N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

DOTTRINA

59° CONVEGNO DI STUDI AMMINISTRATIVI SUL TEMA: “POLITICA E AMMINISTRAZIONE DELLA SPESA PUBBLICA: CONTROLLI, TRASPARENZA E LOTTA ALLA CORRUZIONE” (Varenna 19-20-21 settembre 2013)

I SPESA PUBBLICA E CONTROLLI

IL COORDINAMENTO DEL CONTROLLO DELLE FINANZE PUBBLICHE NELL’UNIONE EUROPEA

di Vitor Caldeira

È per me un grande onore essere stato di nuovo invitato dalla Corte dei conti a intervenire a questa impor- tante conferenza. Nel corso degli anni le nostre istituzioni hanno sviluppato un saldo vincolo. Vorrei dunque cogliere questa opportunità per ringraziare, a nome della Corte dei conti europea, l’ex Presidente Giampaolino per aver contri- buito a ciò e per congratularmi col Presidente Squitieri per le sue nuove funzioni. Ho particolarmente apprezzato la possibilità offertami di presiedere questa sessione sul controllo dell’uso dei fondi pubblici. Ringrazio Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna, che ha introdotto la sessione esponen- do le sue estremamente interessanti osservazioni in materia di “controlli e coordinamento tra i diversi livelli di governo”. Come senz’altro saprete, questo è un tema di particolare rilievo per la Corte dei conti europea (Cce), l’i- stituzione dell’Ue a cui il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea affida il compito di controllare le finanze dell’Ue. Noi siamo anche molto interessati a promuovere un miglior coordinamento tra coloro che hanno la respon- sabilità di gestire i fondi dell’Ue e i responsabili dell’audit e del controllo pubblico sugli stessi. Se mi è consentito, vorrei includere nella mia introduzione a questa sessione alcune brevi osservazioni, dalla prospettiva dell’Unione europea, che mi auguro possano contribuire a completare i punti di vista delle amministrazioni nazionali, regionali e locali che verranno esposti dagli altri oratori nel corso della presente sessione. Lasciatemi in primo luogo dire alcune parole sul “controllo delle finanze pubbliche” in generale. Le finanze pubbliche rappresentano un importante “legame di fiducia” tra i cittadini e il governo. In ultima istanza, i governi sono incaricati di mettere in gioco i fondi pubblici per soddisfare le esigenze dei cittadini. Per tale ragione, i cittadini devono essere tenuti informati, in maniera affidabile, sul rispetto delle norme democraticamente decise e sul conseguimento dei risultati attesi dalle politiche pubbliche. Mi sento di poter dire che una funzione primaria del controllo delle finanze pubbliche sia quella di contri- buire a soddisfare tale esigenza di trasparenza. Sebbene vi siano alcune differenze tra gli Stati membri, il controllo è costituito, in generale, da tre compo- nenti principali. Il controllo delle finanze pubbliche è esercitato a beneficio dei cittadini: - dal governo stesso;

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- dalle istituzioni indipendenti di controllo, quali la Cce o la Corte dei conti; - dai rappresentanti dei cittadini. Queste componenti vengono spesso indicate come il “controllo interno”, l’“audit esterno” e la “supervisio- ne politica”. La relazione tra di esse è talvolta definita come una piramide di cui il controllo interno rappresenta la base, l’audit esterno la parte mediana e la supervisione politica la cima. Tale raffigurazione coglie un aspetto importante per quel che riguarda la costruzione della funzione di controllo delle finanze pubbliche: si deve partire da una solida base su cui poi aggiungere i livelli successivi. Questa è una lezione che le istituzioni dell’Ue hanno appreso attraverso l’esperienza maturata nel gestire l’esecuzione del bilancio dell’Unione. Nel caso del bilancio dell’Ue: - la Commissione europea è responsabile, in ultima istanza, del controllo interno; - la Corte dei conti europea svolge l’audit esterno delle finanze Ue; - il Parlamento europeo e il Consiglio esercitano la supervisione politica. Le fondamenta su cui si basa la piramide del controllo finanziario sono definite dal Trattato Ue e dal rego- lamento finanziario. Esse sono: - una rendicontazione finanziaria affidabile; - la legittimità e la regolarità delle operazioni; - una gestione finanziaria rispondente ai criteri di economicità, efficienza ed efficacia. Ma come già sapevano i faraoni, la costruzione di una piramide costituisce una grande sfida. Occorrono tempo e denaro, ma se si lavora bene l’edificio regge alla prova del tempo. A partire dal 2000, la Commissione ha iniziato a costruire la base riformando i propri meccanismi di con- trollo interno e introducendo un sistema di contabilità per competenza. Quest’ultimo si è dimostrato ampiamente soddisfacente. La Corte ha concluso che il sistema di contabilità per competenza della Commissione ha fornito relazioni finanziarie attendibili nel corso dell’ultimo quinquennio. Dal 2004, la Commissione si è impegnata ad attuare un “quadro di controllo interno integrato” per la ge- stione e il controllo dei fondi Ue negli Stati membri. Sinora, l’attenzione si è concentrata in primo luogo sul controllo della legittimità e della regolarità dei pa- gamenti nei settori a gestione concorrente, come l’Agricoltura e la Coesione. L’obiettivo dichiarato è di ridurre il livello dei pagamenti irregolari corrisposti dal bilancio Ue a meno del 2 per cento, che è la soglia di rilevanza utilizzata dalla Corte nella sua Dichiarazione annuale di affidabilità. I risultati sono stati fino ad oggi contraddittori. Nella sua ultima relazione annuale, la Corte constata che, nonostante i notevoli miglioramenti nei controlli interni registrati nel corso degli ultimi anni, il livello dei pa- gamenti irregolari continua a essere rilevante. Nel 2011, la Corte ha stimato che il tasso di errore complessivo – che fornisce una misura delle irregolarità – è stato pari a circa il 3,9 per cento, un livello simile a quello dell’esercizio precedente. La maggior parte degli errori si registrano ancora in quell’80 per cento dei fondi che sono destinati alla Coesione e all’Agricoltura, settori in cui la gestione è condivisa dalla Commissione con gli Stati membri. È chiaro che gli Stati membri potrebbero fare di più per rafforzare il controllo interno da parte delle rispet- tive autorità nazionali e regionali. Ma ci sono dei limiti. A un certo punto, il costo marginale dei maggiori controlli sui programmi e i regimi esistenti comincia ad essere maggiore dei benefici ottenibili dalla riduzione del tasso di errore. Quello è il punto in cui occorre riconsiderare le priorità di spesa nonché la concezione dei programmi. Per quel che riguarda il bilancio dell’Ue, credo che abbiamo raggiunto tale punto. È giunto il momento di procedere a un riesame della priorità relativa da attribuire alla regolarità della spesa da parte della funzione di controllo delle finanze pubbliche dell’Ue. La sessione di ieri ha riguardato la spending review e le occasioni che esse offrono per riformare le politiche e i programmi. È stata anche sottolineata l’importanza – nell’attuale contesto finanziario ed economico – di concentrarsi sulla qualità dei servizi che il governo fornisce ai cittadini.

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Come probabilmente già sapete, la spending review della Commissione europea è giunta ad analoghe con- clusioni in merito al bilancio dell’Unione. La conclusione è stata che il bilancio dell’Ue debba focalizzarsi maggiormente sul conseguimento di un valore aggiunto europeo e di risultati per i cittadini europei. La Corte ha accolto favorevolmente tale conclusione. Nel nostro contributo a quella spending review abbia- mo incoraggiato le istituzioni dell’Ue a migliorare la qualità della spesa. A nostro giudizio, una spesa di buona qualità è una spesa che rispetta le regole e che ottiene i risultati attesi. I programmi e i regimi di spesa dovrebbero essere concepiti per raggiungere entrambi gli obiettivi. Il con- trollo interno e l’audit dovrebbero coprire entrambi gli aspetti della spesa. A tal fine, in base alla propria esperienza diaudit , la Corte ha incoraggiato le istituzioni dell’Ue: - a selezionare i programmi e i regimi in base al valore aggiunto europeo; - a definire con chiarezza gli obiettivi e i traguardi da raggiungere; - a semplificare, ogniqualvolta ciò sia possibile, il quadro giuridico che li governa; - a definire condizioni di pagamento in base alle quali i risultati siano realisticamente controllati; e infine - a mettere in opera – sin dall’inizio – adeguate disposizioni in materia di trasparenza e di obbligo di rendere conto. La Corte ritiene che tutti questi punti siano cruciali per realizzare un quadro di controllo finanziario effi- ciente ed efficace, in grado di offrire garanzie sui risultati ottenuti. L’attuazione di tale quadro di riferimento rappresenterà una sfida di grande portata. Il sistema di controllo interno non è stato concepito per fornire informazioni e garanzie globali sui risultati conseguiti. Ciò risulta evidente dalle difficoltà che incontra la Commissione nel rispettare la richiesta, introdotta dal trattato di Lisbona, di presentare una relazione di valutazione sulla base dei risultati ottenuti quale parte della procedura di discarico sull’esecuzione del bilancio dell’Ue. La Corte ravvisa nel prossimo periodo di programmazione, dal 2014 al 2020, un’opportunità per iniziare a creare i necessari presupposti. Dopo lunghe discussioni, le istituzioni europee stanno per finalizzare le principali proposte legislative per i programmi e i regimi di spesa nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale. Nel corso del settennio, verranno complessivamente spesi quasi 1000 miliardi di euro a carico del bilancio dell’Ue. Di questi, oltre l’80 per cento continuerà a essere speso per la coesione e l’agricoltura nell’ambito della gestione concorrente. A giudizio della Corte, che è stato espresso in una serie di pareri formulati su specifiche proposte legislative, alcune delle nuove disposizioni sono importanti. Tuttavia, si sono già perse alcune opportunità per migliorare la concezione dei programmi e dei regimi di spesa. Per quel che riguarda la coesione, molti aspetti chiave dei principali programmi devono essere regolamen- tati in una fase successiva e ad un livello giuridico inferiore negli atti di esecuzione e negli atti delegati. È già chiaro tuttavia che il quadro giuridico complessivo resterà complesso. Ci saranno sei livelli di norme e, in alcuni casi, un livello aggiuntivo di legislazione nazionale. Di conseguenza, la Corte è del parere che gli oneri amministrativi per l’Ue e le amministrazioni nazionali rimarranno elevati. Per quel che riguarda i meccanismi di gestione e di controllo, la Corte accoglie favorevolmente la pos- sibilità offerta agli Stati membri di semplificare il modo in cui amministrano i programmi. La Corte ritiene tuttavia che la Commissione debba avere un ruolo più forte nell’accreditare le autorità nazionali di gestione e che debba verificare l’affidabilità del lavoro degli organismi di audit che operano a livello del controllo interno. La Corte ritiene inoltre che i programmi di spesa nel settore della coesione resteranno fondamentalmente basati sulle risorse impiegate. In altri termini, l’attenzione è ancora prevalentemente sulle risorse da assegnare alle autorità nazionali e regionali anziché sui risultati da conseguire. In maniera analoga, le norme sui controlli interni continueranno a essere strutturate in termini di numero di controlli da effettuare e non di livello di controllo da raggiungere. La Corte ritiene inoltre che, a livello legislativo primario, siano state perse importanti opportunità per migliorare la qualità della spesa e il valore aggiunto concentrando ulteriormente la spesa, definendo più chia-

345 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 ramente gli obiettivi, collegando in maniera più stretta i pagamenti ai risultati e rafforzando i requisiti per il monitoraggio e la valutazione della performance. Ciò detto, resta ancora da elaborare pienamente tutta una serie di nuovi elementi interessanti in grado di fornire il potenziale per attuare un approccio maggiormente orientato ai risultati. Tali elementi comprendono, ad esempio, l’introduzione di: - contratti di partenariato nazionali; - nuovi quadri di riferimento dei risultati; - “riserve di efficacia”. Resta tuttavia da vedere come questi e gli altri nuovi elementi verranno integrati nei meccanismi di con- trollo interno. A giudizio della Corte, la Commissione deve ancora proporre misure per garantire la qualità delle dichiarazioni di affidabilità delle autorità nazionali e delle informazioni fornite in merito all’attuazione dei programmi. Per quel che riguarda la politica agricola comune, la Corte ha sollevato una serie analoga di punti sull’ac- cresciuto ricorso agli atti delegati e agli atti di esecuzione, sulla prosecuzione della complessità normativa, sui sistemi eccessivamente orientati sulle risorse impiegate, nonché sulla necessità di rafforzare il ruolo di super- visione della Commissione. Una volta conclusa questa fase della procedura legislativa, inizierà a emergere uno scenario modificato per quel che riguarda la gestione finanziaria dell’Ue. Molte delle sue nuove caratteristiche rappresenteranno delle sfide aggiuntive per il controllo interno, l’audit esterno e la supervisione politica delle finanze dell’Unione europea a livello dell’Ue stessa e a livello nazionale e regionale. Penso che sia anche importante vedere tali sfide nel contesto degli sviluppi su vasta scala che stanno avve- nendo a livello della governance economica dell’Ue. I nuovi meccanismi di coordinamento finanziario ed economico coprono la totalità della spesa pubblica nell’Ue. Il bilancio dell’Ue rappresenta solamente un cinquantesimo circa di quel totale. La risposta da parte dell’Ue all’attuale situazione finanziaria ed economica suggerisce che potrebbe essere in via di definizione una piramide del controllo delle finanze pubbliche molto più grande. La Commissione si è basata sulla propria esperienza acquisita con il bilancio dell’Unione per lanciare una iniziativa volta a definire dei princìpi contabili per il settore pubblico europeo basati sulla contabilità per com- petenza applicabili a tutti gli organismi del settore pubblico. In maniera analoga, il quadro di controllo interno integrato per il bilancio dell’Ue è servito come base per la promozione, da parte della Commissione, di un quadro armonizzato di controllo finanziario interno per i paesi che si accingono ad aderire all’Ue, oltre che per gli attuali Stati membri. Frattanto, nel considerare le implicazioni degli sviluppi in risposta alla crisi, la Corte e le Istituzioni supe- riori di controllo (Isc) degli Stati membri, quali la Corte dei conti, hanno promosso la definizione di un quadro coerente di audit per il settore pubblico. In parallelo, i decisori politici europei hanno riconosciuto la necessità di un maggiore coordinamento tra il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali nell’ambito dei processi di sorveglianza finanziaria ed economica, quale mezzo per rafforzare la legittimità democratica. Credo che il miglioramento del controllo delle finanze pubbliche sia una condizione necessaria per raffor- zare la legittimità democratica e la capacità di rendere conto dell’Unione europea. Ciò richiederà gli sforzi coordinati, a livello dell’Ue e degli Stati membri, dei controllori interni, degli au- ditors esterni e dei responsabili della supervisione politica dei fondi pubblici. La sessione odierna offre l’opportunità di considerare come fare ciò nel miglior modo possibile. Sono ansioso di ascoltare i contributi degli oratori di questa sessione. Vi ringrazio per la cortese atten- zione.

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RIFORMARE LA SPESA PER INNOVARE LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: L’OCCASIONE DELLA SPENDING REVIEW

di Paolo De Ioanna

Sommario: 1. Innovare produzione e prodotti: è possibile usare la spesa pubblica come leva per lo sviluppo? Una premessa generale, tra metodo e interpretazione della crisi. – 2. La spending review: un’occasione per rinnovare le politiche pubbliche. – 3. L’esperienza della spending review in Italia. – 3.1. Studi e commissioni per riformare la pubblica amministrazione: un processo senza fine. – 3.2. L’esperienza della Commissione tecnica per la finanza pubblica: si apre il cantiere dellaspending review. – 3.3. La Ragioneria generale dello Stato al centro della spending review. – 3.4. La spending review secondo il governo dei tecnici. – 4. Il con- trollo delle dinamiche della spesa: un nodo cruciale tra esigenze di cassa e strategie di riforma. – 5. Innovare radicalmente la macchina amministrativa. – 6. Costi del personale, lotta all’evasione, alleggerimento della pressione fiscale e spesa per investimenti: un processo unico– 7. Conclusioni. – 7.1. Tre condizioni prelimina- ri: qualità e completezza dei dati; competenza e integrazione degli specialismi; chiarezza dei comandi e degli incentivi. – 7.2. Valorizzare la classificazione per programmi della spesa; passare a una contabilizzazione per impegni e a una rappresentazione di bilancio per cassa. – 7.3. Alcune linee guida.

1. Innovare produzione e prodotti: è possibile usare la spesa pubblica come leva per lo sviluppo? Una premes- sa generale, tra metodo e interpretazione della crisi Il discorso sulla razionalizzazione degli attuali livelli di spesa pubblica (la c.d. spending) opera come un topos che innesca una sorta di auto analisi collettiva sulla tipologia dei servizi pubblici che siamo disposti a finanziare, sull’idea che abbiamo dei nostri diritti e doveri di cittadinanza, sul rapporto che s’instaura tra il pe- rimetro di questa cittadinanza e il modo con cui interpretiamo i nostri doveri fiscali. Ma, soprattutto, sulle scelte che occorre fare per uscire dalla prolungata fase di flessione della produttività multifattoriale del nostro sistema economico che, come ci indica con chiarezza l’Istat, e molta solida letteratura economica, segna in modo ne- gativo la nostra economia ormai da oltre quindici anni. Il filo conduttore di questo breve testo, che condensa e lega spunti e riflessioni frutto della prassi, dunque una testimonianza, cerca di rispondere a questa domanda: quale è la spending review che aiuta a riaprire lo stretto sentiero dello sviluppo della nostra economia? Ora si può subito osservare che ogni riflessione sui servizi resi dal sistema delle pubbliche amministrazioni si muove tra tre polarità: ricombinare i fattori di produzione in modo da rendere lo stesso servizio con meno risorse (efficienza); spostare risorse da un servizio a un altro (ridefinire le priorità); ridurre comunque il perimetro dei servizi e la spesa che li finanzia. Naturalmente le tre polarità possono essere ricombinate sulla base dell’analisi delle concrete situazioni. Una consistente corrente di analisti economici sostiene che per ritrovare il sentiero della crescita occorre insieme ridurre le tasse e ridurre la spesa pubblica; si è avanzata addirittura l’ipotesi di tagli per 50 miliardi di euro in tre anni, per ridurre in modo significativo il differenziale con le economie europee più performanti, per quanto riguarda il cuneo fiscale; peraltro anche chi sostiene questo approccio conviene sul fatto che in Italia il livello della spesa pubblica è in linea con la media europea (secondo stime Eurostat 2012, in Italia saremmo al 50,6 per cento contro il 49,9 per cento dell’area euro) e che in Europa le economie più competitive sono quelle che presentano livelli di spesa pubblica collocabile nella media alta: Svezia (50 per cento), Finlandia (54 per cento), Danimarca (56 per cento); in Francia la spesa pubblica è al 56,6 per cento del Pil. A mio modo di vedere si sostiene a ragione che a fronte dei ben documentati effetti recessivi dei tagli della spesa pubblica, appare più opportuno cercare, nel breve periodo, di ricombinare il peso fiscale, alleggerendo decisamente l’Ir- pef e compensando tale manovra con un proporzionale incremento dell’Iva e dell’Imu. (Tra i molti, da ultimo, I. Cipolletta in: Corriere della Sera del 28 agosto 2013). Nel medio periodo è del tutto fuori discussione che occorre affrontare di petto la questione della quantità e soprattutto della qualità della spesa pubblica. In genera- le, come osserva da ultimo A. Zanardi (2013), la sensazione netta che si ricava dalla lettura delle vicende della finanza pubblica tra la fine del 2011, tutto il 2012 e i primi mesi del 2013, collocate sulle prospettive di medio termine, è quella di un sistema che si sta avvitando sempre più in una spirale perversa tra recessione economica e politiche fiscali di segno recessivo.

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A prescindere dai termini della discussione sulla leva da utilizzare per sostenere la crescita, è autoevidente che è necessario migliorare la qualità, effettiva e percepita, dei servizi pubblici ai cittadini e alle imprese e rio- rientare la composizione della spesa verso gli utilizzi più favorevoli allo sviluppo; investimenti infrastrutturali, innovazione, ricerca, istruzione, gestione dei territori, energia. Su questo punto l’accordo è profondo. Il recente documento siglato a Genova tra tutte le forze sindacali e Confindustria va esattamente in questa direzione. La mia riflessione si concentra sulle condizioni che potrebbero consentire di fare della revisione della spesa una reale occasione per innovare le politiche pubbliche. Il premio Nobel 2006, Edmund Phelps, ha individuato nell’innovazione tecnologica (più precisamente nel suo ritmo storico) la chiave della spiegazione dello sviluppo e del ristagno dei sistemi economici tra le due guerre mondiali: appare aderente alla realtà individuare nella capacità di innovazione una chiave cruciale dello sviluppo. E non è azzardato sostenere che comunque la capacità della pubblica amministrazione di innovare processi e servizi resi ai cittadini, in adesione al contesto economico generale, costituisce la chiave del successo di alcune economie europee, in particolare della Repubblica federale tedesca e delle economie dei paesi del Nord Europa. La stessa tenuta della Francia appare legata alla forza delle sue politiche pubbliche. Molti studi individuano proprio nel ruolo attivo e performante delle politiche pubbliche un elemento che aiuta e accompa- gna lo sviluppo innovativo del tessuto produttivo, in economie di mercato (da ultimo, si v. J.D. Sachs, Il prezzo della civiltà. La crisi del capitalismo e la nuova strada verso la prosperità, codice, 2012). Chi scrive è convinto che l’innovazione nei moduli operativi della pubblica amministrazione assume un ruolo cruciale in economie complesse e mature come quelle europee; e che in Italia il complessivo indeboli- mento delle politiche pubbliche che fanno da driver per lo sviluppo economico e la competitività di un sistema economico è alla base del declino relativo della nostra produttività multifattoriale. Mi sia consentito fare riferimento alla posizione di un vero autentico maestro tra i nostri economisti, P. Sylos Labini, sul tema del rapporto tra ristagno economico e spese pubbliche (in: Oligopolio e progresso tec- nico, Laterza, 1972). Sylos Labini, riprende la tesi nota di Hansen (post Keynes) e ne ripropone una lettura che sottolinea un punto che mi sembra assai attuale: la profonda differenza qualitativa sulla crescita, delle spese pubbliche produttive rispetto a quelle improduttive. E questa considerazione dovrebbe orientare (anticipo un concetto che svolgerò più avanti) la classificazione della spesa e la sua organizzazione e presentazione, per l’esame parlamentare, in programmi economicamente significativi. Più in generale, va osservato che nessun sistema economico evoluto è disposto a rinunciare agli strumenti della politica di bilancio, monetaria e fiscale per cercare di orientare e stabilizzare le fasi del ciclo economico. Sul punto la discussione teorica e pratica rimane del tutto aperta. E del resto sullo stesso ruolo della Banca cen- trale (e del suo grado d’indipendenza dalle autorità di governo) e sulle sue politiche monetarie (inflative target, guidance forward, ecc.) la discussione e soprattutto la prassi si è ora completamente riaperta. Naturalmente non sono questi i temi della mia riflessione: ma servono a inquadrare una questione di fondo; laspending (revisione della spesa) può essere una occasione formidabile per innovare in profondità le politiche pubbliche amiche del- lo sviluppo. Una spesa pubblica collocata nell’intorno del 50 per cento del Pil può costituire uno straordinario bacino cui attingere per innovare l’azione pubblica e promuovere la crescita; ciò tuttavia ad alcune condizione di metodo. Il punto cruciale sta nel mettere a fuoco in che cosa consista l’innovazione se applicata alle politi- che pubbliche; come diremo, il punto cruciale sta, probabilmente, nella capacità di offrire soluzioni a problemi complessi, che richiedono l’integrazione e la sintesi di profili analitici e metodologici pluridisciplinari, che vanno affrontati in un’ottica di sistema che tiene conto degli interessi di una collettività vista nel suo insieme e nel suo divenire. La spesa pubblica italiana è dunque divenuta un elemento di criticità; è a lungo cresciuta a tassi superiori a quello del prodotto nazionale. Negli ultimi 15 anni, soltanto nel biennio 1994-1995, nel 2000 e nel biennio 2006-2007 il tasso di crescita della spesa primaria corrente (quella cioè al netto degli investimenti e della spesa per interessi sul debito pubblico) è stato inferiore a quello del prodotto interno lordo. Tuttavia nel 2012, per il terzo anno consecutivo, la spesa pubblica primaria (netta d’interessi) è in contrazione nominale, mentre la pressione fiscale continua a crescere. Al riguardo, l’ultimo rapporto della Corte dei conti sul coordinamento della finanza pubblica (2013) offre indicazioni illuminanti. In un contesto di regole europee dove l’obiettivo di medio termine dei paesi aderenti all’eurozona rimane il pareggio strutturale di bilancio, tale andamento della spesa pubblica implica una grande difficoltà a contenere il livello di pressione fiscale. In effetti, per far fronte al rispetto degli obiettivi europei, anche nella fase di con-

348 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA trazione nominale della spesa primaria si è in realtà dovuto ricorrere a un inasprimento della pressione fiscale visto l’andamento recessivo del Pil. E tutta l’attenzione è tornata in modo pressante sulla valutazione degli effetti di politiche di consolidamento fiscale (meno spesa e/o più prelievo fiscale) sulla crescita. Ma misurare l’efficacia e l’efficienza della spesa pubblica non è esercizio di facile attuazione. Concettual- mente l’efficienza viene definita dalla relazione tra risorse impiegate (input) e beni e servizi prodotti (output). L’efficacia invece viene definita mettendo in relazione le risorse impiegate con il risultato finale (outcome) che si era prefissato attivando una determinata politica pubblica (1). L’evidenza disponibile in Italia riguardo l’effi- cacia e l’efficienza della spesa pubblica è piuttosto scarsa, fatto che riflette una debole cultura alla trasparenza sull’uso delle risorse pubbliche e alla produzione e utilizzo dei dati a fini valutativi. Date le difficoltà ogget- tive di misurare l’efficacia delle politiche, gli studi empirici disponibili sono maggiormente diretti allo studio dell’efficienza. Le evidenze disponibili mostrano una generale scarsa efficienza della spesa pubblica italiana, con forti eterogeneità sul territorio in termini sia d’input utilizzati per produrre lo stesso bene o servizio, sia in termini di risultati ottenuti. Per ovviare a questa carenza informativa, e per facilitare il processo della decisione parlamentare nell’allo- cazione delle risorse pubbliche, già nel corso del 2007 venne ridato slancio alla riforma del bilancio dello Stato, lungo le linee innovative a suo tempo incluse nella l. n. 94/1997, in buona parte rimaste poi non attuate. La riforma del bilancio intendeva fornire ai responsabili politici (Governo e Parlamento in primo luogo) uno sche- ma più nitido sulla graduazione e la distribuzione delle risorse disponibili per perseguire le finalità pubbliche stabilite dal contesto dell’ordinamento giuridico. In prospettiva, la riforma mirava a una semplificazione ge- stionale del bilancio che facilitasse il perseguimento delle priorità e degli obiettivi determinati dal legislatore. Quelle linee d’innovazione sono state sostanzialmente confermate dalla prassi successiva e poi dalla revisione organica della cornice contabile intervenuta con la l. n. 196/2009. (Sul punto v. infra, il paragrafo conclusivo). Le politiche pubbliche si presentano dunque come soluzioni a problemi complessi di rilevanza collettiva. Esse devono essere efficaci, ma soprattutto efficienti nell’utilizzo delle risorse: denaro, tempo, soggetti indi- viduali e collettivi coinvolti. Nel distribuire costi e benefici devono essere eque. Esse, inoltre, in un contesto democratico, devono essere capaci di dare risposte a questi problemi complessi attraverso meccanismi non autoritari idonei a trasferire nel processo decisionale la voce partecipata dei cittadini (Campi et al., 2008). La questione cruciale che domina il dibattito politico in Italia è quella del controllo della dinamica delle spese e delle entrate dove la parola controllo allude all’effettiva idoneità delle scelte politiche – e delle relative strumentazioni giuridiche, organizzative, gestionali, manageriali, ecc. – a guidare un processo e a non essere schiacciati da spinte esterne che premono sulla gestione annuale e prospettica dei costi connessi con la gestione del debito pubblico (tassi di interesse in particolare). Al centro dunque c’è il debito pubblico e la sua stabiliz- zazione di medio periodo secondo i vincoli europei; c’è, più in generale, il nesso tra crescita dell’economia e controllo dell’equilibrio della finanza pubblica. 2. La spending review: un’occasione per rinnovare le politiche pubbliche La letteratura sulle esperienze in materia di controllo della spesa pubblica è enorme nei paesi dell’area Ocse, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta (Monacelli e Pennisi, 2011). I termini spen- ding review o expenditure review si riferiscono solitamente a una serie di procedure e istituzioni legate alle decisioni, alla gestione e al controllo della spesa pubblica che si collocano entro più ampi processi di riforma delle istituzioni di bilancio. Le esperienze in ambito internazionale sembrano convergere intorno al duplice obiettivo di contribuire ad una maggiore disciplina fiscale e ad assicurare una migliore delivery dell’ammini- strazione pubblica. In particolare, c’è un certo accordo nella letteratura sul rilievo del profilo metodologico e sul fatto che l’uti- lizzo dell’analisi della spesa per rafforzarne il controllo richiede, oltre che di accrescere l’attenzione sulla fase ex post del processo di spesa (misurazione dei risultati, esame dei costi effettivamente sostenuti, valutazione dell’efficacia delle politiche), di intervenire sulla strumentazione della programmazione finanziariaex ante.

(1) A titolo di esempio si può utilizzare il caso dell’istruzione. Le risorse impiegate (insegnanti, strutture scolastiche, denaro) rappresentano l’input mentre l’output viene misurato con degli indicatori di performance quali il numero di studenti che conseguo- no un diploma. Il risultato perseguito dalle politiche dell’istruzione (outcome) invece può essere rappresentato dall’obiettivo di in- nalzare il livello delle competenze di un dato paese o quello di ridurre la disoccupazione giovanile o aumentare i livelli di benes- sere della popolazione.

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La spending review, potrebbe essere un’occasione per innovare e ripensare le politiche pubbliche e le strutture che le supportano, al servizio d’idee e linee di azione che devono sostenere un ciclo di reale sviluppo innovativo e competitivo della nostra economia. Si tratta di cogliere un tratto specifico della lunga vicenda della riforma mancata della nostra pubblica amministrazione: quello di un assetto procedurale dominato da categorie giuridico-contabili che non riescono mai a coniugarsi con una valutazione fine e nitida degli obiettivi e dei risultati economici e finanziari che le diverse politiche settoriali intendono conseguire e, soprattutto, hanno in concreto conseguito. È come se tra la guida politica e la realtà s’interponesse sempre un “servosterzo contabile” che devia la linea di marcia verso risultati leggibili e li trasforma solo in evidenze finanziarie. Naturalmente questo è il compito della contabilità finanziaria, ma essa dovrebbe essere (ex ante ed ex post) al servizio di risultati e obiettivi economici per aiutare a capire se e dove occorre innovare, cambiare, retrocedere e avanzare negli impegni di spesa e nel correlato mix di entrate fiscali e debito che li finanzia. Se la pubblica amministrazione viene concepita come un motore, non si tratta solo di ridurre il flusso della benzina; si tratta di modificare e riprogettare parti cruciali della meccanica per avere, con la stessa benzina, risultati migliori per i cittadini e le imprese. 3. L’esperienza della spending review in Italia 3.1. Studi e commissioni per riformare la pubblica amministrazione: un processo senza fine In passato, tutte le volte che si è aperto il cantiere della riforma della pubblica amministrazione si è ripetuto lo stesso schema: commissioni di studio presiedute da accademici rassegnano idee e proposte di un certo inte- resse per innovare strumenti e procedure. I risultati appaiono però sempre assai deludenti. Perché? Colpa dei politici spendaccioni, sempre alla ricerca del consenso a buon mercato? Colpa dei c.d. tecnici che in realtà poi operano sempre al riparo e col consenso dei politici di riferimento? Colpa di una tecno-struttura burocratica che assorbe e smorza ogni velleità riformatrice? Domande che hanno a che fare da vicino col rapporto tra politica e tecnica nel nostro paese: un nesso cruciale della vita democratica; ci torneremo nel corso di questa breve riflessione, dallo specifico angolo visuale dellaspending review. Una prima riflessione ci sentiamo, però, di avanzarla subito: per modulare, riorganizzare e innovare nelle politiche pubbliche, gli strumenti sono cruciali. Senza una comprensione esatta delle loro dinamiche, delle cul- ture, giuridiche, economiche e gestionali che mobilitano e degli interessi che mettono in gioco, tali strumenti vivono una vita propria, che riproduce e difende le culture e gli assetti dentro cui hanno costruito la propria storia e la propria stratificazione di potere. Ora, una certa autonomia dei saperi incorporati nella macchina amministrativa è forse necessaria per distanziare questa macchina dalla pressione immediata della politica; ma questi saperi devono risultare del tutto trasparenti nei metodi e nelle assunzioni che orientano le scelte. La politica pensa di guidare le danze, ma in realtà spesso resta prigioniera di un rapporto di cui perde il controllo e se i governi si susseguono a intervalli assai brevi, come avveniva nella “prima Repubblica”, la macchina burocratica è la sola guida stabile all’interno delle politiche pubbliche. Con i governi del maggioritario, a partire dal 1996, si realizza una certa stabilizzazione dell’indirizzo poli- tico; si istituisce una forma maggioritaria che, nel quadro di sistemi elettorali assai discutibili, da ultimo il c.d. porcellum, ha comunque consentito alle due coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra, che si sono alternate alla guida del paese, di realizzare in buona sostanza l’indirizzo politico di cui esse erano portatrici, sia pure in contesti economici internazionali differenti. Tuttavia, il rapporto tra questo indirizzo e le strutture burocratiche, a dispetto di continui annunci di ammo- dernamento, non migliora; anzi, peggiora perché piega verso un confuso sistema di spoils system che mortifica spesso il senso di appartenenza a una burocrazia imparziale, mentre non incentiva alcuna selezione autentica- mente meritocratica. 3.2. L’esperienza della Commissione tecnica per la finanza pubblica: si apre il cantiere della spending re­ view Il termine spending review entra nella discussione e nelle riforme del processo di bilancio italiano già a partire dal 1978, ma è in particolare a partire dal periodo 2006-2008 che prende avvio un vero e proprio pro- gramma, metodologicamente strutturato, di analisi dei processi di produzione quanti-qualitativi nei diversi set- tori di spesa (art. 1, c. 480, legge finanziaria 2007). Questo programma si muove all’interno di una contestuale revisione della struttura del bilancio dello Stato che viene riarticolato per missioni e programmi, utilizzando il

350 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA telaio normativo già introdotto con le riforme degli anni 1996-1997 (Ministro del tesoro Ciampi) e poi rimasto sostanzialmente inerte. Gli obiettivi sono tre: superare un approccio meramente incrementale alle decisioni sull’allocazione delle risorse; superare le tecniche dei tagli lineari ed orizzontali, giustificati con ragioni di urgenza; avviare tecniche di misurazione dei risultati raggiunti a fronte degli obiettivi previsti ex ante. Nel biennio 2006-2008 (XV Legislatura), Presidente del Consiglio Prodi, il cantiere della spending review viene (ri)aperto dal Ministro dell’economia e delle finanza pro tempore, Tommaso Padoa Schioppa. Le inno- vazioni introdotte in questo contesto dalla commissione tecnica per la finanza pubblica presieduta da Gilberto Muraro (d’ora in avanti Ctfp) appaiono oggi come il lascito tecnicamente più significativo per aprire il cantiere della valutazione delle politiche pubbliche avviato dal Ministro dell’economia e delle finanza pro tempore, Tommaso Padoa Schioppa (2). Lascito un poco messo da parte negli anni successivi ma ricco di indicazioni del tutto attuali. In via di prima approssimazione, sul piano del metodo, le analisi settoriali svolte dalla Ctfp mettono in evidenza che, per migliorare il grado di efficienza dei servizi resi dalle pubbliche amministrazioni, occorre: (i) partire da una analisi fine, approfondita e ben documentata di ogni programma di spesa; (ii) qualificare i c.d. “sprechi” come quelle risorse che, a parità di servizi resi, possono essere estratte dal processo produttivo attraverso una ricombinazione dei fattori; (iii) riesaminare ed eventualmente abbandonare quei servizi che sono giudicati inutili o duplicati da altri servizi; (iv) suggerire, per i servizi che devono essere resi, soluzioni orga- nizzative (norme, procedure, risorse umane e specialismi) che consentano economie di costo. Per avere risultati apprezzabili, è necessario operare con un orizzonte di tre-cinque anni, con una tecnica di continuo reporting e monitoraggio trasparente sullo stato di avanzamento del lavoro. Il programma di analisi e valutazione della spesa venne articolato nel 2007 in due processi iniziali volti a esaminare simultaneamente le priorità e l’efficacia dei principali programmi di spesa, nonché gli aspetti organizzativi comuni a tutte le amministrazioni pubbliche. Dopo un anno di attività le analisi, effettuate dalla nuova commissione tecnica per la finanza pubblica (Ctfp), vengono presentate prima in un Libro verde sulla spesa pubblica (il 6 settembre 2007) e poi in un rapporto intermedio sulla revisione della spesa (il 13 dicembre 2007) (3). Si cominciano a costruire metodologie e tecniche di controllo che, testate in modo utile in alcuni ministeri, possono essere esportate in altri contesti amministrativi; in particolare vengono individuate due macro aree di intervento orizzontale: la revisione della organizzazione territoriale delle amministrazioni (4); la revisione delle procedure amministrative e dell’organizzazione del personale, riprendendo la linea avviata nel 1996 dalle prime leggi sulla semplificazione. Nel 2007 il programma dispending review viene reso permanente con la legge finanziaria per il 2008. L’impostazione della spending review avviata nel 2007 si articolava su tre componenti di base: una com- missione che riuniva gli specialismi necessari ad indagare sulla composizione e sulle modalità operative delle diverse politiche finanziate col bilancio pubblico; un raccordo organico tra questi specialismi e un nuovo servi- zio studi istituito ad hoc nell’ambito della Ragioneria generale dello Stato (Rgs), quale ponte tra le acquisizioni della commissione e le conseguenti soluzioni contabili e gestionali; una nuova articolazione del bilancio statale in missioni e programmi, visti quali contenitori delle risorse finanziarie destinate ad alimentare specifiche poli- tiche di settore e quale sede per il riesame analitico della base normativa di queste politiche (5). Questa impostazione prendeva le mosse da una precisa analisi dei caratteri strutturali della situazione in atto. In primo luogo, il ciclo della programmazione, gestione e controllo della spesa continua a essere dominato da categorie giuridico-contabili a dispetto di un’abbondante fraseologia normativa che evoca concetti quali efficienza, efficacia, controllo del cittadino, ecc. Il punto sta nel capovolgere questa impostazione: le soluzioni contabili e gestionali devono seguire ed essere strumentali rispetto agli obiettivi messi a fuoco dalla spending review. Naturalmente ciò deve avvenire nel contesto delle categorie contabili che classificano in via generale

(2) La Ctfp, a cui venne affidato il compito di innervare nella pubblica amministrazione le metodologie della spending review, sostituiva la commissione tecnica per la spesa pubblica operante tra il 1981 e il 2006. (3) Si v. commissione tecnica per la finanza pubblica (2007a) e (2007b). (4) Il Mef apre in concreto questa revisione con la legge finanziaria del 2007, stabilendo una tempistica e un metodo per ac- corpare le sue strutture provinciali. (5) Va segnalato che questa impostazione prefigurava anche una prima unificazione operativa tra i servizi del bilancio dei due rami del Parlamento, immaginando in nuce la struttura poi istituita con l’art. 5 della l. cost. n. 1/2012. Tuttavia questa iniziativa è stata fortemente osteggiata dalle burocrazie parlamentari.

351 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 le spese; ma l’operazione di base che associa queste categorie alle spese deve essere espressione di una ana- lisi fine, condotta con criteri omogenei a fronte delle diverse tipologie di spesa. Ciò implica un’integrazione molto forte tra i responsabili amministrativi della spesa, gli specialismi che valutano il rendimento dei fattori impiegati nei diversi programmi e la Rgs che deve tradurre queste acquisizioni in autorizzazioni di bilancio. E il tutto deve essere espresso in documenti chiari e comprensibili ai cittadini, al Parlamento nazionale e all’au- torità europee. I vincoli europei, seppure stringenti, lasciano alla decisione politica importanti campi di scelta; i documenti di bilancio devono rendere nitide e stabili le priorità che sono incorporate nelle scelte finanziarie. Il secondo carattere costituisce il profilo interno del primo: tutte le procedure sono centrate sul controllo analitico ex ante della Rgs su tutti gli atti e sul controllo successivo della Corte di conti. Questo è un dato co- essenziale in un’organizzazione a diritto amministrativo come la nostra, che deve preoccuparsi della legalità e della legittimità della sua azione. Tuttavia, importanti esperienze europee (Francia, Germania, Paesi Bassi) dimostrano che è ben possibile riorientare le procedure amministrative e di controllo, centrando il lavoro sulla qualità dei servizi e sui risultati; tracce di queste linee di lavoro ci sono nella nostra legislazione, spesso con enunciazioni molto articolate, ma la situazione concreta è ancora molto deludente nel complesso. (6) Il terzo carattere, strettamente connesso ai primi due, è una ben scarsa autonomia e responsabilizzazione dei dirigenti amministrativi che sono titolari dei poteri di spesa, a dispetto del loro status giuridico-economico e delle enfatiche attribuzioni di profili di responsabilità dirigenziale, rimasti sempre a contenuto variabile e vago. Secondo l’impostazione adottata nel 2007, riesaminare con il metodo della spending review i programmi significa ridisegnarne l’articolazione e, se necessario, il numero sulla base dell’esperienza, partendo dal con- trollo del Parlamento; significa riorganizzare in modo trasparente i materiali normativi che li compongono e infine ricomporre le classificazioni contabili in coerenza con la loro struttura interna e con gli spazi di decisione da riconoscere a chi li gestisce. Una tale prospettiva di lavoro è resa ora molto più incisiva e densa di innovazioni in ragione della recente revisione costituzionale dell’art. 81 Cost. (l. cost. n. 1/2012) che ha eliminato il carattere “formale” (contenuto tipico e competenza limitata) della legge di bilancio, rimettendo la successiva tipizzazione di questa legge, che delimita i rapporti tra Governo e Parlamento nella fase di costruzione dei conti pubblici, ad una fonte legislativa deliberata con un quorum qualificato, dato dalla maggioranza dei componenti di ciascuna Camera: lo stesso quorum che è necessario per deliberare nuovo debito a fronte di circostanze straordinarie (7). Quindi una tale prospettiva di lavoro non può essere concepita come un calco che dall’alto viene fatto calare da un gruppo “che studia e conosce le cose”: è una prospettiva che richiede la mobilitazione e l’integrazione delle amministrazioni e l’attitudine, questa nuova e da costruire, a concepire la gestione e il controllo della spesa come la risultante effettiva di questa integrazione tra apporti specialistici diversificati. In molti settori le basi conoscitive accumulate in questi anni sono estese ed esaurienti. Il punto cruciale sta nel connettere queste acquisizioni in soluzioni normative e contabili coerenti con queste basi e nello sperimen- tare schemi di gestione e controllo coerenti con questi obiettivi. In quest’ ottica, un ruolo cruciale spetta alla funzione pubblica che deve soddisfare alcune precondizioni essenziali. La prima precondizione di questa impostazione è infatti la costituzione di una forte cabina di regia politi- ca. Probabilmente è lo stesso Consiglio dei ministri che deve impostare le linee guida della spending review e monitorarne via via i risultati e le acquisizioni. Questo metodo dovrebbe essere un’eccellente occasione per rivitalizzare le funzioni di controllo del Parlamento, coinvolgendolo nelle fasi di avanzamento e ricomposi- zione dei programmi di spesa, riconciliando, per questa via, politica e tecnica. La seconda precondizione è la partecipazione attiva e critica delle amministrazioni e della dirigenza nella costruzione delle basi di dati e metodi da utilizzare nella definizione degli obiettivi di razionalizzazione dei diversi settori di spesa e nella loro implementazione. A tale riguardo, è cruciale una ridefinizione accurata dei compiti della dirigenza nel quadro di una linea di ridimensionamento degli organici che è stata intrapresa, fin dal 2006, con tecniche di tagli oriz- zontali. Si tratta ora di procedere a una ricognizione sul campo delle funzioni effettivamente svolte (esercizio

(6) Tutta la delega contenuta nella l. n. 15/2009 (legge “Brunetta”) è intrisa da questa linea di controllo dei risultati ma non vi è alcuna connessione tra gli strumenti della delega e la costruzione delle autorizzazioni da iscrivere in bilancio: sono due mondi separati in termini non solo culturali ma soprattutto organizzativi e gestionali. (7) Secondo il fiscal compact definito in sede europea, “nuovo” va inteso come aggiuntivo rispetto alla quota di debito coeren- te con l’equilibrio strutturale dei conti pubblici.

352 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA di effettive funzioni di organizzazione e direzione delle risorse umane e di scelta allocativa di risorse entro at- tribuzioni determinate) dentro un disegno che omogeneizza e rende trasparenti e confrontabili i trattamenti tra centro ed enti locali e che riveda i compiti delle amministrazioni centrali a fronte dei processi di decentramento intervenuti fin qui. In questo senso l’idea della costituzione di un albo generale dei dirigenti delle Stato e degli enti centrali, prima introdotta e poi abbandonata nel recente passato, dovrebbe essere ripresa. Occorre riconoscere, con lo sguardo retrospettivo per il tempo trascorso, che la quantità e la qualità delle innovazioni introdotte nel biennio 2006-2008 restano molto rilevanti; soprattutto se confrontate con tempi e modi operativi delle precedenti esperienze di commissioni tecniche. Sul punto torneremo dopo. 3.3. La Ragioneria generale dello Stato al centro della spending review Con la XVI Legislatura, la Ctfp viene soppressa, secondo quella che era stata una insistita richiesta della Ragioneria generale dello Stato (Rgs), che aveva in sostanza subìto la istituzione di un collegio tecnico indi- pendente potenzialmente invasivo del suo territorio. Infatti, è alla stessa Ragioneria, e in particolare al servizio studi, che era stato istituito insieme alla commissione tecnica, poi soppressa, che questi compiti vengono trasferiti (sul punto torneremo più avanti). La legge di contabilità e finanza n. 196/2009, che sostituisce inte- gralmente la l. n. 468/1978 novellata all’incirca ogni dieci anni, istituisce i nuclei di analisi e valutazione della spesa, nel cui ambito deve svolgersi la collaborazione tra il Mef e le singole amministrazioni centrali dello Stato. I nuclei hanno il compito di individuare e quantificare i fattori che ostacolano l’ottimale allocazione e l’utilizzo efficiente delle risorse. In sostanza, la spending review viene innervata nella organizzazione della Rgs, riconducendo a questa struttura burocratica la raccolta dei dati relativi sia alla fase di esecuzione della spesa (risultati, costi di produzione dei servizi, valutazione dell’efficacia delle politiche), sia alla fase di impo- stazione ex ante delle risorse da iscrivere nel bilancio dello Stato e nelle previsioni tendenziali relative a tutto il settore delle pubbliche amministrazioni; si tratta di fasi cruciali ai fini dei criteri europei di convergenza, cioè per costruire una programmazione finanziaria attendibile e capire quali sono le correzioni da introdurre nelle tendenze spontanee. Quello dell’assetto organizzativo della spending review è un profilo, a nostro avviso, cruciale per compren- dere in concreto che cosa stia avvenendo nel nostro paese con le recenti decisioni sui risparmi chiesti a molti settori della macchina pubblica e quali prospettive si aprono. La scelta organizzativa fatta con la l. n. 196/2009 costituisce un preciso e deciso cambio di rotta rispetto all’unico precedente strutturato messo in campo nel 2007 dall’allora Ministro dell’economia Padoa Schioppa. Il punto non sta nel guardare indietro ma nel capire perché vi sia stato questo cambio di assetto, quali esiti esso abbia prodotto e potrebbe produrre in futuro, se non si hanno chiari gli obiettivi dell’azione di revisione, e che segno ha fin qui assunto laspending review rilanciata dal governo Monti (si v. al riguardo il successivo par. 3.4). Queste sono le questioni che proponiamo all’atten- zione del lettore, con l’ambizione di delimitare un campo di discussione e riflessione che ci sembra cruciale per le scelte di politica economica della legislatura che si apre (8). Diciamo subito che, a nostro avviso, se non si comprendono, padroneggiano e gestiscono in modo appro- priato i nessi organizzativi della spending review appare molto difficile introdurre cambiamenti significativi rispetto alle prassi del passato. Il nodo cruciale sta nella qualità delle culture e degli specialismi che devono occuparsi, settore per settore, della spending e dei modi con cui questi specialismi si confrontano con la fase di programmazione e allocazione al margine delle risorse. Questo tema coincide nella sostanza con la stessa idoneità della struttura amministrativa ad auto-rappresentarsi in modo aderente alla realtà, a interagire con gli utilizzatori dei servizi amministrativi e a costruire una scala di priorità chiara per il decisore politico, il governo in primo luogo e poi il Parlamento. Le scelte recenti confermano che al centro di tutto il processo, ex ante ed ex post, si situa la Rgs. Si tratta di capire se esistono le condizioni pratiche per integrare in questo organismo quel mix necessario di cultura giuridico-contabile (largamente dominante nella tradizione di questo istituto e della Corte dei conti che vive “in simbiosi” con la Rgs condividendone il sistema informatico) e di competenze economiche e gestionali, che devono coesistere e auto-alimentarsi in una moderna visione del controllo delle performance delle po- litiche pubbliche. Si tratta di capire se il controllo delle politiche pubbliche è in prevalenza una questione di risorse finanziarie da dominare in tutte le fasi contabili della spesa o è anche, direi soprattutto, una questione

(8) Si v. al riguardo: Mef, 2008; Senato della Repubblica, 2012; De Ioanna et al., 2012; Hinna, Marcantoni, 2012; Cnel, 2012; Goretti, Rizzuto, 2013.

353 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 di verifica in progress dell’efficienza e adeguatezza degli strumenti che danno corpo alle politiche pubbliche che innervano un’economia complessa. Se prevale solo il punto di vista del controllo di ragioneria, la partita dello sviluppo economico, che non può essere trascurata nel processo di revisione della spesa pubblica (9), ci sembra posta su un binario assai problematico. Tuttavia, pur tra luci e ombre si profila all’orizzonte un soggetto nuovo dotato di rilevanza costituzionale: il c.d. organismo indipendente per il controllo dei conti pubblici (10). Una dinamica nuova, che ripropone il nesso tra controllo della finanza e analisi economica, può forse venire da questo organismo, che dovrebbe operare con un forte tasso di indipendenza al servizio della formazione di un processo di bilancio democratico trasparente, fondato su dati discussi e monitorabili. Siamo a un passaggio molto delicato per lo sviluppo delle istituzioni democratiche nel nostro paese. Ci sembra comunque un segno importante che tutti i materiali elaborati durante la fase di avvio del progetto di spending review nella XVI Legislatura (dicembre 2011), dapprima oscurati, siano stati ricollocati sul sito del Mef e siano ora consultabili. Un cammino interrotto frettolosamente e senza particolare riflessione riprende ed è possibile forse trovare il filo giusto per andare avanti. 3.4. La spending review secondo il governo dei tecnici L’esperienza del governo dei tecnici (Monti) è terminata da poco; c’è stata una tornata elettorale e un nuovo inedito governo si è formato, sotto la pressione dell’urgenza delle cose; ma i nodi strutturali dell’eco- nomia italiana restano ancora assai densi. Abbiamo fermato il treno mentre stava cadendo nel vuoto – e non è poco – ma il motore che lo ha condotto fuori dai binari, per cause largamente connesse alla stessa architettura imperfetta dell’eurozona, è ancora lo stesso. I materiali normativi che hanno dato corpo alla strategia dell’in- tervento di emergenza (a cominciare dai testi sulla riforma pensionistica) sono espressione della stessa tecnica che ha dominato negli anni precedenti: curvare le tendenze di cassa sulla base degli effetti associati alla mera applicazione dei dispositivi normativi in atto. L’analisi economica previsiva sugli effetti di questi interventi è tutta affidata a una visione fiduciosa, quasi salvifica, delle risposte del mercato. Ma la realtà è un poco diversa. L’operazione di spending review avviata dal governo Monti si è articolata in due decreti legge adottati a metà del 2012 e poi nella legge di stabilità. La strada scelta non è stata quella di collegarsi in qualche modo al lavoro di base già svolto dalla Ctfp presieduta da Muraro, che aveva già analizzato approfonditamente cinque settori di spesa importanti (scuola, infrastrutture, università, trasporti e giustizia) per i quali aveva formulato proposte di riorganizzazione e di riallocazione dei fattori produttivi (ridefinizione delle politiche del personale, per quanto riguarda ruoli e retribuzioni, e delle modalità di acquisizione di beni e servizi) (11). Si è preferito organizzare una sorta di regia centralizzata – inizialmente assegnata alla responsabilità del Ministro dei rapporti col Parlamento Piero Giarda – che ha operato in sostanza à côté del Mef e poi partire da un’analisi dei macro involucri di spese aggredibili, distinguendo tra un potenziale teorico di spese pubbliche sottoponibili ad un processo di revisione con qualche utilità (si è indicato in circa 290 miliardi questo poten- ziale) e una massa di spese che potevano nel breve periodo essere aggredite con immediati risultati per cassa (circa 80 mld). Queste cifre hanno circolato, anche a livello giornalistico, con sorprendente superficialità, ali- mentando illusioni e derive semplicistiche. Gli 80 miliardi di potenziali risparmi nel breve periodo si riferivano in sostanza alla massa di spesa per i consumi intermedi di contabilità nazionale, in particolare all’acquisto di beni e servizi dello Stato e degli enti locali, includendovi le spese del settore sanitario compresa la farmaceu- tica e i beni strumentali durevoli. Si tratta di un approccio che capovolge quello adottato nel 2006-2008 e che ci sembra essere stato dettato dall’esigenza di conseguire una base di risparmi da utilizzare come copertura ex ante, per evitare l’incremento delle aliquote Iva (già deciso per la seconda metà del 2012) e per far quadrare i conti verso l’impegno del pareggio strutturale nel 2013 (12). È interessante osservare che il governo Monti ha integralmente assunto nel proprio orizzonte i dati previsio- nali della spesa pubblica incorporati nel Documento di economia e finanza presentato dal precedente governo Berlusconi, dove veniva esposta l’analisi del quadro macroeconomico del 2011 e le previsioni per il 2012 e per il triennio 2012-2015. Per tutto il periodo considerato la previsione di spesa per il personale e per consumi

(9) Il legame tra spending review e politiche per lo sviluppo verrà ripreso e sviluppato nel par. 4. (10) Organismo introdotto dalla recente riforma della nostra costituency in materia di equilibrio del bilancio pubblico, sotto la spinta dei nuovi vincoli europei (fiscal compact) che hanno condotto alla modifica dell’art. 81 Cost. (11) Si v. commissione tecnica per la finanza pubblica (2007c) e (2008). (12) Gli elementi quantitativi di questo approccio si possono rinvenire in Giarda (2012).

354 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA intermedi resta stabile in termini nominali: quindi si prevede la più profonda riduzione mai effettuata in termini reali dal dopoguerra. Tuttavia quel Documento stimava per il 2011 e per il 2012 una crescita modesta ma posi- tiva del Pil (13) mentre sappiamo ora che la flessione del Pil a fine 2012 sarà almeno del 2,5 per cento. Errore clamoroso di previsione, errore normale o errore dettato dalla completa sottovalutazione degli effetti indotti dai tagli sulla spesa pubblica? Frutto dell’ideologia prevalente in Europa sugli effetti creativi dei tagli? Se ne comincia a discutere in modo appropriato solo ora ma ci sono timori e timidezze non comprensibili, soprattutto da parte di quei centri di analisi che fanno previsioni per mestiere. Considerando la legge si stabilità approvata a fine 2012, sono stati decisi tagli con effetti di cassa di natura nominalmente permanente pari a 3,7 miliardi nel 2012, 10,5 miliardi nel 2013 e 11,2 miliardi nel 2014. Altri 4 miliardi di tagli sono stati preordinati a carico degli enti locali. A questi tagli vanno aggiunti quelli già decisi nelle precedenti manovre estive del 2011 dall’allora Ministro dell’economia Tremonti a valere sulle spese plu- riennali: circa 15 miliardi nel triennio 2012-2014. Impostata in questo modo, per grandi numeri e non per settori e obiettivi mirati, ragionati e quantificati, appare più chiaro per quale ragione quando il pallino della spending review viene affidato al super commissario Bondi – per ottenere qualche risultato visibile e spendibile nel breve – la strumentazione abbandona il carattere di “bri- colage senza bussola” e vira decisamente verso arnesi piuttosto approssimativi ma più densi di risultati spendibili: l’analisi di costi medi nazionali di una panoplia di servizi e prodotti utilizzati dagli enti locali e dalle Asl (14). La spending review dovrebbe essere il contrario dei tagli lineari. Implica l’analisi costante dei fattori di co- sto al fine della loro razionalizzazione per produrre efficienza e, come conseguenza, risparmio di spesa (o uso più efficiente delle risorse). Nel caso in esame non si verifica nulla di tutto ciò: i decreti, scarni e tassonomici, si limitano a riportare l’elenco delle strutture di cui viene rideterminato il budget applicando la tosatura del valore registrato nei conti economici (Ce) del 2011. La riduzione è brutale anche perché avviene ad anno pressoché concluso: annunciata a settembre viene attuata a novembre inoltrato, in contrasto con il principio, più volte ribadito anche in sede giurisdizionale, che l’azione programmatoria della regione, finalizzata a regolare l’offerta sulla base dei fabbisogni, non può essere esercitata ex post, ma deve precedere l’attività di gestione, che altrimenti non può essere organizzata in modo efficace. Dunque la costruzione di indici medi nazionali doveva essere l’antefatto per costruire indici per aree territo- riali omogenee, depurati da errori legati alle diverse formule organizzative. Se un ente locale ha esternalizzato un servizio, quella spesa non appare più nel suo bilancio in forma diretta e calare l’indice medio nel suo bi- lancio può produrre effetti del tutto controproducenti. Il punto sta nell’analizzare se quella formula, a parità di servizi, ha consentito in definitiva minori esborsi netti a carico del bilancio dell’ente ma se il risultato per cassa deve essere presentato (alle Camere, alla Commissione europea) occorre tirare dritto senza troppe finezze. Non è dunque certamente casuale che all’ennesima prova di restrizione fiscale d’urgenza, anche il governo Monti abbia sostanzialmente fatto a meno di utilizzare un qualche criterio di standardizzazione dei fabbisogni e

(13) A fine 2011, le stime erano state già riviste dal governo nella nota di aggiornamento del documento di finanza pubblica prevedendo una crescita ancora positiva dello 0,6 per cento per il 2012, mentre la Commissione europea stimava una crescita del- lo 0,1 per cento e il fondo monetario una decrescita di -0,3 per cento. (14) Un esempio dell’azione del Commissario Bondi, che rende particolarmente quanto fino a ora rappresentato, si evince dai decreti n. 348/2012 e n. 349/2012 che lo stesso ha emanato come commissario della sanità del Lazio. La scelta è stata quella di procedere a fine anno a una riduzione secca e di dimensioni rilevanti della spesa, senza alcuna concertazione con i soggetti inte- ressati. All’incapacità di programmare il sistema, si risponde quindi con l’aritmetica bruta del taglio senza se e senza ma. È evi- dente che non si affrontano così i problemi della sanità regionale: limitarsi alla dimensione quantitativa colpisce gli operatori e so- prattutto i cittadini, che vengono privati dei livelli essenziali di assistenza. Restano solo sfiorate le spese improduttive, le ineffi- cienze del sistema, che possono essere aggredite solo entrando nel merito. Anziché attenuarne la genetica torsione finanziaria, si accentua, dopo cinque anni, la dimensione quantitativa del Piano di rientro, senza aggredire i nodi strutturali, che producono gran- de squilibrio nei conti e accumulazione di debito sommerso. Al decreto n. 95/2012 (convertito dalla legge 135) è stato dato il nome di spending review. In realtà, si tratta, come si è detto, di disposizioni di taglio lineare finalizzate esclusivamente al contenimento quantitativo della spesa, senza alcuna attenzione alla sua na- tura. In questa tipologia rientra l’art. 15, c. 14 che dispone “una riduzione dell’importo e dei corrispondenti volumi di acquisto in mi- sura percentuale fissa ... tale da ridurre la spesa complessiva annua, rispetto alla spesa consuntivata nel 2011, dello 0,5 per l’anno 2012, dell’1 per cento per l’anno 2013 e del 2 per cento a decorrere dall’anno 2014”, dei soggetti privati accreditati per la assistenza specia- listica ambulatoriale e per l’assistenza ospedaliera. La determinazione dei tagli è affidata alle regioni (nel Lazio è stata veicolata dai richiamati decreti commissariali n. 348, sulla specialistica ambulatoriale e n. 349, sulle prestazioni ospedaliere).

355 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 dei costi relativi, al fine di operare in modo più fine e selettivo in sede di tagli. Come è stato osservato, non c’è vera spending review senza fabbisogni standard e né la prima né i secondi hanno rilevanza specifica conclusiva ai fini di un ragionamento sulle capacità fiscali dei territori; ma questo è un altro discorso che ha a che fare con l’inconsistenza delle basi analitiche del nostro “federalismo fiscale” (su cui torneremo brevemente nel par. 5). 4. Il controllo delle dinamiche della spesa: un nodo cruciale tra esigenze di cassa e strategie di riforma L’esperienza della spending review esaminata nel precedente paragrafo ripropone dunque il tema centrale del “come” sia possibile innervare questa esperienza nel nostro ordinamento; cioè delle condizioni tecnico-or- ganizzative che occorre affrontare e risolvere, nella concreta situazione amministrativa italiana, se questa pro- spettiva di lavoro deve avere un seguito e una sua stabilizzazione. Si tratta di un profilo cruciale e per nulla ovvio. Si tratta di una questione generale di metodo che deve essere costruita in vista di un obiettivo preciso. Il metodo deve essere diretto all’analisi strutturale degli strumenti che danno corpo alle diverse politiche pub- bliche; l’obiettivo quello di riorganizzare i fattori che vengono impiegati nelle politiche per fornire servizi più efficienti ai cittadini e alle imprese. Con questa prima formulazione abbiamo già in sostanza escluso che la spending review debba avere come obiettivo prioritario e unificante quello di comprimere con tutti i mezzi –in primis con tagli lineari – l’erogazione dei servizi pubblici, allo scopo di correggere (per cassa) le deviazioni dai saldi previsti nei documenti di bilancio. È un metodo questo che, ad avviso di chi scrive, fallisce sistematica- mente dalla seconda metà degli anni Ottanta (si v. anche: Sartor, 1998; Balassone et al., 2011). Il rispetto dei vincoli fa ovviamente parte del ciclo della decisione di bilancio, ma la spending review deve avere un obiettivo più ambizioso e generale: quello di riconsiderare in concreto le modalità di utilizzo delle risorse per metterle al servizio di una scelta trasparente della scala di priorità da trasferire nelle scelte di bilan- cio. Dunque, la spending review deve operare non solo a valle, ma anche e soprattutto a monte del vincolo di bilancio e deve fornire gli elementi per trasformare le scelte di bilancio in leve per lo sviluppo economico. La via è quella di operare sulla funzione di produzione della pubblica amministrazione. Concettualmente questa assunzione ci sembra decisiva: se la funzione di riorganizzazione dei fattori produttivi (risorse umane, beni e servizi, investimenti fissi, ecc.) è essa stessa costruita e svolta in funzione della contrazione della spesa entro il vincolo precostituito, è evidente che è solo il vincolo di spesa che guida tutta l’operazione; quindi la spen- ding review è uno strumento della correzione dei trend inerziali di spesa. Ciò che rileva non è la qualità delle operazioni che si compiono ma il loro grado di adesione alle contrazioni per cassa necessarie a raggiungere gli obiettivi quantificabiliex ante; ed è questo grado di attendibilità delle operazioni di riduzioni ex ante che viene osservato in Parlamento, anche per organizzare un certo livello di misure marginali di riallocazione apparente- mente compensate. Che cosa succederà poi (ex post) – in termini d’impatto sull’economia dell’impulso immes- so dal bilancio attraverso la modulazione dei flussi di cassa – conta meno, tanto non c’è nessuno che controlla e valuta: la spending review ha esaurito il suo compito. Dunque, una parte non secondaria della risposta a questi interrogativi sta, ad avviso di chi scrive, proprio nelle modalità con cui questa esperienza fu avviata negli anni 2007-2008 e poi fu fermata. Oggi, nel vivo di una crisi economico-finanziaria senza precedenti, la spending review è divenuto il simbolo dell’azione, appena conclusa, del governo dei c.d. tecnici e la bandiera di tutti i programmi elettorali, ma dietro la mobilitazione simbolica quali sono i nodi reali da sciogliere? In un contesto, condizionato dai vincoli europei, si ripropone una dicotomia sempre presente tutte le volte che in Italia nel secondo dopoguerra si è affrontato il tema del controllo della spesa pubblica: conseguire obiet- tivi di breve periodo coerenti con le esigenze della situazione economica generale (in gergo giornalistico, “fare cassa”) ovvero cercare di rinnovare e riassestare in profondità la macchina amministrativa in coerenza con le esigenze dei cittadini e delle imprese. I due temi non sono separati e in conflitto ma richiedono una notevole capacità di tenere insieme monito- raggio fine dei risultati day by day e azione riformatrice, con finalità strategiche chiare e dichiarate. In questa prospettiva, l’esistenza di un vincolo di bilancio ragionevole costituisce di per sé un elemento che aiuta le amministrazioni ad auto-programmarsi ma, come vedremo, per far questo, esse hanno bisogno di reali capacità di analisi e margini di flessibilità nella gestione delle risorse. Questa è una delle ragioni per le quali sarebbe utile spostare tutto l’asse della strumentazione contabile verso la costruzione di bilanci centrati sulla cassa e non sulla competenza contabile. Si tratta della stessa dicotomia che si ripropone per intero anche oggi, anche se con una caratterizzazione analitica in più. Oggi sappiamo che l’economia italiana è in stagnazione e che questa fase dura ormai da oltre un quindicennio. L’Istat e la Banca d’Italia hanno evidenziato, con dovizia e puntualità

356 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA di dati e analisi, il fenomeno della flessione costante della produttività multifattoriale: l’orchestra (il sistema economico italiano) suona una musica mediocre mentre singoli solisti, nel campo della manifattura industriale, tirano ancora l’export e fanno impresa e innovazione. E la pubblica amministrazione che ruolo gioca? Se le cose fin qui dette hanno fondamento, la fase economica in cui operiamo impone, ad avviso di chi scrive, un’assunzione preliminare: la spending review deve essere del tutto funzionale a una precisa, motivata e condivisa analisi delle cause della crisi e delle modalità per uscirne. Essa deve essere costruita come una grande operazione politica, culturale e tecnica. Ad esempio, se l’analisi portasse alla conclusione che la forza della manifattura italiana e la sua capacità e resistenza nello stare sui mercati mondiali si rafforza solo con una robusta azione di tagli delle spese pubbliche (correnti in particolare), se si ritiene che il peso della pubblica amministrazione grava sulle spalle di imprese performanti, innovative e proiettate nel mercato globale e che lo sviluppo viene solo dall’afflusso da capitali esteri, allora la spending review dovrebbe avere un solo compito: tagliare le spese, purchessia, ridurre la pressione fiscale e lasciar fare al mercato, in particolare incentivando l’export in tutti i modi. Naturalmente questo “purchessia” non esclude una qualche azione di razionalizzazione e valutazione dello stato dei programmi in essere, ma si tratterebbe di una funzione strumentale rispetto alla fi- nalità principale da conseguire in tempi certi e inderogabili; tempi dettati oggi dall’obiettivo del conseguimento del pareggio strutturale del bilancio pubblico entro il 2013 e dal suo mantenimento negli anni successivi. La spending review è infatti uno strumento per la stabilizzazione del debito dentro i vincoli europei. Questa è la priorità politica che risulta incorporata ora in un Trattato internazionale (il c.d. fiscal compact) costruito come strumento al servizio di una fase di avvicinamento ad una maggiore integrazione delle politiche comunitarie e dello stesso orizzonte istituzionale europeo. È ovvio che, anche assumendo questa priorità generale, rimangono spazi per decidere quali politiche e quali spese sono da considerare più produttive in termini di sostegno alla crescita, quali sono obsolete o comunque riducibili senza contraccolpi eccessivi, quali azioni occorre intrapren- dere per cercare di produrre gli stessi servizi a costi più contenuti. A chi scrive sembra che l’orizzonte entro cui si è collocata in buona sostanza, pur con qualche elemento interessante di novità, la spending review rilanciata dal governo Monti sia rimasto al fondo espressione delle stesse logiche e tecniche che hanno dominato in passato le politiche di contenimento della spesa (i c.d. tagli orizzontali), operazioni che avevano (e hanno) come obiettivo prioritario il conseguimento di effetti ragione- volmente quantificabili ex ante di contenimento per cassa delle uscite per raggiungere e mantenere la rotta del bilancio in pareggio strutturale. In altri termini, se si ritiene che la pubblica amministrazione debba solo ritirarsi e contrarsi nei suoi confini operativi e finanziari per consentire ai privati e al mercato di spingere la crescita, allora la funzione della spending review sostanzialmente è quella riattivata dal governo Monti. A questo punto il discorso potrebbe fermarsi: tutto l’armamentario che si è cercato di montare in questi anni andrebbe ripreso e aggiornato, ma gli attrezzi per agire ci sono, occorre semplicemente porvi mano e correg- gere qua e là. Poi la rotta è tracciata: pareggio e ancora pareggio, tagli e ancora tagli. E la crescita e il lavoro? Verranno da soli quando arriveranno i capitali dei fondi sovrani, dei grandi investitori istituzionali e delle hol- ding internazionali. È una visione legittima ma, ad avviso di chi scrive, molto ideologica e disancorata dalle esigenze storiche reali di una comunità nazionale che deve affrontare oggi e ora, insieme ai partner europei, le questioni del lavoro e dello sviluppo. Secondo questa visione, l’effetto recessivo dei tagli alla spesa pubblica è visto come un fattore poco rilevante a fronte dei vantaggi che i tagli indurrebbero nelle aspettative di cittadini e imprese; il settore privato incorporerebbe atteggiamenti espansivi, via consumi e investimenti, spinti dalla contrazione del settore pubblico e dalla necessaria contestuale robusta flessione della pressione fiscale. La Banca centrale europea – diversamente dalle omologhe istituzioni statunitensi, cinesi e inglesi – deve occuparsi per statuto solo della stabilità dei prezzi e dell’inflazione mentre alla crescita e all’occupazione ci pensa solo il mercato. Si tratta di una concezione sottoposta ora a una serrata critica in sede scientifica e da parte delle stesse organizzazioni economiche internazionali che avevano fatto dei tagli alla spesa pubblica una sorta di pre- condizione obbligata per la crescita. Ora anche queste organizzazioni consigliano più cautela e una maggiore attenzione alle situazioni specifiche di ogni paese nonché alla composizione delle misure di correzione e agli effetti di breve e di medio termine (iAGS, 2012; Blanchard e Leigh, 2013). Comunque, a prescindere da questioni generali di analisi economica, se si ritiene invece che in Europa la forza di un sistema di manifattura industriale stia soprattutto nella rete dei servizi avanzati che lo sostengono e che questa rete di servizi è pubblica e privata e che il ruolo della struttura amministrativa è cruciale per di- segnare politiche pubbliche coerenti con un sistema paese che vuole stare in Europa e crescere, allora il tema

357 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 della spending review verrebbe ad assumere un valore davvero strategico. Non è una prospettiva questa che non tiene conto dei vincoli europei, ma li riconduce dentro una spiegazione della crisi e dei modi e delle forme per uscirne che assegna alle politiche pubbliche attive (innovazione, ricerca, istruzione, sanità, infrastrutture, trasporti, energia) un ruolo cruciale. Il presente contributo ha assunto questa seconda prospettiva come prioritaria, provando a descrivere che cosa sarebbe necessario fare, soprattutto con riferimento all’assetto organizzativo e alla metodologia che devo- no implementare la spending review. Infatti, ciò che ci sembra rimanga ancora nell’ombra è l’azione di sistema che si richiede alla pubblica amministrazione per assumere la funzione di forza vettoriale del cambiamento. Chi scrive è convinto che spetti proprio alla pubblica amministrazione, sulla base di chiare priorità politiche, conformare la rete, lo spartito della innovazione nei nodi cruciali, per rilanciare la crescita. C’è un certo accordo nelle analisi economiche più recenti sul fatto che la composizione settoriale dell’in- dustria spiega solo in parte la caduta di produzione nel nostro paese. Mentre infatti una quota importante si spiega con la caduta della domanda interna, si è posto in evidenza che la maggior proiezione verso l’export delle industrie tedesche e francesi è alla base della più rapida ripresa di queste economie. Dunque, se ragioniamo in termini di perdita di competitività sull’export, le questioni cruciali da risolvere riguardano sia la minore quantità d’innovazione incorporata nei nostri manufatti industriali, sia la minore capacità di veicolare i nostri prodotti su una rete di trasporti interna, connessa con le reti esterne, capace di valorizzare il gap positivo di qualità-prezzo-­ -brand dei nostri manufatti. Al netto della caduta della domanda interna, è condivisa l’analisi che riconduce la nostra debole competitività alla flessione relativa del contenuto d’innovazione tecnologica e scientifica in- corporato nei nostri prodotti. Il futuro, continuano a spiegarci buona parte degli studi economici più recenti, si garantisce solo con la ricerca scientifica e le sue applicazioni e ricadute tecnologiche sulle filiere produttive. Ma se è così, si ritorna al nocciolo delle politiche pubbliche. Nel campo della ricerca e dell’innovazione i fondi pubblici sono in flessione e la ricerca nel privato è nettamente inferiore alla media europea, resistendo solo in poche grandi società (si tratta in particolare dei due grandi soggetti che dominano il settore dell’energia: Enel ed Eni) e in alcuni settori di nicchia (in particolare quella farmaceutico strettamente legato alle scelte adottate nel sistema sanitario). Lo spostamento di risorse (scarse) dalla istruzione verso la sanità, effetto indotto da una sbilenca architettura istituzionale c.d. federale, non è estraneo a questa perdita di competitività multifattoriale (Franco, 2012; Di Giacinto et al., 2012; Italia decide, 2012). 5. Innovare radicalmente la macchina amministrativa L’obiettivo della spending review, dunque, non è tagliare purchessia ma innovare in profondità per realizza- re politiche pubbliche che assecondino sviluppo e produttività. La questione cruciale è quella della ricombina- zione dei fattori produttivi (risorse umane e tecniche) sul territorio e tra le strutture che articolano le politiche. Ed è una prospettiva di lavoro di medio periodo che deve innervarsi in una azione strutturata e ben compresa soprattutto dagli operatori della pubblica amministrazione: una sorta di rimotivazione dal basso e dall’alto dell’agire pubblico che richiede un dialogo tra i livelli della rappresentanza territoriale del tutto fuori dalle ritualità fumose che hanno segnato questi anni dominati da un finto federalismo fiscale. In nome di un federalismo molto ideologico ma privo di basi fiscali abbiamo consegnato un servizio essen- ziale di cittadinanza, la sanità, alla capacità negoziale di una mediocre classe politica locale, mentre abbiano la- sciato al centro le competenze in materia di scuola, università e ricerca. Le conseguenze dopo oltre un decennio (2000-2010) sono evidenti. La scuola e la ricerca hanno ceduto circa due punti percentuali di Pil alla sanità (15) e in questa ultima le diversità territoriali si sono accentuate: i cittadini del Sud sono costretti a farsi curare assai speso al Nord per avere cure decenti: l’esatto opposto del “votare con i piedi” enfatizzato dai sostenitori di un federalismo che non c’è. A questo punto della riflessione una prima considerazione ci sentiamo di farla. Il cosa e il quanto ridurre non è tanto affare dei professori o dei c.d. tecnici. È affare squisitamente politico: si tratta infatti di scegliere con cura le priorità e tradurle in scelte di bilancio.

(15) Se si considerano i consumi finali della pubblica amministrazione, la quota percentuale dell’istruzione sul totale scende infatti dal 25,1 per cento del 1990 al 19,5 per cento del 2009, a fronte di un incremento della quota relativa alla sanità dal 29,6 al 33,4 per cento. Il divario tra le due divisioni Classification of the functions of government (Cofog) passa dai 4,4 punti del 1990 ai 14 punti del 2009.

358 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

L’idea di chiedere ai cittadini di denunciare gli sprechi è brillante: sposta l’attenzione dai nodi reali (la difficoltà di riorganizzare la macchina burocratica) verso un sentimento diffuso di anti burocrazia sul quale tutti possono essere d’accordo. Passato l’effetto della trovata mediatica, resta per intero il nodo effettivo: come si rende efficiente la macchina burocratica in un’economia industriale di mercato avanzata che ha bisogno di trasporti, reti, energia, ricerca, legalità, innovazione, ecc.? Come si innovano le politiche pubbliche? Come abbiano detto in precedenza, il nodo cruciale e strutturale che deve affrontare la spending review in Italia è solo questo: come si rinnovano le amministrazioni pubbliche rendendole responsabili e propulsive ai fini della produzione di servizi cruciali per le imprese e i cittadini? L’involucro finanziario globale è dato da vincoli che abbiamo in qualche modo accolto, ma come questo involucro si distribuisce tra le diverse politiche, come si valutano l’andamento di queste politiche e i relativi risultati, come si rende questo processo trasparente e aperto per i cittadini e il Parlamento che deve approvare le proposte del governo? I tecnici della spending review producono corposi volumi di metodologie e strategie (comunicazione, grup- pi, ecc.) ma non toccano la questione cruciale: come si distribuisce il potere di decidere la spesa nel governo, come si coinvolge utilmente e attivamente il Parlamento nella scelta delle priorità fiscali (entrata-spesa) e come si delega questo potere alla dirigenza una volta definite a livello politico le priorità generali e settoriali. La struttura del bilancio in missioni e programmi, parte centrale del disegno della spending del 2006-2008, aveva proprio questa funzione. Ma in realtà c’è un nesso ancora più cruciale a monte. Ha poco senso denunciare il carattere distruttivo dei tagli lineari se non si parte dall’assunto che il nodo preliminare non è quello di censire in astratto gli sprechi esistenti – un lavoro senza fine come la tela di Pe- nelope – ma invece quello di avere una diagnosi aderente alla realtà delle ragioni della mancata crescita della nostra economia. La spending review non deve montare l’ennesima macchina di metodi che producono “carte a mezzo di carte”; deve prima esprimere una spiegazione delle ragioni della crisi della caduta della nostra pro- duttività multifattoriale e deve inserirsi come un cuneo affilato in questa spiegazione. In altri termini, l’urgenza e la vastità della nostra crisi presuppongono una ripresa nitida di capacità analitica e direzionale da parte della nostra classe dirigente, politica in primis. La spending è il modo con cui una nuova classe dirigente propone al paese le vie per innovare ruolo e efficacia dell’azione della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini e delle imprese. Siamo morti di metodi e procedure in questi ultimi venti anni; abbiamo bisogno di un’analisi condivisa, chiara e credibile dei fattori che possono innescare un nuovo processo di crescita economica e civile. Se non è questo, la spending review è l’ennesimo inutile tentativo di modernizzare la pubblica amministra- zione, senza anima e senza bussola. O forse è un modo meno rozzo di imporre tagli semi-lineari ai servizi ai cittadini. Allora metodi e procedure sono strettamente funzionali alle cose che occorre fare per rianimare la crescita, il lavoro e la speranza di chi ha talento e voglia di operare. 6. Costi del personale, lotta all’evasione, alleggerimento della pressione fiscale e spesa per investimenti: un processo unico Ad avviso di chi scrive, nell’attuale fase del ciclo economico non dovrebbe essere perduto un solo posto di lavoro pubblico, in particolare se occupato da un giovane e soprattutto se a titolo precario. Non ha senso diminuire anche di un solo euro in termini reali il monte salari del pubblico impiego. Lo scambio da proporre alle forze sociali che assumono un ruolo cruciale nel meccanismo d’implementazione della spending review dovrebbe configurarsi in questo modo: il lavoro pubblico viene mantenuto e ove possibile incrementato per i giovani, con procedure rigorosamente concorsuali e selettive; la necessità di ricombinare in molti settori i fattori produttivi richiede che tutte le posizioni professionali, da quelle di vertice al più giovane dei bidelli, debbano essere disponibili a radicali processi di ricollocazione sul territorio e di formazione intensa e profonda a nuovi compiti. Il punto non deve essere la licenziabilità dei dipendenti pubblici ma la loro flessibilità per aderire ad una riorganizzazione profonda della macchina amministrativa. La funzione pubblica è l’infrastruttu- ra che supporta i diritti di cittadinanza (scuola, sanità, ricerca, ecc.) e le prospettive d’investimento dei privati (pianificazione del territorio, trasporti, ecc.) ma questa funzione di supporto è efficace solo se essa aderisce in modo nitido ai processi di trasformazione economico-sociale. Non si tratta di scimmiottare i moduli dell’azione privata e del diritto societario; si tratta di ricomporre le funzioni autoritative pubbliche rendendole idonee a seguire una fase dello sviluppo economico nella quale la risposta pubblica va modulata ai tempi e ai modi di un’organizzazione sociale che si alimenta d’innovazione nei profili professionali, nelle culture e negli specia- lismi richiesti dai processi produttivi. La garanzia del procedimento come luogo della partecipazione e della

359 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 trasparenza resta cruciale – è una delle poche reali novità del diritto amministrativo degli ultimi decenni – ma questa garanzia deve essere resa funzionale alle esigenze reali dei tempi e della qualità nelle risposte richieste alle pubbliche amministrazioni. Nella sanità, nell’università, nella ricerca, nei trasporti queste esigenze sono cruciali per tenere insieme crescita e cittadinanza. Se la spending review equivale a un’incombenza ammini- strativa in più per imprese e cittadini, la strada non è quella giusta. Tutto ciò richiede una rivisitazione delle regole organizzative dei settori e dei comparti di contrattazione collettiva e dei relativi accordi sulla mobilità, “realizzando piani industriali, amministrazione per amministra- zione, dei servizi e delle strutture della pubblica amministrazione” sulla linea di quanto già prefigurato nel protocollo sulle relazioni industriali nella pubblica amministrazione del maggio 2012 (Cnel, 2012, 6). L’orizzonte macro delle spending review che immaginiamo dovrebbe seguire queste linee guida (De Ioan- na, 2013): - la crescita finale della spesa pubblica (spesa corrente e investimenti reali, non finanziari) dovrebbe essere mantenuta entro il limite della crescita del prodotto; - dentro questo limite, tutte le riduzioni reali della spesa corrente dovrebbero servire a finanziare diretta- mente in bilancio, con meccanismi automatici, nuove o maggiori spese di investimento, preventivamente de- finite, nel campo della ricerca e innovazione delle imprese, della ricerca pubblica, della formazione di qualità del personale pubblico; - tutte le maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione documentate a consuntivo vengono utilizzate per diminuire la pressione fiscale a beneficio dei lavoratori a reddito medio basso e delle imprese che investono. La strumentazione di bilancio, rappresentazione dei programmi e dei meccanismi di gestione, dovrebbe rendere evidente e monitorabile questa rotta da mantenere per un periodo tale da riportare l’evoluzione dei conti sotto controllo e bloccare la crescita del debito. Non è negli obiettivi di questa esposizione fornire una dimostrazione quantitativa di questa spending review ma riteniamo che alcuni dati dimostrino la sua fattibilità. L’assunto parte dalla considerazione che il peso degli interessi è la variabile cruciale e che esso si stabilizza e flette a fronte della concreta e verificata constatazione che la dinamica della spesa è in controllo e che la ge- stione si muove rigorosamente lungo questa linea. E che, soprattutto, la crescita riparte secondo ritmi coerenti con la crescita dei grandi partner europei. Qui torniamo alla divaricazione tra analisi e strategie per uscire dalla crisi. Le aspettative degli investitori internazionali si muovono con grande rapidità tra due parametri di riferi- mento: crescita attesa e strumenti di stabilizzazione monetaria. Più mercato, meno imposte e meno Stato o invece controllo della spesa pubblica produttiva, più politiche pubbliche innovative, meno evasione, meno spesa corrente improduttiva e più equità nella distribuzione. Sono due visioni che attingono alle vicende e alle analisi economiche degli ultimi venti anni; entrambe legittime ma diverse. Sono due visioni che toccano anche l’idea comunitaria e in progress federale che abbiamo dell’Europa. La spending review sta in questo dilemma la cui soluzione pratica sta nella verifica della crescita senza la quale entrambe le visioni si arenano. Chi scrive è convinto che nel delicato rapporto tra tecnica e politica la prima non può e non deve sostituirsi alla seconda. Si deve perseguire un contesto in cui la conoscenza della situazione in cui si inserisce la decisione qualifichi la decisione stessa. Nessuno potrebbe auspicare un sistema in cui decisioni determinanti per un paese siano di fatto prese da soggetti non rappresentativamente qualificati, sull’onda di una pseudo tecnicità di tali decisioni (De Ioanna e Landi, 2012). In un certo senso, la ripresa analitica di una vera discussione sugli obiettivi e i limiti dell’azione pubblica in Italia può essere un modo assai serio per tentare di ritessere il filo di un’opinione pubblica più informata e meno soggetta a ondate emotive di tifo elettorale. È un modo serio per ridiscutere della nostra storia recente. Dunque analizzare con cura i meccanismi, gli obiettivi, i metodi e i risultati dei programmi che consumano risorse prelevate coattivamente dai cittadini ci sembra un eccellente modo per ricostruire su basi più solide il nostro stesso rapporto con la cittadinanza democratica e, quindi, la nostra stessa idea di democrazia. 7. Conclusioni 7.1. Tre condizioni preliminari: qualità e completezza dei dati; competenza e integrazione degli specialismi; chiarezza dei comandi e degli incentivi Nel precedente paragrafo si sono delineati i contenuti di quelli che riteniamo essere i caratteri essenziali di

360 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA una vera spending review. Si pongono tre condizioni preliminari fondamentali per l’effettiva implementazione di un processo di controllo della spesa che si configura come una vera e propria politica pubblica specifica. Nella struttura di una politica pubblica la pre-condizione cruciale è la qualità, la completezza e la tempe- stività delle informazioni. La seconda questione fondamentale è la competenza degli specialismi che operano dentro le strutture che devono integrarsi per costruire e gestire la politica pubblica. La terza questione è la chiarezza dei comandi e degli incentivi che la politica pubblica trasmette agli operatori che agiscono, dentro e fuori del mercato, in quel determinato segmento di politica pubblica. È del tutto evidente che i monopoli conoscitivi si traducono in monopoli di potere. Occorre rompere il monopolio informativo del governo, a partire dai dati di bilancio. A prescindere dalla costruzione della gover- nance più efficiente, occorre rendere fruibili, controllabili e monitorabili i dati e la loro formazione e consentire a tutti i centri di analisi (universitari, pubblici, privati, ecc.) di interagire con questi dati e fornire il proprio do- cumentato punto di vista. Gli obiettivi attesi e i risultati effettivamente conseguiti devono essere spiegati dalle strutture del governo e discussi nelle commissioni permanenti delle Camere. E questa è la precondizione e la base per costruire, implementare e monitorare ogni politica pubblica. 7.2. Valorizzare la classificazione per programmi della spesa; passare a una contabilizzazione per impegni e a una rappresentazione di bilancio per cassa Il bilancio dello Stato ha tre funzioni principali: è strumento di rappresentazione delle risorse pubbliche disponibili (funzione informativa), è strumento per la decisione politica (funzione allocativa) e strumento per la gestione delle risorse allocate (funzione esecutiva). L’informazione contenuta nel bilancio deve essere fruibile sia ai membri del Governo e del Parlamento, sia ai contribuenti che debbono essere informati sulle scelte dei decisori politici. Vi è chiaramente un trade-off tra completezza dell’informazione e fruibilità: tanto più l’infor- mazione è completa e di dettaglio, tanto meno è leggibile ai non addetti ai lavori. Questo trade-off può essere attenuato impostando il bilancio per diversi gradi di approfondimento, lasciando le informazioni di tipo genera- le le più semplici possibili e demandando a livelli più di dettaglio la conoscenza della ripartizione delle risorse tra iniziative più micro. La chiarezza dell’informazione riguarda anche il modo e il momento di contabilizza- zione della spesa, se sotto forma di stanziamento, di disponibilità di cassa, d’impegnato, di speso ecc. Questo profilo tocca direttamente aspetti interni della tecnica delle procedure contabili in vigore e della loro coerenza con i criteri di convergenza economica che in sede europea vincolano la politica di bilancio dei paesi membri. La seconda funzione del bilancio (quella allocativa) si esercita nella ripartizione delle risorse disponibili tra usi alternativi; la recente revisione dell’art. 81 Cost. (e la successiva legge rinforzata n. 243/2012) hanno rimosso i limiti contenutistici stabiliti per la legge di bilancio dal vecchio c. 3 dell’art. 81 Cost. e creato le pre- messe per un superamento dell’assetto binario della decisione di bilancio (legge di stabilità-legge di bilancio): limiti che hanno condotto in passato alla prevalenza di letture eccessivamente formalistiche in ordine alla inno- vazione ammissibile direttamente nella legge di bilancio; ora è chiaro che la legge di bilancio ha un contenuto sostanziale di indirizzo di politica economica, pur restando confermata la necessità di una sua tipizzazione e specializzazione funzionale. Del resto già da tempo, da più parti si è sottolineato che occorreva tornare ad una sessione di bilancio incentrata sul disegno di legge di bilancio e alla gestione ordinaria delle risorse, deman- dando alla finanziaria solo interventi a carattere straordinario (16). La funzione esecutiva (terza funzione del bilancio) viene esercitata con riguardo alla gestione amministra- tiva delle risorse una volta che il bilancio è approvato dal Parlamento. La struttura del bilancio utilizzata fino all’esercizio 2008 non assolveva compiutamente a queste tre funzio- ni. In particolare, essa era di difficile lettura cosicché la discussione parlamentare sull’insieme della manovra di bilancio finiva inevitabilmente per riguardare esclusivamente il disegno di legge finanziaria e non quello di bilancio. L’attenzione era cioè riposta su quell’1-2 per cento dell’insieme delle risorse da allocare annualmente tra bilancio e finanziaria, trascurando la quasi totalità delle risorse pubbliche. La ripresa del processo di riforma del bilancio dello Stato ha inteso rendere più efficaci tutte e tre le fun- zioni, puntando a offrire informazioni più leggibili circa l’insieme complessivo delle risorse disponibili per perseguire specifiche finalità pubbliche. Tale maggiore leggibilità viene, in teoria, ottenuta attraverso una revi-

(16) Si v. l’audizione del Ministro dell’economia e delle finanze Tommaso Padoa Schioppa presso le Commissioni Bilancio di Camera e Senato riunite del 25 settembre 2007.

361 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 sione della classificazione delle spese per rappresentare in modo più univoco, sintetico e trasparente le finalità perseguite dallo Stato. La attuale organizzazione si fonda sulla classificazione delle risorse pubbliche secondo due livelli di ag- gregazione, le “missioni” e i “programmi”, in linea con le esperienze internazionali di classificazione del bilancio per programmi (17). Si tratta di un primo passo di un percorso pluriennale che dovrebbe portare a una rivisitazione della componente gestionale del bilancio e alla diffusione sistematica del monitoraggio e della valutazione della spesa. La classificazione proposta permette di passare da un bilancio strutturato sulla base di chi gestisce le risorse (per centri di responsabilità) a un bilancio che individua cosa viene fatto con le risorse attivate dalla singola amministrazione attraverso la spesa pubblica (per funzioni). I vantaggi della riclassificazione dovrebbero risultare sia per l’organo legislativo sia per l’esecutivo. Al Par- lamento, la riclassificazione del bilancio dovrebbe permettere di stabilire l’allocazione delle risorse confrontan- do diverse finalità e ponendo l’attenzione non solo sulle variazioni proposte con il disegno di legge di stabilità (con la riforma dell’art. 81 Cost. le variazioni saranno presentate nelle due distinte sezioni della nuova legge di bilancio, art. 15 della legge rinforzata n. 243/2012), ma anche sulle risorse già appostate dalla legislazione vigente. Dovrebbe risultare potenziata le possibilità di monitorare in itinere e valutare ex post la realizzazione o meno delle finalità pubbliche per le quali è stata decisa l’allocazione delle risorse. Il governo può dunque cercare di organizzare e realizzare un processo continuo e ben strutturato di analisi e valutazione della spesa (spending review), affiancando al bilancio strutturato per finalità dello Stato un sistema di obiettivi e indicatori che fissino risultati attesi e che possano essere utilmente monitorati e valutati. Un bi- lancio strutturato per finalità facilita inoltre la semplificazione delle strutture amministrative dei ministeri, con una più diretta identificazione dei responsabili della gestione delle risorse. Dunque il percorso di riforma ha ripreso slancio con la riaggregazione per missioni e programmi del bilan- cio dello Stato. Vi sono però molte iniziative a cui è necessario dar seguito per evitare che la riclassificazione adottata rimanga solo un modo diverso di rappresentare il bilancio senza incidere sui meccanismi di decisione e di gestione della spesa pubblica. È dunque auspicabile in primo luogo sottoporre a verifica la correttezza delle missioni e dei programmi già individuati, apportando le eventuali modifiche attraverso un confronto continuo con le amministrazioni di spesa. Le esperienze internazionali in materia di bilancio per programmi mostrano che la struttura tende ad avere una fase di assestamento di qualche anno, e che è importante comunque mante- nere una certa flessibilità per far spazio a nuovi programmi (18). Va poi semplificata la parte gestionale dei programmi, attraverso una rivisitazione degli attuali capitoli di bilancio. La struttura parcellizzata dei capitoli riduce la leggibilità delle informazioni sul bilancio e permette una rendicontazione soltanto finanziaria in quanto non vengono chiaramente individuate le azioni perseguite. Inoltre, rende difficoltosa la gestione delle risorse in quanto “ingessa” la struttura del bilancio ad una classi- ficazione per capitoli molto capillare limitando fortemente l’azione e le scelte del dirigente responsabile. La determinazione di un limite autorizzativo fissato a un livello più aggregato, aggregazione già costruita nella l. n. 94/1997, era un modo pratico per creare le condizioni giuridiche per uno statuto di maggior autonomia e responsabilità di bilancio per i dirigenti. Questo è un profilo rimasto del tutto sterilizzato nelle applicazioni della l. n. 94 cit. In terzo luogo, va implementato un nuovo rendiconto generale dello Stato, che permetta di evidenziare il rapporto tra risorse utilizzate e risultati conseguiti, integrato con una rendicontazione di tipo economico, sulla falsa riga del “rapporto di performance” del bilancio francese. La maggiore flessibilità gestionale delle risorse da perseguire spostando l’attenzione sui programmi, va accompagnata con chiare procedure di rendi- contazione, con audizioni periodiche dei ministri di spesa nelle competenti Commissioni parlamentari in cui si andrebbe a “render conto” dell’utilizzo delle risorse assegnate. Per questo, è necessaria l’identificazione di chiari obiettivi e indicatori di efficacia ed efficienza per ogni programma. In quarto luogo, va ricordato che la riclassificazione del bilancio riguarda lo Stato, ma non coinvolge gli enti di previdenza e gli enti locali. Le missioni più ampie finanziariamente sono proprio quelle dei trasferimenti dal bilancio dello Stato agli enti locali e agli enti di previdenza. A fini conoscitivi, sarebbe utile costruire anche per gli

(17) Si v., ad esempio, il sistema di classificazione del bilancio francese, disponibile al seguente sito internet: www.performance­ publique.gouv.fr/fileadmin/medias/documents/ressources/LFI2008/missions_programme_2008.pdf. (18) Si v. Robinson, van Eden (2007).

362 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA altri enti della pubblica amministrazione un bilancio per missioni e programmi, in modo da individuare come le risorse trasferite dal bilancio dello Stato vanno a contribuire alla realizzazione dei programmi gestiti da altri enti. Vanno poi individuati in maniera formale i “coordinatori” o “responsabili di programma” all’interno delle amministrazioni, in modo da favorire un approccio sistemico e superare le attuali divisioni di competenze nell’ambito dello stesso ministero tra diversi centri di responsabilità. In una prima fase, il coordinatore di programma potrebbe essere uno dei dirigenti generali preposti al programma che abbia il compito non tanto di gestire l’intero programma quanto di favorire un coordinamento tra i diversi soggetti che, all’interno del ministero, hanno la responsabilità condivisa sul programma. Esso potrebbe essere stabilito dal ministro con semplice atto amministrativo e non richiederebbe una riorganizzazione dell’amministrazione. Infine, poiché si rende immediatamente leggibile il legame diretto tra risorse stanziate e azioni perseguite, andrebbero individuate e rese note in maniera univoca le norme di spesa che sottostanno a ciascun program- ma. La presentazione del disegno di legge di bilancio per programmi dovrebbe essere associato a un allegato che elenca la normativa di spesa sottostante. In questo modo si potrebbe gradualmente effettuare un’azione di accorpamento delle diverse leggi di spesa che insistono sul medesimo programma e individuare una o poche “leggi di programma”. Il principale risultato di queste azioni sarebbe quello di dare maggiore flessibilità gestio- nale ai ministeri e di evitare il proliferare di norme che vengono inserite in finanziaria al solo scopo di spostare fondi all’interno dello stesso programma (cfr. 2009, P. De Ioanna, A. Montanino, S. Nicoletti Altimari). Dunque programmi e missioni si presentano come un veicolo per introdurre queste innovazioni. Un altro elemento rilevante è il superamento della natura limitata della legge di bilancio. Tuttavia, ad avviso di chi scrive, la questione cruciale non è tanto la natura giuridica della legge di bilancio ma l’integrazione di compe- tenze specialistiche (economisti, ingegneri economisti, ecc.) dentro le strutture amministrative che impostano e gestiscono i programmi. Gli specialismi tecnici come profili di competenza che arbitrano soprattutto nelle scelte d’investimento nei confronti dei contabili; che arbitrano rispetto a visioni solo dominate da esigenze procedurali e di controllo formale; specialismi che sono consapevoli dei limiti dell’analisi economica settoriale e s’integrano e discutono con le strutture che elaborano le linee generali delle priorità di bilancio (si v. per l’esperienza francese, H. Mazoyer, in Gouvernement e action publique, Sciences Po, ottobre-dicembre 2012). Vorremmo ricordare ancora che sia la Francia sia la Germania sono portatrici di due visioni molto struttura- te sul ruolo delle politiche pubbliche; è forse un po’ riduttivo pensare che esse siano espressione di due diverse visioni del rapporto tra Stato e mercato. Germania più mercato e Francia più orientata alla pianificazione cen- trale; la differenza sta probabilmente nella diversa capacità di specializzazione produttiva che le due economie sono riuscite a orientare e spingere dopo l’introduzione dell’euro; ma questa diversa attitudine, ad avviso di chi scrive, non ha tanto a che fare con un’idea astratta del mercato, quanto con la capacità di orientare e specializ- zare lo sviluppo (e quindi il mercato) in settori ad alta innovazione tecnologica (processo e prodotto) dove le politiche pubbliche hanno un ruolo cruciale. In questo senso, chi scrive è da tempo convinto che il passaggio alla cassa e la revisione delle procedure contabili (contabilizzazione degli impegni; costruzione di limiti di cassa per la gestione, annuale e pluriennale), possono costituire un elemento importante. In un sistema evoluto possono coesistere registrazioni contabili degli impegni sulla base dei diritti costituiti (obbligazioni perfezionate, art. 34, l. n. 196/2009), e metodi di definizioni delle autorizzazioni per cassa che determinano la sfera di responsabilità gestionale del dirigente con poteri di spesa. Questa intuizione c’era tutta nel sistema misto (cp-cs) introdotto in via sperimentale con la l. n. 468/1978. Ma in realtà non c’è stata alcuna vera sperimentazione. La cassa ha operato come un doppio della competenza e come strumento di controllo sul processo di formazione del fabbisogno. La coesistenza dei due sistemi non ha prodotto risultati apprezzabili né sul terreno della contabilizzazione né su quella della gestione. Chi scrive, in sede di revisione della l. n. 468/1978 (l. n. 196/2009) ha sostenuto l’opportunità di passare a un sistema di sola cassa: tra i vantaggi: semplificazione, maggiore trasparenza e maggiore responsabilità gestio- nale del dirigente. Tesi in parte raccolta e poi accantonata; si vedano ora le interessantissime proposte del Cnel (disegno di legge sui contenuti della legge di bilancio, giugno 2013, Rel. M. Carabba). Nella politica di bilancio sono essenziali: la procedura e la distribuzione dei poteri decisionali; la prepara- zione e il coinvolgimento delle diverse branche dell’amministrazione; il controllo politico del Parlamento, la possibilità di riorientare le scelte; la trasparenza e la stabilità nei metodi (contabilizzazione e presentazione in bilancio delle risorse). In definitiva, ciò che è cruciale è la chiarezza nelle priorità incorporate nella allocazione delle risorse e nella distribuzione delle responsabilità. Al riguardo, mi sia consentito sottolineare che i paesi

363 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 più performanti in Europa sono quelli nei quali la democrazia rappresentativa funziona meglio, dove il Par- lamento, dentro schemi razionalizzati, emenda e controlla, con una chiara imputazione di responsabilità delle scelte; Francia, Germania, Svezia, Danimarca, ecc. Ciò in un certo senso è la prova della fondatezza della tesi che fonda la legittimazione dei processi legislativi sulla loro funzione dimostrativa: cioè sulla loro idoneità a formare il consenso sulla base dell’informazione e della discussione critica (N. Lhumann). A lungo termine, solo la democrazia rappresentativa resta un valore, politico e tecnico, da tutelare contro tecnocrazie, spesso opache nella loro investitura. A questa considerazione si lega il tema, a mio avviso sempre centrale, della tipicità della forma della legge di bilancio. Coloro che non attribuiscono rilevanza a questo profilo della tipicità della forma della legge di bi- lancio in realtà non comprendono i nessi cruciali della democrazia rappresentativa; secondo questi l’oggettività della previsione a medio termine (elaborata dalle scelte della tecno struttura) avrebbe ormai tolto ogni potere di scelta reale alla rappresentanza. Si tratta peraltro di una questione cruciale, da analizzare a fondo in altro contesto analitico. 7.3. Alcune linee guida L’insieme delle riflessioni svolte in precedenza e la valutazione delle esperienze di economie industriali paragonabili alla nostra, convergono nella definizione di alcune linee guida che dovrebbero potersi organizzare intorno alle seguenti modalità di fondo (De Ioanna, 2013): a) riportare al centro (governo) il controllo della programmazione (ex ante) e del monitoraggio degli anda- menti dei flussi finanziari e dei risultati delle gestioni; b) creare alcuni focus strutturati interministeriali (con apporti esterni) nei settori cruciali: innovazione, energia, ambiente e politiche industriali; previdenza e mercato del lavoro; sanità; pubblica istruzione e ricerca scientifica; a ognifocus andrebbero affidati l’esame critico e la manutenzione normativa dei programmi del bi- lancio statale che articolano le relative politiche pubbliche in connessione informativa e operativa con il centro che controlla la programmazione e l’andamento dei flussi finanziari; c) progettare meccanismi trasparenti e automatici di bilancio che connettono i risparmi di spesa corrente con maggiori investimenti e i proventi della lotta all’evasione con la diminuzione della pressione fiscale; d) decentrare le effettive responsabilità gestionali a centri di imputazione ben individuabili; ciò si ottiene affidando al centro di responsabilità un envelope di risorse non valicabile e mettendo in campo strumenti che impediscono di superare questo limite; e) implementare progetti che prevedono l’accessibilità on line dei servizi offerti da tutte le amministra- zioni centrali e locali, utilizzando in modo appropriato le tecnologie dell’informazione (Arpaia et al., 2009); soprattutto nell’area degli acquisti di beni e servizi, un uso esteso delle tecnologie informatiche in primo luogo attraverso l’e-procurement (in particolare per la spesa sanitaria) consentirebbe sensibili effetti di contenimento dei costi e di costruzione di solidi e trasparenti parametri di riferimento in sede di negoziazione dei servizi. A queste linee guida, mi sia consentito infine accostare le sette linee generali del buon governo, ricordate da Jeffrey D. Sachs (2013, op. cit.): definire obiettivi e parametri di riferimento chiari; mobilitare le compe- tenze; elaborare piani pluriennali; essere attenti al futuro remoto; mettere fine alla corporatocrazia; ricostruire il management (la dirigenza, n.d.r.) pubblico; decentrare (che è l’opposto del c.d. federalismo italiano, senza basi fiscali, n.d.r.). Sono tutti criteri che hanno molto a che fare in Italia con la ripresa di una seria revisione della spesa, ben strutturata, non improvvisata per esigenze di cassa, amica dello sviluppo e dei bisogni dei cittadini.

