Capitolo 3

Arrivano i barbari - Conti e Duchi - I signori feudali della zona - Montaperti

«Con le invasioni barbariche la civiltà sparì dalla faccia della terra. Questa zona, che un tempo era un paradiso, si trasformò in un inferno e tanti poveri diavoli furono costretti a fare i servi della gleba... non ridere Celso, è una cosa seria...». «Lo so, non volevo, ma: “poveri diavoli”, all’inferno... Come non detto. Però lasciami dire che sei un po’ “a modo tuo”, con il vento di traverso, come dicono a Caianello: quando le battu- te le fai tu, tutto bene, quando le faccio io songo ’o fetente... e vabbè. Dunque, a scuola ci insegnano che servo della gleba può essere an- che tradotto come: “contadino in stato di semischiavitù legato ere- ditariamente a un determinato fondo con il quale poteva essere ce- duto”. Vero! Bisogna però guardare l’antefatto. Con le invasioni dei barbari le città di tutto il mondo civile finiscono. A volte proprio in senso letterale. Ora, tu sai che civiltà deriva, e non a caso, da “civitas”, città. E sai anche che Roma aveva costruito città in tutto il mondo, e che, proprio tramite le città, aveva diffuso la sua cultura, la sua lingua, la sua legge, il suo mercato... in ogni dove. Tut- to funzionava perfettamente grazie all’idea stessa di civitas. Ogni città era una piccola Roma con tutti i suoi centri di responsabilità civile e militare. In altre parole, le città non si fondavano: si clonavano...». Dionisio sembrò un po’ perplesso, ma Celso proseguì: «La “clonazione” è una roba di cui parleranno molto in futuro: in biologia, in ambito informatico... comunque sia, la città era un con- centrato di attività, di vita, di consumi... e il contado la riforniva.

53 Sparita la città. Contado in crisi. Ma, attenzione! Con “sparita la cit- tà” non intendo dire che le città furono rase al suolo, questo, alme- no in Italia, non accadde quasi mai; voglio dire, invece, che vennero a mancare le persone in grado di mandarle avanti. Alcuni vennero a mancare nell’immediato perché uccisi o perché se la diedero a gambe levate; altri mancarono con il tempo perché, un po’ alla volta, mori- rono. Nessuno evidentemente era nelle condizioni di programmare i ricambi necessari. Nessuno era nelle condizioni di curare le scuole ed i rozzi invasori non si ponevano il problema dell’insegnamento perché non avevano la più pallida idea di che cosa fosse. Come dire, finché si trattava di rifornire la cucina tutto bene, perché i barbari conoscevano benissimo la caccia e la pesca; ma se dal rubi- netto non usciva più l’acqua non sapevano cosa fare, anche perché ai loro paesi, non solo non avevano gli idraulici, ma ignoravano perfino che cosa fosse un acquedotto. Per non dire poi dei servizi igienici: al massimo andavano dietro il pagliaio, quando c’era. Ovviamente crollarono tutte le istituzioni e, di conseguenza, creb- bero le angherie e la delinquenza, dalle quali, come si sa, non è facile difendersi in modo onesto. Naturalmente il barbaro, finite le cibarie, se ne andò via dalle città ac- casandosi nelle ville di campagna ristrutturandole secondo il proprio bisogno. Forse “ristruttura” è un termine inadeguato, diciamo che but- tarono giù il superfluo: statue, colonne, archi, terrazzi, ecc.; ammas- sando alla bellemeglio grossi pietroni, tronchi ed altro, alle mura più esposte ad eventuali attacchi. E così ogni capo barbaro si fece la sua Villa. Per mangiare andava a raccogliere i frutti della natura: cavoli, sedani, carciofi, galline, maiali... intorno a casa sua o a quella degli altri. Se qualcuno gli urlava qualcosa, non se ne preoccupava perché, essendo barbaro, non capiva bene la lingua. Se l’altro insisteva, gli dava una mazzata in testa e, normalmente, quello si zittava. La libertà non si trova a buon mercato e quindi, chi non poteva per- mettersela si rivolgeva al birbante della Villa più vicina pregandolo di difenderlo dagli altri birbanti e offrendo in cambio la sua terra e il suo lavoro. I barbari, che erano barbari ma mica scemi, si prendevano la terra ed il 50%... pardon, la metà (che ne sapevano del cinquanta per cento?) di ciò che vi si produceva.

