Lenni Brenner IL MURO DI FERRO il revisionismo sionista da Jabotinskij a Shamir

appendice Il muro di ferro (noi e gli arabi) di Vladimir Jabotinskij (1923)

Un’analisi storica della corrente revisionista del sionismo, che per lungo tempo fu considerata una semplice scheggia impazzita alla destra del movimento fondato da Theodor Herzl ma che dal 1977, con la prima vittoria elettorale del Likud, è diventata parte dominante dell’ideologia dello stato di Israele e oggi è al potere con Netanyahu.

In copertina: manifesto propagandistico dell’Irgun diffuso nell’Europa centrale, 1931

2 indice

nota biografica……………………………………………………………………………………………..p.4

Da Jabotinskij a Netanyahu, il Muro di Ferro ancora in piedi…………………………………………..p.5

1. Jabotinskij: i primi anni………………………………………………..…………………….p.6 Odessa / La famiglia e la scuola / Le lingue / Gli esordi / L’Italia / Ritorno a Odessa / Una interpretazione psicoanalitica

2. Il sionismo russo: tradimento degli ebrei…………………………………………..……….p.10 Attività di Jabotinskij 1901 – 1903 / Il pogrom di Kishinev e l’ebraismo russo / Il movimento sionista e l’ebraismo russo / Collaborazione tra Herzl e Von Plehve / Reazioni ebraiche alla collaborazione di Herzl / Jabotinskij e l’autodifesa ebraica / Il marxismo, il Bund e il sionismo socialista / La Rivoluzione del 1905 e le Dume / Chuzbina / Il razzismo di Jabotinskij e le sue radici

3. Jabotinskij a Costantinopoli………………………………………………...……………….p.28 L’importanza della Turchia / Herzl e l’Impero ottomano / La politica sionista verso i Giovani Turchi / La fine dell’Impero ottomano / Il crimine della WZO

4. La Grande Guerra: collaborazione con lo zarismo e l’imperialismo inglese…………….p.32 La Prima guerra mondiale e la Legione ebraica / L’appoggio russo alla Legione / Risposta inglese: il Corpo dei Mulattieri / Reazione dell’ebraismo mondiale alla guerra / Discussioni in Russia / L’Inghilterra e la petizione per la Legione / La Dichiarazione Balfour / La Legione in Palestina / Significato della guerra e dei tentativi di Jabotinskij

5. Il fondatore dell’Haganah……………………………………………………………………p.39 Il sionismo dopo la Grande Guerra / Il supporto inglese / La Palestina dopo la guerra / L’Haganah / La rivolta di Nebi Musa / Processo e sentenza per Jabotinskij / La rivolta di Jaffa e la riproposizione della Legione Ebraica / Ritiro del supporto inglese allo stato ebraico / Discussioni nella WZO / Conclusione

6. Il patto col diavolo. Simon Petljura…………………………………………………………p.47 Dimissioni di Jabotinskij dalla WZO / L’incontro con Slavinskij / La spiegazione di Jabotinskij / Strascichi

7. Principi basilari del sionismo revisionista………………………………………………….p.51 Dopo le dimissioni: nascita del revisionismo / Il Muro di Ferro / La linea del “dominion” ebraico / La componente militarista del revisionismo / La produzione letteraria di Jabotinskij

8. Gli anni del fascismo e del terrore………………………………………………………….p.59 La Palestina negli anni ’20 / Il pogrom di Hebron / Il revisionismo nella WZO: una tendenza fascista? / Un movimento della classe media / Iniziative anti-operaie in Palestina / L’uccisione di Chaim Arlosoroff / Il Congresso sionista mondiale del 1933 / Il processo Arlosoroff / La definitiva scissione dalla WZO / Sempre più vicino all’Italia fascista / La Grande Rivolta Araba / Il revisionismo nella Diaspora / Proposta di esodo / Il piano di invasione della Palestina / Il Congresso del Betar del 1938 / Nuovi piani di invasione / L’ultimo anno di Jabotinskij /Valutazione finale

9. Menachem Begin: i primi anni………………………………………………………………p.77 Fanciullezza / Betar / Il Congresso del Betar del 1938 / Alle soglie della Seconda guerra mondiale

10. Begin durante l’Olocausto………………………………………………………………….p.82 Esodo dalla Polonia / Le ragioni della fuga di Begin / Arresto / Prigionia e interrogatori / L’armata polacca in esilio e la legione ebraica

3 11. La rivolta dell’Irgun e la fondazione di Israele…………………………………………....p.87 L’Irgun divisa in due / Begin diventa capo dell’Irgun / La rivolta del 1944 / Intesa con l’Haganah: il Movimento di Resistenza / L’attentato al King David Hotel e la fine dell’Intesa / Il destino degli sfollati e il supporto USA al sionismo / La rivolta del 1946 – 47 / Verso la partizione / Le posizioni di URSS e USA / Il voto all’ONU / La reazione araba / “Annientarli completamente”: Deir Yassin / L’attacco dell’Irgun a Jaffa / Proclamazione dello stato di Israele / L’Affare Altalena / Il Partito della Libertà (Tnuat HaHerut)

12. Ventinove anni nel deserto………………………………………………………………….p.99 Primo risultato elettorale dell’Herut / La questione delle riparazioni / Isolamento dopo il riot / La crisi di Suez e la questione delle carte di identità / Gli anni ’60: verso la rispettabilità / Primi anni ’70 / Terzo viaggio in Sudafrica / Il Generale Sharon e il Likud / Il declino del Partito Laburista / La vittoria elettorale del Likud

13. La strada per Sabra e Chatila…………………………………………………………….p.107 Sadat e gli Accordi di Camp David / Difetti degli Accordi / L’economia israeliana sotto Begin / Antagonismi intra-ebraici / Bigottismo religioso sotto Begin / Dall’aratro alla spada: l’esportazione di armi israeliane / Supporto USA a Israele / Il Popolo Eletto sceglie ancora: le votazioni del 1981 / L’aumento del razzismo / La situazione in Cisgiordania

14. Olocausto a Beirut………………………………………………………………………….p.117 La programmazione dell’invasione / La crisi del mondo arabo / Il successo militare israeliano in Libano / Il massacro e la commissione di inchiesta

15. Yitzhak Shamir prende il testimone………………………………………………………p.126 Le dimissioni di Begin / Il retroterra di Shamir / L’apice della follia / La morte di Stern / Nuovo corso terroristico / La fase di rispettabilità della Banda Stern / L’assassinio del conte Folke Bernadotte / Da terrorista clandestino e terrorista di stato / Shamir e il massacro di Sabra e Chatila / Shamir al potere: il silenzio è assordante / La crisi economica / L’America viene in soccorso / In futuro

Il Muro di Ferro (1923)…………………………………………………………………………………..p.140

Scritti di Jabotinskij……………………………………………………………………………………....p.143

Testi citati…………………………………………………………………………………………………p.144

Glossario………………………………………………………………………………………………….p.147

nota biografica

Lenni Brenner è nato negli Stati Uniti il 25 aprile 1937 da una famiglia di ebrei ortodossi. Fin da giovanissimo si è interessato al marxismo, in particolare alla corrente trotzkista, e ha intrapreso l’attività politica militante. Negli anni ’60 si è impegnato nel movimento per i diritti civili dei neri, e poi nel movimento contro la guerra in Vietnam. E’ stato in carcere per più di tre anni, e alcuni giorni in cella con Huey Newton, poi fondatore delle Black Panthers. Negli anni ’90 insieme a un altro storico leader delle Black Panthers, (alias Kwame Ture), ha contribuito alla creazione di un Committee against and Racism. Il suo primo libro è stato Zionism in the Age of the Dictators (Il sionismo nell’età dei dittatori) del 1983. Successivamente ha scritto: The Iron Wall: Zionist Revisionism from Jabotinsky to Shamir (1984), Jews in America Today (Gli ebrei in America oggi, 1986), The Lesser Evil: The Democratic Party (Il male minore: il Partito Democratico, 1988), 51 Documents: Zionist Collaboration with the Nazis (51 documenti: la collaborazione sionista coi nazisti, 2002) e Black Liberation and Palestine Solidarity (2012, con Matthew Quest). Ha scritto anche più di 100 fra articoli e recensioni, pubblicati da riviste e siti internet.

4 nota introduttiva Da Jabotinskij a Netanyahu, il Muro di Ferro ancora in piedi

Il Muro di Ferro di Lenni Brenner ripercorre analiticamente lungo un arco di tempo di circa cento anni (dalla fine del XIX secolo all’ascesa al potere di Shamir nel 1983) il cammino della corrente revisionista del sionismo, che per lungo tempo fu considerata una semplice scheggia impazzita alla destra del movimento fondato da Theodor Herzl ma che dal 1977, con la prima vittoria elettorale del Likud, è diventata parte dominante dell’ideologia dello stato di Israele. Vladimir Jabotinskij, il fondatore del movimento revisionista, dichiarò spesso di ispirarsi al liberalismo inglese, ma nonostante ciò (o in conseguenza di ciò) in teoria e in pratica fu esponente del più chiaro razzismo, colonialismo e imperialismo. Fu lui l’inventore della Brigata Ebraica (nella Prima guerra mondiale denominata Legione Ebraica), tanto celebrata da alcuni sionisti odierni, e il fondatore della dottrina del Muro di Ferro, ovvero la linea per la quale il sionismo non doveva fare compromessi con gli arabi fino a quando non avesse goduto di una supremazia militare tale da imporre qualunque accordo. Dunque per Jabotinskij il primo degli obiettivi doveva essere la costruzione di tale supremazia. In quest’ottica egli fondò e diresse il movimento revisionista negli anni’20 – ’30, mettendolo in stretta alleanza con il fascismo italiano. Nella ricostruzione di questa fase originaria Brenner si sofferma su alcuni temi di straordinario interesse, ad esempio le origini sociali del sionismo in Russia e il suo utilizzo da parte dello zarismo, dal livello diplomatico (Herzl) alle associazioni operaie (Poalei Zion), per sabotare i movimenti di massa che avrebbero portato alla Rivoluzione russa del 1917. Menachem Begin fu l’erede designato di Jabotinskij, e come Yitzhak Shamir comandò le fazioni militari del revisionismo durante la Seconda guerra mondiale e poi nella pulizia etnica della Palestina del 1948. Begin era a capo dell’Irgun all’epoca del massacro di Deir Yassin del 9 aprile 1948. Shamir era nella Banda Stern, il gruppo terroristico che nel 1940 propose ai nazisti un’alleanza militare per combattere gli inglesi in Palestina. Begin e Shamir si avvicendarono alla guida del governo israeliano negli anni ’80, all’epoca del massacro di Sabra e Chatila, con coalizioni di destra appoggiate dai partiti religiosi ortodossi e fortemente legate agli USA di Reagan e stati reazionari come il Sudafrica dell’apartheid. Alla fine del suo libro Brenner definisce l’affermazione del revisionismo nella società israeliana come il compimento della parabola del sionismo, la saldatura tra la realtà dell’occupazione della Palestina e l’ideologia ad essa corrispondente. All’epoca egli reputò che questo fosse anche l’inizio della fine di Israele, poiché lo stato sionista avendo svelato completamente il suo volto coloniale si sarebbe ritrovato sempre più isolato, in una fase in cui nel mondo i popoli colonizzati uno dopo l’altro raggiungevano l’indipendenza. Purtroppo i tempi si sono dilatati e nei 33 anni successivi l’imperialismo ha reagito all’indipendenza dei popoli con nuove forme di dominio, guerre preventive e occupazioni militari; così il sionismo e il Muro di Ferro sono ancora in piedi, grazie al sostegno economico, politico e ideologico fornito dall’Occidente e alla complicità dei regimi arabi. La continuità della politica del muro di ferro oggi è incarnata dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il cui padre Benzion fu il segretario personale di Jabotinskij ed esponente di spicco del revisionismo negli USA. In particolare Benzion Netanyahu fu grande amico di Abba Achimeir, fondatore nel 1930 del gruppo terroristico Brit HaBiryonim, redattore del Diario di un fascista (rubrica su un periodico revisionista in Palestina intorno al 1930), colui che si augurava lo sterminio “di un milione di ebrei polacchi” affinchè capissero che l’unica strada era emigrare in “Eretz Israel”. L’antidoto alla politica del muro di ferro indicato da Brenner nel 1984 è “un movimento laico e democratico per una Palestina laica e democratica, un’organizzazione che unisca il popolo palestinese con la minoranza ebraica progressista”. Anche questa è una prospettiva attuale, con la precisazione che il movimento più che laico si può definire multiconfessionale (includendo laici, musulmani, cristiani, ebrei antisionisti etc.). Inoltre oggi il movimento ha messo in atto la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) che all’epoca di Brenner era in corso con il Sudafrica e qualche anno dopo avrebbe laggiù portato alla fine dell’apartheid. Sicuramente una frase a conclusione del libro può essere fatta propria da tutti e tutte coloro che hanno a cuore il destino degli oppressi e degli sfruttati: “La lotta contro il sionismo continuerà e inevitabilmente avrà successo”. maggio 2017

5 1. Jabotinskij: i primi anni

Odessa Odessa era ed è una bella città: ubicata in un’ampia pianura, si affaccia sulla baia omonima sul mar Nero. Strappato ai turchi solo nel 1792, il porto più meridionale della Russia zarista d’inverno era libero dal ghiaccio tranne che per sole cinque settimane, e presto divenne un fiorente punto di esportazione del grano dell’Impero, e un prolungamento cosmopolita delle linee commerciali del Mediterraneo. In Russia non vi furono ebrei fino alla fine del XVIII secolo. Nel 1471 due mercanti ebrei al seguito di un nobile di Kiev avevano “corrotto con il giudaismo” due alti ecclesiastici di Novgorod. Un’eresia cosiddetta dei Giudaizzanti iniziò a diffondersi tra i monaci ortodossi russi, facendo leva su alcuni passaggi del Vecchio Testamento per criticare l’ordine sociale vigente. Nel 1504 i capi dell’eresia furono bruciati sul rogo e la setta scomparve; ma il Santo Sinodo non la dimenticò, e da allora in poi ai mercanti ebrei fu vietato varcare il “territorio russo”. Fu solo nel XVIII secolo, con la conquista di vasti territori appartenenti al moribondo Impero polacco e all’Impero ottomano, che il regime di Pietrogrado si trovò ad avere una popolazione ebraica al suo interno. A Odessa fino al 1792, quano i turchi infine furono definitivamente allontanati dall’Ucraina, vissero solo pochi ebrei. Nonostante la grande diffidenza nei confronti loro e della loro religione, Pietrogrado si rese immediatamente conto che quei pochi mercanti ebrei erano importantissimi per la vita economica dei nuovi possedimenti. Dunque quel popolo fu incoraggiato a migrare dagli ex territori dell’Impero polacco in tutta l’area intorno al mar Nero. Nell’ultimo quarto del XIX secolo Odessa ospitava la seconda più grande comunità ebraica dell’Impero zarista, dopo Varsavia; dal 1880 la popolazione della città era per il 25% ebrea. La maggioranza dei negozi erano di proprietà ebraica, e così il fulcro dell’economia di Odessa, il mercato del grano. Sebbene molti migranti al loro arrivo parlassero solo l’yiddish, il russo divenne presso la loro lingua comune. Gli ebrei di Odessa formarono la comunità di gran lunga più moderna di tutta la cosiddetta Zona di Insediamento, l’area nella quale le autorità zariste confinavano la gran parte dei loro cinque milioni di sudditi ebrei.

La famiglia e la scuola Vladimir Yevgenievich nacque il 5 ottobre 1880, terzo figlio (il secondo maschio) di Yona e Khava Jabotinskij. Il padre Yona, o Yevgenni per usare la versione russa del nome, era un funzionario di rango elevato della semi-ufficiale Russian Company of Navigation and Commerce, addetto alle forniture di grano lungo il fiume Dnepr; Khava era la figlia di un ricco mercante chassidico1. Alla nascita di Vladimir gli Jabotinskij erano agiati e felici, ma nel 1884 una sciagura colpì la famiglia. Yevgenni si ammalò gravemente e dovette andare a Berlino a curarsi. La famiglia lo seguì e Vladimir fu affidato a un giardino d’infanzia, nel quale imparò a parlare il tedesco. Negli anni successivi ricordò poco della Germania, se si eccettua l’incontro e lo scambio di saluti con il Kaiser Guglielmo I a Bad Ems. Alla fine la famiglia rimase senza denaro e non potè più affidarsi ai costosi specialisti, che immediatamente si liberarono di loro dicendo di rivolgersi ai medici russi; fecero ritorno in Ucraina ove Yevgenni morì nel 1886. La vedova in breve tempo aprì una piccola cartoleria nei pressi della vicina sinagoga. Suo fratello, un ricco uomo d’affari, contribuì economicamente e, seppure in condizioni meno agiate di prima, Khava diede al figlio lezioni di violino (quasi obbligatorie per i ragazzi ebrei della classe media dell’epoca) e lo mandò a una scuola privata. Il suo primo incontro con l’antisemitismo fu quando aveva otto anni: sua madre impiegò un anno prima di poterlo inserire in una scuola pubblica. Gli studenti ebrei erano sottoposti a un numero chiuso e alcune scuole non lo accettarono, finchè non

1 Il chassidismo è un movimento di massa ebraico basato sul rinnovamento spirituale e la popolarizzazione dell'ebraismo ortodosso, sorto nella Polonia del XVIII secolo per opera del taumaturgo e kabbalista Yisrāēl ben Ĕlīezer (1698 – 1760), meglio conosciuto come il Ba'al Shēm Ṭōv. 6 gli fu trovato un posto. Ma l’antisemitismo non preoccupava le autorità di Odessa; l’infanzia di Vladimir trascorse tranquillamente2, e fino alla fine della sua vita egli ritornò con la mente a Odessa con un senso di profondo attaccamento.

Le lingue Khava era di Berdishev, una città in cui gli ebrei erano tanto numerosi che anche i goyim (i gentili) parlavano yiddish, cosicchè ella aveva difficoltà con il russo. La sua lingua letteraria era il tedesco; aveva imparato il russo solo per poter comunicare con la servitù assunta dal marito. In seguito Jabotinskij non fu in grado di ricordare se lei e il marito parlassero yiddish tra di loro, ma ai figli parlavano solo in russo. Sebbene la sua baby-sitter gentile conoscesse l’yiddish, cosa frequente tra i domestici, tuttavia le era vietato usare quella lingua, che Jabotinskij imparò comunque presto. In seguito durante gli anni scuola scrisse alla madre in yiddish, ma ribadì di non averlo mai parlato né a casa né fuori. Khava lo mandò a imparare l’ebraico da un istitutore quando aveva sei anni. Apprese i rudimenti della grammatica e tradussero la Bibbia, ma Vladimir non era molto interessato e a 13 anni, come milioni di ragazzi ebrei suoi coetanei, abbandonò quella lingua morta. A parte alcune poesie, non era interessato alla cultura ebraica: essa gli pareva, triste, antiquata e noiosa. Fu agli esordi delle lezioni di ebraico che, in seguito scrisse, formulò i suoi primi pensieri “sionisti”, chiedendo alla madre: “Anche noi ebrei un giorno avremo un nostro stato?”. Khava replicò teneramente, come ogni madre fa al proprio figlio di sette anni: “Certo che l’avremo, mio caro sognatore!” Jabotinskij non dubitò più di questa verità; da allora “non chiesi più nulla: era abbastanza per me”3. La sua lingua fu il russo: in punto di morte, nel 1940, 25 anni dopo aver visto per l’ultima volta il paese natale, egli pensava comunque in russo. Aveva imparato l’alfabeto da sua sorella Tamar quando la famiglia aveva fatto ritorno dalla Germania. Crescendo, la letteratura divenne la sua passione. Sebbene non fosse un buon studente, imparò a recitare con passione molti brani di Puskin e Lermontov. Con i suoi amici iniziarono a scrivere un giornale; a nove anni scovò una grammatica spagnola e cominciò a studiarla per conto suo. Il primo contatto con l’inglese avvenne attraverso le lezioni a scuola della sorella; il francese tramite un cugino; studiò latino e greco a scuola ma entrambe lo annoiavano (non amò mai le lingue morte). Tra i dodici e i quattordici anni imparò, da autodidatta, l’esperanto, scrivendo anche delle poesie in quella lingua internazionale. Il suo interesse per le lingue attirò l’attenzione di alcuni compagni di scuola polacchi che gli diedero da leggere il poema epico di Adam Mickiewicz Pan Tadeusz.

Gli esordi La carriera letteraria di Jabotinskij iniziò quando egli aveva dieci anni, con alcune poesie; a tredici anni egli tradusse dall’ebraico il Cantico dei Cantici e altri poemi. Fece una traduzione giovanile de Il Corvo di Poe che in seguito, in una versione migliorata, divenne un classico delle antologie. All’età di sedici anni inviava articoli ai giornali locali. Nel 1898 decise di andare in un altro paese per completare gli studi, e ottenne dal periodico Odessky Listok di essere preso come corrispondente estero. Concordarono che scrivesse solo da capitali europee dove il giornale non aveva già un proprio uomo. Vladimir scelse Berna, e si iscrisse alla scuola di giurisprudenza di quella città. Una delle primissime cose che fece a Berna fu proclamarsi completamente vegetariano; questa scelta durò due settimane (era costantemente affamato, e isolato socialmente). Presto fece il suo primo intervento politico: Nachman Syrkin, pioniere del sionismo socialista, era venuto a tenere una conferenza e nel dibattito i sionisti e i marxisti diedero vita a un’accesa disputa. Il 17enne Vladimir impressionò la litigiosa colonia di studenti russi: confessò di non avere dimestichezza con le idee socialiste e dunque di non potersi pronunciare su quella questione, ma dichiarò di essere di certo sionista poiché:

2 In realtà dopo l’uccisione dello Zar Alessandro III (1 marzo 1881) il governo zarista istigò una serie di pogrom in tutto il paese, anche a Odessa, ma evidentemente la famiglia Jabotinskij non ne fu lambita. Ad esempio la famiglia del celebre rivoluzionario Martov fuggì da Odessa a Pietrogrado nell’autunno 1881, proprio a seguito dei pogrom. 3 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 7 Il popolo ebraico è gente piena di difetti; i suoi vicini lo odiano, e a ragione. Nell’esilio la sua fine sarà una gigantesca “notte di san Bartolomeo”, e la sua sola salvezza è nell’emigrazione in Terra d’Israele4.

Le sue parole fecero infuriare i marxisti, che erano determinati a combattere gli zaristi e gli altri anti-semiti. Ma Jabotinskij semplicemente ripetè i discorsi sentiti durante la fanciullezza. Il “Comitato di Odessa”, ovvero la Società di Supporto agli Agricoltori e Artigani Ebrei in Palestina e Siria, era stata autorizzata dal Palazzo d’Inverno nel 1890, e ancor prima del Primo Congresso Sionista Mondiale (1897) contava più di 4.000 iscritti. Il tutto anni prima che Jabotinskij aderisse al movimento. La Palestina era ancora un’idea romantica. Egli scrisse una poesia, Gorod Mica (Città di Pace), pubblicata nel 1898 dalla rivista ebraica di Pietrogrado Voskhod (Alba). In essa un vecchio sceicco beduino raccontava come nell’antichità Dio avesse promesso che, dopo secoli di esilio disonorevole, gli ebrei sarebbero ritornati a Sion.