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LINEE GUIDA PER LA REGOLAZIONE DELLA SPESA NELLE AMMINISTRAZIONI TERRITORIALI

di Stefano Pozzoli

Sommario: 1. Premessa. – 2. I controlli interni. Il percorso. – 3. Cosa accade altrove: cenni all’esperienza anglosassone. – 4. La misurazione delle performance come strumento di democrazia. Cenni critici al de- creto sui fabbisogni standard. – 5. Il sistema dei controlli tra Carta delle autonomie e decreto enti locali. Conclusioni. – 5.1. Controllo di gestione e controllo sulla gestione. – 5.2. Il controllo di gestione quale espressione di effettiva autonomia direzionale. – 5.3. Il controllo sulla gestione come contributo alla effet- tività di scelta democratica.

1. Premessa Il controllo di gestione, ovvero quella tipologia di controllo che dovrebbe essere orientato a verificare l’ef- ficienza e quindi, per sua natura, al contenimento della spesa, entra nelle pubbliche amministrazioni italiane per forza di legge e non perché vissuto come una necessità da parte dei singoli enti: in sostanza, la sua imple- mentazione non risponde a una esigenza interna, ma viene immaginato come una modalità per costringere le aziende pubbliche a indirizzarsi nel senso di una maggiore managerialità. In altre parole è visto, confusamente, come uno dei “grimaldelli” per realizzare quella versione tutta italiana del New public management (1), a cui si è appunto ispirato quel processo da noi complessivamente definibile come “aziendalizzazione”. L’imposizione per legge di un controllo interno di tipo manageriale, da una parte, dimostra la consapevolez- za che esso sia un “vettore di innovazione”; dall’altra, però, rende la credibilità del sistema quanto mai delicata, poiché rischia di farlo percepire come l’ennesimo adempimento. Viene da dire che il legislatore si sia voluto approcciare al New public management non cogliendone l’es- senza ma solo per seguire una moda culturale. E, per di più, cedendo alle pressioni corporative, l’ha inserito in un contesto che, benevolmente, potremmo definire evolutivo (e non di rottura) del sistema pubblico tradiziona- le, senza interiorizzarne la natura di vera e propria “rivoluzione” dei processi operativi. 2. I controlli interni. Il percorso Ai fini della nostra riflessione è interessante rileggere il percorso normativo che ha caratterizzato il quadro dei controlli, così da meglio comprendere la situazione attuale e la possibilità di successo di quanto contenuto nel c.d. “decreto enti locali”. Com’è noto, si è soliti ricondurre all’emanazione della l. n. 142/1990 l’inizio di quel faticoso processo di “aziendalizzazione” delle pubbliche amministrazioni. Tale legge offre degli spunti interessanti, che saranno in gran parte “traditi” dagli interventi normativi successivi, a testimonianza di un percorso purtroppo non lineare e incoerente. L’art. 55, in particolare, prevedeva al c. 6, la richiesta che i risultati di gestione siano rilevati mediante “con-

(1) Per un approfondimento sul tema si v. K. Mclaughlin, S.P. Osborne, E. Ferie (2002), New public management. Current trends and future prospects, London, Routledge.

366 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA tabilità economica”. Un passaggio simbolicamente importante, che testimoniava la volontà di superare una logica esclusivamente finanziaria e di allinearsi con quello che stava accadendo nel resto dell’Europa. Nella medesima direzione, si è mossa anche la l. n. 421/1992, che all’art. 4 prevedeva esplicitamente la “introduzione in forma graduale e progressiva della contabilità economica … fino a interessare tutti gli enti, con facoltà di applicazione anticipata”. Tutto ciò, però, venne di fatto eluso grazie al d.lgs. n. 77/1995 che introduce l’obbligatorietà dei prospetti di conto economico e di conto del bilancio, ma consentiva la loro redazione in via extracontabile e quindi evitando di fatto il ricorso alla “partita doppia”: così facendo si sono fatti perdere quasi venti anni alle autonomie locali, a differenza di quanto è accaduto in altri settori, come quello delle allora aziende municipalizzate e della sanità. In verità la l. n. 42/1990 non si limita ad affrontare solo la questione contabile. Tratta, all’art. 57, anche il tema del controllo di gestione, dove, da una parte, delinea il ruolo dei revisori all’interno dell’ente locale, dall’altra auspica l’introduzione (attraverso lo strumento dell’autonomia statutaria) di forme di controllo eco- nomico interno della gestione. Successivamente sarà il d.lgs. n. 29/1993 a riproporre la questione del controllo di gestione. All’art. 20 vengono previsti i nuclei di valutazione, con “il compito di verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la realizzazione degli obiettivi, la corretta ed economica gestione delle risorse pubbliche, l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa”. Osserva in proposito Franco Bassanini che “era già netta allora, la distinzione tra controllo di gestione, che pone il controllore a più diretto contatto con le scelte dell’amministratore e non può essere svolto che da un or- gano interno dell’amministrazione, e controllo sulla gestione, affidabile invece al controllore esterno (Corte dei conti), che, pur tenuto ad operare in veste collaborativa, non partecipa all’amministrazione. Non vi era ancora consapevolezza, per contro, dell’ulteriore distinzione tra le diverse tipologie del controllo interno, la cui attività può restare ancorata al livello gestionale (per l’appunto meritando il nomen di controllo di gestione) ovvero assurgere a strumento di raccordo tra l’attività politico-amministrativa di fissazione degli indirizzi, indicazione degli obiettivi ed assegnazione delle risorse, da un lato, e l’attività gestionale riservata alla competenza della dirigenza amministrativa, dall’altro” (2). Il pezzo citato inquadra perfettamente uno dei problemi che nascono con l’art. 20 del decreto in oggetto. E cioè la mancata distinzione tra diverse tipologie di “controllo interno”. Confondere una funzione manageriale, qual è il controllo, con quella di valutazione della dirigenza ha avuto due conseguenze, che hanno entrambe contribuito a ridurne l’impatto: 1) da una parte ha dato forza all’idea che il controllo di gestione avesse natura ispettiva e ciò, abbinato alla naturale vocazione delle organizzazioni a neutralizzare una novità altrimenti destinata a mutare equilibri con- solidati, è stato sufficiente a fare sì che ne venisse data una applicazione del tutto formalistica; 2) dall’altra, facendolo rientrare in un meccanismo retributivo, è presto diventato un’appendice di uno strumento contrattuale, con tutte le conseguenze del caso: in una ricerca empirica svolta tempo fa risultava infatti del tutto evidente il ruolo ancillare del controllo di gestione alla valutazione della dirigenza, al contrario di quello che dovrebbe essere (3). In verità, di resistenze ed equivoci creatisi a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 29/1993, prende presto atto anche il legislatore che interviene nuovamente sul tema: - con riferimento agli enti locali, con il d.lgs. n. 77/1995 ed esattamente agli artt. 39-41; - per la pubblica amministrazione in generale, con il d.lgs. n. 286/1999 che porterà alla definitiva abroga- zione dell’art. 20 del decreto n. 29/1993. In particolare, il d.lgs. n. 77/1995 statuisce l’obbligatorietà del controllo di gestione che, per l’art. 39, c. 1, dovrebbe “garantire la realizzazione degli obiettivi programmati, la corretta ed economica gestione delle risor- se pubbliche, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione e la trasparenza dell’azione amministrativa”. Permane, però, una grande confusione concettuale e resta immutata la scelta di fondo del le- gislatore: “se da un lato vi è la volontà di introdurre il calcolo economico, dall’altro si procede sostanzialmente

(2) Si v. F. Bassanini, Prefazione, in G. Azzone, B. Dente (a cura di), Valutare per governare. Il nuovo sistema dei controlli nelle pubbliche amministrazioni, Milano, Etas Libri, 1999, X. (3) Si v. S. Pozzoli, M.T. Nardo, Nuclei di valutazione. Una indagine empirica, in Azienditalia, 11, 2007.

367 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 in una logica di controllo esterno – sia pur svolto all’interno – volendo contemporaneamente attribuire funzioni premianti e sanzionatorie” (4). In sostanza niente di nuovo: si continua a tentare di “costringere” i comuni a dotarsi di un sistema di con- trollo (con finalità per altro non chiare), senza che essi ne avvertano l’esigenza. Non ci si preoccupa, invece, di creare le condizioni perché nasca una maggiore consapevolezza dell’opportunità di adottare tecniche mana- geriali più adeguate ad un contesto di risorse scarse e di sempre maggiore pretesa di servizi di qualità da parte dei cittadini. Da queste medesime, e inidonee premesse muove anche il d.lgs. n. 286/1999, a cui si deve una nuova for- malizzazione del sistema dei controlli interni. Ai sensi dell’art. 1, c. 1, infatti, le pubbliche amministrazioni, nell’ambito della rispettiva autonomia, devono dotarsi di strumenti adeguati a: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa (controllo di regolarità ammi- nistrativa e contabile); b) verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di gestione); c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale (valutazione della dirigenza); d) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi e altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti (valutazione e controllo strategico). Viene meno, almeno in parte, la confusione prima evidenziata: il controllo di gestione e la valutazione sono nettamente distinti. È inoltre fatto divieto di affidare “verifiche di regolarità amministrativa e contabile” a strutture addette al controllo di gestione, alla valutazione dei dirigenti, al controllo strategico, così da renderne evidente il ruolo “collaborativo”. Ancora, all’art. 1, c. 6, si precisa che gli addetti alle strutture che effettuano il controllo di gestione, la valutazione dei dirigenti e il controllo strategico non hanno un obbligo di cui all’art. 1, c. 3, l. n. 20/1994, non sono cioè da considerarsi responsabili di omessa denuncia alla procura della Corte dei conti, quando, nello svolgimento delle loro funzioni, abbiano notizia di ipotesi di danno. La scelta del legislatore è quindi mossa, propriamente, dal desiderio di attenuare il contenuto ispettivo dei controlli, che viene letto come uno dei principali ostacoli al loro effettivo dispiegarsi. Ma il dato di fatto è che non è questo il cuore del problema: manca, piuttosto, ogni stimolo a effettua- re un serio investimento in materia di controllo, perché questo non viene avvertito come necessità ma solo come adempimento di legge. E serve sottolineare che una regolamentazione eccessivamente analitica delle metodiche del controllo interno è controproducente, perché contribuisce a ricondurre il tutto ad una ottica di adempimento. Da questo punto di vista la scelta del d.lgs. n. 267/2000, che si limita a riprendere la classificazione dei con- trolli, sarebbe positiva, in quanto non pretende di dettare i tempi alle amministrazioni locali. Eppure ha portato, sul piano pratico, a risultati apprezzabili, a dimostrazione che i problemi sono ben altri. Il quadro, in sostanza, resta quello di un sistema dei controlli del tutto inefficace e la cui esistenza è soltanto formale. Da parte nostra siamo dell’opinione che, per ottenere il risultato di dotare gli enti di una strumentazione gestionale efficace, si deve: - agire sul piano della consapevolezza dei bisogni, cercando di sconfiggere la cultura dell’adempimento; - seguire e monitorare il grado d’implementazione dei sistemi richiesti; - stimolare in ogni modo il bisogno di controllo, cercando di introdurre nel sistema elementi di trasparenza e di concorrenza. Ovviamente, in un sistema dove comunque ha un peso l’ordinamento giuridico, giocano un ruolo anche le sanzioni. Possibile pensare di introdurre degli obblighi di legge il cui mancato rispetto non comporti alcuna conseguenza per chi non adempie? Paradossalmente (ma neppure poi tanto) è proprio il rapido succedersi delle norme che rende oggettivamente difficile una strategia d’implementazione dei controlli che non sia solo formale.

(4) Si v. B. Dente, Le innovazioni nel sistema dei controlli previste dal d.lgs. n. 286/1999 di riordino e potenziamento dei mec- canismi di monitoraggio e valutazione, in G. Scognamiglio (a cura di), Pianificazione, controlli e valutazioni nel nuovo modello di governo locale, Milano, Franco Angeli, 2000, 10.

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3. Cosa accade altrove: cenni all’esperienza anglosassone Apriamo una parentesi nella nostra riflessione, perché siamo convinti che vedere come sono organizzati gli enti locali in altri paesi è sempre un esercizio utile e che occorrerebbe più spesso fare riferimento a quanto accade altrove, piuttosto che continuare a perseverare negli errori. Anticipiamo, pertanto, il nostro giudizio sul c.d. decreto enti locali: siamo dell’idea, infatti, che non serva né al paese né al mondo delle autonomie limitarsi a un semplice adeguamento dell’esistente. Si deve guardare con preoccupazione all’ennesima finta riforma che mira a conservare vecchi approcci e desueti equilibri, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti e i cui effetti negativi stanno non solo nella totale inaffidabilità e incompren- sibilità dei dati contabili, ma anche nella complessiva debolezza del sistema delle autonomie sia sul piano delle performance sia, cosa per certi versi perfino più grave, su quello dell’irrilevanza attribuita ai risultati stessi. Se guardiamo a quello che sta accadendo in Europa appare chiaro che tutti i paesi interessanti dal New public management (in verità con qualche recente ripensamento dettato, dalla crisi economica mondiale) regi- strano, come tratto comune: - l’adozione della contabilità economica e il conseguente abbandono delle contabilità di cassa o a matrice finanziaria; - il processo di convergenza tra contabilità pubblica e contabilità di matrice privatistica; - un generale rafforzamento dei controlli esterni, visti come elemento di garanzia e di stimolo al sistema. Questo percorso è solo apparentemente “contabile”. In realtà, è generalmente considerato un momento essenziale della transizione da una cultura di public administration a una di public management (5). Traslando detti concetti nei termini più noti del nostro dibattito nazionale si può dire che la tesi prevalente in Europa è che non ci possa essere “aziendalizzazione” senza contabilità economico-patrimoniale, dove questa deve intendersi non solo come metodica di rilevazione, ma anche e soprattutto come approccio alla gestione. Qui non si vuole però parlare del sistema contabile ma affrontare, seppure con inevitabile sintesi, due ele- menti che ci paiono significativi nel modello anglosassone, così come era stato pensato prima dell’arrivo del governo Cameron: 1) la governance delle autonomie locali; 2) i controlli esterni sugli enti locali. È utile premettere che il sistema degli enti locali inglese è figlio di un processo di rinnovamento non estem- poraneo, che inizia con il Local government finance Act del 1982. Questo, in particolare, attribuì all’Audit commission i compiti di controllo sugli enti locali e avvio gli studi relativi al così detto Value for mone cioè un sistema di misurazione che vuole servire per verificare efficacia ed efficienza degli enti locali inglesi in termini comparativi. La riforma, in sostanza, prende le mosse circa 30 anni fa e, nonostante siano cambiate maggioranze poli- tiche e capi di Stato, nessuno ha mai pensato ad alterarne le linee di indirizzo, mentre lo sforzo è sempre stato quello di curare l’implementazione (6), anche se certo non sono mai mancate critiche e momenti di discussione. Se volessimo sintetizzare i punti chiave di questo percorso evolutivo dovremmo appunto dire che: - il momento di avvio è appunto rappresentato dal Local government finance Act del 1982 (governo Tha- tcher) di cui si è sopra detto; - viene rafforzato con il Local government Act del 1992 (governo Major) che stabilisce l’obbligo di rendere pubblico un set di indicatori di performance a tutti gli enti locali; - è ulteriormente definito e raggiunge una sua maturità durante il governo Blair, con il Local government Act del 1999 (Best value audit & inspections) e, soprattutto, con il Local government Act del 2002 che affida la gestione del Comprehensive performance assessment (Cpa) all’Audit commission; - solo l’attuale governo Cameron, sotto la spinta della necessità di ridurre le spese, ha pensato di sciogliere la Audit commission, affidandosi interamente a revisori privati, e di interrompere la raccolta dei dati compara- tivi, con la considerazione che il sistema ha dato ai comuni tutto quello che poteva dare. Il tempo dirà se sarà così o se ciò, come pensiamo, determinerà un passo indietro.

(5) Si v. C. Pollit, G. Bouckaert, Public management reform. A comparative analysis, Oxford, Oxford University Press, 2004. (6) Si v. K. McLaughlin, S.P. Osborne, E. Ferie, New public management. Current trends and future prospects, London, Rout- ledge, 2002.

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L’idea chiave, alla luce dell’entità delle risorse in gioco, è che chi spende denaro pubblico deve dimostrare di realizzare risultati adeguati. Gli enti locali, pertanto, hanno l’obbligo di dare prova del valore prodotto, e questo sia al governo sia ai cittadini. Da qui un’intensa attività di benchmarking e di misurazione delle perfor- mance che viene appunto sintetizzata nel concetto di Value for money (7). Questo, sia detto per inciso, introduce un elemento di “mercato” nel sistema delle autonomie, ove la com- petizione nasce dalla possibilità di confrontare le performance del singolo ente con gli altri. Anzi, oggi questo confronto è obbligatorio e pubblico, perché ogni ente deve pubblicare annualmente il Best value performance plan. È utile osservare che le ragioni del generale buon funzionamento della pubblica amministrazione locale inglese non dipendono dal modello di governance e dal meccanismo elettorale (8). Cambiano, tra Italia e Regno Unito, una serie d’importanti elementi, che è forse importante riassumere, almeno nei loro caratteri essenziali. Ci riferiamo in particolare alla cultura del public interest e, soprattutto, alla figura e alle prerogative del Chief financial officer. La cultura amministrativa del public interest, abbinata al contesto di common law, porta ad un minore im- patto delle norme nella vita degli enti pubblici e quindi a privilegiare i risultati rispetto agli adempimenti. Da qui una politica locale che favorisce il pragmatismo e ricerca un consenso basato su fatti concreti: nel council, infatti, si fa ampio uso dei dati di confronto che vengono messi a disposizione dalla Audit commission per verificare le prestazioni ed i costi sopportati dall’ente. Sul piano gestionale tutto ciò ha portato a riconoscere un’ampia autonomia ai dirigenti, a fronte però di una forte ed effettiva responsabilizzazione sul merito e sui risultati. Altro elemento del tutto particolare è rappresentato dalla figura del responsabile dei servizi finanziari, il Chief financial officer (Cfo), che viene nominato dal council, ma riveste una posizione decisamente autonoma rispetto al potere politico locale, dal momento che è il garante della corretta attuazione della legge e del corretto utilizzo delle risorse. Un ruolo che riassume, continuando il nostro forzato parallelo con la situazione italiana, le funzioni del segretario comunale vecchia maniera e quelli attuali del responsabile dei servizi finanziari. In sostanza poche leggi, che nessuno mette in discussione, e un sistema di valori rigoroso e condiviso. Chiaramen- te, poiché neppure l’Inghilterra è un paese di santi, il tutto è abbinato a un’attività di controllo molto stringente

(7) Il Best value performance plan è un documento che gli enti locali inglesi sono tenuti a pubblicare, al pari del bilancio di esercizio (consuntivo) e che, come dice la sua denominazione, rappresenta un’analisi delle performance realizzate e di quelle obiettivo, messe a confronto con quelle medie del comparto. Un esempio si ritrova nel sito www.studiopozzoli.net. (8) Una particolarità inglese è che è il council, che corrisponde al nostro consiglio comunale, a essere soggetto giuridico, e non l’ente locale stesso. Il council è deputato a scegliere quale sistema di governance adottare tra i seguenti: - the mayor and cabinet executive model. È analogo al sistema attualmente in vigore nel nostro paese. Si vota direttamente il sindaco a cui spetta scegliere gli assessori, nell’ambito però dei consiglieri eletti, che restano tali anche se assumono compiti esecutivi; - the leader and cabinet executive model. È simile al vecchio meccanismo vigente in Italia. Il “sindaco” è nominato dai consi- glieri ma è lui a decidere quali saranno i membri della giunta, anche se, come sopra, nell’ambito dei membri del consiglio; - the mayor and council manager executive model. Anche qui il sindaco è eletto direttamente. A differenza che nel mayor and cabinet executive model, però, non è prevista una giunta composta di consiglieri, ma un council officer, una sorta di direttore generale, che stranamente non viene nominato dal sindaco bensì dal consiglio. Il modello nettamente prevalente è il secondo. Nella stessa Londra il 90 per cento dei 33 borough in cui è divisa la città – per quanto la Greater London Authority abbia adottato il primo modello – ha optato per il “leader and cabinet executive model”. Il terzo modello, quello privo di giunta, è praticamente rimasto lettera morta. Senza soffermarsi oltre su temi di architettura istitu- zionale è comunque rilevante osservare che: - a prescindere dal modello di governance gli enti locali inglesi sono comunque assai più efficienti dei nostri: basti pensare che il servizio “patrimonio abitativo” – che pure assicura ovvi requisiti di socialità e che è assai più esteso di quanto non accada nei nostri comuni – è di regola in equilibrio economico; - da questo consegue che probabilmente i meccanismi di governance istituzionale, compreso il sistema elettorale, non sono poi così rilevanti come in molti sono portati a pensare; - il meccanismo del “controllo sociale” tradizionale, quello cioè esercitato con il momento della verifica elettorale è certo si- gnificativo sul piano dei contenuti democratici ma, in verità, non sembra poi così sentito dai cittadini, dal momento che la parteci- pazione al voto nelle elezioni amministrative di rado supera il 30 per cento degli aventi diritto ed è spesso intorno al 20 per cento.

370 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA che ha, nello specifico, il compito di garantire la correttezza dei rendiconti e di stimolare il miglioramento delle performance, oltre che, se del caso, di fare denuncia alla magistratura competente. A questo è (o meglio era, visto che il governo Cameron ne ha decretato lo scioglimento) preposta l’Audit commission, una sorta di Corte dei conti inglese, che ha dato un grande contributo all’implementazione della riforma delle autonomie: “il National audit office e l’Audit commission hanno rivestito un ruolo centrale nel verificare il grado di efficienza e nel valutare l’efficacia a beneficio del governo. L’Audit commission ha anche assunto funzioni di consulenza manageriale con il potere di imporre metodiche gestionali agli enti locali così come di valutare e di relazionare sulle loro performance” (9). Con queste parole Norman Flynn, certo uno dei più brillanti studiosi del Regno Unito, introduce il tema dell’audit e dell’ispettorato nel suo ormai classico testo di management pubblico. Non è il caso di fare ulteriori approfondimenti (10), ma giova ricordare che l’Audit commission aveva il compito di nominare e di monitorare la qualità della prestazione dei revisori, oltre che di definirne i contenuti. Qui interessa rilevare che i revisori attuano anche una sorta di performance audit, cioè un’analisi di efficacia ed efficienza dell’ente, attraverso una serie di reports di contenuto settoriale vario e che portano a un giudizio di sintesi complessivo e alla produzione di un insieme di punteggi molto articolati, che vengono ricondotti a unità attraverso quella che è definita Comprehensive performance assessment, cioè una metodologia che con- duce a una valutazione unitaria in termini di “stelle”: prendere una stella ha il significato della insufficienza e 4 rappresenta il voto più alto. Accanto a questo viene anche segnalata la linea di tendenza, ovvero se l’ente sta migliorando o meno. Il risultato è pubblico ed è forse appena il caso di sottolineare che salire o scendere di punteggio è un ele- mento importante, che influenza molto la discussione del council e che non di rado trova spazio anche sulla stampa locale. 4. La misurazione delle performance come strumento di democrazia. Cenni critici al decreto sui fabbisogni standard Resta di tutta evidenza che lo stato dei controlli interni è spesso insoddisfacente. Il problema ha dimensioni e generalità tali che occorre prendere atto che per risolverlo occorre trovare il coraggio di cercare di intra- prendere strade nuove e diverse da quelle a oggi seguite. Infatti, è ormai chiaro che non è realistico pensare di arrivare a un miglioramento delle performance delle autonomie locali attraverso l’imposizione per legge di puntuali modalità di gestione (come meglio vedremo nel capitolo successivo). Ancora meno, però, può servire una sorta di appello ai “buoni sentimenti”, visto che la stragrande maggioranza degli amministratori locali non riesce a considerare – spesso per fattori di contesto – come priorità politica l’efficienza dell’ente da essi governato. È pertanto necessario riuscire a introdurre nel sistema degli stimoli concreti che inducano gli amministra- tori a perseguire – anche sul piano politico e quindi in primo luogo su quello della ricerca del consenso – una filosofia di governo improntato ai risultati. È chiaro che si tratta di costruire un quadro, quello dei monitoraggi e dei controlli, entro il quale tutto deve rispondere alla esigenza complessiva del buon andamento della pubblica amministrazione. A questo certo serve il controllo di regolarità contabile e amministrativa, perché senza una “fabbrica dei numeri” affidabile non si possono avere dati certi e confrontabili. È necessario, però, che funzioni altrettanto bene la famiglia dei “con- trolli di risultato” e quindi anche e soprattutto il controllo di gestione. Infatti, nulla potrà mai funzionare se non si renderà efficace (perché consapevole) il controllo democratico, e quindi il momento della verifica elettorale. Per arrivare a ciò, è indispensabile che i cittadini siano adeguatamente informati ed è per questo che occorre una compiuta accountability esterna. L’accountability, deve essere chiaro, non è un fatto meramente tecnico, proprio degli addetti ai lavori con- tabili, ma è il motore della democrazia e quindi la ragion d’essere di un sistema delle autonomie locali che si fonda sul meccanismo elettivo. È chiaro che oggi il cittadino e spesso gli stessi consiglieri che lo rappresentano non sono adeguatamente informati su ciò che dovrebbe orientare le loro scelte d’indirizzo e di controllo e quindi, ad esempio, sui costi

(9) Nostra traduzione. Si v. N. Flynn, Public Sector Management, London, Prentice Hall – Financial Times, 2002, 174. (10) Si v. S. Pozzoli, E. Gori, Il sistema dei controlli negli enti locali, Rimini, Maggioli, 2013 (2a edizione).

371 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 dei servizi e sulle potenziali aree d’inefficienza che, se meglio amministrate, potrebbero consentire una più ampia soddisfazione dei bisogni della comunità locale. Occorre quindi cambiare e incidere in profondità in un sistema che è perfino inconsapevolmente oscuro e inefficace e ben sapendo che per introdurre cambiamenti di rilievo culturale non esistono ricette magiche e che probabilmente non basta il tempo di una generazione. Il controllo sociale, se confortato dalla consapevolezza dei diritti e dall’evidenza dei risultati, è il solo e vero potente strumento di “mercato” che il cittadino ha in mano. Il fatto che non lo possa esercitare pienamente toglie effettività al processo democratico e priva il sistema delle autonomie locali dell’unico vero motore di cambiamento di cui si potrebbe disporre. Il vero problema è che molto spesso le discussioni in tema di enti locali peccano della concretezza che può provenire soltanto dalla forza dei numeri, e ciò è ancora più grave dal momento che la produzione di dati è enorme, seppure di bassa qualità: in sostanza, l’enorme quantità di informazioni che la nostra pubblica ammi- nistrazione produce non sono né verificate (non se ne conosce, in buona sostanza, l’attendibilità) né messe a disposizione di quelli che dovrebbero essere i loro naturali destinatari. Cerchiamo di partire da un esempio concreto per arrivare a una riflessione di carattere generale, che ora, brevemente, si anticipa: la comunicazione di dati comparativi può rappresentare uno strumento estremamente efficace per stimolare l’efficienza attraverso il controllo democratico dei cittadini. Lo spunto per quest’affermazione lo offre l’indagine: “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi so- cio-educativi per la prima infanzia”, curata dall’Istat in collaborazione con il Ministero dell’economia e delle finanze periodicamente www.istat.it/it/archivio/9505( 2). I valori presentati sono quindi relativamente aggiornati e vengono, pudicamente, presentati su base regio- nale, ma mantengono comunque una forte valenza esplicativa e mantengono quindi la loro utilità ai fini di un esempio di quello che si vuole dire. Prendiamo una sola tabella, quella relativa agli asili nido, un elemento di grande ed evidente criticità sociale. Guardandola nasce spontaneo un qualche dubbio, a cui la politica dovrebbe dare risposta: perché il costo annuo pro capite di un bambino in un asilo del Lazio è pari a oltre 12 mila euro mentre in Lombardia è appena di 5.500 euro? Sono variazioni che, prendendo i dati come verosimili, sembra difficile imputare a una diversità qualitativa della prestazione erogata e, probabilmente, anche i fattori territoriali non possono essere tali da incidere in mi- sura così rilevante sui costi. Sono differenziali che andrebbero verificati, comunicati, spiegati e fatti giudicare dai cittadini. Ancora, si noti che nel Lazio per il servizio di asilo nido la retta è mediamente assai inferiore a quella che pagano i genitori lombardi e che quindi la loro percezione è probabilmente di un servizio relativamente poco caro. Tutto ciò stimola a interrogarsi sulla questione di fondo ovvero se i genitori e i cittadini nel loro complesso, siano in grado di accorgersi del concreto utilizzo delle risorse pubbliche. Chiaro che la minore efficienza, per di più abbinata a una bassa copertura del costo del servizio con la tariffa, ha un solo evidente risultato: l’inade- guatezza del servizio stesso. Basta leggere il dato dei posti disponibili negli asili pubblici: la Toscana è in grado di offrire il suo servizio a oltre 17 mila utenti, mentre Campania, Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata arrivano insieme a poco più di 14 mila posti.

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Tavola 1 Gli asili nido (a): utenti, spesa, compartecipazione degli utenti e del Sistema sanitario nazionale, per regione e ripar- tizione geografica - Anno scolastico 2010-2011.

Compartecipazioni alla spesa Spesa media per utente Totale spesa im- Percentuale REGIONI E RIPAR- Spesa dei Co- Utenti pegnata (Spesa di spesa TIZIONI GEOGRA- muni singoli o Quota (b) Quota pubblica e degli pagata dagli FICHE associati Quota pagata Quota pagata pagata pagata dal utenti) utenti dagli utenti dai Comuni dagli Ssn utenti Piemonte 14.506 95.718.520 24.862.126 78.000 120.658.646 20,6 6.599 1.714 Valle d’Aosta/Vallée 702 6.252.109 1.683.992 - 7.936.101 21,2 8.906 2.399 d’Aoste Liguria 5.203 40.620.047 5.043.960 - 45.664.007 11,0 7.807 969 Lombardia 45.492 184.208.649 67.189.292 57.733 251.455.674 26,7 4.049 1.477 Trentino-Alto Adige/ 3.522 31.042.500 7.769.059 - 38.811.559 20,0 8.814 2.206 Südtirol Bolzano/Bozen 639 5.347.697 1.255.303 - 6.603.000 19,0 8.369 1.964 Trento 2.883 25.694.803 6.513.756 - 32.208.559 20,2 8.913 2.259 Veneto 15.144 69.057.102 22.055.328 189.676 91.302.106 24,2 4.560 1.456 Friuli-Venezia Giulia 5.226 22.321.279 4.954.372 - 27.275.651 18,2 4.271 948 Emilia-Romagna 32.026 197.412.798 52.117.634 780 249.531.212 20,9 6.164 1.627 Toscana 17.476 99.522.889 28.951.255 14.300 128.488.444 22,5 5.695 1.657 Umbria 5.403 22.254.482 4.690.893 - 26.945.375 17,4 4.119 868 Marche 6.701 30.327.338 9.617.864 11.322 39.956.524 24,1 4.526 1.435 Lazio 24.038 263.844.305 27.772.639 - 291.616.944 9,5 10.976 1.155 Abruzzo 2.708 15.137.846 2.837.763 - 17.975.609 15,8 5.590 1.048 Molise 322 1.578.106 417.195 - 1.995.301 20,9 4.901 1.296 Campania 3.338 28.374.609 2.015.340 - 30.389.949 6,6 8.500 604 Puglia 4.432 23.603.237 3.359.362 - 26.962.599 12,5 5.326 758 Basilicata 1.071 3.698.899 1.147.951 - 4.846.850 23,7 3.454 1.072 Calabria 1.238 3.656.988 491.883 - 4.148.871 11,9 2.954 397 Sicilia 7.632 66.505.634 4.301.376 - 70.807.010 6,1 8.714 564 Sardegna 5.460 22.085.398 3.331.534 - 25.416.932 13,1 4.045 610 Nord-ovest 65.903 326.799.325 98.779.370 135.733 425.714.428 23,2 4.959 1.499 Nord-est 55.918 319.833.679 86.896.393 190.456 406.920.528 21,4 5.720 1.554 Centro 53.618 415.949.014 71.032.651 25.622 487.007.287 14,6 7.758 1.325 Sud 13.109 76.049.685 10.269.494 - 86.319.179 11,9 5.801 783 Isole 13.092 88.591.032 7.632.910 - 96.223.942 7,9 6.767 583 ITALIA 201.640 1.227.222.735 274.610.818 351.811 1.502.185.364 18,3 6.086 1.362

(a) Questa voce comprende sia le strutture comunali che le rette e i contributi pagati dai comuni per gli utenti di asilo nido privati. (b) Bambini iscritti al 31 dicembre 2010.

Una situazione paradossale, ma non avendo a disposizione le informazioni necessarie, sarà molto difficile per il cittadino elettore giudicare obiettivamente la propria amministrazione. E nei comuni dove mancano posti negli asili nido i sindaci imputeranno le carenze del servizio alla generale mancanza di risorse, alla riduzione dei trasferimenti statali e così via, non certo alla loro incapacità o inerzia. E questo neppure consapevoli di dire il falso, perché non hanno fino in fondo chiaro che, se fossero intervenuti nel corso del loro mandato nel senso

373 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 di un concreto – e possibile, alla luce dei dati – recupero di efficienza, avrebbero potuto raddoppiare o quasi i posti messi a disposizione dei cittadini, a parità di risorse disponibili. Un dato, banale ma allarmante: se tutti si comportassero come i lombardi i posti al nido non sarebbero i circa 200 mila attuali, ma ben 70-80 mila in più. Molto spesso, infatti, anche all’interno dell’ente manca la consapevolezza del proprio livello di prestazione. Occorrerebbe, quindi, muoversi verso logiche comparative e di benchmarking, le sole che possono contribuire a capire il livello di efficienza in un contesto monopolistico e privo di mercato. La misurazione dei costi dei servizi e, per quanto ragionevolmente possibile, della qualità degli stessi è dunque un fatto essenziale. In ogni caso, senza la pretesa di realizzare in tempi brevi quanto altrove ha richiesto decenni, è chiaro che la strada da intraprendere è quella di valorizzare i processi di accountability e di bench- marking. Fermo restando che il voto a chi ha amministrato lo devono dare gli elettori, è quindi necessario che anche in Italia venga introdotto un documento che costringa a discutere dei risultati concreti. A tutto ciò avrebbe dovuto dare risposta il d.lgs. 26 novembre 2010, n. 216, in tema di “determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di comuni, città metropolitane e province”, anche se non ci pare proprio che le soluzioni proposte, figlie della fretta e della mediazione, siano soddisfacenti. Senza approfondire il tema, che è oggetto di altra relazione, ci preme osservare che si è rinunciato a creare un sistema contabile veritiero, né si fa cenno a meccanismi di controllo sulla qualità dei dati: chi verificherà l’attendibilità dei dati degli enti locali? Ancora, il decreto tace sul fine dei fabbisogni standard. L’art. 1 del decreto, al c. 1, stabilisce appunto che “è diretto a disciplinare la determinazione del fabbisogno standard per comuni e province, al fine di assicurare un graduale e definitivo superamento nei loro riguardi del criterio della spesa storica”. Però, se viene definito come verranno individuati i fabbisogni standard, niente si dice sulle modalità con cui si intende raggiungere il fine, ovvero il graduale superamento del criterio della spesa storica. In sostanza il decreto non dice come le fonti di finanziamento dovranno essere collegate ai costi standard, né in quali tempi, in un gioco di ambiguità che non potrà che portare a un niente di fatto o a grande discrezionalità. Per altro i risultati di questo lavoro non verranno neppure, con ogni probabilità, resi noti in modo traspa- rente, almeno a giudicare dall’art. 6 del decreto, che pure è titolato “pubblicazione dei fabbisogni standard”. Infatti, la norma prevede che, con d.p.c.m., vengono adottati la nota metodologica relativa alla procedura di calcolo e il fabbisogno standard di ciascun comune e provincia (art. 6, c. 1). E l’ente locale è obbligato soltanto a dare “adeguata pubblicità sul proprio sito istituzionale del decreto di cui al c. 1, nonché attraverso le ulteriori forme di comunicazione del proprio bilancio”. Non viene richiesto, in altre parole, di fare un commento del proprio fabbisogno standard mettendolo a confronto con la spesa storica e corrente, né di confrontarsi con altri enti locali (cosa che pure sarebbe interessante, visto che ognuno avrà – anche se sembra una antinomia – un proprio personale standard). In sostanza, tutto questo processo sembra destinato a produrre ben poco in termini d’impatto comporta- mentale sugli enti, neppure a livello di una maggiore consapevolezza nei cittadini sulle capacità della propria amministrazione locale. Ignorato dal decreto, pertanto, è quanto richiesto all’art. 2, c. 2, lett. f), che come abbiamo detto chiedeva proprio di utilizzare i fabbisogni standard al fine di comparare e valutare l’azione pubblica, nonché di definire gli obiettivi di servizio cui devono tendere le pubbliche amministrazioni locali nell’espletamento delle proprie funzioni. 5. Il sistema dei controlli tra Carta delle autonomie e decreto enti locali. Conclusioni Risulta chiaro da quanto ora scritto che riteniamo che per il nostro paese servirebbe l’adozione, certo gra- duale ma credibile, di un modello che si fondi su: - un soggetto terzo e autorevole che possa monitorare le informazioni raccolte. Il punto cruciale è che chi raccoglie le informazioni deve essere in grado di verificarle e di sanzionare, pesantemente, chi non rispetta le regole; - la razionalizzazione dei documenti di bilancio, alcuni dei quali assolutamente ridondanti e, magari, l’in- troduzione di qualcosa di analogo al best value performance plan: il bilancio dell’ente locale, oggi, è solo un documento di natura autorizzatoria, che mal si presta a una analisi dei risultati;

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- la riqualificazione degli organi di controllo interno ed esterno, oggi non in grado di assicurare la veridicità dei flussi informativi. Per questo si rende necessaria l’introduzione di meccanismi che sanzionino concreta- mente chi non rispetta le regole e il rafforzamento, in primo luogo dei controlli esterni. Purtroppo la riforma del sistema dei controlli prevista in un primo tempo nella carta delle autonomie, ma poi inserita e attuata dal decreto enti locali, si colloca in sostanziale continuità con il passato e rischia quindi di rivelarsi di modesta forza innovativa. Dal momento che verrà dedicato un capitolo a quanto previsto dal decreto enti locali, il d.l. n. 174/2012, qui ci limitiamo a tratteggiare alcune considerazioni, rinviando per il resto agli approfondimenti di dettaglio. Lascia perplessi, in particolare, la scelta di moltiplicare le tipologie di controllo: tutto ciò forse aiuta a espli- citare quali siano i compiti dell’ente, ma certo non incide sui motivi di fondo che hanno portato a un quadro di sostanziale inefficacia dei controlli negli anni passati. Scompare la valutazione della dirigenza, tradizionalmente considerata un “controllo”. Ma questo in realtà solo perché affidata al decreto Brunetta: una scelta che denota un eccesso di “divisione dei compiti”, visto che questo, in coerenza con la scelta di esplodere il numero dei controlli, poteva almeno rientrare nella norma di inquadra- mento generale, l’art. 147, Tuel. Tutto ciò poteva rispondere a un tema di equilibri politici da parte dell’ultimo governo Berlusconi, ma perché, se non per eccesso di approssimazione, è stato ripetuto dal governo successivo? La disciplina vigente sui controlli deriva in larga parte dal d.lgs. n. 286/1999, che prevede un’articolazione già ridondante. L’ultima “riforma” modifica questa classificazione ma non segue la strada di semplificarla bensì quella opposta, ampliandone le categorie. Il tutto ha certo una sua finalità. Si giustifica con la percepita insoddisfazione dell’esistente e quindi pen- sando che sia opportuno esplicitare agli enti il livello di profondità e l’oggetto delle procedure di controllo. Così facendo, però, si ripete un errore antico, quello per il quale se una cosa non funziona non si ripensa, ma si arricchisce, creando così dei mostri di burocrazia che complicano le cose senza apportare nessun contributo in termini di efficacia. Sintetizzando i punti salienti della riforma dei controlli interni, possiamo dire che: - si registra, a livello di regolarità contabile e amministrativa, una visione che esplicita e sottolinea l’impor- tanza di mantenere sotto controllo il rispetto degli equilibri e degli obiettivi di finanza pubblica ma non aggiun- gendo nulla di sostanzialmente nuovo in termini concreti, complice anche il colpevole percorso di conversione del decreto; - il controllo strategico viene individuato nella sua essenza di “controllo” e non più di valutazione (come era invece nel d.lgs. n. 286/1999), contribuendo alla chiarezza della sua funzione nel quadro dei controlli, ma restando di fatto irrilevante; - viene esplicitato un controllo sulle aziende partecipate, che acquista una sua formalizzazione e quindi una sua obbligatorietà. In questo quadro viene previsto anche l’obbligo di redazione del bilancio consolidato di gruppo e anche un dovere di misurazione della customer satisfaction; - scompare dai controlli la valutazione dei dirigenti, almeno per quanto riguarda il Tuel. La scelta è senza dubbio dettata dal fatto che la valutazione è l’oggetto del d.lgs. n. 150/2009, e segnatamente dell’art. 16 dello stesso, ma appare incoerente con una norma d’inquadramento quale dovrebbe essere l’art. 147 Tuel e che mira appunto ad aumentare il “dettaglio” dei controlli interni. A nostro giudizio il moltiplicare le figure dei controlli non contribuisce certo allo snellimento delle pro- cedure, e tende a creare una serie di controlli incrociati, soprattutto sul piano della regolarità, che rischia di generare dei conflitti. Una sorta di tutti contro tutti? Parlare di cultura della sfiducia, comunque, pare un eufemismo. E, in ogni caso, si tratta di una procedura che definire burocratica è dire poco, visto che crea una circolarità di verifiche alquanto farraginosa e che rischia di essere solo formalistica. Da questa norma traspare chiaramente una sfiducia nei meccanismi interni di controllo contabile esistenti che sotto molti aspetti si può anche comprendere e condividere. Resta però il fatto che il legislatore non riesce a intervenire con la necessaria incisività. A parere nostro, invece di proporre procedure di stampo bizantino, sarebbe stato necessario intervenire in modo da assicurare professionalità e garantire autonomia a chi già oggi è preposto a svolgere una funzione di tutela della regolarità, ossia al responsabile dei servizi finanziari e all’organo di revisione.

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Purtroppo si è scelta, ancora una volta, la strada di operare interventi solo formali, che non mirano a risol- vere i problemi ma solo a creare apparenti quanto inefficaci novità. Il decreto enti locali interviene sui controlli degli enti locali modificandone perfino la classificazione. Lo fa, però, seguendo una linea di continuismo e, si teme, senza riuscire a risolvere i problemi che stanno alla radice della sua attuale inefficacia, riconducibili: - da una parte, alla mancanza di adeguati stimoli esterni, che dovrebbero in futuro pervenire dalla definizio- ne dei costi standard e da un confronto pubblico e attendibile delle performance tra enti locali; - dall’altra, al fatto che non si è provveduto alla costruzione di un sistema dei controlli interni efficace e autorevole in termini di autonomia, dotazione strumentale e professionalità dei soggetti in esso coinvolti. Sarebbe stato opportuno pensare a documenti quali il Best value performance plan anglosassone, che co- stringe appunto gli enti a misurarsi sui risultati e a dire pubblicamente come si pensa di superare i differenziali eventualmente presenti con le altre amministrazioni. Nel decreto enti locali ci sono alcune importanti novità, come appunto il controllo sulle società partecipate, ma in un quadro fondamentalmente immutato rispetto al passato, il che lascia pensare che in termini di efficacia poco o nulla sia destinato a cambiare a meno che non si intervenga con forza su certi assetti. Una previsione? Ci rivedremo presto per parlare ancora una volta di riforma dei controlli interni e di ridu- zione della spesa pubblica. I documenti di bilancio, pertanto, devono essere oggetto di corretti principi contabili – a oggi in verità allo stato embrionale – e, in generale, di un’attività di controllo tesa a evitare gli errori e le cattive interpretazioni della norma. Da questo punto di vista il ruolo affidato dalla legge La Loggia alla Corte dei conti, che è di “revisione” ma anche di “interprete” della norma – le sezioni regionali di controllo possono infatti, ai sensi dell’art. 7, anche esprimere pareri – è una scelta comprensibile, e certo riconducibile alla volontà di delineare le sezioni regionali di controllo quali soggetti che supportano le autonomie locali. È chiaro che in questo quadro è assolutamente condivisibile lo sforzo di convergenza della contabilità pub- blica in un corpus ordinato di norme, processo al quale hanno dato concreto avvio la l. n. 196/2009 e la l. n. 42/2009. Vedremo se i decreti di attuazione porteranno i risultati auspicati. L’attività di audit esterno sui bilanci degli enti locali corrisponde a una necessità effettiva e ormai avvertita da più parti. Del resto, i bilanci degli enti pubblici sono destinati a essere sempre più sottoposti anche all’atten- zione delle autorità giudiziarie ordinarie, che in effetti stanno dimostrando una crescente sensibilità verso tale ordine di problemi. È inevitabile che sia così: non si comprende per quale ragione chi redige un bilancio falso in una società per azioni debba rischiare il carcere mentre chi si dedica alla stessa prassi in un ente locale non percepisce neppure di commettere un reato. Ma, al di là dei comportamenti dolosi, ed anzi proprio per prevenirli, si tratta di individuare forme di audit contabile, obbligatorie ed anche volontarie, che assicurino effettivamente la veridicità del rendiconto degli enti locali, così da rendere evidenti i confini tra il lecito e l’illecito, distinzione sempre più sfumata nel sentire degli operatori, i quali spesso si fanno titolo di merito nell’individuare accorgimenti elusivi, che in realtà sono veri e propri atteggiamenti dolosi. Il sistema, è chiaro, deve reggersi sui controlli interni – responsabile dei servizi finanziari e collegio dei revisori – prima che su quelli esterni. Le sinergie, però, sono indispensabili. In proposito è, anzi, necessario creare un forte collegamento, pur sempre nell’ambito delle distinte competenze, tra Corte dei conti e collegio dei revisori, in modo da evitare le duplicazioni e da rendere l’audit il più possibile efficace su tutti gli enti locali, cosa che la sola Corte dei conti, non potrebbe certo garantire e che non viene oggi adeguatamente assicurata dai collegi dei revisori. Per altro quanto si propone non è poi diverso da ciò che accade nel mondo delle società quotate. nei mercati finanziari regolamentati, infatti, è del tutto normale che vi siano frequenti rapporti tra Consob – per certi aspetti la Corte dei conti del mondo del risparmio – le società di certificazione ed i collegi sindacali delle società. Il registro delle società di certificazione che possono esercitare la loro attività di revisione nei confronti delle società quotate, inoltre, è tenuto presso la Consob, che ha la facoltà di sanzionare e perfino di radiare non solo i responsabili di reato ma anche gli incompetenti.

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Sarebbe certo opportuno, per i revisori dei conti delle amministrazioni pubbliche, arrivare a una situazione analoga: un registro tenuto presso la Corte dei conti, a differenza di quanto è stato previsto al c. 25 dell’art. 16 d.l. n. 138/2011 (tema del quale si parlerà nel prosieguo del libro). La scelta corretta, però, sarebbe stata quella di seguire l’esempio del Parlamento inglese che, con il Local government finance Act del 1982, ha attribuito la prerogativa di nominare i revisori all’Audit commission. 5.1. Controllo di gestione e controllo sulla gestione Vedere la Corte dei conti alla guida della “cabina di regia” in materia di audit contabile è, come si è detto, una scelta opportuna. Da questo punto di vista, il dettato della finanziaria 2006 è assolutamente condivisibile. L’autonomia degli enti locali, infatti, non si misura in termini di frammentazione della informativa eco- nomico-finanziaria loro richiesta, la quale deve essere, a tutela di tutti gli utilizzatori del bilancio, veritiera, corretta e massimamente standardizzata. Nessuno, del resto, affermerebbe mai che l’autonomia delle società commerciali sia menomata dal fatto che esiste una normativa di bilancio molto stringente, costituita da norme di legge e da principi contabili. 5.2. Il controllo di gestione quale espressione di effettiva autonomia direzionale L’autonomia, però, si esprime e si concretizza in una effettiva libertà di gestione e quindi, per quanto riguar- da questa sede, vi rientra la scelta degli strumenti direzionali di controllo di gestione. In questo ambito nessuna interferenza di organismi terzi è auspicabile né tollerabile. Si ritiene che la stessa previsione che vi debba essere, per legge, il controllo di gestione sia un’anomalia giuridica ed una forzatura giustificabile soltanto dalla necessità di indurre nelle nostre amministrazioni locali una adeguata attenzione agli aspetti economico-finanziari della gestione e quindi dall’esigenza di rafforzare la loro razionalità econo- mica. È chiaro, quindi, che prevedere una sorta di cabina di regia – esterna e quindi estranea all’ente – anche per quel che riguarda il controllo di gestione oltre ad essere una palese violazione della loro autonomia, rischie- rebbe anche di rappresentare un ostacolo e non un incentivo al processo di aziendalizzazione degli enti locali. 5.3. Il controllo sulla gestione come contributo alla effettività di scelta democratica Essere contrari alla “cabina di regia” sui controlli direzionali, non significa rifiutare il controllo sulla gestio- ne, precipua competenza delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Il controllo di gestione, si è detto, è un’attività di direzione che riguarda l’ente locale sul piano della sua amministrazione, e nessuno deve interferire su ciò, anche se non si può tacere il fatto che gli enti locali abbiano usato la loro autonomia non per implementare dei veri sistemi di controllo, ma semplicemente per lasciare il tutto lettera morta o per istituirne mere applicazioni formali. Anche la Corte dei conti, nella sua relazione al Parlamento sul funzionamento dei controlli interni ha evidenziato come il quadro sia desolante (11). Ma, controllo interno a parte, è chiaro che è diritto del cittadino e dei suoi rappresentanti – il consiglio comunale – essere adeguatamente informati in merito all’attività del comune e dei risultati gestionali ottenuti. La Corte dei conti ha perciò il compito di fornire informazioni idonee e di fornire pareri qualificati in merito ai possibili percorsi di miglioramento. Il controllo sulla gestione, pertanto, non deve certo sostanziarsi nella formulazione di obiettivi da raggiun- gere o in report di controllo da far compilare. Al contrario deve svolgere, certo avvalendosi delle informazioni che gli forniscono gli uffici dell’ente, un’attività di analisi e d’informazione dell’andamento economico e finanziario del comune e della provincia, in modo da far sì che il consiglio e, perché no, gli amministratori siano consapevoli dei punti di forza e delle criticità dell’ente locale, così da affrontarle e risolverle. Una sorta di due diligence, insomma, che metta a disposizione degli organi dell’ente una serie di con-side- razioni che poi questi valuteranno criticamente e liberamente, così come accade con una qualsivoglia analisi della gestione. È chiaro che per fare questo la Corte dei conti dovrebbe utilizzare metodi comparativi, operare raffronti e

(11) Si v. Corte conti, Sez. autonomie, 15 marzo 2013, n. 8, in www.corteconti.it.

377 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 fare ricorso a tecniche di benchmarking, così da esplicitare quali scelte gestionali ha seguito ciascun comune e con quali conseguenze sul piano dei risultati. Se ben condotto, sarà un lavoro utilissimo, ed è bene che i risultati di queste analisi arrivino, attraverso i quotidiani e l’informazione locale, ai cittadini, in modo da rendere il “vaglio democratico” occasione di un giu- dizio effettivo e consapevole sulle capacità di governo di una maggioranza e non l’ennesima delega in bianco fatta su considerazioni che spesso non hanno nulla a che vedere con l’operato reale del sindaco e della giunta. E sarà uno strumento importante anche per l’amministratore pubblico, che sicuramente preferirà, al di là di tutto, sapere se sta sbagliando qualcosa, piuttosto che rischiare di esserne poi chiamato a risponderne in sede di giudizio elettorale. Nel Regno Unito, l’Audit commission si occupa proprio di questo, ed è opinione comune che la sua attività abbia contribuito in modo significativo alla implementazione del progetto diNew public management in atto. Il problema, pertanto, è anzitutto come dare effettività a questo esercizio di analisi, dal momento che la sproporzione tra dotazioni organiche delle sezioni regionali di controllo e numero degli enti è tale da non rendere ipotizzabile la copertura di tutti gli enti ma permetterà solo di concentrarsi, ogni anno, su un numero limitato di comuni e province. Per fare tutto ciò, inoltre, occorre una seria banca dati che dia informazioni analitiche e attendibili sul siste- ma delle autonomie locali: i costi standard, in sostanza, che sono stati giustamente individuati come elemento chiave dell’intero processo federalista. I controlli interni ed esterni sono due facce della stessa medaglia, ed hanno lo stesso fine, il buon funzio- namento dell’ente locale. Controlli “collaborativi” efficaci sono il primo antidoto contro il malfunzionamento dell’ente e quindi il miglior deterrente al verificarsi d’ipotesi di danno e di cattiva gestione. Il successo dei controlli, esterni e interni, non può che passare da una loro effettiva integrazione, che serva a rafforzarne l’autorevolezza e l’incisività evitando al tempo stesso inutili duplicazioni. Il successo del sistema dei controlli passa dunque da: - la riduzione dei controlli esterni, che oggi sono esercitati da una pluralità eccessiva di soggetti (Corte dei conti, Ministero economia e finanze, Ministero dell’interno, Dipartimento funzione pubblica, Alto commissa- riato per la prevenzione contro la corruzione nelle pubbliche amministrazioni, ecc.); - una riconosciuta autonomia degli enti locali nell’articolazione dei controlli elusivamente direzionali, che non devono essere soggetti a “direttive” esterne, ma adattarsi alla realtà del singolo comune o provincia; - occorre urgentemente affidare a un organismo autorevole il compito di produrre informazioni comparative per confrontare le performance dei diversi enti locali. Siamo dell’opinione che questo non possa che essere la Corte dei conti.

* * *

I CONTROLLI SULLE AMMINISTRAZIONI LOCALI E IL SISTEMA SANZIONATORIO

di Marcello Clarich

Sommario: 1. Premessa. – 2. La crisi finanziaria recente. – 3. Il rispetto del patto di stabilità interno. – 4. Le procedure di dissesto guidato e di riequilibrio economico-finanziario dell’ente locale. – 5. Cenni alle con- seguenze del mancato rispetto del patto di stabilità interno. – 6. Spunti conclusivi.

1. Premessa I controlli sulle amministrazioni locali sono stati oggetto di interventi legislativi recenti che hanno accen- tuato la dimensione prescrittiva-sanzionatoria dei rapporti tra Corte dei conti ed enti territoriali destinatari di obblighi volti a garantire l’equilibrio economico-finanziario e il rispetto dei vincoli derivanti dal c.d. patto di stabilità. Il recupero di una siffatta dimensione nel contesto del sistema dei controlli della Corte dei conti, dei quali si sottolinea generalmente la dimensione collaborativa, si iscrive in realtà in una tendenza più generale degli ultimi anni a serrare le maglie della regolazione economica accrescendo i poteri dei vari regolatori.

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Il tema richiede dunque sia una rivisitazione della ricostruzione tradizionale del sistema dei controlli, sia, ancor prima, un inquadramento generale che tenga conto delle risposte dell’ordinamento europeo e nazionale a fronte di una crisi economica e finanziaria, scoppiata ormai oltre cinque anni fa, dalla quale le istituzioni finanziarie e molti Stati sovrani non riescono ancora a risollevarsi. Dal primo punto di vista, il tema pone in modo inedito il problema del punto di equilibrio tra due esigenze di segno opposto: da un lato, la salvaguardia dell’autonomia degli enti territoriali, rafforzata in seguito alle modifiche alla Costituzione introdotte dalla l. cost. n. 3/2001; dall’altra, il coordinamento tra centro (Stato) e periferia (regioni, enti locali) ai fini di controllo dell’equilibrio complessivo della finanza pubblica del quale si sono fatte carico le modifiche costituzionali introdotte dalla l. cost. 20 aprile 2012, n. 1. In questo contesto ha assunto un ruolo centrale in questi ultimi anni la Corte dei conti. A questi aspetti sarà dedicata la parte centrale della relazione. Dal secondo punto di vista, il tema dei controlli sugli enti territoriali va collocato all’interno della tendenza più recente a recuperare, come si è accennato, la dimensione prescrittiva e sanzionatoria della regolazione finanziaria. Quest’ultima emerge con chiarezza se si considerino le risposte ordinamentali, non solo a livello europeo, sia alla crisi delle istituzioni finanziarie esplosa cinque anni fa, sia alla crisi, più recente e strettamente intrec- ciata alla prima, dei c.d. debiti sovrani che ha colpito gli Stati maggiormente indebitati. 2. La crisi finanziaria recente Il punto di svolta è rappresentato, secondo l’opinione più diffusa, dal fallimento negli Stati Uniti di Lehman Brothers nel 2008, che ha innescato una serie di reazioni a catena di dimensione sistemica con il rischio del crollo generalizzato dell’intero sistema finanziario globale. Abbandonando il paradigma neoliberista domi- nante nel ventennio precedente, gli Stati sono stati costretti a intervenire con decisione assunte sotto la spinta dell’emergenza nell’immediato e, in prima battuta, hanno adottato misure di sostegno finanziario che si sono concretizzate persino nella sostanziale nazionalizzazione di importanti istituti di credito (lo Stato ribattezzato come “Stato salvatore”) (1). In una seconda battuta, gli Stati e, nel nostro continente, l’Unione europea hanno intrapreso un percorso di modifiche ordinamentali tese a rafforzare l’architettura della regolazione finanziaria di fronte alle smagliature se non addirittura a veri e propri “fallimenti” dello Stato regolatore. Uno dei fili conduttori più evidenti delle modifiche ordinamentali è quello del rafforzamento dei poteri prescrittivi e sanzionatori e delle autorità nazionali ed europee di regolazione. Si pensi in particolare alla c.d. Banking Union, cioè l’attribuzione alla Banca centrale europea dei poteri di vigilanza sui maggiori istituti di credito nazionali approvata nel 2013 (2). Ebbene la Banca centrale europea assume la titolarità di poteri amministrativi autoritativi molto estesi. Questi ultimi spaziano, per esempio, dal rilascio e dalla revoca dell’autorizzazione bancaria, ai poteri ordinatori nei confronti delle autorità di vigilanza nazionali, a un sistema di poteri sanzionatori diretti nei confronti degli istituti di credito in caso di violazione delle disposizioni e dei provvedimenti della Banca centrale europea. Si pensi ancora alla direttiva europea in tema di accesso all’attività e di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi che introduce un sistema di sanzioni a carico di questi ultimi fino al 10 per cento del fatturato e nel caso di persone fisiche preposte a tali enti fino a 5 milioni di euro (3). In parallelo, per contenere il rischio di dissesto degli Stati europei più indebitati, colpiti, specie nel 2011- 2012, dall’onda lunga della crisi che ha determinato una pressione fortissima dei mercati sui c.d. debiti sovrani (manifestatasi anche con l’ampliamento della forbice degli spread), sono state adottate misure volte a raffor- zare il patto di stabilità. Per garantire l’equilibrio economico e finanziario degli Stati, a livello dell’Unione europea, il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria, firmato a Bruxelles il 2 marzo 2012 (c.d. Trattato sul fiscal compact), e altri provvedimenti normativi sono intervenuti su più versanti riducendo gli spazi di manovra dei singoli Stati. In particolare, hanno introdotto misure di coordinamento ex

(1) Cfr. per tutti G. Napolitano (a cura di), Uscire dalla crisi – Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, Bologna, 2012. (2) Cfr., in particolare, regolamento (Ue) n. 1024 del 15 ottobre 2013 del Consiglio. (3) Cfr. direttiva 2013/36/Ue del 26 giugno 2013 e in particolare l’art. 66.

379 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 ante (il c.d. semestre europeo nel quale ciascuno Stato negozia gli interventi strutturali necessari per garantire l’equilibrio finanziario e di bilancio) e obblighi stringenti per gli Stati membri sotto forma di parametri (in par- ticolare il rapporto debito-Pil non superiore al 60 per cento e un disavanzo non superiore al 3 per cento del Pil). Il mancato rispetto dei parametri comporta numerose conseguenze. Obbliga anzitutto gli Stati che hanno superato il tetto del disavanzo a ridurlo a un ritmo medio di un ventesimo l’anno. L’inottemperanza agli impe- gni da parte di uno Stato membro può portare all’applicazione di sanzioni finanziarie a titolo di penalità fino allo 0,1 per cento del Pil anche su ricorso alla Corte di giustizia proposto da un altro Stato membro. S’instaura così una sorta di controllo incrociato orizzontale tra Stati, non intermediato dagli organi dell’Unione europea. Se dunque gli Stati nazionali sono passibili di sanzioni così gravose, si spiega agevolmente la ragione per la quale a loro volta gli Stati devono essere dotati di strumenti prescrittivi e anche sanzionatori nei confronti del complesso variegato delle pubbliche amministrazioni, inclusi gli enti dotati di autonomia costituzionale come sono gli enti locali, in modo tale che ciascuno di essi sia in grado di concorrere al rispetto degli impegni assunti a livello europeo. A ciò ha provveduto, la già citata l. cost. n. 1/2012, approvata con una tempistica assai veloce e senza un dibattito politico particolarmente acceso. Essa ha modificato, anzitutto l’art. 81 della Costituzione in attuazione dell’impegno imposto agli Stati aderenti al Trattato sul fiscal compact di introdurre, di preferenza a livello co- stituzionale, il principio del pareggio di bilancio. In particolare, l’ultimo comma dell’art. 81 rinvia a una legge ordinaria rinforzata (approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera) l’introduzione di norme e criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese di bilancio e la sostenibilità del debito “del complesso delle pubbliche amministrazioni”. La legge in questione (in prima attuazione, l. 24 dicembre 2012, n. 243) deve anche specificare le modalità attraverso le quali le regioni e gli enti locali concorrono alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni (art. 5, c. 2, lett. c) e disciplina per il complesso delle pubbliche amministrazioni, in particolare, le verifiche, preventive e consuntive, sugli anda- menti di finanza pubblica. La legge costituzionale antepone poi all’art. 97 Cost. un comma che obbliga le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. Significativa è la collocazione del nuovo obbligo, che precede addirittura i principi di impar- zialità e di buon andamento. In modo ancor più preciso, l’art. 119, c. 1, Cost. viene integrato con la previsione che gli enti locali concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordi- namento dell’Unione europea. Coerente con il tentativo di rafforzare il ruolo dello Stato come garante ultimo dell’equilibrio della finanza pubblica è anche la modifica all’art. 117 Cost. volta a riportare nell’ambito delle materie attribuite alla compe- tenza legislativa esclusiva dello Stato l’armonizzazione dei bilanci pubblici (art. 3 l. cost. n. 1/2012). In definitiva le recenti modifiche costituzionali hanno dato ancor più corpo a una dimensione inedita della legalità, intesa come “legalità costituzionale finanziaria” e affermata recentemente anche dalla Corte costi- tuzionale (sent. n. 60/2013). Essa sembra essere ormai diventata una sorta di super principio costituzionale, di rango probabilmente sovraordinato a molti altri principi. Un siffatto principio è atto a influire in concreto sull’attuazione di gran parte dei diritti costituzionali collegati allo Stato sociale interventista, per i quali da tempo è stata proposta e diventa ormai ineludibile la controversa nozione di diritti finanziariamente condizio- nati (4). Nella nuova cornice di primazia recuperata dello Stato all’interno dell’ordinamento della finanza pubblica nazionale si inserisce anche il rafforzamento del ruolo della Corte dei conti che sempre di più sembra essere concepita come garante neutrale degli equilibri della finanza pubblica in attuazione dei nuovi principi costitu- zionali (5).

(4) In relazione ai vincoli imposti ormai, come si è visto, a livello europeo si è parlato addirittura di sovranità finanziariamen- te condizionata, nel senso che solo gli Stati europei che rispettano i parametri finanziari godono di una effettiva libertà di manovra nella definizione e attuazione delle politiche di bilancio che costituisce uno dei momenti in cui si esprime la sovranità: cfr. L. Bini Smaghi, Morire di austerità. Le democrazie europee con le spalle al muro, Bologna, 2013. Al contrario per gli Stati che non sono in grado di attenersi ai parametri scattano a livello europeo meccanismi vincolanti come i cosiddetti contractual arrangements che impongono programmi di riforme strutturali e di rientro vincolanti e che sono il presupposto per poter accedere anche agli inter- venti di sostegno europei. (5) Com’è stato rilevato con riguardo in particolare al d.l. n. 174/2012, l’assetto dei controlli viene ulteriormente affinato at-

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Ciò sembra emergere da alcuni interventi legislativi recenti sui quali conviene ora concentrare l’attenzione. Il primo riguarda il rispetto dei vincoli del patto di stabilità interno. 3. Il rispetto del patto di stabilità interno Già dagli anni Ottanta del secolo scorso è emersa nel nostro ordinamento una tendenza a estendere il raggio di azione della Corte dei conti all’intero settore della finanza pubblica allargata, cioè comprensiva di tutti gli enti che si finanziano con risorse pubbliche, ponendo al centro il conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni, piuttosto che soltanto il bilancio dello Stato. Un punto di svolta, da questo punto di vista, è rappresentato dal c.d. patto di stabilità e crescita oggetto della risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam del 16-17 giugno 2007 e dei regolamenti (Ce) 1466/1997 e 1467/1997 (6). Il patto di stabilità e crescita ha trovato uno sviluppo nel diritto interno nel patto di stabilità interno introdotto dalla l. 23 dicembre 1998, n. 448 che ha sottoposto a controllo l’indebitamento netto degli enti territoriali. In particolare gli obiettivi dei bilanci annuali e pluriennali degli enti territoriali devono essere coerenti con gli obiettivi programmatici fissati dal Documento di economia e finanza (Def) che è presentato dal governo alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno. Per gli enti territoriali meno virtuosi, quelli cioè che non rispettano gli obiettivi di finanza pubblica, è previsto un sistema di sanzioni, sotto forma, in particolare, di divieto di procedere a nuove assunzioni di personale, di divieto di iscrivere a bilancio spese per attività discrezionali, di ineleggibilità degli organi di governo e amministrativi dell’ente per i quali sia stato dichiarato lo stato di dissesto finanziario (art. 7 d.lgs. n. 149/2011). In questo contesto generale si inserisce il rafforzamento del ruolo della Corte dei conti che, in realtà, prende le mosse già con la l. 19 gennaio 1994, n. 20. Quest’ultima infatti estende a tutte le pubbliche am- ministrazioni, incluse le regioni e gli enti territoriali, i poteri di controllo della Corte che, come ha chiarito la Corte costituzionale, si connota così sempre più come organo dello “Stato-comunità”, a garanzia dell’e- quilibrio economico-finanziario complessivo e della corretta gestione delle risorse pubbliche sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità (7). Sul versante organizzativo, le delegazioni regionali della Corte dei conti istituite nel 1961 vengono trasformate dapprima in “collegi regionali” e dal 2000 in “sezioni regionali di controllo” (8). Un raccordo tra poteri di controllo della Corte dei conti e rispetto dei vincoli del patto di stabilità viene istituito anzitutto dalla l. 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge La Loggia), di attuazione della riforma del titolo V, Parte II della Costituzione. In particolare l’art. 7, c. 7, assegna alla Corte il compito di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di comuni, province, città metropolitane e regioni “in relazione al patto di stabilità interno e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Il comma stabilisce inoltre che le sezioni regionali di controllo verificano il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali e regionali, la sana gestione finanziaria degli enti locali e il funzionamento dei controlli interni, riferendo sugli esiti delle verifiche esclusi- vamente ai consigli degli enti controllati. Viene comunque ribadita dalla disposizione la “natura collaborativa del controllo sulla gestione”. Il c. 8 delinea anche una funzione consultiva in materia di contabilità pubblica nei confronti delle regioni e degli enti locali, non dissimile, sul piano concettuale, alla funzione consultiva propria di alcune autorità am- ministrative indipendenti (9). tribuendo alla Corte dei conti un “ruolo centrale di garante degli equilibri di finanza pubblica di tutti gli enti che costituiscono la Repubblica nel vigente assetto federale”: cfr. L. Giampaolino, intervento del presidente della Corte di conti al Forum Confcom- mercio su I protagonisti del mercato e gli scenari per gli anni 2000, Cernobbio (Como), 22-23 marzo 2013. (6) I regolamenti sono stati successivamente emendati per superare alcune rigidità e imperfezioni con i regolamenti n. 1055 e n. 1056 del 2005). (7) Cfr. Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 470, in questa Rivista, 1997, fasc. 6, 282; 6 luglio 2006, n. 267, ivi, 2006, fasc. 6, 276. (8) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 14 giugno 2000, n. 14, in wwwcorteconti.it. (9) Si v., per esempio, l’attribuzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato di funzioni consultive, esercitabili peraltro anche d’ufficio, nei confronti di amministrazioni ed enti pubblici in relazione a iniziative legislative o regolamentari e più in generale sui problemi riguardanti la concorrenza e il mercato (art. 22 l. 10 ottobre 1990, n. 287).

381 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Il sistema dei controlli operati dalla Corte dei conti acquista una veste più organica con la l. 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, legge finanziaria 2006). Infatti, l’art. 1, c. 166, crea un raccordo stabile tra enti locali e Corte dei conti, obbligando gli organi de- gli enti locali di revisione economico-finanziaria a trasmettere alle sezioni regionali di controllo una relazione sul bilancio di previsione dell’esercizio dei competenza e sul rendiconto dell’esercizio medesimo. Il c. 167 attribuisce alla Corte un potere “paranormativo” di definire unitariamente criteri e linee guida cui devono attenersi tali organi nella predisposizione della relazione che deve dar conto, in ogni caso, del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interna e dell’osservanza dei vincoli in materia d’indebita- mento (10). La relazione deve dar conto anche di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria rispetto alla quale l’amministrazione non abbia adottato le misure correttive segnalate dallo stesso organo di revisione. Complessivamente: per un verso, si rende più efficace il ruolo di quest’ultimo nei confronti degli organi pre- posti all’amministrazione dell’ente locale; per altro verso, le sezioni regionali diventano il punto terminale di un flusso stabile di informazioni che consentono alle stesse sezioni di esercitare con maggior efficacia i propri poteri (11). Quanto a questi ultimi, il c. 168 (abrogato dall’art. 3, c. 1-bis, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213) prevede che, in caso di accertamento, anche sulla base delle relazioni degli organi di revisione, di comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto, la Corte dei conti adotta una specifica pronuncia che indica all’ente locale le necessarie misure correttive. La legge finanziaria 2006 ha superato il vaglio di costituzionalità in occasione di un ricorso proposto in via principale dalla Regione Friuli-Venezia Giulia (Corte cost., 7 giugno 2007, n. 179). La Corte ha sottolineato la novità di questo tipo di controllo affidato alla Corte dei conti, finalizzato ad assicurare la sana gestione finan- ziaria degli enti locali e il rispetto del patto di stabilità interno in vista della tutela dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica. Esso si aggiunge e ha una funzione complementare rispetto al controllo sulla gestione in senso stretto e serve ad assicurare che l’uso delle risorse avvenga nel modo più efficace, economico ed efficiente. A differenza del primo, che è espletato sulla base di programmi stabiliti dalla Corte dei conti, il nuovo tipo di controllo si svolge su documenti di carattere complessivo e ne- cessario (i bilanci e i rendiconti) e con cadenza annuale. Esso pur essendo ascrivibile alla categoria del riesame di legalità e regolarità, si colloca, secondo la Corte, ancora in una dimensione collaborativa. Infatti, il controllo in questione si limita alla segnalazione all’ente controllato delle rilevate disfunzioni rimettendo all’ente stesso l’adozione delle misure necessarie e resta così distinta la funzione di controllo della Corte dei conti e l’attività amministrativa degli enti. Restavano tuttavia non disciplinate le modalità e la tempistica di quest’ultime nonché l’eventualità e le conseguenza dell’eventuale inerzia dell’ente locale. Su questi aspetti, che fanno venir meno almeno in parte la dimensione collaborativa sottolineata dalla Corte costituzionale, è intervenuto il 148-bis del t.u. degli enti locali introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. f), d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 che, come si è già accennato, ha sostituito il c.168 con una disciplina che ha una valenza maggiormente prescrittiva. Il primo comma attribuisce alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti la funzione di esami- nare i bilanci preventivi e successivi degli enti locali per la verifica degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo in materia di indebitamento previsto dall’art. 119 Cost., dell’as-

(10) Le linee guida per gli organi di revisione economico-finanziaria degli enti locali, con i relativi questionari, sono state ema- nate e aggiornate a partire dal 2006 (Corte conti, Sez. autonomie, 27 aprile 2006, n. 6, e da ultimo, 12 luglio 2013, n. 18, in wwwcorteconti.it). (11) Questo tipo di raccordo tra collegio di revisione dei conti e Corte dei conti è stato poi esteso anche alle regioni dall’art. 14, c. 1, lett. e), d.l. n. 138/2011. La Corte costituzionale lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo sottolineando che esso assol- ve a una funzione di razionalità nelle verifiche di regolarità e di efficienza sulla gestione delle singole amministrazioni, come sem- bra già prevedere la l. n. 20/1994 là dove prevede che la Corte accerti la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge “anche in base all’esito di altri controlli” (Corte cost., 20 luglio 2012, n. 198, in questa Rivista, 2012, fasc. 3-4, 450). Le sezioni regionali sono diventate più di recente il punto terminale di comunicazioni anche da parte della Ragio- neria generale dello Stato nel caso in cui vengano evidenziali squilibri finanziari, anche attraverso le rilevazioni Siope, rispetto a una serie di indicatori (art. 5, c. 1-bis, d.lgs. n. 149/2011, aggiunto dal d.l. 10 ottobre 2012, n. 174).

382 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA senza d’irregolarità suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari degli enti. Un siffatto giudizio è ad ampio spettro e richiede alla Corte dei conti di operare valutazioni prognostiche complesse in ordine alla capacità dell’ente locale di assicurare per il futuro l’equilibrio economico-finanzia- rio. Il c. 3 dell’art. 148-bis impone poi agli enti locali di adottare, entro sessanta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia di accertamento, da parte delle sezioni regionali di controllo, di squilibri econo- mico-finanziari, della mancata copertura di spese, della violazione di norme finalizzate a garantire la regolarità della gestione finanziaria o del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno “prov- vedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio”. Gli enti locali devono trasmettere tali provvedimenti alle sezioni regionali di controllo per una verifica da effettuare nei successivi trenta giorni. In caso di mancata trasmissione dei provvedimenti o di esito negativo della verifica all’ente locale interessato “è preclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria”. Si tratta di una conseguenza per l’ente locale assai grave che assume una valenza lato sensu sanzionatoria. Inoltre, la mancata adozione delle misure correttive da parte degli enti locali può innescare il procedimento di dissesto guidato al quale si farà cenno più avanti (art. 6, c. 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149). Anche il nuovo art. 148 del t.u. degli enti locali, introdotto sempre dal d.l. n. 174/2012, rafforza il sistema dei controlli esterni sugli enti locali esercitati dalle sezioni regionali della Corte dei conti. In particolare si prevede che gli enti locali (esclusi i comuni minori) trasmettano semestralmente alla sezione regionale un referto sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e sull’adeguatezza del sistema dei controlli interni. Il referto è adottato sulla base delle linee guida deliberate dalla sezione delle autonomie della Corte dei conti che acquista così un altro potere paranormativo. Inoltre le sezioni regionali (ma anche la Ragioneria gene- rale dello Stato) possono attivare verifiche sulla regolarità della gestione amministrativo contabile nel caso in cui emergano situazioni di squilibrio finanziario riferibili ad alcuni indicatori elencati dalla disposizione: ripetuto utilizzo dell’anticipazione di tesoreria, disequilibrio consolidato della parte corrente del bilancio, anomale modalità di gestione dei servizi per conto di terzi, aumento non giustificato di spesa degli organi politici istituzionali. L’art. 148 attribuisce alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti anche un potere sanzionatorio nel caso di rilevata assenza o inadeguatezza degli strumenti e delle metodologie relative ai controlli interni. Infatti, in aggiunta all’eventuale responsabilità per danno erariale, ai sensi dell’art. 1 l. n. 20/1994, le sezioni giurisdizio- nali possono irrogare una sanzione pecuniaria nei confronti degli amministratori responsabili da un minimo di cinque fino a un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda a essi spettante (c. 4). La portata del nuovo art. 148-bis è stata chiarita dalla Corte costituzionale (sent. n. 60/2013) che, ripren- dendo orientamenti già espressi in alcuni precedenti (tra di essi anche sent. n. 179/2007, cit.), ha chiarito che il controllo in esso previsto “si pone in una prospettiva non più statica – come, invece, il tradizionale controllo di legalità-regolarità – ma dinamica, in grado di finalizzare il controllo tra fattispecie e parametro normativo alla adozione di effettive misure correttive funzionali a garantire il rispetto complessivo degli equilibri di bilancio”. Si tratta di una nuova tipologia di controlli “ascrivibili a controlli di natura preventiva finalizzati a evitare danni irreparabili all’equilibrio di bilancio, che si collocano pertanto su un piano distinto rispetto al controllo sulla gestione amministrativa”. In essi, come si è accennato, il carattere collaborativo tipico dei controlli sugli enti locali sembra recessivo atteso che in caso di mancato adeguamento dell’ente locale alle pronunce di accerta- mento è preclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’in- sussistenza della relativa sostenibilità finanziaria. Inoltre, atteso che il “parametro normativo” al quale la Corte dei conti deve far riferimento in molti casi non è costituito da disposizioni puntuali ma da principi di corretta gestione finanziaria, il controllo in questione comporta l’esercizio di valutazioni tecnico discrezionali anche di tipo prospettico che esaltano ancor più il ruolo delle sezioni regionali. 4. Le procedure di dissesto guidato e di riequilibrio economico finanziario dell’ente locale L’equilibrio delicato tra autonomia degli enti locali e poteri di controllo della Corte dei conti si presenta pro- blematico anche su un altro versante: quello del rapporto, da un lato, tra la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale disciplinata dall’art. 243-bis del t.u. degli enti locali, introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r), d.l. 10 otto- bre 2012, n. 174, dall’altro lato, la procedura del dissenso guidato prevista dall’art. 6 d.lgs. 6 settembre 2011,

383 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 n. 149 sui meccanismi sanzionatori e premiali a carico delle regioni e degli enti locali introdotto in attuazione della legge di delega 5 maggio 2009, n. 42 sul federalismo fiscale (artt. 2, 17 e 26). Quest’ultima procedura prende avvio dalle verifiche svolte dalle sezioni regionali di controllo della Cor- te dei conti. Infatti nei casi in cui da esse emergano comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria, violazione degli obiettivi della finanza pubblica allargata e irregolarità contabili o squilibri strutturali del bi- lancio dell’ente locale in grado di provocarne il dissesto, la Corte dei conti assegna anzitutto all’ente locale un termine per l’adozione delle misure correttive necessarie. Ove l’ente locale non adempia, la Corte, accertato l’inadempimento, trasmette gli atti al prefetto e alla conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica. In caso di perdurante inadempimento, trascorsi trenta giorni dalla trasmissione degli atti al prefetto, quest’ultimo ove accerti la sussistenza delle condizioni di dissesto finanziario ai sensi dell’art. 244 del t.u. degli enti locali (incapacità dell’ente di garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili o esistenza di crediti liquidi ed esigibili di terzi ai quali l’ente locale non possa fare validamente fronte) assegna al consiglio dell’ente locale, con lettera notificata ai singoli consiglieri, un termine non superiore a venti gironi per la deliberazione del dissesto. Decorso infruttuosamente questo termine il prefetto nomina un commissario per la deliberazione dello stato di dissesto e dà corso alla procedura per lo scioglimento del consiglio dell’ente ai sensi dell’art. 141 del t.u. degli enti locali. Si tratta dunque di una procedura dal carattere tendenzialmente autoritativo, anche se passa attraverso una pluralità di momenti nei quali l’ente locale ha la possibilità di adottare autonomamente le misure necessarie per ripristinare la situazione di equilibrio economico-finanziario. Questa procedura si coordina con l’altra procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall’art. 243-bis ss. del t.u. degli enti locali alla quale invece l’ente locale si sottopone autonomamente. La procedura si apre infatti con una delibera dell’organo consiliare che ritenga che sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario. La procedura può prendere le mosse anche in base alle risultanze della relazione di inizio mandato provin- ciale e comunale relativa alla situazione finanziaria e patrimoniale dell’ente e alla misura dell’indebitamento, che deve essere predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale e sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco entro novanta giorni dall’inizio del mandato (art. 4-bis d.lgs. n. 149/2011, cit.) (12). Entro sessanta giorni dalla delibera il consiglio dell’ente locale delibera un piano di riequilibrio finanziario della durata massima di dieci anni, corredato dal parere dell’organo di revisione economico-finanziario, che deve tener conto di tutte le misure necessarie a superare le condizioni di squilibrio rilevate. Queste ultime devono includere necessariamente, tra l’altro, le eventuali misure correttive adottate dall’ente locale in con- siderazione dei comportamenti difformi dalla sana e prudente gestione e del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità accertati dalla competente sezione regionale della Corte dei conti (art. 243-bis, c. 6, lett. a). In base all’art. 243-quater il piano in questione deve essere trasmesso entro dieci giorni alla sezione regio- nale di controllo e alla commissione per la finanza e gli organici degli enti locali operante presso il Ministero dell’interno di cui all’art. 155 del t.u. degli enti locali. La commissione procede alla necessaria istruttoria sulla base delle linee guida deliberate dalla sezione delle autonomie della Corte dei conti (fattispecie che costituisce un ulteriore esempio di potere paranormativo) e alla redazione di una relazione finale trasmessa alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti. A questo punto la Corte dei conti entro trenta giorni delibera sull’approvazione o sul diniego del piano, valutandone la congruenza ai fini del riequilibrio. La delibera viene comunicata al Ministero dell’interno. Una volta approvato il piano, spetta alla Corte dei conti il compito di vigilare sull’esecuzione del medesi- mo. Ove la Corte di conti accerti il grave e reiterato mancato rispetto degli obiettivi intermedi fissati dal piano o il mancato raggiungimento del riequilibrio finanziario dell’ente locale al termine della durata del piano, si

(12) L’art. 4 del d.lgs. prevede anche un’analoga relazione di fine mandato contenente una descrizione dettagliata della situa- zione economica finanziaria e delle attività normative e amministrative svolte durante il mandato. La relazione deve essere invia- ta anche alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti (c. 3-bis, introdotto dall’art. 1-bis, c. 2, lett. c, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213). Con ciò si crea un altro flusso informativo stabile nei confronti della Corte dei conti.

384 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA passa direttamente alla procedura di dissesto guidato sopra esaminata (13). Il prefetto assegna infatti al consi- glio dell’ente un termine di venti giorni per la deliberazione del dissesto. Le due procedure di riequilibrio economico-finanziario e di dissesto guidato si coordinano dunque in modo sequenziale e la seconda sembra volta a garantire effettività alla prima (14). Un altro raccordo tre le due procedure si ha nella fase iniziale della prima. Infatti, da un lato, la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale non può essere aperta qualora la sezione regionale della Corte dei conti abbia già avviato la procedura di dissesto guidato assegnando il termine per l’adozione delle misure correttive (art. 243-bis, c. 1). Dall’altro, il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale sospende tem- poraneamente il potere della Corte dei conti di avviare la procedura di dissesto guidato (c. 3). In definitiva, a salvaguardia dell’autonomia dell’ente locale, la priorità viene data alla prima procedura rispetto alla seconda, della quale si è già sottolineato il carattere autoritativo. Ciò sempre che la prima non costituisca un tentativo in extremis per evitare la prosecuzione della seconda. 5. Cenni alle conseguenze del mancato rispetto del patto di stabilità interno Il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149 relativo a meccanismi sanzionatori e premiali già citato e il d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 contengono alcune disposizioni volte a responsabilizzare maggiormente i vertici politici degli enti territoriali nel caso di dissesto dell’ente territoriale. Già in precedenza l’art. 248, c. 5, del t.u. degli enti locali prevedeva che, ferma la responsabilità per danno erariale di cui all’art. 1 l. n. 20/1994, gli amministratori che la Corte dei conti ha ritenuto responsabili di danni da loro prodotti nei cinque anni precedenti il dissesto finanziario non possono ricoprire per un periodo di cinque anni alcuni tipi di incarichi, tra i quali quello di assessore e di revisore dei conti di enti locali, ove la Corte, valutate le circostanze e le cause del dissesto, accerti che questo è diretta conseguenza delle azioni od omissioni per le quali l’amministratore è stato riconosciuto responsabile. Questo impianto normativo viene rafforzato dall’art. 6, c. 1, d.lgs. n. 149/2011. Infatti, per un verso il pe- riodo di cinque anni viene portato a dieci anni. Inoltre viene prevista per i sindaci e i presidenti di provincia ri- tenuti responsabili l’incandidabilità, per un periodo di dieci anni, a una serie di cariche politiche elettive come, in particolare, quella di sindaco e di presidente di provincia o di regione o di membro del Parlamento nazionale ed europeo e degli organi consigliari delle regioni e degli enti territoriali. Anche i componenti dei collegi dei revisori sono suscettibili di analoghe penalizzazioni e la Corte dei conti è tenuta anche a trasmettere l’esito degli accertamenti all’ordine professionale di appartenenza dei revisori per l’eventuale avvio di procedimenti disciplinari. Ulteriori modifiche sono state introdotte dall’art. 3 d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, che ha in particolare attribu- ito alle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti anche il potere di irrogare una sanzione pecuniaria, pari a un minimo di cinque e fino a un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione, a carico di vertici politici degli enti territoriali e dei componenti del collegio dei revisori (c. 1, lett. s). Per completezza va ricordato che il mancato rispetto del patto di stabilità interno da parte degli enti locali comporta una serie di sanzioni automatiche a loro carico, previste dall’art. 7, c. 2, d.lgs. n. 149/2011 sotto forma di riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio o del fondo perequativo, di divieto di impegnare spese correnti in misura superiore all’importo annuale medio dei corrispondenti impegni effettuati nell’ultimo triennio, di divieto di ricorrere all’indebitamento per gli investimenti, di divieto di assunzioni di personale, di riduzione delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza dei titolari di cariche politiche di vertice degli enti territoriali. I vincoli del patto di stabilità interno nei confronti degli enti locali sono stati rafforzati anche dall’art. 31 l. 12 novembre 2011, n. 183, con una serie di misure puntuali come, per esempio, l’obbligo di trasmissione ogni semestre alla Ragioneria generale dello Stato delle informazioni riguardanti i dati finanziari e ogni anno di una certificazione del saldo finanziario. In questo contesto è stato introdotta un’ulteriore fattispecie sanzio- natoria nel caso in cui le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti accertino che il rispetto del patto di stabilità interno è stato conseguito artificiosamente attraverso una non corretta imputazione delle entrate o

(13) Anche la mancata presentazione del piano nel termine di 60 giorni determina le medesime conseguenze. (14) Sul raccordo tra le due procedure, cfr. Corte conti, Sez. autonomie, 8 gennaio 2013, n. 1, in questa Rivista, 2013, fasc. 5-6, 96.

385 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 delle uscite o altre forme elusive. Agli amministratori responsabili può essere irrogata una sanzione pecuniaria fino a un massimo di dieci volte l’indennità di carica e ai responsabili del servizio economico-finanziario una sanzione pecuniaria fino a tre mensilità del trattamento retributivo (art. 31, c. 31). 6. Spunti conclusivi L’analisi sin qui svolta conferma la tendenza recente a rafforzare il ruolo della Corte dei conti come garante della legalità costituzionale finanziaria posta in primo piano dalle modifiche costituzionali più recenti. Questo tipo di evoluzione sta determinando un mutamento della natura dei controlli esercitati dalla Corte dei conti sugli enti territoriali nei quali la dimensione collaborativa cede almeno in parte il passo a quella pre- scrittiva sanzionatoria. Si tratta di una tendenza non facilmente reversibile nel momento attuale nel quale, per il futuro prevedibile, un controllo stringente degli equilibri finanziari delle pubbliche amministrazione è richiesto anzitutto dagli impegni assunti dallo Stato nei confronti dell’Unione europea. Una volta che si prenda consapevolezza della dimensione prescrittiva sanzionatoria della nuova tipologia di controlli occorre trarne tutte le conseguenze. In particolare, va posta la questione delle garanzie del contrad- dittorio a tutela degli enti territoriali. A questa esigenza si sono dimostrate sensibili le sezioni regionali della Corte dei conti già in sede di prima applicazione delle nuove disposizioni legislative e in particolare dell’art. 148-bis sopra citato con riguardo alla verifica delle misure correttive che le sezioni devono effettuare nel termine di trenta giorni (15). Inoltre, il nuovo ruolo della Corte dei conti come garante della legalità costituzionale finanziaria comporta la necessità di individuare qualche forma di raccordo con l’ufficio parlamentare di bilancio, cioè la nuova au- torità istituita di recente, nel campo della finanza pubblica e del rispetto dei vincoli del patto di stabilità dalla l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, cit. Si tratta di un organismo indipendente responsabile a livello nazionale dell’osservanza dei vincoli comuni- tari in materia di finanza pubblica (art. 5) previsto dal trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla gover- nance dell’unione economica e monetaria (il quale contiene al suo interno il c.d. fiscal compact). In attuazione di queste disposizioni, la l. n. 243/2012 attuativa dell’art. 81, c. 6, della Costituzione, ha isti- tuito presso le Camere l’ufficio parlamentare di bilancio “per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio” (art. 16) secondo il modello delle autorità indipendenti (16). Tra i poteri dell’ufficio va segnalato quello di fornire le proprie valutazioni in merito agli scostamenti ne- gativi del saldo strutturale rispetto alle previsioni tali da richiedere l’attivazione dei meccanismi di correzione richiesti dall’ordinamento europeo (art. 18). I rapporti tra l’ufficio e il Governo sono strutturati, come chiarisce la comunicazione della Commissione europea del 20 giugno 2012 illustrativa delle funzioni del nuovo organi- smo indipendente (17), secondo il modello in base al quale gli Stati hanno “l’obbligo di rispettare le valutazioni delle suddette istituzioni, o in alternativa di spiegare pubblicamente perché non le stanno osservando” (c.d. modello regolatorio del comply or explain adottato a livello europeo in molti contesti). In concreto, qualora l’ufficio “esprima valutazioni significativamente divergenti rispetto a quelle del governo (…), quest’ultimo illustra i motivi per i quali ritiene di confermare le proprie valutazioni ovvero ritiene di conformarle a quelle dell’ufficio” (art. 18, c. 3). Anche il nuovo ufficio, dunque, si connota per una funzione neutrale, a tutela dello stesso valore costitu- zionale al quale si rapporta la Corte dei conti, a metà tra il collaborativo nei confronti del governo e prescrit- tivo. Da qui l’esigenza di individuare qualche forma di raccordo funzionale in modo da valorizzare il ruolo di entrambi.

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(15) Cfr. Corte conti, Sez. contr. reg. Piemonte, 26 aprile 2013, n. 159, e 15 marzo 2013, n. 42, in wwwcorteconti.it. (16) Esso è costituito da un consiglio di tre membri nominati a maggioranza di due terzi dai presidenti della Camera e del Se- nato nell’ambito di un elenco di dieci soggetti indicati dalle commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza di due terzi (così da garantire una rappresentanza delle minoranze parlamentari). (17) Com(2012) 342 final.

386 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

IL NUOVO SISTEMA DEI CONTROLLI E IL RUOLO DELLA CORTE DEI CONTI

di Nicola Mastropasqua

Sommario: 1. Introduzione. – 2. I controlli sulle regioni. Il giudizio di parifica. – 3. La verifica degli equilibri di bilancio, il dissesto e altre forme di controllo sugli enti locali. – 4. I parametri del controllo sulla valu- tazione degli equilibri di bilancio. – 5. La giustiziabilità.

1. Introduzione I temi trattati nei convegni tenutisi qui a Varenna negli ultimi tre anni rendono evidente l’evoluzione della situazione economico sociale nel nostro paese. Dalla problematica ricerca degli strumenti necessari per attuare un apprezzabile federalismo fiscale si è pas- sati all’individuazione di regole, anche di livello costituzionale, per assicurare il rispetto dei vincoli di bilancio fissati in sede europea, alla talvolta affannosa rincorsa di risorse finanziarie attraverso il contenimento e il taglio della spesa degli enti del settore pubblico. Anche i temi del controllo e in particolare del controllo esterno hanno seguito un analogo percorso, di cui sono tracce gli argomenti che in questi tre anni mi sono stati affidati. Ma pur nel cambiamento del quadro economico sociale si sono venuti affermando dei punti fermi che ca- ratterizzano il controllo intestato alla Corte dei conti. Il primo punto di approdo, oramai consolidato nella legislazione e nella giurisprudenza costituzionale, è la piena compatibilità dei controlli affidati alla Corte dei conti con l’autonomia costituzionalmente garantita a regioni ed enti locali. In sede dottrinale, ma anche politica, ampio è stato il dibattito su tale compatibilità, da talune correnti soste- nendosi che spettasse alle regioni stabilire autonomamente forme e soggetti cui demandare il controllo esterno. Sono passati pochissimi anni e una tale affermazione sembra estranea al quadro istituzionale. Molto ha concorso a una tal evoluzione la giurisprudenza della Corte costituzionale. Sin dalla sentenza n. 64/2005 il giudice delle leggi ha riconosciuto il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento connessi a obiettivi nazionali o obblighi comunitari, sia vincoli alle politiche di bilan- cio che un coerente sistema di controlli, affidati a un organo della Repubblica in posizione di indipendenza (1). Ad un tale organo può essere affidato un qualsiasi tipo di controllo che trovi un riferimento costituzionale, individuato principalmente in una rilettura dell’art. 100 Cost., orientata all’evolversi della struttura della Re- pubblica. Il secondo punto di approdo è che il rafforzamento dei vincoli di bilancio e il coordinamento della finanza pubblica tra i vari livelli di governo, anche al fine di garantire il rispetto degli obblighi derivanti dall’apparte- nenza dell’Italia all’Ue, ha comportato l’individuazione di tipologie di controllo che ne assicurino l’adempi- mento. In quest’ambito si va sempre di più arricchendo la tipologia di controlli affidata alla Corte dei conti. In proposito le conclusioni più recenti della giurisprudenza costituzionale, che si rinvengono nella sentenza n. 60/2013, mettono in rilievo gli effetti dell’evoluzione normativa.

(1) Noto e consolidato è l’orientamento della Corte costituzionale circa la piena compatibilità del suddetto controllo successi- vo sulla gestione economico-finanziaria degli enti territoriali nonché di quelli del Ssn esercitato dalla Corte dei conti con l’autono- mia riconosciuta dal titolo V della Costituzione ai livelli di governo del territorio ivi garantiti. Ha ripetutamente chiarito la Corte che detto controllo “è finalizzato ad assicurare, in vista della tutela dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento del- la finanza pubblica, la sana gestione finanziaria del complesso degli enti territoriali, nonché il rispetto del patto di stabilità interno e degli obiettivi di governo dei conti pubblici concordati in sede europea (ex plurimis, sent. 20 luglio 2012, n. 198, in questa Rivi- sta, 2012, fasc. 3-4, 450; 9 febbraio 2011, n. 37, ivi, 2011, fasc. 1-2, 338; 7 giugno 2007, n. 179, ivi, 2007, fasc. 3, 260; 6 luglio 2006, n. 267, ivi, 2006, fasc. 6, 276). Esso si colloca nell’ambito materiale del coordinamento della finanza pubblica, in riferimen- to agli artt. 97, c. 1, 28, 81 e 119 Cost., che la Corte dei conti contribuisce ad assicurare, quale organo terzo e imparziale di garan- zia dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse collettive, in quanto al servizio dello Stato-ordinamento (sent. n. 267/2006, cit.; analogamente, anche le sent. n. 198/2012, cit.; n. 37/2011, cit. e n. 179/2007, cit.).

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La Corte costituzionale afferma che il controllo obbligatorio sui bilanci degli enti locali e degli enti del Ssn di cui all’art 1, cc. 166-172, l. 23 dicembre 2005, n. 266, “si pone in una prospettiva non più statica – come, invece, il tradizionale controllo di legalità-regolarità – ma dinamica, in grado di finalizzare il confronto tra fattispecie e parametro normativo alla adozione di effettive misure correttive funzionali a garantire il rispetto complessivo degli equilibri di bilancio” (sent. n. 60/2013). Detto controllo è intestato alla Corte dei conti, quale “organo dello Stato-ordinamento” (sent. n. 267/2006 e n. 29/1995) al quale, in considerazione della sua “specializzazione nella materia della contabilità pubbli- ca”, la Costituzione assegna “il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120 Cost.) e assicurare, da parte dell’amministrazione controllata, il “riesame” (sent. n. 179/2007) diretto a ripristinare la regolarità amministrativa e contabile” (sent. n. 198/2012). Una tipologia di controllo che è “ascrivibile alla categoria del sindacato di legalità e di regolarità, di tipo complementare al controllo sulla gestione amministrativa” (sent. n. 179/2007). Dunque non un controllo di legittimità consistente nell’apprezzamento a posteriori – per l’appunto, in una “prospettiva statica” – della conformità a legge di un atto già adottato per quanto ancora in una fase in cui la relativa efficacia è destinata a integrarsi a seguito dell’esito positivo del controllo, ma nemmeno un controllo meramente gestionale, basato su parametri metagiuridici e di matrice aziendalistica ed empirica (2). Si tratta, invece di un “sindacato di legalità e regolarità”, che ha in comune con il controllo di legittimità il riferimento a parametri di natura sostanzialmente normativa, tali essendo quelli di legalità, pur se di matrice finanziaria e contabile. Esso s’inquadra in una prospettiva “dinamica”, finalizzata non alla integrazione a posteriori dell’ef- ficacia di un atto già adottato, quanto piuttosto al riscontro della “legalità-regolarità” (quale conformità alle regole contabili finanziarie) di una complessiva gestione articolatasi (o destinata ad articolarsi nel caso del con- trollo sui bilanci preventivi) lungo un determinato arco temporale (di regola annuale) allo scopo (“dinamico”) della eventuale adozione di “misure correttive funzionali a garantire il rispetto complessivo degli equilibri di bilancio” (sent. n. 60/2013) nonché delle regole finanziarie e contabili eventualmente violate. Modalità ed effetti di un tale tipo di controllo verranno esaminati in appresso (3). Il terzo punto di approdo è la funzione della Corte dei conti di garante imparziale degli equilibri di bilancio di tutti i soggetti che compongono la Repubblica anche nei loro rapporti reciproci e di organo posto a tutela degli interessi indifferenziati della collettività, con conseguenti riflessi anche in tema di giustiziabilità. Di conseguenza non sussiste nessuna incompatibilità tra controlli svolti dai soggetti, anche se dotati di autonomia costituzionalmente garantita, e “la funzione di controllo sulla legalità e regolarità della gestione economico-finanziaria svolta dalla Corte dei conti”, che “si configura invece in termini ben diversi quanto a parametro e finalità perseguite: questi ineriscono alla tutela degli equilibri complessivi della finanza pubblica posti dai menzionati parametri costituzionali e dai richiamati obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Anche sotto il profilo soggettivo le funzioni di controllo sono esercitate non da un organo dello Stato-apparato, bensì da una magistratura che è soggetta soltanto alla legge e munita di specifica garanzia costituzionale di “indipendenza” dal governo e dunque dallo Stato-persona (art. 100, c. 3, Cost.) e che costitui­ sce quindi un custode neutrale e imparziale degli interessi obiettivi dello Stato-comunità (sent. n. 29/1995, n. 179/2007), oltre che del rispetto della legge e delle regole finanziarie e contabili. In questo quadro istituzionale complessivo vanno esaminate le nuove attribuzioni che la più recente legisla- zione ha conferito e sta conferendo alla Corte dei conti. Esse si dislocano su tre versanti: 1) valutazione degli equilibri complessivi di finanza pubblica, con particolare riguardo agli equilibri di bilancio degli enti territoriali.