54 Ora, dato che il denaro non esisteva praticamente più, nemmeno come concetto, la ricchezza era la terra. O meglio: la terra con il contadino incorporato. Quindi, il barbaro, non aveva convenienza a trattare male il suo bene. Se il contadino, o più correttamente il villano (in quanto parte della Villa), moriva di fame, la terra chi la lavorava?». Dionisio guardò Celso, e scuotendo un po’ il capo gli disse: «Ora che mi hai fatto questo bel discorso mi sento molto meglio. Sta a vedere che la colpa è del contadino che non ebbe occhio e nacque contadino anziché padrone!» «Come dirà un giorno un mio compaesano: “Signori si nasce, io, mo- destamente, lo nacqui!”» «E poi ti sei fatto frate: complimenti!». Disse Dionisio un po’ sovrap- pensiero. Con più si avvicinava al borgo natio e maggiore era il disagio che sentiva crescere dentro. Sapeva della distruzione di , sperava che non fosse così grave come si diceva, ma era certo che pro- babilmente era anche peggio. E lui non aveva la benché minima idea di che cosa dire ai sui compaesani, i quali, sicuramente, preferivano i fatti ai discorsi, fossero anche quelli di un frate amico. Si rivolse di nuovo al suo compagno di viaggio. «Che mi dici di Rigomagno nel Medioevo?» «Il primo Signore di Rigomagno pare fosse un tal Winigi, di legge sa- lica, che con sua moglie Rachilda...», Dionisio lo interruppe: «Oooh Rachilda, fermo un po’, io questa roba bisogna la racconti alla gente di Rigomagno. Se io racconto ad uno tale Maggio detto Magginus “di un certo Winigi di legge salica”, quello, “mi sala” lui...» «Non è complicato, seguimi. Il termine “legge” in questo caso viene usato per chiarire la provenienza. In seguito assumerà invece la ca- ratteristica di vezzo linguistico distintivo di alcuni “dotti”, al fine di creare una barriera protettiva contro gli scocciatori che vogliono sa- pere. Un po’ come dire: “ma dove credi di poter andare tu, che non sai nemmeno chi è un Salico?” Potrei dirti, per esempio, alla maniera del dotto storico, fine Ottocento, che i primi Signori di Rigomagno erano di nazione Salica, o sia Fran- zese, ovvero Alamannica. Che, in qualche misura è anche vero...». Fra Dionisio sapeva benissimo di che cosa stava parlando fra Celso, non aveva certo bisogno di esempi o riassunti. Prendiamo quindi in

55 mano noi la situazione per spiegare ai moderni, in modo veloce, come si usa oggi, la storia di quei tempi, usando confronti con la geografia ed i riferimenti del nostro secolo.