L’Italia Jabotinskij non rimase molto a lungo in Svizzera: non fu mai uno studente regolare, la giurisprudenza non lo attraeva e il tedesco non gli piaceva. Nell’autunno del 1898 il suo giornale gli permise di spostarsi a Roma. Era un posto inusuale, non vi erano in Italia gruppi di studenti russi, noti per lo spirito gregario e lo stare insieme a chiacchierare, ma Jabotinskij allora non era un politico e non aveva interesse a crearsi una compagnia. Egli amava imparare nuove lingue; aveva già studiato il latino e si mise a imparare l’italiano sei mesi prima di partire per Roma. La città era economica, e per chi conosceva la lingua lo era ancora di più (non c’era da pagare “all’inglese”). Non è esagerato dire che egli si innamorò dell’Italia: in sei mesi divenne Vladimiro Giabotischi, con un ottimo italiano a tutti i livelli. Si dedicò a Dante ma non trascurò i dialetti con cui si imbatteva, e anni dopo poteva esprimersi in dodici di essi. Nessun italiano, disse, l’avrebbe preso per uno della sua provincia, ma tutti erano molto stupiti nell’apprendere che egli non fosse italiano. Giabotischi trovò l’Università di Roma stimolante: seguì le lezioni di Antonio Labriola, il primo accademico marxista in Italia, e presto si convertì al socialismo, pur senza unirsi ad alcuna organizzazione. Né il suo socialismo era incompatibile con il suo sionismo, né vi erano conseguenze pratiche. Egli credeva in quelle idee alla stregua di opinioni letterarie. Manteneva sempre l’atteggiamento dell’intellettuale e non sentiva alcuna urgenza di immischiarsi negli affari italiani. Il suo scarso legame organizzativo con il movimento operaio locale si manifestò attraverso qualche articolo per il quotidiano socialista Avanti!, nel quale difese gli studenti russi dalle accuse di un periodico di destra che li aveva definiti facinorosi e attaccabrighe. Per secoli gli ebrei si sono guardati, come per istinto, dal camminare sotto l’Arco di Tito, memori dei trionfi romani sui prigionieri giudei ricordati dalla raffigurazione sul monumento del candelabro sacro a sette braccia (menorah), prelevato dal Tempio di Gerusalemme distrutto nel 70 d.C. Vladimir guardò la riproduzione naturalmente, ma essa non lo impressionò, così come il vecchio quartiere del ghetto lungo il Tevere. A parte alcuni nostalgici cattolici che identificavano l’emancipazione degli ebrei con la fine del potere temporale del Papa, in Italia non vi era antisemitismo. Al contrario, gli italiani erano orgogliosi che fosse stato il popolo di Roma, guidato nel 1848 dal leggendario repubblicano Angelo Brunetti (detto Ciceruacchio), ad abbattere le mura dell’antico ghetto. Non vi erano discriminazioni sociali o civili nei confronti dei circa 40.000 ebrei italiani. Uno Luigi luzzati, divenne Primo ministro soltanto pochi anni dopo, nel 1910. La questione ebraica non era centrale nell’esistenza di Jabotinskij quando lasciò la Russia, e di fatto scomparve dalla sua mente in Italia. In seguito scrisse di non aver udito la parola “ebreo” per i tre anni trascorsi nella sua nuova “patria spirituale”. Fino agli ultimi giorni di vita fu uno studioso del Risorgimento. Il nazionalismo italiano, in particolare il grande Garibaldi, divenne fino all’ultimo un modello per la sua carriera di sionista.

Ritorno a Odessa Jabotinskij non fu mai povero in gioventù. La famiglia di Khava era molto operosa e dedita agli affari, e l’attività di giornalista (per lo più dei feuilleton) gli permise di far visita alla madre ogni anno

4 Joseph Nedava, Jabotinskij and the Bund, 1973 8 finchè il periodo italiano non terminò, con un viaggio via Venezia e Costantinopoli, nell’estate 1901, per rispondere al servizio militare. Tornò in Russia con un proprio pseudonimo, “Altalena”. Aveva pensato che la parola volesse dire “ascensore”, e quando seppe dell’errore l’idea gli piacque comunque: conosceva se stesso abbastanza bene per sapere di non essere “stabile o costante”. Presto divenne totalmente dedito alla sua intensa interpretazione del sionismo, ma Altalena restò a indicarne per sempre lo spensierato periodo studentesco. Il governo decise di dispensarlo dagli obblighi militari ed egli si stabilì a Odessa. In seguito tornò diverse volte in Italia, per l’attività sionista, e osservò da lontano l’ascesa di Mussolini, ma non comprese mai, o non volle comprendere, perché il governo più o meno liberale di quel paese fosse collassato.

Una interpretazione psicoanalitica L’intepretazione psicoanalitica di un politico, in particolare attraverso la scarsa letteratura a disposizione sulla sua infanzia, è molto difficile. Ma la fissazione orale di Jabotinskij è piuttosto evidente. Khava faceva recitare una quantità di preghiere, e i primi anni di Vladimir furono una sequela infinita di lingue, libri e poesie. Sappiamo inoltre che egli odiava la matematica e fu sempre uno studente indisciplinato: segni chiari di una fissazione orale. Questi individui si interessano agli aspetti della cultura che il loro inconscio identifica con la bocca. Il suo temporaneo vegetarianismo fu un altro segno di questa fissazione. Inoltre egli conosceva le espressioni volgari in ogni lingua, e amava certi ambienti: divenne appassionato di storie poliziesche e western. In seguito, dopo i trent’anni, la sua storia politica (fu il più convinto militarista tra i sionisti) lo portò a diventare una specie di marionetta, che batteva i tacchi e si inchinava profondamente ad ogni incontro. Tali comportamenti esageratamente di maniera sono frequenti in quegli intellettuali che maturano ideologicamente il bisogno di una severa disciplina. Che Jabotinskij dovesse diventare per forza un sionista, data la famiglia e il retroterra di classe, è questione opinabile, ma si può dire certamente che non potè essere altro che uno scrittore e un linguista. La parola fu centrale nella sua vita, dall’infanzia agli ultimi anni. Il Jabotinskij di sessant’anni era ancora il Vladimir di sei. Da adulto Jabotinskij rispose a una serie di domande sulla sua vita privata, in particolare sugli anni giovanili. Non ricordava bene il padre, che era spesso in viaggio per lavoro mentre egli era a casa, e presto fu colto dalla grave malattia. Ma ovviamente la morte del padre ha un effetto psicologico significativo su un bambino di sei anni. Il figlio maschio inconsciamente si augura la morte del padre per poter “avere le attenzioni della mamma”. Da adolescente Jabotinskij non praticò mai la religione ebraica, non pregandò né seguendo gli altri precetti della fede, con una sola eccezione: per far piacere alla madre, nell’anniversario della morte del padre recitava il Kaddish, la preghiera dei morti. Forse la sua puntigliosità in questo caso fu una fissazione, sottoforma di formazione reattiva, del suo amore-odio infantile verso il padre. In generale Vladimir fu molto devoto alla madre, le scrisse sempre, le fece visita di frequente, anche da molto lontano, e celebrava il suo compleanno anche in sua assenza. Il biografo Joseph Schechtman sottolinea che quando morì il figlio primogenito, Milla, le attenzioni della madre si trasferirono sul fratellino Vladimir piuttosto che sulla sorella maggiore Tamar. Ciò non è strano per una famiglia ebrea ortodossa. Per tutti i sionisti, Eretz Israel è “la terra dei padri”, ma nel caso di Jabotinskij egli si dimostrò figlio devoto del sionismo quando fece fare alla madre un viaggio in Palestina dopo la Grande Guerra, mentre egli rimase all’estero dovendo assolvere incarichi per il movimento sionista. Per gli estremisti di destra l’amore filiale è una virtù cardinale, e su questo piano Jabotinskij fu una caricatura della personalità autoritaria.

9 2. Il sionismo russo: tradimento degli ebrei

Attività di Jabotinskij 1901 - 1903 Nel 1901 il regno “cristiano” più a est, la Russia, in realtà era un sistema di dispotismo orientale, fondato sulla burocrazia e l’assassinio. Anche la nobiltà terriera era sottomessa allo strato dei burocrati fedeli allo zar. Il principale nemico del regime erano i populisti o narodniki, i terroristi del Partito Socialista Rivoluzionario, seguiti dai polacchi, dagli armeni e altri nazionalisti, con il crescente problema rappresentato dai marxisti. In tale contesto il giornale borghese di provincia Odesskiya Novosti assunse il 21enne Jabotinskij come editorialista a tempo pieno. Il giovane Jabotinskij non era molto profondo; scriveva articoletti di cronaca cittadina e arte. Il suo salario di 120 rubli al mese era principesco. Si sentiva al massimo della vita, e questo fu il suo guaio: ebbe successo troppo presto. Il suo atteggiamento divenne completamente individualistico: nessuno aveva alcun diritto o dovere. Ognuno doveva essere libero come un uccello, questo il suo immaturo anarchismo borghese, destinato a scontrarsi con la vita reale. Nel 1901 egli pubblicò la sua prima opera poetica, ma oggi non ne esiste neanche una traccia. Pubblicò un’altra opera in versi l’anno successivo: “Non c’è alcun dovere. Tu sei libero. Si accende la tua candela davanti al Desiderio – Il Desiderio è legge”5. La successiva produzione del giovane scrittore fu il poema Povera Charlotte, una glorificazione individualistica di Charlotte Corday, l’assassina del grande rivoluzionario francese Jean Paul Marat. Da Maxim Gorkij fu ritenuto abbastanza valido da essere distribuito attraverso la sua casa editrice, tuttavia Jabotinskij stava iniziando a indisporre l’intellighenzia di Odessa. Quando provò a difendere le sue posizioni al circolo letterario locale, il suo atteggiamento spocchioso suscitò la rabbia degli astanti, e solo l’intervento dei gendarmi lo salvò da una serie di percosse. Tale arroganza non poteva durare sotto la pressione della realtà zarista. Infatti la polizia nel corso delle sue indagini nel 1902 scoprì suoi articoli su l’Avanti. Incapaci di leggere l’italiano,decisero di trattenerlo mentre gli articoli venivano tradotti. Sette settimane di prigione, al termine delle quali le autorità stabilirono che gli scritti non erano di loro interesse, lo resero consapevole che i rivoluzionari italiani erano degli idealisti incompresi. Inizialmente la politica di Jabotinksij si limitò a far rappresentare al Teatro dell’Opera La Juive (L’ebrea), e in tale occasione un sionista gli diede da leggere Lo Stato Ebraico di Herzl e il resoconto del primo Congresso sionista mondiale. Sei settimane prima della Pasqua ebraica 1903, un piccolo pogrom (da pogromit = distruzione, piccolo nel senso che non vi furono vittime) in una città vicina lo indusse all’attività organizzata. Sapendo che lo stesso poteva accadere a Odessa, egli scrisse ai dodici ebrei più ricchi della città chiedendo di promuovere una difesa: nessuno rispose. I burzhua ebrei erano noti per la codardia, sempre preoccupati per il fatto che difendendo se stessi avrebbero avuto problemi con l’autorità e forse perduto i propri averi. Inoltre tutti sapevano che era la stessa polizia a organizzare i pogrom, e i capitalisti non avevano avuto la minima esitazione nell’usare la polizia contro gli scioperanti. Se avessero mobilitato i lavoratori contro i pogromisti avrebbero armato i loro nemici di domani. Ma uno dei destinatari della lettera di Jabotinskij inoltrò la missiva, anonimamente, a un comitato di difesa formato da studenti sionisti, essi lo contattarono ed egli si unì a loro. Nel 1902 comunque non vi furono pogrom a Odessa: la terza sezione dell’Ochrana era decisamente impegnata a preparare una cristiana lezione di terrorismo da servire alla razza deicida a Kishinev, la capitale della Bessarabia.

Il pogrom di Kishinev e l’ebraismo russo Al giorno d’oggi 49 morti, con centinaia di feriti e sequestrati, non fanno notizia. Ma allora, il massacro del 6 – 8 aprile 1903 creò uno shock tra gli ebrei. Fu il primo pogrom con vittime da 20 anni a quella parte, e un esempio classico di come quegli atti avvenissero. Il governo bandì tutti i

5 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 10 giornali dalla provincia tranne uno; in febbraio Pavoliki Krushevan, editore del Bessarabets, iniziò a istigare l’isteria anti-ebraica. Un giovane contadino era stato ucciso e Krushevan scrisse ai suoi lettori che il delitto era stato compiuto dagli ebrei per produrre col sangue il mazzot (pane azzimo) per la Pasqua ebraica. A Pasqua, quando i popolani erano maggiormente in fermento contro gli uccisori di Cristo, gli agitatori dell’Ochrana li fecero ubriacare e li istigarono contro gli ebrei. Il mondo condannò lo Zar e il nuovo ministro dell’Interno, Vyacheslav Kostantinovich von Plehve, per il massacro. Quest’ultimo, rappresentante dell’ala dura alla corte dello Zar, la cui risposta all’opposizione era l’incremento del terrore di stato, in questo caso ordinò alla guarnigione locale, non meno di 5.000 uomini, di non aprire il fuoco. Alla fine il massacro ebbe termine e nei mesi successivi alcuni degli istigatori furono anche processati, per placare le proteste dell’Occidente, venendo tuttavia condannati a pene molto lievi. Ma ciò che fece infuriare la gioventù ebraica non fu tanto la mattanza ma il fatto che gli ebrei non avessero approntato alcuna difesa nonostante le continuate invettive di Krushevan. Essi sapevano che quel pogrom era solo il primo e che avrebbero dovuto rispondere. Le nuove idee erano estranee all’ebraismo russo. La maggior parte era seguace della religione tradizionale, e i rabbini diedero la loro usuale spiegazione dell’accaduto - la volontà di Dio – ma molti membri del ceto istruito, soprattutto i giovani, non accettavano più che i religiosi avessero l’ultima parola. Per alcuni decenni i maskilim (studiosi), borghesi ebrei illuminati, avevano cercato di alzare il livello culturale del popolo, ma senza successo. Ma negli anni ’80 dell’Ottocento due nuove forze erano entrate contemporaneamente nella vita ebraica, e nel 1903 sia il sionismo che il socialismo erano diventati movimenti di massa. Entrambi, in completo antagonismo l’uno con l’altro, facevano appello all’azione da parte del popolo. Seppur minoritari nel mondo ebraico, erano le forze del futuro. Il separatismo sionista fu una variante ideologica “naturale” dell’ebraismo russo. Chaim Weizmann descrisse l’esistenza isolata e alienata degli ebrei russi raccontando la propria giovinezza nel piccolo villaggio di Motol, provincia di Minsk, nelle grandi Paludi di Pripyat della Bielorussia, archetipo della piccola città ebraica (shtetl). Duecento famiglie ebree, un terzo della popolazione totale, circondate da un mare di contadini bielorussi. Essi erano commercianti, e controllavano il commercio di legname, economicamente centrale, dell’ultima grande foresta vergine d’Europa. Erano gli agenti dei proprietari terrieri polacchi, che davano in affitto mulini e distillerie. Ne Il Capitale Marx aveva descritto il ruolo di nazione di mercanti degli ebrei, che vivevano nei “pori della società polacca”. Vi era un importante fattore economico:

..lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non è andato oltre lo stadio inferiore, e di conseguenza le relazioni sociali nella sfera della vita materiale, tra uomo e uomo, e tra uomo e natura, sono a uno stadio altrettanto limitato6.

La loro primitiva posizione politica si rifletteva nel livello culturale. A differenza dei contadini la maggior parte degli ebrei sapevano leggere, ma non il russo o il bielorusso, di cui non vi era letteratura. Weizmann seppe solo poche parole di russo fino all’età di 11 anni7. Si parlava l’yiddish, e quasi tutti gli uomini sapevano distinguere l’alfabeto ebraico. I più abbienti, i cui padri potevano permettersi di tenerli nelle scuole private o religiose fino all’adolescenza, riuscivano a farsi capire in ebraico. La gioventù povera, i capisquadra, i facchini, di solito abbandonavano la scuola e di ebraico sapevano poche frasi o parole. Poche ragazze, anche qui tra le più abbienti, imparavano l’ebraico, e alcune donne erano coinvolte nei pochi rituali ebraici a loro riservati, in particolare il Tseno Ureno, una sorta di versione in yiddish del Pentateuco. Dunque l’yiddish era il linguaggio parlato in casa e di conseguenza “in strada”. E parlando una lingua diversa, essendo differenziati economicamente da contadini, vestendo abiti tipici, con una religione distinta, gli ebrei si configuravano come una casta separata. Anni dopo Jabotinskij li definì “fanatici”…”Noi siamo eletti…senza riguardo per…il mondo esterno. Puah! Verso tutto ciò che è nuovo!”8. La religiosità era arrivata a un livello estremo e migliaia di ebrei facevano a gara in quanto a zelo: “Chi studia il Talmud cento volte non è paragonabile a chi lo studia centouno volte”. La pena era drastica: l’analfabetismo conduce all’abbruttimento personale, e le vecchie case ebraiche erano notoriamente luride: “Due ebrei e un pezzo di formaggio puzzano tre volte” era un vecchio

6 Karl Marx, Il Capitale I, 1867 7 Chaim Weizmann, Trial and Error, 1949 8 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 11 proverbio polacco. Karl Marx non fece che una constatazione quando affermò che “Gli ebrei polacchi sono la più sporca di tutte le razze”9. Il movimento operaio ebraico ai suoi inizi dovette infondere il senso della pulizia tra i suoi membri, insistere affinchè essi lavassero e dipingessero i loro alloggi e dessero ai figli abiti lindi10. Jabotinskij stesso in seguito fece riferimento alla “sporcizia del ghetto”. La lingua yiddish era imperfetta e inadeguata, mancando di molti vocaboli del lessico contadino e industriale. Milioni di ebrei, i chassidim, seguivano i rabbini miracolosi, discendenti di Israel ben Eliaser, Baʿal Shem Ṭov (Maestro del Buon Nome), un taglialegna e mistico del XVIII secolo che cercò di ravvivare la religione talmudica con balli a altre piccole cerimonie spirituali. In questo modo le neonate yeshiva (le scuole talmudiche) si riempirono delle prediche degli studenti che impazzivano dietro a cabale, interpretazioni numeriche delle lettere dell’alfabeto, significati reconditi delle sacre scritture, fantasie sui golem (la versione originaria del moderno Frankenstein, reso vitale con un incantesimo per proteggere gli ebrei) e sui dybbukim, spiriti malvagi che potevano essere esorcizzati solo dalle taumaturgie dei rabbini. La Bibbia, l’ebraismo, i patti eterni tra Dio e il suo popolo – questi erano i luoghi comuni ideologici. Ad ogni Pasqua ebraica e Giorno dell’Astinenza gli ebrei ritualmente intonavano leshono hobo Birusholaim (l’anno prossimo a Gerusalemme). Il sionismo trovò aderenti per la stessa ragione per cui altri movimenti messianici avevano prima avuto successo nel mondo ebraico durante le persecuzioni; esso si basò su ciò che gli ebrei accettavano automaticamente, e che in seguito Freud mise il luce con i suoi concetti universali. Il sionismo derivò dal bagaglio religioso del Super-Io maschile ebraico. Il sionismo fu l’ideologia degli antichi regni ebraici trasformata in teologia e di qui, mutatis mutandis, nella pratica politica dell’età di Cecil Rhodes. Fu l’utopia di una casta perseguitata di fanatici religiosi crematistici. Nella concretezza dell’epoca la misera Palestina, sottomessa ai turchi, non significava nulla per la maggioranza degli ebrei, e anche dei primi sionisti. Dal punto di vista pratico il sionismo per molti non era più che una variante della questua: “Un ebreo che chiede soldi a un altro ebreo per mandare un terzo ebreo in Palestina”. La miseria dell’esistenza spinse i più disperati tra gli appartenenti al popolo eletto non in Palestina ma alla Terra Promessa di fine Ottocento, l’America relativamente tollerante e piena di opportunità lavorative. I figli della classe media risposero alla formazione religiosa cui erano sottoposti in tre modi. Alcuni la rigettarono decisamente. Molti, ma in numero sempre calante, continuarono a riempire le sinagoghe senza fare questioni. Altri cercarono di combinare i due estremi: i rituali ebraici classici erano superati, dicevano, ma potevano e dovevano essere riformati. Il sionismo attecchì tra i membri degli ultimi due raggruppamenti, e per il movimento di massa fu essenziale che vi fossero migliaia di studenti della classe media in grado, sebbene spesso con difficoltà, di conversare in quello che per gli altri ebrei non era altro che la lingua delle liturgie. Sebbene Herzl e i sionisti occidentali contassero sui rabbini per conquistare le masse ortodosse, loro stessi erano liberi pensatori, e Herzl, che si considerava il Cecil Rhodes ebraico, fu attento a dare al suo movimento un carattere che fosse attraente per i potenziali alleati imperialisti. Ma il sionismo russo precedette l’Organizzazione Sionista Mondiale. Hovevei Zion (Amanti di Sion) nacque con i pogrom dell’inizio degli anni ’80. I suoi membri cercarono di tornare alla terra dei loro avi, pur non avendo ambizioni politiche. Quando nel 1897 fu formata l’Organizzazione Sionista Mondiale, essi vi portarono la loro mentalità millenarista e apolitica. Questi amanti della Palestina non furono affatto un’eccezione in un impero dei Romanov attraversato dal fervore religioso. Né quelle poche decine di migliaia di persone (che poi per lo più lasciarono la Palestina) furono qualcosa di nuovo per una Terra Santa che aveva visto ogni varietà di culti, cristiani, islamici ed ebraici (armeni monofisiti, templari tedeschi, villaggi di guerriglieri musulmani circassi, templi bahai eccetera). Entrati formalmente a far parte del movimento di Herzl, gli Amanti di Sion tuttavia erano ancora più propensi al culto piuttosto che all’attività politica.

Il movimento sionista e l’ebraismo russo Prima del massacro di Kishinev i sionisti non presero assolutamente parte all’opposizione allo zarismo11. Sebbene non pienamente legale, il movimento tuttavia era tollerato, e nel 1903 vi erano

9 Neue Reinische Zeitung, 29 aprile 1849. La fonte è la prefazione di Dagobert Runes al libretto intitolato Un mondo senza ebrei, uscito negli USA nel 1959 indicando Karl Marx quale autore. Ovviamente l’ebreo Marx non scrisse mai un opuscolo con quel titolo, pur criticando fortemente l’ebraismo e tutte le religioni in alcune sue opere (n.d.t.). 10 Bernard Goldstein, The Stars Bear Witness, 1949 11 Joseph Schechtman, Zionism and Zionists in Soviet Russia: Greatness and Drama, 1966 12 non meno di 1.572 gruppi locali con approssimativamente 75.000 membri, sebbene la maggior parte di costoro fossero parte del movimento solo formalmente, comprando la tessera nella sinagoga locale. In Russia l’organizzazione era in mano agli ultra-conservatori. Nella sua autobiografia, Trial and Error, pubblicata nel 1949, Weizmann riportò in sintesi un documento che aveva inviato a Herzl nella primavera del 1903:

Il nostro sviluppo, dissi, era bloccato dal posizionamento a destra e dalle inclinazioni clericali della leadership sionista…La gioventù ebraica russa si allontanava da noi perché non voleva avere niente a che fare con il sionismo ufficiale considerato “mizrachi” e piccolo borghese, mentre entro il movimento altre tendenze erano connotate in senso ateo e rivoluzionario12.

Il testo originale era ancora più schietto. I dirigenti sionisti occidentali, in particolare i tedeschi, egemoni culturalmente, demagogicamente cercavano il sostegno dei rabbini ortodossi. Essi, scrisse Weizmann, “fanno affidamento sulla religione come esca”, ma “Ciò condurrà alla catastrofe”. Egli provò a scuotere Herzl dicendo che

La gran parte della giovane generazione contemporanea è anti-sionista, non per desiderio di assimilazione come in Occidente, ma per convinzioni rivoluzionarie…Quasi tutti gli studenti appartengono al campo rivoluzionario.

Weizmann proveniva dalla Zona di Insediamento e ne conosceva i giovani:

L’atteggiamento verso il nazionalismo ebraico è di antipatia, che a volte diventa aspra ostilità. In una piccola città vicino a Pinsk, per esempio, dei giovani hanno fatto a brandelli copie della Torah. Questo la dice lunga…In Europa occidentale vi è una sopravvalutazione dell’influenza e del seguito dei rabbini, che non corrisponde alla realtà.

Egli esortò Herzl: “Non dobbiamo quindi indirizzare la nostra propaganda soltanto verso la piccola borghesia”13. Weizmann aveva la sua Fazione Democratica e voleva che il suo leader mondiale si staccasse dai mizrachi. Egli non era al corrente di ciò che gli storici scoprirono 65 anni dopo, ovvero che Herzl era così profondamente legato all’ebraismo ortodosso da avere segretamente finanziato di tasca sua la prima conferenza mondiale mizrachi. Herzl non voleva assolutamente avere nel movimento sionista una sinistra, neppure moderata; piuttosto il contrario.