(2) Peraltro, lo stesso controllo successivo sulla gestione, rivestendo natura “bifasica”, prevede un apprezzamento prelimina- re del rispetto delle norme giuridiche che disciplinano l’attività della pubblica amministrazione in esame, il quale però sfocia in un più complessivo giudizio in termini di economicità, efficienza, efficacia (Corte conti, Sez. contr. gest., 28 marzo 2001, n. 11, in questa Rivista, 2001, fasc. 2, 5). (3) È stata, ancora, più volte ribadita “la distinzione tra funzioni di controllo sulla legalità e regolarità della gestione economi- co-finanziaria spettanti alla Corte dei conti e funzioni di controllo e vigilanza svolte dalle regioni e dagli enti locali sulla gestione amministrativa” (Corte cost., n. 179/2007, cit.; n. 267/2006, cit.; 27 gennaio 1995, n. 29, in questa Rivista, 1995, fasc. 1, 355). Così com’è stato ripetutamente ed espressamente affermato “anche in riferimento agli enti territoriali dotati di autonomia speciale, che il legislatore è comunque libero di assegnare alla Corte dei conti qualsiasi altra forma di controllo, purché questo abbia un suo fon- damento costituzionale” (Corte cost., n. 179/2007, cit.; n. 267/2006, cit.; n. 29/1995, cit.).

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Le innovazioni legislative trovano il loro fondamento nei nuovi vincoli di finanza pubblica posti nell’ordi- namento interno dal c.d. fiscal compact, riflessi nella l. cost. 20 aprile 2012, n. 1. Il dato di maggior interesse della l. cost. n. 1/2012 è indubbiamente costituto dall’introduzione in Costitu- zione della nozione di “equilibrio di bilancio”, principio già ampiamente utilizzato nella formulazione e nella verifica dei bilanci pubblici e che per gli obiettivi definiti a livello europeo ha quale oggetto il conto consolidato delle amministrazioni pubbliche. 2) Accertamento del rispetto del patto di stabilità interno e degli altri vincoli di spesa posti a tutti i livelli di governo. Si tratta di un’attività che a partire dalla legge finanziaria 2006 si è venuta espandendo sia soggetti- vamente che oggettivamente, incidendo sempre più anche sul piano degli effetti collegati alle pronunce della Corte dei conti. Il patto di stabilità interno e gli altri vincoli di spesa sono gli strumenti attraverso i quali il legislatore intende raggiungere gli obiettivi di partecipazione degli enti territoriali ai vincoli di finanza pubblica posti in sede europea e, conseguentemente, l’equilibrio complessivo della finanza pubblica. Il controllo della Corte dei conti ha la funzione di accertare il raggiungimento degli obiettivi posti dalla legislazione statale, prescrivendo se del caso misure correttive soprattutto in sede di esame dei bilanci preventivi. 3) Le verifiche sui “costi della politica” e sull’attività gestoria dei fondi pubblici a essa destinati. I compiti di controllo sono impegnativi, ma hanno anche ricadute immediate e potenzialmente dotate di effettività. Le innovazioni legislative in tema di equilibri di bilancio e di rispetto del patto di stabilità hanno trovato una strumentazione dell’attività di controllo particolarmente significativa per quanto riguarda regioni ed enti locali, attraverso percorsi di controlli interni nonché verifiche affidate al controllo esterno della Corte dei conti puntualizzate in particolare sui bilanci pubblici e sul raggiungimento degli obiettivi gestori. Da quanto è stato enunciato appare evidente l’ampiezza ma anche i limiti dell’intervento legislativo. Alla Corte dei conti è stato attribuito il controllo sull’equilibrio economico-finanziario del complesso delle amministrazioni pubbliche a tutela dell’unità economica della Repubblica, in riferimento a parametri costitu- zionali (artt. 81, 119 e 120 Cost.) e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (artt. 11 e 117, c. 1, Cost.): equilibrio e vincoli che trovano generale presidio nel sindacato della Corte dei conti quale magistratura neutrale e indipendente, garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pub- blico; ai vari livelli di governo spettano invece diverse forme di controllo interno sulla gestione finanziaria. È su tale distinzione che poggia l’estensione agli enti territoriali dotati di autonomia, anche speciale, del controllo sulla legalità e sulla regolarità della gestione economico-finanziaria. Né può trascurarsi che la funzione affidata alla Corte dei conti assume ancora maggior rilievo nel quadro delineato dall’art. 2, c. 1, l. cost. 20 aprile 2012, n. 1 (introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che nel comma premesso all’art. 97 Cost., richiama il complesso delle pubbliche am- ministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, a assicurare gli equilibri di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico. Un così articolato intervento sulle autonomie territoriali non ha trovato, però, adeguato riscontro nei con- fronti dello Stato. In effetti l’esigenza di assicurare gli equilibri di bilancio dell’intera finanza pubblica, alla quale concorrono più livelli di governo, postula sia controlli a contenuti analoghi su ogni livello di governo ma anche momenti di sintesi complessiva. Ora, per lo Stato, non sono previste forme di controllo analoghe a quelle introdotte per gli enti territoriali ed è mancato nella legge c.d. rinforzata una attribuzione specifica in tal senso alla Corte dei conti. Va in proposito posto in rilievo il diverso piano sul quale operano l’organismo disciplinato dalla legge c.d. rinforzata, che ha compiti accertativi – collaborativi con il Parlamento ai fini di verifica dei principi costituzionali ed europei dello schema di bilancio e degli altri documenti di finanza pubblica adottati dal governo antecedentemente alla approvazione da parte della Camera, e le funzioni di controllo della Corte dei conti che si estendono al quadro complessivo di finanza pubblica. Un siffatto ruolo della Corte dei conti è stato posto in piena evidenza nella sentenza n. 60/2013 della Corte costituzionale più volte richiamata. 2. I controlli sulle regioni. Il giudizio di parifica Il d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, intende dare una più compiuta definizione del quadro dei controlli sulle autonomie territoriali, al fine sia di rafforzare gli strumenti di coordi-

389 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 namento della finanza pubblica, in particolare tra i livelli di governo in cui si articola la Repubblica, sia di dare attuazione ai principi dell’art. 97 Cost. novellato, assicurando strumenti di accertamento e verifica della legitti- mità, regolarità e del buon andamento dell’azione pubblica con particolare riguardo alla spesa, implementando e introducendo strumenti di controllo democratico e di trasparenza dell’azione amministrativa. In particolare le nuove funzioni assegnate alla Corte dei conti si indirizzano in primo luogo a consentire all’Istituto una valutazione complessiva di tutte le gestioni finanziarie del settore pubblico, sia complessiva- mente che singolarmente. La l. n. 213/2012 si pone in linea con il percorso avviato dal d.lgs. n. 149/2011 (meccanismi premiali e sanzionatori per regioni ed enti locali) quale elemento di chiusura del disegno federativo proprio del rinnovato contesto costituzionale dei rapporti Stato, regioni e autonomie locali, confermando il ruolo della Corte dei conti quale organo della Repubblica, ausiliario delle amministrazioni e delle assemblee elettive di tutti gli enti che compongono la finanza pubblica allargata. Tale posizionamento, nel contesto della complessiva governance finanziaria, rafforza anche il legame con l’ordinamento comunitario, esplicitando il necessario filo conduttore delle politiche fiscali e di bilancio che dall’Unione europea, attraverso lo Stato centrale, giunge a influenzare le autonomie locali. La più significativa novità della legislazione di urgenza in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali è l’introduzione del giudizio di parifica in analogia con il rendiconto generale dello Stato. Come si è detto il testo normativo emanato con d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 ha notevolmente ampliato le funzioni di controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti territoriali, con particolare riguardo alle regioni. Le innovazioni legislative trovano il loro fondamento nei nuovi vincoli di finanza pubblica posti nell’ordi- namento interno dal c.d. fiscal compact, riflessi nella l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, la quale ha lo scopo di assi- curare il pareggio di bilancio o meglio l’equilibrio di bilancio relativamente, per gli obiettivi definiti a livello europeo, al conto consolidato delle amministrazioni pubbliche. Il dato di maggior interesse della l. cost. n. 1/2012 è indubbiamente costituto dall’introduzione in Costitu- zione della nozione di “equilibrio di bilancio”, principio già ampiamente utilizzato nella formulazione e nella verifica dei bilanci pubblici. Il vincolo dell’equilibrio di bilancio è, sicuramente per quanto riguarda il bilancio annuale, meno rigido di quello del pareggio di bilancio, lasciando in questo flessibilità ed interventi rapportabili sia al ciclo economico che a eventi eccezionali in linea, peraltro, con la normativa europea. La maggiore flessibilità dell’equilibrio di bilancio è, però, apparente: esso si amplia dal bilancio annuale alla situazione economico-finanziaria di breve-medio periodo e a un più articolato esame degli aggregati di bilancio. Così per accertare che un bilancio sia in equilibrio occorre verificare non solo e non tanto il pareggio annuale e gli eventuali motivi di scostamento, ma anche le proiezioni future e perciò la composizione delle poste di entrata e di spesa. Assume di conseguenza grande rilievo il bilancio pluriennale programmatico, che diviene elemento di snodo degli equilibri di medio periodo e che perciò deve sempre più corrispondere, così come il bilancio di mandato previsto per gli enti locali ma forse da estendere alla legislatura statale, ai principi fondamentali che regolano il bilancio annuale. Oltre alle prescrizioni dei primi due commi dell’art. 1 l. cost. n. 1/2012, di riscrittura dell’art. 81 Cost., assu- me nell’impianto costituzionale particolare pregnanza il successivo art. 2, il quale ha introdotto all’art. 97 Cost. un primo comma, secondo il quale “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. L’introduzione della norma comporta una serie di conseguenze. La prima è che il concorso ai vincoli europei di finanza pubblica viene assicurato dalle pubbliche amministra- zioni non in via indiretta attraverso le prescrizioni del patto di stabilità interno (e cioè attraverso norme inserite nella legge finanziaria), ma in primo luogo attraverso il rispetto degli equilibri di bilancio per ciascun ente. Proposizione non semplice perché implica raccordi tra vari livelli di governo per gli enti anche parzialmente a finanza derivata. Ma non è priva di significato la collocazione della norma: l’art. 97 Cost. fissa infatti i principi costituzio- nali ai quali deve attenersi l’attività gestoria della pubblica amministrazione e in particolare quello del buon andamento.

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L’introduzione della nuova norma assume così non solo valore in sé ma anche con riferimento ai canoniz- zati criteri del buon andamento (economicità, efficienza, efficacia), che diventano strumento per assicurare gli equilibri di bilancio. Ne viene investito innanzitutto il rapporto tra Stato centrale e autonomie territoriali sia in relazione ai tra- sferimenti di risorse tra i due livelli di governo sia in relazione alle risorse necessarie per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni costituzionalmente garantiti sia per altri trasferimenti necessari almeno in attesa del c.d. federalismo fiscale. In questo quadro, anche per evidenti esigenze di equità e di parità di trattamento, vengono ad assumere un ruolo fondamentale i costi standard dei servizi, che sono uno degli obiettivi per dare attuazione al federalismo fiscale ma la cui individuazione concreta incontra assai gravi difficoltà. Il secondo punto di riflessione è che, se le pubbliche amministrazioni debbono concorrere ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, è necessario prendere in considerazione l’intera spesa pubblica, concentrando l’attenzione sui costi dei servizi pubblici e sulle loro modalità di finanziamento indipendentemente dalle modalità organizzative attraverso le quali vengono resi. Il profilo è essenziale soprat- tutto per quanto riguarda gli enti territoriali e postula l’esigenza di forme di consolidamento dei bilanci tra l’ente proprietario partecipante e gli organismi partecipati nonché la valutazione dei costi dei singoli servizi. È uno dei temi fondamentali per porre realmente sotto controllo la finanza degli enti decentrati, ma è tema ancora fluido per l’affollarsi di una normativa non ancora stabilizzata soprattutto dopo le recenti sentenze della Corte costituzionale (v. da ultimo, sent. n. 199/2012). Il terzo elemento di rilievo è l’oggetto della norma. Se questo è l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico occorre una verifica che trascenda i bilanci annuali e in particolare il bilancio dello Stato per proiettarsi sul medio periodo con riferimento all’intera finanza pubblica. Vengono a questo punto in rilievo i profili della strumentazione normativa e dei controlli. Nel nuovo assetto dei vincoli europei e dei principi costituzionali appare difficilmente sostenibile l’uso di strumenti normativi che impediscono di assicurare e di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio sin dal momento dell’approvazione del bilancio preventivo e degli strumenti di derivazione europea (Def). Una tale affermazione implica non solo una verifica di completezza e di veridicità del bilancio preventivo, ma anche più approfondite analisi che, trascendendo il solo pareggio di bilancio, investono gli equilibri. Segnalo taluni profili che possono incidere negativamente: - l’insufficienza dello stanziamento delle risorse necessarie ad assicurare i livelli essenziali delle presta- zioni ovvero un trasferimento dei relativi oneri a regioni o enti locali quando sia poi necessario un intervento successivo dello Stato; - la vendita di patrimonio pubblico per finanziare spese correnti, in special modo se si tratta di patrimonio fruttifero; - l’incertezza delle risorse finanziarie assicurate alla finanza regionale e locale, con il conseguente ricorren- te protrarsi del termine di approvazione dei bilanci preventivi. Si pongono così due problemi: il primo attiene alle modalità di reperimento di dati attendibili soprattutto se proiettati su bilanci pluriennali e perciò la individuazione di obblighi strumentali di comunicazione ma ancor prima di modalità di compilazione dei bilanci che rendano omogenei e perciò raffrontabili i dati; il secondo è attribuire il compito di verifica e di asseverazione degli equilibri di bilancio e del livello di indebitamento a un soggetto che sia in grado di valutare l’insieme dei bilanci e possa essere rispettoso dell’autonomia di ciascun ente. Anche sotto questo profilo si pone il tema dei controlli, soprattutto in relazione allo specifico disposto della lett. a) dell’art. 119 Cost. come introdotto dall’art. 4 l. cost. n. 1/2012. Nel sistema innanzi delineato il giudizio di parificazione assume particolare rilievo. Esso è un peculiare procedimento di controllo, svolto con le “formalità del giudizio contenzioso” della Corte dei conti (art. 40 r.d. n. 1214/1934). La delibera sul rendiconto generale è accompagnata da una relazione fatta dalla Corte dei conti nella mede- sima sede (art. 41 r.d. n. 1214/1934). Non è senza significato il fatto che il legislatore del d.l. n. 174/2012, nell’estendere alle regioni a statuto ordinario il giudizio di parificazione del rendiconto generale di quel livello di governo abbia adottato lo stesso schema giuridico del rendiconto generale dello Stato. Non si tratta, infatti, di una mera simmetria istituzionale

391 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 ma della sottolineatura nella nuova costituzione economico-finanziaria della funzione di accertamento deferita alla Corte dei conti sull’intera gestione del bilancio. La pronuncia della Corte, che ha natura definitiva e costi- tutiva, attesta la conformità del progetto di rendiconto, secondo i vari livelli di governo, non solo ai documenti di bilancio preventivi e programmatici ma anche alle regole europee e nazionali in tema di equilibri di bilancio e di rispetto del patto di stabilità. In quest’ottica, anzi, le nuove e diverse formulazioni contenute nell’art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012 danno un senso più coerente con il vigente ordinamento alla relazione allegata alla delibera sul rendiconto. Il riferimento agli equilibri di bilancio come contenuto primario della relazione segna anche un momento di continuità tra giudizio sul rendiconto e relazione allegata, rendendo comune a entrambi in diverse prospettive, l’una più statica l’altra più dinamica, il profilo fondamentale degli equilibri. Va posto in adeguato rilievo che i nuovi contenuti della relazione, come previsto dal d.l. n. 174/2012, si raccordano perfettamente al novellato art. 97 Cost., che diviene così il termine di raffronto dell’agire della pubblica amministrazione. Il ricorso allo schema formale del giudizio contenzioso non muta la natura sostanziale del procedimento, ma rafforza gli effetti della decisione, che così possono identificarsi in quelli del “giudicato” con conseguente intangibilità in tutte le sedi, soprattutto per quelle parti della pronuncia con le quali non vengono parificate appostazioni di entrata o di spesa e per le quali solo un atto legislativo può farne venire meno gli effetti (salvo sempre il possibile giudizio di costituzionalità della norma sopravvenuta). Va a questo punto chiarito che oggetto del giudizio di parifica è il solo rendiconto generale della regione come approvato dalla giunta, cioè una verifica di legittimità-regolarità delle appostazioni di bilancio e della loro gestione, con riguardo anche alla conservazione dei residui attivi e passivi e all’istituzione dei fondi previ- sti per legge quali desumibili dal bilancio preventivo e dalle successive variazioni nonché dalle scritture conta- bili che debbono essere messe a disposizione della Corte da parte della regione. Di particolare rilievo possono essere sia questioni di legittimità costituzionale relativamente alla copertura delle leggi di spesa sia la verifica di appostazioni che potrebbero alterare gli equilibri di bilancio e per le quali può essere richiesto un intervento correttivo del consiglio regionale ovvero può essere disposta la “non parificazione” di spese inviate a residuo. Non forma invece oggetto del giudizio in senso proprio la relazione allegata alla decisione di parifica, nella quale la Corte dei conti formula le sue osservazioni in merito alla legittimità e alla regolarità della gestione e propone le misure di correzione e gli interventi di riforma che ritiene necessari al fine, in particolare, di as- sicurare l’equilibrio del bilancio e di migliorare l’efficacia e l’efficienza della spesa. La relazione si colloca nell’ampio alveo della funzione ausiliaria della Corte dei conti nei confronti del Parlamento e dei consigli regionali quali previste dall’art. 100 Cost. Va in proposito precisato che, se pure il c. 5 dell’art. 1 della l. n. 174/2012 richiama l’art. 41 r.d. n. 1214/1934, la stessa disposizione ridescrive l’ambito della relazione della Corte dei conti, il cui contenuto è stato innanzi precisato, e che deve essere allegata alla decisione di parifica. La disposizione legislativa nella sua dicotomia delibera di parifica-relazione allegata dà evidente espressio- ne agli approdi della giurisprudenza costituzionale che ha posto in evidenza (da ultimo chiaramente nella sent. n. 60 del 5 aprile 2013) come l’art. 1, cc. 166-172, l. n. 266/2005 e l’art. 148-bis Tuel nel testo vigente (ma le stesse affermazioni sono estensibili per le regioni all’art. 1, cc. 3, 4, 5, 7, d.l. n. 174/2012) abbiano istituito ulteriori tipologie di verifiche, ascrivibili a controlli di natura preventiva finalizzati a evitare danni irreparabili all’equilibrio di bilancio, che si collocano pertanto su un piano distinto rispetto al controllo sulla gestione am- ministrativa, almeno per quel che riguarda gli esiti del controllo spettante alla Corte dei conti sulla legittimità e la regolarità dei conti. Il tema dei controlli sui bilanci presenta profili di non facile soluzione. Il bilancio è essenzialmente un atto dell’esecutivo attraverso il quale l’organo di governo dell’ente indivi- dua e alloca le risorse necessarie alla propria attività di gestione nonché le fonti poste a finanziamento delle spese; esso, però, è soggetto non solo all’approvazione del Parlamento o dei consigli, ma anche a modifiche apportate da questi. Sicché anche da un punto di vista contenutistico la responsabilità del bilancio deve farsi ricadere non solo sull’esecutivo, ma anche sulle assemblee elettive. Il principio è stato rafforzato dalla l. cost. n. 1/2012. In questa situazione le assemblee elettive vengono a rivestire la duplice funzione di organo al quale va im-

392 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA putato il bilancio e di controllo del bilancio stesso. La duplice posizione è corretta se riferita alla verifica della coerenza dell’attività dell’esecutivo con le statuizioni di bilancio, mentre appare problematica quando la verifi- ca riguarda la coerenza del bilancio stesso nei suoi saldi o in singole appostazioni con i principi comunitari e/o con le norme costituzionali e/o con le disposizioni della legge rafforzata. Invero, tenuto conto che i bilanci dello Stato e delle regioni sono approvati con legge, la verifica si risolve nell’accertamento della coerenza di una disposizione di legge con un’altra fonte di rango superiore. In linea di principio il conflitto tra norme primarie di diverso rango giuridico è risolvibile dalla Corte costituzionale adita in via diretta o in via incidentale. La soluzione non è, però, così semplice. È sufficiente pensare a un giudizio di costituzionalità che riguardi non singole disposizioni dei bilanci, ma l’intero documento contabile. I possibili profili del mancato equilibrio dei bilanci o di non coerenza dei saldi con gli obblighi di provenienza europea o di natura costituzionale dovrebbero comportare la dichiarazione d’incostituzionalità dell’intero bilancio. In effetti, a oggi, le pronunce della Corte costituzionale, sia in sede di giudizio incidentale sia in sede di conflitti, hanno riguardato specifiche norme di bilancio e quindi disposizioni che potevano essere espunte dal bilancio stesso, per il resto ordinariamente gestibile. Nelle ipotesi nelle quali siano oggetto di valutazione negativa gli equilibri dell’intero bilancio, vengono investiti dalla valutazione i saldi di bilancio e cioè la insostenibilità del complesso delle spese (almeno di una determinata natura e in particolare di parte corrente) rispetto alle entrate che debbono farvi fronte. Il riequilibrio di bilancio richiede perciò interventi conseguenti a scelte fortemente discrezionali di spettanza degli organi rappresentativi dell’ente. Di conseguenza almeno a un primo approccio la valutazione-constatazione del mancato raggiungimento degli equilibri di bilancio anche per quanto riguarda Stato e regioni potrebbe avvenire, così come già accade per gli enti locali, attraverso forme di controllo collaborativo indirizzate all’autocorrezione del bilancio. Viene così in primo piano il problema di individuare l’organo al quale affidare siffatto compito. Per le regio- ni la soluzione è agevole ed è direttamente desumibile dal vigente ordinamento. Come, infatti, ha messo in ri- lievo la Corte costituzionale nella sent. n. 198/2012, recenti disposizioni di legge (art. 14, c. 1, d.l. n. 138/2011, convertito dalla l. n. 148/2011) hanno previsto per le regioni una forma di controllo esterno raccordato con il controllo interno, del tutto analogo a quello operato per gli enti locali. Molto più problematico è il discorso per lo Stato, per il quale non sono previste tipologie di controllo della Corte dei conti di analogo contenuto. La carenza è particolarmente rilevante anche sotto il profilo dell’accerta- mento degli equilibri di bilancio dell’intero settore pubblico (dato rilevante in sede europea) che solo la Corte dei conti per la sua organizzazione a rete può rendere. Il quadro ricostruttivo innanzi descritto consente di approfondire i temi concernenti il contenuto che debbo- no avere i controlli per rispettare i principi costituzionali ed europei. La prima ed essenziale affermazione è che i controlli debbono avere a oggetto il (e debbono partire dal) bilancio preventivo perché è proprio in quella sede che debbono essere assicurati i relativi equilibri e che il controllo deve investire un bilancio già approvato dagli organi deliberanti degli enti. Non è sufficiente, infatti, che valutazioni di sostenibilità e di coerenza intervengano nell’iter formativo del bilancio per assicurare il rispetto dei vincoli costituzionali, perché rimane comunque fermo il potere delle as- semblee di deliberare un bilancio non conforme alle considerazioni-raccomandazioni intervenute nel processo di approvazione. Il secondo punto da mettere in luce è che la modalità di intervento efficace per assicurare gli equilibri di bi- lancio è quella sui bilanci preventivi e/o sugli assestamenti in corso di esercizio, perché in quelle sedi sono aperte tutte le opzioni (rimodulazione delle entrate e delle spese), mentre le verifiche a consuntivo postulano interventi di riequilibrio che, in ogni caso, non possono incidere sulle spese già effettuate e perciò richiedono tagli compen- sativi in successivi esercizi e/o il reperimento di nuove risorse, traducendosi spesso in nuovi fattori di squilibrio. Altro punto da mettere in luce è che, per quanto si è innanzi detto, la valutazione degli equilibri di bilancio deve riguardare l’intero settore pubblico nel quale confluiscono enti ad autonomia costituzionalmente garantita. Il raggiungimento degli equilibri di finanza pubblica non implica solo valutazioni di aggregati per settori assoggettati a scelte unitarie (del Parlamento), ma anche sui bilanci dei singoli enti che compongono la Repub- blica, autonomi nelle scelte nei limiti fissati dai vincoli legislativi consentiti allo Stato centrale. Ne conseguono effetti sia sulla estensione quantitativa dei controlli sia sul soggetto al quale affidarli, che deve essere autonomo ed equidistante dai vari livelli di governo.

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Va ancora posto in luce che gli equilibri di bilancio del settore pubblico impattano con una serie di conse- guenze contenutistiche a partire dagli ambiti di intervento consentiti a ciascun livello di governo. La recente produzione giurisprudenziale della Corte costituzionale è chiaro indice del problema. Inoltre, i vincoli costituzionali sui bilanci s’intrecciano con altri principi costituzionali. Cito ad esempio la distribuzione delle risorse tra i vari enti: questa, al netto di trasferimenti perequativi, deve assicurare parità di trattamento tra i soggetti interessati (ciò che non è se si agisce attraverso tagli lineari) e i loro cittadini; altro esempio è il rapporto tra vincoli di bilancio e welfare state, con effetti sui limiti di compressione dei diritti costituzionalmente garantiti ma finanziariamente limitati e la copertura delle spese per i livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Anche in questo caso la scissione tra soggetto finanziatore e soggetto erogatore può porre domande la cui risposta è ardua. Come si è detto la “parifica” è quanto all’oggetto un procedimento di controllo con la conseguenza che occorre chiarire il significato della disposizione secondo la quale il giudizio di parifica si svolge nelle “forme” del giudizio contenzioso. I processualisti, utilizzando peraltro categorie generali del diritto, affermano che le nozioni di “procedi- mento” e “processo” vanno specificate da più punti di vista e a vari livelli: quello delle “forme”, quello dei “contenuti”, quello “astratto”, quello “concreto”. Specificano, poi, che “forme” e “contenuti” stanno su due livelli di astrazione logica delle norme: su di uno s’individuano dati ricorrenti e stabili, e cioè le forme (o “costanti”, in ragione della loro stabilità); sull’altro si colgono dati marcatamente variabili, i c.d. contenuti. In questo quadro, al fine di chiarire le sequenze di norme che caratterizzano il giudizio di parifica, occorre ricorrere alla nozione di “procedimento” e “processo” per cogliere gli elementi costitutivi della fattispecie. Tralasciando dal considerare il procedimento dal punto di vista delle condotte (liceità o doverosità del compor- tamento tenuto nelle sequenze) o delle posizioni soggettive riconosciute (facoltà, poteri, doveri) va esaminato il procedimento come una serie di “atti” (o di attività) quali previsti e valutati dalle norme e da queste legati l’uno all’altro. Dal punto di vista degli atti il procedimento sta nella loro successione, per cui a ogni atto della serie ne segue un altro, secondo l’ordine stabilito dalla legge, con la conseguenza che l’atto finale del procedimento non può considerarsi valido e che l’efficacia può essere paralizzata se e quando a esso non si sia pervenuti attraverso la sequenza di atti determinata dalla legge. Se sulla base di queste nozioni si vuole analizzare in uno schema procedimentale il giudizio di parifica, vengono in rilievo i seguenti momenti della sequenza. In primo luogo va precisato che l’atto introduttivo del procedimento è la presentazione del rendiconto ap- provato dall’organo esecutivo. Il procedimento inizia in forza del deposito di un atto da parte del soggetto nei cui confronti produrrà effetti l’atto finale del decidente. Il comportamento è doveroso e fa insorgere il potere-dovere del decidente di valutare l’atto secondo para- metri prefissati. Nell’originario giudizio di parificazione i parametri erano costituiti dal raffronto dell’atto (rendiconto) con le scritture contabili tenute dal decidente. Dopo la l. n. 20/1994 e soprattutto per le sezioni regionali di controllo, il parametro va costruito mediante l’accesso alle scritture contabili del soggetto assoggettato al procedimento. In questa articolazione decidente e soggetto rendicontante hanno posizioni soggettive che racchiudono reciprocamente poteri, facoltà e doveri. Il raffronto delle posizioni soggettive avviene necessariamente in forma dialettica: potere-facoltà di ac- quisizione di elementi conoscitivi – dovere di esibire gli elementi richiesti; dovere di contestare gli elementi ritenuti irregolari o dubbi – potere di contestare le ricostruzioni e potere-facoltà di esibire ulteriori giustifica- zioni nell’arco di una fase “istruttoria” più o meno complessa e articolata secondo schemi non necessariamente prefissati, ma anche collaborativi. Segue una fase di contestazione della legittimità-regolarità dell’atto, o di sue partizioni con il diritto (facoltà) di contrapporre difese. Solo al compimento di questa sequenza sarà possibile emettere il provvedimento finale, che nella sua motivazione dovrà tenere conto delle difese dispiegate, dal momento che la decisone è idonea a produrre effetti diretti nella sfera giuridica del rendicontante.

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Secondo una consolidata dottrina il “processo” è un procedimento in cui partecipano anche coloro nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a svolgere effetti con le modalità del contraddittorio e in modo che l’autore dell’atto non possa trascurare la loro attività procedimentale. In sostanza c’è “processo” quando in una o più fasi dell’iter di formazione di un atto è prevista la partecipa- zione non solo del suo autore, ma anche dei destinatari dei suoi effetti “in contraddittorio”, in modo che costoro possano svolgere attività di cui l’autore dell’atto deve tenere conto, i cui risultati cioè egli può disattendere, ma non ignorare. È pertanto, fisiologico che la dialettica processuale avvenga tra controllore e controllato secondo le sequen- ze del procedimento di controllo. L’adozione delle formalità del giudizio contenzioso non è però senza conseguenze, la più rilevante delle quali è la presenza del procuratore generale/regionale nel giudizio. Tale presenza trova fondamento nell’art. 18 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038 secondo il quale “nelle udienze interviene il procuratore generale, o chi legalmente lo rappresenti, ed è sempre udito nelle sue conclusioni”, e nell’art. 72 r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, secondo il quale nel giudizio avanti alla Corte dei conti è sempre sentito il pubblico ministero. In sostanza l’intervento del procuratore regionale nell’udienza si rapporta ai contenuti dell’art. 70 c.p.c. Pertanto, il giudizio di parifica si arricchisce della presenza di un soggetto pubblico che esprime gli interessi indifferenziati della collettività. Altra innovazione legislativa di rilievo è la relazione sulla tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali approvate nel semestre precedente e sulle tecniche di quantificazione degli oneri. La nor- ma attua, anche per quest’aspetto, una simmetria con quanto previsto per lo Stato (cfr. art. 17 l. n. 196/2009). Diretta ai consigli regionali, la relazione è intesa a esprimere un giudizio di affidabilità sulle tecniche di copertura e di quantificazione degli oneri derivanti dai provvedimenti legislativi predisposti dalle rispettive giunte, anche per assicurare il rispetto dei principi fissati dagli artt. 81, 97, e 191 Cost. (4). Argomento di assoluto rilievo è quello del rafforzamento del complesso dei controlli interni. Il legislatore si è reso conto che la legittimità-regolarità dell’attività della pubblica amministrazione e l’orientamento ai criteri di buon andamento fissati dall’art. 97 Cost. possono essere realizzati soltanto se esistono, funzionano e sono affidati a soggetti competenti e autonomi vari e articolati controlli. Non è questa la sede per parlare delle varie tipologie di controlli interni. Qui si vuole sottolineare che lo stesso grado di completezza e approfondimento del controllo esterno della Corte dei conti è condizionato dal sistema dei controlli interni. Sono conseguentemente fondamentali le verifiche affidate alla Corte dei conti sulla loro esistenza e sul loro funzionamento. 3. La verifica degli equilibri di bilancio, il dissesto e altre forme di controllo sugli enti locali Come è stato innanzi detto le più significative disposizioni normative introdotte di recente hanno riguardato i controlli sulla regione. Ad esse, ma anche agli enti che compongono il Servizio sanitario nazionale, è stata estesa la verifica dei bi- lanci preventivi e dei rendiconti consuntivi con le modalità e le procedure già adottati per gli enti locali al fine di accertare il rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall’art. 119, c. 6, della Costituzione, della sostenibilità dell’indebitamento e dell’as- senza di irregolarità suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari degli enti. A queste fondamentali verifiche si accompagnano altri strumenti quali la relazione semestrale sulle leggi di spesa, l’accertamento dell’esistenza e del funzionamento dei controlli interni, le attività referenti sulla gestione. La Corte costituzionale nella più volte citata sent. n. 60/2013 ha efficacemente sintetizzato la natura delle funzioni di controllo della Corte dei conti sulla gestione economico-finanziaria e sui bilanci, quali “volte a verificare, anche in corso di esercizio, la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il funzionamento dei controlli interni di ciascuna amministrazione ... ai fini del rispetto del patto di stabilità interno e degli equilibri della finanza pubblica ... e degli obiettivi di governo dei conti pubblici concordati in sede europea”. Risulta evi-

(4) Per un approfondito esame della norma, cfr. D. Centrone, Il controllo su bilanci e leggi di spesa regionali, in La riforma della finanza locale fra controlli e responsabilità, ed. Il Sole 24 Ore, 2013.

395 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 dente che le funzioni si sono ampliate dal controllo sulla gestione (quale previsto dalla l. n. 20/1994) di matrice prevalentemente empirica, gestionale, metagiuridica, a tipologie di controlli di regolarità-legittimità ancorati a puntuali parametri e vincoli normativi, quali quelli finanziari dettati in sede europea e declinati nelle altrettanto puntuali prescrizioni in cui si articola il patto di stabilità interno. Questi controlli, sintetizzati nella espressione “controllo sulla legittimità e regolarità della gestione” hanno quale presupposto sostanziale i sempre più ampi interventi legislativi che hanno dettato regole, vincoli, limiti specifici, non meramente finanziari, ma anche operativi alla gestione amministrativa. Il susseguirsi diuna legislazione intesa al contenimento della spesa pubblica ha confermato e indirizzato in molte materie i canoni dell’economicità, efficacia, efficienza della gestione puntualizzandoli in prescrizioni cogenti, di osservanza obiettivamente e incontrovertibilmente riscontrabile sulla base di un’attività di accertamento che sempre meno necessita del ricorso a parametri metagiuridici; in tal modo, in una pluralità di materie, il legislatore ha cir- coscritto a priori le scelte gestionali dell’amministrazione, canonizzandole in vere e proprie norme giuridiche ovvero in specifici vincoli operativi, gestionali, finanziari (5). Di particolare rilievo è il sistema degli effetti che conseguono all’accertamento da parte della Corte dei conti di squilibri economico-finanziari, della mancata copertura di spese, della violazione di norme finalizzate a garantire la regolarità della gestione finanziaria o del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno. Si tratta di accertamenti che secondo le disposizioni normative avvengono in sede di verifica del bilancio preventivo o del conto consuntivo (cfr. art. 1, c. 7, d.l. n. 174/2012 e art. 148-bis Tuel, introdotto dal d.l. n. 174/2012). Gli effetti delle pronunce della Corte dei conti sono particolarmente pervasivi. Infatti le amministrazioni interessate hanno l’obbligo di adottare, entro sessanta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia di accertamento, i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio ed a trasmetterli alla Corte dei conti che, nei trenta giorni successivi al ricevimento, li verifica. La mancata adozione del provvedimento correttivo o la verifica negativa della Corte dei conti preclude l’at- tuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria. Come si vede, si tratta di un procedimento articolato, nel quale sembrano fondersi o almeno susseguirsi, quanto agli effetti, due tipologie di controllo: il controllo di tipo collaborativo nel quale a una pronuncia di accertamento della Corte dei conti consegue l’obbligo di autocorrezione ovvero quegli effetti previsti direttamente dalla legge (ad esempio limitazioni amministrative nel caso di mancato rispetto del patto di stabilità ovvero misure sanzionatorie di comportamenti) ma anche, nel caso di mancato adempimento, effetti che incidono direttamente sul provvedimento (preclusione dei programmi di spesa), e cioè effetti interdittivi di efficacia rapportabili al controllo preventivo di legittimità. Peraltro la norma presenta talune e non semplici difficoltà. Come si è detto la procedura riguarda la verifica dei bilanci preventivi e dei conti consuntivi e non uno spe- cifico atto di spesa; conseguentemente le pronunce della Corte dei conti potrebbero investire l’intero bilancio dell’ente senza peraltro individuare specifici programmi di spesa insostenibili (6). È fuor di dubbio che in tale ipotesi spetta alla scelta discrezionale dell’ente individuare le modalità di ri- equilibrio delle spese o degli interventi necessari al rispetto degli obiettivi del patto di stabilità. Ma nel caso di mancato o insufficiente adempimento, peraltro in fattispecie che oggettivamente possono essere più gravi della irregolarità di singoli programmi di spesa, quale può essere l’effetto preclusivo? Può la Corte dei conti pronunciare la illegittimità-irregolarità dell’intero bilancio, e con effetto parificabile all’esercizio provvisorio del bilancio? Si tratta di quesiti di non facile soluzione, predicabili per ipotesi di rilevante gravità, ai quali dovrà dare risposta la giurisprudenza.

(5) Innumerevoli sono gli esempi che possono citarsi in tal senso che, in base all’estensione riconosciuta dalla Corte costitu- zionale al “coordinamento della finanza pubblica” e alla necessità di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi assunti in sede in- ternazionale ed europea, canonizzati da ultimo nel principio costituzionale del pareggio di bilancio, riguardano ormai aspetti del- la gestione vieppiù pervasisi e diffusi, sia delle amministrazioni statali che di quelle territoriali. Si pensi in tal senso alle disposi- zioni in tema di risparmio energetico o di centralizzazione degli acquisti o di società a partecipazione pubblica o di spese di perso- nale o per l’acquisto e gestione di determinati beni o per organi collegiali e altri organismi o per collaborazioni e consulenze o per relazioni pubbliche, convegni mostre, pubblicità e rappresentanza, sponsorizzazioni, missioni, formazione. (6) I primi approdi ermeneutici della giurisprudenza contabile hanno precluso l’attuazione di programmi di spesa per un im- porto pari al disavanzo di amministrazione sostanziale, rimettendo all’amministrazione l’individuazione degli specifici program- mi di spesa (cfr. Corte conti, Sez. contr. reg. Toscana, 30 maggio 2013, n. 152, in www.corteconti.it).

396 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Nell’ambito degli equilibri di bilancio, un approfondito esame va fatto sul dissesto finanziario degli enti locali. L’istituto giuridico del dissesto finanziario degli enti locali è stato introdotto nell’ordinamento con il d.l. 2 marzo 1989, n. 66 (convertito con modificazioni dalla l. 25 aprile 1989, n. 144), per poi refluire, dopo varie modifiche, nel titolo VIII della parte II del Tuel emanato con d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Le province e i comuni dissestati sono quegli enti che non possono svolgere le funzioni e i servizi indispen- sabili ovvero hanno nei confronti di terzi debiti liquidi ed esigibili cui non possano fare validamente fronte (7). In adeguamento alla novella dell’art. 119 Cost. intervenuta con la l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (8), l’art. 31, c. 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289 e l’art. 5 l. 28 maggio 2004, n. 140 hanno differenziato la disciplina tra gli enti locali che hanno dichiarato lo stato di dissesto finanziario prima e dopo l’8 novembre 2001 (data di entrata in vigore della l. cost. n. 3/2001). In particolare, nella prima ipotesi trovano applicazione le preesistenti dispo- sizioni contenute nel Tuel che disciplinano l’assunzione dei mutui per il risanamento e la contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento. Nella seconda ipotesi, invece, resta la facoltà di contrarre mutui (senza oneri a carico dello Stato) per finanziare passività relative a spese di investimento, nonché mutui per il ripiano dell’indebitamento di parte corrente, limitatamente alla copertura dei debiti maturati entro la suddetta data di entrata in vigore della l. cost. n. 3/2001; ogni altro onere deve essere coperto con risorse proprie dell’ente non provenienti dall’indebitamento. Con la dichiarazione di dissesto devono essere inseriti nella massa passiva tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequili- brato, pur se accertati, anche con provvedimento giudiziale, successivamente a tale data, ma non oltre quella di approvazione del rendiconto della liquidazione di cui all’art. 256, c. 11, Tuel. Inoltre, dichiarato il dissesto, i compiti e le competenze tra la gestione passata e quella corrente sono sepa- rati in modo netto. L’organo straordinario di liquidazione, competente per i fatti e gli atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, provvede alla: a) rilevazione della massa passiva; b) acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento anche mediante alienazio- ne dei beni patrimoniali; c) liquidazione e pagamento della massa passiva. Gli organi dell’ente locale invece devono gestire, con azioni corrette e trasparenti, il bilancio risanato assi- curando con priorità le prestazioni fondamentali ed evitando di incorrere in un nuovo dissesto. In quest’ottica di primaria importanza è l’approvazione da parte dell’organo consiliare (entro tre mesi dalla nomina dell’organo straordinario) del bilancio stabilmente riequilibrato. Detto bilancio deve riferirsi all’esercizio finanziario suc- cessivo a quello nel corso del quale è stato dichiarato il dissesto, qualora per tale anno sia stato approvato il bi- lancio di previsione, oppure all’esercizio in corso qualora non sia stato approvato il bilancio di previsione (9). In relazione alla procedura per la dichiarazione di dissesto degli enti locali, con il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149 che ha introdotto meccanismi sanzionatori e premiali per regioni, province e comuni (emanato a seguito della l. 5 maggio 2009, n. 42, in materia di federalismo fiscale), il legislatore ha valorizzato il ruolo delle sezioni

(7) L’art. 244 Tuel, al c. 1, recita: “si ha stato di dissesto finanziario se l’ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell’ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare va- lidamente fronte con le modalità di cui all’art. 193, nonché con le modalità di cui all’art. 194 per le fattispecie ivi previste”. (8) La nuova lettera dell’art. 119 Cost. consente le operazioni di indebitamento esclusivamente destinate a spese di investimen- to, conseguentemente ha reso necessario un nuovo sistema di risanamento con oneri a carico non dello Stato, come era previsto prima delle modifiche, ma dell’ente locale e dei suoi cittadini. In realtà il legislatore statale è ancora intervenuto, con il d.l. n. 159/2007, convertito dalla l. n. 222/2007 e con il d.l. n. 248/2007, convertito dalla l. n. 31/2008, prorogando precedenti termini ed estendendo il sostegno straordinario a molti dissesti successivi alla riforma costituzionale. (9) Il c. 1-bis dell’art. 259 Tuel, introdotto dall’art. 10, c. 4-bis, d.l. 8 aprile 2013, n. 35, convertito con modifiche dalla l. 6 giu- gno 2013, n. 64, prescrive che nei casi in cui la dichiarazione di dissesto sia adottata nel corso del secondo semestre dell’esercizio finanziario per il quale risulta non essere stato ancora validamente deliberato il bilancio di previsione o sia adottata nell’esercizio successivo, il consiglio dell’ente presenta per l’approvazione del Ministero dell’interno, entro il termine perentorio di tre mesi dal- la data di emanazione del decreto di nomina dell’organo straordinario di liquidazione, un’ipotesi di bilancio che garantisca l’effet- tivo riequilibrio entro il secondo esercizio.

397 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 regionali di controllo della Corte dei conti. In particolare, l’art. 6, c. 2, ha stabilito che “qualora dalle pronunce delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti emergano, anche a seguito delle verifiche svolte ai sensi dell’art. 5 del presente decreto e dell’art. 14, c. 1, lett. d), secondo periodo, della l. 31 dicembre 2009, n. 196, com- portamenti difformi dalla sana gestione finanziaria, violazioni degli obiettivi della finanza pubblica allargata e -ir regolarità contabili o squilibri strutturali del bilancio dell’ente locale in grado di provocarne il dissesto finanziario e lo stesso ente non abbia adottato, entro il termine assegnato dalla Corte dei conti, le necessarie misure correttive previste dall’art. 1, c. 168, l. 23 dicembre 2005, n. 266, la competente sezione regionale, accertato l’inadempi- mento, trasmette gli atti al prefetto e alla conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica. Nei casi previsti dal periodo precedente, ove sia accertato, entro trenta giorni dalla predetta trasmissione, da parte della competente sezione regionale della Corte dei conti, il perdurare dell’inadempimento da parte dell’ente locale delle citate misure correttive e la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 244 del citato t.u. di cui al d.lgs. n. 267/2000, il prefetto assegna al consiglio, con lettera notificata ai singoli consiglieri, un termine non superiore a venti giorni per la delibera del dissesto. Decorso infruttuosamente il termine di cui al precedente periodo, il prefetto nomina un commissario per la delibera dello stato di dissesto e dà corso alla procedura per lo scioglimento del consiglio dell’ente ai sensi dell’art. 141 del citato t.u. di cui al d.lgs. n. 267/2000”. La Sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 2 del 26 gennaio 2012, ha individuato le concrete modalità da seguire nelle istruttorie preordinate all’individuazione delle situazioni di criticità in grado di pro- vocare il dissesto finanziario dell’ente (10). Delineati gli aspetti principali dell’istituto giuridico del dissesto occorre fare un breve richiamo anche al c.d. piano di riequilibrio disciplinato dall’art. 243-bis Tuel, recentemente introdotto dall’art. 3 d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213. La norma in parola prevede una procedura di riequilibrio finanziario pluriennale per i comuni e le province per i quali, anche in considerazione delle pronunce delle competenti sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci degli enti, sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario, nel caso in cui le misure di cui agli artt. 193 e 194 Tuel non siano sufficienti a superare le condizioni di squilibrio rilevate. Quando ricorre la fattispecie il consiglio dell’ente comunale o provinciale delibera un piano di riequilibrio finanziario pluriennale della durata massima di dieci anni; il piano è corredato del parere dell’organo di revi- sione economico-finanziario e deve essere trasmesso alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e alla commissione di cui all’art. 155 del Tuel la quale svolge la necessaria istruttoria anche sulla base delle linee guida deliberate dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti (art. 10-ter d.l. 8 aprile 2013, n. 35, convertito con modifiche dalla l. 6 giugno 2013, n. 64). La relazione finale, redatta dalla commissione, viene trasmessa alla sezione regionale della Corte dei conti, che delibera sull’approvazione o sul diniego del piano, valutandone la congruenza ai fini del riequilibrio; tale delibera può essere impugnata, nelle forme del giudizio a istanza di parte, innanzi alle Sezioni riunite della Cor- te dei conti in speciale composizione, nell’esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica, ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost. Per il risanamento finanziario degli enti che si avvalgono della procedura prevista dall’art. 243-bis Tuel,

(10) In particolare, nella richiamata delibera la Sezione delle autonomie ha enunciato i seguenti principi: “Il procedimento di cui all’art. 6, c. 2, d.lgs. n. 149/2011, avente la duplice funzione di prevenzione dei rischi di squilibrio finanziario dell’ente locale e di emer- sione dei casi di dissesto finanziario, si compone di due distinte fasi: la prima, necessaria, consiste in un giudizio prognostico sulla si- tuazione di potenziale dissesto, preordinato alla proposta di misure correttive e alla verifica della loro adozione da parte dell’ente; la se- conda, eventuale, ha inizio con la trasmissione degli atti al prefetto e alla conferenza permanente per il coordinamento della finanza pub- blica, per i provvedimenti di competenza (dichiarazione di dissesto ma anche scioglimento del consiglio dell’ente)”. “La fase necessa- ria del procedimento si colloca all’interno delle verifiche sulla sana gestione finanziaria e sul rispetto degli equilibri di bilancio di cui all’art. 1, cc. 166-170, l. n. 266/2005, e art. 7, c. 7, l. n. 131/2003, e i comportamenti difformi oggetto di attenzione consistono negli squi- libri strutturali del bilancio dell’ente locale in grado di provocarne il dissesto finanziario, tenuto anche conto delle situazioni sintomati- che rappresentate dagli indicatori di deficitarietà individuati con d.m. 24 settembre 2009. Il procedimento è avviato in presenza di una condizione di illiquidità, alla quale l’ente non riesce a rimediare con gli strumenti di regolazione del bilancio di competenza (delibera di riequilibrio e di riconoscimento di debiti fuori bilancio) e, in fase istruttoria, comporta la verifica, in contraddittorio con l’ente, del Piano di rientro dal debito, in quanto la situazione di carenza di liquidità si consolida e diventa strutturale nella prospettiva triennale, tra- mutando in insolvenza. Le sezioni regionali, all’esito del giudizio prognostico sulla situazione suscettibile di determinare il dissesto, provvedono, con una prima deliberazione, all’individuazione delle misure correttive ritenute più idonee a ristabilire l’equilibrio finan- ziario dell’ente e, con una seconda deliberazione, alla verifica della loro adozione, nel termine precedentemente assegnato”.

398 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA lo Stato prevede un’anticipazione a valere sul Fondo di rotazione (c.d. Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali), da restituire in un periodo massimo di dieci anni decorrente dall’anno successivo a quello in cui viene erogata. Le Sezioni riunite della Corte dei conti, nella composizione speciale, si pronunciano in unico grado sui ricorsi avverso i provvedimenti di ammissione al Fondo di rotazione. Ai fini del controllo dell’attuazione del piano di riequilibrio finanziario approvato, l’organo di revisione economico-finanziario dell’ente trasmette al Ministero dell’interno e alla competente sezione regionale della Corte dei conti ogni semestre, una relazione sullo stato di attuazione del piano e sul raggiungimento degli ob- biettivi intermedi fissati, nonché, entro il 31 gennaio dell’anno successivo all’ultimo di durata del piano, una relazione finale sulla completa attuazione dello stesso e sugli obbiettivi di riequilibrio raggiunti. Altro settore affidato alle verifiche della Corte dei conti è quello dei c.d. “costi della politica”. Per il Parlamento nazionale occorre registrare l’approvazione della l. n. 96/2012 che, all’art. 9, pone a carico di una specifica commissione, composta di cinque magistrati, designati dai vertici delle supreme magistrature (Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti) il controllo sui bilanci dei partiti e dei movimenti politici. La suddetta commissione può servirsi di un articolato sistema di sanzioni che possono arrivare anche alla decurta- zione dell’intero importo dei contributi nel caso di mancata presentazione del rendiconto o di altre irregolarità. Per i gruppi consiliari regionali l’art. 1, cc. 9-12, d.l. n. 174/2012 ha previsto un articolato sistema di rendi- contazione strutturato secondo linee guida deliberate dalla Conferenza permanente Stato-regioni e recepite con apposti d.p.c.m. (ciò che è avvenuto con il d.p.c.m. 21 dicembre 2012) al fine di assicurare la corretta rilevazio- ne dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità nonché per definire la documentazione necessaria a corredo del rendiconto. La normativa prevede anche l’iter procedurale per la verifica di rendiconti e sanzioni autoapplicative nel caso di mancata rendicontazione ovvero di delibera di non regolarità del rendiconto da parte della sezione regionale della Corte dei conti. Il sistema andrà a regime nel 2014 con la verifica dei rendiconti dell’esercizio 2013 (11). Peraltro la materia è essenzialmente di competenza regionale, il che comporta quanto meno problemi di coordinamento con interventi legislativi regionali successivi al d.l. n. 174/2012. Con favore, a mio avviso, debbono essere guardate tutte le norme che impongano forme di controllo demo- cratico sull’attività gestoria degli amministratori degli enti. In tal senso una funzione fondamentale può avere l’obbligo di portare a conoscenza non solo del consiglio degli enti ma anche di tutti i cittadini le osservazioni avanzate dalla Corte di conti, organo neutrale e terzo, perciò estraneo alle contrapposizioni della politica. A questo proposito, si ricorda il disposto dell’art. 31 d.lgs. n. 33/2013 che stabilisce che “le pubbliche ammini- strazioni pubblicano, unitamente agli atti cui si riferiscono, i rilievi non recepiti degli organi di controllo inter- no, degli organi di revisione amministrativa e contabile e tutti i rilievi ancorché recepiti della Corte dei conti, riguardanti l’organizzazione e l’attività dell’amministrazione o di singoli uffici”. La prescrizione normativa di una relazione di fine mandato è in sé coerente con l’esigenza di mettere a disposi- zione di tutti i cittadini elettori gli elementi di conoscenza necessari a esprimere, anche attraverso il voto, una me- ditata valutazione degli amministratori. La dichiarazione d’incostituzionalità della norma relativamente alle rela- zioni di fine legislatura per le regioni, dovuta allo strumento usato dal legislatore, non fa venir meno l’esigenza di riproporre attraverso adeguate strumentazioni normative la redazione di un documento illustrativo della gestione. 4. I parametri del controllo sulla valutazione degli equilibri di bilancio Una corretta valutazione degli equilibri di bilancio in sede di controllo comporta la verifica di una pluralità di condizioni. Innanzitutto è necessario, nella valutazione complessiva degli equilibri di finanza pubblica, l’uniformità dei documenti contabili sia per quanto riguarda la loro rappresentazione sia per quanto riguarda le regole alle quali debbono rispondere. Fondamentale è, pertanto, la messa a regime dei principi di armonizzazione fissati con il d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118.

(11) Le sezioni regionali di controllo hanno già effettuato una verifica dei rendiconti dei gruppi consiliari riferiti all’esercizio 2012. La delibera delle sezioni ha valore ricognitivo (e cioè di mero accertamento), la quale parametra le preesistenti norme regio- nali e, quanto agli effetti, questi sono demandati al presidente e al consiglio di presidenza del consiglio regionale in coerenza con la preesistente normativa.

399 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

La rilevanza della nuova normativa si disloca su più versanti: le modalità di iscrizione in bilancio delle previsioni di spesa, la valorizzazione dei bilanci pluriennali, il consolidamento con gli organi partecipati. I principi contabili più significativi che debbono essere applicati nella armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi riguardano la programmazione del bilancio, la contabilità finanziaria, la contabilità economico-patrimoniale degli enti di contabilità finanziaria, il bilancio consolidato. Per quanto riguarda la programmazione va ricordato che la l. 31 dicembre 2009, n. 196, modificata e inte- grata dalla l. 7 aprile 2011, n. 39 sancisce, al fine di garantire la piena integrazione tra il ciclo di programmazio- ne nazionale e quello europeo, che tutte le amministrazioni pubbliche devono conformare l’impostazione delle previsioni di entrata e di spesa al metodo della programmazione (12). Secondo il principio della competenza finanziaria le obbligazioni giuridiche perfezionate sono registrate sulle scritture contabili al momento dell’obbligazione, imputandole all’esercizio in cui l’obbligazione viene a scadenza, e cioè quando è possibile esercitare il diritto di credito (13) (superamento del principio della competenza pura).

(12) Definizione. La programmazione è il processo di analisi e valutazione che, comparando e ordinando coerentemente tra loro le politiche e i piani per il governo del territorio, consente di organizzare in una dimensione temporale le attività e le risorse necessarie per la realizzazione di fini sociali e la promozione dello sviluppo economico e civile delle comunità di riferimento. Il processo di programmazione, si svolge nel rispetto delle compatibilità economico-finanziarie e tenendo conto della possibile evoluzione della gestione dell’ente, richiede il coinvolgimento dei portatori d’interesse nelle forme e secondo le modalità definite da ogni ente, si conclude con la formalizzazione delle decisioni politiche e gestionali che danno contenuto a programmi e piani futuri riferibili alle missioni dell’ente. Attraverso l’attività di programmazione le amministrazioni concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale, in coerenza con principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica emanati in attuazione degli artt. 117, c. 3, e 119, c. 2, della Costituzione e ne condividono le conseguenti responsabilità. Le regioni individuano gli obiettivi generali della programmazione economico-sociale e della pianificazione territoriale e stabiliscono le forme e i modi della partecipazione degli enti locali all’elaborazione dei piani e dei programmi regionali. La programmazione si attua nel rispetto dei principi contabili generali contenuti nell’all. 1 d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118. I documenti nei quali si formalizza il processo di programmazione devono essere predisposti in modo tale da consentire ai portatori di interesse di: a) conoscere, relativamente a missioni e programmi, i risultati che l’ente si propone di conseguire; b) valutare il grado di effettivo conseguimento dei risultati al momento della rendicontazione. L’attendibilità, la congruità e la coerenza, interna ed esterna, dei documenti di programmazione è la prova della affidabilità e credibilità dell’ente. Nel rispetto del principio di comprensibilità, i documenti della programmazione esplicitano con chiarezza, il collegamento tra: - il quadro complessivo dei contenuti della programmazione; - i portatori d’interesse di riferimento; - le risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili; - le correlate responsabilità d’indirizzo, gestione e controllo. Contenuti della programmazione. I contenuti della programmazione, pluriennale e annuale, devono essere declinati in coerenza con: 1) il programma di governo, che definisce le finalità e gli obiettivi di gestione perseguiti dall’ente anche attraverso il sistema di enti strumentali e società controllate e partecipate (il c.d. gruppo amministrazione pubblica); 2) gli indirizzi di finanza pubblica definiti in ambito comunitario e nazionale. Le finalità e gli obiettivi di gestione devono essere misurabili e monitorabili in modo da potere verificare il loro grado di rag- giungimento e gli eventuali scostamenti fra i risultati attesi ed effettivi. I risultati riferiti alle finalità sono rilevabili nel medio periodo e sono espressi in termini d’impatto atteso sui bisogni esterni quale effetto dell’attuazione di politiche, programmi ed eventuali progetti. I risultati riferiti agli obiettivi di gestione, nei quali si declinano le politiche, i programmi e gli eventuali progetti dell’ente, sono rilevabili nel breve termine e possono essere espressi in termini di: a) efficacia, intesa quale grado di conseguimento degli obiettivi di gestione. Per gli enti locali i risultati in termini di efficacia possono essere letti secondo profili di qualità, di equità dei servizi e di soddisfazione dell’utenza; b) efficienza, intesa quale rapporto tra risorse utilizzate e quantità di servizi prodotti o attività svolta. (13) Principio della competenza finanziaria. Il principio della competenza finanziaria prescrive:

400 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Di rilievo è l’obbligo di istituire il fondo svalutazione crediti per le entrate di dubbia o difficile esigibilità. Il principio della competenza economica consente di imputare a ciascun esercizio costi-oneri e ricavi-pro- venti garantendo la rilevazione unitaria dei fatti gestionali nei loro profili finanziario ed economico-patrimo- niali (14). Risulta evidente l’importanza dell’applicazione delle regole e dei principi contabili fissati per l’armonizzazio- ne dei sistemi centrali anche ai fini di un approfondito controllo sulla gestione economico-finanziaria degli enti. La verifica si dovrà dislocare su un fronte molto più ampio di quello attuale, investendo i documenti pro- grammatici e i bilanci pluriennali, in sede di controllo del bilancio preventivo e la contabilità economico-pa- trimoniale e il bilancio consolidato, in sede di consuntivo, in un continuum peraltro di consuntivo-preventivo fondato su sequenze storiche particolarmente significative. In sede di controllo vengono in rilievo in modo evidente due aspetti, e cioè la veridicità e completezza dei dati esposti e l’attendibilità reale delle previsioni di entrata. Sotto il primo profilo deve essere evitato il formarsi di debito occulto sia a livello di stato centrale che di si- stema complessivo delle autonomie territoriali. Ne consegue che occorre fissare regole quanto mai rigorose per il riconoscimento di debiti fuori bilancio, fissando, se del caso, sanzioni a carico di chi si allontana dalle regole. È sotto gli occhi di tutti la mancanza di dati attendibili sull’indebitamento complessivo degli enti che com- pongono la Repubblica con particolare riguardo per lo Stato centrale.

a) il criterio di registrazione delle operazioni di accertamento e d’impegno con le quali vengono imputate agli esercizi finan- ziari le entrate e le spese derivanti da obbligazioni giuridicamente perfezionate (attive e passive); b) il criterio di registrazione degli incassi e dei pagamenti, che devono essere imputati agli esercizi in cui il tesoriere ha effet- tuato l’operazione. Il principio è applicato solo a quei documenti di natura finanziaria che compongono il sistema di bilancio di ogni amministra- zione pubblica che adotta la contabilità finanziaria, e attua il contenuto autorizzatorio degli stanziamenti del bilancio di previsione. Il bilancio di previsione, almeno triennale di competenza e di cassa, nel primo esercizio, ha carattere autorizzatorio, costituen- do limite agli impegni di spesa e ai pagamenti, fatta eccezione per i servizi per conto di terzi e per i rimborsi delle anticipazioni di tesoreria. La funzione autorizzatoria fa riferimento anche alle entrate per accensione di prestiti. Gli stanziamenti degli esercizi del bilancio di previsione sono aggiornati annualmente in sede di approvazione del bilancio di previsione. Le obbligazioni giuridiche perfezionate sono registrate nelle scritture contabili al momento della nascita dell’obbligazione, imputandole all’esercizio in cui l’obbligazione viene a scadenza. La scadenza dell’obbligazione è il momento in cui l’obbligazione diventa esigibile. La consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione definisce come esigibile un credito per il quale non vi siano ostacoli alla sua riscossione ed è consentito, quindi, pretendere l’adempimento. Non si dubita, quindi, della coincidenza tra esigibilità e possibilità di esercitare il diritto di credito. (14) Principio della competenza economica. Il principio della competenza economica consente di imputare a ciascun esercizio costi-oneri e ricavi-proventi. La competenza economica dei costi e dei ricavi direttamente conseguenti a operazioni di scambio sul mercato (acquisizione e vendita) è riconducibile al principio contabile n. 11 dell’Organismo italiano di contabilità (Oic) che stabilisce che l’effetto delle operazioni e degli altri eventi deve essere rilevato contabilmente e attribuito all’esercizio al quale tali operazioni si riferiscono e non a quello in cui si concretizzano i relativi movimenti di numerario (incassi e pagamenti). I proventi correlati all’attività istituzionale sono di competenza economica dell’esercizio in cui si verificano le seguenti due condizioni: - è stato completato il processo attraverso il quale sono stati prodotti i beni o erogati i servizi dall’amministrazione pubblica; - l’erogazione del bene o del servizio è già avvenuta, cioè si è concretizzato il passaggio sostanziale (e non formale) del titolo di proprietà del bene oppure i servizi sono stati resi. I proventi, acquisiti per lo svolgimento delle attività istituzionali dell’amministrazione, come i trasferimenti attivi correnti o i proventi tributari, s’imputano economicamente all’esercizio in cui si è verificata la manifestazione finanziaria (accertamento), qualora tali risorse risultino impiegate per la copertura degli oneri e dei costi sostenuti per le attività istituzionali programmate. I trasferimenti attivi a destinazione vincolata correnti sono imputati economicamente all’esercizio di competenza degli oneri alla cui copertura sono destinati. Per i proventi-trasferimenti in conto capitale, vincolati alla realizzazione d’immobilizzazioni, l’imputazione, per un importo proporzionale all’onere finanziario, avviene negli esercizi nei quali si ripartisce il costo-onere dell’immobilizzazione (esempio quota di ammortamento). Se, per esempio, il trasferimento è finalizzato alla copertura del 100 per cento dell’onere di acquisizione del cespite, sarà imputato all’esercizio, per tutta la vita utile del cespite, un provento d’importo pa- ri al 100 per cento della quota di ammortamento; parimenti, se il trasferimento è finalizzato alla copertura del 50 per cento dell’o- nere di acquisizione del cespite, sarà imputato all’esercizio un provento pari al 50 per cento della quota di ammortamento.

401 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

In tale prospettiva aspetto fondamentale riveste la consolidazione dei bilanci per valutare correttamente l’impatto economico-finanziario degli organismi partecipati sugli enti proprietari. Sotto il profilo dell’attendibilità delle previsioni di entrata va affermato che il controllo deve trascurare la mera legittimità formale della previsione stessa ma deve estendersi alla sua oggettiva realizzabilità. Ciò richiede certezza di regole nel momento in cui inizia la gestione. Così non solo non sembra rispondere a regole di buona gestione, ma pare anche essere in contrasto con i principi costituzionali, la facoltà data agli enti locali nell’ultimo triennio di far slittare l’approvazione dei bilanci preventivi sino a novembre. Evidente è il pressoché inesistente valore programmatico dei bilanci stessi, ma anche l’incertezza delle risorse spendibili con possibili (o probabili) effetti di mancato equilibrio assai difficilmente recuperabile a fine anno. L’effettiva realizzabilità delle entrate richiede valutazioni rigorose, al di là di una verifica sulla mera legit- timità dei loro presupposti. Paradigmatico in tal senso è il comportamento tenuto dalla maggior parte dei comuni di maggiore dimen- sioni in quest’anno. Gli enti hanno deliberato l’innalzamento dell’Imu all’aliquota massima anche per la prima casa e hanno adottato un bilancio nel quale hanno contabilizzato le rispettive previsioni di entrata. Sotto il profilo della legittimità formale le delibere erano esenti da rilievi, vista anche la formulazione della legge di rinvio del pagamento della prima rata dell’Imu. Sotto il profilo sostanziale appare chiaro, secondo il program- ma di governo nazionale e nelle prospettive politiche espresse da tutti i maggiori partiti, la irrealizzabilità di aggravamenti fiscali sulla prima casa. La conseguenza è ora l’affannosa ricerca di entrate sostitutive anche e soprattutto nel comparto fiscale e tariffario. In sede di controllo l’accertamento degli equilibri non potrà non avvenire sulla base della rilevante proba- bilità di effettuare acquisizioni delle entrate previste con ricadute molto significative sui bilanci. La diffusione del fenomeno richiede anche valutazioni sugli equilibri di bilancio complessivi di finanza pub- blica, fatto che anche sotto quest’aspetto fa venire in rilievo l’esigenza di una sede di controllo dell’intero settore. 5. La giustiziabilità Appare opportuno mettere in rilievo, anche ai fini della giustiziabilità, la natura delle pronunce di controllo della Corte dei conti in materia di bilanci. Come si è più volte messo in evidenza, la Corte costituzionale nelle più recenti sentenze ha posto in rilievo la diversa natura dell’attività di controllo della Corte dei conti se riferita all’esame di legittimità-regolarità dei bilanci pubblici e del rispetto dei vincoli posti dal patto di stabilità o in materia di contenimento della spesa rispetto al controllo sulla gestione, inteso ad accertare soprattutto l’efficienza, l’efficacia e l’economicità. Secondo gli approdi della giurisprudenza costituzionale il controllo di legittimità-regolarità finanziaria può concludersi con una pronuncia che assume il valore di “sentenza di accertamento” alla quale l’ordinamento collega effetti negativi preordinati per legge. La neutralità e terzietà della Corte dei conti e la sua struttura magistratuale sia soggettiva (personale pre- posto) che oggettiva (procedimento con le garanzie di difesa e di contraddittorio) pongono in rilievo che le pronunce della Corte dei conti sono latamente assimilabili a pronunce giurisdizionali. Deve sottolinearsi poi che esse riguardano in modo specifico temi di finanza pubblica e di contabilità pubblica esaminati in funzione della tutela degli interessi indifferenziati della collettività (ai vari livelli: nazionali, regionali, locali). Ne consegue che può sicuramente affermarsi che la tutela giurisdizionale della posizione soggettiva degli enti coinvolti nelle pronunce assume aspetti peculiari non riconducibili all’ordinaria tutela giurisdizionale in- nanzi al giudice amministrativo. Si pone allora, il problema della tutela degli interessi degli enti attraverso la ricorribilità innanzi a un organo giurisdizionale di siffatte pronunce. A mio avviso, una corretta lettura del secondo comma dell’art. 103 della Costituzione, che attribuisce alla Corte di conti giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, fa ritenere che debba essere la stessa Corte dei conti in sede giurisdizionale a pronunciarsi su tali ricorsi. Ed infatti in sede giurisdizionale debbono essere tutelati interessi generali nei confronti di pronunce adot- tate dalla Corte dei conti in sede di controllo di legittimità-regolarità che comportino effetti negativi per l’ente direttamente previsti dalla legge. Come si è innanzi esposto l’oggetto di queste pronunce è costituito essenzial- mente dallo squilibrio economico finanziario, dalla mancata copertura di spese, dalla violazione di norme fina-

402 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA lizzate a garantire la regolarità della gestione finanziaria o il rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno. Si tratta di fattispecie che pacificamente e inequivocabilmente rientrano nella materia di contabilità pubblica, per la quale l’art. 103, c. 2, Cost. ha stabilito una riserva di giurisdizione in capo alla Corte dei conti. D’altro canto si tratta di una materia per la quale sono necessarie competenze specifiche che sono il cuore delle attribuzioni complessive della Corte dei conti e che costituiscono il proprium della magistratura contabile in tutte le sue articolazioni, che vanno unitariamente e complessivamente considerate. Sul piano processuale esiste oggi una specifica norma di riferimento costituita dall’art. 3 l. n. 213/2012, che stabilisce le modalità di introduzione del giudizio e la composizione dell’organo giudicante e che può co- stituire parametro normativo estensibile in via ermeneutica a tutte le pronunce rese nell’ambito del controllo finanziario e contabile. In tal senso si è già mosso il legislatore della l. n. 213/2012 qualificando espressamente la giurisdizione della Corte nella materia come “esclusiva” (cfr., in proposito, anche Sez. riun. (spec. comp.), n. 2/2013, nonché Sez. autonomie, n. 15/2013). Va anche posto in rilievo che un giudizio così strutturato ha il vantaggio di potersi definire in tempi brevi, fattore essenziale in relazione al suo oggetto che incide profondamente sull’attività di spesa e quindi sull’azio- ne amministrativa degli enti e dei suoi cittadini che richiede certezze. Il secondo profilo rilevante della giustiziabilità si collega alle funzioni proprie della Corte dei conti di tutela degli interessi adespoti della collettività (tema già sottolineato nelle mie relazioni qui a Varenna nel 2011 e 2012) anche nel dipanarsi dei rapporti tra i vari livelli di governo. L’affermazione introduce al tema della sollevabilità di questioni di costituzionalità in sede di controllo. Se pure è pacifico che la Corte può sollevare tali questioni in sede di giudizio di parificazione e di controllo preventivo di legittimità, va indagato se la facoltà sia estendibile ad altri momenti del controllo ogni qualvolta venga in rilievo una tal questione ai fini della pronuncia da rendere. Le ragioni sottese alla sollevabilità di questioni di costituzionalità anche in sede di esame del bilancio pre- ventivo e del conto consuntivo degli enti locali, ex art. 1, cc. 166-169, l. n. 266/2005, vennero messe in luce dalla Sezione controllo Regione Lombardia nella ordinanza di remissione dell’1 giugno 2009, n. 125. Ragioni che si collegavano alla giustiziabilità di rapporti tra i vari organi di governo, al coordinamento tra nor- me di pari rango, all’unicità di modalità di tutela innanzi alla Corte costituzionale degli interessi degli enti locali. Tali prospettazioni furono respinte con la sent. 9 febbraio 2011, n. 37 in cui la Consulta ha escluso la legittimazione della Corte in sede di tale controllo a sollevare la questione di legittimità costituzionale affer- mando che “il tipo di controllo in esame non può essere considerato ‘attività giurisdizionale’, trattandosi di un controllo diretto non a dirimere una controversia, ma ad assicurare, in via collaborativa, la sana gestione degli enti locali, nonché il rispetto da parte di questi ultimi del patto di stabilità interno e del vincolo in materia di indebitamento di cui all’art. 119 Cost.”. Alla luce della evoluzione ordinamentale e giurisprudenziale intervenuta in questi due anni, tale orienta- mento sembra superabile. Infatti a parte la opinabilità già all’epoca di una tale affermazione, va posto in rilievo l’intervenuto muta- mento del quadro giuridico, che ha implementato e puntualizzato i vincoli normativi a carico delle pubbliche amministrazioni. Il legislatore ha infatti fissato i canoni della sana gestione, dell’equilibrio di bilancio, del rispetto dei vincoli finanziari, della sostenibilità finanziaria dell’impianto strutturale dell’entrata e della spesa, affidandone l’accertamento a un controllo della Corte di conti non più soltanto “collaborativo” bensì dotato di una incidenza “cogente” sull’ente che ne è soggetto (come nel caso della preclusione dell’attuazione dei programmi di spesa o del dissesto e pre dissesto finanziario degli enti locali). Una tale evoluzione del quadro normativo non può non avere coerenti conseguenze sotto il profilo della legittimazione a sollevare l’incidente di costituzionalità. Invero tutte le volte in cui la sezione di controllo è chiamata, nella sostanza, ad accertare la conformità di regole, modalità e limiti nella formazione o nella gestione del bilancio a precisi parametri norma- tivi anche il controllo sulla gestione economico-finanziaria viene, nei descritti ambiti, a configurarsi come un riscontro soggettivamente operato da un organo magistratuale terzo neutrale, imparziale, indipendente dall’en- te controllato nonché dal governo centrale (sent. n. 179/2007) e, sotto il profilo oggettivo, ancorato a parametri giuridici di legittimità-legalità (sent. n. 60/2013). In questa prospettiva, non pare potersi negare che la Corte dei conti, pur nell’esercizio delle sue funzioni di controllo, venga a operare, nella sostanza, come un giudice,

403 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 potendo ritenersi che anche in questi casi si tratti di “un tipo di controllo esterno, neutrale e volto a garantire la legalità degli atti a esso sottoposti”, con tratti di ammissibilità non dissimili da quelli già indicati dalla Corte costituzionale con le sent. n. 384/2001 e n. 226/1976. Va ricordato in proposito che è fondamentale principio ispiratore della giurisprudenza costituzionale in tema di legittimazione al ricorso incidentale, l’ampliamento della nozione di giudice in funzione dell’esigenza “di ammettere al sindacato della Corte costituzionale leggi che, come nella fattispecie in esame, più difficil- mente verrebbero per altra via a essa sottoposte”. Il controllo della Corte dei conti si profila quale riscontro di “legalità” e “regolarità” circa l’osservanza dei molteplici e puntuali vincoli operativi e finanziari, ex lege affidato alla magistratura contabile che, nella “prospettiva dinamica” suesposta ha effetti penalizzanti per l’en- te destinatario. Di conseguenza, l’esercizio delle funzioni di controllo da parte delle competenti sezioni della Corte è la sede magistratuale istituzionale in cui le dette norme, volte a governare la gestione economico-fi- nanziaria degli enti pubblici che vi sono soggetti, sono destinate a venire in rilievo. In tal modo si può “tute- lare effettivamente la giustiziabilità costituzionale dei diritti e interessi degli enti territoriali, in ipotesi lesi da norme statali della cui costituzionalità si dubita”, dovendo ritenersi diversamente precluso ai soggetti pubblici controllati “l’accesso al giudizio di costituzionalità sui vincoli fissati dallo Stato, vincoli che condizionano la costruzione dei bilanci degli enti e limitano l’autonomia finanziaria”, come era stato messo in evidenza dalla allora rimettente Sezione controllo Regione Lombardia (ord. 1 giugno 2009, n. 125).

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II LA GIURISDIZIONE CONTABILE

LA GIURISDIZIONE CONTABILE NEL SISTEMA DI GARANZIA DELLA SPESA PUBBLICA (*)

di Arturo Martucci di Scarfizzi

Sommario: 1. Premessa introduttiva. – 2. Cenni sui sistemi di controllo esterno. Gli orientamenti della Con- sulta. – 3. Le tutele giurisdizionali. – 4. Le varie tipologie di responsabilità pubbliche. Profili ricostruttivi di un danno pubblico da squilibrio di bilancio. – 5. Le nuove funzioni giurisdizionali delle Sezioni riunite: tratti differenziali e ratio comune; le materie di contabilità pubblica. – 6. I primi arresti giurisprudenziali. – 7. Alcune considerazioni finali.

1. Premessa introduttiva In occasione delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della Corte dei conti, il Presidente della Repubblica, nella sua allocuzione del 30 ottobre 2012 che concludeva i precedenti interventi del Presidente della

(*) La relazione testé pubblicata segue, a distanza di un anno, quella svolta dallo stesso autore al 58° Convegno di Studi am- ministrativi di Varenna nel 2012. Gli atti del Convegno del 2012 sono stati pubblicati dalla casa editrice Giuffrè nel volume Dalla crisi economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità, Milano, 2013. In tale occasione, l’Autore ha svolto la relazione “Quali responsabilità per i protagonisti del sistema a seguito delle nuove re- gole?”, che è stata pubblicata nel predetto volume 645-684. Le due relazioni, si pongono in sequenza cronologica, ma vi si può leggere in filigrana un “filo rosso”, comune rappresentato da un excursus sul ruolo che la Corte dei conti va progressivamente assumendo nel quadro europeo, alla luce del nuovo contesto costituzionale novellato nel 2012. Si tratta di un nuovo assetto delle funzioni intestate alla Corte che, segnatamente per quanto riguarda le tematiche svolte nel- le due relazioni, attiene all’esercizio della giurisdizione contabile, non solo per le nuove ipotesi di responsabilità amministrativa contemplate, ma anche per le innovative competenze assegnate alle Sezioni riunite in speciale composizione.

404 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Corte Luigi Giampaolino e del prof. , poneva l’accento sia sulla piena sostenibilità costituzionale dell’estensione dei controlli della Corte a tutte le sfere nelle quali ci si avvalga con continuità e ordinarietà di risorse finanziarie pubbliche, sia sul contesto europeo, nel quale si è già allocata la riforma dell’art. 81 della Co- stituzione imperniata sulla regola del pareggio di bilancio, poiché l’Italia non si è limitata a sottoscrivere intese come quelle sancite nel c.d. six pack e nel fiscal compact, ma mostra come si debba e possa lavorare per rendere concreta e operante, in modo trasparente e con metodo democratico, una nuova disciplina di bilancio comune, condizione indispensabile per una nuova prospettiva di sviluppo economico e sociale sostenibile. Essenziali e profonde parole – quelle pronunciate dal Capo dello Stato – che, per quanto ne occupa, toccano i punti salienti della tematica in rassegna. Le espressioni relative alla sostenibilità costituzionale dell’estensione dei controlli della Corte contiene un chiaro riferimento al d.l. n. 174 del 10 ottobre 2012, in via di conversione all’epoca dell’intervento del Capo dello Stato e poi effettivamente convertito con modificazioni nella l. n. 213 del 7 dicembre 2012: in tale testo normativo sono, tra l’altro, contenute, come si vedrà più innanzi, anche ipotesi di responsabilità risarcitoria e sanzionatoria. I riferimenti, poi, al contesto europeo, al novellato art. 81 della Costituzione e a una nuova disciplina del bilancio, costituiscono l’altro versante sul quale si appunteranno le riflessioni che in seguito si svilupperanno, tenendo conto non solo dell’evoluzione normativa, ma anche dei primi approcci giurisprudenziali. Si tratterà ovviamente di “prime” riflessioni poiché la tematica assegnata alla presente relazione è carat- terizzata soprattutto dall’inserimento della tutela giurisdizionale intestata alla Corte nel “sistema di garanzia della spesa pubblica”: tale “sistema” di garanzia non può dirsi ancora compiuto, ma comincia a delinearsi con continuità e progressività in virtù degli interventi costituzionali e legislativi intervenuti ultimamente; per esse- re ricondotto a “sistema”, però, necessita ancora di vari tasselli normativi e soprattutto del consolidarsi della giurisprudenza. “Prime” riflessioni, dunque, nelle quali dopo aver tratteggiato soltanto il tradizionale assetto dei poteri di controllo, di referto e giurisdizionali affidati alla Corte dei conti, si tenterà poi di approfondire specificamente il quadro delle nuove tutele giurisdizionali contabili, la loro variegata natura, la diversa incidenza sui bilanci e gli effetti sulla spesa pubblica. 2. Cenni sui sistemi di controllo esterno. Gli orientamenti della Consulta Le funzioni di controllo intestate, com’è noto, alla Corte dei conti comprendono sia il controllo preventivo di legittimità sugli atti – dapprima ridotto, a seguito delle riforme del 1994, agli atti di governo e di maggiore rilevanza, e poi reintrodotto per una più generale platea di atti con il d.lgs. n. 123/2011 – sia il controllo succes-

Infatti, nella relazione del 2012, viene tratteggiata una ricostruzione di possibili ipotesi di responsabilità amministrativa, so- prattutto alla luce della novella costituzionale n. 1/2012 che ha profondamente modificato gli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost., incen- trando la relativa disciplina sulla regola del pareggio di bilancio e sulla tutela degli equilibri di bilancio dello Stato e di tutte le pub- bliche amministrazioni. Nella prima relazione del 2012, si ipotizzavano nuove fattispecie di responsabilità, ma mancavano ancora nel relativo quadro ordinamentale che poi si è andato completando (ed è comunque in evoluzione anche a causa dei previsti interventi del giudice del- le leggi), sia la legge c.d. “rinforzata” del dicembre 2012 (attuativa dell’art. 5 della novella), sia il d.l. n. 174/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 213/2012. Conseguentemente, al 58° Convegno di Studi amministrativi di Varenna (“Politica e amministrazione della spesa pubblica: controlli, trasparenza e lotta alla corruzione”) l’Autore ha svolto la relazione dal titolo “la giurisdizione contabile nel sistema di garanzia della spesa pubblica”, tracciando un più completo quadro nell’ampio spettro delle funzioni intestate alla Corte – delle tu- tele giurisdizionali e delle varie tipologie di responsabilità pubbliche, chiudendo con una rassegna dei primi arresti giurispruden- ziali delle Sezioni riunite in speciale composizione. Ebbene, trama essenziale di quel “filo rosso” che lega le due relazioni del 2012 e del 2013 a cui prima si è accennato è il ten- tativo di costruire una nozione di danno pubblico da squilibrio di bilancio (o dei bilanci di tutte le pubbliche amministrazioni) in quanto l’equilibrio dei bilanci è un bene giuridico che trova la sua protezione immediata e diretta nella Carta costituzionale e la cui vulnerazione compete naturaliter al giudice contabile quale unico giudice nelle “materie di contabilità pubblica” ex art. 103, c. 2, Cost. Lo sforzo esegetico ricostruttivo di un tal tipo di danno pubblico si innesta nel più ampio quadro delle funzioni intestate alla Corte il cui ruolo di presidio degli equilibri di finanza pubblica e della unità economica della Repubblica, secondo la giurispruden- za costituzionale passata in rassegna dall’Autore, non può andare disgiunto dalla pregnanza dei vincoli che derivano all’Italia dall’appartenenza all’Ue e, più particolare, all’Unione monetaria europea.

405 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 sivo sugli atti e specialmente quello sulla gestione del bilancio dello Stato, sia quello sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. La prima vera riforma del controllo di gestione è intervenuta con la l. n. 20/1994 che intesta alla Corte un controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, finalizzato alla verifica di corrispondenza tra attività amministrativa svolta e obiettivi stabiliti dalla legge. Tale nuova forma di controllo sulle gestioni rapportabile, secondo la Corte costituzionale (1), a vari pa- rametri costituzionali diversi dall’art. 100 (artt. 28, 97, 81), è stato anche qualificato come essenzialmente “collaborativo” per gli apparati pubblici e, attesa la sua particolare natura procedimentale che non prevede contraddittorio formale con la pubblica amministrazione, è stata negata dalla giurisprudenza la possibilità di sollevare, in tale sede, questioni di legittimità costituzionale. Di diversa natura è invece il controllo di gestione che la Corte ha iniziato a esercitare a seguito della l. n. 131/2003 (art. 7), attuativa della riforma del titolo V della Costituzione (l. cost. n. 3/2001) in quanto – ferma la natura collaborativa del controllo sulla gestione finalizzato a un riscontro di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa – la nuova forma di controllo ha per scopo piuttosto la regolarità e la attendibilità della gestione finanziaria delle pubbliche amministrazioni, poiché è finalizzato alla verifica del perseguimento degli obbiettivi di bilancio posti dalle leggi statali o regionali, nonché della sana gestione finanziaria degli enti locali. Tale ultimo tipo di controllo viene svolto dalle sezioni regionali di controllo della Corte, le cui linee guida sono affidate, per esigenze che vengono definite di “orientamento” e con effetto vincolante, alla Sezione delle autonomie della Corte stessa. La suddetta l. n. 131/2003 introduce un rapporto diretto tra Corte e organi assembleari regionali e locali e contempla la possibilità di rendere pareri, da parte delle sezioni regionali, alle amministrazioni richiedenti. Si è molto discusso sulla estensibilità o meno di tali pareri all’attività amministrativa in genere o solo a quegli atti che comportassero immediati effetti finanziari, nonché sulla formulazione usata dal legislatore in ordine all’individuazione dei destinatari delle relazioni della Corte (“esclusivamente” ai consigli degli enti control- lati), innescando così controverse interpretazioni sulla possibilità o meno che le procure regionali potessero fondare, in tutto o in parte, le ipotesi di danno pubblico perseguibili sulle relazioni rese in tale sede di controllo. Tale tematica appare oggi più sfumata a seguito della introduzione (art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, con- vertito dalla l. n. 102/2009 e successive modifiche) del concetto di “notizia specifica e concreta di danno” che legittima, da un canto, e condiziona, dall’altro, l’istruttoria e l’azione stessa dei p.m. contabili, che peraltro non necessita di una formale denunzia poiché la notitia damni, purché connotata da specificità e concretezza, può provenire dalle fonti più diverse (2). Attesa l’incidenza sempre più marcata della finanza locale sulla intera finanza pubblica, con l. 23 dicem- bre 2005, n. 266 (art. 1, cc. 166-171) molte funzioni vengono affidate alle sezioni regionali di controllo della Corte per definire criteri e indicare linee guida agli organi interni di revisione degli enti locali che devono re- lazionare sul rispetto del patto interno di stabilità e sull’osservanza dei vincoli all’indebitamento posti dall’art. 119 Cost., u.c. e su ogni grave irregolarità contabile; conseguentemente, la Corte, in caso di comportamenti difformi dalla sana gestione, adotta specifica pronuncia e vigila sull’adozione delle misure correttive. Inoltre, nella formulazione delle previsioni di spesa, si dovrà anche tenere conto degli esiti del controllo sulla gestione ex l. n. 20/1994. L’ottica comincia a spostarsi, dunque, verso una nuova forma di collaborazione vigilante e con modalità di interazione tra Corte e amministrazioni controllate, con prospettive non più statiche, ma dinamiche. Nella seconda metà del primo decennio degli anni Duemila il controllo sulla gestione della spesa pubblica è oggetto di numerosi interventi normativi che impongono obblighi di comunicazione alla Corte, sia in sede di controllo che alle procure contabili, fino a giungere alla l. n. 15/2009 (art. 11) che prefigura il c.d. controllo concomitante, svolto cioè “in corso d’opera” (3) e in grado di incidere in anticipo su un possibile vulnus alle finanze pubbliche. Tale forma di controllo, limitato inizialmente alle sole gestioni pubbliche statali, affida alla Corte il potere

(1) Cfr. Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 470, in questa Rivista, 1997, fasc. 6, 282. (2) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 3 agosto 2011, n. 12, ivi, 2011, fasc. 5-6, 166. (3) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 24 luglio 2009, n. 29, ivi, 2009, fasc. 4, 1.

406 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA di accertare, anche a richiesta delle commissioni parlamentari, gravi irregolarità gestionali o deviazioni da obiettivi o procedure nazionali o comunitarie; tali esiti, comunicati dal presidente della Corte al ministero com- petente, possono comportare la sospensione dell’impegno di somme stanziate sui pertinenti capitoli di spesa. Su quest’ultimo aspetto, si sono peraltro aperte profonde riflessioni sull’incidenza degli effetti della suddetta sospensione nei confronti delle obbligazioni giuridiche verso i terzi. Il 2012 segna un anno di rilievo per la costruzione di un sistema di garanzie per la spesa pubblica: ciò, per un triplice ordine di ragioni. Con la nota l. cost. n. 1/2012 vengono profondamente modificati, anche in ossequio ai vincoli derivanti dalla adesione dell’Italia al c.d. six pack e al c.d. fiscal compact (4), gli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost., e su tali modifiche si avrà modo di tornare in seguito. In secondo luogo, con la legge c.d. “rinforzata” del 24 dicembre 2012, n. 243, in attuazione dell’art. 5 della suddetta novella costituzionale, è stata introdotta nell’ordinamento italiano una serie di norme che, da un canto, enumerano definizioni rilevanti in tema di bilancio, di sostenibilità del debito pubblico, di regole sulla spesa, di eventi eccezionali e scostamenti e, dall’altro, dettano precetti posti a protezione dell’equilibrio dei bilanci dello Stato, delle regioni, degli enti locali, degli enti non territoriali, chiudendo con la previsione della istituzione di un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per l’osservanza delle regole di bilancio. Infine, con il d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modifiche dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 è stato varato un corpus organico di norme contabili e di finanza pubblica. Innanzitutto, viene ampliato il controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria delle regioni (sono richiamate le modalità previste dai cc. 166 ss. dell’art. 1, l. n. 266/2005) relativamente all’osservanza dei vin- coli di indebitamento (art. 119, c. 6 novellato, Cost.) e alla salvaguardia degli equilibri economico-finanziari, con la conseguenza che, in caso siano accertati squilibri in tal senso o la mancanza di copertura delle spese o la violazione di norme intese a garantire la regolarità di gestione o il mancato rispetto del patto di stabilità, le regioni devono rimuovere le irregolarità e ripristinare gli equilibri di bilancio; in difetto di ciò o se la verifica da parte delle sezioni regionali di controllo è negativa, viene “preclusa l’attuazione dei programmi di spesa”. Si è dunque in presenza di una sanzione interdittiva (ripetuta poi per gli enti locali dall’art. 148-bis, c. 3) di portata ampliativa e innovativa rispetto al potere di sospensione previsto dall’art. 11, l. n. 15/2009, peraltro inerente le sole amministrazioni statali e attribuito al ministro. Inoltre, sempre per gli enti regionali, il d.l. n. 174/2012 prevede una verifica sui conti (comprensivi delle partecipazioni in società controllate) e istituisce un giudizio di verifica sul rendiconto generale della regione (analogo a quello sul rendiconto generale dello Stato) nel quale la sezione regionale di controllo formula le sue osservazioni in ordine alla legittimità e alla regolarità della gestione (5). Solo con la legge di conversione è venuto meno il controllo preventivo di legittimità sugli atti delle regioni previsto in sede di decretazione di urgenza. Inoltre, sono previste riduzioni dei trasferimenti erariali alle regioni ove le prescrizioni analitiche intese al contenimento della spesa non vengano rispettate. Una normativa a parte è poi dedicata agli enti locali. Oltre ai controlli esterni delle sezioni regionali di controllo, di legittimità e regolarità e sui bilanci preven- tivi e consuntivi, sono previste numerose tipologie di controlli interni (di regolarità amministrativa e contabile, strategico, sugli equilibri finanziari), con conseguenti responsabilità degli amministratori, sia di tipo risarcito- rio che sanzionatorio, su cui si tornerà specificamente in seguito. Una particolare disciplina è introdotta poi dal citato d.l. n. 174/2012 e successive modificazioni e integra- zioni, per le ipotesi di dissesto e di piani di riequilibrio finanziario da parte degli enti locali e che devono essere approvati dalle sezioni regionali di controllo. La procedura di riequilibrio finanziario (art. 243-bis d.lgs. n. 267/2000, come introdotto dal d.l. n. 174/2012)

(4) Si v. i cinque regolamenti e la direttiva adottati il 16 novembre 2011 dal Parlamento europeo e dal Consiglio e il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria dell’1 marzo 2012. (5) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 14 giugno 2013, n. 7, in questa Rivista, 2013, fasc. 3-4, 6; Sez. autonomie, 26 marzo 2013, n. 9, ibidem, 110.

407 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 può integrare anche la diversa e autonoma procedura del c.d. “dissesto guidato” di cui all’art. 6, c. 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149, che prevede altresì le stesse modalità (assegnazione da parte del prefetto del termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del dissesto, se la sezione regionale di controllo non approva il piano di riequilibrio presentato dall’ente locale). La novità di rilievo, su cui si tornerà funditus più innanzi, è costituita dal fatto che le delibere della sezione regionale di controllo che non approva il piano di riequilibrio finanziario presentato dall’ente locale può esse- re impugnata innanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti, in speciale composizione, che si pronunciano nell’esercizio della propria giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost.; le stesse Sezioni riunite si pronunciano altresì, in unico grado, nell’esercizio della medesima giurisdizione esclusiva, sui ricorsi avverso i provvedimenti di ammissione al Fondo di rotazione. È interessante sin da ora notare che le stesse Sezioni riunite in speciale composizione sono chiamate a pronunciarsi anche sugli atti di ricognizione delle pubbliche amministrazioni adottati annualmente dall’Istat. Questo, in estrema sintesi, è il quadro delle funzioni di controllo intestate alla Corte dei conti, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, che è completato dal controllo sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (esercitato nei modi previsti dalla l. n. 259/1958), dal controllo sulle contrattazioni collettive del- le pubbliche amministrazioni (d.lgs. n. 165/2001, artt. 47, 48 e 60) che si svolge attraverso dichiarazioni di attendibilità sulla congruità dei costi con conseguenti effetti impeditivi e monitoraggio sulla contrattazione integrativa e, infine, dal recente controllo, affidato dalla l. n. 213/2012 alle sezioni regionali di controllo, sulle spese dei gruppi consiliari regionali. Su molteplici aspetti del d.l. n. 174/2012 sono emersi dubbi di costituzionalità (segnatamente per la “pre- clusione dei programmi di spesa” regionali e per le problematiche connesse ai gruppi consiliari) e dal giudice delle leggi è attesa la risposta a tali dubbi. Altre disposizioni normative affidano poi alla Corte varie forme di referto-relazione (annuali, quadrimestra- li o su singoli argomenti). Si tratta, dunque, nel complesso, di una variegata e multiforme serie di funzioni di controllo che incidono in modo diverso – più o meno penetrante – nella gestione della spesa pubblica da parte dello Stato, degli enti territoriali e degli enti pubblici in genere e che trova poi nella funzione giurisdizionale relativa ai giudizi di responsabilità e di conto il necessario complemento in caso di accertata “patologia” che si conclama nella sus- sistenza di un danno alle pubbliche finanze dovuto a condotte pubbliche illecite. Funzione di controllo e funzione giurisdizionale, almeno fino ai tempi attuali, appaiono, però separate (l’u- na, attinente ad atti o alla gestione; l’altra, eventuale, solo in presenza di illeciti e di danni pubblici), di guisa che appare eccessivo individuarvi un “sistema” a tutela della spesa pubblica; ma, per effetto delle connotazioni ordinamentali intervenute nel 2012, dapprima sommariamente richiamate e su cui si tornerà approfonditamen- te, un “sistema” di garanzia sembra cominciare a delinearsi. La Corte costituzionale, occupandosi variamente dello scrutinio di vari plessi normativi che assegnano forme di controllo esterno alla Corte dei conti, ha avuto recentemente modo di ritenere la stessa Corte come titolare di un sindacato generale e obbligatorio sui bilanci preventivi e consuntivi degli enti locali e di con- trolli intesi alla verifica degli equilibri di bilancio, configurandosi, pertanto, quale organo terzo e imparziale di garanzia dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse collettive (6). Ancora, è la stessa Corte costituzionale che definisce la Corte dei conti quale organo dello Stato-ordinamento cui compete il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (7). Infine, riferendosi alle forme di controllo di cui alla l. n. 266/2005 e alle interazioni con il controllo sulla gestione, con il controllo preventivo di legittimità e con il giudizio di parificazione, il giudice delle leggi attribuisce alla Corte “una visione unitaria della finanza pubblica ai fini della tutela dell’equilibrio finanziario” (8). Nella stessa sostanziale linea si pongono altre pronunce più datate della stessa Consulta (9).

(6) Cfr. Corte cost., 5 aprile 2013, n. 60, ibidem, fasc. 1-2, 365, resa in sede di conflitto di attribuzione. (7) Cfr. Corte cost., 20 luglio 2012, n. 198, ivi, 2012, fasc. 3-4, 450, resa in sede di giudizio di legittimità in via principale. (8) Cfr. Corte cost., 9 febbraio 2011, n. 37, ivi, 2011, fasc. 1-2, 338, resa in sede di giudizio di legittimità in via incidentale. (9) Cfr. Corte cost., 27 gennaio 1995, n. 29, in questa Rivista, 1995, fasc. 1, 355; 6 luglio 2006, n. 267, ivi, 2006, fasc. 6, 276; 7 giugno 2007, n. 179, ivi, 2007, fasc. 3, 260.

408 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Se questo, appena tratteggiato, è il quadro di “diritto vivente” relativo ai poteri di controllo affidati alla Corte dei conti, è pur vero che ognuna delle tipologie di controllo esaminate incontra fatali limitazioni connes- se all’indole propria dei singoli controlli: quello preventivo di legittimità, in quanto rivolto a un sindacato su puntuali atti, sia pure di specifica rilevanza; quello sulle gestioni, in quanto successivo; quello collaborativo o concomitante, poiché, pur intervenendo nel corso della gestione, non sembra ancora dotato di adeguate forme di reazione per il mancato adeguamento alle prescrizione della Corte. 3. Le tutele giurisdizionali È, quindi, sul piano giurisdizionale che deve spostarsi l’attenzione, poiché il giudizio di responsabilità amministrativo-contabile è volto alla reintegrazione patrimoniale dei danni pubblici arrecati da amministratori e dipendenti pubblici e rappresenta l’ultima istanza (solo eventuale, in quanto occorre il rispetto delle norme disciplinanti il rito contabile, modulando l’attività istruttoria e l’azione stessa delle procure regionali) che segue a una accertata patologia di indebita spendita di denaro pubblico o di mancati introiti. Non sfuggirà, peraltro, allo studioso, come all’operatore di giustizia, che tale paradigma si è rivelato pro- gressivamente insufficiente e inadeguato all’evoluzione dei tempi e della società; ciò, per più di un motivo. È innanzitutto evidente la sproporzione tra il vulnus finanziario prodotto dall’illecito – sempre più imponen- te, nella maggior parte dei casi – e le condanne risarcitorie inflitte ai responsabili che, oltretutto, scontano una disciplina che ne regola l’esecuzione (d.p.r. 24 giugno 1998, n. 260), del tutto inadeguata, com’è confermato statisticamente dall’esiguo importo dei recuperi a seguito di condanna esecutiva. Inoltre, non può sottovalutarsi il divario temporale che, nonostante la speditezza che connota il giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, intercorre tra il fatto generativo del danno pubblico e l’accertamento della relativa responsabilità contenuto nella sentenza di condanna. Infine, viene in osservazione la mancanza, allo stato della legislazione, di un’efficace forma di raccordo tra esiti delle procedure di controllo – segnatamente di quelle cosiddette “in corso d’opera” e iniziative delle pro- cure contabili che dispongono sì di poteri di natura cautelare (sequestri conservativi, anche ante causam, azioni revocatorie o altri rimedi a tutela del credito erariale ex art. 1, c. 174, l. n. 266/2005), ma sempre in un’ottica intesa al perseguimento delle responsabilità soggettive, non essendo prevista, allo stato, una tutela di tipo in- terdittivo, in grado di impedire l’erogazione di spese che si annunciano contra legem e, quindi, potenzialmente foriere di danno pubblico. Il percorso intrapreso negli ultimi tempi dal legislatore è segnato frequentemente dalla prefigurazione non solo d’illeciti c.d. tipizzati – come tali più facilmente perseguibili in quanto la fattispecie di responsabilità è già fissata nei suoi termini essenziali – ma soprattutto dalla previsione di responsabilità sanzionatorie (che vanno affiancandosi a quelle di tipo risarcitorio), inquadrandosi comunque nel generale paradigma delle responsabi- lità (10), mai confondendosi peraltro con le sanzioni di natura amministrativa, per il diverso tipo di tutela che l’ordinamento assicura a coloro che ne vengono colpiti. Oltre alle sanzioni pecuniarie più “datate” (la più nota è quella per l’inottemperanza al divieto di ricor- so all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle d’investimento, prevista dall’art. 30, c. 15, l. n. 289/2002), si segnalano quelle previste (di natura personale) per amministratori, presidenti provinciali, sindaci e revisori dei conti introdotte dall’art. 6, d.lgs. n. 149/2011, modificativo dell’art. 248, c. 5, d.lgs. n. 267/2000, per responsabilità connesse allo stato di dissesto degli enti locali (il presidente della giunta regionale può essere rimosso, dopo un accertamento di addebitabilità nella causazione del dissesto, ma limitatamente a disavanzi sanitari e con d.p.r.). Analoghe sanzioni sono previste dal d.lgs. n. 199/2011 per il dissesto finanziario delle università. Restano per ferme, in tutti i suddetti casi, le norme sull’ordinaria responsabilità patrimoniale di tipo risar- citorio. Queste disposizioni, come si vedrà, hanno ricevuto nuovo e più vigoroso impulso con il recente d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012 che, oltre a dettare sanzioni personali e pecuniarie per gli ammini- stratori regionali e degli enti locali, ha anche previsto una nuova forma di giurisdizione intestandola alla Corte dei conti.

(10) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 27 dicembre 2007, n. 12, ivi, 2007, fasc. 6, 88.