I Salii erano una tribù di ceppo germanico che, in un certo momento della loro esisten- za, si trovarono a vivere nei pressi della spon- da orientale del fiume Sala, nel nord dell’Eu- ropa, grosso modo dove ora è l’Olanda. Loro dirimpettai, dall’altra parte del fiume, un nutrito e variegato gruppo di tribù provenienti dalla Germa- nia, tutte insieme si chiamavano Franchi e davano segno di volersi accomodare in quel territorio, che fino ad allora era conosciuto con il nome di Gallia e che tra un po’ di tempo, finiti i Galli, si sarebbe chiamato Francia. Non fosse altro per dovere di vicinato, quelli del versante occiden- tale cercarono di socializzare con quelli “di là dal fosso”, anche per- ché qualcuno sosteneva di averli già visti e che forse erano anche un po’ parenti. Alla domanda: “da dove venite?” Quelli non risposero. Alla domanda: “ma come vi chiamate?” Risposero: “a fischi, o ad urli, secondo la distanza”. Così, visto che pascolavano nei pressi del fiume Sala, parve cosa buona battezzarli Salii. La decisione non fu presa sottogamba, anzi, fu molto ponderata, anche se apparentemente sembra mancare di fantasia. Il fatto è che da questa parte del fiume non c’erano gli accademici della Crusca in viaggio di piacere, c’era gente che per mangiare saliva sugli alberi a cogliere le ghiande – e non scendeva per cuocerle. I Salii, o come diavolo si chiamassero, erano però dei guerrieri formi- dabili. Forzuti, villosi e insensibili a qualsiasi cosa. Gli altri pensarono “meglio farseli amici che litigarci”. Così fu, ma nel giro di pochi anni il gruppo dei Salii, che facevano pendent con quello dei Ripuarii, anch’essi selvatici come un cinghiale maremmano, decisero di spartirsi i beni del- la congrega. I Ripuarii si stabilirono nella Mosella e i Salii in una vasta area compresa tra la Piccardia e l’Artois, e di lì, fino al mare.

56 Il primo dei capi, a cui qualcuno un giorno decise che valesse la pena risalire, per l’identificazione del capostipite, pare fosse un tal Mero- veo da cui, quindi, prese nome la dinastia dei Merovingi. Il nipote di cotanto nonno fu il biondo Clodoveo, il quale, resosi conto del momento propizio, decise di farsi un regno per conto suo. Dilagò per tutto il nord sderenando Alemanni, Visigoti, Burgundi e i vecchi amici Ripuarii. Quindi si convertì al Cattolicesimo e si proclamò Re dei Franchi nella cattedrale di Reims. Questo non è il modo di raccontare la storia, ma questa è la storia ripulita dai fronzoli e dalle enfatizzazioni. Nello stesso periodo, verso est, nubi di polvere si spostavano in con- tinuazione. Sotto la polvere c’erano i Longobardi (immaginatevi in che condizioni). Di questo popolo non si conosce un gran che, salvo la probabile provenienza scandinava, il fatto che erano nomadi per vocazione, e che girovagarono un bel po’ per la grandi pianure tra il Danubio ed il Volga, prima di dirigersi verso le Alpi. Adoravano il Sole, la Terra e le capre... e non necessariamente in quest’ordine. Era- no divisi in litigiosissimi gruppi, chiamati fare, guidati da un capo branco, detto Duca. Non c’è altro di sostanziale da dire. Nella seconda metà del vi secolo d.C. calarono in Italia, ci si trova- rono bene e ci restarono. Ogni fara si prese un territorio, e siccome come abbiamo detto il capo della fara era detto Duca, ecco che nac- quero i ducati. Quando nel 773 arrivarono i Franchi, chiamati da papa Adriano i per- ché cacciassero i Longobardi, tutti si aspettavano il cambio della guar- dia nei posti di potere; ma siccome tra cani non si mordevano nem- meno a quei tempi, in linea di massima i duchi furono lasciati al loro posto, e nei territori liberi, che ce n’erano in abbondanza, andarono ad insediarsi i fidi comandanti di Carlo, re dei Franchi, non ancora “magno”, ma discendente dei Merovingi. Nel senso che un suo avo, tale Pipino, proveniente dall’Austrasia (regione della valle del Reno), fu nominato Maestro di palazzo (il Maestro di palazzo era una sorta di Gran ciambellano che nei fatti aveva la responsabilità del Governo da quando, un paio di generazioni prima, il legittimo re merovingio era stato detronizzato). Con Pipino la carica di Maestro di palazzo diven-