Collaborazione tra Herzl e Von Plehve Il 4 giugno 1903 uno studente sionista, Pincus Dashewski, tentò di assassinare Krushevan, e Plehve decise di compiere rappresaglie sul movimento. Herzl si adoperò per ripristinare il precedente status, recandosi a Pietroburgo per incontrare Plehve, l’8 e il 13 agosto. I fatti sono noti attraverso i Diari di Herzl. Il governo russo era preoccupato degli effetti del pogrom di Kishinev sull’opinione pubblica occidentale, ed egli si presentò con una memoria per il ministro. Se i russi fossero intervenuti presso i turchi a supporto del sionismo, e avessero sostenuto l’emigrazione ebraica, sarebbe stato possibile fare quell’annuncio “al nostro Congresso, che si riunirà a Basilea da 10 al 23 di agosto…Ciò nel contempo porrebbe fine a certe agitazioni”14. Von Plehve rivelò le proprie preoccupazioni sulle tendenze che vedeva prendere al sionismo:

Ultimamente la situazione è molto peggiorata, perché gli ebrei stanno entrando nei partiti rivoluzionari. Noi avevamo simpatia per il vostro movimento sionista, finchè si adoperava per l’emigrazione. Voi non dovete giustificare il movimento con me. Vous prechez a un converti. Ma dalla conferenza di Minsk15 in avanti, abbiamo notato un changement des gros bonnet. C’è meno dibattito sul progetto sionista in Palestina di quanto non ve ne sia sulla cultura ebraica, l’organizzazione e il nazionalismo. Questo non ci soddisfa. Abbiamo notato in particolare che i vostri dirigenti in Russia…in realtà non obbediscono al vostro comitato di Vienna.16

12 Chaim Weizmann, Trial and Error, 1949 13 Chaim Weizmann, The Letters and Papers, 1898 - 1952 14 Theodor Herzl, Diaries, 1895 - 1904 15 Presumibilmente allude al Congresso dei sionisti di tutta la Russia svoltosi a Minsk nell’agosto 1902, autorizzato dallo stesso Plehve per frenare l’afflusso degli ebrei nei partiti rivoluzionari. Vedi oltre pag. 19. 16 Theodor Herzl, Diaries, 1895 – 1904 13

A questa affermazione Herzl replicò: “Aiutatemi a ottenere prima la terra e la rivolta finirà. E anche le defezioni verso i socialisti”17. Herzl e von Plehve si scambiarono delle lettere. I russi annunciarono formalmente in termini vaghi il loro appoggio al sionismo, a condizione che il movimento nella Russia zarista si limitasse all’emigrazione e non facesse nulla in difesa dei diritti nazionali all’interno dell’impero18. Al suo ritorno Herzl accluse a Plehve copia una lettera che egli aveva appena scritto a uno dei Rothschild:

La situazione potrebbe considerevolmente migliorare se i giornali pro-ebrei smettessero di usare un tono così odioso nei confronti della Russia. Noi dobbiamo provare a lavorare affinchè ciò accada nel prossimo futuro19.

Subito dopo gli incontri con Plehve, il leader sionista arringò i seguaci russi chiedendo che evitassero di scontrarsi con l’autorità costituita sulla questione dei diritti degli ebrei. Soprattutto, dovevano evitare i partiti socialisti:

In Palestina…la nostra terra, un tale partito vivacizzerebbe la nostra vita politica – e dunque avrebbe la mia stessa adesione. Mi fate un’ingiustizia se dite che sono contrario alle idee di progresso sociale. Ma ora, nell’attuale situazione, è troppo presto per occuparsi di queste cose. Esse ci sono estranee. Il sionismo chiede un coinvolgimento totale, non parziale20.

Herzl stava imbrogliando i suoi seguaci: l’anti-socialismo fu sempre organico alla sua strategia diplomatica. Egli si rivolse al Kaiser tedesco con le stesse argomentazioni portate a von Plehve: sosteneteci, e le masse ebraiche verranno con noi invece di seguire i socialdemocratici. Sapeva che nessuno stato capitalista voleva una Palestina socialista: né lo volevano i Rothschild, né gli altri ricchi ebrei che Herzl provava a far entrare nel movimento, né egli stesso. Il 3 settembre, dopo il Congresso, Herzl scrisse a Plehve per dirgli che grazie all’aver potuto annunciare il supporto russo al sionismo egli era riuscito a zittire la discussione sulle “note dolenti”. Proseguì aggiornando Plehve sul dibattito in corso nel movimento sulla proposta inglese di una parte dell’Uganda (un’area oggi in territorio kenyano) come nachtasyl (rifugio notturno) per gli ebrei in sostituzione della Palestina. I sionisti russi non mostrarono interesse a quell’eventualità: per motivi religiosi volevano la Palestina e nient’altro. Disse a Plehve che aveva discusso della questione Uganda / Palestina coi rivoluzionari russi, e si inventò che i rivoluzionari preferivano la Palestina. La frottola aveva lo scopo di incoraggiare gli zaristi a un maggiore impegno per dare ai sionisti la Palestina. La vera storia dell’incontro di Herzl coi rivoluzionari è molto più bieca. Durante il Congresso Herlz ebbe un incontro riservato con Chaim Zithlovskij, dirigente del Partito Socialista Rivoluzionario. Nel febbraio 1915 Zithlovskij scrisse per la prima volta di questa strana conversazione. Herzl gli aveva detto che:

Sono appena stato da Plehve. Ho avuto la sua promessa che entro al massimo quindici anni egli ci procurerà una concessione per la Palestina. Ma a una condizione: gli ebrei rivoluzionari devono cessare la loro attività contro il governo russo. Se fra quindici anni, a partire dalla data dell’accordo, Plehve non avrà fatto la concessione, essi saranno liberi di fare ciò che ritengono necessario.21

Zithlovskij scrisse che l’assurda proposta gli fece una tale impressione da ricordare l’intera conversazione parola per parola. Egli rispose all’offerta di Herzl con il massimo disprezzo:

Tra noi ebrei rivoluzionari, anche tra i più nazionalisti di noi, non vi sono sionisti, e non crediamo che il sionismo possa risolvere i nostri problemi. Il trasferimento del popolo ebraico dalla Russia e Eretz Israel è secondo noi un’utopia, e per un’utopia noi non rinunceremo all’obiettivo che ci

17 ibidem 18 Amos Elon, Herzl, 1975 19 Theodor Herzl, Diaries, 1895 – 1904 20 Amos Elon, Herzl, 1975 21 Vladimir Medem, From my Life, 1923 14 siamo dati: la lotta rivoluzionaria contro il governo russo, che condurrà a sua volta alla liberazione del popolo ebraico.

Zithlovskij disse a Herzl che l’Organizzazione di Combattimento Socialista Rivoluzionaria stava già programmando l’uccisione di Plehve, e Herzl alla fine capì che il suo piano di sedare la rivoluzione russa era una fantasia. Fece promettere a Zithlovskij di non rivelare ad alcuno quella conversazione, ma come vedremo subito la voce si sparse immediatamente. Zithlovskij nel 1915 disse di Herzl:

Era, in generale, troppo fedele alle autorità vigenti (come è proprio di un diplomatico che deve avere a che fare con l’ordine costituito) per essere interessato ai rivoluzionari e includerli nei suoi calcoli…Fece il suo viaggio non per intercedere per il popolo di Israele e suscitare compassione per noi nel cuore di Plehve. Lo fece come un politico che non dedica se stesso ai sentimenti, ma agli interessi…La “politica” di Herzl è costruita sulla pura diplomazia, e si basa sulla ferma convinzione che la storia politica dell’umanità è fatta da poche persone, pochi dirigenti, e che quanto concordato tra costoro diviene il contenuto della storia.22

Reazioni ebraiche alla collaborazione di Herzl Gli incontri di Herzl con gli zaristi non furono bene accolti dal popolo ebraico. Gli antisionisti della sinistra semplicemente videro in lui un traditore, ma anche la WZO non approvò l’improvvida avventura e al Congresso di Basilea del 1903 fu concordato di non affrontare quella questione. Solo un delegato parlò in difesa dell’incontro tra il leader sionista e il macellaio di Kishinev: Jabotinskij. Egli sostenne che fosse vitale separare la tattica dall’etica e difese la linea di Herzl per la chiusura di ogni spazio alle fazioni sioniste socialiste. Ne nacque un pandemonio e Herzl dovette salire sul palco per farlo scendere23. Herzl ebbe ragione ad andare da Plehve, e così Jabotinskij nel difenderlo? Weizmann diede un giudizio abbastanza corretto in Trial and Error:

Io…credetti che il passo non fosse solo umiliante, ma completamente privo di senso…un’insensatezza non poteva avere un seguito…Nulla naturalmente scaturì dalle “cordiali” conversazioni di Herzl con von Plehve, nulla tranne la disillusione e un più profondo scoramento, e più profonde divisioni tra i sionisti e i rivoluzionari.

Il piano di Herzl prevedeva di comprare la Palestina dai turchi in cambio della copertura del debito estero della Sublime Porta24. Convinto monarchico, egli si doleva del fatto che il mondo cristiano per motivi religiosi non avrebbe mai accettato una monarchia ebraica. Egli pensava a una repubblica aristocratica, sul modello di quella dei Dogi veneziani; nei suoi diari si riferisce al sogno di far sposare le figlie delle migliori famiglie del nuovo stato con membri delle dinastie d’Europa. Insistette che i delegati al Primo Congresso sionista mondiale vestissero con abiti formali, affinchè l’evento fosse preso “sul serio”. Per lui l’ “Alta Politica” era tutto. E fu convinto sin dal giugno 1895 che “Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più fidati, e i paesi antisemiti i nostri alleati”25. Oggi anche i suoi biografi più filo-sionisti lo vedono come un incorreggibile snob. Jabotinskij lo sostenne al Congresso perché ne condivideva il medesimo elegante machiavellismo, e si dichiarò incapace di comprendere

…le critiche, pungenti ad arte, alle visite e alle strette di mano, e tutte queste domande se sia o no ammissibile e necessario inviare telegrammi di saluto al Sultano o recarsi a Pietroburgo26.

Da un punto di vista formale aveva ragione; molti sionisti approvarono il tentativo di Herzl di ottenere la protezione di Abdel Hamid II, nonostante il fatto che il Sultano fosse responsabile del massacro di decine di migliaia di armeni, ben di più degli ebrei uccisi dallo Zar Nicola II. I sionisti, come molti popoli trovavano più ammissibile fare amicizia con un assassino di popoli altrui

22 Vladimir Medem, From my Life, 1923 23 Samuel Portnoy, Vladimir Medem: the Life and Soul of a Legendary Jewish Socialist, 1979 24 L'accesso al palazzo del Gran Visir a Costantinopoli, il luogo dove il sultano teneva la cerimonia di benvenuto per gli ambasciatori stranieri. 25 Theodor Herzl, Diaries, 1895 – 1904 26 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 15 piuttosto che con il proprio massacratore. Jabotinskij diede una sua personale interpretazione del motto del suo eroe Giuseppe Mazzini “Noi faremo l’Italia anche uniti col Diavolo”27, e affermò: “Nel lavoro per la Palestina mi alleerei anche con il Diavolo”. Il motto di Mazzini era diventato un assioma per i nazionalisti moderni, ma la lettura di Jabotinskij andava oltre in quanto i nazionalisti spesso aggiungevano “contro il nostro peggior nemico”. Ma Herzl e Jabotinskij volevano più di una nazione, essi volevano una colonia. Nell’ “alta politica” imperialistica i Romanov erano nemici degli ebrei, ma potenziali alleati dei sionisti. Herzl e Jabotinskij non avevano dubbi su chi fosse il loro peggior nemico: i socialisti.

Jabotinskij e l’autodifesa ebraica Si sa poco dell’attività specifica di Jabotinskij in difesa del sionismo nel periodo 1903 – 07; vi furono pochi episodi, al di là degli atti coraggiosi di alcuni studenti. La loro classe di appartenenza, la piccola borghesia ebraica, allora aveva una fama di debolezza fisica e scarso coraggio. Non sapendo dove avrebbe avuto luogo il successivo pogrom, era impossibile dislocare le armi a disposizione. L’avversione per i socialdemocratici significò per la difesa sionista l’assenza di legami con i larghi strati di lavoratori ebrei, e nessun potenziale alleato tra i socialisti non ebrei. La difesa sionista era più un atto di volontà da parte dei giovani che un fatto reale. Nel 1906 Jabotinskij concluse che:

Autodifesa: difficilmente se ne può parlare sul serio. A conti fatti, non abbiamo ottenuto nulla di buono. All’inizio l’effetto sorpresa ha prevenuto alcuni pogrom, ma ora che hanno visto l’autodifesa in atto e hanno visto quanti ebrei e quanti pogromisti sono stati uccisi, chi la prende sul serio? Quando vogliono, iniziano un pogrom e uccidono quanti ebrei vogliono, e l’autodifesa non serve a nulla. Naturalmente serve come consolazione morale. Ma il risultato pratico tende a zero e rimarrà zero, ed è ora di riconoscerlo pubblicamente, per non infondere vane speranze nel popolo28.

E’ difficile trovare qualcosa di apprezzabile nelle attività di Jabotinskij durante gli anni 1903 – 08, il periodo della prima Rivoluzione russa. La traduzione del poema di Chaim Bialik Nella città del massacro proprio nel corso dei pogrom non è cosa degna di grandi encomi. Alcuni atti di Jabotinskij devono inevitabilmente apparire strambi a ogni serio studente della rivoluzione russa. Che lo Zar fosse il male e che il popolo avesse ragione a volerlo rovesciare è cosa generalmente riconosciuta. Inoltre certi eventi hanno un valore universale: l’opera di Eisenstein sulla corazzata Potemkin29 è stata riconosciuta come un capolavoro fin dall’inizio. Gli storici successivi, pur avendo riconosciuto la debolezza dei leader rivoluzionari dell’ammutinamento, non hanno cercato di mettere in discussione che la loro azione fu altamente meritoria. Jabotinskij tuttavia criticò l’ammutinamento. Elias Giber, suo precoce e devoto seguace, scrive che quando il 27 giugno 1905 i marinai della nave, che transitava nella rada di Odessa, insorsero per il cibo avariato:

..i circoli rivoluzionari organizzarono raduni di agitazione. Jabotinskij partecipò a uno di essi, nella redazione di un giornale. Subito si lasciò andare in una vibrante protesta; criticò l’ammutinamento come prematuro e disse che con il suo fallimento vi sarebbe stato un pogrom. Le sue parole furono ignorate. Pochi giorni dopo in effetti ci fu un piccolo pogrom, ma l’intellighenzia ebraica fu offesa da quella che considerava arroganza da parte di Jabotinskij e troncò i rapporti con lui30.

La critica di Jabotinskij alla rivoluzione ci allontana da lui e ci conduce a esaminare i suoi antagonisti nella sinistra russa ed ebraica, poiché è la loro lotta anti-zarista che determinò nell’immediato e nel breve periodo il destino dell’ebraismo, della Russia e anche di tutta la civiltà moderna.

27 In italiano nel testo. 28 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 29 L’ammutinamento della corazzata Potemkin è uno dei più importanti episodi della Rivoluzione russa del 1905. Nel 1925 il regista sovietico realizzò un film di grande successo propagandistico e valore tecnico per l’epoca. 30 Elias Gilner, War and Hope: A History of the Jewish Legion, 1969 16

Il marxismo, il Bund e il sionismo socialista Il marxismo si era inizialmente diffuso tra i russofoni, ma i giovani ebrei furono i primi tra le nazionalità oppresse ad adottarlo. I lavoratori dei vasti bassifondi ebraici di Varsavia e delle altre città del vecchio regno polacco-lituano erano i proletari più acculturati dell’impero. La loro povertà, l’oppressione nazionale e la generale oppressione zarista furono combustibile naturale per il focoso movimento rivoluzionario russo. L’intellighenzia ebraica radicale, che parlava correntemente il russo e il polacco, spesso sceglieva la lingua che maggiormente le dava possibilità di contatti. Tutti i socialisti coerenti si resero conto che la propaganda andava condotta nella lingua del popolo, e per questo venne fondata la Algemeiner Yiddisher ArbeterBund in Polin, Lite und Rusland (Unione dei Lavoratori di lingua Yiddish di Polonia, Lituania e Russia), meglio nota come Bund. Quasi subito essi si diedero una forte impronta nazionalista, proclamandosi l’unica organizzazione socialista ebraica di tutto l’Impero. I membri del Partito Operaio SocialDemocratico Russo accoglievano i lavoratori ebrei, ma rifiutavano le idee separatiste del Bund. Il marxismo è una guida per la lotta rivoluzionaria, e per un bisogno di unità i marxisti rifiutano tutto ciò che divide i lavoratori senza motivo31. Ove i singoli ebrei parlavano la lingua del popolo intorno a loro non avevano alcun bisogno di unirsi a gruppi ebraici specifici. E anche una sezione di propagandisit yiddish doveva attenersi strettamente alla lotta generale. Nella Russia zarista vi erano almeno 192 nazionalità e l’Ochrana usava i tradizionali antagonismi tra le nazioni per dividere i lavoratori, mettendo i cristiani contro gli ebrei, o i tatari musulmani contro gli armeni nei campi petroliferi di Baku. L’esperienza insegnò ai socialdemocratici a vedere il nazionalismo come una distrazione, un’espressione della coscienza della piccola borghesia, che dovunque porta con sé i valori obsoleti e la limitatezza delle forze dominanti nella sua società. I bolscevichi e i menscevichi furono pienamente concordi nella loro diagnosi del bundismo. Georgij Plechanov, Vladimir Lenin e gli altri russi furono pienamente supportati dagli ebrei socialisti più in vista, soprattutto i giovani leader mescevichi Julius Martov, già fondatore del Bund, e Lev Trockij. Essi non tollerarono minimamente il sionismo, che ritenevano intrinsecamente rivolto ai piccolo- borghesi. Raramente vi ebbero direttamente a che fare. Solo Trockij partecipò una volta a un Congresso Sionista Mondiale, a Basilea nel 1903, quando si trovò a passare per quella città. Il sionismo aveva poco seguito tra i lavoratori ebrei, a parte le attività commerciali “ebraiche” più arretrate, ad esempio i macellai kosher e simili. Ma il Bund era una spina nel fianco, così come gli altri gruppi socialisti che cercavano di conciliare il marxismo e il nazionalismo, perciò i marxisti, in particolare Lenin furono spinti a definire scientificamente i concetti di marxismo, nazione e nazionalismo. Lenin è universalmente riconosciuto quale straordinario scrittore: prolifico (le sue opere comprendono oltre 40 volumi) ma con errori rari e limitati. Era appassionato della verità, particolarmente la realtà della lotta sociale, e anche gli storici borghesi spesso hanno molto rispetto per la sua figura. L’Unione Sovietica da allora ha avuto una grande e spesso bieca evoluzione sulla questione ebraica, come su altre questioni. Ma nessuno, salvo gli inevitabili detrattori, osa affermare che Lenin fosse minimamente anti-semita o ostile ai non russi. Si dice che non tollerasse neanche le più innocenti battute umoristiche a sfondo etnico. Una volta al potere egli represse spietatamente l’antisemitismo, e dopo la guerra civile le associazioni ebraiche americane di beneficenza cooperarono coi sovietici per ricostruire le devastate comunità ebraiche in Ucraina. Poichè l’epoca in questione segnò il declino dei vecchi imperi, forse era inevitabile che le lotte delle nazioni oppresse dessero ciascuna al proprio nazionalismo una patina gloriosa, illusione invariabilmente fugata dalla realtà degli stati nazionali scaturiti dalle rovine di quegli imperi. Lenin non cadde mai in questo auto-inganno: per lui ci poteva essere solo una posizione sul rapporto tra marxismo e nazionalismo:

Il marxismo non può essere conciliato con il nazionalismo, anche con la forma più corretta, pura, raffinata e civilizzata di quest’ultimo. Al posto di qualunque forma di nazionalismo, il

31 (n.d.t.) In realtà sulla questione nazionale e la questione ebraica il dibattito tra i marxisti fu lungo e complesso, se solo si pensa che il Bund fu tra i fondatori del POSDR e tra i due gruppi ci furono scissioni e ricomposizioni almeno fino al 1912. Qui e oltre il trozkista Brenner è troppo schematico, omettendo di menzionare e analizzare la soluzione bundista alla questione ebraica: l’autonomia nazional-culturale non territoriale, idea respinta Lenin il quale nel definire una nazione dava per scontato il suo dover essere concentrata in un unico territorio. (n.d.t.) 17 marxismo pone l’internazionalismo, la mescolanza di tutte le nazioni in una superiore unità, un’unità che cresce sotto i nostri occhi con ogni miglio di nuova ferrovia che viene costruito, con ogni trust internazionale e ogni associazione di lavoratori…Combattere tutte le oppressioni nazionali? Sì, naturalmente! Combattere per ogni tipo di sviluppo nazionale, per la “cultura nazionale” in generale? Naturalmente no. Lo sviluppo economico della società capitalistica ci mostra innumerevoli esempi di movimenti nazionalisti immaturi nel mondo, esempi di formazione di grandi nazioni a partire da nazioni più piccole, o di dissoluzione di queste piccole nazioni, o di assimilazione di nazioni. Lo sviluppo della nazionalità in generale è il principio del nazionalismo borghese; e dove c’è il nazionalismo borghese, ecco i conflitti nazionali. Il proletariato, lungi dal considerare cosa propria lo sviluppo nazionale di ogni nazione, al contrario difende le masse da tali illusioni…Il proletariato non può sostenere alcuna forma di nazionalismo32.

La questione dell’ebraismo mondiale era chiusa in partenza. Gli ebrei non avevano un territorio, una lingua o un’economia, i requisiti minimi per la nazionalità. Lenin fu sprezzante con il nazionalismo ebraico:

Gli ebrei in Russia e Galizia non sono una nazione; sfortunatamente (non per colpa loro ma per colpa dei purishkevici33) sono ancora una casta…E’…solo la reazione ebraica filistea, che vuole girare all’indietro la ruota della storia, e farla muovere non dalle condizioni in Russia e Galizia verso quelle a Parigi e New York, ma all’incontrario; sanno solo strillare contro l’ “assimilazione”34.

La misura dello sprezzo per il sionismo da parte del POSDR fu ben riassunta dal menscevico Plechanov quando definì i bundisti “sionisti col mal di mare”35. Ma sebbene egli ritraesse in tale vivido modo il settarismo del Bund, vi era una grande differenza tra i due movimenti. Il Bund non aveva interesse nella lingua ebraica né nella Palestina, che derideva in quanto “dos gepeigerte land” (la terra defunta). Il loro concetto centrale era il dawkeit (siamo qui). Gli ebrei erano pienamente impegnati a combattere per i propri diritti “qui”, non avrebbero dovuto emigrare né in America né in Palestina per ottenerli. Il Bund non solo condivise il giudizio socialdemocratico sul sionismo (un’utopia reazionaria) ma fu anche il primo a sperimentarlo come forza controrivoluzionaria. Anche se erano dei settari nazionalisti sulla questione della lingua yiddish, riconoscevano il bisogno di unità coi lavoratori polacchi e russi nella lotta sindacale e nella lotta politica anti-zarista. Presto ebbero a che fare con gruppi di sionisti che cercavano di conciliare il socialismo e il sionismo. Poalei Zion (Lavoratori di Sion) parlava di socialismo in Palestina ma rifiutava di unirsi ai non ebrei nella lotta per il socialismo in Russia: quella era assimilazione, “combattere battaglie altrui”. I lavoratori non ebrei sarebbero sempre stati antisemiti: Poalei Zion denunciava il programma del Bund come utopico, sostenendo che i lavoratori ebrei per lo più non erano proletari industriali ma artigiani, incapaci di condurre una vera lotta di classe nella Diaspora. Solo nel proprio stato gli ebrei avrebbero potuto creare, da zero, un vero proletariato. Nel 1901 il Bund escluse i sionisti dai propri sindacati, dicendo che dal momento che vivevano in Russia e non in Palestina questi discorsi oggettivamente erano un tradimento di classe: i lavoratori ebrei in Russia erano infatti chiaramente coinvolti nella strenua lotta contro i capitalisti e la polizia zarista.

La Rivoluzione del 1905 e le Dume In quello stesso periodo un funzionario dell’Ochrana, Sergej Zubatov, giunse alla conclusione che non fosse possibile schiacciare completamente l’opposizione al regime. Perciò decise di formare una rete di agitatori, rinnegati e spie per dividere e disgregare il crescente ma ancora giovane

32 Lenin, Commenti critici sulla questione nazionale, 1913 33 Pogromisti seguaci di Vladimir Purishkevich (1870 – 1920). Zarista ferocemente reazionario, durante la Rivoluzione del 1905, contribuì ad organizzare le Centurie Nere come milizia protofascista per aiutare la polizia nel reprimere le agitazioni poppolari. Dopo il Manifesto di Ottobre che concedeva la Duma fu uno dei fondatori della reazionaria Unione del Popolo Russo. 34 Lenin, Commenti critici sulla questione nazionale, 1913 35 Dunque mal disposti ad attraversare il Mediterraneo per recarsi in Palestina. Checchè ne pensasse Plechanov in realtà il Bund e i menscevichi mantennero sempre stretti legami, e allo scoppio della Prima guerra mondiale mentre Plechanov appoggiò lo zarismo i “sionisti col mal di mare” si schierarono contro, con Lenin e Martov (n.d.t.). 18 movimento di massa antizarista. Il suo agente più famoso, padre Georgij Gapon, provò a indirizzare l’Associazione Operaia di Pietroburgo esclusivamente contro i capitalisti invece che contro l’autocrazia, ma la pressione dal basso lo spinse a guidare centinaia di migliaia di suoi seguaci al Palazzo d’Inverno per denunciare al “piccolo padre” le sofferenze del suo popolo a causa dei burocrati. E così, in quella che passò alla storia come la Domenica di Sangue, il 22 gennaio 1905 quasi mille lavoratori, molti con le icone sacre in mano, furono mitragliati dai cosacchi, liberando i sopravvissuti dalle loro illusioni tradizionali e trasformandoli nei futuri distruttori del regime. Ciò che è noto come il “1905” fu la più grande rivolta popolare dalla Comune di Parigi. Gapon fuggì all’estero e scrisse le sue memorie: la sua carriera a grandi linee può essere ricostruita su tutti i libri di storia della Russia o del comunismo, ma la sua ingenua testimonianza, The Story of my Life, è finita nell’oblio. In essa egli descrisse dall’interno gli stratagemmi del suo mentore, ed elencò alcuni degli altri zubatovschiki:

C’era anche il dottor Shapiro, uno dei leader del movimento sionista. Zubatov apparentemente dava aiuto a tutte queste persone, e io riassumerei la sua politica con la vecchia formula del “divide et impera”. Egli evidentemente tentava di organizzare i lavoratori ebrei sotto le bandiere del sionismo, e provava a staccarli dal partito rivoluzionario, mentre coinvolgeva i lavoratori cristiani in lotte per le rivendicazioni economiche onde separare anche loro dall’azione politica36.