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Prima di esaminare approfonditamente tale nuovo istituto è necessario ripercorrere la gamma delle tutele affidate al giudice contabile. Innanzitutto, campeggia il giudizio di responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, caratterizzato da proprie peculiarità, quali la natura c.d. “determinativa” delle sentenze di condanna, il potere di riduzione dell’addebito, la non sindacabilità delle scelte della pubblica amministrazione, un rito breve ove non sussiste separazione tra fase decisoria e fase istruttoria (solo eventuale) e l’azione (con relativa istruttoria pre-proces- suale) è affidata in via esclusiva e obbligatoria a un pubblico ministero. Sussiste poi la tradizionale giurisdizione in materia di giudizi di conto e per resa di conto che riguarda tutti i tesorieri delle pubbliche amministrazioni e in genere gli istituti concessionari della riscossione. Vi è poi – e ormai va assumendo sempre più rilievo – il sistema delle sanzioni personali (incandidabilità o non ricopribilità d’incarichi per una durata temporale) e pecuniarie (il cui parametro oscilla da un minimo a un massimo delle indennità di carica o della retribuzione o degli emolumenti) che vengono irrogate dalla Corte dei conti, sempre nel corso di un giudizio azionato dal pubblico ministero contabile. Tale sistema di sanzioni si è recentemente arricchito per effetto del d.l. n. 174/2012 e si avrà modo di tornare funditus su tale aspetto. Incidentalmente, non può sottacersi come lo stesso d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, all’art. 2, preveda anche un diverso e oggettivo tipo di sanzione che colpisce però l’ente regione, in quanto i trasferi- menti erariali per il trattamento economico dei consiglieri e dei componenti della giunta subiscono una notevo- le riduzione se non vengono rispettate numerose “condizioni”. Similmente, l’art. 9, c. 4, l. 24 dicembre 2012, n. 243 (c.d. legge “rinforzata”) prevede che con legge dello Stato sono definite le sanzioni da applicare agli enti territoriali in caso di mancato conseguimento degli equi- libri di bilancio. Si tratta, in entrambe le ipotesi ora ricordate, di sanzioni non applicabili a soggetti, ma a enti, e che hanno una evidente natura dissuasiva; può osservarsi come non sia prevista alcuna autorità giurisdizionale per la irrogazione di tali misure pur trattandosi innegabilmente di “materie di contabilità pubblica” che, in quanto tale, dovrebbero rientrare nella giurisdizione della Corte dei conti ex art. 103, c. 2, Cost., ma occorrerebbe una norma in tal senso. Infatti, è stato questo il percorso seguito dal legislatore (art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000, come introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r), d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012) allorché è stato previsto che le Sezioni riunite della Corte dei conti si pronuncino in sede giurisdizionale esclusiva, ex art. 103, c. 2, Cost., sull’impugnazione dei deliberati delle sezioni regionali di controllo che non hanno approvato il piano di rie- quilibrio finanziario presentato da enti locali che si trovino in condizioni di squilibrio strutturale, in grado cioè di provocare dissesto. Eguale procedura, in unico grado, è prevista innanzi alle stesse Sezioni riunite per i ricorsi ovvero i prov- vedimenti in materia di accesso al Fondo di rotazione. Anche se di tutt’altro tipo, ma egualmente devoluto alla competenza giurisdizionale delle Sezioni riunite della Corte dei conti, è il contenzioso riguardante gli atti di ricognizione delle pubbliche amministrazioni adot- tati annualmente dall’Istat. Queste ultime competenze giurisdizionali intestate recentemente alla Corte dei conti saranno oggetto di specifica indagine in ordine alle problematiche che hanno sollevato. Non può, infine, tralasciarsi di osservare come anche la delibera di parificazione sul rendiconto generale dello Stato (art. 40 r.d. n. 1214/1934) si svolga con le formalità della giurisdizione contenziosa. A questo riguardo, va osservato come l’art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012, cit. ha affidato alle sezioni regionali di controllo il giudizio di parifica anche per le regioni, rinviando agli artt. 39, 40 e 41 r.d. n. 1214/1934, con ciò sancendosi che anche le stesse sezioni regionali dovranno osservare la formalità della giurisdizione contenzio- sa (rispetto del contraddittorio sin dalla fase istruttoria, presenza del p.m. contabile, idoneità della pronuncia a produrre gli effetti del giudicato) (11). A ciò aggiungasi che alla decisione di parifica dei bilanci regionali è allegata anche una relazione sulla le- gittimità e regolarità della gestione contenente le eventuali misure di correzione al fine di assicurare l’equilibrio di bilancio, nonché per migliorare efficacia ed efficienza della spesa.

(11) Cfr. Corte conti, Sez. riun., n. 7/2013, cit.

410 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Tale relazione, pur non essendo parte integrante della decisione di parifica, costituisce comunque espres- sione di un giudizio valutativo della gestione che trova il suo esito in una procedura “con le formalità della giurisdizione contenziosa”. Prima di esaminare singulatim le accennate forme di cognizione giurisdizionale intestate alla Corte dei conti, e anzi al fine di poterle meglio inquadrare, è utile rammentare talune rilevanti espressioni normative ricorrenti, sia nella novella costituzionale n. 1/2012, sia nella legge “rinforzata” n. 243/2012, sia infine nel più volte citato d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, tenendo altresì presente che nella legge di contabi- lità generale n. 196/2009 si dichiara che le disposizioni in esse contenute costituiscono “principi fondamentali” del coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117 Cost. (oggetto della novella costituzionale n. 1/2012 che attribuisce “l’armonizzazione dei bilanci pubblici” alla competenza esclusiva e non più concorrente dello Stato) e sono finalizzate alla tutela dell’unità economica della Repubblica ai sensi dell’art. 120, c. 2, Cost. Si possono prendere le mosse da tale ultimo articolo della Costituzione poiché l’unità economica della Repubblica va certamente collegata ai novellati artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. che integrano un corpus di norme del massimo rango, dirette ad assicurare l’equilibrio tra entrate e spese del bilancio, attraverso il concorso di tutte le amministrazioni pubbliche, nonché la sostenibilità del debito pubblico nel quadro di un maggior rigore previsto per l’indebitamento degli enti territoriali e nel rispetto dei vincoli che derivano dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e, in particolare, all’Unione economica e monetaria. La c.d. legge “rinforzata” n. 243/2012 dà attuazione all’art. 81, c. 6, Cost. novellato, non solo specificando taluni concetti giuridici già formulati nel six pack e nel fiscal compact (eventi eccezionali, scostamenti, defini- zioni), ma soprattutto dedicando larga parte della normativa all’equilibrio dei bilanci dello Stato, delle regioni, degli enti locali e degli enti pubblici, nonché alla sostenibilità del debito pubblico. Ricorrenti e notevoli sono anche le espressioni, contenute nel d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, riferentesi al coordinamento della finanza pubblica (art. 1), al contenimento della spesa pubblica (art. 2), per non dire del corposo plesso normativo dedicato alla tutela degli equilibri di bilancio degli enti territoriali. L’excursus di questo complesso normativo di vario rango sotto il profilo della gerarchia delle fonti, in di- sparte i continui e sempre più organici interventi nelle ultime leggi finanziarie e di stabilità, pone in evidenza un rilevante mutamento ordinamentale poiché non si tratta di normative intese a superare momenti di contingenza (che pure forse le hanno ispirate), ma integra un quadro normativo piuttosto organico di tutela delle finanze pubbliche che produce i suoi effetti anche per la costruzione di nuove forme di responsabilità azionabili innanzi alla Corte dei conti che, com’è stato più volte ricordato dalla Corte costituzionale, è l’organo neutrale e terzo preordinato specificamente alla tutela delle pubbliche finanze. Se si volesse abbozzare un’estrema sintesi del plesso delle espressioni normative ora ricordate, potrebbe osservarsi che il fine perseguito dal legislatore è l’equilibrio dei bilanci pubblici e il contenimento della spesa pubblica; il mezzo per il raggiungimento dei suddetti scopi è rappresentato dal coordinamento della finanza pubblica; la doverosità di attuazione di tali finalità è a carico di tutte le pubbliche amministrazioni che hanno, appunto, l’obbligo di concorrervi con l’azione degli agenti pubblici che vi sono preposti. 4. Le varie tipologie di responsabilità pubbliche. Profili ricostruttivi di un danno pubblico da squilibrio di bilancio Nei contorni ordinamentali appena delineati si può tentare un più aggiornato inquadramento dei vari tipi di responsabilità amministrativo-contabile (risarcitoria e sanzionatoria) azionabili innanzi al giudice contabile, per poi esprimere alcune prime valutazioni sulle nuove competenze giurisdizionali affidate alle Sezioni riunite della stessa Corte dei conti di cui si è innanzi accennato. Non appare necessario – né rientra nelle finalità della presente relazione – ripercorrere il vasto e appro- fondito dibattito giurisprudenziale e dottrinario sulla natura della responsabilità amministrativa e contabile, ma almeno due aspetti vanno ripresi ed evidenziati ai fini che ne occupano: il discusso inquadramento di tale responsabilità nella categoria contrattuale o extracontrattuale; i sempre più frequenti innesti normativi di fatti- specie cosiddette “tipizzate” di responsabilità amministrative in un sistema, come quello attuale, che è invece adattabile a ogni forma di illecito che determini un danno per le pubbliche finanze. Sul punto dell’indole contrattuale o extracontrattuale (o mista) della responsabilità amministrativa che met- te capo ai pubblici agenti, basterà ricordare che i sostenitori della prima tesi la fondano sul rapporto di servizio (o, più latamente, funzionale) che lega i pubblici agenti alle pubbliche amministrazioni (la giurisdizione con-

411 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 tabile si estende anche oltre il legame con l’amministrazione di appartenenza) e sulla inosservanza-inadempi- mento degli obblighi che ne derivano. Per converso, la dottrina e la giurisprudenza che sottolineano la extracontrattualità fanno riferimento, per lo più, ai beni pubblici protetti direttamente dall’ordinamento (denaro pubblico, patrimonio pubblico, finanze pubbliche) la cui vulnerazione produce la responsabilità di coloro che vi hanno concorso. Lo schema di riferimento per quest’ultima ipotesi rimane quello tradizionale della responsabilità aquiliana, fondata sulle violazioni del precetto del neminem laedere, anche a causa della datazione delle prime norme che hanno disciplinato la responsabilità amministrativa dei pubblici agenti. Tale normativa – a principiare dalla l. n. 2440/1923, passando per la l. n. 1214/1934, poi per la l. n. 3/1957, approdando alle riforme organiche del 1994-1996, senza tralasciare i numerosi interventi legislativi volta per volta poi intervenuti settorialmente – ripeteva sostanzialmente lo schema civilistico aquiliano, pur con i corret- tivi dovuti alla natura pubblica dei soggetti agenti, senza soffermarsi, però, sulla caratterizzazione dell’ingiu- stizia del danno, neanche sotto il profilo di una lesionenon iure. Restava quindi generalmente in ombra la questione di quale fosse, al di là di norme imperative o di divieto o di quelle sul pubblico patrimonio volta per volta poste a tutela di specifiche esigenze di contenimento della spesa, la situazione soggettiva pubblica oggetto della lesione che dava poi luogo al danno erariale e al suo risarcimento. L’ottica sembra oggi spostarsi, in quanto il tradizionale danno derivante da lesione dei beni pubblici patri- moniali va sempre più caratterizzandosi per l’indebito sviamento dei flussi finanziari dai fini prestabiliti dalle leggi di spesa. Oggi, infatti, sono le stesse norme costituzionali che tutelano in modo immediato e diretto il bene giuridico pubblico “equilibrio dei bilanci” al cui conseguimento tutte le pubbliche amministrazioni sono tenute a concor- rere e che, pertanto, divengono anche titolari di una situazione soggettiva pubblica avente a oggetto l’integrità dei propri bilanci. Ne consegue che ogni sviamento dei flussi di erogazione dai fini ai quali le leggi di spesa li hanno desti- nati, determina un vulnus per l’equilibrio del bilancio cui quelle erogazioni sono rapportabili e, per converso, uno “squilibrio” economico-finanziario integra un danno pubblico contra ius, ontologicamente certo. Infatti, per il relativo riequilibrio, vengono sopportati oneri per il ricorso all’indebitamento, per il finanziamento dei debiti fuori bilancio e lo stesso Fondo di rotazione, alle cui anticipazioni si può accedere nelle procedure di riequilibrio, comporta non solo oneri di restituzione per gli enti che vi sono ammessi, ma anche, di riflesso, oneri per la stessa finanza statale che, come è noto, è sostenuta dalla emissione di titoli del debito pubblico di breve, medio e lungo periodo; a tacer del fatto che lo squilibrio di bilancio incide, per il principio di continuità e annualità, anche sulle previsioni di entrata e spesa con evidente turbamento di una ordinata programmazione degli interventi sui servizi pubblici essenziali degli enti territoriali. Il danno pubblico da squilibrio di bilancio può peraltro assumere diversa valenza poiché può verificarsi uno scompenso temporaneo tra entrate (non incassate) e spese (indebitamente erogate) o assumere le proporzioni di condizioni strutturalmente deficitarie o, infine, quelle del dissesto dichiarato con tutte le note conseguenze previste o, addirittura, quelle del “grave dissesto” finanziario, come per i disavanzi sanitari. Su un piano diverso si pone il problema della quantificazione del prefigurato danno da squilibrio di bilancio e del modo stesso con cui esso può venire a conoscenza del p.m. contabile e integrare, quindi, quella notitia damni specifica e concreta che condiziona l’inizio della istruttoria preprocessuale e la stessa proposizione dell’azione risarcitoria (12). Preme solo qui rilevare che spese illegittime, mancati introiti, depauperamento del patrimonio e delle fi- nanze pubbliche possono oggi essere considerate causa di danno pubblico non solo perché confliggenti con norme imperative o di divieto poste, di volta in volta, a protezione delle esigenze di contenimento della spesa o a salvaguardia delle procedure di introito, bensì perché, in ultima analisi, si riflettono negativamente sui bilanci pubblici i cui equilibri trovano diretta e immediata tutela costituzionale, oltre che in norme ordinarie.

(12) Per l’insieme di tali problematiche, come pure per i profili soggettivi della responsabilità amministrativa derivante da un danno per squilibrio di bilancio, sia consentito rinviare a A. Martucci di Scarfizzi,Quali responsabilità per i protagonisti del siste- ma a seguito delle nuove regole?, in Atti dei Convegni di Studi di scienza dell’amministrazione, Milano, Giuffrè, 2013, 645.

412 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Può aggiungersi un’ulteriore considerazione. Com’è noto, l’art. 1, c. 1-bis, l. 14 gennaio 1994, n. 20, e successive modificazioni e integrazioni, impone di tenere conto, nel giudizio di responsabilità, dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di ap- partenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata. Tale regola, c.d. “del vantaggio” attiene alla stessa determinazione del danno che può (comprovatamente) restare eliso, in tutto o in parte, dai vantaggi stessi che possono anche riguardare la “comunità amministrata” che dunque diviene destinataria e beneficiaria di vantaggi che compensano l’entità del danno, sia pure alla condizione che danno e vantaggio siano collegati da una medesima seriazione causale riconducibile all’autore dell’illecito. Ebbene, se la comunità amministrata, di cui l’ente territoriale è esponenziale, può ricevere vantaggi che incidono in via compensativa sulla determinazione del danno, appare plausibile che la stessa comunità possa subire anche “svantaggi” e che questi ultimi possano atteggiarsi come un pregiudizio ulteriore rispetto a quello subito dalle finanze dello stesso ente locale. Ne consegue, in ipotesi di squilibrio di bilancio di un ente territoriale, come non possa a priori escludersi – anzi è del tutto verosimile – che il piano di riequilibrio finanziario previsto dall’art. 243-bis, c. 6, d.lgs. n. 267/2000, introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r), l. n. 213/2012, comportando un rigoroso contenimento delle spese, in particolare per il personale, la riduzione delle erogazioni per la prestazione dei servizi, l’aumento nella mi- sura massima consentita dei tributi locali, la copertura dei costi dei servizi a domanda individuale, l’eventuale alienazione di cespiti immobiliari pubblici, finisca con il determinare una penalizzazione per la collettività e, quindi, uno “svantaggio” per la “comunità amministrata” che si aggiunge al danno subito dall’ente locale esponenziale. Appare prematuro indagare se tale danno da svantaggio alla comunità amministrata sia autonomamente risarcibile e azionabile dal pubblico ministero contabile poiché gli aumenti delle imposte locali e la riduzione delle spese sono consentiti per legge proprio per riequilibrare i bilanci e mancherebbe quindi il carattere della iniuria del relativo danno, ma è comunque plausibile che, ad esempio, in ipotesi di determinazione equitativa, ex art. 1226 c.c., del danno arrecato all’ente territoriale, lo svantaggio subito dalla comunità amministrata possa costituire un conducente criterio per tale determinazione complessiva del pregiudizio. Si è innanzi accennato al fenomeno, sempre più frequente, delle fattispecie normative di responsabilità cosiddette “tipizzate”. Se ne ha un primo esempio nell’ormai noto art. 30, c. 15, l. n. 289/2002 che vieta l’indebitamento finalizza- to a finanziare spese non d’investimento in violazione dell’art. 119, c. 6, Cost. (anch’esso oggi integrato a se- guito della novella n. 1/2012), la cui legittimità è stata anche riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale (13). Sono poi seguite, solo per citare qualche esempio: le disposizioni che impongono la pubblicazione sul sito web di pagamenti per incarichi di collaborazione o consulenza in eccedenza rispetto al trattamento del primo presidente della Corte di cassazione (l. 24 dicembre 2007, n. 244; d.l. 23 maggio 2008, n. 90; d.l. 25 maggio 2008, n. 112); il divieto, per gli enti di appartenenza, di assicurazione dei propri dipendenti per i rischi da esple- tamento dei compiti istituzionali o per danni erariali. In entrambi i casi ora ricordati, si tratta di norme che disegnano specificatamente la fattispecie “che determina responsabilità erariale”, oppure forfettizzano in una somma predeterminata il “rimborso a titolo di danno erariale”. Ancora più recentemente, gli artt. 1 e 5 d.l. 6 luglio 2012, convertito dalla l. n. 135/2012 (c.d. spending review) hanno previsto, per gli approvvigionamenti Consip e per taluni limiti di spesa, che le relative violazioni sono causa di responsabilità amministrativa e valutabili a tali fini. Infine, nella legge per la prevenzione della corruzione (l. n. 190/2012) è previsto, all’art. 1, c. 12, che il dirigente responsabile di tale prevenzione possa essere chiamato a rispondere a titolo di responsabilità ammi- nistrativa. In tutti i casi ora passati in rassegna, il legislatore fa ricorso a una terminologia non organica, usando espressioni diverse (lascia perplessi tale disarmonia lessicale), ma sostanzialmente si preoccupa di esplicitare che determinate fattispecie illecite comportano responsabilità amministrativa, ovviamente da provare in tutti i suoi elementi costitutivi oggettivi e soggettivi.

(13) Cfr. Corte cost., 5 novembre 2004, n. 320, in www.giurcost.org.

413 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Nelle suddette ipotesi, si parla ormai d’illeciti “tipizzati” e spesso vi si accompagna anche una sanzione (formalmente o indirettamente tale) che si affianca, senza sostituirla, all’ordinaria responsabilità risarcitoria. Tali fattispecie “tipizzate”, il più delle volte, vengono prefigurate per arginare prassi nocive invalse radi- catesi nelle pubbliche amministrazioni e rappresentano senza dubbio un valido ausilio nel contrasto ai vasti fenomeni di mala gestio da parte degli amministratori pubblici. Non può però trarsi la conclusione – suggestiva quanto impercettibilmente insinuante – che non sussiste illecito amministrativo-contabile se non vi è un esplicito divieto e la prefigurazione di fattispecie “tipizzate”. Sarebbe, questa, una conclusione errata allo stato della legislazione vigente e anche improvvida de iure condendo poiché, da un canto, verrebbe a porsi in non cale il vasto campo d’azione della generale responsabi- lità amministrativa che attinge a illeciti delle più varie tipologie dannose per le pubbliche finanze e, dall’altro, andrebbe ad alterare in modo radicale l’autonoma configurazione della stessa responsabilità amministrativa (fino a oggi configurata come un tertium genus, ma fondato su un’intelaiatura civilistica) che finirebbe con il partecipare invece di caratteri penalistici (nullum crimen sine lege) che, in sé stessi considerati, non avrebbe- ro necessariamente una valenza negativa, ma presupporrebbero una organica, completa e meditata revisione dell’istituto della responsabilità amministrativa i cui principi sono ormai da lungo tempo normativamente sedimentati e giurisprudenzialmente consolidati. Il percorso seguito dal legislatore con il d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012 appare diversa- mente ispirato poiché introduce delle vere e proprie ipotesi di responsabilità sanzionatoria, ma dopo aver posto esplicita salvezza della tradizionale responsabilità risarcitoria, il cui accertamento viene perfino presupposto. Infatti, vengono delineate le condotte illecite ai fini dell’applicazione delle sanzioni e, almeno in due casi su tre, viene operato un collegamento alla già accertata responsabilità amministrativa risarcitoria, mentre in un caso se ne dispone comunque la salvezza in via preliminare. Se si analizza subito quest’ultima ipotesi (art. 148 d.lgs. n. 267/2000, come sostituito dall’art. 3, c. 1, lett. e, l. n. 213/2012), ci si avvede che si tratta, per gli amministratori, “dell’assenza o della inadeguatezza degli strumenti e delle metodologie relative al referto semestrale alla sezione regionale di controllo sull’efficacia e sulla adeguatezza dei sistemi di controlli interni adottati”. In tal caso, la fattispecie sanzionatoria fa esplicitamente salva, in primo luogo, la responsabilità amministra- tiva di carattere generale che, evidentemente, si presuppone possa discendere da simili condotte. Nella seconda e nella terza ipotesi, si tratta di sanzioni, per gli amministratori “riconosciuti responsabili anche in primo grado di aver contribuito con condotte dolose o gravemente colpose, sia omissive che commis- sive, al verificarsi del dissesto finanziario” (art. 248, c. 5, d.lgs. n. 267/2000, come sostituito dall’art. 3, c. 1, lett. s) e “delle gravi responsabilità accertate a carico dei revisori dei conti nello svolgimento delle attività del collegio dei revisori o ritardata o mancante comunicazione, secondo le normative vigenti, delle informazioni” (art. 248, c. 5-bis, d.lgs. n. 267/2000, come introdotto dalla l. n. 213/2012). Come può osservarsi, non si tratta di fattispecie “tipizzate” di responsabilità amministrativa stricto sensu come innanzi delineate, poiché si verifica una sorta di modellamento delle condotte sanzionabili che presup- pongono la responsabilità amministrativa che, nella prima ipotesi, viene genericamente tenuta per ferma e, nella seconda e terza ipotesi, è addirittura condizionata a un già avvenuto accertamento, venendosi così a sot- tolineare una accessorietà della sanzione rispetto all’ordinaria responsabilità amministrativa. In definitiva, gli effetti di tale tecnica legislativa non sono molto dissimili da quelli prodotti in altre fattispe- cie sanzionatorie che comunque scontano una responsabilità amministrativa concorrente, ma si assiste a una sorta d’inversione nel rapporto tra sanzionatorietà e risarcibilità del danno il cui accertamento è condizione per l’irrogazione della sanzione stessa. Può farsi qualche ulteriore riflessione. La suddetta sanzione prevista a carico degli amministratori “per rilevata assenza o inadeguatezza degli stru- menti e delle metodologie sull’efficacia e adeguatezza del sistema dei controlli interni, consiste nella condanna, da parte delle sezioni giurisdizionali regionali, a un importo variabile da un minimo di cinque a un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione; appare chiaro che la discrezionalità circa la misura della sanzione da applicare, come avviene in analoghi casi, deve essere calibrata in relazione a paramenti quali la gravità della colpa, l’entità del pregiudizio patito dall’ente locale e la potenzialità dannosa degli stessi illeciti.

414 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Più articolato è lo spettro delle sanzioni per amministratori e revisori dei conti riconosciuti responsabili per aver contribuito – i primi – o omesso o ritardato i dovuti controlli – i secondi – al dissesto degli enti locali. Si tratta, invero, di sanzioni in parte già prefigurate dal d.lgs. n. 149/2011 che aveva modificato l’art. 248, c. 5, d.lgs. n. 267/2000. Con la nota formulazione del c. 5 e l’aggiunta del c. 5-bis dell’art. 248 in rassegna, la l. n. 213/2012 ha aggiunto però una significativa novità poiché, per gli amministratori, è prevista – oltre la sanzione personale della incandidabilità per un periodo di dieci anni a cariche amministrative elettive se la responsabilità è stata riconosciuta “anche in primo grado”, e inoltre non più solo nei cinque anni precedenti il dissesto – anche una sanzione pecuniaria pari ad un importo da cinque a un massimo venti volte la retribuzione mensile lorda. Anche per i revisori dei conti di cui la Corte abbia riconosciuto le “gravi responsabilità”, è prevista – oltre la sanzione personale della non ricopribilità d’incarichi di revisione fino a dieci anni – anche una sanzione pecuniaria pari a un importo variabile da cinque a venti volte la retribuzione mensile lorda. Valgono anche per questa ipotesi sanzionatoria le osservazioni dapprima accennate in ordine ai criteri di modulazione degli importi delle sanzioni pecuniarie. Deve però rilevarsi che le sanzioni personali sembrano godere di un carattere di “automaticità” derivante dalla loro natura semplicemente conseguenziale all’accertamento di responsabilità amministrativa compiuto in via giudiziale, mentre l’importo delle sanzioni pecuniarie deve necessariamente integrare il dispositivo di condanna della relativa sentenza in quanto, diversamente, mancherebbe il titolo esecutivo. Un’ultima riflessione riguarda i poteri dei pubblici ministeri contabili di cui le norme in questione non fan- no cenno, riferendosi solo all’irrogazione delle sanzioni da parte delle sezioni regionali giurisdizionali. Non sembra che possa prescindersi da una domanda giudiziale dell’attore pubblico (in tal senso è già orientata la prassi giudiziaria in simili ipotesi di responsabilità sanzionatoria), sia perché il presidente della sezione giurisdizionale fissa l’udienza su istanza del pubblico ministero contabile, sia perché comunque occor- re garantire il necessario contraddittorio con le parti convenute, anche in merito alla sanzione pecuniaria che resta di natura giurisdizionale, sia infine perché si tratta di una sanzione afflittiva accessoria all’accertamento di responsabilità contenuto nella statuizione di condanna. La l. n. 213/2012 contiene altresì numerose norme che impongono divieti o comportamenti da tenere da parte dei pubblici amministratori e possono dunque dar luogo a ordinaria responsabilità risarcitoria con la rela- tiva azionabilità da parte del pubblico ministero contabile. Possono al riguardo citarsi vari adempimenti richiesti agli agenti pubblici (responsabile dei servizi finanzia- ri, direttore generale, segretario generale) che sono preposti alle varie tipologie di controlli interni (di regolarità amministrativa e contabile, di gestione, di natura strategica). Inoltre, può accennarsi, nel quadro delle ordinarie responsabilità per danno, all’art. 49 d.lgs. n. 267/2000, come sostituito dall’art. 3, c. 1, lett. b), l. n. 213/2012 che prevede la obbligatorietà dei pareri (di regolarità tecnica e contabile) dei responsabili degli enti locali o, in mancanza, del segretario comunale e, conseguente- mente, la responsabilità in via amministrativa per i pareri espressi. Tale norma prefigura una responsabilità concorrente degli autori dei pareri con gli organi deliberanti col- legiali degli enti locali e postula una valutazione secondo i canoni della gravità della colpa e dell’incidenza causale, largamente applicati e affinati dalla giurisprudenza ai fini del riparto dell’obbligazione risarcitoria. Inoltre, può rammentarsi – se ne è dapprima accennato, anche per i dubbi di costituzionalità che vi sono connessi – che sia per le regioni, sia per gli enti locali, l’attuazione dei programmi di spesa è preclusa se è stata accertata, da parte delle sezioni regionali di controllo, la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria in sede di procedimenti intesi a ripristinare gli equilibri di bilancio (art. 1, c. 7, d.l. n. 174/2012, e art. 148-bis, c. 3, d.lgs. n. 267/2000, come introdotto dall’art. 3 l. n. 213/2012). In tale ultimo caso (preclusione dei programmi di spesa), s’inserisce un elemento nuovo: il danno pubblico che può derivare dalla violazione di tale precetto imperativo di divieto, trova il suo antecedente logico-fattuale nella verifica (di esito negativo) affidata alle sezioni regionali di controllo. Sembra – quest’ultimo – un esempio di nuova fattispecie in cui si verifica una sinergia complementare tra le due funzioni – quella di controllo e quella giurisdizionale – intestate alla Corte dei conti poiché sarebbe difficile non scorgere nell’esito negativo delle verifiche affidate alle sezioni regionali di controllo, con la possi- bile conseguente adozione di misure per impedire “l’attuazione del programma di spesa”, anche quella notitia

415 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 damni specifica e concreta che condiziona l’istruttoria e la stessa azione contabile, verificandosi in tal modo una connessione sinergica tra una funzione di carattere interdittivo e l’iniziativa delle procure contabili. Tutto ciò, naturalmente, sempre che vengano superati i dubbi di costituzionalità. Per completare il quadro delle sanzioni previste dalla l. n. 213/2012 – pur nella doverosa constatazione delle ovvie differenze con quelle fino a ora esaminate – può accennarsi alla riduzione (la metà per tre mesi), dell’indennità di mandato del presidente della giunta regionale che omette la pubblicazione, sul sito dell’ente, della relazione di fine legislatura; eguale sanzione, per gli emolumenti, è comminata al responsabile del servi- zio bilancio, se non ha provveduto alla redazione della relazione suddetta. Si tratta, com’è evidente, di una sanzione pecuniaria, ma nel silenzio della legge sull’autorità che deve irrogarla e attesa la predeterminazione dell’importo, può dedursene che trattasi di sanzione non di natura giuri- sdizionale, bensì amministrativa di competenza degli organi della giunta regionale e dei relativi uffici. In caso di omessa applicazione della suddetta sanzione, si determinerebbe, peraltro, un danno pubblico da mancato introito a carico del bilancio regionale, con tutte le ovvie conseguenze in termini di azionabilità delle relative responsabilità amministrative, sia per le omissioni dei competenti agenti pubblici, sia per l’indebito percettore se ne ricorrono le condizioni di assenza di buona fede. Si deve, infine, accennare a una materia che è stata innovativamente disciplinata dal d.l. n. 174/2012, con- vertito dalla l. n. 213/2012. Si tratta della rendicontazione dei gruppi consiliari regionali a cui sono dedicati i cc. 9-12 dell’art. 1 d.l. n. 174/2012. Il suddetto plesso normativo scandisce la procedura per la presentazione del rendiconto onde rilevare la regolare tenuta della contabilità e prevede l’invio del rendiconto alla sezione regionale di controllo della Corte che deve pronunciarsi sulla regolarità dello stesso. In ipotesi di accertata non conformità del rendiconto di eser- cizio alle prescrizioni di legge, anche regionali, e di mancata regolarizzazione, il gruppo consiliare decade, per l’anno in corso, dal diritto alla erogazione dei fondi, con obbligo di restituzione delle relative somme. La normativa ora rammentata ha posto una serie d’interrogativi cui la stessa Corte dei conti – Sezione delle autonomie ha fornito una prima risposta con due pronunce (14) nell’ambito dei propri poteri di orientamento di natura vincolante per le sezioni regionali di controllo, ai sensi dell’art. 6, c. 4, d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012. Varie sono state le questioni affrontate: quella di diritto intertemporale, poiché, per il 2012, il controllo avrebbe dovuto avere un’efficacia “ricognitiva”, mentre sarebbe divenuto pienamente operativo nel 2013; le regole applicabili sono quelle all’epoca vigenti presso ciascuna regione a statuto ordinario (leggi regionali e regolamenti consiliari), mentre le regioni a statuto speciale e le Provincie autonome di Trento e Bolzano hanno un anno di tempo per adeguare i propri statuti. Può notarsi che in un passaggio motivazionale della delib. n. 15/2013 si accenna anche a un possibile ri- medio giurisdizionale avverso le delibere delle sezioni regionali di controllo, individuandolo nel procedimento innanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica ex art. 103, c. 2, Cost., citandosi al riguardo una recente sentenza delle stesse Sezioni riunite in sede giurisdizionale e in speciale composizione (15). La predetta sentenza, sulla quale si tornerà in seguito funditus, ha statuito nell’ambito di una specifica competenza su un ricorso alle Sezioni riunite avverso la delibera di una sezione regionale di controllo avente a oggetto un piano di riequilibrio finanziario presentato da un ente locale. In tale pronuncia, come meglio si vedrà in seguito, è stato anche precisato che gli atti che seguono la de- libera della sezione regionale di controllo (provvedimento del prefetto o altri atti, ma non l’atto di diffida che si atteggia come atto vincolato) che risultassero inficiati da vizi propri, godrebbero dei rimedi giurisdizionali conformi al riparto di giurisdizione costituzionalmente previsto relativamente alle posizioni soggettive che risultassero lese. Ad un primo esame, non sembra che i suddetti passaggi motivazionali, peraltro specifici e conducenti in relazione alle statuizioni rese in quella sede (piani di riequilibrio) possano rendere plausibile – in assenza di

(14) Cfr. Corte conti, Sez. autonomie, 5 aprile 2013, n. 12, in questa Rivista, 2013, fasc. 3-4, 123. (15) Cfr. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 12 giugno 2013, n. 2, ibidem, 301.

416 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA norme attributive – una ulteriore ipotesi di giurisdizione delle Sezioni riunite in speciale composizione ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost., anche per i ricorsi in materia di rendiconti dei gruppi consiliari, solo in virtù di un principio di attrazione di tali controversie tra le “materie di contabilità pubblica”, a meno di non volere conside- rare, per similitudine, le stesse Sezioni riunite in speciale composizione come l’unico giudice possibile poiché, escludendosi l’Ago o il giudice amministrativo ratione materiae, si verificherebbe una ipotesi di carenza di tutela giurisdizionale. Un altro aspetto che andrà vagliato attentamente, sul quale è stata già sollevata questione di massima alle stesse Sezioni riunite in sede giurisdizionale da parte del presidente della Corte dei conti, riguarda la natura di agente contabile per i responsabili dei gruppi consiliari regionali, alla luce della nuova normativa qui in rassegna. 5. Le nuove funzioni giurisdizionali delle Sezioni riunite: tratti differenziali e ratio comune; le materie di con- tabilità pubblica Per completare l’excursus sui presìdi giurisdizionali affidati alla Corte nell’ambito del sistema di garanzie a tutela della spesa pubblica, devono esaminarsi alcune novità rilevanti sotto il profilo sistematico introdotte dal- la l. n. 213/2012 e dalla l. n. 228/2012, istitutive delle nuove competenze giurisdizionali intestate alle Sezioni riunite della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost. Molti sono gli aspetti innovativi e, in due casi, la Corte, a Sezioni riunite, ha già avuto modo di rendere le prime pronunce. Si tratta di tre diverse fattispecie di controversie. Una prima, recata dall’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, come introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r), d.l. n. 174/2012, in virtù del quale “la delibera di approvazione o diniego del piano (di riequilibrio) può essere impugnata entro trenta giorni, nelle forme del giudizio a istanza di parte, innanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, che si pronunciano, nell’esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost., entro trenta giorni dal deposito del ricorso”. La seconda fattispecie di controversie attribuite a eguale competenza giurisdizionale delle stesse Sezioni riunite riguarda “i ricorsi avverso i provvedimenti di ammissione al Fondo di rotazione di cui all’art. 243-ter”, ma – precisa il c. 5 dell’art. 243-quater – “in unico grado”. La terza delle predette fattispecie si inquadra in tutt’altro contesto, ma appare ispirata alla medesima ratio di tutela della finanza pubblica, segnatamente nel più vasto ambito dei regolamenti dell’Unione europea, con particolare riguardo al regolamento Ue denominato per brevità Sec95 (Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella comunità). Infatti, l’art. 1, c. 169, l. 24 dicembre 2012, n. 228 dispone che “avverso gli atti di ricognizione delle am- ministrazioni pubbliche operate annualmente dall’Istat è ammesso ricorso alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost.”. Fin qui i testi normativi; molte, le questioni interpretative che emergono. Innanzitutto, si nota che le prime due fattispecie presentano problematiche comuni, mentre la terza eviden- zia specifiche peculiarità. Infatti, nella suddetta prima fattispecie riguardante il piano di riequilibrio finanziario pluriennale, si fa spe- cifico riferimento alle “materie di contabilità pubblica” e alla “esclusività” della giurisdizione della Corte ai sensi dell’art. 103, c. 2, Cost., rinviando, quanto al rito da seguire, alle “forme del giudizio a istanza di parte”. Tali decisivi caratteri devono intendersi riferiti “nell’esercizio della medesima giurisdizione esclusiva” anche ai ricorsi avverso i provvedimenti di ammissione al Fondo di rotazione, pur se non v’è lo specifico ri- ferimento al giudizio a istanza di parte (che peraltro, attesa la affinità di materia con la prima fattispecie e la “medesima giurisdizione”, deve ritenersi per acquisito) e venga esplicitato che si tratti di un “unico grado”. La peculiarità da ultimo ricordata attinente alla seconda fattispecie è spiegabile poiché, a differenza della prima fattispecie in cui si prevede l’impugnazione di una delibera della sezione del controllo (si tornerà in seguito su questo particolare “secondo grado”), viene impugnato un atto amministrativo e il legislatore, pur spostando la competenza giurisdizionale dal plesso Tar-Consiglio di Stato alla Corte dei conti, non ha ritenuto opportuno prevedere un doppio grado di giudizio (peraltro, non indispensabile secondo la giurisprudenza del

417 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 giudice delle leggi), attesa la particolare rilevanza e apicalità dell’organo giurisdizionale (Sezioni riunite in speciale composizione) cui è stata affidata la relativa cognizione. Nella terza fattispecie, infine (ricognizione delle pubbliche amministrazioni), si fa solo riferimento all’art. 103, c. 2, Cost., mentre nulla viene detto circa le materie di contabilità pubblica e, come si è detto, il rito da seguire. A quest’ultimo riguardo, si ricorda che l’art. 103, c. 2, Cost., fa riferimento, nel circoscrivere la giurisdi- zione della Corte, non solo alle “materie di contabilità pubblica”, ma anche “alle altre specificate dalla legge” (si pensi, ad esempio, all’intero contenzioso delle pensioni pubbliche affidate alla cognizione della Corte dei conti con leggi ordinarie). Su tale specifico punto – se cioè si tratti di materie di contabilità pubblica o di altre materie specificate dalla legge – ha avuto modo di pronunciarsi recentemente anche la stessa Corte dei conti a Sezioni riunite in specia- le composizione, occupandosi dell’Ente Rossini opera festival, inserito dall’Istat nell’elenco delle pubbliche amministrazioni (16). Le Sezioni riunite, esaminando alcune questioni preliminari, hanno ritenuto trattarsi di materia di contabi- lità pubblica, non solo per i chiari riferimenti dell’art. 1, c. 2, l. n. 196/2009 ai regolamenti comunitari (nello specifico, il c.d. Sec95), ma anche perché l’elenco Istat delle pubbliche amministrazioni viene assunto a para- metro dalle leggi finanziarie o di stabilità di ciascun anno dal d.l. n. 78/2010, convertito dalla l. n. 122/2010 (in materia di stabilizzazione finanziaria) e, infine, dal d.lgs. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012 (spending review) i cui artt. 5, 6 e 8 fanno riferimento, per il proprio ambito di applicazione, alle amministrazioni pubbli- che individuate dall’Istat ai sensi della l. n. 196/2009. Tale percorso ragionativo appare del tutto condivisibile, dato che tutti i testi normativi testé ricordati, non- ché i regolamenti comunitari, e segnatamente il Sec95, presentano un evidente connotato finanziario attinente ai conti pubblici con riflessi specifici sulla contabilità pubblica dello Stato e di tutte le pubbliche amministra- zioni che, ai sensi della ricordata novella costituzionale n. 1/2012, devono concorrere all’equilibrio del bilancio e alla sostenibilità del debito pubblico. Ne consegue, ragionevolmente, che il titolo di attrazione nella giurisdizione delle Sezioni riunite per tali controversie non può che essere quello relativo alle “materie di contabilità pubblica” che naturaliter sono at- tribuite alla competenza della Corte dei conti dall’art. 103, c. 2, Cost. Dunque, il minimo comune denominatore che lega tutte e tre le fattispecie di controversie in rassegna e ne giustifica la sottoposizione alla giurisdizione della Corte dei conti risiede nell’evidente natura di materie di con- tabilità pubblica affidate, come si è detto, istituzionalmente alla Corte, indipendentemente dalla omessa spe- cifica menzione nella citata l. n. 228/2012 (art. 1, c. 169) che comunque fa riferimento all’art. 103, c. 2, Cost. Tale speciale giurisdizione, per la prima volta, viene anche definita come “esclusiva”, almeno nella prima delle fattispecie in rassegna; ragionevolmente, attesa la medesima ratio dapprima evidenziata, tale espressione appare riferibile anche alle altre due fattispecie. Si tratta di una novità che verrà certamente esplorata dalla giurisprudenza in tutte le sue implicazioni poi- ché nella nozione di esclusività è insito il concetto che nelle specifiche materie indicate nelle tre fattispecie di controversie in rassegna l’unico giudice competente, con esclusione di altri organi giurisdizionali, è la Corte dei conti a Sezioni riunite in speciale composizione. Un’analogia può cogliersi, nell’ambito della giurisdizione amministrativa, per le materie affidate alla giuri- sdizione esclusiva del plesso Tar-Consiglio di Stato (d.p.r. n. 80/1998; l. n. 205/2000, art. 7; d.lgs. n. 104/2010, art. 133) e che va sotto la definizione di “blocchi di materie”. Può osservarsi, però, che mentre per la giurisdizione esclusiva affidata al giudice amministrativo, la esclu- sività è riferita al perimetro delle controversie specificatamente individuate (appunto, le materie) entro cui possono essere azionate le posizioni dedotte in giudizio (diritti soggettivi e interessi legittimi, ex art. 103, c. 1, Cost., le cui differenze, almeno sotto il profilo della tutela risarcitoria, appaiono oggi molte sfumate), per la giurisdizione esclusiva intestata alla Corte dei conti, sono proprio le “materie di contabilità pubblica”, nella loro oggettività, che incardinano la cognizione contabile. Costituisce, ormai patrimonio giurisprudenziale noto e acquisito l’affermazione secondo cui l’attribuzione

(16) Cfr. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord. 11 luglio 2013, n. 3, ibidem, fasc. 5-6, 258.

418 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA di giurisdizione alla Corte ex art. 103, c. 2, Cost., non è automatica (se non per i tradizionali giudizi di responsa- bilità e di conto), ma necessita, volta per volta, di una interpositio legislatoris in relazione alla natura di materia di contabilità pubblica, in quanto non si tratta di una giurisdizione generale, bensì speciale e solo “tendenzial- mente generale”, secondo l’insegnamento consolidato della Corte costituzionale. Nelle nuove fattispecie in rassegna, il legislatore pare essersi spinto oltre la classica interpositio poiché viene operato un vero e proprio rinvio della norma ordinaria a quella di rango costituzionale, collegando “l’e- sercizio della giurisdizione esclusiva”, attribuita alla Corte in tema di contabilità pubblica, direttamente all’art. 103, c. 2, Cost. Di qui, la centralità del concetto inerente le “materie di contabilità pubblica” che può trarsi non solo per le competenze giurisdizionali dalla Corte, ma anche per i pareri che le sezioni regionali di controllo possono rendere. È noto che la giurisprudenza, segnatamente quella della Corte costituzionale, riconnette alle materie di contabilità pubblica tutte le norme che riguardano i giudizi di conto e di responsabilità, ma può osservarsi che anche nella funzione consultiva attribuita alla Corte dalla l. n. 131/2003 (art. 7, c. 8) vi è il limite delle materie di contabilità pubblica che va però interpretato in modo dinamico poiché riferito al quadro degli obiettivi di contenimento della spesa e di coordinamento della finanza pubblica, nonché al conseguimento degli obiettivi di riequilibrio di bilancio e di sana gestione degli enti locali stessi (17). Appare dunque essenziale inserire il concetto di materie di contabilità pubblica in tutto il complesso e ar- ticolato quadro normativo, anche costituzionale, tenuto conto della necessità del rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e dall’adesione all’Unione economica e monetaria. Gli artt. 81, 97, 117, e 119 Cost., recentemente novellati, la legge “rinforzata” n. 243/2012, la legge di contabilità generale dello Stato n. 196/2009, le leggi finanziarie e di stabilità recentemente intervenute e, da ultimo, il d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, sono tutte norme imperniate sulla necessità degli equilibri di bilancio pubblico, sul coordinamento della finanza pubblica, sugli obbiettivi di contenimento della spesa pubblica e, come si è notato in precedenza, il giudice delle leggi non ha mancato di individuare nella Corte dei conti la massima istituzione garante di questo sistema. D’altronde, il ricordato d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, ove sono inserite le due più significative competenze giurisdizionali delle Sezioni riunite della Corte, è ispirato da una ratio intesa alla tutela degli equilibri di bilancio di tutte le am- ministrazioni territoriali. Può dunque ritenersi che questo corpus di norme di vario rango, ormai divenuto di carattere ordinamentale per la finanza pubblica italiana, sia dotato di un’espansivavis attractiva per le materie che disciplina, facendole rientrare nell’alveo di quelle “materie di contabilità pubblica” costituente l’ambito di competenza naturale del- la Corte dei conti quale organo posto a presidio della finanza pubblica in tutte le attribuzioni che la Costituzione e le altre leggi le intestano. Alla luce di quanto si è ora considerato, può cogliersi un aspetto peculiare della giurisdizione in rassegna attribuita alle Sezioni riunite della Corte in speciale composizione. L’oggetto di tale cognizione è, nelle fattispecie esaminate, non tanto l’esame di controversie in cui vengono fatte valere posizioni soggettive di varia natura intestate alle pubbliche amministrazioni, bensì un accertamen- to di conformità, sempre con l’ausilio delle garanzie processuali, di determinati fatti o atti, all’ordinamento giuscontabile: la rispondenza dei piani di riequilibrio finanziario alle numerose prescrizioni di legge; l’accerta- mento delle condizioni per poter accedere al Fondo di rotazione; la sussistenza dei requisiti per l’inserimento o meno negli elenchi redatti dall’Istat per le pubbliche amministrazioni. L’unica posizione pubblica tutelabile è l’interesse pubblico al rispetto dell’ordinamento finanziario, e se è vero che il relativo rito si svolge, come innanzi si vedrà, “nelle forme” dei giudizi a istanza di parte, non è men vero che gli accertamenti che vengono compiuti hanno come fine ultimo il ripristino dell’ordinamento finanziario violato o una declaratoria di conformità, ma non possono certo dar luogo a eventuali forme di risarcimento del danno in favore del ricorrente nei casi, ad esempio, di annullamento di una deliberazione della sezione regionale di controllo, di non ammissione al Fondo di rotazione o di ritenuta non pubblicità di un ente ai fini Istat. Questi caratteri autorizzano un’ulteriore riflessione in quanto la giurisdizione in questione sembra atteg-

(17) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 17 novembre 2010, n. 54, ivi, 2010, fasc. 6, 1.

419 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 giarsi come di natura “oggettiva” (18), atteso anche che il bene tutelato dell’equilibrio di bilancio appare connotarsi come un valore costituzionale più che come un interesse protetto lasciato nella disponibilità delle parti; lo stesso ufficio del p.m. rassegna le proprie conclusioni scritte poiché vi è coinvolto “un interesse dello Stato” (art. 58, c. 2, r.d. n. 1038/1933); interesse che viene oggi ad assumere un carattere valoriale alla luce della novella costituzionale e delle fonti europee. Una sottolineatura del carattere oggettivo della tipologia in rassegna riguarda solo l’indole eminentemente pubblica degli interessi in gioco e la loro indisponibilità e intransigibilità, ma non contrasta con la “forma” del giudizio a istanza di parte poiché il ricorso introduttivo ha una funzione di impulso per l’instaurazione di un giudizio di natura contenziosa che, quindi, dovrà svolgersi nel rispetto del principio del contraddittorio, del regime processuale delle prove e la cui sentenza conclusiva ha l’attitudine a formare cosa giudicata e può es- sere oggetto di ricorso presso la S.C. di Cassazione per motivi di giurisdizione ai sensi dell’art. 111, u.c., Cost. Altre osservazioni, pur connesse al profilo della giurisdizione, possono farsi sul piano squisitamente atti- nente al rito. Nella prima delle fattispecie in esame (ricorsi avverso delibere delle sezioni regionali di controllo aventi a oggetto piani di riequilibrio presentati da enti locali), a differenza delle altre due fattispecie, la sentenza delle Sezioni riunite conclude un gravame contro un atto dell’organo di controllo che, per sua natura, non può in alcun modo essere assimilato a una pubblica amministrazione resistente. Sono, pertanto, da non condividere alcuni primi orientamenti, emersi in sede cautelare, del Tar-Palermo – poi rivisitati in sede collegiale e, soprattutto, contraddetti da una recente statuizione del Tar-Catania (19) – secondo cui era stato ritenuto ammissibile il ricorso di un comune siciliano contro una deliberazione della competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Senza voler entrare nel merito di una vicenda giudiziaria ancora in corso e per la quale è stato anche de- positato un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, va subito notato che le sezioni regionali di controllo svolgono una funzione neutrale attribuita dall’ordinamento e non possono essere assimilate a una pubblica amministra resistente (20), e tantomeno essere considerate parti – né sostanziali, né processuali – nel giudizio che si svolge presso le Sezioni riunite. In disparte ciò, non è men vero che le Sezioni riunite sono chiamate a pronunciarsi su eventuali errori in iudicando o in procedendo in cui siano incorse le delibere delle sezioni regionali di controllo, conseguendone che si tratta di un’originale e sui generis forma di revisio prioris istantiae (21) che si svolge in un ulteriore “grado” di giudizio, come indirettamente conferma anche la seconda fattispecie di controversie (ricorsi per l’ammissione al Fondo di rotazione) per la quale è previsto invece un “unico grado” presso le Sezioni riunite. Appare improprio, sotto un profilo strettamente processuale, parlare di una sorta di appello poiché le sezioni regionali di controllo non emettono pronunce di natura giurisdizionale e sarebbe altresì improprio intravedere una forma di giurisdizionalizzazione della funzione di controllo poiché quest’ultima e quella propriamente giurisdizionale restano autonome e distinte nella loro rispettiva intestazione alla Corte; tuttavia, è una rilevante novità che la legge abbia previsto una procedura scandita in due diverse e distinte fasi poiché è la Corte dei con- ti, quale unitaria istituzione di rilevanza costituzionale per la tutela della finanza pubblica, che viene a trovarsi al centro di procedimenti di riscontro degli equilibri finanziari degli enti locali. Il rito applicabile alle fattispecie giurisdizionali in rassegna è quello previsto per i giudizi a istanza di parte di cui all’art. 58 r.d. n. 1038/1933 (“altri giudizi”, oltre quelli previsti dai precedenti artt. 52-56), anche se il richiamo espresso è contenuto nella disposizione per la prima fattispecie (piani di riequilibrio), apparendo peraltro ragionevole estendere l’applicabilità di tale rito anche alle altre due fattispecie, che pur tacciono sul punto, in quanto medesima è la ratio della normativa.

(18) Sul generale concetto di giurisdizione, intesa anche come tutela di un interesse che l’ordinamento ritiene di non soggetti- vizzare, si v. il contributo di L. Montesano in La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994. V., inoltre, F. Benvenuti, Corte dei conti e tutela degli interessi comuni, in Dir. reg., 1997. (19) Cfr. Tar-Catania, 10 luglio 2013, n. 1980, in questa Rivista, 2013, fasc. 5-6, 578. (20) Sull’insindacabilità degli atti di controllo (preventivo di legittimità) della Corte dei conti, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22 mar- zo 2012, n. 1618, con nota di commento di A.L. Tarasco, La insindacabilità degli atti di controllo della Corte dei conti, in Gior- nale dir. amm., 2013, 43. (21) Cfr. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), n. 2/2013, cit.

420 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Infatti, nella ipotesi dei ricorsi aventi a oggetto l’ammissione al Fondo di rotazione, non pare esservi alcun dubbio, sia a causa della collocazione della norma subito dopo quella sui piani di riequilibrio, sia perché vi è inserita l’espressione relativa alla “medesima giurisdizione”, sia infine perché l’oggetto della giurisdizione, in entrambi i casi, attiene alla medesima “materia”, sia pure per aspetti specifici diversi. Quanto alla terza fattispecie di controversie, contemplata in un testo normativo diverso, quale è la l. 24 dicembre 2012, n. 228, riguardante una diversa materia (gli elenchi Istat), il silenzio del legislatore sul rito da seguire deve essere oggetto di più attenta riflessione. Su questo specifico punto sono intervenute le stesse Sezioni riunite (22) che hanno avuto modo di precisare l’applicabilità, anche a tale tipo di controversie, non solo del citato art. 58 r.d. n. 1038/1933, ma anche delle disposizioni generali del regolamento di procedura innanzi alla Corte dei conti, compreso l’art. 26 che, a sua volta, rinvia, “in quanto applicabili”, alle norme e ai termini della procedura civile. Il percorso motivazionale seguito dalle Sezioni riunite appare corretto e condivisibile in quanto l’art. 58 cit. è stato sempre ritenuto norma di chiusura del sistema processuale contabile che prevede il rito per i giudizi di responsabilità, di conto e pensionistici, con un carattere residuale, ma pur sempre collegabile alle materie di contabilità pubblica; tale norma ha trovato variamente applicazione in ipotesi di c.d. accertamento negativo di responsabilità o nelle controversie tra pubbliche amministrazioni e concessionari dei servizi di riscossione per somme trattenute sine titulo (23). Può aggiungersi che le considerazioni svolte dalle Sezioni riunite sull’applicabilità anche delle altre norme del rito contabile, compreso l’art. 26 cit., possono, in linea di massima, valere anche per le altre due fattispecie di controversie rimesse alla cognizione delle Sezioni riunite stesse (piano di riequilibrio e Fondo di rotazione) a eccezione che per taluni termini processuali. Infatti, nelle controversie aventi a oggetto i piani di riequilibrio finanziario, è la stessa norma a prevedere un doppio rigoroso termine, peraltro non dichiarato espressamente come perentorio dalla legge: trenta giorni per l’impugnazione nella forma del ricorso e trenta giorni, dal deposito del ricorso, per la pronuncia delle Sezioni riunite; con la conseguenza che nel lasso di quest’ultimo termine dovrà essere fissata l’udienza con apposito decreto presidenziale da comunicarsi alle parti, con un breve termine per il deposito delle memorie (ovviamente in deroga per le conclusioni del procuratore generale, rispetto a quello ordinario di trenta giorni), dovrà svolgersi la pubblica udienza e dovrà essere infine depositata la sentenza o, eventualmente, un ordinanza poiché la citata norma fa riferimento a una “pronuncia” della Corte che, quindi, potrà avere contenuto di sen- tenza, definitiva o parziale, o contenuto ordinatorio. La violazione dei suddetti termini si riflette sulla sentenza, ma non necessariamente quale nullità proces- suale ai sensi degli artt. 156 e 161 c.p.c., in quanto la nullità non è esplicitamente prevista, né il termine in questione è dichiarato perentorio dalla legge (art. 153 c.p.c.). Stesse conclusioni possono trarsi per la seconda fattispecie di controversie relative al Fondo di rotazione, mentre altrettanto non è a dirsi per la terza delle fattispecie in esame (elenchi Istat) ove non v’è prefissione di termini brevi, né questi ultimi possono essere altrimenti ricavati; sussistono, pertanto, gli ordinari termini (co- stituzione, depositi, etc.) previsti dal regolamento di procedura contabile e, in virtù del rinvio dinamico operato dall’art. 26 di tale regolamento, anche dal c.p.c. Ancora una breve riflessione sul collegio giudicante delle Sezioni riunite previsto dalle relative norme at- tributive di giurisdizione in speciale composizione. Presso la Corte dei conti operano collegi delle Sezioni riunite di varia natura: in sede giurisdizionale, con competenza sulle questioni di massima (su rimessione delle sezioni regionali giurisdizionali, del presidente della Corte e del procuratore generale) e sui regolamenti di competenza; in sede di controllo; in sede consultiva e in sede deliberante. Sebbene il legislatore, a causa della natura multiforme dei nuovi plessi di materie le cui controversie sono ora affidate alle Sezioni riunite, abbia fatto ricorso a una nuova “speciale composizione”, plausibilmente per consentire che al responso partecipasse la Corte nella sua massima espressione e con il concorso di componenti con vasta e diversificata esperienza nei vari settori di competenza della Corte stessa.

(22) Cfr. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), n. 3/2013, cit. (23) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, 21 novembre 2007, n. 3203, in questa Rivista, 2007, fasc. 6, 216.

421 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Coerentemente a questa ratio, con ordinanza del presidente della Corte dei conti n. 5 del 4 marzo 2013, precedente all’incardinazione dei giudizi inerenti le suddette tipologie di controversie, è stato provveduto alla “speciale composizione” delle Sezioni riunite, disponendosi che ne facessero parte, sia magistrati appartenenti all’area della giurisdizione che all’area del controllo, con la presidenza dello stesso presidente della Corte o di un presidente di coordinamento delle Sezioni riunite in sede giurisdizionale. 6. I primi arresti giurisprudenziali Non resta che dar conto, prima di formulare qualche breve conclusione, dei principali enunciati racchiusi in due recentissime sentenze rese dalle Sezioni riunite in speciale composizione, di cui innanzi si è fatto qualche accenno. Con la prima di tali sentenze (24), le Sezioni riunite hanno enunciato una serie di rilevanti principi prima di esaminare il vero e proprio merito del ricorso proposto dal Comune di Belcastro avverso una delibera della Se- zione controllo per la Calabria con la quale era stata accertata la mancata presentazione del piano di riequilibrio finanziario entro il previsto termine di sessanta giorni ed era stata, di ciò, data comunicazione al competente prefetto ai fini dell’assegnazione, al comune stesso, del termine di venti giorni per la prevista adozione della delibera di dissesto. Le Sezioni riunite hanno, infatti, escluso che la sezione regionale di controllo possa essere equiparata a una pubblica amministrazione, attesa la valenza neutrale della funzione esercitata e di organo terzo al servizio dello Stato-comunità, conseguendone altresì la inconfigurabilità dello stesso organo territoriale di controllo quale parte nel giudizio de quo. Nel contempo, è stato comunque chiarito che la fase di giudizio presso le Sezioni riunite costituisce una sor- ta di revisio prioris instantiae, ribadendosi la esclusività della giurisdizione affidata alle stesse Sezioni riunite in riferimento all’art. 103, c. 2, Cost., richiamato direttamente dalla stessa norma attributiva della giurisdizione nel quadro delle “materie di contabilità pubblica” quale è quella in discussione; la motivazione è supportata da appropriati richiami alla novella costituzionale n. 1/2012, alla normativa comunitaria e alla giurisprudenza costituzionale. Alla luce di tali enunciati principi, è stata poi ritenuta anche la natura di atto vincolato del provvedimento di diffida del prefetto, fatta peraltro salva la possibilità d’intervento di altri giudici, secondo l’ordinario riparto di giurisdizione, se gli atti amministrativi intervenuti risultassero autonomamente viziati. Quanto al rito, si è fatto applicazione di quello contabile previsto per i giudizi a istanza di parte. Infine, relativamente al merito, le Sezioni riunite, premessa la distinzione con la diversa procedura per il c.d. “dissesto guidato”, hanno statuito che la delibera della sezione del controllo impugnata, di ritenuta tardività del piano di riequilibrio finanziario, era intervenuta senza attendere la necessaria istruttoria della commissio- ne di cui all’art. 155 d.lgs. n. 267/2000 e successive modificazioni e integrazioni, che comunque il piano di riequilibrio presentato dal comune presentava pur sempre elementi minimali di identificazione e non poteva pertanto configurarsi come una mera “delibera di intenti” (se tale fosse stata, la successiva delibera integrativa, poi impugnata, sarebbe effettivamente stata presentata a termini scaduti). È conseguito, pertanto, l’annullamento dell’impugnata delibera della sezione di controllo, con declaratoria di non debenza delle spese, attesa la natura neutrale dell’organo di controllo territoriale che si era pronunciato. La sentenza ora passata in rassegna costituisce il primo arresto giurisprudenziale su tale nuova e rilevante competenza giurisdizionale delle Sezioni riunite e si segnala per l’ampio quadro ordinamentale richiamato e le soluzioni ampiamente motivate, ponendo così le basi per successivi giudizi di eguale natura. La sentenza è stata depositata nei trenta giorni ritualmente previsti e resta, pertanto, ancora aperto il pro- blema degli effetti processuali che potrebbero conseguire in caso di violazione di tale termine, anche perché, oltre alle considerazioni innanzi espresse, non v’è un giudice presso cui far valere tale vizio in quanto la Corte di cassazione ha competenza limitata ai soli motivi di giurisdizione. Inoltre, resta da esplorare il tema della natura delle sentenze che le Sezioni riunite rendono in tale tipo di controversie, anche se la soluzione accolta nella predetta sentenza sembra non essere quella di pronunce di- chiarative o di accertamento.

(24) Cfr. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), n. 2/2013, cit.

422 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Con la seconda pronuncia (25) le Sezioni riunite si sono occupate di un ricorso dell’ente Rossini opera fe- stival avverso un comunicato Istat nella parte in cui l’ente viene annoverato nell’elenco delle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 1, c. 3, l. n. 196/2009. La sentenza in rassegna si segnala per l’ampio inquadramento della controversia nelle “materie di conta- bilità pubblica” ex art. 103, c. 2, Cost. (non si tratta dunque delle “altre materie” previste nella stessa suddetta norma costituzionale), nonché per l’individuazione del rito applicabile alla tipologia di giudizio attribuito dall’art. 1, c. 169, l. n. 228/2012, alla competenza giurisdizionale delle Sezioni riunite in speciale composi- zione. Tale rito è stato ritenuto essere quello previsto dal regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti con specifico riferimento all’art. 58 (altri giudizi a istanza di parte). Anche in questo caso, la sentenza pone solide basi per ulteriori affinamenti giurisprudenziali nelle contro- versie di tale natura, potendosi inoltre porre in futuro, eventualmente, un problema di competenza per i giudizi già incardinati presso il giudice amministrativo che era competente prima della riforma del 2012. Mancano, invece, fino a ora, precedenti giurisprudenziali sulle impugnative aventi a oggetto ricorsi per l’ammissione al Fondo di rotazione. 7. Alcune considerazioni finali L’excursus del complesso di norme introdotte a tutela della finanza pubblica negli ultimi anni ha consentito di porre in luce sia le connessioni con l’ordinamento europeo, cui l’Italia aderisce sotto varie forme, sia una visione sempre progressivamente sinergica tra le varie funzioni attribuite alla Corte dei conti. Infatti, la riforma recata dalla l. cost. n. 1/2012 consegue ai sei regolamenti comunitari del 2011 (six pack) e al Trattato del 2012, noto come fiscal compact, tra i paesi aderenti alla moneta unica che danno corpo alla nuova governance economico-finanziaria europea. Anche la legge c.d. “rinforzata” n. 243/2012 prevista dall’art. 5 della novella costituzionale reca un com- plesso di norme di valenza più marcata rispetto alla legge ordinaria in quanto attuativa di un esplicito precetto costituzionale e adottata con speciale procedimento legislativo, sottolineandosi come tali norme sono dirette alla tutela degli equilibri finanziari di tutte le pubbliche amministrazioni italiane. Parallelamente, l’ordinamento giuscontabile si è arricchito di una serie di norme (il plesso più organico è costituito dal d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012) che pongono al centro la tutela della finanza pub- blica e, in particolare, degli equilibri di bilancio degli enti territoriali, individuando la Corte dei conti, nelle sue varie attribuzioni giurisdizionali, di controllo e di referto, come l’organo istituzionale neutrale e in posizione di terzietà posto a presidio di tale tutela. È, questa, tra l’altro, una delle ragioni che destano perplessità circa la costituzione dell’“organismo indipen- dente” previsto dall’art. 5 della novella e che ha poi trovato effettiva collocazione nella c.d. legge “rinforzata”, anche se, all’attualità, tale “ufficio” (com’è stato definito dalla suddetta legge) non risulta ancora costituito. Se è vero che i compiti demandati al suddetto ufficio sembrano porsi su un piano diverso (analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio) rispetto alle attribu- zioni istituzionali della Corte dei conti, non può non osservarsi come anche i compiti di verifica sopra ricordati, se fossero stati affidati alla Corte, avrebbero potuto dispiegare effetti sinergici con le tradizionali funzioni di controllo, giurisdizionali e di referto, con attese di risultati di più organica completezza. In disparte tale riflessione incidentale, appare certo che per effetto del richiamato complesso normativo intervenuto negli ultimi tempi, le competenze della Corte si sono arricchite di più penetranti poteri e nuove funzioni. In particolare, si è assistito a una più vasta attribuzione di funzioni giurisdizionali, diverse da quelle tradi- zionali incentrate sulla responsabilità amministrativo-contabile che pur permane, e anche rafforzata. Infatti, il richiamo all’art. 103, c. 2, Cost., veniva fin a ora riferito alla giurisdizione contenziosa di respon- sabilità e di conto, fondata su tre requisiti: pubblicità del denaro o dei beni gestiti (elemento oggettivo); natura pubblica dell’agente cui compete la gestione stessa (elemento soggettivo); rapporto di servizio (elemento fun- zionale), sottolineandosi altresì da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito la necessità della c.d.

(25) Cfr. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), sent.-ord., n. 3/2013, cit.

423 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 interpositio legislatoris per incardinare una fattispecie di responsabilità amministrativa o contabile allo scopo di rendere effettiva quella generale, ma solo “tendenziale”, giurisdizione prevista dal richiamato art. 103, c. 2, Cost. Si è in questa sede osservato come le tre nuove fattispecie di controversie attribuite alla giurisdizione della Corte dei conti non attengono alla responsabilità amministrativa-contabile bensì alla cognizione, nelle forme contenziose dei giudizi a istanza di parte, di un riscontro di legalità procedimentale e di merito riguardante l’operato della pubblica amministrazione (piani di riequilibrio finanziario non approvati dalla sezione regionale di controllo; accesso al Fondo di rotazione per gli enti locali; attività di ricognizione compiuta dall’Istat negli elenchi della pubbliche amministrazioni). Si è anche considerato come l’affidamento di tutte e tre le tipologie di controversie alla giurisdizione con- tabile (Sezioni riunite) sia giustificato dal richiamo diretto dell’art. 103, c. 2, Cost., e, in particolare, all’inseri- mento di tali fattispecie in quelle “materie di contabilità pubblica” che costituiscono, in via naturale a esclusiva, il fondamento costituzionale della giurisdizione contabile. Dalla disamina della normativa in questione è emerso, peraltro, che esistono tratti differenziali tra le fatti- specie di controversie in rassegna. Infatti, nella prima (piani di riequilibrio), la peculiarità sta nel fatto che all’esame delle Sezioni riunite è sottoposta una delibera della sezione regionale di controllo che – si è notato in precedenza – non può essere as- similata, per propria natura, a una pubblica amministrazione resistente, con la conseguenza che manca una vera e propria controparte dell’ente locale e le ragioni pubbliche sono affidate all’intervento del pubblico ministero. Nella seconda fattispecie, invece (Fondo di rotazione), l’atto è emanato da un’autorità amministrativa ed è impugnato direttamente innanzi alle Sezioni riunite che decidono in “unico grado”. Nella terza tipologia di controversie, infine, l’atto è emanato dall’Istat ed è impugnato direttamente innanzi alle Sezioni riunite. Nella seconda e terza fattispecie, la pubblica amministrazione è dunque una parte controinteressata proces- suale. È, però evidente, in disparte le richiamate peculiarità per le tre fattispecie di controversie in rassegna, che il comune denominatore è rappresentato dalla “esclusività” della giurisdizione contabile in quanto oggetto della relativa cognizione sono “materie di contabilità pubblica”. Le “forme” in cui tale giurisdizione viene esercitata sono quelle del giudizio a istanza di parte, ma la natura dello scrutinio che viene affidato alla Corte non ha a oggetto le situazioni soggettive sostanziali tradizionali, bensì solo l’interesse pubblico alla reintegrazione dell’ordinamento di finanza pubblica che risultasse vulne- rato. Dunque, viene delineandosi una tutela di carattere oggettivo, indisponibile e non negoziabile, della finanza pubblica fondata sul piano dei valori direttamene protetti dalla Carta costituzionale, quali quello dell’integrità e dell’equilibrio dei pubblici bilanci, restando in secondo piano gli interessi patrimoniali facenti capo ai singoli enti pubblici e che possono farli valere nel giudizio in rassegna. È, questa, la tutela che in modo innovativo caratterizza le nuove competenze giurisdizionali della Corte dei conti e che potrebbe essere normativamente estesa anche a altre ipotesi di controversie come, ad esempio, le ipotesi di sanzioni a carico di enti territoriali di cui si è innanzi accennato, oppure le impugnative avverso le delibere delle sezioni regionali di controllo che si pronunciano sulla regolarità dei rendiconti dei gruppi consi- liari regionali; ma è prematuro formulare ipotesi prima che la Consulta abbia scrutinato le questioni al proprio esame. Tale giurisdizione, unitamente al rafforzamento di quella tradizionalmente attribuita alla Corte, da valo- rizzarsi con un’auspicabile maggiore sinergia con le funzioni di controllo, appare oggi come lo strumento che meglio sembra rispondere alle finalità di rapida ed efficace protezione dell’ordinamento finanziario pubblico poiché lo Stato, gli enti territoriali e pubblici e tutte le pubbliche amministrazioni concorrono, nel nuovo quadro costituzionale ed europeo, alla sostenibilità del debito pubblico e a garantire la correttezza della spesa pubblica.

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424 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

I GIUDIZI DI PARIFICAZIONE DEI RENDICONTI GENERALI: ASPETTI COMUNI E PROFILI SPECIFICI A LIVELLO CENTRALE E REGIONALE

di Maurizio Meloni

Sommario: 1. Notazioni introduttive e considerazioni generali. – 2. Aspetti propri della parificazione del rendiconto generale dello Stato. – 3. Profili specifici della parificazione del rendiconto delle regioni a statuto ordinario.

1. Notazioni introduttive e considerazioni generali I giudizi di parificazione dei rendiconti generali, sia dello Stato che delle regioni a statuto speciale e anche di quelle a statuto ordinario, si collocano – tutti – in un contesto che rende chiaramente percepibile il rafforza- mento del rapporto di ausiliarietà della Corte verso gli organi rappresentativi. La Corte, infatti, per norma costituzionale e per la sua tipica conformazione, assolve alla funzione ausiliaria e attua, al contempo, il momento di chiusura di un sistema dei controlli costruito attraverso le attività svolte – in corso d’anno – da tutte le sue articolazioni centrali e regionali. Queste molteplici attività sono intese a offrire dati e valutazioni proprie della magistratura contabile che si correla, nell’esercizio delle sue funzioni istituzio- nali, direttamente al Parlamento e agli altri organi rappresentativi. La vocazione della Corte a un’intensa ausiliarietà nei confronti del Parlamento e delle altre assemblee a livello regionale e locale non è disgiunta – peraltro – dalla disponibilità a fornire al governo e agli organi ese- cutivi delle regioni e degli enti locali quell’apporto – che è di esperienza e di conoscenza – ritenuto utile per il corretto impiego delle risorse pubbliche. Di recente, il d.l. n. 174/2012 (convertito dalla l. n. 213/2012), estendendo alle regioni a statuto ordinario la parificazione dei rendiconti, ha consentito di rinverdire la centralità di questo istituto: con termine un po’ fiorito si potrebbe forse parlare di una rinnovata “giovinezza” dei giudizi di parificazione. In proposito appare comunque utile una sintetica riflessione di taglio storico. Va qui ricordato che, soprattutto con riferimento alla parificazione sul rendiconto generale dello Stato, si era soliti richiamare attribuzioni vetuste della Corte, evocando una Corte paludata, ottocentesca e configurando questa attribuzione nell’ambito di un ordinamento ritenuto (a mio avviso ingiustificatamente) superato: queste attribuzioni si radicano, infatti, nella l. 14 agosto 1862, n. 800 (art. 32) e sul t.u. approvato con r.d. 12 luglio 1934, n. 1214. Abbiamo appena evocato una sorta di permanente validità e quasi di giovinezza della parificazione: perché? Perché dopo la l. n. 800/1862, dopo gli artt. 39, 40, 41, 42 e 43 t.u. del 1934, cit., ci sono stati significativi ancoraggi sia normativi che giurisprudenziali (Corte costituzionale). Deve essere citata, innanzitutto, la l. n. 468/1978, legge di grande portata, che ha registrato, tra l’altro, l’im- pegno culturale e la vivacità intellettuale del sen. . Questa legge richiama espressamente la parificazione del rendiconto generale dello Stato (e non possiamo dimenticare – in proposito – che il dibattito culturale sulla l. n. 468 fu vivacissimo, e assai approfondito: anche la Corte vi partecipò con audizioni e con referti specifici, impegnando fortemente tutte le sue migliori “risorse culturali”). Ebbene questa legge, con i suoi artt. 23 e 24 sancisce – con norma di sistema – che la Corte dei conti parifica il rendiconto generale e lo trasmette al Ministro del tesoro per la successiva presentazione al Parlamento. Dopo la l. n. 468/1978 ci sono state le leggi n. 362/1988, n. 94/1997, n. 208/1999, e, infine, n. 196/2009 (espressamente qualificata legge “organica” di contabilità e finanza pubblica). Tutte queste leggi non hanno ritenuto di dover modificare i pilastri costituiti dagli artt. 23 e 24 della l. n. 468/1978, appunto quelli specifici sulle attribuzioni della Corte in materia di rendiconto generale dello Stato. Si è anche richiamata la giurisprudenza della Corte costituzionale nella nostra materia. Tra le puntualizza- zioni della Consulta, tutte rilevanti, può qui menzionarsi la sent. n. 244 del 14 giugno 1995 (ne è stato estensore il compianto collega Massimo Vari), sentenza che è di grande importanza perché supera la questione della “non rilevanza” ai fini delle questioni di legittimità costituzionale delle leggi di spesa in quanto tali. Due ulteriori considerazioni denotano problematiche suscettibili di approfondimento: a) il giudizio di parificazione è un istituto che presenta un’autonoma connotazione nel panorama delle veri- fiche intestate alla Corte, modellato anche attraverso esperienze sedimentatesi nel tempo; il quadro normativo

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è – peraltro – alquanto lacunoso, tenuto conto che nel r.d. n. 1038/1933 non ci sono regole proprie per questo giudizio, mentre il r.d. n. 1214/1934 – operando distinzioni tra attività di controllo (capo II) e attività giurisdi- zionale (capo V) – riserva un capo a sé stante alla parificazione; b) deve rinforzarsi un impegno della Corte per il futuro: accanto alle attività già espletate per dare con- cretezza effettiva alla parificazione del rendiconto c’è l’esigenza di dare impulso a iniziative per consolidare, maggiormente, il grado di attendibilità e affidabilità dei dati contabili mediante operazioni di campionamento basate su modelli esistenti in ambito europeo. 2. Aspetti propri della parificazione del rendiconto generale dello Stato Riprendendo una considerazione svolta a livello di notazioni introduttive, si sottolinea – nuovamente – che l’annuale giudizio di parificazione del rendiconto generale dello Stato, con la contestuale relazione al Parla- mento che l’accompagna, costituisce un evento di particolare solennità e rilievo come momento di chiusura del sistema dei controlli affidati alla Corte e i cui esiti sono istituzionalmente destinati all’organo rappresentativo; nella prassi sviluppatasi nel corso degli anni sono soprattutto le Commissioni Bilancio della Camera dei depu- tati e del Senato della Repubblica ad approfondire il complesso referto della Corte. Il giudizio di parificazione che – com’è noto – si conclude con una apposita deliberazione delle Sezioni riunite è strettamente funzionale alla chiusura del percorso di bilancio del precedente esercizio finanziario con la legge di approvazione del rendiconto. Tale adempimento, in sé compiuto ed esaustivo, si coniuga altresì (è stato posto in luce più avanti) con l’approntamento di ulteriori strumenti di verifica e analisi delle poste del rendiconto utilizzando esperienze e orientamenti emersi in ambito europeo: in particolare si fa qui riferimento alle metodologie Das (Declara- tion d’assurance). In ogni caso per l’esame di talune atipie, anomalie e discrasie rinvenibili nel rendiconto si procede con lo strumento di auditing finanziario-contabile su scala generale e con accertamenti diretti sulla regolarità dei procedimenti seguiti in specifiche aree d’intervento, individuate utilizzando strumenti informatici e approcci metodologici largamente condivisi. La relazione al Parlamento, correlata naturalmente al bilancio dello Stato, si conforma su due linee: a) analisi delle risultanze del conto del bilancio e del conto del patrimonio al fine di consentire la verifica, da un lato, della correttezza della gestione e, dall’altro, del contributo effettivo che lo Stato fornisce alla complessiva evoluzione della finanza pubblica; b) verifica dei risultati della gestione contabile delle singole amministrazioni dello Stato e dell’effettivo conseguimento degli obiettivi assegnati in relazione alle missioni e ai programmi gestiti. In relazione alla prima tematica continua ad affermarsi, anno dopo anno, la sistematica predisposizione di elementi di raccordo tra le risultanze del rendiconto dello Stato e i corrispondenti aggregati di contabilità nazio- nale, sulla base delle metodologie adottate nell’ambito di elaborazioni già condotte in sede di disegno di legge di stabilità. Tale riclassificazione, in particolare, consente di disporre di più approfondite valutazioni sugli esiti dei ripetuti provvedimenti di contenimento della spesa adottati nel corso degli ultimi esercizi finanziari. L’analisi della gestione del bilancio dello Stato nell’ambito delle singole amministrazioni – in senso proprio – è finalizzata, per parte sua, a far emergere elementi coerenti con l’avviato processo di revisione della spesa nella duplice direzione della revisione del perimetro dell’intervento pubblico e della progressiva eliminazione delle spese non produttive e degli sprechi. In termini più strettamente tecnici, ma necessari per una adeguata comprensione del nostro istituto, va ancora precisato, che il giudizio di parificazione si sostanzia nel confronto dei risultati del rendiconto stesso, tanto per le entrate che per le spese, con la legge di bilancio. Esso tende inoltre, attraverso la verifica della concordanza delle entrate riscosse e versate e delle spese ordinate e pagate (nonché dei relativi residui) con le scritture tenute o controllate dalla Corte, all’accertamento dei modi in cui sono state rispettate le previsioni di bilancio e i relativi limiti. Più in particolare – e chiedendo venia per una elencazione alquanto pedante – la Corte è chiamata, ai sensi dell’art. 39 del t.u. n. 1214/1934 e della successiva prassi adeguatrice: - a confrontare i risultati del rendiconto tanto per le entrate quanto per le spese, ponendoli a riscontro con la legge di bilancio; - a verificare se le entrate riscosse e versate e i resti da riscuotere e da versare, risultanti dal rendiconto, siano conformi ai dati esposti nei conti periodici e nei riassunti generali trasmessi dalle amministrazioni;

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- a verificare se le spese ordinate e pagate durante l’esercizio concordino con le scritture tenute o controllate dalla Corte e ad accertare i residui passivi in base alle dimostrazioni allegate ai provvedimenti di impegno e alle proprie scritture; - a verificare il conto del patrimonio, previo esame della regolarità delle singole movimentazioni patrimo- niali, sotto il profilo della corrispondenza con la documentazione giustificativa dei dati riportati nelle scritture contabili. Una considerazione finale attiene all’attuazione del principio del contraddittorio o, quanto meno, del diretto confronto su aspetti specifici. Al riguardo va posto in luce che, per quanto attiene alla parificazione del rendicon- to dello Stato, il contraddittorio nella fase istruttoria viene garantito attraverso un confronto con le delegazioni ministeriali designate dal ministro competente e mediante l’elaborazione di richieste e questionari, cui fanno seguito specifici incontri di chiarimento con i competenti dirigenti del dicastero. C’è peraltro la consapevolezza che occorre procedere, in futuro, con ulteriori e più intense forme di contraddittorio che consentano all’ammi- nistrazione di attuare effettive deduzioni alle osservazioni mosse; e ciò prima dell’inoltro della relazione finale della Corte al Parlamento. 3. Profili specifici della parificazione del rendiconto delle regioni a statuto ordinario Per i profili specifici della parificazione dei rendiconti generali delle regioni a statuto ordinario occorre fare essenziale riferimento alla deliberazione delle Sezioni riunite in sede di controllo n. 7 del 14 giugno 2013 (della quale, qui di seguito, si riprendono passi testuali). Detta deliberazione rende chiaramente edotti delle problematiche scaturenti dalla prima applicazione di una normativa decisamente innovativa, ma – al contempo – si appalesa di sicura utilità per l’attività di controllo sul sistema di finanza pubblica (attesa la decisiva rilevanza, in materia, delle autonomie territoriali). Ciò stante, in coerenza con l’approccio sperimentale che caratterizza la complessiva attuazione del d.l. n. 174/2012 e in attesa che siano perfezionati gli strumenti per un esercizio adeguato della funzione, la prima fondamentale operazione che le sezioni regionali devono compiere consiste nel raffronto dei risultati del ren- diconto generale, sia per le entrate sia per le spese con la legge di bilancio. A tal fine occorre far riferimento all’intero ciclo della programmazione finanziaria annuale e, quindi, non solo alla legge di bilancio, ma anche alla legge di assestamento e ai provvedimenti di variazione: sono tutti elementi informativi, questi, di cui la sezione regionale dispone o che può agevolmente acquisire dall’amministrazione. In ogni caso, in sede di prima applicazione del più volte citato d.l. 174, le sezioni regionali possono verifi- care la concordanza dei dati risultanti dal rendiconto, sia per l’entrata sia per la spesa, con quelli presenti nelle scritture del servizio di ragioneria di ogni regione (o struttura equivalente), nonché con le registrazioni dei flussi di cassa effettuate dal tesoriere regionale, riversate nel sistema Siope. Stante l’approccio pragmatico dianzi riferito, due considerazioni di principio possono così sintetizzarsi: a) la procedura per il giudizio di parificazione del rendiconto della regione trova specifico riferimento nella normativa prevista per la parificazione del rendiconto generale dello Stato dagli artt. 39-41 r.d. n. 1214/1934, richiamati dall’art. 1, c. 5, primo periodo, d.l. n. 174/2012; b) la specificità degli assetti organizzativi della Corte a livello regionale, nonché le esigenze legate al co- ordinamento della finanza pubblica, pongono in luce il profilo maggiormente innovativo per quanto riguarda i contenuti della relazione allegata alla decisione di parifica: quello della proposta delle misure di correzione “al fine, in particolare, di assicurare l’equilibrio del bilancio e di migliorare l’efficacia e l’efficienza della spesa”; la stessa relazione concerne altresì – in tal modo diversificando decisione e relazione – la complessiva attività svolta dalla regione estendendo il proprio orizzonte ai profili di tipo gestionale. In questa sede va debitamente sottolineato il riferimento, assai qualificante, alla proposta di misure di cor- rezione e di interventi di riforma per l’equilibrio di bilancio e l’efficacia e l’efficienza della spesa: proposta questa che non è espressamente prevista in materia di parificazione del rendiconto generale dello Stato (anche se la relazione al Parlamento contiene molti elementi in proposito). Altre considerazioni, specifiche per la parificazione del rendiconto delle regioni a statuto ordinario, atten- gono al problema del contraddittorio e al ruolo del procuratore regionale. Per il primo problema deve richiamarsi, in primis, l’attuale schema del giudizio di parificazione, nel cui am- bito le strutture del controllo sono, allo stesso tempo, titolari dell’istruttoria e della funzione decisoria; pertanto

427 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 in mancanza di una compiuta, autonoma, disciplina dell’istituto della parificazione del rendiconti, a livello regionale, resta in vigore la essenziale normativa richiamata dall’art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012. Il contraddittorio con gli enti deve – in ogni caso – essere assicurato durante tutto l’iter procedurale a partire con l’istruttoria su tutti i temi sottoposti a verifica per essere definito, attraverso successivi affinamenti, prima dell’udienza pubbli- ca avente a oggetto i soli temi e le questioni contenuti nelle conclusioni dell’istruttoria; fissati tali limiti, entro gli stessi devono essere svolti gli interventi dei soggetti che partecipano all’udienza. In questa sede va comunque operato l’auspicio, da parte di chi per decenni ha operato nelle Sezioni riunite per il rendiconto generale dello Stato, che i presidenti delle sezioni regionali di controllo disciplinino, negli ambiti dianzi indicati, le fasi e le modalità del contradittorio anche mediante l’adozione di adeguate misure volte al migliore profi- cuo esercizio della funzione di controllo e alla conseguente celebrazione della peculiare udienza di parificazione. In materia è utile, da ultimo, ricordare che anche nelle regioni a statuto speciale il contraddittorio con l’amministrazione si svolge nella fase istruttoria, con la possibilità di una formalizzazione mediante convocazione di una adunanza ad hoc, prima dell’udienza di parifica (Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, 13 luglio 2012, n. 84 che, nel preambolo, considera “gli esiti del contraddittorio finale con l’amministrazione regionale in ordine alle risultanze del controllo propedeutico al giudizio di parificazione del rendiconto”). Da molti anni, inoltre, il giudizio di parificazione davanti alla Sezioni riunite per la Regione Sicilia è preceduto da una specifica adunanza della sezione di controllo per la ve- rifica dei dati dal rendiconto, con l’attivo intervento dei rappresentanti dei dipartimenti regionali, in esito alla quale è assunta una autonoma deliberazione. Analogamente avviene presso la Sezione controllo Regione Sardegna. In tema del ruolo del procuratore regionale sussiste la funzione di garanzia dell’ordinamento intestata allo stesso procuratore nella requisitoria del giudizio di parificazione. In proposito uno snodo fondamentale, in attesa che si realizzi il progetto unitario di acquisizione automatica dei dati dei rendiconti generali, è costituito dalle modalità di reperimento di documenti, dati e notizie concernenti la gestione del bilancio regionale. Le Se- zioni riunite hanno ritenuto, al riguardo, che elementi e informazioni – al fine di evitare una duplicazione delle attività istruttorie e un sovraccarico di lavoro per le strutture regionali – devono essere acquisiti direttamente dalle sezioni regionali di controllo, alle quali spetta la funzione decisoria. In ogni caso, nel rispetto rigoroso delle distinte competenze, appare opportuno – per il più efficace e tem- pestivo svolgimento della nuova attività istituzionale – che sia instaurato un costruttivo raccordo fra le sezioni di controllo e le procure regionali, nella solida convinzione che le sezioni sono le dirette destinatarie del flusso documentale proveniente dall’amministrazione regionale e, quindi, ne costituiscono l’interlocutore naturale. Un’ultima notazione a conclusione di questo intervento: deve restare ferma l’esigenza di salvaguardare la fa- coltà delle sezioni regionali di controllo di adire la Corte costituzionale per sollevare questioni di legittimità co- stituzionale delle leggi di spesa lesive dell’art. 81 Cost. per mancanza di copertura finanziaria (e, più in generale, delle norme costituzionali in materia di equilibri di finanza pubblica); detta facoltà, che è legata alle formalità della giurisdizione contenziosa proprie del giudizio di parificazione, potrebbe anche giovarsi dell’esame svolto nell’am- bito delle relazioni semestrali sulla copertura delle leggi regionali di spesa elaborate dalle sezioni regionali a mente dell’art. 1, c. 2, d.l. n. 174/2012 (cfr. Sez. autonomie, 26 marzo 2013, n. 10, in questa Rivista, 2013, fasc. 3-4, 110).

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EQUILIBRI FINANZIARI E SPESA PUBBLICA: GIUDICE, NUOVE FORME DI TUTELA E RUOLO DEL P.M.

di Sergio Auriemma

Sommario: 1. Un giudice per gli equilibri finanziari e di spesa. – 2. L’esercizio di funzioni contestate. – 3. Snodi processuali da percorrere. – 4. Quale ruolo per l’ufficio del pubblico ministero?

1. Un giudice per gli equilibri finanziari e della spesa Il presente intervento s’innesta a conclusione – ed anche a lato – di ben più approfondite ed esaurienti trat- tazioni tematiche offerte dagli autorevoli relatori impegnati in questa prima sessione di lavori.

428 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Mi limiterò, quindi, a esporre talune riflessioni che nascono dalla particolare visuale connaturata alle fun- zioni che svolgo come pubblico ministero contabile. E le proporrò assumendo, quale quadro di riferimento implicito, gli elementi costitutivi, gli istituti normativi, i soggetti, i valori, le garanzie costituzionali e gli interessi sostanziali che, nel loro insieme e secondo la stessa in- titolazione del convegno, compongono quella che, convenzionalmente in questa sede, sarà individuata essere una politica “di governo” e “di gestione” della spesa pubblica nella quale la Corte dei conti svolge un ruolo importante. È utile partire da un dato giurisprudenziale. La Corte costituzionale ha vagliato di recente (1) alcune disposizioni del d.lgs. n. 149/2011 sui mecca- nismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, nonché del d.l. n. 174/2012 in materia di finanza e di funzionamento degli enti territoriali e ha risolto lo scrutinio pervenendo a declaratorie di illegitti- mità costituzionale concernenti: a) la c.d. rimozione sanzionatoria del presidente della giunta regionale per responsabilità politica; b) l’ampliamento di poteri di verifica e controllo su enti territoriali, disposto con legge ordinaria e in favore del governo. La Consulta ha enunciato significativi principi, supportati da corrispondentirationes decidendi. Relativamente alla prima problematica (rimozione dei presidenti), il giudice delle leggi (2) ha osservato che: - il conferimento alla Corte dei conti della funzione di accertare la diretta responsabilità, con dolo o colpa grave del presidente della giunta regionale spezza indebitamente il delicato equilibrio con cui la Costituzione ha conciliato la sfera di stretta legalità con la concomitante dimensione della discrezionalità politica; - l’intervento di legge, realizzato senza specificarne presupposti, natura e tempi di svolgimento, viola anche per tale profilo l’art. 126 Cost. e il principio di ragionevolezza, la lesione della quale senz’altro ridonda sulle attribuzioni costituzionali della regione; - in queste condizioni, l’organo di governo della regione viene assoggettato a un procedimento sanzionato- rio, di per sé contraddittorio rispetto all’urgenza del decidere, e comunque dai tratti così indefiniti da rendere incerte le prospettive di esercizio della carica, in danno dell’autonomia regionale. Relativamente alla seconda problematica (conferimento al governo di poteri di verifica), ha osservato esse- re lesiva di garanzie costituzionali l’attribuzione (non al giudice contabile, ma) direttamente al governo di un potere di verifica sull’intero spettro delle attività amministrative e finanziarie della regione, nel caso di squili- brio finanziario, per mezzo dei propri servizi ispettivi (3). Infine, richiamando le ordinarie e consolidate attribuzioni della Corte dei conti già sottoposte avaglio tramite la sent. n. 29/1995, la Consulta ha negato la fondatezza di altri sospetti d’illegittimità costituzionale, precisando che: - le norme messe in contestazione non hanno disciplinato una “nuova forma di controllo” sul sistema regio- nale e locale che sia stato affidato alla Corte dei conti, come erroneamente opinato da tutte le ricorrenti (4); - è costante nella giurisprudenza costituzionale l’affermazione secondo cui legittimamente il legislatore sta- tale conferisce alla Corte dei conti funzioni esercitabili nei confronti non solo delle regioni a statuto ordinario, ma anche delle autonomie speciali (sent. n. 29/1995; in seguito, n. 60/2013; n. 267/2006; n. 179/2007). Ben si comprende, infatti, che attribuzioni fondate sugli artt. 28, 81 e 97 Cost., anche in riferimento all’art. 119 Cost., e al coordinamento della finanza pubblica, non possano incontrare i limiti peculiari dell’autonomia speciale, ma s’impongano uniformemente, perlomeno nei tratti costitutivi ed essenziali, sull’intero territorio della Repubblica; - allo scopo di contemperare l’autonomia costituzionale del sistema regionale con l’interesse unitario alla sana gestione amministrativa e finanziaria, e a soli fini collaborativi, l’art. 3, l. n. 20/1994 ha individuato nella Corte dei conti l’organo al quale riservare il potere di “effettuare e disporre ispezioni e accertamenti diretti”, anche nei confronti delle regioni e delle province autonome. Nel riassumere in due punti ancor più succinti la decisione, salve le ulteriori e molteplici implicazioni della stessa, mi sembra si possa dire che:

(1) Corte cost., 19 luglio 2013, n. 219 (Red. Lattanzi), in questa Rivista, 2013, fasc. 5-6, 500. (2) V. sent. n. 219/2013, cit., punto 14.7 del considerato in diritto. (3) V. sent. n. 219/2013, cit., punto 16.5 del considerato in diritto. (4) V. sent. n. 219/2013, cit., punto 16.3 del considerato in diritto.

429 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

- gli interventi normativi sottoposti a scrutinio di costituzionalità, pur non avendo esteso i poteri di controllo della Corte dei conti, ne hanno con maggior chiarezza confermato la perdurante estensione anche nei confronti delle autonomie territoriali e speciali, in quanto poteri svolti da un “giudice contabile”, che è organo terzo e impar- ziale chiamato a presidiare, in forza del principio del coordinamento della finanza pubblica e in vista del rispetto degli equilibri di bilancio e finanziari, garanzie di rango costituzionale corrispondenti a “interessi unitari”; - lì dove un ampliamento di potestà (sanzionatorie) vi è stato, esso è incorso in profili lesivi delle autonomie territoriali perché il legislatore statale ha allestito una disciplina regolatrice avente tratti indefiniti, senza proce- dere a una più accurata specificazione di presupposti, natura e tempi di svolgimento. Entrambi i precipitati decisionali – insieme con altri (5) di non minore interesse ai fini dell’inquadramento sistematico dell’attuale assetto delle funzioni della Corte dei conti – indubbiamente focalizzano l’attenzione sulla funzione del “controllo”, specie in rapporto a esigenze di compatibilità costituzionale con le autonomie territoriali, ordinarie e speciali. Allo stesso tempo, in presenza di azioni normative dirette alla governance della finanza pubblica che, ne- gli ultimi tempi e sull’onda di contingenze apparse sullo scenario macroeconomico con tassi di alta criticità, hanno inteso disegnare misure reattive capaci di meglio contrastare, in termini di effettività di tutele giustiziali, comportamenti divergenti rispetto agli interessi della finanza pubblica complessiva, le decisioni della Consulta sembrano contenere una sorta di monito implicito indirizzato al legislatore. L’avviso attiene alla necessità che – ove s’intendano affidare alla Corte dei conti più incisivi poteri di con- trasto che superino i limiti del solo sindacato successivo sui bilanci, sugli strumenti di programmazione finan- ziaria e su attività gestionali-amministrative e per quanto il sindacato del magistrato controllore sia già abilitato a effettuare riscontri c.d. di “legalità” – la disciplina di legge debba comunque farsi carico di allestire procedure e misure compiutamente regolate e definite nei loro presupposti, contenuti e modalità di svolgimento. Si può aggiungere che l’indicata necessità, a maggior ragione, diverrebbe pressante qualora, de futuro e dentro una logica di deterrenza, il legislatore intendesse apprestare tutele giudiziali e misure di tipo inibitorio, destinan- dole, ad esempio, a intercettare accadimenti potenzialmente idonei ad alterare o compromettere gli equilibri di bilancio e recare lesioni alla finanza pubblica “prima” del loro consumarsi per intero, così potendosi prontamente ricondurre le azioni amministrative e gestionali nell’alveo della fisiologica regolarità e correttezza. D’altronde, ogniqualvolta le decisioni di un “giudice” superino il confine del solo riscontro di rilevate illegalità e alla declaratoria accertativa si affianchino misure effettivamente ripristinatorie o interdittive (tutte intese in senso lato e senza che le stesse si limitino alla formulazione di “inviti a riesame” sforniti di seguiti resi giuridicamente cogenti), il dictum giudiziale va a incidere in sfere giuridiche soggettive e, per ciò stesso, postula la doverosa e normativamente disciplinata applicazione di puntuali e non rinunciabili garanzie sia so- stanziali, sia procedimentali. 2. L’esercizio di funzioni cointestate Senza dover troppo indugiare sulle connotazioni che fanno da teatro al sistema di tutela giudiziaria affidato alla Corte dei conti, una cifra per l’adeguata lettura dello stesso si rinviene nelle disposizioni della Costituzio- ne, per questa parte rimasta finora intatta. Il percorso attuativo delle previsioni costituzionali, dipanatosi nel tempo, è stato scandito da fasi temporali che hanno costantemente riconfermato il ruolo della Corte dei conti immaginato e disegnato in origine, preci- sandone contenuti ed estensione. Le due “missioni” affidate alla Corte (controllo e giurisdizione) hanno in sé caratteri spiccati di garanzie multiformi o, se si vuole, poliedriche. L’assolvimento di entrambe mira a presidiare l’uso corretto di quanto i cittadini patrimonialmente prestano per il funzionamento della pubblica organizzazione e dei pubblici servizi, nonché a garantire al Parlamento e al Governo che i dettati delle norme e le scelte politiche in tema di finanza e di gestioni pubbliche siano puntual- mente adempiuti dalle amministrazioni pubbliche. Entrambe le attribuzioni, pur restando distinte nei rispettivi presupposti giuridici di esercizio e nelle loro

(5) Corte cost., 7 giugno 2007, n. 179, ivi, 2007, fasc. 3, 260; 20 luglio 2012, n. 198, ivi, 2012, fasc. 3-4, 450; 5 aprile 2013, n. 60, ivi, 2013, fasc. 1-2, 365.

430 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA modalità di esplicazione, si saldano l’una all’altra nel concorrere a tracciare, anche in via preventiva o di deter- renza, itinerari di orientamento per la corretta gestione amministrativa e finanziaria e nel costituire, per ciò che riguarda la finanza pubblica, un assetto binomiale di garanzie allestito in favore della collettività. Proprio quest’unitarietà di garanzia, che vive alla base della “con-titolarità” delle funzioni, rende più saldo e convinto nei cittadini il senso di affidabilità dell’apparato pubblico che appronta risposte ai loro bisogni. Gli studi dedicati al sistema a configurazione binaria sono stati numerosi ed hanno anche ricostruito, talvol- ta con pregevoli sintesi, novità progressivamente verificatesi sul versante del controllo (6), nonché ulteriori e più recenti prospettive (7). In qualche caso, gli studi non hanno mancato di ragionare intorno a dubbi in ordine al “cumulo” sancito in Costituzione, tra l’altro paventati facendo leva su modellistiche astratte di separazione di poteri oppure su letture particolari e segmentate di talune pronunce giurisprudenziali (8). Naturalmente non è questa l’occasione per riprendere in esame il dilemma, dai mille e più risvolti, circa la validità o meno del sistema c.d. “a due pilastri” secondo cui è stata disegnata la garanzia costituzionale per la finanza pubblica. Piuttosto, il tema elettivo del convegno e quello, ben più ristretto, fatto oggetto del presente intervento (che considera solo alcune delle recenti innovazioni legislative) spingono a focalizzare lo sguardo su taluni profili d’intersezione tra le esplicazioni concrete delle due funzioni. Con riguardo al sistema controllo-giurisdizione le principali tappe evolutive susseguite alle originarie pre- visioni costituzionali attraverso l’emanazione di leggi ordinarie hanno contrassegnato: - un’oggettiva dequotazione dell’estensione del controllo di legittimità su atti; - il varo di una disposizione esplicita di legge – superflua dal punto di vista tecnico-giuridico, stante la soglia minima oggi richiesta per la responsabilità amministrativa, ma verosimilmente resasi necessaria per qualche ricorrente disattenzione operativa – che esclude la gravità di colpa e preclude l’azione di responsabilità allorché un determinato atto sia stato sottoposto a controllo preventivo con visto e l’esito del riscontro sia stato positivo (9); - il farsi strada di parametri o regole di giudizio (efficienza, efficacia, economicità) espressivi di legalità sostanziale (10); - consistenti mutazioni evolutive che hanno investito, per molti aspetti, strutture, funzioni, procedure e attività di tutte le amministrazioni pubbliche; - significative riforme del bilancio dello Stato e della legge generale di contabilità; - l’affidamento alla Corte dei conti, a seguito della riforma costituzionale del 2001 e “ai fini del coordina- mento della finanza pubblica”, del compito di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di comuni, province, città metropolitane e regioni, in relazione al patto di stabilità interno e ai vincoli derivanti dall’appar- tenenza dell’Italia all’Unione europea (l. n. 131/2003) (11).

(6) G. Corso, La Corte dei conti fra controllo e giurisdizione, in Attidei convegni di Studi amministrativi, Milano, Giuffrè, 2006, 79 ss. (7) M. Ristuccia, La Corte dei conti quale strumento di governance, in Dem. dir., n. 3-4, 2001, 39 ss.; U. Allegretti, Control- lo finanziario e Corte dei conti: dall’unificazione nazionale alle attuali prospettive, in Rivista on line dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 1, 8 marzo 2013. (8) V., in primis, Corte cost., 27 gennaio 1995, n. 29, in questa Rivista, 1995, fasc. 1, 355, lì dove (considerata in diritto n. 11.4) si fa cenno ai rapporti tra attività giurisdizionale e controllo sulla gestione e si parla di un “punto di arresto” che proceduralmente delimita e separa le due funzioni. (9) L’art. 1, c. 1, l. n. 20/1994, come modificato dal d.l. n. 78/2009, dispone: “In ogni caso è esclusa la gravità della colpa quan- do il fatto dannoso tragga origine dall’emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limi- tatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo”. (10) V. in tema e per tutte: Cass., S.U., 29 settembre 2003, n. 14488, ivi, 2003, fasc. 6, 213. (11) La materia del “coordinamento della finanza pubblica” è tra quelle enumerate nell’art. 117 Cost., che hanno alimentato ri- correnti e mai sopiti dubbi interpretativi. La commissione per le riforme costituzionali istituita con d.p.c.m. dell’11 giugno 2013, nel presentare la propria relazione finale in data 17 settembre 2013 e facendo riferimento a imperfezioni delle modifiche del titolo V della Costituzione varate nel 2001, ha segnalato “La necessità di alcune correzioni è peraltro apparsa opportuna anche all’inter- no della stessa competenza esclusiva statale, in relazione all’esigenza di riformulare quelle materie trasversali (come “coordina- mento della finanza pubblica”) che hanno dato luogo a forti invasioni delle competenze regionali”.