57 ne ereditaria e così, lentamente, i suoi successori acquisirono il titolo di Re e, visto che c’erano, anche la discendenza merovingia. Tra i più famosi re della famiglia dei Pipinidi ricordiamo: Carlo Mar- tello, che fermò, in modo definitivo, la valanga musulmana a Poitiers, nel sud della Francia; e Carlo Magno, rifondatore del Sacro Roma- no Impero. Tornando alla spartizione franca del territorio italiano, nelle zone in- terne furono create le contee, con mansioni essenzialmente di carattere amministrativo, alla guida delle quali furono nominati i Conti. Men- tre nelle zone di particolare importanza strategica o di confine, furono create le marche, alla guida delle quali furono nominati i Marchesi. In un primo tempo i titoli di conte, marchese e duca furono perso- nali e decadevano o con la revoca dell’incarico o con la morte; con il tempo però il titolo e la carica diventarono ereditabili. La società di questi tempi aveva una forma fortemente piramidale: in cima l’Imperatore padrone di tutto. Sotto: conti, marchesi e du- chi affidatari dei beni della corona. Sotto ancora tutti gli altri che avevano un benamato niente. Non ci volle molto però a rendersi conto che per tenere ferma una base in continua crescita, e man-

58 tenerla lontana “dall’osso”, era necessaria la creazione di una zona cuscinetto controllata da una forza di dissuasione. Fu così che si inventarono i Vassalli, ai quali non fu data una proprietà trasmissi- bile, ma un feudo, ossia il godimento di un bene che restava della classe superiore. Il vassallo garantiva una presenza attiva nel territorio, giacché doveva provvedere a che la corte imperiale e il ceto sopra di lui, avessero le loro giuste spettanze e, in genere, svolgeva il compito con teutonico impegno. Ma l’impegno era ancora maggiore quando doveva pensa- re a che ne rimanesse per lui e i sui armigeri, di cui non poteva pri- varsi; nonché per gli acquartieramenti e per il castello. Infine doveva pensare alla propria famiglia ed alla propria vecchiaia. Andando ancora avanti per schemi dobbiamo annotare, in questi tempi, l’inizio di un’istituzione che caratterizzerà l’Europa per molti secoli: la nobiltà. Tutte le cariche diventarono trasmissibili e i detentori si dichiararono Nobili, per differenziarsi da tutti gli altri che non avevano alcuna respon- sabilità. I nobili si erano dati l’incombenza di difendere i loro sudditi e, per assolvere bene questo compito, non facevano altro. Il nobile era un uomo d’armi. Imparava prima a cavalcare che a cam- minare. Suo padre lo metteva in groppa al cavallo già in tenera età e, appena dimostrava di sapersi tenere in equilibrio, gli metteva in mano una spada. Non si preoccupava della sua istruzione perché non sape- va che cosa fosse e, quando lo sapeva, era ben certo che non servisse a niente. “Non sa leggere e scrivere, perché è nobile”, si diceva; e questo sarà un modo di dire diffuso in ogni dove e per molti secoli. Alla maggiore età i figli dei nobili erano “armati cavalieri”. Con ciò ricevevano i relativi segni distintivi (che il villano non poteva permet- tersi per definizione): il cavallo, l’armatura e lo scudiero; ed entravano a far parte dell’esercito con cui si identificavano in modo del tutto na- turale, perché la nobiltà non faceva parte dell’esercito: era l’esercito. In effetti sarebbe più corretto parlare di gruppi di armati perché un esercito prevede delle omogeneità che al tempo erano completamen- te ignorate. Non c’erano divise, non c’erano insegne, non c’erano ri- ferimenti comuni. Ci si agghindava mettendosi addosso le cose più

59 diverse, in modo molto casual, rendendo difficile il riconoscimento immediato nel campo di battaglia. Ogni condottiero aveva il suo drappello di armati, diverso per nu- mero, armamento e modo di urlare. Tutti insieme erano il caos. Oc- correva qualcosa per distinguerli, in modo semplice e immediato: uno svolazzo applicato al cimiero, un mantello dal colore deciso, un segno dipinto nello scudo, furono i primi segni distintivi dei ca- valieri. Poiché, tra questi, lo scudo era quello che si prestava meglio ad essere disegnato e colorato, divenne ben presto il segno distinti- vo per eccellenza. E quindi, per ragioni di ordinaria praticità, nac- quero gli stemmi cavallereschi; in un primo tempo legati al cavaliere e, successivamente, allargati alla di lui famiglia. Poco tempo dopo, dall’ambito militare, gli stemmi si diffusero a quello economico, an- dando a coronare portoni ed a recintare proprietà di vario genere. Non è nostra intenzione di infognarci nella disciplina araldica, ma non possiamo fare a meno di rilevare la più totale e deprimente as- senza di stemmi nella nostra zona. Ciò significa la presenza di pochi cavalieri e non particolarmente importanti, giacché, se fossero sta- ti molti e attivi, se avessero partecipato a guerre e tornei, avrebbe-

