, tanto che i primi cristiani ne furono essi stessi vittima. Se fin dai primi secoli si delinea una chiara posizione di resistenza alla pena capitale170, alla luce di specifiche condizioni storiche, e subendone a volte il peso e le contraddizioni171, pur sempre professando la forza profetica del valore della persona e della vita umana172, la Chiesa cattolica è arrivata più tardi di altri organismi a elaborare una riflessione autonoma sulla pena all’altezza della sua missione di salvezza173 e a non giustificare mai la pena di morte. Nel discorso pronunciato l’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Papa Francesco ha affermato energicamente che “è necessario ribadire pertanto che, per quanto grave possa essere stato il reato commesso, la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”174. Si tratta di un insegnamento magisteriale decisivo per l’affermazione del pieno rifiuto della pena di morte, nel consolidamento del fondamento etico dell’alterità e della relazionalità che tale pena distrugge. A questo discorso è seguita, pochi

170 Cfr. L. Eusebi, Le istanze del pensiero cristiano e il dibattito sulla riforma del sistema penale dello Stato laico, in A. Acerbi – L. Eusebi (a cura di), Colpa e pena?, cit., p. 247. 171 Nel ribadire l’intangibilità della vita umana, Pio XII ha affermato che “tenendo presente allo sguardo che, eccettuati i casi della legittima difesa privata, della guerra giusta e guerreggiata con giusti metodi, e della pena di morte inflitta dall’autorità pubblica per ben determinati e provati gravissimi delitti, la vita umana è intangibile”. Pio XII, Allocuzione ai parroci, 22.2.1944, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. V, Milano 1945, 185-207. La pena di morte nella Città del Vaticano è stata formalmente rimossa dalla Legge fondamentale solo il 12 febbraio 2001, per intervento di papa Giovanni Paolo II, sebbene essa fosse inapplicabile. 172 Cfr. Gn 1, 27. In tal senso sono significativi alcuni passi mossi da alcune Chiese locali. Cfr. Commissione speciale dell’episcopato francese, Elementi di riflessione sulla pena di morte, in Il Regno-documenti, (1978), pp. 109-114. Più di recente, hanno assunto posizioni analoghe, ad esempio, l’episcopato degli Stati Uniti in occasione dell’Anno giubilare della misericordia [cfr. Il Regno-documenti, (2015), p. 23] e la Conferenza dei vescovi cattolici delle Filippine con una Dichiarazione pastorale sulla pena di morte [cfr. Il Regno-documenti, (2017), p. 428]. 173 Cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi circa la nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena di morte, 1.8.2018, in Il Regno-documenti, (2018), p. 540. 174 Francesco, Allocuzione ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consi- glio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, 11.10.2017, in AAS, 109 (2017), p. 1196; cfr. N. Fiorita – L. M. Guzzo, La funzione della pena nel magistero di Papa Francesco, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it) 2020, n. 6, pp. 48-51.

88 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 mesi dopo, la volontà del papa175 di modificare il n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica circa la pena di morte rispetto all’edizione del 1992 e del 1997. La pena capitale è ritenuta ora “inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, con la derivazione dell’impegno per la sua abolizione in tutto il mondo176. Precedentemente, il n. 2267177 sanciva, nel solco dell’insegnamento tradizionale, che la Chiesa non escludeva, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente la vita di esseri umani dall’aggressore ingiusto178. Senza possibilità di confondere pena capitale e legittima difesa 179 , Luciano Eusebi insiste affermando che “dovrebbe infatti essere chiarissimo che i criteri di ammissibilità etico- giuridica dei mezzi che sono in grado di contrastare, rendendola inefficace, un’aggressione nel momento in cui viene posta in essere non possono coincidere con i criteri di ammissibilità etico-giuridica dei mezzi intesi a evitare la commissione di nuovi reati, cioè utilizzati per finalità preventive”180. In tale ottica, in ragione delle sussistenti condizioni teologiche, giuridiche e culturali, appare dunque improcrastinabile completare l’opera di

175 Cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Rescritto del Prefetto della Congrega- zione per la Dottrina della Fede dopo l’udienza dell’11.5.2018, 1.8.2018, in Il Regno- documenti, (2018), p. 540. 176 La tematica è stata ulteriormente affrontata da Papa Francesco nella Lettera enciclica Fratelli tutti ai nn. 263-270. 177 Nell’edizione del 1992 del Catechismo si legge che “l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto la fondatezza del diritto e del dovere dell’autorità pubblica legittima” affinché essa risponda “con pene proporzionate alla gravità dei delitti, senza escludere nei casi di estrema gravità alla pena di morte”. Nell’edizione del 1997 è scritto che “l’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accerta- mento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”. 178 Cfr. A. Marchesi, La pena di morte secondo Papa Francesco, in P. Gonnella – M. Ruotolo (a cura di), Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Milano 2016, p. 152. 179 Si veda, N. Blázquez, Pena de muerte, Madrid 1994; L. Ciccone, La pena di morte. Sviluppi dottrinali in vista?, in Rassegna di teologia, 40 (1999), pp. 393-414; L. Eusebi, Motivazioni politico-criminali della rinuncia alla pena di morte, in Aa. Vv., Per un XXI secolo senza pena di morte, Milano 2009, pp. 63-78; Id., Beccaria, la Chiesa cattolica e la pena di morte. Note in margine a Mario Pisani, Cesare Beccaria e l’Index Librorum Prohibitorum, Napoli 2013, pp. 1-80; G. Piana, La Chiesa cattolica di fronte alla pena di morte, in P. Costa (a cura di), Il diritto di uccidere. L’enigma della pena di morte, Milano 2010, pp. 117-136; L. Lorenzetti, La pena di morte. Una nuova tradizione, in Rivista di teologia morale, 35 (2003), p. 213. 180 Cfr. L. Eusebi, La Chiesa e il problema della pena, cit., p. 122; M. Faggioni, La vita nelle nostre mani. Manuale di bioetica teologica, 3a ed., Roma 2012, p. 168.

89 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 revisione del Catechismo e avviare una coraggiosa riflessione complessiva, profetica e utopica, riguardo il tema della giustizia penale canonica. Con attenzione al n. 2266 del medesimo Catechismo, che attiene alle sanzioni penali in generale e che fa coincidere la pena con l’espiazione 181 , con la sofferenza, e non con il progetto 182 , si può paradossalmente notare come il Codice di diritto canonico risulti già più avanzato riguardo l’adesione a un impianto penale riparativo183. Ripensare il pensiero sulla pena di morte non rappresenta un mero cambio di linguaggio, ma consente alla Chiesa Cattolica di poter riaffermare con più viva caparbietà l’essenza dinamica del processo ermeneutico che la Rivelazione imprime all’esperienza relazionale e di giustizia degli uomini, e cioè che “la Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al ‘deposito della fede’ come qualcosa di statico”184; pertanto “questa Tradizione progredisce […] cresce […] tende incessantemente alla verità finché non giungano a compimento le parole di Dio”185. Nell’attuale, necessario e urgente cambio di passo operato da Papa Francesco è possibile cogliere il valore profetico e il contributo culturale della normativa canonica186, in dialogo con il pluralismo delle istanze di giustizia che connotano lo sforzo dell’esperienza giuridica nei diversi ordinamenti statuali, per coordinare le azioni sociali secondo giustizia187 e nella fraternità. Per secoli la teologia ha alimentato la riflessione del diritto penale nell’elaborazione dei propri discorsi specifici; così come il lessico del diritto penale ha contribuito a formulare verità teologiche sul

181 “La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2266. 182 Questa riflessione era già stata auspicata da papa Benedetto XVI e per questo fine ha lavorato una commissione teologica che ha prodotto sul tema un fascicolo della rivista Gregorianum, (2007, 1), unitamente al testo sulle problematiche della pena e della pena di morte redatto sotto la guida dell’allora Pontificio Consiglio Giustizia e pace, ma che non ebbe, all’epoca, ulteriori sviluppi. 183 Cfr. L. Eusebi, La Chiesa e il problema della pena, cit., p. 119. 184 Cfr. Francesco, Allocuzione ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, 11.10.2017, cit., p. 1196. 185 Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 18.11.1965, n. 8. 186 Si veda, M. Riondino, Connessione tra pena canonica e pena statuale, cit., pp. 199- 225; L. Eusebi, La legittima difesa come categoria alla prova. Fine della nozione di guerra giusta e problemi aperti, in Monitor Ecclesiasticus, 129 (2014), pp. 450-452. 187 Cfr. G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna 2008; S. Cotta, Perché il diritto?, Brescia 1996.

90 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 rapporto tra Dio e l’uomo. Ora si presenta rinnovata una grande occasione, dunque, che si ancora alla grande risorsa offerta dal diritto canonico, per sanare le incongruenze interne alla riflessione ecclesiale e su queste basi estendere un dialogo costruttivo anche agli ordinamenti degli Stati alle prese con la riforma dei sistemi sanzionatori penali188, affinché in essi siano sempre più valorizzati percorsi di mediazione tra reo, vittima e comunità, nella ricerca di sanzioni che favoriscano la più effettiva responsabilizzazione del reo e il più ampio e autentico soddisfaci- mento della vittima189, e verso una sempre più coerente affermazione del principio riconciliatorio del ‘non uccidere’.

8. Conclusione

La sana e umana utopia positiva della realtà che ci impegna alla giustizia e alla ricerca del bene perché nessuno ne rimanga escluso non è un sogno, ma uno slancio profetico trascendente; è la profezia dell’altro, che già si attua nella cooperazione dialogica e che si apre all’azione cooperativa per costruire un rinnovato umanesimo giuridico accogliente nel quale l’uomo, ciascun uomo, si leva al di sopra di se stesso e supera continuamente e infinitamente l’uomo 190 nell’alterità dialogica dell’incontro. Se è vero, come ricorda Beatrice a Dante, che “forma non s’accorda/molte fiate a l’intenzion de l’arte,/perché a risponder la materia è sorda”191, l’utopia ci accompagna e ci spinge a riconoscere la necessità di questo superarsi proprio della natura dell’uomo, come di un trascendimento necessario ad accantonare l’autosufficienza che non ammette inclusione. Abbiamo bisogno di questo esercizio di utopia, per “osservare la realtà di una società giusta e felice e comprenderne le basi, invece che piantare queste ultime nel cielo e farne discendere un castello inabitabile”192. San Bonaventura nella Leggenda Maggiore ci racconta del sonno di Innocenzo III e di un sogno che non indugia nell’apatia, ma che si fa profezia e impegno nel riconoscere il valore di un altro sogno, quello concreto di Francesco che non sorregge più il Laterano che sta cadendo,

188 Cfr. G. Bettiol, Sullo spirito del diritto penale canonico dopo il Concilio Vaticano II, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 4 (1971), pp. 1093- 1110. 189 Cfr. M. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione penale nel diritto penale canonico, cit., p. 157; Id., Connessione tra pena canonica e pena statuale, cit., pp. 208- 211; G. Grandi, Libero consenso e volontarietà. Aspetti della ‘partecipazione attiva’ ai processi riparativi, in Paradoxa, 11 (2017), pp. 91-102. 190 Cfr. B. Pascal, Pensées, B434. 191 D. Alighieri, Divina Commedia. Paradiso, I, 127-129. 192 R. Mordacci, Ritorno a Utopia, Roma-Bari 2020, p. 7.

91 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ma chiede l’approvazione di una Regola che rinnoverà la Chiesa intera. In definitiva, è per questa ragione che è così importante rifugiarsi nel diritto, Diritto con la maiuscola, diritto che accoglie e nel quale si fa esperienza dell’altro, un’esperienza per la quale vale vivere e non morire.

Abstract: Starting from the critical approach to the theme of justice, from the point of view of the philosophy of law, the text proposes the current need to “rethink thinking” about law; in this way, it can become a dialogical tool to structure conscious relationships and responsible actions among people. Through a hermeneutic approach to reality, and with attention to the theme of positive and concrete utopia, the connection between the principle of fraternity and the perspective of restorative justice can be outlined. The theoretical proposal of restorative justice is studied in connection with the canonical criminal law, through the analysis of three perspectives: the function of the penalty, the response of the system to evil, the theoretical- practical development of the restorative justice in ecclesial reflection on the death penalty.

Key words: Philosophy of law, Canon Law, Sanctions in the Church, Restorative justice, Function of the penalty.

92 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

CALOGERO MICCICHÉ Ricercatore in Diritto amministrativo Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

L’amministrazione e le sue responsabilità patrimoniali ai tempi dell’emergenza da Covid-19*

English title: The Administration and its patrimonial liabilities at the time of Covid-19 emergency DOI: 10.26350/18277942_000010

Sommario: 1. Il Covid e il suo impatto sull’amministrazione pubblica – 2. Segue: il rischio dell’amministrazione difensiva, l’art. 21 del d.l. 6 luglio 2020, n. 76 e le nuove norme in materia di responsabilità erariale – 3. Presupposti e specificità della responsabilità erariale – 4. Era davvero necessario rinunciare alla responsabilità per colpa grave? Riflessioni in tema di incostituzionalità, possibile inefficacia e non necessità della disposizione derogatoria – 5. La responsabilità nel prisma della complessità tecnico-scientifica – 6. Conclusioni.

1. Il Covid e il suo impatto sull’amministrazione pubblica

Non può negarsi che il sopraggiungere della pandemia da Covid-19 abbia colto l’Italia – come gli altri Paesi europei – impreparata. Se nelle prime fasi si è stentato a comprendere quanto stava avvenendo, è pur vero che la rapidità con la quale il virus si è diffuso in alcune aree del Paese e poi ovunque ha travolto non solo il complesso dei servizi riconducibili, anche mediatamente, al sistema socio-sanitario, ma l’intero ordinamento e perfino l’esperienza umana di ciascun individuo. In brevissimo tempo le amministrazioni hanno dovuto rintracciare forniture straordinarie di materiali divenuti scarsissimi sui mercati internazionali (si pensi alle mascherine e ai ventilatori), riorganizzare (o realizzare ex novo) strutture sanitarie e perfino ripensare l’intero sistema di erogazione dei servizi e delle funzioni pubbliche, ricorrendo, ad esempio, a nuovi modelli di turnazione del personale, al telelavoro, alla digitalizzazione, alla riorganizzazione degli spazi e delle loro modalità di

* Il contributo, destinato alla ricerca Pandemia e democrazia: rule of law nella società digitale, promossa da Fondazione Leonardo - Civiltà delle macchine, è stato sottoposto a double blind peer review.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 fruizione, pur di continuare a tutelare i diritti individuali fondamentali nel mutato contesto sanitario. Tutto ciò operando frattanto perché l’emergenza non diventasse occasione di malaffare. Ciò ha imposto di agire, e di farlo adottando provvedimenti – anche normativi – talvolta poco meditati e quasi mai dibattuti in sede parlamentare (o consiliare), purché rapidamente. D’altra parte, soprattutto nei primi mesi della pandemia, ogni cosa è avvenuta mentre nessuno disponeva di informazioni chiare circa l’eziopatogenesi del virus e le conseguenti strategie di cura, il che ha costretto quanti avevano la responsabilità delle decisioni a sperimentare soluzioni tanto sul fronte terapeutico ed epidemiologico, quanto su quello dell’organizzazione dei servizi e, più in generale, del contenimento delle occasioni di contagio. In questa situazione è probabile che le misure adottate dall’amministrazione abbiano arrecato dei danni e, in tal senso, neppure è necessario pensare alle mancanze eventualmente registratesi nelle corsie ospedaliere o in altri luoghi di sofferenza, essendo sufficiente guardare alle perdite economiche arrecate dalle serrate imposte a chi opera in luoghi dove i livelli di contagio non sono stati particolarmente elevati. Buona parte di questi danni patrimoniali, però, sono stati tutt’altro che ingiusti: piuttosto un sacrificio necessario e almeno in parte indennizzato dall’attivazione delle misure di sostegno economico disposte in questi mesi1.

1 Si vedano il d.l. 2 marzo 2020, n. 9 (Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), le cui misure sono poi confluite nel più ampio d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19 - c.d. “Cura Italia”), convertito con l. 24 aprile 2020, n. 27; il d.l. 8 aprile 2020, n. 23, (Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali - c.d. “Liquidità”), convertito con l. 5 giugno 2020, n. 40; il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 - c.d. “Rilancio”), poi convertito con l. 17 luglio 2020, n. 77; il d.l. 14 agosto 2020, n. 104 (Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia – c.d. “Agosto”), convertito con l. 13 ottobre 2020, n. 126 e da ultimo, almeno per il momento, i d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 – c.d. “Ristori”) e 9 novembre 2020, n. 149 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese e giustizia, connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 – c.d. “Ristori bis”).

94 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942

Cionondimeno, se l’eccezionalità della situazione pandemica e la necessità di intervenire hanno legittimato il ricorso a strumenti straordinari come i decreti legge, i D.P.C.M., i D.M., le ordinanze statali e regionali nonché i commissariamenti derogatori2, non sono certo venute meno le garanzie che usualmente regolano l’esercizio di simili poteri extra ordinem, tra cui l’obbligo di rispettare i principi inderogabili dell’ordinamento e quello di garantire la ragionevolezza e la proporzionalità delle misure adottate, pena l’illegittimità degli atti e la conseguente possibile responsabilità per quanti li abbiano adottati. Neppure va dimenticato che l’eccezionalità della pandemia non equivale a sua unicità né tanto meno a sua imprevedibilità. Tanto le pandemie quanto le epidemie, infatti, sono fenomeni naturali e ciclici e, nonostante nel sentire comune potrebbe essere stata presente la convinzione – evidentemente falsa – che nella moderna civiltà tecnologica non vi fosse più spazio per simili eventi, l’attualità del rischio che un’epidemia tornasse a mietere vittime avrebbe dovuto essere chiara a quanti avevano la responsabilità della programmazione e dell’organizzazione del servizio sanitario3. Il che non è secondario, visto che la mancata adozione di misure idonee a prevenire o controllare il diffondersi del virus, se

2 Con riguardo alla complessità della normativa adottata dallo Stato e dalla Regioni per affrontare l’emergenza Covid, cfr. T.a.r. Lazio, Roma, Sez. III quater, 29 ottobre 2020, n. 11096, la quale descrive il sistema introdotto come un «sistema normativo “a ventaglio” (il quale si apre e si chiude a seconda del livello di emergenza che di volta in volta si registra) dal canto suo fondato su un meccanismo “a doppia cedevolezza”: invertita, ossia dal basso verso l’alto, allorché siano le regioni a disciplinare taluni ambiti in attesa di eventuali interventi governativi […]; ordinaria o pura, ossia dall’alto verso il basso, allorché sia il governo a prevedere che talune misure dal medesimo stabilite possano formare oggetto di ulteriori deroghe in peius o in melius, sulla base dei dati epidemiologici disponibili anche su base territoriale e a determinate condizioni (come l’intesa con il Ministro della salute in caso di deroghe ampliative), ad opera degli enti territoriali». 3 Sul punto cfr. A. Travi, Le riforme che servono alla Repubblica, in Munera, 2/2020, p. 66, secondo il quale «da almeno tre decenni l’Organizzazione mondiale della sanità ammoniva i Paesi occidentali sulla probabilità di una nuova epidemia, del genere dell’influenza “spagnola” di un secolo fa. Nulla è stato concretamente apprestato per questa evenienza; anzi, da vari anni negli ospedali italiani i reparti di malattie infettive venivano sistematicamente smantellati, nella convinzione generale che le epidemie fossero un’immagine del passato. È mancato così anche un sistema di unità essenziali per la sanità (come invece esistono in altri settori cruciali, come l’energia), che vanno sempre mantenute in efficienza perché devono essere in grado di diventare operative in qualsiasi momento e di rifornire il Paese degli strumenti e dei prodotti fondamentali per fronteggiare l’emergenza. E quando si è trattato di affrontare concretamente una situazione che esigeva risposte sollecite e puntuali, le nostre istituzioni si sono dimostrate incerte, intempestive, litigiose, inadeguate».

95 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 imputabile a dolo o colpa, potrebbe essere fonte autonoma di responsabilità4. Non a caso, si apprende dalla stampa come siano già numerose le indagini e le azioni legali riguardanti i presunti casi di malasanità, la mancata predisposizione (o aggiornamento) dei piani pandemici o l’omessa istituzione di alcune “zone rosse”. E altre azioni seguiranno certamente in relazione alla c.d. seconda ondata della pandemia, della cui prevedibilità non potrà dubitarsi5.

2. Segue: il rischio dell’amministrazione difensiva, l’art. 21 del d.l. 6 luglio 2020, n. 76 e le nuove norme in materia di responsabilità erariale

Le azioni risarcitorie come le indagini penali già avviate sono senz’altro legittime e comprensibili, perfino doverose. Esse tuttavia, mentre esprimono il bisogno di giustizia di molti, alimentano il timore di quanti operano per l’amministrazione pubblica – e in particolare nel S.S.N. – di restare schiacciati tra il dovere di agire in ogni caso6 e la responsabilità per gli errori che potrebbero essere (stati) compiuti operando in situazioni di particolare stress e incertezza. Da qui il rischio vieppiù concreto che gli apparati operino ricorrendo a soluzioni difensive, come l’inerzia attendista o la prescrizione di indicazioni precauzionali tanto stringenti da essere concretamente inattuabili dai livelli amministrativi sottostanti e dai privati.

4 Cfr. G. Ponzanelli, La responsabilità civile al tempo del Covid-19, in Danno e responsabilità, 4/2020, pp. 425 ss., secondo il quale «[c]i si interroga […] sempre più insistentemente, se di tutta questa situazione possa essere affermata la responsabilità di qualcuno: se insomma la super disgrazia del Covid-19 da giuridicamente irrilevante possa invece acquistare le caratteristiche di un evento giuridicamente rilevante, avendo potuto assumere proporzioni tali anche grazie alla (eventuale) colpa dei vari soggetti che hanno in cura la protezione della salute dei cittadini» (p. 426). 5 Al riguardo si vedano le amare considerazioni svolte da S. Cassese, in Un sistema troppo debole in cattivo stato di salute, su Corriere della Sera, 21 ottobre 2020, secondo il quale «il nostro sistema politico-amministrativo, messo sotto stress, ha la febbre. L’allarme non scatta quando aumenta il numero dei contagiati, ma quando stanno per esaurirsi i posti di terapia intensiva. Se il primo non è elemento prevedibile, al secondo si poteva provvedere per tempo. Siamo quindi continuamente colti di sorpresa, perché non abbiamo i sistemi giusti di allarme e non sappiamo programmare e progettare, ma solo discutere e negoziare per sopravvivere». 6 È necessario tener presente che le amministrazioni pubbliche non sono libere di determinare i propri flussi di lavoro, dovendo piuttosto far fronte – nei tempi e modi previsti astrattamente dalla legge – tanto alle richieste provenienti dal legislatore, dagli organi sovraordinati e dagli utenti, quanto agli eventi imprevisti.

96 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942

Questa situazione non è sfuggita al legislatore (o meglio, al Governo) che nei mesi scorsi, anche al fine di sostenere la ripresa economica incentivando gli investimenti pubblici e attenuando le resistenze burocratiche dovute a eccessiva prudenza, è intervenuto sulla disciplina della responsabilità con il d.l. 6 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale). Con quel decreto, poi convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, si è in primo luogo precisata la natura del dolo rilevante ai fini della responsabilità amministrativa, chiarendo che «[l]a prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso», non solo quella della condotta rivelatasi dannosa7. Da notare come, nonostante una prima giurisprudenza erariale abbia già attribuito a questa disposizione portata innovativa ed efficacia temporanea pur di limitarne l’applicabilità8, essa pare piuttosto aver risolto stabilmente9 un contrasto presente nella giurisprudenziale contabile10, accogliendo la tesi,

7 Art. 21, co. 1, d.l. 76/2020: «[a]ll’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il primo periodo é inserito il seguente: “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso.”». 8 Al riguardo C. Conti, Sez. I App., 2 settembre 2020, n. 234, per la quale la modifica normativa introdotta dall’art. 21 del d.l. 16 luglio 2020 n. 76, che prevede l’inserimento dell’alinea «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso» all’art. 1, co. 1 della legge n. 20/94, sarebbe inapplicabile ai rapporti già sorti. In particolare, secondo il giudice di appello contabile, sarebbe rilevante il fatto che «[a]i sensi del successivo co. 2 del medesimo art. 21 è, poi, specificato che tale previsione è da intendersi “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021”». Sul punto si veda anche C. Conti, Sez. I App., 12 ottobre 2020, n. 261. 9 Concorda sull’efficacia non temporanea della novità normativa A. Pajno, Il sistema amministrativo e il decreto semplificazioni. Qualche osservazione sulla disciplina dei contratti pubblici e sulle responsabilità, in www.irpa.eu, interventi (14 settembre 2020), secondo il quale tanto il chiarimento sul regime probatorio del dolo erariale, quanto la modifica apportata alla fattispecie dell’art. 323 c.p. sono «interventi a regime». 10 Cfr. Corte dei conti, Sez. Riun., audizione innanzi alla 1a Commissione Affari costituzionali del Senato sul d.d.l. n. 1883 (d.l. 16 luglio 2020, n. 76) di luglio 2020, secondo cui «[l]’art. 21, primo comma, introduce la locuzione “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. La norma (I comma) così come attualmente proposta, si limita quindi a riecheggiare l’art. 43 c.p. che prevede la espressa volontà dell’evento dannoso o pericoloso. La giurisprudenza compresa quella delle Sezioni unite non ha mai dubitato che nella volontà dell’evento dannoso rientri anche l’accettazione del rischio di provocare l’evento dannoso proprio perché risultato di una condotta consapevole, volutamente distinguendo tra dolo intenzionale, diretto ed eventuale. Certamente la dottrina ha sovente criticato tale costruzione ma nulla vieta di ripercorrere la stessa strada: la violazione delle regole di servizio comporta la prevedibilità dell’evento dannoso. Qualora la disposizione fosse interpretata nel senso di richiedere una vera e propria intenzione (ipotesi da cui la giurisprudenza penale è sempre rifuggita) la norma può essere anche lasciata inalterata» (in

97 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 fin qui minoritaria, secondo cui anche nel giudizio erariale il dolo va inteso secondo il più stringente modello penalistico11, non secondo quello civilistico del c.d. dolo contrattuale o in adimplendo. Il decreto ha poi previsto una limitazione temporanea della responsabilità dei funzionari pubblici (applicabile quindi anche agli amministratori) per i danni eventualmente arrecati con condotte attive connotate da colpa anche grave, prevedendo che «[l]imitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente» (art. 21, co. 2). Nonostante le opinioni su tale ultima previsione non siano state unanimi 12 , la sua capacità di incidere sulla capacità decisionale http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/document o_evento_procedura_commissione/files/000/177/501/CORTE_DEI_CONTI.pdf, 8). 11 Al riguardo si vedano già C. Conti: Sez. Calabria, n. 359/2019; Sez. III App., n. 29/2018; Sez. I App., n. 516/11; Sez. Puglia, n. 885/2006; Sez. Veneto n. 104/2004; Sez. Toscana, n. 739/2002; SS.RR., n. 56/1997. In senso contrario e favorevole a ricondurre il dolo erariale al dolo c.d. contrattuale o in adimplendo, C. Conti, Sez. Toscana, 8 agosto 2018, n. 213, ove si legge che «[s]econdo consolidata giurisprudenza contabile, cfr. SS.RR. 18 settembre 1996 n. 58 e Sez. I 28 giugno 1999 n. 813, in materia di responsabilità amministrativa la nozione di dolo non si identifica con quella di cui all’art. 43 c.p., ovvero come volontà dell’evento dannoso (evento voluto e previsto dal soggetto legato da rapporto di servizio), ma come “civile contrattuale” determinato dalla volontà di non adempiere agli obblighi di servizio, dalla consapevolezza della natura illecita dell’attività posta in essere, come dolo cd. contrattuale o in adimplendo, come inadempimento di una speciale obbligazione preesistente, quale ne sia la sua fonte e consiste nella coscienza e volontà di venir meno ai propri obblighi e doveri di ufficio e nel proposito di non adempiere l’obbligazione: cfr., ex plurimis, Sezione giurisdizionale Regione Lazio 29 ottobre 1998 n. 2246 e Sezione giurisdizionale Regione Umbria 20 dicembre 2006 n. 405». 12 La disposizione introdotta dall’art. 21, co. 2, del d.l. 76/2020 è stata salutata con favore da una parte della dottrina giuridica. Al riguardo cfr. A. Pajno, Il sistema amministrativo e il decreto semplificazioni, cit., per il quale se il «groviglio di responsabilità in cui è avviluppata l’azione amministrativa (civile, penale, amministrativa, disciplinare, dirigenziale), è infatti uno dei nodi più rilevanti della questione della burocrazia […] va, comunque, considerato positivo il fatto che il legislatore abbia, al di là delle soluzioni prospettate, in qualche modo iniziato a farsene carico» benché solo in via sperimentale. D’altra parte, interventi simili a quelli adottati dal legislatore erano stati richiesti da più parti fin dalla primavera del 2020 per reagire alla crisi innescata dalla pandemia e

98 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dell’amministrazione e sulla tempestività e speditezza del suo operato andrà verificata nei prossimi mesi. Cionondimeno sembra utile richiamare fin d’ora l’attenzione sul fatto che le disposizioni citate, mentre evidenziano il legame tra responsabilità e buon andamento dell’azione amministrativa, ripropongono con urgenza il bisogno di riconsegnare alla p.a. un sistema di regole (e forse anche un sistema istituzionale) che consenta di agire e provvedere con più serenità, benché responsabilmente13.

favorire la ripresa economica. Al riguardo, con una lettera aperta comparsa sul quotidiano Il Foglio il 5 aprile 2020 e intitolata Semplificare la disciplina degli appalti pubblici si può. Meglio agire subito, G. Della Cananea, M. Dugato, A. Police e M. Renna hanno evidenziato che per affrontare la crisi, oltre alle risorse finanziarie, sarebbe stato necessario intervenire sulle capacità dell’amministrazione di spenderle «presto e bene». Da qui il suggerimento dei quattro studiosi di intervenire sul sistema degli appalti tenendo conto, tra l’altro, che esso è «affetto da una regolazione troppo pervasiva e dal sovrapporsi di più tipi di controlli, con la conseguenza che gli amministratori sono riluttanti ad assumere decisioni che possono comportare responsabilità». Sulla stessa scia le conclusioni cui è giunta la c.d. “Task Force Assonime per la semplificazione” coordinata da Franco Bassanini. Con il rapporto intitolato Interventi di semplificazione e modernizzazione del sistema amministrativo per il rilancio dell’economia del 17 giugno 2020, quel gruppo di lavoro ha individuato tra le misure adottabili per «restituire alla pubblica amministrazione la capacità di decidere» sia la possibilità di «limitare la responsabilità erariale davanti alla Corte dei conti alla sola ipotesi del dolo, eliminandone l’applicabilità ai casi di colpa grave», sia quella di «disincentivare l’inerzia delle amministrazioni e incentivare il “fare”» (così in http://www.assonime.it/_layouts/15/Assonime.CustomAction/GetPdfToUrl.aspx?Pa thPdf=http://www.assonime.it/Stampa/Documents/rapporto%20Assonime%20sem plificazioni%2017%20giugno%20finale.pdf, pp. 4 ss.). D’altra parte neppure sono mancate posizioni di segno contrario, a partire dalle perplessità espresse dalla Corte dei conti in occasione della citata audizione parlamentare sul d.l. semplificazioni quando, esprimendosi sull’art. 21, co. 2, del d.l. 76/2020, ha evidenziato che l’incapacità provvedimentale della P.A. avrebbe altre cause che il regime della responsabilità, «tra i quali: la confusione legislativa, l’inadeguata preparazione professionale, l’insufficienza degli organici» (idem, pp. 9 ss.). Il tenore della disposizione, inoltre, secondo il giudice erariale potrebbe generare conflitti interpretativi e giustificare l’adozione di provvedimenti meno meditati e, perciò, potenzialmente più esposti a impugnative che finirebbero per “intasare” i ruoli della giustizia amministrativa. Ciò senza contare che la previsione di «condotte rilevanti sotto il profilo della responsabilità in un certo tempo, non più tali per un periodo definito, nuovamente rilevanti in un periodo successivo» potrebbe risultare in contrasto con il principio di legalità e i suoi corollari della irretroattività, della tassatività e della determinatezza. Anche la dottrina in sede di audizione parlamentare ha espresso delle perplessità sul secondo comma dell’art. 21 del decreto semplificazioni e, al riguardo, si rinvia in particolare ai pareri resi da S. Cimini e F. Giglioni, entrambi in www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/documenti/53158_documenti.htm. 13 Sul bisogno di un equilibrio si veda C. Cost., 11 novembre 1998, n. 371, la quale, nel vagliare disposizioni che in passato hanno introdotto limiti alla responsabilità degli agenti pubblici, ha evidenziato il bisogno di ricercare «un punto di equilibrio tale da

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3. Presupposti e specificità della responsabilità erariale

Per comprendere meglio la valenza normativa delle disposizioni introdotte con il d.l. n. 76/2020 occorre considerare che la responsabilità dei pubblici funzionari e dell’amministrazione per i danni ingiustamente causati ai cittadini è un dato acquisito e costituzionalmente sancito dall’art. 28 della Costituzione. La disciplina di tale responsabilità negli anni scorsi è andata mutando di modo che, mentre è andata pian piano estendendosi con riguardo ai beni tutelati, sono state introdotte nuove soluzioni per conciliare la domanda di giustizia dei danneggiati (privati o pubblici) con la necessità di garantire alla p.a. e ai suoi funzionari spazi entro cui agire senza incorrere in responsabilità. È così che dalla tradizionale responsabilità per fatto illecito, si è passati a riconoscere la risarcibilità dei danni conseguenti all’adozione di provvedimenti illegittimi, al mancato esercizio dell’attività amministrativa obbligatoria o al ritardo con il quale gli atti siano stati adottati14. Perché un illecito derivante dall’attività amministrativa sia imputabile all’ente e ai suoi funzionari, tuttavia, solitamente 15 è necessario che sussistano le condizioni previste dall’art. 2043 c.c., cioè che il danneggiato provi un danno e che lo stesso sia “ingiusto” e riconducibile sul piano causale a una condotta colposa o dolosa16. La giurisprudenza ha adattato tali oneri probatori alle specificità dell’azione pubblica e, per quanto riguarda l’elemento soggettivo, mentre ha ammesso che in caso di responsabilità da provvedimento illegittimo il danneggiato possa limitarsi a fornire degli indizi di colpevolezza, ha imposto all’amministrazione di provare la scusabilità del proprio errore in caso di «oggettiva oscurità, sovrabbondanza o repentino mutamento delle

rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo». 14 Sul tema cfr. M. Renna, Responsabilità della pubblica amministrazione: A) Profili sostanziali, in Enciclopedia del diritto (voce), Milano 2016, p. 800. 15 Vi sono casi in cui la responsabilità della p.a., nonostante non siano stati previamente stipulati contratti, accordi o altri atti aventi carattere negoziale, viene attratta sotto la disciplina degli artt. 1218 ss. del codice civile. Ciò avviene, ad esempio, in materia di responsabilità sanitaria avendo il legislatore stabilito che «[l]a struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose», così art. 7, co. 1, legge 8 marzo 2017, n. 24. Né mancano fattispecie cui sono applicati altri modelli di illecito. 16 Cfr. ex multis M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna 2019, pp. 290 ss.; M. D’Alberti, Lezioni di Diritto amministrativo, Torino, 2019, pp. 372 ss.

100 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 norme applicabili, oppure di verificata sussistenza di contrasti interpretativi» (Tar Lazio, Roma, 9 giugno 2020, n. 6213). Anche l’esposizione dei funzionari pubblici negli anni è stata attenuata, in primo luogo limitandone la responsabilità alle sole ipotesi in cui abbiano agito con dolo o colpa grave, così da lasciare a carico esclusivo dell’erario gli ammanchi provocati con colpa lieve17. La scelta legislativa appena menzionata ha fatto della gravità della colpa una clausola generale attraverso cui la magistratura ha potuto vagliare le posizioni soggettive in considerazione delle specificità del caso concreto18. Tale potere è stato esercitato sia dal giudice civile sia da quello contabile, al quale la legge ha pure riconosciuto la possibilità di valutare la quota di danno individualmente imputabile all’azione del singolo funzionario (art. 52, co. 2, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214)19, nonché quella di ridurre, in esito a una valutazione discrezionale ed equitativa, l’importo dovuto, «sulla base dell’intensità della colpa, intesa come grado di scostamento dalla regola che si doveva seguire nella fattispecie concreta, e di tutte le circostanze del caso»20.

17 Al riguardo si veda il combinato disposto dagli artt. 22 e 23 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3: «[l]’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo» (art. 22, co.1 ); «[è] danno ingiusto, agli effetti previsti dall’art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave» (art. 23, co. 1). Più recentemente e ampiamente si veda l’art. 1, co. 1, della legge 15 gennaio 1994, n. 20 (come modificato dal d.l. 23 ottobre 1996, n. 543 e dalla successiva legge di conversione 20 dicembre 1996, n. 639), ai sensi del quale «[l]a responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali». Cfr. anche M. Renna, Responsabilità (funzione e pubblica amministrazione), in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, vol. III, Napoli 2018, p. 1501. 18 Cfr. A. Canale, L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, in Aa.vv. (a cura di), La Corte dei conti: responsabilità, contabilità, controllo, Milano 2019, pp. 81 ss. 19 Ai sensi del quale «[l]a Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto». 20 Così C. cost., sentenza 12 giugno 2007, n. 183, la quale prosegue chiarendo che tale potere del giudice contabile «si ricava da due norme fondamentali della legge di contabilità generale dello Stato, poi ribadite in tutte le leggi successive, secondo le quali la Corte dei conti, “valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto” (art. 83, primo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440), e, quando l’azione o l’omissione è dovuta al fatto di più soggetti, “ciascuno risponde per la parte che vi ha preso” (art. 82, secondo comma, del citato regio decreto)».

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Come preannunciato, tale processo di graduale mitigazione delle responsabilità negli anni ha trovato un contrappunto nella giurisprudenza contabile, che è andata riconsiderando il novero dei beni pubblici danneggiabili, ampliandolo sino a ricomprendervi anche beni di natura non patrimoniale tra cui, per esempio, l’immagine dell’amministrazione. Ciò che più rileva in questa sede, però, è che una volta consolidatasi in dottrina e in giurisprudenza la consapevolezza che al doveroso buon andamento dell’azione amministrativa non sono estranei i risultati raggiunti e i mezzi impiegati (c.d. amministrazione di risultato)21, la Corte dei conti ha potuto considerare quale fonte autonoma di danno erariale anche le condotte e le omissioni che abbiano provocato disservizi e mancanze22. E tale posizione è poi stata consolidata dalla previsione di una specifica azione per l’efficienza, proponibile dai cittadini e dalla quale possono discendere accertamenti di responsabilità erariali, disciplinari e contrattuali23.

21 R. Ursi, Le stagioni dell’efficienza, Santarcangelo di Romagna 2016, nonché A. Romano Tassone, Sulla formula “amministrazione per risultati”, in Scritti in onore di E. Casetta, II, Napoli 2001, pp. 813 ss.; L. Iannotta, Principio di legalità e amministrazione di risultato, in V. Molaschi - C. Videtta (a cura di), Scritti in onore di Elio Casetta, Napoli 2001, pp. 741 ss.; F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Enciclopedia del diritto (VI agg.), Milano 2002, pp. 10 ss.; G. Pastori, La disciplina generale dell’azione amministrativa, 2002, in Astrid-online.it; M. Cammelli, Amministrazione di risultato, in Aa.Vv., Annuario AIPDA 2002, Milano 2003, pp. 107 ss. adesso in Id., Amministrazioni pubbliche e nuovi mondi. Scritti scelti, Bologna 2019, pp. 289 ss.; M. R. Spasiano, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino 2003; Id., Il principio di buon andamento, in M. Renna - F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano 2012, pp. 117 ss. (spec. pp. 124 ss.); M. Immordino - A Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati, Torino 2004; R. Ursi, La giuridificazione del canone dell’efficienza della pubblica amministrazione, in B. Marchetti - M. Renna (a cura di), A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana - Studi - La giuridificazione, Firenze 2017, pp. 445 ss. 22 Sul tema M. Nunziata, Azione amministrativa e danno da disservizio, Torino 2018. In giurisprudenza C. Conti, Sez. III App., sent. n. 159/2020, secondo cui il danno da disservizio «raggruppa ipotesi di danno arrecato alla funzione in termini di minore efficacia o economicità, ed è suscettibile di attrarre, oltre ai casi di maggiori risorse spese per conseguire minori risultati nell’espletamento della funzione, o di costi sostenuti per il ripristino della regolarità del servizio o della funzione, ogni altra anche non implicante una diretta diminuzione delle risorse finanziarie, purché sia tale da incidere sull’efficacia o economicità del servizio o della funzione». Sul tema si veda anche, ex plurimis, C. Conti, Sez. II App., n. 293/2019. 23 Cfr. art. 4, co. 3, del d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, per il quale la sentenza con cui sia accertata la violazione, l’omissione o l’inadempimento di funzioni o obblighi di servizio pubblici «è comunicata, dopo il passaggio in giudicato, […] alla procura regionale della Corte dei conti per i casi in cui emergono profili di responsabilità erariale, nonché agli organi preposti all’avvio del giudizio disciplinare e a quelli

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Le specificità della responsabilità erariale appena accennate 24 hanno consentito alla Corte dei conti di partecipare a proprio modo all’opera di (ri)organizzazione degli apparati pubblici, il che appare particolarmente evidente ove si consideri che le innovazioni introdotte dal giudice contabile non sono rimaste confinate nel giudizio erariale, ma hanno condizionato l’azione dell’amministrazione e dei suoi funzionari, evidentemente desiderosi di operare evitando di incorrere in responsabilità. Inoltre, hanno influenzato la giurisprudenza del giudice civile, al quale le amministrazioni possono solitamente rivolgersi – in assenza di una giurisdizione esclusiva del giudice erariale per le azioni di responsabilità – per rivalersi dei danni patiti, sia direttamente che indirettamente. Quanto precede vale per l’amministrazione nel suo complesso, perciò anche per il S.S.N. (almeno nei suoi termini generali), con riguardo al quale il tema delle responsabilità negli ultimi decenni è divenuto dirompente per la significativa conflittualità che ha accompagnato la ridefinizione dello statuto dell’attività medico-chirurgica e del rapporto terapeutico25. Lì, infatti, la sovraesposizione del personale sanitario è diventata tanto endemica da spingere il legislatore a dettare una disciplina speciale con la legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli- Bianco). La legge Gelli-Bianco non solo ha esteso l’esenzione della responsabilità per colpa lieve anche a chi esercita professioni sanitarie per le strutture private (art. 9, co. 1) 26 , ma, con riguardo ai medici del S.S.N., ha introdotto una riserva di giurisdizione erariale per le azioni di rivalsa (art. 9, co. 5, primo periodo)27, prevedendo altresì, in aggiunta agli usuali

deputati alla valutazione dei dirigenti coinvolti, per l’eventuale adozione dei provvedimenti di rispettiva competenza». 24 Sulla natura peculiare della responsabilità erariale e sulla sua portata al contempo risarcitoria e sanzionatoria si veda S. Battini, Responsabilità e responsabilizzazione dei funzionari e dipendenti pubblici, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1/2015, pp. 53 ss. 25 Sul punto sia consentito rinviare a C. Micciché, L’amministrazione della sofferenza, in Jus, 2018, pp. 339 ss. 26 Ma si veda già l’art. 2236 c.c. 27 Art. 9, co. 5: «[i]n caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’articolo 7, o dell’esercente la professione sanitaria, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo 7, l’azione di responsabilità amministrativa, per dolo o colpa grave, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria è esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei conti».

103 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 poteri riduttivi di quel giudice (ed estranei al giudice civile)28, un limite massimo agli importi azionabili in regresso (art. 9, co. 5, secondo periodo)29, benché per singolo evento e nella sola ipotesi di colpa grave (quindi non in caso di dolo)30.

28 Giudice al quale spetta tuttavia il potere di valutare equitativamente il valore del danno che non sia dimostrabile «nel suo preciso ammontare» ex art. 1226 c.c. 29 Disposizione ai sensi della quale «[a]i fini della quantificazione del danno, fermo restando quanto previsto dall’articolo 1, comma 1-bis, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e dall’articolo 52, secondo comma, del testo unico di cui al regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, si tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato. L’importo della condanna per la responsabilità amministrativa e della surrogazione di cui all’articolo 1916, primo comma, del codice civile, per singolo evento, in caso di colpa grave, non può superare una somma pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo. Per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, l’esercente la professione sanitaria, nell’ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori». 30 La disposizione mira non solo a ridefinire l’esposizione del personale medico e le conseguenti probabilità di ricorso a prassi difensive, ma anche ad attenuare il costo delle coperture assicurative traslando una parte della relativa esposizione direttamente in capo all’erario. Da notare che la limitazione generalizzata della responsabilità per colpa grave potrebbe stridere con la regola costituzionale della responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici sancita dall’art. 28 Cost. Nel sanzionare una scelta legislativa simile compiuta qualche anno fa dalla Provincia autonoma di Bolzano, la Corte costituzionale con sentenza n. 340/2001 ha chiarito, infatti, che «il limite patrimoniale della responsabilità amministrativa per colpa grave, agganciato alla metà di una annualità (al netto) del compenso o stipendio complessivo, si risolve in un ulteriore contrasto con i principi dell’ordinamento. Infatti, nel sistema la attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, è rimessa al potere riduttivo sul quantum affidato al giudice, che può anche tenere conto delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, al livello della responsabilità e del danno effettivamente cagionato. In contrasto con questi principi dell’ordinamento ed assolutamente irragionevole è, invece, una riduzione predeterminata ed automatica della responsabilità amministrativa per colpa grave, sotto il profilo quantitativo patrimoniale, attraverso l’aggancio, come limite massimo, alla metà dello stipendio annuo o del compenso (che può anche essere esiguo), senza che possa soccorrere una valutazione sul comportamento complessivo e sulle funzioni effettivamente svolte, nella produzione del danno, in occasione della prestazione che ha dato luogo alla responsabilità» (diritto § 6). Tale argomentazione, di per sé pertinente anche con riguardo alla scelta da ultima realizzata dal legislatore, potrebbe tuttavia ritenersi superata dal fatto che la soluzione introdotta dalla legge Gelli-Bianco si inserisce all’interno di una cornice più ampia nella quale la limitazione della responsabilità patrimoniale, mentre serve a garantire la funzionalità e sostenibilità del sistema sanitario, è accompagnata dalla previsione a carico dei medici delle sanzioni non patrimoniali di cui all’art. 9, co. 3, ai sensi del quale «Per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della

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In definitiva, l’attuale normativa in materia di responsabilità erariale è tale che i funzionari pubblici rispondono sempre e senza alcuna possibilità di riduzione del risarcimento dovuto quando si provi che abbiano agito con dolo, da intendersi adesso – si vedrà se stabilmente o solo interinalmente – quale volontà sia della condotta sia dell’evento dannoso. Per le ipotesi di danneggiamento colposo, invece, ferma l’usuale esenzione della colpa lieve, per i fatti avvenuti tra il 17 luglio 2020 e il 31 dicembre 2021 sarà possibile agire in rivalsa per i soli danni cagionati omettendo di compiere quanto era doveroso o restando inerti, mentre dovrebbero essere sostanzialmente mutualizzati i danni arrecati agendo con colpa grave. Tale nuova esenzione dalla responsabilità per colpa grave parrebbe applicabile sia ai giudizi promossi dalla Procura erariale innanzi al giudice contabile, sia quando l’azione sia esercitata direttamente dalla p.a. dinanzi al giudice civile31, ciò evidentemente per le professionalità che non beneficino della riserva di giurisdizione erariale (i.e. gli esercenti la professione sanitaria).

4. Era davvero necessario rinunciare alla responsabilità per colpa grave? Riflessioni in tema di incostituzionalità, possibile inefficacia e non necessità della disposizione derogatoria

domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, l’esercente la professione sanitaria, nell’ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori». 31 Sull’indipendenza che regola i rapporti tra giurisdizione contabile e civile si veda Cass. Civ., Sez. un., ord. 4 ottobre 2019, n. 24859, secondo cui «[è] ius receptum che l’azione di responsabilità per danno erariale e quella con la quale le amministrazioni interessate possono promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali». Secondo la suprema Corte, quindi, deve negarsi che in materia di danno recato alla amministrazione pubblica vi sia una giurisdizione esclusiva della Corte dei conti «mentre va riconosciuta la coesistenza di diverse azioni di natura risarcitoria, che possono essere esercitate anche contestualmente, purchè ciò non determini una duplicazione del risarcimento del danno, in quanto allora si realizzerebbe la violazione del principio del ne bis in idem: una volta ottenuto l'integrale risarcimento del danno, si porrà il problema della proponibilità o della prosecuzione dell'altra azione che, evidentemente, sarà priva di interesse, avendo l'amministrazione già conseguito integralmente il ristoro dei danni subiti (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 16 marzo 2017, n. 35205, imp. Mineo)».

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Nonostante il legislatore abbia convertito in legge l’art. 21 del d.l. n. 76/2020, la necessità e la reale efficacia della limitazione di responsabilità introdotta dal secondo comma di quella disposizione sono tutt’altro che scontate, come pure la sua legittimità costituzionale. Sulla costituzionalità della disposizione non è qui possibile soffermarsi, ché la questione è delicata e meriterebbe di essere approfondita autonomamente. Cionondimeno non ci si può esimere dall’evidenziare che la norma, laddove sottrae, seppur in via temporanea e sperimentale, tutti i funzionari pubblici a una parte delle proprie responsabilità civili ed erariali sembra alterare – sebbene solo in parte 32 – il sistema di responsabilità stabilito dall’art. 28 della Carta 33 . Ciò, peraltro, introducendo una disparità di trattamento tra quanti potrebbero aver commesso errori nelle fasi più convulse dell’emergenza (che restano soggetti alla responsabilità per colpa grave) e quanti hanno agito a partire dal 17 luglio 2020. Per quanto concerne invece l’efficacia dell’art. 21 del d.l. n. 76/2020, si è detto in precedenza come la Corte dei conti fin dalle prime pronunce stia operando per circoscriverne la portata sino a forzare il dato letterale della disposizione per riferire la limitazione temporale prevista dal secondo comma (per l’esenzione degli illeciti colposi) anche alla norma introdotta dal primo comma (onere probatorio in tema di dolo). A fronte di ciò, considerato che la definizione del confine tra dolo e colpa non sempre è netto (basti pensare alla difficoltà di distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente), non può escludersi che la novella in commento possa indurre la magistratura a ricercare gli estremi del dolo là dove prima ci si sarebbe accontentati di contestare la sola colpa grave. Il che avrebbe l’effetto paradossale di aggravare la posizione dei funzionari responsabili,

32 Circa gli effetti della temporanea rimodulazione del regime delle responsabilità dei funzionari si veda A. Pajno, Il sistema amministrativo e il decreto semplificazioni, cit., secondo cui «[l]’art. 21, c. 2, del decreto esclude infatti espressamente che la limitazione della responsabilità ai casi di dolo operi con riferimento ai danni cagionati da omissione o inerzia. Val quanto dire che la responsabilità per colpa grave permane con riferimento alle attività omissive e, più in generale, all’inerzia del funzionario, mentre per gli eventuali danni connessi ad una attività positiva dell’agente è prevista una responsabilità operante solo in caso di dolo». 33 Sul punto cfr. M. Perin, Le modifiche (o soppressione) della responsabilità amministrativa per colpa grave. Saranno utili? Probabilmente no, in Lexitalia, 2020. Al riguardo si veda, però, anche C. Cost., 20 novembre 1998, n. 371, secondo cui «[n]on v’è […] alcun motivo di dubitare che il legislatore sia arbitro di stabilire non solo quali comportamenti possano costituire titolo di responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia richiesto ed a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile (sentenza n. 411 del 1988), senza limiti o condizionamenti che non siano quelli della non irragionevolezza e non arbitrarietà».

106 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 perché allora, in sede di rivalsa, non potrebbero beneficiare né del potere riduttivo del giudice contabile, né dell’esclusione della solidarietà passiva prevista dall’art. 1, co. 1-quinquies della legge 14 gennaio 1994, n. 20. Infine, va pure considerato che l’intervento legislativo, al netto della volontà di sperimentare nuove soluzioni per assicurare un più efficace «bilanciamento tra stimolo e disincentivo ad agire, tra responsabilità e responsabilizzazione dei funzionari» 34 , avrebbe potuto tentare strade diverse per arginare la “paura della firma”. L’attività degli amministratori pubblici, infatti, soprattutto se si guarda alla posizione di chi ha operato per fronteggiare l’attuale situazione emergenziale, avrebbe potuto essere scriminata e andare esente da responsabilità apprezzando – e stabilendo per legge che dovesse esserlo – quegli elementi che solitamente scusano l’errore ed escludono l’imputabilità soggettiva dell’illecito. Tanto con riguardo alle azioni promosse contro l’amministrazione, quanto per quelle intentate contro i funzionari, infatti, è pacifico in giurisprudenza che la colpevolezza di questi soggetti è condizionata dalle situazioni concrete nelle quali hanno operato, spettando al giudice di valutare di volta in volta l’incidenza di fattori come l’imprevedibilità della situazione affrontata, l’incertezza scientifica dei fenomeni da governare, oppure la scarsità di personale o di mezzi, in applicazione del tradizionale principio per cui ad impossibilia nemo tenetur35. D’altra parte, neppure va dimenticato che la risarcibilità dei danni arrecati dall’amministrazione e dai suoi funzionari è autonoma dal merito degli atti, che resta generalmente sottratto alla conoscibilità dei giudici. Il che, se è vero in generale, lo è ancor di più quando si abbia a che fare con atti amministrativi che sono ispirati al principio di precauzione – come molti tra quelli adottati per il governo della pandemia – e che per questo si reggono per definizione su valutazioni discrezionali che mirano a rintracciare soluzioni per problemi dai contorni indefiniti, in quanto connessi a situazioni di rischio connotate da incertezza.

34 A. Pajno, Il sistema amministrativo e il decreto semplificazioni, cit. Sul tema delle riforme necessarie si veda dello stesso Autore anche Emergenza e ripartenza. La questione amministrativa dopo la pandemia, in Astrid-online.it, Rassegna, 10/2020. 35 Circa le ipotesi di responsabilità contrattuale delle strutture sanitarie si veda L. Guffanti Pesenti, Responsabilità sanitaria e pandemia: profili civilistici, in Jus online, 5/2020, p. 79, secondo cui «l’epidemia non vale di per sé, pur nella sua straordinarietà, a escludere a priori qualsivoglia responsabilità delle strutture sanitarie: trattandosi di verificare caso per caso le caratteristiche dell’attività tipicamente svolta da ciascuna e il rischio ad essa connesso, al fine di determinare di quali eventi la singola struttura non solo non avrebbe potuto, ma nemmeno avrebbe dovuto, impedire l’accadimento».

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Un’incertezza che, per essere governata, ha imposto l’adozione di misure più o meno atipiche36, ma anche di individuare entro i mutevoli scenari epidemiologici il livello di rischio di tempo in tempo accettabile dalla società, compiendo scelte dal contenuto altamente discrezionale. Si pensi in tal senso alle decisioni (anche di non provvedere) riguardanti la delimitazione delle c.d. “zone rosse” o la determinazione degli orari di chiusura degli esercizi commerciali, ma anche agli atti con cui tali limitazioni sono state attenuate o eliminate. Si tratta di decisioni volte a trovare un punto di equilibrio tra valori e interessi contrapposti (vita, salute individuale e collettiva, continuità dei servizi essenziali e degli approvvigionamenti, tenuta del sistema produttivo e fiscale, ecc.), nonché a introdurre fattori utili a garantire una qualche certezza giuridica per la qualificazione delle azioni individuali e d’impresa nel turbinio confuso e incerto degli eventi. Ebbene, proprio l’indisponibilità di punti di riferimento oggettivi ha attribuito agli organi di governo statali e regionali una discrezionalità più ampia del solito, tale da rendere gli atti che contengono quelle scelte, benché solo in parte qua, espressione quanto meno di alta amministrazione37. Ciò dovrebbe sottrarre quelle scelte a un sindacato giudiziario particolarmente penetrante, con conseguente limitazione delle possibili occasioni di responsabilità patrimoniale. Soggiaceranno invece ai consueti e più significativi poteri di controllo giudiziario le ulteriori prescrizioni che siano espressive di discrezionalità sia amministrativa che tecnica.

36 Cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. I quater, 22 luglio 2020, n. 8615. 37 Circa l’atto di alta amministrazione si veda Cons. Stato, Sez. IV, 29 novembre 2018, n. 6373, per il quale si tratta di atti espressione «di un esercizio di potere caratterizzato da ampia discrezionalità, la quale non si esplica solo nella valutazione dell’interesse pubblico con riferimento al caso concreto, bensì anche con riferimento alla comparazione e graduazione di una pluralità di interessi pubblici, anche eventualmente confliggenti. Ciò comporta che, se l’ampiezza del potere discrezionale conferito certamente non consente all’organo amministrativo di violare disposizioni di legge e non sottrae l’atto adottato al sindacato giurisdizionale nei limiti dell’eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e difetto di motivazione, nondimeno il profilo di valutazione, comparazione e graduazione degli interessi coinvolti risulta assoggettato ad un sindacato ancor più ristretto, poiché tale profilo costituisce la ragione stessa dell’attribuzione del potere all’organo “Consiglio dei Ministri” e, per l’esigenza stessa del conferimento, comporta necessariamente una scelta che non può che determinare un “sacrificio” di uno o più interessi pubblici. È, dunque, nella considerazione di quanto evidenziato che può esercitarsi il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo e, correlativamente, può essere (eventualmente) individuato il vizio di eccesso di potere».

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Quanto precede introduce l’ultima parte di queste brevi riflessioni sulla responsabilità amministrativa ai tempi del Covid, perché rinvia al rapporto tra amministrazione attiva e apporti consultivi degli organismi a carattere tecnico scientifico.

5. La responsabilità nel prisma della complessità tecnico- scientifica

La gestione della pandemia ha imposto a tutti i soggetti coinvolti nel governo dell’emergenza sanitaria di fare riferimento a valutazioni tecniche sia per l’interpretazione di quanto stava avvenendo, sia per la definizione delle conseguenti misure e per la loro attuazione38. Valutazioni tecniche, infatti, stanno alla base della stessa dichiarazione dello stato di emergenza fatta dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020, la quale riposa (i) sulla dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica disposta il 30 gennaio 2020 dal Direttore Generale dell’OMS sentito il parere dell’IHR Emergency Committee39 e (ii) sulla richiesta di dichiarazione proveniente dal Ministro della salute, sentiti i propri organi tecnici. Né avrebbe potuto essere altrimenti, considerato che la corrispondenza alla realtà è condizione di ragionevolezza delle scelte e, perciò, di legittimità. Ciò vale per le scelte amministrative che siano espressione di discrezionalità tecnica, ma anche per quelle normative, dato che neppure la discrezionalità politica sfugge al dovere di aderire alla realtà e, perciò, alle evidenze scientifiche, come d’altra parte ha riconosciuto in più occasioni la Corte Costituzionale40.

38 Sul rapporto fra diritto e tecnica cfr. ex plurimis A. Iannuzzi, Il diritto capovolto. Regolazione a contenuto tecnico-scientifico e Costituzione, Napoli 2018; E. Cheli, Scienza, tecnica e diritto: dal modello costituzionale agli indirizzi della giurisprudenza costituzionale, in Rivista AIC, 1/2017; C. Casonato, La scienza come parametro interposto di costituzionalità, in Rivista AIC, 2/2016; S. Penasa, Nuove dimensioni della ragionevolezza? La ragionevolezza scientifica come parametro della discrezionalità legislativa in ambito medico-scientifico, in forumcostituzionale.it, 2014; N. Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Napoli 2007. 39 Per la composizione di questo comitato si veda https://www.who.int/groups/covid- 19-ihr-emergency-committee. 40 La Corte costituzionale ha più volte ricordato che gli interventi legislativi riguardanti materie a rilevanza tecnico-scientifica non possono prescindere dalla previa verifica dello stato delle conoscenze nell’ambito della comunità scientifica. Sul punto cfr. C. Cost. nn. 185/1998, 282/2002, 151/2009, 162/2014, 274/2014, 5/2018. In dottrina L. Del Corona, Le decisioni pubbliche ai tempi del Coronavirus: la tutela dei diritti tra fondatezza scientifica, trasparenza e principio di precauzione, in BioLaw Journal, 1/2020, 71; D. Servetti, Brevi considerazioni sulla rilevanza di un supporto tecnico-

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Non stupisce, allora, che uno dei primi atti per la gestione dell’emergenza sia consistito nell’istituire un Comitato tecnico-scientifico (C.T.S.) 41 a supporto dell’autorità nazionale di protezione civile, il quale, almeno nella sua composizione necessaria, assomiglia molto a una conferenza di servizi permanente, essendo composto dai dirigenti degli uffici sanitari più direttamente coinvolti 42 . Inoltre comitati tecnico-scientifici sono stati istituiti dalle amministrazioni regionali a supporto delle proprie attività43. Il fatto che simili organismi siano stati associati all’amministrazione dell’attuale situazione ha importanti conseguenze. In primo luogo perché, come si è anticipato, l’adesione o meno alle indicazioni fornite dai tecnici sarà un parametro di legittimità degli atti di amministrazione attiva che abbiano fatto uso di discrezionalità pura e tecnica. Il che non significa certo che l’amministrazione dovrebbe seguire pedissequamente le indicazioni dei tecnici, quanto piuttosto che nel decidere dovrà valutare ragionevolmente gli elementi messi a sua disposizione, adottando misure proporzionate, adeguate e improntate al principio di buon andamento44. scientifico al controllo parlamentare, in G. Grasso (a cura di), Il Governo: tra tecnica e politica, Atti del seminario annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”. Como 20 novembre 2015, Napoli 2016, p. 167; C. Micciché, L’amministrazione della sofferenza, cit., pp. 361 ss. 41 Cfr. Ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione civile n. 630 del 3 febbraio 2020 (Primi interventi urgenti di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili). L’ordinanza è poi stata attuata con decreto di quello stesso dirigente n. 371 del 5 febbraio 2020. 42 La composizione necessaria del C.T.S. prevede la partecipazione del Segretario Generale del Ministero della salute, del Direttore generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute, del Direttore dell’Ufficio di coordinamento degli Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del Ministero della salute, del Direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, del Presidente dell’lstituto superiore di sanità, di un componente tecnico designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome, del Direttore dell’Ufficio V della Direzione generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute e del Coordinatore del Servizio risorse sanitarie dell’Ufficio I del Dipartimento della protezione civile, tutti coordinati dal Coordinatore dell’Ufficio promozione e integrazione del Servizio nazionale della protezione civile. Ai sensi dell’art. 3 del decreto istitutivo «possono essere invitati a partecipare alle riunioni qualificati esperti del settore, tenuto conto delle specifiche esigenze». 43 La circostanza che le amministrazioni abbiano fatto ricorso all’istituzione di comitati tecnici ad hoc è significativa, perché sintomatica dell’inadeguatezza delle strutture ordinarie e pone problemi di imparzialità e neutralità scientifica per i quali si rimanda a A. Iannuzzi, Leggi “scince driven” e CoViD-19. Il rapporto fra politica e scienza nello stato di emergenza sanitaria, in BioLaw Journal, 1/2020, p. 119. 44 Cfr. F. De Leonardis, Il principio di precauzione, in M. Renna - F. Saitta (a cura di), Studio sui principi di diritto amministrativo, cit., p. 430.

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Occorre poi considerare che l’attività consultiva dei comitati tecnici e dei suoi esperti sarà a sua volta autonomamente sindacabile e potrà diventare causa di responsabilità civile ed amministrativa laddove si provi l’inattendibilità scientifica delle valutazioni rese 45 , ciò in quanto discrezionalità tecnica non è certo arbitrio specialistico46. È questo un aspetto particolarmente delicato. Dinanzi all’opinabilità delle valutazioni tecniche e alle conseguenti inevitabili divergenze tra gli stessi studiosi, la possibilità di agire perché sia verificata la scientificità e l’indipendenza delle valutazioni rese dagli esperti è una questione non solo di legittimità degli atti e di conseguente possibile responsabilità, ma di democrazia. La democraticità dell’ordinamento, infatti, impone anche – e soprattutto – in queste fasi difficili che i processi decisionali siano trasparenti e controllabili dai cittadini47. Un’esigenza, questa, che nei mesi scorsi si è tenuta in scarsa considerazione ed è stata anzi svilita al punto che, mentre si ricorreva a strumenti estranei al controllo parlamentare e sottratti a qualsiasi apporto partecipativo, si è perfino negata con pervicacia

45 Sulla sindacabilità degli atti espressivi di discrezionalità tecnica si veda Cons. St, Sez. IV, sent. 9 aprile 1999, n. 601 e più recentemente Cons. Stato, Sez. VI, 23 febbraio 2017, n. 856, secondo cui le valutazioni caratterizzate da ampia discrezionalità tecnico- valutativa possono essere sindacate «esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, fermo restando però il limite della relatività delle valutazioni compiute sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile». 46 Ex plurimis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645. Sul tema delle valutazioni tecniche e della loro sindacabilità si vedano, tra gli altri e senza pretese di esaustività, S. Torricelli, Per un modello generale di sindacato sulle valutazioni tecniche: il curioso caso degli atti delle autorità indipendenti, in Diritto Amministrativo, 1/2020, pp. 97 ss.; G. Clemente di San Luca, Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in materia ambientale, in Giustamm, 2016; G. Sigismondi, Il sindacato sulle valutazioni tecniche nella pratica delle Corti, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2015, pp. 705 ss.; G. De Rosa, La discrezionalità tecnica: natura e sindacabilità da parte del giudice amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2013, p. 513; M. Delsignore, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, in Diritto processuale amministrativo, 1/2000, pp. 185 ss.; D. de Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova 1995; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano 1985. 47 Trasparenza e controllabilità sono peraltro corollari diretti del principio di precauzione e in altri ordinamenti hanno trovato spazio già nelle leggi istitutive degli organi di consulenza. È così, ad esempio, per gli avis del Conseil scientifique istituito in Francia con legge n. 2020-290 del 23 marzo 2020, i quali «sont rendus publics sans délai» ai sensi dell’art. 3131-19 du code de la santé publique.

111 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 l’accessibilità ai pareri resi dal C.T.S. e, perciò, la possibilità di controllare la legittimità sostanziale dell’operato del Governo. Il che è risultato illegittimo48 e potenzialmente lesivo.

6. Conclusioni

L’economia di questa breve nota non consente di approfondire ulteriormente i temi coinvolti. Quanto detto dovrebbe tuttavia essere sufficiente per comprendere il quadro generale nel quale collocare il tema della responsabilità erariale dei funzionari pubblici in questo momento storico. Un quadro nel quale la dimensione organizzativa e le funzioni di pianificazione strategica dei servizi assumono chiaramente un ruolo determinante e sulle quali sarà necessario indagare per valutare se è stato fatto tutto il possibile perché il sistema amministrativo fosse pronto ad affrontare gli eventi di questi mesi. Ciò, si badi, non solo nell’ottica di accertare le responsabilità individuali per quanto è stato fatto oppure omesso, ma anche per far tesoro dell’esperienza di questi giorni, avviando quelle riforme istituzionali, amministrative e, ancor prima, culturali attese da tempo49 e da cui dipende la costruzione di un sistema capace di mantenersi autenticamente democratico anche in momenti tanto eccezionali per la Repubblica come sono quelli che stiamo attraversando a causa di un invisibile virus.

Abstract: The essay focuses on the legal system of administration's responsibility in Italy during Covid-19. To mitigate the fear of pubblic servants and solicit their activism in support of the economy, the Legislator with the d.l. n. 76/2020 introduced experimental rules on liability. In particular, with the art. 21 of the decree, the liability for negligence, even gross, for the acts acting until the december 2021 was excluded. The paper examines this new discipline looking at the peculiarities of the health system and responsibilities of technical and consultative body.

Key words: Covid, liability, fiscal damage, negligence.

48 Sul punto si veda T.a.r. Lazio, Roma, Sez. I quater, 22 luglio 2020, n. 8615 e poi Cons. St., Sez. III, 11 settembre 2020, n. 8426. 49 Per un esame lucido e allo stesso tempo profetico della situazione attuale si rinvia a A. Travi, Le riforme che servono alla Repubblica, cit., pp. 63 ss.

112 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

CHIARA MARENGHI Ricercatrice in Diritto dell’Unione europea, Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano

Direttiva sul whistleblowing e ordinamento italiano: qualche riflessione in vista dell’attuazione

English title: The whistleblowing directive and the Italian legal order: some considerations in view of the implementation DOI: 10.26350/18277942_000011

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Ratio e obiettivi del whistleblowing nell’ordinamento europeo e nazionale: la diversa concezione dell’istituto. – 3. Direttiva europea e Testo unico sul pubblico impiego a confronto: ambito di applicazione personale. – 4. (Segue): segnalazioni meritevoli di tutela. – 5. (Segue): canali di segnalazione e divulgazioni al pubblico. – 6. Impatto della direttiva sulla normativa nazionale e opportunità da cogliere in sede di attuazione.