Il dottor Shapiro in realtà era il sionista generale Heinrich Shayevich. Già nel 1900 Zubatov aveva visto che i sionisti erano profondamente contrari alla rivoluzione e aveva consigliato al regime di non sopprimerli37. Nel luglio 1901 una narodnika rinnegata, Manya Wilbushevich, per conto di Zubatov creò a Minsk un Partito Indipendente dei Lavoratori Ebrei con l’aiuto di Joseph Goldberg, membro di Poalei Zion, che scrisse la piattaforma del partito, contenente un attacco al Bund per il suo impegno in questioni politiche estranee alle lotte economiche dei lavoratori38. In novembre i membri di Poalei Zion tennero una conferenza a Minsk39, e la Wilbushevich scrisse una trionfante lettera a Zubatov:

Congratulazioni per una grande vittoria che non mi aspettavo così presto. Il Congresso dei sionisti ha deciso di combattere il Bund. Ora tutti i sionisti ci aiutano. Resta solo da scoprire come fare uso dei loro servigi40.

La Wilbushevich, tramite Zubatov, ottenne da Plehve il permesso di far svolgere un congresso di tutti i sionisti di Russia a Minsk nell’agosto 190241. Shayevich, monarchico convinto, durante il congresso si unì al Partito Indipendente e divenne suo leader a Odessa42. Essi ebbero grande successo a Minsk dove la polizia locale non intervenne quando misero in atto alcuni scioperi non politici, ma a Vilna furono ostacolati da un muro di opposizione operaia. A Odessa, quando il movimento cominciò ad andare oltre il controllo di Shayevich, i lavoratori iniziarono una serie di scioperi. Questo fu troppo per Plehve e nel luglio 1903 egli ordinò loro di farla finita. La Wilbushevich provò ad atteggiarsi a rivoluzionaria pentita, ma ormai l’odio nei suoi confronti in quanto collusa con l’Ochrana era ai massimi, e nel 1904 si trasferì in Palestina ove divenne una delle figure più importanti del movimento sionista laburista43. Come il legame tra i sionisti e Zubatov non bastasse, la diagnosi del Bund sul sionismo come nuovo pifferaio di Hamelin fu confermata dopo il Congresso di Basilea del 1903, quando il resoconto di Zithlovskij sull’incredibile proposta di Herzl arrivò a Vladimir Medem, forse il più deciso oppositore del sionismo nel Bund. Medem aveva incontrato Herzl al Congresso e fu colpito

36 Georgij Gapon, The Story of my Life, 1906 37 Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia: From Its Origins to 1905, 1972 38 ibidem 39 L’incontro di Minsk del novembre 1901, caldeggiato dall’agente di Zubatov, nel quale fu presa la decisione di contrastare le attività del Bund tra gli ebrei, segnò un tappa importante nella crescita di quello che sarebbe stato il futuro movimento sionista laburista in Palestina. Il Bund nel suo Quarto Congresso a Bialistok nell’aprile 1901 aveva ufficialmente affrontato la questione del sionismo e approvato una risoluzione contro di esso. 40 Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia: From Its Origins to 1905, 1972 41 ibidem 42 Ezra Mendelssohn, Class Struggle in the Pale, 1970 43 AA.VV., Encyclopaedia Judaica, 16 voll., 1971 - 72 19 dal contrasto tra il suo aspetto regale (la sua figura fu paragonata al bassorilievo del re assiro Tiglatpileser III) e la sua mancanza di comprensione politica:

Ciò che egli voleva dire al Bund era facile a capirsi: durante la conversazione con Plehve aveva ricevuto l’intimazione che il sionismo avrebbe potuto contare sul sostegno del governo russo a patto che cercasse di sabotare il movimento rivoluzionario dei lavoratori ebrei. Presumibilmente Herzl desiderava svolgere quella particolare missione – un’indicazione della sua profonda incomprensione del Bund!44

La ripugnanza degli ebrei rivoluzionari per il sionismo aumentò durante la rivoluzione. Nell’ottobre 1905 il regime annunciò un’assemblea parlamentare, la Duma, per isolare e sconfiggere lo sciopero generale dei lavoratori che metteva a repentaglio la sopravvivenza dello stesso zarismo. Tutti i rivoluzionari con l’eccezione dei menscevichi georgiani si pronunciarono contro le elezioni, in quanto speravano ancora di abbattere la dinastia. In questo si sbagliavano, vi erano ancora truppe contadine analfabete non coinvolte nell’insurrezione e i generali riuscirono a usarle per sostenere i pogromschiki e per schiacciare le poco armate guardie rosse. Ma lo Zar era ancora debole e dovette concedere lo stesso le elezioni, e nell’aprile 1906 coloro che non avevano aderito al boicottaggio elessero una Duma dominata dai Cadetti, i democratici costituzionalisti, il partito della borghesia liberale. Tra i deputati eletti vi furono dodici ebrei, cinque dei quali sionisti. Sebbene gli ebrei fossero la popolazione maggiormente oppressa dallo zarismo, e dunque avessero maggiormente da guadagnare da una completa vittoria rivoluzionaria, i capitalisti e la piccola borghesia ebraica (ortodossa, assimilazionista e sionista) furono il gruppo nazionale borghese più moderato nella lotta contro il regime45. Non ebbero altro interesse nel mutamento sociale se non riguardo alle restrizioni imposte a loro stessi in quanto ebrei. Molti scrittori ebrei moderni hanno offerto una visione romantica del ghetto, ma gli storici seri approverebbero le affermazioni di Jabotinskij su “la sua sudditanza davanti a un’autorità, la sua mancanza di autonomia, il suo culto del “gevir”46, la sua prontezza a fornire leviti47 per ogni santuario pagano”48. Nel 1906 i lavoratori organizzati si erano emancipati dal servilismo generale ma per la maggior parte la comunità poteva essere descritta come Mendele Moycher Sforim49, il primo maestro letterario dei ghetti, descrisse il suo popolo nel 1891 nella sua commedia Problema a Sion:

Questo è il destino degli ebrei, la loro natura insita da tempo immemore: ogni qualvolta vedono qualcuno con una moneta d’oro, chiunque sia, anche un vitello o un’altra bestia con sembianze umane, questi diventa il loro Dio, e gli si inchinano di fronte, danzano e si agitano davanti a lui e ne glorificano il nome50.

Eletti da una costituente politicamente arretrata, i cinque sionisti ne condivisero completamente il carattere. Per loro il sionismo fu psicologicamente una reazione agli attacchi dei loro rivali cristiani. Anch’essi ora potevano parlare degli antichi fasti del loro popolo; ma sebbene entusiasti a parole, erano dei sionisti “domestici”, non certo tipi da trasferirsi in Palestina. Temevano il socialismo, sapendo che una rivoluzione permanente avrebbe significato la sollevazione delle cooperative contadine, che avrebbero danneggiato gli affari di molti commercianti ebrei. Condividevano anche lo scetticismo shtetl sul fatto che “Ivan”, il comune shagit (il giovane non ebreo), potesse essere un fido alleato degli ebrei. Molto più realisticamente preferirono affidarsi alla loro controparte russa, gli avvocati e i professori cadetti, e molti dirigenti sionisti si affiliarono al loro partito. La linea dei delegati sionisti era già stata ben espressa alla conferenza di Minsk del 1902 da uno di loro, S.Y. Rosenbaum: “Noi siamo più che leali”51. Leali allo Zar!

44 Samuel Portnoy, Vladimir Medem: the Life and Soul of a Legendary Jewish Socialist, 1979 45 Johnathan Frankel, Prophecy and Politics: Socialism, Nationalism, and the Russian Jews, 1862-1917, 1981 46 Dell’uomo ricco 47 I leviti erano una tribù israelitica, addetti alla sorveglianza del tempio sacro agli ebrei. Qui probabilmente si intende nel senso di servilismo. 48 Vladimir Jabotinskij, The Jewish State: The Way to Achieve that Goal, 1931 49 Mendele il Venditore di Libri, pseudonimo dello scrittore ebreo bielorusso Sholem Abramovich (1836 – 1917), capostipite della letteratura in lingua yiddish. 50 Mendele Moycher Sforim, Problema a Sion, 1891 51 Samuel Portnoy, Vladimir Medem: the Life and Soul of a Legendary Jewish Socialist, 1979 20 Il disastro arrivò quasi immediatamente. Lo Zar sapeva che dopo aver arrestato i membri del soviet, il consiglio nato per coordinare le sciopero generale, non aveva nulla da temere dal parlamento di Palazzo Tavriceskij e l’8 luglio, dopo soli 72 giorni, inviò i militari a scioglierlo. I Cadetti gridarono all’oltraggio, e fecero appello al popolo affinchè non pagasse le tasse e rifiutasse di servire nell’esercito. I lavoratori, che non avevano votato per loro, non furono dell’idea di accettare la loro guida, e senza il sostegno delle masse la Duma restò come un’ascia senza manico. Comunque lo Zar comprese che ne aveva bisogno per tacitare le critiche provenienti dall’estero, e indisse nuove elezioni nel febbraio 1907. In quella tornata i menscevichi ritennero che l’ondata rivoluzionaria nelle piazze fosse temporaneamente in ritirata, e parteciparono con propri candidati52. Ottennero 65 seggi, sottraendo una consistente parte di voti ai Cadetti. Solo sei ebrei furono eletti, di cui uno sionista. Lo Zar fu ancor più contrariato per la composizione di questa Duma, e la fece sciogliere nel giugno 1907. Nessun sionista fu eletto alla Terza Duma53: terminò così l’insignificante ruolo del movimento nel parlamento russo. Il sostegno ai cadetti non fu il solo ruolo giocato dai sionisti nel 1905: dietro le quinte Nahum Sokolow, allora editore a Varsavia, e poi presidente della WZO, incontrò il primo ministro zarista, il conte Sergej Witte. Non si sa molto di questi colloqui: essi non sono menzionati né nell’Enciclopaedia of Zionism and Israel né nell’Encyclopaedia Judaica, e Florian Sokolow nell’agiografia del padre li cita appena. Quel che è noto è che iniziarono nell’ottobre 1905, quando Witte entrò in carica, e che Sokolow gli chiese di garantire i diritti degli ebrei e di fermare i pogrom. Witte si giustificò sempre dicendo di non avere il potere di aiutarli. La reticenza sionista verso questi episodi ci induce a supporre che il grosso delle masse ebraiche fossero nelle strade a cercare di rovesciare il regime zarista, mentre Sokolow col cappello in mano si recava dal primo ministro54. Questi non furono gli ultimi contatti diretti dei sionisti coi vertici del regime pogromista. Nel luglio 1908 David Wolffsohn, successore di Herzl alla presidenza della WZO, andò a Pietroburgo per incontrare il Primo ministro Piotr Stolypin e il ministro degli Esteri Izwolskij a proposito della chiusura del braccio finanziario del sionismo, il Trust Colonial Bank. Wolffsohn fu ricevuto con tutti gli onori55. Izwolskij era desideroso di compiacere un ebreo che pretendeva poco da lui, e Wolffsohn e l’antisemita si intesero bene. “Penso di aver fatto di lui un sionista”56 scrisse Wolffsohn. Jabotinskij ebbe un ruolo importante nello sviluppo del “Gegenwartsarbeit” sionista (“lavoro nel presente” nei paesi della Diaspora) durante quegli anni sanguinosi. La sua presenza non passò inosservata alla terza conferenza dei sionisti russi svoltasi a Helsingfors (Helsinki) il 4 – 10 dicembre 1906. Fu là che venne deciso di partecipare alle elezioni, e fu varato un programma che chiedeva un governo democratico con autonomia nazional-culturale per gli ebrei. Ma in politica si pone sempre una questione chiave: come si arriva allo scopo? Gli ebrei erano un misero 4,3% della popolazione: da soli non avrebbero mai ottenuto i propri diritti, ma le scelte di alleanze di Jabotinskij furono oltremodo irrealistiche. Egli si candidò per la Seconda Duma nella provincia ucraina della Volinia, dove gli ebrei erano il 13,24% della popolazione, e dapprima propose di allearsi con i contadini, e se costoro si fossero dimostrati antisemiti di fare un accordo coi proprietari terrieri. Entrambe le categorie si schierarono coi reazionari. Ciò che Jabotinskij non comprese è che alla fine, come accadde nel 1917, alcuni contadini avrebbero rotto con i pogromisti delle Centurie Nere, mentre i proprietari terrieri non lo fecero mai. Sconfitto in Volinia, nell’autunno 1907 si ricandidò alla Terza Duma a Odessa. Un socialdemocratico arrivò primo al primo turno, e Jabotinskij finì terzo su quattro. Poiché i socialdemocratici erano sotto il 50% era necessario il secondo turno. Ma il regime impedì al candidato socialdemocratico di correre al ballottaggio, lasciando in gioco Jabotinskij, il cadetto e

52 Tutte le fazioni rivoluzionarie parteciparono alle elezioni alla Seconda Duma: il POSDR (bolscevichi e menscevichi insieme, riunitisi dopo il IV Congresso dell’aprile 1906) prese complessivamente 65 seggi, il PSR (Partito Socialista Rivoluzionario) 37. (n.d.t) 53 La terza Duma (ottobre 1907) fu l'unica a non essere sciolta dallo Zar e restò in carica per tutto il mandato quinquennale (1907–1912): ciò avvenne perché la maggior parte dei deputati era ottobrista (l'Unione del 17 ottobre era un partito di ideologia conservatrice e riformista moderata) in quanto eletta in maggioranza da nobili, proprietari terrieri, industriali e uomini d'affari, mentre i partiti rivoluzionari furono schiacciati dalla repressione. (n.d.t.) 54 Florian Sokolow, Nahum Sokolow: Life and Legend: 1975 55 AA.VV., Encyclopaedia Judaica, 16 voll., 1971 - 72 56 Emil Cohen, David Wolffsohn: Herzl’s Successor, 1944 21 l’uomo dello Zar. Jabotinskij fu costretto a ritirarsi perché l’opinione pubblica ebraica non avrebbe tollerato la dispersione del voto da parte dei sionisti. Ma tutti questi stratagemmi furono inutili. Solo una forza in Russia avrebbe potuto sconfiggere lo zarismo e dare agli ebrei i loro diritti, e questa forza era quella che alla fine rovesciò davvero il regime: la classe operaia. Ma fino alla fine Jabotinskij si battè con le unghie e coi denti contro il movimento socialista. Schechtman, seguace personale di Jabotinskij sin dai suoi esordi, ripete che il focus principale del lavoro propagandistico di quest’ultimo durante la rivoluzione fu la lotta contro l’assimilazione e il socialismo57. Eglì diffamò la sinistra ebraica: nel novembre 1905 Medem aveva tenuto un discorso sulla situazione rivoluzionaria, affermando che:

Il sangue scorre copioso, la situazione è terribile, ma non bisogna dimenticare che (posso ripetere le parole letteralmente) ‘il sangue è il lubrificante senza il quale la ruota della storia non gira’. Era un pensiero perfettamente legittimo, e banale…un sionista (non so se vero o uno sporco ciarlatano) scrisse che…io presumibilmente avevo detto che il sangue ebraico è il lubrificante della rivoluzione russa…Io pubblicai una smentita…inutilmente…anni dopo la stessa affermazione continua a circolare tramite fonti sioniste58.

Per la precisione fu Aaron Hermoni, un giovane studente, a mettere in giro la diffamazione, ma Jabotinskij vi insistette e per il resto della sua vita non smise mai di ripetere quella bufala. Ancora nel 1940 diceva ancora che “In Russia ci fu un rivoluzionario ebreo che enunciò la nota frase: ‘Il sangue ebraico è il meglio per oliare la ruota del progresso’”59. Non i bolscevichi o i menscevichi, coi quali poco ebbe a che fare nella Zona, bensì il Bund fu il bersaglio preferito di Jabotinskij negli anni prima della Grande Guerra. Nel 1906 egli scrisse un opuscolo, Il Bund e il sionismo, in cui negava l’assunto fondamentale di tutte le correnti rivoluzionarie, incluso il Bund, che l’antisemitismo potesse essere sconfitto dalla rivoluzione:

Tutti i loro atti di coraggio sono vani e i loro sacrifici inutili, perché sia loro che noi verremo cacciati oltre confine, con violenza e disprezzo, come accadeva in Russia prima della rinascita60.

Nell’inverno 1905 Jabotinskij attaccò la sinistra non ebrea in un incontro pubblico a Pietrogrado, accusandoli di non fare abbastanza per proteggere gli ebrei:

Qualcuno ha provato a consolarci dicendo che non vi erano operai tra coloro che ci assassinarono. Forse. Forse non è stato il proletariato a compiere pogrom contro di noi. Ma il proletariato ha fatto qualcosa di peggiore: esso ci ha dimenticato. Che è come compiere un pogrom61.

A parte che dimenticarsi degli ebrei non è “compiere un pogrom”, è difficile prendere sul serio queste affermazioni, in quanto i lavoratori cercarono di fermare i pogrom. Trockij, che aveva guidato il soviet di Pietrogrado, in seguito scrisse delle misure difensive messe in atto contro i “teppisti” che aggredivano con guanti di ferro gli ebrei e i rivoluzionari, anche sulla Prospettiva Nevskij. I cosiddetti centoneri avevano in programma di attaccare un corteo funebre di rivoluzionari in onore di alcune vittime del regime. I lavoratori si procurarono pistole, pugnali, tirapugni e fruste di metallo e nelle aree industriali vennero iniziati pattugliamenti notturni. I pogrom non ci furono, i lavoratori erano troppo bene armati e organizzati. In quel caso la polizia, i cosacchi e le truppe scelte riuscirono a cacciare gli operai armati dalle strade, ma non vi furono altri tentativi di pogrom62. E’ stato stimato che nel 1897 in Russia vi erano soltanto 3.322.000 lavoratori nei settori industriale, commerciale e minerario, e solo pochi di più nel 1905. Solo 200.000 aderirono ai soviet, ed erano radicalizzati da poco tempo. La massa dei mugiki fu solo lambita dall’insurrezione, e lo Zar ebbe

57 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 58 Samuel Portnoy, Vladimir Medem: the Life and Soul of a Legendary Jewish Socialist, 1979 59 Vladimir Jabotinskij, The Jewish War Front, 1940 60 Joseph Nedava, Jabotinskij and the Bund, 1973 61 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 62 Lev Trockij, 1905, 1907 22 buon gioco a usare truppe contadine come arma da rivolgere contro gli operai. Ma nessuno potè fermare l’ondata di lotte dalle varie forme nota come “1905”: lo sciopero generale (ottobre), la rivolta operaia a Mosca (dicembre), le rivolte nazionaliste nel Baltico, nel Caucaso e altrove, e una serie infinita di atti terroristici, condotti per lo più da studenti, che eliminarono centinaia di burocrati di stato. La risposta del regime fu soltanto una: la violenza. Pogrom contro gli ebrei, rivolte tatare contro gli armeni, polizia ed esercito contro gli operai. La peggiore serie di violenze contro gli ebrei ebbe luogo nell’ottobre 1905, all’inizio del contrattacco governativo contro lo sciopero generale. Lenin stimò che 4.000 ebrei furono uccisi complessivamente in circa 100 centri abitati, la maggior parte delle campagne della Zona, dove gli operai organizzati erano meno numerosi. Ma anche nella Zona ci furono lavoratori non ebrei risolutamente schierati con gli ebrei, ad esempio a Vilna63. Trockij stima che nel periodo tra la Domenica di Sangue e l’apertura della Prima Duma vi furono 14.000 morti, 1.000 esecuzioni, oltre 20.000 feriti e altri 70.000 incarcerati o esiliati. In Lettonia 749 operai e contadini furono giustiziati nell’autunno del 1905 dai baroni tedesco-baltici. Alcuni vennero sfidati a duello, altri frustati a morte, o impiccati o fucilati. La rivoluzione non deve scuse agli ebrei, e ancor meno ai sionisti. La solidarietà verso gli ebrei fu provata anche in seguito, nel 1917 – 21, quando l’Armata Rossa si scontrò sul campo coi pogromisti foraggiati dall’imperialismo.

Chuzhbina Nel 1908 Jabotinskij lesse una nuova opera in versi, Chuzhbina (Paese Alieno) in un circolo letterario. Parte di essa fu stampata nel 1910 e il testo completo apparve a Berlino nel 1922 a cura di una casa editrice di emigrati russi. Non è mai stata tradotta. Schechtman ci parla di questo interessante lavoro, retrospettiva e prognosi di Jabotinskij sulla rivoluzione russa e sul marxismo. Nel dramma i socialdemocratici di Odessa, in larga parte ebrei, hanno vinto e le classi signorili li omaggiano. Tutti tranne Gonta. Egli dice ai socialisti che benché sembri loro di avere il controllo degli eventi, tuttavia sono “in balìa di un’ondata di fermento nazionale…armati di una spada innocua, tenuta da una mano fiacca, voi siete inutili nella lotta!”. Gonta non ha risposte, solo “il freddo, inesorabile, invincibile, crudele, infinito orgoglio di un Re che è stato privato del suo trono e della sua corona”. Alla fine gli ebrei radicali si rendono conto che il loro messaggio non perviene alle masse russe: scoppia un pogrom, i giovani accorrono alla sinagoga per organizzare una difesa ma naturalmente è troppo tardi: si è perso tempo in inutili teorizzazioni rivoluzionarie. Gonta li ammonisce ancora: “Siamo solo ombre, non c’è nulla da fare per noi, gli eventi hanno il loro corso indipendentemente dalla nostra volontà”. Gonta-Jabotinskij li esorta “a tagliare l’ultimo ponte tra loro e il paese alieno, e a pronunciare un anatema! Non accettare e non concedere nulla!”. Attraverso un “vero” lavoratore russo, Styopa, egli dice ai disorientati ebrei socialisti che ciò che le masse russe vogliono è “una voce russa…che abbia il suono delle steppe e del Volga”64. Gli storici recenti comparano meccanicamente le previsioni di Jabotinskij con ciò che scolasticamente sanno degli eventi russi del 1903 – 08 e oltre. Vengono ricordati il tradimento del leninismo da parte di Stalin e la sua ossessione di essere avvelenato da medici sionisti sul letto di morte. Jabotinskij ebbe dunque ragione, dopotutto? Fu la rivoluzione un’illusione, sin dall’inizio, in particolare per gli ebrei? In realtà non vi è la minima corrispondenza tra le cupe concezioni di Jabotinskij e ciò che accadde. Stalin era georgiano, non russo e neanche ariano. Non vi era nulla in lui “delle steppe o del Volga”. Trockij invece era nato nella steppa ucraina, a Yanovka, vicino Bobrinez, provincia di Kherson. Ancor più importante: i lavoratori russi non abbandonarono gli ebrei, la rivoluzione una volta al potere diede loro completa uguaglianza. Anche dopo la morte di Lenin nel 1924 o l’esilio di Trockij nel 1927, Stalin non fu collegato all’antisemitismo nell’opinione pubblica mondiale. La lingua yiddish si diffuse, e nacque una “Palestina” yiddish, l’oblast di Birobidzan, sul fiume Amur lungo il confine con la Manciuria. Il collasso dei valori rivoluzionari non ebbe niente a che fare coi rapporti russo – ebraici. Era inevitabile che in una Russia isolata e arretrata, devastata da tre anni di conflitto e successivamente da quattro anni di guerra civile e invasioni straniere, gli ideali di uguaglianza non riuscissero ad affermarsi tra decine di milioni di contadini analfabeti e profondamente impoveriti. Molti sopravvissuti subirono un’involuzione spirituale in mezzo alle rovine di un impero decaduto che avevano ereditato. Esigevano indietro qualcosa in cambio del calvario subìto. Temevano che

63 L. Dobroszcki, B. Kirschenblatt, Image before My Eyes. A Photographic History of Jewish Life in Poland. 1864- 1939, 1977 64 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story, 1956 23 la rivoluzione all’estero avrebbe soltanto aggravato i problemi economici del paese. Stalin attirò nel partito molti di costoro, anche ebrei, permettendo che ricevessero lo stesso salario che Lenin dovette concedere agli scienziati borghesi che non erano fuggiti all’estero. Con la politica di uravnilovka (livellamento dei salari) di Lenin, tutti i membri di partito non avrebbero potuto avere un rublo di più della paga di un operaio qualificato – la classica forma di retribuzione dei funzionari di uno stato operaio, ereditata dalla Comune di Parigi del 1871. Trockij aveva riportato di subdole allusioni di Stalin sul suo essere ebreo: “noi combattiamo Trockij, Kamenev e Zinovev, non perché sono ebrei ma perché…”. Ma anche Trockij non ebbe a dire che Stalin discriminasse gli ebrei nella vita sociale. Durante le grandi purghe degli anni ’30 i giornali staliniani spesso riportarono i nomi dei condannati, e molti erano ebrei, e ancora Trockij vide in ciò una capitolazione di Stalin ai rigurgiti di antisemitismo, nel tentativo di trovare una base sociale per il suo regime. Ma il mondo politico in generale, incluso l’anziano Jabotinskij, non considerò l’Unione Sovietica un paese antisemita. Ancora nel 1940, anche durante le trattative Hitler – Stalin, Jabotinskij potè scrivere che:

Negli ultimi dieci anni non abbiamo sentito parlare di alcun segno di antisemitismo in alcuna parte del territorio sovietico, e in base a ciò supponiamo che tuttora non ve ne siano65.