431 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

A tutto ciò si è aggiunto un potenziamento di poteri accertativo-decisionali affidati alla magistratura con- tabile, che è conseguente all’evoluzione dell’ordinamento in dimensione sopranazionale e, negli ultimissimi tempi, a una grave crisi internazionale che espone a dura prova le finanze pubbliche, ma anche le economie reali di molti paesi, tra cui il nostro. 3. Snodi processuali da percorrere Il recente potenziamento di attività giustiziali aventi a oggetto deliberazioni di controllo e altri atti (dinieghi e approvazioni di piani di riequilibrio, parificazione dei rendiconti regionali e dei rendiconti delle spese dei gruppi consiliari, elenchi annuali Istat delle amministrazioni pubbliche) è avvenuto attraverso disposizioni di legge che hanno dedicato un’attenzione obiettivamente approssimativa ai profili processuali, lasciando all’in- terprete il compito di definire con precisione la legittimazione soggettiva a stare in giudizio, il puntuale catalo- go degli atti impugnabili, l’interesse a ricorrere. Se a ciò si somma il dato, non nuovo né ignoto, della disponibilità presso la Corte dei conti di un corpus di disciplina processuale che è temporalmente datato, lacunoso e frammentato, sinora sottoposto solo a sporadici e disorganici innesti o manipolazioni normative, diventa inevitabile prefigurare difficoltà nelle quali andrà a imbattersi la concreta realizzazione dei nuovi giudizi. I primi sforzi diretti a sopperire alle più vistose carenze normative per via esegetica o con diramazione di linee di orientamento nomofilattico, certamente lodevoli, sono stati non pochi (12). Qualche esempio in dettaglio può trarsi da quanto è avvenuto per i giudizi aventi a oggetto ricorsi proposti avverso le delibere di approvazione o diniego dei piani di riequilibrio finanziario pluriennale e di dissesto degli enti locali e per i giudizi di parificazione dei rendiconti delle regioni. Relativamente ai primi, è stato affermato in punto di diritto, con portata tendenzialmente “espansiva” e non tipizzata quanto agli atti concretamente impugnabili, che “le delibere delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, come ‘atto di effettivo esercizio del potere di controllo’ riconosciuto alla Corte dei conti dalle norme vigenti, nonché in base alla giurisprudenza costituzionale, sono del tutto sottratte al sindacato giurisdi- zionale di altri giudici diversi dalle Sezioni riunite della stessa Corte in speciale composizione” (13). Relativamente, invece, ai giudizi di parificazione dei rendiconti regionali, alcuni approdi interpretativi sono stati netti: così, ad esempio, è stato affermato che l’attività giudiziale è “attività di controllo”, se pure svolta con formalità della giurisdizione contenziosa. Altri approdi hanno seguito percorsi argomentativi più sfumati. In verità e in generale, non sembra si possa negare che fosse indispensabile, a monte, una più accurata regolazione normativa. Al legislatore del 2012 che ha disciplinato innovativamente la materia si imponeva, almeno, l’opportunità di tenere conto di numerosi precedenti da lungo tempo maturati nella giurisprudenza regolatrice della giurisdizione. La Corte di cassazione, più volte in passato (14), ha chiarito che gli “atti di controllo” sono (in assoluto) sottratti al sindacato giurisdizionale ammesso dall’art. 113 Cost. contro gli atti della pubblica amministrazio- ne, trattandosi di atti provenienti da un organo estraneo all’apparato della pubblica amministrazione, emanati nell’esercizio di una funzione imparziale, svincolata dall’indirizzo politico e amministrativo del governo. Ovviamente un’espressa interpositio legislatoris (nei casi di specie: quella realizzata attraverso le norme che hanno assegnato alla Corte dei conti l’esercizio di funzioni “giudiziali” aventi a oggetto atti di controllo) è da ritenere strumento certamente ammissibile. Ma l’assenza o la carenza di una disciplina processuale destinata a regolare compiutamente lo svolgimento di un “giudizio” è elemento che, se vistosamente grave e non adeguatamente rimediabile neppure per via ese- getica, potrebbe esporre la stessa interpositio a sospetti di illegittimità costituzionale. Di qui l’opportunità che nel corso dello sviluppo applicativo delle nuove norme siano affrontati, quanto prima possibile e con scrupolosa chiarezza, alcuni “snodi processuali”.

(12) V. Sez. autonomie, 26 marzo 2013, n. 9, in questa Rivista, 2013, fasc. 3-4, 110; 5 luglio 2013, n. 15, ibidem, 123; Sez. riun., 31 dicembre 2012, n. 31, ibidem, fasc. 1-2, 11; 14 giugno 2013, n. 7, ivi, 2013, fasc. 3-4, 6; Sez. riun. (spec. comp.), 12 giugno 2013, n. 2, ibidem, fasc. 3-4, 301; 11 luglio 2013, n. 3, ibidem, fasc. 5-6, 258. (13) V. Sez. riun. (spec. comp.), 12 giugno 2013, n. 2, ibidem, 2013, fasc. 3-4, 301. (14) V. Cass., S.U., 23 novembre 1974, n. 3806; 8 ottobre 1979, n. 5186; n. 5762/1988, n. 8449/1988, 25 maggio 2001, n. 220.

432 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

In modo estremamente conciso, possono essere enumerati alcuni temi di rilievo in proposito, che indicano la necessità di ancorare i giudizi su “atti di controllo” ai seguenti principi minimi non rinunciabili: - un giudice neutrale e terzo, che in quanto tale non “faccia amministrazione”, ma nel contempo che non sia soltanto una “autorità di regolazione generale” le cui decisioni debbano essere poi rese ulteriormente giustizia- bili quando e se applicate a situazioni individualizzate; - il perseguimento del principio di economia processuale, il quale postula che della risoluzione della me- desima questione non siano investiti contemporaneamente, o comunque con identica potestà cognitiva, più giudici; - una tutela giudiziale che, rispetto all’oggetto della cognizione e della pronuncia, segua percorsi processua- li tali da renderla erogabile come bilanciata, equidistante-neutrale e comprensiva di valutazioni rispettose degli “interessi generali” e di “autonomie decisionali” coinvolte; - una procedimentalizzazione che non sia vaga e indefinita, ma sia puntuale ed esaustiva e, per questo, pre- veda anche momenti e modalità di formalizzata emersione degli interessi sostanziali coinvolti; - l’irrinunciabile osservanza di alcuni principi basilari, tra cui quello del contraddittorio, da considerare garanzia minima indefettibile in tutti i procedimenti giurisdizionali, paragiurisdizionali o giustiziali in senso lato destinati a sfociare in una “decisione” assunta da un organo terzo (giudice, arbitro, autorità di regolazione o altro), posto che la decisione va a incidere, con effetti giuridici diretti o indiretti, nella sfera di soggetti dotati di personalità autonoma o di centri d’imputazione di diritti, doveri e interessi da proteggere; - la facoltà, per l’organo chiamato a decidere in base a legge e in quanto “giudice”, di sollevare questioni di legittimità costituzionale che rigorosamente attengano a norme di legge di cui egli stesso debba fare diretta applicazione dicendo “l’ultima parola” su di una fattispecie sottoposta al suo giudizio. Ciascuno dei punti elencati, singolarmente preso, meriterebbe trattazione molto più ampia e argomentata di quella praticabile dentro i limiti di questo intervento programmato. Basti, allora, far risaltare che l’articolato complesso di principi e di garanzie dianzi cennato dovrebbe essere ulteriormente “esploso” e sviluppato con riferimento a ciascuna delle varie forme o procedimenti di controllo (di legittimità su atti, successivo su gestioni amministrative e contabili, su attività degli enti locali, sui rendiconti dei gruppi consiliari, ecc.) e paragiurisdizionali (giudizio di parificazione del rendiconto) che oggi impegnano la Corte dei conti. A questo punto, per economia espositiva, si può ulteriormente restringere lo sguardo soltanto su due delle varie e variegate forme procedimentali innovativamente e da poco tempo introdotte dalla legislazione statale: a) i giudizi attivabili a istanza di parte innanzi le Sezioni riunite in speciale composizione (di cui all’art. 1, c. 169, l. n. 228/2012, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2013 – e all’art. 243-quater, c. 5, d.lgs. n. 267/2000, come introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. r, d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012); b) i giudizi di parificazione dei rendiconti delle regioni a statuto ordinario (di cui all’art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012, cit.). Le due categorie di giudizi hanno strutturazione e caratteristiche differenziali, quanto alla composizione dell’organo giudicante e ai rispettivi ambiti soggettivi e oggettivi, nonché ai contenuti delle potestà cognitive e decisionali che, in ciascuno di essi, esercita il giudice contabile. Nello stesso tempo, entrambe le categorie offrono allo studio e all’esegesi alcuni tratti comuni, in ragione sia di una disciplina normativa abbastanza concisa e per certi versi lacunosa, sia della loro intrinseca capacità di portare in spiccata evidenza problematiche che dottrina e giurisprudenza contabile avevano sinora solo marginalmente scandagliato, peraltro giungendo ad approdi non sempre univoci e mai stabilizzatisi nel tempo. Una prima problematica attiene alla circostanza che, pur se attivabili innanzi a organi collegiali (Sez. riun. spec. comp., oppure sezioni regionali di controllo) diversi per competenza territoriale e per attribuzioni fun- zionali ordinariamente assolte (giurisdizione-controllo), tutti i giudizi in discorso, in ogni caso e in virtù di espliciti rinvii di legge, devono svolgersi “con le formalità della giurisdizione contenziosa” e, quindi, risalendo al disposto dell’art. 103, c. 2, Cost. Una seconda problematica attiene al fatto che, essendosi al cospetto di un “giudice” e di un “giudizio” (sia pure con peculiarità innovative), diventa lecito l’interrogativo se sia innescabile l’accesso “incidentale” alla Corte costituzionale qualora, in corso di giudizio, insorga e sia ritenuta rilevante e non manifestamente infon-

433 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 data una questione di legittimità costituzionale di norma (di legge o di altro atto-fonte avente forza di legge) della quale il giudice contabile debba fare applicazione. Una terza problematica, conseguente e dipendente dalla prima, attiene alla circostanza che in tutti i giudizi è funzionalmente presente e obbligatoriamente interviene l’ufficio del procuratore generale della Corte dei conti, nelle sue articolazioni centrale e territoriali. Relativamente al primo tema (applicazione delle formalità giurisdizionali), la dizione letterale adoperata nei testi di legge non sembra deporre nel senso del recepimento integrale di tutte indistintamente le regole pro- cessuali; peraltro sarebbe arduo individuare a quale specifico “rito” già previsto innanzi alla Corte dei conti e per l’esercizio della giurisdizione debba farsi attingimento, essendo conosciuti vari riti procedimentali, talvolta semplificati o addirittura alternativi a quello ordinario del giudizio di responsabilità amministrativa. Il lessico di legge, tenendo presente quanto segnalato nei precedenti paragrafi, pare volersi riferire a un nucleo essenziale (e minimo) di regole rituali, tra le quali si possono ricordare quelle relative a: - organo decisionale avente composizione rispettosa della regola della precostituzione del “giudice”, dettata dall’art. 25 Cost. e da sostanziare in due aspetti riguardanti, per un verso, la “competenza” predeterminata dalla legge ed esercitata dal giudice e, per altro verso, la composizione “personale” dell’organo giudicante dotato della competenza (15), tenendo altresì conto che il principio della precostituzione vale non solo allorché la pos- sibilità di scelta si presenti tra diversi “giudici-organi”, ma anche allorché tale possibilità si presenti tra diversi giudici “soggetti fisici” impersonanti lo stesso giudice-organo (16); - sequenza prefissata e cadenzata delle “attività processuali” da svolgere; - momento di contraddittorio tra le parti presenti nel giudizio. L’ultimo dei canoni di rito citati, per principi indiscussi, non assume forme tipizzate, generalizzate o iden- tiche in tutti i processi, ma esige unicamente la presenza di uno spatium nel quale le parti presenti nel giudizio, talvolta in via anticipata rispetto a momenti di celebrazione pubblica e in qualche caso in una fase differita, possano adeguatamente illustrare al giudice le proprie ragioni. Relativamente alla proponibilità di questioni di costituzionalità, è sufficiente richiamare per “tappe” un percorso evolutivo registratosi nella giurisprudenza della Corte costituzionale (17). Dopo un primo periodo (fino all’anno 1995) connotato da un approccio limitativo – durante il quale, pur ravvisando nel giudizio di parificazione del rendiconto generale dello Stato la presenza delle condizioni ipotiz- zate dall’art. 1, l. cost. n. 1/1948 per la proposizione di questioni di legittimità costituzionale, ha ripetutamente negato che queste potessero investire “la legge di bilancio o le leggi di spesa, attesa la loro irrilevanza ai fini del decidere” – la Consulta ha compiuto un significativo passo in avanti. Il mutamento d’indirizzo si è reso possibile in considerazione del fatto che “dopo la novella del 1978, il bilan- cio dello Stato ha subito una profonda trasformazione che, da strumento descrittivo di fenomeni di mera eroga- zione finanziaria, lo ha portato a connotarsi essenzialmente come mezzo di configurazione unitaria degli obiettivi economico-finanziari, nel quadro degli indirizzi socio-economici elaborati dal governo e approvati dal Parlamen- to, sicché esso si pone ormai come strumento di realizzazione di nuove funzioni di governo (come la program- mazione di bilancio, le operazioni di tesoreria, ecc.) e più in generale di politica economica e finanziaria” (18). In altre parole, la nuova fisionomia assunta dal bilancio è andata a incidere nel “corpo vivo” della decisione che deve emettere la Corte dei conti, essendo stato il giudice contabile chiamato a verificare, a consuntivo, non soltanto “i modi e la misura in cui le previsioni del bilancio stesso sono state adempiute e i limiti in esso pre- stabiliti rispettati nel corso dell’esercizio”, ma anche il rispetto di “equilibri finanziari” in relazione, tra l’altro, a vincoli posti dalla legge finanziaria. Da qui è scaturito un nuovo avviso della Consulta, secondo cui “là dove vengano denunciate, per contra- rietà con l’art. 81, c. 4, Cost., leggi che determinino veri e propri effetti modificativi dell’articolazione del bi-

(15) Corte cost, 13 dicembre 1963, n. 156. (16) Corte cost., 28 novembre 1968, n. 117. (17) V. Corte cost., 19 dicembre 1963, n. 165, in Foro it., 1964, I, 11; 19 dicembre 1966, n. 121, ivi, 1967, I, 8; 30 dicembre 1968, n. 142, ivi, 1969, I, 252; 30 dicembre 1968, n. 143, ibidem, 251; ord. n. 139/1969; 14 giugno 1995, n. 244, in Rep. Foro it., 1995, voce Contabilità di Stato, n. 29; 9 febbraio 2011, n. 32, ivi, 2011, voce Contabilità di Stato, n. 38; 28 marzo 2012, n. 72, in questa Rivista, 2012, fasc. 1-2, 384; 5 aprile 2013, n. 60, ivi, 2013, fasc. 1-2, 365. (18) V. Corte cost., n. 244/1995, cit. punto 3 del considerato in diritto.

434 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA lancio dello Stato, per il fatto stesso di incidere, in senso globale, sulle unità elementari dello stesso, vale a dire sui capitoli, con riflessi sugli equilibri di gestione disegnati con il sistema dei risultati differenziali di cui all’art. 6 l. n. 468/1978” resta integrato uno dei due presupposti oggettivi indispensabili per accedere allo scrutinio (la “rilevanza” nel giudizio a quo). Il passo in avanti, tuttavia, non sembra sia giunto fino a generalizzare l’accesso al vaglio di costituzionalità qualunque sia la legge denunciata, per qualsiasi parametro, ogniqualvolta sia svolta una funzione di “controllo” e in ragione della sola natura giuridica della funzione esercitata (presupposto soggettivo), ma è stato fatto in considerazione dell’obbligo di verifica del rispetto dell’art. 81 Cost. e con specifico riferimento a questo spe- cifico parametro costituzionale. Pertanto, la giurisprudenza del giudice delle leggi, con riferimento alla funzione di “controllo”, ha sinora mantenuto fermo il perimetro della legittimazione soggettiva del rimettente a sollevare questioni di legittimità costituzionale, circoscrivendola a due ambiti decisionali: il controllo preventivo di legittimità e il giudizio di parificazione del rendiconto dello Stato (19). La ratio limitativa, dunque, sembra essersi basata non tanto e solo sul requisito soggettivo ovvero sul canone/pa- rametro (la legittimità) rispetto al quale essenzialmente valuta e decide il giudice a quo, quanto piuttosto sull’esisten- za di “ammettere al sindacato costituzionale leggi che più difficilmente verrebbero a esso sottoposte per altra via”. Ciò rilevato, sembra difficoltoso affermare – come pure in qualche caso è stato prospettato in ambito dottri- nario – che la Corte costituzionale abbia superato (per il tramite della successiva sent. n. 60/2013) la pregressa limitazione e abbia oramai dischiuso “le porte” di accesso incidentale allo scrutinio di legittimità costituzionale per tutte le attività funzionali “di controllo” in qualunque sede, forma e modalità svolte dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti e per tutte indistintamente le leggi che siano state applicate nel corso delle attività gestionali-amministrative sottoposte a controllo. Per supportare in punto di diritto (e non come mero e pur comprensibile auspicio) un così netto allargamen- to del vigente sistema di accesso al giudizio incidentale di costituzionalità sarebbe necessario almeno poter dimostrare che la legge “indubbiata” in nessun altro modo e per nessuna altra via poteva essere portata al vaglio della Corte costituzionale. Siffatta condizione non sembra sorgere soltanto per il fatto che la Corte dei conti, in sede di controllo, è chiamata a verificare l’avvenuto rispetto, da parte delle amministrazioni assoggettate al riscontro, di norme di legge riferibili agli equilibri finanziari, al patto di stabilità orizzontale e verticale oppure al principio costituzio- nalizzato dell’equilibrio tendenziale di bilancio. Le anzidette norme sono ben denunciabili (finanche in momento antecedente all’effettuazione dello stesso controllo) attraverso altre strade di accesso allo scrutinio di costituzionalità, nel mentre l’ambito cognitivo pre- cipuo del controllo è, e resta, l’osservanza degli equilibri finanziari nel corso di una “gestione amministrativa” e da parte della stessa, piuttosto che da parte di un atto normativo (statale o regionale) al quale quella gestione amministrativa doveva obbligatoriamente conformarsi. Nemmeno si può fare a meno di sottolineare – anche se rappresenta un aspetto ovvio – il fatto che l’applica- zione della norma sospettata di illegittimità costituzionale è avvenuta durante la gestione amministrativa, non certo nel corso del giudizio di controllo che la Corte dei conti esplica sulle risultanze gestionali. Occorre, infine, riconoscere che tutta la problematica così esposta è densa di implicazioni costituzionali e in larga parte esorbita dal tema che qui occupa; essa, pertanto, va destinata ad altra sede di approfondimento. La terza e ultima questione menzionata (la presenza in giudizio del pubblico ministero) esige invece talune puntualizzazioni che involgono la natura stessa del soggetto istituzionale in discorso e, per questa ragione, potrà essere più organicamente riassunta nell’ultimo paragrafo. 4. Quale ruolo per l’ufficio del pubblico ministero? Quando si ipotizzi la presenza del pubblico ministero in “giudizi” che sono sostanzialmente espressivi di esercizio della “funzione di controllo”, lo spettro di analisi rimane necessariamente circoscritto ad alcune, e solo ad alcune, tipologie di procedimenti che d’ora in avanti hanno svolgimento innanzi la Corte dei conti. Si tratta di giudizi che, servendosi della già citata locuzione di cui all’art. 40 del t.u. n. 1214/1934, hanno

(19) V. da ultimo, Corte cost., 9 febbraio 2011, n. 37, ivi, 2011, fasc. 1-2, 338.

435 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 corso, in tutto o in parte, secondo “le formalità della giurisdizione contenziosa” e, per questo motivo, costitui- scono speciali procedimenti che evocano le attribuzioni di cui all’art. 103, c. 2, Cost. La tipologia, per il passato circoscritta ai giudizi di parificazione del rendiconto dello Stato e dei rendiconti di alcune autonomie speciali, a decorrere dal 2012 risulta essere stata legislativamente ampliata. Le “formalità della giurisdizione”, infatti, sono state in vario modo evocate e valgono oggi per: - i giudizi di parificazione dei rendiconti generali (dello Stato e delle regioni a statuto ordinario o speciale); - i giudizi innanzi alle “Sezioni riunite in speciale composizione”, su ricorsi proposti avverso le delibere, emesse dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, di approvazione o di diniego dei piani di rie- quilibrio finanziario pluriennale presentati dagli enti locali per i quali sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario; - i giudizi innanzi alle Sezioni riunite (in speciale composizione) su ricorsi proposti avverso provvedimenti di ammissione al Fondo di rotazione di cui all’art. 243-ter Tuel; - i giudizi innanzi alle Sezioni riunite (in speciale composizione) su ricorsi proposti avverso atti ricognitivi e inclusioni negli elenchi annuali Istat compilati ai sensi e ai fini di cui all’art. 1, c. 3, l. n. 196/2009 (legge di contabilità e finanza pubblica). Per alcune tipologie (i giudizi di parificazione dei rendiconti regionali) il legislatore ha fatto espresso rinvio agli artt. 39, 40 e 41 del t.u. di cui al r.d. n. 1241/1934; per altre, ha adoperato la locuzione “nelle forme dei giudizi a istanza di parte”. Serve notare, sul piano sistematico, che quando risulti utilizzata quest’ultima espressione, per ciò stes- so il giudizio va a inquadrarsi nell’ambito delle già conosciute tipologie procedurali di cui all’art. 58 r.d. n. 1038/1933 (altri giudizi a istanza di parte di competenza della Corte dei conti). Il richiamo delle “forme” previste per i giudizi a istanza di parte, pertanto, permette di desumere che possa- no essere mutuate de plano tutte indistintamente le forme processuali, purché siano compatibili con lo specifico e peculiare ambito cognitivo di volta in volta disegnato dalla nuova previsione legislativa. Tra le forme compatibili s’iscrive il principio generale, già assistito da specifiche ed esplicite regole in rito, secondo cui è obbligatoria la presenza in giudizio del pubblico ministero contabile. L’organo requirente, quando lo Stato non abbia un “interesse diretto” da far valere nel giudizio, conclude solamente all’udienza; in caso diverso, formula le sue conclusioni e le deposita in segreteria (nei trenta giorni antecedenti all’udienza fissata). Inoltre, a tenore dell’art. 72 r.d. n. 1214/1934 (Sez. IX-Norme comuni), tutti i giudizi avanti la Corte dei conti sono pubblici e in essi è sempre sentito il pubblico ministero. Sin qui nulla quaestio. Più impegnativa e complessa sul piano esegetico, invece, appare essere la questione relativa alle connota- zioni intrinseche della “funzione” che assolve il pubblico ministero, dalla legge costituito presso la Corte dei conti e nelle varie articolazioni competenziali e territoriali della stessa. Nel coglierne e tracciarne, in maniera sintetica, contenuti e caratteristiche, si può cominciare con l’eviden- ziare che la Sezione del controllo ha già reso prime indicazioni in ordine alla presenza del pubblico ministero nei giudizi di parificazione dei rendiconti regionali (20). Nella delibera – avuto riguardo allo specifico punto in discorso – è stato ritenuto in parte motiva che la funzione di garanzia dall’ordinamento intestata alla procura regionale si esplica “nella requisitoria del giudizio di parificazione”, mentre nel dispositivo della delibera è stato affermato che: a) gli elementi e le informazioni utili alla decisione di parificazione devono essere acquisiti direttamente dalle sezioni regionali di controllo, che sono le dirette destinatarie del flusso documentale proveniente dalle amministrazioni; b) per consentire l’esercizio della funzione di garanzia dell’ordinamento intestata alla procura regionale nella requisitoria del giudizio di parificazione, le sezioni di controllo mettono a disposizione delle procure regionali i dati e i documenti contabili acquisiti; c) il contraddittorio con gli enti controllati deve essere assicurato durante tutto l’iter procedurale a partire

(20) Corte conti, Sez. riun., n. 7/2013, cit.

436 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA dall’istruttoria e su tutti i temi sottoposti a verifica per essere definito, attraverso successivi affinamenti, prima dell’udienza pubblica, l’oggetto della quale va circoscritto ai soli temi e alle questioni contenuti nelle conclu- sioni dell’istruttoria. In tali limiti devono essere svolti gli interventi dei “soggetti che partecipano all’udienza”. In sostanza: - non sono state considerate eventuali facoltà istruttorie autonome del pubblico ministero, anche per i casi in cui il pubblico ministero, per avventura, non sia messo concretamente al corrente e in tempo utile del flusso documentale su cui si basa poi il giudizio di parificazione; - non è stata considerata la facoltà del pubblico ministero di presentare memorie intermedie o altri atti al “giudice”, se non quella concernente la requisitoria finale (che peraltro non è detto confluisca nella documen- tazione refertuale e ufficiale poi inoltrata alla regione); - il principio del contraddittorio è stato declinato esclusivamente con riferimento al rapporto intercorrente tra il giudice e la regione, senza tenere conto della presenza in giudizio di una “parte pubblica” portatrice d’interessi pubblicistici potenzialmente aventi una dimensione anche sovraregionale (si pensi, per fare un solo esempio, al principio degli equilibri finanziari con riferimento agli “interessi unitari” prescindenti dal territorio, di cui ha parlato la Corte costituzionale nella già citata sent. n. 219/2013); - non sono stati individuati i soggetti abilitati a partecipare all’udienza. Diversa e divaricata è stata la soluzione giurisprudenziale quanto ai giudizi che si svolgono innanzi alle Sezioni riunite in speciale composizione. In questi casi, pur al cospetto della circostanza che la funzione giudicante assolta è di tipo per così dire misto (controllo e giurisdizione), il pubblico ministero ha potuto svolgere le proprie funzioni in giudizio nelle forme e secondo modalità tradizionali (21). Ciò detto a proposito delle prime applicazioni giurisprudenziali delle nuove norme, merita poi di essere rammentato il fatto che, secondo univoci e da lungo tempo consolidati indirizzi della giurisprudenza anche costituzionale, il pubblico ministero contabile, in tutti i giudizi nei quali la legge preveda la sua presenza, inter- viene ed opera a tutela dell’ordinamento e degli interessi generali e indifferenziati della collettività. Nel contempo, ove ne sussistano i presupposti giuridici, per questa via e senza assumere in proprio la veste di “parte intesa in senso sostanziale”, il pubblico ministero è presente e agisce anche a tutela degli interessi concreti e particolari di singoli e di amministrazioni pubbliche. Il tema del ruolo del pubblico ministero, storicamente, è stato ripetutamente analizzato. L’affollata confluenza di numerose occasioni e profili di analisi – che nel loro complesso, e forse proprio in ragione dell’affollamento, scontano qualche commistione argomentativa e talune imprecisioni se riguardati alla stregua delle categorie dommatiche tradizionalmente elaborate dalla teoria giusprocessualistica, risalta sol che ci si accosti a un riepilogo retrospettivo delle varie posizioni esplicitate in ordine alla “figura” del pubblico ministero costituito e operante presso la Corte dei conti. Un primo lavoro ricostruttivo, risalente al 1955 (22), prese avvio dalla “vaga formula” di cui all’art. 1 del t.u. approvato con r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 “Il procuratore generale e i vice procuratori generali rappre- sentano presso la Corte il pubblico ministero” e realizzò un’estesa disamina della figura, mettendo in luce che compiti e attribuzioni concretamente formatisi nel tempo avevano tratto spunto “più che dalle norme legislati- ve, dalla stessa vita dell’organo concretatasi attraverso proteiformi manifestazioni”. L’analisi dottrinaria, snodandosi attraverso le varie figure del pubblico ministero “agente” o attore, “resi- stente” o convenuto, “interveniente” o concludente, di fronte al “potere sindacatorio della sezione giudicante”, nel sistema “di controllo della Corte dei conti”, nei giudizi pensionistici e infine nei giudizi c.d. “ad istanza di parte”, offrì uno spaccato a tutto tondo delle diverse posizioni e facoltà processuali intestate all’organo. Tutta- via, la medesima analisi si limitò a ricondurre il discorso nell’alveo di notorie discussioni concernenti la figura del pubblico ministero nel processo civile e nelle differenti ipotesi ivi previste, non senza richiamare l’insuffi- ciente approfondimento già in passato riscontrato da un’autorevole dottrina civilistica (23).

(21) V. Corte conti, Sez. riun. (spec. comp.), 12 giugno 2013, n. 2, in questa Rivista, 2013, fasc. 3-4, 301; 11 luglio 2013, n. 3, ibidem, fasc. 5-6, 258. (22) L. Greco, Il pubblico ministero della Corte dei conti, in questa Rivista, 1955, I, 77 ss. (23) E. Allorio, Il pubblico ministero nel nuovo processo civile, in Riv. dir. proc. civ., 1941, I, 21 ss.

437 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Nel corso degli anni Settanta il tema fu più volte ripreso, anche se le nuove riflessioni, pur dando atto della pro- blematica generale esistente sullo sfondo circa l’indipendenza dell’organo del pubblico ministero rispetto al potere esecutivo, si concentrarono sul dilemma, indissolubilmente correlato a numerose e pressanti questioni di diritto sostanziale, volto a stabilire se il pubblico ministero presso la Corte dei conti sia “rappresentante dell’interesse obiet- tivo dell’ordinamento, ovvero rappresentante dell’interesse dello Stato, nella specie, dello Stato-amministrazione”. Uno studio del 1977 provò a delineare una sorta di summa divisio tra giudizi “in materia di contabilità pub- blica” (tra cui i giudizi sui conti), necessari e attivati a istanza dell’organo di giustizia) ed “altri giudizi affidati alla giurisdizione della Corte dei conti nel quadro del sistema generale della giustizia amministrativa” (24). Per i primi tipi di giudizio, fu ritenuto presupposto pacifico il fatto che il pubblico ministero è portatore “di un interesse generale all’attuazione della legge”. Ciò, si affermò, vale sia per il caso che il pubblico ministero attivi egli stesso il processo, sia nei casi in cui assuma altra posizione processuale (es. giudizi, creati per via pretoria, aventi ad oggetto il c.d. accertamento negativo di responsabilità o giudizi per aggio esattoriale e per rimborso di quote inesigibili). Per la seconda tipologia classificatoria di procedimento (i giudizi pensionistici e i giudizi sul rapporto di im- piego del personale dipendente della Corte dei conti o di c.d. giurisdizione domestica, successivamente espunta dall’ordinamento), si fece invece leva su di una decisione remota (Corte conti, Sez. riun., 17 maggio 1991) per sostenere una tesi sostanzialmente analoga (il pubblico ministero contabile è portatore dell’interesse alla tutela della legge) e per tacitare le serie critiche sistematiche al riguardo provenienti dalla dottrina civilistica (25). È significativo notare come il dibattito narrato nel citato studio del 1977, svincolandosi da puntuali correla- zioni a norme di diritto positivo, preferì incentrarsi sulla “natura giuridica” della responsabilità amministrativa, così risentendo della storica e mai sopita contrapposizione tra le teorie cosiddette contrattualistiche e le teorie extra contrattualistiche o sanzionatorie, rafforzate queste ultime con l’argomento dell’esistenza del c.d. “potere riduttivo dell’addebito”. Il filo conduttore della riflessione teorica, in altri termini, si concentrò sulla questione se l’interesse di cui è portatore il pubblico ministero sia quello “patrimoniale-risarcitorio” in senso stretto dell’amministrazione danneggiata oppure sia un “interesse collettivo e diffuso” alla tutela di beni essenziali per la collettività. Un primo e più pertinente accostamento al tema sembra essere rinvenibile in un approfondimento che trasse occasione da una sentenza della Corte di cassazione pronunziatasi in ordine alla citazione, nel giudizio cassa- torio, del procuratore generale della Corte dei conti (26). La tesi dottrinaria si mostrò favorevole alla chiamata in giudizio del procuratore generale e non dell’ammi- nistrazione (quest’ultima con la rappresentanza e difesa dell’Avvocatura dello Stato), facendo perno su di uno stretto e indissolubile parallelismo tra “legittimazione ad agire” e “legittimazione a contraddire”, contestando la diversa costruzione teorica del Carnelutti (il quale, com’è noto, evocò gli esempi della sostituzione proces- suale per separare e distinguere la legitimatio ad causam dalla legitimatio ad processum). Circa le modalità di attuazione pratica della norma di cui all’art. 71 r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 (che recita “le decisioni della Corte dei conti possono essere impugnate davanti la Corte di cassazione, tanto dalle parti quanto dal pubblico ministero con ricorso per annullamento per motivi di competenza o eccesso di potere”) la posizione enunciata nello studio del 1970 si articolò in un maggior dettaglio. Dopo aver premesso la suggestività di un potere processuale attribuibile al pubblico ministero ordinario, ne fu tuttavia avversata l’effettiva praticabilità, in ragione sia del tenore testuale dell’art. 71 cit., sia delle diversità di posizioni rivestite nell’ordinamento rispettivamente dal pubblico ministero ordinario e dal pubblico ministe- ro contabile, sia delle significative diversità funzionali tra le due “giurisdizioni” (quella contabile è speciale) cui si riferiscono i due organi. Nel corso degli anni Ottanta il dibattito sul tema teorico si riaccese, a seguito di altre pronunce della Cas- sazione:

(24) M. Vari, Il procuratore generale della Corte dei conti organo del pubblico ministero nei giudizi di contabilità pubblica, in Cons. Stato, 1977, II, 988 ss. (25) L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, 1910, I, 426. (26) La sentenza è del 30 novembre 1966. Il lavoro dottrinario è quello di F. Pasqualucci, Il procuratore generale presso la Corte dei conti nel ricorso per giurisdizione di fronte alla Corte di cassazione, in Studi in onore di Ferdinando Carbone, 1970, 1253 ss.

438 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

- le prime due, emesse in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, esclusero che il procuratore ge- nerale della Corte dei conti debba essere rappresentato e difeso in giudizio dall’Avvocatura dello Stato, essendo presente davanti alle Sezioni unite attraverso il procuratore generale costituito presso la Corte di cassazione e conclusero per l’unicità della figura del “procuratore generale”, ancorché con organizzazione differenziata e autonoma presso le varie sedi in cui esso è dislocato, cioè presso i vari collegi giudicanti (tribunali-Corte dei conti-tribunali militari) (27); - la terza decisione, in sede d’impugnativa cassatoria di sentenza definitiva emessa dalla Sezione siciliana di appello, dopo aver dato atto della titolarità dello ius postulandi spettante al pubblico ministero contabile in quanto agente in nome proprio e non “per conto” dell’amministrazione danneggiata o nella veste di “sostituto processuale”, escluse che il procuratore generale presso la Corte dei conti, nella specie resistente e ricorrente incidentale, debba stare in giudizio innanzi la Corte di cassazione con l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato, essendo rappresentato all’udienza dal procuratore generale presso la Corte di cassazione (28). Ancora una volta, in un fragoroso silenzio della dottrina generale, il dibattito tutto interno alla magistratura con- tabile rinfocolò e prese nuovo vigore, attraverso due note di commento dedicatesi a cogliere l’avvenuta sottolineatura del principio di unicità dell’ufficio del pubblico ministero e il definitivo accantonamento delle teorie che avevano postulato l’assistenza tecnica processuale a opera dell’Avvocatura dello Stato o di rappresentanti del libero foro (29). Mentre, però, il primo dei due studi inferì, dalle pronunce cassatorie, la necessità di “nuove incombenze e nuovi moduli comportamentali” del pubblico ministero contabile che non dovessero più “ignorare le opinioni espresse e le conclusioni rassegnate dal procuratore generale presso la Suprema corte”, il secondo approfondi- mento incentrò la propria attenzione sulla discussione in quel momento in corso circa i rapporti tra giudice penale e giudice contabile, nonché sulla natura giuridica dell’azione di responsabilità amministrativa, sulla sua distinzio- ne rispetto alla comune azione civilistica di danno, infine sulla nozione sostanziale di “danno pubblico”. Nel 1992 un’altra sentenza della Cassazione (30), a fronte di eccezione di parte privata volta a far valere un difetto di rappresentanza a opera dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadì l’orientamento già intrapreso: il procuratore generale della Corte dei conti, legittimato a proporre il ricorso come a resistere al ricorso per cassazione avverso le decisioni del giudice contabile, è presente nella fase dibattimentale davanti alle Sezioni unite – stante la c.d. unitarietà della figura del pubblico ministero – attraverso l’organo requirente che partecipa all’udienza e non abbisogna di ulteriore rappresentanza nel giudizio. Non risultano commenti dottrinari in pro- posito, a testimonianza di un principio che è oramai considerato essere non più controverso. Se a questo punto si passa a esaminare lo stesso tema dalla diversa visuale della giurisprudenza costitu- zionale, è agevole notare che il giudice delle leggi frequentemente ha pronunciato in ordine alla figura del pubblico ministero “penale”, cui è stata riconosciuta – sia con sentenze emesse prima della riforma del 1988 e nel vigore del c.d. “regime inquisitorio”, sia successivamente e nel vigore del c.d. “regime accusatorio” – una funzione non coincidente o puntualmente simmetrica rispetto a quella della parte privata. Infatti, sin dal 1970 (16 dicembre 1970, n. 190) fu affermato che il pubblico ministero penale non può es- sere considerato “parte in senso stretto”. Allo stesso modo, molti anni dopo e nel modificato e diverso assetto normativo medio tempore configura- tosi, fu precisato (sent. 15 febbraio 1991, n. 88) che il pubblico ministero penale, al pari del giudice, è soggetto soltanto alla legge e si qualifica come magistrato appartenente all’ordine giudiziario, collocato in posizio- ne istituzionalmente indipendente rispetto a ogni altro potere, non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge. L’affermazione, peraltro, fu ritenuta non collidere con il canone della parità delle parti nel processo, solo formalmente incluso nella novellazione dell’art. 111 Cost. di cui alla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 (perché era canone basilare preesistente e imma- nente a qualsiasi processo), atteso che la garanzia costituzionale può ragionevolmente tollerare “asimmetrie”

(27) Cass., S.U., 2 marzo 1982, n. 1282, 21 ottobre 1983, n. 6178. (28) Cass., S.U., 19 dicembre 1985, n. 6437. (29) Le due trattazioni sono, rispettivamente, di L. Giampaolino, Nuove pronunce delle Sezioni unite sulla figura del procura- tore generale presso la Corte dei conti; sull’intervento nel giudizio per regolamento di giurisdizione; sull’ambito della giurisdi- zione della Corte di conti nei confronti degli enti pubblici economici, in Giust. civ., 1982, I, 2392 ss., e di P. Maddalena, Natura e funzioni del P.M. contabile e ricorso per giurisdizione, in Giur. it., I, 615 ss. (30) V. Cass., S.U., 2 dicembre 1992, n. 12866.

439 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 di poteri tra parte privata e parte pubblica, purché lo “scalino” trovi giustificazione in relazione a oggettive diversità tra le stesse (31). Va altresì ricordato, stavolta prestando mente a riflessioni di tipo normativo, che l’ufficio del pubblico mi- nistero, in generale, ha assunto la sua fisionomia attuale attraverso una lunga evoluzione normativa. Originariamente configurato quale organo dell’esecutivo nell’ambito giudiziario, la tendenza affermatasi a partire dall’emanazione della Carta costituzionale, sia negli interventi normativi mano a mano succedutisi, sia tramite le pronunce del giudice delle leggi, è stata quella di delineare una figura di pubblico ministero piena- mente inserito nella giurisdizione e, pertanto, indipendente e autonomo da ogni altro potere dello Stato. L’attuale ordinamento giudiziario prevede che il pubblico ministero goda delle garanzie costituzionali dell’indi- pendenza esterna e interna. L’indipendenza esterna attiene al rapporto fra il pubblico ministero e gli altri poteri dello Stato. Il significato normativo di tali principi riposa nei precetti costituzionali di cui agli artt. 107 e 112 Cost. (32). Non dissimili considerazioni sulle differenze tra parte privata e parte pubblica la Corte costituzionale ha svolto quanto alla posizione ordinamentale del pubblico ministero contabile. Il ruolo particolare dell’organo di giustizia operante presso la Corte dei conti risulta puntualmente descritto nella sentenza Corte cost., 9 marzo 1989, n. 104, nel punto decisionale in cui si afferma che “Il procuratore generale della Corte dei conti, nella promozione dei giudizi, agisce nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale. Egli rappre- senta l’interesse generale al corretto esercizio, da parte dei pubblici dipendenti, delle funzioni amministrative e con- tabili, e cioè un interesse direttamente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali e indifferenziati; non l’interesse particolare e concreto dello Stato in ciascuno dei settori in cui si articola o degli altri enti pubblici in relazione agli scopi specifici che ciascuno di essi persegue, siano pure essi convergenti con il primo”. La sentenza del 1989 viene richiamata in una più recente sentenza (Corte cost., 19 gennaio 2007, n. 1) che, resa per diversa fattispecie, sostanzialmente conferma e ribadisce la summenzionata e temporalmente pregressa ratio decidendi. In essa la Consulta, dovendo scrutinare in giudizi incidentali promossi con ordinanze della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regione Sicilia, la legittimità costituzionale degli artt. 52, 53 e 54 del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti approvato con il r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, rimedita pregressi orientamenti e dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme censurate, nella parte in cui non prevedono che il ricorso dell’esattore sia notificato all’amministrazione finanziaria e che anche ad essa siano dati gli ulteriori avvisi. La declaratoria osserva inoltre che il giudizio per rifiutato rimborso di quote d’imposta inesigibili “fuorie- sce dallo schema generale dei giudizi contabili, nei quali il pubblico ministero, intervenendo a tutela dell’ordi- namento e degli interessi generali e indifferenziati della collettività (sent. n. 104/1989, cit.), agisce, per questa via, anche a tutela degli interessi concreti e particolari dei singoli e delle amministrazioni pubbliche”. Il giudizio per rimborso di quote inesigibili è a istanza di parte e l’azione è esercitata nell’esclusivo interes- se dall’esattore, il quale è solo uno dei soggetti (attore) del rapporto contabile in discussione, mentre l’ammini- strazione finanziaria, che è l’altro soggetto del medesimo rapporto, resta fuori dal processo. La diversità di trattamento delle parti del rapporto, determinata dalle norme censurate, contrasta con il dirit- to di difesa, con il principio del contraddittorio e con il principio della parità delle parti, sanciti dagli artt. 24 e 111, c. 2, Cost. Pertanto, le norme denunciate, nella parte in cui non prevedono che il ricorso dell’esattore (parte istante) sia notificato all’amministrazione (parte resistente) e che anche a essa siano dati gli ulteriori avvisi, violano precise garanzie costituzionali. Vi è da dire che nell’arco temporale intercorso tra le sentenze degli anni Ottanta e le ultime decisioni della Corte costituzionale si sono registrate, per la Corte dei conti, consistenti innovazioni normative. Le novelle riformatrici del 1994-1996 (leggi n. 19 e 20) e la regionalizzazione diffusa, con l’istituzione di sezio- ni giurisdizionali su tutto il territorio nazionale e la connessa istituzione di uffici del procuratore regionale, hanno spiccatamente mutato il quadro organizzativo dell’organo pubblico di giustizia operante presso la Corte dei conti. L’art. 1 d.l. n. 453/1993 ha sancito che le funzioni di pubblico ministero innanzi alle Sezioni riunite e alle sezioni giurisdizionali centrali sono esercitate dal procuratore generale o da un vice procuratore generale, che

(31) V. Corte cost., ord. 21 dicembre 2001, n. 421; ord. 16 luglio 2002, n. 347; ord. 1 aprile 2003, n. 110. (32) Le considerazioni sono tratte dalla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura, 22 maggio 2003, recante “Pa- rere richiesto dal Ministro della giustizia in data 12 marzo 2003 concernente gli emendamenti approvati dal Consiglio dei ministri sul d.d.l. n. 1296 recante: delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e disposizioni in materia di organico del- la Corte di cassazione e di conferimento delle funzioni di legittimità”.

440 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA presso le sezioni giurisdizionali regionali le funzioni sono esercitate da un procuratore o da altro magistrato assegnato all’ufficio, che il procuratore generale coordina l’attività dei procuratori regionali e questi ultimi, quella dei magistrati assegnati ai loro uffici. Nel contempo, l’art. 6 dello stesso decreto n. 453, quanto al processo pensionistico, ha disposto l’abroga- zione esplicita delle disposizioni che prevedevano e disciplinavano le conclusioni e l’intervento del procuratore generale nei giudizi in materia di pensioni civili, militari e di guerra, facendo però salvi sia il potere dello stesso di ricorrere in via principale nell’interesse della legge, sia il potere di deferire alle Sezioni riunite la soluzione di “conflitti di competenza” e di “questioni di massima”. Dal lungo excursus sin qui ripercorso è possibile trarre qualche riflessione di sintesi, auspicando che possa attagliarsi alle innovative tipologie di giudizi (espressivi di funzioni di controllo, ma svolti nelle forme del “contenzioso giurisdizionale”) delle quali ci si sta occupando in questa sede. Orbene, se una delle “forme” essenziali del contenzioso giurisdizionale è quella del rispetto del principio del contraddittorio, ciò verosimilmente depone e milita nel senso dell’opportunità – compatibilmente con cir- costanze relative a una tempistica molto ristretta e alla varietà dei moduli di approvazione del conto consuntivo da parte delle regioni ordinarie e delle regioni a statuto speciale – di favorire in futuro un itinerario ragionato di interscambio di dati e di documenti contabili, da percorrere ovviamente nel doveroso rispetto delle reciproche autonomie competenziali e valutative tra giudice e pubblico ministero. L’interscambio potrebbe rappresentare un punto di forza avente valenza positiva anche a livello locale, atteso che può condurre a favorire l’instaurazione di un rapporto sinergico tra sezioni e procure regionali. Ciò addirittura – con il maturare di esperienze applicative adeguatamente perfezionabili – potrebbe far rag- giungere un livello di “complementarietà funzionale” tra la relazione della sezione di controllo che pronuncia la parificazione e le osservazioni che il procuratore espone in un giudizio svolto “nelle forme del contenzioso”, probabilmente più alto di quanto sinora si sia potuto registrare a livello centrale per ciò che concerne la parifi- cazione del rendiconto generale dello Stato. Naturalmente una precondizione affinché l’auspicio espresso possa inverarsi nella concretezza delle esperien- ze attuative risiede proprio nelle “sinergie” fattive che si riuscirà ad attivare tra sezioni e procure in sede regionale. In detta prospettiva, è altrettanto auspicabile sia mutuata – ma sia anche meglio organizzata e stabilizzata – la prassi già informalmente sperimentata in sede centrale della partecipazione del procuratore regionale (o di magistra- to da lui delegato) alle “camere di consiglio” che la sezione regionale svolge nella fase preparatoria del giudizio e della deliberazione finale di parificazione (con annessa “relazione” in merito alla legittimità e alla regolarità della gestione e alle eventuali proposte di misure di correzione e interventi di riforma) da rendersi poi in udienza pubblica. Ciò corrisponde a un profilo di rilievo giuridico-normativo e a un’esigenza imprescindibile, che ha già rice- vuto un’importante e dirimente sottolineatura, sia pure implicita, da parte del giudice delle leggi. La Corte costituzionale (sent. 21 marzo 2012, n. 72, in questa Rivista, 2012, fasc.1-2, 384), nel risolvere il conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della deliberazione Corte dei conti, Sez. riun., 30 giugno 2001, n. 36, resa nel giudizio sul rendiconto generale della Regione autonoma Trentino-Alto Adige-Südtirol per l’e- sercizio finanziario 2010, ha avuto occasione di osservare che: - la pronuncia avente per oggetto il rendiconto delle regioni a statuto speciale “non si differenzia dal giudi- zio sul rendiconto generale dello Stato”; - le sfere di competenza della regione e della Corte dei conti si presentano distinte e non confliggenti. Né può dirsi che l’esercizio dell’attività di un organo di rilevanza costituzionale dotato d’indipendenza possa es- sere suscettibile di invadere la sfera di attività della regione, se si accompagna a “osservazioni intorno al modo con cui l’amministrazione interessata si è conformata alle leggi e suggerisce le variazioni o le riforme che ritenga opportune” (art. 10, c. 2, d.p.r. n. 305/1988); - il contraddittorio nel giudizio di parificazione configura un profilo certamente essenziale, che attiene ad atto avente natura sostanzialmente “giurisdizionale”, anche se il modo in cui il contraddittorio nel concreto si esplica attiene ai limiti “interni” della competenza della Corte dei conti e, quindi, non è suscettibile di tradursi in censure portate al vaglio di legittimità costituzionale quale “improprio strumento di sindacato del modo di esercizio della funzione giurisdizionale”. Infine, ma non per ultimo, può essere utile ricordare che al pubblico ministero interveniente, ai sensi del codice di procedura civile e delle sue disposizioni di attuazione, applicabili in virtù del rinvio dinamico di cui

441 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 all’art. 26 r.d. n. 1038/1033, l’ordinamento processuale riconosce poteri e facoltà che non sono quelli di una parte in senso sostanziale, quanto piuttosto sono espressivi dell’interesse della legge e di altri interessi giuridici collettivi o acefali o adespoti dei quali l’organo requirente è istituzionalmente portatore. Né sembra sia possibile immaginare, alla stregua del diritto positivo e di pacifici principi cardini dell’ordina- mento, che il contraddittorio, nei giudizi di parificazione del rendiconto dello Stato o negli altri di recente introdot- ti dalla legislazione e ora affidati alla competenza della Corte dei conti, sia configurabile come un dialogo intes- suto tra di un unico soggetto-parte (la regione il cui rendiconto è sottoposto al giudizio di parificazione oppure chi ha promosso ricorso in un giudizio a istanza) ed il giudice (la sezione di controllo, sia essa centrale o regionale). Il “giudice”, in qualsiasi giudizio, persino in quelli di volontaria giurisdizione nei quali interviene il pubblico ministero, sicuramente è intestatario, in varie forme, di funzione istruttoria esplicabile anche in proprio e d’ufficio ma, quanto alla realizzazione del principio del contraddittorio, assolve una funzione affatto peculiare ed è – e deve essere – organo collocato in una posizione, appunto “giudicante”, che per definizione è terza e neutrale. Il “contraddittorio” è canone – avente molteplici radicamenti positivi in fonti internazionali, europee e na- zionali, che abbracciano tutte le branche del diritto – non declamabile soltanto in astratto o secondo concezione riduttivamente liturgica, perché si invera e diventa effettiva garanzia giustiziale soltanto quando le parti presen- ti in un giudizio e quelle che a qualsiasi titolo legittimante partecipano a un procedimento siano messe tutte in condizione di esercitare effettivamente la facoltà di interloquire anche sul piano probatorio, così dando luogo a un meccanismo di “conoscenza” capace di conferire alla decisione del giudicante (di qualsiasi giudicante), fermo ogni altro elemento, il più alto grado raggiungibile di razionalità. Il “procedimento” è una seriazione legale di atti amministrativi finalizzati a un atto amministrativo finale, semmai avente contenuto anche decisorio. Il “giudizio”, invece, è un complesso di atti compiuti innanzi a un giudice che si connota per la terzietà e che emette una decisione finale di giustizia, sulla quale riverbera i suoi effetti detta terzietà: in esso, più marcata è la necessità che il giudice, al cospetto delle “parti” legittimate e in aderenza alle “forme processuali”, proceda a un corretto bilanciamento, secondo legge, dei valori e degli interessi coinvolti, che possono essere anche antagonisti. Se dette prospettazioni di diritto, accolte in accezione sostanziale e non solo nominalistica o declamatoria, giungeranno a divenire patrimonio consolidato nell’esegesi delle nuove norme presso la Corte dei conti o, in alternativa, fossero oggetto di più compiuta regolazione normativa, a ragion veduta e per tutti indistintamente i nuovi giudizi caratterizzati da esercizio delle funzioni di controllo, si potrà parlare di un “giudice” che dalla legge è stato chiamato a ius dicere in tema di osservanza degli equilibri finanziari e della spesa.

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III

TRASPARENZA E LOTTA ALLA CORRUZIONE

BREVI NOTE SULL’EVOLUZIONE DELLE REGOLE DI TRASPARENZA NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

di Giorgio Giovannini

1. Desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo convegno e, in primo luogo, il Presidente Giampaolino per avermi dato l’opportunità di presiedere questa sessione dei lavori. Da molti anni ormai il convegno di Varenna costituisce uno degli appuntamenti più significativi per gli studiosi e gli operatori del diritto pubblico e amministrativo e, quindi, del ruolo che mi è stato oggi affidato non posso che essere estremamente grato. Sui problemi specifici che questo pomeriggio vengono in esame lascio ovviamente la parola agli autorevoli relatori.

442 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Brevemente vorrei solo soffermarmi su talune linee di fondo della c.d. trasparenza amministrativa, viste dall’angolo visuale proprio di noi giudici amministrativi e del tipo di contenzioso che siamo chiamati ad af- frontare. Una prima osservazione di fondo è questa: credo che pochi settori del diritto amministrativo abbiano avuto nel tempo una evoluzione così intensa ed incisiva come appunto quello della trasparenza. Il nostro ordinamento è in realtà partito da una posizione prevalente di chiusura delle pubbliche amministra- zioni a forme di conoscenza del proprio operato nei riguardi della collettività. Ho visto che in dottrina qualcuno ha ascritto questo carattere alla derivazione del primitivo sistema ammi- nistrativo italiano da quello francese degli inizi dell’ottocento, sistema quest’ultimo caratterizzato da una forte connotazione dell’autoritarietà della pubblica amministrazione. Su questo carattere di fondo inizialmente non spiegò influenza neppure il sopravvenire della Costituzione, malgrado in essa fossero presenti i germi per il superamento di tale situazione, come là dove imponeva alle pubbliche amministrazioni i principi dell’imparzialità e del buon andamento o là dove dichiarava i pubblici im- piegati al servizio esclusivo della Nazione. Ciò senza poi voler considerare che in realtà il canone di trasparenza dell’amministrazione dovrebbe ritenersi un valore intrinseco insito nel carattere democratico dell’ordinamento. Fatto sta, comunque, che ancora nel 1957, in sede di emanazione dello statuto degli impiegati dello Stato, si disponeva (art. 15) che l’impiegato dovesse mantenere il segreto d’ufficio e non potesse dare a chi non ne avesse diritto informazioni o comunicazioni relative a provvedimenti e operazioni amministrative, quando potesse derivare danno per l’amministrazione o per i terzi. Ancora nel 1957, cioè, il legislatore si preoccupava di porre norme di chiusura piuttosto che di apertura alla conoscenza dell’operato delle pubbliche amministrazioni. Scarsa, d’altro canto, è stata la riflessione svolta dalla giurisprudenza su tale norma, stante il minimo nume- ro di casi sottoposti al suo giudizio, segno evidente questo anche che nella stessa collettività l’esigenza della trasparenza delle pubbliche amministrazioni non era sufficientemente avvertita. 2. La svolta è avvenuta sul finire degli anni Ottanta, quando presso la Presidenza del consiglio dei ministri venne istituita una commissione di studio, presieduta dal prof. Mario Nigro, la quale elaborò un corposo ar- ticolato in materia di accesso agli atti delle amministrazioni, testo il quale muoveva dall’opposto principio di apertura di queste ultime alla conoscenza degli atti da parte dei singoli interessati. Questo testo venne combinato con quello che altra commissione di studio predispose in materia di procedi- mento amministrativo e dette quindi vita – dopo qualche indugio che amareggiò non poco Mario Nigro (v. M. Nigro, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni dell’amministrazione (a propo- sito di un recente disegno di legge, in Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazione dell’amministrazione – Atti del Convegno Messina-Taormina, 25-26 febbraio 1988, Milano, Giuffrè, 1989, 3 ss.) – alla l. n. 241/1990, la quale, più volte modificata ed integrata costituisce oggi, come è noto, uno dei testi normativi fondamentali del diritto amministrativo. Sfogliando la giurisprudenza formatasi all’indomani dell’entrata in vigore della legge, emerge con chia- rezza come il giudice amministrativo abbia assunto fin dall’inizio un orientamento volto a dare alle norme sull’accesso l’interpretazione più ampia e liberale possibile. Ciò fece anzitutto riguardo alla individuazione delle amministrazioni soggette all’accesso, tra le quali – pur in mancanza di una espressa previsione in tal senso nelle norme del tempo – annoverò anche le amministrazioni aventi veste privatistica e i privati comunque investiti di compiti di carattere pubblico, come venne poi espres- samente stabilito nel 1999 e ribadito nel 2005 attraverso alcune delle tante modifiche della legge n. 241 (v. per tutte, Cons. Stato, A.p., 5 settembre 2005, n. 5). Più complessa – ma sempre nel senso della più estesa possibile applicazione dell’accesso – è stata l’elabo- razione giurisprudenziale circa l’individuazione dei singoli legittimati a esercitare l’istituto. Qui, a fronte dell’originaria formulazione della norma, ci trovammo nella possibilità o di affermare che legittimato all’accesso è colui il quale sia già titolare di una situazione sostanziale di diritto soggettivo o di inte- resse legittimo compiuta in ogni suo aspetto alla quale acceda l’interesse all’ostensione del documento, ovvero di dire che in qualche modo l’accesso è posto a tutela di una posizione giuridica a sé stante diretta a fruire della trasparenza dell’amministrazione. Ed è appunto in questo secondo senso che la nostra interpretazione si è orientata, anche in parte forzando

443 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 la dizione della norma sulla legittimazione riscritta nel 2005 e portando così di fatto, come è evidente, all’am- pliamento massimo della sfera soggettiva dei titolari del diritto di accesso. Sono tuttora ricorrenti quindi le affermazioni secondo cui l’accesso è consentito non soltanto a coloro che siano concomitantemente titolari di una posizione correlata di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma anche a coloro che vantano un interesse differenziato e qualificato all’ostensione, finalizzato alla tutela di si- tuazioni giuridiche soggettive anche soltanto potenziali o future (v. da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974 e giurisprudenza ivi richiamata). In relazione a tale profilo, il limite all’accesso è stato quindi rinvenuto soltanto nei casi della assenza di al- cuna posizione giuridica sostanziale, sia pure in fieri, connessa alla conoscenza degli atti, ovvero nelle richieste motivate da mera curiosità o addirittura da puro spirito emulativo. È da aggiungere che ad ampliare la platea dei fruitori del diritto di accesso e, quindi, a rendere più esteso il valore di trasparenza delle pubbliche amministrazioni molto hanno contribuito le iniziative delle associazioni dei consumatori e degli utenti. Infatti è stato fin dall’inizio a esse riconosciuto il diritto di accesso nella loro qualità di esponenti, a norma del rispettivo statuto, di interessi diffusi. Di modo che quell’accesso che andava negato al singolo stante l’as- senza di una sua sufficiente posizione differenziata, doveva e deve invece essere riconosciuto all’associazione in quanto per essa tale differenziata posizione deriva dalla sua rappresentatività di una pluralità di interessi omogenei (v. Cons. Stato, Sez. VI, 22 maggio 2006, n. 2959; Cons. Stato, Sez. V, 16 gennaio 2004, n. 127). Così, ad esempio, è stato riconosciuto il diritto di accesso ad un’associazione di consumatori agli atti recanti il monitoraggio dell’attività del servizio postale in determinati anni. Così esso è stato riconosciuto agli atti ri- guardanti le caratteristiche tecniche dei macchinari erogatori dei biglietti dei mezzi pubblici di trasporto; e così via. In questi casi, invece, l’accesso richiesto dal singolo sarebbe stato dichiarato inammissibile per difetto di un interesse legittimante (Cons. Stato, n. 127/2004, cit). Le associazioni hanno peraltro poi posto altri problemi, perché interpretando con eccessiva ampiezza il loro ruolo, hanno talora chiesto di esercitare l’accesso a una serie indefinita di documenti, in vista di un controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione, che la giurisprudenza ha però sempre negato e di cui è stato poi previsto espressamente il divieto con le modifiche alla legge n. 241 apportate nel 2005 (v. Cons. Stato, Sez. IV, 2 novembre 2004, n. 7069; Sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2283). Per dovere di completezza è da avvertire che a questo quadro normativo e ai conseguenti indirizzi giurispru- denziali ha sempre fatto eccezione la materia dell’ambiente. Qui il diritto alla conoscenza delle informazioni – non degli atti – è stato riconosciuto in capo a chiunque, e dunque indipendentemente dal possesso di alcuna particolare posizione legittimante. Questo è avvenuto ancor prima del 1990 con la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente del 1986 (art. 14, c. 2, l. 8 luglio 1986, n. 349) e successivamente ribadito dal d.lgs. 25 febbraio 1997, n. 39, attuativo della direttiva comunitaria 90/313/Cee e poi dal d.lgs. 19 agosto 2005, n. 195, attualmente vigente, a sua volta attua- tivo della direttiva comunitaria 2003/4/Cee. 3. A un certo punto questa forma di conoscibilità degli atti dell’amministrazione è apparsa per così dire asfittica, onde se n’è affiancata altra, costituita dall’obbligo di procedere alla pubblicazione di determinati atti e informazioni, indipendentemente da qualsiasi richiesta di parte. Già il codice dell’amministrazione digitale del 2005 ha disposto a carico delle pubbliche amministrazioni la creazione di un proprio sito web e l’inserimento in esso di una nutrita serie di informazioni circa la loro or- ganizzazione e taluni più rilevanti loro atti. Ma il testo normativo che più corposamente e – direi – più ragionatamente ha proceduto in tal senso è stato il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, attuativo della delega di cui alla l. 4 marzo 2009, n. 15, meglio noto come “riforma Brunetta” della pubblica amministrazione. Esso ha in particolare prescritto l’“accessibilità totale”, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organiz- zazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti. La filosofia che è alla base di tale previsione muove dalla differente connotazione economica dei beni e servizi privati, da una parte, e dei beni e servizi pubblici, dall’altra. In questo senso per i beni e servizi privati il prezzo ha

444 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA un sistema di determinazione e controllo costituito dal mercato e governato dalle leggi economiche della domanda e dell’offerta. Viceversa i beni e servizi pubblici, nella maggior parte dei casi, presentano un costo che non riceve analoga validazione di mercato, perché il corrispettivo è fissato il più delle volte secondo le regole autoritative della fiscalità. Conseguentemente l’efficienza della produzione privata dei beni e servizi trova nella risposta del mercato il suo riconoscimento o meno, mentre ciò non avviene con riguardo all’efficienza della pubblica ammi- nistrazione. Di qui sorge la necessità, secondo appunto il legislatore del 2009, di strumenti succedanei volti ad assicurare il riscontro dell’economicità ed efficienza della produzione dei beni e servizi pubblici (v. R. Brunetta, Una nuova stagione per la pubblica amministrazione, in I tre assi, a cura di G. Amato e R. Garofoli). Questi strumenti nella stessa legge delega e poi nel decreto delegato sono stati individuati nella fissazione di standards delle prestazioni, di responsabilizzazione dell’apparato burocratico, di incentivazione economica della dirigenza pubblica secondo criteri meritocratici, nonché in ulteriori elementi tra i quali, appunto, un ruolo determinante è stato attribuito alla trasparenza di taluni degli atti dell’amministrazione che siano maggiormente rivelatori della qualità delle sue performances. Il legislatore del 2009 ha ritenuto, cioè, che la trasparenza, attraverso la più compiuta conoscibilità dell’o- perato delle pubbliche amministrazioni, costituisca elemento atto a formare il giudizio della collettività sull’ef- ficienza dell’amministrazione e rappresenti il presupposto per rimediare alle sue disfunzioni e per stimolarne il buon andamento. Non per nulla, quale mezzo di tutela rispetto agli aspetti qualitativi dell’operato delle pubbli- che amministrazioni, è stato contestualmente introdotto l’istituto della c.d. class action. In questo quadro è chiara la distinzione tra la disciplina della trasparenza del 1990 e la disciplina della trasparenza del 2009: nel 1990 la trasparenza è posta a servizio dell’interesse del singolo e opera nei limiti di tale interesse, sia pure latamente inteso, come ho indicato prima; nel 2009 la trasparenza ha per scopo prima- riamente quello di perseguire il pubblico interesse all’efficienza ed al buon andamento delle pubbliche ammini- strazioni attraverso lo stimolo che ne può derivare dalla conoscenza degli atti da parte della collettività e dalla reazione che da questa può sorgere a fronte di criticità e disfunzioni. 4. Questa stessa linea di utilizzo della trasparenza per il perseguimento del retto operare dell’amministra- zione è stato successivamente ripreso ed esteso ad altri ambiti, primo fra tutti quello della lotta alla corruzione. Dopo qualche tappa intermedia (come l’art. 18 d.l. n. 83/2012, c.d. “decreto sviluppo” e l’art. 9 d.l. n. 179/2012, c.d. “cresci Italia”), giungiamo da ultimo al d.lgs. n. 33/2013, che disciplina sistematicamente gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. Il decreto ingloba, rielabora e riorganizza sia le disposizioni del 2009 sia quelle antecedenti e successive ed altre poi ve ne aggiunge, allo scopo di realizzare, come dicevo, attraverso la trasparenza, il controllo della collettività sia sulla efficienza delle pubbliche amministrazioni, sia sulla legalità del loro operare, vista prima- riamente in termini di lotta alla corruzione, intesa in senso lato non soltanto penalistico. In questo quadro l’art. 1, c. 2, evidenzia, forse un po’ enfaticamente, come la trasparenza “concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficien- za nell’utilizzo delle risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione” ed è – prosegue ancora la norma – “condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali”. Il d.lgs. n. 33 contempla, pertanto, una numerosa serie di atti dei quali è imposta la pubblicazione, fatti salvi i particolari divieti già previsti dalla legge n. 241 o quelli a tutela della privacy. Sarebbe troppo lungo elencare tutta questa serie di atti. Mi limito quindi a ricordare gli atti normativi e generali riguardanti la singola amministrazione; gli atti di organizzazione interna; i bilanci preventivo e consuntivo. Specificamente in funzione anticorruzione sono gli obblighi di pubblicazione concernenti i titolari eletti degli organi d’indirizzo politico e i dirigenti amministrativi; gli atti di erogazione di contributi e sovvenzioni e i relativi beneficiari; gli atti inerenti la programmazione e la realizzazione delle opere pubbliche ed i relativi costi; gli strumenti di pianificazione urbanistica e altro ancora. Viene inoltre conferita alle amministrazioni la potestà di aggiungere agli obblighi di pubblicazione stabiliti direttamente dal d.lgs. n. 33, ulteriori obblighi di pubblicazione autonomamente decisi. Come è evidente, in tal modo il d.lgs. n. 33 non stabilisce un controllo generalizzato su tutto indistintamente l’operato delle pubbliche amministrazioni, ma lo limita a una serie pur corposa di atti, individuati attraverso l’imposizione della loro pubblicazione o per stessa volontà di legge o per scelta dell’amministrazione interes-

445 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 sata. È questo un punto che ha fatto sollevare le critiche da parte dei fautori di una più ampia caratterizzazione delle pubbliche amministrazioni come “case di vetro”. È anche da aggiungere che a ogni modo, rispetto alla normativa del 2009, questa attuale si caratterizza, oltre che per la sua maggiore sfera di operatività, anche per una più piena strutturazione organizzativa posta a presidio dell’osservanza della trasparenza. È una struttura che vede al suo vertice la Covit e, per taluni aspetti, il Dipartimento della funzione pubblica e che ha come punto di riferimento all’interno di ogni amministrazione il responsabile della trasparenza che coincide, di norma, con il responsabile per la prevenzione della corruzione. Sul piano organizzativo importante è anche il programma triennale per la trasparenza e l’integrità, che le amministrazioni sono tenute a redigere e pubblicare onde definire le misure, i modi e le iniziative volti all’at- tuazione degli obblighi di pubblicazione. La normativa del 2013 si caratterizza, inoltre, per aver previsto un’apposita strumentazione a disposizione dei singoli per assicurare il rispetto di tali obblighi di pubblicazione. Sotto la definizione di “accesso civico”, posta dall’art. 5 d.lgs. n. 33, si prevede la legittimazione di chiun- que a richiedere la pubblicazione di documenti, informazioni o dati prescritta dalle norme, ove sia stata omessa. Questa legittimazione si differenzia nettamente dal diritto ordinario di accesso introdotto dalla l. n. 214/1990, in quanto la sua titolarità prescinde totalmente dal possesso in capo al richiedente di alcuna posizione soggettiva sostanziale di diritto soggettivo o di interesse legittimo, così come di alcun interesse comunque differenziato. Diversamente, ancora, rispetto alla disciplina dell’accesso tradizionale, la richiesta non deve essere moti- vata ed è gratuita. Ulteriori differenziazioni stanno in ciò che il diritto di accesso civico, ove riconosciuto dall’amministra- zione o successivamente in via giurisdizionale, comporta la sola pubblicazione del documento, dato o infor- mazione omessi sul sito dell’amministrazione e la comunicazione al richiedente dell’avvenuta pubblicazione con l’indicazione del relativo collegamento ipertestuale, mentre la trasmissione dell’atto in sé al richiedente è rimessa alla discrezione dell’amministrazione. Viceversa nell’ordinario diritto di accesso è dato al richiedente estrarre copia dell’atto, salvo i casi, indivi- duati dalla giurisprudenza primariamente a tutela della privacy e di privative industriali del controinteressato, nei quali l’accesso può svolgersi nella sola forma della visione degli atti. Ancora quale differenziazione, il diritto di accesso civico può esplicarsi nei riguardi dei soli documenti, atti ed informazioni dei quali una norma di legge o una previsione specificamente posta dall’amministrazione ne impongano l’obbligo di pubblicazione. Viceversa il diritto ordinario di accesso può essere esercitato nei confronti di tutti indistintamente gli atti in ordine ai quali il richiedente presenti la posizione di interesse dif- ferenziato di cui si è detto e si arresta soltanto dinanzi alle ipotesi normativamente stabilite ed ove ricorrano contrapposte esigenze di carattere prevalente. Per converso, mentre, secondo una consolidata giurisprudenza, attraverso l’esercizio del diritto ordinario di accesso non può imporsi all’amministrazione l’elaborazione di dati ma solo l’ostensione di atti, al contrario l’esercizio fondato del diritto di accesso civico può portare l’amministrazione a dover elaborare dati, ogniqual- volta di essi sia prescritta la pubblicazione. Il diritto di accesso civico fruisce di tutela giurisdizionale nelle stesse forme e modalità contemplate dal codice del processo amministrativo riguardo al diritto ordinario di accesso. In effetti il d.lgs. n. 33 non ha fatto altro che inserire in seno alle norme del codice del processo amministrativo riguardanti la tutela del diritto ordi- nario di accesso il richiamo anche alla tutela contro le violazioni degli obblighi di trasparenza amministrativa. Tuttavia la tutela attinente al diritto di accesso civico pone problemi particolari che dottrina e giurispruden- za saranno presto chiamate a dipanare. Per esempio, in relazione al combinato dell’art. 5 d.lgs. n. 33/2013 e dell’art. 116 del codice del processo amministrativo, chiunque può richiedere la pubblicazione omessa dall’amministrazione e quest’ultima ha 30 giorni di tempo per provvedere. Se non provvede, egli ha ulteriori 30 giorni di tempo per proporre ricorso al giudice amministrativo. Se non lo fa e decade dall’azione ovvero se lo fa e il suo ricorso è respinto, in realtà nulla è per lui di fatto pregiudicato, perché potrebbe comunque – ripeto di fatto – giovarsi dell’azione da altri vittoriosamente esercitata, magari proprio su sua sollecitazione, in ordine ai medesimi atti. Si tratta, mi sembra, di un aspetto caratteristico delle c.d. azioni popolari. Problematici saranno probabilmente anche i rapporti tra tutela del diritto ordinario di accesso e tutela del

446 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA diritto di accesso civico: la loro cumulabilità nel medesimo giudizio o la loro alternatività; l’influenza reciproca sul rispettivo termine a ricorrere e così via. Mi fermo qui, anche perché mi sembra di aver abusato fin troppo della vostra pazienza e di quella dei rela- tori che ora interverranno. 5. Concludo osservando come, da quanto ho esposto emerga – spero con chiarezza – la parabola evolutiva della disciplina in materia di trasparenza amministrativa. In sostanza il nostro ordinamento, partito da una posizione di netta chiusura, ha prima riconosciuto la trasparenza nei limiti dell’utilità che ne potesse derivare ai singoli interessati e poi, più recentemente, la ha disegnata come modalità intrinseca di una pluralità di atti amministrativi – peraltro non di tutti ma, come ho detto, soltanto di quelli dei quali è imposta la pubblicazione –, in considerazione della sua capacità di assicurare il controllo collettivo sulla legittimità e sulla efficienza dell’azione amministrativa. Non è ancora la trasparenza totale, come pure esistente in altri paesi dell’area occidentale (come, ad esem- pio, quella stabilita con il Freedom of information Act emanato fin dal 1966 negli Stati Uniti; sulla introduzione delle regole di trasparenza nei vari paesi occidentali, v. M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza am- ministrativa, in Giornale dir. Amm., 8-9/2013, 795 ss.). Ma il legislatore sembra ormai comunque decisamente incamminato su una strada la cui meta è, del resto, additata dalla stessa natura democratica e partecipativa del nostro ordinamento.

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L’ARMONIZZAZIONE DEI SISTEMI CONTABILI: VERSO UNA MAGGIORE TRASPARENZA DEI CONTI PUBBLICI? (*)

di Alberto Zuliani

Sommario: 1. I sistemi contabili pubblici: un lungo travaglio. – 2. Il decreto legislativo n. 118/2011. – 3. I sistemi contabili pubblici a un punto di svolta. – 4. Armonizzazione dei sistemi contabili e dei bilanci pubblici: le finalità.– 5. Tre aspetti dei nuovi sistemi di contabilità e bilancio rilevanti ai fini della trasparenza. – 6. Verso una maggiore trasparenza? – 7. Trasparenza per chi? – 8. L’opportunità tecnologica. – 9. Conclusioni.

1. I sistemi contabili pubblici: un lungo travaglio (1) 1.1 L’armonizzazione dei sistemi contabili è un tema di attualità da parecchi anni. È trasversale sia per il riferimento ai diversi livelli istituzionali, sia perché si propone finalità molteplici, sia perché ha forti aspetti di interdisciplinarità. Se ne sono occupati economisti, aziendalisti, contabili nazionali, contabili di stato, scien- ziati delle finanze, statistici, amministrativisti, giudici amministrativi e contabili, in generale giustapponendo i rispettivi punti di vista piuttosto che ricercando visioni integrate. 1.2. Per lo Stato i sistemi contabili e di bilancio sono stati aggiornati con cadenza pressoché decennale, a parti- re dalla l. 5 agosto 1978, n. 468 che ha delimitato il “settore pubblico allargato”, introdotto la “legge finanziaria”, collegato programmazione finanziaria e bilancio. Dieci anni dopo, la l. 23 agosto 1988, n. 362 ha introdotto il Dpef, Documento di programmazione economica e finanziaria, ridefinito il bilancio pluriennale come strumento di programmazione finanziaria, tentato di dare attuazione al principio di copertura delle leggi che comportano maggiori spese o minori entrate. Secondo le intenzioni, attraverso il Dpef il Parlamento avrebbe potuto conoscere e orientare la politica economica e finanziaria indicata dal governo. La successiva l. 3 aprile 1997, n. 94 ha cercato di contrastare la frantumazione della spesa su capitoli talvolta insignificanti, riconducendo le unità previsionali

(*) Ringrazio Daniela Collesi, Giovanni Coran e Vincenzo Lo Moro per la lettura attenta di precedenti versioni dell’articolo e per i molti utili suggerimenti che mi hanno dato nel corso della stesura. (1) Un’analisi puntuale del processo di armonizzazione dei sistemi contabili e di bilancio negli ultimi quaranta anni è in M. Collevecchio, 2012; da essa sono tratti alcuni spunti per questo paragrafo. Al tema è stato dedicato l’intero n. 1/2012 della rivista Azienda pubblica ai cui contributi si farà riferimento in seguito.

447 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 di base ai centri di responsabilità amministrativa e introducendo la classificazione per funzioni-obiettivo. Da ulti- mo, è intervenuta la legge di contabilità e finanza pubblica 31 dicembre 2009, n. 196, modificata dalla l. 7 aprile 2011, n. 39; quest’ultima ha adeguato i tempi dei sistemi contabili alle regole di coordinamento delle politiche economiche degli stati membri della zona euro, eliminato la previsione del solo bilancio di cassa, la cui funzione, tuttavia, dovrebbe essere progressivamente potenziata nel corso del periodo di sperimentazione previsto, e inol- tre prorogato i termini per l’adozione dei decreti delegati. La delega è stata parzialmente esercitata attraverso il d.lgs. 31 maggio 2011, n. 91. In questo contesto rinnovato, risultano centrali il Def, Documento di finanza pub- blica – articolato in Programma di stabilità, Analisi e tendenze della finanza pubblica e Programma nazionale di riforma – e la classificazione del bilancio per missioni e programmi che diventano la chiave di lettura principale (di primo livello) rispetto a quelle per centro di responsabilità e natura della spesa. L’art. 8 della legge stabilisce che le regioni e le province autonome e gli enti locali definiscano i propri bilanci coerentemente con gli obiettivi programmatici del Def e indica il patto di stabilità interno come strumento di coordinamento. 1.3. Per le regioni la prima normativa organica in materia di ordinamento contabile è rappresentata dalla l. 19 marzo 1976, n. 335, un insieme di disposizioni moderne che individuavano nel bilancio pluriennale lo strumento principale di programmazione economico-finanziaria e affiancavano il bilancio di cassa a quello di competenza; il bilancio di cassa non si è però affermato fino a poter sostenere la simultaneità temporale della decisione programmatoria e dell’operatività. Il successivo d.lgs. 28 marzo 2000, n. 76 ha introdotto limitati adeguamenti. Il d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, in attuazione della delega contenuta nella l. 5 maggio 2009, n. 42, è l’ultimo degli interventi riguardanti le regioni e province autonome (2), i loro organismi strumentali e gli enti del Servizio sanitario nazionale. 1.4. Il decreto legislativo appena citato ha riguardato anche gli enti locali e i loro organismi strumentali. In precedenza, la loro disciplina contabile era stata coordinata con quella statale dal d.p.r. 19 giugno 1979, n. 421 e quindi rivisitata con il d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77; quest’ultima normativa è confluita nel t.u. sugli enti locali emanato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Fra le disposizioni risaltano quelle relative al collegamento fra programmazione e bilancio, ai limiti dell’indebitamento, alle procedure di risanamento di dissesti finanziari. 2. Il decreto legislativo n. 118/2011 2.1. La normativa contabile definita dal d.lgs. n. 118/2011 presenta aspetti interessanti. Prevede un affian- camento, seppure a fini soltanto conoscitivi, della contabilità economico-patrimoniale a quella finanziaria (3). Viene stabilito un piano dei conti integrato, comune per tutti i soggetti. Il bilancio assume un ruolo essenziale nel processo di programmazione, gestione e rendicontazione. Viene introdotto il bilancio consolidato con gli enti e gli organismi strumentali. Sui principi generali ai quali il decreto si ispira c’è generale consenso; fra essi: universalità, integrità, veridicità, attendibilità, correttezza, comprensibilità, significatività e rilevanza, congruità, prudenza, coeren- za, continuità, costanza, comparabilità, verificabilità, neutralità, pubblicità, equilibrio del bilancio, prevalenza della sostanza sulla forma (4). Saranno tutti tenuti in conto? In modo soddisfacente? Si può avanzare qualche dubbio visti i precedenti. Il concetto di trasparenza non è richiamato esplicitamente (anche se comprensibilità, comparatività e pub- blicità ci si avvicinano). È prevista la redazione del rendiconto semplificato per i cittadini, secondo uno schema tipo nel quale indicare le risorse impiegate, i risultati conseguiti e gli scostamenti fra i costi standard (5) e quelli effettivi. La previsione di una fase di sperimentazione, normata dal d.p.c.m. 28 dicembre 2011, è importante per almeno due motivi. Il primo è che si tratta di una sperimentazione ad ampio raggio: gli enti che vi partecipano

(2) Il d.lgs. n. 118/2011, nel rispetto dell’autonomia delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, vincola le nuo- ve regole contabili all’esito della sperimentazione, mantenendole entro i limiti previsti dalla l. n. 42/2009. (3) Su questo punto ci si soffermerà più ampiamente in seguito. (4) All. 1 d.lgs. n. 118/2011. In esso, vengono ribaditi principi contabili validi anche per il settore privato ed è introdotto speri- mentalmente quello della “contabilità finanziaria potenziata”. Per maggiori dettagli v. www.rgs.mef.gov.it/versione-i/e-governme1/ar- conet/principicontabili. (5) Di costi e fabbisogni standard molto si è parlato; un’applicazione ha riguardato il Servizio sanitario nazionale. Essa non ha portato all’individuazione di fabbisogni ma ha soltanto sostenuto un metodo di distribuzione fra le regioni del Fondo sanitario na- zionale, il cui ammontare viene definito esogenamente. V., in proposito, A. Zuliani, 2011.

448 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA sono tenuti ad affiancare la contabilità economico-patrimoniale a quella finanziaria, avendo quest’ultima natura autorizzativa; a rispettare l’elenco delle unità elementari del bilancio e la struttura dei conti economico-patri- moniali che compongono il piano integrato dei conti, a elencare i risultati attesi e gli indicatori che saranno prodotti. Il secondo motivo è il cambiamento di atteggiamento rispetto all’introduzione di una normativa in- novativa: non più “la norma risolve i problemi” ma, invece, “la norma crea problemi”, fra l’altro differenziati in relazione alla tipologia e alla dimensione (6) dei soggetti incisi, ed è bene conoscerne la portata in modo da poter equilibrare l’intervento. Attualmente, la sperimentazione è in corso e se ne attendono i risultati (7). 2.2. Per gli enti pubblici non economici è in corso di emanazione il nuovo regolamento di contabilità in sostituzione di quello stabilito con il d.p.r. 27 febbraio 2003, n. 97. 3. I sistemi contabili pubblici a un punto di svolta La l. n. 196/2009, come modificata dalla l. n. 39/2011, il d.lgs. n. 91/2011, il d.lgs. n. 118/2011 e la ricon- duzione dell’armonizzazione dei bilanci pubblici all’interno delle competenze esclusive dello Stato, introdotta dall’art. 3 l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, prefigurano uno scenario evolutivo dei sistemi contabili pubblici ordinato e razionale; vedremo come sarà realizzato e come sarà garantita la flessibilità necessaria. Hanno concorso alla definizione di questo quadro molte spinte fondamentalmente coerenti. In primo luogo, le normative europee sul patto di stabilità e sul fiscal compact. In secondo luogo, l’enfasi posta sulla programmazione dell’attività e sulla rendicontazione dei risultati dal d.lgs. n. 150/2009 (8). Infine, la l. n. 42/2009 sul federalismo, orientata alla maggiore responsabilizzazione dei soggetti territoriali. D’altronde, la chiarezza dei conti è indispensabile per poter attuare interventi selettivi di riduzione della spesa, anche se non tutti i problemi possono essere risolti da una contabilità pubblica ordinata e integrabile (9). 4. Armonizzazione dei sistemi contabili e dei bilanci pubblici (10): le finalità 4.1. Sia la l. n. 196/2009 sia la l. n. 42/2009 indicano le finalità del percorso di armonizzazione. Recita la prima (art. 1, c. 1, secondo periodo): “Il concorso al perseguimento (degli obiettivi di finanza pubblica; inciso mio) si realizza secondo i principi fondamentali dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica”; e la seconda (art. 2, c. 1): il governo è delegato a legiferare “in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica”. La finalità è dunque, in primo luogo, di monitorare e tenere sotto controllo la spesa; ma emerge anche quella di “accrescimento e miglioramento del contenuto informativo dei documenti contabili a beneficio della comunità dei soggetti che, rispettivamente, amministrano i singoli enti ovvero fanno parte della comunità amministrata, o comunque si avvalgono dei dati che emergono dalle scritture di bilancio” (11). In effetti, “la contabilità non è solamente uno strumento di misurazione e rappresentazione della gestione: è (…) un tassello fondamentale dell’assetto istituzionale e dell’assetto organizzativo, in quanto contribuisce a delimitare la responsabilità e a regolare i rapporti fra col- lettività amministrata, organi politici rappresentativi, organi politici esecutivi, organi tecnico-amministrativi” (E. Anessi Pessina, 2012).

(6) Un aspetto questo raramente tenuto in conto dal legislatore. (7) La sperimentazione biennale, prevista dal d.lgs. n. 118/2011 e dal successivo d.p.c.m. 28 dicembre 2011 è stata prolunga- ta di un ulteriore anno dall’art. 9 d.l. 31 agosto 2013, n. 102. (8) In realtà, per i primi due anni, le normative contabile e programmatoria si sono mosse in modo disgiunto, con scarso co- ordinamento e numerose duplicazioni (Lo Moro, 2011). (9) Una fonte di spreco risiede nelle duplicazioni, sovrapposizioni e frammentazioni degli interventi. Negli Stati Uniti, il Gao ha intrapreso da tre anni un’analisi approfondita sul tema Duplication, Overlap and Fragmentation. Nel 2011 sono state individua- te 81 opportunità di risparmio e altre negli anni successivi. Nel rapporto 2013 vengono fornite informazioni sui risultati ottenuti nelle aree individuate in www.gao.gov/duplication/overview. (10) Armonizzazione è forse un termine improprio per la normativa considerata. Così, ad esempio, R. Mussari, 2012, “L’ar- monizzazione […] è sforzo reciproco verso la consonanza; “La standardizzazione si differenzia dall’armonizzazione soprattutto sul piano concettuale. Pur muovendo da una medesima situazione di partenza, la disarmonia ovvero il riconoscimento della disso- nanza, per risolvere il problema si cerca di determinare al più presto una soluzione, un punto di arrivo, un modello di riferimento, cioè uno standard, verso il quale tutti devono tendere”. “L’unificazione, infine, è la standardizzazione spinta fino alle estreme con- seguenze, cioè l’omologazione completa, il tentativo di annullare qualsiasi diversità”. “In breve la normalizzazione contabile”. Oc- corre considerare, tuttavia, che il percorso di avvicinamento a canoni comuni avrà prevedibilmente velocità differenti per le diver- se amministrazioni. (11) A. Iadecola, 2013.

449 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

4.2. Il nuovo impianto dei sistemi contabili e di bilancio, se evolverà correttamente, potrà consentire di migliorare l’azione dei diversi soggetti lungo tutto il percorso che va dalle scelte politiche, ai sistemi organiz- zativi, agli interventi, alla rendicontazione e alla trasparenza. I bilanci annuale e pluriennale vedono confermata e anzi enfatizzata la loro funzione programmatoria; le assemblee legislative vengono chiamate ad operare le loro scelte in primo luogo sulle “missioni”, che rappre- sentano gli obiettivi strategici perseguiti, e quindi sui programmi, aggregati omogenei di attività che perseguo- no gli obiettivi strategici. Questi ultimi costituiscono le unità di voto. Gli assetti organizzativi diventano strumentali all’attuazione dei programmi e possono essere riorientati per conseguire maggiore efficienza nell’uso delle risorse (12). Gli interventi possono avvalersi del feedback dei fruitori dei servizi erogati, qualora venga resa loro dispo- nibile una rendicontazione perspicua. È questo, forse, l’aspetto più difficile da realizzare (13). Per i soggetti territoriali alcune scelte sembrano andare nella direzione giusta: l’affiancamento della con- tabilità economico-patrimoniale a quella finanziaria (14) di cui già si è detto, sperando che la prima non perda progressivamente vigore; la graduale estensione del bilancio di cassa a fianco di quello di competenza per avere certezza delle entrate e delle spese dell’esercizio (15); la classificazione delle spese in missioni e programmi raccordata omogeneamente con quella dell’amministrazione centrale; la previsione del bilancio consolidato con gli enti e organismi strumentali, le aziende, le società controllate e partecipate; la riconduzione del piano della performance previsto dal d.lgs. n. 150/2009 nel Peg, piano esecutivo gestionale, da parte degli enti locali, secondo la previsione del t.u. recentemente emendato (16). Si tratta di previsioni normative nuove o ribadite o maggiormente coordinate. L’impianto complessivo appare coerente, ma nella pratica le difficoltà rimangono elevate. Ad esempio, se il bilancio è lo strumento prin- cipale di programmazione, è necessario che i soggetti a totale o parziale finanza derivata, in particolare quelli territoriali, possano conoscere l’entità delle risorse messe a loro disposizione prima dell’inizio dell’esercizio. Invece, le proroghe rispetto al 31 dicembre dell’anno precedente, confermato come termine per la sua approva- zione dal d.lgs. n. 118/2011, sono la regola. Infatti il termine nel 2012 è stato spostato al 30 giugno e nel 2011 addirittura al 30 novembre dell’anno di esercizio. 5. Tre aspetti dei nuovi sistemi di contabilità e bilancio rilevanti ai fini della trasparenza 5.1. Tre aspetti dell’armonizzazione dei sistemi contabili e di bilancio già menzionati in precedenza hanno conseguenze importanti sulla trasparenza: - la priorità della lettura per finalità; - l’integrazione del piano dei conti e, al suo interno, l’introduzione della contabilità economico-patrimoniale; - il principio della competenza finanziaria “rafforzata”, come compromesso fra competenza finanziaria e di cassa. 5.2. Lo spostamento di attenzione dalla lettura per capitolo (natura della spesa) a quella per centro di re-

(12) “Con rarissime eccezioni, il sistema (di contabilità, inciso mio) in essere presso le amministrazioni pubbliche non ha con- sentito la conoscenza dei flussi economico-patrimoniali e quindi del prospetto dei costi. Le amministrazioni pubbliche effettuano così le loro scelte senza prima essere a conoscenza del costo di ogni decisione, né delle conseguenze che da tale decisione posso- no discendere, spesso senza preoccuparsi di accertarla neppure a posteriori. […] La funzione autorizzativa è ancora considerevol- mente presente nel sistema di rilevazione della contabilità pubblica.” (L. Anselmi e altri, 2012). (13) “Il modello indica un processo coerente e razionale di decisioni di entrata e di spesa. Ma non basta. È necessario che le de- cisioni si trasformino in azioni concrete, in risultati conseguiti, in effettive utilità per le comunità locali”: così M. Collevecchio cit. (14) È prevedibile che, nel tempo, venga integrata nei sistemi contabili la contabilità analitica che già è presente in molti enti locali. (15) In effetti, la contabilità economico-patrimoniale e il bilancio di cassa sono due aspetti dei sistemi contabili cruciali per chi deve governare e per chi voglia valutare e partecipare consapevolmente alla vita democratica del paese. (16) La l. 7 dicembre 2012, n. 213, di conversione del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, ha aggiunto, dopo il c. 3 dell’art. 169 Tuel (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), il seguente: “3-bis. Il piano esecutivo di gestione è deliberato in coerenza con il bilancio di previ- sione e con la relazione previsionale e programmatica. Al fine di semplificare i processi di pianificazione gestionale dell’ente, il piano dettagliato degli obiettivi di cui all’art. 108, c. 1, del presente t.u. e il piano della performance di cui all’art. 10 d.lgs. 27 ot- tobre 2009, n. 150 sono unificati organicamente nel piano esecutivo di gestione”. Insistono su quest’aspetto anche le recenti linee guida agli enti locali in materia di trasparenza e integrità redatte dall’Anci, le quali raccomandano la coerenza fra piani della per- formance, piani di gestione, bilanci sociali e adempimenti per la trasparenza.

450 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA sponsabilità (dipartimento) a quella per missione-programma (finalità o funzione obiettivo) prende avvio con la riforma del 1978 e si precisa, almeno negli intenti, con la l. 3 aprile 1997, n. 94. Tuttavia, la lettura per finalità rimane del tutto secondaria fino a metà del primo decennio degli anni 2000. A partire dal 2008 la presentazione del bilancio dello Stato avviene per missioni e programmi, con la limitazione dovuta alla presenza di program- mi condivisi tra più centri di responsabilità. Per ovviare all’inconveniente, la l. n. 196/2009 ha stabilito che ogni programma debba essere assegnato a un unico centro di responsabilità. Ovviamente, un centro può essere responsabile di più programmi. Le amministrazioni pubbliche non territoriali soggette alle disposizioni del d.lgs. n. 91/2011 devono far convergere le proprie missioni in quelle esistenti e definite per il bilancio dello Stato; tuttavia, se necessario, possono proporne di nuove (17). Queste innovazioni migliorano la leggibilità dei bilanci pubblici: si tende a conoscere quale sia l’ammonta- re delle risorse dedicate a ciascuna funzione e, a consuntivo, attraverso opportuni indicatori, valutare i risultati ottenuti mediante il loro impiego. Tuttavia, non è semplice conseguire neppure il primo dei due obiettivi. Per fare soltanto un esempio, è molto complicato determinare il volume di risorse che la collettività destina alla “funzione statistica” e quali risultati siano ottenuti con il loro impiego (18). Infatti, fanno parte del sistema statistico nazionale, oltre l’Istat, per il quale costi e risultati sono noti, gli uffici statistici presenti nelle ammi- nistrazioni centrali dello Stato e negli enti pubblici non economici che, in generale, non costituiscono centri di spesa autonomi. La funzione statistica non è scorporata usualmente neppure nei bilanci delle regioni e degli enti locali. Anche per altre funzioni distribuite su più soggetti non è semplice quantificare adeguatamente costi e risultati. D’altra parte, assegnare i programmi di questa natura (erano 93 nel 2010 e 58 nel 2011) per le parti di rispettiva responsabilità ai vari dipartimenti interessati è una soluzione formale e può appannare l’informazione fornita al Parlamento e alla cittadinanza. 5.3. Un piano dei conti integrato può consentire la lettura dei dati sia finanziaria sia economico-patrimonia- le. Tuttavia, come si è già accennato, è previsto che la contabilità economico-patrimoniale abbia finalità sol- tanto conoscitiva, cosicché le amministrazioni non sono incentivate a predisporla con il rigore necessario. Per le amministrazioni centrali dello Stato la riclassificazione è effettuata da parte dei centri di responsabilità sulla base di linee guida del Ministero dell’economia e delle finanze. In generale, viene realizzata meccanicamente, curandosi poco della qualità dell’informazione che ne deriva. L’“affiancamento, secondo alcuni, è un utile compromesso che consente di godere dei vantaggi di entrambi i sistemi; secondo altri comporta invece un aggravio amministrativo e crea confusione e marginalizzazione di un sistema a favore dell’altro” (E. Anessi Pessina e I. Steccolini, 2012). Un’indagine condotta su 30 enti locali con popolazione non inferiore a 40.000 abitanti, riferita agli anni 1998 e 2003, ha fornito in proposito interessanti evidenze empiriche: la contabilità economico-patrimoniale avrebbe acquisito fra i due anni mag- giore specificità, risultando conseguentemente aumentate le difficoltà di riconciliazione con quella finanziaria; la coesistenza fra le due contabilità limita comunque lo sviluppo di quella economico-patrimoniale; questa tendenza sembra dipendere essenzialmente dalla domanda espressa dagli utilizzatori. Se essi sono interessati ai soli valori della contabilità finanziaria, le amministrazioni si concentreranno su di essa, cosicché “i documenti di contabilità economica vengono reinterpretati secondo canoni burocratici […] diventano meri adempimenti, sono redatti con superficialità e sono quindi poco affidabili.” (E. Anessi Pessina e I. Steccolini, cit.). La ricerca conclude sottolineando che “l’integrazione tra contabilità economico-patrimoniale e contabilità finanziaria non rappresenti una strada efficace per il miglioramento dei sistemi contabili, ma al contrario rifletta un compro- messo insoddisfacente”. Peraltro, la gestione informatizzata della contabilità, presente in tutte le maggiori amministrazioni e in una parte assolutamente maggioritaria delle altre, consentirebbe con relativamente poche difficoltà la registrazione di ogni transazione contemporaneamente nei quadri finanziari ed economico-patrimoniali.

(17) È stato indicato da parte del Ministero dell’economia e delle finanze un percorso di verifica e di approvazione per l’even- tuale ampliamento del repertorio di missioni statali. I programmi, invece, possono essere definiti autonomamente dalle ammini- strazioni che possono individuarne di nuovi rispetto a quelli statali. (18) Una stima approssimativa della spesa per la statistica pubblica è contenuta nel Programma statistico nazionale (Psn) che, da una decina d’anni, espone i costi previsti (non consuntivi) per le rilevazioni che vi sono elencate; ma il risultato non è omoge- neo con i dati di bilancio.

451 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

5.4. Ambedue i decreti legislativi n. 91/2011 e n. 118/2011 prevedono la sperimentazione del criterio della competenza finanziaria rafforzata, secondo il quale le obbligazioni attive e passive sono registrate nelle scrit- ture contabili nel momento in cui sono giuridicamente perfezionate e sono imputate all’esercizio nel quale vengono a scadenza. Questo, nelle intenzioni, dovrebbe consentire di rafforzare la programmazione di bilancio, evitare l’accertamento di entrate future e d’impegni inesistenti, conoscere i debiti effettivi delle amministra- zioni pubbliche, favorire la modulazione dei fabbisogni. Il principio generale, declinato in una molteplicità di regole applicative, è un compromesso rispetto all’evoluzione verso la contabilità di cassa. Esso preserva l’idea dell’impegno (ridotto a registrazione), mentre l’imputazione all’esercizio è riferita al momento della scadenza dell’obbligazione (esigibilità) (19). Ci vorrà un po’ di tempo per abituarsi a questa nuova chiave di lettura e all’inizio la confusione potrà essere notevole. Sull’argomento, i punti di vista di parecchi autori sono nitidi: “la cassa, intesa sia nella materialità dei suoi movimenti sia nella strumentalità di misura e dinamica delle causali costituite dagli stanziamenti, costituisce una base irrinunciabile per il controllo quotidiano e per l’informazione di base. (… inoltre) un’attività tanto di decisione quanto di resa del conto orientata al futuro non può prescindere da una base contabile di crediti, debiti e rettifiche per costi e ricavi (…) non sembra pertanto che sussistano argomenti forti di contrasto al declino – non alla scomparsa! – della competenza finanziaria.” (L. Anselmi e altri, 2012, cit.). 5.5. In definitiva, anche se il sostantivo armonizzazione è enfatizzato (ed è legittimo farlo per alcuni aspetti della nuova normativa), coesisteranno per parecchi anni almeno cinque configurazioni di contabilità lungo un continuum: finanziaria; finanziaria a preventivo e consuntivo ed economico-patrimoniale a consuntivo; finan- ziaria ed economico-patrimoniale a preventivo e consuntivo, con prevalenza della finanziaria; finanziaria ed economico-patrimoniale a preventivo e consuntivo, con prevalenza della economico-patrimoniale; economi- co-patrimoniale (20). La prima delle tre tipologie miste potrà adottare, a sua volta, tre modalità di rilevazioni contabili nel corso dell’esercizio: finanziaria estesa, sistema integrato e sistema parallelo. La seconda e la terza tipologia potranno adottare il sistema di rilevazione integrato o quello parallelo. Le differenti amministrazioni pubbliche già fanno ricorso prevalente all’uno o all’altro sistema di conta- bilità, tenendo conto delle indicazioni derivanti da norme, regolamenti, note tecniche e anche delle prassi: lo Stato e le regioni privilegiano la contabilità finanziaria (21); negli enti locali coesistono le due forme; gli enti pubblici non economici si riferiscono alla terza configurazione; le aziende sanitarie, consorzi, aziende speciali e, ovviamente, le società partecipate all’ultima (E. Anessi Pessina e I. Steccolini, 2007). La quarta possibilità può rappresentare una transizione verso il modello economico-patrimoniale (22). 6. Verso una maggiore trasparenza? 6.1. La trasparenza è una nuova visione dell’accesso alle informazioni non più legato alla richiesta del singolo interessato ma orientato alla conoscenza pubblica del comportamento, delle procedure e dei risultati raggiunti dalle amministrazioni in rapporto alle risorse loro assegnate (23). La nuova normativa aiuterà a mi- gliorarla? L’elemento fondamentale rimane il collegamento con i risultati ottenuti. Infatti, la classificazione della spesa in missioni-programmi nello stato di previsione consente di chiarire la finalità cui le risorse sono destinate, il programma appunto, ma non è altrettanto immediato comprendere dal conto consuntivo se i ri- sultati prefissi per quel programma siano stati ottenuti. D’altra parte, per valutare l’efficienza occorrerebbe affiancare al sistema contabile di tipo economico-patrimoniale la contabilità analitica (e anche, possibilmente,

(19) Se si fa riferimento alla valutazione degli equilibri, la contabilità finanziaria, potenzialmente idonea a monitorare quello finanziario (si deve ritenere in modo più adeguato rispetto al passato, grazie alla riforma), è paradossalmente debole riguardo alla valutazione dell’equilibrio monetario, in quanto non gestisce informazioni riferite a periodi brevi, ma soltanto previsioni annuali. Inoltre, non è idonea a monitorare gli equilibri economico e patrimoniale. (20) A quest’ultima si affiancano spesso la contabilità analitica, il budget economico e altri strumenti di contabilità direzionale. (21) Le regioni convergeranno prevedibilmente verso il modello degli enti locali. (22) Merita di essere segnalata la “tormentata” transizione delle università verso il sistema di contabilità economico-patrimo- niale in un assetto che mantiene la presenza del bilancio preventivo unico di ateneo non autorizzatorio e il rendiconto unico di ate- neo in contabilità finanziaria con lo scopo di consentire il consolidamento dei conti delle amministrazioni pubbliche (art. 1, c. 3, d.lgs. n. 18/2012). (23) In un documento di gennaio 2010 del Servizio studi del Dipartimento Ragioneria generale dello Stato dedicato alla legge n. 196/2009, uno specifico paragrafo trattava la trasparenza, vista come “migliorati contenuti informativi dei documenti program- matici e di finanza pubblica; (…) un ampliamento delle informazioni”.