1. Introduzione

Ruolo di primo piano tra gli strumenti di contrasto alle condotte di corruzione individuati da norme internazionali di hard e soft law è ormai riconosciuto al c.d. whistleblowing, istituto mutuato dalla tradizione anglosassone, che intende favorire l’emersione tempestiva di illeciti o irregolarità grazie a una forma di controllo interno privilegiato, la segnalazione di coloro che prestano la propria attività lavorativa nell’ambito dell’ente1. Tra i testi vincolanti conclusi in materia vengono in rilievo la Convenzione civile sulla corruzione stipulata nel quadro del

 Il contributo, sottoposto a double blind peer review, è destinato al Rapporto sull’innovazione nelle Politiche Pubbliche, a cura di B. Boschetti ed E. Vendramini, pubblicazione realizzata nell’ambito del progetto Osservatorio FuturAP, laboratorio dell’Università Cattolica S.C. dedicato al futuro e all’innovazione delle politiche pubbliche. 1 Su questo tema si veda in generale, anche per ulteriori riferimenti, R. Lattanzi, Prime riflessioni sul c.d. whistleblowing: un modello da replicare a occhi chiusi?, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2 (2010), pp. 335 ss.; G. Fraschini - N. Parisi - D. Rinoldi, Il whistleblowing. Nuovo strumento di lotta alla corruzione, Acireale-Roma 2011.

VP VITA E PENSIERO

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Consiglio d’Europa 2 e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione3. Questa concezione tradizionale dell’istituto è stata più recentemente affiancata da una visione più ampia che considera il whistleblowing nella prospettiva dei diritti fondamentali 4 . Un contributo determinante all’affermazione di questo approccio viene dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, a partire dal leading case Guja contro Moldavia del 2008, ha inquadrato la divulgazione di illeciti o irregolarità appresi sul posto di lavoro tra le forme di libertà d’espressione tutelate ai sensi dell’art. 10 CEDU5. Una sintesi delle due impostazioni testé menzionate si rinviene nei lavori del Consiglio d’Europa che, a partire dal 2010, ha sviluppato una strategia per garantire una protezione efficace dei whistleblower in seno all’Organizzazione e all’interno degli Stati membri. Nella Raccomandazione 2014(7) del Comitato dei Ministri il whistleblowing viene concepito come un aspetto fondamentale della libertà di espressione e di coscienza, ma si riconosce al contempo l’importanza dell’istituto nella lotta alla corruzione e la sua idoneità a promuovere la trasparenza, la buona amministrazione e il controllo democratico6. Nel solco di questa evoluzione si colloca la direttiva (UE) 2019/1937 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione, adottata da Parlamento europeo e Consiglio il 23

2 La Convenzione civile sulla corruzione è stata aperta alla firma il 4 novembre 1999 ed è entrata internazionalmente in vigore il 1° novembre 2003. Per l’Italia l’entrata in vigore risale al 1° ottobre 2013. 3 La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione è stata aperta alla firma a Merida il 9 dicembre 2003 ed è entrata internazionalmente in vigore il 14 dicembre 2005, mentre per l’Italia il 9 ottobre 2009. 4 Su whistleblowing e diritti dell’uomo si vedano i contributi di J.-F. Keléo, N. Klausser, J.-P. Foegle, I. Kampourakis, J. Marchand, R. Mignot-Mahdavi, M. Larché, C. Lavite, V. Champeil-Desplats, E. Paillissé, T. Racho, M. Beulay, B. Fasterling, J. Schwarz Miralles, S. Kaddour, K. Ben Kahla-K. Ben Mansour-S. Charreire-Petit, C.Teitgen-Colly, P. Abadie, D. Lochak, pubblicati nel Dossier thématique dedicato a Les lanceurs d’alerte et les droits de l’homme in La Revue des droit de l’homme en ligne (revdh.revues.org), 10 (2016). 5 C.E.D.U., sent. 12 febbraio 2008, Guja contro Moldavia (n. 14277/04). Per un commento v. V. Junod, La liberté d’expression du whistleblower, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, vol. 77 (2009), pp. 227 ss. Per quanto riguarda la giurisprudenza successiva v. ad es. C.E.D.U., sent. 21 luglio 2012, Heinisch contro Germania (n. 14277/04); sent. 8 gennaio 2013, Bucur e Toma contro Romania (n. 40238/02); sent. 21 ottobre 2014, Matùz contro Ungheria (n. 73571/10); sent. 9 febbraio 2018, Catalan contro Romania (n. 13003/04). 6 Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Raccomandazione 2014(7) del 30 aprile 2014, corredata da una relazione esplicativa, d’ora in poi in nota CM/Rec 2014(7).

114 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ottobre 20197. L’atto si ispira espressamente alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla libertà d’espressione e ai principi elaborati nella Raccomandazione 2014(7), ma introduce altresì novità che rappresentano un passo avanti nella tutela dei whistleblower8. In linea con questa impostazione, la direttiva stabilisce un insieme equilibrato di «norme minime comuni volte a garantire un elevato livello di protezione» degli informatori nell’ambito del mercato interno 9. Analogamente, gli Stati sono liberi di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alle persone segnalanti10 e non possono ridurre il livello di protezione già offerto nei settori in cui si applica la direttiva11. Nel nostro ordinamento una prima disciplina del whistleblowing è stata introdotta con la legge n. 190 del 2012 (c.d. legge Severino), che ha inserito nel Testo unico sul pubblico impiego12 una disposizione dedicata alla «tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti», l’art. 54-bis, in parziale adempimento degli obblighi assunti a livello internazionale. Dal momento della sua introduzione, la normativa italiana ha subito notevoli trasformazioni. Prima sono intervenuti il d.l. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 114 del 2014, e il d.lgs. 97/2016. Più recentemente, è stata adottata la legge n. 179 del 2017, prima normativa nazionale esclusivamente dedicata al whistleblowing, che ha interamente riscritto l’art. 54-bis, oltre a prevedere una prima parziale tutela per il segnalante nel settore privato13.

7 Direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione, in GUUE L 305 del 26 novembre 2019, pp. 17 ss. Per una panoramica sul contenuto della direttiva v. E. Andreis, Towards Common Minimum Standards for Whistleblower Protection Across the EU, in European Papers (europeanpapers.eu), 4 (2019), pp. 575 ss.; A. Della Bella, La direttiva europea sul whistleblowing: come cambia la tutela per chi segnala illeciti nel contesto lavorativo, in Sistema penale (sistemapenale.it), 6 dicembre 2019. 8 Per un approfondimento di questo profilo sia consentito rinviare a C. Marenghi, Whistleblower, «chi è costui?» Riflessioni sul perimetro della tutela alla luce della direttiva (UE) n. 2019/1937 e delle fonti cui essa si ispira, in Diritto Comunitario e degli Scambi Internazionali, 3-4 (2019), pp. 467 ss. 9 Art. 1 della direttiva. 10 Cfr. art. 25, par. 1 della direttiva. 11 Cfr. art. 25, par. 2 della direttiva. 12 D.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, d’ora in poi in nota T.U.P.I. 13 Sulla disciplina italiana v., inter alia, A. Marcias, La disciplina del whistleblowing tra prospettive di riforma e funzioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, in I.A. Nicotra (a cura di), L’Autorità Nazionale Anticorruzione, Torino 2016, pp. 173 ss.; G. Gargano, La “cultura del whistleblower” quale strumento di emersione dei profili decisionali della pubblica amministrazione, in Federalismi.it, 1 (2016), pp. 2 ss.; G. Massari, Il whistleblowing all’italiana: l’evoluzione del modello sino alla legge n. 179

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L’attuazione della direttiva, alla quale gli Stati membri devono provvedere entro il 17 dicembre 202114, è destinata ad incidere profondamente sul quadro normativo interno15. Nel presente contributo verranno analizzati in parallelo alcuni aspetti chiave delle due discipline, concentrando l’attenzione – per quanto riguarda il piano nazionale – sulla tutela garantita al whistleblower nel settore pubblico. Attraverso questa sintetica analisi, si intende mettere in luce l’impostazione di fondo che il legislatore italiano dovrebbe seguire in sede di attuazione e le opportunità da cogliere per assicurare che l’istituto sia regolato secondo «a comprehensive and coherent approach to facilitating public interest reporting and disclosures»16, come auspicato dal Consiglio d’Europa.

2. Ratio e obiettivi del whistleblowing nell’ordinamento europeo e nazionale: la diversa concezione dell’istituto

Nell’ottica del legislatore europeo, la protezione degli informatori è funzionale al raggiungimento di una serie di obiettivi centrali per l’ordinamento dell’Unione. Scopo dichiarato della direttiva è innanzitutto quello di «rafforzare l’applicazione del diritto e delle politiche dell’Unione in specifici settori»17. Una solida protezione degli informatori può infatti contribuire al buon funzionamento del mercato interno, anche in termini di miglioramento del contesto imprenditoriale, equità fiscale e promozione dei diritti dei lavoratori.

del 2017, in Studium Iuris, 9 (2018), pp. 981 ss.; N. Parisi, Osservazioni a prima lettura sulla legge n. 179/2017 di tutela del whistleblower, in Lavoro Diritti Europa (lavorodirittieuropa.it), 1 (2018); A. Riccio, La tutela del lavoratore che segnala illeciti dopo la l. n. 179 del 2017. Una prima lettura giuslavoristica, in Amministrazione in cammino (amministrazioneincammino.luiss.it), 26 marzo 2018; R. Cantone, Il dipendente pubblico che segnala illeciti. Un primo bilancio sulla riforma del 2017, in Sistema penale (sistemapenale.it), 29 giugno 2020; D.-U. Galetta - P. Provenzano, La disciplina italiana del whistleblowing come strumento di prevenzione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione: luci e (soprattutto) ombre, in Federalismi.it, 18 (2020), pp. 112 ss. 14 Cfr. art. 26, par. 1 della direttiva. 15 Sul punto si vedano M. Magri, Il whistleblowing nella prospettiva di una disciplina europea armonizzata: la legge n. 179 del 2017 sarà (a breve) da riscrivere?, in Federalismi.it, 18 (2019), pp. 2 ss.; P. Novaro, Principali criticità della disciplina italiana in materia di whistleblowing alla luce della nuova direttiva europea: limitato campo di applicazione e scarsi incentivi, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 5 (2019), pp. 737 ss. 16 CM/Rec 2014(7), Principio 7. 17 Art. 1 della direttiva.

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Chi lavora in un’organizzazione pubblica o privata o entra in contatto con essa nello svolgimento della propria attività lavorativa si trova in una posizione privilegiata per informare tempestivamente chi è in grado di risolvere il problema. In tal modo il whistleblower contribuisce a prevenire danni e ad individuare minacce o pregiudizi al pubblico interesse che altrimenti non verrebbero alla luce, rafforzando «i principi di trasparenza e responsabilità»18. L’informatore viene quindi chiamato a contribuire ad una gestione delle politiche europee più efficace e più democratica, in linea con il ruolo centrale riconosciuto all’individuo nell’ordinamento dell’Unione. Inoltre, coloro che segnalano minacce o pregiudizi al pubblico interesse appresi sul posto di lavoro, mentre contribuiscono alla salvaguardia del benessere della società 19 , esercitano il proprio diritto alla libertà di espressione, sancito dall’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oltre che dall’art. 10 CEDU20. Tale diritto viene in rilievo nella sua dimensione attiva di diffusione delle informazioni di cui il whistleblower è entrato in possesso, ma anche come libertà dei consociati di ricevere informazioni21. Più tradizionale e circoscritta è invece l’ottica del legislatore nazionale, che colloca la protezione del whistleblower nell’ambito delle politiche di contrasto della corruzione, in linea con le convenzioni internazionali concluse in materia. La prima «embrionale, se non simbolica» 22 disciplina dell’istituto viene infatti introdotta dalla c.d. Legge Severino, che ha il pregio di definire per la prima volta nell’ambito del nostro ordinamento i contorni della politica di prevenzione della corruzione, secondo una prospettiva che considera indispensabile la sinergia tra

18 Considerando (2) della direttiva. 19 Cfr. considerando (1) della direttiva. 20 Cfr. considerando (31) della direttiva. 21 Nella relazione che accompagna la proposta la Commissione sottolinea come una tutela insufficiente degli informatori «incid[a] negativamente sulla libertà di espressione delle persone, sul diritto del pubblico di accedere alle informazioni e sulla libertà dei mezzi di comunicazione», COM(2018) 218 final, p. 11. Più in generale, la direttiva intende scoraggiare qualsiasi violazione dei diritti fondamentali nei settori che rientrano nel suo ambito di applicazione. Secondo la Commissione, accanto alla libertà di espressione e informazione, la direttiva è destinata ad avere un impatto positivo, tra l’altro, sul diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque, sul rispetto della vita privata e sulla protezione dei dati personali, sulla tutela dell’ambiente, sulla protezione dei consumatori e sul diritto ad una buona amministrazione. Inoltre, in linea con l’approccio equilibrato perseguito, si vuole garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte. 22 B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione in Italia, in Giornale di diritto amministrativo, 2 (2013), pp. 123 ss., a p. 132.

117 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 strumenti penali e strumenti amministrativi al fine di contrastare in maniera efficace un fenomeno sistemico e multidimensionale23. La successiva evoluzione dell’istituto, pur ampliando la prospettiva iniziale, non modifica la logica con cui viene concepito il whistleblowing nel nostro ordinamento, che è essenzialmente quella di «dare corpo a un controllo diffuso esercitato entro l’ambiente di lavoro dal cittadino, che diventa parte attiva di un processo di promozione dell’integrità dell’ente di appartenenza»24. Si tratta quindi di una visione government oriented, secondo la quale il whistleblowing è strumento di governance, funzionale a far emergere condotte illecite o irregolarità. Pare invece estranea alla normativa interna la prospettiva human rights oriented, secondo la quale il segnalante è meritevole di tutela in quanto portatore del diritto fondamentale alla libertà di espressione25.

3. Direttiva europea e Testo unico sul pubblico impiego a confronto: ambito di applicazione personale

La direttiva definisce il proprio ambito di applicazione personale in maniera estremamente ampia. La nozione di whistleblower accolta a livello europeo comprende infatti tutti coloro che abbiano acquisito informazioni sulle violazioni in un contesto lavorativo, a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro e dalla sua attualità, indipendentemente dalla retribuzione percepita e dal fatto che si rientri nel settore pubblico o privato. In sostanza, il legislatore europeo ha ritenuto opportuno includere tutti coloro che, in considerazione dell’attività lavorativa svolta, abbiano un legame con una determinata organizzazione e siano pertanto

23 Tra le diverse novità previste dalla legge n. 190/2012 rilevanti in questa sede si possono annoverare, oltre alla disposizione in materia di whistleblowing, l’istituzione presso ciascuna amministrazione di un Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza e la creazione di una Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), le cui funzioni vengono inizialmente attribuite alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT). 24 N. Parisi, Osservazioni a prima lettura sulla legge n. 179/2017 di tutela del whistleblower, cit., p. 13. 25 Su quest’ultima prospettiva v. J-P. Foegle, Endorsing Whistleblowing as a Democratic Accountability Mechanism: Benefits of a Human-rights Based Approach to Whistleblower Protection, Submission to the UN Special Rapporteur on promotion of the right to freedom of opinion and expression, giugno 2015, p. 6, https://www.ohchr.org/Documents/Issues/Opinion/Protection/JeanPhilippeFoegle. pdf (consultato il 18.12.2020); L. Valli, Whistleblowing, verità e democrazia: una riflessione, in Ius in itinere (iusinitinere.it), 1 (2019); N. Parisi, La funzione del whistleblowing nel diritto internazionale ed europeo, in Lavoro Diritti Europa (lavorodirittieuropa.it), 2 (2020).

118 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 in una posizione privilegiata per acquisire informazioni, ma risultino al contempo fortemente esposti al rischio di ritorsioni a causa della situazione di vulnerabilità economica in cui si trovano26. Particolarmente significativa è, innanzitutto, la piena equiparazione tra settore pubblico e settore privato. In linea con le Convenzioni internazionali in materia di corruzione ratificate dal nostro Paese e con i principi contenuti nella Raccomandazione 2014(7) del Consiglio d’Europa, le forme di tutela garantite al whistleblower non devono variare a seconda della natura pubblica o privata dell’ente nell’ambito del quale il segnalante svolge la propria attività lavorativa27. Inoltre, è da sottolineare come il legame con l’organizzazione e la situazione di vulnerabilità economica vengano interpretati in maniera flessibile, fino a ricomprendere ad es. i c.d. facilitatori, i volontari, i tirocinanti e coloro che non lavorano più per l’ente interessato dalla segnalazione28. Profondamente diversa è la situazione sul versante nazionale. Innanzitutto, come anticipato, esiste un notevole divario tra la tutela prevista nel settore pubblico e le garanzie assai limitate riconosciute al whistleblower che opera nel settore privato. Inoltre, considerando la disciplina dettata dall’art. 54-bis, ammessi a beneficiare della protezione prevista dalla norma sono i «dipendenti pubblici». Ai sensi del comma 2, rientrano in questa nozione i dipendenti delle pubbliche amministrazioni29, incluso il personale in regime di diritto pubblico30, i dipendenti degli enti pubblici economici e degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico ai sensi dell’art. 2359 c.c., nonché i

26 Cfr. art. 4 della direttiva e considerando (38) e (39). 27 L’unica distinzione tra i due ambiti introdotta dalla direttiva riguarda le diverse soglie dimensionali previste in capo ai soggetti pubblici e privati per quanto riguarda l’obbligo di istituire canali e procedure per le segnalazioni interne (v. art. 8 della direttiva). 28 Nel Preambolo si mette in evidenza come «proteggere efficacemente gli informatori signific[hi] estendere la protezione anche alle categorie di persone che, pur non dipendendo dalle loro attività lavorative dal punto di vista economico, rischiano di subire ritorsioni per aver segnalato violazioni», considerando (40). La direttiva inoltre prende in considerazione le c.d. ritorsioni indirette, prevedendo che le misure protettive possano trovare applicazione, ove opportuno, anche nei confronti dei c.d. facilitatori (cioè coloro che assistono il whistleblower nel processo di segnalazione), dei parenti e dei colleghi che abbiano un legame professionale con il datore di lavoro dell’informatore (v. art. 4, par. 4, lett. a) e b). La tutela si estende anche, ove opportuno, «ai soggetti giuridici di cui le persone segnalanti sono proprietarie, per cui lavorano o a cui sono altrimenti connesse in un contesto lavorativo», art. 4, par. 4, lett. c). 29 Cfr. art. 1, co. 2 T.U.P.I. 30 Cfr. art. 3 T.U.P.I.

119 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 lavoratori e collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi che realizzano opere in favore della pubblica amministrazione. Se è evidente il miglioramento rispetto alla disciplina originaria, siamo ancora decisamente lontano dall’approccio ampio e inclusivo auspicato dal Consiglio d’Europa. Tale disposizione, inoltre, è stata recentemente oggetto di un’interpretazione restrittiva da parte del Consiglio di Stato31, chiamato ad esprimere un parere sullo schema di linee guida in materia di whistleblowing dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) che le ha predisposte32.

4. (Segue): segnalazioni meritevoli di tutela

Una volta definito il novero dei soggetti che possono essere qualificati come whistleblower, una serie di altri elementi sostanziali e procedurali contribuiscono a rendere una segnalazione meritevole di tutela. Tra di essi vengono in rilievo, innanzitutto, il contenuto e i caratteri della segnalazione. Ai sensi della direttiva, oggetto della segnalazione deve essere una «violazione del diritto dell’Unione» che rientri in una serie di settori strategici per l’Organizzazione33. Il concetto viene interpretato in senso ampio dal legislatore dell’Unione, in linea con la funzione di prevenzione che dovrebbe svolgere l’istituto. Oltre agli atti o omissioni illeciti, la nozione di violazione comprende quindi anche le pratiche abusive34 e gli atti o omissioni che, pur non essendo irregolari da un punto di vista formale, vanificano l’oggetto o la finalità delle norme dell’Unione

31 Consiglio di Stato, parere n. 215 del 25 marzo 2020. Nel parere si sottolinea la specialità del regime previsto dall’art. 54-bis, escludendo la possibilità di estendere il novero delle amministrazioni pubbliche interessate sulla base di un’interpretazione sistematica. Analogamente, si ritiene che la nozione di dipendente pubblico accolta dalla disposizione non sia idonea a ricomprendere stagisti e tirocinanti (v. punto 6.2.8). 32 Dopo un periodo di consultazione pubblica e il parere del Garante della privacy, il 13 gennaio 2020 l’ANAC ha adottato lo schema di linee guida in materia di tutela degli autori di reato o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 54-bis, del d.lgs. 165/2001 (c.d. whistleblowing), d’ora in poi in nota Schema di linee guida ANAC. Sebbene non sia previsto in via obbligatoria, l’ANAC ha deciso di interpellare il Consiglio di Stato per un parere (non vincolante) sullo schema di linee guida, reso il 25 marzo 2020. Nel mese di maggio il Consiglio dell’Autorità ha deciso però di sospendere il procedimento di approvazione delle linee guida in considerazione dei significativi cambiamenti destinati ad intervenire a breve nel quadro normativo interno, cambiamenti che avrebbero reso obsolete le stesse. 33 Cfr. art. 2 della direttiva. 34 Così come definite dalla Corte di giustizia.

120 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 interessate35. Nella medesima logica, la protezione deve essere garantita anche a coloro che segnalano una violazione che non sia ancora stata commessa, ma che molto verosimilmente potrebbe esserlo36. Si muovevano nella stessa direzione le linee guida predisposte (ma mai adottate) dall’ANAC, che interpretavano la nozione di «condotte illecite» di cui all’art. 54-bis in modo da ricomprendere «tutte le situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri un abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati», comprese le attività illecite intraprese, ma non ancora perfezionatesi, «in presenza di elementi precisi e concordanti prodromici all’attività stessa»37. Di diverso avviso, anche in questo caso, è il Consiglio di Stato, che considera problematica la rilevanza attribuita agli atti prodromici ove non sia configurabile almeno il tentativo38. Il regime europeo e la disciplina nazionale sono invece allineati nel considerare meritevoli di tutela le segnalazioni funzionali al perseguimento di un interesse pubblico, pur con alcune differenze di rilievo tra i due testi. L’articolato della direttiva non menziona espressamente questo requisito che può ritenersi implicito, come si evince dal legame tra segnalazione e interesse pubblico costantemente sottolineato nel Preambolo. A maggior ragione, nella direttiva non si cerca di definire che cosa debba intendersi per interesse pubblico, concetto che per natura «has no fixed content and should be solely considered as an unending process of redefinition of the (often blurred) frontiers between the public and the private sphere»39. Si chiarisce però che «i motivi che hanno indotto le persone segnalanti a effettuare la segnalazione dovrebbero essere irrilevanti al fine di decidere sulla concessione della protezione» 40 , a conferma del fatto che l’enfasi viene posta su un elemento oggettivo, il contenuto della dichiarazione, e non su eventuali interessi individuali del segnalante. Infatti, gli informatori hanno diritto di accedere alla tutela prevista dalla direttiva a condizione che, alla luce delle circostanze e delle informazioni in loro possesso al momento della segnalazione, abbiano avuto «fondati motivi» 41 di ritenere che i fatti

35 Cfr. art. 5, n. 1 della direttiva e considerando (42). 36 Cfr. art. 5, n. 2 della direttiva e considerando (43). 37 Schema di linee guida ANAC, cit., Parte I, punto 2.1. 38 Cfr. Consiglio di Stato, parere n. 215/2020, punto 6.2.9. 39 J.-P. Foegle, Endorsing Whistleblowing as a Democratic Accountability Mechanism: Benefits of a Human-rights Based Approach to Whistleblower Protection, cit., p. 7. 40 Considerando (32). 41 Nella versione inglese «reasonable grounds».

121 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 segnalati fossero veri 42 . Questo requisito rappresenta una «garanzia essenziale contro le segnalazioni dolose e futili o infondate» e consente di escludere dalla protezione coloro che «hanno fornito deliberatamente e scientemente informazioni errate o fuorvianti»43. L’art. 54-bis, invece, subordina espressamente la tutela al fatto che la segnalazione sia effettuata «nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione». Il concetto si presta ad interpretazioni ambivalenti44 e risulta più circoscritto rispetto alla soluzione accolta a livello europeo. Nello schema di linee guida ANAC, si sottolinea come la tutela di tale interesse costituisca «la ragion d’essere dell’istituto del whistleblowing»45. La «ratio di fondo», quindi, è quella di «valorizzare l’etica e l’integrità nella pubblica amministrazione per dare prestigio, autorevolezza e credibilità alla stessa, rafforzando i principi di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.»46. Il riferimento consente di escludere dal perimetro della tutela chi utilizza l’istituto nel proprio esclusivo interesse personale. Sebbene in maniera meno esplicita rispetto alla direttiva, anche la normativa italiana svincola infatti la protezione del dipendente pubblico dal requisito della buona fede, conferendo rilievo agli elementi oggettivi che emergono dal contesto della segnalazione47. Considerando infine il trattamento riservato alle segnalazioni anonime, vista la delicatezza della questione, a livello europeo si è deciso di lasciare gli Stati membri liberi di decidere se assoggettare o meno le segnalazioni di questo tipo alla disciplina del whistleblowing48. Tuttavia, la direttiva ammette a godere della protezione anche coloro che abbiano segnalato o divulgato informazioni in forma anonima, ma che siano stati identificati in un secondo momento, subendo ritorsioni49. L’art. 54-bis invece sembra invece escludere dal proprio campo di applicazione le segnalazioni

42 Cfr. art. 6, par. 1, lett. a) e considerando (32). 43 Considerando (32). 44 Cfr. A. Riccio, La tutela del lavoratore che segnala illeciti dopo la l. n. 179 del 2017. Una prima lettura giuslavoristica, cit., p. 3. 45 Schema di linee guida ANAC, cit., Parte I, punto 2.1, p. 11. 46 Ibidem. 47 Come rilevato dallo Schema di linee guida ANAC (punto 2.1.) e ribadito dal Consiglio di Stato, l’informatore non deve essere certo della veridicità dei fatti segnalati, «è piuttosto necessario che ne sia data […] ragionevole e circostanziata evidenza nella segnalazione stessa» (parere n. 215/2020, punto 6.2.10 alla fine), in maniera analoga a quanto previsto dalla direttiva. 48 Cfr. art. 6, par. 2 della direttiva. 49 Cfr. art. 6, par. 3 della direttiva.

122 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 anonime50 e, nel silenzio della norma, si ritiene che non possa essere riconosciuta alcuna tutela nemmeno nel caso in cui il segnalante renda note le proprie generalità in un secondo momento, ad es. per far valere una discriminazione subita51.

5. (Segue): canali di segnalazione e divulgazioni al pubblico

Un altro elemento chiave per poter beneficiare della protezione garantita dalle normative in materia di whistleblowing è il rispetto delle procedure istituite per inoltrare la segnalazione. Sotto questo profilo, la direttiva prevede innanzitutto che la protezione sia assicurata alle persone che segnalano violazioni all’interno dell’organizzazione (c.d. segnalazioni interne) o a un’autorità esterna competente a riceverle (c.d. segnalazioni esterne). Questione particolarmente sensibile, perché legata ai molteplici diritti e interessi che devono essere bilanciati, è quella delle modalità attraverso cui il whistleblower può accedere ai diversi canali di segnalazione. La proposta presentata dalla Commissione prevedeva l’accesso progressivo ai livelli considerati. Nella sua versione finale la direttiva riconosce invece all’informatore un’ampia discrezionalità al riguardo: sebbene si consideri preferibile effettuare la segnalazione in prima battuta ai soggetti più vicini all’origine del problema (in via generale più idonei ad avviare l’indagine e se opportuno a intervenire), può accadere che le autorità esterne competenti siano più indicate alla luce delle circostanze del caso52. In sostanza, la scelta è affidata all’informatore, che deve valutare quale sia il canale più appropriato a garantire una gestione efficace della segnalazione. Soluzione essenzialmente analoga è accolta dalla normativa interna, che non prevede una gerarchia tra i vari canali di segnalazione. Ai sensi dell’art. 54-bis infatti, il dipendente pubblico può inoltrare le informazioni al responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza (organo interno all’ente) o all’ANAC, ovvero può presentare denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile. Novità dirompente rispetto alla disciplina nazionale è invece la previsione di un terzo canale di segnalazione, non contemplato dall’art. 54-bis. Ai

50 Cfr. Schema di linee guida ANAC, cit., Parte I, punto 2.4. 51 Cfr. R. Cantone, Il dipendente pubblico che segnala illeciti. Un primo bilancio sulla riforma del 2017, cit., p. 12. 52 Cfr. artt. 7, par. 2 e 10 della direttiva, nonché considerando (33).

123 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 sensi della direttiva, la protezione deve essere garantita, a certe condizioni, anche a coloro che rendono le informazioni disponibili al pubblico, per esempio attraverso mezzi di informazione, piattaforme web o social media, organizzazioni della società civile, sindacati, associazioni di categoria, nonché attraverso i propri rappresentanti eletti. In particolare, la divulgazione delle informazioni al pubblico può essere qualificata come whistleblowing se è stata preventivamente effettuata una segnalazione interna o esterna senza che siano state intraprese azioni appropriate53. Inoltre, la protezione è garantita al segnalante che aveva fondati motivi di ritenere che la violazione potesse costituire un pericolo imminente o palese per il pubblico interesse 54 ; ovvero, in caso di segnalazione esterna, che sussistesse il rischio di ritorsioni o il canale risultasse inefficace55.

6. Impatto della direttiva sulla normativa nazionale e opportunità da cogliere in sede di attuazione

Dal sintetico quadro appena tratteggiato emergono notevoli differenze tra il perimetro della tutela riconosciuta al whistleblower nel nostro ordinamento e la portata della protezione garantita dalla direttiva (UE) 2019/1937. La piena equiparazione tra settore pubblico e privato, l’estensione dell’ambito di applicazione personale fino a ricomprendere tutti i soggetti che presentano un collegamento con l’organizzazione interessata, la nozione ampia di violazione che può essere oggetto della segnalazione e la tutela accordata, a certe condizioni, alle divulgazioni pubbliche sono solo alcune delle novità previste dalla direttiva. Il dilatarsi del perimetro della tutela è tanto più significativo se si pensa al regime di protezione ad esso collegato, in buona parte assimilabile a quello previsto dall’art. 54-bis. Punti cardine di tale regime sono, tra l’altro, la riservatezza garantita all’identità del segnalante56, il divieto di qualsiasi forma di ritorsione nei suoi confronti57 e l’inversione dell’onere della prova, per cui spetta a chi ha adottato la misura lesiva dimostrare che è fondata su giustificati motivi estranei alla segnalazione58. Inoltre, la direttiva contempla ulteriori misure volte a proteggere i whistleblower

53 Cfr. art. 15, par. 1, lett. a) della direttiva. 54 Cfr. art. 15, par. 1, lett. b), punto i) della direttiva. 55Cfr. art. 15, par. 1, lett. b), punto ii) della direttiva. 56 Cfr. art. 16 della direttiva. 57 Cfr. art. 19 della direttiva. 58 Cfr. art. 21, par. 5 della direttiva.

124 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dalle ritorsioni e a sostenerli in un percorso spesso molto impegnativo anche dal punto di vista economico59. Infine, per garantire l’efficacia delle norme poste a tutela del segnalante, il legislatore europeo impone agli Stati membri di prevedere «sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive» in una serie di circostanze60. Se si considera l’ambito di applicazione materiale della disciplina europea, risulta evidente l’impatto che è destinata ad avere sul quadro normativo interno. Benché si tratti di uno strumento settoriale, le materie in cui il legislatore dell’Unione ritiene opportuno intervenire sono numerose61. Tra queste si segnalano, ad esempio, gli appalti pubblici, i servizi finanziari, la sicurezza dei trasporti e dei prodotti, la tutela dell’ambiente, la salute pubblica, la radioprotezione e la sicurezza nucleare, la tutela della privacy e delle reti informatiche, nonché la tutela degli interessi finanziari dell’Unione di cui all’art. 325 TFUE. A completare il sistema interviene, inoltre, una clausola di chiusura dai contorni ampi, che estende la portata della direttiva a tutte le violazioni riguardanti il mercato interno così come definito dall’art. 26 TFUE. Ciò significa che un’amplissima porzione di amministrazioni pubbliche e imprese saranno interessate dal nuovo regime e le scelte effettuate dal nostro legislatore in sede di attuazione saranno determinanti per garantire un’effettiva protezione dei whistleblower nel nostro ordinamento, in linea con gli obiettivi perseguiti dalla direttiva e le indicazioni del Consiglio d’Europa. Considerando proprio l’ambito di applicazione materiale, una prima scelta importante dovrebbe essere quella di estendere la protezione a settori o atti non contemplati dalla normativa europea. La direttiva lascia infatti gli Stati liberi di procedere in tal senso 62 e la Commissione li incoraggia a seguire questa strada, consapevole delle difficoltà in cui

59 Cfr. rispettivamente artt. 21 e 20 della direttiva. 60 Art. 23 della direttiva. Ai sensi del par. 1, «[g]li Stati membri prevedono sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive applicabili alle persone fisiche o giuridiche che: a) ostacolano o tentano di ostacolare le segnalazioni; b) attuano atti di ritorsione contro le persone di cui all’articolo 4; c) intentano procedimenti vessatori contro le persone di cui all’articolo 4; d) violano l’obbligo di riservatezza sull’identità delle persone segnalanti di cui all’articolo 16». La disposizione, seppur significativa, pare lacunosa e si ritiene che, in sede di attuazione, le sanzioni dovrebbero essere estese a tutte le situazioni in cui gli obblighi posti dalla direttiva non vengano rispettati. In particolare, si segnala la mancata previsione di sanzioni in caso di violazione degli obblighi relativi all’istituzione dei canali di segnalazione, al riscontro fornito al whistleblower e alle azioni intraprese in risposta alla segnalazione. 61 Cfr. art. 2 della direttiva. 62 Cfr. art. 2, par. 2 della direttiva.

125 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 potrebbero incorrere gli informatori in presenza di un quadro normativo frammentario63. L’alternativa per il legislatore nazionale sarebbe quella di introdurre una fattispecie di whistleblowing europeo, operante nei settori coperti dalla direttiva, mantenendo una fattispecie di whistleblowing nazionale, che diverrebbe applicabile in via residuale. Accogliere una soluzione di questo tipo significherebbe però contraddire uno degli assunti alla base della Raccomandazione del Consiglio d’Europa, secondo la quale «the normative framework should reflect a comprehensive and coherent approach»64. Valutando la questione in una prospettiva interna, depongono in questo senso considerazioni fondate sul principio di uguaglianza e non discriminazione65. In ogni caso, l’introduzione nel nostro ordinamento delle novità previste dalla direttiva non determinerà solo una notevole espansione delle situazioni considerate meritevoli di tutela, ma prima di tutto imporrà al legislatore italiano di confrontarsi con un diverso modo di concepire il whistleblowing. In altre parole, l’attuazione della direttiva nel nostro ordinamento dovrebbe condurre a un’evoluzione dell’istituto, destinato a non essere più concepito soltanto come strumento di governance, ma anche come strumento di esercizio di diritti fondamentali della persona. Questa trasformazione è espressione di un diverso bilanciamento dei molteplici interessi che entrano in gioco e si traduce in un rafforzamento della posizione del whistleblower. Quindi, non si tratterà semplicemente di colmare le lacune dell’attuale disciplina, ma di ripensare complessivamente il sistema. Anziché riscrivere nuovamente l’art. 54-bis, sarebbe opportuno dedicare all’istituto un atto normativo ad hoc, nel quale sia disciplinato in maniera trasversale il trattamento riservato al whistleblower che opera nel settore pubblico e in quello privato, seppur con le dovute specificità. In questa prospettiva, «l’attenzione deve essere spostata dalla “qualità” del segnalante alla “qualità dell’informazione”»66. Ciò che rileva non sono le motivazioni personali del segnalante, ma il contenuto della segnalazione. L’unico elemento soggettivo che occorre prendere in

63 Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale, Rafforzare la protezione degli informatori a livello dell’Unione europea, COM(2018) 214 final, p. 11. 64 CM/Rec (2014)7, Principio 7. 65 In questo senso cfr. M. Magri, Il whistleblowing nella prospettiva di una disciplina europea armonizzata: la legge n. 179 del 2017 sarà (a breve) da riscrivere?, cit., p. 6. 66 N. Parisi, La funzione del whistleblowing nel diritto internazionale ed europeo, cit., p. 14.

126 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 considerazione è la ragionevole convinzione dell’informatore che i requisiti di volta in volta richiesti dalla direttiva siano soddisfatti 67 . Inoltre, la nozione di interesse pubblico che la segnalazione (o divulgazione) mira a proteggere non potrà essere definita in maniera puntuale e circoscritta come avviene nell’art. 54-bis. Infine, un nodo cruciale, che andrebbe affrontato con coraggio dal legislatore nazionale, riguarda il ruolo che andrà ad assumere nel nuovo assetto l’ANAC, autorità indipendente con funzioni di prevenzione della corruzione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, nelle società partecipate e controllate. Secondo l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, misura essenziale per radicare la cultura del whistleblowing è l’istituzione in un’autorità indipendente dedicata alla protezione degli informatori in ciascun Paese membro. Tale autorità dovrebbe, tra l’altro, fornire sostegno ai whistleblower «by investigating allegations of retaliation and failure to act on reports»; «ensuring that once a matter has been reported there is every chance of it being followed up, whatever the interests at stake, by condemning any action to suppress it»; «providing a link with the judicial authorities as a reliable source, in particular, of material evidence in connection with judicial proceedings»; «establishing a genuine European network with other independent authorities, making it possible to share good practices»68. Il profondo cambiamento di prospettiva che il legislatore è chiamato ad attuare deve essere affrontato tenendo presente che l’effettività della protezione riconosciuta al whistleblower è ormai considerato «a genuine democracy indicator»69.

Abstract: On 23 October 2019 the European Parliament and the Council adopted Directive (EU) 2019/1937, a piece of secondary legislation encompassing the first organic regime concerning whistleblowing to have been elaborated at supranational level, that Member States will be required to transpose by 17 December 2021. This paper aims to clarify the directive’s impact on the Italian legal framework, which is currently defined by Law 179/2017, as well as the opportunities to be taken on the occasion of the directive’s implementation. By means of a comparison between these two regimes, both their different ways of conceiving whistleblowing and the respective implications for the domestic legislator are highlighted. This will require the

67 V. artt. 6 e 15 della direttiva. Al riguardo si veda anche il Rapporto di S. Waserman (Improving the protection of whistleblowers all over Europe, Report, doc. 14958, 30 agosto 2019, p. 17), che ha preceduto le recenti prese di posizioni dell’Assemblea parlamentare in materia di whistleblowing (v. Risoluzione 2300(2019) e Raccomandazione 2162(2019) del 1° ottobre 2019). 68 V. Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Risoluzione 2300(2019), par. 12.3. 69 Ibidem, par. 1.

127 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 same legislator to adopt a radical change of perspective. As far as the national level is concerned, the analysis will focus on provisions affecting the Public Administration.

Key words: whistleblowing directive; corruption; transparency; freedom of expression; human rights; democratic accountability.

128 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

TOMMASO PIETRELLA Dottorando di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma

Illecito e sanzione: il valore precettivo del ne bis in idem oltre il diritto penale*

English title: The constructive value of the ne bis in idem: how the principle goes far beyond criminal law, inspiring complementary legal responses to socially offensive conduct. DOI: 10.26350/18277942_000012

Sommario: 1. Dalle Corti europee un ne bis in idem come regola unitaria. – 2. La giurisprudenza nazionale definisce l’operatività del principio europeo. – 3. Problemi connessi ai pronunciamenti della Cassazione in tema di ne bis in idem. – 4. Il doppio binario sanzionatorio nella logica dell’integrale valutazione dello stesso fatto. – 5. Sanzione e finalità punitiva. – 6. Pena e processo: come distinguere il penale da altri ambiti sanzionatori. – 7. Orientamenti per nuovi equilibri nel sistema sanzionatorio. – 8. Le sentenze di legittimità tra dispositivi e obiter dicta.

1. Dalle Corti europee un ne bis in idem come regola unitaria

C’era un tempo in cui accanto all’espressione ne bis in idem non si poneva il termine “diritto”, ma quello di “divieto”. C’era un tempo in cui ne bis in idem indicava, a seconda della disciplina di cui si discuteva, divieti differenti. Note le parole del Cordero: «Anche i penalisti postulano un ne bis in idem: attribuiremmo due volte lo stesso atto all’autore, se gli applicassimo norme una delle quali sia eclissata dall’altra (“concorso apparente”); la figura legale “omicidio”, ad esempio, include “lesioni” e “percossa”. Ma il divieto d’un secondo giudizio sulla eadem res ha poco da spartire, anzi niente, con queste massime penalistiche (costituenti un capitolo della logica deontica); è puro fenomeno giudiziario, descritto da famose metafore: esercitando l’azione, l’attore la consuma»1.

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 F. CORDERO, Procedura penale, 8 ed., Milano, 2006, p. 1223. Nella dottrina penalista, simile voce il Mantovani: «La differente portata dei due princìpi non è che il riflesso delle loro divergenti finalità. Mirando ad evitare la duplice punizione di un unico fatto, il ne bis in idem sostanziale esprime esclusivamente esigenze di effettiva giustizia. Precludendo una pluralità di giudizi sul medesimo fatto storico, il ne bis in

VP VITA E PENSIERO

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Un tempo, dunque, si parlava distintamente di ne bis in idem sostanziale e processuale. Del primo, stante l’assenza di una norma che lo espliciti, si postulava l’immanenza nel diritto vigente quale risultato deduttivo di un insieme di norme2, ovvero quale «risultato normativo dell’elaborazione dogmatica di un’istanza-guida di giustizia materiale» 3 , dandone applicazione nell’ambito della disciplina del concorso di norme 4 . Si trattava, infine, di individuare l’esatto contenuto del divieto di punire due volte lo stesso fatto5, ricercando le concrete modalità e i vari criteri, ora solo logico-astratti (di specialità), ora anche di valore (consunzione, assorbimento, sussidiarietà), con cui soddisfare tale esigenza. Quanto al secondo, atteso che l’art. 649 del codice di rito espressamente prevede il divieto di un secondo giudizio, la dottrina e la giurisprudenza discorrevano maggiormente riguardo al significato da attribuire al termine “fatto”, interpretandolo – a seconda dell’orientamento – vuoi come pura condotta 6 ; vuoi come condotta qualificata, giacché «le condotte transitive sono individuate da ciò su cui cadono»7; vuoi come

idem processuale si ispira a ragioni di certezza, volte ad evitare la perpetua instabilità delle decisioni giudiziali e la possibilità di conflitti tra giudicati, e di economia, tese al conseguimento di un risultato col minor mezzo». F. MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme del diritto penale, Bologna, 1966, p. 421. 2 Ivi, p. 430. 3 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. Art. 1-84, I, 3 ed., Milano, 2004, p. 179 (corsivi originari). Nell’ottica dell’esistenza di una semplice aspirazione di giustizia, un’indicazione orientativa, si veda anche: G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, p. 101; R.A. FROSALI, Concorso di norme e concorso di reati, Milano, 1971, p. 748; M. SINISCALCO, Il concorso apparente di norme nell’ordinamento penale italiano, Milano, 1961, pp. 61 e 87. 4 Cfr. A. PAGLIARO, Concorso di norme (dir. pen.), in Enc. dir., VII, 1961, pp. 545 e ss. 5 Fortemente critico dell’esistenza di un principio generale di ne bis in idem nell’ambito della dogmatica penalista Michele Papa, il quale sottolinea che – anche ammettendo l’immanenza di un principio – non è chiaro cosa bisogna intendere per divieto di bis puniri: «Si vuole forse impedire la reiterazione del solo giudizio di rilevanza penale, ovvero il divieto riguarda la molteplicità delle sanzioni?». M. PAPA, Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale, Torino, 1997, p. 19. 6 Cfr. G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, III, Napoli, 1961, p. 342; A. PAGLIARO, “Fatto (dir. proc. pen.)”, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 964. 7 F. CORDERO, Procedura, p. 1224. A sostegno anche: G. BELLAVISTA - G. TRANCHINA, Lezioni di diritto processuale, 10 ed., Milano, 1987, p. 710; E. JANNELLI, La cosa giudicata, in M.G. AIMONETTO (a cura di), Le impugnazioni, nella Collana diretta da M. CHIAVARIO - E. MARZADURI, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Torino, 2005, p. 633; T. RAFARACI, “Ne bis in idem”, in Enc. Dir., Annali, III, Milano, 2010, p. 874; F. CAPRIOLI - D. VICOLI, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, p. 85; E.M. MANCUSO, Il giudicato nel processo penale, in Trattato di procedura penale, G. UBERTIS - G.P. VOENA (a cura di), XLII.1, Milano, 2012, p. 464; D. VIGONI, Il giudicato, in O. DOMINIONI e AA.VV., Procedura penale, 5 ed., Torino, 2017, p. 852.

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“fattispecie giudiziale” 8 ; vuoi, infine, come triade di “condotta-nesso causale-evento”9. C’era un tempo, dicevamo, perché l’affermazione, a livello europeo, nel novero dei diritti fondamentali di un unico principio di ne bis in idem10, comprensivo dei due divieti, e il successivo lavorio di quel formante giurisprudenziale hanno eroso i confini frapposti tra il diritto e la procedura nazionale, costruendo una figura ibrida dal significato multiforme. Come si vedrà più avanti, il principio elaborato dalle Corti europee segue infatti, al contempo, logiche di natura diversa: non si tratta di impedire un secondo procedimento o di risolvere un concorso apparente di norme, ma più genericamente di garantire il cittadino dalla moltiplicazione di profili punitivi, produttivi di una sproporzione tra sanzione e significato antigiuridico della condotta. La gradualità11 con cui questa figura ha acquisito cogenza a livello europeo si spiega facilmente se si considera che il risultato attuale non è altro che la somma di diversi fattori, logicamente connessi l’uno all’altro. Primo presupposto logico è il riconoscimento da parte della giurisprudenza EDU dell’eccessiva onerosità di talune sanzioni, che, seppure non qualificate formalmente come penali, sono tali nella sostanza. Dall’esigenza di fronteggiare il cd. Etikettenschwindel 12 ed estendere, di conseguenza, le garanzie previste per il processo penale anche a quei procedimenti eccessivamente onerosi, ai quali – per mera

8 Cfr. F. MANTOVANI, Concorso, p. 400; G. LOZZI, Profili di una indagine sui rapporti tra «ne bis in idem» e concorso formale di reati, Milano, 1974, p. 41; G. DE LUCA, “Giudicato. Diritto processuale penale”, in Enc. Giur. Treccani, XV, 1989, p. 10; P.P. RIVELLO, Analisi in tema di ne bis in idem, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, n. 2, p. 497. 9 Soluzione, questa, largamente maggioritaria nella giurisprudenza di legittimità ed avallata anche da quella costituzionale (sentenza n. 200 del 2016). Si veda in particolare: Cass. pen., sez. I, 4 aprile 2003, n. 37567; Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655, (Donati); Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 2012, n. 4103/13 (Guastella); Cass. pen., sez. II, 21 marzo 2013, n. 18376 (Cuffaro). 10 Il VII Protocollo Addizionale alla CEDU e la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo riproducono la medesima enunciazione di principio: «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato». I testi ricalcano, nelle proprie linee essenziali, la precedente formulazione contenuta nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici, art. 14, §7: «Nessuno può essere sottoposto a nuovo giudizio o a nuova pena, per un reato per il quale sia stato già assolto o condannato». 11Dall’entrata in vigore del VII Protocollo CEDU – avvenuta nel 1988 – solo negli ultimi anni (in particolar modo dal marzo 2014, anno in cui la Corte EDU si è pronunciata nel caso “Grande Stevens c. Italia”) il principio di ne bis in idem è divenuto oggetto di vivace dibattito, in dottrina e giurisprudenza. 12 Letteralmente “rischio delle etichette formali”.

131 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 qualificazione formale – non si sarebbero potute applicare, nasce il concetto di “materia penale” e si sviluppa l’elaborazione dei cd. criteri Engel13 (segnatamente: la qualificazione formale; la natura dell’illecito e della sanzione; il suo grado di severità) al fine di identificare quali procedimenti e sanzioni debbano esservi ricondotti. Il secondo presupposto è il radicarsi di una giurisprudenza del tutto garantista in merito all’interpretazione del termine “offence” di cui all’art. 4 Prot. 7 CEDU. Con la celebre sentenza “Sergey Zolotukhin c. Russia”, la Corte EDU supera definitivamente quell’orientamento che supponeva l’esistenza di un idem legale per l’applicabilità del principio ed accoglie l’opposto criterio di idem factum14. La portata del ne bis in idem, si noti bene, in questa fase rispondeva ancora solamente alle logiche del divieto di duplice giudizio, tant’è che l’interpretazione della Corte Europea aveva condotto la stessa Consulta a dichiarare l’illegittimità parziale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui consentiva la celebrazione di un secondo processo per il solo apprezzamento di un concorso formale15. Terzo momento decisivo nel riconoscimento del principio del ne bis in idem è la postulazione in termini sillogistici dei due fattori precedenti. Atteso, da una parte, che la nozione di “offence” è comprensiva anche di illeciti e sanzioni di natura non formalmente penale16 e, dall’altra, che la

13 Cfr. Corte EDU, case of Engel and Others v. The Netherlands, 8 giugno 1976. 14 Cfr. Corte EDU, case of Sergey Zolotukhin v. Russia, 10 febbraio 2009: «82. Accordingly, the Court takes the view that Article 4 of Protocol No. 7 must be understood as prohibiting the prosecution or trial of a second “offence” in so far as it arises from identical facts or facts which are substantially the same. […] 84. The Court’s inquiry should therefore focus on those facts which constitute a set of concrete factual circumstances involving the same defendant and inextricably linked together in time and space» (corsivi nostri). 15 La cosa, stando al puro dato letterale, potrebbe sorprendere dato che è l’art. 649 c.p.p. ad avere una portata più estesa rispetto la normativa sovranazionale. Il termine “fatto” di cui all’art. 649 c.p.p., infatti, fa riferimento ad una dimensione più ampia di “offence”, il quale, invece, rimanda ad una realtà tutta giuridica. Il sostantivo “acquitted”, comunemente tradotto con “assolto”, presupponendo una statuizione nel merito, riduce, invece, l’ambito di applicazione postulato dal termine “prosciolto” utilizzato dalla norma codicistica, potendosi ricondurre ad esso anche sentenze assolutorie di rito. Come è stato già evidenziato (cfr. P. FERRUA, La sentenza costituzionale sul caso Eternit: il ne bis in idem tra diritto vigente e diritto vivente, in Cass. pen., 2017, n. 1, p. 80), la portata del ne bis in idem dipende, quindi, dall’ermeneutica che l’interprete (nazionale e non) adotta, piuttosto che dal puro dato letterale. 16 Mette conto osservare che, in realtà, la giurisprudenza EDU ha incluso nel termine “offence” di cui all’art.4 Prot. 7 EDU illeciti extra-penali contravvenendo alle intenzioni degli Stati Membri, i quali risultavano chiaramente determinati a sottrarre alla garanzia in questione le sanzioni para-penali, eventualmente in concorso con le quelle formalmente penali. Oltre alle numerose riserve formulate dagli Stati, si tenga conto

132 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 medesimezza del fatto – ai sensi dell’art. 4 Prot. 7 CEDU – si apprezza alla luce delle sole circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, la deduzione che ne deriva è che la garanzia del ne bis in idem impedisce la celebrazione di un procedimento penale ove all’individuo sia stata già inflitta, per lo stesso fatto, una sanzione extra- penale (e viceversa). Era questa la portata “innovativa” (seppure non avesse aggiunto nulla di nuovo) della sentenza “Grande Stevens c. Italia”: applicare, in caso di doppio binario sanzionatorio, il semplice divieto di duplice giudizio, impedendo così il molteplice susseguirsi di pretese punitive da parte dello Stato. D’altronde la Corte EDU aveva fatto eco alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che – nel caso “Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson” – aveva precedentemente ritenuto, a monte, il doppio binario sanzionatorio penale-amministrativo incompatibile con il ne bis in idem, ad eccezione del caso in cui tale strumento repressivo fosse stato necessario per soddisfare gli interessi dell’Unione mediante l’applicazione di pene efficaci, proporzionate e dissuasive (prevedendo, così, una deroga al principio, giustificata dall’art. 52, par. 1, CDFUE). Questo semplice sillogismo, tuttavia, subiva – prima – un’interruzione da parte della giurisprudenza EDU, la quale integrava l’accertamento in merito la violazione di ne bis in idem con diversi criteri, i quali venivano – poi – confermati e precisati dalla Corte di Giustizia UE. Nello specifico, nel caso A e B v. Norway, la Corte EDU precisa che non è più sufficiente il solo concorso di procedimenti e sanzioni “penali” per determinare violazione del principio, ma occorre accertare che la predisposizione di tale sistema sanzionatorio non abbia rispettato un terzo requisito: il sussistere di una “sufficiently close connection in substance and in space”. Parimenti, la Corte individua alcuni criteri alla stregua dei quali apprezzare l’esistenza di tale connessione temporale e sostanziale. È dunque necessario valutare: a) se i procedimenti abbiano scopi complementari e investano, anche in concreto, aspetti diversi della stessa condotta antisociale censurata; b) se la duplicità dei procedimenti sia conseguenza prevedibile dello stesso comportamento sanzionato; c) se i procedimenti siano condotti in modo tale da evitare, per quanto possibile,

del Rapporto Esplicativo al Settimo Protocollo, che semplicemente afferma ai paragrafi 28 e 29: «It has not seemed necessary, as in Articles 2 and 3, to qualify the offence as "criminal". Indeed, Article 4 already contains the terms "in criminal proceedings" and "penal procedure", which render unnecessary any further specification in the text of the article itself. The principle established in this provision applies only after the person has been finally acquitted or convicted in accordance with the law and penal procedure of the State concerned».

133 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 qualsiasi duplicazione nella collezione e nella valutazione degli elementi di prova; d) se, soprattutto, la sanzione imposta all’esito del procedimento conclusosi per primo sia stata tenuta presente nell’ambito del secondo, in modo da prevenire che sull’interessato gravi un onere eccessivo. Tale rischio, infatti, è meno suscettibile di presentarsi se esiste un meccanismo compensatorio concepito per assicurare che l’importo globale di tutte le pene pronunciate sia proporzionato. A tali criteri la Corte EDU aggiunge, inoltre, la necessità di valutare se le sanzioni extra-penali siano riconducibili o meno al “nucleo essenziale” del diritto penale, dal momento che, nel caso in cui non lo fossero, vi sarebbero meno probabilità di ritenere troppo gravoso l’onere sanzionatorio complessivo. Quanto alla Corte di Giustizia UE, nelle sentenze relative alle cause C- 524/15, “Menci”, C-537/16, “Garlsson Real Estate SA e a.”, e C-596/16 e C-597/16, “Di Puma e Zecca”, essa si attiene al nuovo orientamento espresso dalla giurisprudenza EDU, confermando il requisito della stretta connessione trai due procedimenti, e, insistendo maggiormente sul canone di proporzionalità, impone specificamente al giudice comune di valutare che l’onere risultante dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni non sia eccessivo rispetto alla gravità (o disvalore) della condotta tenuta. Per far fronte al vulnus di tutela che il doppio binario sanzionatorio era suscettibile di determinare, le Corti europee hanno pertanto concepito il principio di ne bis in idem come una figura ibrida, nel senso che la valorizzazione del disvalore di una condotta ed il rapporto proporzionale con la pena corrispondente non sono più oggetto di un apprezzamento in termini di ne bis in idem sostanziale, ossia non rispondono più all’esigenza di impedire la molteplice qualificazione sostanziale di un accadimento unitario. Disvalore e proporzionalità sono ora utilizzati quali parametri per valutare l’opportunità di un secondo giudizio o, meglio, di una seconda sanzione, sicché da essi dipende la giustificazione o meno dell’esercizio del potere repressivo rispetto singole porzioni di disvalore. Solo in questi termini, anche a livello nazionale, il principio di ne bis in idem poteva assumere significato e dare soluzione a quella duplicazione repressiva eccessivamente onerosa, causata dal doppio binario sanzionatorio amministrativo-penale. D’altronde, non sarebbe stato possibile inquadrare il problema in termini di concorso apparente di norme, facendo conseguente applicazione dei noti criteri di specialità17,

17 Non sovveniva neppure l’art. 9 della lg. 689/1981: il criterio di specialità, che, quale clausola generale, regola i rapporti tra illeciti di diversa natura, non trova applicazione

134 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 consunzione o assorbimento, posto che la normativa – con clausole di salvaguardia – prevede espressamente il concorso di illeciti, sicché la convergenza di più norme non dà causa ad alcuna apparenza di concorso ma è risolta legislativamente a favore della plurima qualificazione. Non si sarebbe potuto applicare neppure il semplice divieto di doppio giudizio, giacché l’art. 649 c.p.p. presuppone la sottoposizione a due procedimenti formalmente penali. Inoltre, se vi si fosse ritenuto compreso anche il procedimento para-penale, si sarebbero provocate un’incertezza e una casualità nelle sanzioni applicabili tali da ledere i principi fondamentali di determinatezza e legalità della sanzione penale nonché l’art. 3 Cost18.

2. La giurisprudenza nazionale definisce l’operatività del principio europeo

Questo, in definitiva, lo stato dell’arte cui le diverse Sezioni – civili e penali – della Cassazione si sono dovute riferire per dar voce al ne bis in idem e trasporre, sul piano applicativo, la soluzione individuata dalla giurisprudenza europea. Un compito non facile. Infatti, sebbene le Corti europee avessero esplicitato che il ne bis in idem risponde all’esigenza di tutelare il cittadino da un’eccessiva risposta sanzionatoria e che, pertanto, si impone al giudice comune la valutazione della corrispondenza proporzionata tra condotta e sanzione complessiva, rimaneva di competenza della Suprema Corte non solo individuare i termini di questo in tutti quei casi in cui sia il legislatore, expressis verbis, a stabilire il concorso di sanzioni penali/amministrative. In termini critici G. DE AMICIS - P. GAETA, Il confine di sabbia: la Corte EDU ancora di fronte al divieto del ne bis in idem, in Cass. pen., 2017, n. 2, p. 481, nota 26: «È ben vero, a questo riguardo, che, nel quadro delle garanzie costituzionali, i principi tracciati dalla legge n. 689 del 1981, così come altre normative “quadro” (ad esempio il noto “statuto del contribuente”) hanno forza e valore di leggi ordinarie: come tali, dunque, derogabili ad opera di fonti pariordinate. Ma è altrettanto vero che le fonti derogatorie devono essere a loro volta assistite da una specifica “causa normativa,” che le giustifichi sul piano della ragionevolezza e della uguaglianza». Si veda anche: G. M. FLICK - V. NAPOLEONI, «Materia penale», giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market , in Società, 2014, pp. 953 ss. 18 In questo senso Corte cost. n. 102/2016: «L’eventuale accoglimento della questione determinerebbe l’incertezza della risposta sanzionatoria (casualmente amministrativa o penale, a seconda del procedimento conclusosi per primo), così da incidere sulla sua effettività, con pregiudizio degli obblighi comunitari da salvaguardare ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. L’invocata manipolazione dell’art. 649 cod. proc. pen. contrasterebbe, altresì, con l’art. 3 Cost., essendo irragionevole sottoporre a sanzione amministrativa o penale una determinata persona sulla base di un accadimento processuale del tutto aleatorio». Si veda, in senso conforme, anche Corte cost. n. 222/2019, § 2.2.

135 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 apprezzamento, ma, cosa ancor più difficile, lo strumento giuridico che consentisse al giudice comune di risolvere la sproporzione in caso di violazione del ne bis in idem. In sintesi: in base a quali parametri si valuta l’eccessiva onerosità della risposta sanzionatoria? Che cosa fare nel caso in cui tale sproporzione appaia evidente? Tali, dunque, i problemi che la Cassazione ha risolto, individuando una regola iuris, che ora illustreremo, innovativa. Avrebbe forse dovuto intervenire il legislatore? Sì, lo vedremo, ma il Parlamento continua a latitare 19 , sottraendosi al suo compito e delegando, silentemente, la magistratura. Tra le diverse pronunce di legittimità che si sono rapidamente succedute20, Cassazione penale n. 49869 del 2018 assume un particolare rilievo paradigmatico: non solo riepiloga l’intero sviluppo giurisprudenziale (nazionale e sovranazionale) in tema di ne bis in idem, avendo riguardo, soprattutto, ai recenti arresti delle Corti europee; ma, altresì, inerisce al caso più frequente ove a divenire definitivo per primo è il provvedimento amministrativo. In tale pronunciamento la Corte di Cassazione illustra chiaramente al giudice comune la valutazione che il principio elaborato dalle Corti sovranazionali gli impone, il suo riferimento normativo e, cosa più importante, il potere che gli si riconosce. Ecco, dunque, che cosa si richiede. In primis, occorre che il giudice valuti se sul binario opposto a quello penale corrano anche un illecito, un procedimento e una sanzione formalmente amministrativi (o civili, disciplinari e così via) ma nella sostanza “penali”, adoperando in tal modo i noti “criteri Engel”. Dopodiché, dovrà considerare se entrambi gli illeciti siano riferibili alle medesime circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, inerendo cioè ad un

19 Cfr. E. SCAROINA, Costi e benefici del dialogo tra Corti in materia penale. La giurisprudenza nazionale in cammino dopo la sentenza Grande Stevens tra disorientamento e riscoperta dei diritti fondamentali, in Cass. pen., 2015, n. 7-8, p. 2935. 20 Pur differendo, talvolta, nelle conclusioni, i percorsi logici e le implicazioni deduttive ivi contenute sono pienamente sovrapponibili, sicché a ragione possiamo parlare di uniforme orientamento. Si segnalano, in particolare: Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2018, n. 49869 (Chiarion); Cass. civ., sez. trib., 30 ottobre 2018, n. 27564; Cass. pen., sez. V, 16 luglio 2018, n. 45829 (Franconi); Cass. pen., sez. V, 9 novembre 2018, n. 5679 (Erbetta); Cass. civ., sez. II, 6 dicembre 2018, n. 31634; Cass. civ., sez. II, 6 dicembre 2018, n. 31632; Cass. pen., sez. V, 15 aprile 2019, n. 39999; Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2019, n. 33426.

136 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 medesimo fatto storico21. Se, pertanto, il giudice comune dovesse ravvisare una sovrapposizione, sull’idem factum, di due sanzioni “penali” (l’una formalmente, l’altra solo sostanzialmente tale), dovrà poi procedere a valutare quegli ulteriori elementi, indici di una stretta connessione sostanziale e temporale, che legittimano il sistema binario22. Il criterio prevalente tra quelli decritti «per verificare la presenza della stretta connessione è pacificamente individuato da tutte le pronunzie in quello della “proporzionalità” tra il cumulo di sanzioni irrogate (di cui quella amministrativa pecuniaria è ormai considerata di natura penale) e la gravità dell’illecito» 23 . Secondo la Corte di legittimità, questo apprezzamento rientra nell’ambito applicativo dell’art. 133 c.p. e soggiace, pertanto, alle valutazioni ed ai parametri ivi indicati. Ne comporta ovviamente un allargamento: l’operazione deve, infatti, estendersi sino a comprendere la sanzione amministrativa già applicata, imponendo al giudice di considerare se l’interesse generale sotteso alla disciplina dell’illecito penale sia stato già, in parte o totalmente, soddisfatto da quella sanzione. Individuerà così la misura della pena applicanda sul residuo non coperto dalla precedente sanzione. Ebbene, alla luce di questo canone, la disciplina degli abusi di mercato – sulla quale verteva l’esame della Corte – manifesta senza dubbio (non solo in astratto, ma anche in concreto) un elevato grado di severità: oltre al concorso delle sanzioni principali (reclusione da uno a sei anni e multa da euro ventimila a euro tre milioni, nonché sanzione amministrativa da ventimila euro a cinque milioni di euro), simile normativa consente infatti, in entrambi i procedimenti, l’aumento della multa/sanzione «fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto

21 Qui si sarebbe fermato l’interprete secondo l’impostazione elaborata dalla Corte EDU nel caso “Grande Stevens c. Italia”; un’impostazione definita “versione maior” del principio di ne bis in idem. Cfr. F. CONSULICH - C. GENONI, L’insostenibile leggerezza del ne bis in idem. Le sorti del divieto di doppio giudizio e doppia punizione, tra diritto eurounitario e convenzionale, in Giurisprudenza penale web, 2018, n. 4, p. 8. 22 Si osservi una curiosa divergenza nelle ricostruzioni delle due Corti sovranazionali: secondo la Corte EDU, la sussistenza della close connection vale ad escludere ex ante la violazione del principio di ne bis in idem. Diversamente, secondo la Corte di Giustizia UE, la connessione tra i due procedimenti non esclude la violazione al principio, ma vale solamente a giustificarne ex post una deroga ai sensi dell’art. 52 CDFUE. 23 Cass. pen., sez. V, 16 luglio 2018, n. 45829, § 4.1. Si veda anche, la ricostruzione dei vari criteri, realizzata con particolare attenzione a quello della proporzionalità, in B. NASCIMBENE, il divieto di bis in idem nella elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Sist. pen., 4/2020, pp. 95 ss.

137 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 conseguito», nonché pene accessorie e confisca obbligatoria24 del profitto e del prodotto25 dei reati o degli illeciti amministrativi. Difficile, dunque, che il giudice nazionale – autorizzato a valutare la proporzione tra fatto e sanzione – non pervenga a ravvisare in tali pene draconiane un eccesso di repressione, una dismisura rispetto alla lesività di un bene giuridico dalla determinatezza, fra l’altro, discutibile26. Ritenuta sussistente la violazione del ne bis in idem per effetto di una sproporzione tra la risposta sanzionatoria complessiva e il disvalore espresso dalla condotta, la Cassazione – dovendo porre rimedio a tale violazione – riconosce infine la possibilità di disapplicare, in tutto27 o solo in parte, la normativa penale, derogando in bonam partem ai minimi edittali. In tal modo, il giudice dovrà rapportare il quantum di pena all’effettivo disvalore del fatto, nella misura non coperta dalla precedente sanzione 28 . Obbligo, questo, normativamente imposto dalla diretta

24 Si tenga conto che la Consulta ha recentemente dichiarato incostituzionale la confisca, diretta o per equivalente, del “prodotto” ex art. 187-sexies TUF, posto che conduceva «a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione». Corte cost. n. 112/2019. Rimane invero integra, in caso di condanna, la confisca diretta o per equivalente del profitto o del prodotto conseguente al reato o dei beni utilizzati per commetterlo. 25 Se poi si considera la possibilità per la Consob di costituirsi parte civile nel procedimento penale, alle somme dovute a titolo di sanzione si sommano quelle dovute a titolo di risarcimento del danno. Ma non è tutto: se si aggiungesse la disciplina della responsabilità dell’ente, prevista dagli artt. 187-quinquies TUF e 25-sexies d.lgs. n. 231/2001, invece di bis in idem si potrebbe arrivare anche a parlare di quater in idem. 26 La stessa disciplina europea, tra direttive e regolamenti, indica la possibilità di gestire un abuso di mercato con sole sanzioni amministrative, salvo la previsione di sanzioni penali per fatti più gravi (per un approfondimento si veda: F. MUCCIARELLI, La nuova disciplina eurounitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2015, n. 4, pp. 295 ss). Ciò dimostra come la condotta antisociale potrebbe ricondursi nell’insieme di quelle condotte e pratiche commerciali anticoncorrenziali, la cui illiceità può esser gestita mediante il ricorso ad altro tipo di responsabilità. 27 Ipotesi che nelle logiche della Corte dovrebbe essere eccezionale, ossia riservata a quei casi di lampante sproporzione, ove la sola sanzione amministrativa sia, per entità e funzione, idonea a coprire l’intero significato antigiuridico della condotta. Così: Cass. pen. N. 49689/2018; Cass. pen. n. 39999/2019. In tale evenienza, in ogni caso, sembra profilarsi a livello dogmatico il sopraggiungere di una causa di non punibilità in senso stretto, stante il richiamo da parte di Cass. pen. N. 5679/2019 all’art. 129 c.p.p. 28 Si riportano qui i passaggi decisivi di una decisione del Tribunale di Milano, ove il giudice, atteso che gli imputati erano stati già condannati al pagamento della sanzione amministrativa di 100.000,00 euro, applica il criterio di proporzionalità al fine di sanare violazioni di ne bis in idem, indicando in che modo procedere al calcolo della pena complessiva. Così, il Tribunale «ritiene di dover irrogare […] una pena coincidente con il minimo edittale previsto dalla disposizione incriminatrice [ossia: 2 anni di reclusione e 40.000 euro di multa, ndr.]. Valutata l’entità della sanzione amministrativa già irrevocabilmente inflitta agli imputati – pari a 100.000,00 euro –

138 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 applicabilità che si riconosce al principio del ne bis in idem consacrato nell’art. 50 CDFUE 29 e dalla conseguente necessità di disapplicare la normativa interna con esso confliggente.