Fu solo nel periodo post-1948 che Stalin, dopo aver contribuito alla creazione dello stato di Israele con le armi dello stato fantoccio cecoslovacco, iniziò a parlare di “cosmopoliti senza radici”. Ma senza minimizzare i suoi crimini si può affermare con precisione che il suo antisemitismo non fu nulla in confronto alla ferocia da lui mostrata nei confronti dei tedeschi del Volga, dei tatari di Crimea e di cinque altre nazionalità che fece deportare in massa dalle loro terre. Le sue invettive sui “degenerati trockisti – titoisti – sionisti” furono parte del suo generale atteggiamento contro i nemici nella società sovietica. Il poema di Jabotinskij non spiegava nulla dell’attuale degenerazione del comunismo, e fu solo una trascrizione sionista del concetto reazionario per cui “più le cose cambiano, più rimangono tali”, nient’altro che un’accusa ai vari movimenti rivoluzionari che lottavano per rovesciare lo Zar e per dare l’uguaglianza agli ebrei e alle altre nazionalità oppresse entro l’impero.

Il razzismo di Jabotinskij e le sue radici La convinzione del Gonta in carne ed ossa, che gli ebrei fossero condannati al ruolo di intermediari negli affari tra le nazioni, era basata sulla teoria della razza. Schechtman sorvola su questo aspetto della filosofia di Jabotinskij, ma esso è presente in altri suoi epigoni, in particolare Joseph Nedava e Oscar Rabinowicz. Nedava è il più schietto, e afferma: “Dall’avvento di Hitler al potere, il termine razza ha assunto un connotato molto negativo, ma numerosi filosofi prima di Jabotinskij sposarono la teoria della razza”66. Jabotinskij credette in quel termine dal “connotato molto negativo”, e in una lettera del 1904 scrisse che:

la fonte del sentimento nazionalista…è nel sangue di un uomo…nel suo tipo fisio-razziale, e solo in quello…le sembianze spirituali di un uomo sono soprattutto determinate dalla sua struttura fisica…Per quella ragione noi non crediamo nell’assimilazione spirituale. E’ inconcepibile, dal punto di vista fisico, che un ebreo nato in una famiglia di pure sangue ebraico…possa adeugarsi alle sembianze spirituali di un inglese o un francese…Potrà essere imbevuto di influssi tedeschi, ma il nucleo della sua struttura spirituale rimarrà sempre ebraico…L’assimilazione spirituale tra popoli di sangue differente è impossibile…Per essere veramente assimilati bisogna modificare il proprio corpo. Bisogna diventare come loro in quanto al sangue…occorre mettere al mondo…in un periodo di molti anni, una numerosa generazione nelle cui vene rimanga soltanto una minima quantità di sangue ebraico…Non ci può essere assimilazione senza matrimonio misto…Tutte le nazioni che sono scomparse (a parte quelle…che sono state sterminate) sono precipitate nell’abisso del matrimonio misto…una condizione di autonomia nell’esilio rischia di condurre…alla completa sparizione della nazione ebraica dalla faccia della terra…Pensate…la nostra prole che vivrà in pace in mezzo a un popolo straniero…In queste condizioni vi sarà naturalmente un aumento dei matrimoni misti…ciò significherà l’inizio dell’assimilazione totale…Senza radici fisiche, i fiori dello spirito sono destinati ad appassire…Ciò segnerà la fine della battaglia del popolo ebraico per la

65 Vladimir Jabotinskij, The Jewish War Front, 1940 66 Joseph Nedava, Jabotinskij and the Bund, 1973 24 propria esistenza nazionale…Possono definirsi “nazionalisti” soltanto coloro che desiderano preservare l’integrità nazionale per l’eternità e a tutti i costi… La conservazione dell’integrità nazionale è impossibile senza la conservazione dell’integrità razziale, e a tale scopo abbiamo bisogno di un territorio tutto nostro…Se voi mi chiedete, con un sentimento di repulsione e rabbia: Ma in questo caso tu vuoi la segregazione a tutti i costi! Io risponderei che non bisogna temere le parole, e la parola “segregazione”. Il poeta, lo studioso, il filosofo…devono isolarsi e rimanere soli con se stessi…non esiste creatività senza segregazione…Anche la nazione deve creare…una nazione creativa ha bisogno della segregazione…nella segregazione creerà nuovi valori…è non li terrà per sé ma li porterà nell’arena internazionale nell’interesse generale, e così la sua segregazione sarà vista con favore dall’umanità67.

Nel 1913, nel suo articolo opportunamente intitolato Razza, egli rispose alla vexata quaestio su cosa fosse una nazione:

Una nazione è rappresentata dal suo proprio spettro razziale, che permea a un grado più o meno elevato la personalità di un suo qualunque membro, al di là e al di sopra delle singole differenti fisionomie individuali. Le nazioni non sono razzialmente pure, sono tutte mescolate, ma alla fine ciascuna di esse porta con sé la propria sostanza, un nucleo di personalità nazionale propria, la peculiarità della prorpia natura fisica e psichica…Un giorno forse la scienza raggiungerà una tale capacità da rendere possibile l’analisi del sangue, o forse delle secrezioni ghiandolari, per definire lo “spettro”, o la “composizione”, di ciascun tipo razziale, mostrandone tutti gli elementi, ad esempio dell’italiano tipico o del polacco medio. Io azzardo l’ipotesi che la maggior parte delle componenti saranno formate dai medesimi elementi, solo in proporzione diversa secondo quanto determinato da Dio e dalla storia…la razza irlandese può contenere gli stessi elementi della scozzese, ma le quantità sono probabilmente ben diverse: di qui la differenza tra i due caratteri nazionali, che nessun osservatore può negare68.

Jabotinskij contestava la nozione marxista di materialismo storico. Riconosceva nelle sue argomentazioni che i rapporti sociali fossero legati alle relazioni economiche, ma in ultima analisi secondo lui la cultura doveva essere ricondotta alla razza:

Data la completa uguaglianza delle altre condizioni (clima, territorio, storia) due “razze” creeranno due tipi diversi di economia…Se i tipi di economia, le sue caratteristiche, l’ordinamento sociale eccetera sono determinati dallo spirito “razziale”, ciò vale ancor più per la religione, la filosofia, la letteratura69.

Egli ribadiva che tutte le categorie usate dagli studiosi per definire l’essenza della nazionalità fossero dal suo punto di vista inadeguate:

Si può dunque affermare: il territorio, la lingua, la religione, la storia comune…tutte queste non sono l’essenza di una nazione ma solo degli aggettivi…l’essenza di una nazione, il suo primo e ultimo elemento di unicità, è rappresentato dalle caratteristiche fisiche distintive, dall’insieme della composizione razziale70.

Ma molti ritenevano che all’epoca le grandi migrazioni stessero di fatto distruggendo l’omogeneità delle popolazioni nazionali. Qui ancora Jabotinskij decise di replicare. A scopo esemplificativo ipotizzò che il futuro del mondo fosse stato il socialismo. In quel caso, diceva, le migrazioni sarebbero fortemente diminuite, poiché ogni nazione avrebbe risolto i propri problemi economici autonomamente. E’ evidente qui l’utilizzo di ogni mezzo per giustificare la sua tesi a priori che le nazioni non devono e non dovranno realmente mescolarsi.

Vi sarà dunque sempre una sola mandria e un solo pastore?...quando qui si esprime il sogno dell’integrazione delle nazioni in un’unica mescolanza, è già possibile affermare con una certa sicurezza: non può essere…In certe condizioni le caratteristiche di ogni specifica nazione

67 Vladimir Jabotinsky, A Letter on Autonomy, 1904 68 Vladimir Jabotinskij, Race, 1913 69 ibidem 70 ibidem 25 possono solo aumentare in purezza e forza, mai il contrario…in questa visione complessiva del futuro non vi è prospettiva di integrazione di culture, ma il contrario: il glorioso fiorire, come non lo abbiamo mai visto, di ogni essenza nazionale in un’atmosfera di pace e tranquillità71.

E’ facile scorgere le fonti del razzismo di Jabotinskij. Il mondo borghese del primo ‘900 era pervaso da teorie darwinistico-sociali sui conflitti biologici tra le razze, e queste idee presto si radicarono anche tra i primi sionisti. In epoca pagana i mercanti e i viaggiatori ebrei facevano conversioni e prendevano mogli non ebree, ma con l’avvento del Medioevo i padri della chiesa cominciarono a perseguitare i rabbini se essi consentivano le conversioni dei cristiani. Per proteggere la comunità, i religiosi talmudici iniziarono a scoraggiare il proselitismo, e alla fine nel senso comune ebraico il matrimonio misto divenne un tradimento della propria religione. Alla gran parte del popolo degli shtetl bastavano questi dogmi religiosi, ma la nuova intellighenzia laica aveva bisogno di qualcosa di più che le vecchie esegesi talmudiche. Fu così che essa fece propria la teoria della razza. In particolare attraverso i sionisti tedeschi come il primo Martin Buber, che avevano abbracciato le teorie del sangue della destra tedesca ed erano divenuti adorateurs de leur sang (adoratori di sangue semitico), e sostenevano che “le più profonde leggi dell’esistenza sono determinate dal sangue; il nostro pensiero più recondito e la nostra volontà sono colorati da esso…L’ebreo fu cacciato dalla sua terra e disperso nelle lande d’Occidente…ma, nonostante ciò, rimane un orientale”72. Per il razzismo sionista, le restrizioni talmudiche alle conversioni erano state provvidenziali, anche se involontariamente, allo scopo di rendere gli ebrei “puri”. Queste “moderne” teorie fornirono la giustificazione a quelli come Jabotinskij per attaccare da un punto di vista laico il marxismo. Se il mondo consiste di gruppi etnici biologicamente separati, ognuno con il proprio suolo nazionale, allora l’assimilazione è soltanto un orpello fittizio, sia per gli ebrei che per i gentili. Stante la correttezza delle teorie razziali di Jabotinskij, tutti gli ebrei radicali avevano torto: non erano i sionisti ad essere oscurantisti, ma erano i marxisti a cercare l’internazionalismo nei loro libri sacri, mentre i sionisti “coi piedi per terra” come Jabotinskij chiedevano coerentemente fedeltà al gruppo nazionale ebraico e ai prodotti della sua mente collettiva. Se le nazioni avevano un proprio territorio specifico, di conseguenza la cultura che gli ebrei avevano acquisito da altri non era e non poteva essere ebraica. Alla conferenza di Helsinki Jabotinskij aveva posto la questioni in modo chiaro: “Nel galuth (esilio) non creiamo alcun valore…un unico filo rosso, che conduce da Sion a Sion, percorre l’intera storia del nostro popolo”73. Di conseguenza ovviamente la lingua yiddish non era veramente ebrea. Nahum Goldmann, poi presidente della WZO, ci fornisce nella sua autobiografia la linea sulla lingua del sionismo russo prebellico: “Russo o ebraico, ma assolutamente non yiddish”74. Jabotinskij fin dall’inizio della sua carriera di sionista organico divenne totalmente devoto all’ebraico, e dal 1910 iniziò a chiedere a gran voce che tutta l’educazione degli ebrei in Russia avvenisse esclusivamente in ebraico. L’oralità aveva già profondamente caratterizzato la sua produzione, ma fu allora, quando la frenesia per l’ebraismo stava aumentando, che la sua fissazione fu fortemente accentuata dai devastanti effetti di un dramma familiare. Il 14 ottobre 1907 aveva sposato Anna Markova Gelperin, sorella di un compagno di scuola; si erano conosciuti quando lui aveva 15 anni e lei 10. Estremamente borghese, lei apprezzava il matrimonio con un giornalista di successo e ben pagato, ma non si interessò al sionismo e non prese parte al movimento fino agli anni ’30. Tuttavia si rese conto fin dall’inizio che il marito Valdimir era già coniugato col sionismo. Nel dicembre 1910 nacque un figlio, Eri, con labbro leporino e palatoschisi. Alla fine le operazioni e la logopedia rimediarono a questi difetti, ma è ragionevole ritenere che la sventura ebbe un effetto raggelante sulla vita sessuale dei genitori, che anche in precedenza era stata fortemente limitata dagli impegni di Vladimir nel movimento sionista. E quando un individuo soffre un’esperienza traumatica nella vita sessuale adulta, c’è la tendenza dell’energia libidinosa a regredire ai precedenti punti di soddisfazione. Jabotinskij non fu un padre ordinario: fu un oratore, un revivalista della lingua il cui maschio primogenito era affetto da labbro leporino e palatoschisi. Suo figlio naturalmente non avrebbe mai parlato la lingua dei suoi avi. L’inconscio di un uomo che aveva già composto dei poemi, per giunta in versi, senza difficoltà creò fantasticamente un dramma familiare: il leader del proprio popolo, che prova a salvarlo dai peccati

71 ibidem 72 Martin Buber, Tre Discorsi sull’Ebraismo, 1911 73 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story, 1956 74 Nahum Goldmann, The Autobiography of Nahum Goldmann: Sixty Years of Jewish Life, 1969 26 del mondo, è improvvisamente punito per i suoi peccati da un terribile stigma sul labbro del figlio, come in una tragedia greca classica. La mente prova a risolvere il problema, e l’inconscio fornisce il mezzo di espiazione. Jabotinskij interviene sulle labbra dei figli di Israele, cancellando anni di yiddish per farli tornare alla loro vera lingua, la Lingua Sacra. L’ossessione di Jabotinskij per l’educazione esclusivamente ebraica dei bambini di Israele si manifestò solo due settimane dopo la sventura, il 29 dicembre, quando fece il suo primo discorso pubblico in ebraico. La sua libido si allontanò marcatamente dalla moglie. Aveva già trascorso lunghi periodi lontano da lei, di settimane o mesi, e avrebbero vissuto insieme solo due anni e mezzo dei primi 15 di matrimonio, e solo cinque dei primi 25 anni. Non ebbero altri figli, né Jabotinskij ebbe altre relazioni in vita sua. Negli ultimi anni giustificava il suo semi-celibato presso i seguaci dichiarando che un leader di un movimento politico dovesse essere, come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto. Non è dunque una mera ipotesi che la nascita di Eri abbia spinto Jabotinskij molto più avanti lungo la china del suo percorso politico. Egli ora era insieme un Mosè e un Aronne al servizio degli ignari figli di Israele, vaganti nel deserto, sordi ai richiami della Terra Promessa, bramosi delle lussurie della Russia. Nel 1911 scrisse I quattro figli, un rifacimento del racconto tradizionale della Pasqua ebraica, in cui un padre risponde alle domande dei quattro figli sull’esodo dall’Egitto. La sua estasi ebraicista è senza limiti – e assurda. Egli dice al lettore di comunicare al suo Unico Figlio come “giorno dopo giorno il nostro orgoglio cresce…quant’è bella la nostra lingua, quanto è grande la felicità di una nazione che padroneggia una tale lingua”. L’assurdità di queste concezioni è evidente se teniamo presente quella che era la situazione in Russia nel 1911 (proprio quell’anno Mendel Beilis75 fu arrestato con l’accusa di omicidio rituale), ma la mente inconscia ragiona sul principio dell’onnipotenza delle parole, basta dire “abracadabra” e presto, come affermava Herzl, “Se lo vuoi, non è un sogno”. La parabola dei quattro figli termina con una nota oscura: il quarto figlio è il Figlio Che Non Sa Parlare, simbolo delle masse inerti, sedute nelle sinagoghe, ma che come abbiamo visto probabilmente rappresenta anche il figlio vero di Jabotinskij, Eri.

Secondo la tradizione si deve dire a questo figlio ogni cosa che egli non chiede. Ma a mio parere è meglio per il padre tacere. Lasciategli solo baciare senza parole la fronte di quel figlio che è il più devoto dei guardiani del Sacro, poiché non parla di esso con le labbra della sua bocca76.

Per due anni Jabotinskij fece una serie di conferenze in tutto il territorio della Zona, ripetendo lo stesso discorso, “Il linguaggio della nostra cultura”, più e più volte, parola per parola, in 50 città e villaggi, a volte tre o quattro volte nello stesso luogo77. Nel 1913 si recò a Vienna per la conferenza dei delegati russi al Congresso Sionista Mondiale, per chiedere l’appoggio al suo programma. Lo ottenne sulla carta (il sionismo senza lingua ebraica è un controsenso) ma la maggioranza dei dirigenti lo criticò. Essi erano uomini pragmatici, e l’educazione in ebraico comportava grosse complicazioni. Non vi erano sillabari per i giardini d’infanzia, né testi di molte materie. Il Congresso votò per la sua risoluzione ma non fece nulla per metterla in pratica. Jabotinskij aveva combattuto per la loshn kodesh (lingua sacra) e fu infine sconfitto nel 1915, a 35 anni, quando fece il suo primo discorso nella vituperata lingua del popolo yiddish78. Alla fine egli adottò regolarmente il dialetto est-europeo, ma all’estero e mai in Russia, che gli sarebbe stata preclusa per i restanti 25 anni della sua vita.

75 Menachem Mendel Beilis, ebreo russo chassidico, fu vittima a Kiev di un’accusa di “omicidio rituale”, e nel 1913 gli venne intentato un processo accuratamente preparato dal Ministero della Giustizia russo. Tra gli esperti dell’accusa anche il polemista Justinas Pranaitis, sacerdote cattolico autore di libelli antisemiti. Difeso da avvocati ebrei e non ebrei, Mendel Beilis venne assolto. 76 Vladimir Jabotinskij, The Four Sons, 1911 77 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 78 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 27 3. Jabotinskij a Costantinopoli

Inevitabilmente Jabotinskij attirò l’attenzione dei dirigenti della WZO. A causa dell’attività giornalistica fece un gran numero di viaggi. Nel 1907 passò un anno a Vienna a studiare la letteratura sul nazionalismo. Parlava bene diverse lingue e sapeva scrivere in altre. Il matrimonio non fu un ostacolo all’attività politica . Ma la più significativa delle posizioni da lui espresse, essendo un convinto oppositore della rivoluzione popolare (almeno per gli ebrei), fu che vi fosse soltanto una via da percorrere per il sionismo: l’intrigo diplomatico coi poteri vigenti.

L’importanza della Turchia Nell’inverno 1908 – 09 egli riuscì a convincere gli editori del quotidiano russo Rus a inviarlo a Costantinopoli. Il colpo di stato militare dei Giovani Turchi naturalmente aveva destato grande interesse in Russia, nemica storica del vacillante Impero ottomano. In quanto sionista, Jabotinskij aveva le sue buone ragioni per volere approfondire lo studio dei nuovi padroni della Palestina. Mentre si trovava in Turchia fece un viaggio fino alla “Terra Promessa”; si trattò della prima visita laggiù e, cosa abbastanza strana per un uomo così coinvolto dal sionismo, il viaggio non ebbe un grande impatto dal punto di vista personale o politico. Egli né parlò marginalmente nei suoi scritti, poiché evidentemente la sua vita emotiva era più legata a Odessa che alla Palestina. La Palestina nel 1908 – 09 non poteva garantirgli un sostentamento come uomo di lettere, certamente non tale soddisfare la moglie Anna, e non potè che fare ritorno a Costantinopoli. Del suo viaggio apprezzò due cose: l’uso dell’ebraico laggiù era un fatto reale, e i coloni non temevano gli arabi, ed erano pronti a difendersi dalle bande che infestavano il paese79. I Giovani Turchi erano desiderosi di convincere il mondo che col nuovo governo vi sarebbero state prospettive migliori per i loro sudditi cristiani, e Jabotinskij non ebbe difficoltà a ottenere interviste per il suo giornale. I suoi articoli impressionarono i leader sionisti russi. Essi lo indicarono quale persona ideale per propagandare la causa sionista nei nuovi circoli dirigenti, e convinsero Wolffsohn ad assumerlo nel giugno 1909 come direttore di una grande campagna di stampa filo- sionista nel Corno d’Oro80.

Herzl e l’Impero ottomano: i massacri degli armeni, la Grecia, l’Italia Fin dall’iniziò Herzl fu consapevole che il destino del sionismo fosse legato al quello degli Osman81. Fu l’evidente parvenza di fase terminale del “malato d’Europa” che diede al sionismo la sua iniziale plausibilità. Herzl contemporaneamente da una parte cercò di convincere i suoi potenziali sponsor europei che il sionismo potesse essere il loro burattino in Palestina nel momento in cui vi fosse una partizione dell’Impero; dall’altra provò a dimostrare a Palazzo Yildiz82 che egli e il suo movimento potevano aiutare lo sgangherato stato turco a risollevarsi. I piani europei dovevano restare segreti se l’abboccamento con la Turchia fosse andato a buon fine, ma Herzl aveva ben poche speranze di riuscire a imbrogliare Abdul Hamid II. La sua proposta ridusse il sionismo al livello di una trattativa commerciale: se Abdul Hamid avesse dato la Palestina ai sionisti come stato vassallo autonomo, l’alta finanza ebraica avrebbe risolto il problema dei creditori dell’impero saldando i suoi spaventosi debiti esteri. Il Sultano non fu minimamente interessato: sapeva che l’autonomia avrebbe potuto condurre a un’eventuale indipendenza. Se l’avesse garantita alla minoranza ebraica in Palestina, difficilmente avrebbe potuto negarla anche alle altre nazionalità cristiane sparse nel suo mosaico imperiale. Tramite un intermediario disse al querelante sionista che gli ebrei risparmiassero il loro denaro:

79 HaShomer (Il Guardiano) la prima milizia di autodifesa ebraica in Palestina, nacque infatti nel 1909. 80 Corno d’Oro è il nome di un braccio di mare che attraversa Istanbul. 81 Il guerriero turco Osman Gazi (poi Osman I) fu il capostipite della dinastia ottomana e il primo sultano dell'Impero ottomano, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. 82 Residenza del Sultano a Constantinopoli a cavallo del secolo. 28 “Quando il mio Impero sarà diviso, forse potranno acquisire la Palestina senza pagare. Ma solo il nostro cadavere potrà essere smembrato, non acconsentirò mai alla vivisezione”83. Con grande anticipo la diplomazia turca comprese che poteva servirsi di Herzl. Essi avevano ciò a cui lui ambiva: avrebbero potuto far leva sulla sua ingenuità, tentandolo con la promessa di concessioni future? Nel 1896 la principale preoccupazione del Califfo84 era che le potenze europee si voltassero dall’altra parte mentre lui continuava a massacrare gli armeni. In confronto ai massacri degli armeni, i pogrom in Russia furono finzioni teatrali. In realtà nei pogrom del 1881 – 84 gli ebrei che persero la vita furono molto pochi85, mentre le atrocità contro gli armeni spesso comportavano migliaia di morti. Si stima che nel 1896 – 97 Abdul Hamid ne mandò a morte tra 80.000 e 200.000. Si poteva indurre Herzl a tacitare i giornali di proprietà di ebrei e i giornalisti ebrei su quello spinoso argomento? Sarebbe stato disposto a indurre gli armeni a porre fine alle loro richieste di libertà e giustizia? Nel giugno 1896 Herzl si recò a Constantinopoli nella speranza di avere udienza da Abdul Hamid. Fu informato da un intermediario che ciò era impossibile: Herzl lavorava per la Neue Freie Presse, che aveva appena attaccato la figura del Sultano. Ma, scrisse Herzl nel suo diario,

avrebbe potuto e voluto ricevermi come amico…se gli avessi reso un servigio. Il servigio che mi chiede è questo: per prima cosa, devo influenzare la stampa europea (a Londra, Parigi, Berlino e Vienna) affinchè affronti la questione armena con un atteggiamento più amichevole verso la Turchia e i turchi; in secondo luogo, devo indurre i leader armeni a sottomettersi a lui, al che subito farebbe loro una serie di concessioni…Dissi immediatamente a Newlinskij che ero pronto a me mettre en campagne86.