452 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA il budget economico, non previsto per regioni ed enti locali) e comunque la qualità della contabilità analitica è condizionata dalla qualità del sistema di contabilità economico-patrimoniale. Infine, la valutazione di efficacia poggia su informazioni relative all’outcome, non desumibili dal sistema contabile. 6.2. Due tendenze positive vanno ricordate. In primo luogo, presso le amministrazioni locali e numerosi enti pubblici non economici sono in atto da tempo diverse buone pratiche riguardo alla trasparenza, più solide di quanto possa derivare generalmente dalla nuova normativa contabile e da quella riferita alla performance. Infatti, i rendiconti poggiano sui piani di gestione, indicano l’assegnazione delle risorse alle aree di respon- sabilità e illustrano i risultati ottenuti attraverso il loro impiego. Si tratta, in generale, di documenti validi per informare la collettività (24). La seconda tendenza positiva, o meglio opportunità, è costituita dall’informazione presente nelle note inte- grative ai bilanci, previste dalla nuova normativa. Esse possono diventare veri e propri rendiconti di gestione, integrandosi con le relazioni sulla performance. In effetti, il Dipartimento Ragioneria generale dello Stato e la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) dopo alcuni tentennamenti, hanno uniformato i contenuti delle note integrative e delle relazioni (e piani) della performance. Un passaggio decisivo era stato compiuto con il d.p.c.m. 18 settembre 2012, definizione delle linee guida generali per l’individuazione dei criteri e delle metodologie per la costruzione di un sistema d’indicatori ai fini della misurazione dei risultati attesi dai programmi di bilancio ex art. 23 d.lgs. n. 91/2011. Successivamente, è stata emanata la nota tecnica n. 2 alla circolare del Dipartimento Ragioneria generale dello Stato del 17 luglio 2013, linee guida per la compilazione delle note integrative agli stati di previsione (art. 21, c. 11, lett. a, l. n. 196/2009), nella quale non soltanto il contenuto proposto per le note, ma anche lo stile di presen- tazione, i metodi di validazione dei dati, la scelta degli indicatori ricalcano le deliberazioni della Civit sul tema. 7. Trasparenza per chi? 7.1. La risposta porta a elencare: le autorità dell’Unione europea; le assemblee legislative, al livello sia nazionale sia territoriale; il governo, le giunte, i consigli di amministrazione degli enti pubblici, l’Istat, le istituzioni di controllo; i cittadini; i sindacati, datoriali e dei lavoratori; i mezzi di comunicazione di massa; gli analisti internazionali e nazionali. Le esigenze sono in parte diversificate. La domanda è espressa da tutti questi attori, anche se abbastanza sommessamente da parte di qualcuno. Le autorità europee chiedono informazioni corrette sulla spesa e sui risultati delle riforme. L’Istat se ne giova per la costruzione dei conti nazionali ai quali l’Unione europea fa riferimento. Le assemblee legislative possono allocare più consapevolmente le risorse su missioni e programmi. Le opzioni possono essere formulate dai governi, ai diversi livelli, in modo più documentato. Devono essere apprestati indicatori di risultato pertinenti. Essi sono indispensabili per il controllo da parte delle istituzioni alle quali è assegnata la valutazione, essenzialmente Ministero dell’economia e delle finanze, Dipartimento della funzione pubblica, Anvur, Civit e Corte dei conti. Sono essenziali, infine, per i cittadini, le imprese, i sindacati e i mezzi di comunicazione di massa (25).

(24) Quando il controllo sociale interno è serrato, la trasparenza diviene un atteggiamento naturale. Questo avviene, ad esempio, pres- so la Sissa di Trieste, della quale l’autore presiede l’Organismo indipendente di valutazione. Lì 61 docenti, 152 giovani ricercatori e 400 studenti di dottorato e di master operano insieme e in stretto contatto con il personale tecnico e amministrativo. A quest’ultimo, 93 unità in tutto fra le quali un solo dirigente, viene richiesto un servizio efficiente che corrisponda ai bisogni. E non sono certamente gli adempi- menti documentali richiesti di volta in volta dal Ministero dell’università, istruzione e ricerca o dalla Civit, peraltro relativamente mal ca- librati rispetto alla specificità della scuola, a garantire il buon andamento, la corretta amministrazione e la trasparenza. (25) Già oggi, molte amministrazioni comunali rendono pubbliche le loro deliberazioni, comprese quelle con risvolti finanzia- ri; ma questo, in generale, non viene avvertito come disponibilità di informazione utile da parte dei cittadini. Negli Stati Uniti, a valle dell’open government e dell’open data, sono sorte molte agenzie di analisi che producono informazione derivata, “potabile” per i cittadini. L’azione Federal register 2.0 adottata negli Usa nell’ambito dell’Open government initiative ha stimolato la costi- tuzione di parecchi centri che rielaborano, e soprattutto semplificano, l’enorme massa di informazioni resa disponibile. In questa direzione, ad esempio, il Center for Information Technology di Princeton ha realizzato il progetto Fedthread.org. La disponibilità di dati pubblici consente di produrre interessanti valori aggiunti informativi attraverso quello che viene defi- nito mashup (il termine ha origine nella musica: i dj prendono due o più brani musicali e li mescolano creandone uno nuovo). Un esempio, nel contesto del controllo sociale, è Maplight.org dove Map sta per Money and politics: il mescolamento è fra i dati sul voto espresso al Congresso da parte dei rappresentanti (GovTrack.us) e le informazioni sulle campagne di finanziamento di questi ultimi attinte da OpenSecrets.org e altre fonti minori. I risultati sono esposti sul sito www.maplight.org. Per dettagli ulteriori, vedi

453 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

7.2. Riproponiamoci la domanda formulata all’inizio del paragrafo precedente: la trasparenza può esse- re assicurata dall’armonizzazione dei sistemi contabili e di bilancio? Molto dipenderà da come si procederà concretamente. Almeno per i soggetti sociali occorre che l’informazione sia espressa mediante indicatori di sintesi che garantiscano la comparabilità sia nello spazio, fra paesi e soprattutto fra regioni e fra comuni, sia nel tempo. Si dovrà evitare che sia sovrabbondante (26) e quindi poco utile se si vuole rendere un servizio vero alla democrazia. Ed è bene tenere a mente che la trasparenza è un atteggiamento culturale (27) e può incontrare resistenze nelle amministrazioni (28). 8. L’opportunità tecnologica La possibilità di rendere disponibile l’informazione contabile attraverso la rete internet può consentire un ef- fettivo salto di qualità in particolare per i cittadini, soggetti in generale molto trascurati nonostante siano gli azio- nisti dell’amministrazione pubblica. E non si può deluderne le aspettative. Se l’informazione non è effettivamente utile, viene rapidamente trascurata. Fra il 2008 e il 2011, sulla base di un’indagine dell’Istat, le persone di 25-64 anni che si sono avvicinate ad internet sono aumentate di 13 punti percentuali, passando dal 46,9 per cento al 59,9 per cento. Nello stesso periodo, coloro che hanno consultato siti delle pubbliche amministrazioni sono aumentati soltanto di 1,7 punti percentuali, passando dal 22,2 per cento al 23,9 per cento; quelli che hanno scaricato moduli di 0,1 punti percentuali, passando dal 17,4 per cento al 17,5 per cento e infine quelli che hanno spedito moduli compilati di 0,3 punti percentuali, passando dall’8,5 per cento all’8,8 per cento (A. Zuliani, 2013). 9. Conclusioni 9.1. Il processo avviato con l’armonizzazione dei sistemi contabili è ambizioso; si estende dalla formazione del bilancio alla gestione e alla rendicontazione. L’accelerazione degli ultimi anni è stata determinata dall’ac- cresciuta esigenza di controllo della spesa. Potrà essere facilitato anche il controllo sull’impiego delle risorse e sui risultati ottenuti da parte dei cittadini, senza sopravalutare la loro reale capacità di leggere e interpretare un’informazione che mantiene una forte connotazione tecnica né, d’altra parte, la reale volontà di rendere conto da parte delle amministrazioni pubbliche. 9.2. Alla normativa principale sta facendo seguito una cospicua normativa secondaria, pagine e pagine di definizioni, di regole, di schemi, di eccezioni. Occorre fare attenzione a non entrare nella spirale delle minuzie senza seguito, come mi pare sia avvenuto, con poche eccezioni, per l’analisi e la verifica dell’impatto della regolazione (29). Nel caso dell’armonizzazione dei sistemi contabili questa deriva negativa sembra meno pro- babile, ma le realizzazioni potrebbero presentare un’elevata variabilità quanto a contenuti e qualità. L’opacità resta in agguato. 9.3. La strada da fare per dotare il paese di un sistema contabile adeguato alla sua presenza in Europa e orientato alla trasparenza è dunque ancora lunga. Impegniamoci tutti per contrastare la tendenza ad assorbire le spinte innovative senza cambiare.

A. Zuliani, 2010. Da noi, la Fondazione Civicum, www.civicum.it ha affrontato qualche tempo addietro il tema del “bilancio per i cittadini”, iniziando da quattro grandi città (Milano, Torino, Roma e Napoli) e poi estendendo l’analisi a tutti i capoluoghi di re- gione. L’attività si è quindi affievolita ed è ripresa recentemente. (26) Mentre scrivevo mi è tornata in mente l’esperienza, ormai lontana, della commissione sul sistema informativo delle finan- ze, voluta dall’allora Ministro che mi chiamò a presiederla. Chiedevamo informazioni e arrivavano carrelli colmi di tabulati nel formato a fisarmonica di quei tempi. Più volte, anche in seguito, mi è accaduto di cercare informazione che potesse essere utile per le amministrazioni senza riuscire a ottenerla dai costosi sistemi informatici, perché, come ho ricordato spesso, es- si in generale si sono concentrati sul corpo, talvolta sulle gambe, quasi mai sulla testa delle amministrazioni. (27) In un contesto più generale, quello dell’azione amministrativa e del diritto all’accesso, Villata, 1987, così si esprime: La trasparenza “più che rappresentare un istituto giuridicamente preciso, riassume un modo di essere dell’amministrazione, un obiet- tivo, un parametro cui commisurare lo svolgimento dell’azione amministrativa”. La citazione è tratta, come altri spunti dal bel la- voro di E. Carloni, 2010. (28) Negli Stati Uniti, il Freedom of information act approvato nel 1996 prevedeva che le informazioni di interesse generale fossero esposte nelle così dette electronic reading rooms; ma numerose amministrazioni federali non le hanno predisposte tempe- stivamente. (29) Con riferimento alle amministrazioni centrali, così si esprimeva, su questo tema, un rapporto del Senato della Repubbli- ca, 2010: “In conclusione, l’Air pare entrata nell’ambito del governo normatore sovente nel segno della ritualità formale, rare vol- te con dispiegamento compiuto della sua potenzialità informativa”.

454 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Riferimenti sito-bibliografici essenziali E. Anessi Pessina, 2012, Editoriale, in Azienda pubblica, 1. E. Anessi Pessina e I. Steccolini, 2007, I sistemi contabili degli enti locali: stato dell’arte e prospettive di riforma, Milano, Egea. L. Anselmi, A. Pavan e E. Reginato, 2012, Cassa, competenza finanziaria e competenza economica: la scelta delle basi contabili in un sistema armonizzato di contabilità pubblica, in Azienda pubblica, 1. E. Carloni, 2009, La casa di vetro e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza, in Diritto pubblico, 3. M. Collevecchio, 2012, L’armonizzazione dei sistemi contabili e dei bilanci degli enti locali nel quadro del federalismo fiscale e della riforma costituzionale, in www.astrid-online.it, 3. Gao, U.S. Government Accountability office, 2013,Actions Needed to Reduce Fragmentation, Overlap and Duplication and Achieve Other Financial Benefits, in www.gao.gov/duplication/overview#t=0. A. Iadecola, 2013, L’armonizzazione dei sistemi contabili delle autonomie territoriali e il bilancio consoli- dato del “Gruppo dell’amministrazione pubblica”, in Rivista della Corte dei conti, 2012, fasc. 1-2, 487. V. Lo Moro, 2011, In un diverso Stato: come controllare e valutare la pubblica amministrazione italiana”, Sviluppo e organizzazione, n. 246. V. Lo Moro, 2013, Oneri amministrativi e obblighi informativi: razionalizzare quelli a carico delle pubbli- che amministrazioni, Atti del 59° Convegno di Studi amministrativi, Varenna. R. Mussari, 2012, Brevi considerazioni sui mutamenti in atto nei sistemi di contabilità pubblica, Azienda pubblica, 1. Rgs, Arconet, Armonizzazione contabile enti territoriali, in www.rgs.mef.gov.it/versione-I/e-govern-me1/arconet. Senato della Repubblica, 2010, Due anni di nuova Air. Un bilancio, ottobre. R. Villata, 1987, La trasparenza dell’azione amministrativa, Dir. processo amm. A. Zuliani, 2010, Statistiche come e perché, Roma, Donzelli. A. Zuliani, 2011, I numeri del federalismo fiscale, Atti del 57° Convegno di Studi amministrativi, Varenna. A. Zuliani, 2013, Il driver che non c’è, Telèma 2.0, 2.

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TRASPARENZA E COSTI STANDARD

di Giuseppe Franco Ferrari

Sommario: 1. I costi (e fabbisogni) standard nell’impianto del federalismo fiscale d’impronta municipale. – 2. La vicenda preparatoria. – 3. I metodi. – 4. I costi standard nel settore sanitario: alcune considerazioni generali.

1. I costi (e fabbisogni) standard nell’impianto del federalismo fiscale di impronta municipale Sul c.d. federalismo fiscale quale strumento di corretta attuazione dell’art. 119 Cost., come revisio- nato nel 2001, tanto è stato ormai scritto, specie dopo l’entrata in vigore della l. 5 maggio 2009, n. 42, sotto il profilo teorico (1), applicativo tanto sul versante giurisdizionale (2) quanto su quello operati-

(1) Cfr. ad esempio, A. Brancasi, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, in Dir. pubbl., 2002, 909 ss.; E. Corali, Federalismo fiscale e costituzione. Essere e dover essere in tema di autonomia di entrata e di spe- sa di Regioni ed enti locali, Milano, 2010; V. Nicotra, F. Pizzetti, S. Scozzese (a cura di), Il federalismo fiscale, Roma, 2009; Av. Vv., Il “federalismo fiscale”. Commento alla l. n. 42/2009, a cura di A. Ferrara e G.M. Salerno, Napoli, 2010; M. Nicolai (a cura di), Primo rapporto sulla finanza pubblica. Finanza pubblica e federalismo, Rimini, 2012; L. Antonini, Federalismo all’italiana, Dietro le quinte della grande incompiuta, Padova, 2013. Più orientati direttamente verso la tematica dei costi standard E. Jorio, Il federalismo fiscale verso i costi standard, in Federalismi.it, 12/2010; G. Rivosecchi, La determinazione dei fabbisogni standard degli enti territoriali: un elemento di incertezza nella via italiana al federalismo fiscale, in Federalismi.it, 8/2011; E. Jorio, Fede- ralismo municipale: la determinazione dei costi e fabbisogni standard (e non solo), in Federalismi.it, 9/2011. (2) Ad esempio, A. Brancasi, Il coordinamento della finanza pubblica nel federalismo fiscale, in Dir. pubbl., 2011, 451 ss. e

455 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 vo (3), e persino comparato (4) che è quasi impossibile individuare un approccio nuovo alla tematica dei costi standard. La centralità dei costi standard rispetto all’impalcatura complessiva del sistema non ha bisogno di essere rimarcata (5). È evidente che costi (e fabbisogni standard) sono insieme il dato di partenza e il punto di arrivo di un modello complesso ma praticabile, che ha bisogno di potenti iniezioni di efficienza, di equità, di omogeneità e di trasparenza per essere portato a livelli di qualità compatibili con le esigenze di supporto alla crescita del sistema economico complessivo e forse di sopravvivenza. I principi di riferimento, merita appena ricordarlo, sono quelli dell’art. 2, c. 2, lett. f) e m), dell’art. 11, c. 1, lett. b), dell’art. 13, c. 1, lett. d), dell’art. 21, c. 1, lett. c) ed e), e c. 2 della legge delega n. 42, cit. In estrema sintesi, il calcolo dei costi standard è il presupposto per definire gli indicatori di efficienza ed efficacia dell’a- zione amministrativa, nella sua dinamica, e nella dimensione finalistica, per individuare gli obiettivi di servizio delle amministrazioni territoriali chiamate a svolgere funzioni identificabili o con quelle fondamentali di cui alla lett. p) dell’art. 117, c. 2, o con i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui alla lett. m) dello stesso comma. Per conseguenza, esso è il prodromo per la determinazione dei fabbisogni di risorse e della loro distribuzione, in prima istanza attraverso il prelievo fiscale locale e integrativamente dalle perequazioni ammissibili in base all’art. 119 Cost. La piena padronanza dei costi dovrebbe consentire di quan- tificare i fabbisogni locali prima per la copertura mediante tributi propri, compartecipazioni a tributi regionali ed erariali e da addizionali a tali tributi, nonché dal fondo perequativo quanto alle funzioni fondamentali e da tributi propri e da compartecipazioni, oltre che dal fondo perequativo basato sulla capacità fiscale per abitante, quanto alle altre funzioni; la stessa base cognitiva è destinata a fondare la quantificazione ed il riparto dei fondi perequativi tenendo conto delle caratteristiche sociali, economiche, demografiche e territoriali dei diversi enti in passato quasi sempre considerati categorie omogenee. Siffatta razionalizzazione, a sua volta, è lo strumento ormai indifferibile per il superamento, entro un lasso non troppo lungo definito in cinque anni dalla stessa legge delega, delle tecniche di salvaguardia della spesa storica che, per la sovrapposizione di diverse cause di vischiosità istituzionale e sociale, rappresentano la costante del sistema fiscale locale italiano dall’epoca dei decreti Stammati (6), a tratti scalfita ma mai sostanzialmente intaccata negli ultimi trentacinque anni. In questo modo dovrebbe conseguirsi il risultato del riequilibrio territoriale tra enti cronicamente sottodotati e altri sta- bilmente sovradotati, per effetto di meccanismi di trasferimento pacificamente ritenuti in violazione di uno dei principi base della democrazia, quale la coincidenza tra rappresentanza e tassazione. La messa in opera di questo ingranaggio è dunque carica di valenze tecniche e assiologiche. Sotto il primo profilo, la predisposizione metodologica e l’applicazione operativa richiedono ovviamente tecniche matematiche, statistiche e di scienza delle finanze, adattate a una realtà locale che ha bisogno di essere abituata anche solo alla raccolta e all’analisi di dati, fino a epoca recente inutile, proprio in ragione della stratificazione di disposizioni nor- mative che la rendevano non necessaria e anzi controindicata, per non compromettere un regime fattuale iniquo e per molti aspetti aberrante, ma comodo e ormai abitudinario. Non vi è bisogno di ricordare che un altro dei pro- blemi tipici del sistema amministrativo italiano, non solo locale, è stato sinora rappresentato dalla non completa affidabilità delle banche dati disponibili, e soprattutto dalla loro incomunicabilità, tale da compromettere la vali- dità di ciascuna (7). Non a caso si è reso necessario, per ottenere risultati incontrovertibili, munirsi di un apparato

Id., Ambito e regole del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario: il quadro costituzionale, in L. Cavallini Ca- deddu (a cura di), Il coordinamento dinamico della finanza pubblica, Napoli, 2012, 1 ss. (3) Cfr. per tutti i Rapporti Ifel, La finanza locale in Italia, 2010, 2011, 2012 e 2013, Roma, pro anno. (4) Dopo lo studio pionieristico di M. Bertolissi, Lineamenti costituzionali del “federalismo fiscale”. Prospettive comparate, Padova, 1982; cfr. ad esempio, G. Anderson, Fiscal Federalism: A Comparative introduction, Oxford-New York, 2010; G.F. Fer- rari (a cura di), Federalismo, sistema fiscale, autonomie. Modelli giuridici comparati, Roma, 2010, e ancora, di recente, A. De Pe- tris, Federalismo fiscale “learning by doing”: Modelli comparati di raccolta e distribuzione del gettito tra centro e periferia, Pa- dova, 2010; G. Bizioli, C. Sacchetto, Tax Aspects of Fiscal federalism, Amsterdam, 2011, e G.G. Carboni, Federalismo fiscale comparato, Napoli, 2013. (5) Con diversi accenti cfr. ad esempio, L. Antonini, La prospettiva del nuovo federalismo fiscale, in www.legautonomie.it; L. D’A- lessio, La nozione di “costo standard”, in www.astridonline.it e anche G. Pisauro, I costi standard nel settore sanitario, in www.nens.it. (6) D.l. 29 dicembre 1977, n. 946, convertito dalla l. 27 febbraio 1978, n. 43. (7) L’affermazione è ricorrente tra i pratici sia di enti locali che di tributi, sia infine di digitalizzazione delle amministrazio- ni, dopo il codice approvato con d.lgs.7 marzo 2005, n. 82; la letteratura in materia è però di rilievo secondario. Cfr. comunque I. Macrì, I dati delle pubbliche amministrazioni fra adempimenti e opportunità, in Azienditalia, 7, 2012, 533 ss. Su scambio e riuti- lizzo, v. comunque d.lgs. 24 gennaio 2006, n. 36, l’art. 57, cc. 13 ss., d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, l’art. 15 l. 12 novembre 2011,

456 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA sanzionatorio rilevante e incisivo (8). Le metodiche di analisi ed elaborazione dei dati e la loro funzionalizzazione ai risultati voluti, poi, presentano qualche esempio straniero (9), ma non offrono un panorama ampio e vario di opzioni fruibili. Di fatto, le prime applicazioni si sono registrate negli Stati uniti negli anni Settanta, con riguardo all’equalizzazione delle risorse dei distretti scolastici in alcune realtà statali, per compensare le diverse capacità di prelievo e favorire la distribuzione del sostegno federale, in tempi in cui la Corte Suprema federale, sotto la guida di Earl Warren prima e di Warren Burger poi, era giunta molto vicino ad affermare l’esistenza di un vero e proprio diritto all’istruzione, fermandosi poi a un impiego molto attivo delle due process ed equal protection clauses (10). Altri esempi di dottrina in queste tematiche erano ricavabili dal contesto spagnolo e da quello britannico, realtà, peraltro, in cui rispettivamente il sistema delle comunità autonome è stato messo a punto, non senza contraddi- zioni e sprechi, nei primi anni Ottanta (11), e quella delle contee e dei distretti è stata fatta oggetto di studi attenti e approfonditi sin dalla fine degli anni Sessanta e poi riformata incisivamente nel 1972 (12), con aggiustamenti successivi, specie nelle aree metropolitane (13), proprio per garantire razionalizzazioni demografiche, territoriali e finanziarie, di modo che gli studi esistenti non potevano che muovere da realtà locali assestate su valori di re- lativamente basso scostamento dal dato medio. I materiali stranieri utilizzabili, insomma, non erano numerosi, sia per lo stato di avanzamento degli studi nel settore che per l’arretratezza endemica della situazione nazionale. Sul piano assiologico, il tema dei costi standard tocca nervi profondi del sistema politico-istituzionale e ne condiziona la struttura di fondo, tanto verticalmente, nel rapporto tra le articolazioni territoriali della Re- pubblica, quanto sul terreno della condizione dei cittadini e in ultima analisi dei principi. Le due dimensioni sono peraltro strettamente interconnesse, attraverso una serie di legature strutturali che la sensibilità dei costi- tuzionalisti ha da tempo evidenziato (14) e che la revisione costituzionale del 2001, se possibile, ha reso più evidenti. La democrazia come valore assoluto postula che il principio personalistico e quello di eguaglianza si declinino insieme, così da assicurare la protezione dei diritti in un contesto di effettività (15), che solo consente di qualificare i diritti stessi non come meri strumenti difensivi, nell’accezione vetero-liberale, ma come stru- menti di costruzione in positivo dello Stato costituzionale. Il circuito virtuoso tra diritti civili, politici e sociali può essere attivato e mantenuto in essere solo in condizione di relativa omogeneità sociale. La garanzia dei livelli essenziali dei servizi è uno dei fattori per il conseguimento dell’omogeneità sociale. Non certo l’unico, ma senz’altro il più importante tra quelli a disposizione dei pubblici poteri, insieme alle politiche economiche, n. 183 e infine l’art. 47 d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito dalla l. 4 aprile 2012, n. 35. Il legislatore della delega ha affrontato il problema inserendo la reciprocità tra titolari dei tributi nell’accesso alle anagrafi e alle banche dati (art. 2, c. 2, lett. v). (8) V. infra, n. 47. (9) Come ad esempio, A. Guengant, Évaluation économétrique des charges des communes, Revue d’Économie Régionale et Urbaine, 1998, 523 ss.; T. Aronsson, J. Lundberg, M. Wikström, The Impact of Regional Public Expenditures on the Local Deci- sion to Spend, Reg. Sc. & and Urban Economics, 2000, 185 ss.; K. Bradbury, B. Zhao, Measuring Non-School Fiscal Disparities among Municipalities, Nat. J. Tax, 2009, 1; Y. Yilmaz, S. Hoo, M. Nagowski, K. Reuben, R. Tannenwald, Measuring Fiscal Dis- parities across the U.S. States. A Representative Revenue System/Representative Expenditure System Approach. Fiscal Year, 2002, Washington, D.C., 2006; A. Eichhorst, Evaluating the Need Assessment in Fiscal Equalization Schemes at the Local Government Level, J.of Socio-Economics, 2007, 745; J. Kim, J. Lotz (eds.), Measuring local government expenditure needs,The Copenhagen Workshop, Copenhagen, 2007. (10) Cfr. G.F. Ferrari, Localismo ed eguaglianza nel sistema americano dei servizi sociali, Padova, 1984, 367 ss.; nella letter- atura americana degli anni Settanta, ad esempio, Note, The Evolution of Equal Protection – Education, Municipal Services and Wealth, 7 Harv.C.R.-C.L.L. Rev 105 (1971), D.L. Rubinfeld, The Judicial Pursuit of Local Fiscal Equity, 92 Harv.L. Rev 1662 (1979), J. Silard, S. White, Intrastate Inequalities in Public Education: The Case for Judicial Relief under the Equal protection Clause, 1970 Wis.L. Rev. 7. (11) Cfr. in sintesi R. Rey, Análisis y situación de las comunidades autónomas, Madrid, 2004; e J.F. López Aguilar, Lo Stato autonomico spagnolo, Padova, 1999. (12) Dal Local government Act, 1972. Cfr. G.F. Ferrari, Autorità locali e governo centrale nell’amministrazione della scuola in Inghilterra, in Riv. trim. dir. pubbl. 1975, 1798 ss., e Id. Il Layfield Report e la riforma della finanza locale in Gran Bretagna, Amministrare, 1977, 221 ss.; da ultimo M. Mazza, Le relazioni finanziarie intergovernative nel Regno Unito, in G.F. Ferrari (a cu- ra di), Federalismo, sistema fiscale, autonomie, cit., 251 ss. (13) Dal Local government Act, 1985, dal Local government Act, 1992, dal Greater London Authority Act, 1999 e infine dal Local government Act, 2000. Cfr. A Devereux Dean, E.J. Rimmer, Digest of the Law and Practice Relating to Local Government in England and Wales (including London), London, 2012. (14) Cfr. C. Mortati, Art. 1, in G. Branca, Commentario della Costituzione, Bologna, 1975, 1 ss. (15) Su cui J. Habermas, Faktizität und Geltung, Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaa- tes, Frankfurt, 1992, trad.it., Milano, 1996.

457 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 o a quanto ne rimane dopo le massicce cessioni di sovranità a organismi sovranazionali, alle politiche del lavo- ro, e alle funzioni fondamentali dei soggetti pubblici, non solo locali. Una scorretta e iniqua ripartizione territoriale delle risorse pubbliche mina alla base il principio di rappre- sentanza e con esso l’essenza medesima della democrazia, creando sacche di privilegio e situazioni di parassiti- smo, malessere sociale e scontento permanente, e quindi sabotando l’omogeneità sociale e bloccando il circuito virtuoso della democrazia, anzi attivando meccanismi perversi. Un simile status quo non appare più tollerabile quando, al di là dei vincoli costituzionali, l’apertura dei mercati al contesto globale espone le istituzioni domesti- che a impietosi confronti concorrenziali, che mettono a nudo non solo pecche e limiti delle istituzioni italiane, ma soprattutto l’ipocrisia di divaricazioni strutturali tra la teoria dei principi costituzionali e il tradimento quotidiano di prassi mediocri e poco commendevoli. La cittadinanza sociale viene a subire lesioni irreparabili quando il pre- lievo fiscale è esercitato in maniera slegata dalla capacità individuale e territoriale, i trasferimenti distributivi sono operati in modo scorretto e non conforme all’obiettivo equalizzante, la stessa base di costo dei servizi e delle fun- zioni è ignota e non viene utilizzata per valutare l’efficienza dell’amministrazione nelle sue diverse articolazioni. La determinazione dell’unità di conto su base di prestazione non può non essere il punto di partenza impre- scindibile per la gestione non solo dei servizi sociali, ma in genere delle funzioni fondamentali dell’azione pub- blica, sull’assunto che, come è stato dimostrato polemicamente da tempo (16), tutti i diritti “costano”, non solo quelli sociali. In altri termini, la cittadinanza stessa, e non solo la cittadinanza sociale (17), si fonda sulla struttu- razione efficiente dell’agire pubblico, oggetto di quella che già Marshall chiamava “fiducia nello Stato” e che un segmento non trascurabile di economisti, in specie post-keynesiani, ha dimostrato consistere nella condivisione di libertà, eguaglianza ed efficienza (18). Senza scomodare patti originari di derivazione rawlsiana (19), è sufficiente richiamare la dottrina economica della assegnazione di risorse scarse e costi su base interindividuale e territoria- le, sintetizzata da ultimo da autori come H.P. Young (20) e J. Elster (21), J. Harsanyi (22) e A. Sen (23). A valle della crisi del 2008 e anni seguenti Stiglitz (24) ha di nuovo persuasivamente dimostrato che significativi livelli di diseguaglianza rendono l’economia ed in genere il sistema istituzionale meno efficienti, mettendo a repentaglio lo stesso insieme di procedimenti politici democratici, minati dalla crisi di fiducia, come con formulazioni più giuridicamente pregnanti aveva segnalato John H. Ely (25) sin dal 1980. È chiaro che le tesi di Stiglitz sono arti- colate con riferimento alle diseguaglianze sociali e individuali nel quadro delle istituzioni della globalizzazione, ma esse possono applicarsi con poche modificazioni a diseguaglianze territoriali idonee a fondare status di tipo residenziale (26). Sul terreno più propriamente costituzionale, l’art. 97 della nostra Carta costituzionale aggiunge fondamento alle ricadute della diseguaglianza in termini d’inefficienza, prescrivendo l’imparzialità dell’azio- ne amministrativa non solo nell’accezione spaventiana di non permeabilità dell’amministrazione da parte delle istanze partitiche (27), ma anche in quella contemporanea di ponderazione necessaria di tutti gli interessi tutelati in base a criteri unitari (28). Lo stesso imperativo d’imparzialità, d’altronde, grava sul legislatore in termini di

(16) Da C. Sunstein, The Cost of Rights. Why Liberty Depends on Taxes, New York, 1999, trad.it, Bologna, 2000. (17) Nel senso reso famoso da T.H. Marshall, Sociology at the Crossroad, London, 1963, trad. it., Torino, 1976, 38 ss., 189 ss. (18) Dal titolo del lavoro di J.E. Meade, Liberty, Equality and Efficiency, London, 1993, trad.it., Milano, 1995. (19) Cfr. A Theory of Justice, Cambridge, Mass., 1971, trad.it., Milano, 1984, e Justice as Fairness: Political Not Metaphysi- cal, Phil. & Pub. Affairs, 1985, 223 ss. (20) (Ed.), Cost Allocation, Amsterdam, 1985. (21) Local Justice, How Institutions Allocate Scarce Goods and Necessary Burdens, New York, 1992, trad. it., Milano, 1995. (22) Cardinal Welfare, Individualistic Ethics and Interpersonal Comparisons of Utility, J. of Pol. Econ., 1976, 594. (23) Ad esempio, On Economic Inequality, Oxford, 1973 e Choice, Welfare and Measurement, Oxford, 1982, 353 ss. (24) J.E. Stiglitz, The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future, New York, 2012, trad.it., To- rino, 2013. (25) Democracy and Distrust, A Theory of Judicial Review, Cambridge, Mass., 1980. (26) Nel linguaggio di J. Elster, Local Justice, cit., 82 ss. Sulle ineguaglianze di status rimane fondamentale il classico studio di W.G. Runciman, Relative Deprivation and Social Justice. A Study of Attitudes to Social Inequality in Twentieth-Century En- gland, London, 1966, trad. it. Torino, 1972, in particolare 293 ss. (27) Il riferimento è ovviamente a S. Spaventa, Giustizia nell’amministrazione discorso tenuto all’Associazione costituziona- le di Bergamo, 7 maggio 1880. (28) Nella formulazione di A. Cerri, Imparzialità e indirizzo politico nella pubblica amministrazione, Padova, 1973, 120 ss. e L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1976. Il pensiero di Cerri è ricostruito da C. Pinelli, Art. 97, in G. Branca, Commentario della Costituzione, Bologna, 1994, 193 ss. Cfr. anche A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979.

458 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA ragionevolezza delle scelte normative, tenute a muovere da dati fattuali non distorti per pervenire a trattamenti non arbitrariamente discriminatori (29), incarnandosi nel principio dell’art. 3 Cost. Sul piano assiologico, come si vede pur a una sintesi estremamente sommaria, il ricorso ai costi standard come strumento di calcolo dei fabbisogni essenziali e supporto al corretto riparto delle risorse nelle istanze di autonomia locale evoca dunque valori basilari del costituzionalismo liberaldemocratico: il principio democra- tico da un lato innerva la rappresentanza e la collega con la tassazione, dall’altro fonda l’autonomia degli enti territoriali e ne esige organizzazione e finanziamento rispettosi delle comunità rappresentate, dall’altro ancora impone l’efficienza degli assetti organizzativi, il buon andamento dell’azione amministrativa e la ragionevo- lezza delle scelte normative. L’aspetto freddamente tecnico di metodologie statistico-finanziarie tradotte in formule matematiche si trasforma così in valenze cariche di significati ideologici, che traggono le mosse dal pensiero economico e politologico ma si incarnano nell’embedded constitutionalism. Altri valori ricollegabili al dato statistico-finanziario dei costi non raggiungono forse livelli di rilevanza co- stituzionale espressa, ma ugualmente hanno conquistato in progresso di tempo un rango significativo attraverso la legislazione amministrativa, venendo poi ulteriormente scolpiti e sviluppati nelle implicazioni più fini dalla giurisprudenza amministrativa. È questo il caso anzi tutto della trasparenza. Formalizzata in norma primaria dalla progenie della l. n. 241/1990 (artt. 1, c. 1, e 15, l. 11 febbraio 2005, n. 15, modificativi per quanto qui rileva, degli artt. 1 e 22, c. 2, nonché art. 10, c. 1, l. 18 giugno 2009, n. 69, sostitutivo dello stesso art. 22) (30) e dunque promossa a dignità di principio dell’attività amministrativa, essa è stata poi assimilata e valorizzata dai Tar e dal Consiglio di Stato (31), spesso come manifestazione della legalità (32). In particolare, essa è stata impiegata a garanzia della qualità del procedimento, e sopra tutto della fase istruttoria e del relativo supporto motivazionale (33), a presidio della conoscibilità da parte degli amministrati del dato organizzativo nel suo insieme e in specie dell’elemento personale (34), a sostegno della divulgazione cartacea e informatica dei dati, specie in presenza di istanze di accesso (35). La Corte costituzionale, da ultimo, ha poi iniziato a menzionare la trasparenza quasi di routine in una serie di contesti assai varia, talora in presenza di norme europee, altre volte in risposta ad argomenti delle parti (36), riconducendola per solito ai parametri degli artt. 3, 24, 97, 113 Cost., e conferendole quindi natura prevalentemente sostanziale. Ma in fondo già Kelsen (37) aveva ampiamente dimo- strato la connessione tra principio democratico, razionalità della legislazione e democratizzazione dell’attività amministrativa. Nel caso italiano, poi, il processo di valorizzazione di questo nesso, almeno nell’elaborazione dottrinale e nelle intenzioni del legislatore, è stato reso sempre più visibile dalla crescente prospettazione dell’amministrazione in chiave dinamica, in quanto incentrata più sull’attività e sul procedimento che sull’or- ganizzazione e sul provvedimento, funzionale, in quanto protesa al risultato al servizio della collettività, eco-

(29) V. per tutti P. Barile, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, e G. Zagrebelsky, Su tre aspetti della ragionevolezza, in Aa.Vv., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1994, rispettivamente 21 ss., 179 ss. (30) Tra i numerosi commenti, cfr. ad esempio, quello di V. Italia (a cura di), L’azione amministrativa, Milano, 2005, 947 ss. Ma v. ben prima, G. Abbamonte, La funzione amministrativa tra riservatezza e trasparenza, Atti del Convegno annuale di diritto amministrativo, Milano, 1991, 8 ss.; P. Virga, Trasparenza della P.A. e tutela giurisdizionale del diritto di accesso agli atti ammi- nistrativi, ivi, 353 ss.; F.G. Arena, Trasparenza amministrativa e democrazia, Sist. prev., 1993, 23 ss.; A. Barettoni Arleri, Traspa- renza amministrativa e tutela della privacy, in S. Amorosino (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo – Scritti de- gli allievi per gli ottanta anni di M.S. Giannini, Milano, 1995, 25 ss. (31) Oltre che richiamata quasi ritualmente dal legislatore sia in discipline generali che in contesti specifici, come nel caso del- la l. 9 agosto 2013, n. 98, di conversione del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, il cui art. 47 prescrive la pubblicazione sul sito di Expo Milano delle spese organizzative sostenute, proprio per garantire la traspa- renza nell’utilizzo delle risorse pubbliche. (32) V. ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 22 marzo 2007, n. 1384; Sez. VI, 27 febbraio 2008, n. 721. (33) Cfr. ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 10 luglio 2013, n. 3670. (34) Quest’ultimo è stato introdotto dall’art. 69 d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, che ha inserito nel d.lgs. 30 marzo 2001, n.165, l’art. 55-novies, poi attuato con d.p.c.m. 28 luglio 2010. (35) Ad esempio, tra le decisioni più recenti, Cons. Stato, Sez. VI, 31 luglio 2013, n. 4035; Sez. V, 20 agosto 2013, n. 4181. Da ultimo, poi, è intervenuta la l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 10, che ha modificato ancora l’art. 22 della l. n. 241. (36) Cfr. ad esempio, sent. 28 marzo 2013, n. 50 e 22 maggio 2013, n. 93, par. 1.4 dei motivi. Ma cfr. i non pochi precedenti degli anni Ottanta e Novanta citati da P. Tanda, Trasparenza (principio di), Dig. IV, Discipline pubblicistiche, Torino, Aggiorna- menti, 2008, 884 ss. (37) H. Kelsen, General Theory of Law and State, Cambridge, Mass., 1945, trad.it., Milano, 1952, 304 ss.

459 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 nomico-aziendale, in quanto non più limitata al riscontro della trasformazione della norma in atto in termini di legittimità, ma estesa all’efficace soddisfacimento dell’interesse pubblico concreto e all’efficiente produzione di outputs qualitativamente e quantitativamente apprezzabili (38). A sua volta la trasparenza implica e presuppone l’omogeneità dei dati utilizzati in comparazione tra di loro. In questo modo il valore della trasparenza si estende all’ordinamento contabile e finisce con il permearlo in una pluralità di accezioni. Fino almeno al t.u. degli enti locali approvato con d.lgs. n. 267/2000, esso si esprimeva tradizionalmente nei principi di veridicità, integrità, pubblicità e chiarezza, considerati in via tralatizia come re- gole amministrative del bilancio degli enti pubblici, territoriali e non (39). A partire dal Tuel, passando attraverso il regolamento approvato con d.p.r. 27 febbraio 2003, n. 97 (40), la riforma della contabilità operata con d.lgs. n. 170/2006 e da ultimo attraverso il d.lgs. n. 118/2011, pure appartenente al pacchetto di norme delegate derivante dalla l. n. 42/2009, la progressione dell’espansione di questo valore nel sistema contabile pubblico è divenuta inarrestabile. L’International accounting standards board (Iasb) con i suoi principi contabili ha poi fatto il resto. Il Regolamento Ce del Parlamento e del Consiglio 1606/2002 vi è in gran parte conformato, spingendo gli Stati membri verso l’uniformità. In termini assoluti, già nel regolamento n. 97/2003 i principi o postulati di veridicità e attendibilità di cui alle lett. a) e d) dell’art. 5 costituivano l’antesignano della trasparenza. In senso diacronico, i principi o postulati di continuità e costanza, cui alle lett. j) e l), attuavano il medesimo valore, consentendo la comparabilità nel tempo di entrate e spese, e quindi fondando la verifica dei risultati della programmazione e dello scostamento tra ipotesi preventive e dato conclusivo. Sul piano sincronico, la trasparenza rappresenta lo strumento o piuttosto il metodo ispiratore d’impostazione ex ante e verifica ex post dei principi sostanziali, quali significatività, rilevanza (lett. e), prudenza (lett. k), correttezza (lett. b) imparzialità (lett. c) e coerenza. La stessa declinazione congiunta di metodo finanziario e metodo economico, principio ispiratore delle riforme domestiche e sovranazionali, implicando che la competenza finanziaria imputi gli accertamenti e gli impegni mentre quella economica permetta di correlare le risorse impiegate, i risultati ottenuti e le responsabilità dei titolari della gestio- ne, si vale della trasparenza come tecnica di perseguimento e verifica dell’equilibrio di bilancio, così contribuendo alla realizzazione del principio costituzionale formulato nell’art. 81. L’esigenza di trasparenza sul versante contabile, così collocata su di un piano inclinato che ha, a un estremo, principi tecnico-contabili e all’altro valori di rilievo costituzionale, non è certo sfuggita al legislatore del federa- lismo fiscale del 2009, che infatti ha contemplato un’apposita delega finalizzata prima alla rilevazione unitaria dei fatti gestionali sotto i profili finanziario ed economico-patrimoniale insieme e poi alla migliore conoscibilità dei dati di bilancio. Il decreto delegato 118/2011, integrato dal d.p.c.m. 28 dicembre 2011, ha appunto provve- duto a dare attuazione a questo approccio (41). La nuova articolazione del bilancio dell’ente locale per missioni e programmi non solo lo rende più omogeneo a quello statale e valorizza la reciproca comparabilità, ma esalta la leggibilità e la trasparenza e si muove nel senso dell’adozione della classification of the functions of government (Cofog), a sua volta conforme al sistema dei conti europeo Sec95, il cui scopo è ovviamente quello di omologare le tecniche classificatorie in uso nei diversi ordinamenti per agevolare confronti e adeguamenti assimilatori. In complesso, la carica valoriale dei costi standard è enorme: muove da idee collocate nella sfera dell’economia, della politica, della matematica e della statistica e si colloca al cuore del costituzionalismo liberaldemocratico. 2. La vicenda preparatoria L’iter elaborativo dei costi standard a partire dalla l. n. 42/2009 dovrebbe essere ormai noto, ma può meri- tare un breve riepilogo del profilo evolutivo della normazione. Tra i principi e criteri direttivi della delega l’art. 2, c. 2, indica chiaramente la determinazione del costo e

(38) Impossibile in questa sede rendere conto di tali ampi sviluppi dottrinali, ma v. a titolo meramente esemplificativo, L. Ian- notta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, Dir. proc. amm., 1998, 299 ss.; Av.Vv., Economia, diritto e politica nell’amministrazione di risultato, Torino, 2003; Aa.Vv., Principio di legalità e ammi- nistrazione di risultato, Torino, 2004. (39) V. ad esempio, S. Buscema, A. Buscema, Contabilità dello Stato e degli enti pubblici, Milano, 4ª ed., 2005, 45 ss. (40) Su cui per tutti L. Fiorentino, R. Perez (a cura di), Il regolamento sull’amministrazione e la contabilità degli enti pubbli- ci, Milano, 2005. (41) Cfr. in particolare gli artt. 2 e 9. Un commento analitico ai due testi in M. Quecchia, Il nuovo ordinamento contabile de- gli enti locali, Finanza locale, 2013, n. 4, 7 ss. Nell’art. 2, c. 1, tra le finalità della legge, figura già l’intento di “armonizzare i si- stemi contabili e gli schemi di bilancio” degli enti locali.

460 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA del fabbisogno standard come indicatori per la valutazione di efficienza ed efficacia dell’azione pubblica, anche alla luce della definizione degli obiettivi di servizio (lett. f), così facendo pienamente propria la configurazione dell’amministrazione per missione, strutturata dinamicamente e funzionalmente, nonché il superamento della spesa storica (lett. m). L’apposito decreto delegato è previsto espressamente, tra i tanti provvedimenti attuativi necessari, dal c. 6 dello stesso art. 2, che correla strettamente la determinazione di costi e fabbisogni standard ai livelli essenziali delle prestazioni. Gli artt. 8 e 21, rispettivamente per le regioni e per gli enti locali, indi- viduano le diverse tipologie di funzioni, allo scopo di distinguere tra quelle che sono destinate alla copertura integrale del fabbisogno e del costo standard, in ragione, della fondamentalità delle esigenze di solidarietà sociale, e quelle che non fruiscono di tale qualifica (42). L’art. 11, sulla base del dato funzionale riferito agli enti locali, disciplina le fonti destinate alla copertura delle distinte categorie di funzioni, fondando il calcolo soprattutto di quelle fondamentali su costi standard preventivamente determinati (43). L’art. 13 si richiama alla standardizzazione della spesa corrente, previa applicazione di correttivi di natura demografica, territoriale e sociale, per la ripartizione del fondo perequativo (c. 1, lett. c, d). Lo schema di decreto legislativo, il terzo in progresso di tempo, veniva presentato alla commissione parla- mentare per il federalismo fiscale e alle commissioni bilancio delle due Camere l’8 settembre 2010. Il termine per l’espressione del parere della commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo (Copaff) veniva spostato per la complessità della materia dal 7 al 27 novembre 2010; l’iter si concludeva il 10 novem- bre, preceduto dai pareri delle Commissioni affari costituzionali e da quello della commissione finanze del Senato (44). La deliberazione del Consiglio dei ministri seguiva in data 18 novembre, con significative modifi- cazioni rispetto al testo esaminato dalle Camere (45). Il risultato finale era il d.lgs. 26 novembre 2010, n. 216. Il decreto, com’è ormai ben noto, prepone il governo al coordinamento dinamico della finanza pubblica in vista dell’obiettivo della convergenza dei costi e dei fabbisogni standard dei diversi livelli di amministrazione e degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali, contemplando il parere preventivo della Conferenza permanente e il concorso di quest’ultima al monitoraggio; prevede una fase transitoria graduale di un triennio (art. 2); individua, fino a nuova determinazione con legge, le funzioni fondamentali di comuni e province e classifica come fondamentali le relative spese, limitando quelle generali di amministrazione e controllo di entrambi i livelli di governo al 70 per cento di quelle certificate nell’ultimo bilancio disponibile prima dell’entrata in vigore della legge di delega (art. 3); individua la metodologia per la determinazione dei fabbisogni standard dettando alcuni criteri alquanto generali (art. 4); affida sia l’elaborazio- ne delle metodologie che il loro aggiornamento e il monitoraggio della fase applicativa (non oltre il terzo anno dalla adozione, art. 7) alla Società per gli studi di settore, poi soluzioni per il sistema economico (Sose s.p.a.), controllata dal Tesoro, con la collaborazione scientifica dell’Istituto per la finanza e l’economia locale (Ifel) e con l’eventuale avvalimento dell’Istat (art. 5). La Conferenza Stato-città e autonomie locali aveva nel frattempo, nella seduta del 27 luglio 2011, individuato come criterio per la raccolta dei dati la distribuzione e la raccolta in via telematica di questionari, con la sanzione del blocco dei trasferimenti di qualsiasi tipo agli enti inadempienti (46). L’attività di rilevazione è stata avviata nel corso del 2011 con riferimento al primo terzo di funzioni fonda- mentali, destinato a venir finanziato nelle nuove forme dal 2013, cioè polizia locale per i comuni, servizi del mercato del lavoro per le province e funzioni generali di amministrazione, gestione e controllo per entrambi. La relativa nota metodologica è stata approvata con d.p.c.m. 21 dicembre 2012. La sua pubblicazione è stata ov- viamente preceduta da un’intensa attività istruttoria e di confronto. I momenti più rilevanti di tale attività, dopo la ricezione dei questionari, sono stati probabilmente la riunione in seduta plenaria di Copaff del 28 giugno

(42) V. il sintetico commento di A. Poggi, Costi standard e livelli essenziali delle prestazioni, in V. Nicotra, F. Pizzetti, S. Scoz- zese, Il federalismo fiscale, cit., 109 ss. (43) Cfr. il commento di G.F. Ferrari, Inquadramento generale dei rapporti finanziari tra lo Stato e gli enti locali, ivi, in par- ticolare, 170 ss. (44) La cronaca in commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, Relazione semestrale sull’attuazione della legge delega 5 maggio 2009, n. 42, sul federalismo fiscale, Doc. XVI bis n. 3, 30 novembre 2010. Un commento in M. Ber- tolissi, Il federalismo fiscale e la sua cronaca, in Federalismo fiscale, 2010, 123 ss. Le relazioni successive nel Doc. XVI bis, n. 5, 21 luglio 2011, e nel Doc. 649, 9 maggio 2012. (45) Cfr. il Doc. XVI bis, cit., all. 1, 97 ss. (46) I termini per raccolta e pubblicazione dei dati sono stati individuati dalla l. 6 luglio 2012, n. 94, art. 1-bis, di conversione del d.l. 7 maggio 2012, n. 52, poi abrogato dall’art. 49-bis d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che all’art. 54 ha pure dettagliato i termini di decorrenza della sanzione.

461 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

2012, l’audizione di Copaff presso la commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale sullo stato di attuazione del procedimento, dell’11 luglio 2012, e l’audizione di Ifel e Sose avanti la stessa commis- sione parlamentare, del 28 novembre 2012. I prodotti finali, almeno sinora, sono stati la nota metodologica di Ifel, articolata per singole funzioni, e il Rapporto Ifel, portante la sintesi dei risultati. 3. I metodi Venendo ora alla procedura seguita, vanno anzi tutto illustrate le modalità di formazione del questionario. Quanto alla collaborazione degli enti locali, forse per la prima volta nella storia amministrativa italiana si è realizzata una raccolta dati totalmente o pressoché totalmente soddisfacente. I questionari inviati nel 2011, concernenti per i comuni le funzioni polizia locale (47) e per le province quelle di sviluppo economico riferite ai servizi del mercato del lavoro (48) e quelle generali di gestione, amministrazione e controllo (49) hanno infatti ottenuto risposta dal 100 per cento degli enti interessati, mentre i questionari destinati ai comuni su queste ultime funzioni (50) hanno avuto riscontro per il 99,99 per cento, mancando all’appello solo tre enti. L’attività di assistenza da parte degli operatori Ifel è stata assidua ed evidentemente incisiva, manifestandosi in assistenza preventiva nella compilazione dei moduli e in interventi successivi per la verifica di dati a prima vista inattendibili, e rilevante l’interesse delle amministrazioni a conseguire risultati in termini di efficienza e responsabilizzazione, al di là dell’efficacia della sanzione minacciata. Poco meno vicini alla totalità degli in- terpellati i riscontri ai questionari inviati nel 2012 ai comuni per istruzione pubblica (51) e settore sociale (52), pari rispettivamente al 98,8 e al 97,6 per cento degli enti, mentre sono stati ancora del 100 per cento le risposte delle province in tema di istruzione pubblica e gestione del territorio (53). Nel 2013 sono stati inoltrati i residui questionari concernenti viabilità e trasporti, nonché gestione di territorio e ambiente per i comuni (54), traspor- ti, tutela ambientale e polizia provinciale per gli enti di secondo livello (55). La fonte principale per la compilazione dei questionari è stata costituita dai Certificati di conto consuntivo (Ccc), come prescritto dal d.lgs. n. 216/2010, e dai dati relativi ad accertamenti, incassi, impegni e pagamenti. Per le funzioni di polizia locale si è subito constatato che i dati ricavabili dai Ccc, pur avendo il pregio di essere diacroni- camente attendibili in quanto di solito raccolti ed esposti con la stessa metodica per un certo numero di anni, erano troppo eterogenei, ad esempio perché una parte della retribuzione degli addetti era spesso forfettariamente contabi- lizzata tra le funzioni generali, mentre componenti di costo ulteriori erano frequentemente riportate sotto voci diver- se, ad esempio quella relativa alla prestazione di servizi anziché quella di personale, ovvero ancora qualche addetto veniva contabilizzato sotto una sola funzione secondo il criterio della prevalenza economica ma impiegato in più funzioni, ed altro ancora. I dati dei Ccc sono stati pertanto integrati mediante il ricorso a tavoli tecnici esplicativi. Una volta ottenuti i dati sulla base di questionari molto articolati e compilati in modo uniforme anche grazie all’assistenza centralizzata, il primo passo è consistito nella c.d. pulitura dei dati, cioè nella correzione finalizzata a renderli attendibili. Essenziale è stato ad esempio l’esame disaggregato delle spese per la polizia locale sostenute non da comuni singoli, il cui dato era quindi pari o vicino a zero, ma da Unioni, consorzi e altre forme aggregative. Non meno rilevanti erano errori da comportamento opportunistico dell’estensore, inteso a rappresentazioni non del tutto corrette: controlli sistematici e verifiche analitiche hanno consentito di rimuo- verli. Taluni comuni hanno comunque dovuto venire scartati per inattendibilità dei dati, nonostante il lavoro di analisi e di intervento dialettico (56). Terminata questa prima operazione, si trattava di definire il metodo di elaborazione dei dati. Il criterio più diffuso nei non numerosi testi internazionali e seguito in qualche occasione dallo stesso Ifel (57), benché solo

(47) Questionario FC02U. (48) Questionario FP06U. (49) Questionario FP01U. (50) Questionari FC01A-B-C-D. (51) Questionario FC03U. (52) Questionario FC06U. (53) Questionari FP02U e FP04U. (54) Questionari FC04U e FC05U. (55) Questionari FP03U, FP05U, FP07U. (56) In numero di 28: Sose, I fabbisogni standard per le funzioni fondamentali di Comuni e Province, Roma, 11 luglio 2012, 29. (57) Ifel, Economia e finanza locale, Rapporto 2010, Roma, 35 ss. e 123 ss.

462 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA per spiegare i differenziali di spesa su base territoriale, oltre che dall’Alta commissione per il federalismo fiscale nel 2005, era quello fondato sull’analisi della spesa storica pro capite di ciascun comune, con stima econometrica della funzione di spesa nel suo insieme, ad inclusione di tutte le determinanti, ed applicazione di fattori di regressione: questa tecnica è definita di solito Regression-based cost approach (Rca) (58). Con tale metodo il risultato finale è costituito dal valore atteso condizionato della spesa (fitted value) ottenuto dopo ave- re uniformato territorialmente i valori delle variabili esplicative non strutturali, cioè dopo avere standardizzato le spese. Sose e Ifel hanno invece optato per il diverso metodo Representative expenditure system (Res), che si fonda sull’analisi econometrica delle singole funzioni di costo di ogni servizio o funzione fondamentale, che fa riferimento al valore atteso (fitted value) non condizionato, ovvero sull’analisi di tutte o parte delle variabili esplicative, cioè di tutte o gran parte delle determinanti, ad inclusione ad esempio della domanda di servizi o funzioni da parte della cittadinanza, dell’efficienza e capacità amministrativa degli enti, delle risorse finanziarie disponibili, variabili non strettamente connesse al modo di essere della funzione esaminata in sé e per sé, e pertanto considerate non strutturali dall’opposta tesi. La scelta per la seconda metodologia è stata dettata dalla difficoltà di individuare un verooutput per la prima funzione esaminata, quella di polizia locale, oltre che dalla ritenuta maggior pragmaticità e flessibilità della formula. La misurazione, e anche solo l’osservabilità, del ri- sultato è infatti problematica: è discutibile che esso consista nella maggior sicurezza piuttosto che nel numero più elevato di contravvenzioni stradali elevate, o in altri indici di valutazione. In termini meno esoterici e più vicini alla metodologia delle scienze umane, potrebbe dirsi riassuntivamente che si sia preferito un approccio induttivo, o, come si esprime il testo Ifel (59), “bottom up, basato sulla costruzione e condivisione di un dataset di variabili micro in grado di alimentare stime di singole funzioni di costo”. È d’altronde verosimile che la preferenza metodologica sia la più conforme alle prescrizioni dell’art. 4 d.lgs. n. 216 cit., che sembrano richie- dere l’individuazione dei modelli organizzativi e dei livelli quantitativi delle prestazioni e poi l’estrazione dei fattori di costo più significativi, in grado di orientare la scelta di intervalli di normalità, pervenendo alla fine alla definizione degli indicatori di adeguatezza dei servizi concretamente utilizzabili nella gestione. Più in generale, si è stabilito di distinguere funzioni e servizi da analizzare in tre gruppi. Il primo, che include asili nido, scuole materne, smaltimento rifiuti, trasporto pubblico locale, comprende prestazioni misurabili, con- sistenti in erogazione di beni ovvero di servizi; il secondo, a cui sono riconducibili anagrafe, gestione dei tributi, ufficio tecnico, altre attribuzioni di istruzione pubblica, viabilità e trasporti ad esclusione del trasporto pubblico locale, territorio e ambiente meno il servizio rifiuti, servizi sociali, si caratterizza per prestazioni non misurabi- li, ma anche per la possibilità di misurare prodotti intermedi correlati a quelli finali; il terzo, infine, si connota per funzioni o servizi che non sono misurabili nell’output e neppure generano prodotti intermedi collegati al risultato finale, come la polizia locale e le funzioni generali, ad esclusione di quelle ricondotte alla seconda tipo- logia. La tripartizione non ha valenza meramente classificatoria, ma genera conseguenze metodologiche. Per il primo gruppo, infatti, il modello di stima può quantificare separatamente i livelli standard di output, attraverso la valutazione della domanda, e i costi standard di produzione, attraverso la stima di una funzione di costo, calcolata, come detto, con il metodo Rca. Per il secondo gruppo, invece di procedere a stime separate di costi e livelli standard di servizi, si calcola la spesa standard assumendo il pieno equilibrio tra domanda e offerta delle prestazioni considerate e quindi si ricavano indicatori dai dati informativi concernenti le prestazioni intermedie. Attraverso una metodologia alquanto più complessa si possono comunque ottenere indicazioni circa i costi e definire gli obiettivi di servizio, come richiesto da legge delega e decreto delegato. Le produzioni intermedie consentono così di valutare nel merito efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa locale. La tecnica di stima può quindi avvicinarsi a quella utilizzata per il primo gruppo. Per il terzo, infine, costi e quantità vengono stimati insieme, per la difficoltà di individuare e applicare indicatori di efficienza delle prestazioni, che rende impossibile costruire un rapporto causale lineare tra il fabbisogno e gli indicatori stessi (60). Gli studi Ifel sono così pervenuti a identificare i fabbisogni standard del primo tipo nel dato risultante dalla semplice moltiplicazione dei costi per il quantitativo standard, ricavati con stime separate; quelli del secondo con il calcolo combinato di costi e quantità, nonostante la possibilità di inferire i livelli di servizi offerti per mez- zo di indicatori di adeguatezza e di indicare obiettivi di miglioramento gestionale; gli ultimi con la determinazio-

(58) Cfr. D. Rizzi, M. Zanette, I fabbisogni standard di spesa dei comuni italiani, in Pol. econ., 2011, 219 ss. (59) Rapporto Ifel sui fabbisogni standard. Metodologia di stima e determinazione dei fabbisogni standard della polizia lo- cale, Roma, sd, 3 ss. (60) Cfr. Rapporto Ifel sui fabbisogni standard, cit., 8-11.

463 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 ne simultanea di costi e quantità standard, in forma di una spesa totale, senza spazio per inferenze circa i livelli di servizio, ma con possibilità di calcolare costi e livelli medi degli input (61). In sintesi, non è possibile utilizzare metodologie identiche, ma l’adeguamento alle variabili tipiche di ciascuna funzione o servizio consente di co- struire modelli di stima attendibili: in fatto si è sempre tenuto conto del costo unitario per addetto, dei costi di alcuni altri input, e di specifici fattori significativi del rapporto tra domanda e offerta nell’ambito considerato. È lo stesso art. 4 del d.l.gs. n. 216, d’altronde, a prescrivere la valutazione di standard per singole funzioni. Un’altra difficoltà del calcolo dei costi è data dalla circostanza che moltiinput producono molteplici output, come nel caso del lavoro del personale, di prestazioni di terzi e anche di capitale impiegati in maniera tra- sversale tra funzioni. Vi sono poi problemi derivanti dalla lettura di variabili indipendenti che incidono anche sensibilmente sul costo di qualche servizio, in termini non omogenei: così la posizione geografica, l’orografia del territorio, le distanze, in servizi diversi come il trasporto alunni o la raccolta dei rifiuti urbani. Nelle for- mule adottate la somma di queste variabili deve essere accuratamente calibrata e viene espressa con Z. Se Z è correttamente impostato, dovrebbe essere possibile individuare le inefficienze nei costi di produzione rispetto alla media, in quanto la spesa depurata delle variabili potrà risultare eccedente rispetto al fabbisogno. Al tempo stesso riesce possibile calcolare anche le inefficienze rispetto alle cosiddettebest practices, consistenti contesti in cui vengono operati risparmi particolarmente virtuosi. Al di là delle difficoltà metodologiche generali, singoli servizi e funzioni presentano problematiche spe- cifiche. Le funzioni di polizia locale, ad esempio, sono molto articolate, includendo la polizia municipale, che implica l’attribuzione della qualifica di agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, la polizia commerciale, estesa al commercio in sede fissa, a quello su aree pubbliche, alla somministrazione di cibi e bevande, la polizia amministrativa con rilascio di assensi e irrogazione di sanzioni, e anche la protezione civile. L’eterogeneità delle attività e della loro contabilizzazione aveva impedito, sino al questionario Sose-Ifel, di ottenere qualsiasi informazione statistica di discreta completezza. Si è quindi reso necessario calcolare le per- centuali di tempo di utilizzo del personale, per tipo di rapporto di impiego (dirigenti e non, dipendenti a tempo indeterminato, determinato e a contratto, tempo pieno, part time o impiegato solo per parti di anno, ecc.), sia addetto specificamente a funzioni di polizia locale e come tale contabilizzato nei Ccc, sia operante in parte su funzioni diverse e imputato ad altri quadri del Ccc; aggiungere gli oneri riflessi a carico dell’amministrazione, ricostruire le spese indirette, che vanno dal carburante alle spese postali, a quelle di manutenzione dei mezzi, al leasing di vetture, alle infrastrutture tecnologiche o a parti di esse; nel caso di gestioni associate, ricostruire i rapporti finanziari tra più enti e le relative ricadute sul bilancio; calcolare le entrate da rimborsi, ad esempio per personale comandato o convenzionato, quelle da corrispettivo di servizi, per lo più a terzi, quelle da sanzioni correlate alle funzioni (62). Tra le variabili da considerare, in gran parte diverse da quelle di pertinenza di altri ambiti funzionali, si è tenuto conto di fattori demografici e socio-economici suscettibili di incidere sulla do- manda (come superficie, livelli altimetrici, caratteristiche sismiche e altri rischi, numero di residenti, famiglie e pendolari in entrata e in uscita, presenze turistiche), di fattori ambientali capaci di condizionare l’offerta (come lunghezza delle strade, numero degli incidenti stradali e loro effetti, numero dei veicoli circolanti per tipo, en- tità del commercio ambulante, ecc.), dei prezzi dei fattori produttivi (63). Altre variabili di contesto sono state ricavate dai questionari, quali aree Ztl o pedonali e loro estensione, aree di sosta a pagamento, mercati, im- pianti semaforici, presenza di campi nomadi, insediamenti irregolari (64), così come fattori esogeni di carico, quali provvedimenti giudiziari da eseguire, trattamenti sanitari obbligatori, e altro ancora. Si sono poi dovuti distinguere i modelli organizzativi, a gestione diretta del servizio, o convenzionata con altri enti, oppure asso- ciata in unioni, consorzi o comunità montane, non mancando neppure comuni privi del servizio, in cui molte funzioni sono demandate alle forze di pubblica sicurezza (65). La mole di dati eterogenei è sempre enorme e la loro raccolta ha rappresentato un importante contributo, anche al di là dei costi e dei fabbisogni standard, per la conoscenza trasparente della dimensione funzionale delle amministrazioni locali. Essi sono stati acquisiti una volta per tutti e sono destinati a costituire una preziosa dotazione di know-how che potrà essere impiegata utilmente per molti usi in futuro.

(61) Ibidem, 10-11. (62) Ifel, Nota metodologica, Determinazione dei fabbisogni standard per i comuni. Funzioni di polizia locale, Roma, sd, 7-9. (63) Ivi, 15-17. (64) Ivi, 18-19. (65) In numero di ben 394, di cui 305 al Nord-Ovest: ivi, 24 ss.

464 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Senza entrare in dettagli matematici relativi all’applicazione dei fattori di regressione e della successiva elaborazione dei dati, si può indicare qualcuno dei risultati ottenuti, quanto meno per comprenderne l’utilità. Circa il 48 per cento dei comuni ha costi e fabbisogni che si discostano dal dato storico di percentuali tra il + e il -25 per cento; collocandosi nel punto di vista dei consumatori, almeno 4871 comuni sostengono spese storiche superiori di oltre 10 euro pro capite alla spesa riclassificata (66). Il dato ricavato consente di mettere in cantiere redistribuzioni, che sono aggregate anche su base regionale, oltre che su base dimensionale, assu- mendo come variabile indipendente il livello complessivo della spesa per funzione, che assomma a circa il 7,87 per cento della spesa comunale totale. Si evince così ad esempio che lo scarto tra la spesa storica riclassificata e il fabbisogno standard effettivo è negativo, cioè comporterebbe una riduzione della spesa, nei comuni sotto i 2.000 abitanti e in quelli sopra i 250.000; positivo, cioè tale da richiedere maggiore spesa, nelle altre fasce e più marcatamente in quella tra i 2.000 e i 5.000; è negativo in Basilicata (-16,9 per cento), Molise (-10,8 per cento), Lazio (-9,3 per cento), Campania (-8,2 per cento), Calabria (-3,3 per cento), Abruzzo (-2,3 per cento), Puglia (-1,7 per cento), ma anche in minor misura in Piemonte (-1,5 per cento) e Lombardia (-0,7 per cento), mentre è positivo in Veneto (+20,6 per cento), Umbria (+17,3 per cento), Toscana (+10,8 per cento) e Marche (+10,2 per cento) (67). I dati relativi alle province in merito ai servizi del mercato del lavoro sono altrettanto puntuali: ad esempio gli enti virtuosi sono il 19,3 per cento, mentre quelli non virtuosi sono il 18,8 per cento. Per la prima volta, comunque, si sono acquisiti dati precisi concernenti le percentuali della spesa comunale e provinciale per le singole funzioni. A livello comunale, le funzioni generali di amministrazione, gestione e controllo rappresentano il 27,20 per cento del totale, l’istruzione il 18,52 per cento, viabilità e trasporti l’11,36 per cento, la gestione di territorio e ambiente il 19,27 per cento, il sociale il 15,77 per cento. A livello provin- ciale le funzioni generali ammontano al 22,89 per cento del totale di spesa, l’istruzione al 24,41 per cento, i trasporti al 21,42 per cento, la tutela ambientale all’8,06 per cento, la gestione del territorio all’11,74 per cento e i servizi del mercato del lavoro all’11,49 per cento (68). A valle del completamento della rilevazione e dell’elaborazione dei dati, la conoscenza del finanziamento delle funzioni degli enti locali sarà certamente molto avanzata, a parte qualsiasi discussione in sede scientifica o applicativa circa la controvertibilità o, nel linguaggio popperiano, la falsificabilità dei metodi utilizzati. Si disporrà così di tutti i parametri a cui ancorare il finanziamento integrale delle funzioni fondamentali (69), per indirizzare le compatibilità macro-finanziarie verso la convergenza dei servizi offerti e dei costi di fornitura verso standard nazionali, auspicabilmente senza riduzione delle risorse per le funzioni fondamentali. 4. I costi standard nel settore sanitario: alcune considerazioni generali Nel settore sanitario il ricorso alla categoria del costo standard ha inevitabilmente un senso e un’utilità diversi. La spesa sanitaria, che rappresenta – è quasi inutile ricordarlo – una percentuale molto rilevante della spesa pubblica e dello stesso Pil (70), prescinde dalle autonomie territoriali e viene finanziata, a partire dalla attuazione della l. n. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, attraverso il Fondo sanitario nazio- nale con tecniche top down, che escludono gli enti locali e collocano tra Stato e regioni l’articolazione del circuito rappresentativo-tributario. Benché tale meccanismo non escluda che il solidarismo sociale delle scelte politico-allocative fondamentali venga temperato da esigenze di efficienza ed efficacia, i risultati in termini di contenimento del disavanzo e di garanzia della qualità, sia sul piano del raggiungimento dei livelli essenziali di assistenza sia sul terreno della perequazione interregionale sono stati, come è noto, tutt’altro che esaltanti. Le regioni, del cui bilancio le spese sanitarie hanno rappresentato costantemente oltre quattro quinti (71),

(66) Rapporto Ifel sui fabbisogni standard, cit., 76. (67) Ivi, 78-80. (68) Ministero dell’economia e delle finanze, Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, Audi- zione, Roma, 11 luglio 2012, 3-4. (69) Cfr. le conclusioni di A. Zanardi, Spending review e fabbisogni standard: due vie per la razionalizzazione della spesa pubblica, Brindisi, 7 ottobre 2011. (70) Rispettivamente 14,7 per cento della spesa pubblica totale, purtuttavia inferiore alla media Ue di 14,9, e 7,1 per cento. Analisi comparate dei modelli organizzativi e finanziari in G. France, Federalismi e sanità, Milano, 2006. (71) V. le Relazioni annuali sulla gestione finanziaria delle regioni da parte della Corte dei conti, Sez. autonomie, Roma, pro anno.

465 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 hanno spesso dato vita a enormi disavanzi, non di rado contabilizzati in anni successivi o solo parzialmente, e hanno costretto lo Stato a ripiani a piè di lista, e successivamente all’adozione di piani obbligatori di rientro, riqualificazione e riorganizzazione, dal 2004 (72) sanzionati con commissariamenti di crescente incisività. In un contesto tanto diverso da quello degli enti locali, non solo la funzione dei costi standard è necessariamente diversa, ma ci si può persino interrogare sull’utilità dell’impiego del concetto (73). Ciò benché la stessa ca- tegoria concettuale sia nata proprio in ambito sanitario nel 1993 (74) e sia stata poi applicata ad altri settori. In progressione diacronica il finanziamento della sanità si è conformato dal 1978 al 1984 alla spesa stori- ca, sia pure con la finalità dichiarata (artt. 51 e 52) di eliminare progressivamente le differenze strutturali e di prestazioni tra le regioni (75), ma tale criterio fu presto ritenuto penalizzante per le regioni meridionali meno servite; dal 1984 a un criterio prevalentemente demografico (capitation) (76); dal 1992 (77) a un sistema capitario corretto in base a coefficienti parametrici; dal 1996 alla consistenza demografica “pesata” dal Cipe per tener conto dell’invecchiamento della popolazione e di altri parametri espressivi del bisogno di salute (78), quindi delle esigenze della domanda di servizio sanitario. I perduranti disavanzi sono poi stati fronteggiati al Sud prevalentemente con ticket e tentativi di contrazione della spesa ospedaliera, al Centro-Nord per lo più con ricorso alla fiscalità generale (79). L’entrata in vigore della l. n. 42/2009 ha introdotto i principi del fe- deralismo fiscale, con l’effetto di rafforzare tendenzialmente l’autonomia regionale e di ricercare incrementi di efficienza pur nella salvaguardia di obiettivi di servizio. Il che dovrebbe significare che l’estensione del costo standard al finanziamento della sanità ha la funzione precipua di “efficientamento”, ovvero di introdurre bilanciamenti tra equità ed efficienza, almeno sul terreno bilancistico, salvi ovviamente gli sforzi da condurre sul piano della qualità delle prestazioni. Questo orientamento si ricava chiaramente dai documenti di fonte statale, che attribuiscono alla riforma l’intento di incentivare o anche imporre alle regioni comportamenti vir- tuosi, volti a perseguire recuperi di efficienza ed efficacia nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, oltre che a ottenere un miglioramento strutturale degli equilibri di bilancio, eliminando ritardi di tipo culturale e tecnico-amministrativo-gestionale (80). Il fatto che la più parte dei testi in questione provenga dal Tesoro non sposta molto. Il problema è semmai se davvero il nuovo regime impostato dalla l. n. 42/2009 abbia deter- minato il “salto di paradigma” rispetto al recente passato e a ogni criterio applicato in precedenza o se invece le nuove formule si limitino a celare un maquillage dell’esistente in chiave ideologica, ossia di più marcata federalizzazione. L’attuazione della delega, realizzata con il d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68, ha portato alla conferma di un mec- canismo di determinazione top-down dei costi e fabbisogni standard su base regionale, da parte dei Ministri della salute e dell’economia e finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-regioni, sentita la struttura tecnica di supporto, con l’utilizzo dei dati forniti dal Nuovo sistema informativo sanitario (Nsis) ministeriale (art. 27, cc. 1 e 2). Pure il riparto interno delle risorse avviene con l’osservanza di percentuali stabilite normativamente (c. 3: 5 per cento per l’assistenza collettiva, 51 per cento per l’assistenza distrettuale, 44 per cento per quella ospedaliera). A partire dal 2013, dopo un biennio di transizione caratterizzato dalla continuità con il metodo

(72) Cioè dalla legge finanziaria del 2005, l. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, c. 180. Cfr., per tutti, E. Jorio, I piani di rientro dei debiti sanitari regionali. Le cause, le proposte e le eccezioni, in Federalismi, 2009, 2; C. Cuccurullo, F. Lega, F. Ferrè, I piani di rientro della spesa sanitaria: un’analisi comparativa, in Rapporto Oasi, 2010. L’aziendalizzazione della sanità in Italia, Mila- no, 2010, 235 ss.; M. Vipiana, I provvedimenti applicativi dei piani di rientro nell’ambito del sindacato giurisdizionale ammini- strativo, in R. Balduzzi (a cura di), La sanità italiana alla prova del federalismo fiscale, Bologna, 2012, 275 ss.; G. Carpani, I pia- ni di rientro tra emergenze finanziarie e l’equa ed appropriata erogazione dei Lea, ivi, 25 ss. (73) Cfr. infatti C. Cislaghi, F. Giuliani, Costi standard: ma di che cosa stiamo parlando?, in R. Balduzzi, cit., 77 ss. (74) Si assume infatti che essi vengano menzionati per la prima volta nella l. 24 dicembre 1993, n. 537. (75) Cfr. una sintesi in F. Toniolo, Il riparto del fondo sanitario dalla riforma sanitaria del 1978 all’“Accordo di Fiuggi” del 2003, in Sanità pubbl. e priv., 2003, 1205 ss. (76) Art. 17, l. 22 dicembre 1984, n. 887. (77) Artt. 1, 12, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502. (78) Cfr. infatti la l. 23 dicembre 1996, n. 662: cfr. F. Spandonaro, V. Atella, F.S. Mennini, Criteri per l’allocazione regionale delle risorse per la sanità: riflessioni sul caso italiano, in Pol. san., 2005, 5, 27 ss. (79) Il trend si ricava analiticamente dalla successione di delibere Cipe di ripartizione delle risorse destinate al finanziamento del Ssn e dalle intese in Conferenza Stato-regioni, pro anno. (80) Cfr. ad esempio, Ragioneria generale dello Stato, Costi standard e federalismo solidale: il caso della Sanità, Roma, 14 luglio 2011.

466 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA pregresso (art. 26, c. 2) (81), il fabbisogno standard delle singole regioni, da cui deriva cumulativamente quello nazionale, viene determinato applicando a ogni regione il valore di costo rilevato in tre regioni di riferimento, scelte dalla Conferenza Stato-regioni tra cinque indicate di concerto dai tre ministri di competenza, con ob- bligatoria presenza della prima, che abbiano garantito l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) in condizioni di equilibrio economico, senza assoggettamento a Piano di rientro, con rappresentanza delle diverse parti geografiche del paese e di una piccola regione; anche l’individuazione del lotto di cinque ha luogo in base a criteri ministeriali di qualità, appropriatezza ed efficienza, approvati previo l’usuale procedimento di concerto (art. 27, cc. 4 e 5). I costi standard sono preventivamente computati in ciascuno dei tre macrolivelli di assisten- za, collettiva, distrettuale e ospedaliera, poi aggregati, sulla base della media pro capite del costo nelle regioni di riferimento, al lordo della mobilità passiva, al netto di quella attiva, e con depurazione delle spese da entrate proprie, di quelle che finanziano livelli superiori ai Lea, delle quote di ammortamento finanziate separatamente (art. 27, c. 6). La convergenza verso gli obiettivi di cui alla l. n. 42/2009, cit. avverrà in un lasso di tempo di cinque anni, con revisione biennale (artt. 27, c. 11 e 29). L’equilibrio economico di riferimento viene valutato sul dato del secondo esercizio precedente (art. 27, c. 7) (82). Il sistema introdotto dal decreto delegato ha subito immediatamente forti critiche dalla dottrina e dagli opera- tori, che ne hanno contestato contraddizioni e ambiguità sotto diversi profili (83): si è detto, ad esempio, che l’i- niezione di efficienza a temperare equità e bisogno sociale utilizzi strumentalmente la nozione di costi standard, e che comunque sia stata legata più alle performances di bilancio che a quelle di qualità del servizio; che costi e fabbisogni sono usati come sinonimi o almeno come fattori di un circolo concettuale, in cui le differenze logiche si stemperano; che il fabbisogno nazionale standard come grandezza macroeconomica è definitoex ante, e quin- di in ultima analisi con riferimento al dato storico considerato presuntivamente efficiente; che tendenzialmente il finanziamento regionale calcolato sui costi standard è dimostrabile uguale a quello quantificato con il criterio della popolazione pesata, sicché tutto dipende dai pesi applicati, e che i pesi condizionano anche la scelta delle regioni benchmark, acquisendo così una posizione centrale sia sull’efficienza che sull’equità, dopo essere stati a loro volta modificati progressivamente nel tempo, per attenuare la rilevanza del fattore invecchiamento dando rilevanza a fattori più articolatamente collegati alle diverse fasce d’età, e quindi sostanzialmente salvaguardando i trends della spesa storica, sulla base di scelte in sede di conferenza mai chiaramente esplicitate, ma comunque frutto di mediazioni politiche che ben poco hanno di scientifico; che in sostanza la carenza di scientificità investe appunto soprattutto i pesi; ancora, che vi sarebbe contraddizione tra l’intento di rimuovere carenze strutturali (art. 22-bis) e le specificità socio-economiche delle regioni, che semmai dovrebbero influire sulla spesa corrente; che il riparto Nord-Centro-Sud nella scelta delle regioni benchmark pretermette altre, talora maggiori, diffe- renze in ciascun gruppo e che l’inserimento per motivi politici di una piccola regione non ha senso in quanto viene vanificato dalla ponderazione finale per popolazione; che la salvaguardia per la regione più virtuosa della percentuale dell’anno precedente (art. 27, c. 10) è grottesca, in quanto rende vana l’applicazione di complessi algoritmi. È altresì interessante rilevare come censure di diversa rilevanza siano mosse tanto da coloro che conte- stano l’inadeguatezza scientifica della metodologia introdotta quanto da quelli che lamentano l’efficientamento in un comparto che dovrebbe rispondere unicamente a logiche equitative. Senza entrare nel merito degli aspetti statistico-econometrici, che esulano dallo scopo della presente rela- zione oltre che dalle competenze del suo autore, non si può non tenere conto di queste e di altre critiche al d.lgs. n. 68/2011, cit., sul piano propriamente pubblicistico. L’utilizzo del costo standard nel calcolo della spesa degli enti locali risponde a finalità sia di efficientizzazione che di perequazione nel riparto delle risorse, in quanto un serio superamento del criterio della spesa storica non era mai stato tentato in precedenza. Inoltre, le funzioni

(81) Cioè quello disciplinato dall’art. 2, c. 67, l. 23 dicembre 2009, n. 191, attuativo dell’intesa Stato-regioni 2010-2012, 3 dicembre 2009, come rideterminato dall’art. 11, c. 12, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010, n. 122. (82) Cfr. sull’organizzazione L. Cuocolo, I “costi standard” tra federalismo fiscale e centralismo, in R. Balduzzi, La sanità italiana, cit., 101 ss. (83) Cfr. ad esempio, Agenas, Criteri per il riparto del fabbisogno sanitario, Relazione commissionata dalla Conferenza del- le regioni e delle province autonome, Roma, 2010; F. Spandonaro, Costi standard: un decreto che non convince, in Quot. san., 2010; N. Dirindin, Fabbisogni e costi standard in sanità: limiti e meriti di una proposta conservativa, in Pol. san., 2010, 11, 202 ss.; G. Pisauro, Retorica e realtà nella determinazione dei fabbisogni standard in sanità, in www.nelmerito.com, 2010; M. Bordi- gnon, N. Dirindin, Costi standard: nome nuovo per vecchi metodi, www.lavoce.info, 2010; C. Abbafati, F. Spandonaro, Costi stan- dard e finanziamento del Servizio sanitario nazionale, in Pol. san., 2011, 12, 1 ss.; E. Caruso, N. Dirindin, Costi e fabbisogni stan- dard nel settore sanitario: le ambiguità del decreto legislativo n. 68/2011, in Quad. dip. ec. fin. stat., Perugia, 2011, n. 100, 1 ss.

467 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 fondamentali e i servizi di comuni e province rispondono in modo diretto e immediato al principio democrati- co, e dunque la connessione tra tassazione e rappresentanza deve essere temperata dalla perequazione, in con- formità d’altronde al dettato degli artt. 117 e 119 Cost. La sanità invece, tutta giocata sul sociale, è collocata, come in molti ordinamenti stranieri, sostanzialmente fuori dal circuito locale e anche da quello rappresentativo, in quanto una voce che pesa per oltre l’80 per cento della spesa regionale, lo condiziona, anzi lo schiaccia, piuttosto che coesistere con altre competenze e venire bilanciata con esse; inoltre il suo finanziamento è sto- ricamente statale, al di fuori delle regioni speciali, e i temperamenti di questa regola sono recenti, risalendo alla fase di transizione dal soft allo hard constraint verso le regioni meno virtuose. Le ragioni equitative sono sempre state quindi dominanti nel riparto interregionale dei fondi disponibili. Queste circostanze di contesto, insieme costituzionale e storico, giustificano la prevalenza del fattore efficientistico, almeno nelle intenzioni dichiarate dal legislatore delegante e in termini meno espliciti da quello delegato. Un recupero di efficienza, naturalmente sia a livello di qualità dei servizi che di bilancio, era da tempo dovuto, e dovrebbe essere ottenuto anche mediante l’adeguamento strutturale e infrastrutturale, pur dandosi per provata la circostanza tutt’altro che pacifica che lo sforzo su quest’ultimo piano abbia natura equitativa e redistributiva. Altro è, invece, che plurime verifiche applicative del nuovo metodo provino inequivocabilmente che il risultato del complesso procedimento fondato su fabbisogni e costi standard produce risultati allocativi identici a quelli dei riparti anteriori al c.d. federalismo fiscale. Perché, se questa prova è attendibile, allora non può che essere confermato che il criterio del costo standard con i suoi algoritmi è effettivamente strumento di potenziale efficientizzazione, da qualche parte deprecato proprio per questo, ma che continua a sussistere una forte esigen- za di trade off con il fattore equitativo, a cui l’econometria e la statistica dovrebbero fungere da foglia di fico, mascherando, attraverso i pesi e la loro centralità, mediazioni tra regioni e governo che fino a ieri erano im- plicite, ma vengono ora rese trasparenti. Se in tal modo i costi standard assolvono alla funzione di trasparenza che si è assunta come mission della presente relazione, quanto meno un loro obiettivo è raggiunto. Tuttavia, lo scopo principale della metodologia viene mancato completamente, ed anzi essa viene in qualche modo ridotta a copertura inadeguata di abitudini antiche, se non screditata nella sua stessa utilità. Inutile evocare strumenti raffinatissimi di calcolo in funzione di efficienza se si può subito dimostrare che il loro uso è sviato. La moder- nizzazione del paese passa anche per il superamento di simili equivoci. Come pure l’estensione alle università del costo standard come criterio di calcolo dell’onere di “formazione per studente in corso … secondo indici commisurati alle diverse tipologie dei corsi di studio e ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali” (84) può segnare insieme un passo verso doverosi recuperi di qualità ed efficienza nell’istruzione superiore oppure essere fonte di equivoci, attesa la natura del servizio, che presenta pe- culiarità diversissime da quello sanitario e anche da quelli comunali: ad esempio, l’utente non ha un diritto pieno all’erogazione, ma subordinato a capacità e merito; la correlazione tra utenza e territorio è auspicabilmente nulla; l’utente può protrarre la durata degli studi oltre gli anni del corso legale, continuando a gravare sull’erogatore; la tassa di iscrizione può, almeno nella tradizione italiana, essere inferiore al costo del servizio, ed altro ancora. Conclusivamente sembra dunque potersi affermare che il legislatore sia venuto utilizzando la nozione di costo standard per finalità diverse: per gli enti locali allo scopo di dare attuazione all’art. 119 revisionato, e dunque per garantire la copertura di funzioni fondamentali e servizi inerenti alla cittadinanza con fonti pre- determinate e poi per equalizzare le diverse realtà territoriali; nella sanità, dando per presupposti i Lea e le grandezze macroeconomiche, per efficientizzare il sistema; nell’università per disporre di una unità di conto che consenta di riservare le risorse da trasferire ai soli atenei virtuosi e forse pervenire alla soppressione di quelli non virtuosi. In ogni caso, sarebbe forse preferibile l’uso di terminologie distinte, allo scopo di non delegittimare l’istitu- to stesso ed evitarne l’eterogenesi dei fini. Il problema non è però solo lessicale (85). Si tratta, come si è visto, di delegittimare, per esigenze meramente retoriche, istituti non privi di dignità scientifica collaudata in oneste esperienze nazionali e internazionali.

* * *

(84) L. 30 dicembre 2010, n. 240, norme in materia di organizzazione delle Università, art. 5, c. 4, lett. f). (85) Cfr. G. Grasso, Federalismo, federalismo fiscale, federalismo sanitario. Il lessico costituzionale alla prova dei costi standard, in R. Balduzzi, La sanità italiana, cit., 149 ss.

468 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

ONERI AMMINISTRATIVI E OBBLIGHI INFORMATIVI: RAZIONALIZZARE QUELLI A CARICO DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

di Vincenzo Lo Moro

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Definizione di onere amministrativo per una pubblica amministrazione.– 3. Qual- che quantificazione. – 4. I punti critici. – 5. Alcuni interventi migliorativi. – 6. Per un salto di qualità.

1. Introduzione Il Dipartimento della funzione pubblica (Dfp) sta svolgendo un’intensa attività al fine di misurare e ridurre gli oneri amministrativi gravanti sulle piccole e medie imprese (1). Negli ultimi tempi, in realtà, sono gran- demente aumentati anche quelli a carico delle pubbliche amministrazioni e anche per esse si può prendere in considerazione l’ipotesi che sia opportuno ridurli o per lo meno razionalizzare gli obblighi informativi che li determinano. Riproponendo per le pubbliche amministrazioni la stessa definizione di onere amministrativo valida per le imprese private, verrà proposta qualche quantificazione che metta in evidenza soprattutto la crescita degli obblighi informativi degli ultimi anni e una valutazione critica della loro finalizzazione ed effettiva utilità-util- izzabilità, nonché dei disagi (che si traducono in costi) sopportati dagli enti. Infine, proponendo un parallelo con l’evoluzione compiuta e in corso nelle rilevazioni statistiche ufficiali, sarà indicato un percorso per una sostanziale reingegnerizzazione. 2. Definizione di onere amministrativo per una pubblica amministrazione Nel documento “Lo Standard Cost Model” dell’agosto 2004, gli oneri amministrativi (oa) per le imprese vengono definiti nel seguente modo (2): “Per la tutela dell’interesse pubblico, i governi richiedono alle im- prese e ai privati di compiere o evitare determinate azioni o condotte (obblighi di contenuto). I governi richie- dono inoltre di fornire informazioni su azioni e condotte (obblighi d’informazione). Solo i costi derivanti dagli obblighi d’informazione possono determinare oa. Da ciò, la seguente definizione di oneri amministrativi: gli oneri amministrativi sono i costi imposti alle imprese, allorché queste adempiono agli obblighi di informazione previsti da norme di legge. Tale definizione può essere senz’altro traslata anche alle pubbliche amministrazioni. Vengono subito alla mente gli obblighi informativi (oi) per la trasparenza e l’integrità, ma non meno significativi sono quelli sulla contabilità, sulla gestione del personale (non compresi in quelli per la trasparenza), sulla fiscalità, sulla sicurezza. 3. Qualche quantificazione Per avere una prima quantificazione dell’entità di tali oneri basta esaminare il recente d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione d’informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, nel quale compaiono una trentina di articoli titolati “obbligo di pub- blicazione”. Tradotti in concreto, essi danno materia al documento Civit “all. 1 – sezione “amministrazione trasparente” – elenco degli obblighi di pubblicazione vigenti (3) Tale documento è composto di circa 250 righe di obblighi che, seppure non dovuti da tutte le amministrazioni, comportano un numero di aggiornamenti elevatissimo. Ogni riga, infatti, può dar luogo alla pubblicazione o aggiornamento di un singolo valore (rara- mente) di una tabella, di un testo e anche al risultato di elaborazioni complesse. Nel 2010, le tabelle per la trasparenza prevedevano 22 caselle, seppure di contenuto più complesso delle specificazioni attuali. La Civit, a luglio 2012, ha censito 96 obblighi di pubblicazione (4) Considerato che da

(1) Il disegno di legge “semplificazioni” varato dal governo il 19 giugno 2013, è centrato su “riduzione degli oneri ammini- strativi e informativi a carico di cittadini e imprese”. (2) www.funzionepubblica.gov.it/media/263890/standard_cost_model_ver._ita_(10.05).pdf. (3) All. 1, delib. n. 50/2013, Linee guida per l’aggiornamento del programma triennale per la trasparenza e l’integrità 2014- 2016. (4) Civit, Per una semplificazione della trasparenza, esiti della consultazione sugli obblighi previsti in materia di trasparen- za ed integrità, 1 dicembre 2012, Roma.

469 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 un anno a questa parte si è sviluppata e specificata la normativa anticorruzione, si può stimare che ogni ammi- nistrazione è obbligata a tenere aggiornate tra 100 e 150 informazioni, a cadenze diverse. Rispetto ad altri oi cui sono soggette le pubbliche amministrazioni, si tratta di un salto di dimensione che non ha pari e forse non possiede quella razionalità che l’organizzazione ferrea degli elenchi vorrebbe far emer- gere. Peraltro ciò è messo in evidenza dalla stessa Civit. Lo stato attuale delle regole in materia di obblighi di pubblicazione delle amministrazioni è connotato da frammentazione e ridondanza. Decine di disposizioni, eterogenee fra loro per contenuto e ambito soggettivo di applicazione, rendono difficile la fruizione delle informazioni da parte dei cittadini e incidono sull’effettiva conoscibilità degli obblighi e sul relativo adempimento da parte delle amministrazioni (5). Per fare alcuni esempi permangono in carico alle amministrazioni oi connessi a: la rilevazione del conto annuale del personale (nonostante l’obbligo di pubblicarne parte anche sul sito dell’ente); gli adempimenti ex t.u. enti locali; le comunicazioni di gara verso l’Avcp; le comunicazioni contabili e di bilancio verso Rgs e Corte dei conti, le informazioni sulla contrattazione integrativa. 4. I punti critici I costi e le ambiguità Non è difficile elencare i punti critici di tutto questo meccanismo, ma sarebbe un errore avviare l’ennesimo studio, magari con la stessa metodologia utilizzata per le imprese, per la misurazione dei relativi costi e la loro riduzione. Il problema non è misurare i costi degli adempimenti (se ne aggiungerebbe un altro): può bastare sapere che essi hanno alcune caratteristiche di costo che possono essere così assiomatizzate: 1. il costo degli oa è proporzionalmente tanto maggiore quanto più piccolo è l’ente; 2. il costo è tanto maggiore quanto più l’informazione richiesta non nasce da uno specifico sistema infor- mativo gestionale in uso; 3. il costo è tanto maggiore quanto più l’informazione richiesta non deriva direttamente da una procedura già in essere. Vanno inoltre considerati i costi indiretti, legati ad ambiguità delle definizioni, contraddittorietà delle nor- me, insufficiente comprensione o anomalia di situazioni specifiche ecc. Le risorse impegnate per superare que- ste problematiche sono distolte da altri fini ed è sempre presente il rischio che le incertezze definitorie rendano meno affidabili le informazioni fornite con la conseguenza di perdere il beneficio stesso della trasparenza. Tuttavia, la questione vera non è nei costi, diretti e indiretti, ma nella filosofia di fondo, nel metodo uti- lizzato per concepire gli oi: essi sono una puntuale rassegna dei singoli commi contenuti nella norma (non a caso denominata “riordino”) per individuare quale informazione debba essere fornita. Per comprendere dove bisognerebbe intervenire, occorre invertire la logica e porsi dal lato di chi, in cerca di maggiore conoscenza della macchina pubblica, va a consultare i dati resi pubblici. Obblighi duplicati e vessatori Nella presentazione del lavoro di semplificazione conseguente alla misurazione degli oneri sulle imprese si afferma che le attività di misurazione, oltre a consentire di individuare gli adempimenti da semplificare forni- scono un’importante base conoscitiva sulle ragioni della particolare onerosità delle procedure: stratificazione delle norme e degli adempimenti nel tempo, duplicazione delle comunicazioni e adempimenti, rilevanza dei controlli e assenza di coordinamento. (6) Gli stessi nodi si ritrovano con riferimento specifico alle oi in carico alle pubbliche amministrazioni. In particolare: - il 90 per cento delle amministrazioni (consultate) ha evidenziato sovrapposizioni fra norme e cioè che la pubblicazione di alcuni dati è prevista da disposizioni diverse che si sono succedute nel tempo e la cui for- mulazione o il cui ambito di applicazione, oggettivo e/o soggettivo, non consentono chiaramente di ritenere implicitamente abrogate le precedenti;

(5) Ibidem, 1. (6) Ufficio per la semplificazione amministrativa (Dfp): Semplificazione amministrativa: dalle norme al risultato, in www.fun- zionepubblica.gov.it/media/1066528/semplificazione_amministrativa_aprile2013.pdf.

470 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

- il 58 per cento delle amministrazioni ha riferito che per 44 dati, la cui pubblicazione è obbligatoria, esiste anche un concomitante obbligo di comunicazione a una o ad altre amministrazioni (7). Si può tranquillamente affermare che la situazione è più grave che nel caso delle imprese private. Infatti, mentre, non ultimo, il disegno di legge “semplificazioni 2013”, insiste su una regola più volte annunciata in passato e cioè che nessuna pubblica amministrazione può chiedere ai cittadini informazioni che essa si può procurare autonomamente attraverso accesso ad altra pubblica amministrazione, dall’altro lato, ciò non è al- trettanto vero per gli adempimenti richiesti da amministrazioni pubbliche ad altre amministrazioni pubbliche. Per far presente quanto il tema sia importante e più fruttuoso di qualsiasi linea di revisione della spesa, va fatto notare che, in anni recenti, il Gao (Government accounting office) statunitense ha intrapreso una intensa azione di ricerca su Duplication, Overlap and Fragmentation, identificando aree nelle quali agiscono troppe agenzie fede- rali, ovvero il processo decisionale è eccessivamente frammentato e quindi esistono margini di razionalizzazione e risparmio. Nel 2011 erano state individuate 81 opportunità di risparmio. Il Rapporto 2012 presenta 51 aree dove si può ricercare una maggiore efficienza o una migliore efficacia. Il Rapporto 2013 comincia a tracciare gli avan- zamenti fatti in tema di eliminazione delle duplicazioni a seguito degli studi effettuati (8). In sostanza quindi, buona parte degli oi oggi imposti alle pubbliche amministrazioni sono contemporane- amente da un lato, segnale di sovrapposizioni di adempimenti e, dall’altro, essi stessi rappresentano a volte duplicazioni e frammentazioni. Gli obblighi informativi rischiano di trasformarsi da mezzo in fine Nelle pubbliche amministrazioni, il rischio d’inefficacia è molto elevato, data la grande capacità di trasfor- mare ogni buon intento (che va ragionato, aggiornato e adattato) in un adempimento da eseguire senza grande valore aggiunto. Ancor più grave è il “conformarsi” a come la norma vuole che sia l’informazione resa, senza alcuna visione del vero obiettivo che ci si pone. La trasparenza e l’anticorruzione sembrano possedere tutte le caratteristiche perché questo rischio diventi realtà. Infatti, pur essendo chiaramente dei mezzi rispetto a una finalità più nobile – senz’altro la consapevo- lezza civile nel vivere democratico e la buona gestione – con facilità, nell’agire corrente delle singole ammi- nistrazioni, si possono trasformare in fini a sè stanti, perdendo la loro visione di strumenti da perfezionare e adeguare correntemente. Gli obblighi informativi mancano di finalizzazione; spesso non sono effettivamente utili ed efficaci Avvicinandoci finalmente alla parte propositiva, occorre chiedersi se esista un’effettiva utilità del singolo oi o dell’insieme di essi. La domanda non è provocatoria anche se può apparire tale. Per comprendere se un’in- formazione (resa pubblica permanentemente) è utile, non bisogna mettersi dal punto di vista del legislatore o dell’apparato che traduce la norma in adempimento; occorre porsi dal punto di vista di chi la utilizza. Tipicamente un utente che vuole avere maggiore conoscenza (perché di questo stiamo parlando) su un certo fenomeno combina un insieme d’informazioni: dati ufficiali, proprie conoscenze, comparazioni più o meno corroborate da dati confrontabili. Acquisire, ad esempio, l’informazione sul compenso dei dirigenti del proprio comune, o su quanto costa un servizio reso da un ente pubblico, sono informazioni che aumentano significa- tivamente la conoscenza del fenomeno solo a condizione che si possa facilmente ottenere una seria compara- zione con compensi dei dirigenti in condizioni analoghe, ovvero una misura di costo di servizio comparabile anche nel tempo. In questo modo il dato estratto dal sito dell’ente diventerà un’informazione che, combinata con l’obiettivo conoscitivo dell’utente, diventerà utile. Una qualche utilità può averla anche il dato puntuale, ma il rischio che sia insufficiente o mal interpretato è molto elevato. In sostanza, quello di cui l’utente ha bisogno sono, da un lato, informazioni puntuali su singole amministra- zioni, dall’altro indicatori che mettano in collegamento il singolo dato con altri confrontabili. Altre domande possono nascere da questi confronti. Ad esempio, “ma perché solo la mia amministrazione fa gare sottoso- glia?”; “possibile che i residui attivi iscritti in bilancio siano così elevati e tutti esigibili?”; “i tempi dei proce- dimenti sono troppo brevi, sarà vero?” e così via.

(7) Civit, 2012, cit, 3, 4 (grassetti nel testo Civit). (8) Il Rapporto 2013 è significativamente intitolato “Actions Needed to Reduce Fragmentation, Overlap, and Duplication and Achieve Other Financial Benefits”, in www.gao.gov/duplication/overview.