60 ro avuto necessariamente uno stemma per distinguersi e le loro fa- miglie lo avrebbero murato sopra la porta dei castelli. Ciò significa, soprattutto, oltre alla poca nobiltà d’animo, molta ignoranza e una quantità spropositata di povertà, che si tramanderà per diversi secoli da padre a figlio. Quando nei primi anni del xiii secolo i borghi della nostra zona co- minceranno ad affrancarsi dai vecchi padroni ed avranno la neces- sità di dotarsi di uno stemma identificativo, non avranno niente di più glorioso da mettere negli scudi, se non un asino ad Asinalunga, una scrofa a Scrofiano, un albero di farnia a , un... niente a Rigomagno (perché veniva distrutto continuamente)...

Per tornare alle origini delle Leggi, come ebbe a dire l’abate di Fonte- bona: «dopo Carlo Magno ciascun popolo barbaro si recasse ad onore di vivere in Italia, serbava con orgoglio e con amore la qualità della propria cittadinanza: ciascuno godeva di chiamarsi Ripuario, Salico, Bavaro, Alemanno, ecc...». Le famiglie che si insediarono nei nostri territori furono di Legge Sa- lica, Ripuaria e Longobarda. Uno dei capostipiti di riferimento fu un certo Ranieri o Ranghieri, di legge salica, vissuto nella prima metà dell’800; mentre il primo conte, signore del territorio senese, fu il fi- glio Winigi i, sposo della contessa Richilda di probabile discenden- za longobarda. Di seguito si riportano, per innocente curiosità, i nomi più comuni dei discendenti della casata. La rosa è molto vasta e presenta asso- nanze nordiche di provenienza diversa. Tra i nomi maschili più co- muni che si tramanderanno per un paio di secoli almeno: Berardo, Walfredo, Winigildo, Manente, Rimbotto, Farolfo, Ildebrando, Pe- pone... Invece, tra le donne, i nomi più diffusi furono: Willa, Berta, Ermengarda, Teodora. L’insediamento delle famiglie feudali trovava terreno fertile lontano dalle città, nelle quali grandi masse di persone organizzate dal potere comunale e protette dal vescovo, non lasciavano molti spazi di ma- novra. Normalmente ogni potere civile si sovrapponeva perfettamen- te con quello religioso, traendone forza. Nella nostra zona invece, a causa di una disputa tra i vescovi di Arezzo e Siena per il controllo di