Herzl andò a Londra per incontrare Avetis Nazarbekian, leader del partito Henshag, i socialisti rivoluzionari armeni, e disse al suo intermediario:

Voglio mettere in chiaro a questi rivoluzionari che gli armeni dovrebbero fare la pace col Sultano, rinviando le loro future rivendicazioni a quando la Turchia sarà smembrata87.

Il 13 luglio Herzl incontrò Nazarbekian:

Promisi che avrei provato a convincere il Sultano a fermare massacri e arresti, come segno della sua buona volontà. Ma difficilmente avrebbe rilasciato i prigionieri, come Nazarbek chiedeva. Gli spiegai invano che dopotutto i rivoluzionari avrebbero potuto seguire i negoziati di pace senza disarmare, con le armi sul tavolo88.

Il fallimento con gli armeni89 non fece desistere Herzl. Il 17 aprile 1897 la Turchia dichiarò guerra alla Grecia per rappresaglia nei confronti del sostegno di Atene alla lotta di liberazione greca a Creta. Egli colse la palla al balzo e scrisse a Edhem Pasha90 il 28 aprile:

Mi pregio di congratulare Sua Eccellenza per le splendide vittorie delle armate turche. Il desiderio di alcuni studenti ebrei di entrare come volontari nelle forze armate di Sua Maestà il Sultano è un piccolo segno dell’amicizia e gratitudine che noi ebrei sentiamo per la Turchia. Qui e in diversi altri luoghi ho organizzato comitati di raccolta fondi per i soldati turchi feriti.

Egli stava perdendo tempo. Nulla avrebbe potuto convincere i turchi a cedere la Palestina, ma ufficialmente Herzl mantenne sempre una linea apertamente pro-Sultano. Dietro le quinte tuttavia

83 Walter Laqueur, A History of Zionism, 1972 84 La Costituzione ottomana del 1876 - promulgata tre mesi dopo l'ascesa al trono di Abdul Hamid - riconobbe nel Sultano la funzione di “Califfo Supremo dell'Islam”. Brenner dunque usa entrambi gli appellativi. 85 AA.VV., Encyclopaedia Judaica, 16 voll., 1971 - 72 86 Theodor Herzl, Diaries, 1895 – 1904 87 ibidem 88 ibidem 89 Il 26 agosto 1896 un gruppo di rivoluzionari armeni assalì la sede centrale della Banca Ottomana ad Istanbul. Le guardie vennero uccise e più di 140 impiegati vennero presi in ostaggio con lo scopo di guadagnare l'attenzione del mondo internazionale per le rivendicazioni del popolo armeno. 90 Comandante dell’esercito turco nella Guerra greco-turca del 1897. 29 egli non mostrava alcuna lealtà. Il 23 gennaio 1904 incontrò Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, e gli chiese di intervenire personalmente presso Abdul Hamid a sostegno di una Palestina sionista autonoma. In cambio offrì agli italiani aiuto nell’occupazione della Libia:

E alla fine esposi anche il mio progetto per Tripoli: incanalare l’emigrazione ebraica in eccesso in Tripolitania, sotto le leggi e istituzioni liberali italiane. “Ma è ancora casa d’altri” disse. “Ma la partizione della Turchia è imminente, Vostra Maestà”.91

La politica sionista verso i Giovani Turchi L’ascesa al potere dei Giovani Turchi riaccese le speranze di tutti i vecchi sionisti di ottenere i loro scopi con un paziente lavoro presso il governo di Costantinopoli, e l’Ufficio Politico laggiù si diede da fare. Per i funzionari turchi e gli ebrei istruiti fu creato un quotidiano in francese, Jeune Turc, e un settimanale, L’Aurore. Per gli ebrei ladinofoni diedero alle stampe El Judeo, e sebbene l’ebraico non venisse parlato nell’Impero al di fuori della Palestina, per ragioni di prestigio iniziò ad uscire anche un settimanale in ebraico, HaMevasser. Jabotinskij scriveva in francese ed ebraico, e supervisionava l’intera attività editoriale. Teneva incessantemente conferenze. Portò dalla sua parte due deputati ebrei del parlamento turco e le sue attività ebbero successo in tutti gli aspetti eccetto il più importante: i turchi ancora non intendevano concedere la Palestina alla WZO. Gli ebrei sarebbero stati i benvenuti in Macedonia, dove i turchi avevano piacere di vedere nazionalità non cristiane per bilanciare i cristiani romeni, bulgari, greci e macedoni, ma non vi era interesse a incoraggiare l’emigrazione ebraica in Palestina. Gli ebrei che decidevano di trasferirsi laggiù in teoria avevano soltanto un permesso di tre mesi, e ai nuovi arrivati fu vietato l’acquisto di terre. In realtà, le autorità locali chiudevano un occhio, dietro il pagamento di tangenti e l’assicurazione che i limiti di tempo sarebbero stati rispettati. I turchi avevano problemi seri, e il sionismo non era visto come un pericolo reale. I sionisti si trovavano in una sorta di limbo, ma di ciò non si preoccuparono. Potevano sempre contare sulla convinzione che l’Impero si sarebbe progressivamente disintegrato e che essi un giorno sarebbero potuti venire a capo della situazione con le potenze imperialiste subentranti. Jabotinskij ebbe ordine da Wolffsohn di tenere una linea molto morbida coi nuovi governanti turchi, ovvero che il sionismo non voleva dire stato ebraico ma solo immigrazione in Palestina e autonomia culturale. Ma all’improvviso senza avvertire né Wolffsohn né l’ufficio di Costantinopoli Jacobus Kann, un banchiere che amministrava le finanze della famiglia reale olandese e membro dell’Esecutivo della WZO, pubblicò una cronaca in tedesco del suo recente viaggio in Palestina, nella quale riprendeva la linea herzliana del riconoscimento di uno stato sionista autonomo da parte della Turchia. Iniziò a inviare copie ai politici turchi. A Costantinopoli comprensibilmente subentrò il nervosismo: la Turchia era sotto la legge marziale, e se quella fosse stata la linea sionista ufficiale i sionisti colà sarebbero stati in pericolo di vita. L’ufficio di Costantinopoli avvisò Wolffsohn che il capitolo incriminato del libro di Kann doveva essere rimosso (i turchi non si sarebbero accontentati di una mera dissociazione a parole). Wolffsohn, al sicuro a Colonia, non aveva idea del rischio per il gruppo di Costantinopoli, e si rifiutò di prendere provvedimenti. Nel febbraio 1910 il gruppo di Costantinopoli chiese le dimissioni di Kann, e al nuovo rifiuto di Wolffsohn Jabotinskij decise che non poteva continuare a lavorare in quelle condizioni e a maggio si dimise. In realtà i turchi erano alle prese con le mire europee di disgregazione del loro impero, e sentivano di non avere nulla da temere dai sionisti. In Palestina il sionismo era una forza innocua se comparato con la presenza turca e, ancor più importante, il movimento sionista era uno dei pochi elementi non-turchi dell’impero che non fosse in rivolta. Al contrario, nel 1911 la WZO sostenne la Turchia contro l’occupazione italiana della Libia, e così anche nelle Guerre balcaniche del 1912 – 13. Nelle elezioni del parlamento ottomano del 1912 i sionisti in Palestina appoggiarono il partito di governo, Unione e Progresso92. David Ben-Gurion, Yitzhak Ben-Tzvi, Moshe Sharett e Israel Shochat (marito di Manya Wilbushevich) andarono a studiare legge all’università di Costantinopoli con l’obiettivo di entrare in politica in Turchia93.

91 Theodor Herzl, Diaries, 1895 – 1904 92 Walter Laqueur, A History of Zionism, 1972 93 Moshe Pearlman, Ben-Gurion Looks Back, 1965 30 La fine dell’Impero ottomano Il sionismo fu sempre più fedele alla Turchia fino alla cesura della Prima guerra mondiale. Tuttavia Jabotinskij fu unico nel movimento: pur non essendovi traccia che abbia fatto qualcosa per avvertire la WZO, tuttavia sembra che sia stato l’unico leader sionista a comprendere che l’Impero ottomano non sarebbe sopravvissuto a una guerra contro potenze più forti, e questa convinzione divenne la sua linea guida durante la guerra. Nel suo libro successivo, La storia della legione ebraica, descrisse la propria idea della situazione turca:

Non riuscivo a capire come qualcuno potesse avere dei dubbi al riguardo…che la Turchia più di tutti avrebbe pagato un prezzo per questa guerra, ne fui sicuro sin dall’inizio. La pietra e il ferro possono sopportare il fuoco; una capanna di legno brucia, e non c’è miracolo che la possa salvare94.

Jabotinskij fu naturalmente corretto sul destino della Turchia ma, come scrive, si trattava di qualcosa di ovvio; il fatto che le sue previsioni fossero giuste sottolinea non tanto la sua lungimiranza ma l’ottusità del movimento sionista nel suo complesso. Una spiegazione per la follia collettiva forse può essere rinvenuta nella generale tendenza del sionismo ad accettare i poteri vigenti, riflesso automatico di un movimento controrivoluzionario che deve sistematicamente porsi dalla parte degli oppositori dei mutamenti rivoluzionari. Fu l’abilità di Jabotinskij a vedere le implicazioni per il sionismo dell’inevitabile tracollo turco a condurre al primo e più importante successo politico del movimento, la Dichiarazione Balfour, in conseguenza della quale egli salì ai vertici della WZO. Fu così dunque che questa parentesi turca, quasi dimenticata dopo il suo ritorno in Russia e la ripresa della campagna per l’ebraico, si rivelò più produttiva dei milioni di parole pronunciate nelle sue donchisciottesche iniziative. Impariamo qui una grande lezione: il legame del sionismo con la realtà non risiede nella sua presunzione di rappresentare le esigenze delle masse ebraiche, ma piuttosto nella sua utilità, come vedremo, nel ruolo di burattino dell’imperialismo vincitore e delle sue mire in Medio Oriente.

Il crimine della WZO Non è sufficiente dire che il sionismo fu ultra-imperialista nella sua politica filo-turca: vi furono in esso alcuni deprecabili elementi aggiuntivi. Non sarebbe mai accaduto a nessun altro nel mondo ebraico di interferire con la lotta degli armeni; né alcuno avrebbe pensato di sostenere la Turchia in qualunque sua guerra, e alla fine il sionismo non guadagnò nulla da queste azioni. Ciò che fu dimostrato, agli esordi della sua storia, fu l’assenza di limiti di umanesimo che la WZO ritenesse di dover rispettare. Il progresso della causa dello stato ebraico venne per la WZO prima di ogni altra cosa. Migliaia di arabi ed ebrei si sono massacrati inutilmente per questo: ecco la sua più grave atrocità. Vorremmo indicare la linea filo-turca della WZO come uno dei suoi crimini. Di certo qualunque sionista moderno che tentasse di difendere quella linea davanti a un uditorio di armeni verrebbe aggredito. Quell’atto, con la sua chiarezza, ci dice molto di più sul basso livello di integrità morale insito nella filosofia sionista di tutte le disquisizioni sullo stato ebraico che siano mai state scritte.

94 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 31 4. La Grande Guerra: collaborazione con lo zarismo e l’imperialismo inglese

La Prima guerra mondiale e la Legione Ebraica E’ difficile dire con certezza cosa pensò Vladimir Jabotinskij allo scoppio della guerra nell’agosto 1914. Venti anni dopo, nel 1934, scrisse che si era augurato la sconfitta russa. Ma prima, nel 1928, ne La storia della legione ebraica, aveva affermato di essere indifferente a entrambe le parti. Per lui la guerra non iniziò prima del 29 ottobre 1914, quando due navi tedesche aggregate alla flotta turca bombardarono Odessa. L’entrata della Turchia in guerra aveva un significato dal punto di vista sionista. Convinto della fine dell’Impero ottomano, Jabotinskij percepì che l’ora del sionismo era giunta. Il suo schema era piuttosto semplice: avrebbe allestito una Legione Ebraica per combattere per gli inglesi quando avessero inevitabilmente invaso la Palestina.

L’appoggio russo alla Legione Convinse un giornale russo a inviarlo dalla Francia in Nord Africa per vedere quale fosse la reazione nel mondo musulmano alla richiesta del Sultano di combattere al fianco della Turchia. Come si aspettava, non riscontrò il minimo segno di un sentimento pan-islamico. Ma il viaggio fu provvidenziale dal punto di vista sionista. Arrivò ad Alessandria d’Egitto in dicembre, giusto in tempo per apprendere che i turchi avevano espulso circa 11.000 sionisti russi dalla Palestina. Essi non avevano fatto nulla per meritare quel trattamento: anzi, il sionismo in Palestina si era levato a sostegno dei turchi, e Ben-Gurion, Shochat e altri si erano offerti di creare una milizia sionista per controllare il paese e liberare così l’esercito turco per altri fronti. Ma Jamal Pasha, il governatore militare, non volle assolutamente, e Shochat e sua moglie (due dei fondatori di HaShomer) furono espulsi in Anatolia, mentre Ben-Gurion fu sommariamente deportato. E’ difficile spiegare le azioni dei turchi se non in termini generali. Un regime tirannico come quello di Mehmet V, che superò nelle atrocità anti-armene tutti i suoi predecessori (centinaia di migliaia ne furono trucidati nel primo genocidio dei tempi moderni prima di Hitler), non agiva razionalmente. La vicenda comunque dimostra l’ingenuità del tentativo dei sionisti di Palestina di legarsi alla tirannia turca in disfacimento. Tecnicamente gli 11.000 esuli russi in Egitto erano tenuti ad arruolarsi nell’esercito zarista, e gli inglesi avrebbero dovuto aiutare il loro alleato, ma le insistenze del console russo a tal fine erano solo dei bluff. Egli sapeva bene che nel 1913, quando aveva provato a fare sì che gli inglesi arrestassero un rivoluzionario russo ricercato, 10.000 ebrei egiziani si erano rivoltati, e gli inglesi avevano lasciato perdere. La proposta della legione formulata da Jabotinskij poteva salvare la faccia. Il governo russo non era molto dell’idea che i sionisti entrassero nel proprio esercito, e di converso era entusiasta all’idea che essi lasciassero l’impero per sempre, ma diplomaticamente non poteva ammetterlo. Ora un sionista veniva a proporre una soluzione che avrebbe simultaneamente tenuto gli emigrati ebrei fuori dai piedi, pur facendoli combattere contro i nemici dello Zar. Il console russo in Egitto diede il suo assenso alla Legione.

Risposta inglese: il Corpo dei Mulattieri Gli inglesi erano piuttosto riluttanti rispetto alla proposta di Jabotinskij. Il loro esercito era pieno di truppe coloniali ma Westminster non aveva interessi in un’area ove operava la Legione Straniera francese. In Inghilterra non vi era ancora la coscrizione obbligatoria, lord Kitchener riteneva il fronte turco periferico e non aveva per ora piani di invasione della Palestina. Alla fine fu accordato che i rifugiati russi in Egitto costituissero un “Corpo dei Mulattieri di Sion” con funzioni logistiche, ma con l’intesa che avrebbero dovuto combattere su qualunque fronte fosse stato richiesto. Jabotinskij e i suoi discussero a lungo la proposta inglese; egli alla fine decise che non poteva accettarla. Ciò che aveva in mente era un esercito valoroso, qualcosa che attraesse gli ebrei con lo scopo nazionalista di conquistare la loro patria ancestrale. Ora tutto ciò che veniva offerto era un’unità di retrovia, costretta ad operare su qualsiasi fronte. E il nome! “Corpo dei Mulattieri di

32 Sion” suonava ridicolo. Ma centinaia di rifugiati decisero di accettare. Dopotutto, che differenza faceva su quale fronte avrebbero combattuto contro i turchi? Inoltre, in tempo di guerra non vi sono confini così marcati tra le categorie di soldati, essi erano certi di ricevere un addestramento militare e di combattere. Alla fine 562 mulattieri parteciparono alla Battaglia di Gallipoli95.

Reazione dell’ebraismo mondiale alla guerra La stragrande maggioranza degli ebrei nel mondo o erano pro-Germania o erano socialisti contrari sia all’Intesa che agli Imperi Centrali. In Francia e Inghilterra chi era nato là si identificò con il paese di nascita, ma il ben più ampio stuolo di immigrati recenti dalla Russia considerava inglesi e francesi come gli alleati del despota zarista, e fu contrario alla guerra da questo punto di vista. Anche in America i milioni di nuovi immigrati erano per evitare la guerra e molti applaudirono alla vittoria della Germania a Tannenberg96 e alla conseguente avanzata tedesca in Polonia e Lituania. In Russia la grande maggioranza degli ebrei, in ragione dell’oppressione zarista, si oppose allo sforzo bellico. I generali zaristi sconfitti dai tedeschi, dovendo giustificare la situazione, subito diedero la colpa agli ebrei additandoli quali spie della Germania. Presto iniziarono le esecuzioni di ebrei come agenti tedeschi, e i pogrom divennero consuetudine della vita militare russa. Alla fine circa 600.000 ebrei furono deportati verso est, al di fuori della Zona, e solo la rapida avanzata della Germania ne salvò molti altri dallo stesso destino. In quelle circostanze molti sionisti russi si associarono al generale ripudio della guerra, sperando in un esito rapido e nell’apparizione dei salvatori teutonici. La WZO ufficialmente si dichiarò neutrale, e aprì un ufficio a Copenhagen, ma l’Esecutivo rimase a Berlino, e non c’è dubbio che i massimi dirigenti parteggiassero per la Germania. Dei principali di essi, solo Chaim Weizmann e Nahum Sokolow erano pro-Alleati. La WZO ancora non comprendeva che l’Impero ottomano era condannato; e ancora meno che gli Hohenzollern sarebbero stati detronizzati. Essi usarono il governo tedesco come intermediario presso i turchi per chiedere un trattamento più magnanimo verso i sionisti di Palestina. La Germania dal canto suo aveva interesse ad aiutarli: l’opinione pubblica mondiale aveva condannato Berlino per il mancato intervento quando l’alleato islamico aveva distrutto la comunità armena, e l’aiuto verso gli ebrei poteva compensare il silenzio precedente (almeno agli occhi di alcuni giornalisti ebrei negli Stati Uniti, che in Wilhelmstrasse si sperava ancora di tenere fuori dal mélée europeo). La WZO ebbe il permesso di usare il corpo diplomatico tedesco per comunicare con il suo ufficio politico a Costantinopoli e con il movimento sionista in Palestina, come ricompensa per avere mantenuto il proprio quartier generale a Berlino. Jabotinskij provò a convincere la WZO a sostenere l’idea della Legione, recandosi a Copenhagen per spiegarne le ragioni, ma i risultati furono l’opposto di quanto sperava. L’Esecutivo deliberò il respingimento di ogni propaganda per la Legione: temeva che i turchi si sarebbero vendicati su ciò che restava della comunità sionista in Palestina. Il grado di totale coinvolgimento di Jabotinskij nella questione della Legione può essere rilevato dal fatto che egli, fanatico avversario dell’yiddish, nel 1915 tenne controvoglia a Malmoe, in Svezia, il suo primo discorso pubblico in quella lingua, per perorare l’idea della Legione in maniera comprensibile agli uditori97.

Discussioni in Russia Jabotinskij tornò in Russia dalla Scandinavia nel 1915. Da luglio il governo aveva vietato per la prima volta l’uso dell’alfabeto ebraico, di fatto bandendo la stampa ebraica e yiddish. In quella situazione egli non potè convincere i leader sionisti a sostenere le sue idee sulla lingua. Questi ultimi erano patrioti borghesi, non fecero nulla per organizzare un’opposizione ebraica clandestina allo zarismo, e si limitavano a sperare nella vittoria della Germania. Essi temevano anche che i loro tentativi avrebbero messo a repentaglio la sorte dei sionisti russi emigrati in Palestina.

95 La Battaglia di Gallipoli (aprile 1915 – gennaio 1916) fu un tentativo anglo-francese di sottrarre ai turchi lo stretto dei Dardanelli per minacciare Costantinopoli e mettere in comunicazione la Royal Navy con la flotta russa nel mar Nero. L’esito fu la vittoria ottomana, con perdite pesantissime per l’intesa (circa 250.000 morti). 96 La battaglia di Tannenberg fu il primo grande scontro della Prima guerra mondiale sul fronte orientale; svoltasi fra il 26 e il 30 agosto 1914, si concluse con una completa vittoria delle forze tedesche che, guidate dal generale Paul von Hindenburg e dal suo abile capo di Stato maggiore, generale Erich Ludendorff, accerchiarono, dopo alcuni momenti di difficoltà, le truppe russe che erano avanzate in Prussia orientale. 97 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story, 1956 33 Ma anche se fu definito un traditore dai compagni del passato, Jabotinskij ebbe buon gioco coi funzionari zaristi. Si rese conto abbastanza in fretta di avere commesso un errore sulla questione dei Mulattieri. Il ministro degli Esteri a Pietrogrado aveva sentito parlare di loro da un suo uomo ad Alessandria d’Egitto, e ne fu impressionato. All’epoca Jabotinskij non osò parlare in giro dei suoi contatti con il regime, ma successivamente ne trattò abbastanza apertamente nel suo libro:

Fu quel battaglione di asini di Alessandria, schernito da tutti i buontemponi di Israele, che mi aprì le porte degli uffici governativi di Whitehall. Il ministro degli Esteri di Pietrogrado scrisse al conte Benkendorf, ambasciatore russo a Londra; l’ambasciata russa inviò rapporti al Foreign Office inglese; l’attachè capo dell’ambasciata, il defunto Constantine Nabokov che poi divenne a sua volta ambasciatore, organizzò i miei incontri con i ministri inglesi98.

Jabotinskij fu un agente al soldo dello Zar? Non ci sono prove in tal senso, né che egli abbia ricevuto denaro da alcuno in vita sua. Più tardi egli giustificò la sua collaborazione con i Romanov richiamandosi al motto di Mazzini. Semplicemente estendeva la logica della sua precedente difesa dei colloqui Herzl – von Plehve. Nel libro egli sottolinea i crimini dei turchi contro l’Yishuv e il fatto di dover sfruttare la propria consapevolezza che i turchi sarebbero stati sconfitti. Egli tuttavia divenne molto più che un propagandista della causa dei legionari. Gli inglesi furono spinti dai russi a dichiarare pubblicamente il proprio appoggio a un’occupazione zarista di Costantinopoli. Non solo gli ebrei e i socialisti, ma anche molti imperialisti inglesi, e così anche i greci, pensarono che questo dava agli incompetenti di Pietrogrado ben più di ciò che meritassero. Jabotinskij lavorò per tacitare qualunque pubblico dissenso verso quel piano. Nel suo libro di analisi La Turchia e la guerra del 1917, essenzialmente un’assurdità intellettuale che proclamava la questione turca come elemento centrale della guerra, forbitamente ma senza mezzi termini espresse il suo appoggio per il despota di Pietrogrado:

Notiamo tuttavia un’avversione forte e istintiva nell’opinione comune inglese alla presa di Costantinopoli e degli Stretti da parte della Russia. E’ tempo di insistere per una chiara e completa revisione di questo atteggiamento preconcetto99.

Anche se i russi avevano mostrato tutta la loro incapacità nella guerra contro il Giappone, ed egli avesse personalmente toccato con mano la forte opposizione operaia al regime, Jabotinskij era completamente convinto che l’Impero zarista si sarebbe esteso, sottraendo la Galizia agli Asburgo. Qui gli zaristi non solo organizzarono alcuni pogrom ma rimossero sommariamente tutti gli ebrei dagli incarichi elettivi nelle municipalità conquistate, e Jabotinskij ipotizzò che anche a Costantinopoli gli ebrei avrebbero perduto i diritti civili per i successivi 30 anni100. Egli vedeva solo la debolezza degli Ottomani, e voleva combatterli perché la loro caduta era nell’interesse del sionismo. Ignorò la debolezza altrettanto evidente dei Romanov, che pure vide di prima mano nel suo viaggio del 1915 attraverso l’Impero, perché voleva il sostegno zarista al sionismo. L’axis mundi del suo sionismo era che gli ebrei non potessero risolvere il problema dell’antisemitismo nella Diaspora, dunque la ricostituzione dello stato ebraico era la cosa più importante per la vita ebraica. Lo si può vedere come un fanatico intelligente: la sua comprensione della politica era minima, egli anteponeva gli ebrei a qualunque altra questione ma gli aspetti letterari e linguistici gli portarono via tanto tempo da non permettergli di studiare in maniera seria i fenomeni politici. Nessuno può pensare oggi di ripubblicare le sue analisi su una singola questione politica che non sia legata strettamente al sionismo. Per lui il territorio di Israele era più importante del suo popolo. Nel suo libro sulla Legione espresse schiettamente questa opinione:

Per come la vedevo, la questione era chiarissima: il destino degli ebrei in Russia, Polonia, Galizia, indubbiamente molto importante, in una prospettiva storica era solo qualcosa di temporaneo, a confronto della rivoluzione nella vita nazionale ebraica che lo smembramento della Turchia avrebbe significato per noi101.