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Avverbi come “solo”, “troppo”, “così” si possono usare soltanto se disponiamo di dati comparabili, affida- bili e “armonizzati” (9). 5. Alcuni interventi migliorativi I punti critici finora elencati già suggeriscono alcuni interventi che possono migliorare la situazione, nel senso sia di rendere meno onerosi gli adempimenti richiesti alle amministrazioni, sia rendere l’informazione più utile per gli utenti (10). Riassumendo essi sono: - evitare, nelle norme e nelle disposizioni attuative, di chiedere dati scollegati da procedure o sistemi infor- mativi esistenti, ovvero che il costo per attrezzarsi sia ragionevole; - individuare ed eliminare le ambiguità di significato delle denominazioni dei fenomeni oggetto di rileva- zione (11); - valutare attentamente le duplicazioni (un dato viene richiesto per la trasparenza e per la contabilità, richia- mato per la performance e comunicato al Parlamento), le frammentazioni (per ricostruire una informazione utile occorre muoversi tra più documenti), e le sovrapposizioni (il dato viene comunicato più volte da più sog- getti, in tempi diversi, in formati diversi); - tener sempre presente la finalizzazione dell’obbligo informativo che è quella di verificare la legalità e l’efficienza (in senso lato) delle amministrazioni. Per questo ogni adempimento del Programma per la traspa- renza o l’integrità, ogni indicatore di performance o di Nota integrativa al bilancio deve essere visto come uno strumento per far comprendere alla collettività qualcosa di più sul comportamento dell’amministrazione; - affiancare al dato puntuale della singola amministrazione, indicatori e statistiche che facciano comprende- re come esso si colloca in confronti intertemporali, interspaziali e di benchmark (12). In molti casi, le informazioni raccolte centralmente per motivi diversi (vigilanza, controllo, autorizzazioni, decisioni etc.) potrebbero essere rese disponibili per tutti, selezionandole, studiando opportuni formati e op- portuni link (per esempio, le tabelle del conto annuale del personale (13), le comunicazioni sugli incarichi, i bilanci, le comunicazioni Avcp). Questa inversione (o integrazione) del percorso procedurale sarebbe già una semplificazione importante che ridurrebbe il peso sulle amministrazioni e darebbe maggiore ufficialità alla pubblicazione dei dati. 6. Per un salto di qualità I suggerimenti appena avanzati costituiscono un terreno di lavoro interessante, già in parte perseguito da diversi soggetti (14). Ma si dovrebbe tentare un salto di qualità. La situazione esistente ha molte analogie con la condizione della statistica pubblica nazionale ed europea di

(9) Con riferimento all’ambito dei bilanci pubblici, su quanto sia rilevante l’armonizzazione e il rispetto dei principi contabi- li per rendere efficace ogni azione di trasparenza, si v. A. Zuliani, L’armonizzazione dei sistemi contabili verso una maggiore tra- sparenza dei conti pubblici, 59° Convegno di Studi amministrativi, Varenna, settembre 2013, in questo fascicolo, 447. (10) Si vuol chiarire che qui non si vuole affrontare la questione dell’utilizzabilità, ampiamente trattata in tutte le disposizioni attuative (accesso, open source, ecc.), ma quella dell’utilità che sembra data per scontata quando è la vera questione prioritaria. (11) La statistica ufficiale, in questo campo, insegna: ogni fenomeno studiato viene qualificato attraverso il “metadato”: glos- sari, fonti, variazioni nel tempo, unità di misura, varianti possibili, modalità di raccolta, armonizzazione linguistica e internaziona- le ecc. (12) Su questo punto il mondo degli enti territoriali è già molto dinamico, seppure disordinato, e non mancano esperienze esemplari di confronto soprattutto a livello regionale. (13) Nota Anci sul d.lgs. n. 33/2013, in www.anci.it/index.cfm?layout=dettaglio&IdDett=41675. (14) Ad esempio, quando, con il d.p.c.m. 18 settembre 2012 relativo alla definizione delle linee guida generali per l’individua- zione dei criteri e delle metodologie per la costruzione di un sistema di indicatori ai fini della misurazione dei risultati attesi dai programmi di bilancio, gli indicatori prescritti per le note integrative al bilancio sono stati “fusi” con quelli richiesti per la perfor- mance organizzativa. Con la recente circolare Rgs 17 luglio 2013, n. 32, il sistema è sempre più affinato (nota tecnica n. 2). Nel caso degli enti territoriali, la l. n. 213/2012, di conversione del d.l. 174/2012, art. 3, c. 2, lett. g-bis) ha aggiunto (g-bis) all’art. 169 Tuel, dopo il c. 3 il “3-bis: il Piano esecutivo di gestione è deliberato in coerenza con il bilancio di previsione e con la relazione previsionale e programmatica. Al fine di semplificare i processi di pianificazione gestionale dell’ente, il piano dettagliato degli obiettivi di cui all’art. 108, c. 1, del presente t.u. e il Piano della performance di cui all’art. 10 d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, sono unificati organicamente nel Piano esecutivo di gestione”. Una disamina di quanto fosse illogica la pluralità di documenti similari previsti negli ambiti del controllo di gestione e della contabilità è in V. Lo Moro, In un diverso Stato: come controllare e valutare la pubblica amministrazione italiana; in Sviluppo e organizzazione n. 246, 2011, Milano, ed. Este.

472 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA venti anni fa. Agli inizi degli anni Novanta la statistica era ancora legata a un modello centrato sul produttore (gli istituti e le norme che prescrivevano le rilevazioni statistiche). Gli anni successivi hanno messo in evidenza i due principali soggetti dell’ambiente della statistica: gli utenti e i rispondenti e si è lavorato e si sta lavorando a che i benefici siano massimizzati sui primi e gli oneri siano minimizzati sui secondi. La messa a disposizione di dati pubblici in generale e la pubblicizzazione di grandi quantità di dati in “amministrazioni trasparenti” richiede anch’essa un passaggio da una logica del produttore a una logica di am- biente, composto da utenti e rispondenti (nel caso specifico, rispettivamente, cittadino-collettività e pubbliche amministrazioni). In questa sede non ci occuperemo del lato utente, tranne per un accenno, già in parte anticipato, al fatto che non basta pubblicare dati singoli, ma occorrono passaggi ulteriori, intermediari che consentano di qualificare l’informazione e renderla utile (15). È implicito, tuttavia, che ricercare una maggiore razionalità nella raccolta dei dati, migliora anche la qualità dell’informazione messa a disposizione degli utenti. I “rispondenti” sono le pubbliche amministrazioni che, come già messo in evidenza dalla Civit, lamentano l’insostenibile duplicazione degli adempimenti. Riferendoci in particolare alla raccolta d’informazioni per la trasparenza e l’integrità, esse si possono ascri- vere ad una metodologia che, nelle rilevazioni statistiche, è definita stovepipes (canne d’organo o tubazioni), fortemente messa in discussione negli ultimi anni proprio, tra l’altro, per l’eccessivo onere in carico ai rispon- denti. Le ragioni e i modi di evoluzione da questo modello a uno più integrato sono ben descritti in un documento dell’Unione europea dedicato alle statistiche ufficiali (16). Il documento propone con forza una nuova visione delle statistiche europee volta a ridurre l’onere sui rispondenti e a massimizzare l’utilizzo di dati già raccolti. Il passaggio cruciale è quello di evolvere da una condizione di stovepipes a una d’integrazione e riuso dei dati (17). Cosa c’entra questo con gli obblighi informativi di valenza amministrativa? Detto in termini molto semplici, mentre il rendere disponibili informazioni (sia all’interno di procedure di comunicazione tra amministrazioni, sia per pubblicizzare i comportamenti dell’ente attraverso “amministra- zione trasparente”) costituisce oggi una funzione complessivamente sempre più rilevante, la logica con cui ciò avviene è esattamente una logica stovepipes con un consistente dispendio di energie. L’idea avanzata per le statistiche ufficiali può essere traslata,mutatis mutandi, alla messa a disposizione di dati pubblici; il punto centrale è lo stesso: evolvere da numerosi, paralleli e separati processi, che seguono un modello stovepipes ad una nuova architettura. La nuova architettura nel caso delle statistiche, consiste in un sistema di produzione composto di parti integrate (approccio warehouse). Cosa vuol dire in concreto lo si può vedere con un esempio. La sezione “personale” delle aree “amministra- zione trasparente” contiene una quantità notevole di variabili (dalle consistenze alle retribuzioni, dalle assenze alle consulenze e così via). Le stesse informazioni, più molte altre più strutturate, sono richieste per la rileva-

(15) Negli Stati Uniti, l’iniziativa Federal register 2.0 adottata negli Usa nell’ambito dell’Open government initiative ha sti- molato la costituzione di parecchi centri che rielaborano, e soprattutto semplificano, l’enorme massa di informazioni resa disponi- bile. Per maggiori dettagli, A. Zuliani, Statistiche, come e perché, Donzelli, 2010. Sull’importanza degli open data anche dal pun- to di vista del mercato, le idee sono molte ma le iniziative scarse, anche per una incerta qualità (sia di sostanza che di forma) dei dati resi pubblici (v. D. Frongia, V. Patruno, La qualità degli open data, 2012, in www.segnalazionit.org/2012/12/17/la-quali- tà-degli-open-data). Il tema comunque è costantemente in movimento e val la pena seguire anche il sito dedicato www.magellano- pa.it/bussola, che tuttavia ha una logica di “meta informazione”: quanto è trasparente il tuo comune? Come si colloca rispetto a al- tri? Ma non dice se la bolletta dell’acqua è più cara che nel comune accanto! (16) Communication from the Commission to the European Parliament and the Council on the production method of Eu sta- tistics: a vision for the next decade (10 agosto 2009). (17) “Within each National statistical office (Nsi), the production of statistics operates through the various production lines or processes of the different statistical domains. The whole of the production processes of a statistical office is referred to as its busi- ness architecture. At present, the business architecture of most eu nsis is still mainly based on product stovepipe model. In such a model, every single product stovepipe corresponds to a specific domain of statistics, together with the corresponding production system. For each domain, the whole production process from survey design over data collection and processing to dissemination take place independently of other domains, and each has its own data suppliers and user group” “does not make use of standard- ization between areas … Redundancies and duplication of work, be in development, in production or in dissemination, are un- avoidable”.

473 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 zione sul conto annuale del personale, peraltro da qualche anno sia a preventivo che a consuntivo. L’approccio seguito è stato quello di mantenere le due forniture di dati distinte, pur consapevoli che alcune informazioni erano coincidenti. Per ridurre l’onere sugli enti territoriali, si è stabilito che essi dovessero riportare sui propri siti le stesse informazioni fornite per il conto annuale. Si tratta di una semplificazione, ma che rimane interamente dentro la logica delle “canne d’organo”: due processi distinti con una “riproduzione” dei dati alla fonte, peraltro perico- losa per il rischio di compiere errori duplicando le informazioni. L’approccio integrato prevede un processo esattamente inverso. La rilevazione del conto annuale – che peraltro fa parte del Programma statistico nazionale – dovrebbe essere integrata con tutte le informazioni mancanti per soddisfare anche i requisiti della trasparenza (se già non li soddisfa). La resa informativa dei dati dovrebbe avere caratteristiche tali per cui la collettività (l’utenza), attraverso il sito della propria amministra- zione (e da siti dedicati), possa andare a consultare e confrontare i dati d’interesse, raggiungendo un livello di conoscenza maggiore di quello che avrebbe con la sola informazione puntuale. Invece di chiedere alle ammini- strazioni di predisporre tante e in parte duplicate tabelle, ci si dovrebbe concentrare sul miglioramento dei flussi per la rilevazione del conto annuale, oggi piuttosto macchinosi, sulla progettazione delle elaborazioni e sulla restituzione alle amministrazioni che hanno collaborato di un formato standard di dati comparativi comune da pubblicare su “amministrazione trasparente”, senza ulteriori interventi. C’è del lavoro da fare, ovviamente, ma l’effetto sarebbe quello di migliorare l’informazione fornita, rispet- tando le norme, semplificare gli obblighi informativi e, conseguentemente, ridurre gli oneri amministrativi. Lo stesso ragionamento può valere senz’altro per contabilità e approvvigionamenti e varrebbe la pena avviarlo anche per altri domini. L’Unione europea, nel caso delle statistiche, si è posta un orizzonte di dieci anni per giungere all’evoluzione indicata nel documento citato. Nel caso dei dati pubblici, un equivalente forte mandato istituzionale sarebbe utile, ma quello che occorre è un’iniziativa di reingegnerizzazione che veda senz’altro collaborare i numerosi soggetti già impegnati in consistenti raccolte di documentazione (Dfp, Rgs, Civit, Avcp, Corte conti, regioni, etc.), tuttavia autorevolmente coordinati da un’entità tecnica che abbia una cultura del dato e dell’efficienza dei processi produttivi di dati radicalmente diversa e sappia superare le inevitabili, consistenti resistenze al cambiamento. Come ricorda lo stesso d.lgs. n. 33/2013 (art. 1, c. 3) “le disposizioni del presente decreto … costituiscono altresì esercizio della funzione di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministra- zione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, c. 2, lett. r), Cost.”. E questa funzione non si svolge solo riordinando, ma anche progettando le necessarie innovazioni.

Riferimenti bibliografici einternet Anci, 2013, nota sul d.lgs. 33/2013, www.anci.it/index.cfm?layout=dettaglio&IdDett=41675. Bussola della trasparenza: www.magellanopa.it/bussola. Civit, 2012, Per una semplificazione della trasparenza, Esiti della Consultazione sugli obblighi previsti in materia di trasparenza ed integrità, dicembre, Roma. Civit, 2012, Linee guida per l’aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità 2014-2016, All. 1 alla delib. n. 50/2013. Commissione europea, 2009, Communication from the Commission to the european Parliament and the Council on the production method of Eu statistics: a vision for the next decade (10 agosto 2009). Dfp, ufficio per la semplificazione amministrativa, 2013, Semplificazione amministrativa: dalle norme al risultato: www.funzionepubblica.gov.it/media/1066528/semplificazione_amministrativa_aprile2013.pdf. Gruppo di lavoro internazionale, 2004, Lo standard cost model: www.funzionepubblica.gov.it/media/263890/standard_cost_model_-_ver._ita_(10.05).pdf. Gao, 2013, Actions Needed to Reduce Fragmentation, Overlap, and Duplication and Achieve other finan- cial benefits: www.gao.gov/duplication/overview. D. Frongia; V. Patruno, 2012, La qualità degli open data: www.segnalazionit.org/2012/12/17/la-qualita-de- gli-open-data.

474 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

V. Lo Moro, 2011, In un diverso Stato: come controllare e valutare la pubblica amministrazione italiana; Sviluppo e organizzazione n. 246, Milano, edizioni Este. A. Zuliani, 2010, Statistiche, come e perché, Donzelli. A. Zuliani, 2013, L’armonizzazione dei sistemi contabili: verso una maggiore trasparenza dei conti pubbli- ci?, 59° Convegno di Studi amministrativi, Varenna, settembre 2013, in questo fascicolo, 447.

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IL PRINCIPIO DI TRASPARENZA ALLA LUCE DELLE NORME ANTICORRUZIONE

di Alessandro Pajno

Sommario: 1. Trasparenza: un discorso difficile. – 2. Trasparenza e questioni generali: un rapporto sistemi- co. – 3. Per la definizione di una nozione di trasparenza: trasparenza e riservatezza. – 4. Trasparenza e procedimento amministrativo. – 5. Trasparenza: principio generale o istituto positivo? – 6. Trasparenza, accessibilità e pubblicità. – 7. La l. n. 241/1990: trasparenza come primato dell’accessibilità. – 8. La l. n. 205/2000 e la strutturazione dell’accesso come tutela di una situazione soggettiva. – 9. Il d.lgs. n. 150/2009: l’accessibilità “totale” verso la pubblicità. – 10. La disciplina anticorruzione e il superamento dell’accesso. La trasparenza come pubblicità. – 11. La nuova trasparenza. Obblighi di pubblicazione e diritto di conoscenza. – 12. Il d.lgs. n. 33/2013: principio di trasparenza e sistematizzazione della pubbli- cità. – 13. L’accesso civico: il diritto di accesso conformato dagli obblighi di pubblicazione. – 14. Regime di open data e qualità dell’informazione. – 15. La “nuova” trasparenza ed i vizi “antichi” del legislatore.

1. Trasparenza: un discorso difficile Per quanto paradossale possa sembrare, occorre riconoscere che un discorso sulla trasparenza incontra oggi una serie di significative difficoltà. La prima – e più generale – riguarda lo stato dell’amministrazione pubbli- ca, almeno per il modo in cui esso viene percepito non dagli addetti ai lavori, ma dai cittadini e dagli opinion makers: mentre i giuristi si affannano a spiegare l’importanza delle nuove disposizioni introdotte con la l. n. 190/2012 e con il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 con riferimento alla trasparenza, l’opinione pubblica continua a ritenere il mondo della burocrazia, anche nel suo rapporto con la politica, come il luogo in cui regnano la confu- sione e le inefficienze (M. Ainis) e la macchina amministrativa come la responsabile principale, se non l’unica, di una vera e propria “ragnatela del non fare” che sembra rendere inarrestabile il processo di affondamento dell’economia italiana (A. Panebianco). In questa prospettiva l’amministrazione in tutte le sue manifestazioni è descritta come un “ragno velenoso”, che, mentre impone le sue regole asfissianti al corpo sociale, blocca, coadiuvata dalle magistrature amministrative, ogni possibilità di rovesciare il trend di espansione della spesa pubblica e delle tasse (A. Panebianco). In una situazione così descritta, in cui prevale una “ragnatela normati- va”, che soffoca la società e serve all’autoriproduzione degli apparati burocratici, parlare di trasparenza come strumento di lotta alla corruzione può sembrare, nella migliore delle ipotesi, un wishful thinking, e nel concreto, un modo di non dire come stanno realmente le cose. Non a caso, sulla stampa vengono ricordati, come tragico esempio di “proliferazione di norme ingarbugliate che appaiono prive di scopo”, gli “interventi amministrativi in quel ramo che potremmo chiamare industria della lotta agli abusi” (A. Panebianco). La seconda, non meno rilevante, difficoltà riguarda lo stesso moltiplicarsi dei discorsi sulla trasparenza. Questi hanno l’indubbio pregio di mettere in luce gli aspetti nuovi della complessa disciplina che la riguarda: tuttavia la stessa copiosità (e talvolta, occasionalità) degli interventi rischia di compromettere un approccio sistemico e, con esso, una più meditata comprensione del fenomeno, con il paradosso che l’eccesso incon- trollato d’informazioni sulla trasparenza può provocare, quella “opacità per confusione” che della trasparenza costituisce l’esatto contrario. La terza difficoltà ha un carattere più strutturale, e riguarda quella che può essere definita una certa indeter- minatezza dell’oggetto e, comunque, il continuo e progressivo mutamento di esso, con la conseguente difficoltà di stabilirne il contenuto specifico. La trasparenza è un principio generale oppure si risolve in un sistema di

475 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 regole di diritto positivo di stretta interpretazione? La trasparenza riguarda i procedimenti amministrativi, o si estende oltre il procedimento per investire tutta l’amministrazione? Esiste un’attività amministrativa non pro- cedimentalizzata? La trasparenza consiste nell’accessibilità? Quale è il rapporto fra trasparenza e pubblicità? Che cosa, e chi infine, viene tutelato con la trasparenza? 2. Trasparenza e questioni generali: un rapporto sistemico Occorre, peraltro, riconoscere che le questioni riguardanti la trasparenza s’incrociano con alcune tematiche rilevanti e di carattere più generale. La prima di esse riguarda il procedimento amministrativo e la sua storia: il procedimento è infatti all’origine della questione della trasparenza, e per molto tempo esso è stato conside- rato il luogo privilegiato (anche se non esclusivo) di realizzazione del relativo principio, in quanto capace di evidenziare il suo legame con l’istituto della partecipazione e, più in generale, con una nozione non autoritaria, ma democratica, di pubblica amministrazione. La vicenda della trasparenza è, poi, intrinsecamente legata con quello che può essere definito il sorgere e il consolidarsi, nell’ordinamento, della nozione di “corruzione amministrativa”. È noto, infatti, che le convenzioni internazionali che introducono misure di lotta alla corruzione, pongono le misure di trasparenza ai primi posti tra quelle di prevenzione del fenomeno. In particolare, la Convenzione Onu contro la corruzione (2003) individua nella trasparenza amministrativa uno dei principali strumenti di pre- venzione alla corruzione, imponendo agli Stati contraenti l’adozione di adeguate misure con riferimento alla gestione degli appalti e a quella delle risorse finanziarie (art. 9) e invitando (art. 10) le amministrazioni alla dif- fusione di notizie che consentano agli utenti di ottenere, se del caso, informazioni sull’organizzazione, il fun- zionamento e i processi decisionali della pubblica amministrazione (M. Savino, B.G. Mattarella, M. Pelissero). In coerenza con la tendenza indicata nelle convenzioni internazionali, nell’ordinamento italiano, tradizio- nalmente caratterizzato da un uso esclusivamente “penalistico” del termine corruzione, ha progressivamente avuto ingresso una nozione più ampia, connessa al malcostume politico e amministrativo (maladministration) e alla sua prevenzione, da realizzarsi attraverso strumenti diversi da quelli penali, “e quindi fondamentalmente di diritto amministrativo e di diritto costituzionale” (B.G. Mattarella). Tale nozione, che ha trovato qualche riconoscimento nella disciplina positiva (art. 13 d.lgs. n. 150/2009; art. 1, l. n. 3/2003) è ora pienamente entrata nell’ordinamento con la l. n. 190/2012, che pone, relativamente ad essa, una vera e propria disciplina generale (B.G. Mattarella). Di tale disciplina quello sulla trasparenza costituisce forse il capitolo più significativo, o comunque, destinato a incidere maggiormente sull’azione dei pubblici poteri. Essa, infatti, si risolve in uno strumento fondamentale per il controllo sociale dell’esercizio del potere pubblico e per mantenere la “giusta pressione dei cittadini sul corretto e imparziale svolgimento dell’azione amministrativa” (F. Merloni). Il tema della trasparenza e della nozione amministrativistica di corruzione interseca, infine, la questione della crisi economica e dell’utilizzazione delle risorse. Su di un piano più generale, va ricordato che secondo un’autorevole opinione, esiste un legame significativo fra crisi economica e diritto pubblico, essendo, secondo questo modo di pensare, il diritto amministrativo nato a seguito della crisi economica che sta dietro la rivolu- zione francese (F. Merusi). È stato, altresì, posto in luce che la crisi economica ha sottoposto a una notevole tensione il sistema dei pubblici poteri, determinando fenomeni di reazione e di riforma, e modificando gli equilibri istituzionali anche all’interno dei singoli Stati (G. Napolitano). La questione della trasparenza acquista pertanto un ruolo fonda- mentale nel nuovo assetto degli equilibri istituzionali (rafforzamento del ruolo dell’esecutivo, rapporti gover- no-parlamento, rapporto tra organi rappresentativi e autorità tecniche). La trasparenza, intesa come pubblicità e accessibilità, può, infatti, a un tempo consentire una partecipazione del cittadino non priva di valore all’eser- cizio delle funzioni di governo, e, conferire una legittimazione non formale, ma sostanziale, all’esercizio del pubblico potere, specie quando questo è chiamato ad adottare misure impopolari. 3. Per la definizione di una nozione di trasparenza: trasparenza e riservatezza Le indicazioni sopra esposte, se sottolineano le ragioni che rendono difficile un discorso meditato sulla tra- sparenza, evidenziano, nel contempo, i motivi per i quali è tuttavia opportuno parlare di essa, specie nella pro- spettiva della lotta alla corruzione. Appare pertanto utile, allo scopo di chiarire quale sia l’idea di trasparenza che sta alla base dell’impegno di prevenzione della corruzione, tracciare una sorta di breve storia della relativa nozione, quale si è concretamente incarnata nell’ordinamento positivo; e a tal fine, può essere utile stabilire,

476 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA con una sorta di actio finium regundorum, quale sia il contenuto concettuale della trasparenza, e quale, invece, quello di nozioni come accessibilità o pubblicità; e in ogni caso, quali siano i rapporti fra questi fenomeni, contigui ma diversi, capaci di soprapporsi ma anche di determinare differenze e cambiamenti significativi. L’impressione è, infatti, che proprio il mutamento progressivo del rapporto della trasparenza con l’acces- sibilità e con la pubblicità stia, in realtà, alla base del cambiamento (o comunque dell’evoluzione) della stessa nozione di trasparenza, quale concretamente si manifesta nell’assetto positivo. Il punto di partenza del discorso non può che essere costituito dalla nozione generale di trasparenza. Questa, attenendo comunque alla conoscibilità o alla conoscenza di una serie di elementi e d’informazioni in possesso dell’amministrazione pubblica, pone tre questioni fondamentali. La prima di esse attiene a una sua ca- ratteristica specifica: la nozione di trasparenza non si definisce da sé, ma rimanda necessariamente a una nozione complementare, quella di riservatezza. Non può esservi, infatti, un’effettiva e concreta trasparenza se non esiste, con riferimento alla stessa realtà, anche una sfera che appare riservata, capace di delimitare e di definire la prima, attraverso il particolare regime conoscitivo assicurato ad alcune informazioni, a tutela di alcuni interessi pubblici e della sfera eminentemente “privata” di ciascun cittadino. In un momento in cui tutte le informazioni in possesso dell’amministrazione pubblica, – nessuna esclusa – sono conosciute dai cittadini, non si pone alcun problema di trasparenza; né, ovviamente, una questione di riservatezza, non esistendo, per definizione sfere riservate volte a delimitare l’informazione. Trasparenza e riservatezza sono pertanto, rispetto al patrimonio conoscitivo dell’ammi- nistrazione, strettamente e necessariamente correlate, nel senso che, dove esiste l’una, non può non esistere l’altra; di ciò è testimone lo stesso ordinamento positivo che, quando fa riferimento alla regola della trasparenza, sempre richiama, in qualche modo, anche la riservatezza. E così, la l. n. 241/1990, nel disciplinare il diritto di accesso “al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa” (art. 22), esclude tale diritto per i documenti coperti da segreto di stato, “nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsto dall’ordinamento” (art. 24, c. 1); la stessa legge, nel rimandare ad apposito regolamento delegato le modalità di esercizio del diritto di accesso, prevede che questo specifichi i casi di esclusione dall’accesso a tutela della sicurezza dello stato, della politica monetaria, dell’ordine pubblico e della riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese (art. 24, c. 2). Non si comporta in modo diverso la disciplina più recente contenuta nel d.lgs. n. 33/2013, che, nell’indicare la nozione e la portata della trasparenza, precisa che la stessa va perseguita e realizzata “nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di stato, di segreto d’ufficio, di segreto statistico e di protezione dei dati personali” (art. 1, c. 2). Proprio questa correlazione tra trasparenza e riservatezza spiega perché entrambe le regole concorrano sem- pre a conformare gli ordinamenti concernenti il potere pubblico, il suo esercizio e i suoi rapporti con i cittadini; sicché nel tempo, la diversità degli ordinamenti (e comunque la loro evoluzione) è determinata dalla diversità del rapporto in concreto intercorrente tra riservatezza e trasparenza, e dalla prevalenza dagli stessi ordinamenti accordata all’una o all’altra in un certo momento storico. Si può, ad esempio, ricordare, che nell’ordinamento italiano la regola fondamentale è stata, per lungo tempo, quella della prevalenza della riservatezza sulla tra- sparenza. Il d.p.r. n. 3/1957 prevedeva un dovere generale di riservatezza da parte dei pubblici dipendenti nel corso del procedimento nei confronti di qualunque soggetto comunque interessato (art. 15) e la violazione di tale dovere era sanzionato con una misura disciplinare (artt. 80, c. 3, lett. g, e 81, c. 2, lett. d). In tale prospettiva, la riservatezza era concepita come una misura di tutela dell’interesse pubblico e della sua oggettività, nonché dell’indipendenza dei funzionari pubblici, anche se sottintendeva una idea che faceva del cittadino esclusivamente un destinatario dell’azione pubblica, e non un soggetto partecipe, protagonista, assieme all’amministrazione, dell’assetto degli interessi che si determinava con il provvedimento. L’art. 15 t.u. n. 3/1957 è stato modificato dalla l. n. 241/1990 con una disposizione che, pur mantenendo la regola della riservatezza (art. 26), e quindi del segreto d’ufficio, ha previsto che atti e informazioni siano trasmessi nell’ambito e con le modalità previste dalle norme sul diritto di accesso, e quindi anche di quelle disciplinanti l’accesso procedimentale (artt. 7 e 10). L’accesso è quindi divenuto regola che supera la trasparenza, con riferimento peraltro ai titolari di interessi diretti, concreti e attuali (art. 22, c. 1, lett. b) e ai soggetti legittimati alla partecipazione procedimentale (art. 10) e nei limiti di tale configurazione. 4. Trasparenza e procedimento amministrativo Il secondo profilo significativo riguarda il rapporto tra trasparenza e procedimento amministrativo, e più in generale, tra trasparenza e istituti di democrazia amministrativa.

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È stato di recente affermato che, attraverso l’esclusione della relativa disciplina, la trasparenza acquisirebbe una sua ragion d’essere “anche e soprattutto al di fuori dello schema e del momento procedimentale in senso stretto” (F. Patroni Griffi) e addirittura che la maggiore novità degli ultimi anni sarebbe legata alla perdita di centralità della l. n. 241/1990, fenomeno questo che avrebbe contribuito a spostare le frontiere della democra- zia amministrativa (V. Antonelli). Se con tali espressioni s’intende affermare che la trasparenza, dopo la l. n. 15/2005 e il d.lgs. n. 150/2009, è divenuta una cosa diversa dalla trasparenza quale risulta dalla l. n. 241/1990, fino ad essere configurata, con la l. n. 190/2012 e con il d.lgs. n. 33/2013, come uno degli strumenti fondamentali per la prevenzione della corruzione amministrativa, allora non si può che consentire; tuttavia, occorre avere una particolare attenzione nel troncare, o comunque rendere più tenui, i legami tra trasparenza e procedimento amministrativo. Occorre, infatti tener presente che senza lo sviluppo di una “cultura” del procedimento e senza lo strumento della parte- cipazione non vi sarebbe stata crescita o sviluppo della cultura della trasparenza. Si tratta di un’affermazione che nasce da considerazioni non meramente formali, ma di natura eminentemente sostanziale. La trasparenza è infatti intimamente legata all’idea di partecipazione (in senso lato) e alla configurazione di quella amministrativa come attività necessariamente procedimentalizzata. Sono infatti, le norme sulla parte- cipazione contenute nella l. n. 241/1990 che hanno finalmente dato piena attuazione alla regola enunciata già nell’art. 3, c. 1, l. 20 marzo 1865, all. e; non a caso, i diritti di tutti i partecipanti consistono nel prendere visione degli atti e nel formulare osservazioni e memorie scritte. È quindi la piena e generale procedimentalizzazione dell’attività amministrativa a consentire la formazione di una cultura ispirata all’idea di un’amministrazione condivisa nella quale, proprio perché l’esercizio della funzione non è più appannaggio delle sole strutture am- ministrative, il diritto di accesso può estendersi oltre il singolo procedimento al quale l’interessato partecipa, e investire tutti i procedimenti in cui si esplica l’attività dell’amministrazione; non a caso il testo originario dell’art. 24 l. n. 241/1990 collega il generale diritto di accesso al fine di “assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale”. Ancor prima della l. n. 241/1990, peraltro, il diritto di accesso viene configurato in alcune discipline di settore come intimamente legato alla cittadinanza sociale ed al controllo democratico (art. 14, c. 3, l. 8 luglio 1986, n. 349 per l’informazione ambientale; art. 7, cc. 3 e 4, l. n. 142/1990 con riferimento alla pubblicità ed accessibilità, da parte dei cittadini, degli atti delle ammini- strazioni comunali). Un legame del genere appare, d’altra parte, confermato dall’evoluzione della stessa legislazione positiva, nella quale una più efficace affermazione della trasparenza si è spesso accompagnata a modifiche, anche signi- ficative, della disciplina del procedimento amministrativo (l. n. 25/2005; art. 1, cc. 37, 38, 41, 47, l. 6 novembre 2012, n. 190). Esiste pertanto un legame profondo tra trasparenza, partecipazione procedimentale e partecipazione popo- lare come funzione di controllo sociale; e se la trasparenza che si realizza come accessibilità del procedimento è cosa diversa da quella come funzione generalizzata di controllo sociale, è anche vero che quest’ultima non sarebbe stata possibile senza la prima. 5. Trasparenza: principio generale o istituto positivo? Il terzo profilo riguarda, per dir così la “natura” della trasparenza. La trasparenza è un principio generale, o si risolve (esclusivamente) in una serie d’istituti positivi, come sembra suggerire la copiosa legislazione in materia? Nonostante l’inflazione (e la complicazione) legislativa, la trasparenza dovrebbe essere considerata un principio generale. Come è stato osservato, essa, in primo luogo “non costituisce un istituto giuridico pre- cisamente definito, ma, da una parte, è una modalità di esercizio della funzione amministrativa e, dall’altra, un obiettivo cui lo svolgimento della funzione stessa deve tendere. Obiettivo che risponde alla finalità del controllo democratico dell’attività della pubblica amministrazione, per una più penetrante tutela degli interessi pubblici e privati coinvolti” (R. Laschena e A. Pajno). La trasparenza dovrebbe quindi configurarsi, a un tempo, come un mezzo per porre in essere una azione amministrativa più efficace e conforme ai canoni costituzionali, ed un obiettivo a cui tendere, direttamente legato con il valore democratico della funzione amministrativa. Proprio questa duplice natura – strumento e fine – spiega, come essa, ad un tempo, sia enunciata nell’or- dinamento quale principio generale (art. 1 l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 15/2005; art. 11 d.lgs. n. 150/2009; art. 1 d.lgs. n. 33/2013) e si risolva, poi, in una serie d’istituti positivi.

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Vi è, però, una tensione fra l’affermazione della trasparenza come principio e la configurazione sempre crescente d’istituti volti a disciplinarla in modo specifico con il rischio che la configurazione positiva possa, alla fine, compromettere l’affermazione del principio. In questa prospettiva, appare evidente che la storia della trasparenza appare intimamente legata alla storia della democrazia amministrativa e che le diverse stagioni della trasparenza corrispondono a diverse e più in- tense (almeno nelle intenzioni) modalità di realizzazione dei suoi contenuti. Questa tensione, con le incertezze che ne derivano, è visibile anche nella stessa evoluzione legislativa: nella versione originaria della l. n. 241/1990, la trasparenza non è annoverata tra i principi dell’azione amministrati- va indicati nell’art. 1, ma costituisce lo scopo da realizzare e il valore da preservare con l’accesso (art. 22). La trasparenza diventa principio dell’attività amministrativa con la novella del 2005 (art. 1 l. n. 241/1990 come modificato dalla l. n. 15/2005), ma fra i principi generali viene ricompreso anche l’accesso (art. 22 l. n. 241 cit., come modificato dalla l. n. 15/2005). È con il d.lgs. n. 150/2009 che la trasparenza, principio generale, si colle- ga in modo specifico con gli altri principi tradizionali dell’attività amministrativa e assume addirittura il ruolo di “principio strumentale” o di mezzo di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità (art. 11). La trasparenza viene, così, ufficialmente definita come strumento di controllo della funzione ammini- strativa per la realizzazione del principio democratico e si connette, in questa prospettiva, con l’integrità delle pubbliche amministrazioni. All’esito del suo percorso, la democrazia amministrativa – almeno nelle intenzioni e nelle dichiarazioni del legislatore – diviene democrazia tout court. 6. Trasparenza, accessibilità e pubblicità L’affermazione del principio di trasparenza amministrativa, tanto nel quadro legislativo che nel dibattito scientifico, si accompagna spesso all’affermazione dell’accessibilità degli atti e delle informazioni, e della (più o meno esistente) pubblicità delle medesime. Si pone, pertanto la questione della distinzione e del rapporto fra trasparenza, accessibilità e pubblicità: se cioè queste ultime siano sostanzialmente dei sinonimi della prima, ovvero se, rispetto alla prima, abbiano un contenuto concettuale (e, per quanto riguarda la disciplina positiva, un contenuto precettivo) diverso. Si pone, poi, nel caso di distinzione, la questione del rapporto fra trasparenza, accessibilità e pubblicità. Almeno a livello di prima approssimazione, le locuzioni sopra ricordate sembrano muoversi tutte nello stesso ambito concettuale e valoriale, che è quello della realizzazione di un’amministrazione “casa di vetro”; se trasparenza è conoscibilità e conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle pubbliche am- ministrazioni (F. Merloni), allora accessibilità e pubblicità tendono a confondersi con essa: non vi è infatti trasparenza amministrativa senza accessibilità degli atti e delle informazioni, mentre la stessa trasparenza si risolve in una ragionata pubblicità di tali elementi. Se poi si considera la disciplina positiva, essa, almeno all’inizio, appare caratterizzata da una certa equi- vocità, che viene poi progressivamente superata dalla normativa più recente. La l. n. 241/1990, nella stesura preesistente alla l. n. 15/2005, configura quello di pubblicità come principio generale dell’attività amministra- tiva; la trasparenza, tuttavia, entra in campo con l’accesso e viene configurata come finalità e come valore da perseguire nell’azione dei pubblici poteri (art. 22, c. 1). Con la l. n. 15/2005 trasparenza e accessibilità diventano entrambe principio generale (artt. 1 e 22 l. n. 241/1990, come modificati dalla l. n. 15/2005). Per converso, la legislazione di settore, nell’intento di favorire la configurazione dell’amministrazione come “casa di vetro”, fa riferimento sia alla “pubblicità” degli atti che al diritto di accesso riconosciuto ai cittadini nei modi previsti dal regolamento (art. 7 l. n. 142/1990 per le amministrazioni comunali e provinciali); la disciplina in materia ambientale parla, indifferentemente di “divulgazione delle informazioni sullo stato dell’ambiente” (art. 14, c. 1, l. n. 349/1986), di pubblicazione in G.U. della Repubblica degli atti la cui conoscenza interessi la generalità dei cittadini e risponde a esigenze informative di carattere “diffuso” (art. 14, c. 2) di diritto di accesso riconosciuto a qualunque cittadino alle informazioni sullo stato dell’ambiente (art. 14, c. 3). Sulla stessa linea, il d.lgs. n. 39/1997, sempre a proposito dell’informazione ambientale, fa riferimento alla “li- bertà di accesso” alle relative informazioni (art. 1, c. 1), nonché all’obbligo delle autorità di rendere “disponibili” le informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta (così declinando la trasparenza come accessibilità generalizzata); il successivo d.lgs. n. 195/2005, oltre a garantire il diritto di accesso (art. 1, c. 1, lett. a), si muove

479 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 nell’ottica di assicurare una ulteriore condizione, e cioè forme di pubblicità indicate come sistematica e progressiva messa a disposizione del pubblico e come diffusione, anche attraverso strumenti di telecomunicazione e informa- tici, dell’informazione ambientale (art. 1, c. 1, lett. b). Con la disciplina successiva torna, invece, in primo piano la trasparenza, che diviene regola di organizzazione delle amministrazioni pubbliche (art. 5, c. 1, lett. c; art. 12 d.lgs. n. 29/1993) e del lavoro pubblico (art. 2 l. n. 15/2009). Nella stessa ottica rivolta all’organizzazione si collocano le disposizioni sugli uffici relazioni con il pubblico (art. 12 d.lgs. n. 29/1993; art. 11 d.lgs. n. 165/2001). La legislazione anteriore al d.lgs. n. 150/2009 sembra, quindi, muoversi ora in un’ottica in cui trasparenza, accessibilità e pubblicità tendono a convergere nella stessa realtà, ora in una logica che sembra introdurre tra di esse alcuni elementi di distinzione. E tuttavia, se si guarda al fenomeno in una prospettiva più complessa, appare palese che la trasparenza non può essere ridotta a una sua forma (accessibilità o pubblicità), e che rispetto a queste essa ha necessariamente un contenuto più ampio. Proprio d’altra parte, la configurazione della trasparenza come principio generale dell’ordinamento (art. 1 l. n. 241/1990), e addirittura come livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche (art. 11 d.lgs. n. 150/2009; art. 1, c. 2, d.lgs. n. 33/2013) evidenzia al di là di ogni dubbio, che la trasparenza suppone l’accessibilità e la pubblicità, ma va oltre di esse. In questa prospettiva la trasparenza è sì “conoscenza diffusa” delle informazioni e dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni (F. Merloni) ma è anche regola del procedimento e dell’organizzazione (F. Manganaro), valore immanente nell’ordinamento (F. Patroni Grif- fi), strumento per evitare elusioni al principio di concorrenza e accordi illeciti o corruttivi (F. Manganaro): una realtà cioè che si proietta oltre la questione del rapporto del cittadino con le informazioni detenute dall’ammi- nistrazione, per divenire istituto fondamentale di democrazia amministrativa (F. Manganaro) e regola, organiz- zativa e funzionale, del potere. La trasparenza è essa stessa, nell’ottica della democrazia amministrativa, un carattere strutturale del potere pubblico, che deve essere realizzata con tutti gli strumenti che l’ordinamento a tal fine prevede. In questa prospettiva, l’accessibilità degli atti e delle informazioni è una modalità di realizzazione della trasparenza che affida al cittadino la ricerca e la selezione delle informazioni di cui ha bisogno (F. Merloni). Essa, dunque, suppone un movimento del cittadino verso l’amministrazione, la quale deve limitarsi a consen- tire l’accesso, e a mantenere riservate quelle informazioni e quei documenti necessari per la cura d’interessi pubblici o privati (riservatezza e dati personali). In un certo senso, nel sistema basato sull’accesso – che non è, nella sua configurazione generale, legato necessariamente al rapporto con la tutela di una situazione differen- ziata – la pubblicità è realizzata con l’iniziativa del cittadino, ed è appunto per questo che l’accesso è legato intimamente con la partecipazione. Anche la pubblicità costituisce una forma (o uno strumento) di realizzazione della trasparenza: in essa, tutta- via, l’iniziativa del potere pubblico precede e anticipa il movimento del cittadino poiché prescinde da qualunque sua iniziativa e consiste nella pubblicazione organizzata di documenti ed informazioni dell’amministrazione. Essa si risolve, in senso tecnico, in un obbligo per l’amministrazione che può essere generalizzato con riferimento a tut- te le informazioni, o riguardare invece categorie più o meno ampie di esse. Sotto questo profilo, non appare esatta l’affermazione secondo cui la pubblicità sarebbe “un mero stato di fatto dell’atto” (F. Manganaro); al contrario la pubblicità suppone e si risolve in un regime giuridico. Ciò che infatti caratterizza la pubblicità è il fatto che essa è giuridicamente ed organizzativamente predisposta dall’amministrazione, sicché l’intervento del cittadino è previsto quando l’ordinamento che dispone la pubblicità non ha attuazione spontanea. Il carattere strumentale, rispetto alla trasparenza, dell’accesso e della pubblicità è, d’altra parte, ricava- bile dalla stessa disciplina positiva: significativi, al riguardo, possono essere considerati l’art. 22 della l. n. 241/1990, che configura l’accesso come strumento di realizzazione del fine della trasparenza, e l’art. 1 della l. n. 190/2012, in forza del quale la trasparenza “è assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione”. La distinzione fra trasparenza, accessibilità (o accesso) e pubblicità è utile perché rende possibile una va- lutazione differenziata (F. Manganaro). Tuttavia, la distinzione è particolarmente utile soprattutto perché con- sente di comprendere che il mutamento progressivo della nozione di trasparenza, nella legislazione positiva, si giustifica con il mutamento del rapporto tra essa e la forma (o lo strumento) di realizzazione. La trasparenza acquista, così, un contenuto normativo e concettuale diverso a seconda che l’ordinamento privilegi come forma

480 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA o strumento di attuazione di essa, l’accesso o la pubblicità. Più precisamente, l’ordinamento positivo sembra registrare un mutamento della nozione giuridica di trasparenza via via che, nella forma della sua realizzazione, la pubblicità si afferma sull’accessibilità, pur ovviamente, non escludendola. L’evoluzione della nozione giuri- dica di trasparenza è, così, affidata alla dialettica tra questa, pubblicità e accessibilità. 7. La l. n. 241/1990: trasparenza come primato dell’accessibilità Le osservazioni sopra esposte consentono di tracciare una “vicenda” della trasparenza nell’ordinamento positivo, che conduce, alla fine, alla configurazione di essa come strumento di lotta alla corruzione e di preven- zione della maladministration: la trasparenza può svolgere il ruolo assegnatole nella l. n. 190/2012 e nel d.lgs. n. 33/2013 proprio perché la relativa nozione, quale risulta dalla sua configurazione giuridica, non è più quella propria della l. n. 241/1990, anche se la suppone e non la fa venir meno. Al riguardo, è stato osservato che nel percorso normativo della trasparenza possono essere identificate diverse tappe evolutive (F. Patroni Griffi) caratterizzate dal diverso rapporto fra essa e la propria prevalente forma realizzativa (accesso o pubblicità). A esse corrisponde un mutamento della nozione di trasparenza. La prima tappa può essere identificata in quella legata alla l. n. 241, cit., nella quale si registra una chiara prevalenza dello strumento dell’accesso. In essa, peraltro, com’è ovvio, la trasparenza non si riduce all’accesso. Da una parte, fanno parte della pri- ma, come si è visto, anche tutte le misure procedimentali (F. Patroni Griffi), dall’altra, pure in questa stagione la disciplina della trasparenza si realizza anche attraverso forme di pubblicità, come avviene per quelle, già ricordate, riguardanti la disciplina degli enti locali e dell’informazione ambientale. Tuttavia, non vi è dubbio che la centralità spetta al diritto di accesso. È esso, infatti che costituisce esplicitamente lo strumento per re- alizzare la trasparenza intesa come un fine indispensabile per assicurare l’interlocuzione con il cittadino (art. 22 l. n. 241/1990, nel testo preesistente alla l. n. 15/2005). Il diritto di accesso costituisce a un tempo l’oggetto principale (insieme alla possibilità di inviare memorie) della partecipazione procedimentale e lo strumento fondamentale, al di là della partecipazione procedimentale, per assicurare la tutela di una posizione sostanziale facente capo a un soggetto pubblico o privato (art. 22 l. n. 241/1990). Si afferma, così, l’esistenza di un diritto a un’informazione qualificata nei confronti dell’amministrazione, cui si accompagna la consapevolezza dell’importanza, ai fini dell’esercizio della funzione amministrativa, del patrimonio conoscitivo dell’amministrazione e della sua gestione. In questo contesto, anche per l’intervento del giudice amministrativo, il diritto di accesso si va caratteriz- zando non tanto come misura di controllo sociale, quanto come strumento di tutela individuale di una situazio- ne soggettiva; non a caso, i procedimenti di massa sono esclusi dall’applicazione delle norme sulla partecipa- zione (art. 13 l. n. 241/1990). Nella stessa stagione, peraltro, l’ordinamento conosce forme specifiche e limitate di accesso riconosciute al cittadino, in relazione a tale sua qualità e non con riferimento alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti. Ciò avviene in materia ambientale e con riferimento agli atti degli enti locali. 8. La l. n. 205/2000 e la strutturazione dell’accesso come tutela di una situazione soggettiva Proprio l’elaborazione giurisprudenziale formatasi a proposito del diritto di accesso prepara la successiva stagione della trasparenza, che trova il proprio compimento nelle modifiche alla l. n. 241/1990 poste in essere con la l. n. 15/2005. In essa non soltanto la trasparenza mantiene il suo ancoraggio al procedimento, ma si fa, come si è visto, principio generale dell’attività amministrativa (art. 1, c. 1); per converso, quello di accesso si va, sempre più, configurando come un diritto a tutela di una situazione giuridica soggettiva, mutuando, non a caso, la propria struttura dall’esperienza della tutela giurisdizionale. Decisivo appare, in proposito, il nuovo testo dell’art. 22 l. n. 241/1990, che indica coloro che intendano accedere come soggetti titolari di un interesse diretto, concreto, attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento, e fornisce copertura legislativa ai controinteressati all’accesso (art. 22, c. 1, lett. c). Vengono, altresì, precisati sia la nozione di documento amministrativo, con una formula in realtà assai ampia (art. 22, c. 1, lett. d), anche se viene esclusa l’accessibilità di informazioni che non abbiano forma di documento amministrativo (art. 22, c. 4), sia l’ambito soggettivo della disciplina, estesa ai soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse (art. 22, c. 1, lett. e). Paradossalmente, in un periodo in cui quello di accesso si struttura come diritto volto alla tutela di una situazione soggettiva individuale, lo stesso viene indicato come “principio

481 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 generale”, dell’attività amministrativa, “attese” le sue rilevanti finalità di pubblico interesse” (art. 22, c. 2); viene tuttavia ribadita la natura strumentale dell’accesso (ormai divenuto principio), alla realizzazione della trasparenza e del tradizionale principio di imparzialità (art. 22, c. 2). La trasparenza, così, pur caratterizzandosi principalmente come accesso, tende a qualificarsi come regola organizzativa del sistema amministrativo. 9. Il d.lgs. n. 150/2009: l’accessibilità “totale” verso la pubblicità È, tuttavia, con la disciplina successiva contenuta nel d.lgs. n. 150/2009 che la trasparenza inizia a distac- carsi dall’accesso inteso come strumento di tutela di situazioni individuali, per dirigersi verso forme generaliz- zate di conoscibilità che si avvicinano molto alla pubblicità e comunque ne suppongono una presenza molto più significativa. La l. n. 15/2009 aveva, con l’art. 1, delegato il governo ad adottare misure di riforma del lavoro pubblico, indicando, tra l’altro, quali obiettivi da raggiungere, la garanzia della trasparenza dell’organizza- zione del lavoro, e l’introduzione di sistemi di valutazione del personale e delle strutture, idonei a consentire anche agli organi politici di vertice l’accesso diretto alle informazioni relative alla valutazione del personale dipendente (art. 2, c. 1, lett. c, e d): una trasparenza, quindi anche “interna”, nel rapporto tra amministrazione e politica, anche al fine di una opportuna valorizzazione del merito (art. 1, c. 1, lett. e). Il d.lgs. n. 150/2009 ha dato attuazione alla delega realizzando, se non una vera e propria mutazione genetica (F. Patroni Griffi) della trasparenza, un radicale spostamento del suo baricentro. Questo, infatti, non si caratterizza più per il riferimen- to ai singoli procedimenti, ma, sempre nell’ottica della valutazione e della misurazione della performance, per il riferimento ai risultati dell’amministrazione e alle risorse impiegate (art. 3, c. 1, d.lgs. n. 150/2009). La trasparenza si sposta dai singoli procedimenti alla funzione amministrativa tout court, di cui va misurata l’effi- cienza e la qualità. Il riferimento diviene, così, non solo il principio d’imparzialità (art. 22, c. 2, l. n. 241/1990), ma anche quello di buon andamento (efficienza, efficacia ed economicità). In coerenza con tale spostamento, la trasparenza non si realizza più soltanto con un accesso legato alla tu- tela di posizioni individuali, ma anche e soprattutto con una “accessibilità totale” a una serie di dati tendenzial- mente omnicomprensivi dell’azione e delle organizzazioni pubbliche allo scopo di realizzare “forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità” (art. 11, c. 1, d.lgs. n. 150/2009). Cambia, così, l’oggetto della trasparenza: non più il procedimento e il provvedimento, non più i documenti amministrativi, ma più ampiamente “informazioni” riguardanti in via generale l’organizzazione, gli indicatori relativi alla gestione, l’utilizzo delle risorse (finanziarie, strumentali e umane) i risultati dell’attività di misura- zione e valutazione (art. 11, c. 1, d.lgs. n. 150/2009). Da tutela della situazione soggettiva l’accesso (e connessa la trasparenza), diviene, in qualche modo, servizio pubblico nell’interesse della collettività; da servizio buro- cratico a fruizione individuale (D. Sorace) diviene servizio pubblico nell’interesse generale. L’accessibilità totale che caratterizza la nuova trasparenza è, con evidenza, cosa ben diversa dall’accesso previsto dalla l. n. 241/1990, non supponendo più un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata” (art. 22, c. 1, lett. b, l. n. 241/1990). Il d.lgs. n. 150/2009 non fa venir meno l’accesso come disciplinato dalla l. n. 241/1990, ma affianca a esso una diversa trasparenza, fondata su un’accessibilità che attribuisce al cittadino una nuova posizione qualificata e diffusa rispetto alle informazioni pubbliche (F. Patroni Griffi). Quanto alle modalità di realizzazione dell’accessibilità totale, va rilevato che esse si allontanano significa- tivamente da quelle tradizionali, consistenti nell’affidamento al cittadino della ricerca delle informazioni di cui ha bisogno (F. Merloni). Esse, infatti, si realizzano, principalmente, con la pubblicazione di tutte le informazio- ni concernenti l’attività, l’organizzazione e le risorse nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni, con una serie di adempimenti finalizzati alla riduzione del costo dei servizi e al loro monitoraggio, con l’attuazione degli adempimenti relativi alla posta elettronica certificata, e soprattutto con una complessa attività di pianifi- cazione e programmazione riguardante l’elaborazione del programma triennale per la trasparenza e l’integrità, il piano e la relazione sulla performance (art. 11, cc. 2, 4, 5, 6, 7). Si tratta, pertanto di un’accessibilità che ha perduto il proprio tradizionale carattere, consistente nell’iniziativa del cittadino, che muove decisamente verso forme qualificate e stringenti di pubblicità, e che suppone una importante attività preventiva di valutazione e di organizzazione da parte dell’amministrazione. Muta così il contenuto concettuale della trasparenza perché si modifica in modo significativo il rapporto di questa con la pubblicità. L’accessibilità totale fa della trasparenza una funzione di servizio agli utenti e un controllo sociale diffuso dell’operato delle amministrazioni (F. Patroni Griffi) che, proprio perché tale, appare diversa dall’accesso tradizionale, che, per esplicita indicazione legisla-

482 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA tiva, non può realizzare un controllo generalizzato sull’operato delle pubbliche amministrazioni (art. 24, c. 3, l. n. 241/1990, come modificata dalla l. n. 15/2005). Il vero cambiamento si realizza, pertanto, rispetto alla trasparenza come configurata dalla l. n. 15/2005: il superamento dell’accesso tradizionale, legato alla tutela delle situazioni soggettive, e la scelta di forme significative di obblighi di programmazione e pubblicità a carico delle amministrazioni, consentono la confi- gurazione di una “nuova” trasparenza, che proprio perché volta a misurare e monitorare l’esercizio del potere in funzione della soddisfazione degli utenti, può essere configurata come livello essenziale delle prestazioni ai sensi dell’art. 117, c. 2, Cost. (art. 11 d.lgs. n. 150/2009): configurazione questa che appare di grande rilievo (B.G. Mattarella, V. Antonelli) perché postula la trasformazione di alcuni tratti dell’attività amministrativa in “prestazione” a fronte di specifici diritti di individui, operatori economici e soggetti privati introdotti dalla legge ordinaria (Corte cost., 20 luglio 2012, n. 2303). Il nuovo volto della trasparenza, consente, infine, il collegamento con l’integrità, intesa non solo come as- senza di forme di maladministration, ma come promozione di un forte spirito civico (art. 11 d.lgs. n. 150/2009). 10. La disciplina anticorruzione e il superamento dell’accesso. La trasparenza come pubblicità È proprio tale situazione che rende possibile la quarta stagione, nella quale la trasparenza diventa strumento precipuo di prevenzione dei fenomeni corruttivi. Con la l. n. 190/2012, approvata in attuazione dell’art. 6 della Convenzione dell’organizzazione delle Na- zioni unite contro la corruzione, adottata dall’assemblea generale dell’Onu il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della l. 3 agosto 2009, n. 116 e degli artt. 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, si è fatta strada nell’ordinamento, come si è già visto, una diversa e più ampia nozione di corruzione, che può essere definita “amministrativistica” (B.G. Mattarella). In tal modo le politiche pubbliche di controllo e di prevenzione della corruzione trovano uno strumento generale. La legge – che pure è caratterizzata da lacune, con riferimento ad esempio, alla corruzione politica e al con- flitto d’interessi dei membri del Parlamento – (B.G. Mattarella) affida le politiche di prevenzione a un approc- cio complesso, che vede presenti strumenti diversi, quali una vera e propria organizzazione amministrativa, misure di pubblicità delle informazioni sia a carattere generale che con riferimento a settori specifici (appalti), disposizioni sugli arbitrati, sul procedimento amministrativo, sulle incompatibilità e sugli incarichi esterni, sugli incarichi dirigenziali, sull’incapacità dei soggetti condannati ad assumere incarichi, sulla decadenza, sui codici di comportamento e sulla responsabilità disciplinare, sulla tutela dei denuncianti. Un approccio così esteso e complesso è frutto anche della tendenza del legislatore italiano a giustapporre istituti diversi, senza un’adeguata riflessione sul risultato finale e soprattutto sulla realizzabilità in tempi ragio- nevoli degli interventi programmati: non vi è dubbio, tuttavia, che nel novero delle misure indicate dalla legge, un ruolo di primo piano spetta a quelle dedicate alla trasparenza. Di ciò non ci si può meravigliare, essendosi verificato con la legislazione successiva al 2005, quel mutamento radicale in forza del quale la trasparenza è realizzata sostanzialmente con forme di pubblicità piuttosto che con disposizioni sull’accesso. All’appuntamento con la disciplina anticorruzione giungono, peraltro, non solo quella che, enfaticamente, è stata definita “accessibilità totale”, ma anche tutte le esperienze che in proposito, a partire dal 2005, sono state realizzate. Come è stato efficacemente osservato (M. Savino) la scelta della pubblicità come istituto fondamentale della trasparenza, unitamente all’approvazione, nel codice dell’amministrazione digitale, delle disposizioni sul contenuto obbligatorio dei siti delle amministrazioni, ha generato una vera e propria euforia legislativa che ha visto l’introduzione di più di cento previsioni in tema di obbligo di pubblicazione, a cui ha fatto seguito quello che è stato indicato come un “duplice fallimento”, legato alla frammentarietà della disci- plina sulla pubblicità e al conseguente elevato tasso di inosservanza (M. Savino). È per tale ragione che la l. n. 190/2012 ha, opportunamente previsto, all’art. 1, cc. 35 e 36, una delega legislativa per il riordino degli obblighi di pubblicità, di trasparenza, diffusione delle informazioni da parte dalle pubbliche amministrazioni. In attuazione di tale delega è stato emanato il d.lgs. n. 33/2013. La trasparenza prevista e disciplinata dalla l. n. 190/2012 e dal d.lgs. n. 33/2013 si pone, pertanto, in una linea di continuità con l’accessibilità totale di cui al d.lgs. n. 150/2009, e di essa eredita pregi e difetti. Come già nel d.lgs. n. 150/2009 – e secondo l’impostazione generale che caratterizza la l. n. 241/1990 – la trasparenza, intesa come valore da perseguire, non è affidata soltanto a obblighi di pubblicità, ma anche a

483 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 misure amministrative e organizzative e a quella che è stata definita una complessa e velleitaria pianificazione (M. Savino). Si segnala, in proposito, la figura del responsabile della prevenzione della corruzione, che, richiama, con chiarezza, il responsabile del procedimento di cui alla l. n. 241/1990. Il suo ruolo è intimamente legato agli strumenti di pianificazione e programmazione previsti dalla legge, e in particolare al piano triennale di preven- zione della corruzione (art. 1, c. 8). La legge, infatti, predispone un processo di pianificazione a cascata, che ricorda da vicino quello previsto dal d.lgs. n. 150/2009, con il quale si pone un evidente problema di sovrapposizione (B.G. Mattarella), e che si basa sul piano nazionale, elaborato dal dipartimento della funzione pubblica ed approvato dalla Civit quale Au- torità nazionale anticorruzione (art. 1, cc. 2 e 4), e sui piani triennali, predisposti dalle singole amministrazioni, adottati, su proposta del responsabile, dall’organo di indirizzo politico. Il piano nazionale intende valorizzare e introdurre nelle pubbliche amministrazioni misure mutuate dall’esperienza della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, e suppone l’utilizzazione di tecniche proprie del settore privato, quali quelle di risk management e di risk assestment. Quanto al responsabile della corruzione, la legge n. 190/2012 gli assegna un ruolo di promozione (art. 1, c. 8), di verifica della rotazione effettiva degli incarichi dirigenziali (art. 1, c. 10) e introduce per il medesimo una specifica responsabilità (art. 1, cc. 12, 13 e 14). Si tratta, nel complesso, di misure che suscitano notevoli perplessità anche per il rischio che le stesse abbiano un’attuazione meramente formale e burocratica. Le altre misure riguardano l’organizzazione amministrativa della prevenzione della corruzione (l’Autorità nazionale anticorruzione) e la modifica di alcune disposizioni della l. n. 241/1990. Su di esse la valutazione non può essere positiva, se non altro perché reiterano la tendenza a variare continuamente una legge che, per essere fondamentale, dovrebbe essere contrassegnata da una certa stabilità. Alcune sembrano realizzare, nel segno della trasparenza, una regressione anziché un progresso, come quella che prescrive che gli accordi ex art. 11 l. n. 241 cit., siano motivati, e che segna la definitiva sconfitta dell’amministrazione consensuale. È tuttavia con le specifiche disposizioni sulla trasparenza che si coglie il definitivo superamento dello sche- ma che affidava all’accesso la sua realizzazione. L’art. 1, c. 15, precisa infatti che la trasparenza dell’attività amministrativa “si realizza mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali della pubblica amministrazio- ne”, delle informazioni relative agli oggetti nella stessa norma indicate. È quindi la pubblicità che costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione della trasparenza; tale pubblicità si attua, peraltro, non attraverso un generale obbligo di pubblicazione delle informazioni in possesso dell’amministrazione, ma attraverso la configurazione di una serie di obblighi puntuali (art. 1, cc. 15-16 e 26-31) che si aggiungono ai molti già pre- senti nell’ordinamento. È per tale ragione che la legge ha previsto, all’art. 1, c. 35, un’apposita delega per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità. E tuttavia, tale disposizione, se appare opportuna per portare ordine nel gran numero di obblighi di pub- blicità esistenti, conferma al di là di ogni dubbio la scelta di un modello in cui la trasparenza si realizza non attraverso un generale dovere di pubblicità, ma per il tramite della previsione di una serie ampia, ma puntuale, di obblighi di pubblicazione. È quindi con il d.lgs. n. 33/2013, che è stata completata e messa a punto la nuova configurazione della tra- sparenza amministrativa che, proprio perché fondata su una serie assai ampia di obblighi di pubblicità, appare capace di realizzare forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche (così, testualmente, l’art. 1, c. 1, d.lgs. n. 33/2013). Con la trasparenza intesa come accesso volto alla soddisfazione della posizione soggettiva individuale e di controllo puntuale, si consolida l’accessibilità totale, che intende realizzare un controllo democratico sull’eser- cizio del potere pubblico. 11. La nuova trasparenza. Obblighi di pubblicazione e diritto di conoscenza Al di là, peraltro, delle importanti ma enfatiche affermazioni di principio contenute nell’art. 1, decisiva, per la comprensione del sistema, appare la disposizione contenuta nel successivo art. 3 d.lgs. n. 33/2013 sotto la significativa rubrica “pubblicità e diritto alla conoscibilità”. L’art. 3, c. 1, contiene due disposizioni. In forza della prima “tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblici”; in forza della seconda, “chiunque ha diritto di conoscerli, di fruire gratuitamente e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell’art. 7”.

484 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Nella sua efficace concisione, l’art. 3, c. 1, evidenzia in controluce, tutti i profili evolutivi della trasparenza, ma anche tutti i profili limitativi di essa; in qualche modo, tutte le luci, ma anche qualche ombra. Il primo rilievo attiene alla trasparenza. Coerentemente alle previsioni della l. n. 190/2012, la trasparenza è pienamente realizzata con la pubblicità. Evidente risulta l’abbandono del metodo dell’accesso per la realiz- zazione di una trasparenza che acquista un significato diverso da quello tradizionale, così divenendo un vero e proprio servizio pubblico, strumento privilegiato per la realizzazione dell’open government. Tale pubblicità riguarda “tutti i documenti, le informazioni e i dati”: risulta, pertanto, con maggior chiarez- za, evidente, l’abbandono (e il superamento) non solo dello strumento, ma anche del “sistema” dell’accesso, dal momento che in questo l’accessibilità riguardava i “documenti amministrativi” (art. 22, c. 3, l. n. 241/1990), mentre non erano accessibili “le informazioni” che non avessero la forma di “documento amministrativo” (art. 23, c. 4, l. n. 241, cit.). La pubblicità, peraltro, riguarda i documenti, le informazioni e i dati “oggetto di pubblicazione obbligato- ria” (art. 3, c. 1, d.lgs. n. 33/2013), mentre, in stretta correlazione a tale obbligo di pubblicità, è attribuito “a chiunque” il diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di “utilizzarli e riutilizzarli”. Sembrerebbe così realizzato, anche nel nostro ordinamento, quel right to know che è una caratteristica specifica degli ordinamenti ispirati al Freedom for information Act, strettamente correlato alla realizzazione dell’open government ed al funzionamento di un ordinamento democratico e che costituisce un vero e proprio diritto fondamentale (M. Savino). Le cose, tuttavia, non stanno in questo senso. La pubblicità riguarda infatti non tutte le informazioni in possesso delle amministrazioni, con l’unico limite delle esigenze di riservatezza correlate ad interessi pubblici e privati previamente identificati, ma i documenti, le informazioni ed i dati “oggetto di pubblicazione obbliga- toria”. È quindi la previsione positiva dell’ordinamento (presente anche fuori del d.lgs. n. 33/1993) e non una regola generale, a stabilire l’obbligo di pubblicazione, che di tali previsioni segna l’ampiezza ed il limite. Correlativamente, la norma positiva conforma il diritto di conoscenza: questo è riconosciuto a chiunque, ma nei limiti delle previsioni di legge, e quindi soltanto per i documenti per cui esista un obbligo di pubblicazione normativamente stabilito. Che le cose vadano in tal senso risulta ulteriormente chiarito dal successivo art. 4. Quest’ultimo, nel precisare che le amministrazioni possono disporre la pubblicazione di documenti atti o informazioni che non hanno l’obbligo di pubblicare, implicitamente ma chiaramente conferma che non può esservi pubblicità senza apposita previsione che la imponga, e che il right to know è strettamente legato all’esi- stenza dell’obbligo di pubblicazione. Al di fuori dell’obbligo di pubblicazione (scaturente da norma legislativa o regolamentare o dall’autonoma facoltativa determinazione dell’amministrazione) non può esservi trasparen- za come “accessibilità” totale, ma soltanto la possibilità dell’accesso, esercitato alla stregua della disciplina contenuta nella l. n. 241/1990. Nel sistema del d.lgs. n. 33/2013, coesistono pertanto due diversi tipi (e due diverse nozioni) di trasparenza con due diversi regimi giuridici: una trasparenza come pubblicità, riguardante le informazioni per le quali è previsto un obbligo di pubblicità, ed una trasparenza come accessibilità ex lege n. 241/1990, per gli atti am- ministrativi (e non le informazioni) non soggetti ad obblighi di pubblicità, per i quali continua ad operare la commissione per l’accesso (art. 4, c. 7). Non a caso, con riferimento alla disciplina del d.lgs. n. 33/2013, si è affermato che essa distingue tra l’area della pubblicità necessaria e l’area residuale della pubblicità facoltativa, per la quale, in mancanza della scelta puntuale dell’amministrazione, sono azionabili soltanto le tradizionali previsioni dell’accesso ai sensi della l. n. 241/1990 (M. Savino). A tali diversi tipi di trasparenza corrispondono, pertanto, due situazioni giuridiche soggettive tra loro mol- to diverse: un diritto di conoscenza e di fruizione riconosciuto a chiunque per gli atti sottoposti a obbligo di pubblicazione, e un diritto di accesso riconosciuto a coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridica tutelata (art. 22, c. 1, lett. b, l. n. 241/1990) per gli atti per i quali non sussista obbligo di pubblicazione. Può pertanto, nonostante le enfatiche dichiarazioni contenute nell’art. 1, c. 1, d.lgs. n. 33/2013, dubitarsi che la trasparenza intesa come accessibilità totale, costituisca effettivamente un principio generale applicabile in ogni caso ed effettivamente operativo. Tale principio, infatti, non trova applicazione con riferimento agli atti

485 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 che non sono oggetto di pubblicazione obbligatoria, mentre lo stesso art. 2, c. 1, d.lgs. n. 33/2013, nel preci- sare che le disposizioni in esso contenute individuano gli obblighi di trasparenza concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione, chiaramente conferma che il principio affermato nell’art. 1, c. 1, abbisogna, per divenire operativo, di una specifica disciplina attuativa. 12. Il d.lgs. n. 33/2013: principio di trasparenza e sistematizzazione della pubblicità Le ulteriori, importanti, disposizioni contenute nel d.lgs. n. 33/2013 seguono fedelmente l’impostazione sopra descritta. Proprio una trasparenza intesa come conoscibilità di documenti, atti e informazioni, soggetti a obblighi di pubblicazione, rendeva necessaria l’opera di raccolta dei circa cento obblighi previsti in diverse discipline di settore (M. Savino). A tanto provvede il d.lgs. n. 33/2013, sia introducendone di specifici per gli atti normativi e amministrativi generali (ma si v. art. 24 l. n. 241/1990), sia riordinando le disposizioni già presenti nell’ordina- mento in quattro capi, concernenti l’organizzazione e l’attività dell’amministrazione (capo II), l’uso delle risorse pubbliche (capo III), le prestazioni offerte e ai servizi erogati (capo IV), ed i settori speciali (capo V). Il d.lgs. n. 33/2013, oltre a riordinare in un approccio sistematico gli obblighi già esistenti, ne introduce di nuovi, tra i quali possono essere ricordati, in quanto rispondenti ad una domanda sociale largamente diffusa, i dati concernenti i redditi e la condizione patrimoniale dei titolari degli organi di indirizzo politico (art. 14), e i rendiconti dei gruppi consiliari e regionali; significativa è anche la pubblicazione degli atti di conferimento di incarichi e di consulenza, e la configurazione di tale adempimento come condizione di efficacia dei medesimi (F. Patroni Griffi). Degli obblighi di pubblicazione complessivamente contenuti nel decreto delegato è stata opportunamente proposta una classificazione di tipo funzionale, che distingue tra quelli finalizzati a consentire un controllo diffuso sul personale e sull’azione amministrativa, quelli diretti a rafforzare l’accountability delle amministra- zioni finanziarie, e quelli orientati allacustomer satisfaction (M. Savino). Nel complesso questi obblighi gene- rali – cui si aggiungono quelli previsti per i settori speciali (contratti pubblici, opere pubbliche, pianificazione e governo del territorio, Servizio sanitario nazionale, interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente) – realizzano, almeno sulla carta, un significativo controllo sull’esercizio della funzione pubblica. In quest’ottica, un ruolo particolarmente significativo deve essere riconosciuto a quel- li riguardanti la gestione finanziaria, come gli obblighi di pubblicazione del bilancio annuale di previsione a consuntivo in forma sintetica, aggregata e semplificata (art. 30), e, novità assai significativa in vista di una interazione tra controllo legale e controllo sociale, i rilievi degli organi di controllo con particolare riguardo a quelli non recepiti (art. 31). 13. L’accesso civico: il diritto di accesso conformato dagli obblighi di pubblicazione Il d.lgs. n. 33/2013, individua negli artt. 43-45 gli obblighi di vigilanza e le sanzioni per l’inosservanza dei medesimi. Ai meccanismi di enforcement va, peraltro, ricondotto (M. Savino) anche l’accesso civico regolato dall’art. 5. La disciplina di cui agli artt. 43, 44 e 45 rinvia alla complessa opera di programmazione e pianifica- zione sopra ricordata, dal momento che agli atti programmatici si connettono sia il sistema di vigilanza posta in essere dal responsabile per la trasparenza, sia i profili di responsabilità configurati (art. 43). Nella stessa ottica devono essere collocati sia gli interventi degli organismi indipendenti di valutazione (art. 41) sia i controlli esercitati dalla Civit, anche quale Autorità nazionale anticorruzione. Il più importante elemento di novità è, però, costituito dell’istituto dell’accesso civico, disciplinato dall’art. 5, la cui configurazione è strettamente legata a quella della pubblicità obbligatoria di cui all’art. 6, e che di essa costituisce, in qualche modo, la conseguenza necessaria. La disciplina dell’art. 5 per un verso riprende la configurazione del diritto di accesso civico indicato nella seconda parte dall’art. 3, confermando che esso è riconosciuto a tutti, indipendentemente da situazioni o limitazioni soggettive (art. 5, c. 2), ma nell’ambito degli obblighi di pubblicazione previsti; dall’altro procedimentalizza la realizzazione di tale diritto, attraverso l’istanza rivolta al responsabile del procedimento ed i conseguenti obblighi dell’amministrazione (art. 5, cc. 3, 4 e 6). La tutela giurisdizionale è effettuata nelle forme proprie dalla tutela dell’accesso, e considerato che, con le indicazioni sopra ricordate, il diritto è riconosciuto a chiunque, può dirsi che si è di fronte ad una vera azione popolare esercitata attraverso tale rito speciale (R. Garofoli). L’accesso civico e il relativo diritto costituiscono la diretta conseguenza della configurazione di una traspa- renza direttamente legata non a un generale obbligo, ma a puntuali obblighi di pubblicazione; vengono, così,

486 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA previsti gli strumenti, amministrativi e giurisdizionali, esercitabili in caso di mancata spontanea attuazione dell’ordinamento. La trasparenza, realizzata per il tramite della spontanea attività dell’amministrazione attra- verso l’adempimento degli obblighi di pubblicazione è completata da quella su istanza del cittadino, propria della disciplina generale dell’accesso, che si attiva, in sede amministrativa e giurisdizionale, a seguito dell’ina- dempimento dell’obbligo dell’amministrazione. Viene, così, assicurata, attraverso l’intervento del cittadino e il suo accesso civico, la corrispondenza, almeno potenziale, tra obblighi astratti di pubblicazione, e soddisfazione effettiva dei medesimi. L’accesso civico ha, così, anche una funzione di completamento (integrativa e corretti- va) della trasparenza realizzata attraverso la previsione dei diversi obblighi di pubblicazione. 14. Regime di open data e qualità dell’informazione Del sistema delineato dalla l. n. 190/2012 e dal d.lgs. n. 33/2013 costituiscono elementi non secondari la disciplina degli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 33. Il primo evidenzia il ruolo decisivo della qualità dei dati, intesa nel senso di esattezza, completezza integrità, costante aggiornamento, tempestività, semplicità di consultazione, indica- zione della provenienza dei medesimi. In un sistema che privilegia la realizzazione effettiva della trasparenza può forse, ritenersi che alle gravi violazioni dell’art. 6 da parte dell’amministrazione possa essere posto rimedio con gli strumenti – amministrativi e giurisdizionali – dell’accesso civico. L’art. 7 riguarda, invece, la scelta per un regime di open data, riferito a tutte le informazioni oggetto di pubblicazione obbligatoria. Com’è stato osservato, tale scelta “consolida un nucleo duro, non comprimibile, d’informazioni diffuse in formato aperto”, e proietta la stessa trasparenza amministrativa verso un “nuovo paradigma”, nel quale essa si configura come elaborazione dei dati e delle informazioni in possesso dell’ammi- nistrazione da parte dei soggetti terzi (F. Patroni Griffi). 15. La “nuova” trasparenza ed i vizi “antichi” del legislatore Le indicazioni e le osservazioni che precedono non esauriscono né la descrizione della “nuova” trasparenza amministrativa né le riflessioni che su di essa possano essere fatte; esse, peraltro, consentono una prima prov- visoria e sommaria valutazione. Sotto questo profilo, il sistema risultante dalla l. n. 190/2012 e dal d.lgs. n. 33/2013, appare caratterizzato da molte luci, ma anche da molte ombre, e complessivamente, forse più da ombre che da luci. Lo sforzo fatto dal legislatore per completare e meglio individuare gli annunci un po’ enfatici contenuti nella disciplina del 2009 è stato notevole, e di ciò deve essere dato atto. Soprattutto l’opera di riordino e di sistemazione realizzata con il d.lgs. n. 33/2013 appare di grande importanza. Attraverso le previsioni in esso contenute la trasparenza come “accessibilità totale” è divenuta meno generica e più precisa, con una scelta chiara che individua negli obblighi di pubblicità e nell’adempimento di essi gli strumenti attuativi o principali. In tal modo, l’accesso ha aggiunto un nuovo volto a quello tradizionalmente conosciuto, ed è divenuto un vero e proprio diritto civico, realizzando il passaggio dal need to know al right to now, assistito da un mecca- nismo d’implementazione (F. Patroni Griffi). Tuttavia, questo right to now non è quello che caratterizza i sistemi ispirati al Freedom for information Act (F. Patroni Griffi, M. Savino), ma si risolve in un sistema normativo, in grado di “costringere le amministrazioni ad assicurare la pubblicità che la legge prescrive” (F. Patroni Griffi). È questo diritto, nei limiti delle previsioni legislative che costituisce il tratto che segna la distanza più significativa con le esperienze delle democrazie liberali, portando, secondo un certo modo di pensare, all’inversione del rapporto tra mezzo (obbligo di pubbli- cazione) e fine (diritto di accedere all’informazione), così configurando l’accesso come un “diritto riflesso” (M. Savino). La pubblicità viene prima dell’informazione e del diritto, che dai relativi obblighi risulta conformato. In realtà i problemi della nuova disciplina sulla trasparenza derivano da vizi antichi del legislatore italiano. Di essi, alcuni attengono alla scelta degli strumenti, altri invece, si riflettono sull’impostazione generale. Cominciando dai primi, occorre osservare che il sistema prescelto dal legislatore si basa su di uno strumen- to tradizionale per la conformazione dell’attività amministrativa, che è quello della pianificazione a cascata (piano nazionale di prevenzione, programma triennale per la trasparenza e l’integrità) della quale si può dire che è “complessa e velleitaria” (M. Savino) e comunque che costituisce una scommessa dagli esiti incerti (B.G. Mattarella). L’ordinamento ha già da tempo sperimentato la sostanziale inefficacia e la valenza spesso mera- mente cartolare di strumenti del genere; le perplessità sono destinate ad aumentare se si guarda all’esperienza, finora insoddisfacente, dei programmi per l’integritàex d.lgs. n. 150/2009 (B.G. Mattarella).

487 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

I rischi connessi a questo tipo di scelta sono quello di una attuazione burocratica ed elusiva, che fa dei piani e dei programmi il luogo di vaghe affermazioni di principio, e quello che il responsabile dell’integrità sia in- dotto ad un approccio volto a produrre atti che abbiano il solo scopo di esonerarlo dalla responsabilità. Si tratta di un’ipoteca seria sul funzionamento del sistema. La seconda preoccupazione riguarda l’indifferenza del legislatore per i tempi e, più in generale, per le difficoltà legate all’attuazione della riforma. Si evidenzia, così, un antico vizio del legislatore italiano, che è quello di ritenere che la riforma sia realizzata con la sua approvazione legislativa, con una totale dimenticanza delle difficoltà legate alla sua attuazione ed implementazione ed ai tempi a tal fine necessari (M. Savino). È stato osservato che, vi è nella norma un difetto di realismo che spesso caratterizza l’approccio italiano con le questioni di amministrazione, e che per cogliere il valore del fattore “tempo” nell’attuazione di un processo riformatore, basta guardare all’esperienza britannica, che ha visto l’entrata in vigore delle norme sul Freedom of information Act dopo quattro anni dall’epoca di approvazione (2000) proprio per dare alle amministrazioni il tempo di adeguarsi (M. Savino). Al contrario, proprio quando vengono introdotte previsioni la cui attuazione non potrà non essere partico- larmente gravosa, il legislatore sembra cullarsi “nell’illusione che le leggi vengano implementate nel momento in cui entrano in vigore”, mostrando “una fiducia nella spontanea attuazione delle previsioni, anche in assenza di incentivi e sanzioni, che può far sorridere” (B.G. Mattarella). La terza, e forse più rilevante, questione attiene a un profilo di particolare importanza nel nuovo sistema, e cioè alla scelta per una trasparenza realizzata attraverso numerosi, svariati ma sempre puntuali obblighi di pubblicazione. Tali obblighi sono stati opportunamente raccolti nel d.lgs. n. 33/2013, ma ciò non cambia i ter- mini della questione, dal momento che, per un verso, si scarica comunque sull’amministrazione una serie assai consistente di adempimenti amministrativi connessi a previsioni di pubblicità puntuali e invece, per l’altro, si trascura il fatto che il legislatore (o la stessa amministrazione: art. 4, c. 3) possono comunque sempre aumen- tare il numero di tali adempimenti. L’errore prospettico che in tal modo si compie è quello di far prevalere un connotato quantitativo della pubblicità, con l’imposizione di una amplissima serie di informazioni, che rischia di prendere, cartolarmente, il posto di una trasparenza di qualità. Il rischio è che “la bulimica e dettagliatissima imposizione di obblighi di redazione-pubblicazione con cui il legislatore pretende di aver realizzato la total disclosure dell’azione amministrativa” (V. Azzolini) si risolva, alla fine, in un incremento di quella “opacità per confusione” che è propria dell’eccesso di previsioni e d’informazioni. Si tocca, qui, un profilo paradossale; nel momento in cui, attraverso il riordino delle disposizioni sugli obblighi della trasparenza, s’intendeva fare opera di semplificazione, si affida la trasparenza a un sistema di pubblicità che, in quanto fondato sulla descrizione di una serie minuziosa dei relativi obblighi, realizza una vera e propria inflazione normativa, così aumentando il tasso di complicazione dell’ordinamento. Ancora di recente è stato rilevato che il nostro è un paese “che ha un numero incredibilmente alto di leggi, che finiscono col formare un fitto reticolo di norme spesso in con- traddizione tra loro, nel quale il cittadino rimane impigliato (G. Belardinelli); in una situazione del genere, la trasparenza annunciata rischia di rivelarsi, com’è stato amaramente osservato, quasi un inganno espressivo, perdendosi nella copiosità delle regole e nella sproporzione degli adempimenti (V. Azzolini). Ancora una volta, pertanto, alla base dell’errore prospettico compiuto dal legislatore, sta un vizio antico, quello ciò di far ricorso, per realizzare un obiettivo, a una iper regolamentazione puntuale, che provoca infla- zione normativa e con essa non trasparenza, ma confusione ed opacità. C’è, peraltro, in tale modo di procedere, un’autentica sfiducia nella portata dei principi generali nella co- struzione dell’ordinamento, e in particolare, nella capacità stessa della trasparenza di costituire una regola generale: se tale fiducia, nonostante le enunciazioni normative, vi fosse stata, si sarebbe affermato l’obbligo generale di consentire l’accesso ai cittadini, senza necessità di motivazione, salva la riservatezza legata a specifiche esigenze indicate dall’ordinamento, senza necessità di far ricorso ad una spasmodica ed ossessiva elencazione dei casi di esclusione. La diversa scelta operata dal legislatore appare, invece, gravida di conseguenze per la stessa configurazione degli istituti di trasparenza. Il sistema prescelto rischia di ridurre il principio generale a una minuziosa disci- plina positiva: in presenza di una individuazione per legge degli obblighi di trasparenza (art. 2, c. 1, d.lgs. n. 33/2013) quello di conoscere e di accedere non si risolve in un diritto fondamentale, ma in un diritto conforma- to dagli obblighi di pubblicazione e da questo limitato dirigisticamente, secondo un’impostazione autoritaria: un diritto di accesso nei limiti degli obblighi riconosciuti dalla legge o dagli atti amministrativi. È, questa,

488 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA forse, alla fine, la distanza più rilevante del sistema di cui alla l. n. 190/2012 e d.lgs. n. 39/2013, rispetto a quelli ispirati ai principi del Freedom for information Act. Il rischio è che la iper regolamentazione e la limitatezza del diritto di accesso rischino di compromettere (M. Savino) l’efficacia della trasparenza come strumento di prevenzione della corruzione. La partita è aperta, ma è assai incerta la sua conclusione.

* * *

LE MISURE AMMINISTRATIVE DI CONTRASTO ALLA CORRUZIONE

di Francesco Merloni

Sommario: 1. La lotta alla corruzione a livello internazionale. – 2. L’Italia e le convenzioni internazionali: la necessità di un cambio di passo. – 3. Le politiche tradizionali. – 4. L’attenzione alla prevenzione nelle amministrazioni pubbliche. – 5. La legge n. 190/2012. – 6. Le misure generali di prevenzione. – 6.1. La tra- sparenza. – 6.2. Le modifiche al regime delle incompatibilità dei dipendenti pubblici (al d.lgs. n. 165/2001). – 6.3. Le regole sull’accesso e la permanenza nelle cariche pubbliche. – 7. Le misure specifiche. I piani anticorruzione, i codici di comportamento. – 7.1. I piani anticorruzione di ciascuna amministrazione. – 7.2. I codici di comportamento. – 8. Ancora sulle lacune più vistose. – 9. Per concludere.

1. La lotta alla corruzione a livello internazionale Il fenomeno corruttivo è riscontrabile e fin qui è stato contrastato a livello dei singoli Stati; esso, però, è un fenomeno globale, che va combattuto attraverso una più forte cooperazione internazionale tra gli Stati. La cooperazione internazionale ha due finalità: in primo luogo trovare e rafforzare forme dirette di collabo- razione, per esempio nel campo delle informazioni ai fini della repressione penale, del recupero dei patrimoni pubblici, del contrasto ai fenomeni di riciclaggio e di evasione fiscale (paradisi fiscali); in questa direzione molto si sta facendo, ma moltissimo resta ancora da fare. In secondo luogo la cooperazione internazionale ha lo scopo di imporre agli Stati degli standard minimi uniformi nella lotta alla corruzione. In questa seconda direzione vanno molte convenzioni internazionali. Ri- cordiamo qui, nel tempo: la Convenzione dell’Ocse del 1997, la Convenzione dell’Onu contro la corruzione (Uncac) di Merida del 2003, le due Convenzioni, penale (1998) e civile (1999), contro la corruzione del Consi- glio d’Europa. Non va trascurata la crescente attenzione dell’Unione europea sul tema (testimoniata dall’ado- zione de “I dieci principi” e il Rapporto anticorruzione dell’Ue), nonché l’avvio di una politica anticorruzione del G8 (1). Tutti gli strumenti qui ricordati partono da una verifica dello stato di attuazione della repressione penale dei comportamenti corruttivi, ma spostano progressivamente l’accento sulla necessità di politiche di prevenzione amministrativa, naturalmente auspicando un forte coordinamento tra questa e la repressione penale. Il limite delle attuali convenzioni internazionali sta nel fatto che esse non arrivano alla costituzione di autorità internazionali con poteri diretti di lotta alla corruzione (come nel caso delle Corti internazionali o della Corte eu- ropea dei diritti dell’uomo). Le convenzioni si devono concentrare sull’imposizione ai paesi che le sottoscrivono e le ratificano di vere e proprie politiche anticorruzione, fatte di impegni concreti, di modifiche legislative degli ordinamenti interni degli Stati, di misure organizzative specificamente mirate alla lotta alla corruzione (si consi- deri il caso della Convenzione civile del Consiglio d’Europa, che impone la costituzione di un’Autorità nazionale anticorruzione). Anche se non si costituiscono vere autorità internazionali, le convenzioni non sono prive di ef- ficacia, perché tutte prevedono la messa in opera, presso le organizzazioni internazionali che le hanno promosse (Onu, Ocse, Coe), di appositi organismi, cui sono affidati compiti di verifica, dimonitoring , del grado di adempi- mento dei singoli Stati degli impegni assunti in sede di sottoscrizione e ratifica (2). Molto spesso il monitoring si

(1) Le convenzioni sono illustrate da S. Bonfigli,L’Italia e le politiche internazionali di lotta alla corruzioni, in F. Merloni, L. Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa, Firenze, Passigli, 2010. (2) In particolare la Convenzione Ocse ha dato luogo a un apposito gruppo di lavoro, il World group against bribery (Wgb), cui l’Italia partecipa fin dalla costituzione, che redige da allora rapporti periodici sulla situazione dei diversi paesi che aderiscono

489 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 svolge con visite dell’organismo internazionale nei singoli paesi e con la redazione di rapporti periodici, inviati in primo luogo ai governi degli Stati membri. Molto spesso i rapporti sono resi pubblici, in questo modo favorendo la pressione delle opinioni pubbliche, dei cittadini, singoli o associati, sui governi (nazionali e decentrati) perché adottino effettivamente le politiche e le misure anticorruzione suggerite nei rapporti. 2. L’Italia e le convenzioni internazionali: la necessità di un cambio di passo L’Italia è un ottimo esempio dell’efficacia della pressione internazionale ai fini dell’adozione di una vera politica nazionale anticorruzione, poiché ha sottoscritto e ratificato (sia pure con lentezza) tutte le convenzioni internazionali prima ricordate, impegnandosi nella loro attuazione concreta. Particolarmente efficace nell’imporre all’Italia una nuova politica è stato il Rapporto di monitoring del Greco sull’Italia del 2009, che conteneva molte critiche e molte raccomandazioni, tra le quali l’adozione di un piano organico di lotta alla corruzione e la configurazione di un’autorità nazionale anticorruzione che avesse spiccati tratti di indipendenza dal governo. Grazie alla pressione internazionale e a una diffusa sensibilità dell’opinione pubblica, e in considerazione dei costi economici della corruzione, l’Italia è arrivata, dopo una lunga discussione parlamentare (dal marzo 2010 al novembre 2012), ad approvare una legge dal titolo “disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, la l. n. 190/2012 (3). Con la l. n. 190 alla tradizionale risposta repressiva penale si affianca l’avvio di una politica di prevenzione amministrativa della corruzione. 3. Le politiche tradizionali La risposta fin qui tentata consisteva, da un lato, nella repressione penale e dall’altro nelle regole sui com- portamenti dei pubblici funzionari (e le relative sanzioni), che comprendono le regole sull’accesso e la perma- nenza nelle cariche pubbliche (eleggibilità, conferibilità, incompatibilità), volte a prevenire l’insorgere di con- flitti tra interessi privati e interesse generale. Si trattava di regole blande (ci si accontentava dell’incompatibilità tra rapporto di lavoro e attività privata), anche perché applicate ai soli dipendenti pubblici, con esclusione dei funzionari “onorari”, cioè dei funzionari esterni all’amministrazione, siano essi soggetti nominati fiduciaria- mente dagli organi politici o gli stessi componenti degli organi politici (4). La repressione penale, dal canto suo (con il suo ruolo di deterrenza), si è rivelata largamente insufficiente, proprio per il carattere sistemico della corruzione, per le difficoltà a far emergere il fenomeno, per i tempi brevi di prescrizione (di recente accorciati). La repressione penale della corruzione, nonostante la creazione di sezioni specializzate presso gli uffici delle procure della Repubblica, manca di un approccio organico e di una condivisione larga e bipartisan (com’è avvenuto, invece, nel caso della criminalità organizzata, mafia, camorra, n’ndrangheta). 4. L’attenzione alla prevenzione nelle amministrazioni pubbliche Nelle politiche anticorruzione dei singoli Stati, quindi, sempre maggiore si fa l’attenzione alla prevenzione dei comportamenti corruttivi all’interno delle pubbliche amministrazioni. Cosa significa prevenire la corruzione nelle amministrazioni pubbliche (in generale nelle istituzioni demo- cratiche)? In primo luogo rivedere le regole sull’amministrazione. Regole sull’organizzazione e sullo svolgimento dell’azione (il procedimento amministrativo), dando attenzione prioritaria alle aree ad alto rischio di corruzione. In secondo luogo significa rivedere, al fine di garantire la posizione d’indipendenza e d’imparzialità (5) dell’a- al Gruppo. La convenzione dell’Onu, ratificata dall’Italia con la l. n. 116/2009, ha condotto alla Conferenza degli Stati parte, cui l’Italia partecipa a partire dall’avvenuta ratifica. Le Convenzioni anticorruzione del Consiglio d’Europa hanno dato luogo al Gre- co (Groupe européen contre la corruption), cui l’Italia partecipa dal 2007, anche prima della ratifica, che effettua periodiche visi- te di monitoring. (3) Per una ricostruzione della formazione della l. n. 190 si v. F. Merloni, La legge anticorruzione e le garanzie dell’imparzia- lità soggettiva dei funzionari pubblici, in Atti del Convegno di Firenze, 12 aprile 2013. (4) Sui limiti della disciplina precedente la l. n. 190 si v. F. Merloni, Introduzione. L’etica dei funzionari pubblici, in F. Merlo- ni, R. Cavallo Perin, Al servizio della Nazione, Milano, Franco Angeli, 2009. (5) Sulla problematica generale dell’imparzialità dei funzionari si v. B. G. Mattarella, Le regole dell’onestà, Bologna, Il Mu-

490 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA zione, le regole di comportamento e di accesso alle cariche dei funzionari pubblici, di tutti coloro “cui sono affidate funzioni pubbliche”, secondo la figura unitaria di funzionario pubblico che ci trasmette l’art. 54 Cost. (6). In terzo luogo si tratta di fare emergere, attraverso la piena attuazione del principio di trasparenza, i fe- nomeni di corruzione, per poi, finalmente occuparsi della diffusione, tra i funzionari pubblici e nell’opinione pubblica, della cultura della legalità e dell’imparzialità nella cura degli interessi pubblici. 5. La legge n. 190/2012 Per dare una rapida idea dei contenuti della nuova legge italiana anticorruzione, partiamo dall’individuazio- ne degli elementi di forza (cosa c’è) e di debolezza (cosa manca). Cosa c’è Seguendo le indicazioni e le raccomandazioni delle organizzazioni internazionali nelle legge si trovano almeno tre assi di intervento rilevanti: 1. la nomina di un’Autorità nazionale anticorruzione (la Civit); 2. l’adozione di misure generali di prevenzione (applicate in tutte le amministrazioni): a) la trasparenza; b) un nuovo regime d’incompatibilità dei dipendenti pubblici; c) un nuovo regime dell’accesso e permanenza negli incarichi amministrativi (nuovo regime delle inconfe- ribilità e incompatibilità); d) una nuova disciplina dei doveri di comportamento dei funzionari pubblici; 3. l’adozione di misure specifiche di prevenzione (differenziate per ciascuna amministrazione): a) l’adozione di piani anticorruzione (Piano nazionale anticorruzione “Pna”, e Piano triennale di prevenzio- ne della corruzione in ogni amministrazione pubblica “Ptpc”); b) la trasparenza e le misure di garanzia dell’imparzialità dei funzionari amministrativi; c) l’adozione di codici di comportamento di singola amministrazione. Cosa manca Tenuto conto dell’urgenza con la quale si è intervenuti a correggere l’originario disegno di legge del 2010 fuori dell’intervento normativo sono rimasti aspetti pur qualificanti di un’organica politica anticorruzione, qua- li i controlli (7), il generale tema dei rapporti tra interessi privati e cura dell’interesse pubblico (8), la disciplina dei partiti politici e la relativa trasparenza. Pur con questi limiti la legge costituisce il primo tentativo di un approccio globale al tema, che cerca di aggredire i fenomeni di maggiore rilevanza. Come si dirà in conclusione sarebbe errato cercare in essa, dato il difficilissimo equilibrio politico che è alla base della sua approvazione, una risposta definitiva. 6. Le misure generali di prevenzione La legge anticorruzione (Lac) e i suoi primi provvedimenti attuativi hanno previsto misure di prevenzione della corruzione di carattere generale e di carattere specifico. Le prime sono destinate alla creazione di un con- testo, di un ambiente complessivo, favorevole all’isolamento, alla riprovazione collettiva e all’eliminazione di atti corruttivi e quindi comportano un’applicazione uniforme in tutte le amministrazioni pubbliche. Le seconde, invece, sono misure che, sia pure introdotte in via generale dalla legge, sono da applicarsi nelle diverse ammi- lino, 2007; G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi, Napoli, Esi, 2008; F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, 2009, cit.; B. Ponti, Indipendenza del dirigente e funzione amministrativa, Rimini, Maggioli, 2012. (6) Per l’applicazione di regole di comportamento alla più ampia e unitaria categoria di funzionari pubblici si v. F. Merloni, In- troduzione. L’etica dei funzionari pubblici, cit. (7) Come si ricorda, il capo relativo ai controlli negli enti locali era già stato stralciato nella discussione del d.d.l. in Senato e la commissione ministeriale non ritenne ci fossero le condizioni per una rivisitazione organica del tema, con riferimento all’intero sistema amministrativo italiano. Sui controlli in funzione di prevenzione della corruzione si v. il volume L. Vandelli (a cura di), Etica e buona amministrazione, cit., e la parte III del volume F. Merloni, L. Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa, cit. (8) Che porta con sé la problematica del procedimento amministrativo, della regolamentazione delle lobbies (nei loro rappor- ti con gli organismi di normazione, ma anche di amministrazione attiva), dei conflitti di interesse per i componenti degli organi po- litici. In materia di regolazione in materia di lobbies si v. E. Carloni, Interessi organizzati, lobbying e decisione pubblica, in F. Mer- loni, R. Cavallo Perin, Al servizio della Nazione, cit.

491 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 nistrazioni pubbliche in modo differenziato. Esse devono, cioè, essere adattate alle caratteristiche proprie di ciascuna amministrazione, tenendo conto in modo particolare delle funzioni attribuite (e delle attività di loro esercizio) e del grado di rischio di corruzione cui le diverse attività sono esposte. 6.1. La trasparenza La trasparenza amministrativa, cioè la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle pub- bliche amministrazioni, con riferimento tanto alla loro organizzazione e funzionamento che alla loro azione, è uno strumento sicuramente efficace anche sul versante della lotta alla corruzione e allamaladministration, per- ché in essa si sommano i profili, inizialmente prevalenti, della tutela del cittadino contro atti e comportamenti delle amministrazioni lesivi delle sue situazioni giuridiche soggettive, e i profili della garanzia dell’imparzialità del risultato dell’azione amministrativa (9). La trasparenza sull’azione amministrativa diviene quindi un fondamentale mezzo per consentire l’emersio- ne dei fenomeni corruttivi e per mantenere la giusta “pressione” dei cittadini sul corretto e imparziale svolgi- mento dell’azione amministrativa (e sui comportamenti imparziali dei funzionari). Conoscenza diffusa, aperta a tutti i cittadini su ogni aspetto dell’amministrazione, dunque. Ma con quali strumenti? Come si sa, ad assicurare la trasparenza concorrono due strumenti, non necessariamente tra loro alternativi. L’accesso ai documenti e alle informazioni delle pubbliche amministrazioni e la pubblicità, oggi soprattutto grazie alle tecnologie dell’informazione, nella forma della pubblicazione di documenti e informazioni nei siti informatici delle pubbliche amministrazioni. L’accesso, soprattutto se riconosciuto a chiunque, senza dover dimostrare la titolarità di situazioni giuridi- che soggettive coinvolte nell’azione amministrativa (come nel modello del Foia americano e britannico), ha il grande pregio di affidare al cittadino (sempre cittadino singolo o cittadino organizzato in forme associative) la ricerca delle informazioni di cui ha bisogno. Questo pregio può, però, rivelarsi un limite, perché lascia ai singoli l’iniziativa e può non permettere una trasparenza piena e non comporta di per sé la diffusione pubblica delle informazioni: il cittadino può decidere di tenere per sé le informazioni cui accede. Il diritto di accesso, anche quando riconosciuto a chiunque è un diritto a forte valenza dialettica: per affermarsi spesso deve passare attraverso fasi conflittuali con le amministrazioni. La pubblicità ha pregi e difetti speculari. Poiché essa consiste nella pubblicazione organizzata di documenti e informazioni dell’amministrazione essa può produrre quell’effetto di piena illuminazione della casa che la renda effettivamente “casa di vetro”, ma questo effetto dipende dall’ampiezza e dalla profondità della pubbli- cazione effettuata dall’amministrazione. In materia di trasparenza la l. n. 190/2012 mira a un’operazione ambiziosa: nell’esclusione di ogni intervento ampliativo in materia di accesso, riscrivere, sulla base di una delega al governo, per intero e in modo organico, la disciplina della trasparenza attraverso la pubblicazione sui siti delle pubbliche amministrazioni, superando la prece- dente frammentazione normativa e garantire, con misure anche sanzionatorie, l’effettivo rispetto dei nuovi obblighi di trasparenza, individuando i procedimenti “a trasparenza prioritaria” perché più esposti a rischio di corruzione. La legge e i suoi decreti delegati consentono di compiere passi in avanti, in alcuni casi, al fine di consolidare e dare organicità a conquiste già realizzate; in altri casi, in campi fin qui inesplorati (10). 6.2. Le modifiche al regime delle incompatibilità dei dipendenti pubblici (al d.lgs. n. 165/2001) Le innovazioni al regime ordinario delle incompatibilità sono realizzate mediante la modifica dell’art. 53 d.lgs. n. 165/2001 (11). Da un lato s’interviene sul regime delle autorizzazioni allo svolgimento d’incarichi

(9) Sulla connessione tra corruzione e trasparenza e sulla legislazione in materia di trasparenza, fino alla “legislazione Brunetta”, si v. F. Merloni, B. Ponti, La trasparenza, in F. Merloni, L. Vandelli, La corruzione amministrativa, cit. Per un’analisi critica della traspa- renza, introdotta dalla l. n. 190, nella sola dimensione della pubblicazione sui siti delle pubbliche amministrazioni, M. Savino, Le nor- me in materia di trasparenza amministrativa e la loro codificazione, in B. G Mattarella, M. Pellissero, La legge anticorruzione, cit. (10) Per un commento organico della legislazione in materia di trasparenza nella normativa anticorruzione si v. B. Ponti (a cu- ra di) La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Santarcangelo, Maggioli, 2013. Si v. anche M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2013, n. 8-9. (11) B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a. (art. 1. commi 39-40 e 42-43), in B. G Mattarella, M. Pellissero, La legge anticorruzione, cit.

492 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA estranei ai compiti d’ufficio rinviando (con il nuovo c. 3-bis) ad apposita fonte normativa (un regolamento del governo) l’individuazione degli incarichi comunque vietati, distinti per ruoli e funzioni del personale. Secondo il nuovo c. 5, le amministrazioni sono poi tenute ad adottare “criteri oggettivi e predeterminati che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale di interessi che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente”. Come si vede l’attenzione all’imparzialità del dipendente nell’esercizio delle funzioni torna a essere elemento centrale della disciplina, riequilibrando la segnalata esclusiva attenzione alla garanzia della prestazione lavorativa. D’altro lato, poi, s’introduce, mediante l’aggiunta di un c. 16-ter all’art. 53, una nuova incompatibilità, questa volta successiva alla cessazione del rapporto di lavoro, che va anche sotto il nome di divieto di pantouflage. Ad imi- tazione di discipline già adottate in altri paesi (Francia e Germania tra gli altri) si stabilisce che: “i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri”. Per rendere efficace il divieto la stessa dispo- sizione prevede che “i contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”. Con il nuovo divieto si vuole evitare che il dipendente, nella prospetti- va dell’assunzione presso un’impresa privata regolata o finanziata da parte della sua amministrazione, possa subire improprie influenze nell’esercizio delle sue funzioni. Il limite della norma stava nella sua applicazione ai soli dipendenti pubblici, con ciò escludendo i dirigenti non legati da un rapporto di lavoro subordinato con l’amministrazione. A colmare la lacuna ha provveduto l’art. 21 d.lgs. n. 39/2013, stabilendo che debbano essere “considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di uno degli incarichi” previsti nello stesso decreto, “ivi compresi i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo”. 6.3. Le regole sull’accesso e la permanenza nelle cariche pubbliche Il secondo strumento di garanzia dell’imparzialità soggettiva dei funzionari consiste nella disciplina sull’ac- cesso alla titolarità dell’organo che esercita funzioni pubbliche e sulla permanenza in carica, disciplina volta a non permettere l’accesso o a escludere dalla carica il funzionario che si trovi in posizioni di aperto conflitto d’interessi o che comunque facciano dubitare della sua imparzialità nell’esercizio della funzione. La l. n. 190/2012 interviene in modo innovativo nella materia (12). Essa si occupa dell’accesso e della permanenza ne- gli incarichi amministrativi, con la novità non secondaria di ricomprendere tra essi gli “incarichi amministrativi di vertice” (fiduciari) e gli incarichi dirigenziali (professionali). La nuova disciplina si fonda sulla fissazione di cause d’inconferibilità e d’incompatibilità per gli incarichi amministrativi (intesi nel senso ampio ora indicato) e sulla fissazione di divieti nell’assunzione d’incarichi privati post incarico amministrativo (che possano far dubitare ex post dell’imparziale esercizio dell’incarico). Gli organi politici restano, però, in gran parte, fuori dalla l. n. 190, cit. Per essi non è stato possibile curare: a) le regole di accesso alle cariche (ineleggibilità, incandidabilità, non nominabilità) connesse a situazioni di conflitto d’interessi; b) le regole di comportamento (codici, regole disciplinari, altro). C’è una nuova disciplina, per i componenti di organi politici a tutti i livelli di governo, delle incandidabilità (e del connesso regime di cessazione dalla carica in corso di svolgimento, che il d.lgs. n. 235/2012 definisce come “decadenza” anche se si tratta dell’applicazione di un caso di incompatibilità successiva, coerente con l’art. 66 Cost.), ma solo in conseguenza di condanne penali definitive. La disciplina delle inconferibilità La vera novità della nuova disciplina: a essa si applica la logica delle ineleggibilità e incandidabilità po- litiche al conferimento d’incarichi amministrativi. Non è più sufficiente la presunzione d’incompatibilità de-

(12) Per un primo commento alle disposizioni della l. n. 190/2012 in materia d’inconferibilità e incompatibilità si v. F. Merlo- ni, Nuovi strumenti di garanzia dell’imparzialità delle amministrazioni pubbliche: l’inconferibilità e incompatibilità degli incari- chi (art. 1, commi 49 e 50), in B. G. Mattarella, M. Pelissero, La legge anticorruzione, cit.