61 numerose pievi del contado, un vasto territorio di confine, si presen- tava quasi senza controllo. Fu qui che proliferarono numerose fami- glie: Berardenghi, Scialenghi, Cacciaconti, Manenti, Cacciaguerra... i cui probabili inizi furono per tutti riconducibili al tempo del primo conte di Siena, Winigi il Salico. Intorno all’anno Mille i documenti ci mostrano una zona non parti- colarmente ricca. Inizia la progressiva perdita di importanza delle fa- miglie feudali a vantaggio delle comunità locali e delle città di Arez- zo e, soprattutto, Siena. Nel 1040, con un atto rogato a Rigomagno, il Conte Walfredo ii dona alla cattedrale di Arezzo molti beni che possedeva in Asciano, Asina- lunga, Fojano, , Torrita e La Fratta. Nel 1053 Ermengarda, vedova del conte Ranieri ii, dona al Capito- lo di Arezzo la chiesa dei santi Niccolò e Martino nel distretto di Rigomagno. Seguono atti di solenne riconoscimento e poi sottomissione al potere comunale di Siena, con il quale Rigomagno diventava castello di con- fine. La qualifica non prevedeva vantaggi di sorta, ma in compenso creava non pochi problemi; perché da quel momento, oltre a doversi difendersi dai nemici di sempre, vicini prepotenti e malfattori, ora c’erano anche i nemici dello Stato di Siena e dei suoi alleati. Per cui poteva anche accadere di subire un attacco da parte di truppe mai vi- ste e conosciute, per il fatto che queste, per esempio, erano nemiche di Re Manfredi di Sicilia, in quel momento amico di Siena. I mezzi di difesa, intendendo con ciò mura, torri ed armamenti, era- no veramente poca cosa. Per non dire dei soldati, che altri non era- no se non gli stessi abitanti, i quali normalmente usavano la zappa e la falce, e che non di rado si presentavano sulle mura per difendere l’onore della Patria, con gli stessi attrezzi, perché di meglio non ave- vano trovato. Tutto era all’insegna dell’improvvisazione. Anche i loro comandanti normalmente non avevano esperienze militari. Ma meglio di tanti discorsi varrà un esempio per capire come, in real- tà, si svolgevano gli assedi dei piccoli castelli di confine. Nel giugno del 1207 i fiorentini, in una delle tante scaramucce, espu- gnarono Rigomagno “aiutati da un improvviso temporale con grandine”. La frase è riportata nel verbale del Gran Consiglio di Siena senza ul-

62 teriori commenti perché, evidentemente, doveva essere normale per- dere un castello per una grandinata. Ora, siccome le condizioni del tempo erano uguali, per tutti e due i contendenti, viene da pensare che se i difensori abbandonarono le mura, fu perché era necessario difendere qualcosa di ancora più pre- zioso. Visto il periodo potrebbe essere stato il fieno steso nei campi ad asciugare. Certamente un’ipotesi, ma molto meno fantasiosa di quanto si possa pensare. Il primo nemico contro cui ci si doveva di- fendere, infatti, era la fame. Probabilmente altri sono i motivi, ma è anche per questa realtà del quotidiano che noi non abbiamo avuto una chanson de geste con ca- valieri, senza macchia e senza paura...

63 Il buon Celso si accorse della tristezza di fra Dionisio e per distrarlo un po’ gli chiese notizie fresche sulla Repubblica di Siena. «Che vuoi che ti dica, dopo la battaglia di Colle di Val d’Elsa (mi pare l’11 giugno 1269, non sono molto forte con le date), con la sconfitta dei ghibellini cadde il Governo dei Ventiquattro, che non aveva fatto tanto male in passato. Con il partito guelfo al potere, la ricca borghesia, fortemente com- patta, si inventò il “Monte dei Nove”, una sorta di congrega, aperta solo ai grandi borghesi, e che decideva per tutti. In poco tempo ebbe in mano il potere assoluto. Figurati che costrinse, è il caso di dirlo, il Consiglio della Campana (massima istituzione senese) a deliberare, il 28 di maggio del 1277, che solamente “i buoni mercanti di parte guelfa” potevano governare la Repubblica entrando a far parte del Consiglio dei Trentasei. Così fu e così ora è! L’ideale di questa oligarchia di mercanti, come tu sai, fu immortalato da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti della Sala della pace nel Palazzo pubblico. “Gli effetti del buongoverno”, un’opera stupenda nella for- ma, ma non certo nella sostanza, visto che fu commissionata e pagata dal potere allo scopo di educare il popolo. Un’auto celebrazione del Governo, che forse in futuro...» «È sempre stato e sempre lo sarà. Cambieranno solo i metodi con il mutare delle possibilità – disse fra Celso –; un tale Douglas, britan- no dei primi del Novecento, prendendo come spunto l’affresco del “Buongoverno” un giorno scriverà: “È impossibile uguagliar la virtù e nobiltà d’animo di cui il buon ca- pitalista si crede rivestito, o come lo rappresentano i suoi adulatori e parassiti”». «Hai ragione ma l’uomo, ogni tanto, dovrebbe essere uomo». «Perché, quelli che c’erano prima, i ghibellini, erano meglio? O vuoi che ti ricordi il patto del 31 luglio 1255 tra Siena ghibellina e Firen- ze guelfa, con il quale “Siena non avrebbe dato ricetto a qualsivoglia persona che per cagione di misfatto, o per sedizione o congiura, fosse stata bandita dal di Firenze”...» «Lo so, nel 1251 Siena aveva firmato un patto con i ghibellini di Firen- ze con il quale si impegnava ad aiutarli nel caso fossero insorti contro i guelfi... e questo patto rimase in vigore nonostante quello del ’55...