3. Problemi connessi ai pronunciamenti della Cassazione in tema di ne bis in idem

Il nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, in accoglimento dei più recenti pronunciamenti delle Corti europee, consente finalmente di attenuare un rigido e quanto mai severo regime sanzionatorio e di dare concreta applicazione a un principio che, sinora, non aveva avuto significative estrinsecazioni. Non può nascondersi, tuttavia, una nota di rammarico. La conclusione cui è pervenuta la Cassazione e che sta già trovando riscontri nella giurisprudenza di merito può rappresentare soltanto una soluzione temporanea, capace di arginare violazioni del ne bis in idem, ma non di prevenirle. La costruzione del ne bis in idem quale figura ibrida, nei termini sopra specificati, seppure ricomprenda il divieto di doppio giudizio, ne produce una sostanziale restrizione 30 , inteso che ad esser precluso non è più l’intero procedimento, ma la punibilità di “frazioni” di disvalore già coperte da precedenti sanzioni. Tuttavia, la stessa Corte di Cassazione questo Tribunale ritiene, poi, di non dovere applicare alcuna sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 187-terdecies TUF. […] La sanzione amministrativa pecuniaria applicata da Consob supera di ben 60.000 la pena pecuniaria che questo Tribunale avrebbe irrogato agli imputati. Facendo applicazione – quale criterio parametrico al fine di una valutazione in termini attuali della reale afflittività della sanzione – della disposizione di cui all’art. 135 c.p., si rileva che la pena di 60.000 euro di multa corrisponde alla pena detentiva di mesi otto di reclusione». Di qui la sottrazione di otto mesi di reclusione, quale deroga mitigativa al minimo edittale. Trib. Milano, sentenza n. 14767 del 15 novembre 2018, reperibile online su www.penalecontemporaneo.it, 15 marzo 2019, con nota di F. MUCCIARELLI, “Doppio binario” sanzionatorio degli abusi di mercato e ne bis in idem: prime ricadute pratiche dopo le sentenze della CGUE e la (parziale) riforma domestica. 29 Cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza C-537/16, Garlsson Real Estate, § 69: «Il principio del ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferisce ai soggetti dell’ordinamento un diritto direttamente applicabile». 30 Dello stesso parere, difatti, la stessa giurisprudenza nazionale. Si veda, a riguardo, Corte cost. n. 43/2018, § 7: «Neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. […] Così, ciò che il divieto di bis in idem ha perso in termini di garanzia individuale, a causa dell’attenuazione del suo carattere inderogabile, viene compensato impedendo risposte punitive nel complesso sproporzionate». Ugualmente, Cass. pen. n. 45829/2018, § 3.3.4.b.

139 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ricorda che il divieto di perseguire la stessa persona per lo stesso fatto, sancito dall’art. 50 CDFUE, «è logicamente anteriore al divieto di sanzionare»31, per cui basterebbe l’inizio di un secondo procedimento onde considerare violato il ne bis in idem. Per evitare che la garanzia osti all’applicazione di sanzioni «efficaci e dissuasive», si è deciso, diversamente, di contemperare il dato normativo, facendo leva sulla proporzionalità complessiva della pena. In questo modo si perde, però, la ratio del divieto di giudicare due volte una persona per lo stesso fatto, quella medesima ratio di cui la dottrina italiana ha discusso lungamente con riguardo all’articolo 649 c.p.p., ovvero: l’incontestabilità del risultato di un processo e la certezza del diritto. Una “certezza” da intendersi in un duplice significato32: in senso soggettivo come “sicurezza dei diritti”, con il corollario che si vieterebbe l’esposizione dell’assolto o condannato a un’illimitata possibilità di reiterazione dei procedimenti per lo stesso fatto33; in senso oggettivo, a garanzia dell’unità di giurisdizione ed ispirato da ragioni di economia processuale, come “coerenza logico-formale”, con l’effetto di impedire conflitti pratici tra decisioni definitive. Pertanto, il ne bis in idem, nella sua veste processuale, soddisfa una diversa e ulteriore esigenza, «non circoscritta unicamente ad evitare il pericolo di una duplice sottoposizione alla pena, ma costruita inoltre sul presupposto che il costo sul piano umano di un nuovo processo penale [o sostanzialmente tale] non trova comprensione adeguata nell’interesse sociale alla ricerca incessante di una presunta verità materiale»34. Si perde, in tal senso, un aspetto fondamentale del ne bis in idem e si finisce per confondere tale principio con un’altra esigenza, espressa dall’art. 49 CDFUE, §3: «Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Ma il ne bis in idem non è solo proporzionalità della risposta sanzionatoria. È molto più: esso impone al

31 Cass. pen., n. 31632/2018, § 23. 32 Cfr. G. DE LUCA, Giudicato. Diritto processuale penale, p. 2; ID., I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963, pp. 124 s.. 33 Cfr. Corte cost. n. 200/2016, § 6, che annovera tra i diritti fondamentali «il “principio di civiltà giuridica, oltre che di generalissima applicazione” (ordinanza n. 150 del 1995) espresso dal divieto di bis in idem, grazie al quale giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l’individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. In caso contrario, il contatto con l’apparato repressivo dello Stato, potenzialmente continuo, proietterebbe l’ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro dell’ordinamento costituzionale (sentenza n. 1 del 1969; in seguito, sentenza n. 219 del 2008)» (corsivi nostri). 34 N. GALANTINI, Il divieto di doppio processo come diritto della persona, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, n.1, p. 98 (corsivi nostri).

140 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 legislatore di non pregiudicare il cittadino sulla scorta di pretestuose moltiplicazioni qualificatorie e per vicende di vita che necessitano di essere ricondotte entro un unico quadro; impone di dare coerenza all’intero ordinamento, evitando vane duplicazioni. Si rivolge, ancora, al giudice, affinché sussuma la condotta entro le fattispecie astratte espressive del significato antigiuridico così come inteso dal legislatore ed eviti che la macchina della giustizia torni a valutare accadimenti sui quali si sia già espressa. Il solo riferimento alla proporzionalità delle pene, necessariamente, si sottopone poi a valutazioni critiche, nella misura in cui la giurisprudenza, europea e nazionale, non specifica criteri oggettivi e univoci35 per poter apprezzare il rapporto proporzionale tra gravità del fatto e pena corrispondente. La proporzionalità, infatti, non è una caratteristica auto- evidente, ma uno «schema che si presta ad essere fondato e sviluppato in modi diversi»36, secondo quei parametri e criteri che di volta in volta si utilizzino; è l’idea centrale, da sempre, di ogni teoria sulla pena e sulla sanzione 37 , per cui il concetto di proporzionalità dipende – inevitabilmente – dagli scopi che si intendano raggiugere e/o dai valori che si vogliano tutelare. In sostanza: «domina il campo il totale relativismo delle opzioni»38. L’effetto, dunque, è quello di lasciare il giudice di merito sprovvisto di strumenti idonei a valutare la proporzionalità, di lasciarlo solo, con riguardo a valutazioni che – dall’una o dall’altra parte del processo – potranno non essere condivise ed essere eventualmente censurate dal giudice dell’impugnazione, portatore – a sua volta – di un diverso ideale di proporzionalità39. Inoltre, l’aver rapportato la proporzionalità delle sanzioni alla sola gravità

35 Nello stesso senso cfr. F. MUCCIARELLI, “Doppio binario” sanzionatorio degli abusi di mercato e ne bis in idem, § 7. 36 D. PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 650. 37 Così E. DOLCINI, Pene edittali, principio di proporzione, funzione rieducativa della pena: la Corte costituzionale ridetermina la pena per l’alterazione di stato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1958. 38 M. DONINI, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 4/2013, p. 19. 39 Cfr. similmente C. SANTORIELLO, Dal principio del ne bis in idem l’attribuzione di un potere discrezionale senza limiti ai giudici nazionali, in ilsocietario.it, 30 ottobre 2019: «Che dire… D’ora in poi ogni processo sarà sottoposto alla spada di Damocle della discrezionale decisione del singolo giudice circa la severità del trattamento punitivo».

141 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 del fatto rischia di alimentare una visione puramente retributiva40 della pena e del diritto penale, sulla base di quell’assunto, fortemente criticato in dottrina, che esista e possa essere individuata una pena la quale, negativo per negativo, compensi il male commesso nel reato41. Il che, oltre ad essere immotivato sul piano morale e su quello preventivo, sarebbe per di più impossibile. Chi può dire quale pena sia davvero proporzionata a un abuso di mercato? Dovremmo essere capaci di misurare l’offesa ai valori e ai beni giuridici tutelati dalle norme, «entità prive di base epistemologica di raffronto»42, e di bilanciarli con il sacrificio della libertà personale o patrimoniale del reo. Ma non solo: dovremmo anche essere in grado di misurare la colpevolezza interiore, quale indicatore concreto per determinare la pena giudiziale43. Il rischio, dunque, è che la pena dipenda «dal modo attraverso il quale in un dato contesto storico si richieda (emotivamente) di esprimere, nei confronti del soggetto responsabile, la gravità attribuita a un certo fatto antigiuridico»44. Sempre in tema di proporzionalità, preme osservare che, secondo la Corte45, uno dei parametri per valutare il disvalore del fatto, dal quale desumere poi la corretta corrispondenza della pena, è l’apprezzamento degli «aspetti propri di entrambi gli illeciti e, in particolare, degli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato». Si presume, infatti, che i due procedimenti e le sanzioni «riguardino, in vista della realizzazione di un obiettivo di interesse generale, scopi complementari vertenti, eventualmente, su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata».

40 Si veda la recente ricostruzione del criterio di proporzionalità, secondo la visione retributiva della pena, in M. DOVA, Pena prescrittiva e condotta reintegratoria, Torino, 2017, pp. 170 ss. e la notevole dottrina ivi menzionata. 41 Non è altro che la legittimazione dell’antico ius talionis. A riguardo si veda esemplificativamente: U. EBERT, Talion und Spiegelung im Strafrecht, in W. KÜPER, Festschrift für Karl Lackner zum 70° Geburtstag, Berlino/New York, 1987, pp. 399 ss.; G. MANNOZZI - F. RUGGIERI, Pena, riparazione e riconciliazione. Diritto penale e giustizia riparativa nello scenario del terzo millennio, Insubria University Press, 2007; W.I. MILLER, Occhio per occhio, UTET, 2008; H. ARENDT, Responsabilità e giudizio, trad. it. Einaudi, 2010; D. PULITANÒ, Diritto Penale, VIII, 2019, pp. 47 ss. 42 M. DONINI, Per una concezione post-riparatoria della pena. Contro la pena come raddoppio del male, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, n. 2, p. 1174. 43 Ibidem. 44 L. EUSEBI, Ripensare le modalità della risposta ai reati traendo spunto da Corte EDU 19 giugno 2009, Sulejmanovic c. Italie, in Cass. pen., 2009, n. 12, p. 4940; ID, Appunti critici su un dogma: prevenzione mediante retribuzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 4, pp. 1157 ss. 45 Cfr. Cass. pen. n. 49869/2018.

142 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942

Emerge nondimeno, sul punto, un’antinomia. L’apprezzamento della finalità del procedimento/sanzione, infatti, è imposto a monte, al fine di accertare – secondo i “criteri Engel”46 - se la sanzione amministrativa sia sostanzialmente “penale”. Ora, se per escludere la violazione del ne bis in idem occorre innanzitutto accertare la complementarietà di scopi, in caso di doppio binario sanzionatorio si dovrebbero poter ravvisare nella sanzione amministrativa uno scopo e un interesse diversi dal “punire”, essendo questo il fine precipuo dell’ambito penale. Se si escludesse la finalità punitiva, tuttavia, la sanzione amministrativa perderebbe quella qualifica di “sostanzialmente penale” che tale finalità le aveva fatto assumere, di guisa che il principio di ne bis in idem, sin dall’inizio, non troverebbe applicazione: esso, infatti, opera solo al concorrere di due sanzioni “penali” (formalmente o sostanzialmente tali), non estendendosi le garanzie penali anche ai procedimenti di diversa tipologia. Rimane, dunque, incomprensibile come possa la giurisprudenza nazionale riconoscere allo stesso tempo la natura penale della sanzione amministrativa (in quanto persegue il medesimo fine di quella penale) e la complementarietà degli scopi che giustifica il doppio binario sanzionatorio. Nella disciplina degli abusi di mercato, ciò che maggiormente determina la violazione del ne bis in idem è, difatti, la duplicazione della finalità punitiva, insita sia nella sanzione penale, sia in quella amministrativa47. Nei suoi pronunciamenti, invece, la Cassazione non fonda la violazione del ne bis in idem sulla riproduzione del medesimo fine (quello punitivo), ma unicamente sulla sproporzione tra l’entità finale della sanzione e la violazione degli interessi tutelati. La complementarietà degli scopi, che pure è menzionata, deriverebbe, a suo dire, dalla diversità degli interessi

46 È ben noto come a partire dalla celebre sentenza Corte EDU, case of Öztürk v. Germany, del 21 febbraio 1984 (in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, n. 3, con nota di C.E. PALIERO, “Materia penale” e illecito amministrativo secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: una questione “classica” a una svolta radicale, pp. 908 ss.) si sia avviata una cd. giurisprudenza «dello scopo», tesa a valorizzare il concetto di finalità punitiva della sanzione anche a prescindere dal suo ammontare (ivi, § 54: «The relative lack of seriousness of the penalty at stake cannot divest an offence of its inherently criminal character»). 47 Così, esplicitamente, la Corte di Giustizia UE, causa C-537/16, “Garlsson”, § 34: «Risulta quindi che tale sanzione non ha soltanto lo scopo di risarcire il danno causato dall’illecito, ma persegue anche una finalità repressiva – il che del resto corrisponde alla valutazione del giudice del rinvio – e presenta, pertanto, natura penale» (corsivi nostri). Così anche Corte di Giustizia UE, cause riunite C-596/16 e C-597/16, “Di Puma”, § 38.

143 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 tutelati dalla normativa penale ed amministrativa48. Scelta discutibile. Una cosa è la finalità della sanzione, altra l’interesse generale che l’illecito tutela. Potranno pure ricavarsi interessi diversi da illeciti che sanciscono il medesimo precetto49, ma non si può certo negare che la piena sovrapponibilità – in termini di onerosità – delle sanzioni deponga a favore dell’identità dei loro fini. Pertanto, sarebbe stato preferibile che si fosse rapportato il canone di proporzionalità direttamente agli scopi stessi delle sanzioni e non alla realizzazione o meno dell’interesse sotteso alla normativa. Dello stesso parere, d’altronde, è la Corte costituzionale, che in tema di confisca obbligatoria del prodotto degli illeciti amministrativi previsti dalla disciplina del TUF, ha ravvisato proprio nella duplicazione della finalità punitiva l’elemento di sproporzione tra sistema sanzionatorio e fatto concreto50.

4. Il doppio binario sanzionatorio nella logica dell’integrale valutazione dello stesso fatto

Ad ogni modo, la regola iuris individuata dalla Corte di Cassazione – valutazione della proporzionalità dell’intera risposta sanzionatoria rispetto al disvalore della condotta secondo i parametri dell’art. 133 c.p. e conseguente deroga ai minimi edittali qualora parte del disvalore sia già coperto dalla sanzione amministrativa – permette di arginare gli eccessi punitivi cui, sinora, la giurisprudenza non aveva potuto rimediare.

48 Cfr. Cass. pen. n. 49869/2018, § 9.1. 49 Come sia dato riconoscere e distinguere due diversi interessi, tutelati l’uno dalla normativa penale, l’altro in via amministrativa, è cosa poco chiara. Se i precetti sono in toto sovrapponibili e le sanzioni di diverso tipo sono onerose allo stesso modo, in base a quali elementi è possibile sostenere che l’illecito penale tuteli un bene giuridico ulteriore rispetto al bene tutelato amministrativamente? Non è forse vero che, in tema di abusi di mercato, entrambi gli illeciti tutelino la serenità del mercato, la correttezza degli operatori, la fiducia dei risparmiatori?! 50 Cfr. Corte cost. n. 112/2019: «8.3.5. – Nel vigente sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, la (predominante) componente “punitiva” insita nella confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle altre sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 e, in particolare, dalla sanzione amministrativa pecuniaria. […] 8.3.6. – A giudizio di questa Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati» (corsivi nostri).

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Siamo, tuttavia, ben lontani dall’affermare che la disciplina degli abusi di mercato (e non solo) sia conforme al ne bis in idem. Perché ciò avvenga, occorre che i due procedimenti/sanzioni concorrenti siano intesi effettivamente come complementari tra di loro e non più come pienamente sovrapponibili nei fini. A tal proposito, è chiaro come l’unica via percorribile sia quella de lege ferenda. Se l’intenzione è quella di apprestare una tutela dalla pretestuosa duplicazione repressiva, ex ante riconoscibile – posto che è dalla loro configurazione astratta che è possibile apprezzare la finalità dell’illecito e della sanzione – solo l’intervento del legislatore è idoneo a ricostruire due illeciti complementari negli scopi, adattando – in tal modo – la politica criminale al principio del ne bis in idem. Prima di esaminare in che modo, a nostro parere, il potere politico potrebbe adeguare la normativa vigente al ne bis in idem, preme però fare un piccolo passo indietro e inquadrare la questione in termini precisi. Ciò che origina i due procedimenti di diversa natura è la duplice qualificazione giuridica – in termini identici – del medesimo fatto storico, nel segno di un’azione repressiva tanto più severa51. Ragionando secondo i canoni dogmatici “tradizionali”, il divieto di essere puniti più volte per lo stesso fatto – ne bis in idem sostanziale – precede logicamente quello – processuale – di subire più giudizi: il primo sarebbe violato anche se la sanzione amministrativa (ma sostanzialmente penale) e quella penale fossero emesse all’esito del medesimo procedimento. Nelle logiche del ne bis in idem sostanziale, la molteplice qualificazione giuridica del medesimo fatto nasce, in realtà, dall’apparenza del concorso: le norme “penali” nella loro semantica appaiono contemporaneamente applicabili, ma solo una è quella realmente riferibile al caso concreto, perché speciale e pertanto derogatoria a quella generale. Differentemente, quando si tratta della convergenza di norme aventi diversa natura, il concorso è sempre effettivo 52. Non occorre stabilire se vi sia unità o pluralità di fatti giuridici (come in caso di concorso di norme penali), ma piuttosto stabilire, dato un unico fatto giuridico, in quante direzioni sia rilevante e quanti effetti di differente natura produca53.

51 Cfr. A.F. TRIPODI, Cumuli punitivi, ne bis in idem e proporzionalità, in Riv.it. dir. proc. pen., 2017, n. 3, p. 1055. 52 Cfr. F. MANTOVANI, Concorso e conflitto, p. 375. 53 Pare, infatti, convincente la tesi espressa da parte della dottrina (in particolare da F. CARNELUTTI, Il danno e il reato, Padova, 1930, p. 83) secondo la quale quando sul medesimo fatto storico convergono più norme di diversa natura sussisterebbe un unico fatto giuridico, rilevante in più direzioni e con pluralità di effetti di differente natura. Se

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Qualora un medesimo fatto sia considerato da più norme, che vi ricollegano effetti di natura diversa, ciò significa che tale fatto viene contemplato dall’ordinamento sotto molteplici profili54. «Alla valutazione giuridica del fatto, perciò, concorrono varie norme, le quali soltanto nel loro insieme ne esauriscono in ogni direzione, in tutta la sua estensione, la rilevanza giuridica»55. Dunque, il principio sovraordinato che dovrebbe indirizzare l’interprete è quello di una “integrale valutazione giuridica del fatto” in tutti i suoi aspetti giuridici rilevanti. Orbene, ogni qual volta l’illecito amministrativo che concorra con quello penale è qualificabile come “sostanzialmente” penale, ciò che si realizza è una sorta di sopravvalutazione dello stesso fatto. Dal medesimo precetto non scaturiscono effetti giuridici differenti, non c’è una profilazione del fatto tale da coprire differenti direzioni, bensì la riproduzione della medesima valutazione di quel fatto. Si comprende, allora, che la molteplice qualificazione giuridica non comporta, di per sé, la violazione del ne bis in idem sostanziale. Solamente quando la norma “non penale” – non necessariamente amministrativa, valendo anche per l’ambito civile, disciplinare, etc. – assume i medesimi contenuti e le medesime finalità della norma penale, tale da potersi qualificare come “sostanzialmente” penale (rivestendo, pertanto, caratteristiche tali da uscire per sostanza dai confini della categoria giuridica cui formalmente appartiene), l’una esaurisce il giudizio di illiceità del fatto proposto anche dall’altra. Ciò che occorre, dunque, in una prospettiva de lege ferenda, non è l’eliminazione a priori del sistema a doppio binario, ma la sua ristrutturazione secondo le direttive appena indicate, ossia facendo in modo di associare ad un medesimo precetto sanzioni di sostanza, scopi ed effetti differenti56. a quel fatto corrispondono più illeciti, il precetto giuridico è unico, ma con pluralità di sanzioni di diversa natura, dando vita ad un concorso di sanzioni. Contrariamente, altra parte della dottrina (ad esempio: B. PETROCELLI, L’antigiuridicità, 4a ed., Padova, 1966, pp. 23-31), valorizzando l’assoluta corrispondenza tra precetto e sanzione, ritiene che la convergenza di norme di diversa natura sullo stesso fatto dia vita ad una pluralità di fatti giuridici, ciascuno munito della relativa sanzione, sicché si avrebbe concorso di illeciti e non di sanzioni. Cfr. F. MANTOVANI, Concorso, p. 376, nota 38. 54 Ivi, p. 374. 55 Ivi, p. 375. 56 Il criterio dello “scopo” delle sanzioni, utilizzato dalla giurisprudenza europea, può essere – in quest’ottica – validamente assunto quale parametro per valutare se le norme convergenti su un medesimo precetto siano espressione di diverse esigenze. Tale criterio, tuttavia, fallisce se, successivamente, si identifica lo scopo della sanzione penale nella sola “afflizione”.

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Del resto, rinunciare tout court al procedimento amministrativo vorrebbe dire rinunciare all’effettività della risposta sanzionatoria in un settore particolare, come quello economico, ove il funzionamento del mercato e il rispetto della concorrenza richiedono un’indiscutibile celerità e tecnicismo. Pacifico, infatti, che «la tutela extrapenale e amministrativa può offrire, in determinate situazioni, garanzie di maggior tempestività e certezza d’attuazione e, quindi, dimostrarsi più idonea sotto il profilo della prevenzione generale»57. Dall’altra, se si rifiutasse la presenza del diritto penale in questo settore, «in quanto elemento di disturbo, per le sue connotazioni di rigidità, rispetto ad un sistema tutto sommato in grado di autoregolarsi o di ricorrere ad altri più adeguati e consoni strumenti di controllo» 58, si minerebbe, dal punto di vista processuale, il rispetto di quei fondamentali diritti e garanzie che corredano il processo penale. Dal punto di vista sostanziale, invece, si demanderebbe alla Pubblica Amministrazione il giudizio di illiceità di fatti che, in alcuni casi, sono carichi di un disvalore oggettivo e soggettivo ben più pregnante dei reati comuni. Sott’accusa, in definitiva, non è solamente il doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale, ma la dislocazione in più fattispecie, tra loro concorrenti, di effetti tutti considerati penali: un universo sconfinato e quanto mai eterogeno, «astrattamente incline ad abbracciare le più diverse costellazioni tipologiche di norme, illeciti e sanzioni»59. Misure di prevenzione, confische, sanzioni disciplinari, interdizioni ed incapacitazioni, e da ultimo persino i cd. punitive damages60, assolvono a funzioni non altrimenti realizzabili, capaci di risultati che la sola pena principale non sarebbe in grado di garantire. Tuttavia, in certi casi, questi strumenti possono assurgere ad un tale grado di onerosità da riprodurre identicamente quell’effetto che l’ordinamento giuridico appresta con la

57 F. BRICOLA, Carattere “sussidiario” del diritto penale e oggetto di tutela, in ID, Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997, p. 204. 58 G.M. FLICK, Introduzione, in AA.VV., Consob. L’istituzione e la legge penale, Roma, 1987, p. 13. A favore di un’alternatività tra sanzioni amministrative e penali, a seconda della gravità dell’illecito, si veda F. GALLO, Il ne bis in idem: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, reperibile online su www.cortedicassazione.it. 59 V. MANES, Profili e confini dell’illecito para-penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, n. 3, p. 989. 60 Cfr. Cass. pen., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601, ove si è stabilito che non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi, il quale, oltre ad assolvere alla funzione tipicamente civilista di risarcimento del danno, risponde altresì ad una finalità sanzionatoria e di deterrenza.

147 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 previsione di fattispecie penali. E così, se la finalità di una misura extrapenale equivale a quella delle norme penali (perché non altrimenti spiegabile), il concorso tra più di esse comporta una duplicazione, triplicazione, quadruplicazione (e così via) del medesimo giudizio di illiceità sullo stesso fatto. Diversamente, se lo scopo e l’effetto di tali misure è realmente differente, la loro convergenza su di un medesimo accadimento consente di considerarle sostanzialmente connesse le une alle altre, ossia come diversi tasselli di un’unica risposta sanzionatoria integrata. Solo un coordinamento tra le diverse sanzioni permette di sfuggire a censure di ne bis in idem sostanziale, così come solo una stretta connessione – nel rispetto della più recente giurisprudenza europea – tra i diversi procedimenti consente di evitare bis in idem processuali. Si veda bene che in questo modo, all’interno di quella che abbiamo definito essere una “figura ibrida” – il ne bis in idem europeo –, la veste sostanziale non fagocita più quella processuale, ed entrambi i divieti, di doppia pena e processo, trovano piena cogenza.

5. Sanzione e finalità punitiva

Evitare che il sistema sanzionatorio a due binari trasmodi nella doppia punizione di una stessa condotta61, con la riproduzione di effetti giuridici identici a fronte di un medesimo fatto: questo il significato che deve attribuirsi a quel requisito, la complementarietà di scopi, imposto dalle Corti europee. Accade, tuttavia, che nel distinguere gli effetti penali da quelli amministrativi si provi un certo imbarazzo. Potrebbe sembrare compito facile, eppure, se si cerca di selezionare i fini esclusivi che la pena in senso stretto persegue, ci si accorge ben presto di essere a corto di idee. Forse che anche l’illecito amministrativo non abbia, in sé stesso, una componente punitiva? Stando all’interpretazione delle Corti europee, la sanzione amministrativa può dirsi “sostanzialmente” penale allorquando essa abbia una connotazione afflittiva pari a quella che generalmente caratterizza quella “formalmente” penale e sia inflitta perseguendo una finalità non già meramente risarcitoria, ma preventiva (dissuadere i futuri trasgressori dal commettere le condotte illecite) e repressiva (sanzionare coloro che

61 Cfr. M.L. DI BITONTO, Il ne bis in idem nei rapporti tra infrazioni finanziarie e reati, in Cass. pen., 2016, n. 4, p. 1342.

148 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 hanno commesso questo tipo di fatti ed evitare la loro recidiva)62. La ricostruzione volta a riconoscere l’ontologismo del penale nell’afflizione, tuttavia, non convince. Sostenere che le sanzioni amministrative siano sostanzialmente penali in quanto attingono a una sofferenza, legalmente inflitta 63 , in chiave di deterrenza e neutralizzazione, superando la sola compensazione riparatoria e/o satisfattiva 64 , farebbe nascere, infatti, un equivoco: la pena si identificherebbe, tout court, nell’inflizione di una sofferenza in chiave di deterrenza e neutralizzazione. Il che significherebbe riferirsi, ancora una volta, a una concezione puramente retributiva della pena, in base all’assioma per il quale «la giustizia consisterebbe nel rispondere al negativo individuato nell’altro con la reciprocità del negativo che gli venga inflitto»65, perdendo di vista – tra l’altro – il finalismo rieducativo della pena, «verso cui obbligatoriamente [essa] deve tendere»66.

62 Cfr., ad esempio, Corte EDU, case of Öztürk v. Germany, § 53: «Above all, the general character of the rule and the purpose of the penalty, being both deterrent and punitive, suffice to show that the offence in question was, in terms of Article 6 (art. 6) of the Convention, criminal in nature». Così anche Corte EDU, case of Grande Stevens and others v. Italy, del 4 marzo 2014, §96. 63 Cfr. V. ZAGREBELSKY, La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. MANES - V. ZAGREBELSKY (a cura di), La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 74 ss. 64 Cfr. F. MAZZACUVA, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Torino, 2017, pp. 27 ss. - 71 ss; esclude le sanzioni compensative e meramente risarcitorie dall’alveo della materia penale anche M. CHIAVARO, La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, Giuffrè, 1969, p. 97, nota 34. 65 L. EUSEBI, Dirsi qualcosa di vero dopo il reato: un obiettivo rilevante per l’ordinamento giuridico?, in Criminalia, 2010, pp. 637 ss. 66 Corte cost. n. 40/2019, § 5.2. Proprio nella giurisprudenza costituzionale, il principio di proporzionalità della pena va affermandosi sempre più quale corollario della finalità rieducativa di cui all’art. 27 Cost, sicché ne esce fortemente ridimensionata la concezione retributiva della pena secondo la quale il termine “proporzionalità” indica null’altro che la relazione tra il male causato dal reato e l’afflizione della sanzione penale. Vedasi, di recente, Corte costituzionale, sent. 5 n. 222/2018: «Una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994)». Chiarificante, a riguardo, la sent. n. 179/2017, § 4.4, con la quale si evidenzia, prima di tutto, che i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. impongono di contenere l’entità della sanzione «nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»; ricordando di seguito come «il principio di proporzionalità della pena [radicato nell’art. 3 Cost. e nei principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui costituisce una delle possibili declinazioni, sia] altresì presupposto dall’art. 27 Cost., come ha sottolineato questa Corte sin dalla sentenza n. 313/1990». Importante anche la sent. n. 149/2018, secondo la quale gli automatismi sanzionatori generano «un

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Anche da un punto di vista semplicemente pratico, è evidente che, in alcuni casi, è proprio la sanzione amministrativa, e non quella penale, a esser considerata più “afflittiva” e idonea a produrre l’effetto “dissuasivo- repressivo” che, in teoria, dovrebbe riconoscersi esclusivamente al penale (per timore dell’inflizione di una sofferenza). Si rammenti, in proposito, la normativa sugli abusi di mercato, in rapporto alla severità delle sanzioni amministrative in essa previste, e si consideri che, al contrario di queste ultime, la pena può essere condizionalmente sospesa e presuppone, con riguardo a un delitto, l’accertamento del dolo67. Se afflizione e sofferenza non debbono considerarsi le traduzioni teleologiche della pena in senso stretto, deve forse esserlo la rieducazione del condannato? Certamente. Tuttavia, il finalismo rieducativo, secondo l’assioma dell’art. 27 Cost., non può ritenersi depositum esclusivo della sanzione penale: sostenerlo significherebbe negare, infatti, che anche attraverso la sanzione amministrativa l’autore dell’illecito risulti sollecitato a comprendere il disvalore della propria condotta e a rispettare, per il futuro, la norma violata 68 . Anche la sanzione amministrativa, dunque, mostra una componente rieducativa, che la

contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» per il fatto di «relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257/2006)». 67 In questi termini, non pare potersi condividere la ricostruzione operata in Cass. pen. n. 49869/2018, secondo la quale «giova a mettere in luce una più marcata finalizzazione dell'illecito amministrativo alla tutela oggettiva del mercato e della fiducia degli investitori; tutela, questa, propria anche del bene protetto dalla norma incriminatrice dell’illecito penale, in relazione al quale, tuttavia, essa si salda alle ulteriori finalizzazioni tipiche della sanzione penale e, in particolare, all'istanza special-preventiva» (corsivi nostri). Ad essere temuta, il più delle volte, è proprio la sanzione amministrativa e non la pena in senso stretto, sicché la finalità special- preventiva è soddisfatta efficacemente non dalla normativa panale, ma dall’illecito amministrativo. Così anche in C.E. PALIERO - A. TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, p. 307: il modello sanzionatorio amministrativo, al pari di quello penale, è «finalisticamente orientato alla prevenzione generale e speciale, cioè allo scoraggiamento dei singoli e dell’intera collettività da comportamenti indesiderati (lesivi o pericolosi per interessi generali)». 68 Di avviso parzialmente discorde la Consulta, che, nella sentenza n. 112 del 2019, ha ritenuto la finalità rieducativa di cui all’art. 27 Cost. «strettamente conness[a] alla logica della pena privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale, attorno alla quale è tutt’oggi costruito il sistema sanzionatorio penale, e che resta sempre più o meno direttamente sullo sfondo anche nell’ipotesi in cui vengano irrogate pene di natura diversa, come rimedio di ultima istanza in caso di inadempimento degli obblighi da esse derivanti». Non si estenderebbe, quindi, all’illecito amministrativo, contrariamente a quanto aveva in precedenza affermato (vedi sentenza n. 313 del 1990, secondo cui il finalismo rieducativo costituisce un «principio che la Corte di Giustizia della Comunità europea ha accolto in tutta la sua ampiezza, al punto da estenderlo all'illecito amministrativo»).

150 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 rende simile – sotto questo aspetto – alla pena in senso stretto. Ecco l’incertezza cui ci riferivamo. Messe a confronto, sanzione penale e amministrativa sembrano di fatto perseguire gli stessi scopi69. Ma allora, facendo applicazione di uno dei “criteri Engel”, quello dello “scopo della sanzione”, gli illeciti amministrativi sono quasi sempre “sostanzialmente penali”: rimarrebbero esclusi soltanto quelli che prevedono sanzioni meramente risarcitorie 70 , ovvero aventi finalità immediate di prevenzione e dunque tali da non presentare quei caratteri suscettibili di farle attrarre nell’alveo delle sanzioni “sostanzialmente” penali. Lo scopo delle prime, infatti, è solamente quello di compensare71 i danni provocati dalla condotta, in modo da ripristinare la situazione antecedente; mentre le seconde risponderebbero esclusivamente a esigenze di neutralizzazione della pericolosità. Se, dunque, la sanzione amministrativa e la pena perseguono, per lo più, i medesimi effetti, sicché la prima è qualificabile come sostanzialmente penale, in che modo potrebbe strutturarsi un doppio binario sanzionatorio evitando che l’illecito extrapenale sia incorporato in quel cerchio 72 entro il quale debbono applicarsi le garanzie sostanziali e processuali tradizionali (tra cui il ne bis in idem, sostanziale e processuale)?

69 D’altronde, se ciò non fosse, ogni lesione o messa in pericolo di un bene giuridico dovrebbe essere gestita esclusivamente con gli strumenti del diritto penale. 70 Vi sono tuttavia casi, eccezionali forse, in cui la misura meramente riparatoria potrebbe assumere i caratteri propri della pena. Pensiamo a situazioni in cui il soggetto abbia provocato danni superiori al guadagno conseguito con la condotta criminosa: la riparazione/risarcimento del danno cagionato direttamente o indirettamente alla/e persona/e offesa/e comporterebbe un sacrificio ben superiore alla compensazione con il proprio guadagno. La consapevolezza di dover rimediare e risarcire i danni dipendenti dalla condotta potrebbe esercitare, di conseguenza, gli stessi effetti di prevenzione generale-speciale della pena in senso stretto. Similmente: C. ROXIN, Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, pp. 11, 15 ss.; M. ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, pp. 865 ss.; G.P. DEMURO, Diritto penale e risarcimento del danno: la tutela del bene giuridico concretamente leso, in Riv. pen., 2013, p. 1204. 71 A proposito delle misure risarcitorie-riparatorie si veda Corte EDU, case of Bendenoun v. France, del 24 febbraio 1994, § 47, ove la Corte desume il carattere penale della sanzione tributaria da fatto che tale misura non fosse intesa quale risarcimento del danno, ma quale deterrente, in senso punitivo, alla violazione della norma. 72 Famosa, oramai, l’immagine di un sistema a «cerchi concentrici» formulata da F. VIGANÒ e di recente riportata in F. DIAMANTI - L. MESSORI, La “materia penale” tra diritto nazionale ed europeo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, n. 3, p. 1241. La stessa sentenza di Cass. pen. n. 49869/2018 riporta l’espressione, frequente in dottrina, di materia penale a “geometria variabile”, per esprimere la variazione delle garanzie a seconda che l’illecito rientri o meno nel nucleo duro del diritto penale.

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6. Pena e processo: come distinguere il penale da altri ambiti sanzionatori

La sanzione, che sia penale o che sia amministrativa, palesa sempre un intento punitivo. Dal punto di vista degli obiettivi finali, illecito amministrativo e penale rappresentano strumenti sovrapponibili: entrambi possono minacciare oneri gravosi e provocare deterrenza, neutralizzazione, rieducazione. Occorre, dunque, cambiare prospettiva, per non rimanere affossati in una secca sterile. Sulle orme della giurisprudenza europea, che ci ha insegnato a desumere dai caratteri della sanzione la sua appartenenza alla cd. “materia penale”, si è cercato sinora di definire l’aggettivo “penale” movendo dalle caratteristiche della “pena”. Se invece, invertendo il processo, individuiamo la funzione della pena partendo dal compito che dovrebbe riconoscersi al diritto penale, riusciamo a stabile con precisione gli effetti che le due componenti binarie del sistema sanzionatorio dovrebbero perseguire e che potrebbero realizzare. Mutando l’oggetto dell’analisi dallo scopo della sanzione al ruolo del diritto, possiamo prendere le mosse da un dato tanto basilare, quanto ineludibile: il procedimento penale nel suo complesso, al di là della pena che può comportare (potendo essere anche meno onerosa di quella amministrativa), implica un coinvolgimento personale ben più consistente rispetto al procedimento amministrativo. Infatti, da una parte, la soggezione a un processo penale, per i rischi che ne derivano nonché per gli oneri e i costi personali che ne conseguono, genera nella percezione soggettiva dell’imputato (e della collettività) l’idea di trovarsi sottoposto a una procedura dalla rilevanza qualitativamente superiore, nel cui ambito, a prescindere dai profili sanzionatori, si discute di imputazioni sostanzialmente più gravi. Dall’altra, l’incisività degli strumenti processuali nella vita privata, la pubblicità del processo, la possibilità di tener conto dei paradigmi di cui all’art. 133, co. 2, c.p., la possibile partecipazione dei soggetti offesi dal reato73, sono tutti fattori che favoriscono una migliore valutazione complessiva del fatto antisociale. L’esistenza di queste due componenti, l’una “soggettiva” (l’autore dell’illecito percepisce che se è in gioco l’ambito penale allora il fatto è

73 Cfr. T. VAN CAMP, Understanding victim participation in restorative practices: Looking for justice for oneself as well as for others, in European Journal of Criminology, 2016, n. 28, pp. 679 ss.

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“serio”), l’altra “oggettiva” (la presenza di elementi che possono favorire una comprensione più approfondita dell’intero significato antigiuridico della condotta posta in essere), permettono di demandare alla sanzione penale una funzione potenzialmente estranea alla sanzione amministrativa: l’effettiva reintegrazione del soggetto agente nell’ambito di relazioni giuridico-sociali corrette. Il concetto di “reintegrazione”, del resto, ha una portata decisamente più ampia del termine “rieducazione”. La “reintegrazione” implica il ripristino di quei rapporti interpersonali e sociali che con la sua condotta il reo ha reciso. Implica, ancora, che l’autore della violazione normativa comprenda il male provocato con il suo agire e che sia portato (meglio, forse, accompagnato) a riconoscere il valore della norma violata. È la riconquista del consenso personale ai valori delle norme il guadagno della reintegrazione74. Perché la risposta a un illecito possa assumere valore reintegrante, deve, quindi, potersi offrire all’autore dell’illecito «l’opportunità di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione»75. Ecco, dunque, il compito da riconoscere al diritto penale: «fare verità – inteso non esclusivamente come indagine storica sui fatti offensivi e sulle condotte ad essi correlate, bensì anche come ricostruzione dei percorsi personali e dei contesti in cui quei fatti vanno inquadrati», in modo da rendere disponibili «argomenti idonei a motivare il commiato delle scelte comportamentali che abbiano prodotto danno o sofferenza»76. Questo sapere, è evidente, risulta acquisibile in sede penale. Il coinvolgimento personale, soggettivamente e oggettivamente prodotto (per i motivi suindicati), stimola e richiama l’autore della violazione a prendere parte al gioco. Consente, sulla conoscenza ottenuta, di progettare una condotta reintegratrice idonea a ristabilire giustizia, parametrata alle concrete esigenze del reo, della vittima, delle istituzioni, potenzialmente soggetti attivi nel percorso prestabilito.

74 Cfr. L. EUSEBI, Ripensare le modalità, p. 4938 ss., il quale evidenzia che la pena può divenire, per queste ragioni, persino una chance positiva per lo stesso autore del reato. Per una ricerca pratica sugli effetti della cd. Restorative Justice, si veda: M. RIETMAN, Effectiveness of restorative justice practices. An overview of empirical research on restorative justice practices in Europe, in European Forum for Restorative Justice, 2017. 75 Art. 13, lg. 26 luglio 1975, n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. 76 L. EUSEBI, Pena e perdono, in Riv. it. dir. proc. pen, 2019, n. 3, p. 1145.

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Di contro, l’ambito extra-penale si presenta sprovvisto di quei caratteri e strumenti idonei a provocare tale risultato. L’asettico coinvolgimento in una procedura amministrativa potrebbe tradursi, con riguardo alla sanzione, nel mero adempimento di un dovere, carente di una effettiva adesione alla sua ratio. Non per questo il procedimento amministrativo e la sua sanzione non sono in grado di rieducare l’autore di illeciti. Ma l’effetto reintegratorio, nei termini sopra accennati, rappresenta un risultato decisamente più ampio, ove il perseguimento di un’adesione personale (al progetto individualizzato, ai suoi fini, al valore della norma violata) dà sostanza e significato al procedimento ed alla sanzione. Su questa base la sanzione penale pare assumere un carattere distintivo: interverrebbe nei casi in cui, a seguito di una violazione normativa, sia necessario fare appello alla persona e conseguire un risultato che non consiste tanto in un’obbligazione da adempiere, quanto in una modifica dell’atteggiamento personale77. Ciò dovrebbe avvenire, lo si ripete, sempre nell’ottica di una extrema ratio. Ci sono settori dell’agire illegale, infatti, in cui le esigenze preventive e sanzionatorie sono pienamente soddisfatte dalla sola previsione di norme non penali: rispetto le quali, in altre parole, l’ordinamento giuridico ritiene che gli effetti delle violazioni normative possano trovare riparazione senza la necessità di un appello a un mutamento degli atteggiamenti personali.

7. Orientamenti per nuovi equilibri nel sistema sanzionatorio

Se la distinzione tra pena in senso stretto e altre tipologie di sanzione è ricostruita in questi termini, si guadagna una logica più chiara delle scelte sanzionatorie: la sanzione amministrativa dovrebbe essere fissata in modo proporzionale al danno o al pericolo prodotto, calibrandone l’entità sul quantum necessario alla restituzione, alla neutralizzazione delle conseguenze dannose e dei profitti, al risarcimento (quanto, dunque, inerisce strettamente ai beni giuridici lesi), rimanendo con ciò certamente onerosa, ma senza trasmodare nel “punitivo”78. All’ambito penale sarebbe,

77 Nel secondo caso, più che “conseguire”, si tratterebbe di “favorire” un risultato: l’ordinamento giuridico non è in grado di giudicare la coscienza interiore di una persona, né di apprestare percorsi riabilitativi infallibili. Ciò che può fare è stimolare l’adesione personale ad un progetto di recupero; dare una chance. 78 Sebbene ai fini della nostra trattazione la qualificazione della misura non ha rilevo, è da segnalare che parte della dottrina qualificherebbe gli obblighi riparatori, ad es. quelli contenuti nel T.U.A., non più come sanzioni ma come mere misure amministrative: cfr.

154 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 invece, demandata la valutazione di una diversa esigenza, ossia di una previsione sanzionatoria programmata a reintegrare, qualora, ovviamente, il fatto illecito richieda una modifica comportamentale da parte del soggetto agente (il che attiene, pertanto, a una modifica del suo modo di atteggiarsi sul piano sociale). La sanzione penale e quella amministrativa (in tal senso non qualificabile come sostanzialmente penale) concorrerebbero in questo modo a esprimere esigenze diverse, seppure correlate al medesimo fatto giuridico, dando vita a un sistema integrato e privo di duplicazioni. Beninteso: il riconoscimento della peculiarità reintegratrice al diritto penale non conduce ad una negazione della possibilità, da parte del legislatore, di prevedere soli illeciti amministrativi rispetto a condotte offensive, antidoverose e in ogni caso colpevoli79 (evitando, tuttavia, di costruire un sistema sanzionatorio simile a quello di uno “Stato di polizia”, il quale, come un nuovo Leviatano 80, faccia ricorso a illeciti sostanzialmente penali onde garantire efficienza alla repressione e privare in modo sistematico l’individuo, nel loro nucleo duro, delle garanzie processuali penali). Anzi, è possibile e auspicabile, che – in date circostanze – un reato in senso sostanziale sia gestito senza un reato in senso formale 81 : anche sanzioni amministrative, civili, disciplinari, assolvono, talvolta in maniera più efficace, a una funzione risocializzante dell’autore di un illecito. Il doppio binario sanzionatorio, così come lo abbiamo pensato, dovrebbe interessare, di conseguenza, solo settori circoscritti. Del resto, la differenziazione della risposta sanzionatoria in base all’ambito in cui si realizza il fatto risulta essenziale82. Un meccanismo finalizzato in primis alla riparazione, alle restituzioni, al risarcimento del danno e, solo su tale base, al contrasto, se necessario, di una aggiuntiva illiceità penale, potrebbe avere senso in rami come il diritto finanziario o il diritto ambientale. In tali settori, infatti, la celerità dell’agire amministrativo

W. GIULIETTI, Danno ambientale e azione amministrativa, Editoriale Scientifica, 2012, pp. 219 ss. 79 Cfr. F. MAZZACUVA, Le pene nascoste, pp. 57 ss. Sono questi i caratteri che anche l’illecito amministrativo ha acquisito in seguito all’intervento “codificatorio” attuato con la legge 689 del 1981. Si veda a riguardo: C.E. PALIERO - A. TRAVI, La sanzione amministrativa, pp. 217 ss. 80 Brillante figura metaforica, ripresa da P. PINTO DE ALBUQUERQUE, Dissenting Opinion, in Corte EDU, Case of A and B v. Norway, § 21. 81 Cfr. L. EUSEBI, citato in F. DIAMANTI - L. MESSORI, La “materia penale”, p. 1244. 82 Cfr. a riguardo L. EUSEBI, «Gestire» il fatto di reato. Prospettive incerte di affrancamento della pena «ritorsione», in AA.VV. La pena, ancora: fra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, 2018, I, pp. 227 ss.

155 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 risponde adeguatamente al fine di ristabilire, in modo tempestivo, l’ordine violato con la condotta illegale mediante il ripristino, nella misura del possibile, dello status quo ante. La duplicazione delle sanzioni, invece, sarebbe priva di senso laddove non si avvertisse la necessità di una così pronta azione ripristinatoria. Rimane poi da precisare che la sanzione penale reintegratrice non va necessariamente identificata con quella privativa della libertà personale, risultando, in effetti, ampiamente utilizzabili strumenti alternativi. Ebbene, malgrado la risocializzazione sia stata per lo più concepita, di fatto, solo come regola interna, nella fase della sua esecuzione, alla pena detentiva83, non può che constatarsi come quest’ultima, in verità, «non mira a incidere, attraverso la sua inflizione, sugli effetti del reato, né cerca in alcun modo il coinvolgimento della persona stessa cui, pure, risulta diretta»84. Se ne può dunque evincere che una buona reintegrazione non si realizza tanto con forme di pena subìta, quanto, piuttosto, con forme di pena agìta, secondo un paradigma sanzionatorio di tipo prescrittivo85, il cui effetto pratico dovrebbe essere quello di «riallacciare il nodo della solidarietà e della pace sociale, includendo il condannato in un circuito ricostruttivo, anziché [quello] di tagliare quel nodo attraverso l’esclusione del reo dal consorzio umano»86. La rinuncia alla pena detentiva, in favore di uno strumento alternativo, non implicherebbe, peraltro, il venir meno dell’onerosità caratterizzante lo strumento penale: gli adempimenti che si richiederebbero all’autore del reato sarebbero, infatti, tutt’altro che banali, comportando impegno e, in tal senso, sacrificio. Dunque, pur sempre – se lo si vuole – una sofferenza, ma lontana dagli assiomi di una visione retribuzionistica87 e, nondimeno, capace di rappresentare, almeno prima facie, una conseguenza sfavorevole per il reo, la cui comminazione risulterebbe egualmente idonea ad esercitare forza deterrente88.

83 Cfr. L. EUSEBI, Appunti critici, p. 1177. 84 ID, «Gestire» il fatto di reato, p. 226. 85 La questione è succintamente analizzata da M. DOVA, Pena prescrittiva, ove l’A. ricostruisce interamente la figura della pena realmente reintegratrice, riscostruendone fondamenti, finalità, effetti e tipizzazioni pratiche. 86 Ivi, p. 268 87 Cfr. L. EUSEBI, Giustizia conciliativa e discrezionalità nel sistema penale, in L. PICOTTI – G. SPANGHER (a cura di), Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, Milano, 2005, p. 63. 88 Cfr. M. DOVA, Pena prescrittiva, p. 212, il quale sottolinea altresì – ivi, p. 197 – che «differenziare il modello repressivo e integrare al suo interno la condotta reintegratoria – come sanzione autonoma – significa ridurre al minimo il ricorso alle risposte punitive “classiche”. In altre parole, l’ingresso nel diritto penale di forme di reazione fondate

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Resterebbe, in ogni caso, legittimo il ricorso alla pena detentiva, ma andrebbe circoscritto ai casi in cui il legame del reo con lo stile comportamentale criminoso non possa che essere reciso, fondatamente, attraverso la privazione della libertà personale. Si tratterebbe, in questo senso, di uno strumento “estremo”, ancorché pur sempre finalizzato al rinserimento sociale89 dell’autore di reato. Venendo, ora, all’assetto concreto di un eventuale doppio binario sanzionatorio, la sua strutturazione potrebbe essere pensata nei termini seguenti. Anzitutto si avvierebbe, al momento della commissione di un fatto tipico il procedimento amministrativo (di regola più rapido), diretto all’applicazione di una misura riferita a quanto necessario per le restituzioni, nonché per la riparazione/risarcimento del danno oppure per la neutralizzazione dei profitti o delle conseguenze dannose. Un’operazione sostanzialmente matematica: stimato e monetizzato il costo del risarcimento, se ne richiede la dazione; quantificate le somme sottratte, se ne richiede la restituzione; individuate e selezionate le conseguenze criminose, si obbliga il responsabile alla riparazione. Successivamente, attraverso la celebrazione del procedimento penale, l’avvenuta irrogazione della precedente sanzione amministrativa potrebbe divenire il punto di partenza per la valutazione del tipo di condotta (di regola) prescrittiva con la quale gestire il reato in termini progettuali e favorire la reale reintegrazione sociale del soggetto autore del reato. Di conseguenza, quanto più l’ordinamento si doterà di sanzioni alternative alla pena detentiva, tanto più sarà possibile elaborare un progetto sanzionatorio personalizzato90. sulla reintegrazione non mette in discussione il carattere punitivo della reazione, ma il più profondo nucleo negativo della concezione retributiva della pena». 89 Verrebbero così a determinarsi due fasce della punibilità, non antitetiche negli obiettivi, così descrivibili: «L’una attinente alle diverse forme della pena agìta (proattiva), piuttosto che subìta nei termini di un danno (reattiva): forme sanzionatorie che presuppongono un appello al consenso, o alla stessa iniziativa, del soggetto autore di reato. L’altra attiene ai casi in cui resti necessaria la restrizione di diritti e in articolare della libertà personale, ma pure sempre orientata al reinserimento sociale del condannato». L. EUSEBI, «Gestire» il fatto di reato, p. 236. 90 Cfr. M. DOVA, Pena prescrittiva, p. 269, che esemplificativamente cita: lo svolgimento di attività a favore della collettività; l’obbligo a carico dell’autore del reato di pubblicare la sentenza di condanna; la partecipazione ad un percorso di formazione o ad un trattamento terapeutico; fortemente reintegratori se accompagnati, a nostro parere, da contestuali pene interdittive, quali, ad esempio, la limitazione temporanea dall’esercizio di determinate attività per il periodo congruo e necessario affinché il soggetto autore di reato torni a riconoscere il valore della norma violata. Il consenso del reo, oltre ad essere alla base della reintegrazione soggettiva, rappresenta l’elemento

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Un siffatto meccanismo, ove la pena, quando necessaria, seguirebbe – tenendone conto – la riparazione, avrebbe, del resto, una ricaduta sistemica fondamentale: «l’idea che prima viene la riparazione e solo dopo o in assenza di essa si comincia a discutere veramente della pena implica che la pena acquista una struttura epistemologica non retributiva (cioè: il “raddoppio del male”), ma post-riparatoria» 91 , quando la riparazione non appaia sufficiente. Escluse, pertanto, duplicazioni sostanziali, secondo quanto abbiamo discusso sinora, sarebbe doveroso riconoscere, poi, un rilievo autonomo al principio del bis in idem processuale, evitando che il sistema a doppio binario moltiplichi, oltre lo stretto necessario, gli adempimenti processuali92. Del resto, «meccanismi di assorbimento, compensazione e rivalutazione del carico sanzionatorio», che consentirebbero di evitare duplicazioni nella pretesa punitiva, «possono al meglio funzionare attraverso l’unificazione processuale dei momenti di accertamento, proprio in presenza di plurimi illeciti o sanzioni»93. Non si tratta, tuttavia, di demandare al procedimento amministrativo l’accertamento della colpevolezza individuale, così da privare il cittadino delle garanzie che il procedimento penale gli appresta. Mantenere l’autonomia dei procedimenti di diversa natura significa che il fatto concreto sarà riscostruito secondo le regole di formazione della prova

ottimale per una buona prevenzione generale: «nulla, infatti, rafforza maggiormente quest’ultima, cioè l’autorevolezza delle norme violate riconfermandone la vigenza, di quanto non possa fare la summenzionata presa di distanze, sulla base di seri impegni riparativi, da una pregressa condotta illegale ad opera dello stesso soggetto che l’abbia tenuta (o, in altre parole, la dimostrazione che l’ordinamento è in grado di convincere, con i suoi buoni argomenti, rivolgendosi al suo interlocutore quale soggetto capace di scelte libere: una dimensione di efficacia cui mai l’approccio neutralizzativo potrebbe ambire)». L. EUSEBI, Appunti critici, p. 1175. 91 M. DONINI, Septies in idem. Dalla «materia penale» alla proporzione delle pene multiple nei modelli italiano ed europeo, in Cass. pen., 2018, n. 7, p. 2298 (corsivi originari). 92 Non potrebbe ritenersi rispettato il principio del ne bis in idem se la distinzione tra sanzioni amministrative e penali non fosse seguita da un’epurazione di tutte le duplicazioni processuali che gravano sull’imputato. Difatti, «il ne bis in idem sostanziale condivide con quello processuale una comune matrice; si tratta di due facce della medesima medaglia, quella dell’abuso del diritto, processuale da una parte, sostanziale dall’altra: non può infatti che essere abusiva (termine da intendere in senso etimologico, come «uso eccessivo») la moltiplicazione di qualificazioni sostanziali e processuali di fronte ad una fattispecie concreta suscettibile di un inquadramento giuridico unitario». F. CONSULICH, La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell’autoriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2015, n. 1/2, p. 73. 93 M. DONINI, Septies in idem, p. 2297.

158 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 proprie di un procedimento amministrativo e di un procedimento penale, non diversamente da quanto accade allo stato attuale. Con una differenza. Mentre, oggi, i procedimenti sanzionatori sono sovrapponibili sia nell’accertamento delle responsabilità che nei fini, la soluzione che si prospetta vedrebbe i due procedimenti interagire nell’accertamento delle responsabilità e divergere nei fini. In un’ottica de iure condendo, infatti, la giurisdizione penale ‒ l’organo inquirente, prima ancora di quello giudicante ‒ dovrebbe servirsi94 degli accertamenti svolti in ambito amministrativo quale mezzo di prova della responsabilità penale dell’imputato, per raggiungere un risultato, autonomo, che potrebbe anche divergere rispetto al primo. Infatti, seppure determinati elementi risultino, in ambito amministrativo, sufficientemente probanti un determinato fatto, potrebbero non esserlo in sede penale, ove si richiede un valore probatorio oltre ogni ragionevole dubbio. Ritenere il procedimento amministrativo e le prescrizioni ivi imponibili quali prius logico della pena in senso stretto non significa intendere il procedimento penale quale mera continuazione di quello amministrativo nella progettazione della pena irrogabile. L’esistenza di un provvedimento sanzionatorio di diversa natura non esonera, così, il giudice penale dall’accertare se i fatti posti a fondamento di quel provvedimento siano nel proprio procedimento altrettanto probanti. È compito dell’organo inquirente, infatti, acquisire il materiale probatorio formato al di fuori del giudizio ed introdurlo nel processo penale quale prova a carico dei fatti. Anche l’adempimento agli oneri imposti dall’Autorità amministrativa, da parte dell’imputato, non rappresenterebbe una presunzione sull’an della colpevolezza, costituendo, piuttosto, un fattore che incide sulla valutazione del suo quantum. Un siffatto sistema non solo risulterebbe pienamente conforme ai requisiti richiesti in sede europea per ammettere un doppio binario sanzionatorio ‒ stanti, in sostanza, nella complementarietà di scopi tra i due procedimenti (così da causarne una materiale connessione) e nella proporzionalità complessiva della “pena” ‒ ma, anche, a entrambi i princìpi del ne bis in idem, sostanziale e processuale, senza che il secondo ne subisca costrizione alcuna. La conduzione di differenti procedimenti,

94 Una collaborazione effettiva, non limitata a semplici scambi di informazione, come del resto emerge, oggi, dall’art. 187-decies T.U.F., ove non c’è un’unificazione processuale, ma solo scambio di informazioni, documenti, notizie, nell’ottica di una loro riutilizzazione autonoma e separata nel diverso procedimento.

159 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 in questo quadro, non comporterebbe duplicazioni, ma ognuna risulterebbe comprensibile come una “parte della risposta punitiva” del medesimo fatto. Bisogna peraltro ribadire che in molte situazioni la sola riparazione del danno potrebbe garantire di per sé un’effettiva reintegrazione soggettiva, così da escludersi la necessità di agire anche sul piano penale 95 . L’impegno che comportano talune sanzioni amministrative, infatti, determinerebbe il completo esaurimento delle esigenze di prevenzione connesse al disvalore del fatto colpevole 96 , in modo da togliere fondamento alle stesse ragioni del punire97. A tal punto troverebbe spazio, anche, l’applicazione del ne bis in idem “europeo” come ricostruito dalla Corti sovranazionali e attuato recentemente dalla Corte di Cassazione, secondo la quale la proporzionalità della sanzione rispetto la gravità del fatto consente di derogare in mitius alla normativa penale. In sintesi, tale proposta impone di «ripensare civile, amministrativo e penale insieme»98. I diversi rami dell’ordinamento devono porsi in un dialogo costante, al fine precipuo di evitare che la valutazione giuridica di un fatto subisca duplicazioni nella medesima direzione. Quando, dunque, più norme giuridiche di diversa natura convergono sullo stesso fatto storico debbono in ogni caso prenderne in considerazione aspetti diversi, così che ne discendano effetti diversi. È questo il valore precettivo del ne bis in idem: una garanzia che stimola a una nuova presa di coscienza circa i concetti di “illecito” e di “sanzione”, in forza della quale modulare, senza dannose duplicazioni, la risposta sanzionatoria multipla e poterla definire, così, complessiva ed integrata. Il precetto in cui si sostanzia questa regola non sta, quindi, nell’ostacolare l’attività di contrasto dei reati, ma nel coordinarne al meglio l’esercizio.

8. Le sentenze di legittimità tra dispositivi e obiter dicta

95 A questa logica rispondono norme di recente introduzione, quali – ad esempio – l’art.162-ter c.p. (“Estinzione del reato per condotte riparatorie”); l’art. 301-bis del d.lgs. n. 81/2008 (“Estinzione agevolata degli illeciti amministrativi a seguito di regolarizzazione”); l’art. 318-septies del d.lgs. n. 152/2006 (“Estinzione del reato”) etc. 96 Cfr. ad esempio C.E. PALIERO, La mediazione penale tra finalità conciliative ed esigenze di giustizia, in R.E. KOSTORIS (a cura di), Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Giuffrè, Milano, 2007, p. 121; L. EUSEBI, «Gestire» il fatto di reato, pp. 236 s. 97 Cfr. C. RUGA RIVA, Sanatorie, condoni, ‘indultino’: forme e limiti costituzionali dell’impunità retroattiva, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2004, p. 210. 98 M. DONINI, Septies in idem, p. 2299.

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Il merito che va riconosciuto alla giurisprudenza europea è quello di aver aperto i confini del diritto penale ed aver esteso anche ad altri ambiti le garanzie che gli appartengono. Sanzioni amministrative, illeciti tributari, fiscali, disciplinari «dalla natura apolide», che rischiavano di rimanere «terra di nessuno» 99 con buona pace dei diritti soggettivi, sono ora orbitati entro l’ambito della scienza penalistica, «occorrendo chiedersi, in specie, se non siano ormai maturi i tempi per la costruzione di una “teoria generale dell’illecito”, comunque sanzionato»100. Il merito, ancora, è quello di aver gettato le fondamenta di una nuova categoria e di averla pian piano cementata: il para-penale, che si muove oltre i limiti delle qualificazioni giuridiche, behind the appearances, assumendo come riferimento epistemologico il carattere punitivo di tutte quelle misure sanzionatorie che costellano un ordinamento101. Ritenere che il diritto debba essere interpretato ed applicato «in a manner which renders its rights practical and effective, not theoretical and illusory»102 è sicuramente un’idea suggestiva, che permette di valorizzare la dimensione intrinsecamente “concreta” del diritto, cioè di guardare oltre le vesti formali o nominali della realtà, sin dentro la sua sostanza. Le recenti pronunce della Corte di Cassazione, in tema di ne bis in idem, mostrano chiaramente come anche nel nostro ordinamento stia penetrando, in totale contrasto con orientamenti precedenti, questa nuova sensibilità, propensa a dare rilevanza alla natura e alla sostanza delle cose, piuttosto che al piano logico-astratto. La soluzione adottata per risolvere il contrasto del doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis in idem (in certa misura derogatoria in bonam partem al principio di legalità), consentendo di guardare direttamente al concreto disvalore di un fatto antigiuridico, permette al giudice di calarsi nella realtà dei fatti, senza risultare vincolato dalle stesse cornici edittali. La conclusione individuata dal giudice di legittimità rappresenta un traguardo importante nella tutela del ne bis in idem, il quale, sinora, aveva avuto un’applicazione incerta. Ma non è tutto: c’è, nelle recenti sentenze, qualcosa di più, che va oltre ai soli casi di doppio binario e che attiene, più in generale, al divieto di bis puniri ed ai suoi criteri valutativi. A riguardo, infatti, la giurisprudenza di legittimità si è mostrata da sempre restìa nell’applicare – perché «privi di sicure basi ricostruttive»103

99 V. MANES, Profili e confini dell’illecito, p. 995. 100 G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative, p. 11. 101 Cfr. V. MANES, Profili e confini dell’illecito, p. 1002. 102 Corte EDU, case Zolotukhin v. Russia, § 80. 103 Cass. pen., sez. un., 28 aprile 2017, n. 20664, § 3.1.

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– i criteri dell’assorbimento e della consunzione104, ideati dalla dottrina e ricondotti a quei casi di concorso di reati in cui gli accadimenti, seppure diversi, sono riferibili ad una medesima vicenda, determinandosi un’unità di disvalore oggettivo e soggettivo 105 : per cui si ritiene il significato antigiuridico del fatto interamente esaurito dal contenuto di una sola norma (detta consumens) e in tal modo lo scopo di entrambe pur sempre realizzato. Se, dunque, si è ammesso che tali criteri debbano operare a fronte di un concorso, esplicitamente voluto e previsto dal legislatore 106 , tra una norma formalmente penale e una (solo) sostanzialmente tale, logicamente essi non potranno che ritenersi applicabili, in futuro, anche a fronte di un concorso di norme formalmente penali. In caso di doppio binario sanzionatorio, infatti, la stessa formulazione normativa presuppone un concorso effettivo tra norma penale ed extrapenale, sicché la non applicazione di una delle norme comporta sempre una deroga con effetti favorevoli al principio di legalità (ancorché quel principio attenga, invero, esclusivamente alla salvaguardia del cittadino nei confronti della potestà punitiva statuale). Al contrario, in caso di concorso di norme penali, l’applicabilità di quei criteri non è esclusa littera verbis dalle norme incriminatrici, potendo – quindi – farvi ricorso con minor sacrificio, senza neppure derogare al testo normativo. La giurisprudenza maggioritaria ha da sempre escluso l’applicabilità di tali criteri ritenendoli privi di una base legale e per questo in contrasto con il principio di legalità e della separazione dei poteri. Non solo,

104 Si legga ad esempio: «I giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale». Cass. pen. sez. un., 20 dicembre 2005, n. 47164. Gran parte della dottrina, tuttavia, ha ribattuto che la determinatezza e la prevedibilità delle conseguenze giuridiche sono principi di natura liberale, che non possono essere invocati a sostegno di interpretazioni restrittive e sfavorevoli all’imputato. In sostanza, tra un’interpretazione sempre sfavorevole (che, sulla scorta del solo principio di specialità, ravvisa in astratto il concorso tra due norme) e una incerta ma possibilmente favorevole (a causa dell’applicazione dei criteri di sussidiarietà, assorbimento e consunzione), l’imputato non può che preferire la seconda, sicché non possono ritenersi violati i suoi diritti dall’adozione di quei criteri. 105 Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. Art. 1-84, I, 3a ed., Milano, 2004, p. 186. 106 Incontrovertibile la clausola di salvaguardia “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” prevista nelle fattispecie degli illeciti amministrativi di cui agli artt. 187-bis e 187-ter TUF, che rende inapplicabile il principio di specialità previsto all’art. 9 l. n. 689/1981.

162 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 secondo simile indirizzo, non si rinviene alcuna disposizione che autorizza il giudice a tale applicazione107, ma consentire di ritenere sostanzialmente assorbito il disvalore espresso da una norma incriminatrice, astrattamente integrata, dall’applicazione di un’altra norma significherebbe riconoscere all’autorità giudiziaria il potere di sindacare indirettamente la politica criminale, di cui è titolare esclusivo il legislatore. Questo orientamento non pare più, in certa misura, condivisibile. È ragionevole ora attribuire ai criteri di consunzione e assorbimento una base legale certa: l’art. 4 Prot. VII CEDU e – ratione materiae, nei limiti dell’applicazione del diritto dell’Unione – l’art. 50 CDFUE. Secondo la normativa sovranazionale, così come interpretata dalle Corti di riferimento 108 , il principio di ne bis in idem impone di valutare la proporzionalità della risposta sanzionatoria alla gravità del fatto e di derogare in mitius allo spazio edittale complessivo. È, infatti, sul piano della proporzionalità della sanzione rispetto al disvalore espresso dalla condotta criminosa che operano consunzione e assorbimento. Riprendendo alcune osservazioni di Antonio Pagliaro, pertanto, è possibile distinguere la teoria del “concorso di norme” da

107 Sebbene in dottrina alcuni autori abbiano richiamato la seconda parte dell’art. 15 c.p., le Sezioni Unite hanno ritenuto che l’inciso finale dell’articolo, “salvo che sia altrimenti stabilito”, alluda – invero – alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici, che, in deroga al principio di specialità, talvolta prevedono l’applicazione della norma generale, anziché di quella speciale considerata sussidiaria. Si veda, a riguardo, Cass. pen., sez. un., n. 47164 del 2005. Secondo diversa dottrina, potrebbe rinvenirsi il fondamento dei criteri di consunzione o assorbimento in altre norme, in particolare nell’art. 84 c.p. Così G. VASSALLI, “Reato complesso”, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, p. 834: «Di tale principio [di consunzione] ci sembrano espressione, nel nostro diritto vigente, sia l’art.84, sia l’art. 68 relativo alle circostanze (dove si fa riferimento proprio al concetto di “compressione” di una entità in un’altra), sia i casi del reato progressivo. Quest’ultimo è cosa diversa dal reato complesso […], ma ha con il reato complesso un forte punto di comunanza, dato proprio dall’essere entrambi riconducibili al criterio di consunzione». Anche tale tesi, tuttavia, non è stata accolta dalla giurisprudenza la quale ha sottolineato che lo stesso art. 84 c.p. richiede che sia la legge a considerare “come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato”. L’applicazione di una sola norma non deriverebbe, dunque, dall’apprezzamento giudiziale del fatto, quanto piuttosto dalla valutazione del giudice della astratta legge applicabile al caso concreto. 108 Sul valore vincolante dell’ermeneutica sovranazionale si veda, ex multis, Corte cost. n. 348/2007: «Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione».

163 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 quella del “concorso di reati”, sulla scorta del fatto che «per decidere della unità o pluralità di reato, è necessario determinare quante volte sia realizzato il fatto descritto dalle norme penali: occorre, quindi, stabilire anzitutto quali siano, per qualità, le norme applicabili, mentre solo in un secondo momento può seguire l’indagine diretta ad accertare quante volte il contenuto di ogni norma sia stato realizzato» 109. Proprio in questo secondo momento opererebbero i criteri di valore. Posto che essi impongono di valutare se il significato antigiuridico di una norma sia già concretamente riassorbito in quello di un’altra, tali criteri presupporrebbero di per sé un concorso di reati e quindi che l’astratta applicabilità di più norme sia stata già risolta a favore della pluralità di reati. Ciò consente, anche, di tenere fede a quell’orientamento giurisprudenziale maggioritario che vede nel criterio di specialità, sancito dall’art. 15 c.p., l’unico criterio utile a risolvere il concorso apparente di norme. Per questo, si delineerebbero due fasi. Nella prima, la convergenza normativa di più norme sul medesimo fatto sarebbe risolta mediante il raffronto astratto delle fattispecie normative e il ricorso al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. Nella seconda, invece, la concreta applicazione delle norme (astrattamente applicabili) potrebbe essere esclusa mediante il ricorso ai criteri di consunzione e assorbimento, che impongono di raffrontare il disvalore astrattamente espresso dalle norme applicabili con quello concretamente manifestato dalla condotta, così da applicare – sul piano sanzionatorio – quella sola fattispecie in grado di esaurire l’intero significato antigiuridico del fatto. La Corte di legittimità, consapevole o meno, ha di fatto aperto le porte a quei criteri valoriali che soli, in certi casi, consentono l’aderenza delle fattispecie astratte alla realtà fenomenica e di sfuggire ad un rigido formalismo che impedisce di trattare con vera proporzione sanzioni e condotte criminose.