98 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 99 Vladimir Jabotinskij, The Turkey and the War, 1917 100 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 101 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 34 Il suo desiderio della sconfitta turca lo condusse inesorabilmente a favorire una vittoria russa. Il 21 gennaio 1917, solo un mese prima della caduta dello Zar, terminò il manoscritto de La Turchia e la guerra, nel quale a proposito del fronte russo diceva:

Anche qui, speriamo, la Germania non avrà più l’opportunità di assestare colpi pericolosi, e forse un giorno vedremo una ripresa dell’offensiva russa102.

Sebbene non potesse immaginarlo, da quando lasciò la Russia nell’agosto 1915 non vi sarebbe più tornato. Aveva il necessario per convincere gli inglesi ad allestire la Legione: l’appoggio dello Zar.

L’Inghilterra e la petizione per la Legione L’antisemitismo degli alleati russi era diventato un problema serio per il governo inglese, sia internamente che all’estero. I figli dell’Inghilterra venivano massacrati nelle trincee, mentre migliaia di giovani ebrei russi emigrati girovagavano per le strade di Londra. Teoricamente il governo britannico avrebbe potuto permettere all’esercito russo di allestire proprie unità in Inghilterra (come fece poi coi polacchi nella Seconda guerra mondiale), o avrebbe potuto provare a deportare gli ebrei in Russia, via Scandinavia, ma i politici non osarono mettere in atto tali sfacciati provvedimenti. Gli ebrei russi erano emigrati in Inghilterra per sfuggire all’antisemitismo, e in nessun modo avrebbero combattuto per il regime dei pogrom. Anche molti reazionari inglesi erano solidali con loro. Ciò che Jabotinskij offrì rappresentava una parziale soluzione al dilemma. Se fosse stata creata una legione si pensava che alcuni dei giovani ebrei avrebbero indossato quell’uniforme. Vi era solo un piccolo problema: gli ebrei non avevano intenzione né di morire per la Russia, né di combattere in un esercito zarista. Una parte consistente della comunità ebraica londinese era diventata molto radicale come risultato dell’esperienza in Russia, e non aveva alcuna illusione sulla natura dell’imperialismo inglese o del capitalismo in generale. Sin da quando Jabotinskij iniziò a pubblicizzare l’arruolamento nella Legione, incontrò l’aspra opposizione ebraica. Più tardi egli ammise che la principale preoccupazione di tutti era evitare l’arruolamento, ed egli stesso era additato quale “nemico numero uno”103. Jabotinskij provò a costruire un supporto ebraico alla Legione attraverso una petizione, ma essa si rivelò un flop. Nelle sue note biografiche inedite in seguito egli scrisse che l’affare “si concluse con rivolte, disastri e fallimenti”104. Senza la minaccia della coscrizione (che non si applicava loro, non essendo cittadini inglesi) era impossibile convincere i lavoratori ebrei ad andare volontari a morire in una guerra imperialista. Nel suo libro Jabotinskij accusò Georgij Cicerin105, che poi divenne il secondo Commissario sovietico del popolo agli Esteri, di avere mobilitato gli emigrati contro di lui. Non ci sono dubbi che la ribellione ci fu. Il primo incontro pubblico fu tranquillo perché i socialisti temevano che vi fosse la polizia in agguato. Quando si resero conto che Jabotinskij e i suoi si muovevano da soli, cominciarono a presentarsi a gruppi di 30 muniti di fischietti. Alla fine le adunate della Legione si trasformarono in risse, nell’ultima di queste Jabotinskij ruppe gli occhiali e dovette scappare con gli operai ebrei alle calcagna106. Dopo il disastro di Gallipoli, i Mulattieri erano tornati ad Alessandria d’Egitto e avevano smobilitato, ma 120 rientrarono nei ranghi alla fine del 1916 e furono inviati in Inghilterra, dove furono assegnati al ventesimo Battaglione del London Regiment. Jabotinskij si unì a loro nel gennaio 1917. Ma senza coscrizione non vi poteva essere alcuna legione. La situazione per Jabotinskij si sbloccò, paradossalmente, con la caduta dello Zar che egli aveva ipotizzato quale uno dei vincitori della guerra. Il nuovo governo era determinato a continuare le ostilità, e ora che l’antisemitismo ufficialmente era bandito il governo di Pietrogrado osò appoggiare la coscrizione dei suoi cittadini in Inghilterra. L’ambasciatore convocò Jabotinskij per una consultazione in proposito e questi, reduce dalle proprie disavventure gli disse:

102 Vladimir Jabotinskij, The Turkey and the War, 1917 103 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story, the Early Years, 1956 104 ibidem 105 In quegli anni Cicerin era esule a Londra, e nel 1917 fu arrestato dagli inglesi per attività ostile all’impegno bellico. 106 ibidem 35 Tra gli ebrei all’estero vi sono due posizioni. Una che a Whitechapel107 è la maggioranza, il No. L’altra è quella mia e dei miei amici, il Si…è folle pensare che a Whitechapel improvvisamente si manifesti un desiderio di guerra, quando l’inglese comune ha già perso molto di questo desiderio108.

Nell’agosto 1917 Jabotinskij ottenne ciò che voleva, la coscrizione dei cittadini ebrei, e il giorno 23 fu allestita ufficialmente la Legione109. Le adunate propagandistiche ricominciarono. Questa volta, con la Legione appoggiata ufficialmente e 60 Mulattieri come guardia, i meeting non vennero disturbati. Ma la Legione fu sempre osteggiata dalla stragrande maggioranza degli ebrei russi in Inghilterra. Solo poche centinaia scelsero di aderire spontaneamente, la maggior parte furono arruolati a forza e odiarono Jabotinskij per il suo appoggio alla coscrizione. Più di 20.000 ebrei scelsero di rimpatriare in Russia piuttosto che servire nell’esercito imperialista inglese110.

La Dichiarazione Balfour Gli inglesi non divennero immediatamente pro-sionisti, o filo-semiti. Alla fine decisero di appoggiare la Legione e, in novembre, vararono la Dichiarazione Balfour, annunciando l’intenzione a consentire una casa nazionale ebraica in Palestina, a prescindere da quanto la considerassero necessaria. Nel 1936 David Lloyd George, Primo ministro all’epoca della decisione, rivelò la posizione del governo nel 1917:

L’esercito francese si era ammutinato, l’esercito italiano era sull’orlo del collasso e l’America a fatica aveva iniziato a prepararsi…Era importante per noi cercare qualunque aiuto possibile. Arrivammo alla conclusione, da informazioni ricevute da ogni parte del mondo, che fosse vitale avere dalla nostra parte la simpatia della comunità ebraica…Essi potevano aiutarci in America e in Russia, la quale in quel momento si stava staccando, lasciandoci soli111.

La caduta dello Zar e la Dichiarazione Balfour riorientarono la leadership della WZO. Sebbene i sionisti tedeschi, da buoni patrioti, non smettessero mai di chiedere al Kaiser e al Sultano di seppellire il piano inglese, la maggior parte improvvisamente scoprì le virtù dell’Impero britannico e fece ciò che poteva per aiutare l’Intesa. I sionisti laburisti di Poalei Zion, che inizialmente avevano provato a costruire una legione per i turchi e poi si erano spostati, soprattutto in America, su posizioni contro la guerra, ora divennero agenti di reclutamento inglese negli Stati Uniti, chiedendo sangue ebraico per “la realizzazione del nostro santo ideale”112. Alla fine della guerra circa 11.000 uomini avevano fatto parte della Legione Ebraica, con un 34% proveniente dagli USA, 30% dalla Palestina (si unirono quando la Legione arrivò là), 6% dal Canada, 1% dall’Argentina e solo un 28% dall’Inghilterra, questi ultimi per la maggior parte coscritti. Circa 560 provenivano dal Corpo dei Mulattieri, 1.500 parteciparono all’invasione della Palestina, 5.000 all’occupazione post-bellica e altri 5.000 erano in fase di addestramento quando la guerra finì. Yosef Trumpeldor, principale organizzatore dei Mulattieri, rientrò in Russia per cercare di convincere il governo Kerenskij ad allestire una Legione Ebraica di 75.000 uomini per combattere sul fronte caucasico. Essi avrebbero dovuto aprirsi un varco attraverso l’Armenia e la Mesopotamia e quindi giungere in Palestina. Trumpeldor ottenne un assenso teorico di Kerenskij al suo fantasioso progetto. Ma la sua speranza svanì con la rivoluzione bolscevica. Alla fine, l’imperialismo inglese guadagnò poco dal suo accordo coi sionisti: l’America entrò in guerra e la Russia ne uscì, senza che riconoscessero il ruolo dei sionisti. Dal punto di vista pratico la Dichiarazione Balfour e la Legione fecero guadagnare agli inglesi non più di 5.000 uomini e l’ostilità da parte del mondo arabo.

107 Quartiere orientale di Londra, all’epoca il cuore della comunità ebraica. 108 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 109 La Legione consisteva di cinque battaglioni dei Royal Fusiliers, dal 38mo al 42mo, per complessivi 5.000 uomini in assetto di guerra. 110 Simha Flapan, Zionism and the Palestinians, 1979 111 Palestine Post, 26 giugno 1936 112 Joseph Rappaport, Zionism as a Factor in Allied-Central Power Controversy (1914-1918), 1958 36 La Legione in Palestina La Legione fece pochi combattimenti. Arrivò in Palestina nel giugno 1918 e passò l’estate sulle colline presso Nablus. Jabotinskij, all’epoca luogotenente, diresse i pattugliamenti notturni nella boscaglia e occupò un villaggio deserto. I suoi uomini furono inviati per sette settimane nella Valle del Giordano (descrisse il caldo laggiù come il purgatorio e la Geenna113) e finalmente il 23 settembre la sua compagnia strappò il guado del Giordano a Umm-esh-Shert ai turchi in ritirata. Nei resoconti di Jabotinskij la malaria sembra essere stata il nemico più grande, piuttosto che gli indeboliti turchi. Egli non pretese che il suo ruolo o quello della Legione andassero al di là di quello. Non fu colpa loro se non ebbero un ruolo maggiore nella conquista, erano solo un piccolo contingente nell’esercito di Allenby. Noi ora ce ne occupiamo perché conosciamo la storia successiva del paese, ma per Allenby allora essi erano un distaccamento come un altro. Gli italiani insistettero per avere 1.000 soldati nell’occupazione del paese, così da proteggere i propri interessi. Vi era un contingente armeno, e gli arabi di Lawrence furono parte fondamentale della strategia di Allenby. Egli conquistò la Palestina per la Gran Bretagna: la Dichiarazione Balfour era soltanto un altro atto diplomatico, nulla più. Per Jabotinskij, il vero ruolo della Legione sarebbe iniziato solo dopo la partenza dei turchi. Egli era un convinto e consapevole colonialista. I turchi se ne sarebbero andati, ma a quel punto c’erano gli arabi. Se i sionisti avessero mantenuto un ruolo militare avrebbero potuto far parte del corpo di guarnigione del paese. Ma qui iniziarono i problemi. Gli ufficiali inglesi del posto non avevano simpatia per il progetto di “casa nazionale ebraica”. Fin dall’inizio avrebbero voluto confinare la Legione a Gerusalemme. Non avevano richiesto una legione ebraica. Erano della scuola del Cairo, arabisti, la loro legione erano le milizie di Feisal, il figlio dello Sceriffo della Mecca, che avevano compiuto il cruciale lavoro di sabotaggio della Ferrovia dell’Hijaz, isolando i turchi e demoralizzando i tecnici tedeschi. Ora che la guerra era finita l’esercito inglese non aveva più bisogno di impiegare la Legione ebraica; nessun altra preoccupazione sull’atteggiamento dell’ebraismo americano o inglese turbava il governo di Londra, e iniziarono a smobilitarla. Jabotinskij combattè una disperata battaglia di retroguardia per tenere insieme la sua unità, ma invano. I componenti dell’unità, per lo più del West End di Londra, non erano interessati alla terra degli antenati, tutto ciò che volevano era tornare a casa dalle loro famiglie, tranne lui che si considerava una sorta di cavaliere crociato ebraico, sempre all’erta. Essi lo vedevano come uno in qualche modo degno di considerazione ma consideravano i sionisti palestinesi alla stregua di “pazzi”, come lo stesso Jabotinskij ammise, e la Palestina come un qualcosa di lontanissimo114. Gli ebrei americani, anche se erano arrivati da poco negli USA, tuttavia erano desiderosi di tornarvi. Gli ebrei in Palestina erano per lo più seguaci della “religione della terra” di Poalei Zion. Vedevano gli arabi come i primi americani videro gli indiani: combatterli per loro era inevitabile, ma lo avrebbero fatto in quanto contadini e non come il Settimo Cavalleria. Dunque anche loro volevano essere smobilitati, ma in loco in Palestina, per prendere parte all’attività pionieristica resa possibile dal ritiro dei turchi. Di certo Jabotinskij, uomo tutto d’un pezzo, con la sua mentalità rigida non fece nulla per far prendere in considerazione se stesso o l’idea della Legione. I suoi uomini erano cresciuti nello squallore degli shtetl, mentre lui ormai aveva l’uniforme militare nel sangue. Non fu in grado di comprendere che essere arruolato era qualcosa di inaccettabile per chiunque fosse a suo agio nelle vesti del comune cittadino, come molti ebrei. La Legione venne frazionata, ma gli uomini erano sempre più indisciplinati. In un incontro nell’estate 1919 Jabotinskij li ammonì che essa era vitale per la colonizzazione del paese, perché gli arabi sapevano che i musulmani dell’India, che costituivano circa metà della guarnigione, non li avrebbero combattuti per proteggere gli infedeli ebrei; tuttavia fece infuriare la maggior parte degli astanti quando accusò chiunque avesse abbandonato la legione di essere un “traditore del suo popolo”115. Da allora, guardato come un affarista intrigante dagli inglesi e un ottuso militarista dai suoi stessi soldati, Jabotinskij si ostinò a non accettare il fatto che il suo ruolo si era ormai fatto inutile. L’esercito gli risparmio il ripudio totale da parte dei suoi uomini con la decisione di congedarlo nell’agosto 1919, dopo 30 mesi di servizio. Egli si oppose all’ordine fino alla fine, ma gli fu detto che se non avesse accettato immediatamente sarebbe stato sottoposto a provvedimenti

113 Geenna: piccola valle a sud di Gerusalemme, che nell’antichità era usata come discarica e nella Bibbia viene rappresentata come l’Inferno. 114 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 115 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 37 disciplinari. Da allora in poi, il militarismo di Jabotinskij si sarebbe espresso sempre in forma privata e politica: nel suo congedo forzato possiamo vedere l’inizio del suo futuro costante legame con gli interessi inglesi.

Significato della guerra e dei tentativi di Jabotiskij I veterani della Legione si riferiscono a se stessi come all’ “armata ebraica dimenticata”, e per il mondo in generale la Prima guerra mondiale è diventata la “grande guerra dimenticata”. Negli USA i manifesti propagandistici recanti la scritta “Lo Zio Sam ti vuole!” sono stati utilizzati da due generazioni di grafici. Ma gli storici non hanno ancora sottolineato con sufficiente insistenza che la Prima guerra mondiale ha significato la rottura, e forse l’inizio della fine, della nostra civiltà industriale. I leader dei paesi belligeranti, non solo quelli che hanno perso, ci appaiono oggi come dei pezzi da museo, dei pittoreschi ritratti per arricchire un vecchio rotocalco. Il nostro sentire comune non percepisce adeguatamente che cos’è stata quella guerra. Lloyd George fu un assassino. I governi alleati, così come quelli degli Imperi Centrali, mandarono a morte tra 10 e 13 milioni di uomini, tutti per un unico medesimo scopo: assicurare alla classe dominante del proprio stato una maggiore quota di ricchezza. Molte cose sono accadute da allora, forse alcune anche peggiori, ma ogni istituzione oggi ancora esistente che permise quella carneficina (i partiti Democratico e Repubblicano in America, i Tories e i Liberali in Inghilterra, tutti i partiti socialdemocratici che abbandonarono l’internazionalismo per il social-patriottismo), si è marchiata per sempre del segno dei traditori della civiltà. Un crimine di tale portata deriva da una truce realtà: queste fazioni rappresentano classi fondamentalmente reazionarie, e antitetiche agli interessi dell’umanità. Attualmente le forze responsabili di quello che sembra un passato ormai morto e sepolto operano ancora nella società, senza pudore, opprimendo le masse del mondo moderno. Così fa il sionismo, che con la Legione di Jabotinskij si unì alla carneficina imperialista. C’è solo una parola per definire con precisione Jabotnskij durante la Grande Guerra: traditore. Traditore degli ebrei di Russia, degli ebrei di Inghilterra, della democrazia, della libertà, dell’umanità. Che un ebreo che collabori con un governo mentre questo manda a morte ebrei su ebrei con l’accusa di essere agenti nemici, che tale ebreo sia un rinnegato è cosa così evidente da non richiedere ulteriore approfondimento. Che lo abbia fatto per ragioni ideologiche e non per uno scopo di lucro come Lloyd George e i potentati dei paesi belligeranti, non cambia nulla e non giustifica nulla. Jabotinskij era un fanatico, pronto a tramare con i nemici del suo popolo per ottenere ciò che per lui era più importante dei diritti dei suoi connazionali, e anche delle loro vite. Quando i suoi seguaci di oggi ci dicono che egli fu un eroe, un padre della patria costretto a usare i poteri vigenti per i suoi scopi, tutto ciò che stanno facendo in realtà è avvisarci che essi, come lui, sono disposti a tradire l’umanità per il bene dello stato sionista.

38 5. Il fondatore dell’Haganah

Il sionismo dopo la Grande Guerra Il congedo dall’esercito lasciò Jabotinskij privo di ruoli nel movimento sionista. Mentre era ancora sotto le armi egli aveva agito anche quale rappresentante politico dell’Esecutivo per i rapporti con gli inglesi e con le comunità ebraiche nei paesi alleati. Ma presto divenne chiaro che la sua concezione delle relazioni tra il sionismo e l’imperialismo inglese differiva così tanto da quella di Weizmann che venne rimosso da quel ruolo ancor prima di lasciare l’esercito. Jabotinskij era dell’idea di far pressione su Londra per ottenere il massimo su qualunque questione; la strategia di Weizmann era l’esatto contrario. Pochi movimenti politici in questo secolo hanno avuto per lungo tempo un leader così moderato come Weizmann. Egli non aveva fretta; la Dichiarazione Balfour era stata una vittoria, senza dubbio, ma la costruzione dello stato ebraico avrebbe richiesto decenni, dunque se gli inglesi non avessero concesso subito ogni cosa non sarebbe stato grave. Il calvario della tirannia turca in tempo di guerra aveva gravemente indebolito il sionismo in Palestina, sia numericamente che finanziariamente, e non potevano arrivare fondi dagli ebrei dell'Europa orientale, a loro volta spogliati dalle devastazioni e dai pogrom che accompagnarono la Rivoluzione russa e la creazione di una Polonia indipendente. Gli ebrei americani, alle prese con i drammi dei loro parenti in Europa, non avevano intenzione di distogliere risorse per ciò che ritenevano essere poco più di un museo nazionale. Weizmann dunque non solo provò a tenersi buoni gli inglesi, ma anche allacciò relazioni diplomatiche con gli arabi, dei quali aveva colto l'obiettivo principale, l'assegnazione del regno di Siria a Faisal. Su suggerimento di Allenby compì quello che allora fu un difficilissimo viaggio intorno al Sinai, per incontrare l'emiro in Transgiordania. Alla fine il 3 gennaio 1919 il dignitario hashemita siglò un accordo che riconosceva la presenza sionista in Palestina, anche se uno stato ebraico non veniva esplicitamente menzionato. In cambio Faisal si aspettava il sostegno sionista alle sue richieste sulla Siria, e il patto era condizionato dall'ottenimento di tali richieste. Alla fine la Siria andò alla Francia, e l'accordo fu annullato, sebbene la WZO non abbia mai smesso di utilizzarlo come atto di proprietà sulla Palestina.

Il supporto inglese In quegli anni la presenza sionista in Palestina era completamente dipendente dalla buona volontà del governo inglese, e la benevolenza di quest'ultimo verso il sionismo era inversamente proporzionale all'ostilità verso gli ebrei come tali. La borghesia inglese era passata all'antisemitismo in reazione all'immigrazione ebraica dall'Impero zarista, e il principale rappresentante da questo punto di vista fu lo stesso Balfour. Da Primo ministro, nel 1905 egli aveva fatto una notevole affermazione a supporto della chiusura dei confini. Secondo l'Hansard116

egli senza dubbio pensava che non sarebbe stato nell'interesse della nazione l'esistenza un gran numero di individui che, sebbene patrioti, capaci e laboriosi, tuttavia erano dediti a una propria vita nazionale, per cui rimanevano una popolazione a sè e non solo professavano una religione diversa dalla maggioranza dei loro concittadini, ma anche si sposavano tra di loro.

Fu il governo di Balfour a offrire l'Uganda a Herzl, nella speranza che quel protettorato potesse in parte distogliere i migranti ebrei dall'Inghilterra. Nel 1914, dopo avere incontrato Balfour per la seconda volta, Weizmann scrisse a un amico che "l'ex Primo ministro mi disse che una volta aveva avuto un lungo colloquio con Cosima Wagner a Bayreuth, e aveva condiviso la maggior parte delle idee antisemite di lei"117. La Rivoluzione russa, che ebbe luogo contemporaneamente alla Dichiarazione, fu vista dalla maggioranza delle classi dominanti come un complotto ebraico. Sebbene in Inghilterra l'antisemitismo non si sia manifestato mediante restrizioni all'immigrazione o

116 In Inghilterra è l’archivio contenente i resoconti ufficiali delle attività di governo. 117 Chaim Weizmann, The Letters and Papers, 1898 - 1952 39 discriminazioni sociali, tuttavia il governo inglese non esitò a finanziare e armare le Guardie Bianche pogromiste in Russia, e dunque condivide la responsabilità del massacro da parte loro di almeno 30.000 ebrei. Il sionismo fu visto come un altro strumento contro il bolscevismo: in un articolo del 1920, Sionismo contro bolscevismo, Churchill scrisse che Trockij odiava il sionismo perchè esso contrastava i suoi progetti di "stato comunista mondiale dominato dagli ebrei"118. Per Churchill, il sionismo era un aiuto contro Trockij, e inoltre distoglieva le energie e le speranze degli ebrei di ogni paese verso un più semplice, più reale, "molto più raggiungibile obiettivo"119. Da un punto di vista puramente coloniale il sionismo aveva un'ulteriore attrattiva: la classe dominante inglese sfruttava al massimo la strategia divide et impera, e cercava sempre alleati locali nei paesi occupati. Essi si affidarono ai musulmani dell'India contro la maggioranza indù, ai turchi a Cipro contro i greci, ai malesi contro i cinesi in Malesia. Davanti agli occhi avevano costantemente l'esempio dell'Irlanda. Sir Ronald Storrs, primo goernatore militare inglese a Gerusalemme, in seguito scrisse che grazie a Dio i sionisti gli avevano giovato tanto quanto lui a loro, formando per l'Inghilterra "un piccolo e fedele Ulster ebraico in un mare di arabi potenzialmente ostili"120.