64 così tre anni dopo i ghibellini esiliati da Firenze trovarono ricetto a Siena... Però contro Firenze ogni arma è buona!» Celso socchiuse un po’ gli occhi e guardò Dionisio: «Non ti sono molto simpatici i fiorentini, vero?» «No, di certo!» «Nemmeno Dante...» «Quello poi, ruffiano mangiauffo. Ghiotto dell’olio di Rigomagno che non ti dico. Aveva messo in giro la voce che faceva il corrispon- dente per “La Nazione” e allora se volevi che pubblicassero qualco- sa in “Cronaca di Siena”, bisognava ungere. Ma poi scriveva poco e male. Figurati che un anno non gli si mandò il solito ziro d’olio: mica storie, gli si mandava uno ziro d’olio all’anno e lui che scriveva? Due sciocchezze o poco più. Dicevo che un anno non gli si mandò l’olio, allora lui, con la scusa del ghibellin fuggiasco, venne a Gargonza, che era un castello fiorenti- no vicino a Rigomagno, e di notte mandò un servo a prendere l’olio. Dice: “La mi manda il mi’ padrone, l’è per l’olio, l’ha da fare la fet- tunta...”. Sto’ mangiauffo, si vergognava a venire lui... “...lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia co- lorata in rosso”... ’mbecille, ma mica lo ha scritto che i fiorenti- ni sotto le mura di Siena dissero: “O voi vu’ v’arrendete o vi s’ammazza tutti, e comunque la città verrà distrut- ta e le mura diroccate in diversi punti, sicché si possa entracci come e donde ci parrà”; ’mbecille un’altra volta, il fat- to è che a Montaperti persero e persero di brutto. Loro erano 35 mila, noi a malapena 20 mila, ma quel venerdì 4 settembre del 1260 si vinse noi... “campioni del mond...”, volevo dire che si vinse noi». «Però, stando a quello che si dice, la vostra vittoria non fu, diciamo, molto sportiva. Si racconta di finti mercanti, che con la scusa di vendere stoffe... entrarono nel campo fiorentino per spiare...»

65 «Che stoffe! Panforte e ricciarelli, i fiorentini so’ golosi. Ma se so’ ’mbecilli ’un è mica colpa di nessuno! Come si fa a non ammoscarsi di fronte ad uno che viene dalla città che stai assediando, a venderti roba da mangiare? Bisogna essere ’mbecilli, o no?!» «E quelle donzelle introdotte nel campo per carpire facilmente... viste le “armi in dotazione”, i segreti e i piani di battaglia?» «Torno a dire: se so’ ’mbecilli... Come si fa a non capire al volo cer- te cose? Stai a vedere che le donne senesi non aspettavano altro che andare a divertirsi con quelli che minacciavano di ammazzare i loro uomini! So’ arrivati i superomini, donne, venite che vi si fa divertireee... eppoi vi s’ammazza il marito gratisse! Super eroi... super imbecilli, semmai! Quello era lavoro di intelligence... ciò che mancava ai fiorentini. In futuro sarà ampiamente usato, mio caro». «Però ho sentito dire che ai soldati, riuniti in piazza del Campo per le istruzioni generali, in attesa di partire per Montaperti, fu detto: “an- date e fate carne fredda del nemico”, questo non è fair play». «È solo un modo di dire delle nostre campagne, specialmente quelle aretine... Ricordo una volta, in una taverna di Asinalunga, un carret- tiere aretino, più propriamente del Casentino, disse a un tale che lo