Abstract: The notion of matière pénale, as received in the Italian legal system, has had so significant consequences on the application of ne bis in idem that the principle has changed its own nature. In the light of the new concept of ne bis in idem, the substantive and procedural guarantees are now both unified under the same principle. Even though national courts tried to apply the concept to relevant cases, it seems that our domestic system remains incompatible with the principle. This article, thus, is aimed to explore the real meaning of ne bis in idem, to examine its consequences, to reach the core value of criminal penalty by distinguishing it from sanctions of different nature, in order to find a real complementary legal response to socially

109 A. PAGLIARO, Concorso di norme (dir. pen.), in Enc. dir., VII, 1961, p. 545; ID, Principi di diritto penale. Parte generale, 8a ed., Milano, 2003, p. 190.

164 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 offensive conduct.

Key words: ne bis in idem - double jeopardy clause - idem factum - administrative proceeding - administrative sanction - criminal offence - criminal by nature - Menci - Garlsson - afflictive - punitive purpose - ECHR - proportionality - duplication of proceedings - principle of legality – restorative justice - Grande Stevens - art. 649 c.p.p. - art. 15 c.p. - market - Cassazione n. 49869/18.

165 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

MARTA LAMANUZZI Assegnista di ricerca in Diritto penale Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

Il cyberbullismo. Prospettive criminologiche e giuridico-penali a partire dalla l. 71/2017

English title: Cyberbullying. Criminological and criminal law perspectives arising from Law 71/2017 DOI: 10.26350/18277942_000013

Sommario: 1. Definizioni e fenomenologia. 2. La cyber-devianza minorile fra “disinibizione tossica” e “snowball effect”. 3. Le fattispecie incriminatrici astrattamente applicabili. 4. Considerazioni in tema di imputabilità del cyberbullo. 5. Sussidiarietà del diritto penale e strumenti di tutela previsti dalla l. 71/2017. 6. Conclusioni.

1. Definizioni e fenomenologia

L’11 febbraio, in occasione del Safer Internet Day, l’UNICEF ha ricordato che, a livello mondiale, oltre uno studente su tre fra i tredici e i quindici anni dichiara di essere stato vittima di bullismo o cyberbullismo1. Dalla ricerca EU Kids Online 2020, condotta su diciannove paesi europei2, è

 Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 UNICEF, doc. 9681, su www.unicef.it. I dati raccolti dall’UNICEF e dal Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite nel 2018 tramite la piattaforma U-Report dimostrano che il bullismo online è un fenomeno che non riguarda unicamente i paesi ad alto reddito. Infatti, un ragazzo su tre dei 170.000 intervistati, tutti fra i tredici e i ventiquattro anni, provenienti da trenta paesi (Albania, Bangladesh, Belize, Bolivia, Brasile, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Equador, Francia, Gambia, Ghana, Giamaica, India, Indonesia, Iraq, Kosovo, Liberia, Malawi, Malesia, Mali, Moldavia, Montenegro, Myanmar, Nigeria, Romania, Sierra Leone, Trinidad e Tobago, Ucraina, Vietnam e Zimbabwe) ha dichiarato di essere stato vittima di cyberbullismo e uno su cinque di aver saltato la scuola per tale motivo. UNICEF, doc. 9277, su www.unicef.it. 2 Il report (EU-Kids online 2020. Survey results from 19 countries), liberamente fruibile su internet (www.lse.ac.uk), illustra i dati raccolti dall’autunno 2017 all’estate 2019 intervistando 21.964 ragazzi fra i nove e i sedici anni provenienti dai seguenti paesi: Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Paesi Bassi, Francia, Germania, Italia, Lituania, Malta, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Russia, Serbia, Slovacchia, Spagna, Svizzera.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 emerso che il 14% dei ragazzi fra i nove e i sedici anni afferma di aver compiuto almeno una volta atti di bullismo o cyberbullismo e il 23% di esserne stato vittima. Per quanto concerne la situazione italiana, l’ultima rilevazione ISTAT del fenomeno risale al 2014 (è in programma una nuova indagine da condurre in collaborazione con il MIUR) e attesta che più del 50% degli intervistati, tutti fra gli undici e i diciassette anni, ha riferito di essere rimasto vittima, nei dodici mesi precedenti l’intervista, di un episodio offensivo, non rispettoso e/o violento e una percentuale significativa, quasi uno su cinque (19,8%), avrebbe subito azioni tipiche di bullismo (online o offline) una o più volte al mese3. La risonanza che il fenomeno del cyberbullismo ha avuto negli ultimi anni ha portato il nostro legislatore a introdurre una legge ad hoc, la legge 29 maggio 2017, n. 71 recante “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”. Nel presente contributo l’esame dei contenuti di tale testo normativo costituirà occasione per approfondire il fenomeno del bullismo online sotto il profilo criminologico e giuridico-penale. Va anzitutto precisato che durante l’iter di approvazione della legge era stato proposto di estendere l’applicazione delle sue disposizioni anche al bullismo4, emendamento che tuttavia non è stato accolto e il testo, nella sua versione definitiva, riguarda il solo cyberbullismo. Tale scelta potrebbe trovare giustificazione nelle peculiarità che gli atti di bullismo assumono quando sono compiuti online, dimensione che, come si vedrà, favorisce la genesi e la protrazione delle condotte devianti, ne rende spesso difficilmente identificabile l’autore e ne amplifica gli effetti lesivi. «Gli interventi di contrasto del cyberbullismo» – si è osservato – «sono, pertanto, molto diversi e più difficoltosi di quelli adottabili contro gli atti di bullismo, i quali avvengono tra persone conosciute e producono effetti, di regola, limitati all’ambiente in cui si sono verificati e quindi più

3 In circa la metà dei casi (9,1%), si tratta di atti ripetuti una o più volte a settimana. Le ragazze risultano più vittimizzate dei ragazzi. Oltre il 55% delle giovani fra gli undici e i diciassette anni è stato oggetto di prepotenze qualche volta nel corso dell’anno, mentre per il 20,9% le vessazioni hanno avuto cadenza almeno mensile (contro, rispettivamente, al 49,9% e al 18,8% dei loro coetanei). A subire atti di bullismo una o più volte a settimana è stato il 9,9% delle ragazze e l’8,5% dei ragazzi. www.istat.it/it/archivio/228976. Cfr. P. Aroldi, G. Mascheroni, Oltre il cyberbullismo. Il contributo di EU Kids Online alla ricerca sul benessere sociale dei giovani utenti della rete, in Media Education, 2, 2019, pp. 181 ss. 4 Proposta emendativa n. 1.14 pubblicata nel Bollettino delle Giunte e Commissioni del 22 marzo 2016, fruibile su www.camera.it.

167 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 agevolmente rimuovibili» 5 . Tuttavia, bullismo e cyberbullismo sono fenomeni strettamente legati6 in quanto, accanto ai comportamenti tenuti direttamente ed esclusivamente online, vi sono atti compiuti offline che vengono immortalati e cui viene data diffusione in rete e, in molti casi, all’esperienza di vittimizzazione nel mondo virtuale si accompagna una parallela esperienza di vittimizzazione nel mondo reale. La definizione stessa di cyberbullismo, o meglio le varie definizioni proposte dagli esperti – come si illustrerà nel prosieguo – promanano dalla definizione di bullismo, aggiungendo a essa, quale elemento di specialità, le peculiari modalità dell’azione, ossia l’impiego di mezzi informatici o telematici. Alla luce di tali considerazioni, sarebbe stato preferibile includere nell’ambito di applicazione del testo normativo anche il bullismo face to face, pur tenendo ferma la previsione di strumenti di tutela volti specificamente a prevenire e contrastare la diffusività delle offese in rete7. Per quanto concerne i contenuti precettivi della legge 71/2017, essa non ha introdotto un “reato di cyberbullismo”, né ha sposato una logica repressiva. Vengono richiamate alcune fattispecie incriminatrici che possono essere integrate dalle condotte di cyberbullismo, ma viene prediletto un approccio preventivo-cautelare8. Nell’articolato sono infatti previste e disciplinate misure – che verranno brevemente esaminate nel penultimo paragrafo – da ricondurre a due categorie: misure ante- factum, di natura preventiva, informativa, educativa, e misure post- factum, di natura inibitorio-cautelare.

5 E. Lupo, La legge n. 71 del 2017 sul cyberbullismo: uno sguardo generale, in Dir. fam. pers., 2019, 3, pp. 1005 ss. 6 «Prior evidence has shown that online and offline among young people is often interconnected – those who are involved in online forms of bullying are often involved in offline forms of bullying as well», in EU-Kids online 2020. Survey results from 19 countries, cit. 7 L’estensione delle disposizioni della legge 71/2017 al bullismo è una delle modifiche proposte nel Disegno di legge n. 1690, presentato in data 31 gennaio 2020, recante “Modifiche al codice penale, alla legge 29 maggio 2017, n. 71, e al regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 maggio 1935, n. 835, in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e di misure rieducative dei minori”, nonché nel Disegno di legge n. 1743, presentato in data 27 febbraio 2020, recante “Modifiche alla legge 29 maggio 2017, n. 71, e altre disposizioni per il contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo”, fruibili su www.senato.it. 8 Detto approccio emerge già dall’art. 1, comma 1, della legge, in cui si precisa che l’obiettivo del provvedimento normativo è quello di «contrastare il fenomeno del cyberbullismo in tutte le sue manifestazioni, con azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, assicurando l’attuazione degli interventi senza distinzione di età nell’ambito delle istituzioni scolastiche».

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All’art. 1, comma 2, viene fornita una definizione di cyberbullismo da cui è agevole partire per offrire un primo inquadramento del fenomeno. In particolare, la norma precisa che per cyberbullismo si intende «qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi a oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo». Alle definizioni offerte dalla letteratura psicologica – secondo cui un soggetto è vittima di bullismo «quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive perpetrate da uno o più compagni»9 e vittima di cyberbullismo quando tali «comportamenti di prevaricazione sono messi in atto mediante l’uso delle nuove tecnologie (smartphone e internet)» 10 – il legislatore ha preferito una definizione che richiama alcune ipotesi di reato che le condotte di cyberbullismo possono integrare, combinando in una logica meramente esemplificativa (e non esaustiva) espressioni tecniche e atecniche. Il termine «pressione», ad esempio, potrebbe essere utilizzato come sinonimo di “molestia”, che costituisce una contravvenzione punita ex art. 660 c.p. nonché una delle modalità di condotta degli atti persecutori ex art. 612-bis c.p.; il «ricatto» è semanticamente analogo alla minaccia, fattispecie autonoma di reato ex art. 612 c.p. e altra modalità di condotta degli atti persecutori; l’«ingiuria» rimanda all’omonima ipotesi criminosa di cui all’art. 594 c.p., depenalizzata nel 2016, ora illecito civile; la «diffamazione» è un delitto punito ai sensi dell’art. 595 c.p. e il termine «denigrazione» ne costituisce una variante terminologica atecnica; il «furto d’identità» allude alla

9 D. Olweus, Bullying at School. What We Know and What We Can Do, Oxford- Cambridge, 1993, trad. it. Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi ragazzi che opprimono, Firenze, 1996, pp. 11-12. Analogamente Sharp e Smith precisano che il bullismo «è un tipo di azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare: spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi e persino anni, è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime» e che «alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire o dominare». S. Sharp, P.K. Smith, Tackling Bullying in Your School. A practical handbook for teachers, London, 1994, trad. it. Bulli e prepotenti nella scuola. Prevenzione e tecniche educative, Trento, 1995, p. 11. È bene sottolineare che la ricerca psicologica circoscrive l’utilizzo corretto del termine “bullismo” alle prepotenze attuate fra coetanei in età scolare. S. Caravita, G. Gini, L’(Im)moralità del bullismo, Milano, 2010, pp. 11 ss. 10 G. Gini, Il cyberbullismo, in Minori giustizia, 2, 2019, p. 142.

169 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 fattispecie di sostituzione di persona ex art. 494 c.p. e, infine, l’«alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali» richiama il reato previsto e disciplinato dall’art. 167 codice della privacy. Rinviando al terzo paragrafo per la rassegna delle ipotesi criminose poc’anzi menzionate e delle altre fattispecie i cui elementi costitutivi possono ravvisarsi nelle condotte di cyberbullismo, va sottolineato che tale definizione ha il pregio di individuare, in parte espressamente in parte implicitamente, i tre criteri che vengono tradizionalmente richiamati negli studi psico-pedagogici11 per marcare il confine fra scherzo e bullismo: i) l’asimmetria: lo scherzo non presuppone un’asimmetria di “potere”, “fama” e “successo” tra chi lo attua e chi lo subisce, mentre nel bullismo spesso si assiste a un’asimmetria fra i soggetti coinvolti, il bullo appare fisicamente e/o psicologicamente più forte, a volte anche più “popolare” fra i coetanei (anche se la sua tendenza a “prevalere” sugli altri spesso cela insicurezza emotiva); ii) la sistematicità: lo scherzo consiste in un unico episodio, cambia spesso “bersaglio”, mentre il bullismo si caratterizza per la reiterazione di comportamenti vessatori o denigratori nei confronti della stessa persona; iii) l’intenzionalità: lo scherzo viene attuato per divertirsi e nello scherzo si diverte sia chi lo attua sia chi lo subisce (si ride con l’altro non dell’altro), mentre gli atti di bullismo sono posti in essere al fine di ferire, emarginare, far soffrire l’altro12. Per riassumere, si può parlare di bullismo, e non di scherzosità fra coetanei, quando ricorrono azioni offensive ripetute e frequenti, tenute intenzionalmente da uno o più soggetti nei confronti di un altro soggetto che si trovi in una condizione di “inferiorità” al fine di arrecargli nocumento e che costituiscano per quest’ultimo fonte di disagio 13 . Il

11 Es. D. Olweus, Bullismo a scuola, cit. 12 Il requisito dell’intenzionalità a volte non è semplice da riscontrare in quanto lo scherzo, anche prolungato e reiterato nel tempo, per i ragazzi è al contempo una forma di divertimento e una strategia comunicativa impiegata per istaurare un rapporto, per stabilire un contatto. A. Bilotto, I. Casadei, Dalla balena blu al cyberbullismo. Affrontare i pericoli della rete con la psicologia positiva, Reggio Emilia, 2017, p. 80. 13 Il bullismo può manifestarsi in varie forme, tra le quali si possono esemplificativamente enumerare: il bullismo verbale, attuato mediante insulti e commenti sarcastici; il bullismo emarginante, che consiste nell’esclusione sociale della vittima; il bullismo fisico, che ricorre in presenza di aggressioni fisiche; il bullismo diffamatorio, che si sostanzia nel diffondere notizie vere o false in danno della reputazione del soggetto cui attengono; il bullismo danneggiante, realizzato attraverso la sottrazione e/o il danneggiamento di beni di proprietà della vittima; il bullismo razziale, esercitato nei confronti di chi appartiene a una minoranza etnica o culturale; il bullismo sessuale, inteso come insieme di condotte umilianti e minacciose tese o

170 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 bullismo diventa cyberbullismo, come anticipato, quando tali condotte vengono messe in atto avvalendosi delle nuove tecnologie digitali, ossia inviando messaggi o pubblicando post in rete (per lo più sui social network) per mezzo di computer o, più di frequente, di smartphone e tablet. Il confine fra scherzo e cyberbullismo talvolta è più difficile da tracciare rispetto a quello fra scherzo e bullismo, in quanto la diffusione virale che un contenuto immesso in rete può avere rischia di attribuirgli una portata diffamatoria e umiliante tale che, pur in assenza di sistematicità, secondo alcuni commentatori parrebbe forzato non ricondurre la condotta alla categoria del cyberbullismo14. La fenomenologia del cyberbullismo è molto ampia. Ad esempio, per flaming si intendono i litigi online che assumono toni particolarmente violenti e volgari; per l’invio ossessivo di messaggi denigratori; la denigration o put down consiste nell’offendere l’altrui reputazione attraverso la condivisione di contenuti imbarazzanti; il termine masquerade o impersonation indica l’utilizzo abusivo di un indirizzo mail o di un account altrui sempre al fine di screditare il titolare; l’exposure è la rivelazione di informazioni altrui private, vere o false; il trickery è un tradimento affettivo realizzato conquistando la fiducia della vittima per poi diffondere fotografie o informazioni ottenute in via confidenziale o per ricattarla minacciando di diffonderle; l’esclusion comprende tutti quei comportamenti volti a isolare “social- mediaticamente” la vittima; il cyberstalking15 consiste nell’invio ripetuto di messaggi offensivi e minacciosi per intimidire il destinatario e il cyberbashing nel riprendere e condividere online scene di aggressione o molestia16.

comunque potenzialmente prodromiche alla violenza sessuale vera e propria, e il cyberbullismo, ossia il bullismo attuato attraverso internet e/o usando il telefono cellulare. Tra le varie categorizzazioni delle molteplici forme di bullismo che ricorrono nella letteratura psicologica, quella che maggiormente rileva ai presenti fini è quella che distingue tra bullismo diretto e bullismo indiretto, ricomprendendosi nel primo tutti i comportamenti che implicano un contatto diretto con la vittima (si pensi a calci, pugni, spintoni, insulti e sottrazione o danneggiamento di beni in presenza del proprietario) e nel secondo tutti i comportamenti che non implicano tale contatto (si pensi alle condotte diffamatorie, alle pressioni esercitate su terzi per ottenere l’isolamento sociale della vittima e al cyberbullismo). G. Mura, D. Diamantini, Il cyberbullismo, Milano, 2012, p. 37. 14 A. Bilotto, I. Casadei, Dalla balena blu al cyberbullismo, cit., p. 102. 15 Per il significato tecnico-giuridico del termine si rimanda al terzo paragrafo. 16 A. Bilotto, I. Casadei, Dalla balena blu al cyberbullismo, cit., pp. 116 ss. Cfr. A. Pilarksa, Il Cyberbullismo, in Z. Formella, A. Ricci (a cura di), Il disagio adolescenziale. Tra aggressività, bullismo e cyberbullismo, Roma, 2010, pp. 71 ss.

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Si distinguono, inoltre, nella letteratura psicologica17, tre tipi di bullo e cyberbullo. Il primo è il tipo attivo/aggressivo, che è impulsivo e dotato di scarsa empatia ed elevata autostima, compie atti offensivi per accrescere la propria fama e l’ammirazione dei compagni. Il secondo è il tipo ansioso, caratterizzato da insicurezza, impopolarità, scarso rendimento scolastico e incapacità a concentrarsi. L’ultimo è il tipo passivo, ossia colui che non prende iniziativa, ma si limita a incoraggiare gli atti di bullismo altrui18. Al tempo stesso si possono distinguere vittime passive, che non hanno provocato in alcun modo il bullo o i bulli e sono solitamente schive, remissive e con bassissima autostima; vittime provocatrici19, che per la loro irritabilità, irrequietezza e ostilità tendono a suscitare negli altri irritazione, rabbia ed esasperazione che talvolta si traducono in comportamenti offensivi; bulli-vittime, ossia soggetti che bullizzano e

17 G. Mura, D. Diamantini, Il cyberbullismo, cit., pp. 39 ss.; S. Icardi, Cyberbullismo: un’analisi comportamentale dell’offender e della vittima, in Ciberspazio e diritto, 2017, 3, pp. 686 ss. 18 Il “bullo passivo”, che incoraggia gli atti di bullismo altrui, oltre a concorrere (cd. concorso morale) all’atto di bullismo o cyberbullismo, può essere annoverato fra le possibili tipologie di astanti (cd. bystanders), ossia i coetanei che, assistendo a episodi offensivi possono adottare diversi atteggiamenti: di incoraggiamento, di indifferenza, di segnalazione all’insegnante o ai genitori e di difesa della vittima. Gli studiosi, nel sottolineare come bullismo e cyberbullismo siano fenomeni fortemente “relazionali”, che affondano le loro radici nella ricerca di popolarità da parte di bullo o cyberbullo, sottolineano l’importanza nella loro genesi e protrazione dell’atteggiamento del gruppo dei pari che assiste. M. G. Foschino Barbaro, P. Russo, Bulli, cyberbulli e vittime. Dinamiche relazionali e azioni di prevenzione, responsabilità civili e risarcimento del danno, Milano, 2019, pp. 50 ss.; G. Gini, Il cyberbullismo, cit., pp. 145-146; S. Caravita, G. Gini, L’(Im)moralità del bullismo, cit., pp. 42 ss., 67 ss. 19 Tale classificazione, lungi dal voler “colpevolizzare” la vittima, si inserisce nel solco dello studio scientifico delle sue caratteristiche e del suo ruolo nella criminogenesi e nella criminodinamica, studio che, a partire dagli anni Quaranta del XX secolo, è divenuto parte integrante della criminologia, dando origine alla branca della vittimologia. La nascita di tale disciplina viene tradizionalmente ricondotta a studiosi quali Wertham, psichiatra statunitense di origine tedesca che ha coniato il termine “vittimologia” (F. Wertham, The Show of Violence, New York, 1949); Von Hentig, criminologo tedesco che ha studiato e “catalogato” le varie tipologie di vittime (H. Von hentig, The Criminal and His Victims, New Haven, 1948); Mendelsohn, avvocato israeliano noto, ad esempio, per essersi occupato del rapporto reo-vittima e aver classificato le vittime in base al loro ruolo nella genesi del crimine subito (B. Mendelsohn, Una nouvelle branche de la science bio-psyco-sociale: la Victimologie, in Rev. int. crimin. pol. tec., 1956, pp. 95 ss.). Più avanti, a Fattah si deve lo studio delle predisposizioni vittimogene, ossia delle variabili che aumentano la vulnerabilità alle esperienze di vittimizzazione. E. A. Fattah, La victime est elle coupable?, Montreal, 1971, p. 111. Cfr. M. Venturoli, La vittima nel sistema penale dall’oblio al protagonismo?, Napoli, 2015, pp. 13 ss.

172 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 sono a loro volta bullizzati, più “deboli” dei propri bulli, più “forti” delle proprie vittime, statisticamente poco frequenti20. Le ripercussioni negative di bullismo e cyberbullismo sono svariate e spesso durature. Le vittime vanno frequentemente incontro ad ansia, depressione e calo di autostima. Nei casi più gravi le conseguenze comprendono disturbi alimentari e autolesionismo e, in casi estremi, il suicidio (cd. bullycide)21.

2. La cyber-devianza minorile fra “disinibizione tossica” e “snowball effect”

«L’uso della tecnologia non è neutro, perché modifica l’identità dell’utilizzatore»22. Le esperienze digitali, che pervadono letteralmente il nostro quotidiano, hanno un notevole impatto sui processi psicologici, relazionali e identitari, sulla percezione di sé e dell’altro e sul rapporto fra sé reale e sé digitale, fino a portare, in casi limite, allo sviluppo di dipendenze e patologie23.

20 G. Mura, D. Diamantini, Il cyberbullismo, cit., pp. 39 ss.; S. Icardi, Cyberbullismo, cit., pp. 686 ss. 21 S. Dimitri, S. Pedroni, E. Donghi, Attraverso le sofferenze della vittima: tra bullismo, cyberbullismo e proposte di intervento, in Maltrattamento e abuso all’infanzia, vol. 20, 1, 2018, pp. 34 ss. 22 Così Ippolita, Nell’acquario di facebook. La resistibile ascesa dell’anarco- capitalismo, Milano, 2012, parafrasando al rovescio il noto principio di “neutralità della tecnica o della tecnologia”, la cui origine si deve al filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers (1883-1969), secondo il quale «la limitazione della tecnica consiste nel non poter esistere da sé, per sé, nel rimanere sempre un mezzo. Perciò essa è ambivalente. Poiché non si pone alcun obiettivo, si trova prima e al di là del bene e del male. Può servire alla salvezza e al disastro. In sé è neutrale rispetto a entrambi» (K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, München, 1949, trad. it Origine e senso della storia, Milano-Udine, 2014, p. 155). Cfr. G. Simondon, Sur la technique, Paris, 2014, tra. it. Sulla tecnica, Napoli-Salerno, 2017. 23 Cfr. R. Perrella, G. Caviglia, Dipendenza da internet: adolescenti e adulti, Santarcangelo di Romagna, 2014. La dipendenza dalla rete è stata inserita nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-V) con la locuzione internet addiction disorder, quale disfunzione comportamentale priva di alterazioni chimiche cui vengono solitamente associati disturbi del sonno, depressione, abbassamento dell’autostima, aumento della solitudine e della timidezza. Alcuni Autori tuttavia sottolineano in chiave critica come il tema necessiterebbe di ulteriori approfondimenti da condurre in relazione all’attuale contesto sociale e all’approccio che i giovani hanno con lo smartphone e con i social media. Si tratta, infatti, di un «coinvolgimento profondo» di carattere «altamente sociale», «lo smartphone diventa chiave d’accesso alla socialità, una qualità che ha ben poco a che fare con gli aspetti tecnologici in senso stretto, ma che è più fortemente legata all’organizzazione dei tempi e ai ritmi di ciascun individuo». M. Drusian, P. Magaudda, C. M. Scarcelli, Vite interconnesse: pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online,

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I social network determinano oggi, soprattutto per le nuove generazioni, forti investimenti in termini di tempo e identità 24. Se alcuni studiosi pongono l’accento sulla potenzialità dei nuovi media quali formidabili strumenti di espressione e socializzazione25, altri evidenziano come, a livello identitario, una fruizione eccessiva e non consapevole delle piattaforme social possa limitare la propensione alla riflessione su di sé e la maturazione, poiché offre un sentiero più agevole di formazione del “Self” 26 rispetto allo scambio diretto con l’altro, studiato dagli interazionisti simbolici27, che è più impegnativo e complesso da gestire.

Milano, 2019, p. 137. In tal senso si è osservato che «i giovani si rivolgono a qualsiasi ambiente che permetta loro di comunicare con gli amici, e ne diventano ossessionati. Moltissimi di loro non sono dipendenti dai social media, ma gli uni dagli altri». D. Boyd, It’s complicated. The social lives of networked teens, New Haven, 2014, trad. it. It’s complicated. La vita sociale degli adolescent sul web, Roma, 2018, p. 111. 24 Una ricerca condotta nel 2008 ha rilevato che già all’epoca i social network avevano comportato un rimodellamento del tempo libero dei giovani, prendendo il posto della televisione e riempiendo gli intervalli precedentemente “vuoti” tra un’attività e l’altra. Lo stesso studio ha messo in luce che alla base della scelta di un social piuttosto di un altro vi è il bisogno identitario di appartenenza, in quanto i giovani tendono a scegliere il social più utilizzato in quel momento dagli amici. Ricerca condotta da Mascheroni e altri come cit. in G. Mura, D. Diamantini, Il cyberbullismo, cit., p. 31. 25 Cfr. S. Livingstone, L. A. Lievrouw (a cura di), Handbook of new media: social shaping and social consequences of ICTs, London, 2006, trad it. Capire i new media, Milano, 2008; S. Livingstone, Children and the internet. Great expectations, challenging realities, London, 2009, trad. it. Ragazzi online: crescere con internet nella società digitale, Milano, 2010. 26 In psicologia si evidenzia come i social network abbiano dato origine a nuove modalità di presentazione di sé e di formazione delle impressioni sugli altri. Da un lato, la creazione di un profilo web consente riflessioni e “ritocchi” e tale impegnativa gestione del proprio profilo social, che richiede un periodico aggiornamento della foto, delle informazioni e dello stato, in base ad alcune ricerche, avrebbe portato a una maggiore concentrazione su di sé che, secondo alcuni studiosi, va interpretata quale fattore dell’aumento dilagante del narcisismo, secondo altri, è frutto di quel bisogno di conferme esterne che caratterizza l’uomo moderno. Dall’altro, venire a contatto con un profilo web altrui favorirebbe la tendenza alle scorciatoie cognitive, ossia alla formazione di idee sulla base di pochi indizi, quali l’immagine del profilo e il numero di amici. P. Wallace, The Psychology of the Internet, Cambridge, 2016, trad. it. La psicologia di Internet, Milano, 2016, pp. 33 ss. 27 L’espressione “interazionismo simbolico”, coniata nel 1937 dal sociologo statunitense Herbert Blumer, indica un approccio teorico, inaugurato da Charles Horton Cooley e, soprattutto, da George Herbert Mead negli anni Venti, particolarmente attento al ruolo giocato dalle interazioni sociali nella formazione del Sé e nell’adozione dei comportamenti da parte degli individui. Sebbene i fondamenti dell’interazionismo si rinvengano nel testo di Mead Mind, Self and Society (G. Mead, Mind, Self and Society, Chicago, 1934, trad. it. Mente, Sé e società, Firenze, 2010), l’opera che viene tendenzialmente considerata come manifesto di tale prospettiva sociologica consiste in Symbolic Interactionism di Blumer (H. Blumer, Symbolic Interactionism. Perspective and Method, New Jersey, 1969, trad. it Interazionismo simbolico. Prospettiva e metodo, Bologna, 2008). Fra i sociologi interazionisti meritano senza dubbio di essere

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Infatti, la possibilità di postare e comunicare con gli amici ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, e l’appartenenza a un mondo virtuale sempre attivo e recettivo e facilmente fruibile, secondo alcune ricerche, renderebbe i giovani meno capaci di gestire la solitudine e le difficoltà che le relazioni reali comportano28. Inoltre, lo scambio rapido di messaggi, spesso standard, in cui la parola è sovente abbreviata, tende a tradursi in contatti “superficiali” 29 , che non presuppongono un reale scambio di contenuti. A ciò si aggiunge che la dimensione globale del web, che mette l’individuo in condizione di entrare in contatto con alterità infinitamente maggiori rispetto a quanto accadesse pochi decenni fa, secondo alcuni Autori, comporterebbe il rischio dell’assunzione, da parte dei giovani, di un’identità “liquida”30, che viene a definirsi attraverso il confronto con i più disparati modelli identitari, modelli che, per altro, non possono che essere colti in via parziale e mediata, in quanto ciascuno seleziona cosa mostrare di sé e come, tendendo a palesare il sé ideale anziché il sé reale31.

menzionati anche Lonnie Athens (cfr. inter alios L. Athens, Violent Criminal Acts and Actors: A Symbolic Interactionist Study, Boston, 1980) e Erving Goffman (E. Goffman, The presentation of self in everyday life, New York, 1959, trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, 1969) Cfr. P. Iagulli, Sé ed emozioni nell’interazionismo simbolico, Milano, 2012, pp. 289 ss. 28 Con il motto “I share, therefore I am”, “condivido, quindi sono”, si osserva come imperniare il processo identitario nei social network comporti che il venire meno di scambi e, quindi, di socialità nel mondo virtuale produca un sentimento di mancanza del sé che attraverso tale socialità si costituisce. Ricerca condotta da Sherry Turkle come cit. in G. Mura, D. Diamantini, Il cyberbullismo, cit., p. 35. Si veda anche «Connected, but alone?», breve discorso tenuto dalla studiosa nel 2012, disponibile su www.ted.com. 29 La comunicazione online, secondo alcuni studi, trasmette l’idea di un interlocutore più “freddo” rispetto all’impressione che la stessa persona farebbe in un dialogo reale. Tanto è vero che, per ovviare a tale inconveniente e rendere più “calde” le conversazioni telematiche, sono state introdotte le emoticon (faccine che esprimono stati d’animo). P. Wallace, La psicologia di Internet, cit., pp. 24 ss., 44 ss. 30 Cfr. Z. Bauman, Liquid modernity, Cambridge, 2000, trad. it. Modernità liquida, Bari, 2000. 31 Le ricerche attestano che i ragazzi sentono notevole pressione sociale a creare post che riscuotano successo fra i propri follower acquisendo così popolarità. A tal proposito, si osserva nella letteratura psicologica che «il bisogno di pubblicare continuamente contenuti relativi alla nostra quotidianità è, infatti, il tentativo di definire ciò che si è, in un mondo in cui l’esistere è inscindibilmente legato al raccontare e al condividere». E. Donghi, V. Pagani, S. Caravita, Bullismo online. Conoscere e contrastare il cyberbullismo, Sant’Arcangelo di Romagna, 2018, p. 66. Cfr. C. Belacchi, Formazione dell’identità personale tra realtà e virtualità: riflessioni a margine del cyberbullismo, in C. Belacchi, M. G. Eusebio (a cura di), Cyberbullismo e traiettorie contemporanee della violenza, Milano, 2018, pp. 38 ss.

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Ai nostri fini, è bene chiedersi se l’influenza che il nuovo mondo virtuale esercita sui processi identitari in atto in età adolescenziale favorisca le condotte di bullismo e se le stesse tendano ad assumere, nel cyberspazio, connotati più aggressivi e a produrre conseguenze più gravi di quelli che li caratterizzano nelle dinamiche interpersonali offline32. Per quanto concerne la propensione alla devianza, agire attraverso la “maschera” del pc o del cellulare, anziché “face to face”, spesso utilizzando uno pseudonimo, da una parte, ingenera nel cyberbullo l’“illusione dell’anonimato” (“illusione” in quanto la polizia postale può risalire quantomeno all’indirizzo IP o MAC da cui è promanato il comportamento) che si traduce in un senso di deresponsabilizzazione, dall’altra, impedisce il contatto visivo con la vittima, determinando l’impossibilità di coglierne le reazioni e gli eventuali segnali espressivi di disagio e diminuendo così fortemente le possibilità di cessazione o moderazione “empatica” degli attacchi 33 . In particolare, diversi studi attestano che il cd. “effetto anonimato” che l’agire online produce sull’utente può favorire l’aggressività. La convinzione di non poter essere individuati, infatti, porta a comportarsi in maniera più disinibita, meno condizionata da convenzioni e norme sociali. Il che può essere positivo, in certe situazioni, poiché consente di discutere liberamente di argomenti anche molto intimi, ma negativo in altre, potendosi tradurre in comportamenti aggressivi che il soggetto non terrebbe nelle relazioni face to face (cd. “disinibizione tossica”)34. L’“effetto anonimato”, secondo un’interessante prospettiva che mette in relazione i due aspetti poc’anzi richiamati, si riconnette a diverse caratteristiche delle interazione in rete. La prima caratteristica consiste nella non identificabilità, ossia nella percezione di non poter essere individuati in relazione al contesto di appartenenza (posizione geografica, professione, genere, età, etnia). Talvolta, pur usando il proprio nome o addirittura una propria immagine, l’utente non si sente identificabile, in quanto ritiene impossibile per gli interlocutori risalire alle altre informazioni necessarie per “inquadrarlo”. Altra caratteristica è la non

32 In tema si veda anche S. Bolognini, Il cyberbullismo come volto demoniaco del potere digitale e le (possibili) politiche del diritto antidoto, Milano, 2017, pp. 94 ss. 33 Ciò vale, a maggior ragione, quando la condotta consiste nel produrre o concorrere a diffondere contenuti offensivi che riguardano una vittima del tutto sconosciuta, che abita in un’altra città o in un altro Stato, come talvolta accade. Se infatti agendo in rete risultano attenuate le remore a offendere una persona che si conosce, ciò vale tanto più quando l’azione colpisce una persona che non si conosce. Cfr. nota n. 48. 34 P. Wallace, La psicologia di Internet, cit., pp. 139 ss.

176 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 visibilità che ricorre quando ci si rapporta online senza usare la webcam e senza mostrare una propria fotografia. Come nei contesti di vita reale l’invisibilità creata dal buio determina disinibizione, così avviene in rete. Ancora, a contribuire all’effetto anonimato nelle relazioni virtuali è la mancanza di contatto visivo. Anche nelle video-conversazioni, infatti, a ben vedere, non ci si può guardare direttamente negli occhi, in quanto ciascun interlocutore deve scegliere se guardare verso la webcam o verso la parte dello schermo in cui si collocano gli occhi dell’interlocutore, punti che solitamente non coincidono. Un’interessante ricerca per valutare l’incidenza di tali variabili sulla disinibizione tossica e sulla litigiosità ha dimostrato che quella che favorisce maggiormente l’aggressività è proprio la mancanza di contatto visivo35. Il dato da ultimo riportato trova conferma nel noto esperimento di Stanley Milgram, volto a studiare la propensione dell’individuo sottoposto ad autorità a compiere azioni che contrastano con la propria coscienza morale. In particolare, i soggetti coinvolti nella ricerca, convinti di partecipare a un test di verifica di un nuovo metodo di potenziamento della memoria, dovevano somministrare (false) scosse elettriche di intensità crescente agli “studenti” che non rispondevano correttamente a domande di rievocazione mnemonica, studenti che, d’accordo con lo sperimentatore, simulavano, in risposta alle scosse, reazioni di dolore sempre più intense. La modifica delle condizioni dell’esperimento ha consentito di valutare l’incidenza di diverse variabili situazionali sulle remore a somministrare scosse potenzialmente mortali nonostante le richieste degli “studenti” si sospendere l’esperimento. Fra gli elementi che maggiormente avevano favorito la somministrazione di scosse di notevole intensità vennero individuati la distanza della vittima e il mancato

35 La ricerca ha visto coinvolti diversi soggetti, accoppiati casualmente e chiamati a confrontarsi in via telematica al fine di convincere l’altro che un proprio ipotetico parente malato avesse più bisogno dell’ipotetico parente dell’altro di un farmaco salvavita. In alcuni casi la conversazione avveniva senza indicare i nomi degli interlocutori, in altri la coppia interagiva conoscendo nome e diversi dettagli identificativi dell’interlocutore, altre volte ancora la conversazione avveniva dotando i due soggetti di una telecamera a livello degli occhi e dicendo loro di fissare direttamente l’obiettivo durante la discussione. In tutto, otto gruppi di coppie, tutti con una diversa combinazione di condizioni sperimentali. Le coppie con tutte le “componenti” dell’anonimato si sono rivelate le più litigiose in assoluto, ma la variabile che ha avuto l’impatto maggiore è stata la presenza/assenza del contatto visivo. A tal proposito, conclude l’Autrice, «il detto “dimmelo guardandomi negli occhi” pare avere un fondo di verità». P. Wallace, La psicologia di Internet, cit., p. 143.

177 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 contatto visivo con la stessa che ne derivava, che impedivano di percepirne i segnali esteriori di sofferenza36. Altro esperimento interessante è lo Stanford Prison Experiment, condotto da Philip Zimbardo, in cui ventiquattro studenti sono stati divisi in guardie e prigionieri, ruoli che avrebbero dovuto interpretare per quattordici giorni in un finto carcere. Tuttavia, al sesto giorno lo sperimentatore ha deciso di interrompere l’attività per via dell’escalation di comportamenti aggressivi dei primi nei confronti dei secondi. Le risultanze più interessanti, in relazione al cyberbullismo, consistono nell’incidenza delle regole del gruppo sociale di appartenenza (nello specifico del gruppo delle “guardie”) e della percezione dell’anonimato/impunità del proprio agire (derivante in quel caso dal contesto sperimentale) sulla propensione all’aggressività e alla de- umanizzazione della vittima37. Gli studiosi si sono inoltre chiesti se la dimensione cyber favorisca i meccanismi di disimpegno morale, ossia quei processi attraverso i quali un individuo “si autogiustifica”, vale a dire neutralizza o attenua i sensi di colpa e supera la dissonanza cognitiva fra i valori in cui crede e le proprie azioni, disattivando parzialmente o totalmente il controllo morale e mettendosi così “al riparo” da sentimenti di svalutazione e vergogna38. Alcuni agiscono sulla condotta immorale, rendendola “più accettabile” tramite il richiamo a principi e valori morali superiori, come la cd. giustificazione morale (es. richiamo alla libertà di espressione), o svilendone il disvalore attraverso la deformazione linguistica, cd. etichettamento eufemistico (es. “era solo uno scherzo”), o, ancora, mettendola a confronto con azioni peggiori, cd. confronto vantaggioso (es. “non ho ucciso nessuno”). Altri meccanismi operano ridefinendo la

36 S. Milgram, Obedience to authority, London, 1974, trad. it. Obbedienza all’autorità, Torino, 2003, pp. 32 ss. Cfr. Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, New York, 1989, trad. it. Modernità e Olocausto, Bologna, 1992, pp. 215 ss. e G. Forti, Prefazione al volume “Io perpetratore, io vittima”, Torino, 2020. 37 P. Zimbardo, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil, New York, 2007, trad. it. L’effetto Lucifero: cattivi si diventa?, Milano, 2008. Cfr. E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, New York, 1961, trad. it. Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, 2010. All’esperimento sono ispirati diversi film: L’esperimento (1971), di Dante Guardamagna; Das Experiment (2001), del regista Oliver Hirschbiegel, The Experiment film (2010), diretto da Paul Scheuring e, da ultimo, The Stanford Prison Experiment (2015), diretto da Kyle Patrick Alvarez. 38 In altri termini, grazie alle tecniche di disimpegno morale il soggetto può violare i propri standard morali pur mantenendo intatta la propria «moral integrity». A Bandura, Moral Disengagement: How People do Harm and Live with Themselves, New York, 2015, p. 2.

178 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 responsabilità dell’azione compiuta che viene suddivisa tra più persone, cd. diffusione della responsabilità (es. “lo prendevamo in giro tutti”)39, o riversata su altri, cd. dislocamento della responsabilità (es. attribuzione della colpa alla famiglia, alla scuola, alla società), o minimizzando le conseguenze dannose delle azioni, cd. distorsione delle conseguenze (es. “non pensavo se la prendesse tanto”). Infine, ci sono due meccanismi che si concentrano sulla vittima, la cd. de-umanizzazione della vittima, che consiste nel rappresentare la vittima come “meno umana”, priva di sentimenti, di sensibilità e di dignità, parificata a un essere inferiore che merita di essere vittimizzato, e la cd. attribuzione di colpa alla vittima, per cui la vittima è ritenuta responsabile, colpevole di ciò che le accade e che subisce, avendo “provocato” il suo aggressore40. Vicina alla teoria del disimpegno morale poc’anzi richiamata è la teoria criminologica delle neutralizzazioni, che individua fra le cause della delinquenza giovanile meccanismi psicologici di neutralizzazione dei sensi di colpa che consistono nella negazione della responsabilità, che viene attribuita a forze fuori dal proprio controllo (es. “ero ubriaco”), del danno (es. “nessuno si è fatto male”) o della vittima (es. “se l’è meritato, è un poco di buono”), nonché nella condanna dei condannanti (enfasi posta sull’inadeguatezza delle autorità, es. “chi solo loro per giudicarmi?”) e nel richiamo a fedeltà superiori (es. “l’ho fatto per difendere un amico”)41. Tali meccanismi di disimpegno morale e di neutralizzazione, spesso efficaci nella spiegazione della devianza minorile face to face, sono stati richiamati a maggior ragione per spiegare la genesi delle condotte devianti in rete, argomentando che il contesto virtuale faciliti la “neutralizzazione” della responsabilità (grazie all’“effetto anonimato”), del

39 La diffusione della responsabilità è uno dei meccanismi che concorrono al cd. “effetto spettatore” (bystanders effect), fenomeno studiato in psicologia sociale che consiste nella tendenza di chi assiste a un’aggressione a non intervenire se sul posto sono presenti altre persone. Ne consegue che la probabilità per la vittima di essere soccorsa è inversamente proporzionale al numero degli spettatori. J.M. Darley, B. Latané, Bystander intervention in emergencies: Diffusion of responsibility, in Journal of Personality and Social Psychology, 1968, 8, pp. 377-383. 40 A. Bandura, Failures in Self-Regulation: Energy Depletion or Selective Disengagement?, in Psychological Inquiry, 1996, 7, pp. 20-24; Id., Moral Disengagement, cit.; A. De Giorgio, Disimpegno morale ed empatia: il contributo delle neuroscienze nello spiegare il fenomeno del cyberbullismo, in S. Bolognini (a cura di), Cyberbullismo. Profili psico-pedagogici e socio-giuridici, Milano, 2017, pp. 43 ss.; S. Caravita, G. Gini, L’(Im)moralità del bullismo, cit., pp. 129 ss. 41 M. Sykes, D. Matza, Techniques of Neutralization; A Theory of Delinquency?, in ASR, 1957, pp. 664 ss.; Id., Becoming Deviant, New Jersey, 1969, trad. it. Come si diventa devianti, Bologna, 1976; G. Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, pp. 499 ss.

179 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 danno e della vittima (grazie alla distanza fra agente e conseguenze lesive della propria azione e fra agente e vittima)42. Alcune ricerche, al contrario, registrano un ricorso inferiore ai meccanismi di disimpegno morale nei casi di cyberbullismo, che si spiegherebbe sulla base di diverse considerazioni. In primo luogo, il cyberspazio verrebbe percepito come una dimensione ricreativa in cui i comportamenti non vengono vissuti da chi li compie come seri e significativi, e quindi tali da entrare in conflitto con i propri valori tanto quanto i comportamenti tenuti nello spazio reale. In tal senso, si è osservato come la “disinibizione on line”43, dovuta anche al frequente impiego di pseudonimi, porti i giovani a scindere un sé virtuale, che agisce “liberamente” in rete, dal sé reale che, invece, agisce attenendosi alle norme morali e alle convenzioni sociali. A ciò si aggiunge che nel mondo virtuale il confine fra lecito e illecito, fra ciò che è moralmente e socialmente approvato e ciò che è riprovevole tende a sbiadire. Se insulti e ostilità in classe sono stigmatizzati dagli insegnanti, in rete rischiano di avere una notevole eco, grazie a “like” apposti superficialmente e alle logiche di visibilità dei contenuti, e quindi di essere interpretati dall’autore come atti meritevoli, fonte di notorietà e successo sociale anziché di stigma. Del resto, il cyberbullismo, al pari del bullismo, è un fenomeno fortemente “sociale”, che si protrae nel tempo nella misura in cui il cyberbullo gode del sostegno del gruppo dei pari, sostegno che determina la sua mancata o affievolita percezione di un “giudizio morale negativo”, proprio e altrui, da “neutralizzare”. In altri termini, il seguito e gli apprezzamenti di cui i post offensivi spesso –

42 Nei primi anni del Duemila, Bandura usa l’espressione «death technologies» per sottolineare come le moderne tecnologie digitali siano pericolose e spersonalizzate, in quanto creano una distanza fisica, e volte anche temporale, fra l’azione e i suoi effetti dannosi, che facilita l’agire deviante. A. Bandura, Selective Moral Disengagement in the Exercise of Moral Agency, in Journal of Moral Education, 31, 2, giugno 2002, p. 108. 43 Se nella vita reale i giovani hanno remore a condividere informazioni private e ad assumere atteggiamenti provocanti e sessualizzati, pare che abbiano meno riserbo quando agiscono online, mostrandosi maggiormente proclivi a condividere momenti di vita privata e contenuti pornografici. Ad esempio, alla base del cd. sexting, ossia della condivisione di contenuti di testo, fotografici e video, di natura pornografica (vedi infra § 3), fenomeno sempre più diffuso sia fra i minori sia fra gli adulti, vi sono sia il bisogno narcisistico di mettersi in mostra, ricevere apprezzamenti, appagare il destinatario, sia quella che è stata definita l’online disinhibition, ossia l’allentamento delle restrizioni sociali e delle inibizioni cui si assiste nelle interazioni mediate dalle nuove tecnologie. J. Suler, The online disinhibition effect, in CyberPsichology and Behavior, 7, 2004, pp. 321-326.

180 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 malauguratamente – godono sui social trasmettono al cyberbullo l’idea (distorta) che il proprio agire sia lodevole e non moralmente riprovevole. Ancora, l’assenza di un contatto diretto con il destinatario delle proprie azioni nel cyberspazio ostacola l’istaurazione di un legame empatico fra aggressore e vittima, rendendo così meno accentuati i sensi di colpa e, di conseguenza, non egualmente impellente il ricorso a meccanismi di neutralizzazione e disimpegno morale. Per concludere sul punto – si è osservato persuasivamente che – «nel bullismo elettronico sembra sussistere un’effettiva diluizione morale, ma che si esercita a livello emotivo più che cognitivo»44. Infine, vale la pena di sottolineare come la facilità e la velocità dell’azione in rete operino a detrimento della ponderazione dei contenuti creati, condivisi, e, a maggior ragione, apprezzati, in quanto, secondo diversi studi, attiverebbero quello che Daniel Kanehman definisce il sistema 1, ossia il Self intuitivo, che decide rapidamente sulla scorta di impressioni e sensazioni del momento, in luogo del sistema 2, ossia il Self razionale, lento e riflessivo45. Per quanto concerne la maggiore dannosità del bullismo online rispetto al bullismo face to face, se è vero che nelle sole dinamiche interpersonali in presenza si può assistere ad aggressioni contro l’incolumità fisica, è altrettanto vero che le offese alla reputazione perpetrate face to face rimangono circoscritte nello spazio e nel tempo, mentre messaggi, video e immagini denigratori inviati o postati attraverso i social media possono avere una diffusione rapidissima e potenzialmente enorme. In tal senso, utilizzando un’efficace metafora, si parla dello snowball effect 46 per indicare che un contenuto immesso in rete, anche mediante l’invio a una sola persona, può repentinamente diventare virale come una palla di neve che si va via via rapidamente ingrandendo nel rotolare giù dal pendio.

44 S. Caravita, L. Milani, G. Binaghi, C. Apolloni, Il funzionamento morale come fattore di rischio per il bullismo e il cyberbullismo, in Maltrattamenti e abuso all’infanzia, 2016, 18, p. 59. 45 Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’economia, ha messo in evidenza come il soggetto si identifichi con quello che in psicologia viene comunemente definito «sistema 2», vale a dire con la parte di Sé razionale, che riflette, ha convinzioni, prende decisioni e opera scelte, ma che, in realtà, spesso, le nostre azioni sono guidate dal c.d. «sistema 1», vale a dire da quel sistema di automatismi, di «impressioni e sensazioni che originano spontaneamente e sono le fonti principali delle convinzioni esplicite e delle scelte deliberate dal sistema 2». D. Kahneman, Thinking. Fast and Slow, New York, 2011, trad. it. Pensieri lenti e veloci, Milano, 2012, pp. 21 ss. Cfr. G. Gigerenzer, Gut Feelings: The Intelligence of the Unconscious, New York, 2007, trad. it. Decisioni intuitive. Quando si sceglie senza pensarci troppo, Milano, 2009, pp. 16 ss. 46 Cfr. Cambridge Dictionary, “A snowball effect”.

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Inoltre, è nota l’espressione “internet never forgets”, riferita al fatto che anche qualora si rimuova un contenuto dalla sua sede virtuale originaria, non si avrà mai la certezza di averlo eliminato definitivamente, in quanto il destinatario (o i destinatari), o chiunque sia venuto a contatto con esso, può averlo memorizzato o condiviso con terzi o in un altro ambiente del web. A ciò si aggiunge che nel cyberbullismo le prepotenze possono avvenire ovunque, non solo a scuola o nei pressi della scuola. Il cyberbullo può agire anche da casa e la vittima non è “al sicuro” nemmeno a casa47. Ancora, come dimostrano alcuni drammatici fatti di cronaca 48 , alla diffusione di immagini e contenuti umilianti o intimidatori possono concorrere soggetti che non conoscono la vittima, che abitano in un’altra città o in un altro Stato. Infine, tornando al rapporto fra cyberspazio e processi identitari, le offese subite in rete possono avere un notevole impatto emotivo sulla vittima. Dal momento che i giovani di oggi sono “iperconnessi”, ossia vivono in simbiosi con i device elettronici, primo fra tutti lo smartphone, anche i processi identitari, come anticipato, rischiano di avere come set principale la realtà virtuale, il che dimostra la notevole portata offensiva che il cyberbullismo può esplicare sulla vittima e sulla sua autostima. Se infatti i giovani sono abituati a cercare principalmente nelle interazioni con i pari sui social network le risposte alle proprie domande su di sé e sul proprio valore, qualora le risposte siano negative, dalla denigrazione fino all’istigazione al suicidio, è evidente che l’individuo possa percepire come azzerate le proprie chances di costruirsi un’identità e una reputazione di segno positivo49.

3. Le fattispecie incriminatrici astrattamente applicabili

L’evoluzione informatica e social-mediatica ha dato vita a straordinarie opportunità prima impensabili, ma ha fatto altresì insorgere nuove modalità di offesa a beni giuridici meritevoli di tutela e ha amplificato le

47 Una soluzione potrebbe essere cambiare numero di cellulare e cancellarsi dai social network, ma per i giovani di oggi, che vivono in una società dominata dalle nuove tecnologie digitali, “negarsi virtualmente” non è semplice, significa rinunciare alla più diffusa forma di interazione e socializzazione con i pari. 48 Uno per tutti, il tragico caso di bullycide che ha visto come protagonista la giovane canadese Amanda Todd, perseguitata anche in seguito al trasferimento in altra città. Cfr. Amanda Todd tribute honours life of bullied teen, in CBC - Canada News, 19 novembre 2012. 49 A. Bilotto, I. Casadei, Dalla balena blu al cyberbullismo, cit., pp. 88 ss.

182 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 conseguenze lesive di condotte già penalmente rilevanti. Il legislatore è così intervenuto, in taluni casi, introducendo nuove ipotesi di reato, che puniscono comportamenti resi possibili solo dall’avvento delle nuove tecnologie digitali (si pensi all’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, di cui all’art. 615-ter c.p.), in altri, aggravando il trattamento sanzionatorio nel caso in cui il fatto tipico venga commesso attraverso strumenti informatici o telematici (si pensi agli atti persecutori, ex art. 612-bis, comma 2, c.p.) in ragione della sua maggiore offensività. Anche gli atti di bullismo, commessi o trasposti in rete, come si è visto, assumono nuove caratteristiche fenomenologiche e ulteriori potenzialità lesive 50 . La l. 71/2017, insieme alle condotte richiamate in maniera esemplificativa e atecnica all’art. 1, comma 2, menziona espressamente nelle sue disposizioni solo l’abrogato delitto di ingiuria (art. 594 c.p.), ora illecito civile, la minaccia (art. 612 c.p.) e l’illecito trattamento di dati personali (art. 167 codice della privacy). Tuttavia, l’elenco delle fattispecie incriminatrici i cui estremi possono essere ravvisati negli atti di cyberbullismo, anche alla luce dell’interpretazione “evolutiva” condotta dalla giurisprudenza in aderenza al nuovo contesto social-mediatico, è ben più ampio 51 . Nel presente paragrafo ci si propone di passare in rassegna quelle più frequentemente integrate. Partendo dagli atti di cyberbullismo che incidono sulla reputazione della vittima, va richiamato anzitutto il delitto di diffamazione 52 ,

50 Cfr. L. Picotti, Diritto penale e tecnologie informatiche: una visione d’insieme, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, Milano, 2019, pp. 35 ss. 51 Cfr. M. C. Parmiggiani, Il cyberbullismo, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., pp. 636 ss. 52 Il delitto è punito con la reclusione fino a un anno nell’ipotesi base e fino a due o a tre anni nelle ipotesi aggravate. Il 9 giugno 2020, la Corte Costituzionale ha rinviato la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale della pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa al 22 giugno 2021 «per consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia». È dalla fine degli anni Ottanta che vengono avanzate proposte di riforma della fattispecie mai diventate legge. Fra le più recenti si segnala il d.d.l. Caliendo, n. 218, presentato in data 20 settembre 2018, che propone di sostituire la comminatoria edittale attuale con la multa da euro tremila a euro diecimila, arrivando fino a quindicimila euro se l’offesa consistesse nell’attribuzione di un fatto determinato e con aumento della metà se l’offesa fosse arrecata con il mezzo della stampa o con un qualsiasi mezzo di pubblicità, in via telematica, ovvero in atto pubblico. Si prevede inoltre che la persona offesa possa chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge. Qualora non ottenesse la cancellazione potrebbe rivolgersi al giudice affinché ne ordini la rimozione o ne inibisca l’ulteriore diffusione, eventualmente condannando l’inadempiente al pagamento di una somma determinata in via equitativa. Testo fruibile su www.senato.it.

183 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 espressamente richiamato dalla l. 71/2017, integrato, ad esempio, ogniqualvolta venga pubblicato in un social network o comunque in rete un contenuto (testo, immagine, fotografia, video) idoneo a offendere la reputazione di taluno53. La condotta deve essere tenuta in assenza della persona offesa, requisito, quest’ultimo, che differenzia la diffamazione dall’ingiuria 54 (ex art. 594 c.p., parimenti richiamata dalla l. 71/2017, benché depenalizzata nel 201655) e che non deve essere inteso in senso rigorosamente fisico-spaziale – precisa la giurisprudenza – ma come incertezza circa l’immediata percezione dell’addebito diffamatorio56. In altri termini, sebbene fra i potenziali fruitori del contenuto offensivo diffuso mediante internet vi sia anche la persona offesa, ciò non depone nel senso di ricondurre la condotta all’illecito civile di ingiuria, anziché al delitto di diffamazione, in quanto, la percezione dell’offesa è solo

53 La reputazione è tradizionalmente intesa quale «stima diffusa nell’ambiente sociale», «opinione che gli altri hanno del suo onore e del suo decoro». Cass. pen., 25 maggio 1995, n. 3247, in Cass. pen., 1995, pp. 2535 ss. Sul tema si veda diffusamente A. Visconti, Reputazione, dignità, onore. Confini penalistici e prospettive politico- criminali, Torino, 2018. Ai fini della configurazione della fattispecie non è necessaria la lesione della reputazione, ma è sufficiente l’idoneità del contenuto in questione a ledere l’altrui reputazione. Sul punto, Cass. pen., Sez. V, 5 agosto 2015, n. 34178, in Dir. & Giust., 2015, 6 agosto; Cass. pen., Sez. V, 4 dicembre 2013, n. 9091, in Resp. civ. e prev., 2014, 2, pp. 679 ss.; Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2012, n. 5654, in Dir. & Giust., 2013, 5 febbraio. 54 Tale distinzione, che si giustificherebbe «sulla base dell’asserita [F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2000, I, p. 195; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1981-1986, p. 621, F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, 2019, pp. 266 ss.] minore gravità dell’offesa posta in essere nei confronti di una persona che, per averne immediata conoscenza, sarebbe posta nella condizione di approntare sul momento una difesa al suo onore, rintuzzando le affermazioni del soggetto attivo e riducendo, quindi, la gravità della lesione», suscita nella dottrina più recente (A. Visconti, Reputazione, dignità, onore, cit., pp. 350 ss.) perplessità che meritano di essere condivise e la cui fondatezza emerge in maniera lampante in relazione alle dinamiche di bullismo e cyberbullismo, in cui è presumibilmente raro che la vittima, per la sua frequente fragilità e per la posizione di inferiorità in cui si trova, riesca a opporre una difesa efficace alle offese che pure le vengano rivolte in sua presenza (reale o virtuale). 55 Il delitto di ingiuria, di cui all’art. 594 c.p. [«Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni diretti alla persona offesa (…)] è stato abrogato con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. Oggi l’ingiuria costituisce illecito civile punito con sanzione pecuniaria da cento a ottomila euro. Cfr. O. Makimov Pallotta, Depenalizzazione dell’ingiuria e (obbligo di) protezione del diritto all’onore: riflessioni a margine di una questione di legittimità costituzionale, in MediaLaws, 2018, 3, pp. 268 ss. 56 Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2012, n. 44980, in Cass. pen., 2013, 10, pp. 3522 ss.

184 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 eventuale, mancando la certa compresenza di agente e soggetto vilipeso57. Qualora invece l’offesa venga diretta, ad esempio tramite sistemi di messaggeria istantanea, al destinatario, anche in una chat di gruppo – secondo un recente orientamento – non ricorre diffamazione ma ingiuria, in quanto l’offeso è posto in condizione di potersi immediatamente difendere 58 . La diffamazione è aggravata, a norma del terzo comma dell’art. 595 c.p., fra l’altro, quando l’offesa è recata con un qualsiasi «mezzo di pubblicità», categoria cui, sulla base di un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, vanno ricondotte le piattaforme social e la rete in generale, dal momento che i contenuti che vi sono veicolati possono avere una diffusione potenzialmente enorme59. La reputazione va indubbiamente annoverata fra i beni giuridici tutelati dal nuovo delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, di cui all’art. 612-ter c.p. (cd. “revenge porn”60), sebbene tale fattispecie sia stata inserita nella Sezione III, Capo III, del Titolo XII, dedicata ai delitti contro la libertà morale. È infatti indubbio che le condotte punite, che consistono nell’invio, nella consegna, nella cessione, nella pubblicazione e nella diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito61, destinati a rimanere privati, senza il consenso

57 C. Panicali, Il cyberbullismo: i nuovi strumenti (extrapenali) predisposti dalla legge n. 71/2017 e la tutela penale, in Resp. civ. prev., 2017, 6, pp. 2081 ss. 58 Cass. pen., Sez. V, 25 febbraio 2020, n. 10905, in Dir. & Giust., 2020, 1° aprile, in cui si precisa che «l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore». Sul punto v. supra nota n. 54. 59 Da ultimo Cass. pen., Sez. V, 3 maggio 2018, n. 40083, in Dir. & Giust., 2018, 6 settembre. 60 Sul tema si veda diffusamente A. Sorgato (a cura di), Revenge porn, Aspetti giuridici, informatici, psicologici, Milano, 2020. 61 Carattere “sessualmente esplicito” va attribuito, secondo i primi commentatori, «a immagini che raffigurino qualsiasi forma di rapporto sessuale o di autoerotismo, nonché alle immagini raffiguranti corpi nudi, per intero o limitatamente a organi genitali o ad altre aree corporee generalmente riconducibili all’eccitamento sessuale come, appunto, il seno o le natiche». G. M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet. L’art. 612-ter c.p. e l’incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 4, pp. 2070-2071. Continua l’Autore: «per le altre categorie di immagini – baci e altre effusioni, pose sensuali o provocanti, foto in costume da bagno o in lingerie – che non paiono di per sé idonee a integrare la fattispecie, assumerà rilievo la valutazione del contesto complessivo, atteso che anche un’immagine particolarmente allusiva, benché priva delle predette nudità, può presentare carattere marcatamente sessuale».

185 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 della persona rappresentata, possano avere un notevole impatto sulla reputazione di quest’ultima62. In particolare, la norma contempla due ipotesi criminose che si differenziano sulla base della “genesi” dei contenuti sessualmente espliciti: nella prima sono stati realizzati o sottratti dall’agente, che è punito a prescindere dal fine per il quale li ha ceduti o ne ha dato diffusione (comma 1); nella seconda, l’agente ha ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video ed è punito solo qualora abbia agito al fine di recare nocumento alla persona raffigurata (comma 2). Questa seconda ipotesi, a ben vedere, è destinata a trovare applicazione in tutti i casi in cui il contenuto sessualmente esplicito sia stato autoprodotto e trasmesso ab origine dalla stessa persona raffigurata, nell’ambito di un fenomeno piuttosto diffuso fra i giovani (e non solo), il cd. sexting. Tale neologismo indica l’invio di messaggi (text) di contenuto erotico (sex) che possono includere anche immagini e video 63 . Qualora tali contenuti vengano ceduti a terzi o pubblicati senza il consenso esplicito della persona raffigurata e, come avviene in caso di cyberbullismo, al fine di recarle nocumento64, verrà integrata la fattispecie in esame65. È bene precisare che, nei casi, presumibilmente più rari, di cessione o diffusione di materiale pornografico relativo a un minore che l’agente stesso abbia realizzato, per effetto della clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) posta all’incipit dell’art. 612-ter c.p.,

62 La fattispecie ha indubbiamente natura plurioffensiva, in quanto la condotta, oltre alla libertà di autodeterminazione in campo sessuale, pare idonea a offendere altresì la reputazione e la riservatezza. Tanto è vero che, fra le sedi in cui collocare la nuova norma, erano stati proposti il codice della privacy (d.d.l. 1166/2019) e un apposito titolo del codice penale relativo ai delitti contro la riservatezza sessuale (Unione Camere penali italiane). Sul rapporto fra riservatezza e onore si veda, diffusamente, A. Visconti, Reputazione, dignità, onore, cit., pp. 116 ss. 63 Per un inquadramento sociologico si vedano, inter alios, M. C. Scarcelli, Quando l’affettività e la sessualità attraversano la rete, in Minori giustizia, 4, 2012, pp. 69 ss.; Id. Intimità digitali. Adolescenti, amore e sessualità ai tempi di internet, Milano, 2015, pp. 40 ss., 105 ss.; M. Drusian, P. Magaudda, C. M. Scarcelli, Vite interconnesse: pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online, cit., pp. 39 ss., 57 ss.; J. Davidson, Sexting Gender and Teens, Rotterdam, 2014; N. Döring, Consensual sexting among adolescents: Risk prevention through abstinence education or safer sexting?, in Cyberpsychology: Journal of Psychosocial Research on Cyberspace, 2014, 8(1). 64 La previsione di tale dolo specifico riduce molto l’ambito applicativo della norma in quanto non vi potranno essere sussunti tutti quei casi, non infrequenti, soprattutto fra i minori, in cui il contenuto sessualmente esplicito venga inviato o diffuso per leggerezza, per noia o per “vantarsi” con gli amici. 65 In tema, diffusamente, I. Salvadori, Sexting, minori e diritto penale, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., pp. 567 ss. Vedi anche supra nota n. 43.

186 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 anziché il primo comma di detta norma, potrebbe trovare applicazione la più grave ipotesi di pornografia minorile di cui all’art. 600-ter, comma 4, c.p. 66 , che invece, secondo l’orientamento prevalente 67 della Corte di Cassazione, non opera, poiché altrimenti si assisterebbe a un’interpretazione analogica in malam partem, nei casi in cui il materiale pedopornografico ceduto o diffuso senza il consenso della persona rappresentata sia stato prodotto dalla stessa (ipotesi ora coperta dall’art. 612-ter, secondo comma, c.p.), difettando il requisito di fattispecie dell’utilizzo del minore per la sua realizzazione previsto dal comma 1 dell’art. 600-ter c.p. cui il comma 4 rimanda68. Fra le degenerazioni abusive e penalmente rilevanti del sexting merita di essere menzionata anche la fattispecie di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p. Le condotte tipiche di costrizione a compiere atti sessuali mediante minaccia (comma 1) e di induzione a compiere tali atti abusando della condizione di inferiorità fisica o psichica o sostituendosi ad altra persona (comma 2) possono infatti essere messe in atto anche “a distanza”, costringendo o inducendo la persona offesa a compiere “in diretta”, tramite videochat o webcam, atti di autoerotismo o a realizzare e

66 La norma punisce «chiunque offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, il materiale pornografico di cui al primo comma» ossia il «materiale pornografico realizzato utilizzando minori». 67 Contra, Cass. pen., Sez. III, 10 maggio 2018, n. 39039, in Guida dir., 2018, in cui si è precisato che è invece configurabile il reato di pornografia minorile (art. 600-ter, comma 4, c.p.) qualora il minore raffigurato non abbia agito spontaneamente ma sia stato indotto con minacce a scattarsi e inviare “selfie erotici”, poi ceduti o diffusi dal destinatario, e Cass. pen., Sez. III, 21 novembre 2019, n. 5522, in Guida dir., 2020, secondo cui «ai fini dell’incriminazione e, quindi, del fatto tipizzato nel comma 4 dell’art. 600-ter c.p., non rileva la modalità della produzione, auto o eteroproduzione», in quanto in caso di offerta o cessione di materiale pedopornografico ad altri «è necessario e sufficiente che oggetto dell’offerta o della cessione sia il materiale pedopornografico sic et simpliciter», poiché «i commi 2, 3 e 4, nel riferirsi al materiale pornografico di cui al comma 1, non richiamano l’intera condotta delittuosa del comma 1, ma si riferiscono all’oggetto materiale del reato, evocando l’elemento sul quale incide la condotta criminosa e che forma la materia su cui cade l’attività fisica del reo: il materiale pedopornografico prodotto e non il reato di produzione del materiale pedopornografico». Sulla base di tale motivazione la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 600-ter, comma 4, c.p. di un minore che aveva sottratto selfie pornografici a una compagna di scuola, anch’ella minorenne, per poi trasmetterli, dopo qualche giorno, a un amico che, successivamente, li aveva divulgati in una chat WhatsApp. 68 Cass. pen., Sez. III, 21 marzo 2016, n. 11675, in Riv. pen., 2016, 5, pp. 433 ss. Cfr. M. Bianchi, Il “sexting minorile” non è più reato? Riflessioni a margine di Cass. pen., Sez. III, 21.3.2016, n. 11675, in Dir. pen. cont., 1, 2016, pp. 138 ss.; I. Salvadori, Sexting, minori e diritto penale, cit., pp. 581 ss.