493 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 rivante dalla “dedicazione esclusiva” del funzionario alla prestazione a favore dell’amministrazione; occorre individuare delle cause che possano impedire lo stesso accesso all’incarico amministrativo. L’inconferibilità in generale non è concepita come esclusione permanente, ma solo temporanea, dall’accesso all’incarico: essa pre- suppone necessario un “periodo di raffreddamento” tra la condizione che preclude l’accesso e il conferimento dell’incarico. Decorso il periodo (variabile a seconda dell’incarico e della condizione di partenza), l’incarico è conferibile. Con il trascorrere del tempo, alcune situazioni d’inconferibilità vengono meno, perché non pregiu- dicano l’esercizio imparziale della funzione. La legge delega e il decreto delegato n. 39/2013 (13) individuano tre cause di inconferibilità, che devono sussi- stere in capo al soggetto cui affidare l’incarico amministrativo: a) avere riportato condanne penali, anche non defini- tive; b) provenire da imprese del settore privato, che siano state o siano collegate all’esercizio della funzione, come nel caso delle imprese private “regolate o finanziate” dall’amministrazione che conferisce l’incarico; c) provenire da organi politici. Anche qui la novità è rilevante, perché fino ad oggi lo svolgere incarichi politici non costituiva un motivo di esclusione dall’accesso a incarichi amministrativi. Oggi si considera che la provenienza dalla politica soprattutto se immediata, non attenuata dal trascorrere di un periodo di raffreddamento, possa costituire un vulnus all’apparenza d’imparzialità del funzionario. Il dirigente che fino al giorno prima è stato assessore rivela un’appar- tenenza politica che può pregiudicare la fiducia del cittadino nel suo esercizio imparziale della funzione affidata. La disciplina delle incompatibilità Il regime delle incompatibilità tende a riprodurre in termini d’incompatibilità le cause d’inconferibilità, ma si è reso comunque necessario perché si trattava di comprendere anche situazioni non previste dal regime delle inconferibilità. Si pensi, ad esempio: a) alle incompatibilità tra cariche politiche in organi dello Stato e incarichi amministrativi (che sussistono); b) alle incompatibilità cosiddette sopravvenute, nel corso dello svolgimento dell’incarico, anche per l’assunzione di posizioni di conflitto d’interesse da parte di persone diverse dal titolare dell’incarico, ma a questa legate da rapporto di parentela o affinità. Le misure per l’effettività dei divieti Un ulteriore carattere innovativo della nuova disciplina sta nell’attenzione dedicata, soprattutto nel d.lgs. n. 39 ai profili dell’effettività. Poiché la nuova disciplina si fonda soprattutto su divieti (di accesso e permanenza negli incarichi amministrativi) ci si preoccupa di garantirne l’effettiva applicazione. Si registrano, quindi, misure di vigilanza, doveri di dichiarazione, un’articolata gamma di conseguenze giuridiche in caso di violazione dei divieti (e degli obblighi di dichiarazione) che possiamo considerare come “sanzioni” in senso lato (14). Le misure di vigilanza si articolano in una vigilanza interna alle singole amministrazioni pubbliche (affidata alla figura del responsabile della prevenzione della corruzione, Rpc) e in una vigilanza esterna (affidata all’Auto- rità nazionale anticorruzione). Al Rpc sono riconosciuti due compiti: a) la contestazione formale all’interessato dell’“esistenza o l’insorgere delle situazioni d’inconferibilità o incompatibilità” (art. 15 d.lgs. n. 39, cit.); b) la “segnalazione” di casi di violazione dei divieti ad altri soggetti, competenti ad accertare e far valere le specifiche responsabilità per la violazione delle disposizioni del decreto. L’Autorità nazionale anticorruzione ha compiti di vigilanza generale sul rispetto dei divieti da parte delle amministrazioni, mediante l’esercizio dei poteri ispettivi e di accertamento (art. 16, c. 1, d.lgs. n. 39, cit.), poteri che possono arrivare fino a interventi che incidono sulla procedura di conferimento d’incarichi dirigenziali (art. 16, c. 2). L’Autorità può sospendere la procedura, e sotto- porre “osservazioni e rilievi” all’attenzione dell’amministrazione, la quale, ove intenda comunque conferire l’in- carico, dovrà motivare in ordine alle osservazioni formulate, così eventualmente esponendosi a censura in sede giurisdizionale (o, prima ancora, in sede di visto di legittimità). Per i procedimenti già conclusi resta all’Autorità il potere di segnalazione alla Corte dei conti, per l’accertamento di eventuali responsabilità amministrative. Obblighi di dichiarazione, imposti ai soggetti che accedono a incarichi dirigenziali e riguardano l’insus- sistenza di una delle cause d’inconferibilità previste dal decreto. La dichiarazione è condizione di efficacia dell’incarico (art. 20, cc. 1 e 4, d.lgs. n. 39). Analoga dichiarazione circa l’insussistenza di una delle cause

(13) Per un commento al d.lgs. n. 39/2013 si v., F. Merloni, Il nuovo regime delle inconferibilità e incompatibilità nella pro- spettiva dell’imparzialità dei funzionari pubblici, G. Sirianni, Incompatibilità ed inconferibilità: la necessaria distanza tra cari- che politiche e incarichi amministrativi, B. Ponti, Il d.lgs. n. 39/2013. Vigilanza e sanzioni, tutti in Giorn. dir. amm. n. 8-9, 2013. (14) Sull’argomento B. Ponti, Il d.lgs. n. 39/2013. Vigilanza e sanzioni, cit.

494 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA d’incompatibilità previste dal decreto va presentata, durante lo svolgimento dell’incarico, con cadenza annuale (art. 20, c. 2). Entrambe le dichiarazioni così rese sono oggetto di pubblicazione (obbligatoria) nel sito dell’ente che ha conferito l’incarico (art. 20, c. 3). Sanzioni, di varia natura. Innanzitutto vi sono le nullità in caso di violazione delle regole sull’inconferibilità degli incarichi, con riferimento sia all’atto di conferimento dell’incarico, sia al connesso contratto di discipli- na del rapporto (art. 17 d.lgs. n. 39), con diversificati effetti, da un lato, sul destino del rapporto di lavoro e dall’altro sulla validità ed efficacia degli atti posti in essere dall’organo a causa del venir meno del titolo di legittimazione a ricoprire l’incarico. Non costituisce sanzione in senso proprio la decadenza dei soggetti incompatibili. Secondo la nozione ge- nerale d’incompatibilità ribadita dalla l. n. 190/2012, essa comporta per l’interessato l’obbligo di opzione tra la permanenza nell’incarico e lo svolgimento di attività, cariche ed incarichi con esso incompatibili. L’opzione va esercitata entro il termine perentorio di 15 giorni dalla contestazione dell’insorgere della causa da parte del Rpc, decorsi i quali (in assenza di rimozione della causa di incompatibilità) l’incarico decade di diritto (art. 19, c. 1, d.lgs. n. 39). La decadenza non consegue per effetto della mera insorgenza della causa, preesistente o successiva, d’incompatibilità, ma può essere attivata solo con la sua contestazione da parte del Rpc. Ulteriori effetti, di tipo “sanzionatorio”, sono connessi alla nullità dichiarata ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n. 39 cit., e si producono nei confronti dei soggetti responsabili del conferimento dell’incarico, che di norma sono i componenti degli organi politici competenti al conferimento. 7. Le misure specifiche. I piani anticorruzione, i codici di comportamento 7.1. I piani anticorruzione di ciascuna amministrazione L’idea di fondo, sul modello del d.lgs. n. 231/2001: come nel settore privato anche nelle pubbliche ammini- strazioni vanno introdotte misure organizzative concrete che prevengano comportamenti e decisioni corruttive, assistite da forme di responsabilità in caso di commissione di reati (o di comportamenti devianti). La legge italiana nel settore privato, che prevede l’applicazione, da parte del giudice penale, di sanzioni pecuniarie e interdittive (quali l’esclusione dalla possibilità di contrattare con le amministrazioni pubbliche) per il solo fatto oggettivo dell’avvenuta condanna di un soggetto strettamente legato all’impresa privata per reati corruttivi, è stata molto apprezzata, anche a livello internazionale (molti paesi la stanno imitando). La sua applicazione nel settore pubblico, con l’obbligo di adozione di un Piano triennale di prevenzione della corruzione (Ptpc), resta una buona idea, anche se si evidenziano rilevanti problemi sul versante dell’at- tivazione delle responsabilità. Mentre nel modello del d.lgs. n. 231 cit., le sanzioni ricadono sull’impresa (in sostanza per non aver adottato misure preventive efficaci), nella l. n. 190/2012 le responsabilità, di tipo dirigenziale e disciplinare, ricadono sul solo responsabile della prevenzione della corruzione (Rpc) dell’ammi- nistrazione, con l’esclusione dei componenti dell’organo politico che ha approvato il piano. Resta poi incerto il ruolo del Rpc: se debba attivarsi per l’adozione di misure concrete o debba limitarsi a valutare, in posizione d’indipendenza, l’efficacia delle misure adottate dall’amministrazione (15). Quanto all’attuazione effettiva è stato appena approvato dalla Civit (Autorità nazionale anticorruzione) il Piano nazionale anticorruzione, che ha il ruolo di guida dell’intero sistema delle amministrazioni pubbliche (immedia- tamente quelle statali; dopo un’intesa in Conferenza unificata, quelle regionali e locali) nella predisposizione dei loro piani. Il termine per la predisposizione dei Ptpc di singola amministrazione è ora fissato al 31 gennaio 2014. 7.2. I codici di comportamento La l. n. 190 ha previsto, come misura generale di prevenzione, l’adozione di nuovi codici di comportamento per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche: un codice nazionale e codici di ogni amministrazione pubbli- ca. Il nuovo codice nazionale è stato emanato con il d.p.r. 16 aprile 2013, n. 62. La struttura del nuovo codice, con i suoi 17 articoli, non appare molto diversa da quella del precedente del 2000. Le differenze si registrano nei contenuti dei doveri, a cominciare da una maggiore attenzione alla fissazione dei principi costituzionali di buon andamento e d’imparzialità, riletti come obblighi di condotta personale e come regole sullo svolgimento dell’azione amministrativa. Sono meglio affermati i principi di economicità, efficacia, efficienza, trasparenza,

(15) Si v. F. Merloni, I piani anticorruzione e i codici di comportamento, misure specifiche di contrasto alla corruzione nelle amministrazioni pubbliche, in Diritto penale e processo, 2013.

495 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 imparzialità e non discriminazione, di comunicazione tra amministrazioni e rapporti con il pubblico. Attenzio- ne, poi, viene dedicata ai doveri di massima informazione al cittadino, temperato da doveri di riservatezza, al divieto di dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione (che pregiudicano la fiducia del cittadino), al rispetto di standard di qualità e quantità nell’erogazione di servizi pubblici, alla prevenzione di conflitti di interesse. Si considerino in quest’ultima direzione: il divieto di accettare “incarichi di collabora- zione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico signifi- cativo in decisioni o attività inerenti l’ufficio di appartenenza”, gli obblighi di comunicazione (degli interessi finanziari e dei conflitti di interesse, della propria appartenenza ad associazioni o della presenza di rapporti di collaborazione retribuiti nel triennio precedente), i doveri di astensione. Va, infine, segnalata l’attenzione alla “apparenza”. Il funzionario non deve solo comportarsi in modo impar- ziale, egli deve anche apparire come soggetto imparziale, che dà garanzie al cittadino (e in generale alla pub- blica opinione). Il rispetto di alcuni comportamenti che può sembrare formale diviene, in questa prospettiva, sostanziale, come nel caso dei doveri di astensione in situazioni di conflitto “anche potenziale” con interessi personali, del danno all’immagine o del fine di preservare “il prestigio e l’imparzialità dell’amministrazione”. I codici, nazionale e di amministrazione, hanno un preciso rilievo giuridico, sono norme rilevanti ai fini della responsabilità disciplinare dei dipendenti, non sono norme solo deontologiche o “etiche”. “La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile” (art. 54, c. 3, d.lgs. n. 165/2001). La nuova disciplina prevede una parziale rilegificazione della materia della responsabilità discipli- nare, che resta, però, in buona parte affidata, per i dipendenti “contrattualizzati”, ai contratti collettivi. I codici di amministrazione stabiliscono ulteriori doveri di comportamento, in rapporto alle specifiche funzio- ni attribuite e alla relativa organizzazione. Il codice nazionale costituisce, pertanto, una base “minima” di doveri, integrabile dalle singole amministrazioni. Il codice di singola amministrazione può contenere nuovi doveri di carattere generale, ma anche nuovi doveri specifici, stabiliti con riferimento a particolari aree di attività (nelle aree più esposte al rischio di comportamenti impropri). Qui si rivela la stretta connessione tra codice di singola am- ministrazione e Piano triennale per la prevenzione della corruzione (Ptpc) che è lo strumento di analisi delle aree di attività più esposte a rischio di corruzione. Il Ptpc, però, non coincide affatto con il codice di amministrazione, perché il suo ruolo sta proprio nella fissazione di misure organizzative puntuali, mentre i doveri di comportamen- to, anche se calibrati per specifiche aree di attività, sono destinati ad una validità di più lungo periodo. Tutti i codici, quindi, hanno da un lato un autonomo rilievo, anche indipendentemente dall’attivazione dell’azione disciplinare, e i doveri in essi stabiliti preesistono e non sono modificabili dai contratti collettivi; d’altro lato, però, restano confermati gli incerti rapporti tra codici e disciplina della responsabilità disciplinare fissati con il d.lgs. n. 165/2001, dopo le modifiche del 2009. La disciplina della responsabilità disciplinare rimane affidata ai contratti collettivi, ma solo quanto all’individuazione delle sanzioni e dei procedimenti disci- plinari (nel rispetto dei principi contenuti negli articoli da 55 a 55-novies d.lgs. n. 165). L’adozione dei codici di comportamento non impedisce l’adozione di codici etici e deontologici promossi dai dipendenti o da loro associazioni. 8. Ancora sulle lacune più vistose Nella legge non mancano importanti innovazioni rispetto alla disciplina previgente, soprattutto in materia di piani anticorruzione, di trasparenza, di imparzialità soggettiva dei funzionari, mentre non poche sono le manchevolezze e le incertezze. Vorrei tornare sulle due che mi sembrano più rilevanti. In primo luogo la mancata disciplina organica dei funzionari politici, i quali concorrono largamente all’a- zione delle amministrazioni pubbliche. La mancata disciplina deriva dalle naturali resistenze della classe politica, restia a darsi delle regole più severe di etica pubblica. Un ritardo, anche culturale, che non si risolve con campagne di stampa. Occorre una riflessione di fondo sul ruolo degli organi politici nei processi decisionali nelle amministrazioni pubbliche. Con l’introduzione, tipicamente italiana, del principio di distinzione tra politica e amministrazione, si pensa che ormai l’imparzialità dell’azione stia tutta nelle mani della dirigenza amministrativa. Non è così: anche la definizione degli atti di indirizzo, destinati a orientare l’azione amministrativa, deve essere imparziale. La politica è il luogo delle scelte, della definizione delle priorità dell’azione, non della parzialità e dell’influsso improprio d’interessi particolari nella cura dell’interesse generale. I componenti degli organi di indirizzo poli- tico sono funzionari pubblici, tenuti a rispettare i principi costituzionali della “disciplina” e dell’“onore” (art.

496 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

54), dell’imparzialità e del buon andamento (art. 97), della dedicazione al servizio esclusivo della nazione (dell’interesse generale) (art. 98). Ciò che si fa oggi per i funzionari amministrativi (nuovi doveri di comportamento, nuove regole sull’acces- so e sulla permanenza nelle cariche) deve essere esteso a tutti i funzionari pubblici. Si tratta, anche sulla base di esperienze in atto in diversi paesi (16), di fissare regole più stringenti, ma anche di individuare organi, indi- pendenti, dotati di adeguati poteri (di interpretazione, di dissuasione, di diffusione della cultura della legalità e dell’etica pubblica), da applicarsi anche ai titolari degli organi di indirizzo politico. Il secondo tema è quello dei controlli. Se con i Ptpc ci si può attendere (ma si tratta di un processo che dovrà essere seguito e verificato) una maggiore attenzione ai controlli interni, resta ancora non definito il tema dei controlli esterni. Mi sembra che la ripresa di attenzione sui temi della legalità, dell’imparzialità, della lotta alla corruzione ci consenta di fondare in modo nuovo la necessità, imprescindibile, di controlli esterni, anche nei confronti di enti territoriali ad autonomia costituzionalmente garantita (17). Controlli di sola legalità, senza alcuna strumentalità (controlli non conformativi, non destinati alla prevalenza dell’indirizzo politico di livelli di governo superiori), controlli affidati a organi di sicura indipendenza da qualunque potere politico. Controlli però di sicura efficacia, non destinati a restare lettera morta. Controlli successivi, con forte effetto di deterrenza, con la possibilità di annullare atti amministrativi e con l’attivazione di vere misure di responsabilità ammini- strativa, contabile e disciplinare in capo ai funzionari infedeli o corrotti. Di qui una necessaria riscoperta del ruolo di una rete di soggetti indipendenti di revisione e controllo che abbia al centro la Corte dei conti. 9. Per concludere La recente legislazione anticorruzione deve, quindi, essere vista come un primo approccio a un’organica po- litica di prevenzione, per la quale nel futuro serviranno non solo azioni di completamento del quadro normativo, ma soprattutto politiche di forte impegno, di lunga durata, nell’effettiva attuazione delle misure anticorruzione. La lotta alla corruzione e per l’imparzialità nelle pubbliche amministrazioni non finisce certo con la legisla- zione appena emanata, ma dovrà proseguire nel futuro con una determinazione pari a quella che lo Stato pone nella lotta alla criminalità organizzata, facendo tesoro degli errori al fine di correggerli, valutando i vuoti e le manchevolezze al fine di colmarli progressivamente.

* * *

LE NUOVE REGOLE DI COMPORTAMENTO DEI PUBBLICI FUNZIONARI (*)

di Bernardo Giorgio Mattarella

Sommario: 1. Il catechismo dei pubblici funzionari. – 2. La sostanza delle regole. – 2.1. Il “prima”. – 2.2. Il “durante”. – 2.3. Il “dopo”. – 3. La forma delle regole. – 3.1. I codici di comportamento. – 3.2. Le novità legislative. – 3.3. L’utilità dei codici di comportamento.

1. Il catechismo dei pubblici funzionari Il 18 settembre 1993, concludendo i lavori del 39° Convegno di Varenna, un grande magistrato della Corte dei conti e studioso di diritto pubblico, Onorato Sepe, faceva riferimento al codice di comportamento dei di-

(16) Per una panoramica di queste esperienze si v. gli scritti di P. Leyland, B. Gagliardi, L. Carro Fernandez-Vallmayor, D. Schefold, F. Clementi, tutti nella sezione III, L’etica pubblica nella prospettiva comparata, in F. Merloni, R. Cavallo Perin, Al ser- vizio della Nazione, cit. (17) Un utile contributo alla riflessione in materia viene dagli Atti del LVIII Convegno di Studi di scienza dell’amministrazio- ne, Dalla crisi economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità, Milano, Giuffré, 2012, in particolare da- gli scritti di L. Vandelli, Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi e di N. Mastropasqua, Cor- te dei conti e autonomie: nuove prospettive dei controlli. (*) Testo destinato agli Studi in onore di Giuseppe de Vergottini.

497 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 pendenti pubblici, che era stato proposto pochi mesi prima – e sarebbe stato emanato pochi mesi dopo – dall’al- lora Ministro della funzione pubblica, , con queste parole: “il catechismo di Cassese relativo al comportamento che devono tenere i pubblici dipendenti non contiene novità, così come non ne contiene il catechismo cattolico rispetto ai dieci comandamenti, ma è un indispensabile richiamo alla coscienza di coloro che operano nella e per la pubblica amministrazione” (1). Il paragone tra il codice di comportamento e il catechismo della Chiesa cattolica è efficace per più aspetti e introduce bene il tema delle regole di comportamento dei pubblici funzionari. Come nella catechesi, anche per le regole del pubblico impiego vi è una distinzione tra il testo scritto e la tradizione orale: nella Chiesa vi è la Sacra scrittura ma vi è anche il catechismo, che è innanzitutto l’attività dei catechisti; per i pubblici dipendenti vi è la legge, ma vi sono anche le regole di comportamento tramandate e condivise, comunque giuridicamente vincolanti, tanto che la loro violazione può dare luogo a responsabilità disciplinare. Come nel 1992 la Chiesa cattolica ha deciso di offrire un testo scritto per la pratica del catechi- smo (2), così nel 1994 il governo italiano ha deciso di codificare le regole di comportamento dei dipendenti pubblici (3). Entrambi i testi hanno lo scopo di aiutare a distinguere tra ciò che è corretto e ciò che non lo è, promuovendo comportamenti virtuosi, indipendentemente dalla eventuale sanzione di quelli sbagliati. L’uno e l’altro s’inseriscono in un processo dinamico di riflessione e precisazione delle regole di comportamento, che non si esaurisce e non si interrompe con la loro emanazione. Come il catechismo della Chiesa cattolica, il codice di comportamento dei dipendenti della pubblica am- ministrazione oscilla tra la dimensione della legge e quella della morale. Come il primo vuole andare oltre i dieci comandamenti, così il secondo vuole andare oltre le poche norme generali sulla deontologia del pubblico funzionario contenute nelle leggi. Essi vogliono incoraggiare i destinatari (i buoni cristiani, i buoni funzionari pubblici) a non limitarsi a rispettare la legge, a non limitarsi all’“innocenza striminzita” di chi è buono a norma di legge (4). L’idea che il pubblico funzionario non debba limitarsi a rispettare la legge è presente nell’art. 54 Cost., che di- stingue il dovere dei cittadini di rispettare la Costituzione e le leggi dal dovere dei cittadini, cui sono affidate fun- zioni pubbliche, di adempierle con disciplina e onore. Anche qui c’è un elemento quasi religioso: il giuramento, che somiglia più a un sacramento che a un atto produttivo di effetti giuridici. La Costituzione, come si può notare, non fa riferimento ai soli dipendenti pubblici, ma a tutti coloro che svolgono una funzione pubblica: compresi i ti- tolari di cariche politiche, per i quali l’esigenza di regole di comportamento è stata finora colpevolmente trascurata dal Parlamento. Il codice di comportamento più volte menzionato si applica a chi ha un rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione, non a coloro – come i politici – che vi ricoprono incarichi onorari. Eppure, innanzitutto per essi è sempre attuale l’ammonimento di Sturzo: “Quando il potere si afferma come solutus a lege hominum si arriva facilmente a credersi solutus a lege Dei, cioè superiore alla morale” (5). Nelle pagine che seguono, il tema delle regole di comportamento dei pubblici funzionari sarà esaminato prima considerando la sostanza, cioè il contenuto delle regole stesse, e poi la forma, cioè il loro rilievo giuridi- co. Si farà riferimento principalmente alle innovazioni introdotte dalla recente legge in materia di prevenzione della corruzione (6), nonché al nuovo testo del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche am- ministrazioni (7). 2. La sostanza delle regole Per esaminare la sostanza delle regole di comportamento, è bene ordinarle cronologicamente, in base alla fase alla quale esse si riferiscono: quella anteriore alla costituzione del rapporto tra l’amministrazione e il funzionario, nella quale si pone essenzialmente un problema di requisiti o assenza di impedimenti ad accedere all’impiego o alla carica pubblica; quella relativa allo svolgimento del rapporto stesso, nella quale vi sono varie

(1) Relazione di sintesi, in La pubblica amministrazione nella Costituzione. Riflessioni e indicazioni di riforma, Atti del XXXIX Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione, Milano, Giuffrè, 1993, 219. (2) Con la Costituzione apostolica Fidei depositum, con la quale è stato approvato il testo francese. (3) Con il decreto 31 marzo 1994 del Ministro della funzione pubblica. (4) Seneca, De ira, cap. 28. (5) L. Sturzo, Politica e morale (1938), ora in Opera omnia, I serie, vol. IV, Bologna, Zanichelli, 1972, 11. (6) L. 6 novembre 2012, n. 190. (7) D.p.r. 16 aprile 2013, n. 62.

498 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA esigenze, inerenti tra l’altro alla dedizione all’attività presso l’amministrazione, all’efficienza nello svolgerla, all’imparzialità del funzionario e alla trasparenza sua e dell’amministrazione; e quella successiva alla conclu- sione del rapporto, in cui può aversi, per così dire, un conflitto di interessi a scoppio ritardato. 2.1. Il “prima” Le regole inerenti alla fase anteriore alla costituzione del rapporto dipendono dalla peculiarità dei pubblici funzionari, che – come già osservato – è espressa dall’art. 54 Cost. Essi devono avere canoni di condotta più rigorosi rispetto a quelli degli altri cittadini, con la conseguenza che non tutti i cittadini possono assumere cariche pubbliche: vi è, per così dire, un controllo all’ingresso, basato sulla condotta precedente. Può anche es- servi un periodo di “purgatorio” per coloro che abbiano svolto attività che possono influenzare negativamente lo svolgimento di funzioni pubbliche, se questa influenza può essere evitata frapponendo un periodo adeguato tra le prime e le seconde. Nel complesso, queste regole servono a garantire la dignità dei pubblici funzionari a svolgere le funzioni alle quali sono chiamati. Queste regole sono diverse per i pubblici dipendenti e per i funzionari onorari. Per i primi, non vi è più il requisito generale della buona condotta, ma vi sono specifiche previsioni per particolari categorie di personale. Tra queste va segnalata quella del regolamento governativo sui concorsi, che estende “il requisito della con- dotta e delle qualità morali”, previsto per l’ammissione alla magistratura, alle assunzioni presso la Presidenza del consiglio e presso le amministrazioni che esercitano competenze in materia di difesa, ordine pubblico e giustizia (8). Per quanto riguarda i funzionari onorari, la principale regola relativa alla fase anteriore alla nomina o ele- zione è quella dell’incandidabilità, il cui ambito di applicazione è stato decisamente ampliato da un recente decreto legislativo (9). Questo decreto ha generalizzato l’incandidabilità, prima prevista solo per le elezioni amministrative, a tutte le elezioni. Alcuni mesi dopo la sua emanazione, esso è risultato applicabile a un ex Presidente del Consiglio e leader di un partito e, di conseguenza, è stato oggetto di un ampio dibattito politico, che ha fatto dimenticare che – al momento della sua emanazione – il decreto era stato criticato per ragioni op- poste. Esso, infatti, era stato considerato troppo blando, in quanto prevedeva l’incandidabilità (o la decadenza successiva all’elezione) solo per alcuni reati, di una certa gravità, e non per altri, meno gravi o meno stretta- mente connessi allo svolgimento di funzioni pubbliche. A chi scrive, queste critiche erano apparse infondate, in quanto si tratta di un testo equilibrato, che bilancia in modo accettabile l’esigenza di tenere lontano dalle cariche pubbliche chi si sia macchiato di determinati reati e quella di tutelare i diritti della difesa e la stessa possibilità di scelta degli elettori. Il fatto è che, quando si tratta di limiti all’elettorato passivo (che, è bene ri- cordarlo, si traducono sempre in limiti all’elettorato attivo), c’è sempre una tensione tra legalità e democrazia, che va composta evitando soluzioni estreme. Sull’accesso alle cariche pubbliche incide anche un’altra disciplina recente, quella relativa alle “inconferi- bilità” e alle incompatibilità, che pone limiti alla possibilità di cumulare incarichi diversi (10). Si tratta di una disciplina molto complessa, che non ha mancato di porre vari problemi applicativi. Anche per questa, come per tutte le discipline che, a garanzia dell’imparzialità e correttezza dell’amministrazione, limitano la possibilità di accedere a cariche o impieghi pubblici, si pone per essa un problema di bilanciamento tra interessi diversi, perché la tutela dell’imparzialità e della correttezza comporta dei costi: non solo il sacrificio degli interessi dei soggetti che non possono accedervi, ma anche l’esigenza di rinunciare ad amministratori possibilmente capaci e onesti. Questo bilanciamento deve essere operato dal legislatore in modo equilibrato, senza estremismi in un senso o nell’altro, ricordando che la stessa legalità non è un valore assoluto dell’ordinamento giuridico, ma un valore che può anche soccombere a fronte, per esempio, di aspettative legittime di determinati soggetti o dell’assenza di soggetti interessati a farla valere, che può legittimamente indurre a tollerare un’invalidità. Occorre anche essere consapevoli che la legge è uno strumento che può ottenere certi risultati, ma non può risolvere qualsiasi problema. Non può, in particolare, rendere onesti i pubblici funzionari. Se si introducono troppi limiti all’accesso alle cariche pubbliche, non si ottiene il risultato di elevarne l’onestà, ma quello di abbassarne la qualità.

(8) Art. 2, c. 5, d.p.r. 9 maggio 1994, n. 487. (9) D.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, emanato in base a una delega conferita dalla l. n. 190/2012, cit. (10) D.lgs. 8 aprile 2013, n. 39, anche esso emanato in base a una delega conferita dalla l. n. 190/2012, cit.

499 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Nel complesso, le recenti discipline descritte mostrano che l’ordinamento tende ad attribuire un rilievo maggiore che in passato alla condotta, anche privata, di quanti sono chiamati a svolgere funzioni pubbliche. Un ulteriore indizio di questa tendenza è l’art. 35-bis del t.u. del pubblico impiego (11), pure introdotto dalla l. n. 190/2012, a norma del quale coloro che sono condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per reati contro la pubblica amministrazione, non possono far parte di commissioni di concorso o di gara né essere preposti alla gestione di risorse finanziarie o esercitare poteri di spesa. 2.2. Il “durante” Il secondo gruppo di regole di comportamento è quello relativo alla fase di svolgimento del rapporto tra il funzionario e l’amministrazione pubblica. Queste regole sono poste da diverse fonti – la Costituzione, la legge, i codici di comportamento – sulle quali ci si soffermerà nell’ultimo paragrafo. Queste regole possono essere ricondotte ai diversi interessi pubblici, i quali possono essere raggruppati come segue. In primo luogo, il pubblico funzionario deve dedicare una quantità adeguata di tempo e di energia allo svolgimento delle proprie funzioni. Il dipendente pubblico, banalmente, deve stare in ufficio e deve lavorarvi in modo proficuo. Il politico deve occuparsi non solo degli interessi del proprio partito e della propria rielezione, ma anche delle incombenze inerenti alle cariche rappresentative eventualmente ricoperte. Questa esigenza è alla base di varie previsioni legislative e regolamentari, a cominciare da quella che è la più antica tra le regole di comportamento dei pubblici dipendenti: il divieto di cumulo di impieghi pubblici, prevista fin dal 1862 (12). Per la maggior parte dei dipendenti pubblici, il problema è risolto in modo alquanto radicale, imponendo che il loro rapporto di lavoro sia a tempo pieno e quindi vietando altri impieghi. Sia per i dipendenti a tempo pieno, sia per tutti gli altri pubblici funzionari, si pongono comunque problemi di compatibilità, risolti dalla legge e dai codici di comportamento con previsioni che, per esempio, limitano la possibilità di svolgere attività col- laterali. Previsioni che la l. n. 190/2012 ha irrigidito, prevedendo per esempio che alcuni tipi di incarichi non possano essere autorizzati dalle amministrazioni (13). Simili norme, meno rigorose, riguardano i politici: per esempio, quelle sull’incompatibilità tra diverse cariche elettive e quella che vieta ai componenti del governo di svolgere attività professionali o imprenditoriali (14). Le regole sulle incompatibilità rispondono a volte anche a logiche ulteriori, come quella di evitare i con- flitti di interessi, su cui ci si soffermerà tra breve, e quella di tutelare la dignità di una carica o di una funzione, vietando che chi la svolge possa dedicarsi ad altre attività, meno “nobili”. Non ci si spiegherebbe, altrimenti, perché un professore universitario può esercitare la professione medica, ma non può avere una farmacia; può fare l’avvocato in uno studio legale, ma non nell’ufficio legale di un’impresa; può fare il presidente di una so- cietà per azioni, ma non l’amministratore delegato. Per quanto riguarda, in particolare, i professori universitari, questo complesso di regole può apparire ormai inattuale. Esso stride comunque con l’assenza di regole dettate per altre categorie di funzionari pubblici, come i parlamentari, e con il lassismo con cui le regole vengono a volte applicate ad altri funzionari pubblici, come i magistrati amministrativi e gli stessi professori universitari. Un secondo gruppo d’interessi pubblici, a cui corrispondono varie regole di comportamento, è quello ine- rente alla dedizione del pubblico funzionario all’interesse pubblico, alla quale si collegano esigenze come quelle di imparzialità e di indipendenza. A queste esigenze possono essere ricondotte varie norme presenti soprattutto nei codici di comportamento: quelle sulla partecipazione ad associazioni, per le quali vi è il delicato problema del bilanciamento tra il principio d’imparzialità e la libertà di associazione, entrambi affermati dalla Costituzione (15), che viene risolto imponendo obblighi di trasparenza piuttosto che divieti; quelle sull’accet- tazione di regali, contenuto tipico di ogni codice di comportamento nel settore pubblico, ora espressamente indicato dalla legge (16); e quelle sui conflitti di interessi, che per ben note ragioni negli ultimi venti anni sono state oggetto di un dibattito confuso quanto condizionato da pregiudizi e convenienze politiche. Quello del conflitto d’interessi, in realtà, è un problema circoscritto, inerente alla compatibilità tra l’esercizio di un potere pubblico e la titolarità di un interesse privato, che può essere risolto con norme semplici ed efficaci, come

(11) D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. (12) L. 19 luglio 1862, n. 722. (13) V. modifiche apportate dalla legge all’art. 53 d.lgs. n. 165/2012. (14) Art. 2 l. 20 luglio 2004, n. 215. (15) La quale consente limitazioni alla libertà di associazione solo per alcune categorie di dipendenti: art. 98 Cost. (16) V. il nuovo testo dell’art. 54, c. 1, d.lgs. n. 165/2001, come modificato dalla l. n. 190/2012.

500 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA quella del t.u. sugli enti locali (17), che ha un secolo di vita e ha sempre funzionato piuttosto bene. Ancora una volta, il nostro ordinamento presenta norme più o meno soddisfacenti per i dipendenti pubblici, mentre mostra gravi lacune per gli organi elettivi: i membri del Parlamento sono gli unici funzionari pubblici italiani che possono legittimamente agire in conflitto di interessi, mentre per i componenti del governo vi è una disciplina fasulla e inapplicabile (18). Un terzo gruppo di interessi pubblici, che giustifica regole di comportamento per i funzionari, inerisce alla ge- stione delle informazioni di cui essi siano a conoscenza per ragioni d’ufficio. Qui vi sono due esigenze contrapposte, che le norme conciliano in modo più o meno felice: quella della trasparenza e quella della riservatezza. L’una e l’altra fondano sia norme sul funzionamento delle amministrazioni, poste dalla legge, sia regole di comportamento individuali dei dipendenti, contenute nei codici di comportamento. Ai fini della prevenzione della corruzione, la trasparenza è particolarmente importante. È sufficiente ricordare, al riguardo, le parole di un grande giudice statu- nitense, Louis Brandeis: come la luce del sole è il miglior disinfettante, la luce elettrica è il miglior poliziotto (19). Ciò vale soprattutto per l’uso di risorse pubbliche: si possono introdurre le regole più rigorose e i divieti più capillari sull’uso del denaro pubblico, ma le amministrazioni riescono sempre a trovare il modo di destinarlo a chi vogliono; i controlli amministrativi sono difficili, costosi e sporadici; il modo migliore per evitare il malcostume è costringere le amministrazioni a rendicontare ogni spesa, contando sull’esercito di poliziotti costituito dai cittadini e dagli organi di informazione. È la tipica situazione nella quale il modello fire alarmfunziona meglio di quello police patrol (20). Non occorre trascurare, comunque, l’esigenza opposta, quella di riservatezza, che si lega sia alla tutela dei dati personali, sia al corretto funzionamento dell’amministrazione: è bene ricordare, al riguardo, che è ancora vigente la disciplina del segreto d’ufficio posta dal t.u. del pubblico impiego del 1957 (21). Vi sono, infine, ulteriori regole di comportamento, inerenti allo svolgimento del rapporto, che non sono generali, ma riguardano singole amministrazioni o singoli tipi di funzione. Le amministrazioni e le funzioni amministrative sono estremamente eterogenee e, di conseguenza, lo sono i casi da regolare e i problemi etici: è per questo che la legge prevede che ogni amministrazione elabori il proprio codice di comportamento, per specificare i principi contenuti nel codice generale e adeguarne le prescrizioni alle peculiarità del proprio perso- nale. Anche da questo punto di vista, la l. n. 190/2012 ha introdotto un’importante innovazione: quella di defi- nire il proprio codice di comportamento non è più una possibilità, ma un obbligo di ciascuna amministrazione. La procedura per l’adozione, peraltro, è alquanto complessa e richiede che vengano preliminarmente emanati il nuovo codice di comportamento generale e che la commissione indipendente per la valutazione, l’integrità e la trasparenza-Civit definisca criteri, linee guida e modelli uniformi. Anche questa disciplina, come quella relativa ai piani anticorruzione, tradisce una certa tendenza del legislatore del 2012 alla pianificazione a casca- ta, sulla cui efficacia è lecito avanzare qualche dubbio. Elaborare codici di comportamento che ben si adattino alle peculiarità delle singole amministrazioni è operazione molto difficile e l’esperienza applicativa dell’unica categoria di amministrazioni pubbliche per le quali un simile obbligo era già vigente – le università (22) – è scoraggiante. Ma vi sono esperienze positive che mostrano che, se elaborati con adeguata preparazione e con il coinvolgimento delle categorie interessate, i codici di comportamento delle amministrazioni possono essere utili strumenti di ausilio e orientamento per il personale. 2.3. Il “dopo” Le regole di comportamento dei pubblici funzionari hanno una tendenza espansiva: tendono a regolare non solo l’accesso alle cariche e agli impieghi pubblici e lo svolgimento delle attività connesse a essi, ma anche la condotta dei funzionari nella fase successiva alla cessazione della carica o del rapporto di lavoro: sono i divieti post employment, diffusi da tempo in altri ordinamenti e ormai generalizzati in quello italiano. Anche da questo punto di vista, infatti, la l. n. 190/2012 ha introdotto un’innovazione di rilievo. Fino al 2012, vi erano poche norme del genere, come quella che vieta ai componenti delle autorità di

(17) Art. 78 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. (18) L. n. 215/2004, cit. (19) Other People’s Money and How Bankers Use It, 1914, cap. V. (20) Secondo la nota distinzione di M. McCubbins e T. Schwartz, Congressional Oversight Overlooked: Police Patrols ver- sus Fire Alarms, in American Journal of Political Science, vol. 28, n. 1, 1984, 165. (21) Art. 15 d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3. (22) Ai sensi dell’art. 2, c. 4, l. 30 dicembre 2010, n. 240.

501 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 regolazione dei servizi pubblici di avere rapporti professionali con i soggetti regolati per quattro anni dopo la scadenza del mandato. La l. n. 190 cit. ha invece introdotto un divieto di portata generale, inserendo il c. 16-ter nell’art. 53 d.lgs. n. 165/2001. Esso impone a chi abbia esercitato poteri autoritativi e negoziali, negli ultimi tre anni prima della cessazione del rapporto di impiego, il divieto di svolgere, nei tre anni successivi, attività lavorativa o professionale nei confronti dei destinatari di quei poteri. Si tratta di una previsione molto ampia e alquanto difficile da interpretare e da applicare. Si pensi, per esempio, ai funzionari che emanano centinaia o migliaia di atti che, nell’impreciso lessico del legislatore, sono certamente “autoritativi” (come le autorizzazioni o le sanzioni amministrative) o “negoziali” (come gli acquisti e i relativi mandati di paga- mento): è francamente difficile pretendere che essi debbano ricordarsi dei destinatari di tutti i provvedimenti in questione emanati negli ultimi tre anni di servizio. Non è chiaro neanche a chi spetti vigilare sull’applica- zione della norma, contestarne la violazione e far valere la nullità comminata dalla norma ai relativi contratti e incarichi. 3. La forma delle regole Come già accennato, le regole di comportamento fin qui descritte sono poste da atti di varia natura. Le prin- cipali innovazioni apportate dalla l. n. 190/2012 riguardano i codici di comportamento dei dipendenti pubblici, sui quali quindi ci si sofferma in questa sede. 3.1. I codici di comportamento I codici di comportamento, introdotti nel settore pubblico italiano – come ricordato in precedenza – da Sabi- no Cassese nel 1993, esistono fin dagli anni Settanta negli Stati Uniti d’America e sono ormai molto diffusi in altri ordinamenti, sia per i pubblici dipendenti, sia – a differenza che in Italia – per i politici. Sono ben presenti anche nel settore privato. Essi, peraltro, non sono stati inventati né dal governo statunitense né da un’impresa privata, bensì dagli ordini monastici nel medioevo. Che cosa sono, infatti, le regole monastiche, se non codici di comportamento per gli appartenenti a una specifica categoria di soggetti, individuata in ragione della propria scelta di vita e di lavoro? Non a caso, alcuni codici di comportamento del settore pubblico, come quello dei magistrati del Consiglio di Stato, somigliano molto più a una regola monastica che a un codice disciplinare: regole che riflettono l’appartenenza a una categoria; patti tra gentiluomini accomunati dall’idem sentire, più che norme imposte e fatte rispettare da un’autorità superiore. Nel termine “codice”, com’è noto, c’è un’idea di completezza: un codice, nel linguaggio giuridico, è un insieme ordinato di disposizioni normative, coerente e tendenzialmente esaustivo della materia alla quale si riferisce. Il codice di comportamento serve a offrire al funzionario pubblico un vademecum, una guida da con- sultare ogni volta che abbia un dubbio sul corretto comportamento da seguire. Ma perché stabilire un sistema ordinato di regole di comportamento per i pubblici funzionari? Si potrebbe rispondere con le parole di Luigi Einaudi: “Gli uomini sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché trovandosi a capo di un’organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé” (23). A cui si potrebbero aggiungere quelle, famose, di Lord Acton: “il potere assoluto corrompe in modo assoluto” (24). Ma la risposta più corretta è che i codici di comportamento non servono per i funzionari corrotti, bensì per quelli onesti, che – a dispetto di un sistema normativo e organizzativo intricato, che polverizza le responsabilità e moltiplica le occasioni di cor- ruzione – sono la maggioranza. I codici servono ad aiutarli a comportarsi correttamente, fornendo indicazioni sulla condotta da tenere nei casi dubbi. Fino ai primi anni Novanta, per i funzionari pubblici, di regole di comportamento ve ne erano molto po- che, a parte l’art. 54 Cost.: per i dipendenti pubblici vi erano poche previsioni del già citato t.u. del 1957; per i politici non vi era nulla. Una simile carenza di disposizioni poteva essere accettabile in altri tempi: nei primi decenni dello stato unitario e anche nella prima metà del XX secolo, quando l’amministrazione pubblica aveva dimensioni minori e il suo personale era molto più omogeneo (un po’ come la Chiesa delle origini). Ma, quan- do le dimensioni sono esplose, le regole sono diventate necessarie, per lo Stato come per la Chiesa, al fine di imporre alcuni standard comuni a un personale numeroso e sempre più eterogeneo per estrazione e funzioni.

(23) L. Einaudi, La bellezza della lotta, in La rivoluzione liberale, II, n. 40, 1923, e in Le lotte del lavoro, Torino, Gobetti, 1924, 18, ora in Scritti economici, storici e civili, Mondatori, 1973, 842. (24) Letter to Mandell Creighton, april 5th, 1887, in Historical Essays and Studies, by John Emerich Edward Dalberg-Acton, edited by John Neville Figgis and Reginald Vere Laurence, London, Macmillan, 1907, Appendix.

502 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Il programma del governo Ciampi prevedeva l’elaborazione di codici di comportamento per tutti i funzio- nari pubblici, elettivi o di carriera. Fu emanato, però, solo il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, al quale ho già accennato. Per i politici, invece, non si è mai fatto nulla del genere, nonostante i numerosi esem- pi stranieri e nonostante molti dei più gravi episodi di corruzione scoperti negli ultimi anni abbiano coinvolto politici e loro collaboratori. È, questo, come già rilevato, un difetto della stessa l. n. 190/2012, che per diversi aspetti si occupa solo della pubblica amministrazione e trascura la politica. In questa legge, peraltro, si punta molto sui codici di comportamento dei pubblici dipendenti, apportando alla disciplina varie correzioni. 3.2. Le novità legislative Le correzioni, in effetti, riguardano più la forma che la sostanza, cioè più la natura e il rilievo giuridico dei codici che il loro contenuto. Per quanto riguarda il contenuto, il nuovo testo del codice, adottato nell’aprile 2013, si differenzia dal testo del 1994 e da quello del 2000 per aspetti di dettaglio: amplia alcune previsioni, ne sintetizza altre e ne introduce di ulteriori (relative, per esempio, al coordinamento con i piani per la prevenzione della corruzione). Come previsto dalla l. n. 190/2012, esso contiene una sezione (di fatto un articolo) dedicato ai doveri dei dirigenti. Per quanto riguarda invece la cornice normativa definita dalla legge, una delle novità, relativa all’obbli- go delle amministrazioni di definire propri codici di comportamento, è già stata illustrata. Un’altra novità è relativa alla forma giuridica del codice generale, che non è più emanato con un atto ministeriale, ma con un regolamento governativo. Inoltre, il codice non deve essere più soltanto consegnato al dipendente all’atto dell’assunzione, essendo anche previsto che egli lo sottoscriva. Un’ulteriore novità è che la legge indica i fini e il contenuto minimo del codice. I primi consistono nella qualità dei servizi, nella prevenzione dei fenomeni di corruzione e nel rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico: al di là della poco felice for- mulazione di quest’ultimo fine, sono parole che non modificano la sostanza dell’oggetto, trattandosi di fini già ovvi e presenti nel vecchio testo del codice. Altrettanto può dirsi della già ricordata disposizione che il codice preveda il divieto dei pubblici dipendenti di accettare regali: se vi è un contenuto tipico di tutti i codici di com- portamento, compreso quello già esistente per i dipendenti pubblici italiani, è proprio questo. Meno ovvia è la nuova previsione, appena ricordata, di una sezione specifica relativa ai doveri dei dirigenti: anche il precedente testo conteneva numerosi riferimenti ai dirigenti, sia come destinatari che come soggetti preposti alla vigilanza sul suo rispetto, ma entrambi gli aspetti sono ora accentuati. Ciò può essere collegato alla circostanza che, rispetto al momento in cui il precedente testo fu emanato, vi è il fatto nuovo della responsabilità disciplinare dei dirigenti, che prima si tendeva a escludere ma che è stata affermata dal d.lgs. n. 150 del 2009: essendovi questa responsabilità anche per i dirigenti, è ragionevole che il codice – la cui violazione costituisce fonte di responsabilità disciplinare, come si chiarirà tra breve – contribuisca a definire i loro doveri. Il nuovo testo del codice, poi, definisce con maggiore precisione il proprio ambito di applicazione. In primo luogo, è chiarito che esso si applica anche al personale delle regioni e degli enti locali. Ciò, peraltro, era già abbastanza chiaro in precedenza e a maggior ragione a seguito delle previsioni della l. 190 stessa, che al c. 60 prevede espressamente codici di comportamento per il relativo personale. Poteva suscitare qualche dubbio, invece, l’applicazione del codice al personale non contrattualizzato, come i militari e i professori universitari (non ai magistrati, dei quali si dirà subito): per essi il codice prevede ora che le sue previsioni costituiscono princìpi di comportamento, applicabili in quanto compatibili con le disposizioni dei rispettivi ordinamenti. Al riguardo, occorre ricordare che per le categorie non contrattualizzate vi sono normalmente altre previsioni normative, che pongono regole anche più dettagliate (i regolamenti di servizio nelle forze armate, i già citati codici etici delle università). Ancora più dubbia era, nella vigenza del vecchio testo, l’applicabilità del codice ai collaboratori e consulenti delle amministrazioni, ai titolari di organi e d’incarichi negli uffici di diretta col- laborazione e ai collaboratori d’imprese fornitrici di beni o servizi. Il nuovo testo prevede ora che negli atti di incarico e nei contratti siano inserite clausole di risoluzione o decadenza per il caso di violazione degli obblighi del codice. Si tratta di una previsione apprezzabile, per categorie di funzionari pubblici per i quali le regole di comportamento erano finora del tutto assenti. Rimane una disciplina specifica per i codici di comportamento delle magistrature e dell’Avvocatura dello Stato, la cui elaborazione continua a essere affidata alle associazioni di categoria (o, in caso d’inerzia, agli organi di autogoverno: previsione rimasta, ma ormai priva di rilievo pratico, dato che i codici sono stati emana-

503 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 ti) (25). L’adesione da parte dei singoli magistrati e avvocati è però ora obbligatoria e non più facoltativa. Non è stabilito, peraltro, come debba avvenire l’adesione, né quali siano le sanzioni per la violazione dell’obbligo. Le novità più rilevanti riguardano comunque il rilievo giuridico dei codici di comportamento. Questi codici sono atti molto peculiari, per i quali il problema di assicurare il rispetto e sanzionare le violazioni si pone in termini diversi che per altri tipi di atto. Non è scontato che vi siano forme di controllo e meccanismi sanziona- tori. I codici possono esaurire il proprio ruolo nell’indicare la condotta giusta, senza che sia sanzionata quella sbagliata (che verrà comunque sanzionata, ovviamente, ove sia di gravità tale da costituire illecito penale, disciplinare o di altro genere). Per assicurarne il rispetto, ci si può limitare ad attività di divulgazione e di formazione del personale. Una simile soluzione può essere coerente con la formulazione sintetica di alcuni codici. In fondo, i dieci comandamenti non contengono norme sanzionatorie e il codice di comportamento dei dipendenti pubblici somiglia più ai dieci comandamenti che al codice penale. Anche da questo punto di vista, l’esperienza ecclesiastica può essere un utile insegnamento: San Francesco chiedeva ai suoi frati di imparare la lettera e il contenuto della sua Regola e di ripassarla spesso; Sant’Agostino voleva che la sua Regola fosse letta una volta la settimana. Alcune previsioni legislative, come quella della consegna del codice di comportamento al dipendente, che lo sottoscrive, all’atto dell’assunzione, sembrano rispondere alla stessa logica. La violazione dei codici di comportamento, tuttavia, nell’ordinamento giuridico italiano dà anche luogo a responsabilità e sanzioni di diverso genere. È significativa, al riguardo, una delle previsioni introdotte dalla l. n. 190/2012, secondo la quale la violazione dei doveri posti dal codice di comportamento è rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile quando queste responsabilità siano collegate alla violazione di doveri. È una previsione ricognitiva di un fenomeno già esistente, in quanto sono numerose le sentenze della Corte dei conti, dei giudici del lavoro e dei giudici penali che dal rispetto o dalla violazione del codice di comportamento traggono elementi per affermare o negare l’una o l’altra di quelle forme di responsabilità. La norma, peraltro, non menziona la responsabilità penale: forse è una dimenticanza, forse è un apprezzabile tentativo di contenere l’eccesso di giurisdizione penale che ha spesso caratterizzato il nostro ordinamento. Il di- ritto penale è la moneta pesante dell’ordinamento giuridico: va usata con parsimonia, perché altrimenti rischia di svalutarsi e perché il suo uso è comunque traumatico e produce spesso effetti indesiderati. Per quanto riguarda i codici di comportamento, peraltro, la scelta di fondo del legislatore, fin dal 1998, è stata quella di attribuire rilievo disciplinare alle relative violazioni. Anche qui, peraltro, la l. n. 190/2012 in- troduce una novità importante. Mentre la precedente formulazione dell’art. 54 d.lgs. n. 165/2001 si limitava a prevedere indirizzi affinché i princìpi del codice venissero coordinati con le previsioni dei contratti collettivi in materia di responsabilità disciplinare, lasciando a questi ultimi il compito di definire le conseguenze giuri- diche delle violazioni, la nuova formulazione stabilisce chiaramente che la violazione è fonte di responsabilità disciplinare. Dunque, non viene meno la possibilità dei contratti collettivi di accoppiare le sanzioni agli illeciti, ma essi dovranno dare rilievo a ogni violazione dei codici di comportamento. E, anche se non lo faranno i contratti, dovranno farlo le amministrazioni: per quanto lieve, ogni violazione dovrà determinare l’apertura del procedimento disciplinare e, ove provata, una pur lieve sanzione. Deve ritenersi che, se una certa violazione non è sanzionata dai contratti, prevarrà la legge e il procedimento disciplinare dovrà comunque essere avviato alla sua commissione. In pratica, occorrerà ricondurre la violazione, che non sia espressamente prevista nei contratti, a una delle generiche previsioni normalmente contenute in essi. E, dato che la legge non dispone in ordine alla fase transitoria, deve ritenersi che l’obbligo di attribuire rilievo disciplinare alle violazioni sia im- mediato, senza bisogno di attendere la prossima tornata contrattuale. Queste modifiche si inquadrano abbastanza coerentemente con l’evoluzione complessiva del quadro giuri- dico della responsabilità disciplinare avutasi negli ultimi anni. A partire dalla “legge Brunetta” (26), infatti, da un lato, vi è stata la tendenza a ridurre lo spazio della contrattazione collettiva e, in particolare, a definire figure di illecito disciplinare con legge invece che con contratto collettivo (come è ancora la regola). Dall’altro, la responsabilità disciplinare sembra rispondere non solo all’interesse privato dell’amministrazione come datore di lavoro, interesse al corretto adempimento della prestazione lavorativa, ma anche all’interesse generale: le sanzioni disciplinari conseguono sempre più spesso a violazioni inerenti alla tutela dei cittadini e sono do- verosamente irrogate, a seguito di un procedimento amministrativo compiutamente disciplinato dalla legge.

(25) V. art. 54, c. 4, d.lgs. n. 165/2001. (26) L. 4 marzo 2009, n. 15.

504 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Si assiste, quindi, a una parziale ripubblicizzazione della responsabilità disciplinare. Vale ancora la pena di rilevare che anche la previsione di una specifica sezione del codice di comportamento dedicata ai doveri dei dirigenti è coerente con la previsione della responsabilità disciplinare dei dirigenti stessi, introdotta a sua volta dalla riforma Brunetta. Anche questa evoluzione allontana la responsabilità disciplinare del settore pubblico dalla logica privatistica e la riconduce a quella pubblicistica. Per quanto riguarda, infine, la vigilanza sul rispetto del codice nazionale e dei codici delle amministrazioni, i soggetti principali sono – anche in base alla previsione legislativa – i dirigenti di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici di disciplina. Agli uffici competenti per i procedimenti disciplinari, in partico- lare, è affidata l’attività di vigilanza e monitoraggio. Essi assorbono le competenze dei comitati e uffici etici eventualmente preesistenti. Agli stessi uffici, poi, sono affidati l’aggiornamento del codice di comportamento dell’amministrazione, l’esame delle segnalazioni di violazione dei codici di comportamento, la raccolta delle segnalazioni di condotte illecite, la diffusione della conoscenza dei codici di comportamento nell’amministra- zione, la loro pubblicazione sul sito istituzionale e la comunicazione all’Autorità nazionale anticorruzione dei risultati del monitoraggio. Ciò implica, in una certa misura, un’evoluzione del modo di funzionare degli uffici in questione, che dovranno non solo reagire, ma anche agire: non solo ricevere le segnalazioni degli illeciti disciplinari, ma anche operare di propria iniziativa per lo svolgimento delle nuove funzioni. Minore, nell’applicazione del codice, è il ruolo del responsabile della prevenzione della corruzione, in ordine al quale si prevede solo che l’ufficio per i procedimenti disciplinari agisca in raccordo con esso. Ciò è coerente con la nuova natura del codice, molto più disciplinare che etico. Rimane sullo sfondo anche il ruolo della Civit, in quanto Autorità nazionale anticorruzione, alla quale spetta non solo di formulare linee guida per l’adozione dei codici delle amministrazioni, ma anche – ai sensi del c. 2, lett. d), l. n. 190/2001 – di esprimere pareri, tra l’altro, in ordine alla conformità degli atti e comportamenti dei pubblici dipendenti ai codici di comportamento. 3.3. L’utilità dei codici di comportamento Esaminate la forma e la sostanza delle regole di comportamento dei pubblici funzionari e, in particolare, di quelle contenute nei codici di comportamento, rimane un interrogativo fondamentale, relativo all’effettiva utilità di questi strumenti. Quello sulla loro natura giuridica e sulla loro utilità è un dibattito destinato a non risolversi facilmente. Vi sono certamente buone ragioni per essere scettici, ritenendo che solo la legge e la concreta minaccia di sanzioni possano evitare i comportamenti scorretti; e buone ragioni per essere fiduciosi, ritenendo che un codice di comporta- mento sia un utile strumento ulteriore, che riduce i costi di transazione in un’organizzazione complessa. Questo testo, che si è aperto con un riferimento al catechismo della Chiesa cattolica, si chiude con la ci- tazione di uno scritto sulla corruzione di Papa Francesco, che può aiutare a risolvere il problema (27). Vi si distingue tra il peccato e la corruzione. Il primo è un episodio occasionale, rimediabile attraverso il perdono. Il secondo è un processo graduale, uno scivolamento verso uno stato dal quale è sempre più difficile uscire. Per evitare di cadervi, servono argini e appigli. Chi scrive ritiene che i codici di comportamento possano utilmente delimitare il confine tra i comportamenti corretti e quelli scorretti, aiutando i pubblici funzionari a rimanere al di fuori del territorio della corruzione e a non penetrarvi.

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TRASPARENZA, ACCOUNTABILITY, CONTROLLO: I TRE PILASTRI DELLA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE

di Ermanno Granelli

L’art. 5, c. 1, della Convenzione Onu anticorruzione prevede che ciascuno Stato parte elabori e applichi o persegua, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, politiche di prevenzione della corruzione efficaci e coordinate che favoriscano la partecipazione della società e rispecchino i principi di Stato

(27) Guarire dalla corruzione, Emi, 2013.

505 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabi- lità (1). Tale disposizione che, a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 116/2009 di ratifica, è entrata a pieno titolo a far parte dell’ordinamento giuridico italiano, costituisce per tutti gli stati firmatari della Convenzione, il punto di riferimento delle politiche di prevenzione della corruzione. In particolare la citata disposizione si segnala per la chiara individuazione dei principi universalmente riconosciuti come fondamentali per le politi- che di prevenzione della corruzione: oltre a quello generale dell’esigenza che sia presente nei vari ordinamenti uno “stato di diritto”, indica principi più specifici quali quelli della “buona gestione”, dell’“integrità”, della “trasparenza” e della “responsabilità” (accountability nel testo inglese). In disparte il principio d’integrità, che costituisce forse il nucleo intrinseco della prevenzione della cor- ruzione, perché attiene agli aspetti relativi all’etica (ai comportamenti quindi) di chi opera nelle istituzioni pubbliche (2), il tema del convegno impone di limitare le brevi considerazioni del mio intervento ai principi di trasparenza e di accountability. Al contempo occorre altresì svolgere alcune riflessioni sulla funzione di con- trollo e sulle interazioni tra tale funzione e i suddetti principi. Per ciò che concerne il principio di trasparenza occorre evidenziare che per la prima volta il d.lgs. n. 150/2009 (art. 11) ha definito la trasparenza come “accessibilità totale, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’or- ganizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità”. La trasparenza, quindi, da principio generale dell’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990), ha assunto un carat- tere nuovo: è anche finalizzata a favorire il c.d. “controllo diffuso”. Tale definizione ha riguardo a quelle forme di controllo civico che possono essere esercitate da chiunque abbia interesse a verificare e valutare il corretto esercizio dei poteri pubblici con riferimento ai canoni del buon andamento e dell’imparzialità. Successivamente l’art. 1, c. 15, l. n. 190/2012 “legge anticorruzione” ha accentuato ulteriormente tale carat- tere prevedendo che la trasparenza dell’attività amministrativa sia “assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali” e che “nei siti web istituzio- nali delle amministrazioni pubbliche” siano “pubblicati anche i relativi bilanci e conti consuntivi, nonché i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini”. Al riguardo si deve evidenziare che la pubblicazione delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, dei bilanci e dei conti consuntivi sui siti web istituzionali costituisce un ottimo strumento per favorire il controllo da parte dei cittadini sul corretto svolgimento delle funzioni e sulla gestione nell’erogazione dei servizi. Peraltro, l’aver previsto, nella citata disposizione, anche la pubblicazione dei costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini tra le disposizioni volte a introdurre misure di prevenzione della corruzione, di- mostra come trasparenza, accountability (che si potrebbe tradurre con il termine “rendicontabilità”, intesa come l’obbligo di “dare conto” del corretto impiego delle risorse finanziarie, strumentali e di personale a disposizione delle pubbliche amministrazioni) e la funzione controllo siano tra loro intimamente correlati. Il d.lgs. n. 33/2013, da ultimo, ha all’art. 1, confermato che la trasparenza deve essere intesa come accessi- bilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. Il legislatore delegato ha, quindi, ribadito la funzionalizzazione del principio di trasparenza all’incentivazione del “controllo diffuso”, sia sul perseguimento delle funzioni istituzionali che sull’utilizzo delle risorse pubbliche. Anche tale disposizione pare confermare la piena integrazione dei principi di traspa- renza e di accountability, da una parte e la necessità di forme diffuse di controllo, dall’altra. Per quanto riguarda la funzione di controllo, non si può non osservare come l’aggettivo “diffuse” consenta di interpretare la norma nel senso di ricomprendere tutte le forme di controllo. Ciò in considerazione della finalità

(1) United nations convention against corruption, 2003, Article 5. Preventive anti-corruption policies and practices: “1. Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its legal system, develop and implement or maintain effective, coordinated anti-corruption policies that promote the participation of society and reflect the principles of the rule of law, proper management of public affairs and public property, integrity, transparency and accountability”. (2) Al riguardo si richiama il fondamentale canone costituzionale contenuto nell’art. 54, c. 2, Cost: “I cittadini cui sono affida- te funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

506 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA di prevenzione della corruzione che le è propria. E perciò nell’ambito delle forme “diffuse” di controllo debbono essere ricondotte certamente le azioni di verifica della società civile. Non si deve tuttavia sottovalutare la circo- stanza che alle informazioni pubblicate sui siti web possono avere accesso anche i titolari di funzioni di controllo interno (gli uffici della Ragioneria generale dello Stato, i collegi dei revisori e sindacali, ecc.) e, per quanto riguar- da il controllo esterno (svolto da un organo terzo, autonomo e indipendente), la Corte dei conti. Appare chiara l’intenzione del legislatore di porre in essere, attraverso la messa in disponibilità delle informazioni fondamentali dell’organizzazione e della gestione delle pubbliche amministrazioni, un sistema di verifica e valutazione “dif- fuso” per prevenire fenomeni corruttivi e per incentivare l’adozione di azioni ispirate a criteri di sana gestione. Trasparenza, accountability e controllo costituiscono, quindi, i pilastri delle politiche di prevenzione della corruzione. Le pubbliche amministrazioni dovranno adottare tutte le misure necessarie perché la propria azione tenga conto di tali pilastri, espressione del quadro normativo derivante dalla l. n. 190 e dai decreti legislativi attuativi delle norme di delega in essa contenute.

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LA RESPONSABILITÀ CONNESSA ALLA REALIZZAZIONE DEL PIANO ANTICORRUZIONE: LE MODIFICHE ALLA L. 14 GENNAIO 1994, N. 20 di Mauro Orefice

Sommario: 1. Il problema. – 2. Le modifiche alla l. 14 gennaio 1994, n.20. – 2.1. I precedenti. – 2.2. La novella normativa. – 2.2.1. Il danno all’immagine. – 2.2.2. Il sequestro conservativo.

1. Il problema “All’art. l della l. 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il c. 1-quinquies sono inseriti i seguenti: 1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione de- rivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente. 1-septies. Nei giudizi di responsabilità aventi a oggetto atti o fatti di cui al c. 1-sexies, il sequestro conserva- tivo di cui all’art. 5, c. 2, d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito con modificazioni dalla l. 14 gennaio 1994, n. 19, è concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale”. In attuazione dell’art. 6 della Convenzione dell’Organizzazione delle nazioni unite contro la corruzione, adot- tata dalla assemblea generale dell’Onu il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della l. 3 agosto 2009, n. 116, e degli artt. 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e ratificata ai sensi della l. 28 giugno 2012, n. 110, la l. 6 novembre 2012, n. 190 individua, in ambito nazionale, l’Autorità nazionale anticorruzione e gli altri organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione. Uno dei maggiori problemi posti dal legislatore è quello determinato dalla figura e dalla posizione del sog- getto principalmente responsabile nell’ambito del sistema ipotizzato dalla normativa e cioè il “responsabile per la prevenzione della corruzione”, soggetto al quale il legislatore ha affidato il coordinamento di tutte le inizia- tive in materia di prevenzione all’interno di ciascuna amministrazione e che ha l’importante e delicato compito di elaborare e proporre il Piano triennale di prevenzione della corruzione (Ptpc) (1).

(1) Si rammenta che è stata approvata dalla Civit, Autorità nazionale anticorruzione, la proposta di Piano nazionale anticorruzione elaborata dal Dipartimento della funzione pubblica in base alla l. n. 190/2012. Il Piano, elaborato sulla base delle direttive contenute nel- le linee d’indirizzo del Comitato interministeriale, contiene degli obiettivi strategici governativi per lo sviluppo della strategia di preven- zione a livello centrale e fornisce indirizzi e supporto alle amministrazioni pubbliche per l’attuazione della prevenzione della corruzione e per la stesura del Piano triennale di prevenzione della corruzione. Secondo il contenuto del Piano nazionale, ciascuna amministrazione dovrà adottare e comunicare al Dipartimento il proprio Piano triennale di prevenzione, che di regola include anche il Programma trien- nale per la trasparenza e l’integrità, entro il 31 gennaio 2014. Con l’approvazione del Piano nazionale prende concretamente avvio la fa- se di attuazione del cuore della legge anticorruzione attraverso la pianificazione della strategia di prevenzione a livello decentrato.

507 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Il tutto parte dalla nomina, nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, del responsabile della prevenzione della corruzione. L’art. 1, c. 7, della l. n. 190 stabilisce che “l’organo d’indirizzo politico individua, di norma tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio, il responsabile della prevenzione della corruzio- ne. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato, di norma, nel segretario, salva diversa e motivata determinazione”. Tale soggetto, di cui non può non rimarcarsi la “solitudine” (la legge ha previsto infatti un unico responsabile per ciascuna amministrazione, e così la funzione, cui si aggiunge di norma anche quella di “responsabile per la trasparenza” prevista dall’art. 43 d.lgs. n. 33/2013, è concentrata in un unico soggetto anche nelle amministra- zioni articolate sul territorio o in quelle organizzate per dipartimenti), deve: i) elaborare la proposta di piano di prevenzione, che deve essere adottato dall’organo d’indirizzo politico di ciascuna amministrazione (art. 1, c. 8), i cui contenuti, che caratterizzano anche l’oggetto dell’attività del responsabile, sono individuati nel c. 9 dell’art. 1; ii) definire procedure appropriate per selezionare il giudice competente per i reati presupposti; iii) verificare l’ef- ficace attuazione del piano e la sua idoneità (art. 1, c. 10, lett. a); iv) proporre modifiche al piano in caso di accer- tamento di significative violazioni o di mutamenti dell’organizzazione (art. 1, c. 10, lett. a); v) verificare, d’intesa con il dirigente competente, l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione (art. 1, c. 10, lett. b); vi) individuare il personale da inserire nei percorsi di formazione sui temi dell’etica e della legalità (art. 1, c. 10, lett. c). Quindi, nel caso di perpetrazione di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, rispon- de il responsabile anticorruzione. E vi risponde a diverso titolo: i) erariale; ii) eventualmente civile; iii) disciplina- re; iv) di responsabilità dirigenziale (impossibilità di rinnovo dell’incarico e, nei casi più gravi, revoca dell’incari- co e recesso dal rapporto di lavoro). Il responsabile anticorruzione che non abbia predisposto un Piano (o un piano idoneo), risponderà, allora a titolo di concorso colposo nell’illecito erariale perpetrato dal funzionario corrotto. Infatti, considerato che la legge considera il Piano uno dei principali strumenti anticorruzione, la mancata predi- sposizione dello stesso costituirà un fattore che presumibilmente agevolerà la perpetrazione dell’illecito. Ora, cer- tamente, laddove non sia voluta (laddove quindi non vi sia stato un apposito patto tra responsabile anticorruzione e corrotto), tale mancata redazione non potrà assumere rilevanza penale, poiché, com’è noto, in ambito penalistico non è ammesso il concorso colposo nei delitti dolosi (quali sono i reati contro la pubblica amministrazione). Discorso diverso vale per la responsabilità erariale. Essa, infatti, sta a metà strada tra la colpa e il dolo: di danno erariale si risponde per colpa grave (oltre che per dolo). Ed è a questo proposito che si può ravvisare il ruolo della legge n. 190. Nella nuova architettura normativa, per il responsabile anticorruzione non redigere o non aggiornare il piano anticorruzione costituirà certamente quell’illecito professionale inescusabile che, secondo la giurisprudenza della Corte dei conti, vale a integrare il presupposto della colpa grave. La questione diventa più complessa nel caso in cui il piano sia stato adottato (ed eventualmente aggiornato), ma venga ritenuto inidoneo ex ante a impedire feno- meni corruttivi. Ricorre in quest’ipotesi l’elemento della colpa grave? La domanda è insidiosa, poiché si può ritenere che un piano ex ante inidoneo a contrastare il fenomeno corruttivo è equiparabile a un non piano. Certo è che, in linea generale, il regime delle responsabilità previsto dalla legge anticorruzione dovrebbe essere rivisto, poiché le norme sembrano addossare al responsabile per la prevenzione anche gli effetti di situa- zioni che possono essere nient’affatto riconducibili alla sua condotta, prefigurandosi in tal guisa una qual certa forma di responsabilità oggettiva per fatto altrui (2). 2. Le modifiche alla l. 14 gennaio 1994, n. 20 Tornando al ruolo della Corte dei conti nell’ambito della nuove misure di contrasto alla corruzione, va sottolineato che fra le altre disposizioni, la l. n. 190/2012, all’art. 1, c. 62, apporta modifiche alla l. n. 20/1994, normativa di base di riforma dell’attività giurisdizionale e di controllo della Corte dei conti. Le questioni toccate sono essenzialmente due: la disciplina del danno all’immagine e, nei medesimi casi, il procedimento per sequestro conservativo. 2.1. I precedenti Il danno all’immagine, cioè il danno patrimoniale indiretto (3) consistente nella lesione del decoro e del pre-

(2) V. in specie, le previsioni ex art. 1, c. 14, l. n. 190/2012. (3) Va ricordato in proposito che taluna recente giurisprudenza considera il danno all’immagine come una forma di danno patrimo- niale ex art. 1218 c.c. “Trattasi, dunque, di un vero e proprio danno patrimoniale e non già di un “danno non patrimoniale”, ovvero di un

508 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA stigio della pubblica amministrazione, è un danno pubblico in quanto lesione del buon andamento della pubblica amministrazione che perde, con la condotta illecita dei suoi dipendenti, credibilità e affidabilità all’esterno, ed ingenera la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere dai propri lavoratori siano un connotato usuale della sua azione; tale lesione è economicamente valutabile, in quanto si risolve in un onere finanziario che si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo ad una carente utilizzazione delle risorse pubbliche ed a costi ag- giuntivi per correggere gli effetti distorsivi che, nell’organizzazione della pubblica amministrazione, si riflettono in termini di minor credibilità e prestigio e di diminuzione della potenzialità operativa (4). Secondo il costante orientamento della Corte dei conti (5), infatti, “il danno all’immagine, in base al princi- pio d’immedesimazione organica, di rilievo sociologico ancora prima che giuridico, porta sempre a identificare l’amministrazione con il soggetto che per essa ha agito”, così da ricondurre all’amministrazione medesima tanto gli sviluppi concreti di reale attuazione dei valori di “legalità, buon andamento ed imparzialità”, intrin- secamente connessi all’agire agire pubblico (ex art. 97 Cost.), quanto i corrispondenti, opposti disvalori, legati alle forme più gravi di illecito amministrativo-contabile, con evidente discredito delle istituzioni pubbliche (6). In questa ottica, la giurisprudenza non ha mancato di rilevare come finanche “la specificazione del generale dovere che tutti i cittadini hanno di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne le leggi in quello, proprio dei soli dipendenti pubblici, di adempire le pubbliche funzioni con disciplina e onore (ex art. 54 Cost.) in larga parte è te- leologicamente orientata alla tutela dell’immagine e del prestigio della pubblica amministrazione” (7). Il danno in parola, in realtà, non investe mai soltanto i rapporti – privati – tra il dipendente (autore dell’illecito) e i cittadini con i quali ha avuto contatti, ma investe il diverso e più ampio rapporto – di diritto pubblico – che lega la comunità degli amministrati (l’intera comunità degli amministrati) alle istituzioni per le quali il dipendente medesimo ha agito. A fronte dell’intervenuta lesione dell’immagine pubblica, negli amministrati, o se si vuole nello Stato-co- munità, si incrinano quei naturali sentimenti di affidamento e di “appartenenza” alle istituzioni che giustifica la stessa collocazione dello Stato-apparato e degli altri enti, e specialmente degli enti territoriali (quali enti

“danno patrimoniale in senso lato”, ovvero ancora di un “danno morale”, come affermato in un primo momento da questa Corte per ne- gare la propria giurisdizione v. Sez. giur. reg. Sicilia, 7 settembre 1985, n. 1416, in Rep. Foro it., 1986, voce Responsabilità contabile, n. 148; Sez. I giur. cont., 13 maggio 1987, n. 52, in Foro amm., 1987, 2440 e 13 maggio 1987, n. 98, ibidem, 2442; Sez. II giur. cont., 1 giu- gno 1987, n. 99, in Foro it., 1988, III, 380; Sez. riun., 6 maggio 1988, n. 580, in questa Rivista, 1988, fasc. 4, 61 e, poi, per affermarla cfr. Sez. giur. reg. Lombardia, 24 marzo 1994, n. 31, ivi, 1994, fasc. 2, 166; Sez. I giur. cont., 7 marzo 1994, n. 55, ibidem, 58. Sez. II giur. cont., 27 aprile 1994, n. 114, ibidem, 102. Trattasi, inoltre, di danno da responsabilità contrattuale e non già extracontrattuale, da ricon- durre perciò all’art. 1218 c.c. e non già all’art. 2043 c.c., in quanto, come chiarito dalla Suprema corte con la seconda delle pronunce che ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti in materia (S.U., 25 ottobre 1999, n. 744), interviene tra i medesimi “soggetti attivi e passivi” di un qualsivoglia altro danno erariale, e in “violazione dei medesimi doveri funzionali” di servizio. Una simile impostazione, peraltro, trae conforto finanche dalla recente sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, n. 26972/2008, che, nell’occuparsi del “dan- no non patrimoniale” (ex art. 2059 c.c.), ha ritenuto compatibile con “l’inadempimento dell’obbligazione la lesione di un diritto inviola- bile della persona del creditore”, chiarendo che gli “interessi di natura non patrimoniale possono assumere rilevanza anche nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, (come) conferma la previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’ob- bligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore”. La verità è che il profilo del danno all’immagine che rileva sul piano giuscontabile è quello proprio della “spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso”, ossia dell’immagine pubblica, come più volte ribadito dalla Corte regolatrice con le sentenze richiamate. Ciò, ovviamente, non vuol dire che le lesioni all’immagine della pubblica amministrazione derivano solo dalla violazioni di doveri di servi- zio, ben potendo ipotizzarsi in astratto forme di lesioni che provengano anche da estranei alla pubblica amministrazione stessa, e quindi in regime di responsabilità extracontrattuale; ma ipotesi del genere non riguardano quella consistente parte delle lesioni che proviene da personale proprio dell’amministrazione e che comunque, ai fini della giurisdizione, impegnano la Corte dei conti” cfr. Corte conti, Sez. III centr. app., 9 aprile 2009, n. 143, ivi, 2009, fasc. 2, 154. (4) V. Corte conti, Sez. I centr. app., 9 maggio 2008, n. 209, ivi, 2008, fasc. 3, 87. (5) Fondamentale nell’enucleazione del contenuto del danno all’immagine è la pronuncia della Corte dei conti, Sez. riun., 23 aprile 2003, n. 10/QM, ivi, 2003, fasc. 2, 68, in base alla quale nella responsabilità amministrativa rientra anche la tutela d’interes- si ulteriori rispetto all’integrità patrimoniale: fra questi vi è la tutela dell’immagine delle pubbliche amministrazioni, ossia la tute- la della propria identità, buon nome, reputazione e credibilità, nonché l’interesse che le competenze individuate siano rispettate, le funzioni assegnate siano esercitate, le responsabilità dei funzionari siano attivate. Ogni azione del pubblico dipendente che leda ta- li interessi si traduce in un’immagine negativa della pubblica amministrazione. Secondo la Corte, il danno all’immagine di un’am- ministrazione è una fattispecie di danno esistenziale. (6) Cfr. Sez. giur. reg. Umbria, 28 maggio 1998, n. 501, in questa Rivista, 1998, fasc. 3, 195, Sez. I centr. app., 22 gennaio 2002, n. 16, ivi, 2002, fasc. 1, 100, e successivo, consolidato indirizzo giurisprudenziale. (7) Cfr., testualmente, Sez. giur. reg. Umbria, 27 luglio 2004, n. 371, ivi, 2004, fasc. 4, 111.

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“esponenziali” della collettività residente nel loro territorio), tra “le più rilevanti formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo”, ex art. 2 Cost. Il recupero di tali sentimenti e, con essi, il recupero dell’immagine pubblica, è essenziale per l’esistenza stessa della pubblica amministrazione e impongono di intervenire per ridurre – prima – ed eliminare – dopo – i danni conseguenti alla lesione della sua dignità e del suo prestigio, con ovvie implicazioni anche di costi per l’erario. Una particolare difficoltà connessa al danno all’immagine risiede, infatti, nella sua quantificazione. Infatti il danno de quo deriva dalla necessità di ripristinare nella sua interezza il prestigio e la credibilità dell’amministra- zione, danneggiata dal discredito della vicenda generalmente enfatizzata dai media. La quantificazione del danno in questione va quindi collegata a una serie di elementi oggettivamente riscontrabili, ancorché discrezionalmente individuati nella loro consistenza e incidenza dallo stesso giudice nella fattispecie concreta (in particolare l’am- piezza dei riflessi negativi riferiti all’ambito in cui l’illecito contabile è stato commesso e agli eventuali oneri sostenuti dall’amministrazione per il ripristino dell’immagine danneggiata). In ogni caso, l’entità del pregiudizio viene spesso determinata facendo ricorso al c.d. “apprezzamento equitativo” ex art. 1226 c.c. che, peraltro, non può essere invocato ex se ma sempre con riferimento a taluni elementi oggettivi presenti nella fattispecie. In proposito va ricordato il recente intervento della Corte di cassazione la quale, con sent. n. 26972/2008, ha proseguito l’opera di ricostruzione ermeneutica del danno non patrimoniale, ex art. 2059 cc., avviato con le c.d. sentenze gemelle della Sez. III, n. 8827 e n. 8828/2003, secondo una concezione unitaria del danno non patrimoniale stesso, da contrapporre al danno patrimoniale, ex art. 2043 cc. Il sistema bipolare delineato con le sentenze gemelle, come noto, è stato positivamente valutato dalla Corte costituzionale (v. sent. n. 233/2003), in quanto ispirato ad “una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059, tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale, derivante dai valori inerenti la persona e, dunque, sia il danno morale soggettivo, sia il danno biologico e sia il danno esistenziale”. Ebbene, la sent. n. 6972/2008 ha proseguito tale opera di ricostruzione unitaria del danno non patrimoniale ed ha negato – per quel che qui rileva – carattere autonomo al danno esistenziale, con la precisazione che “il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati, risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno”. Non solo, ma sotto altro ed ancor più rilevante profilo, ha anche “disatteso la tesi del danno evento, quale enunciata dalla Corte cost. con sent. n. 184/1986”, precisando come la stessa fosse stata “superata dalla Corte costituzionale medesima con la successiva sent. n. 372/1994”. In quest’ottica, da tempo la Corte regolatrice ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti sul danno all’immagine della pubblica amministrazione, quale “danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se non comporta una diminuzione pa- trimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso” (8). In tale prospettiva, cade opportuno sottolineare che la giurisprudenza prevalente della Corte dei conti (9)ha precisato che il danno all’immagine non s’identifica o si verifica soltanto quando, per ripristinarlo, l’amministra- zione pubblica sostiene delle spese, sul rilievo che siffatto tipo di pregiudizio si configura e si concreta anche nel caso in cui la rottura di quella aspettativa di legalità, imparzialità e correttezza che il cittadino e gli appartenenti all’ente pubblico si attendono dall’apparato, viene spezzata da illecito comportamento dei suoi agenti. L’essenza e il nucleo centrale di detto danno, di conseguenza, non si palesano solo in stretta relazione alla sussistenza di una spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, in quanto la risarcibilità di un simile pregiudizio non può rapportarsi, per la sua intrinseca lesione, come sopra esposto, al ristoro della spesa che abbia inciso sul bilan- cio dell’ente, ma deve essere vista come lesione ideale, con valore da determinarsi secondo l’apprezzamento del giudice, ai sensi dell’art. 1226 c.c. Deve ritenersi, infatti, che il danno all’immagine dell’amministrazione e gli

(8) Cfr. Cass., S.U., 25 giugno 1997, n. 5668, ivi, 1997, fasc. 3, 227, e successivo consolidato indirizzo, per il quale v., tra le tan- te, S.U., n. 744/1999, cit., 12 novembre 2003, n. 17078, in Giust. civ., 2004, I, 2287, con nota di M.A. Visca, In tema di danno all’im- magine dell’ente pubblico; 15 luglio 2005, n. 14990, in Rep. Foro it., 2005, voce Responsabilità contabile, n. 373; 27 settembre 2006, n. 20886, in Foro it., 2007, I, 2483, con nota di G. D’Auria, Responsabilità amministrativa per attività di natura discrezionale e per la gestione di società pubbliche: a proposito di alcune sentenze delle Sezioni unite; e 2 aprile 2007, n. 8098, in Giur. it, 2007, 2320. (9) Ex multis, Sez. riun.,18 gennaio 2011, n. 1/QM, ivi, 2011, fasc. 1-2, 136; Sez. I centr. app., 7 dicembre 2006, n. 251, ivi, 2006, fasc. 6, 62; e 11 luglio 2007, n. 198, ivi, 2007, fasc. 4, 74; Sez. III centr. app., 6 settembre 2005, n. 529, ivi, 2005, fasc. 5, 47; Sez. giur. reg. Lombardia, 14 dicembre 2006, n. 681, ivi, 2006, fasc. 6, 101; Sez. giur. reg. Veneto, 7 novembre 2006, n. 927, ibi- dem, 144; Sez. giur. reg. Lazio, 19 marzo 2007, n. 373, ivi, 2007, fasc. 2, 150.

510 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA esborsi sostenuti per il ripristino della stessa si pongano su piani ben distinti, raffigurandosi, il primo, quale lesio- ne di un bene tutelato in via diretta ed immediata dall’ordinamento giuridico, e venendo in evidenza, i secondi, sul mero piano probatorio, soltanto come uno dei mezzi di prova utilizzabili dall’ufficio requirente a sostegno della domanda di risarcimento. In tale ottica, d’altra parte, laddove si richiedesse ai fini della configurabilità di tale tipo di pregiudizio la prova della spesa effettiva sopportata dall’ente pubblico, si perverrebbe alla situazione paradossale per cui l’amministrazione sprovvista di adeguati fondi in bilancio da utilizzare nell’assunzione d’i- donee iniziative volte al ripristino del bene immagine, non potrebbe conseguire il risarcimento del nocumento sofferto, non essendo in condizione di offrire la prova degli esborsi sostenuti; in ogni caso, quale ulteriore ele- mento dirimente, un eventuale costo suppletivo potrebbe essere sostenuto dall’ente danneggiato soltanto dopo l’introito del risarcimento del nocumento patito, e non certo prima del pagamento della somma, correlata alla lesione del diritto all’immagine dell’amministrazione, da parte del convenuto condannato. Da ultimo va fatto cenno al recente intervento legislativo che, secondo taluni, ha di fatto, limitato sensibil- mente l’azione delle procure della Corte dei conti in relazione al danno all’immagine. L’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, a sua volta modificata lo stesso giorno dal d.l. n. 103/2009, convertito dalla l. 3 ottobre 2009, n. 141, nel testo attuale (a seguito cioè delle interpolazioni e modifiche recate dal decreto correttivo), dispone: “Le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fat- tispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarci- mento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al c. 2 dell’art. 1 l. 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdi- zionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”. L’intervento innovativo viene attuato con un lessico ed una disposizione piuttosto confusa, poiché, oltre al pro- filo della risarcibilità del danno all’immagine, è presente anche quello, più generale, dell’istruttoria effettuata dal pubblico ministero contabile, ai fini della regolarità della successiva citazione in giudizio. Al riguardo, peraltro, e in sede di prima interpretazione, va precisato che la Corte dei conti ben può pronunzia- re condanna al risarcimento di un danno all’immagine anche a seguito della novella legislativa di cui all’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito dalla l. 3 agosto 2009, n. 102 (a sua volta modificata dal d.l. n. 103/2009, con- vertito dalla l. 3 ottobre 2009, n. 141); e, infatti, il riferimento, contenuto nel secondo periodo della citata norma, ai soli “modi” e “casi” previsti dall’art. 7 l. 27 marzo 2001, n. 97 implica, da un lato, la comunicazione al pubblico ministero contabile della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata per i delitti contro la pubblica ammini- strazione previsti nel capo I, titolo II del libro II del codice penale (“modo” previsto nel primo periodo dell’art. 7 cit.) e, dall’altro, l’obbligo per il pubblico ministero penale di comunicare al pubblico ministero contabile, ex art. 129 delle norme di attuazione c.p.p., l’esercizio dell’azione penale per i reati, di qualsiasi natura, che hanno ca- gionato un danno per l’erario (altro “modo” menzionato nel secondo periodo dell’art. 7 cit.). Tale interpretazione s’inserisce coerentemente nel sistema normativo vigente (che afferma l’autonomia e l’indipendenza dei giudizi penale e amministrativo-contabile) ed è confermata dalla stessa lettera della novella legislativa di cui al d.l. corret- tivo n. 103/2009, il quale significativamente ha modificato il testo del precedente art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, prevedendo non solamente i “casi” ma anche i “modi” di cui all’art. 7 l. n. 97/2001; tale ultima previsione indica la chiara volontà del legislatore che le azioni intestate alle procure della Corte dei conti per il risarcimento danno all’immagine, ancorato alla comunicazione di fattispecie penalmente rilevanti ex art. 129 disp. att. c.p.p., siano concretamente esercitate, tanto è vero che, per agevolare tale finalità, il legislatore ha previsto nella stessa norma che il decorso del termine di prescrizione sia sospeso fino alla conclusione del procedimento penale (10). La norma in commento è stata poi oggetto di vaglio di costituzionalità. In tale circostanza (11) la Corte costituzionale, nel ribadire la coerenza dell’art. 17, c. 30-ter, con i principi della Carta costituzionale, ha avuto

(10) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 20 ottobre 2009, n. 641, in Rep. Foro it., 2011, voce Responsabilità contabi- le, 241. (11) Corte cost., 15 dicembre 2010, n. 355, in questa Rivista, 2010, fasc. 6, 213.

511 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014 modo di affermare che “deve pure osservarsi che, nella stessa ottica finalistica, il legislatore – come emerge chiaramente dal tenore delle rispettive previsioni normative – ha introdotto, anche in questo caso ex novo nel testo del d.l. n. 78/2009, ulteriori disposizioni contenute nei cc. 30-bis e 30-quater. Esse perseguono lo scopo, da un lato, di attenuare il regime dei controlli della Corte dei conti e, dall’altro lato, di limitare ulteriormente l’area della gravità della colpa del dipendente incorso in responsabilità, proprio all’evidente scopo di con- sentire un esercizio dell’attività di amministrazione della cosa pubblica, oltre che più efficace ed efficiente, il più possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in essere. In definitiva, dunque, la stessa ampiezza della disposizione della rubrica del decre- to legge in questione, nonché il complessivo quadro legislativo che deriva dalle originarie disposizioni della decretazione di urgenza e da quelle, aggiuntive, contenute nella relativa legge di conversione, consentono di ricondurre anche la norma ora in esame, limitativa della particolare forma di responsabilità per i danni da lesione dell’immagine della pubblica amministrazione, all’alveo dei meccanismi, previsti con il citato decre- to-legge, aventi lo scopo di introdurre nell’ordinamento misure dirette al superamento della attuale crisi in cui versa il paese”. La Corte costituzionale ha poi aggiunto nella medesima sentenza n. 355/2010 che, riguardo alla limitazione del danno all’immagine ai soli casi riconducibili a reati contro la pubblica amministrazione, tale prospettazione non costituisce un difetto di legittimazione, nei casi diversi, della Corte dei conti. Infatti “la scelta di non esten- dere l’azione risarcitoria anche in presenza di condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso da quelli espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente irragionevole. Il legislatore ha ritenuto, infatti, nell’esercizio della predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’ente pubblico. In altri termini, la circostanza che il legislatore abbia inte- so individuare esclusivamente quei reati che contemplano la pubblica amministrazione quale soggetto passivo concorre a rendere non manifestamente irragionevole la scelta legislativa in esame”. Ciò a significare che, sostanzialmente, la pubblica amministrazione non ha possibilità di tutelare la propria immagine fuori dall’integrazione di reati tipici contro di essa. 2.2. La novella normativa 2.2.1. Il danno all’immagine L’art. 1, c. 62, l. n. 190/2012, introduce due importanti novità: la prima riguarda la quantificazione del dan- no all’immagine (si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimo- niale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente); la seconda un qual certo “automatismo” nel calcolo del danno, in maniera non proprio conforme alle caratteristiche del giudizio per responsabilità amministrativa. Si diceva poc’anzi delle difficoltà avute dalla giurisprudenza proprio nel quantificare il danno all’immagi- ne. Ora esso è previsto per legge nella scia delle disposizioni dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, a sua volta modificata lo stesso giorno dal d.l. n. 103/2009, convertito dalla l. 3 ottobre 2009, n. 141. Infatti esso deve derivare “dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica ammi- nistrazione accertato con sentenza passata in giudicato”, riconducendo quindi la fattispecie a quel legame con una condotta penalmente rilevante inizialmente negata dalla originaria configurazione del danno e presumendo l’entità e la quantificazione del danno nel doppio del valore dell’illecito. Di conseguenza, la norma appare indicare al giudice, e prima ancora al procuratore, una strada obbligata: vale a dire, per il procuratore la possibilità di citare in giudizio solo in presenza di condotta penale sancita e punita con sentenza passata in giudicato e per il giudice l’impossibilità di valutare autonomamente il danno, es- sendo esso quantificatoex lege nella misura doppia dell’illecito, salvo prova contraria (in cosa essa si sostanzi, è astrattamente difficile da intendere). In tal guisa, lo scenario è così ricostruibile. Il danno all’immagine, conformemente alla legislazione prece- dente, è ipotizzabile solo nei casi di reati contro la pubblica amministrazione; resta in proposito da chiarire e rendere compatibile la lettera del d.l. n. 78/2009 che parla, in caso di violazione delle diposizioni dell’art. 17, c. 30-ter, di “nullità degli atti” anche per il danno all’immagine “salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, con la norma di cui all’art. 1, c. 62, della legge anticorruzione, che parla di reato accertato con sentenza passata in giudicato.

512 N. 1-2/2014 PARTE IV – DOTTRINA

Un’interpretazione forse estrema potrebbe condurre a dire che la nuova norma riguarda solo la quantifica- zione del danno, da operarsi nel modo descritto, nel caso vi sia un giudicato penale e quindi un illecito quanti- ficato in via definitiva, mentre ove ciò non fosse la quantificazione del danno all’immagine è rimessa al libero convincimento del giudice che quindi non sarebbe vincolato dalle disposizioni del c. 62 cit. In ogni caso, si ritiene che anche applicando il c. 62 esso prescinda dall’accertamento del danno, rimesso al giudice contabile e ancor prima all’azione delle procure, a fronte del quale, peraltro, il quantum non potrà che essere identificato ex lege, e cioè al di fuori degli ordinari procedimenti di accertamento della condotta e del peso della medesima nella causazione del danno, eccezion fatta per i casi in cui il giudice contabile, pur in presenza di giudicato penale, riesca ad identificare la “prova contraria” prevista dal medesimo c. 62 cit. 2.2.2. Il sequestro conservativo Con la seconda novella, che introduce il c. 1-septies dell’art. 1 l. n. 20/1994, si prevede che nei giudizi di responsabilità amministrativa per il danno all’immagine – nell’ipotesi di “fondato timore” di attenuazione del- la garanzia patrimoniale del credito erariale – su richiesta del procuratore regionale, sia sempre concesso dal presidente della sezione della Corte dei conti competente sul merito del giudizio, il sequestro conservativo di beni mobili e immobili del convenuto, comprese somme e cose allo stesso dovute. In realtà, si comprende poco la “novità” di tale norma. Ai sensi dell’art. 5 d.l. n. 453/1993, convertito dalla l. 14 gennaio 1994, n. 19, quando ne ricorrano le condizio- ni, anche contestualmente all’adozione dell’invito a dedurre (c.d. sequestro ante causam), il procuratore regionale può chiedere, al presidente della sezione competente a conoscere del merito del giudizio, il sequestro conservativo di beni mobili e immobili del convenuto, comprese somme e cose allo stesso dovute, nei limiti di legge. Sulla domanda il presidente della sezione giurisdizionale regionale provvede con decreto motivato e pro- cede contestualmente a: a) fissare l’udienza di comparizione delle parti innanzi al giudice designato, entro un termine non superiore a quarantacinque giorni; b) assegnare al procuratore regionale un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la notificazione della domanda e del decreto. All’udienza di cui alla lett. a), il giudice, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con il decreto. Nel caso in cui la notificazione debba effettuarsi all’estero, i termini sono quadruplicati. Con l’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima dell’inizio della causa di merito, viene fissato un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito, presso la segreteria della sezione giuri- sdizionale regionale, dell’atto di citazione per il correlativo giudizio di merito. Il termine decorre dalla data di comunicazione del provvedimento all’ufficio del procuratore regionale. È pacifico in giurisprudenza (12) che il rimedio del reclamo previsto dall’art. 669-terdecies c.p.c. avverso le ordinanze di conferma, revoca o modifica del decreto che dispone il sequestro conservativo sia applicabile anche nel giudizio di responsabilità amministrativa. Resta esclusa qualsiasi ipotesi di “terzo grado del giudi- zio”, perché, pur essendo la disciplina, ex art. 5 d.l. 15 novembre 1993, n. 453 (convertito dalla l. 14 gennaio 1994, n. 19), derogatoria rispetto a quella prevista dall’art. 669-sexies c.p.c., essa prende in considerazione esclusivamente l’ipotesi del ricorso per sequestro conservativo proposto ante causam; e ne consegue, quindi, che deve ritenersi operante il rinvio alle norme del c.p.c. di cui all’art. 26 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038 per tutte le altre fattispecie non regolarmente disciplinate dall’art. 5 cit. Tale essendo la disciplina vigente, stabilire ora che il presidente della sezione giurisdizionale competente debba sempre concedere la misura cautelare non toglie che lo stesso debba valutare la sussistenza del “fondato timore” di attenuazione della garanzia del credito erariale, cioè a dire che il medesimo è chiamato a valutare, come nella precedente disciplina, l’effettiva sussistenza del periculum in mora con riguardo alla fattispecie azionata dal procuratore. Che poi la norma debba essere interpretata, con esclusivo riferimento al danno all’immagine, attribuendo al presidente della sezione giurisdizionale il dovere di concedere il sequestro, sussistendo esclusivamente il “fondato timore”, senza cioè alcun esame del fumus boni juris, come accade tipicamente nel procedimento per sequestro cautelare, sembrerebbe provare troppo.

(12) Cfr., inter alia, Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 27 ottobre 1994, n. 79, in questa Rivista, 1994, fasc. 6, 202.

513 PARTE IV – DOTTRINA N. 1-2/2014

Sostanzialmente, infatti, in questo modo si ammetterebbe che per il solo danno all’immagine (quindi, incompren- sibilmente) la concessione del sequestro prescinderebbe da qualsivoglia esame sull’ipotesi di responsabilità, dipen- dendo esclusivamente dall’accertamento di un giustificato timore di sottrazione delle garanzie del credito erariale. Ciò posto, peraltro, e tenuto conto che il procedimento di sequestro ante causam e in corso di causa innanzi al giudice contabile resta per tutto quanto altro inalterato, si ribadisce la difficoltà a cogliere la novità e la necessità di tale disposizione, salvo che essa non debba essere individuata nel fatto che la medesima è prevista espressamente per la prima volta per quel particolare danno che è il danno all’immagine. Anche in questo caso, tuttavia, ampia e diffusa giurisprudenza dimostra come la procedura cautelare si applicasse tout court anche a tipologie di danno differenti da quello tradizionalmente inteso come diminuzione patrimoniale per l’ente pubblico.

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LA LEGALITÀ NELLE SOCIETÀ PARTECIPATE DALLA P.A. ALLA LUCE DELLA LEGGE ANTICORRUZIONE: COME RENDERE EFFETTIVO IL CONTRASTO ALLA CORRUZIONE (*)

di Giuseppe Farneti

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il richiamo all’etica è contenuto nella normativa. – 3. Le indispensabili cono- scenze che si devono affermare per prevenire la corruzione. – 4. Come prevenire la corruzione nei rapporti con le società a partecipazione pubblica. – 5. Le società in perdita. – 6. Conclusioni.

1. Premessa Il tema della legalità e dei suoi rapporti con l’etica nella pubblica amministrazione (p.a.), anche con speci- fico riferimento alle società a partecipazione pubblica (Sp), alla luce del Piano nazionale anticorruzione (Pna) e della conseguente predisposizione, da parte delle pubbliche amministrazioni (p.a.) e delle società pubbliche, dei propri Piani triennali per la prevenzione della corruzione (Ptpc) (1), è quanto mai opportuno, proprio sotto il profilo operativo, per dare effettività alle norme di riferimento. Il pericolo, infatti, è che i comportamenti delle pubblica amministrazione si risolvano nel mettere in atto adempimenti formali (secondo una tendenza che si va già profilando), senza che alcunché cambi nella sostanza, come spesso è avvenuto, in Italia, rispetto a norme assai importanti, talora innovative, ma poi disapplicate (ba- sti pensare, quali esempi, al tema della veridicità dei bilanci pubblici e a quello relativo alla motivazione degli atti, anche a giustificazione della costituzione o del mantenimento di una partecipazione). Lo scopo del presente contributo si pone nella direzione di individuare i modi, nell’attuale ordinamento, per rendere effettivo, operante, il contrasto alla corruzione. 2. Il richiamo all’etica è contenuto nella normativa Sebbene il richiamo all’etica possa sembrare di natura teorica e afferente la sola sfera dei comportamenti volontari e non quella della legalità, in realtà non è così, ed è importante comprenderlo.

(*) Relazione tenuta al Convegno Upi-Fondazione Dcec di Bologna, 16 gennaio 2014, presso la sede della Carisbo, su L’eti- ca e la legalità nella pubblica amministrazione e nelle società a partecipazione pubblica, alla luce della legge anticorruzione. (1) La corruzione è estesa dal Pna (previsto dalla l. n. 190/2012 e approvato dalla Civit l’11 settembre 2013) a tutte quelle si- tuazioni “in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati” (cfr. la definizione contenuta nel par. 2.1) e fa dunque riferimento a patologie notoriamente assai diffu- se, rispetto alle quali i pur frequenti episodi che vengono alla luce costituiscono la punta dell’iceberg dei fenomeni che si vorreb- bero prevenire. Al riguardo S. Pilato così chiarisce nel suo intervento su Le nuove strategie di contrasto. Il responsabile della pre- venzione: “Nell’impianto delle misure di prevenzione e di contrasto, la corruzione intesa come sistema di percezioni misurabili, in quanto manifestazioni di un costume esistenziale, politico-economico mutevole nel tempo della storia nazionale, possiede una di- mensione lata, e diviene sinonimo di favoritismo, clientelismo, deviazione del sistema procedimentale di scelta degli interessi pub- blici a vantaggio di interessi privati che ottengono posizioni di domino contrattuale e di mercato”.

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