Dal sette consiglieri federali

Per 81 anni soltanto, sui 169 dalla nascita della Svizzera moderna, c’è stato un italofono in governo – Chi erano e quali circostanze li hanno portati in Consiglio federale? È il momento dell’ottavo ticinese?

/ 21.08.2017 di Roberto Porta

Non ci sono regole o percorsi predefiniti per meritarsi un posto in Consiglio federale. Un principio che vale per tutti, anche per i sette politici ticinesi che finora hanno rappresentato la Svizzera italiana nel governo del nostro Paese. Ma chi erano questi sette ministri? E in quali circostanze riuscirono a entrare in governo, per ricoprire la carica politica più prestigiosa del Paese?

Per prima cosa la storia ci dice che, dalla nascita della Svizzera moderna, 169 anni fa, per 81 anni soltanto c’è stato un italofono in governo. L’altra minoranza svizzera, quella romanda, ha invece sempre avuto almeno un proprio ministro. Due finora i partiti ticinesi che sono riusciti a ottenere un posto tra i «sette saggi». Il PPD, con 4 ministri, e il PLR con tre. Nessuna donna tra loro, un solo rappresentante del Sottoceneri, 2 Locarnesi e ben 4 Leventinesi.

E proprio dalla Leventina giunse il primo consigliere federale ticinese. Figlio di contadini ma di solida formazione umanistica, Stefano Franscini fece parte del primo governo della Svizzera moderna, dopo essere stato consigliere di Stato in Ticino ed essersi meritato l’appellativo di «padre della patria» per la sua instancabile opera nel fare del suo cantone un Paese moderno.

La sua elezione a Berna non fu però per nulla brillante. Ottenne 68 voti su 132 votanti, il bottino più scarso tra i sette eletti di quel giorno, era il 16 novembre del 1848. Franscini guidò il Dipartimento dell’interno, dove tra le altre cose gettò le basi legali per la creazione del Politecnico federale. Il Leventinese non ebbe vita facile in governo, anche per le difficili relazioni con il suo cantone di origine, tese a tal punto da rischiare di comprometterne la rielezione. Allora era indispensabile sedere in Parlamento per poter accedere al governo, e nel 1854 il popolo ticinese non riconfermò Franscini in Consiglio nazionale. Venne «recuperato» dal canton Sciaffusa che lo iscrisse nelle sue liste elettorali, mossa che gli permise di rimanere in carica, fino alla sua morte nel 1857.

Gli successe Giovan Battista Pioda, di Locarno. Dapprima consigliere di Stato, Pioda entrò nel governo federale, superando al primo turno un altro ticinese, Sebastiano Beroldingen di Mendrisio. Anche Pioda assunse la guida del Dipartimento dell’interno. A lui si deve in particolare l’impulso politico per la realizzazione del traforo ferroviario del San Gottardo. Opera a cui Pioda si consacrò anche dopo aver lasciato il Consiglio federale nel 1864 ed esser stato nominato ambasciatore svizzero presso il regno d’Italia.

La partenza di Pioda aprì una lunga parentesi senza membri italofoni in Consiglio federale. Un’assenza di ben 47 anni dovuta anche alle continue lotte politiche intestine al canton Ticino e a una profonda incomprensione con il resto del Paese.

Nel 1911, proprio per rafforzare la coesione nazionale, si voltò finalmente pagina, con l’elezione di . A soli 40 anni e padre di 10 figli, l’Airolese fu il primo conservatore ticinese in Consiglio federale. Ministro delle finanze e, per ben 20 anni, capo della diplomazia svizzera, Motta segna di fatto un’epoca. «I giudizi divergono – scrive Franco Celio nel suo volume Gli uomini che fecero il Ticino – Se per alcuni il Motta difende al meglio gli interessi della Svizzera, per altri è troppo arrendevole, se non simpatizzante, nei confronti del regime fascista, dimostrandosi ostile ai rifugiati politici. Probabilmente la verità sta nel mezzo».