187 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 inviare immagini o video raffiguranti tali atti 69 . Anche qualora il compimento di atti di autoerotismo e l’eventuale invio di immagini o video a essi relativi non sia avvenuto per effetto di minaccia o di induzione con approfittamento dell’altrui inferiorità ma spontaneamente, il fatto potrebbe integrare il delitto di atti sessuali con minori di cui all’art. 609-quater c.p. ove la persona che li compie abbia meno di quattordici anni (salvo che abbia compiuto i tredici anni e anche il “destinatario” sia minorenne)70. Per sottolineare l’attinenza al tema del cyberbullismo delle fattispecie poc’anzi richiamate, e in particolare della diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, è interessante osservare come, prima dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p., la casistica che la fattispecie ricomprende venisse ricondotta ora al delitto di diffamazione 71 ora al delitto di illecito trattamento di dati personali di cui all’art. 167 codice della privacy72, espressamente richiamati dalla l. 71/2017. Quest’ultima fattispecie, posta a tutela del diritto alla protezione dei dati personali, ricorre infatti ogniqualvolta taluno73 “tratti” – ossia, fra l’altro, estragga, usi, comunichi, trasmetta, diffonda – dati altrui, senza il consenso del

69 Cass. pen., Sez. III, 18 luglio 2012, n. 37076, in Dir. & Giust., 2012, 27 settembre, in cui si afferma che «il reato di violenza sessuale, consistente nel compimento da parte della persona offesa di atti sessuali su se stessa, può essere commesso anche a distanza, ovverosia a mezzo telefonico o di altre apparecchiature di comunicazione elettronica». 70 Cass. pen., Sez. III, 25 marzo 2015, n. 16616, in Cass. pen., 2016, 1, p. 228, relativa al caso di un imputato maggiorenne condannato, fra l’altro, per atti sessuali con minore, ai sensi dell’art. 609-quater c.p., per essersi collegato via “webcam” con due minori di 9 e 11 anni, essersi denudato e masturbato e aver osservato le persone offese fare altrettanto. Va precisato che gli atti sessuali con minore consenziente assumono rilevanza penale anche quando il minore abbia più di quattordici anni nelle ipotesi previste e disciplinate dall’art. 609-quater c.p. (che si riferiscono a casi in cui sussiste un rapporto qualificato fra minore e agente). 71 Cass. pen., Sez. III, 19 marzo 2019, n. 19659, in CED Cass. 2019. 72 L’offesa che la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti reca alla riservatezza ha portato l’Unione Camere penali italiane (UCPI), nell’ambito delle audizioni tenute dalla commissione giustizia del Senato per l’approvazione del c.d. “Codice Rosso”, a prospettare la creazione di un apposito titolo del codice penale relativo ai delitti che ledono la riservatezza sessuale in cui collocare la nuova fattispecie. 73 Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, anche nei casi in cui al trattamento illecito non proceda il soggetto istituzionalmente o normativamente “depositario” dei dati, ma un soggetto privato, purché con finalità di profitto o di danno e cagionando nocumento all’interessato, questi potrà essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 167 codice della privacy. Cass. pen., Sez. III, 17 febbraio 2011, n. 21839, in Foro it., 2012, 3, II, p. 142. A suffragio di tale impostazione, si noti che l’art. 167 (così come gli artt. 167-bis, 167-ter e 168), a differenza dell’art. 170 codice della privacy, non reca, dopo il «chiunque», la specificazione «essendovi tenuto» riferita al compimento delle operazioni di trattamento.

188 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 soggetto cui tali dati si riferiscono, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di danneggiare l’interessato, arrecandogli così nocumento74. Si tratta di un delitto che, in forza della nozione ampia di nocumento adottata dai giudici di legittimità, quale «insieme delle conseguenze negative in senso lato, ivi comprese le ripercussioni sgradevoli o disonorevoli» 75 e dell’interpretazione estensiva che viene data alla finalità di profitto – oggetto del dolo specifico – come avente natura anche non patrimoniale, potrebbe ricorrere in caso di sottrazione, trasmissione e condivisione da parte del cyberbullo di dati della vittima, vale a dire informazioni, ma anche immagini o video76, a esclusione di quelli sessualmente espliciti la cui diffusione, come si è detto, ricade oggi nella nuova previsione incriminatrice di cui all’art. 612-ter c.p.77. Passando agli atti di cyberbullismo che offendono principalmente la libertà morale, viene in rilievo il delitto di minaccia di cui all’art. 612 c.p., espressamente menzionato dalla l. 71/2017 e posto a tutela, in particolare del «diritto a starsene quieti e sicuri»78. La nozione tecnica di minaccia è quella di prospettazione ad altri di un male ingiusto, il cui verificarsi dipende dall’autore della minaccia. Il primo comma dell’art. 612 c.p. punisce con la multa la minaccia “semplice”, che si distingue dalla minaccia aggravata, di cui al secondo comma, in quanto quest’ultima è

74 In tema, diffusamente, F. Resta, I reati in materia di protezione dei dati personali, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., pp. 567 ss.; V. Manes, F. Mazzacuva, GDPR e nuove disposizioni penali del Codice privacy, in Dir. pen. proc., 2019, 2, pp. 71 ss.; M. Lamanuzzi, Tutela penale della privacy, in Diritto on line Treccani – Approfondimenti enciclopedici, 2019; F. Brizzi, Privacy: la tutela penale dei dati personali, Milano, 2020. 75 Cass. pen., Sez. III, 7 febbraio 2017, n. 29549, in CED Cass. 2017. 76 Cass. pen., Sez. III, 10 settembre 2015, n. 40356, in Dir. & Giust., 2015, 9 ottobre. Con riferimento ai profili di responsabilità civile in capo ai genitori, v. Tribunale Sulmona, 9 aprile 2018, in Dir. fam., 2019, pp. 185 ss. 77 Fattispecie, quella di illecito trattamento di dati personali, che oggi potrebbe concorrere con l’art. 612-ter c.p. nei casi di cd. “doxxing”, espressione che indica la tendenza ad accompagnare la pubblicazione di immagini intime a informazioni personali della persona raffigurata (nome, indirizzo, numero di telefono, contatto e- mail, riferimenti sui social network). Cfr. G. M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet, cit., 2057. 78 F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, XV ed. integrata e aggiornata a cura di C. F. Grosso, Milano, 2008, p. 152. In particolare, secondo una recente ricostruzione dottrinale, il bene giuridico oggetto di tutela sarebbe il «diritto a non avere paura, nel senso precipuo, però, di diritto a non subire sopraffazioni violente nella propria sfera psichica; a non essere impauriti dall’altrui ingiusta intimidazione, a non vedere turbato il proprio stato e benessere psichico (e correlativamente la propria esistenza) in ragione della sofferenza, per l’appunto psichica, che consegue a una vis animo illata». G. L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, p. 65.

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“grave” – ossia tale da aver determinato, anche in considerazione del contesto in cui è profferita, un turbamento psichico di notevole entità79 – o viene realizzata con armi o da più persone riunite. Si tratta di un reato di pericolo che si perfeziona quando la prospettazione, potenzialmente idonea a incidere sulla libertà psichica del destinatario, giunge, con qualsiasi modalità, a conoscenza di quest’ultimo, a prescindere dal fatto che egli ne rimanga effettivamente intimidito. Quando la condotta consiste in minacce o molestie reiterate, che ingenerino nella persona offesa un perdurante e grave stato di ansia o di paura o un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o che la costringano ad alterare le proprie abitudini di vita, si configura la fattispecie di atti persecutori (o ) di cui all’art. 612-bis c.p. Si tratta di un reato abituale, ossia per la cui integrazione non è sufficiente una condotta isolata, ma occorre una reiterazione di condotte di minaccia o di molestia, laddove la minaccia va intesa nel senso già illustrato e la molestia consiste in un modo di agire pressante e indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata altrui 80. Il bene giuridico tutelato consiste in quella declinazione della libertà morale che si sostanzia nella libertà da intrusioni moleste e assillanti, da ansie, timori

79 Ex pluribus Cass. pen., Sez. V, 5 febbraio 1980, in Giust., pen., 1980, II, pp. 655 ss. in cui si chiarisce che «la gravità della minaccia, agli effetti dell’art. 612 c.p., deve essere intesa con riferimento all’entità del turbamento psichico che l’atto intimidatorio può determinare nel soggetto passivo, e può essere desunta da tutte le circostanze oggettive e soggettive che accompagnano il fatto»; Cass. pen., Sez. V, 13 gennaio 1984, in Cass. pen., 1985, pp. 646 ss., in cui si legge che «la gravità della minaccia deve essere accertata con riferimento alla entità del turbamento psichico causato al soggetto passivo dall’atto intimidatorio, turbamento che si desume sia dalla gravità del male minacciato, sia dalle circostanze nelle quali la minaccia è fatta, oltreché dalle condizioni particolari in cui si trovino il soggetto attivo e la persona offesa». Più di recente: Cass. pen., Sez. V, 29 maggio 2015, n. 44382, in CED Cass, 2016, e Cass. pen., Sez. V, 14 gennaio 2019, n. 8193, in CED Cass. 2019, in cui si precisa che «in tema di reati contro la persona, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave, ex art. 612, comma 2, c.p., rileva l’entità del turbamento psichico determinato dall’atto intimidatorio sul soggetto passivo, che va accertata avendo riguardo non soltanto al tenore delle espressioni verbali profferite ma anche al contesto nel quale esse si collocano». 80 Inter alios, Cass. pen., Sez. I, 22 febbraio 2011, n. 10983, in Foro it. 2011, II, p. 581; Cass. pen., Sez. I, 7 giugno 2018, n. 50381, in CED Cass., 2019. La Corte di Cassazione ha affermato che gli atti di bullismo integrano il reato di atti persecutori purché si provi la causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, prova ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato. Cass. pen., Sez. V, 27 aprile 2017, n. 28623, in Cass. Pen., 2018, 2, pp. 580 ss.

190 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 eccessivi e turbamenti idonei a stravolgere l’equilibrio psicologico di chi li prova81. In caso di cyberbullismo, la fattispecie si applicherà in forma aggravata, in quanto la norma dispone che la pena è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (cd. cyberstalking)82, ad esempio attraverso l’invio di messaggi e/o la pubblicazione di post di carattere intimidatorio83, e se il fatto è commesso a danno di un minore (in tal caso la pena è aumentata fino alla metà). Trattandosi, secondo l’interpretazione prevalente, di un reato di danno, non di pericolo, è necessario, affinché il comportamento possa essere sussunto nella fattispecie di atti persecutori, che dal fatto derivi almeno uno dei tre eventi descritti dalla norma. Il più facile da accertare è la costrizione al cambio di abitudini. Si pensi, con riferimento al cyberbullismo, alla reiterata pubblicazione di post denigratori e minacciosi attraverso i social network che costringa la vittima a eliminare il proprio account. Maggiori criticità sotto il profilo probatorio ricorrono in relazione al fondato timore per l’incolumità propria o di un congiunto, nonché allo stato di grave e perdurante ansia e paura che richiedono l’accertamento di un evento di natura psichica e del suo legame causale con la condotta del cyberbullo 84 . È interessante sottolineare come,

81 M. Caputo, Eventi e sentimenti nel delitto di atti persecutori, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, pp. 1412 ss. 82 In tema, diffusamente, F. Macrì, Il cyberstalking, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., pp. 615 ss. 83 Cass. pen., Sez. V, 17 settembre 2019, n. 45141, in ilpenalista.it, 31 marzo 2020, con nota di L. Bellanova, Il reato di stalking nell’era dei social network. Nella pronuncia viene messo in luce come la persona offesa, molestata dall’imputato attraverso la pubblicazione reiterata di minacce e offese attraverso i social network e l’invio di messaggi intimidatori, oltre a versare in uno stato di angoscia e paura, era stata costretta a cambiare le proprie abitudini, chiedendo spesso ad amici di accompagnarla a casa e impostando nel proprio telefono cellulare il blocco delle chiamate in entrata. 84 Il perdurante e grave stato di ansia e di paura, per costante giurisprudenza, non deve consistere in un vero e proprio stato patologico e non è quindi imprescindibile, per il suo accertamento, ricorrere a una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa anche sulla base di massime di esperienza, ossia di giudizi ipotetici di carattere generale fondati sul parametro dell’id quod plerunque accidit. Cass. pen., Sez. V, 19 gennaio 2016, n. 30334, in Dir. & Giust., 2016, 18 luglio. Afferma infatti la giurisprudenza sul punto che il grave e perdurante stato di ansia e di paura «deve avere indubbiamente una qualche consistenza, come suggerisce il ricorso da parte del legislatore agli aggettivi “grave” e “perdurante” per qualificare gli elementi selezionati per caratterizzare l’evento in questione, e sotto il profilo probatorio ciò significa che l’effetto destabilizzante deve risultare in qualche modo oggettivamente rilevabile e non rimanere confinato nella mera percezione soggettiva della vittima del reato, ma in tal senso anche la ragionevole deduzione che la peculiarità di determinati comportamenti

191 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 proprio al fine di contrastare i fenomeni di bullismo, sia stata avanzata la proposta di modificare l’art. 612-bis c.p. nel senso di aggiungere fra gli eventi alternativi che devono scaturire dalle molestie e/o minacce reiterate la riduzione della vittima in condizione di emarginazione85. Nel novero delle fattispecie che puniscono condotte con effetti destabilizzanti sull’equilibrio psichico della vittima, merita un cenno anche la contravvenzione di molestia, ex. art. 660 c.p., inserita nella sezione dedicata alle contravvenzioni contro l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica. La norma punisce chi reca molestia o disturbo a taluno per petulanza o altro biasimevole motivo, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono. La Corte di Cassazione ha statuito che chi posta contenuti offensivi, inequivocabilmente rivolti a una persona, su una pagina facebook aperta a tutti integra il reato in esame non tanto per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto per la natura di facebook quale «luogo virtuale» aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi assimilabile a un luogo pubblico 86 . Le stesse considerazioni possono essere estese alle altre piattaforme social e a tutti gli spazi del web open access. Proseguendo con la disamina, gli episodi di cyberbullismo che hanno avuto maggiore eco mediatica sono stati quelli con esito fatale, ossia che hanno portato la vittima a togliersi la vita (cd. bullycide). La fattispecie che viene in rilievo in tali casi è l’istigazione al suicidio, di cui all’art. 580 c.p., delitto contro la vita e l’incolumità che ricorre quando l’agente determina la vittima al suicidio o ne rafforza il proposito suicidario purché questa effettivamente si suicidi o, nel tentare di suicidarsi, si provochi una lesione personale grave o gravissima.

suscitino in una persona comune l’effetto destabilizzante descritto dalla norma corrisponde alla segnalata esigenza di obiettivizzazione, costituendo valido parametro di valutazione critica di quella percezione». Cass. pen., Sez. V, 9 maggio 2012, n. 24135, in Cass. pen., 2013, 1, pp. 152 ss. 85 Disegno di legge n. 1690, cit. 86 A parere della Corte, infatti, sembra «innegabile che la piattaforma sociale facebook rappresenti una sorta di agorà virtuale, o meglio una piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e di visioni». Inoltre la Suprema Corte non solo afferma che la lettera della legge permette di assimilare facebook alla nozione di luogo, ma aggiunge anche che, a fronte della «rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la ratio della disposizione impone di considerare questa assimilazione». Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 2014, n. 37596, in Dir. pen. cont., 5 marzo 2015, con nota di M. C. Ubiali, Molestie via facebook: tra divieto di analogia ed esigenze di adeguamento alle nuove tecnologie.

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Alcuni recenti casi di cronaca, legati al cyberbullismo e ad altri allarmanti fenomeni che coinvolgono i giovani (come il suicide game chiamato Blue Whale) hanno portato gli studiosi a interrogarsi sulla possibilità di punire l’istigazione al suicidio a titolo di tentativo87, ossia anche nei casi in cui la vittima, pur tentando il suicidio, grazie al sopravvenire di interventi salvifici, non riporti lesioni o riporti lesioni lievi. Tuttavia, in tema di istigazione, la scelta del legislatore è stata quella di punire, quale forma di concorso morale nel reato (ex. art. 110 c.p.), la sola istigazione a commettere un reato accolta dal destinatario (art. 115, comma 3, c.p.), mentre solo in via eccezionale e tassativa, ossia nei casi espressamente previsti, è punita la mera istigazione (artt. 266, 302, 414, 414-bis, 415 c.p.) e, nei termini stringenti di cui all’art. 580 c.p., l’istigazione a compiere atti autolesivi. In tal caso, il legislatore, secondo una recente interpretazione giurisprudenziale, avrebbe fissato quale soglia minima di rilevanza penale le lesioni gravi riportate dalla persona offesa, escludendo ulteriori anticipazioni della tutela derivanti dall’applicazione della disciplina del tentativo88. Sulla scorta di tali considerazioni, ad esempio, nei casi di Blue Whale in cui la vittima, pur convinta dal “curatore” a praticarsi tagli sul corpo e a salire sul cornicione determinata a togliersi la vita, non abbia poi realizzato il proprio intento grazie all’intervento di terzi, esclusa la sussistenza di istigazione al suicidio 89 , sono state formulate a carico dell’agente imputazioni alternative, quale quella di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e quella di violenza privata (art. 610 c.p.) 90. Infine, in casi limite, potrebbero ricorrere negli atti di cyberbullismo gli estremi del nuovo delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p., che punisce «chi con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà,

87 Proposta avanzata, ad es., da A. Cocca, Delitti tentati di istigazione al suicidio. Una lettura “rinforzata” dell’art. 580 c.p. quale antidoto al fenomeno delle suicide challenges, in Arch. pen., 2018, 1. 88 Cass. pen., Sez. V, 23 novembre 2017, n. 57503, in Ilpenalista.it, 8 maggio 2018, con nota di A. V. Lanna, Il Blue Whale Challenge è un “gioco” odioso ma perché vi sia reato non è sufficiente la semplice istigazione. Già. M. Bertolino, Suicidio (istigazione o aiuto al), in Dig. Pen., 1999, XIV, pp. 113 e 120, aveva rilevato che, rispetto al reato di istigazione al suicidio consumato, ossia che abbia portato la persona offesa a suicidarsi, il tentativo di suicidio della stessa che abbia avuto come conseguenza lesioni gravi o gravissime costituisce un’ipotesi speciale di tentativo che prevale sull’art. 56 c.p. escludendone l’applicazione. 89 Cass. pen., Sez. V, 23 novembre 2017, n. 57503, in Guida dir., 2018, 7, pp. 95 ss. 90 Redazione Milano online, «Blue Whale», istigò 12enne al suicidio: a processo una 23enne milanese, in Corriere della sera, 7 febbraio 2019.

193 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». La fattispecie, introdotta sulla scia della risonanza mediatica che hanno avuto gravi violenze perpetrate nei confronti di detenuti (uno fra tutti il caso Cucchi) potrebbe essere integrata dal cyberbullo che inviasse e/o pubblicasse sistematicamente contenuti intimidatori rivolti a un compagno in condizioni di minorata difesa, ad esempio per le sue caratteristiche personali (si pensi a un soggetto portatore di handicap o vulnerabile per altre ragioni), cagionandogli così «acute sofferenze psichiche o un verificabile trauma psichico»91. Esempi di circostanze aggravanti che potrebbero qualificare i reati integrati al cyberbullo sono la cd. minorata difesa, di cui all’art. 61, n. 5, c.p., che ricorre quando l’agente ha profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (si pensi alle vittime particolarmente vulnerabili per la propria giovanissima età o le proprie caratteristiche caratteriali o disabilità), e l’aggravante di odio razziale, di cui all’art. 604-ter c.p., che si applica quando il reato è commesso per finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso. Altre fattispecie potrebbero venire in gioco nel corso delle attività lato sensu prodromiche o strumentali al compimento di atti di cyberbullismo. Ad esempio, talvolta tali atti vengono posti in essere usando un “account fake”, ossia creato in modo da non consentire l’immediata identificazione dell’utilizzatore. Se l’account rimanda chiaramente a un’altra persona (poiché ad es. ne viene utilizzato il nome, il soprannome o una fotografia), la condotta potrebbe integrare il delitto di sostituzione di persona ex art. 494 c.p. 92 . Se il cyberbullo si introduce abusivamente nel sistema informatico (computer, smartphone, casella mail o account di social network) della vittima – immaginiamo per estrarre immagini o per postare contenuti offensivi – o di altri (ad esempio di un compagno dal cui account agire per far ricadere su di lui la responsabilità), il reato integrato è l’accesso abusivo a sistema informatico, di cui all’art. 615-ter

91 V. M. C. Parmiggiani, Il cyberbullismo, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., p. 652. Per un ampio inquadramento della fattispecie di veda E. Scaroina, Il delitto di tortura: l’attualità di un crimine antico, Bari, 2018. 92 Cfr. M. Marraffino, La sostituzione di persona mediante furto di identità digitale, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., pp. 307 ss.; S. Corbetta, Delitti contro la fede pubblica. Falsa creazione di un profilo facebook: è sostituzione di persona, in Dir. pen. proc., 2020, 9, pp. 810 ss.

194 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 c.p. 93 . Ancora, se il cyberbullo diffonde immagini o video senza il consenso della persona raffigurata dopo essere stato lui stesso a realizzarli «mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora» (come uno smartphone) e in «momenti attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi» di privata dimora (i bagni della scuola e gli spogliatoi della palestra, ad esempio, potrebbero essere ricondotti alla nozione lata di “privata dimora” adottata dalla giurisprudenza94), può incorrere nel reato di interferenze illecite in vita privata, ex art. 615-bis c.p. Come ultimo esempio, si pensi al cyberbullo che, una volta fatto accesso al dispositivo o al profilo social della vittima, con o senza il suo consenso, cancelli o alteri arbitrariamente dati o contenuti di sorta. In tal caso si configurerebbe il reato di danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici, previsto all’art. 635-bis c.p., norma che punisce chiunque «distrugge, deteriora, cancella, altera o sopprime informazioni, dati o programmi informatici altrui»95.

4. Considerazioni in tema di imputabilità del cyberbullo

L’approfondimento dei profili criminologici e giuridico-penali del cyberbullismo non può prescindere da qualche cenno in tema di imputabilità dei minori. Se infatti è vero che con la l. 71/2017 il legislatore ha condivisibilmente optato per una strategia che fa leva su strumenti preventivi e inibitorio- cautelari, anziché sulla sanzione penale, la configurabilità, almeno in

93 Cfr. I. Salvadori, I reati contro la riservatezza informatica, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., pp. 656 ss.; N. Bussolati, Accesso abusivo a un sistema informatico o telematico ex art. 615-ter c.p.: il nodo dell’abusività, in Studium Iuris, 2018, 4, pp. 428 ss. 94 Cass. pen., Sez. V, 19 luglio 2017, n. 38400, in Resp. civ. e prev., 6, pp. 1977 ss., in cui si precisa che la nozione di privata dimora è più ampia di quella di abitazione e va riferita al luogo in cui la persona compie, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. In tal senso, la Cassazione ha precisato, ad esempio, che «ai fini della integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.), deve ritenersi luogo di privata dimora la “toilette” di uno studio professionale, trattandosi di locale il cui accesso è riservato al titolare e ai dipendenti dello studio ed è consentito a clienti e fornitori solo in presenza di positiva volontà del personale. (Fattispecie in cui la Corte, avendo riguardo alla condotta posta in essere da uno dei titolari dello studio e consistita nella captazione delle immagini delle impiegate mediante un telefono cellulare opportunamente occultato, ha precisato che la disponibilità del luogo anche da parte dell’autore della indebita interferenza non incide sulla sussistenza del reato, che mira a tutelare la riservatezza domiciliare della persona offesa). Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2015, n. 27847, in Dir. & Giust., 2015, 3 luglio. 95 Cfr. M. C. Parmiggiani, Il cyberbullismo, in A. Cadoppi et al. (a cura di), Cybercrime, cit., p. 639.

195 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 astratto, di numerose fattispecie incriminatrici negli atti del cyberbullo, la notevole potenzialità lesiva di tali atti e le proposte di legge volte ad abbassare l’età imputabile96 rendono opportuno soffermarsi brevemente sulla capacità dei minori di cogliere il disvalore della propria condotta deviante e sull’influenza che l’attuale contesto digitale e social-mediatico esercita su detta capacità secondo interessanti studi psicologici, sociologici e neuroscientifici. Come noto, l’art. 97 del codice penale prevede per gli infra-quattordicenni una presunzione assoluta, iuris et de iure, di non imputabilità. Pertanto, qualora il cyberbullo al momento del fatto non avesse compiuto i quattordici anni, l’istaurazione di un procedimento penale a suo carico è legislativamente esclusa, potendo il giudice, al più, in casi limite, applicare al minore, purché risulti certamente autore del fatto addebitatogli e socialmente pericoloso, una misura di sicurezza97. Per quanto concerne la fascia d’età che va dai quattordici ai diciassette anni, invece, il legislatore, all’art. 98, non ha previsto alcuna presunzione, attribuendo al giudice il compito di accertare caso per caso la capacità di intendere e di volere del minore al momento del fatto e in relazione al fatto98. Detta capacità, con riferimento ai minori, viene tradizionalmente fatta coincidere il concetto di “maturità mentale”99, intesa quale «capacità di comprendere adeguatamente gli elementi di una scelta comportamentale e di controllare le componenti emotive e motivazionali»100.

96 Cfr. infra nota n. 116. 97 Sul punto si vedano, ex pluris A. Mangione, A. Pulvirenti (a cura di), La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Milano, 2020, pp. 37 ss.; M. Bargis (a cura di), Procedura penale minorile, Torino, 2019, pp. 250 ss. Le misure di sicurezza applicabili al minore non imputabile, in quanto infraquattordicenne o in quanto ritenuto tale dal giudice, sono il riformatorio giudiziario (fortunatamente in disuso) e la libertà vigilata (art. 224 c.p.). V. artt. 36 e ss. D.P.R. 448/1988. 98 In tema di diritto del minore non imputabile al proscioglimento nel merito si veda P. Bonora, Imputabilità del minore: educazione o rapida fuoriuscita dal processo penale? Una breve analisi della giurisprudenza in tema di accertamento dell’imputabilità del minore autore di reato, in Diritto penale uomo, 8 luglio 2020. 99 Da ultimo Cass. pen., Sez. V, 14 febbraio 2018, n. 14200, in Guida dir. 2018, 19, pp. 80 ss. Nella letteratura psichiatrico-forense, U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, Milano, 2018, p. 743. 100 S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile. Profili giuridici, psicologici e sociali, Milano, II ed., 2005, p. 100. Più precisamente, nel minore «l’intendere, quale presupposto di capacità, si riferisce a competenze cognitive sociali, emotivo-relazionali, a capacità di azione, a livelli di attivazione della responsabilità presenti al momento del fatto; il volere attiene – tra l’altro – al saper determinare il proprio comportamento rispetto alla percezione che di quel fatto si ha come antigiuridico». A. Ceretti, Il concetto di maturità del minore. Alcune proposte per la

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Prima dell’introduzione del D.P.R. n. 448 del 1988, per evitare l’ingresso dei minori nel circuito penale, la giurisprudenza tendeva a fare frequente ricorso al proscioglimento ex art. 98 c.p. per difetto di imputabilità, individuando, paradossalmente, nella stessa condotta criminosa il principale indice di mancata socializzazione e di immaturità e abdicando così, sostanzialmente, a quell’accertamento in concreto che la norma impone al giudicante101. Con l’introduzione della nuova disciplina del processo penale minorile, il giudice può pronunciare sentenza di non luogo a procedere in caso di irrilevanza del fatto (art. 27 del D.P.R.) o sospendere il processo per mettere alla prova il minore (art. 28 del D.P.R.) con conseguente estinzione del reato in caso di esito positivo della prova, evitando così al minore la condanna e i suoi effetti stigmatizzanti e talvolta addirittura criminogeni. In tale nuovo contesto, l’accertamento della capacità di intendere e di volere, lungi dall’essere sostanzialmente obliterata come avveniva in passato, viene condotto con scrupolo, svolgendo specifiche indagini sulle condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minore, prescritte in via obbligatoria dall’art. 9 del D.P.R. n. 448, e avvalendosi, eventualmente 102 , della collaborazione di esperti in pedagogia, psicologia, sociologia e criminologia103. sua valutazione dal punto di vista dello scienziato dell’uomo, in Minori giustizia, 2002, 3-4, p. 288. In tema di imputabilità dei minori, diffusamente, M. Bertolino, Fattispecie di reato e delinquenza minorile: questioni attuali di imputabilità, in S. Vinciguerra, F. Dassano (a cura di), Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, pp. 51-75. 101 D. Stendardi, Accertamento dell'imputabilità del minore e gravità del reato, in Cass. pen., 2008, 4, pp. 1574 ss. 102 Per costante giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’accertamento dell’imputabilità dell’infradiciottenne, così come dell’imputato maggiorenne che si sospetti fosse affetto da vizio di mente al momento del fatto, non è imprescindibile una specifica indagine peritale, potendo il giudice desumere la capacità di intendere e di volere dalla diretta osservazione della sua personalità e del suo comportamento e dagli altri elementi agli atti, purché la relativa decisione sia congruamente motivata. Cass. pen., Sez. V, 23 giugno 2010, n. 24004, in Riv. pen., 2011, 5, pp. 574 ss.; Cass. pen., Sez. V, 3 febbraio 2011, n. 4104, in Riv. pen., 2012, 2, pp. 232 ss. 103 D. Stendardi, Accertamento dell'imputabilità del minore e gravità del reato, cit., pp. 1574 ss. Il ricorso alla perizia criminologica, vietato per gli imputati adulti ai sensi dell’art. 220 c.p.p., è ammesso e anzi “incoraggiato” con riferimento agli imputati minorenni. Si osserva sul punto che «oggi l’art. 9 delle disposizioni sul processo penale minorile consente anche al pubblico ministero – al fine di accertare “l’imputabilità e il grado di responsabilità”, di valutare “la rilevanza sociale del fatto” commesso e di disporre “le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili” – di acquisire senza alcuna formalità, utilizzando l’apporto di specialisti, educatori e assistenti sociali dipendenti dal Ministero della Giustizia nonché dei servizi istituiti dagli enti locali, “elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e

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Parallelamente a tale evoluzione si è assistito al graduale superamento, a partire dagli anni Settanta, della precedente tendenza a «sposare il mito del pauperismo economico con l’incapacità» 104 , ossia dell’idea che l’inadeguatezza dell’ambiente familiare e sociale si riflettesse automaticamente nell’inadeguatezza/immaturità dei giovani che vi crescono. Si è così assistito all’istaurazione di un «“doppio registro”, che individua il giudizio sull’imputabilità come un esame complesso che non può fare a meno della valutazione dei fattori psicologico-individuali, nel determinare, in concreto, lo sviluppo della personalità del minore». Oggi si ritiene pertanto che «la capacità di intendere e di volere dell’imputato vada assunta sotto un doppio aspetto, “esogeno ed endogeno”: il primo trae le basi dall’ambiente familiare e micro-sociale nel quale ha vissuto l’imputato, mentre il secondo profilo trova riscontro nella sua immaturità psicofisica»105. Partendo dagli aspetti endogeni del giudizio, gli studi di psicologia evolutiva tendono a ravvisare il raggiungimento della maturità da parte del minore nel «compimento del processo di maturazione a livello fisico, con l’adeguato sviluppo dell’organismo psichico, comprensivo della componente emotiva e di quella cognitiva, morale, con il raggiungimento dell’autonomia per avvenuta interiorizzazione dell’obbligazione, e sociale, con la capacità di interagire con i propri simili a partire dalla comune accettazione di norme super-individuali». Di conseguenza, «ogni

ambientali” dell’indagato o dell’imputato. Questa osservazione di sintesi (gli elementi che riguardano la personalità del minore vanno infatti considerati “unitariamente”) non deve tenere conto dei divieti stabiliti dall’art. 220 cod. proc. pen., connotandosi come un’indagine psicologica dai contorni volutamente indeterminati e comunque dilatabili in base alla imponderabile e variegata articolazione delle circostanze e alla discrezionalità e sensibilità del giudice». A. Ceretti, Il concetto di maturità del minore, cit., p. 276. 104 A. Ceretti, Il concetto di maturità del minore, cit., p. 282. «L’oggetto dell’indagine si sposta dunque sui sistemi psico-sociali più ampi e complessi, sul rapporto tra personalità e ambiente micro-sociale». Ivi, p. 287. 105 Ivi, p. 282. Tale multifattorialità dell’immaturità viene descritta anche nella letteratura psico-forense che precisa come «le caratteristiche di funzionamento dell’adolescente immaturo – in relazione di continuità con quelle più propriamente disadattive, tipiche dell’infermità mentale – rappresentano dei veri e propri marker strutturali e funzionali riferibili a una condizione di sviluppo psichico relativamente incompleto. In tale prospettiva, gli ostacoli che impediscono lo sviluppo del senso di responsabilità possono essere, di caso in caso, costituiti da conflitti evolutivi transitori, da una psicopatologia individuale o familiare, ma anche da un disagio psicosociale, da una cultura deviante d’appartenenza o da un aspetto del carattere che può essere difficilmente definito in termini medici e psicologici». L. Cassarà, R. Di Cori, N. Fedeli, U. Sabatello, Imputabilità del minore: capacità d’intendere e volere e maturità, in AA.VV., Manuale psicoforense dell’età evolutiva, Milano, 2018, pp. 287-288.

198 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 deficienza o ritardo nei processi di integrazione dei vari tratti della personalità in ordine all’età cronologica decide il grado di immaturità, che può essere globale o relativa a uno degli aspetti che connotano la maturità complessiva» 106 . In tal senso, nella letteratura psichiatrico-forense vengono distinti quattro tipi di maturità: biologica (armonico sviluppo del corpo); affettiva (capacità di controllare le pulsioni e di integrare, incanalare ed esprimere le emozioni); intellettiva (capacità di utilizzare la dotazione intellettiva per affrontare e risolvere i problemi dell’esistenza); sociale-relazionale (capacità di adattamento alla realtà, di inserimento sociale gratificante e assertività)107. Gli esperti mettono in evidenza la mancanza di «sicuri indicatori sui quali il tecnico si possa obiettivamente fondare per formulare un siffatto giudizio, che rimane sempre e solo affidato alla capacità, all’abilità, alla preparazione, alla sensibilità e alla serietà dell’osservatore»108. Esistono tuttavia alcuni test in grado di fornire dati indicativi che andranno sempre messi in correlazione con le altre valutazioni destinate a concorrere all’accertamento complessivo. Il Risk Sophistication Treatment-Inventory (RST-I)25, ad esempio, è uno strumento che studia il grado di maturità del minore in relazione a tre parametri: la sua autonomia, la sua maturità cognitiva e la sua maturità emotiva. L’autonomia viene valutata osservando l’indipendenza da genitori e coetanei nel prendere decisioni e la capacità di riconoscere le motivazioni alla base dei propri comportamenti. Per verificare la maturità cognitiva si guarda alla capacità di riconoscere l’esistenza di norme condivise e di comprenderne la funzione per la società, di prevedere gli effetti delle proprie azioni, nonché di identificare azioni alternative rispetto a quanto messo in atto e di regolare il proprio comportamento sulla base di una adeguata anticipazione delle prevedibili conseguenze. Infine, la maturità emotiva dipende dalla capacità di ritardare la gratificazione, dalla possibilità di esercitare qualche forma di controllo

106 U. Galimberti, Nuovo dizionario di psicologia: psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, Milano, 2018, p. 606. Maturità e infermità di mente del minore sono due concetti distinti – psicologico il primo, psicopatologico il secondo – che, tuttavia possono concorrere laddove una patologia o un disturbo mentale non sia tale da escludere o far scemare la capacità di intendere e di volere ai sensi dell’art. 88 c.p., ma abbia inciso sull’evoluzione maturativa dell’imputato. U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, cit., pp. 763-764. 107 U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, cit., pp. 753 ss. 108 Ivi, p. 749. In altri termini, «la valutazione della maturità/immaturità di un minore, lungi dall’essere rigorosamente tecnica, risente inevitabilmente di riferimenti soggettivi e di parametri valutativi di ordine morale e culturale (…) poco tecnici e tutt’altro che scientifici, nel senso di “oggettivi” e “misurabili”». Ivi, p. 753.

199 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 sulla propria vita emotiva, dalla tollerabilità dei conflitti e delle ambivalenze e dal modo di entrare in relazione con gli altri109. Qualora uno degli “indicatori” di immaturità sia presente, esso inciderà nel giudizio non automaticamente110, ma tenendo conto delle sue ricadute complessive «sulla crescita del minore, sul suo bilancio evolutivo, cioè a dire i livelli maturativi da lui raggiunti rispetto ai sistemi psico-sociali più ampi e complessi del minore; […] sulle sue competenze cognitive-sociali, emotive al momento dei fatti; sulle capacità soggettive del minore di anticipare, comprendere e sostenere le conseguenze sociali e giudiziarie del fatto di reato commesso; […] sulla capacità/incapacità del/della minore di svincolarsi dalle dinamiche di gruppo o di coppia nel/nella quale e/o con il quale/la quale è stato commesso il reato, ecc.»111. In altri termini, «la maturità è “accertabile” ogniqualvolta un soggetto, pur assediato da fattori perturbanti, è in grado tuttavia di mantenere integro un nucleo che garantisce una certa autonomia della sfera emotivo- affettiva-istintiva e di quella dell’integrazione sociale»112. Negli ultimi decenni anche le neuroscienze hanno dato un importante contributo alla comprensione dei processi di maturazione psico-fisica dei giovani facendo luce, in particolare, sugli aspetti neurobiologici 113. Gli

109 Il Risk Sophistication Treatment-Inventory e altri simili strumenti sono utili alla valutazione delle caratteristiche di maturità o immaturità individuali, ma è importante considerare che la maturità è un concetto complesso e relazionale. La capacità di distinguere il bene dal male dipende dallo sviluppo, dal livello di dipendenza e del riconoscimento sociale del bambino o dell’adolescente da parte della famiglia, del gruppo dei pari, della scuola e della società. A. Maggiolini, M. Di Lorenzo, V. Suigo, L’imputabilità: una prospettiva evolutiva, in Minori giustizia, 2019, p. 70. 110 In tal senso è stato sottolineato come «le procedure psicologiche dialogano con quelle processuali, e che la realtà clinico-conoscitiva non costituisce ricerca della verità processuale e non si traduce linearmente in essa». A. Ceretti, Il concetto di maturità del minore, cit., p. 288. 111 Ivi, pp. 289 ss. 112 Ivi, p. 280. 113 Occorre tuttavia guardarsi dal rischio che tali conquiste della scienza ripristino paradigmi rigidamente deterministici, di stampo neolombrosiano, nella spiegazione della delinquenza giovanile. «Pensare che la criminalità sia determinata in modo lineare e univoco da un funzionamento difettuale del cervello o da specifiche varianti geniche – senza considerare tutti i fattori individuali, sociali, più o meno contingenti, che specificano le condotte umane –, rappresenta un paradigma antiquato e superato da tempo, che fa torto a decenni di ricerche che hanno dimostrato l’indissolubile e multiforme interazione tra natura e cultura. Diversamente l’applicazione di modelli dinamici non lineari, tipici dei sistemi complessi, può fornire una cornice teorica soddisfacente, anche se meno “rassicurante”, per comprendere il fenomeno della criminalità giovanile e modellare in modo opportuno la pratica psicoforense. Solo l’integrazione di modelli e ricerche multilivello – sul piano individuale, familiare, ambientale, neuroscientifico e genetico – può aiutarci a comprendere le linee tracciate

200 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 studi neuroscientifici condotti sullo sviluppo cerebrale in età adolescenziale dimostrano che in tale fase permane una fisiologica immaturità, in quanto vi sono alcune aree dell’encefalo in corso di sviluppo. In particolare, a essere interessate da processi di rimodellamento sono la corteccia prefrontale e il sistema limbico, rispettivamente deputati all’autoregolazione emozionale e cognitiva. Il sistema limbico tende a evolversi più rapidamente della corteccia cerebrale, portando a quello che viene definito effortful control, termine utilizzato per indicare un’eccessiva rapidità nell’attivazione emozionale, specie di carattere aggressivo, accompagnata dalla mancanza di capacità di autoregolazione cognitiva. Ciò spiega la spiccata reattività emotiva dei giovani, che «si manifesta nell’estrema sensibilità agli stimoli sociali, il cd. “dramma sociale degli adolescenti”, e nell’intensa risposta ai rinforzi positivi e alle gratificazioni»114, ma anche nella ricerca di esperienze ed emozioni “forti”. Solo con il pieno sviluppo della corteccia cerebrale, che, per il suo ruolo, viene definita “regista del comportamento”, il soggetto riesce a gestire al meglio le attivazioni emotive e affettive che promanano dal sistema limbico. Con riferimento all’agire online, alcune ricerche neuroscientifiche sembrano dimostrare come, se un uso equilibrato di device elettronici e videogame può potenziare le ragioni cerebrali responsabili dell’attenzione, delle abilità visuo-spaziali e delle capacità motorie, un uso eccessivo, soprattutto durante l’infanzia, può modificare il funzionamento e alterare le strutture dell’encefalo. Inoltre, i videogiochi con trame violente possono provocare alterazioni biochimiche a livello neuro- trasmettitoriale a carico della noradrenalina, influenzare l’operatività della corteccia prefrontale e determinare disfunzioni delle attività neuronali115. È interessante concludere la disamina degli elementi endogeni da valorizzare nell’ambito del giudizio di imputabilità, mettendo in luce come vengano periodicamente presentate proposte di legge che prevedono l’abbassamento dell’età imputabile dai quattordici ai dodici anni, sulla base del presunto raggiungimento anticipato della maturità psico-fisica da parte dei giovani di oggi rispetto ai giovani di alcuni dallo sviluppo dei geni, i circuiti cerebrali, il temperamento, fino ad arrivare ai comportamenti antisociali». R. Di Cori, La delinquenza giovanile tra determinismo, indeterminismo e paradigma della complessità, in Minori giustizia, 2019, 2, p. 49. 114 A. Maggiolini, M. Di Lorenzo, V. Suigo, L’imputabilità: una prospettiva evolutiva, cit., p. 65. 115 U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, cit., p. 758.

201 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 decenni fa116. Sul punto – illustrano gli esperti – se è vero che la pubertà, considerato l’evento biologico che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, in base ai rilevamenti compiuti, inizia oggi in media tre o quattro anni prima117 rispetto a un secolo e mezzo fa, ciò non significa che finisca anche prima e che si traduca in una precoce maturazione anche a livello morale e culturale, combinandosi, al contrario, all’«anticipo puberale» un «ritardo culturale nello sviluppo degli adolescenti»118. Vengono a tal proposito in rilievo i profili “esogeni” della valutazione sull’imputabilità del minore, valorizzati dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale mette in evidenza come, per la verifica della raggiunta maturità, occorra apprezzare una molteplicità di fattori, fra cui le condizioni familiari, socio-ambientali, il grado di istruzione e di

116 Fra le più recenti si veda la proposta di legge n. 1580, presentata il 7 febbraio 2019, recante “Modifiche al codice penale e alle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, in materia di imputabilità dei minori e di pene applicabili a essi nel caso di partecipazione ad associazione mafiosa”. (Fra le proposte avanzate, anche quella di introdurre una deroga alla diminuzione di pena ex art. 98, co. 2, c.p. nel caso in cui il reato di cui il minore è ritenuto responsabile consista nel delitto di associazione mafiosa). L’Unione Nazionale Camere Minorili, commentando la proposta, ha rilevato che la criminalità minorile in Italia è stabile se non in leggero calo e che un contatto eccessivamente precoce del minore con il sistema di giustizia penale sarebbe controproducente, avendo effetti stigmatizzanti e destabilizzanti. Inoltre, che l’abbassamento della soglia di punibilità non determini effetti né general-preventivi né special-preventivi è dimostrato dall’esperienza di sistemi giudiziari stranieri, quali Regno Unito, Usa, Olanda. Comunicato stampa Uncm, 22 febbraio 2019, in www.camereminorili.it. Critica sull’abbassamento dell’età imputabile anche M. Bianchi, Riflessioni critiche sulla nuova proposta di abbassare la soglia di punibilità dei minori, in Arch. pen., 2020, 2. 117 L’inizio della pubertà, tradizionalmente fatto coincidere con l’età media di comparsa del ciclo mestruale, a metà dell’Ottocento, epoca a cui risalgono le prime rilevazioni a livello mondiale, veniva collocato fra i quindici e i sedici anni, mentre oggi intorno ai dodici anni. Fra i fattori che potrebbero aver concorso a tale anticipazione gli esperti individuano: la maggior disponibilità di risorse alimentari e quindi di riserve di grassi corporei, l’esposizione a fonti di luce naturale e artificiale, la promiscuità dell’ambiente scolastico. A. Maggiolini, M. Di Lorenzo, V. Suigo, L’imputabilità: una prospettiva evolutiva, cit., p. 68. 118 Ibidem. Continuano gli Autori «la difficile individuazione di un indicatore biologico che sancisca l’ingresso nell’età adulta, non essendo ritenuti affidabili il momento in cui si smette di crescere o quello in cui si è in grado di procreare o ancora il completamento della maturazione cerebrale, e in particolare della corteccia prefrontale, situabile intorno ai ventun anni, ha condotto alla valorizzazione di parametri di natura culturale quale l’acquisizione di «una sicurezza emotiva tale da consentire il passaggio da un controllo esterno (genitoriale, educativo, scolastico, sociale) a una autonomia fondata sull’autoregolazione, quando si possiedono le competenze comportamentali necessarie per sapere come agire quando ci si trova da soli o si è in gruppo e quando si è abbastanza sicuri di sé da assumersi le responsabilità delle proprie azioni». Comunicato stampa Uncm, cit.

202 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 educazione raggiunta, il comportamento antecedente, contemporaneo e successivo al fatto, nonché la natura del reato119. Il contesto social-mediatico, quale “habitat” prevalente dei giovani di oggi, indubbiamente è fra le componenti “esogene” da tenere in considerazione nell’accertamento della capacità di intendere e di volere. In tal senso, se l’attrazione per il rischio è una costante dell’età evolutiva, da valorizzare nella valutazione della capacità di cogliere il disvalore del proprio agire, i dati raccolti in molte ricerche attestano lo spostamento delle attività “rischiose” dalla dimensione offline alla dimensione online 120 . Nella letteratura psicologica, a tal riguardo, si osserva come «molti comportamenti a rischio sono tentativi disfunzionali dal significato antidepressivo di cercare eccitazione, curiosità e legame» e come il fatto «che tale ricerca venga oggi effettuata» in rete, quindi «tra le mura di casa, la rende più “sicura”» e quindi agevole, “ovattata” e meno consapevole «rispetto a quella più “rischiosa” della vita reale»121.

119 Ex pluris, Cass. pen., Sez. I, 10 novembre 1987, n. 2140, in CED Cass. 1988; Cass. pen., Sez. I, 18 maggio 2006, n. 24271, in Foro it., 2007, II, p. 494; Cass. pen., Sez. V, 17 novembre 2010, n. 43953, in CED Cass. 2010; Cass. pen., Sez. I, 15 luglio 2014, n. 52165, in CED Cass. 2014. Parimenti, si afferma in dottrina, «le molteplici ed eterogenee componenti del mosaico che definiamo maturità non devono essere valutate astrattamente e non devono poter incidere positivamente sul giudizio in base alla loro semplice presenza e/o natura: ciò che rileva, invece, sono le loro ricadute globali, complessive, sullo sviluppo del minore». A. Ceretti, Il concetto di maturità del minore, cit., pp. 286-287. 120 Tale dato non è accompagnato dall’aumento del tasso di criminalità minorile rilevato, ma dalla sua diminuzione. Secondo i risultati pubblicati dall’European Crime Prevention Network (Eucpn), i reati minorili a livello internazionale sono significativamente diminuiti nel corso dell’ultimo decennio e la circostanza che avrebbe inciso maggiormente su tale risultato, tenute sotto controllo una serie di variabili socio- anagrafiche, economiche e culturali, pare essere proprio la diffusione di internet, smartphone e giochi online. B. Berghuis, J. De Waard, Declining juvenile crime- explanations for the international downturn, originariamente pubblicata in tedesco con il titolo Verdampende jeugdcriminaliteit: Verklaringen van de internationale daling, in Justitiële Verkenningen, 2017, 43, p. 1, come cit. in A. Maggiolini, M. Di Lorenzo, V. Suigo, L’imputabilità: una prospettiva evolutiva, cit., p. 70. Le statistiche attestano inoltre che in Italia il tasso di criminalità minorile non è aumentato ed è fra i più bassi in Europa. Ciò è connesso anche alla mutazione delle tipologie di devianza minorile e suggerisce che l’innalzamento dell’allarme sociale amplificato dai media sia dovuto soprattutto al “peso emotivo” di alcuni gravi fatti di cronaca. L. Muglia, Adolescenza, (im)maturutà, neuroscienze: gli scenari futuri tra nuove conquiste e imbarazzanti paradossi, in Minori giustizia, 2019, 2, p. 52. Tali risultati potrebbero spiegarsi anche alla luce della minor tracciabilità delle condotte, per le difficoltà di individuazione dei responsabili in rete. 121 A. Maggiolini, M. Di Lorenzo, V. Suigo, L’imputabilità: una prospettiva evolutiva, cit., p. 70.

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Inoltre, pare che l’attuale generazione di adolescenti tenda a mettere in atto comportamenti rischiosi online soprattutto con l’obiettivo della popolarità. Osservano infatti gli studiosi che «la propensione al rischio oggi è più utilizzata dagli adolescenti nella direzione di una ricerca di rispecchiamento narcisistico da parte del gruppo dei pari»122. La ricerca della propria identità, che contraddistingue la fase adolescenziale, nell’attuale contesto social-mediatico tende quindi a svilupparsi più nel senso «dell’omologazione agli altri, veicolata e agevolata dalla rete, che non [come] caratterizzazione del proprio sé»123. Tale evidenza assume notevole importanza ai presenti fini, in quanto quello che viene definito “senso di gruppalità”, che deriva dall’appartenenza a una cerchia di amici, reale o – come spesso avviene oggi – “virtuale”, è un altro aspetto “esogeno” che può assumere rilievo nell’ambito dell’accertamento “integrato” e “in concreto” dell’imputabilità del minore, svolgendo un ruolo “ambivalente”. Da una parte, può deporre nel senso di una maggior consapevolezza del minore. «Infatti, il forte legame solidaristico che si crea all’interno di un gruppo servirebbe agli adolescenti per riconoscersi e per darsi reciproche conferme; ogni singolo membro del gruppo utilizzerebbe gli altri come punto di riferimento, e ciò porterebbe l’intero gruppo a strutturare una gerarchia di valori ed elaborare, quindi, un sentire comune che fortemente inciderebbe sull’attivazione del comportamento deviante»124. D’altra parte, esso può implicare una situazione di sudditanza e, addirittura, di “plagio” in capo al minore che non si trova nelle condizioni di elaborare una volontà indipendente e di determinarsi autonomamente dal gruppo. Con ciò si intende che «laddove le scelte progettuali dei leader abbiano a oggetto progetti sfocianti nella commissione di reati, questi avranno comunque

122 Ibidem. 123 L. Muglia, Adolescenza, (im)maturutà, neuroscienze, cit., p. 51. Con l’espressione “malessere del benessere” si indica la condizione di giovani appartenenti al ceto medio, ampiamente scolarizzati, al cui benessere materiale non sempre corrisponde un benessere psicofisico. Al contrario, l’illimitata disponibilità di beni voluttuari e l’agevole accesso ai divertimenti spesso acuisce la ricerca del rischio e dell’autoaffermazione a detrimento della capacità di riconoscere l’altro come persona. I. Mastropasqua, T. Pagliaroli, La devianza minorile in Italia. Alcuni tratti connotativi, in 1° Rapporto sulla devianza minorile in Italia, Roma, 2008, p. 313. Cfr. J. F. Perez, Le dinamiche di gruppo nei processi di crescita, in J.F. Perez, O. Ippoliti, E. Romeo, A. Albanese, M. Melito (a cura di), Bullismo e cyberbullismo. Il disagio relazionale multiforme, Roma, 2016, pp. 13 ss. 124 M. Leonardi, Le cause e i processi della devianza minorile, in A. Pennisi (a cura di) La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Milano, 2004, p. 65.

204 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 come destinatari soggetti nei quali, data la loro ordinaria subalternità nella dinamica del gruppo, la capacità di autocontrollo realmente propria sul loro operato verrà sopravanzata, in tutto o in parte, dalla personalità prevalente di chi li ha dettati e dalla sicurezza che l’agire in gruppo infonde, comunque, a ciascuno dei suoi membri»125. Infine, con riferimento alla rilevanza da attribuire al reato commesso, la giurisprudenza di legittimità è pacifica nel ritenere che «ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere del minore imputabile, valore preminente deve riconoscersi alla natura del fatto criminoso e alle sue modalità esecutive» 126 . In tal senso, nella

125 F. Mantovani, L’imputabilità del minorenne: problemi e prospettive, in G. Giostra (a cura di), Per uno statuto europeo dell’imputato minorenne, Milano, 2005, p. 35. Cfr. A. Astrologo, Il “gruppo” come fattore incidente sulla valutazione dell’imputabilità del minore ultraquattordicenne, in Arch. pen., 2014, 1, pp. 5-6, in cui si mette in luce come il gruppo possa essere visto come momento-situazione o momento-stimolo, atto a sollecitare di volta in volta un funzionamento più “adulto” o un funzionamento più “regressivo”, e I. Galliani, S. Pietralunga, Dinamiche di gruppo e valutazione dell’imputabilità del minorenne, in Minori giustizia, 2005, 4, p. 157. In giurisprudenza, si precisa che «… in adolescenza il gruppo tra i pari esprime per ciascuno dei membri una funzione di nicchia protettiva fonte di sostegno narcisistico che favorisce un complesso gioco di identificazioni speculari e differenziazioni. La solidarietà emotiva indotta da un siffatto gruppo può portare alla commissione di azioni che nessuno dei componenti avrebbe compiuto altrove e da solo. Ciò, tuttavia, non implica necessariamente la totale coartazione della libertà di autodeterminarsi del singolo. Se così avvenisse, infatti, in tutti i casi di condotte collettive, sempre allora sarebbe da escludere la capacità di volere del singolo. Occorre, invece, volta per volta sondare se nell’appartenenza al gruppo vi sia spazio per ciascun partecipe di decidere e di fare altro. Tale spazio di autodeterminazione individuale nel contesto del gruppo appare maggiormente coglibile nei casi in cui manchi un leader forte e carismatico o un’ideologia intensa e assorbente». Trib. min. Milano, 9 agosto 2001, in Cass. pen., 2003, pp. 2826 ss. 126 Cass. pen., Sez. IV, 15 aprile 2010, n. 17661, in CED Cass., 2010. Cfr. Cass. pen., Sez. I, 18 maggio 2006, n. 24271, in Foro it., 2007, II, pp. 494 ss.; Cass. pen., Sez. V, 14 febbraio 2018, n. 14200, in Guida dir. 2018, 19, pp. 80 ss. in cui si afferma che «in questa prospettiva, l’incapacità di intendere e di volere da immaturità ha carattere relativo nel senso che, trattandosi di qualificazione fondata su elementi non solo biopsichici ma anche socio-pedagogici, relativi all’età evolutiva, va accertata con riferimento al reato commesso, sulla base degli elementi offerti dalla realtà processuale» e Cass. pen., Sez. V., 12 maggio 2010, n. 18084, in Riv. pen., 2011, 5, pp. 573 ss., secondo cui «l’incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 98 c.p., derivante da immaturità ha carattere relativo nel senso che richiede un’indagine fondata sulla base di elementi non solo psichici ma anche sociali e culturali, relativi all’età evolutiva, con stretto riferimento al reato commesso». Così anche nella giurisprudenza di merito: «è noto come l’imputabilità del minore presupponga l’accertamento della capacità di intendere e di volere di costui, la quale si sostanzia nella c.d. “maturità mentale”, concetto, questo, a carattere relativo, poiché correlato alle caratteristiche del reato commesso, e implicante in special modo la capacità del soggetto di percepire il disvalore etico-sociale delle proprie azioni». Trib. Min. Bologna, 7 maggio 2008, n. 659, Il merito, 2008, 10, pp. 66 ss.

205 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 giurisprudenza di merito viene sottolineato come l’indagine sull’imputabilità del minore debba essere condotta con particolare cautela rispetto a reati, come quelli informatici, in cui il comportamento incriminato può essere interpretato più come il sintomo di spiccate e non comuni capacità intellettive dell’agente piuttosto che quale manifestazione di un atteggiamento deviante di costui 127 . Statuizione, quest’ultima, senz’altro valida nel momento in cui è stata formulata, ossia nel 2008, ma che andrebbe oggi riferita a crimini che richiedano competenze informatiche superiori rispetto alla media delle (accresciute) competenze degli adolescenti. All’importanza di parametrare l’accertamento dell’imputabilità al reato contestato fa da corollario la necessità di evitare approcci interpretativi, cui talvolta si assiste in giurisprudenza, inclini a trarre dalla gravità del reato conclusioni aprioristiche, nonché di segno diametralmente opposto. Di fonte a reati particolarmente efferati, infatti, talvolta si assiste al rifiuto dell’idea che un fatto tanto “disumano” possa essere stato commesso da una persona capace di intendere e di volere, altre volte, al contrario, emerge una certa resistenza a immaginare che l’agente, per quanto immaturo, possa non aver colto che quell’atto tanto crudele non dovesse essere compiuto e sia quindi meritevole di rimprovero e sanzione128. In tal senso, nella prassi giurisprudenziale talvolta si avverte la tendenza a ritenere che il disvalore connesso alla lesione di beni primari dell’individuo (la vita, l’integrità personale, la libertà) sia percepibile anche in assenza di un adeguato sviluppo cognitivo, affettivo, etico e volitivo. Così facendo, tuttavia, si finisce per valorizzare soprattutto il profilo oggettivo dell’offensività della condotta pretermettendo la valutazione dello stato soggettivo di maturità/imputabilità, in violazione del principio di colpevolezza129.

127 Trib. Min. Bologna, 7 maggio 2008, n. 659, cit., pp. 66 ss. 128 Cass. pen., Sez. II, 2 luglio 2010, n. 33873, in CED Cass. 2010; Cass. pen., Sez. I, 13 gennaio 2015, n.12543, in CED Cass., 2015. Cfr. D. Stendardi, Accertamento dell'imputabilità del minore e gravità del reato, cit., p. 1579. Cfr. M. E Magrin, C. Bruno, Prospettive interdisciplinari per la giustizia penale - Malati o malvagi? Valutare la libertà umana in azione, in Cass. pen., 2004, p. 3860. Si pensi, da un lato, che i dubbi sull’imputabilità vengono spesso sollevati in procedimenti aventi per oggetto i più gravi reati contro la persona; dall’altro, al fatto che spesso tali procedimenti si concludono con la condanna dell’imputato, fondata sulla motivazione che anche un soggetto non pienamente capace di intendere e di volere avrebbe percepito il disvalore e l’offensività dell’atto compiuto. 129 D. Stendardi, Accertamento dell'imputabilità del minore e gravità del reato, cit., p. 1579. Critico sui collegamenti aprioristici fra gravità del reato, individuata sulla base

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5. Sussidiarietà del diritto penale e strumenti di tutela previsti dalla l. 71/2017

La scelta del legislatore di attribuire spiccata residualità alla sanzione penale, nonostante le molte vicende drammatiche130 che si inseriscono nel solco del fenomeno in esame, non può che essere approvata. In primo luogo, secondo le statistiche, il cyberbullismo ha come protagonisti principalmente ragazzi che vanno dai dieci ai sedici anni131 e che, quindi, in buona parte, sono a priori non imputabili (al più, assoggettabili a misura di sicurezza). In secondo luogo, anche per i minori ultraquattordicenni al momento del fatto, che potrebbero essere ritenuti capaci di intendere e di volere – come si è detto sulla base di un accertamento condotto caso per caso, in concreto e in relazione al reato contestato – il procedimento penale dovrebbe essere una risposta assolutamente residuale. Infatti, sebbene in seno alla giustizia penale minorile sia «andata emergendo – sia con riguardo all’elaborazione teorica, che all’impianto normativo e alle prassi applicative – una visione della giustizia diversa rispetto a quella classica», «orientata a (ri)costruire, a riallacciare legami, a riparare, piuttosto che a retribuire»132, la vicenda processuale, prima ancora di e a prescindere da un’eventuale condanna, incide negativamente sulle esigenze educative del minore133. Inoltre – come messo in luce nel corso dei lavori preparatori della l. 71/2017 – «insistere sulla repressione avrebbe poco senso, sarebbe poco

dell’importanza del bene giuridico offeso, e capacità di intendere e di volere, anche A. Ceretti, Il concetto di maturità del minore, cit., pp. 277-278. 130 Una fra tutte, la nota vicenda di Carolina Picchio, che si è tolta la vita a quattordici anni, in quanto vittima di bullismo e cyberbullismo, a cui è stata dedicata un’associazione (www.fondazionecarolina.org). Cfr. Il suicidio di Carolina, la verità in una lettera, su www.corrieredellasera.it, sezione “cronache”, 7 gennaio 2013. 131 «In base agli elementi di cui dispongono gli operatori della Polizia postale, l’immagine del cyberbullo presenta le seguenti caratteristiche: un’età compresa tra i 10 e i 16 anni, una competenza informatica superiore alla media, una chiara incapacità di valutare la gravità delle azioni compiute on line». Relazione della prima commissione permanente (affari costituzionali, affari della presidenza del consiglio e dell’interno, ordinamento generale dello Stato e della pubblica amministrazione), nn. 1261 e 1620-A, Relatore Palermo, comunicata alla Presidenza il 10 marzo 2015, in www.senato.it. 132 L. Eusebi, Le buone ragioni di una giustizia (penale) minorile, in Minori giustizia, 2018, 1, pp. 16-17. 133 Non va infatti dimenticato che la legge ha come finalità preminente la tutela dei minori coinvolti in atti di cyberbullismo, sia in quanto vittime sia in quanto autori. M. Mantovani, Profili penali del cyberbullismo: la l. 71 del 2017, in Ind. Pen., 2018, 2, pp. 475 ss.

207 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 efficace e andrebbe a intasare ulteriormente il sistema giudiziario con una mole di fattispecie potenzialmente infinita»134. Il legislatore ha quindi dichiaratamente fatto proprio «il principio di sussidiarietà, la concezione del diritto penale come extrema ratio, accogliendo l’argomento spiccatamente strumentalista secondo cui per garantire l’efficienza del sistema penale è necessario un uso sinergico e una equilibrata gradualità di intervento dei diversi strumenti giuridici, poiché all’aumentare dei reati corrisponde, ferme le risorse impegnate, una minore possibilità di accertare e sanzionare ciascuno di essi e, dunque, la minore efficacia preventiva del sistema penale»135. La l. 71/2017 ha infatti introdotto strumenti ante-factum, di natura preventiva, informativa, educativa, e strumenti post-factum, di natura inibitorio-cautelare. Fra i primi va richiamato il “tavolo tecnico”136, istituito a norma dell’art. 3, con il compito di redigere un piano di azione per il contrasto e la prevenzione del cyberbullismo, di realizzare un sistema di raccolta dati, di adottare un codice di co-regolamentazione per i gestori delle piattaforme e di organizzare iniziative di informazione e prevenzione rivolte ai cittadini coinvolgendo i servizi socioeducativi. A oggi, tuttavia, il tavolo si è riunito solo due volte, non sono state svolte significative attività di monitoraggio (molti dati sono fortunatamente offerti da altre ricerche, come EU-Kids online137) e non sono stati adottati né il piano di azione per il contrasto e la prevenzione del cyberbullismo, che doveva intervenire entro sessanta giorni, né il codice di co-regolamentazione138.

134 Relazione della prima commissione permanente, cit. 135 C. Panicali, Il cyberbullismo, cit., p. 2083. 136 Nel tavolo sono rappresentati diversi soggetti (pubblici e privati). In particolare si compone di rappresentanti del Ministero dell’interno, del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della giustizia, del Ministero dello sviluppo economico, del Ministero della salute, della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, del Garante per l’infanzia e l’adolescenza, del Comitato di applicazione del codice di autoregolamentazione media e minori, del Garante per la protezione dei dati personali, di associazioni con comprovata esperienza nella promozione dei diritti dei minori e degli adolescenti e nelle tematiche di genere, degli operatori che forniscono servizi di social networking e degli altri operatori della rete internet, delle associazioni studentesche e dei genitori e delle associazioni attive nel contrasto del bullismo e del cyberbullismo. Art. 3, l. 71/2017. 137 Da ultimo: EU-Kids online 2020. Survey results from 19 countries, liberamente fruibile su internet (www.lse.ac.uk). 138 B. L. Mazzei, Cyberbulli, la legge che non decolla, in Il Sole 24 ore, sezione Scuola 24, 10 giugno 2019, che mette in luce come il tavolo tecnico, coordinato dal Miur, avrebbe dovuto inviare alle Camere, entro la fine di ogni anno, una relazione sulle

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Proseguendo nella disamina, l’art. 4 prevede l’adozione di “linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto in ambito scolastico”, da aggiornare ogni due anni, che devono perseguire, fra l’altro, l’obiettivo essenziale della formazione del personale scolastico139. In ogni scuola è prevista, inoltre, la nomina di un referente per il cyberbullismo, da scegliere fra i docenti, incaricato di coordinare le iniziative volte alla sensibilizzazione e «all’educazione all’uso consapevole della rete internet e ai diritti e doveri connessi all’utilizzo delle tecnologie informatiche»140. Si tratta, a ben vedere, di misure ispirate a una logica di prevenzione primaria, ossia di contrasto dei fattori che favoriscono il cyberbullismo operando in via anticipata rispetto alle condotte, anzitutto a livello educativo-culturale, attraverso la sensibilizzazione, l’educazione e il radicamento, nel contesto famigliare e scolastico, di valori che si pongono in antitesi all’agire prepotente141. In tal senso, accanto alla digital literacy e alla media literacy, ossia all’educazione a un uso consapevole della rete142, che ponga l’accento sul continuum fra vita reale e vita virtuale, fra identità offline e identità online, nonché sull’eccezionale diffusività della rete, occorrerebbe lavorare con i ragazzi sul necessario superamento dei pregiudizi e delle discriminazioni, sull’uguaglianza, sull’importanza del rispetto dell’altro e sull’empatia, cercando di partire da un’empatia “cognitiva” per arrivare a un’empatia “affettiva” 143 , di profonda

attività svolte, ma non si ha notizia della relazione che si sarebbe dovuta presentare alla fine del 2018, né di quella da presentare alla fine del 2019. 139 Si segnala, a tal riguardo, l’istituzione della Piattaforma Elisa (formazione E- Learning degli Insegnanti sulle Strategie Antibullismo), che conta più di 3500 iscritti, che rappresentano circa 3000 scuole, un terzo degli istituti statali. Cfr. B. L. Mazzei, Cyberbulli, la legge che non decolla, cit. 140 Per ora sono state emesse le sole linee di orientamento dell’ottobre 2017 (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione, Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione, Aggiornamento, Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, ottobre 2017, liberamente fruibile su www.miur.gov.it.), ma non ancora il successivo aggiornamento da adottarsi con cadenza biennale. 141 L. Eusebi, Le buone ragioni della giustizia (penale) minorile, cit., pp. 18-19, che sottolinea come la prevenzione primaria, che passa anzitutto attraverso l’impegno politico-sociale ed educativo-culturale a fini di contrasto dei fattori che favoriscono la criminalità costituisca «un’esigenza irrinunciabile», spesso non adeguatamente valorizzata, in quanto non costituisce, «diversamente dal populismo penale, strumento utilizzabile per ricercare nell’immediato, in senso demagogico, un facile consenso politico». 142 Cfr. R. Stella, C. M. Scarcelli, Digital literacy e giovani: strumenti per comprendere, misurare, intervenire, Milano, 2017. 143 S. Dimitri, S. Pedroni, E. Donghi, Attraverso le sofferenze della vittima, cit., pp. 41 ss.

209 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 immedesimazione nel disagio altrui. Sul punto si è osservato come, se è vero che la prevenzione del cyberbullismo va senz’altro radicata anche nel contesto scolastico, affidare alle scuole, come fa l’art. 4, anche l’adozione di «misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti» pare non tener conto della frequente mancanza in ambito scolastico di conoscenze e competenze di tipo pedagogico e psicologico, che invece l’adempimento di tale compito presuppone144. Passando agli strumenti preventivo-cautelari, è bene fare cenno alla facoltà attribuita dall’art. 2 al minore ultraquattordicenne che abbia subito un atto di cyberbullismo – nonché al genitore o al soggetto esercente la responsabilità genitoriale in caso di minore infra- quattordicenne – di inoltrare al gestore del sito internet o del social media interessato un’istanza per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi dato personale che lo riguardi, che sia stato diffuso in rete, anche qualora le condotte in questione non integrino le fattispecie previste dall’articolo 167 del codice in materia di protezione dei dati personali o altre ipotesi di reato. «Qualora» – si specifica al secondo comma – «entro le ventiquattro ore successive al ricevimento dell’istanza, il soggetto responsabile non abbia comunicato di avere assunto l’incarico di provvedere all’oscuramento, alla rimozione o al blocco richiesto, ed entro quarantotto ore non vi abbia provveduto, o comunque nel caso in cui non sia possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media, l’interessato può rivolgere analoga richiesta, mediante segnalazione o reclamo, al Garante per la protezione dei dati personali, il quale, entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta, provvede ai sensi degli articoli 143 e 144 del citato decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196». Fermo restando il doveroso aggiornamento del richiamo agli articoli del codice della privacy, tenendo conto delle modifiche a essi apportate dal d.lgs. 10 agosto 2018 n. 101145, lo strumento introdotto potrebbe rivelarsi

144 M. Mantovani, Profili penali del cyberbullismo, cit., p. 476. In tal senso, senza un’adeguata formazione e senza risorse finanziarie e modifiche organizzative, anche la nomina del referente per il cyberbullismo rischia di rivelarsi nient’altro che un mero adempimento burocratico. 145 Sul punto si è osservato che la procedura ora prevista è tale da rendere impossibile il rispetto del termine delle quarantotto ore “dal ricevimento della richiesta” imposto dalla legge n. 71/2017 per l’adozione di ogni provvedimento del Garante. E. Lupo, La legge n. 71 del 2017 sul cyberbullismo: uno sguardo generale, in Dir. fam. pers., 2019, 3, pp. 1005 ss. Sulle difficoltà tecniche e sulle problematiche che la procedura di rimozione solleva si veda diffusamente R. M. Colangelo, La legge sul cyberbullismo.