66 infastidiva: “se seguiti a ragionare te prendo pel collo e finché ’un sei ghiaccio non te lascio”». «Ma a Montaperti gli aretini non erano dalla parte dei fiorentini?» «Sì, ma è gente simpatica, alla bona... glie’ piace la compagnia... Ti ho mai raccontato dell’invasione di cavallette nei poggi della bassa Chiana? Allora, devi sapere, che un’estate di qualche tempo fa, ci fu un’invasione di cavallette e locuste giganti: documentata dai cronisti dell’epoca, mica uno scherzo. Visto il pericolo incombente, la gente di un paesino si armò di lance, spade e forconi, oltre che di coraggio, e andò incontro all’invasore. Come si trovarono faccia a faccia, av- venne che una cavalletta saltò sul capo di un villico. Quello che era più vicino non intese a sordo, alzò la scure e... tonfa nel capo. Quando tornarono in paese alla gente che chiedeva, con evidente cu- riosità, come era andata, risposero: “non ci si può lamentare, ’un de loro e ’un de noi”. Celso, queste non sono barzellette, sono cose vere. A volte la realtà supera la fantasia.

67 Te ne racconto un’altra, e questa è vera, doventassi ceco, come dicono i vecchi che ormai non ci vedono più. Dunque, qualche tempo fa, rubarono le chiavi del castello di Ciliano, un piccolo borgo fortifica- to vicino a Torrita. Un detto popolare sostiene, forse a torto ma chissà... che “a Torrita non è buono nemmeno il vento”. Figurati... tanto per dire il conte- sto nel quale ci moviamo, ma questo non c’entra. Dunque, si diceva, che un signorotto, o dei bravi per suo conto, non si sa con precisione ma la sostanza non cambia, rubarono le chiavi del castello di Ciliano. La cosa era seria, non lo discuto, forse poteva essere risolta in quattro e quattrotto, con un po’ d’iniziativa, ma non te la racconto per questo. Il fatto è vero ed è riportato nel verbale del Consiglio generale della Repubblica di Siena del 28 settembre 1251. Ben due sono le cose curiose che sembrano inventate. La prima è il rapporto dell’ufficiale inviato da Siena che riferisce il timore espresso dagli abitanti di Ciliano e che viene trascritto senza commenti: “...Quelli di Montepulciano quando avranno finito di vendemmiare ci faranno guerra”. Ma ti rendi conto?... Dice: “c’è da fare la guerra!” “A sì, bene, ma prima si vendemmia!” O dimmi se non sembra una barzelletta. Ma senti il resto. Perché due, come ti ho detto, sono le cose che sem- brano inventate. E tutte e due nello stesso documento. Il secondo fatto curioso, infatti, è la decisione sul cosa si dovesse fare per risolvere il problema della chiave rubata. Bene, il Consiglio ge- nerale decide di accogliere la proposta di tale Tancredi Passalacqua, di cui niente altro è dato sapere, il quale, dopo una grande pensata, è scritto a verbale, non è roba di mia fantasia: “Il tale [ecc. ecc. come detto, non si sa chi sia...] consiglia di mandare un fabbro con una toppa e una chiave nuova”... Non ho parole... Ti rendi conto che per questa idiozia? E se a questo aggiungi che il fabbro, non solo partì da Siena con la chia- ve e la toppa nuova, ma fu anche scortato da 50 uomini armati... siamo

68 nel ridicolo più puro, al limite della barzelletta. Non ti pare?» «A me pare che sei uscito un po’ fuori dal seminato, oppure, se prefe- risci, ne hai fatta di strada: da Montaperti sei arrivato in Valdichiana – protestò fra Celso – e se ora ti dicessi che, dopo una lunga serie di battaglie, alla fine la guerra la vincerà Firenze, che diresti?» «Che non è vero!» «E invece è proprio vero. La gloriosa Repubblica di Siena un giorno non esisterà più...» Fra Dionisio si fermò di colpo. Poi riprese a camminare con maggior lena e alzando il braccio destro verso il cielo disse: «E allora a Rigomagno si farà Repubblica per conto nostro!»

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