Come già con Franscini e Pioda, anche a Motta, che morì in carica nel 1940, successe un altro Ticinese, anch’egli conservatore. Nato ad Ambrì, Celio è eletto a sorpresa, anche perché era poco conosciuto a Berna, benché fosse consigliere di Stato in Ticino. Per garantire al Paese la necessaria unità nel bel mezzo della seconda guerra mondiale si puntò ancora su un candidato italofono, nonostante un’azione di disturbo organizzata invano dai liberali-radicali del canton Ticino, ostili all’elezione di un altro conservatore, seppur ticinese.

A Celio venne affidato il dipartimento delle Poste e delle Ferrovie. Il suo non fu di certo un compito facile, perlomeno inizialmente visto che dovette confrontarsi con l’eredità e il peso politico lasciati da Giuseppe Motta, rimasto in governo per quasi 30 anni. «La sfortuna della mia fortuna», ebbe a dire lo stesso Celio, che si dimetterà nel 1950.

Passano solo 4 anni e fu subito l’ora di un altro ticinese, l’allora consigliere di Stato Giuseppe Lepori, conservatore di . Fu un’elezione a sorpresa, frutto di un’alleanza tattica tra socialisti e conservatori, che permise a questi ultimi per la prima e unica volta di avere ben tre ministri. Fu di fatto una tappa transitoria verso la nascita della «formula magica», nel 1959, con i conservatori che restituirono il piacere e permisero l’elezione di due socialisti.

Lepori guidò il Dipartimento delle poste e delle ferrovie dove affrontò tra le altre cose lo sviluppo del traffico aereo e la nascita della radio-televisione pubblica. Venne colpito da un’emorragia celebrale e lasciò il governo già nel 1954.

Dodici anni dopo fu il turno di . Già consigliere di Stato in Ticino, il liberale radicale di Ambrì prese il posto di un ministro romando, il vodese , azzoppato dallo scandalo dei Mirages.

Con la sua elezione Celio riuscì a respingere sia la forte concorrenza interna al PLR ticinese sia le ambizioni del canton Vaud, pronto a riconquistare un seggio che considerava storicamente proprio. Lo fece anche grazie al forte sostegno dei parlamentari svizzero-tedeschi, in particolare quelli vicini agli ambienti economici. Un appoggio non casuale, così almeno diranno i detrattori del ministro. In Consiglio di Stato, Celio aveva infatti promosso la nascita e lo sviluppo degli impianti idroelettrici, concedendo le acque della Val Maggia e della Valle di Blenio alle grandi società del settore che avevano sede Oltralpe.

A Berna Celio fu dapprima ministro della difesa e poi delle finanze dove fu chiamato a lottare contro l’inflazione, allora molto alta, e a risanare le casse federali. Il Leventinese era molto popolare a tal punto che il sostegno dei cittadini lo indusse a rinviare le sue dimissioni di un anno. Lasciò il governo nel 1973.

Siamo così giunti al settimo e finora ultimo consigliere federale ticinese, , eletto nel 1987 al primo turno. Ministro dell’interno e poi degli esteri, il popolare democratico dovette in particolare affrontare due temi decisamente ostici: le relazioni con l’UE dopo il no popolare allo Spazio Economico Europeo e la crisi dei fondi ebraici depositati nelle banche svizzere. Lasciò nell’aprile del 1999, quando gli accordi bilaterali erano praticamente pronti per la firma conclusiva. Da allora diversi sono stati i tentativi per riportare un italofono governo, tutti falliti. Tocca ora a Ignazio Cassis provarci, in una costellazione politica che per certi versi ricorda quella di Nello Celio. Anche Cassis è chiamato a sostituire un Romando e anche lui deve saper respingere in particolare le ambizioni dei liberali radicali vodesi. Occorrerà capire se, come nel caso di Celio, riuscirà ad ottenere l’appoggio convinto dei parlamentari svizzero tedeschi. Se così fosse si potrà dire che, sì, a volte la storia si ripete.