210 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 in taluni casi utile a contenere la diffusione di contenuti offensivi e quindi le conseguenze lesive delle condotte di cyberbullismo per la vittima. In due anni, tuttavia, sono state inoltrate solo un centinaio di segnalazioni al Garante146, il che potrebbe dimostrare che il rimedio è ancora piuttosto sconosciuto, o potrebbe invece spiegarsi alla luce del buon esito della pregressa richiesta di rimozione al gestore o all’efficace impiego di altri meccanismi di segnalazione-rimozione già offerti da tempo dai gestori di molti social media147. Nondimeno, il coinvolgimento dei gestori di siti e piattaforme social nel contrasto dell’odio in rete, nonché specificamente del cyberbullismo, è stato ultimamente oggetto di diversi testi e proposte di legge148. Si pensi, anche se non è questa la sede per trattare approfonditamente il tema, alle sanzioni amministrative pecuniarie introdotte dalla Netzwerkdurchsetzungsgesetz tedesca a carico delle piattaforme con un certo numero di iscritti che non adottino sistemi efficienti di gestione delle segnalazioni relative a contenuti illeciti149. Un’altra misura post-factum è costituita dall’obbligo imposto al dirigente scolastico dall’art. 5 di informare tempestivamente i soggetti esercenti la responsabilità genitoriale ovvero i tutori dei minori coinvolti in atti di cyberbullismo di cui sia venuto a conoscenza. A tale informativa, che deve essere destinata sia alla famiglia della vittima sia alla famiglia del responsabile, tuttavia, non si dovrà procedere, per espressa previsione, quando il fatto costituisce reato. Probabilmente tale esclusione dell’informativa si collega al disposto dell’art. 331 c.p.p., che pone a carico dei pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio (tra i quali rientra il dirigente scolastico) il dovere (presidiato da sanzione penale ex art. 361

Considerazioni informatico-giuridiche e comparatistiche, in Inf. dir., 2017, 1-2, pp. 397-418. 146 Dato riferito in B. L. Mazzei, Cyberbulli, la legge che non decolla, cit. 147 Facebook, ad esempio, consente di segnalare e chiedere la rimozione di contenuti riconducibili a una delle seguenti categorie: nudo, violenza, intimidazioni, suicidio o autolesionismo, notizia falsa, spam, vendite non autorizzate, incitamento dell’odio, terrorismo, informazioni sul voto non corrette, altro. 148 Al coinvolgimento degli amministratori di siti internet è dedicato l’intero capo II del Disegno di legge n. 1743, cit., che prevede a loro carico una serie di obblighi presidiati da sanzioni amministrative pecuniarie la cui applicazione spetterebbe all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. 149 Netzwerkdurchsetzungsgesetz, Gesetz zur Verbesserung der Rechtsdurchsetzung in sozialen Netzwerken, del 1° settembre 2017, entrata in vigore il 1° ottobre dello stesso anno. Su tale provvedimento legislativo è stato modellato il nostro Disegno di legge Zanda-Filippin, n. 3001 del 14 dicembre 2017, recante “Norme generali in materia di Social Network e per il contrasto della diffusione su internet di contenuti illeciti e delle fake news”.

211 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 c.p.) di denunciare i reati perseguibili d’ufficio di cui vengano a conoscenza nell’esercizio della loro attività. Nondimeno, non solo nella norma in esame non viene fatta alcuna distinzione fra reati perseguibili a querela e reati perseguibili d’ufficio, ma la clausola di esclusione non pare trovare giustificazione in eventuali ragioni di segretezza delle indagini e, dal momento che, nella maggior parte dei casi, gli atti di cyberbullismo assumono rilevanza penale, finisce per tradursi nella «neutralizzazione sistematica dell’obbligo informativo»150. In ogni caso, ossia a prescindere dall’informativa alle famiglie, il dirigente è tenuto ad attivare «adeguate azioni di carattere educativo» (non meglio precisate) nei confronti di tutti i minori coinvolti nel singolo episodio – previsione che desta perplessità in quanto difficilmente il dirigente avrà competenze pedagogiche idonee a consentirgli di intervenire in maniera adeguata – e ad adottare sanzioni disciplinari «commisurate alla gravità degli atti compiuti». L’ultima misura di carattere inibitorio-cautelare prevista è l’ammonimento al questore, istituto mutuato dalla disciplina dello stalking151, che consente alla vittima, prima di proporre querela, di riferire i fatti al questore, il quale, dopo alcune attività investigative, condotte senza gli strumenti e senza le garanzie con cui vengono condotte dal pubblico ministero, se ritiene fondata l’accusa, convoca il cyberbullo e lo ammonisce verbalmente. Tale previsione, volta a inibire la condotta offensiva prevenendo e scongiurando l’attivazione di un procedimento penale, non va immune da rilievi critici. In primo luogo, la richiesta di ammonimento può provenire solo da vittime ultraquattordicenni (sono quindi escluse le molte vittime infraquattordicenni). In secondo luogo, l’istituto opera solo nei casi in cui gli atti di cyberbullismo integrino specifiche ipotesi delittuose, vale a dire la diffamazione (art. 595 c.p.), la minaccia (art. 612 c.p.) e l’illecito trattamento di dati personali (art. 167 codice della privacy). La norma fa riferimento anche all’ingiuria (art. 594 c.p.), ipotesi che, tuttavia, è stata depenalizzata più di un anno prima dell’entrata in vigore della l. 71/2017152. Vi è da chiedersi, a tal riguardo, se

150 C. Grandi, Il “reato che non c’è”: le finalità preventive della legge n. 71 del 2017 e la rilevanza penale del cyberbullismo, in Studium Iuris, 2017, 12, p. 1442. 151 Art. 8 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella l. 23 aprile 2009, n. 38, recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. 152 Depenalizzazione avvenuta per effetto del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, recante “Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67”.

212 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 il richiamo all’art. 594 c.p. vada ignorato o vada invece riferito all’attuale illecito civile di ingiuria153. Il legislatore, a prescindere dalla probabile svista in materia di ingiuria, ha voluto limitare l’operatività dell’istituto a poche ipotesi delittuose individuate in base a criteri difficilmente afferrabili. Se infatti avesse limitato l’operatività dell’istituto ai soli reati procedibili a querela (come era stato proposto nel corso dei lavori preparatori), ricalcando la scelta operata in materia di atti persecutori, avrebbe evitato che dalla segnalazione scaturisse per il questore, in quanto pubblico ufficiale, l’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p. Invece, l’art. 7 richiama sia l’art. 612, che al secondo comma punisce la minaccia aggravata, perseguibile d’ufficio, sia l’art. 167 codice della privacy, assoggettato allo stesso regime di procedibilità. Ne consegue che, in caso di richiesta di ammonimento per una condotta che integri una delle due fattispecie poc’anzi menzionate, l’obbligo di denuncia vanificherebbe lo scopo dell’istituto di garantire una tutela immediata a favore della vittima di cyberbullismo che non implichi l’attivazione del procedimento penale a carico del minore responsabile. Il legislatore avrebbe invece potuto limitare l’ambito di applicazione dell’ammonimento ai reati procedibili a querela oppure estenderlo a tutti i reati integrati da condotte di cyberbullismo, escludendo in via eccezionale l’obbligo di denuncia del questore per i reati procedibili d’ufficio. Ancora, se l’ammonimento al questore in caso di atti persecutori ha conseguenze specificamente disciplinate, l’art. 8 si limita a statuire che le conseguenze dell’ammonimento cessano con il raggiungimento della maggiore età, senza specificare di quali effetti si tratti, «al di là di una tanto auspicabile quanto imponderabile controspinta emozionale alla reiterazione delle condotte di cyberbullismo»154.

6. Conclusioni

Come emerso nella presente indagine, il bullismo, a maggior ragione nella sua dimensione cyber, necessita di un attento studio, demandato alle scienze empiriche, teso a descriverne le caratteristiche qualitative e quantitative e i fattori che ne favoriscono genesi e diffusione. Solo grazie a tale apporto conoscitivo è possibile per il giurista individuare i beni giuridici minacciati e la miglior strategia politico-criminale.

153 Art. 4, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. 154 C. Grandi, Il “reato che non c’è”, cit., p. 1444.

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Con la l. 71/2017 il legislatore ha avuto il merito di porre l’accento su un fenomeno relativamente nuovo e dotato di notevoli potenzialità lesive e di introdurre strumenti di natura preventiva e cautelare evitando il ricorso a nuove, ridondanti ipotesi di reato. Da una parte, infatti, gli atti di cyberbullismo presentano già, nell’id quod plerunque accidit, gli elementi costitutivi di fattispecie incriminatrici e non sembrano quindi ravvisabili spiccati vuoti di tutela, dall’altra, l’attivazione di un processo penale a carico di un minore – comunque esclusa per coloro che, per legge (art. 97 c.p.) o per valutazione giudiziale (art. 98 c.p.), non sono imputabili – dovrebbe essere sempre un’opzione marcatamente sussidiaria. In tal senso, gli strumenti da incrementare e da valorizzare per fronteggiare il cyberbullismo, non solo attraverso previsioni astratte (tali sono rimaste alcune delle novità introdotte con la l. 71/2017), ma con iniziative concrete e ben strutturate, sono anzitutto quelli di carattere preventivo, orientati alla media literacy, ossia all’innalzamento della consapevolezza dei giovani circa le caratteristiche e i rischi del web e, prima ancora, all’educazione all’empatia e al rispetto dell’altro nella valorizzazione delle diversità155. Nell’ambito delle iniziative di carattere educativo e culturale, da ricondurre alla cd. prevenzione primaria156, occorre inoltre rafforzare il ruolo della famiglia e della scuola157 sia in termini di sensibilizzazione sia

155 Come sottolineato nei lavori preparatori della l. 71/2017 «occorre partire da uso positivo della rete, strumento importante per la crescita dei minori, da utilizzare in tutte le sue potenzialità, attraverso un corretto utilizzo e una maggiore consapevolezza degli strumenti di tutela, peraltro previsti dalla rete stessa», avendo cura altresì di «agire sulla sfera emotivo-relazionale cercando di capire quali emozioni e quali bisogni i ragazzi provino nel rivolgersi alla rete, definendo le idee e i princìpi alla base del loro comportamento. È necessario, in particolare, puntare a un rafforzamento delle capacità di risposta dei ragazzi. Occorre offrire alle famiglie gli strumenti di conoscenza del fenomeno, perché possano riconoscerlo e intervenire in modo corretto, assicurare il necessario sostegno nell’attività di denuncia e disporre dell’aiuto di interlocutori competenti a operare sia in favore della vittima sia verso l’autore dei comportamenti offensivi». Relazione della prima commissione permanente, cit. 156 Per prevenzione primaria si intente l’insieme delle «strategie che coinvolgano i diversi settori del sistema giuridico, come pure l’impegno politico-sociale ed educativo- culturale a fini di contrasto dei fattori che favoriscono la criminalità». L. Eusebi, Le buone ragioni di una giustizia (penale) minorile, cit., p. 18. 157 Sempre nei lavori preparatori si legge che «spetta poi alla scuola fornire ai ragazzi le competenze necessarie a un corretto utilizzo della rete, attraverso la creazione di linee guida e di buone pratiche all’interno di un sistema strutturato. Gli insegnanti, da un lato, sono le sentinelle, in grado di cogliere il disagio delle vittime e le situazioni in cui sono coinvolte, dall’altro rappresentano un punto di riferimento indispensabile cui rivolgersi per chiedere aiuto, pur nella evidente difficoltà di rompere il silenzio e superare la vergogna». Relazione della prima commissione permanente, cit. La scuola, infatti, oltre a essere fonte di accrescimento culturale e umano dei ragazzi, «rimane il

214 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 di contributo all’emersione del fenomeno. L’instaurazione di un clima di maggior fiducia e confidenza dei ragazzi con genitori e insegnanti potrebbe infatti contribuire a erodere il vasto campo oscuro che, attraverso alcune indagini, è stato rilevato in relazione a bullismo e cyberbullismo. Secondo i dati della Società italiana di pediatria, infatti, il 68% degli adolescenti che subisce bullismo non ne parla con nessuno. Ritrosia confermata dal sondaggio condotto da Pepita Onlus su quattordicimila ragazzi nelle scuole di tutta Italia: il 45% degli interpellati, tra i dodici e i quattordici anni, afferma che, se fosse vittima o assistesse a un solo episodio di bullismo o cyberbullismo, non ne parlerebbe con un adulto158. Per quanto concerne le misure post-factum, accanto agli opportuni strumenti di carattere inibitorio cautelare, per evitare che la consapevolezza dei profili di rilevanza penale, di fatto ravvisabili nella maggior parte delle condotte di cyberbullismo, anziché un’auspicabile funzione di orientamento culturale delle condotte, fomenti omertà e ritrosie di sorta, occorrerebbe porre l’accento sull’esistenza di strumenti, quali l’ammonimento (la cui disciplina andrebbe tuttavia ripensata per le ragioni illustrate), che possono prevenire la denuncia. Nei casi limite in cui la denuncia risulti irrinunciabile – casi connotati da particolare gravità per la drammaticità degli esiti, per la capacità del cyberbullo di comprendere il disvalore del proprio comportamento e per la reiterazione della condotta – è imprescindibile la valorizzazione della dimensione dialogica e “riparativa” che caratterizza – e dovrebbe sempre di più caratterizzare – il processo penale minorile. Tale dimensione emerge in modo particolare nei percorsi di giustizia riparativa, espressione che sta a indicare «ogni procedimento nel quale la vittima e il reo e, se opportuno, ogni altro individuo o membro della comunità, leso da un reato, partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore»159 e, in particolare, nella mediazione reo-vittima160, ossia un luogo principale dove tali episodi [di bullismo] hanno inizio per poi trasferirsi sulla rete». Cyberbullismo, oltre un terzo dei giovani vittima di bullismo, su www.unicef.it, 4 settembre 2019. 158 Dati riportati in A. Bilotto, I. Casadei, Dalla balena blu al cyberbullismo, cit., pp. 7- 8. 159 Nazioni Unite, Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters (Risoluzione n. 12/2002). Una definizione molto simile è stata adottata dall’Unione Europea nella Direttiva in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (Dir. 2012/29/UE): «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi

215 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 percorso, volontariamente scelto dalle parti e garantito da assoluta confidenzialità, che si fonda sull’incontro e sul dialogo. Non è questa la sede per trattare approfonditamente il tema, basti sottolineare come il processo penale minorile sia uno dei contesti in cui la giustizia riparativa ha trovato l’humus culturale e gli spazi normativi in cui germogliare. Non solo percorsi di mediazione vengono spesso condotti in fase esecutiva161 o nel corso del processo – e segnatamente in seno alla messa alla prova162 – ma si assiste altresì, proprio in casi di bullismo e

acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». In tema C. Mazzucato, La pena in “castigo”. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano, 2006; Ead., Mediazione e giustizia riparativa in ambito penale. Spunti di riflessione tratti dall'esperienza e dalle linee guida internazionali, in L. Picotti, G. Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”. Il volto delineato dalla Legge sulla competenza penale del giudice di pace, Milano, 2002; Ead., Oltre la punizione, ecco la giustizia riparativa, in Vita&Pensiero, 2016, 4, pp. 104-110; G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (a cura di), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Milano, 2017; G. Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003; G. Mannozzi, G. A. Lodigiani, (a cura di), La giustizia riparativa: formanti, parole e metodi, Torino, 2017. 160 La definizione di mediazione in ambito penale contenuta nella Raccomandazione (99)19 del Consiglio d’Europa è pressoché coincidente con quella di giustizia riparativa, riferendosi a «ogni procedimento nel quale la vittima e il colpevole sono messi in condizione, se vi acconsentono liberamente, di partecipare in modo attivo alla risoluzione delle questioni sorte dal reato attraverso l’aiuto di un terzo imparziale (mediatore)». 161 Il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante la “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni” all’art. 1, comma 2, sancisce che «l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato». Tale provvedimento normativo, entrato in vigore il 10 novembre 2018, prevede una disciplina peculiare per l’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni nonché dei condannati infraventicinquenni per reati commessi da minorenni (c.d. giovani adulti). Una delle principali novità introdotte consiste nelle misure penali di comunità, misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà) che devono prevedere un programma di intervento educativo che coinvolge anche il nucleo familiare del minore. In caso di detenzione presso istituti penitenziari minorili è prescritta l’elaborazione di un progetto educativo personalizzato e l’istituto deve essere scelto in prossimità alla residenza o alla abituale dimora del detenuto e della famiglia al fine di salvaguardare le relazioni personali e socio-familiari del minore. Sul tema, inter alios, E. Cadamuro, Le nuove misure penali di comunità: chiusura del cerchio nella risposta alle istanze educative del minore?, in Minori giustizia, 2, 2019. 162 L’art. 28 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 consente al giudice, che ritenga sussistano persuasivi elementi a carico dell’imputato, di sospendere il procedimento per un periodo che va da uno a tre anni, durante il quale il minore viene affidato ai servizi minorili per la giustizia, per poi pronunciare sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato in caso di esito positivo della prova. L’istituto è stato esteso agli imputati maggiorenni, solo nei procedimenti per reati puniti con la sola pena

216 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 cyberbullismo, a interessanti forme di mediazione pre-processuale, in cui l’esito positivo del percorso scongiura l’esercizio dell’azione penale. Tale prassi, non prevista espressamente da alcuna disposizione normativa, viene ricondotta al secondo comma dell’art. 9 del D.P.R. 448/88, che contempla la possibilità per l’organo di accusa e per il giudice di «assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità». Sulla base di tale disposizione, pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari spesso chiedono all’ufficio preposto allo svolgimento dell’attività di mediazione di valutare l’opportunità di avviare un percorso, vagliando la disponibilità del minore indagato e della vittima163. L’applicazione in fase pre-processuale dell’istituto non pare porsi in reale frizione con il principio costituzionale della presunzione di innocenza (art. 27, comma 2, Cost.), a patto che la convocazione dei minori coinvolti sia preceduta dall’assunzione di elementi tali da costituire almeno univoci indizi di colpevolezza, né con il diritto inviolabile alla difesa (art. 24, comma 2, Cost.), in quanto le dichiarazioni rese nel corso degli incontri di mediazione non potranno essere utilizzate in sede processuale 164 e l’Ufficio competente si limiterà a trasmettere all’autorità giudiziaria una relazione di sintesi attestante l’esito positivo o negativo del percorso. In tal senso, in una delle più recenti proposte di legge in materia di bullismo e cyberbullismo è stata ipotizzata l’introduzione di una norma che

pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, con la l. 28 aprile 2014, n. 67, che ha introdotto nel codice penale gli artt. 168-bis ss. e nel codice di procedura penale gli artt.464-bis ss. 163 G. Albanese, La mediazione nel procedimento penale minorile tra normativa e prassi, in Cass. pen., 1, 2019, pp. 370 ss. Se le parti sono disponibili il magistrato fissa un termine per la conclusione del percorso che coincide con il termine ultimo per concludere le indagini preliminari. La fase delle indagini è considerata il momento migliore per avviare il percorso di mediazione in quanto consente al minore autore della condotta di prendere subito contezza dell’impatto che la stessa ha avuto sulla vittima, con immediati effetti di responsabilizzazione. A questo proposito, è stato affermato che «attraverso la mediazione il minore è, almeno in parte, attivo e titolato a contribuire concretamente alla formazione di progetti che lo riguardano (...). La responsabilità, accertata in relazione al fatto commesso, perde ogni fissità e diventa dinamica perché proiettata verso la realizzazione di una condotta post delictum che può arricchirsi di contenuti e significati positivi, al contempo riparativi e responsabilizzanti». G. Mannozzi, La giustizia senza spada, cit., pp. 256 ss. 164 La confidenzialità, insieme alla volontarietà e spontaneità dell’adesione ai percorsi, costituisce una delle “regole d’oro” della giustizia riparativa. C. Mazzucato, Mediazione e giustizia riparativa in ambito penale, cit., pp. 108 ss.; Raccomandazione (99)19 del Consiglio d’Europa, art. 1; Nazioni Unite, X Congresso sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti. Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, Vienna, 2000, art. 7.

217 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 prevede che «il Procuratore della Repubblica, quando abbia acquisito la notizia che un minore degli anni diciotto dà manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere ovvero tiene condotte aggressive, anche in gruppo, nei confronti di persone, animali o cose ovvero lesive della dignità altrui, assunte le necessarie informazioni, verifica le condizioni per l’attivazione di un percorso di mediazione»165. I benefici dei percorsi di giustizia riparativa come risposta ai più gravi episodi di cyberbullismo si possono apprezzare sia in termini di responsabilizzazione del cyberbullo, che nell’impegnativo incontro face to face con la vittima può rielaborare l’accaduto recuperando quella “visione” empatica che, come si è detto, lo schermo del device elettronico tende a ostacolare166, sia in termini di attenzione e giustizia per la vittima, che gode di uno spazio di ascolto in cui le è possibile ottenere il riconoscimento della propria sofferenza e dell’ingiustizia di ciò che ha subito da parte di chi ne è stato autore. La mediazione mira infatti a lavorare sulla relazione e sul riconoscimento fra i soggetti coinvolti, favorendo il passaggio «dall’impersonale dei rispettivi ruoli [cyberbullo e vittima] al “personale” dell’incontro in cui è insita la possibilità di riconoscere e riconoscersi in rappresentazioni meno stereotipate, individuarsi come interlocutori; conoscere le conseguenze scaturite per entrambi a partire dall’evento»167.

165 Disegno di legge n. 1690, cit., art. 4, rubricato “Modifiche al regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 maggio 1935, n. 835, in materia di provvedimenti del tribunale per i minorenni”. Continua la norma: «oppure può chiedere al Tribunale per i minorenni di disporre, con decreto motivato, previo ascolto del minorenne e dei genitori o dell’esercente la responsabilità genitoriale, lo svolgimento di un progetto di intervento educativo con finalità rieducativa e riparativa sotto la direzione e il controllo dei servizi sociali». 166 In dottrina viene messo in luce «il nuovo e diverso concetto di responsabilità chiamato in causa dalla mediazione, ossia (riprendendo una sintetica quanto efficace formulazione di qualche anno fa) il non avere più “(sol)tanto a che fare con l’essere responsabili di qualcosa e per qualcosa”, ma con un “percorso che conduce i soggetti in conflitto a essere responsabili verso (a rispondere l’uno verso l’altro)”». G. Forti, Giustizia riparativa e tempo della persona: scorci non “panoramatici” dal “finestrino” del processo penale, in Dignitas. Percorsi di carcere e giustizia, marzo-maggio 2006, p. 13, parafrasando A. Ceretti, Come pensa il Tribunale per i minorenni, Milano, 1996, p. 204. Cfr. A. Ceretti, Ombre corte, spunti di criminologia narratologica per l’ascolto di un adolescente in conflitto con la legge, in Minorigiustizia, 2, 2019, pp. 166 ss. 167 M. Rupil, F. Mosiello, M. Capone, Attraverso l’altro: l’incontro autore-vittima nella mediazione penale minorile, in Minori giustizia, 1, 2010, p. 130, continuano le Autrici: «La persona offesa trova possibilità di ascolto ed espressione nonché di comprensione, trova potere nell’esserci, nel “potere” del suo sguardo e della sua voce, ora protagonisti. Trova il diritto di dire e di ricevere. (…) Vittima e reo sono protagonisti e competenti del proprio percorso di benessere. Solo le parti possono “chiudere il cerchio” e far cessare gli effetti di quanto è avvenuto, recuperando immagini più complesse della

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Anche chi, in dottrina, mostra qualche riserva rispetto alla praticabilità di percorsi di mediazione penale nei casi in cui si assista a un forte squilibrio di potere fra le parti – come si è detto l’asimmetria fra aggressore e vittima è elemento ricorrente nei casi di bullismo e cyberbullismo – non opta per preclusioni categoriche, mettendo piuttosto in luce l’importanza della formazione del mediatore e della «sua capacità di promuovere sicurezza e di correggere lo squilibrio», nonché di «saper illustrare il valore anche terapeutico dello storytelling che caratterizza la mediazione»168.

Abstract: The article aims to analyse the phenomenon of cyberbullying from a criminological and criminal law perspective. After discussing the features of the Internet that can increase deviance and worsen its consequences, some examples of crimes that cyberbullies can commit are provided, together with some considerations about criminal liability of minors. In conclusion, it is submitted that the approach of law 71/2017, focused on prevention strategies and inhibitory instruments instead of criminal sanctions, is worth appreciating.

Key words: Cyberbullying, Cyber criminology, Cybercrime, Criminal liability of minors, Law 71/2017.

vicenda, dell’altro e di se stessi. (…) Dall’incontro, sembra possibile costruire un’altra storia». In tal senso è interessante il riferimento alla peer education, come strategia di risposta ai fatti di cyberbullismo fondata sull’incontro, sul dialogo, sul confronto fra vittime e responsabili, contenuto all’art. 4 della l. 71/2017, sebbene occorra guardarsi dal rischio che tali percorsi vengano gestiti senza il necessario apporto di conoscenze e competenze, apporto che è proprio dei mediatori, figure appositamente formate a tale scopo. Raccomandazione (99)19 del Consiglio d’Europa, artt. 20-24; Nazioni Unite, X Congresso sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti. Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, cit., art 17-20. Cfr. S.H. Duncan, Cyberbullying and Restorative Justice, in R. Navarvo, S. Yubero, E. Larranaga (a cura di), Cyberbullying Across the Globe, Switzerland, 2016, pp. 239 ss. 168 G. Mannozzi, G. A. Lodigiani, La giustizia riparativa, cit., p. 360, continuano gli Autori: «superare le difficoltà iniziali ed entrare in mediazione può rivelarsi utile per non far perdere a queste vittime vulnerabili i benefici generalmente correlati ai percorsi di giustizia riparativa, come la riduzione dei sentimenti di ansia o di paura, il recupero del rispetto e della stima di sé e la riduzione dei sintomi da stress post-traumatico».

219 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

ALESSANDRO MAZZULLO Dottorando in Diritto privato del mercato, Università La Sapienza di Roma

Disclosure e sustainable finance. Dall'informazione del cliente alla conformazione del mercato sostenibile

English title: Disclosure and sustainable finance. From informing the client to conforming the sustainable market DOI: 10.26350/18277942_000014

Sommario: 1. La trasparenza come strumento di efficienza del mercato. 2. Dal dovere di informare al dovere di far comprendere. 3. La non-financial disclosure per gli enti di interesse pubblico. 4. Dalla trasparenza per informare alla trasparenza per conformare il mercato. 5. Dal mercato dei prodotti finanziari sostenibili alla sostenibilità come prodotto del mercato finanziario. 5.1. Il framework normativo europeo. 5.2. La disclosure ESG nella Direttiva IORP II e SRD II. 5.3. Il Reg. UE n. 2019/2088, come modificato dal Reg. UE n. 2020/852.

1. La trasparenza come strumento di efficienza del mercato

La trasparenza rappresenta, tradizionalmente, uno dei principali obiettivi della disciplina dei mercati finanziari1. Già alla fine del XIX secolo, il contenuto principale dei fiduciary duties gravanti sul broker consisteva in obblighi di carattere prevalentemente informativo nei confronti del proprio client2: i) non solo riguardo al compimento delle varie operazioni che contraddistinguevano il rapporto di investimento3; ii) ma anche in relazione ai possibili conflitti di interesse (c.d. no conflict rule); all’esistenza di meccanismi di incentivazione economica ulteriori rispetto alla commissione (c.d. no profit rule)4; iii) o,

 Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 Cfr. P. Lucantoni, L’informazione da prospetto. Struttura e funzione nel mercato regolato, Giuffrè, 2020, p. 1; R. Costi, Il mercato mobiliare, Giappichelli 2018, p. 6. 2 Sul punto, si veda D. Imbruglia, Regola di adeguatezza e validità del contratto, in Europa e Diritto Privato, fasc.2, 2016, pag. 335. 3 Si veda Supreme Court of New York, 1880, Hoffman v. Livingstone, 46 N. Y. Sup. Ct. 552 4 Si veda House of Lords, 18-12-1895, Bray v. Ford, [1896] AC 51.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ancora, alla possibile coesistenza, in capo al broker, della posizione di buyer e seller 5. Si trattava di obblighi che non nascevano dal singolo contratto, ma dal rapporto fiduciario (più specificamente di agency6) che legava client e broker e che derogava alla logica comune del caveat emptor7. Com’è stato acutamente sottolineato8, dal punto di vista strutturale, tali norme operavano sul piano delle regole di condotta, più che di validità. La conseguenza della violazione di tali obblighi di trasparenza, in altri termini, non inficiava gli effetti del contratto, ma la responsabilità del contraente scorretto su cui gravava l’obbligo alternativo di disclose or abstain. Al client, in realtà, erano riconosciute anche altre forme di tutela, come: i) il diritto al c.d. disgorgement, ovvero all’attribuzione a sè del guadagno ottenuto dal broker tramite la violazione dei propri doveri fiduciari; ii) il diritto alla risoluzione del rapporto di brokeraggio; iii) o, infine, il diritto al disconoscimento degli effetti dell’attività d’intermediazione finanziaria svolta, per suo conto, dal broker scorretto9. Il breach of a fiduciary duty, tuttavia, non inficiava la possibilità giuridica del rapporto. La dimensione degli interessi tutelati, d’altronde, rimaneva essenzialmente relegata alla relazione negoziale tra le parti; alla specificità del rapporto fiduciario di agency dentro cui si collocava il contratto di brokeraggio.

5 Cfr. Court of Appeals of the State of New York, 31-05-1881, Levy v. Loeb. Al riguardo, come ricorda D. Imbruglia, ult. op. cit., da notare la diversa regola operante in Inghilterra (c.d. di single capacity) che vietava al broker di scambiare titoli propri. 6 Sull’esistenza o meno, all’interno del dibattito giurisprudenziale nord-americano, di un automatismo tra rapporto di agency e fiduciary relationship, si veda l’indirizzo maggioritario espresso da Supreme Court of Colorado, 12-05-1986, Paine, Webber, Jackson & Curtis v. Adams, 718 P. 2d 516, secondo cui: “[the] fiduciary nature of a broker-customer relationship is a factual issue”. 7 La formulazione del principio, riassunto nel brocardo caveat emptor, si deve a Lord Mansfield secondo cui non doveva essere riconosciuta, nel contratto, una garanzia implicita circa la buona qualità della cosa venduta. Solo in seguito, nel diritto inglese, il predetto principio viene attenuato attraverso il ricorso ai c.d. implied terms, per poi essere definitivamente accolto nel Sale of Goods Act del 1893. Sul punto, si veda P. Gallo, Introduzione al diritto comparato, Vol. II, Istituti giuridici, Giappichelli, 2018, p. 138. Con riferimento all’esperienza statunitense, si veda la decisione Supreme Court of United States, 21-01-1889, Galigher v. Jones, 129 U.S. 193 e, in dottrina, la ricostruzione di E. Norton, A Simple Purchase and Sale Through a Stockbroker, in Harv. Law Rev., 1895, 435. 8 D. Imbruglia, ult. op. cit. 9 Si veda, sempre, D. Imbruglia, ult. op. cit.

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L’apertura del mercato mobiliare alla contrattazione di massa segna il fondamentale allontanamento del rapporto di intermediazione finanziaria dallo schema del contratto di agency. Le ragioni di tutela che fondavano i fiduciary duties, anziché diminuire, aumentarono, cominciando ad assumere la dimensione super-individuale che ancora oggi le caratterizza. La grande crisi del ‘29, in particolare, rese evidente i limiti di un mercato ormai profondamente rinnovato, sia sotto il profilo soggettivo (per la presenza di investitori sempre più “unsophisticated”), sia sotto il profilo oggettivo (per la messa in circolazione di prodotti finanziari sempre più “sophisticated”). In tale passaggio, la trasparenza continuò a costituire un obbligo giuridico a carico dell’intermediario. Ma la fonte non andava più ricercata nei fiduciary duties della substantive law elaborata dalla Corti in accordo con la dottrina del precedente giudiziario; quanto piuttosto nelle nuove conduct of business rules introdotte da una regolamentazione speciale pensata appositamente per le esigenze specifiche del mercato finanziario10. In quest’ottica, il dovere di trasparenza veniva confermato ma anche trasformato alla luce della sua nuova funzione. Scopo finale di questa regolamentazione speciale era (e, in larga misura, è tutt’ora) tutelare la fiducia degli investitori rispetto al mercato, prima ancora di quella del singolo investitore rispetto al singolo broker. Tale fiducia, d’altra parte, costituiva elemento indispensabile per il buon funzionamento di un mercato perfettamente concorrenziale11. La trasparenza, in tal senso, è funzionale all’eliminazione delle asimmetrie informative12 e si presenta come “l'inveramento del modello

10 A. Hudson, The Law of Finance, Sweet & Maxwell, 2009, pp. 14-15. 11 Nel senso della riconduzione di tali regole alla capacità allocativa del mercato: D. Imbruglia, ult. op. cit.; V. Scalisi, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, Riv. dir. civ., 1994, II, 169; R. Costi, Tutela degli interessi e mercato finanziario, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1999. p. 777; S. Grundmann, La struttura del diritto europeo dei contratti, in Rivista di diritto civile, (3), p. 396; S. Mazzamuto, Diritto civile europeo e diritti nazionali: costruire l’unità nel rispetto della diversità, in Contr. impr., 2005, 531; R. Natoli, Regole di validità e regole di responsabilità tra diritto civile e nuovo diritto dei mercati finanziari, in Banca borsa, 2012, II, 177; G. Grisi, Informazioni (obblighi di), in Enc. dir., IV (Milano 2011), 605-609. 12 Sulla relazione tra efficienza del mercato e asimmetrie informative, si rinvia al celebre saggio di G. Akerlof, The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, Quart. Journ. Econ., 1970, pp. 488 e ss., in cui l’A. dimostrava come l’assenza di informazioni adeguate, per distinguere una buona auto da un bidone (“lemon”), conduceva ad una contrazione quantitativa della domanda e ad una

222 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 di scambio immaginato dal legislatore moderno del contratto e posto a base dei principi che regolano l'autonomia privata nei codici moderni”13. La logica di fondo è quella del contratto come accordo libero e consapevole, piuttosto che come scambio equo14. Ai fini della sua validità, non conta tanto la sua giustizia sostanziale15, quanto quella procedurale costruita intorno al dogma della volontà e al progressivo diffondersi del liberalismo, in campo politico, e del liberismo (e neoliberismo), in campo economico. Com’è stato autorevolmente sottolineato, la nuova regolamentazione (speciale) si propone di “sostituire al tradizionale intervento «a valle» che correggeva l'esito di queste distorsioni, ossia il rapporto di scambio tra bene e corrispettivo, un intervento «a monte» che riequilibri le condizioni della contrattazione, ossia che corregga le asimmetrie informative e irrigidisca l'assetto normativo degli obblighi reciproci dei contraenti: dunque, in luogo della «misura politica» il ripristino della «misura mercantile» ma attinta, ora, sulla base di un mercato dispiegato ed efficiente”16. Del resto, le teorie medioevali del giusto prezzo e della giustizia contrattuale entrano in crisi proprio con l’età moderna, attraverso: i) l’idea smithiana della mano invisibile che regola il mercato e che assicura la inconsapevole coincidenza tra perseguimento dell’interesse personale e progresso della società17; ii) l’individualismo di Mandeville18; le teorie

riduzione qualitativa dell’offerta, in un circolo vizioso che finiva per compromettere il funzionamento dell’intero mercato. 13 M. Barcellona, L’interventismo europeo e la sovranità del mercato: le discipline del contratto e i diritti fondamentali, in Europa e dir. priv., fasc.2, 2011, pp. 329 e ss. 14 Si veda P. Gallo, ult. op. cit., p. 134. 15 In conformità ai principi aristotelici della giustizia commutativa e all’elaborazione medievale relativa al “giusto prezzo”. Sia consentito il rinvio, passim, ad A. Mazzullo, Il rovescio della moneta. Per un’etica del denaro, Dehoniane, 2019. Si veda ancora P. Gallo, ult. op. cit., pp. 134 e 135. 16 M. Barcellona, ult. op. cit., che prosegue, sottolineando come: “La filosofia eminente di questo nuovo intervento e del rapporto tra legge e mercato, che esso suppone, è che le sperequazioni sociali che la moderna disciplina del contratto sembra aver fomentato per circa due secoli non siano dipese dall'intrinseca ingiustizia del sistema del libero scambio (cui la disciplina moderna del contratto dà forma), bensì dalla discrepanza tra le prassi negoziali e il modello autentico dell'economia di mercato: strozzature e sopraffazioni non debbono imputarsi, perciò, al mercato ma al suo insufficiente funzionamento, alle carenze nelle condizioni della sua corretta operatività”. Id., I nuovi controlli sul contenuto del contratto e le forme dell'eterointegrazione: Stato e mercato nell'orizzonte europeo, in Europa e dir. priv., 2008, p. 38. 17 A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, trad. it., Milano, 1973.

223 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 della competizione naturale che affondano le loro radici nel pensiero di Malthus e Darwin. La codificazione napoleonica, segnando la frattura tra diritto intermedio e modernità, nell’ambito della tradizione di civil law, costituisce, in tal senso, l’apice del volontarismo e dell’autonomia privata. “Qui dit contractuelle, dit juste”19! Al centro della codificazione moderna, pertanto, è collocata la figura astratta e unitaria del soggetto giuridico che, liberatosi di ogni altro status 20 , ricalca la figura dell’homo oeconomicus ed implica scelte tendenzialmente razionali finalizzate alla massimizzazione della sua utilità. Parimenti, al centro della regolamentazione speciale del mercato finanziario, si pone l’esigenza di assicurare un adeguato livello di disclosure che consenta di eliminare l’incidenza delle asimmetrie informative sulle libere scelte di investimento dei clients21. In tale quadro assiologico, risulta ancora centrale il dovere di in-formare il soggetto debole del rapporto contrattuale, piuttosto che il suo contenuto.

2. Dal dovere di informare al dovere di far comprendere

Le varie crisi che hanno coinvolto il mercato finanziario, tuttavia, hanno contribuito alla messa in discussione dei già menzionati assunti22. L’homo oeconomicus, di fronte alla complessità del prodotto finanziario23, si è dimostrato spesso “unsophisticated” ed irrazionale; a prescindere dal suo grado di professionalità24.

18 Mandeville, The Fable of the Bees or Private Vices, Public Benefits, Indianapolis, 1988. 19 Celebre affermazione attribuita a Fouillé (1838-1912). 20 Celebre l’immagine sul passaggio dallo status al contratto di MAINE, HJ SUMMER. Dallo ‘status’ al contratto. Il diritto privato nella società moderna, 1971, 211. 21 Si veda E. Brodi, Dal dovere di far conoscere al dovere di far" comprendere"; l'evoluzione del principio di trasparenza nei rapporti tra impresa e consumatori, in Banca Borsa Titoli di Credito: rivista di dottrina e giurisprudenza, 2011, 64 (2), pp. 246-273. Come sottolinea l’A.: era questo, in buona sostanza, “il ragionamento posto a fondamento dell'adozione della legge n. 154 del 1992, concernente le « norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari », poi confluita nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (t.u.b.)”. 22 Sul punto, passim, sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, Diritto dell’imprenditoria sociale. Dall’impresa sociale all’impact investing, Giappichelli, 2019, pp. 10 e ss. 23 Al riguardo, si veda R. Costi, Il mercato mobiliare, Giappichelli, 2018, p. 5. Per l’A., una delle prime ragioni di un ordinamento special del mercato mobiliare è da ricercare proprio nella difficoltà di ricostruire il contenuto del valore mobiliare.

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Basti pensare al coinvolgimento, nella crisi del 2008, degli investitori c.d. “qualificati” e, tra questi, dei grandi investitori istituzionali. Tutto ciò si è inevitabilmente riflesso sulla portata dei doveri di trasparenza nell’ambito della regolamentazione finanziaria. Quest’ultima, d’altro canto, fungendo da tradizionale focina per presidi estesi anche alla generalità dei rapporti interprivatistici25, ha favorito un rafforzamento e ripensamento della trasparenza anche in ambiti diversi (soprattutto consumeristici), incisi dal dirompente avvento della contrattazione di massa e dei c.d. “scambi senza accordo”26. Nell’intermediazione finanziaria, si è così passati dal dovere in informare il contraente debole, al dovere di quello forte di informarsi sulle qualità del primo, alla luce delle c.d. suitability and appropriateness rules (o regole dell’adeguatezza e dell’appropriatezza del prodotto rispetto alle caratteristiche e agli obiettivi dell’investitore)27.

24 Sul punto, si veda A. Perrone, Mercato all'ingrosso e regole di comportamento, in Riv. soc. 2010, p. 524. Secondo l’A: “i prodotti finanziari identificati come fonte del rischio assunto in misura eccessiva ...(in particolare, le collaterized debt obligations e i credit derivatives) sono stati collocati e negoziati al di fuori della disciplina speciale di protezione approntata dal diritto speciale dei mercati finanziari, secondo una scelta normativa che tradizionalmente considera non efficiente estenderne le disposizioni a situazioni connotate dalla esclusiva presenza di investitori professionali, come tali capaci di cavarsela da soli all'interno di dinamiche negoziali destinate ad esaurirsi tra le parti del contratto”. Ma si veda anche U. Minneci, Servizi di investimento in favore del clinete professionale: dal regime del rapporto al regime dell’attività, in Banca borsa tit. cred., fasc.5, 2012, pp. 568 e ss. 25 Cfr. Costi, Informazione e contratto nel mercato finanziario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, I, 719: “Talvolta la disciplina speciale dettata per il mercato finanziario prelude e trasmigra in una disciplina di diritto comune, confermando la natura di “laboratorio” dell'ordinamento dei mercati finanziari". 26 Per usare la felice espressione di N. Irti, Scambi senza accordo, in riv. Trim. dir. Proc. Civile, 1998, pag. 347 e ss. e ora in Id. Norma e Luoghi, Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari, 2001, pag. 103 e ss. 27 Al riguardo, si vedano gli articoli: 19, § 4-6, dir. 2004/39/CE; 35-37, dir. 2006/73/CE; 25, dir. 2014/65/EU. Dal punto di vista del diritto interno, si vedano gli artt. 39-40, reg. Consob 16190/2007 per l’adeguatezza dei servizi di risparmio gestito e gli artt. 41-42, reg. Consob 16190/2007 per l’appropriatezza dei servizi di risparmio amministrato. Dal punto di vista dottrinario, oltre all’opera di D. Imbruglia, La regola di adeguatezza e il contratto, Giuffrè, 2017, si vedano i lavori di F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, Giappichelli 2014), p. 140; A. Antonucci, Declinazioni della suitability rule e prospettive di mercato, in Banca borsa e titoli di credito, 2010, I, p. 728; E. Costi, Il mercato mobiliare, Giuffrè, 2018, p. 147 e ss.; A. Di Amato, I servizi e i contratti di investimento, in (a cura di S. Amorosino), Manuale di diritto del mercato finanziario, Giuffrè 2014, p. 101; R. Natoli, Il contratto “adeguato”. La protezione del cliente nei servizi di credito, di investimento e di assicurazione, Giuffrè 2012, p. 87.

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C’è chi, al riguardo, ha anche parlato del passaggio dal dovere di informare a quello di “far comprendere”28. Certamente, si è assistito ad un potenziamento della trasparenza dell’attività finanziaria nel suo complesso, più che dell’atto (contrattuale) in sé29. I doveri di disclosure hanno finito per estendersi sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo. Un’estensione tale da far parlare di “paternalismo libertario”, a proposito di questa iper-regolamentazione, soprattutto sul piano dei doveri di trasparenza30. Sotto il profilo soggettivo, basti pensare all’estensione penetrante dei doveri di trasparenza anche in capo alle società emittenti. O all’estensione dei predetti doveri a favore di investitori qualificati, un tempo considerati non bisognosi di tutela, in quanto sufficientemente informati e capaci di “cavarsela da sè”31. Parallelamente, sotto il profilo oggettivo, la trasparenza ha finito per estendersi, di là del singolo prodotto negoziato, all’attività finanziaria nel suo complesso 32 : dalla c.d. product governance, alle politiche di

28 E. Brodi, ult. op. cit. Per l’A.: “Il passaggio ad un concetto di trasparenza che non si limiti più a prevedere un mero « dovere di far conoscere » ma che includa, anzi, un « dovere di far comprendere » è stato nella sostanza promosso da una rilettura delle fattispecie rilevanti, illuminata, come spesso ricordato, dagli insegnamenti della behavioral economics literature”. 29 Sul punto, cfr. U. Minneci, ult. op. cit, secondo il quale: “il riferimento al modo di atteggiarsi della operatività degli investitori professionali ha messo in oggettiva evidenza l'inadeguatezza di una risposta fondata principalmente o essenzialmente sulla previsione in capo all'intermediario di obblighi di disclosure; sia per l'oggettiva difficoltà di eliminare ogni asimmetria informativa esistente tra le parti (anche se il cliente può vantare una notevole competenza in materia), sia per l'esistenza di ulteriori fattori — oggetto di studio della finanza comportamentale — che offuscano la pretesa correlazione necessaria tra l'agire informato e l'agire razionale, sia ancora perché le asimmetrie che caratterizzano il mercato riguardano non solo le informazioni, ma anche — e in modo altrettanto rilevante — la distribuzione del potere contrattuale”. 30 Si veda Wright, Behavioral Law and Economics, Paternalism, and Consumer Contracts: an Empirical Perspective, NYU J. L. & Liberty, 2007, pp. 470 e ss.; Caterina, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2005, II, pp. 784 e ss. Si veda sempre anche E. Brodi, ult. op. cit. 31 Passim, U. Minneci, ult. op. cit., e A. Perrone, ult. op. cit. 32 Sul passaggio da una trasparenza in senso formale-informativo ad una sostanziale, ovvero tale da coinvolgere l'intera attività posta in essere da parte dell'intermediario e relativa a tutte quelle condotte che, caratterizzate da un certo grado di opacità, permetterebbero all'intermediario — se non correttamente regolate — di perpetrare comportamenti dannosi per il cliente, si veda L. Mezzasoma, Trasparenza e meritevolezza nei contratti finanziari, Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 2, 1 aprile 2018, pp. 180 e ss.

226 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 remunerazione e incentivazione della performance di negoziazione 33 ; passando per la potenziale presenza di conflitti di interesse; fino ad arrivare agli aspetti di carattere non strettamente finanziario afferenti all’attività delle emittenti34. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, rappresenta una tappa intermedia fondamentale rispetto al percorso evolutivo che si sta tratteggiando e, come tale, merita un approfondimento più specifico.

3. La non-financial disclosure per gli enti di interesse pubblico

L’introduzione di obblighi di trasparenza non finanziaria ha sollevato interrogativi sistemici ben superiori alla portata della specifica disciplina. Ci si è interrogati, innanzitutto, sui suoi riflessi rispetto all’esatta individuazione dell’interesse sociale 35 e, quindi, del fine ultimo

33 Cfr., ex pluribus, L. Bebchuk-H. Spamann, Regulating Bankers' Pay, June 2009, in www.ssrn.com. 34 Si veda il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254 con cui è stata data attuazione alla direttiva 2014/95/UE recante modifica alla direttiva 2013/34/UE sui bilanci, per quanto riguarda la “comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni”; nonché il Regolamento Consob, adottato con delibera n. 20267 del 18.01.2018 (in G.U. n. 21 del 26.01.2018), recante le “modalità di pubblicazione, verifica e vigilanza sulle dichiarazioni di carattere non finanziario” per società quotate o con azioni diffuse tra il pubblico, banche e assicurazioni di grandi dimensioni. Si veda, infine, la Comunicazione della Commissione europea relativa agli “Orientamenti sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario (Metodologia per la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario)” in GUCE 5.07.2017 (2017/C 215/01) con funzione di Linee guida non vincolanti, ma pur sempre autorevoli. In realtà la normativa si rivolge agli enti di interesse pubblico ma, tra essi, 35 Il tema dell’interesse sociale, come noto, rappresenta uno degli ambiti di maggiore confronto dottrinario del diritto societario. Tale disamina, peraltro, ha spesso finito per intrecciarsi con la ricostruzione dello stesso fondamento dell’impresa, a cavallo tra la visione del contrattualismo e dell’istituzionalismo. Cfr., tra gli altri: Aa.Vv., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders. In ricordo di Pier Giusto Jaeger, Atti del Convegno, Milano, 9 ottobre 2009; C. Angelici, La società per azioni, I, Principi e problemi, Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2012; Id., Note sul «contrattualismo societario»: a proposito del pensiero di Francesco Denozza, in Riv. dir. comm., 2018, p. 191 ss.; Id, Poteri” e “interessi” nella grande impresa azionaria: a proposito di un recente libro di Umberto Tombari, in riv. Soc. 1/2020, pp. 4 e ss; T. Ascarelli, Interesse sociale e interesse comune nel voto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1951, p. 1145 ss.; A. Asquini, I battelli del Reno, in Scritti, III, Padova, 1961, p. 221 ss.; G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (Variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo), Riv. soc, 2005, pp. 693 e ss.; AF. D’Alessandro, Il diritto delle società da i «battelli del Reno» alle «navi vichinghe», in Foro it., 1988, V, c. 48; F. Denozza, Quattro variazioni sul tema: «contratto, impresa e società nel pensiero di Carlo

227 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dell’impresa societaria. Ci si è domandati, in altre parole, se gli obblighi di trasparenza sulle azioni poste a tutela degli stakeholder, potessero costituire il segno di una rivisitazione della c.d. shareholder supremacy36. Al riguardo, in via semplificatoria, possiamo distinguere due orientamenti di fondo. Da un lato, quello che potremmo chiamare “pluralista”37, costituito da quell’insieme di teorie, invero sia istituzionalistiche che contrattualistiche38, tese ad attribuire agli amministratori “una funzione di arbitraggio e composizione dei diversi interessi che ruotano attorno

Angelici», in Giur. comm., 2013, p. 480 ss.; A. Ferrarini, An Alternative View of Corporate Purpose: Colin Mayer on Prosperity, in riv. Soc. 1/2020, pp. 27 e ss; P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964; e Id., L’interesse sociale (quarant’anni dopo), in Giur. comm., 2000, p. 795 ss.; M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dell’«istituzionalismo debole», in Giur. comm., 2014, p. 669 ss.; P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. soc., 2018, p. 303 ss.; Id., Interesse sociale e amministratori, in Aa. Vv., L’interesse sociale, cit., p. 80 ss.; V. Oppo, Le grandi opzioni della riforma e le società per azioni, in Riv. dir. civ., 2003, p. 477 e 478; R. Rordorf, L’abuso di potere della minoranza, in Società, 1999, 7, pp. 809 ss. F. Riganti, Note in tema di abuso della maggioranza e interesse sociale, in Giur. it., 2017, p. 1893 ss.; G. Strampelli, Gli investitori istituzionali salveranno il mondo? Note a margine dell’ultima lettera annuale di BlackRock, in riv. Soc. 1/2020, pp. 51 e ss; M. Ventoruzzo, Brief Remark on “Prosperity” by Colin Mayer and the often Misunderstood Notion of Corporate Purpose, in riv. Soc. 1/2020, pp. 43 e ss. 36 Sul punto, si veda, in particolare: C. Angelici, Divagazioni sulla “responsabilità sociale” d'impresa, in Rivista delle Società, 2018, pp. 3 ss; V. Calandra Buonaura, Responsabilità sociale dell'impresa e doveri degli amministratori, in Giurisprudenza commerciale, 2011, 38.4, pp. 526-548; M. Maugeri, Informazione non finanziaria e interesse sociale, in Rivista delle Società, fasc.5, 1 dicembre 2019, pp. 992 e ss.; S. Fortunato, L'informazione non-finanziaria nell'impresa socialmente responsabile, in Giurisprudenza Commerciale, fasc.3, 1 giugno 2019, pp. 415 e ss; N. Rondinone, Interesse sociale vs. interesse “sociale” nei modelli organizzativi di gruppo presupposti dal d. lgs. n. 254/2016, in Rivista delle Societa', fasc.2, 1 giugno 2019, pp. 360 e ss.; F. Riganti, Disclosure non finanziaria e diritto delle società: aspetti di corporate governance e (possibili) ricadute in tema di interesse sociale, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2019, 2, pp. 458 e ss.; E. Bellissario, Rischi di sostenibilità e obblighi di disclosure: il d. lgs. n. 254/16 di attuazione della dir. 2014/95/UE, in Nuove Leggi Civ. Comm, 2017, 1, pp. 19-46; S. Bruno, Dichiarazione ‘non finanziaria’ e obblighi degli amministratori, in Rivista delle società, 2018, 4, pp. 974-1020. 37 Come efficacemente e sinteticamente denominato da V. Calandra Buonaura, Responsabilità sociale dell'impresa e doveri degli amministratori, in Giurisprudenza commerciale, 2011, 38.4, pp. 526-548, rifacendosi sul punto al significato attribuitogli dalla letteratura inglese: si veda, in particolare, la sua nota 5. 38 Che vanno “dalle più risalenti concezioni istituzionalistiche dell'Unternehmen an sich e della versione anglosassone della company come "social istitution" alle più recenti concezioni che, in chiave contrattualistica, ipotizzano l'esistenza nella public company di un interesse comune, non conflittuale, tra gli azionisti e gli altri stakeholders” (sempre V.C. Buonaura, ult. op. cit.).

228 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 alla grande impresa (ivi compresi quelli degli stakeholder esterni - ndr) senza riconoscere una preminenza all'interesse dei soci”39. Dall’altro, quello, nettamente caratterizzante la dottrina italiana, che considera gli amministratori legittimati (se non obbligati) a considerare interessi diversi da quelli dei soli shareholder; ma solo nella misura in cui risultino strumentali (o comunque non confliggenti) rispetto al perseguimento dell'obiettivo preminente di una crescita di valore per gli azionisti (attuali e futuri)40. A sostegno di questo secondo approccio, nel nostro ordinamento, va certamente rimarcata l’oggettiva assenza di stabili strutture di rappresentanza interna degli interessi degli stakeholder, come della loro azionabilità diretta (salva l’ipotesi di cui all’art. 2395 c.c.). Ma il dibattito, soprattutto dal punto di vista operativo (più che giuridico), è ancora aperto41. Tuttavia, in questa sede, ciò che sembra più significativo è il riflesso indiretto della disclosure rispetto al mercato, piuttosto che quello diretto sullo scopo dell’impresa societaria. Il punto non sta, pertanto, nel livello di penetrazione e modificazione degli istituti che compongono il diritto societario, ma nella loro azione servente rispetto ad un modello di mercato che non “dev’essere” più soltanto efficiente, ma anche sostenibile o, al più, efficiente in quanto sostenibile. Ciò che qui rileva, in altre parole, è l’affermarsi di nuovo ordine giuridico del mercato42. La disclosure non finanziaria, non a caso, è considerata esplicitamente dalla stessa direttiva 2014/95 (considerando n. 3) come “fondamentale per gestire la transizione verso un’economia globale sostenibile” 43.

39 V.C. Buonaura, ult. op. cit. che si sofferma anche sull’analisi dei c.d. stakeholders statutes statutinitensi e sulla sec. 172(1) del Companies Act del 2006 inglese. Tanto i primi, quantoPer l’A., i primi sarebbero comunque caratterizzati dalla prevalente facoltatività della considerazione degli interessi degli 40 Vedi nota 35. 41 Sul punto, si veda l’importante presa di posizione della Business Roundtable (grande associazione della Corporate America che riunisce tra le principali corporation del mondo), M. Valsania, Svolta della Corporate America dopo 22 anni: basta con la «dittatura» degli azionisti, in IlSole24ore.com del 19 agosto 2019. 42 Sulla portata del significato di “ordine giuridico del mercato”, naturalmente, si rinvia al noto saggio di N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Milano, 2004. 43 Considerando 3. Ma vedi anche: il Considerando n. 11 che rinvia al paragrafo 47 del documento finale della conferenza delle Nazioni Unite RIO+20, intitolato «The Future We Want».

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La sostenibilità, in tale ottica, assume una funzione sempre più ordinatrice rispetto all’ordine degli scambi. Gli obblighi di disclosure non finanziaria sono funzionali a plasmare il mercato sia dal lato dell’offerta, che da quello della domanda. Sotto il primo profilo, rendicontare equivale al “rendere conto” di un interesse ultroneo, rispetto a quello meramente finanziario. Il renderne conto, a sua volta, implica il “tenerne conto”; anche quando a quell’interesse non corrisponda una specifica politica aziendale e non risulti preminente rispetto all’interesse sociale. Il dover spiegare le ragioni di questa esclusione, infatti, costringe gli amministratori a considerare comunque tali interessi: in senso positivo (rispetto alle azioni adottate) o negativo (rispetto alle azioni non adottate e alle ragioni di tale scelta); a prescindere dal carattere finale o strumentale degli interessi non finanziari rispetto all’interesse sociale. In ultima analisi, la scelta gestionale degli amministratori, come quella di consumo o di investimento, rimane formalmente libera. Nella sostanza, tuttavia, la si vorrebbe orientare in una direzione politica nuova: quella della sostenibilità.

4. Dalla trasparenza per informare alla trasparenza per conformare il mercato

Nell’ambito degli originari rapporti finanziari tra broker e client, lo scopo del dovere di trasparenza era la conformazione del contratto alla sua natura essenzialmente fiduciaria. Successivamente, ci è serviti della trasparenza per mitigare le asimmetrie informative rispetto ad investitori e prodotti finanziari, rispettivamente, sempre meno e sempre più sophisticated. La consapevolezza di un’asimmetria del potere non soltanto informativo, ma anche contrattuale, ha poi portato ad una nuova estensione, oggettiva e soggettiva, delle regole di disclosure; ma sempre in vista della fiducia interna al mercato e di un certo approccio fideistico sulla sua capacità di auto-indirizzarsi verso uno sviluppo più efficiente e, pertanto, più giusto. Oggi, questa fede sembra essersi quanto meno ridimensionata. Il legislatore, nazionale e sovranazionale, mira ad introdurre regole correttive che non si limitano più al mero ripristino di meccanismi di presunto auto-funzionamento del mercato 44 ma al suo stesso

44 Si potrebbe, in tal senso, richiamare la distinzione operata da Hayek, tra nomos (la norma “trovata” che regola in modo spontaneo l’ordine giuridico del mercato, quale

230 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 indirizzamento verso obiettivi di natura politica ed etica 45 . La trasparenza, in altre parole, comincia a giocare un ruolo diverso da quello tradizionalmente svolto: garantire la protezione degli investitori unsophisticated; l’efficienza del mercato; la riduzione dei costi di agenzia; la gestione delle criticità connesse all’information orverload, alla limited rationality e al deviant behavior degli investitori46. Tra le nuove funzioni della trasparenza, come anticipato47, è indubbio il ruolo ormai assunto dalla “sostenibilità”. Il nuovo Codice di corporate governance, non a caso, stabilisce che: “L’organo di amministrazione guida la società perseguendone il successo sostenibile”48. Il punto centrale è capire se tale obiettivo derivi dal ritenere che: a) non possa esserci successo aziendale senza sostenibilità; o b) che il successo

locus naturalis, qualificabile come cosmos) e thesis (la norma “creata” dal legislatore per regolare un ordine giuridico etero-imposto, qualificabile come taxis, in quanto finalizzato al perseguimento di uno scopo politico). Si veda, a tal riguardo, lo stesso F. A. von Hayek, La confusione del linguaggio nel pensiero politico (1968), ora in Id, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, trad. It., Roma, 1988, pp. 83-110. In senso critico, si rinvia al noto saggio di N. Irti, ult. op. cit., pp. 5 e ss. 45 Sul legame (antico e auspicabilmente post-moderno) tra etica, politica ed economia, sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, Il rovescio della moneta. Per un’etica del denaro, EDB, 2019. Ma vedi anche, Id., Diritto dell’imprenditoria sociale. Dall’impresa sociale all’impact investing, Giappichelli, 2019. Contra N. Rondinone, ult. op. cit., secondo il quale: “esiste una divaricazione strutturale fra fini lucrativi e fini sociali, corrispondente al naturale conflitto fra interesse lucrativo dei soci e interessi degli altri stakeholders (compresi i lavoratori, in linea con il rilievo, fra gli altri weberiano, che il livello dei salari si pone in rapporto di proporzionalità inversa con quello dei dividendi); il rapporto fra etica e affari è ingannevole e la cd. “etica- tampone” può solo aiutare il capitalismo a riparare le incrinature cui periodicamente va incontro sul piano del consenso sociale; le corporations possono trarre beneficio da siffatto connubio in termini di immagine, ma anche per legittimare il loro ruolo di nuove “istituzioni” (di Stato nello Stato), capaci di produrre da sé le norme che le riguardano”. 46 Si vedano, tra gli altri, L. Enriques - S. Gilotta, Disclosure and Financial Market Regulation, in N. Moloney - E. Ferran - J. Payne (a cura di), The Oxford Handbook on Financial Regulation, cit., pp. 511-536; G. Liace, L’investitore tra deficit informativi e bias comportamentali, in Banca Impresa Società, Bologna, fasc. 3/2019, pp. 445-462; M. Siri e S. Zhu, L’integrazione della sostenibilità nel sistema europeo di protezione degli investitori, in Banca Impresa Società, Bologna, fasc. 1/2020, p. 18. 47 Si veda supra: paragrafo 3. 48 Edito dal Comitato corporate governance, nel gennaio 2020. Al riguardo, appaiono certamente rilevanti le considerazioni di Larry Fink (Presidente e AD di Blackrock - il maggiore investitore istituzionale al mondo) indirizzate ai vertici delle società americane dello S&P500 e contenute in una recente quanto famosa lettera pubblica del 17 gennaio 2018: “Society is demanding that companies…serve a social purpose…” (consultato il 22/01/2021 al seguente link: https://corpgov.law.harvard.edu/2018/01/17/a-sense-of-purpose/).

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“debba” essere tale, in ragione di un principio ormai interiorizzato nel funzionamento fisiologico del mercato. Al riguardo, è senza dubbio rilevante l’incidenza che l’integrazione dei criteri ESG49 ha sulla performance e sulla rischiosità finanziaria50 che il mercato incorpora nei fattori di sconto dei flussi51. La maggior parte degli studi mostra una relazione positiva e significativa tra ESG e valore. Ma non vi è altrettanta univocità sull’automaticità e sulla direzione di questa causalità: se siano le imprese più sostenibili ad essere le migliori (doing well while doing good) o se siano le migliori ad essere più sostenibili, in quanto più organizzate (doing good while doing well)52. L’impressione, tuttavia, è che la natura di quell’obiettivo sia ormai politica, prima ancora che tecnica, in quanto legata ad esigenze di carattere generale che trascendono la performance individuale (anche di lungo periodo), puntando a conformare il mercato verso un nuovo modello di sviluppo. E in tale ottica andrebbe letta anche la nuova funzione di regole antiche, come la disclosure, un tempo serventi rispetto al paradigma di un mercato allergico a qualsiasi condizionamento esterno, di natura politica o etica.

5. Dal mercato dei prodotti finanziari sostenibili alla sostenibilità come prodotto del mercato finanziario

5.1. Il framework normativo europeo

49 ESG – Acronimo, presente in molti atti normativi europei, che sta per: Environmental, Social and Governance. Sul punto, si veda il recente Regolamento UE 2020/852 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili e recante modifica del regolamento (UE) 2019/2088. 50 Sia in termini di rischi specifici (ad esempio reputazionali o legati al contezioso legale) che sistemici. 51 Sulla relazione tra performance, rischio finanziario e integrazione criteri ESG, confronta l’analisi della letteratura scientifica operata da A. Del Giudice, La finanza sostenibile. Strategie, Mercato e investiotori istituzionali, Giappichelli, 2019, pp. 52 e ss. Per un maggior approfondimento della tematica, passim, si veda anche M. La Torre e H. Chiappini (a cura di), Socially Responsible Investments. The crossroads between institutional investors and retail investors, Palgrave Macmillan, London, pp. XII-173; M. Calderini, V. Chiodo e F. V. Michelucci, The social impact investment race: toward an interpretative framework, in European Business Review, vol. 30, fasc. 1, pp. 66-81. 52 Cfr. Del Giudice, ult. op. cit., p. 61. Per H. Liang - L. Renneboog, On the foundations of corporate social responsibility, in The Journal of Finance, 2017, 72.2, pp. 853-910.

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A livello europeo, questo legame lato sensu “politico” tra disclosure e sostenibilità sta assumendo una particolare evidenza nel mercato dei servizi finanziari. Sul punto, appare particolarmente significativa la recente emanazione del Regolamento UE n. 2019/2088 del 27 novembre 2019 (relativo all’informativa sulla sostenibilità nel predetto ambito) e al Regolamento UE n. 2020/852 del 18 giugno 2020 (sulla tassonomia degli investimenti ecosostenibili)53. I predetti regolamenti, tuttavia, s’inseriscono in un più ampio Action Plan54 che prevede l’imminente emanazione di altri tre atti regolamentari (sui benchmark climatici55, sull’introduzione di un’etichetta specifica per i green bonds56 e su alcuni interventi di modifica alle misure di attuazione della Mifid II e della IDD57 ), per promuovere una “finanza sostenibile”58.

53 Si veda, infra, il par. 5.3. 54 Action Plan Financing Sustainable Growth, presentato dalla Commissione europea nel Maggio 2018. Vedi qui: https://ec.europa.eu/info/business-economy- euro/banking-and-finance/sustainable-finance_it#action-plan 55 Con l’obiettivo di introdurre due nuove categorie di indici di riferimento che tengono conto di alcuni aspetti di sostenibilità ambientale (“low carbon benchmark” e “positive carbon impact benchmark”) per gli strumenti finanziari e per i contratti finanziari ovvero per misurare la performance dei fondi di investimento: Proposta di regolamento recante modifica al Regolamento (UE) 2016/1011. 56 Con l’obiettivo di realizzare l’Azione 2 dell’Action Plan, la Commissione Europea ha incaricato il TEG (Technical expert group) di elaborare raccomandazioni per lo sviluppo di un Green Bond Standard (EU GBS). Il 18 giugno 2019 il TEG ha pubblicato un report contenente i principi fondamentali e la struttura del GBSEU Technical Expert Group on Sustainable Finance 2019, Report on EU Green Bond Standard Overview: https://bit.ly/32ivzup. In base agli ultimi dati pubblicati dalla Climate Bonds Initiative (CBI) – la principale organizzazione a livello mondiale per la promozione e il monitoraggio del settore – nel 2018 sono state emesse obbligazioni verdi per un valore complessivo di $167,6 miliardi. La somma totale delle emissioni dal 2007 a fine 2018 (valore cumulativo) ha raggiunto il risultato record di $521 miliardi. Cfr: Climate Bonds Initiative 2019, Green Bonds – The State of the Market 2018, p. 2: https://bit.ly/2HpgjUn (consultato il 22/01/21). L’organizzazione Mission 2020 ha stimato che, per il raggiungimento degli obiettivi definiti dall’Accordo di Parigi, il mercato dei green bond dovranno aumentare e raggiungere almeno $800-900 miliardi entro il 2020, ovvero una cifra pari a oltre dieci volte le emissioni totali registrate nel 2016. Mission 2020, The Climate Turning Point, p. 18: https://bit.ly/2z9VZUx (consultato il 22/01/21). La letteratura sui green bond è vastissima. Per tutti, H. CHIAPPINI, Investimenti di impatto sociale oltre le obbligazioni di impatto sociale: un'agenda di ricerca e politica, in Investimenti a impatto sociale oltre la SIB, Palgrave Macmillan, 2018; Id, Un'introduzione agli investimenti a impatto sociale, in Fondi per l'impatto sociale, Palgrave Macmillan, 2017. 57 Con l’obiettivo di introdurre l’obbligo per imprese di investimento, intermediari assicurativi e imprese di assicurazione di tenere conto delle preferenze della clientela in materia di investimenti sostenibili dal punto di vista ambientale, sociale e di governance nella prestazione dei servizi di investimento e nella distribuzione di IBIP,

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Il predetto Action Plan, a sua volta, nasce allo scopo di orientare il mercato dei capitali verso il finanziamento di attività economiche che contribuiscano al raggiungimento degli impegni assunti dall’Unione europea con la sottoscrizione dell’Agenda Onu 2030 59 , per il conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile60, e con la firma dell’Accordo di Parigi del 201661. Tra i punti salienti del predetto Action Plan, si segnala la volontà di: i) introdurre una “tassonomia” europea per la finanza sostenibile, ovvero un sistema condiviso di definizione e classificazione delle attività economiche sostenibili; ii) creare standard e certificazioni di qualità per i green bond, con l’obiettivo di garantire la credibilità del mercato e rafforzare la fiducia degli investitori; iii) modificare le Direttive MiFID II e IDD e le linee guida ESMA sulla valutazione di adeguatezza dei prodotti, includendo le preferenze dei clienti in materia di sostenibilità tra gli elementi da considerare nell’ambito dei servizi di consulenza; iv) rendere anche in relazione alla valutazione di adeguatezza (draft di regolamenti delegati recanti modifica al Regolamento Delegato (UE) 2017/565 di attuazione della MiFID II e al Regolamento Delegato (UE) 2017/2359 di attuazione della IDD). 58 Per un’ampia disamina del contesto normativo e, soprattutto, economico, si veda Forum per la finanza sostenibile, L’unione europea e la finanza sostenibile. Impatti e prospettive per il mercato italiano, 2019. 59 Come specificato dal primo Considerando del Reg. 2019/2088: “Il 25 settembre 2015 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato un nuovo quadro mondiale per lo sviluppo sostenibile: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile («Agenda 2030»), incentrata sugli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG). La comunicazione della Commissione del 22 novembre 2016 sulle prossime tappe per un futuro europeo sostenibile collega gli SDG al quadro strategico dell’Unione per garantire che tutte le azioni e le iniziative strategiche dell’Unione, al suo interno e a livello mondiale, tengano conto fin dall’inizio degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Nelle sue conclusioni del 20 giugno 2017 il Consiglio ha confermato l’impegno dell’Unione e dei suoi Stati membri ad attuare l’Agenda 2030 in modo completo, coerente, globale, integrato ed efficace, e in stretta cooperazione con i partner e le altre parti interessate”. 60 Gli obiettivi sono 17 e sono articolati in 169 target. Lo scopo è affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico e ridurre qualunque forma di povertà o disuguaglianza, garantendo la sostenibilità economica, ambientale e sociale delle comunità umane nel lungo periodo. 61 Approvato dall’Unione il 5 ottobre 2016 (con Decisione (UE) 2016/1841 del Consiglio, del 5 ottobre 2016 - GU L 282 del 19.10.2016) ed entrato in vigore il 4 novembre 2016, si propone di rafforzare la risposta ai cambiamenti climatici, tra l’altro, rendendo i flussi finanziari compatibili con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente dal punto di vista climatico. Nell’ambito dell’Accordo di Parigi, l’Unione Europea si è impegnata a raggiungere tre obiettivi entro il 2030: i) ridurre di almeno il 40% le emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990; ii) portare la quota di consumo energetico soddisfatto da fonti rinnovabili almeno al 32%; iii) migliorare l’efficienza energetica di almeno il 32,5%.

234 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 più trasparenti le metodologie adottate dagli index provider nella costruzione dei benchmark di sostenibilità, armonizzando in particolare gli indici low-carbon; v) incoraggiare l’integrazione dei criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance (ESG) da parte delle società di rating e di ricerca di mercato; vi) introdurre i criteri di sostenibilità nella definizione di dovere fiduciario, che vincola gli investitori istituzionali ad agire nel migliore interesse dei beneficiari; vii) valutare la possibilità di introdurre una riduzione nei requisiti patrimoniali minimi delle banche in relazione agli investimenti sostenibili dal punto di vista ambientale (il cosiddetto “green supporting factor”), nel caso in cui i profili di rischio siano effettivamente inferiori; viii) migliorare qualità e trasparenza della rendicontazione non finanziaria delle imprese, allineando le attuali linee guida sui rischi climatici alle raccomandazioni della Task Force on Climate-related Financial Disclosures del Financial Stability Board; vix) incoraggiare l’integrazione dei criteri ESG e l’adozione di un approccio di lungo periodo nei processi decisionali dei Consigli di Amministrazione. L’impressione, ancora una volta, è che si tratti di scelte politiche, prima ancora che tecniche, che indirizzino l’Europa (e non solo) verso un nuovo modello di sviluppo economico fortemente improntato alle tematiche della sostenibilità e al raggiungimento di alcuni obiettivi specifici, come la neutralità climatica entro il 205062. Come chiaramente espresso dal Considerando n. 9 del Reg. n. 2020/852, l’obiettivo non è più favorire la mera circolazione dei capitali, ma rimuovere gli ostacoli che impediscono ai relativi flussi di incanalarsi in direzione degli investimenti sostenibili. Non si tratta più di informare il cliente ma il mercato, in nome di un ordine giuridico improntato alla neutralità energetica, più che a quella politica; alla sostenibilità socio-ambientale, più che al sostegno del soggetto meno informato. La trasparenza, in tale dinamica, non è più in funzione di una presunta neutralità politica del mercato. È semmai espressione di un ordine giuridico che mira ad orientarlo verso un modello di sviluppo ben preciso. Il sistema finanziario, come dichiarato dal Considerando n. 10 del Reg. n. 2020/852: “dovrebbe essere adattato gradualmente per supportare un funzionamento sostenibile dell’economia”.

62 Si veda la proposta di una legge europea sul clima presentata dalla Commissione europea il 4 marzo 2020.

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Il Green new deal, presentato dalla nuova Commissione europea, il 19 dicembre 201963, e gli atti elaborati successivamente alla crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19, sembrano confermare il carattere strategico e pervasivo di tale obiettivo64.

5.2. La disclosure ESG nella Direttiva IORP II e SRD II

Rispetto a tale percorso evolutivo, come anticipato, appare particolarmente significativa l’emanazione del nuovo Reg. n. 2019/2088. Prima di passare ad una disamina più dettagliata del suo contenuto, va ricordato come, a livello europeo, la “disclosure ESG” sia stata già anticipata da due Direttive operanti in settori più specifici: • la Direttiva UE 2016/2341 sulle attività e sulla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali (IORP II65); • e la Direttiva UE 2017/828 sull’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti (Shareholder Rights – SRD II)66.

63 COM (2019) 640. 64 Per la timeline europea, si veda qui: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities- 2019-2024/european-green-deal_en. 65 Direttiva UE 2016/2341 relativa alle attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali (EPAP), 14 dicembre 2016: https://bit.ly/30N3qdP 66 Direttiva UE 2017/828 per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti, 17 maggio 2017. La direttiva va a modificare la previgente 2007/36/CE, al fine di incoraggiare espressamente l’impegno a lungo termine degli azionisti, ed è stata recepita in Italia con il Decreto Legislativo n. 49 del 2019 (con disposizioni in vigore dal 10 giugno 2020) recante varie modifiche al TUF. In particolare, il decreto va a introdurre il comma 3bis dell’art. 123-ter del TUF, in virtù del quale: “La politica di remunerazione contribuisce alla strategia aziendale, al perseguimento degli interessi a lungo termine e alla sostenibilita' della societa' e illustra il modo in cui fornisce tale contributo. Fermo quanto previsto dal comma 3- ter, le societa' sottopongono al voto dei soci la politica di remunerazione di cui al comma 3 con la cadenza richiesta dalla durata della politica definita ai sensi del comma 3, lettera a), e comunque almeno ogni tre anni o in occasione di modifiche della politica medesima. Le societa' attribuiscono compensi solo in conformita' con la politica di remunerazione da ultimo approvata dai soci. In presenza di circostanze eccezionali le societa' possono derogare temporaneamente alla politica di remunerazione, purche' la stessa preveda le condizioni procedurali in base alle quali la deroga puo' essere applicata e specifichi gli elementi della politica a cui si puo' derogare. Per circostanze eccezionali si intendono solamente situazioni in cui la deroga alla politica di remunerazione e' necessaria ai fini del perseguimento degli interessi a lungo termine e della sostenibilita' della societa' nel suo complesso o per assicurarne la capacita' di stare sul mercato”. Tramite l’art. 3, comma 2, inoltre, si introduce l’art. 124-quinquies del TUF, che, al comma 1, stabilisce che: “Salvo quanto previsto dal comma 3, gli investitori istituzionali e i gestori di attivi adottano e comunicano al pubblico una politica di impegno che descriva le modalita' con cui integrano l'impegno in qualita' di azionisti nella loro strategia di investimento. La

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La Direttiva IORP II è stata recepita in Italia dal Decreto Legislativo n. 147 del 2018, in vigore dal 1° febbraio 2019 per gli operatori previdenziali67; ma, a sua volta, era stata preceduta da una disciplina nazionale più avanzata che, già con l’art. 6, comma 14, del Decreto Legislativo n. 252 del 2005, prevedeva che: “le forme pensionistiche complementari sono tenute ad esporre nel rendiconto annuale e, sinteticamente, nelle comunicazioni periodiche agli iscritti, se ed in quale misura nella gestione delle risorse e nelle linee seguite nell’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei valori in portafoglio si siano presi in considerazione aspetti sociali, etici ed ambientali”68.

politica descrive le modalita' con cui monitorano le societa' partecipate su questioni rilevanti, compresi la strategia, i risultati finanziari e non finanziari nonche' i rischi, la struttura del capitale, l'impatto sociale e ambientale e il governo societario, dialogano con le societa' partecipate, esercitano i diritti di voto e altri diritti connessi alle azioni, collaborano con altri azionisti, comunicano con i pertinenti portatori di interesse delle societa' partecipate e gestiscono gli attuali e potenziali conflitti di interesse in relazione al loro impegno”. 67 Con l’art. 1, comma 5, s’introduce l’art. 4bis del dlgs n. 252 del 2005, che, al comma 2, stabilisce che: “Il sistema di governo [dei fondi pensione - ndr] e' proporzionato alla dimensione, alla natura, alla portata e alla complessità delle attivita' del fondo pensione. Il sistema di governo e' descritto in un apposito documento e tiene in considerazione, nelle decisioni relative agli investimenti, dei connessi fattori ambientali, sociali e di governo societario. Il documento e' redatto, su base annuale, dall'organo di amministrazione ed e' reso pubblico congiuntamente al bilancio di cui all'articolo 17-bis”. Il comma 7 introduce l’art. 5-ter del dlgs n. 252 del 2005, che impone, al comma 4, let. g), di considerare all’interno del Sistema di gestione dei rischi, di quelli ESG. Il comma 8, modificando l’art. 6 del dlgs n. 252 del 2005, ne modifica il comma 5-quarter, stabilendo che I fondi pensione diano informative agli iscritti, tra le altre cose, del modo in cui la politica d'investimento tiene conto dei fattori ESG. Il comma 14 introduce l’art. 13-ter del dlgs n. 252 del 2005, che impone ai fondi pensione complementare di fornire informazioni ai potenziali aderenti circa il modo in cui vengono (o non vengono) considerati i fattori ESG nelle proprie politiche di investimento. Analoghe informazioni sono contenute nel “Prospetto delle prestazioni pensionistiche” di cui al novellato art. 13-quater del dlgs n. 252 del 2005, periodicamente fornito agli aderenti. Il comma 21, infine, introduce il nuovo art. 17-bis, del dlgs n. 252 del 2005, che, al comma 5, stabilisce che: “Nei bilanci di cui al comma 1 e nei rendiconti di cui al comma 2 e' dato conto se ed in quale misura nella gestione delle risorse e nelle linee seguite nell'esercizio dei diritti derivanti dalla titolarita' dei valori in portafoglio si siano presi in considerazione fattori ambientali, sociali e di governo societario”. 68 Cfr. sul punto M. Camilleri, “Le novità in materia ESG per i fondi pensione con il recepimento della IORP II”, in www.Ilpuntopensionielavoro.it, 5 novembre 2018 (disponibile qui: https://bit.ly/2Kedmpo), secondo la quale, i veri elementi di novità introdotti dalla Direttiva IORP II e dal DLgs. 147 del 2018 sono rappresentati: “dall’integrazione dei fattori ESG nell’attività di risk management del fondo e da una maggiore richiesta di trasparenza informativa circa le modalità con cui la politica di investimento tiene conto di questi fattori”.

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Caratteristica comune a questi atti normativi è quella di aver imposto vari doveri informativi, circa le proprie politiche di investimento in materia ESG, a soggetti specifici del mercato finanziario: quali gli investitori istituzionali e i fondi pensione.

5.3. Il Reg. UE n. 2019/2088, come modificato dal Reg. UE n. 2020/852

Il Reg. UE n. 2019/2088, invece, si rivolge a tutti i “partecipanti ai mercati finanziari”69 e ai consulenti finanziari70. Da tale distinzione discendono obblighi di disclosure di diversa intensità che dipendono dal diverso grado di coinvolgimento nell’intermediazione finanziaria. Le politiche d’investimento, d’altronde, sono dagli uni decise, dagli altri meramente raccomandate. Il Regolamento parte da una definizione importante (ancorché ampia) di “investimento sostenibile”71, identificandolo nell’investimento:  in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale o sociale;  che sia consapevole e misurato;  che non confligga con altri obiettivi di sostenibilità;

69 Ai sensi dell’art. 2, per “partecipante ai mercati finanziari”, il Regolamento intende: a) un’impresa di assicurazione che rende disponibile un prodotto di investimento assicurativo (IBIP); b) un’impresa di investimento che fornisce servizi di gestione del portafoglio; c) un ente pensionistico aziendale o professionale (EPAP); d) un creatore di un prodotto pensionistico; e) un gestore di fondi di investimento alternativi (GEFIA); f) un fornitore di un prodotto pensionistico individuale paneuropeo (PEPP); g) un gestore di un fondo per il venture capital qualificato registrato conformemente all’articolo 14 del regolamento (UE) n. 345/2013; h) un gestore di un fondo qualificato per l’imprenditoria sociale registrato conformemente all’articolo 15 del regolamento (UE) n. 346/2013; i) una società di gestione di un organismo d’investimento collettivo in valori mobiliari (società di gestione di OICVM); oppure j) un ente creditizio che fornisce servizi di gestione del portafoglio. 70 Per un’analisi comparata sugli obblighi di disclosure previsti in Francia e Germania, si veda K. Deckert, Sustainable Investments Through Financial Market Regulation in France. A General Overview, in RTDF n° 2/3 – 2018, pp. 34 e ss. Per un’importante analisi di vari profili giuridici relativi al nuovo regolamento, si veda M. Siri - S. Zhu, L’integrazione della sostenibilità nel sistema europeo di protezione degli investitori, op. cit., pp. 3 ss. 71 Sul punto, tuttavia, si tenga l’approvazione della proposta regolamentare concernente l’individuazione di criteri armonizzati (tassonomia) che consentano di determinare, in maniera omogenea, il grado di sostenibilità degli investimenti. Si veda: https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/04/15/sustainable- finance-council-adopts-a-unified-eu-classification-system/ Sull’importanza di tale tassonomia, cfr. Forum Finanza sostenibile, ult. op. cit., pp. 31 e ss.

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 e che sia destinato a imprese che rispettino prassi di buona governance, con particolare riferimento alle dinamiche lavorative e al rispetto degli obblighi fiscali72. Tale definizione, peraltro, va integrata con quelle fornite dal successivo Reg. UE n. 2020/852 in relazione agli investimenti “ecosostenibili”. Quest’ultimi, a loro volta, si qualificano in base: 1. alla capacità ci contribuire al raggiungimento di uno o più degli obiettivi di cui all’art. 9 del Reg. UE n. 2020/852; 2. al fatto di non arrecare danno a nessun’altro degli altri obiettivi; 3. al rispetto delle garanzie minime di salvaguardia di cui all’art. 18 del Reg. UE n. 2020/852 (inclusi i principi delle Convenzioni ILOR); 4. alla conformità rispetto ai criteri di vaglio tecnico fissati dalla Commissione. La sostenibilità è oggetto di obblighi di disclosure che variano in funzione del soggetto passivo, ma anche della diversa rilevanza da essa assunta. Nel regolamento, la sostenibilità è considerata ora sul piano del rischio per il rendimento finanziario (art. 6); ora come parametro integrativo per le politiche di remunerazione (art. 5); ora come fattore suscettibile di essere negativamente inciso dalle politiche di investimento dell’operatore finanziario (art. 4) o dal singolo prodotto intermediato (art. 7); infine come fattore suscettibile di essere positivamente inciso dal singolo prodotto avente alcune caratteristiche (artt. 8, 10 e 11) o specifici obiettivi (artt. 9, 10 e 11) di sostenibilità. L’efficacia conformativa di questi obblighi di disclosure è fortemente imperniata intorno al meccanismo: comply or explain73.

72 L’art. 2, comma 17, definisce “investimento sostenibile”: un “investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale, misurato, ad esempio, mediante indicatori chiave di efficienza delle risorse concernenti l’impiego di energia, l’impiego di energie rinnovabili, l’utilizzo di materie prime e di risorse idriche e l’uso del suolo, la produzione di rifiuti, le emissioni di gas a effetto serra nonché l’impatto sulla biodiversità e l’economia circolare o un investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo sociale, in particolare un investimento che contribuisce alla lotta contro la disuguaglianza, o che promuove la coesione sociale, l’integrazione sociale e le relazioni industriali, o un investimento in capitale umano o in comunità economicamente o socialmente svantaggiate a condizione che tali investimenti non arrechino un danno significativo a nessuno di tali obiettivi e che le imprese che beneficiano di tali investimenti rispettino prassi di buona governance, in particolare per quanto riguarda strutture di gestione solide, relazioni con il personale, remunerazione del personale e rispetto degli obblighi fiscali”. 73 Non a caso applicabile anche in materia di disclosure non finanziaria, ai sensi della Direttiva 2014/95.

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I destinatari della Direttiva sono tenuti a fornire una “chiara” motivazione circa la mancata considerazione dei fattori di sostenibilità e circa i tempi per un adempimento tardivo rispetto ad un obbligo che, pur non essendo tale sul piano formale, tende a divenirlo sul piano sostanziale. Gli intermediari non sono obbligati ad integrare le politiche di investimento in base ai singoli rischi di sostenibilità. Tuttavia, se non lo fanno, ne devono spiegare il motivo all’interno dell’informativa precontrattuale (art. 6). Nel caso di un prodotto finanziario con caratteristiche (art. 8) o con specifico obiettivo (art. 9) di sostenibilità occorre indicare la tipologia di indice di riferimento prescelta, la sua coerenza rispetto a quelle caratteristiche o a quell’obiettivo, ecc. Nel caso in cui non vi sia un indice di riferimento, occorre fornirne una spiegazione. I partecipanti ai mercati finanziari (di cui all’art. 1, comma 1, n. 1) “devono” (nei casi di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 4) o “possono” considerare nelle proprie decisioni di investimento gli effetti negativi sui fattori di sostenibilità. Ma, anche in questi casi, se non lo fanno, devono motivarne le ragioni sul proprio sito web, come all’interno dell’informativa precontrattuale. Per i consulenti finanziari non esiste mai un obbligo di integrazione. Ma, ancora una volta, sono tenuti a spiegare le ragioni dell’eventuale mancata integrazione di tali considerazioni all’interno delle proprie politiche d’investimento (vedi sempre l’art. 4). Analoghi obblighi, naturalmente, valgono anche ai fini degli effetti negativi imputabili al singolo prodotto finanziario (art. 7). Anche se, in questo caso, la disclosure si applica solo ai partecipanti ai mercati finanziari di cui al citato art. 1, comma 1, n. 1 (non anche ai consulenti finanziari di cui al successivo n. 11). Da notare come l’obbligo di trasparenza non concerne soltanto gli effetti positivi ma anche, e soprattutto, quelli negativi: a livello di politica finanziaria e di prodotto. Il che segna anche un allontanamento significativo di tale disclosure rispetto al modello della CSR, quale strategia comunicativa focalizzata sui soli punti di forza dell’investimento74. L’operatore finanziario, dunque, è formalmente libero di decidere la struttura del proprio prodotto e della propria politica di investimento.

74 Sul rapporto tra disclosure e CSR, tra gli altri, si veda sempre V. Calandra Buonaura, ult. op. cit.

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Negli intenti della riforma, tuttavia, dovrà essere sempre più condizionato da un sistema regolatorio che tenderà ad evidenziarne la minore competitività rispetto a caratteristiche di sostenibilità sempre più rilevanti anche per il singolo investitore (istituzionale o retail)75. Si tratta di una disclosure sempre più pervasiva, anche sul piano degli strumenti utilizzati: il sito web, i documenti di informativa precontrattuale, le relazioni periodiche, l’attività promozionale. I fattori di rischio e gli obiettivi di sostenibilità, in ultima analisi, tenderanno a permeare l’intero processo di strutturazione, promozione e vendita dei prodotti, con impatti significativi su tutti o quasi i processi aziendali76. Alla luce dei predetti obblighi, la stessa disclosure sarà probabilmente il risultato finale di tali processi aziendali: a partire dalla definizione del rapporto rischio/rendimento del prodotto, per poi passare alla definizione del target market e dei criteri di valutazione dell’adeguatezza del prodotto rispetto alle preferenze in materia di sostenibilità del cliente, all’applicazione di criteri e processi di selezione e di due diligence degli investimenti target, ai controlli di conformità e di audit, fino ad arrivare ai vari processi di promozione, distribuzione e revisione della coerenza con le esigenze del target market77. In definitiva, la pervasività di questi nuovi obblighi di disclosure sembra ancora una volta evidenziare la rilevanza ormai assunta dalla sostenibilità. L’intento è quello di favorire la transizione da un mercato dei prodotti finanziari sostenibili alla sostenibilità dell’intero mercato.

75 Sulla crescente sensibilità dei futuri investitori alle tematiche della sostenibilità, cfr. R.J. Jones - T.M. Reilly - M.Z. Cox - B.M. Cole, Gender Makes a Difference: Investigating Consumer Purchasing Behavior and Attitudes Toward Corporate Social Responsibility Policies, in «Corp. Soc. Responsib. Environ. Manag.», 24, 2017, pp. 133- 144; M.G. Luchs - T.A. Mooradian, Sex, Personality, and Sustainable Consumer Behavior: Elucidating the Gender Effect, in «J. Consum. Policy», 35, 2012, pp. 127- 144. Sull’efficacia della disciplina della trasparenza, non solo come strumento di protezione dei contraenti deboli, ma anche di correzione dei comportamenti dei contraenti forti, si rinvia al noto esempio dei venditori di uova di A. Nigro, La lege sulla trasparenza delle operzioni e dei servizi banvati, note introduttive, in Dir. Banc., 1992, I, p. 421 e ss. 76 Cfr. D, Ravegna, Il Regolamento (UE) 2019/2088 in materia di informativa sulla finanza sostenibile: ricognizione normativa e analisi degli impatti operativi sugli intermediari finanziari, consultabile al seguente link: https://www.rplt.it/banking- finance-d3/il-regolamento-ue-2019-2088-in-materia-di-informativa-sulla-finanza- sostenibile-ricognizione-normativa-e-analisi-degli-impatti-operativi-sugli- intermediari-finanziari/ (consultato in data 21 gennaio 2021). 77 Cfr. sempre D. Ravegna, ult. op. cit.

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Non si tratta più di un’innovativa politica d’investimento; di una specifica asset class. Si tratta di un principio ordinatore del mercato finanziario e, per esso, del modello di sviluppo che si vorrebbe imprimere all’intero mercato. A tale obiettivo si accompagna la predisposizione di regole nuove o l’integrazione funzionale di regole preesistenti, come nel caso della disclosure. L’osservazione empirica ci dirà se questi strumenti saranno idonei rispetto al suddetto scopo. Fra le tante sfide che vi si frappongono, si pensi: ai rischi di green washing; all’eccessiva e disomogenea proliferazione di label, standard di classificazione e benchmark di sostenibilità; ai problemi legati all’educazione finanziaria, alla carenza di dati affidabili, aggregabili e confrontabili; alle difficoltà metriche di misurazione degli effettivi impatti positivi o negativi; alla capacità adattativa delle piccole e medie imprese rispetto ai nuovi costi gestionali; ai rischi di information-overload informativo, di over-confidence o di choise-overload; alla necessità di adeguare tali processi all’evoluzione tecnologica del fintech; alle criticità connesse alle esigenze implementative di una regolamentazione di secondo livello che sia coerente ed armonizzata; alle esigenze di gradualità e flessibilità di tale regolamentazione e, in ultima analisi, alle imprevedibili e non sempre razionali reazioni che il mercato potrà avere sul fronte della domanda e dell’offerta di capitali. È plausibile immaginare che, dalla necessità di superare tali ostacoli, dipenderanno molte delle più significative riforme che interesseranno il mercato dei capitali nel prossimo futuro.

Abstract: Disclosure, in the financial field, arises as a function of the fiduciary obligations between broker and client, to guarantee a contractual freedom. Today, the need to direct that development in terms of social and environmental sustainability is increasingly felt. Therefore, the disclosure has a new function: not only to inform the client, but also to conform the market. In this direction, the paper gives a first reading of the recent EU Reg. no. 2019/2088, on ESG disclosure, and of the other regulatory acts prepared by the European Commission, on Sustainable Finance.

Key words: sustainable, sustainaibility, finance, disclosure, market, investor, client, ESG, broker, green washing.

242 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

PAWEŁ MALECHA Promotore di Giustizia Sostituto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica

Alcune riflessioni sui poteri decisori del Superiore gerarchico (can. 1739)

English title: Some Reflections Concerning the Decision-Making Power of the Hierarchical Superior (can. 1739) DOI: 10.26350/18277942_000015

Sommario: 1. Premessa. 2. Il ricorso gerarchico e il ruolo del Superiore gerarchico. 3. L’ampia competenza del Superiore gerarchico. 4. Il concetto di opportunità. 5. La decisione sul ricorso. 5.1. La conferma dell’atto impugnato. 5.2. L’invalidità. 5.3. La rescissione (l’annullamento). 5.4. La revocazione. 5.5. La emendazione o la correzione. 5.6. La sostituzione. 5.6.1. La surrogazione. 5.6.2. La obrogazione. 6. Gli altri poteri del Superiore gerarchico. 6.1. Il rigetto. 6.2. La derogazione. 6.3. La mutazione. 6.4. Il risarcimento dei danni. 7. La sanazione. 8. Conclusioni.

1. Premessa

Il Superiore gerarchico, in base al can. 1739, gode di ampio potere discrezionale per risolvere una controversia originata dall’atto amministrativo impugnato. Infatti, egli, in virtù della superiorità gerarchica sull’autore del provvedimento, secondo i casi, può non solo confermare o dichiarare invalido l’atto giuridico impugnato, ma anche rescinderlo, revocarlo, o, qualora ciò gli sembri più opportuno, correggerlo, surrogarlo, obrogarlo. Il Superiore gerarchico però non può – come vedremo – sanare la violazione della legge sia in procedendo, sia in decernendo commessa da parte dell’autore del decreto impugnato. L’oggetto di questo studio sarà proprio il potere decisorio del Superiore gerarchico, di cui al can. 1739. Tale argomento, a parere di chi scrive, richiede alcune precisazioni e puntualizzazioni per il tramite di una riflessione canonica, perché la questione – nonostante poca ma sufficiente letteratura al riguardo – non è ben conosciuta fra i ministri e cultori di diritto canonico, soprattutto di quello amministrativo. Infatti, essi a volte

 Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 non sono in grado di distinguere a livello teorico il significato dei diversi termini tecnico-giuridici contenuti nel sopra citato canone; di conseguenza, accadono talora errori anche nell’esercizio del potere decisorio.

2. Il ricorso gerarchico e il ruolo del Superiore gerarchico

In questo paragrafo si vuole offrire una chiave di lettura introduttoria alla retta comprensione dei poteri decisori del Superiore gerarchico. Pertanto, porteremo ora brevemente la nostra attenzione sul ricorso gerarchico e sul ruolo del Superiore gerarchico. Con il ricorso in parola «si adisce il Superiore, in linea gerarchica, dell’autorità, che ha prodotto il decreto che si assume lesivo, per chiedere la verifica dell’atto amministrativo stesso»1. In altri termini, il Superiore gerarchico viene chiamato nel caso a giudicare l’operato del subordinato. La norma essenziale al riguardo si trova nel can. 1737, soprattutto nel § 12, in cui viene stabilito che chi si senta gravato da una decisione può ricorrere al Superiore gerarchico di colui che ha emesso l’atto amministrativo singolare, per un qualsiasi motivo giusto. Va messo in evidenza che per presentare ricorso gerarchico, che deve essere redatto per iscritto, a norma del can. 1737, § 1, si richiede che il ricorrente, da una parte, sia gravato da una decisione, e il gravamen viene inteso quale lesione di un diritto che appartiene al ricorrente. Dall’altra parte, lo stesso ricorrente può addurre un qualsiasi motivo giusto, compresi anche motivi di opportunità e discrezionalità. A questo punto è conveniente osservare che il ricorrente, oltre al gravamen, deve anche dimostrare – come insegna la giurisprudenza della Segnatura Apostolica – la legittimazione attiva a ricorrere, cioè un interesse dovuto a un vantaggio concreto che gli possa derivare dalla vittoria nel ricorso di specie. Tale interesse deve essere personale, diretto e attuale, esplicitamente tutelato e protetto dalla legge3.

1 Cf. G.P. MONTINI, Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli, in Quaderni di diritto ecclesiale 8 (1995), p. 299. 2 «Chi sostiene di essere onerato da un decreto, può ricorrere al Superiore gerarchico di colui che ha emesso il decreto, per un motivo giusto qualsiasi; il ricorso può essere presentato avanti all’autore stesso del decreto, il quale lo deve immediatamente trasmettere al Superiore gerarchico competente» (can. 1737, § 1). 3 Cf. SUPREMO TRIBUNALE DELLA SEGNATURA APOSTOLICA (= STSA), decreto dell’Ecc.mo Segretario dell’8 settembre 2014, prot.n. 49273/14 CA, p. 2 e Communicationes 10 (1988), pp. 90-91, nn. 3 e 4.

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Il ricorso gerarchico obbliga il Superiore a pronunciarsi. Se, invece, il Superiore gerarchico non risponde entro i termini stabiliti dalla legge, si presuppone che la sua risposta sia negativa4.

3. L’ampia competenza del Superiore gerarchico

Il Superiore gerarchico che è chiamato a definire il ricorso gerarchico cioè a rispondervi, in virtù del can. 1739 può «a seconda dei casi, non solo confermare o dichiarare invalido il decreto, ma anche rescinderlo, revocarlo, o, se ciò sembra al Superiore più opportuno, correggerlo, surrogarlo, obrogarlo»5. Dal testo del can. 1739 emerge quindi che la competenza del Superiore gerarchico si estende sia alla legittimità, sia al merito, e può andare anche oltre i limiti della petizione fatta dal ricorrente (ex officio e dunque di fatto praeter recursum). Infatti, il canone contempla la possibilità di risolvere il ricorso anche in base a motivi di opportunità, di convenienza, di buona amministrazione, ecc6. L’ampia competenza del Superiore gerarchico, di cui al citato can. 1739, viene confermata anche dall’art. 136, § 1, del Regolamento Generale della Curia Romana che recita: «I ricorsi gerarchici alla Santa Sede contro i decreti amministrativi di autorità ecclesiastiche sono esaminati sia nella legittimità che nel merito dal Dicastero competente, a norma del diritto»7. Infine, le estese e variegate facoltà del Superiore gerarchico vengono confermate dalla costante giurisprudenza della Segnatura Apostolica8.

4 Sulle diverse tipologie di ricorsi, ad es., si veda: P. MALECHA, Il ricorso: strumento per rivendicare e difendere i diritti dei fedeli, in Adnotatio iurisprudentiae, Supplementum 4, Brno 2018, pp. 158-170. 5 «Superiori, qui de recursu videt, licet, prout casus ferat, non solum decretum confirmare vel irritum declarare, sed etiam rescindere, revocare, vel, si id Superiori magis expedire videatur, emendare, subrogare, ei obrogare» (can. 1739). 6 Cf. J. FÜRNKRANZ, Effizienz der Verwaltung und Rechtsschutz im Verfahren. Can. 1739 in der Dynamik der hierarchischen Beschwerde, Paderborn 2014, pp. 265-267. Si veda anche: M. MARCHESI, I ricorsi gerarchici presso i Dicasteri della Curia Romana, in Ius Ecclesiae 8 (1996), pp. 93-94. 7 AAS 91 (1999), p. 683. 8 Cf., ad es., STSA, prot. nn.: 20012/88 CA, 31858/00 CA, 34723/03 CA, 37352/05 CA, 37574/05 CA, 46165/11 CA, 47546/13 CA, 47832/13 CA, 50175/15 CA, 50342/15 CA, 52094/16 CA. Nella sentenza definitiva del 25 maggio 2015, coram Sistach, si espone al riguardo: «Scribit D.nus Jorge Miras quoad decretum, quo recursus hierarchicus definitur: “En la redacción se tiene en cuenta, ciertamente, la consideración de las cuestiones de legalidad, requisitos de validez, pero también se incluye la posibilidad de resolver el recurso atendiendo a motivos de oportunidad, de conveniencia, de buena administración, etc.” (Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. IV, 2, Pamplona 1997, 2a ed., 2153). Scribit insuper: “El Superior, como puede advertirse, no se encuentra limitado, en cuanto a sus posibilidades de resolución, por las restricciones

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4. Il concetto di opportunità

L’opportunità, di cui al can. 1739, non è sinonimo di arbitrarietà, di capriccio o di mancanza di ragioni. Infatti, il concetto di opportunità suppone la legittimità: «tra legalità in senso stretto e illegalità conclamata c’è una fascia – più o meno ampia, a seconda dei casi – in cui sussiste la discrezionalità, che non è un semplice spazio per l’esercizio arbitrario dell’autorità, ma la possibilità di scegliere tra diversi mezzi, ugualmente legittimi, onde provvedere a una determinata necessità. La scelta – la decisione – che si adotta in ciascuna fattispecie, sarà basata su determinati motivi, criteri, valutazioni ecc. che il [S]uperiore gerarchico può, a sua volta, ponderare di nuovo»9. Il Superiore gerarchico gode quindi di facoltà di esercitare il suo ampio potere secondo le necessità del caso per rendere il proprio atto (la propria decisione) discrezionale, opportuno, conveniente o utile. La mancanza, invece, di valutazione da parte del Superiore di per sé non produrrebbe l’illegittimità del suo atto, ma potrebbe renderlo inopportuno, sconveniente o inutile.

5. La decisione sul ricorso

La decisione del Superiore gerarchico, che decide sul ricorso gerarchico contro l’atto giuridico dell’autorità inferiore, a norma del can. 1739, può assumere diverse modalità. Esamineremo ora brevemente le diverse possibilità offerte dal menzionato canone.

5.1. La conferma dell’atto impugnato

Quando il Superiore conferma la decisione dell’autorità inferiore, si suppone che egli consideri legittimo l’atto impugnato; tale conferma può avvenire in forma communi o in forma specifica10. Attraverso la conferma in forma specifica, il Superiore fa espressamente propria la decisione dell’autorità subordinata. Tale conferma richiede una que afectan al juez en el recurso contencioso-administrativo… El Superior jerárquico es autoridad administrativa y resuelve el recurso administrando, gobernando in actu sobre la misma materia objeto de la decisión del autor del acto impugnado, que ha pasado a ser de su competencia; y sus atribuciones sobre la cuestión son las mismas que tenía el autor del acto, pero en un grado jerárquicamente superior” (ibid.)» (STSA, prot. n. 47832/13 CA, n. 6). 9 J. MIRAS, J. CANOSA, E. BAURA, Compendio di diritto amministrativo canonico, Roma 2007, p. 329. 10 Cf. G.P. MONTINI, De recursibus hierarchicis, Roma 2011, pp. 101-104.

246 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 revisione integrale del decreto impugnato, cioè sia circa la sua legittimità che il merito. Anche se questa forma di conferma è menzionata solo nel Codice di Diritto Canonico in relazione alle decisioni prese dal Papa (cf. can. 1405, § 2), in linea di principio non può escludersi la conferma in forma specifica altresì da parte del Superiore gerarchico. In altre parole, se il Superiore vuole confermare in forma specifica l’atto impugnato, deve esaminare a fondo tutti i profili della decisione impugnata, cioè sia la legittimità che il merito. Se, invece, il Superiore si limita a un esame parziale dell’atto giuridico impugnato o al trattamento dei motivi addotti nel ricorso, si è di fronte a una conferma in forma communi, con la quale il Superiore non adotta integralmente l’atto impugnato 11 . In altri termini, se il Superiore gerarchico si limita soltanto ai profili di legittimità o a quelli di legittimità e/o di merito indicati nel ricorso quali violazioni di legge, si tratta della conferma in forma comune. Comunque sia, la distinzione fra le forme di conferma sembra che non abbia rilevanza in questo canone, ma la assuma unicamente nel contesto della riparazione dei danni.

5.2. L’invalidità

Il Superiore gerarchico può dichiarare invalido (irritum declarare) l’atto impugnato. Tale dichiarazione è ovviamente una conseguenza della presenza di un motivo di nullità nell’atto impugnato, di cui ai cann. 1012 e 12413. L’atto giuridico, infatti, in alcuni casi, può essere dichiarato invalido per assenza di un elemento essenziale o dei requisiti previsti dal diritto per la validità di questo tipo di atto (cf. can. 124, § 1) o a causa della presenza di un vizio di procedura esplicitamente sanzionato con la nullità (cf. can. 10). Infine, va notato che a volte l’atto giuridico è nullo ipso iure,

11 Cf. J. FÜRNKRANZ, Effizienz der Verwaltung…, op. cit., p. 202-203. 12 «Sono da ritenersi irritanti o inabilitanti solo quelle leggi, con le quali si stabilisce espressamente che l’atto è nullo o la persona è inabile» (can. 10). 13 «§1. Per la validità dell’atto giuridico, si richiede che sia posto da una persona abile, e che in esso ci sia ciò che costituisce essenzialmente l’atto stesso, come pure le formalità e i requisiti imposti dal diritto per la validità dell’atto. § 2. L’atto giuridico posto nel dubito modo riguardo ai suoi elementi esterni si presume valido» (can. 124).

247 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 per mancanza assoluta di potere o di competenza di chi ha prodotto tale atto (cf. can. 3514). Siccome, tuttavia, la nullità non opera automaticamente, gli atti, che si ritengano nulli, obbligano il destinatario finché non venga pronunciata la relativa dichiarazione di nullità. I danni che derivano invece dall’atto nullo possono essere chiesti dal momento in cui tale atto è entrato in vigore.

5.3. La rescissione (l’annullamento)

La rescissione dell’atto giuridico valido è una delle conseguenze delle circostanze contemplate dal diritto (cf. ad es. can. 125, § 215). Si tratta dei casi in cui l’atto impugnato ha un vizio che non implica la sua nullità assoluta o ipso iure, «ma potrebbe produrre la sua rescissione a istanza dell’interessato. “In questi casi – a differenza della ipotesi di nullità assoluta – la decisione produrrà effetti dal momento in cui essa viene presa (ex nunc), e non automaticamente dal momento dell’emissione dell’atto annullato”»16. In un voto pro rei veritate, preparato dal Promotore di Giustizia della Segnatura Apostolica, viene esposta la dottrina e la giurisprudenza del Supremo Tribunale circa la rescissione17. Al proposito si afferma che: a) la rescissione presuppone che l’impugnato atto amministrativo dell’autorità inferiore è valido; b) la rescissione è un atto costitutivo, non dichiarativo, cioè la stessa rescissione non dichiara l’atto nullo, ma lo rende tale; c) la rescissione presuppone infine la presenza della causa giusta e ragionevole che faccia riferimento alle circostanze del caso e alla gravità delle lesioni.

14 «L’atto amministrativo singolare, si tratti di un decreto o di un precetto oppure si tratti di un rescritto, può essere prodotto, entro i limiti della sua competenza, da colui che gode di potestà esecutiva, fermo restando il disposto del can. 76, § 1» (can. 35). 15 «L’atto posto per timore grave, incusso ingiustamente, o per dolo, vale, a meno che non sia disposto altro dal diritto; ma può essere rescisso per sentenza del giudice, sia su istanza della parte lesa o dei suoi successori nel diritto, sia d’ufficio» (can. 125, § 2). Va citato anche il can. 126 che recita: «L’atto posto per ignoranza o per errore, che verta intorno a ciò che ne costituisce la sostanza, o che ricada nella condizione sine qua non, è nullo; altrimenti vale, se dal diritto non è disposto altro, ma l’atto compiuto per ignoranza o per errore può dar luogo all’azione rescissoria a norma del diritto». Inoltre, della rescissione trattano i seguenti canoni del Codice latino: 149, § 2, 166, § 2, 1451, § 2, e il nostro can. 1739 che è l’oggetto di questo studio. 16 J. MIRAS, J. CANOSA, E. BAURA, Compendio di diritto…, op. cit., p. 330. 17 Cf. STSA, prot. n. 52455/17 CA.

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Pertanto, il Superiore gerarchico, che vuole rescindere il valido atto amministrativo impugnato, viola la legge, quando: 1) non ci sia la causa giusta oppure 2) questa causa non sia congrua e ragionevole e 3) a seguito dell’atto impugnato la parte ricorrente non subisca lesione.

5.4. La revocazione

La revocazione è il provvedimento che lascia senza effetto il precedente atto, senza necessità di porre al suo posto un altro atto in merito alla stessa questione. Il Codice di Diritto Canonico si serve della parola revocatio 46 volte, raramente però nel significato originale di richiamo (cf. cann. 271 e 362) o di promemoria (cf. can. 1562, § 1), ma piuttosto nel significato di revocazione di provvedimenti e atti giuridici, non esclusi anche atti amministrativi (cf. cann. 47; 58, § 1; 73; 79 e innanzitutto cann. 1732-1739)18. L’atto revocato non ha vizi di nullità; infatti, se così fosse, l’atto potrebbe essere dichiarato invalido o rescisso. Si tratta quindi dell’atto che il Superiore gerarchico revoca per motivi di opportunità, perché ritiene che esso non sia necessario, conveniente, utile o proporzionatamente gravoso, ecc. In una causa, a suo tempo pendente presso la Segnatura Apostolica, si è posta la questione in iure se l’autorità ecclesiastica inferiore, al fine di dichiarare la lite finita presso la Segnatura Apostolica, potesse revocare l’atto amministrativo singolare da essa stessa emesso, senza il consenso della Congregazione competente, che aveva già confermato la decisione dell’autorità inferiore 19 . Non vi è dubbio che, secondo la costante giurisprudenza della Segnatura Apostolica, dopo la revoca da parte dell’autorità ecclesiastica dell’atto amministrativo impugnato, la lite presso la Segnatura Apostolica venga sempre dichiarata finita. Ma questo principio generale non determinava quale fosse l’autorità ecclesiastica competente nel caso, cioè l’autorità inferiore o quella superiore. Durante

18 Ad es., in una causa il Superiore gerarchico ha deciso: «This Congregation hereby decrees that the petition for hierarchical recourse, as presented, against the impugned decree of 3 January 2019 has merit in decernendo, and that the aforesaid singular administrative act must be revoked, and is hereby revoked, in accord with the norm of CIC canon 1739» (STSA, prot. n. 54523/19 CA). 19 «Quaestio iuris in casu est utrum auctoritas inferior revocare valeat, necne, actum administrativum singularem a se latum et a Dicasterio competenti probatum sine eiusdem consensu (saltem tacito) et a fortiori eiusdem consensu expresse denegato, adeo ut lis coram H.S.T. pendens habeatur finita» (STSA, decretum definitivum diei 14 novembris 2007, coram Echevarría Rodríguez, n. 6, prot. n. 37352/05 CA).

249 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 la discussione nel Collegio dei Giudici si è osservato che, a norma dell’art. 123, § 1, della Costituzione Apostolica Pastor bonus, l’oggetto diretto della lite presso la Segnatura Apostolica è l’atto amministrativo singolare emanato dal Dicastero competente, non invece l’atto amministrativo dell’autorità ecclesiastica inferiore. Visto che nel caso l’autorità ecclesiastica superiore si era già espressa sulla decisione dell’autorità inferiore, ossia che l’autorità superiore manus super casum apposuit, venne deciso pertanto che l’autorità inferiore non potesse revocare l’atto approvato dall’autorità superiore senza il suo consenso 20 . Infatti, l’autorità superiore aveva già fatto proprio l’atto del Superiore inferiore.

5.5. La emendazione o la correzione

A volte il Superiore gerarchico ritiene che l’atto impugnato debba essere conservato, introducendone però delle modificazioni. Ciò si fa come modo per perfezionare, in alcuni elementi difettosi o poco opportuni, l’atto che di per sé viene considerato da parte del Superiore gerarchico corretto nella sostanza. In concreto si può trattare, ad esempio, degli errori materiali o delle espressioni poco opportuni. Il Superiore gerarchico può anche modificare i motivi della decisione, come è avvenuto – soltanto a titolo esemplificativo – in una causa, nella quale la Congregazione per il Clero ha corretto il decreto del Superiore inferiore, supplendo la parte motiva, perché essa non era ben chiara 21 . Infine, per il tramite dell’emendazione si dà senza dubbio una certa soddisfazione al ricorrente.

5.6. La sostituzione

L’ultima delle possibili decisioni del Superiore gerarchico, previste nel contemplato can. 1739, è la sostituzione dell’atto amministrativo. E ciò si ha «quando il contenuto del nuovo provvedimento è diverso, vale a dire,

20 Cf. STSA, prot. n. 37352/05 CA, n. 6. 21 «At, uti Rev.mus Promotor Iustitiae recte animadvertit, argumentum adductum ruit, quia Congregatio pro Clericis praescriptum can. 1739 explicite invocavit, quod Superiori hierarchico facultatem tribuit actum impugnatum corrigendi. Nam ex contextu satis clare apparet quod, praetermissis quibusdam locutionibus minus accuratis, Congregatio decretum Em.mi Ordinarii N. correxit, motiva supplendo quibus id carebat. Quam ob rem dubitari nequit hac in re de legitimitate in procedendo» (STSA, sententia definitiva diei 27 novembris 2012, coram Rouco Varela, n. 4, prot. n. 46165/11 CA).

250 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 allorché non sia possibile stabilire un’identità sostanziale con l’atto impugnato»22. L’abrogazione, la derogazione, la obrogazione e la surrogazione – come scrive G.P. Montini – «sono termini tecnici giuridici che hanno attinenza alla cessazione o al cambiamento di una legge. La loro origine etimologica, come pure tecnica, è nell’ambito del diritto romano, da cui sono poi passate, per il tramite del diritto medievale, nel linguaggio giuridico odierno sia canonico sia degli ordinamenti giuridici statali moderni»23. Il Legislatore canonico però non favorisce l’uso dei sopra menzionati termini24. Infatti, nel Codice di Diritto Canonico il loro uso è piuttosto raro e spesso vengono utilizzate voci generiche quali revocare (cf. can. 21), cessare (cf. cann. 33, § 2, 34, § 3 e 58, § 1), mutare (cf. can. 1313, § 1) e tollere (cf. can. 1313, § 2)25. Comunque sia, considerati altrettanti tipi di sostituzioni, nel testo del can. 1739 la sostituzione appare solo sotto due denominazioni: surrogazione e obrogazione.

5.6.1. La surrogazione

La surrogazione è una sostituzione molto particolare 26 in quanto non implica la revocazione di una legge, ma significa – strettamente parlando – la aggiunta di una nuova legge a quella già esistente. In altri termini, attraverso la surrogazione la legge precedente non viene né revocata né mutata, ma completata e ampliata con una nuova normativa27. Nel can. 1739, tuttavia, la surrogazione non si riferisce a una legge, ma a un atto amministrativo. Ciò significa che il Superiore gerarchico può aggiungere a un atto amministrativo dell’autorità inferiore una nuova

22 J. MIRAS, J. CANOSA, E. BAURA, Compendio di diritto…, op. cit., p. 331. 23 G.P. MONTINI, Il Diritto Canonico dalla A alla Z. A. Abrogazione derogazione obrogazione surrogazione, in Quaderni di Diritto Ecclesiale 5 (1992), p. 245. 24 Abrogare ricorre 4 volte nel Codice di Diritto Canonico del 1983 (cf. cann. 3, 6, § 1, 20, 505) e 3 volte nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (cf. cann. 4, 6, n. 1; 1502, § 1); derogare ricorre 6 volte nel Codice vigente (cf. cann. 3, 20, 33, § 1, 34, § 2, 1670) e 3 volte nel Codice Orientale (cf. cann. 4, 1502, §§ 1-2); obrogare ricorre 2 volte nel Codice del 1983 (cf. cann. 53 e 1739), mentre non si trova nel Codice Orientale; subrogare infine ricorre 3 volte nel Codice vigente (cf. cann. 1425, § 5, 1624, 1739) e una sola volta nel Codice Orientale (cf. can. 1305). 25 Cf. G.P. MONTINI, Il Diritto Canonico dalla A alla Z…, op. cit., p. 256. 26 La surrogazione in senso proprio di sostituzione si riferisce a persone (cf. cann. 1425, § 5, e 1624). 27 Il significato originario giuridico del termine subrogare è esposto in modo molto chiaro da ULPIANO: «Lex […] subrogatur, idest adicitur aliquid primae legi» (Liber singularis regularum, § 3).

251 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 parte del ragionamento sia in iure che in facto. Si evince, pertanto, che il Superiore gerarchico gode di facoltà di completare l’atto impugnato. Di conseguenza la surrogazione di un decreto impugnato indica l’aggiunta di una decisione a quella precedente che è stata impugnata con ricorso gerarchico28.

5.6.2. La obrogazione

La obrogazione (da non confondersi con il termine abrogazione29) è la mutazione di una legge attraverso la promulgazione di una nuova legge, emanata al fine di sostituire la precedente30. L’elemento più significativo dell’obrogazione è che la revocazione (cancellazione) della legge precedente avviene per il tramite di una nuova legge. Inoltre, si tratta di una nuova legge non semplicemente diversa, ma addirittura contraria a quella precedente, come si deduce dal contesto, in cui il verbo obrogare viene usato nel can. 53. Infatti, nel menzionato canone si legge: «Se i decreti sono tra di loro contrari, quello peculiare, nelle cose che vengono espresse in modo peculiare, prevale su quello generale; se sono ugualmente peculiari o generali, quello successivo nel tempo obroga il precedente, nella misura in cui gli è contrario». Va notato che l’obrogazione può cancellare una legge per il tramite di una nuova legge sia totalmente (l’obrogazione in senso proprio) che parzialmente (l’obrogazione in senso proprissimo). Il termine obrogare, presente soltanto nei canoni 53 e 1739 del nuovo Codice, non si riferisce a una legge, ma ovviamente ad atti amministrativi. Si potrebbe applicare l’obrogazione, ad esempio, nei casi in cui il Superiore gerarchico ritenga che la revoca dell’atto impugnato che leda un vero e proprio diritto non sia sufficiente e che, per questo motivo, sia più

28 Al riguardo si veda ad es.: J. FÜRNKRANZ, Effizienz der Verwaltung…, op. cit., pp. 217-220. 29 Occorre notare che per abrogazione si intende la revocazione di una intera legge precedente: «Lex posterior abrogat priorem […] si id expresse edicat […]» (can. 20), comprendendo in tal modo anche la revocazione implicita di una legge, ossia il concetto di obrogazione in senso proprio. Tuttavia, l’abrogazione è accuratamente da distinguere dalla obrogazione. Ma «[i]n concreto a volte vi può essere una qualche difficoltà perché è raro che il Legislatore si limiti a revocare una legge; di solito la revocazione è strettamente connessa con la promulgazione di una nuova normativa» (G.P. MONTINI, Il Diritto Canonico dalla A alla Z…, op. cit., p. 254). 30 ULPIANO definisce il termine obrogare così: «Lex […] obrogatur, idest mutatur aliquid ex prima lege» (Liber singularis regularum, § 3).

252 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 opportuno tutelare e riconoscere tale diritto violato, mediante un nuovo atto amministrativo che lo protegga esplicitamente31.

6. Gli altri poteri del Superiore gerarchico

Nel can. 1739, tuttavia, non sono recensiti tutti i poteri decisori del Superiore gerarchico. Infatti, emerge dalla giurisprudenza della Segnatura Apostolica che il Superiore gerarchico gode anche di altri poteri che, ad esempio, gli permettono di rigettare il ricorso, derogare o mutare il decreto impugnato nonché stabilire la riparazione dei danni conseguenti all’atto impugnato. Si deduce pertanto che l’elenco dei poteri decisori del Superiore gerarchico, di cui al can. 1739, non è tassativo, ma solo dimostrativo32.

6.1. Il rigetto

Il Superiore gerarchico non di rado respinge il ricorso gerarchico, ciò avviene quando il ricorso è indubbiamente e manifestamente privo di qualche presupposto e/o di fondamento 33 . Nella prassi si ritiene comunemente e anche erroneamente che il rigetto del ricorso equivale alla conferma del decreto impugnato. Ma il rigetto non comporta automaticamente il timbro di conferma del decreto impugnato da parte dell’autorità superiore, perché il ricorso gerarchico si riferisce non soltanto ai vizi del decreto impugnato, ma anche al merito; pertanto, il ricorso gerarchico è sempre determinato dai motivi addotti. Il Superiore gerarchico può quindi decretare semplicemente il rigetto del ricorso oppure confermare l’atto amministrativo emesso dall’autorità inferiore34.

6.2. La derogazione

31 Cf. J. MIRAS, Comentario (can. 1739), in A. MARZOA, J. MIRAS e R. RODRÍGUEZ- OCAÑA (a cura di), Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, Pamplona 1996, vol. IV/2, pp. 2163-2164. 32 Cf. G.P. MONTINI, De recursibus hierarchicis, Roma 20162, pp. 114-115. 33 Cf., ad es., STSA, prot. nn. 55000/20 CA, 55183/20 CA o 55285/20 CA. In quest’ultima causa si legge nella parte dispositiva del decreto del Superiore gerarchico: «This Congregation hereby decrees that the petition for hierarchical recourse, as presented against the 12 February 2020, decree of the […] Archbishop of […], which merged Saint N. Parish, […], and Y. Parish, […] by an extinctive union, with Y. designated as the Parish Church, has no foundation either in law or in fact and is rejected, both in procedendo and in decernendo». 34 Cf. G.P. MONTINI, De recursibus …, op. cit. in nota n. 10, pp. 107-108.

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«In senso proprissimo per derogazione si intende una qualsiasi revocazione parziale esplicita di una legge precedente. In senso proprio il concetto di derogazione comprende pure la revocazione parziale implicita (cf. la obrogatio) e perciò intende designare qualsiasi revocazione parziale di una legge preesistente. In questo significato è usato nei canoni 3 e 20 del nostro Codice»35. La derogazione dell’atto amministrativo impugnato si ha quando il Superiore gerarchico lo conferma soltanto parzialmente, cioè quando una parte del decreto impugnato con il ricorso gerarchico viene confermata, mentre un’altra no. Questo avviene quando l’autorità inferiore emana – a titolo esemplificativo – quattro decisioni, di cui solo una viene approvata dall’autorità superiore, invece le altre tre no36.

6.3. La mutazione

A volte succede che il Superiore gerarchico muti del tutto il provvedimento del Superiore inferiore, sostituendolo con un provvedimento del tutto diverso: dalla rimozione dall’ufficio alla semplice ammonizione o dalla dimissione di un religioso dall’istituto all’esclaustrazione imposta37.

6.4. Il risarcimento dei danni

Infine si deve tenere presente che il Superiore gerarchico dovrà prendere in considerazione gli eventuali danni causati dall’atto amministrativo. Perciò, qualora essi siano stati richiesti, il Superiore gerarchico può decidere sulla riparazione dei danni, subiti a seguito dell’atto impugnato38.

7. La sanazione

35 Ibid., p. 109. 36 Si veda, ad es., STSA, prot. n. 54188/19 CA. 37 Cf. G.P. MONTINI, De recursibus …, op. cit. in nota n. 10, p. 110. 38 Cf. ibid. In una causa, ad es., il Superiore gerarchico ha revocato la decisione dell’autorità inferiore, decidendo in pari tempo sulla riparazione dei danni: «[…] Furthermore, the Congregation directs the Ordinary to restore the Recurrent’s praevidentia to its status quo ante and to pay restitution to the Recurrent for four months’ income illegitimately withdrawn» (STSA, prot. n. 54523/19 CA).

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Il Superiore gerarchico, ancora fino a poco tempo fa, a volte, sanava alcuni errori sia in procedendo, che in decernendo commessi da parte del Superiore inferiore. Infatti, a titolo di esempio, in un decreto emesso da una delle Congregazioni si legge al riguardo: «Seppure in maniera succinta, il Decreto episcopale, di cui il Ricorrente chiede la revoca, ha un suo fondamento, dato che è il frutto della prolungata e durevole permanenza del chierico in stato di disobbedienza nei confronti del suo Vescovo. Tuttavia, vi sono alcune omissioni, che vanno sanate, sia in procedendo, che in decernendo»39. A tale proposito sorge una domanda sull’ambito del potere decisorio del Superiore gerarchico, ossia se egli, nell’esercizio del suo potere, possa sanare o meno l’illegittimità della decisione impugnata. La domanda proposta è di grande rilievo. La risposta ad rem è stata data dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica con la sentenza definitiva coram Daneels del 2 ottobre 2018. Con questa sentenza, esattamente, è stato chiarito e contemporaneamente messo in evidenza che il Superiore gerarchico in nessun modo gode della facoltà di sanare l’illegittimità della decisione dell’autorità inferiore40. E, come recita la menzionata sentenza, è così perché: «Codex Iuris Canonici, ceterum, tantum, servatis condicionibus peculiaribus, cavet de sanatione in quibusdam casibus specificis, scilicet de sanatione in radice matrimonii irriti (cf. cann. 1161- 1165), de sanatione actuum in iure processuali (cf. can. 1619) et de sanatione sententiae vitio nullitatis sanabilis affectae (cf. cann. 1622- 1623), sed nullibi praevidet sanationem uti institutum generale. Iamvero, Legislator quod voluit dixit, quod noluit tacuit. Quapropter ex silentio de generica facultate sanandi tam in can. 1739 quam in systemate Codis Iuris Canonici concludendum est Superiorem hierarchicum in expendendo recursu hierarchico haudquaquam facultate gaudere decisionis impugnatae sanandae. Quod apprime cohaeret cum regula iuris “Lite pendente nihil innovetur” (can. 1512, n. 5), quae regula utpote regula iuris recursum hierarchicum expendendum procul dubio quoque respicit. Leges, ceterum, quibus recursus hierarchicus regitur processuales habendae sunt, cum in Libro VII de processibus iaceant (cann. 1732-

39 STSA, prot. n. 50342/15 CA. 40 «Can. 1739 Superiori hierarchico in expendendis recursibus hierarchicis amplam facultatem concedit. Qui Superior potest impugnatam decisionem confirmare, irritam declarare, rescindere, revocare, emendare, subrogare vel ei obrogare. Sed ibi nullo modo fit sermo de eius facultate eam sanandi» (STSA, sententia definitiva diei 2 octobris 2018, coram Daneels, n. 6, prot. n. 52094/16 CA).

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1739). Iam satis hac de re, de qua doctrina, toto systemate iustitiae administrativae prae oculis habito, ulterius disserere potest»41. Infine, occorre notare che il Superiore gerarchico il quale, anche se solo ad cautelam, sanasse l’illegittimità della decisione impugnata, commetterebbe l’errore in procedendo, perché egli non gode della facultas sanandi42.

8. Conclusioni

Dopo aver cercato di presentare, per sommi capi, la questione sul potere decisorio del Superiore gerarchico, di cui al can. 1739, emerge che egli gode di ampia competenza. Infatti, secondo i casi, egli può non solo confermare o dichiarare invalido l’atto giuridico impugnato, ma anche rescinderlo, revocarlo, o, qualora ciò gli sembri più opportuno, correggerlo, surrogarlo, mediante eventuali aggiunte, obrogarlo, mediante differenti disposizioni. Tuttavia, tale elenco dei poteri decisori del Superiore gerarchico non è tassativo, ma solo dimostrativo. Infatti, il Superiore gerarchico gode anche di altri poteri che, ad esempio, gli permettono di rigettare il ricorso, derogare o mutare il decreto impugnato nonché stabilire la riparazione dei danni conseguenti all’atto impugnato. Il Superiore gerarchico però non può sanare la violazione della legge sia in procedendo, sia in decernendo commessa da parte dell’autore del decreto impugnato.

Abstract: The object of this article is the decision-making power of the hierarchical superior, who – by virtue of the prescription of can. 1739 – may, according to the case, not only confirm or declare the contested legal act invalid, but also rescind it, revoke it, or, if it seems more appropriate, correct it, subrogate it, obrogate it. However, this list of the decision-making powers of the higher authority is not exhaustive, but only demonstrative. In fact, the hierarchical superior also enjoys other powers which, for example, allow him to reject the appeal, derogate or change the contested decree and establish the reparation of damages resulting from the contested act. The hierarchical superior, however, cannot sanate the violation of the law both in procedendo and in decernendo committed by the lower authority.

Key words: hierarchical superior, juridical act, confirm, invalidity, rescind, revoke, correct, subrogate, obrogate, derogate, reject, change, senate, reparation of damages.

41 Ibid. 42 Cf., ibid., n. 11.

256 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

Manlio Miele Professore Ordinario di Diritto canonico ed ecclesiastico, Università degli Studi di Padova

La sinodalità tra principio e metodo: brevi note*

English title: Synodality: a principle and a method. Some remarks Numero DOI: 10.26350/18277942_000023

Sommario: Introduzione. 1. Sinodalità e collegialità. 2. La creazione del sinodo dei vescovi. 3. Interazione tra il sinodo ed il Collegio dei cardinali. 4. Un metodo rinnovato. Conclusioni

Introduzione

Papa Francesco, nella commemorazione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, ha sottolineato che «il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», trattandosi della «dimensione costitutiva della Chiesa» ed essendo, «quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, […] già tutto contenuto nella parola “sinodo”»1. Per il Pontefice si tratta di un vero e proprio impegno programmatico, che lo ha portato ad intervenire più volte sul tema, sia a livello teorico- dogmatico, per spiegare come la sinodalità debba essere intesa e come essa si declini all’interno della struttura gerarchica della Chiesa, sia a livello “fattuale-normativo”, con la costituzione apostolica Episcopalis communio con cui il 15 settembre 2018 ha riformato la disciplina del Sinodo dei Vescovi2. Non poteva essere altrimenti, alla luce dell’impostazione che Papa Francesco ha voluto dare al proprio Pontificato. Parlare di sinodalità,

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015, in AAS 107 (2015) 1139. Per un approfondimento tematico centrato sulle relative coordinate teologico-pastorali, cfr. M. Brunini, In cammino verso la sinodalità ecclesiale sospinti da papa Francesco, «Rassegna di teologia» 59 (3/2018), 419-440; F. Mandreoli (a cura), La teologia di Papa Francesco. Fonti, metodo, orizzonte e conseguenze, Dehoniane, Bologna 2019; E. Galavotti, Jorge Mario Bergoglio e il concilio Vaticano II: Fonte e metodo, 61-87. 2 Si veda anche, in questo contesto, l’Istruzione sulla celebrazione delle Assemblee Sinodali e sull'attività della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, approvata il 1 ottobre 2018 dalla Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 infatti, significa parlare di un principio costitutivo della Chiesa e della sua dimensione più autentica3; significa parlare della Chiesa come comunità4. Nella Nota Preliminare La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018, la Commissione teologica internazionale ha avuto cura di spiegare che, alla luce delle sue fonti normative e dei suoi fondamenti teologali, «la sinodalità designa innanzitutto lo stile peculiare che qualifica la vita e la missione della Chiesa, esprimendone la natura come il camminare insieme e il riunirsi in assemblea del Popolo di Dio convocato dal Signore Gesù nella forza dello Spirito Santo per annunciare il Vangelo. Essa deve esprimersi nel modo ordinario di vivere e operare della Chiesa. Tale modus vivendi et operandi si realizza attraverso l’ascolto comunitario della Parola e la celebrazione dell’Eucaristia, la fraternità della comunione e la corresponsabilità e partecipazione di tutto il Popolo di Dio, ai suoi vari livelli e nella distinzione dei diversi ministeri e ruoli, alla sua vita e alla sua missione». Ancora, ha puntualizzato che «la sinodalità designa poi, in senso più specifico e determinato dal punto di vista teologico e canonico, quelle strutture e quei processi ecclesiali in cui la natura sinodale della Chiesa si esprime a livello istituzionale, in modo analogo, sui vari livelli della sua realizzazione: locale, regionale, universale. Tali strutture e processi sono a servizio del discernimento autorevole della Chiesa, chiamata a individuare la direzione da seguire in ascolto dello Spirito Santo». Infine, ha chiarito che «la sinodalità designa […] l’accadere puntuale di quegli eventi sinodali in cui la Chiesa è convocata dall’autorità competente e secondo specifiche procedure determinate dalla disciplina ecclesiastica, coinvolgendo in modi diversi, sul livello locale, regionale e universale, tutto il Popolo di Dio sotto la presidenza dei Vescovi in comunione collegiale e gerarchica con il Vescovo di Roma, per il discernimento del suo cammino e di particolari questioni, e per l’assunzione di decisioni e orientamenti al fine di adempiere alla sua missione evangelizzatrice»5.

3 Spiega la Commissione teologica internazionale nella Nota Preliminare La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018 (in www.vatican.va) che “Sinodo è parola antica e veneranda nella Tradizione della Chiesa, il cui significato richiama i contenuti più profondi della Rivelazione. Composta dalla preposizione σύν, con, e dal sostantivo ὁδός, via, indica il cammino fatto insieme dal Popolo di Dio. Rinvia pertanto al Signore Gesù che presenta se stesso come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), e al fatto che i cristiani, alla sua sequela, sono in origine chiamati «i discepoli della via» (cfr. At 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22). Nel greco ecclesiastico esprime l’essere convocati in assemblea dei discepoli di Gesù e in alcuni casi è sinonimo della comunità ecclesiale” (n. 3). Cfr. inoltre Arcidiocesi di Milano, La sinodalità nella Chiesa. Un approccio multidisciplinare, Centro Ambrosiano, Milano 2018. 4 Cfr., da ultimo, Congregazione per i Vescovi, Pastori di una Chiesa sinodale. Atti del corso annuale di formazione per i nuovi Vescovi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019. 5 Commissione teologica internazionale nella Nota Preliminare La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018, cit., n. 70. Per una interessante guida alla lettura del documento citato, cfr. P. Coda-R. Repole (a cura), La sinodalità nella

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Dunque, parlare di sinodalità significa anche, da un punto di vista squisitamente giuridico, trattare di un tema molto complesso e difficile da cogliere in tutte le sue declinazioni come pure nel rapporto con un altro principio ecclesiale fondamentale con il quale è strettamente connesso, quello della collegialità, che non può essere compreso fino in fondo se non lo si colloca proprio nell’alveo della sinodalità, di cui costituisce un aspetto assai rilevante, ma non esclusivo6. Il presente studio intende fornire alcune riflessioni sul tema e mostrare come la sinodalità, oltre ad essere un principio fondamentale e costitutivo della dimensione più autentica della Chiesa, sia un metodo che gli ultimi Pontefici e papa Francesco in particolare hanno particolarmente curato e sviluppato.

1. Sinodalità e collegialità

Nella già citata Nota Preliminare La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018 la Commissione teologica internazionale ha sottolineato che «la collegialità […] è la forma specifica in cui la sinodalità ecclesiale si manifesta e si realizza attraverso il ministero dei Vescovi sul livello della comunione tra le Chiese particolari in una regione e sul livello della comunione tra tutte le Chiese nella Chiesa universale. Ogni autentica manifestazione di sinodalità esige per sua natura l’esercizio del ministero collegiale dei Vescovi»7. Eppure, il Concilio Vaticano II, che tanta parte ha avuto nella riscoperta proprio della collegialità e della sacramentalità episcopale8 quali caratteri

vita e nella missione della Chiesa. Commento a più voci al Documento della Commissione teologica internazionale, Dehoniane, Bologna 2019; S. Madrigal Terrazas (a cura), La sinodalidad en la vida y en la misión de la Iglesia. Texto y comentario del documento de la Comisión Teológica Internacional, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 2019. 6 Sia permesso rinviare a M. Miele, Papa Francesco e gli sviluppi recenti del metodo sinodale, in O. Fumagalli Carulli – A. Sammassimo, Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Milano 2015, pp. 317-346, nonché Id., Dalla sinodalità alla collegialità nella codificazione latina, Padova 2004. 7 Commissione teologica internazionale, Nota Preliminare La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018, cit., n. 7. 8 Il Concilio si concentrò sulla collegialità episcopale e Gilles Routhier, a tal proposito, ha parlato addirittura di una «ossessione», nelle discussioni conciliari, relativamente al riconoscimento sia della sacramentalità dell’episcopato che della sua struttura collegiale; ciò avrebbe condotto l’assemblea conciliare sia a trascurare l’articolazione vescovo-Chiesa che alla fissazione sulle attribuzioni di «attori isolati» (papa e vescovi diocesani); cfr. G. Routhier, Perspectives et dimensions d’une recherche sur la synodalité de l’Église, in A. Melloni-S. Scatena (ed.), Synod and Synodality, cit., pp. 91-94. La circostanza, com’è ben noto, era causata da vari fattori tra i quali sicuramente è da annoverarsi una dominante mentalità apologetica nei riguardi della funzione pontificia, di diretta derivazione dal documento del Vaticano I che, di tale funzione, aveva scolpito i caratteri con quei termini squisitamente giuridici, che sarebbero

259 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 della più autentica tradizione della Chiesa che negli ultimi secoli sembravano non essere stati sufficientemente compresi e valorizzati, non si sofferma estesamente né sulla definizione della sinodalità né sulla sua relazione con la collegialità9. Se tale mancanza ancora oggi può sorprendere, sempre la Commissione teologica internazionale ha sottolineato che comunque «l’istanza della sinodalità è al cuore dell’opera di rinnovamento» promossa dallo stesso Concilio, dal momento che «la sinodalità […] indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice»10. Più specificamente ancora, con riferimento al rapporto tra collegialità e sinodalità, la stessa Commissione ha ribadito che «mentre il concetto di sinodalità richiama il coinvolgimento e la partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla vita e alla missione della

confluiti nel can. 218 del Codex del 1917, come ricorda H. Küng, Strutture della Chiesa, trad. it. di P. Bernardini-Marzolla, Torino, 1965, p. 222 e ss. 9 È pur vero che sin dalla chiusura del Concilio si è sviluppato un importante e proficuo dibattito dottrinale, sia in ambito teologico sia in ambito canonistico, teso alla comprensione ed alla valorizzazione del principio sinodale. Sottolinea Giuseppe Alberigo, studioso che della conciliarità fece uno dei propri filoni principali di ricerca, che «intorno agli anni Sessanta del XX secolo si è generalizzata, anche per l’influsso dell’enorme eco suscitata dall’inattesa decisione di Giovanni XXIII di convocare un nuovo concilio, un’attenzione crescente per la dimensione conciliare della chiesa, denominata “conciliarità” o “sinodalità”»; G. Alberigo, Conciliarità, futuro delle chiese, in A. Melloni-S. Scatena (ed.), Synod and Synodality. Theology, History, Canon Law and Ecumenism in new contact (International Colloquium Bruges, 2003), (Christianity and history 1), Münster, 2005, p. 463. Pressappoco lo stesso esordio si ha nell’ultimo scritto lasciato dallo Studioso: G. Alberigo, Sinodo come liturgia, in Il Regno-doc., 52 (2007), pp. 443-456. Sull’argomento si vedano, tra gli altri, Institute for Ecumenical Research (ed.), Communio/Koinonia: A New Testament-Early Christian Concept and its Contemporary Appropriation and Significance, Strasbourg, Institute for Ecumenical Research, 1990; La Synodalité. La participation au gouvernement dans l’Église (Actes du VIIe congrès international de Droit canonique, Parigi, 21-28 settembre 1990), 2 v., in L’Année canonique, hors série (1992); A. Melloni-S. Scatena (ed.), Synod and Synodality. Theology, History, Canon Law and Ecumenism in new contact, cit.; Associazione Teologica Italiana (ed.), Dossier: Chiesa e sinodalità, a cura di G. Ancona, Bergamo, 2005; Associazione Teologica Italiana (ed.), Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, a cura di R. Battocchio e S. Noceti, Milano, 2007. Si veda la nota bibliografica, a partire dal sacramento del battesimo, Baptism and Communio. A Bibliography Compiled by S. Anita Stauffer, with an Introduction by Eugene L. Brand, in The Ecumenical Review, 2000, 52, pp. 261-266, nonché, più specifica, quella di A. Moda, Sulla sinodalità. Per un percorso bibliografico, in Associazione Teologica Italiana (ed.), Dossier: Chiesa e sinodalità, cit., pp. 205-329. V. anche Alberigo, Sinodo come liturgia, cit., p. 445, nota 2. 10 Commissione teologica internazionale, Nota Preliminare La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018, cit., n. 6.

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Chiesa, il concetto di collegialità precisa il significato teologico e la forma di esercizio del ministero dei Vescovi a servizio della Chiesa particolare affidata alla cura pastorale di ciascuno e nella comunione tra le Chiese particolari in seno all’unica e universale Chiesa di Cristo, mediante la comunione gerarchica del Collegio episcopale col Vescovo di Roma»11. Alla luce di tali considerazioni debbono dunque rileggersi le deliberazioni conciliari. Del resto, se è vero che la costituzione dogmatica Lumen gentium evita i termini «sinodalità» e «collegialità»12, è pur vero che il capitolo III della stessa introduce una distinzione netta, ma significativa, tra collegialità episcopale in senso stretto (n. 22) e senso della collegialità («collegialis affectus», n. 23). La determinazione dei confini tra le due forme di collegialità costituisce fin da subito oggetto di diverse interpretazioni 13 ma comunque deve riconoscersi come il n. 23 della Costituzione abbia esplicitato un modo nuovo di parlare dei rapporti tra romano pontefice e vescovi. Il citato passo, infatti, interviene, innanzitutto, a completare la visione del Vaticano I, che nella Pastor aeternus fonda l’unità ecclesiale e dell’episcopato accentuando la funzione solitaria dell’ufficio petrino. Inoltre e soprattutto, però, partendo dalla affermazione per cui «la cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere», esso prevede per i singoli vescovi – al di fuori della concretizzazione di un vero atto collegiale, giuridicamente imputabile cioè al Collegio episcopale come persona morale – ben precisi e puntuali doveri-poteri: della sollecitudine per la Chiesa universale (sollicitudo pro universa Ecclesia); della collaborazione (laborum societas) tra sé e col romano pontefice. Doveri-poteri, questi, indubbiamente derivanti dalla persistenza nella comunione gerarchica, ma comunque espressione di rinnovata impostazione nel rapporto tra le funzioni del papa e quelle dei vescovi14; un’impostazione conforme al principio di comunione.

11 Ivi, n. 7. 12 Cfr. H. Legrand, collégialité, in J.-Y. Lacoste (dir.), Dictionnaire critique de théologie, cit., p. 233; l’Autore, prima di alcuni rilievi critici, ha modo di ricordare come la dottrina sulla collegialità episcopale sia da molti considerata come la «spina dorsale» del Vaticano II. 13 Carlo Colombo, testimone d’eccezione al Concilio in quanto «teologo di fiducia di Paolo VI» (G. Alberigo, Breve storia del concilio Vaticano II, Bologna, 2005, p. 88), vent’anni dopo la sua chiusura aveva modo di raffigurare, la distinzione tra collegialità episcopale in senso stretto e affectus collegialis, come fondamentale e da «intendere bene», giacché «parecchie idee inesatte sono derivate proprio dal trasferire alla prima quanto è detto del secondo, o viceversa dal non comprendere bene la prima, che dev’essere intesa alla luce del secondo». Cfr. C. Colombo, Il compito della teologia, Milano, 1983, p. 196. 14 Durante le assise del Concilio Vaticano II, il dibattito sui rapporti tra l’ufficio petrino e il corpo episcopale si svolge soprattutto in termini di poteri e di prerogative giuridici; cfr. H. Legrand, La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II. Un’indagine e una

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Proprio sul concetto di comunione insiste la Nota esplicativa previa di Paolo VI sul capitolo III della citata costituzione15. In particolare, deve sottolinearsi come essa, da un lato, utilizzi il termine «comunione» in riferimento alla concordia gerarchica necessaria affinché coloro che sono consacrati vescovi possano entrare a far parte del Collegio episcopale; questa concordia (hierarchica communio) deve sussistere con il pontefice, capo del Collegio, e con gli altri membri del Collegio stesso; dall’altro, in relazione al corpus episcoporum, fornisca in negativo – cioè per escluderla –, una nozione ben precisa di collegium, là dove specifica che «“collegio” non si intende in senso “strettamente giuridico”, cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro preside» (n. 1)16. Tale principio di comunione ha avuto comunque modo, dopo il Vaticano II e grazie a esso, di esprimersi concretamente, anzitutto, nelle strutture della collegialità episcopale affettiva (talune rinnovate, talaltre di nuova

riflessione teologica e istituzionale, in Associazione Teologica Italiana (ed.), Chiesa e sinodalità, cit., pp. 77-82. Dai volumi degli Acta Synodalia emerge tuttavia che, perlomeno alcuni padri conciliari, dedichino i loro sforzi più a circoscrivere cosa il corpo episcopale non possa fare senza il papa, che non cosa debba fare insieme a lui; in altri termini, dalle discussioni conciliari pare effettivamente che la «preoccupazione dominante dei padri» fosse quella «di pervenire a un nuovo equilibrio tra il papa e i vescovi»; Routhier, Perspectives et dimensions d’une recherche sur la synodalité de l’Église, cit., p. 93. Al proposito si vedano, tra gli altri, la ricostruzione di U. Betti, La dottrina sull’episcopato nel capitolo III della costituzione dommatica Lumen gentium, Roma, 1968, spec. pp. 108-316; nonché G.P. Milano, Il sinodo dei vescovi, Milano, 1985, pp. 67-217, e, specialmente con riferimento al decreto Christus Dominus, M. Faggioli, Il vescovo e il Concilio. Modello episcopale e aggiornamento al Vaticano II, Bologna, 2005, spec. pp. 27-388. 15 Sulla storia della Nota cfr. L. A. G. Tagle, La tempesta di novembre: la «settimana nera», in G. Alberigo (dir.), Storia del concilio Vaticano II, IV, Bologna, 1999, pp. 446- 475. Un dossier sulla genesi storica della Nota si trova in Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio (Pubblicazioni dell’Istituto Paolo VI, 7), Brescia, 1989, pp. 589-681. Il Papa, con appunto autografo, chiedeva che «il nuovo testo sia preceduto da una Nota esplicativa della Commiss.[ione] (come prep.[arata] da Mons. Col.[ombo] d’accordo con Mons. Ph.[ilips] e P. Bertrams)» (ivi, p. 665). Quanto alle critiche ad essa mosse si veda, tra gli altri, Legrand, Le riforme di Francesco, cit., pp. 422-424, il quale vi vede un consistente condizionamento da parte di concetti romanistici (come quello di plenitudo potestatis), talché sarebbero stati oltrepassati gli stessi limiti che per la potestà papale erano stati definiti dal Vaticano I (ivi, pp. 422-423). 16 La Nota, quindi, dà una definizione di comunione – sia in forma negativa che positiva –, che forse può offrire una sua utilità generale. Infatti, «“comunione” è un concetto tenuto in grande onore nell’antica Chiesa (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non s’intende un certo vago “affetto”, ma una “realtà organica”, che richiede forma giuridica e insieme è animata dalla carità» (n. 2). Da un punto di vista critico, si cfr. N. Lüdecke, Studium Codicis, schola Concilii, Il Regno-att., 2006, 51, p. 340 e ss. Egli ammette come «la discussione sia conciliare sia postconciliare che si chiede se in quel modo era centrato il concetto giuridico di collegium o se collegium poteva comprendere anche una pluralità di persone gerarchicamente ordinate è inutile. L’obiettivo concreto della terminologia è l’esclusione dei pari diritti dei membri», ivi, p. 352, nota 57.

262 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 creazione) come il sinodo dei vescovi, i sinodi plenari e provinciali, le conferenze episcopali; ma anche, nelle chiese particolari, e quindi non a livello di collegialità episcopale, nel sinodo diocesano, nel consiglio presbiterale, nel consiglio pastorale diocesano, nel consiglio pastorale parrocchiale17. Lo ha ribadito anche Papa Francesco quando, nel già citato Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi del 17 ottobre 2015, ha sottolineato che, «in una Chiesa sinodale, il Sinodo dei Vescovi è solo la più evidente manifestazione di un dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali». Il Pontefice ha spiegato che «il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari», relativamente alle quali lo stesso «Codice di diritto canonico dedica ampio spazio a quelli che si è soliti chiamare gli "organismi di comunione" della Chiesa particolare: il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori, il Capitolo dei Canonici e il Consiglio pastorale18. Soltanto nella misura in cui questi organismi rimangono connessi col "basso" e partono dalla gente, dai problemi di ogni giorno, può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale: tali strumenti, che qualche volta procedono con stanchezza, devono essere valorizzati come occasione di ascolto e condivisione». Ancora, il Pontefice ha aggiunto che «il secondo livello è quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali 19 », ossia di quegli organismi attraverso i quali augura che si possano realizzare «le istanze intermedie della collegialità, magari integrando e aggiornando alcuni aspetti dell'antico ordinamento ecclesiastico» e constatando che l'auspicio del Concilio in tal senso non si è ancora pienamente realizzato20. Infine, il Pontefice ha colto l'ultimo livello di esercizio della sinodalità in quello della Chiesa universale, ove «il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l'episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all'interno di una Chiesa tutta sinodale», insistendo sul fatto che tale organo manifesta «la collegialitas affectiva, la quale può pure divenire in alcune circostanze "effettiva", che congiunge i Vescovi fra loro e con il Papa nella sollecitudine per il Popolo di Dio»21.

17 Cfr. W. Beinert, Synode, in J.-Y. Lacoste (dir.), Dictionnaire critique de théologie, cit., p. 1117; M.G. Masciarelli, Le radici del Concilio. Per una teologia della sinodalità, Dehoniane, Bologna 2018. Si noti anche come Papa Francesco abbia più volte utilizzato il neologismo astratto “diocesanità”: vd., ad es., quanto detto dal Santo Padre in occasione dell’“Incontro con i sacerdoti, religiosi, seminaristi del Seminario regionale e diaconi permanenti (1 ottobre 2017)”, in www.vatican.va. 18 Cfr. cann. 495-514. 19 Cfr. cann. 431-459. 20 Cfr. Francesco, Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, n. 32. 21 Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015, cit.

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E lo ha ribadito lo stesso Papa Francesco quando ha titolato proprio Episcopalis communio la costituzione apostolica sul Sinodo dei vescovi22.

2. La creazione del sinodo dei vescovi

Non deve poi dimenticarsi che mentre il Concilio era in corso, Paolo VI, aprendone la quarta sessione il 14 settembre 1965, annunciava la creazione di un «sinodo di vescovi»23. La decisione non era inattesa dal momento che il numero 5 del decreto conciliare sulla missione pastorale dei vescovi, Christus Dominus, ne aveva delineato l’essenza24. Composto da alcuni vescovi, il sinodo doveva essere convocato dal Pontefice, in rapporto alle necessità della Chiesa e quando l’avesse ritenuto opportuno, per averne collaborazione e consiglio. Nel discorso Paolo VI esprimeva anche l’idea che il sinodo dovesse essere di giovamento, in modo particolare, al lavoro quotidiano della Curia romana25; il giorno dopo, veniva pubblicato il documento istitutivo del nuovo istituto26. Premesso che del sinodo venivano configurate tre tipologie di assemblea – generale, straordinaria, speciale –, e che quest’ultima è caratterizzata da alcune peculiarità in forza della sua limitatezza geografica, i lineamenti generali e basilari di esso erano i seguenti: 1) il sinodo era composto solo da alcuni vescovi cattolici, di provenienza universale e variamente designati, ma tutti legittimati da un intervento del pontefice27; 2) la sua competenza ordinaria era di natura consultiva; 3) esso doveva considerarsi come posto in rappresentanza di tutto l’episcopato cattolico («partes agens totius catholici Episcopatus») 28. Quest’ultimo punto si

22 Cfr. F. Fabene, La sinodalità nella Chiesa e la riforma del Sinodo dei Vescovi, «Commentarium pro religiosis et missionariis» 99 (3-4/2018), 191-202. 23 Cfr. Faggioli, Il vescovo e il Concilio. Modello episcopale e aggiornamento al Vaticano II, cit., pp. 389-438. Studi monografici: AA. VV., Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, a cura di J. Tomko, Roma, Libreria editrice vaticana, 1985; G.P. Milano, Il sinodo dei vescovi, cit.; J.I. Arrieta, El Sínodo de los Obispos, Pamplona, 1987; M.C. Bravi, Il sinodo dei vescovi. Istituzione, fini e natura, Roma, 1995; A. Indelicato, Il sinodo dei vescovi. La collegialità sospesa (1965-1985), Bologna, 2008. 24 «Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso romano Pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo, riuniti nel consiglio propriamente chiamato Sinodo dei vescovi. Tale Sinodo, rappresentando tutto l’episcopato cattolico, è un segno che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale». 25 Il discorso si trova in AAS 57 (1965), 794-805; il passo citato è a pagina 804 . 26 Paolo VI, motu proprio Apostolica sollicitudo, 15 settembre 1965, in AAS 57 (1965), 775-780 (Enchiridion Vaticanum [= EV], 2, 472-481). 27 Nel caso dei vescovi designati dalle Conferenze episcopali, «eletti» secondo gli articoli V e VIII del Motuproprio ed il can. 346, § 1, si è giustamente intravista più una forma di presentazione che non di elezione canonica. Cfr. J.I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, Milano, 1997, pp. 273-274. 28 Il Motu proprio articolava le caratteristiche del sinodo dicendo che esso era regolato così da essere: «a) una istituzione ecclesiastica centrale; b) rappresentante tutto

264 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 sarebbe rivelato come il più discusso; talvolta, si ha la sensazione, per una certa disinvoltura nell’usare come identici i concetti di rappresentanza e di rappresentatività29. Con ciò non si teneva adeguato conto della diversa natura dei rapporti motivati in termini di democrazia rappresentativa rispetto a quelli fondati su base sacramentale, sulla cui ontologia tanto insistette Eugenio Corecco nel parlare sia della sinodalità ecclesiale che degli organismi partecipativi espressione della stessa30. Anche per porre fine a simili fraintendimenti, il Codex del 1983 evitava di riproporre la formula del sinodo come istituto «partes agens totius catholici Episcopatus» 31 . Il che, forse, non era neppure necessario,

l’Episcopato cattolico; c) perpetua per sua natura; d) quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo ed occasionale» (I). 29 Sul rilievo della distinzione, nell’ordinamento ecclesiale, si veda la relazione (9 marzo 2012) di P. Gherri in http://gherripaolo.eu/lucera_discernimento.pdf, nonché L. Musselli, Forme ed Istituti di rappresentanza canonica, in Paolo Gherri (ed.), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza (Atti della quarta giornata canonistica interdisciplinare), Roma, 2010, pp. 110-112; M. Miele, Dalla sinodalità alla collegialità nella codificazione latina, Padova, 2004, p. 199, nota 135. Sul rapporto tra il ministero e il fenomeno della rappresentanza-rappresentazione: J.- M. Tillard, Chiesa di chiese. L’ecclesiologia di comunione, trad. it., Brescia, 1989, pp. 223-232. Libero Gerosa, a proposito del voto nei consigli ecclesiali di ogni livello ecclesiale, non distingue tra rappresentanza e rappresentatività, ma tra rappresentanza e testimonianza della fede, giacché «il concetto di “rappresentanza”… ha un significato diverso nella struttura ecclesiale retta dal principio della “communio” e conosciuto per fede, perché quest’ultima non può essere rappresentata ma solo testimoniata». Conseguentemente i membri di assemblee ecclesiali «anche quando sono eletti con criteri “rappresentativi” o democratici, non sono dei “rappresentanti” di tipo parlamentare ma dei fedeli scelti per testimoniare la loro fede ed aiutare secondo “scienza e competenza” (can. 212 § 3) il fedele che – in forza del sacramento dell’ordine e della “missio canonica”– è investito d’autorità nella comunità cristiana in questione» (L. Gerosa, Inveramenti istituzionali delle nozioni conciliari di «collegialità» e «partecipazione», cit., p. 81). Rimane il fatto che la «testimonianza» non si realizza in modo astorico e disgiunto dall’appartenenza a diversa «lingua, popolo e nazione» e a diversi ambiti culturali e sociali; in tal senso un’assemblea ecclesiale può realizzare una sua rappresentatività senza potersi definire “rappresentante” dei fedeli che non ne fanno parte. 30 Molti degli scritti di Corecco, anche su questo tema, sono raccolti nei volumi: E. Corecco, Ordinatio Fidei, Schriften zum kanonischen Recht, a cura di L. Gerosa e L. Müller, Paderborn, 1994; E. Corecco, «Ius et communio». Scritti di diritto canonico, a cura di G. Borgonovo e A. Cattaneo, Casale Monferrato, 1997, 2 v. Per un interessante approfondimento sugli scritti di Corecco relativamente al tema della sinodalità, cfr. C. Fantappiè, Chiesa e sinodalità. Per un confronto con Eugenio Corecco, «Ephemerides iuris canonici» 58 (2/2018), 461-478. 31 La Pontificia Commissione per la revisione del Codex, sul punto, rispose alla Segreteria generale del sinodo dei vescovi, con propria lettera del 20 settembre 1983 e allegando un parere di W. Onclin: «Come si disse nella discussione su questa definizione, se il Sinodo dei Vescovi rappresentasse veramente tutti i Vescovi, sarebbe come il Concilio ecumenico e dovrebbe avere voto deliberativo e i suoi atti sarebbero atti collegiali. Ma questo non corrisponde alla realtà. Il Sinodo dei Vescovi non si può

265 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 laddove si avvertisse come nel Motuproprio del 1965 il sinodo era posto in rapporto all’«episcopato cattolico» e non al «Collegio episcopale»32. Comunque sia, nella costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, Papa Francesco ha evitato di riproporre l’art. 1 del Motuproprio Apostolica sollicitudo di Paolo VI, omettendo, pertanto, ogni riferimento espresso al fatto che il Sinodo dei vescovi sia «partes agens totius catholici Episcopatus» e per il resto rinviando al can. 346 CIC quanto ai membri e agli altri partecipanti delle Assemblee. Ciò premesso, anche oggi sembra si possa dire che il sinodo è rappresentativo dell’episcopato cattolico senza, per questo, essere rappresentante della totalità dei vescovi appartenenti al Collegio episcopale. Del resto, il Codex del 1983 non ha esitato ad utilizzare il linguaggio della rappresentanza, in modo esplicito, nel caso di un altro istituto sconosciuto al Codex del 1917, il Consiglio presbiterale, definito non solo come senato del vescovo, ma anche come gruppo di sacerdoti «presbyterium repraesentans» (can. 495, § 1)33. Le discussioni conciliari sulla strutturazione di questo organo collegiale sono state ricostruite, notandosi come poi, a proposito del Consiglio presbiterale, fosse emersa da un lato una «repraesentatio per mimèsi o per imitazione», così che il Consiglio riproducesse «in piccolo la varietà delle situazioni del presbiterio»; dall’altro, come la stessa repraesentatio del presbiterio spettasse «a tutto il consiglio presbiterale non ai singoli membri»34. Se è vero che nel Codex del 1983 come pure nella costituzione apostolica Episcopalis communio del sinodo episcopale non viene formalmente considerare come un Collegio di tutti i Vescovi; sarebbe un Concilio ecumenico»: Il sinodo dei vescovi. Natura, metodo, prospettive, cit., p. 180. 32 Sulla facilità con cui talvolta si è posta una relazione (giuridica) diretta tra sinodo e Collegio episcopale, si vedano i cenni in A. Remossi, Il concetto di rappresentatività nell’ordinamento canonico, in Periodica de re canonica, 2005, 94, pp. 604-607. Il rapporto tra l’uno e l’altro investe anche un problema di autorità ex iure divino, così come evidenziato da Legrand, per il quale il sinodo «potrebbe facilmente diventare un organismo più rappresentativo dell’episcopato senza pretendere che le sue raccomandazioni abbiano l’autorità del collegio universale»: Legrand, Le riforme di Francesco, cit., p. 423. V. De Paolis, in una conferenza tenuta a Madrid il 26 novembre 2014, dopo la pubblicazione della Relatio finalis del sinodo straordinario del 2014, si sarebbe chiesto se sia «competenza di un sinodo dei vescovi trattare una questione come questa: il valore della dottrina e della disciplina vigente nella Chiesa, che si sono formate nel corso dei secoli e sono sancite con interventi del magistero supremo della Chiesa», almeno secondo quanto riportato in http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350935. 33 Il Consiglio presbiterale eredita il titolo di senatus che nel Codex del 1917 era attribuito al Capitolo cattedrale (can. 391, § 1). Viceversa, nello stesso Codex, non vi è alcun accenno ad una rappresentanza del Capitolo rispetto al clero diocesano. 34 A. Longhitano, «Repraesentatio» e partecipazione nell’ordinamento canonico, in Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico San Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, Catania 21-22 aprile 2005, a cura di A. Longhitano, Firenze, 2007, pp. 181-183.

266 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 ribadito l’aspetto di rappresentanza, non c’è dubbio che la rinnovata esigenza che i suoi componenti, nell’ambito di un’assemblea generale, siano scelti da tutte le regioni del mondo (can. 342 CIC), configuri un metodo per garantire una rappresentatività geografica, e quindi culturale, a livello mondiale; anche i vescovi padri del sinodo riunito in assemblea generale quindi, in quanto scelti effettivamente da tutto il mondo, rappresentano per imitazione tutto l’episcopato cattolico, episcopato che, come la Chiesa, è «di ogni lingua, popolo e nazione» e tenendo presente che il legame di ogni Chiesa particolare ad un singolo mondo culturale è elemento «costitutivo della sua Cattolicità»35. E tale rappresentatività è particolarmente rafforzata per quei vescovi che vengono scelti tramite l’elezione in seno alle Conferenze episcopali. Nelle assemblee generali ordinarie questi costituiscono il maggior numero dei padri sinodali e durante la celebrazione sinodale essi dovrebbero esprimere l’opinione emersa in seno alla discussione sui temi sinodali previamente effettuata dalla Conferenza episcopale di provenienza36. Questa disposizione poteva far pensare ad un vero e proprio meccanismo di delega-rappresentanza tra le Conferenze (deleganti) ed i vescovi (delegati); tuttavia, in relazione ad essa, già nel 1977 alcune Note esplicative della Segreteria generale chiedevano che i vescovi designati al sinodo esponessero i pareri sia della maggioranza che della minoranza della propria Conferenza 37 , con ciò riecheggiandosi l’antica dialettica canonica tra maioritas et sanioritas. Il problema di riferire al sinodo le opinioni diverse, presenti in seno alla Conferenza episcopale delegante, non si pone infatti quando essa sia unanime sulle stesse 38 . Anche per ciò si è sottolineato l’aspetto di rappresentatività morale, e non «giuridico-formale», del sinodo39.

35 H.-M. Legrand, Synodes et conseils de l’après-concile, in Nouvelle revue theologique, 1976, 98, p. 196. 36 Così dispone l’art. 23 dell’Ordo Synodi Episcoporum, nell’ultima redazione approvata da Benedetto XVI il 29 settembre 2006: AAS 98 (2006) 755-779 (EV, 23, 1526-1577). 37 «Questo articolo del Regolamento del Sinodo prescrive che i Delegati delle singole Conferenze Episcopali manifestino la posizione dei propri fratelli nell'Episcopato, a riguardo degli argomenti che il Sommo Pontefice ha stabilito di trattare nella convocazione del Sinodo. Per poter dare, a proposito del medesimo voto, una conoscenza il più possibile accurata, i delegati si adoperino affinché, dopo aver esposto il parere della maggioranza, presentino anche l’opinione della minoranza della propria Conferenza». V. J.I. Arrieta, Il sistema dell’organizzazione ecclesiastica, I ed., Roma, 2000, p. 59. 38 Per analogia si deve qui ricordare che – per ciò che riguarda l’esercizio magisteriale da parte delle Conferenze episcopali –, laddove una dichiarazione della Conferenza non sia adottata all’unanimità, essa può reputarsi atto di magistero autentico solo se ottenga la recognitio della Sede apostolica romana, dopo essere stata approvata dalla maggioranza qualificata (dei due terzi) dei vescovi dotati di voto deliberativo (Giovanni Paolo II, motu proprio Apostolos Suos, 21 maggio 1998, n. 22, in AAS 90 [1998] 641-658 e in EV, 17, 518-555). Si

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Alla luce di tutto ciò, si possono comprendere le parole di Giovanni Paolo II circa le dinamiche del sinodo episcopale: «Ogni Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi è una forte esperienza ecclesiale, anche se nelle modalità delle sue procedure rimane sempre perfettibile. I Vescovi riuniti nel Sinodo rappresentano anzitutto le proprie Chiese, ma tengono presenti anche i contributi delle Conferenze episcopali dalle quali sono designati e dei cui pareri circa le questioni da trattare si fanno portatori. Essi esprimono così il voto del Corpo gerarchico della Chiesa e, in qualche modo, quello del popolo cristiano, del quale sono i pastori. Il Sinodo è un evento in cui si rende particolarmente evidente che il Successore di Pietro, nell’adempimento del suo ufficio, è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e con tutta la Chiesa. «Spetta al Sinodo dei Vescovi – stabilisce al riguardo il Codice di Diritto Canonico – discutere sulle questioni da trattare ed esprimere propri voti, non però dirimerle ed emanare decreti su di esse, a meno che in casi determinati il Romano Pontefice, cui spetta in questo caso ratificare le decisioni del Sinodo, non abbia concesso potestà deliberativa». Il fatto che il Sinodo abbia normalmente una funzione solo consultiva non ne diminuisce l’importanza. Nella Chiesa, infatti, il fine di qualsiasi organo collegiale, consultivo o deliberativo che sia, è sempre la ricerca della verità o del bene della Chiesa. Quando poi si tratta della verifica della medesima fede, il consensus Ecclesiae non è dato dal computo dei voti, ma è frutto dell’azione dello Spirito, anima dell’unica Chiesa di Cristo. Proprio perché il Sinodo è al servizio della verità e della Chiesa, come espressione della vera corresponsabilità da parte di tutto l’episcopato in unione con il suo Capo riguardo al bene della Chiesa, nel dare il voto o consultivo o deliberativo i Vescovi, insieme agli altri membri del Sinodo, esprimono comunque la partecipazione al governo della Chiesa universale. Come il mio predecessore di v. m. Paolo VI, anche io ho sempre fatto tesoro delle proposte e dei pareri espressi dai Padri sinodali, facendoli entrare nel

è osservato in proposito come «il motu proprio, nel momento in cui richiede l’unanimità ai fini della validità ed efficacia degli atti di magistero autentico di una conferenza di vescovi, pone anch’esso un limite alla volontà della maggioranza, ma per garantire un oggetto specifico ben diverso dall’interesse del singolo, e cioè per garantire e promuovere la retta comprensione della dottrina della Chiesa nel suo sviluppo dogmatico»: A. Bettetini, Formazione della volontà collegiale, principio democratico e verità nel diritto della Chiesa, in Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, cit., p. 165. 39 Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, cit., pp. 267-268. Su questo punto si veda J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, trad. it., Milano, 1987, pp. 59-61; cfr. anche G. Canobbio, Libertà di parola e sinodalità tra diritto e responsabilità, Apostolicam actuositatem, Roma 2017.

268 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 processo di elaborazione del documento che raccoglie i risultati del Sinodo, e che proprio per questo amo qualificare come «post-sinodale»40. Nello stesso senso, del resto, si è espresso Papa Francesco nel già citato Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi del 17 ottobre 2015. Ha infatti affermato l’attuale Pontefice che «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell'ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l'uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7). Il Sinodo dei Vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa. Il cammino sinodale inizia ascoltando il Popolo, che «pure partecipa alla funzione profetica di Cristo», secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: «Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet». Il cammino del Sinodo prosegue ascoltando i Pastori. Attraverso i Padri sinodali, i Vescovi agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa, che devono saper attentamente distinguere dai flussi spesso mutevoli dell'opinione pubblica. Alla vigilia del Sinodo dello scorso anno affermavo: «Dallo Spirito Santo per i Padri sinodali chiediamo, innanzitutto, il dono dell'ascolto: ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del Popolo; ascolto del Popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama». Infine, il cammino sinodale culmina nell'ascolto del Vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come «Pastore e Dottore di tutti i cristiani»: non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo testimone della fides totius Ecclesiae, «garante dell'ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa»41.

3. Interazione tra il sinodo ed il Collegio dei cardinali

L’esperienza del sinodo iniziò nel 1967 e si sviluppò in modo costante così che, fino al 2014, in quarantasette anni si ebbero – tra assemblee ordinarie, straordinarie e speciali –, ventisei sinodi, quasi uno ogni due anni42. In nessuno di questi sinodi il pontefice si avvalse della possibilità,

40 Giovanni Paolo II, esortazione apostolica postsinodale Pastores gregis, 16 ottobre 2003, in AAS 96 (2004) 825-924 e in EV, 22, 506-741. Quello citato è il numero 58. 41 Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015, cit. 42 Si veda N. Eterović (ed.), Il sinodo dei vescovi. 40 anni di storia. 1965-2005, Città di Castello (PG), 2005; Id., Sinodi continentali. I consigli speciali del sinodo dei vescovi, Città del Vaticano, 2013; Id., Joseph Ratzinger. Benedetto XVI e il sinodo dei vescovi, Città del Vaticano, 2014.

269 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 prevista sia dal Motuproprio istitutivo che dal can. 343 del Codex, di delegare al sinodo potestà deliberativa. Vero è che il papa pubblicò numerose esortazioni apostoliche postsinodali, composte più sulla base delle proposizioni presentate dal sinodo che non dei singoli interventi svolti nell’aula sinodale. Nel contempo andava sviluppandosi nella prassi, sempre a livello centrale, un nuovo coinvolgimento del Collegio dei cardinali, attraverso la convocazione a Roma, da parte del papa, di riunioni plenarie dei cardinali. In un certo senso, queste «plenari» erano presentate come munite di una fisionomia distinta dal tradizionale istituto dei concistori; ciò sembrerebbe trasparire chiaro fin dalla prima riunione, voluta e celebrata da Giovanni Paolo II tra il 5 e il 9 novembre 1979. Nel discorso inaugurale il Papa, già allora, rivelava come la richiesta che i cardinali venissero tutti convocati a Roma, al di fuori dell’evento della sede vacante, fosse emersa durante le congregazioni preparatorie dei conclavi del 1978. In quell’occasione il Papa tracciava un certo statuto di tali plenarie. I cardinali non solo prestavano il loro aiuto al papa, «in modo continuo e costante», in quanto appartenenti alla Curia romana, ma, tutti, condividevano con lui la «comune sollecitudine per la Chiesa» in forza del loro inserimento nel clero romano. Se questa idea era consolidata nel Codex allora vigente43, il Papa aggiungeva, come ulteriore fondamento alle plenarie cardinalizie, la «collegialità vescovile e pastorale, che è in vigore da oltre mille anni»44. Il riferimento del Collegio cardinalizio al principio di collegialità episcopale era estraneo sia al Codex del 1917 che ai documenti del Vaticano II, i quali, del resto, questo Collegio non l’avevano mai nominato. Esso, però, corrispondeva ad alcune, più o meno percettibili, trasformazioni disciplinari che lo avevano riguardato fin dalla vigilia del Concilio oltre che ad alcuni interventi dottrinali45. Per le trasformazioni nella disciplina va ricordato anzitutto come, alla vigilia del Concilio, Giovanni XXIII avesse stabilito che tutti i cardinali venissero consacrati vescovi46. Paolo VI poi, prima della fine del Concilio,

43 Can. 230 Codex 1917. 44 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla riunione plenaria del Sacro Collegio dei cardinali, 5 novembre 1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2, 1979, 1060-1069 e in AAS 71 (1979), 1447-1457. 45 Per il dibattito sull’alternativa tra «riforma del collegio cardinalizio o creazione di un “Consilium episcoporum centrale”» Cfr. Faggioli, Il vescovo e il Concilio. Modello episcopale e aggiornamento al Vaticano II, cit., pp. 403-406. 46 Giovanni XXIII, motu proprio Cum gravissima, 15 aprile 1962, in AAS 54 (1962) 256-258. Nel discorso dopo il rito di consacrazione, il successivo 19 aprile 1962, il Papa non accenna in alcun modo alla valenza che l’atto poteva avere nei confronti del Collegio episcopale, convocato a Concilio, e sottolinea la «parificazione di tutti i componenti il Sacro Collegio dei Cardinali in una stessa dignità di Ordine sacro, di episcopale sacramento, e di funzioni altissime nel servizio del governo pontificale in cooperazione al Supremo Gerarca della Santa Chiesa Cattolica Apostolica e Romana» (ivi, 286-290).

270 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 forniva una nuova legittimazione alla presenza dei patriarchi orientali nel Collegio dei cardinali stabilendo la recisione del loro legame con la Chiesa romana, significato nella titolarità di una diocesi suburbicaria o nell’appartenenza al clero romano47. Per l’elaborazione dottrinale48, anzitutto sul piano della ricostruzione e dell’interpretazione storica, va ricordato certamente uno studio di Congar, pubblicato verso la fine del Concilio e nel quale egli parlava di una progressiva «confisca», da parte dell’«ideologia del collegio dei cardinali», della teologia della collegialità episcopale 49 . Qualche anno dopo, Giuseppe Alberigo pubblicava un volume dedicato all’ecclesiologia tra l’XI e il XIV secolo e nel quale si accentuava l’osmosi, se non la sostituzione, attuatasi nel secondo millennio, tra lo statuto del cardinalato e la tradizione sinodale riferita al Collegio apostolico e quindi all’episcopato50. Questo lavoro di Alberigo, in chiusura, metteva in rilievo il pensiero dell’Autore sul venir meno di qualunque base dottrinale alla persistenza del collegio cardinalizio e sul «riassorbimento della sua giustificazione ecclesiologica nel suo alveo proprio e autentico, quello della dottrina sull’episcopato e sulla sua natura collegiale»51. Nel volume, poi, viene riportata la significativa discussione seguita ad un articolo di Karl Rahner che, nel 1963, configurava, per il Collegio cardinalizio, una nuova base di legittimazione, a partire dalla sua funzione elettorale; in tale funzione, il Collegio doveva reputarsi quale «rappresentanza dell’intero episcopato»52. Un lento avvicinamento del Collegio cardinalizio alle ragioni della collegialità episcopale pareva quindi indubbio e l’inserimento di esso tra le manifestazioni della collegialità affettiva divenne, poi, un tema ricorrente anche nell’elaborazione del magistero53. Tra tutti gli interventi

47 Paolo VI, motu proprio Ad purpuratorum patrum, 11 febbraio 1965, in AAS 57 (1965) e in EV, 2, 388-391; in forza degli articoli I e II i patriarchi orientali inseriti nel Collegio cardinalizio sarebbero stati inseriti nell’ordine episcopale, non sarebbero divenuti titolari di una chiesa suburbicaria e neppure sarebbero stati ascritti al clero romano («nec ad clerum Urbis pertinebunt»). 48 Se n’è occupata recentemente, con ricostruzione archivistica, A. Sammassimo, Cardinalato e collegialità. Codificazione del XX secolo, Milano, Educatt, 2012. 49 Y. M.-J. Congar, Notes sur le destin de l’idée de collégialité épiscopale en Occident au Moyen Age (VIIe-XVIe siècles), in La collégialité épiscopale, introd. di Y. M.-J. Congar, Parigi, Du Cerf, 1965, spec. p. 118 ss. 50 Cfr. G. Alberigo, Cardinalato e collegialità, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 187-198. 51 Ivi, p. 211. 52 Ivi, pp. 201-203. 53 Nella prima intervista dopo l’elezione papa Francesco accomuna, nel principio generale della sinodalità, i concistori e i sinodi: A. Spadaro, Intervista a papa Francesco, in Civiltà cattolica, 2013, 164, p. 458. In un discorso alla Curia romana del 28 giugno 1980, Giovanni Paolo II interponeva il collegio cardinalizio, come espressione della collegialità episcopale, tra il sinodo dei vescovi e le conferenze nazionali dei vescovi: AAS, 72 (1980) 646-647. Più difficile trovare riferimenti al principio di collegialità episcopale nei discorsi che

271 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 in tal senso, per ampiezza sembra da ricordare l’omelia che Giovanni Paolo II tenne durante il concistoro del 26 novembre 1994; in essa egli accostava, in una linea di continuità nella collegialità episcopale, collegio dei cardinali e sinodo dei vescovi: Il Collegio cardinalizio nella sua attuale composizione esprime, assai significativamente, l’unità e l’universalità del popolo di Dio e, soprattutto negli ultimi anni, si è arricchito della crescente presenza di presuli di molte nazioni di ogni Continente: nella schiera dei nuovi cardinali sono rappresentate ben ventiquattro nazioni di ogni parte del mondo. La comunione dell’intero gregge di Dio, nutrito da Cristo, principe dei pastori (cf. Lumen gentium, 6), viene così a rispecchiarsi, in certo modo, nel Collegio cardinalizio, la cui istituzione è molto importante dal punto di vista della tradizione collegiale della Chiesa. La dimensione collegiale, costitutiva ed essenziale per l’episcopato, trova in effetti una manifestazione eminente ed esemplare nei cardinali stretti intorno al Successore di Pietro. Questa dimensione collegiale, originaria ed intrinseca alla successione apostolica, è andata sviluppandosi nel corso dei secoli, in connessione con la storia della Chiesa e vive oggi un momento particolarmente felice di riscoperta della sua genuinità e di acquisizione di nuove potenzialità. Ciò vale anche per quella sua peculiare espressione che è costituita dal Collegio dei Cardinali: oltre ad abbracciare, per così dire, il mondo intero, esso, grazie alle maggiori possibilità di comunicazione e di incontro, sviluppa oggi in maniera più costante ed efficace il suo servizio. Comunione, collegialità e comunicazione vanno insieme: la comunicazione al servizio della collegialità e la collegialità al servizio della comunione. Singolare espressione della comunione ecclesiale, ed in particolare della collegialità episcopale, è senza dubbio il Sinodo dei Vescovi. Il Concilio Vaticano II, come pure il mio venerato predecessore il Servo di Dio Paolo VI, hanno operato attivamente perché tale istituzione acquistasse sempre più vigore e consistenza. Si è registrato così, negli anni del post-Concilio, un provvidenziale sviluppo della dimensione sinodale della Chiesa, i cui frutti sono sotto gli occhi di tutti. La chiamata alla dignità cardinalizia del Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi va vista, oltre che come riconoscimento alla persona, come un’ulteriore tappa di tale incremento. Lo sviluppo della “sinodalità” nella Chiesa, in cui si rispecchia visibilmente la collegialità dell’intero Episcopato, procede di pari passo con la tradizione dei Concistori ordinari e straordinari. Nei sedici anni del mio servizio pastorale, ho avuto occasione di convocare sei Concistori ordinari e cinque straordinari, l’ultimo dei quali ha avuto luogo nel giugno scorso ed è stato dedicato alla preparazione del Grande Giubileo

Benedetto XVI rivolgeva ai cardinali in occasione dei concistori per la creazione di cardinali da lui celebrati. Si veda comunque il Discorso del 16 aprile 2007 in Insegnamenti di Benedetto XVI, III, 1, 2007, pp. 678-679.

272 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dell’Anno 2000. Da quella riunione ho tratto molti elementi per la stesura della Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente54. Questo avvicinamento non trovò, però, rilevante spazio nei documenti generali normativi riguardanti direttamente il Collegio dei cardinali. Nel Codex del 1983, anzi, il can. 334 sembra distinguere nettamente l’azione del sinodo, come forma della cooperazione episcopale, da quella dei cardinali, accomunata all’aiuto, offerto al papa, proveniente da «altre persone» ed istituzioni. Nella costituzione apostolica sulla Curia romana, un semplice articolo prospetta l’eventualità di un «concistoro plenario» dei cardinali, disciplinato da una lex propria che mai venne emanata55. Nella costituzione apostolica sulla vacanza della Sede apostolica e sull’elezione del papa, poi, non un accenno viene fatto al principio di collegialità episcopale, mentre viene accentuato il carattere romano del Collegio 56 . Vero è ancora che papa Francesco, nel formalizzare con proprio chirografo la struttura e le funzioni di un organismo consultivo già prima insediato, ne attribuiva l’ispirazione all’auspicio, formulato nelle Congregazioni cardinalizie anteriori al conclave del 2013, di creare un «ristretto gruppo di Membri dell’Episcopato» che fosse «espressione della comunione episcopale e dell’ausilio al munus petrinum che l’Episcopato sparso per il mondo può offrire»; il Consiglio era formato da soli cardinali57. Lo stesso (parziale) avvicinamento ha lasciato sospesa una definizione dei confini tra le funzioni consultive del sinodo e quelle del Collegio cardinalizio. Il problema era stato posto dallo stesso Giovanni Paolo II nel discorso del 5 novembre 197958.

54 Giovanni Paolo II, Discorso in occasione del Concistoro per la creazione di 30 nuovi cardinali, 26 novembre 1994, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVII, 2, 1994, pp. 883-884. 55 Giovanni Paolo II, costituzione apostolica Pastor bonus., 28 giugno 1988, in AAS 80 (1988) e in EV, 11, 492-635, art. 23. Per un rapporto di identità tra concistoro straordinario, previsto dal Codex, e concistoro plenario, previsto dalla Costituzione apostolica, v. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, cit., p. 295. Sulle questioni legate alla lex propria del Collegio cardinalizio cfr. A. Sammassimo, De iure condendo: una lex propria per il Collegio cardinalizio, in Jus, 2013, 60, spec. pp. 325- 329. 56 Giovanni Paolo II, costituzione apostolica Universi dominici gregis, 22 febbraio 1996, in AAS 88 (1996) 305-343 e in EV, 15, 98-171. 57 Francesco, Chirographum quo instituitur Consilium Cardinalium ad adiuvandum Romanum Pontificem in Universali Ecclesia gubernanda adque suscipiendum consilium emendationis Constitutionis Apostolicae «Pastor Bonus» de Curia Romana, 28 settembre 2013, in AAS 105 (2013) 875-876. Sulle implicazioni di tale Chirografo in ordine al rapporto collegio cardinalizio-sinodo, si vedano alcune attente osservazioni in Sammassimo, op. ult. cit., pp. 321-325. 58 In particolare si veda questo passo: «Sembra dunque che l’incontro del Collegio cardinalizio nell’autunno di quest’anno possa con profitto, occuparsi di un esame, almeno sommario, di alcuni problemi un po’ diversi da quelli sui quali lavora il Sinodo dei vescovi. Questi problemi, che in modo introduttivo desidero per lo meno delineare, sono importanti, data la situazione della Chiesa universale, e al tempo stesso sembrano

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L’esperienza pluridecennale delle assemblee sinodali, d’altra parte, è stata talvolta oggetto di rilievi critici59. Lo stesso papa Francesco, nell’intervista cit., attestando piena considerazione al principio tradizionale canonico delle consultazioni, «reali, non formali»60, aveva modo di esplicitare un pensiero preciso non solo sulla metodologia dei sinodi, ma anche sul principio sinodale nella sua rilevanza generale. Il Papa, in particolare, manifestava l’esigenza che concistori e sinodi vengano resi «meno rigidi nella forma» 61 , aggiungendo come forse sia «il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica»62. In questi due contesti sembra che il Papa si riferisca all’interazione tra primato ed episcopato e, dunque, al tema dell’esercizio della collegialità episcopale. Tuttavia egli andava oltre, auspicando una sinodalità «vissuta a vari livelli» e indicandone come attori «la gente, i Vescovi e il Papa»63. essere più strettamente collegati col ministero del Vescovo di Roma, che non quelli che devono costituire il tema del Sinodo dei vescovi. È ovvio che qui non si può parlare di alcuna rigorosa delimitazione. Subito all’inizio, desidero anche rilevare che, oltre alle questioni che fra poco presenterò da parte mia, conto sulle proposte, che avanzeranno e illustreranno i singoli partecipanti a questo nostro consesso. Prevediamo per questo un dovuto spazio nell’ordine delle nostre sedute. Questo ordine, contrariamente a quanto avviene nel Sinodo dei vescovi, non si basa su alcuno statuto particolare». Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla riunione plenaria del Sacro Collegio dei cardinali, 5 novembre 1979, cit. (v. sopra, nota 59). Sui rapporti tra sinodo e collegio cardinalizio si cfr. Milano, Il sinodo dei vescovi, cit., pp. 371-381. 59 Cfr., in relazione alla fase storica di realizzazione del sinodo, A. Indelicato, Dal concilio al Sinodo dei vescovi: cronaca di una scelta annunciata?, in A. Melloni-S. Scatena (ed.), Synod and Synodality. Theology, History, Canon Law and Ecumenism in new contact, cit., pp. 237-261, nonché Id., Il sinodo dei vescovi. La collegialità sospesa (1965-1985), cit., spec. pp. 352-361. Si veda anche G. Alberigo, concilio, in G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich (cur.), Teologia (Dizionari San Paolo), cit., pp. 285-287. Per Legrand «attualmente il Sinodo non può gestire né la propria periodicità, né il proprio ordine del giorno, né la pubblicazione delle sue risoluzioni, né la propria composizione (per esempio, il Sinodo speciale per l’America Latina del 1997 comprendeva solo 136 membri che erano stati eletti da loro pari, mentre gli altri 161 erano membri ex officio o designati dal papa)»: Legrand, Le riforme di Francesco, cit., p. 423. 60 Spadaro, Intervista a papa Francesco, cit., p. 458. 61 Spadaro, Intervista a papa Francesco, cit., ivi. 62 Spadaro, Intervista a papa Francesco, cit., p. 466. 63 Ivi. Si veda anche quanto già affermava il c.d. Documento di Ravenna (13 ottobre 2007) a proposito della nozione di conciliarità: “Il termine conciliarità o sinodalità deriva dalla parola «concilio» (synodos in greco, concilium in latino), che denota soprattutto un raduno di Vescovi che esercitano una particolare responsabilità. Tuttavia, è anche possibile comprendere il termine in un’accezione più ampia, nel senso di tutti i membri della Chiesa (cfr. il vocabolo russo sobornost). […] «conciliarità» nel suo significato secondo il quale ciascun membro del Corpo di Cristo, in virtù del battesimo, ha il suo spazio e la sua propria responsabilità nella koinônia (communio in latino) eucaristica. La conciliarità riflette il mistero trinitario ed ha il suo fondamento ultimo in tale mistero. Le tre persone della Santa Trinità sono «enumerate», come afferma Basilio il Grande (Sullo Spirito Santo, 45), senza che la designazione come «seconda» o «terza» persona implichi una diminuzione o una subordinazione.

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Qui il Papa manifesta notevole interesse per la disciplina dell’Oriente ortodosso, relativamente sia all’esercizio della collegialità episcopale che alla pratica sinodale, traendone un interrogativo per quanto riguarda l’esercizio del munus petrinum: «Come conciliare in armonia primato petrino e sinodalità?»64. Si è già detto che a tale domanda Papa Francesco ha risposto con la costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei vescovi del 15 settembre 2018 nella quale, all’art. 1, ha tra l’altro ribadito, come primo aspetto della disciplina di tale organo, che esso è direttamente sottoposto al Romano Pontefice, che ne è il Presidente.

4. Un metodo rinnovato

Alla luce di quanto avvenuto negli ultimi decenni sembra chiaro come lo sforzo dei Pontefici, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI a Francesco, sia teso non a superare il principio gerarchico che vede i vescovi come «araldi» e «dottori autentici» della fede (Lumen gentium, 25), ma ad integrare tale principio con la pratica della consultazione dei fedeli. Ci si può interrogare su quale sia il fondamento di tale pratica della consultazione. Lo fece, ad esempio, Georges Chantraine, il quale, chiedendosi se i fedeli condividano la collegialità, dava una risposta negativa, visto che i fedeli partecipano non del sacerdozio ministeriale, ma del sacerdozio comune 65 . Egli tuttavia, con Eugenio Corecco, ammetteva una analogia tra la corresponsabilità dei fedeli vescovi e quella

Analogamente, esiste anche un ordine tra le Chiese locali, che tuttavia non implica disuguaglianza nella loro natura ecclesiale” (Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, Documento di Ravenna su “Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, Conciliarità e Autorità”, n. 5, in www.vatican.va). 64 Spadaro, Intervista a papa Francesco, cit., p. 465. Sempre a questo proposito, nel Documento “Sinodalità e Primato nel Primo Millennio: verso una comune comprensione nel servizio all’unità della Chiesa” - firmato a Chieti il 21 settembre 2016 nel corso della quattordicesima sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa - si afferma che l’eredità comune di principi teologici, disposizioni canoniche e pratiche liturgiche del Primo Millennio “costituisce un punto di riferimento necessario e una potente fonte d’ispirazione sia per i cattolici sia per gli ortodossi, mentre cercano di curare la ferita della loro divisione all’inizio del terzo millennio. Sulla base di questa eredità comune, entrambi devono riflettere su come il primato, la sinodalità e l’interrelazione che esiste tra loro possono essere concepiti ed esercitati oggi e nel futuro” (Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, “Sinodalità e primato nel primo millennio”, in: Il Regno-Documenti LXI 2016 17, 576). Su tale linea di sviluppo, cfr. da ultimo Saint Irenaeus joint Orthodox-Catholic working group, Servire la comunione: Ripensare il rapporto tra primato e sinodalità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (Bi) 2019. 65 G. Chantraine, Synodalité, expression du sacerdoce commun et du sacerdoce ministériel?, in Nouvelle revue theologique, 1991, 113, p. 357.

275 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 dei fedeli laici, fondata non sulla collegialità, «forma propria della comunione presso i successori degli Apostoli», né sul potere d’ordine, ma sul potere, comune a tutti i fedeli, di accedere a Dio attraverso la fede e il battesimo. Questo potere è fondamento della comunione e la sinodalità, in tale contesto, può essere definita come la capacità di tutti i fedeli, talvolta il diritto, di essere coinvolti nei momenti sinodali. I fedeli possono esprimere quel consensus, che attesta il sensus fidei66, attraverso questi momenti, o meglio anche attraverso questi momenti 67 , se si presta attenzione alle dinamiche ecclesiali della recezione e della consuetudine68. Il n. 12 della cost. Lumen gentium fa da sfondo agli istituti partecipativi che consentano un genuino accertamento del senso della fede e bisognerebbe ricordare ancora le parole del commento, ormai classico, che ne faceva Gérard Philips, il quale, tra l’altro, annotava: «Il senso della fede non è una questione di puro entusiasmo, ma una conoscenza per assimilazione, adattamento, conformità o connaturalità, avrebbe detto san Tommaso. Non può essere confuso con il magistero, né essere assorbito da questo. Al contrario, esso compenetra lo spirito dei credenti per farli vivere nella stessa luce che anima l’autorità docente. In altri termini, il senso della fede è il senso dell’intera Chiesa e non di una delle sue parti, né superiore né inferiore sulla scala gerarchica: è il senso della totalità»; e ancora: «Forse non tutti sanno che, a partire dal Concilio di Trento, i principali teologi che parlano della credenza universale della comunità non esitano minimamente ad accettare la infallibilitas in credendo; così Melchior Cano, Roberto Bellarmino, Gregorio di Valenza, Suarez, Gonet, Billaurt e i loro continuatori. Di più, nella loro argomentazione essi partono spesso dall’infallibilità della comunità ecclesiale – dunque in credendo – per dedurne l’infallibilità della gerarchia – in docendo. In ciò non vedono alcun pericolo per l’autorità

66 Ivi, pp. 357-359. 67 Sembra significativo il dire che «la sinodalità, al contrario della realtà indicata dal termine sinodo, non è un dato storico, ma una categoria con la quale si indicano alcune proprietà della vita della chiesa a partire dal dato storico che vede, senza mettere in conto i precedenti testimoniati dal libro degli Atti, per lo meno a partire dal II secolo e fino ai nostri giorni, la celebrazione di adunanze finalizzate alla comune decisione su questioni dottrinali e/o disciplinari, sia a livello della singola chiesa locale, sia a livello di più chiese vicine e unite a vari livelli, sia a livello universale di tutta la chiesa»: G. Ruggieri, I sinodi tra storia e teologia, in Associazione Teologica Italiana (ed.), Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, cit., p. 131. Sulla questione del rapporto tra consensus e polo consultivo, cfr. anche P. Tremolada, L’arte del camminare insieme. Riflessioni sulla sinodalità e il consigliare nella Chiesa, Opera San Francesco di Sales, Brescia 2018. 68 Sulla recezione si veda, oltre a Y. Congar, La ricezione come realtà ecclesiologica, in Concilium, 1972/7, pp. 75-105, a Tillard, Chiesa di chiese. L’ecclesiologia di comunione, cit., p. 140 ss., anche G. Routhier, La réception d’un concile, Parigi, 1993, pp. 15-65. Sul rapporto tra receptio e consuetudine, M.C. Ruscazio, Receptio legis. Sviluppo storico, profili ecclesiologici, realtà giuridica, Napoli, 2011, pp. 226-240.

276 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 della gerarchia; non esitano neanche a dichiarare che il papa deve tener conto della convinzione unanime dei fedeli»69. Alla luce della tradizione più antica, dunque, nulla di nuovo, dal punto di vista del fondamento, può essere intravisto nello sforzo di attuare una consultazione dei fedeli in materia di dottrina70; ne dà testimonianza John Henry Newman in un suo celeberrimo saggio71. In realtà, il nuovo modo di procedere sembra, anzitutto, corrispondere all’auspicio che l’ecclesiologia di comunione si inverasse, quanto meno, in momenti di comunicazione ecclesiale interna, se non di strutture adatte allo stesso scopo, così come era stato esplicitato: «L’ecclesiologia della communio non vuole essere una teoria astratta… Essa deve diventare concreta nella vita della chiesa e condurre ivi a un’approfondita comprensione della chiesa e in particolare della liturgia, nonché a una sua forma comunicativa e dialogica rinnovata… La costruzione di una cultura comunicativa, di uno stile dialogale e di strutture comunicative, in particolare sinodali, costituisce un desiderato urgente» 72 . Ancora, nel nuovo modo di procedere sembrano accostati i due principi, gerarchico e comunionale, o, meglio, viene attestato come quest’ultimo si realizzi appieno col mutuo riconoscimento, tra pastori e fedeli, nelle rispettive funzioni, in un «reciproco dare e ricevere» 73 . La consultazione viene realizzata, dunque, senza modalità che in qualche modo potessero far trasparire una qualche contrapposizione tra i fedeli e i pastori, ma attraverso essi e con un metodo per certi versi inedito, esclusa qualunque dialettica tra superiori ed inferiori74. Un primo aspetto di tale metodo sembra realizzare la duplice rappresentanza che il vescovo svolge nella vita ecclesiale; egli, infatti,

69 G. Philips, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen gentium, trad. it., Milano, 1975, p. 158. 70 Nella sua Esortazione apostolica Evangelii gaudium, Papa Francesco dice – e ciò è profondamente rilevante ai fini del nostro discorso – che il vescovo “in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo […] soprattutto perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade” (Francesco, Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, n. 31). La metafora dell’olfatto è evidentemente riferita al “sensus fidei fidelium”, che è in qualche modo il “fiuto” del Popolo di Dio il quale “non può sbagliarsi nel credere” (“in credendo falli nequit”: Lumen gentium, n. 12). Si può vedere una ricostruzione del continuum storico del concetto anche in Commissione Teologica Internazionale, Il sensus fidei nella vita della Chiesa, cit., numeri 22-47. 71 J.H. Newman, Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, ed. it. a cura di P. Spinucci, Brescia, 1991. Il saggio è citato anche da Chantraine, Synodalité, expression du sacerdoce commun et du sacerdoce ministériel?, cit., p. 359, nota 79. 72 W. Kasper, Chiesa cattolica. Essenza, realtà, missione, cit., p. 44. 73 K. Lehmann, L’azione ecclesiale, Milano, 1987, p. 51. Si veda anche quanto schematizzava, già nel suo articolo del 1976, Legrand, Synodes et conseils de l’après- concile, cit., pp. 209-212. 74 Chantraine, Synodalité, expression du sacerdoce commun et du sacerdoce ministériel?, cit., p. 358.

277 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 rappresenta il suo popolo e, presso il popolo, rappresenta l’insieme della Chiesa75; anzi, presso il popolo, rappresenta Cristo stesso76. Un ulteriore aspetto, inedito, della consultazione, sta nell’uso di un questionario presinodale reso pubblico e, come tale, facilmente accessibile a chiunque fosse interessato. Durante la presentazione del Documento preparatorio del sinodo straordinario, che si sarebbe poi celebrato nei giorni 5-19 ottobre 2014, il Segretario generale parlava di «rinnovamento metodologico», così che il sinodo risultasse «un vero ed efficace strumento di comunione attraverso il quale si esprima e si realizzi la collegialità auspicata dal concilio Vaticano II»77. Nella stessa occasione le diocesi, ossia i vescovi, venivano invitati a diffondere il Documento, con l’allegato questionario, «capillarmente nei decanati e nelle parrocchie», e ciò «al fine di ottenere dati concreti e reali sulla tematica sinodale»78. Nella successiva presentazione (24 giugno 2014) che lo stesso Segretario generale del Sinodo preponeva all’Instrumentum laboris, quanto alle risposte giunte, venivano nominate anzitutto quelle provenienti dai Sinodi delle Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, dalle Conferenze episcopali, dai dicasteri della Curia romana e dall’Unione dei Superiori generali. Ma alla Segreteria generale erano arrivate «risposte – dette osservazioni – da un numero significativo di diocesi, parrocchie, movimenti, gruppi, associazioni ecclesiali e realtà familiari, nonché quelle di istituzioni accademiche, specialisti, fedeli ed altri, interessati a far conoscere la propria riflessione» 79 . Egualmente, in vista della celebrazione della XIV assemblea generale ordinaria del sinodo, che si è tenuta nei giorni 4-25 ottobre 2015, la Segreteria generale (12 dicembre 2014) trasmetteva il nuovo questionario scegliendo alcuni destinatari istituzionali (Conferenze episcopali, Sinodi delle Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, Unione dei Superiori generali, Dicasteri della Curia romana), ma anche fornendo indicazioni per una capillare diffusione di alcuni quesiti sulla recezione della Relatio synodi e «sull’approfondimento dei temi per continuare il cammino sinodale già iniziato»80.

75 Legrand, Synodes et conseils de l’après-concile, cit., p. 211. 76 Tillard, Chiesa di chiese. L’ecclesiologia di comunione, cit., p. 225. Cfr. anche O. Condorelli, Sinodalità, consenso, rappresentanza: spunti ricostruttivi nel pensiero canonistico e teologico medievale (secoli XII-XV), in Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, cit., pp. 55-61. 77 Cfr. Il Regno-doc., 2013, 58, p. 695. Su diversi aspetti del mutamento nel metodo sinodale si v. G. Mocellin, Francesco-Sinodo dei vescovi: revisione generale, in Il Regno-att., 2013, 58, pp. 627-628. Cfr. anche D. Vitali, «Un popolo in cammino verso Dio». La sinodalità in Evangelii gaudium, San Paolo, Cinisello balsamo (MI) 2018. 78 Ivi, p. 696. 79 Cfr. Supplemento a Il Regno-doc., 2014, 59, p. 444. 80 «Gli Organismi ecclesiali menzionati sono invitati a scegliere le modalità adeguate a tale finalità coinvolgendo tutte le componenti delle chiese particolari ed istituzioni accademiche, organizzazioni, aggregazioni laicali ed altre istanze ecclesiali, allo scopo

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Teoricamente si sarebbe potuto realizzare le consultazioni in un modo più formale, ad esempio attraverso la celebrazione di sinodi diocesani o attraverso l’interrogazione di altri consigli locali organizzati in modo sistematico. Non sappiamo se una tale scelta corrisponda all’auspicio di papa Francesco che, come sopra visto, le consultazioni siano «reali, non formali». Vero è che, nella formalizzazione degli istituti di consultazione, è sempre possibile l’insidia della burocratizzazione e il conseguente pericolo che l’organizzazione non faccia dispiegare totalmente la sensibilità e il pensiero del corpo consultato. D’altronde sembra che le modalità per accertare il sensus fidei, da parte dei pastori, non possano essere totalmente previste o formalizzate, né oggetto di prescrizione; esse, demandate alla libertà pastorale, richiedono un uso delicato, tatto e discernimento81. La lettura della realtà in ordine alla recezione o alla mancata recezione di dati magisteriali dai quali la consultazione deve partire, in effetti, non è sempre immediata e richiede una ricostruzione di motivazioni fortemente interiori, così che sorgono problemi quando la maggioranza dei fedeli resta indifferente alle decisioni dottrinali o morali del magistero, o quando le rifiuta del tutto. Questa mancata recezione può essere segno di una debolezza o di una mancanza di fede da parte del popolo di Dio, provocate dall’assunzione non sufficientemente critica della cultura contemporanea. Ma in taluni casi, può essere segno che determinate decisioni sono state prese da chi ne ha autorità senza tenere in debito conto l’esperienza e il sensus fidei dei fedeli, o senza che il magistero abbia consultato a sufficienza i fedeli82. Ciò nonostante, sembra che papa Francesco, con la decisione di coinvolgere i fedeli in una consultazione sui temi del sinodo, anzi sul tema principale della famiglia, abbia voluto innestare sulla pratica della collegialità episcopale un esercizio concreto di corresponsabilità e di partecipazione del popolo dei fedeli. Non pare sia stata esplicitata la di promuovere un’ampia consultazione a tutto il Popolo di Dio sulla famiglia secondo l’orientamento del processo sinodale. Una volta conclusa tale consultazione a livello locale ogni Organismo interessato dovrà inviare alla Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi una sintesi dei risultati raggiunti dopo Pasqua, entro il 15 aprile 2015. Pregherei Vostra Eminenza / Eccellenza di distribuire tale Documento alle Diocesi, invitando a diffonderlo subito capillarmente nei decanati e nelle parrocchie al fine di ottenere l’apporto di tutte le componenti del Popolo di Dio per preparare l’Instrumentum laboris»: http://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20141212_lett era-lineamenta-xiv-assembly_it.html. Si cfr. anche Sinodo dei Vescovi, III Assemblea generale straordinaria, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’Evangelizzazione, Città del Vaticano, 2014, pp. 7-8. 81 Chantraine, Synodalité, expression du sacerdoce commun et du sacerdoce ministériel?, cit., pp. 358-359. Cfr. anche S. Segoloni Ruta, Chiesa e sinodalità in E. Bordello-V. Mignozzi-D. Moretto (a cura), Il discernimento. Significati, modelli, processi, Edizioni Camaldoli, Camaldoli 2018, 163-196. 82 Commissione Teologica Internazionale, Il sensus fidei nella vita della Chiesa, cit., numero 123.

279 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 qualificazione dottrinale di tale scelta, qualificazione che, d’altra parte, non è detto debba essere univoca. Intendo qui riferirmi alla compiuta ricostruzione di Agostino Montan sulle diverse impostazioni dottrinali poste alla base della corresponsabilità e della partecipazione ecclesiali. Principio di fondamentale eguaglianza dei fedeli, esigenze della communio, pratica della sinodalità, possono essere confluiti nell’adozione del metodo 83. Questo si è realizzato: in forme inedite, diremmo non canoniche in quanto non espressamente regolate dalle norme generali del Codex e da quelle riguardanti l’assemblea generale del sinodo dei vescovi; con modalità tali da non risultare elusivo e, tanto meno, sostitutivo della responsabilità episcopale.

Conclusioni

Dopo questa esperienza e di questa esperienza, papa Francesco ha voluto lasciare traccia nella costituzione apostolica Episcopalis communio sul sinodo dei vescovi, prevedendo, nella parte II, una disciplina puntuale proprio della fase preparatoria dell’Assemblea del Sinodo e dando ad essa particolare rilevanza. Interessante sarà vedere quanto il metodo seguito per volontà del Papa, nel caso particolare, possa ripercuotersi ed in qualche modo influenzare quelle simili situazioni nelle quali, decisioni che riguardano tutta la comunità, e cioè tutti i fedeli di una porzione del popolo ecclesiale, e non singoli suoi segmenti, sembrerebbero consigliare quel coinvolgimento previo che è sicuramente garanzia di una successiva cosciente recezione84. Ciò sembra valere, nell’oggi, in modo stringente, anche a livello di chiesa particolare, viste – per fare solo un esempio – le note criticità connesse alla scarsità delle vocazioni al ministero ordinato e al conseguente ridimensionamento numerico delle strutture pastorali. Il coinvolgimento del maggior numero di fedeli interessati nelle decisioni circa riduzioni di parrocchie e loro riorganizzazione, chiusura di chiese, e soprattutto circa la trasformazione del ruolo concreto del parroco – aspetti di vita comunitaria, questi, che toccano tutti (tangunt omnes) –, sembrerebbe

83 A. Montan, Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, in Paolo Gherri (ed.), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, cit., pp. 14-30. 84 Sul punto si vedano le osservazioni di G. Zambon, Riconoscimento reciproco di soggettività tra laici e ministri ordinati in ordine ad una forma sinodale di chiesa, in Associazione Teologica Italiana (ed.), Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, cit., per il quale la pratica della sinodalità ecclesiale «offre vantaggi dal punto di vista teologico e pastorale; favorisce la conversione pastorale e il passaggio da criteri di esclusione, di contrapposizione e di separazione a criteri di inclusione e di gradualità» (ivi, p. 207).

280 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 auspicabile anche al fine di favorire una recezione non apparente o contrassegnata da un sostanziale disimpegno85. Papa Francesco sembra aver indicato una strada in tal senso quando, nel saluto ai padri sinodali all’inizio della prima congregazione generale del sinodo straordinario (6 ottobre 2014), ringraziava i chierici ed i religiosi presenti al sinodo, ma anche i laici e le laiche per la loro partecipazione «che arricchisce i lavori e lo spirito di collegialità e di sinodalità». A tutti (i presenti) ricordava: «voi portate la voce delle Chiese particolari, radunate a livello di Chiese locali mediante le Conferenze Episcopali. La Chiesa universale e le Chiese particolari sono di istituzione divina; le Chiese locali così intese sono di istituzione umana. Questa voce voi la porterete in sinodalità. È una grande responsabilità: portare le realtà e le problematiche delle Chiese, per aiutarle a camminare su quella via che è il Vangelo della famiglia»86.

Keywords: Synodality, Synod of Bishops, collegiality, Church, canon law

Abstract: Synodality is a constitutive element of the Church and offers us the most appropriate interpretive framework for understanding the hierarchical ministry itself. Saint John Chrysostom says that “Church and Synod are synonymous”: it means that, within the Church, no one can be “raised up” higher than others. On the contrary, in the Church, it is necessary that each person “lower” himself or herself, so as to serve our brothers and sisters along the way. A synodal Church is a Church which listens, which realizes that listening “is more than simply hearing”. It is a mutual listening in which everyone has something to learn. The faithful people, the college of bishops, the Bishop of Rome: all listening to each other, and all listening to the Holy Spirit, the “Spirit of truth” (Jn 14:17), in order to know what he “says to the Churches” (Rev 2:7). The Synod of Bishops is the point of convergence of this listening process conducted at every level of the Church’s life. It is “in some manner the image” of an Ecumenical Council and reflects its “spirit and method”. From the beginning of His ministry as Bishop of Rome, Pope Francis sought to enhance the Synod, which is one of the most precious legacies of the Second Vatican Council. For Blessed Paul VI, the Synod of Bishops was meant to reproduce the image of the Ecumenical Council and reflect its spirit and method. Pope Paul foresaw that the organization of the Synod could “be improved upon with the passing of time”. Twenty years later, Saint John Paul II echoed that thought when he stated that “this instrument might be further improved. Perhaps collegial pastoral responsibility could be more fully expressed in the Synod”. In 2006, Benedict XVI approved several changes to the Ordo Synodi Episcoporum, especially in light of the provisions of the Code of Canon Law and the Code of Canons of the Eastern Churches, which had been promulgated in the meantime. In 2018 Pope Francis, with the Apostolic Constitution Episcopalis communio, has profoundly renewed the Synod of

85 Severino Dianich lamentava uno scarso riconoscimento alla corresponsabilità decisionale in quegli spazi ecclesiali nei quali questa sia possibile oltre una semplice partecipazione per consultazione. A similitudine di quanto già avviene nelle associazioni e negli istituti religiosi, egli ne auspicava quindi un’estensione anche alle strutture «fondamentali» di parrocchie e diocesi: Dianich, sinodalità, in G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich (cur.), Teologia (Dizionari San Paolo), cit., pp. 1529-1530. 86 Sinodo dei Vescovi, III Assemblea generale straordinaria, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’Evangelizzazione, cit., p. 14.

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Bishops, inserting it within the framework of synodality as a constitutive dimension of the Church, at all levels of her existence.

282 JUS- ONLINE 6/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

ERRATA CORRIGE

Il contributo di Laura Guffanti Pesenti pubblicato nel fascicolo n. 5/2020 della Rivista, dal titolo Responsabilità sanitaria e pandemia. Profili civilistici, è stato concepito nell’ambito della ricerca Pandemia e Democrazia. Rule of Law nella Società digitale, promossa dalla Fondazione Leonardo - Civiltà delle Macchine, ed è destinato alla relativa pubblicazione.

VP VITA E PENSIERO