La Palestina dopo la guerra L’esercito inglese in Palestina aveva una visione differente del sionismo e degli ebrei: là l’antisemitismo era più accentuato. Ufficiali provenienti dalle armate anti-bolsceviche nel Caucaso avevano introdotto nel paese I Protocolli dei Savi di Sion. Molti ufficiali vedevano nei sionisti non i nemici del comunismo, ma i comunisti. Dopotutto, dicevano, la maggior parte dei sionisti non veniva dalla Russia? Ben pochi tra i militari sul campo (e non solo gli antisemiti) potevano accettare l’idea di un “Ulster ebraico”. Nel vero Ulster i protestanti erano la maggioranza in quattro contee contigue, una forza di un milione di persone pari al 29% della popolazione irlandese. In Palestina invece nel 1917 vi erano solo 56.000 ebrei, un misero 8% della popolazione, ed essi erano la maggioranza soltanto in due città: Gerusalemme e Tiberiade. E circa la metà di questi ebrei erano chassidim, che aborrivano il sionismo come la più grande eresia. I protestanti nordirlandesi potevano difendersi con un’assistenza minima da parte degli inglesi (anche in loro assenza il nazionalismo irlandese avrebbe avuto difficoltà a guadagnare terreno in Ulster), mentre in Palestina era chiaro a tutti che l’Yishuv sionista sarebbe stato scacciato dai palestinesi e dai milioni di arabi dei paesi vicini, se non fosse stato per l’esercito inglese. La differenza quantitativa di popolazione filo-imperialista in Ulster e in Palestina era tale che le due situazioni non erano comparabili, di certo non allora. Sin dall’inizio dell’occupazione inglese vi fu una contraddizione tra la visione dell’Ulster ebraico di Westminster (o della Gibilterra ebraica come una volta la definì il colonnello Patterson, comandante della Legione di Jabotinskij) e la realtà sul terreno, facilmente percepita dai militari, che gli arabi erano la vera forza nel paese. L’amministrazione locale sapeva di non dover fare nulla per i sionisti, che non potevano danneggiarla in alcun modo ed erano completamente dipendenti da essa. Il patto tra Weizmann e Faisal era stato concepito per dare al sionismo un altro appoggio attraverso un’intesa con la classe feudale della più ampia società araba del Medio Oriente, alle spese dei proprietari terrieri palestinesi. Il patto fu annullato a causa dell’occupazione francese della Siria, ma anche se a Damasco fosse stato fondato un regno di Faisal è impossibile credere che i palestinesi si sarebbero considerati vincolati alla firma di un trattato che li privava del loro paese. A differenza di Weizmann, Jabotinskij non fu mai dell’idea che Sion potesse nascere attraverso un accordo di pace con gli arabi. Egli si rese conto immediatamente che solo gli inglesi impedivano ai nativi di cacciare i sionisti dal paese, e ciò divenne il punto di partenza della sua linea di costante pressione sugli inglesi. Egli insisteva che nel momento in cui gli inglesi avessero avuto la benché minima esitazione nell’applicare le loro promesse di fondazione di una casa nazionale, gli arabi avrebbero iniziato a controbattere al massimo grado per spingere Londra ad abbandonare la Dichiarazione. Dunque, ripeteva instancabilmente, i sionisti non avevano altra scelta che chiedere in continuazione agli inglesi di sostenerli in tutto e per tutto. Nahum Goldmann una volta disse correttamente che se le potenze avessero deciso di costituire uno stato sionista cento anni prima, gli arabi non avrebbero potuto fare nulla per fermarle in quanto

118 Illustrated Sunday Herald, 8 febbraio 1920 119 ibidem 120 Ronald Storrs, Orientations, 1943 40 erano a uno stadio poco più che tribale. E, aggiunse, se la Dichiarazione Balfour fosse stata varata non nel 1917 ma per così dire nel 2017, non vi sarebbe stata alcuna possibilità di rispettarla perché una nazione araba unita si sarebbe facilmente opposta a un tale progetto. Il nazionalismo arabo successivo alla Prima guerra mondiale era più vicino al passato che al futuro. Con la sola eccezione di tre deboli stati nella penisola arabica, l’Hijaz, il Neged e lo Yemen, l’intero mondo arabo era assoggettato all’Europa. La Palestina araba da sola non era in grado socialmente di resistere all’azione combinata degli inglesi e dei sionisti. La grande maggioranza della popolazione era ancora composta di contadini o beduini analfabeti. Non essendoci un tessuto industriale nel paese, eccetto lo stadio dell’artigianato, non esisteva una classe operaia. La classe mercantile, in larga parte cristiana, era molto debole. I grandi proprietari terrieri musulmani, gli effendi, erano i classici levantini121, una classe dominante parassitaria che non avrebbe mai mobilitato i contadini contro gli invasori, per timore che una volta ribellatisi agli inglesi e ai sionisti essi se la sarebbero presa anche con loro. Essi vedevano nell’imperialismo un perfetto garante della loro posizione sociale, avevano pienamente accettato la dominazione turca e se non fosse stato per la Dichiarazione Balfour sarebbe stati ben felici di servire i loro nuovi padroni inglesi. Non vi era alcuna possibilità per le masse palestinesi di sconfiggere gli inglesi; la loro mancanza di formazione rendeva impossibili alcune forme di resistenza. Fino alla concessione inglese ai sionisti, non vi era stata traccia di rivolte anti-ebraiche. Sotto i turchi una larga parte del paese era in mano a bande di predoni, ma essi non se la presero mai con gli ebrei in quanto tali. I pellegrini ebrei si erano stabiliti nel paese da secoli e avevano incontrato nulla più che una sorta di paternalistico disprezzo. Chiunque li incontrasse, arabi, cristiani, sionisti, inglesi, li denigrava. I più fanatici di tutti, essi venivano a pregare al Muro del Pianto e a morire in Terrasanta. Molti erano anziani, non lavoravano e vivevano in condizioni pessime, per lo più della magra carità dell’ebraismo mondiale. Non esitavano a chiedere l’elemosina ai turisti in visita al Muro del Pianto. Il quartiere ebraico della città vecchia di Gerusalemme era una copia dei bassifondi ebraici d’Europa, decrepiti e sporchi. La Palestina era un paese islamico e i musulmani consideravano gli ebrei alla stregua di vigliacchi, ritenendo questa la loro peggiore caratteristica. Ma essi erano un popolo riconosciuto dal Corano, il libro insisteva sul loro diritto a professare la loro religione, non danneggiavano nessuno, ed erano lasciati per i fatti loro. Vi erano alcune famiglie sefardite i cui antenati erano giunti colà secoli prima, non come pellegrini ma come rifugiati dalla Spagna: questi e alcuni ashkenaziti di lingua yiddish residenti a Tiberiade e in altri piccoli centri erano i più laboriosi, e quindi più rispettati. La Palestina all’epoca non era un modello di convivenza sociale, ma nessun palestinese ce l’aveva con gli ebrei. Questo cambiò con la Dichiarazione Balfour. Sebbene alcuni arabi si rendessero conto che non tutti gli ebrei erano sionisti, le masse analfabete non erano in grado di fare questa distinzione. Tutto ciò che sapevano era che i nuovi governanti stavano cedendo il paese agli ebrei, senza alcuna giustificazione. Jabotinskij vide che gli arabi erano in fermento e si rese conto del pericolo potenziale. All’inizio la cosa non lo preoccupò più di tanto: vi erano i legionari armati ed egli era sicuro che gli inglesi non avrebbero permesso ai nativi di sfuggire al loro controllo. Ma il suo congedo e lo smembramento della Legione iniziarono a preoccuparlo. Egli sapeva, dai giorni di Londra, che le classi agiate inglesi erano inclini all’antisemitismo. Ma nella misura in cui sostenevano i suoi scopi, egli in proposito mantenne un atteggiamento di indifferenza machiavellica. Wickham Steed, editore del Times, era profondamente antisemita ma aveva sostenuto fortemente la Legione. Nel 1928 Jabotinskij scrisse di lui:

Egli comprese la mentalità del sionismo come pochi altri cristiani (l’aspetto interiore, spirituale, ostile all’assimilazione)…Naturalmente, come per ogni non ebreo che parla come un sionista, molti ebrei lo accusarono di antisemitismo. Questa tendenza tra i miei compagni ebrei (vedere un Haman in ogni gentile che racconta una storiella sugli ebrei) era per me incomprensibile. Tra l’altro le sue storielle erano dei complimenti in confronto a quelle che raccontiamo noi stessi122.

Ma se l’antisemitismo di Steed non aveva aspetti di violenza, in Palestina alcuni militari inglesi avevano collaborato coi Bianchi in Russia, molti altri sapevano che l’appoggio al sionismo avrebbe suscitato dei pogrom e se ne auguravano, credendo che il tal modo il governo inglese avrebbe rinunciato alla sua linea filo-sionista. Allora avrebbero potuto occuparsi della questione ben più

121 Si intende chi si occupa di affari in modo scaltro, astuto e spregiudicato. 122 Vladimir Jabotinskij, The Story of the Jewish Legion, 1928 41 importante di venire a patti con gli effendi e coi ricchi mercanti. Jabotinskij era russo e conosceva bene il rischio di pogrom: e ora egli, che aveva collaborato con gli antisemiti russi e gli antisemiti inglesi, iniziò ad accusare l’esercito inglese di antisemitismo! Nel luglio 1919 Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema e leader dell’Organizzazione Sionista d’America, venne in visita in Palestina. Jabotinskij lo avvisò che l’atteggiamento dell’esercito avrebbe potuto dare il via a un pogrom, e che esso ne sarebbe stato soddisfatto. Ma Brandeis non riusciva a pensare male dell’esercito inglese; egli congedò Jabotinskij con un beffardo “Sir, posso solo dire che non la pensiamo allo stesso modo”123. Jabotinskij scrisse subito un articolo in cui diceva che non si trattava di gridare al lupo ma che tuttavia la dirigenza sionista doveva insistere affinchè il governo inglese ribadisse che il sionismo era in Palestina per restarvi e che nessun pogrom sarebbe stato tollerato. Weizmann e Brandeis erano troppo moderati per contemplare l’uso di parole forti verso i rappresentanti di un ente così rispettabile come l’Impero inglese, e Jabotinskij si rese conto che era compito di lui stesso di preparare la risposta sionista a quanto si attendeva.

L’Haganah Nel dicembre 1919 egli convinse alcuni dei leader sionisti in Palestina che dovevano allestire una Haganah (La Difesa). Tali organizzazioni paramilitari filo-imperialiste si trovano subito di fronte alla questione dei rapporti con la legalità, e Jabotinskij insistette affinchè l’addestramento avvenisse alla luce del sole, anche se avesse comportato degli arresti. I sionisti per lui avevano il diritto di difendersi nella casa nazionale ebraica. L’idea dell’Haganah era concepita per spingere gli imperialisti a integrare i loro Orangisti124 ebraici direttamente nella gerarchia militare. Fin dall’inizio l’esercito fu al corrente dell’esistenza dell’Haganah. Jabotinskij aveva organizzato esercitazioni sulle pendici del Monte degli Ulivi, sede dell’Occupied Enemy Territories Administration (OETA)125, e chiese a Storrs di considerare i suoi uomini come un reparto speciale di polizia. Storrs non fece nulla né per scoraggiare né per incoraggiare l’allestimento della milizia, ma nel febbraio 1920 il governo inglese fece capire chiaramente agli arabi che intendeva sostenere il sionismo. Eseguendo gli ordini, il capo dell’amministrazione provvisoria lesse ufficialmente la Dichiarazione Balfour a una delegazione di notabili arabi, provocando la discesa in strada di migliaia di persone.

La rivolta di Nebi Musa L’8 marzo 1920 l’incoronazione di Faisal a Damasco portò in piazza un numero di persone ancora maggiore, e le autorità vietarono nuove manifestazioni. Ma il pogrom scoppiò il 4 aprile, a causa della incompetente gestione della festività religiosa musulmana di Nebi Musa. Anche Weizmann, che allora si era recato in Palestina, alla fine si era preoccupato che la situazione potesse sfuggire di mano, e manifestò i suoi timori agli inglesi. Il generale Louis Bolls gli disse di non aver paura: “Non ci può essere alcun disordine: la città è piena di soldati”126. Poiché la Pasqua ebraica in quell’anno coincideva con il giorno della cerimonia di Nebi Musa, Weizmann per prudenza lasciò Gerusalemme per trascorrere la festività ad Haifa. La situazione sfociò in una serie di incidenti che si intrecciarono a vicenda portando la giornata a un esito tragico. Nebi Musa significa “Profeta Mosè”. Gli abitanti dei villaggi circostanti ogni anno marciavano a Gerusalemme per pregare alla Moschea di Al-Aqsa, e avrebbero poi lasciato la città per recarsi a Gerico, alla tomba del profeta di Allah, Mosè. Un gruppo di pellegrini da Hebron era arrivato a Gerusalemme e si era avviato lungo Jaffa Road quando fu fermato dal sindaco di Gerusalemme, Musa Kazim al-Husseini, che fece da una balconata un discorso in favore di Faisal. Altri giovani oratori iniziarono a parlare dai balconi vicini. La polizia, volendo riguadagnare il tempo perduto, cambiò il percorso della marcia. Di solito essa passava intorno alle mura della porta di Damasco e quindi attraverso il quartiere musulmano fino alla moschea. Questa volta fu deviata attraverso la porta di Jaffa e gli hebroniti passarono dal quartiere ebraico. Qui iniziò un lancio di pietre e presto i negozi furono saccheggiati, e i passanti ebrei aggrediti. I programmi inglesi fallirono immediatamente. Non vi erano poliziotti dentro la città vecchia, e il comandante in carica si era già diretto verso Gerico. Si pensava che Storrs fosse stato

123 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 124 L’Orange Order era un’organizzazione conservatrice nata nell’Irlanda del Nord, filo-inglese, ispirata ai seguaci protestanti di Guglielmo III di Orange (1650 – 1702). 125 L’organismo di governo provvisorio anglo-francese sui territori sottratti all’Impero ottomano durante la Guerra. 126 Chaim Weizmann, Trial and Error, 1949 42 messo al corrente dell’arrivo dei manifestanti ma alla fine nessuno in quel frangente glielo ricordò. Alla fine la forza inglese sul posto consisteva soltanto di un distaccamento di poliziotti arabi comandati da un giovane luogotenente inglese. Non vi erano uomini dell’Haganah nel quartiere ebraico; la maggior parte degli abitanti colà erano fermanente ostili al sionismo, non volevano servizi di polizia perché non volevano essere identificati dagli arabi come sionisti. Quando scoppiò la rivolta, Jabotinskij accorse con i suoi uomini dalla parte nuova della città, ma a quel punto gli inglesi avevano bloccato gli accessi alla città vecchia, impedendo ad alcuno di entrare o uscire. Alla fine la polizia e l’esercito riuscirono a spingere gli hebroniti fino alla moschea, ma l’esito fu di 6 ebrei uccisi, 211 feriti e due donne rapite. La rappresaglia dell’Haganah portò all’uccisione di 4 arabi e al ferimento di 21. La rivolta di Nebi Musa fu un grosso disastro per la causa palestinese. L’assassinio degli inoffensivi chassidim diede al mondo l’impressione di odio e fanatismo cieco. Il sindaco fu costretto a dimettersi, e il governo inglese intensificò i preparativi per sostituire l’OETA con un governatore civile strettamente legato a una linea filo-sionista. Ma nell’immediato la risposta dell’OETA fu un limpido esempio di burocratismo imperiale: provarono ad arrestare il nipote del sindaco, Amin al- Husseini, il quale riuscì a fuggire; a Jabotinskij, in quanto ex ufficiale e “gentiluomo”, fu consentito di sottomettersi con lo status più o meno onorevole di prigioniero politico, e diciannove suoi uomini furono arrestati con l’accusa di possesso illegale di armi.

Processo e sentenza per Jabotinskij Jabotinskij fu condotto da un funzionario e il segretario arabo di quest’ultimo gli chiese, in arabo, il suo nome. Egli rimase in silenzio, e il segretario glielo chiese in francese, prima di passare infine all’inglese. Jabotinskij si rifiutò di rispondere anche in inglese: “Non risponderò a un segretario di tribunale che appartiene alla tribù di assassini i cui assalti verso persone innocenti, con tanto di saccheggi e rapimenti, sono ancora in corso”127. Fu detenuto in isolamento perché non potesse comunicare con i suoi uomini prima di essere chiamato a testimoniare al loro processo. Essi furono dichiarati colpevoli e condannati a tre anni. Il suo processo, anch’esso davanti a un apposito tribunale militare, fu celebrato soltanto sei giorni dopo il suo arresto: non gli fu concesso un avvocato, e lo svolgimento fu a porte chiuse. L’accusa fece riferimento alla legge ottomana, ancora in vigore, per trovare un provvedimento adatto al caso e potè soltanto accusarlo di possesso di armi allo scopo di rapina e saccheggio. Jabotinskij non ebbe difficoltà a chiamare in causa Storrs e altri testimoni che spiegassero che colui che aveva chiesto l’arruolamento dei suoi uomini come poliziotti non poteva avere intenti criminali. Ciononostante fu sommariamente condannato a 15 anni, così come i due arabi coinvolti nel rapimento. Jabotinskij sapeva che il caso alla fine si sarebbe risolto, a tanto per cominciare da Londra arrivarono ordini di trattarlo come uno speciale prigioniero politico. Storrs si recò a casa di Jabotinskij e gli portò i suoi abiti personali, e permise che egli e la moglie cenassero con cibo e vino nella sua cella, appositamente rifornita. I prigionieri sionisti e i due rapitori arabi furono inviati in Egitto per scontare la pena, ma le autorità del Cairo decisero che non volevano complicarsi la vita accettando prigionieri politici dalla Palestina e dunque furono rispediti indietro, alla fortezza di Acri. L’edificio era un’antica costruzione dei tempi delle crociate, con tanto di fossato e pittoresche mura a strapiombo sul mare, e i sostenitori di Jabotinskij, tanto ebrei quanto gentili, se lo immaginavano in uno stato di prigionia dai connotati romantici. Invece quei 20 ebrei non vennero mai considerati come veri criminali: indossavano i loro abiti e potevano ricevere cibo kosher, e Jabotinskij riceveva numerose visite. Il trattamento era di riguardo, e i secondini posavano le armi per consumare i pasti insieme ai detenuti che dovevano sorvegliare. Jabotinskij iniziò a tradurre in ebraico i libri di Sherlock Holmes, e poi Omar Khayyam128. Alla fine si mise a lavorare alla Divina Commedia di Dante per una casa editrice ebraica in America, ma dovette desistere quasi subito. Dante non è Conan Doyle, l’ebraico nel Medioevo non era parlato e i moderni traduttori dovevano costantemente inventare parole nuove. Jabotinskij si rese conto che doveva per prima cosa costruire un dizionario in rima per poter proseguire. Riuscì a concludere solo poche stanze durante la breve carcerazione. Ritornò sovente all’impresa senza mai riuscire a terminarla, e Dante è ritenuto il suo principale lavoro di traduzione.

127 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956. Gli scontri di Nebi Musa durarono fino al 7 aprile. 128 Matematico, astronomo, poeta e filosofo persiano, vissuto tra il XI e il XII secolo d.C. 43 Come sovente nel caso dei tribunali militari, la sentenza di primo grado per Jabotinskij e i suoi uomini fu fortemente ridotta in appello. Allenby gli tolse 14 anni, ma naturalmente egli non fu soddisfatto e neppure il suo movimento. L’opinione pubblica ebraica, in Palestina e all’estero, era stata impressionata dal suo arresto e dalla prima sentenza. La prima risposta dell’Yishuv fu uno sciopero generale il 19 aprile 1920, e un altro la settimana successiva. Anche l’opinione pubblica inglese fu scossa, e la questione fin dall’inizio entrò nel dibattito parlamentare. Jabotinskij si aspettava che il movimento aumentasse la pressione ma Weizmann non fu mai il tipo da forzare la mano al governo inglese e si limitò a non più di qualche risoluzione degli enti sionisti. Ma quando sir Herbert Samuel, un ebreo liberale che aveva aiutato Weizmann a ottenere la Dichiarazione, fu nominato primo Alto Commissario civile in Palestina, diede l’amnistia a chiunque fosse coinvolto nella rivolta, incluso il contumace al-Husayni e i due rapitori, e i prigionieri furono rilasciati l’8 luglio. La reazione di Jabotinskij fu rabbiosa per essere stato messo sullo stesso piano di due criminali comuni, e inviò un telegramma a Samuel: “Non fate questo errore! Meglio lasciarmi ad Acri, ma non mettetemi allo stesso livello di un blackie”129. In seguito Jabotinskij disse di avere voluto così definire i due arabi perchè erano “moralmente” neri, ma il Merriam-Webster130 dà una sola definizione di blackie: “persona che appartiene a una razza di pelle nera”. Di certo Samuel poteva interpretare solo in un modo quella definizione. Quando Jabotinskij riportò il contenuto del telegramma al Congresso Sionista Mondiale del 1921, vi fu una protesta a livello globale. Egli non era soddisfatto della semplice amnistia. Insistette che la WZO pagasse le spese legali per l’annullamento definitivo della sentenza. All’’inizio questa rifiutò in quanto, abbastanza sensatamente, non vedeva molto senso nello spendere denaro prezioso per un foglio protocollato, ma le considerazioni politiche interne alla fine la indussero ad accontentarlo, e un anno dopo il War Office inglese annullò la sentenza di primo grado.

La rivolta di Jaffa e la riproposizione della Legione Ebraica Sebbene nessuno all’epoca lo conoscesse, Jabotinskij all’epoca raggiunse il punto più alto della sua carriera all’interno del sionismo ufficiale. Il “Luogotenente Jabotinskij”, come veniva indicato secondo l’usanza post-bellica di citare il rango degli ex ufficiali, fu adeguatamente ricompensato per i suoi servigi e nel marzo 1921 ebbe un posto nell’Esecutivo della WZO. Fin dall’inizio egli fu il più estremista degli estremisti dell’Esecutivo. Gli inglesi stavano valutando l’idea di una milizia arabo-ebraica come guarnigione del paese a fianco delle truppe inglesi, e Jabotinskij spinse l’Esecutivo a contrastarla con successo. Pochi ebrei si sarebbero uniti a tale forza poiché Londra non pagava i “coloniali” tanto quanto i britannici; di fatto, la milizia sarebbe presto diventata un esercito arabo. Invece chiese all’Esecutivo di proporre una Legione Ebraica di cui la WZO avrebbe pagato la parte di salario non corrisposta dagli inglesi. L’Esecutivo era sinceramente preoccupato che gli inglesi si affidassero a truppe arabe, ma non presero mai tanto sul serio la sua proposta di legione; se gli inglesi l’avessero voluta, avrebbero mantenuto la Legione originaria. La questione di fondo con la quale il movimento doveva confrontarsi era riconoscere il fatto che la Legione non sarebbe mai stata accettata, e se volevano fare affidamento su se stessi per la difesa dovevano strutturare l’Haganah come organizzazione clandestina. La questione divenne urgente con il pogrom di Jaffa del maggio 1921. Uno scontro tra ebrei comunisti e sionisti laburisti al Primo maggio di Tel Aviv era stato sedato dagli inglesi; gli spari vennero scambiati dagli arabi della vicina Jaffa per l’inizio di un attacco contro di loro, e iniziarono a compiere uccisioni di ebrei. Prima della fine della rivolta 40 ebrei furono trucidati, e folle minacciose si andavano formando in diverse altre città arabe. Questa volta la pura ferocia della rivolta si volse a vantaggio degli arabi. Gli inglesi si resero conto che il sostegno ai sionisti poteva soltanto provocare la reazione delle masse arabe e temporaneamente sospesero l’immigrazione ebraica, come gesto di distensione verso i nativi. Alla fine l’immigrazione fu ripresa ma i sionisti compresero che era necessario incutere negli arabi il timore di rappresaglie in caso di nuovi attacchi. Se i pogrom fossero continuati, in breve tempo il governo inglese avrebbe concluso che il sionismo era un fardello troppo pesante e l’avrebbe abbandonato. Jabotinskij inizialmente rifiutò di avere a che fare con una qualunque idea di Haganah clandestina, insistendo sulla necessità della Legione come parte stabile della guarnigione del paese. Non avevano i sionisti il diritto di restare in Palestina, non era la casa nazionale la linea ufficiale del

129 Joseph Schechtman, Rebel and Statesman: the Vladimir Jabotinsky Story (the Early Years), 1956 130 Celebre casa editrice di dizionari, fondata in America nel 1831. 44 governo inglese? Egli chiese: gli inglesi appoggiavano sul serio il sionismo? Se così, la Legione ne era la logica conseguenza. Gli arabi ne avrebbero intepretato l’assenza come segno che gli inglesi non erano ancora convinti dei propri scopi e non avrebbero smesso di pressarli fino al raggiungimento dei propri obiettivi. Come disse anche Schechtman, Jabotinskij fu fanaticamente convinto della legalizzazione della Legione, e ci mise parecchio a comprendere che era una triste necessità costituire un’Haganah clandestina nel breve periodo e politicamente continuare a chiedere la Legione. La controversia lo discreditò presso i sionisti locali, che furono d’accordo con Weizmann nel definire irrealistica la sua posizione su ciò che si poteva ottenere dagli inglesi dati i rapporti di forza in campo.

Ritiro del supporto inglese allo stato ebraico Nel novembre 1921 l’Esecutivo inviò Jabotinskij negli Stati Uniti per ciò che diventò un tour di sette mesi per il Jewish National Fund. In sua assenza gli inglesi decisero che la rivolta di Jaffa era il monito che sarebbero andati incontro al disastro se avessero tentato di trasformare la Palestina in uno stato ebraico. Il 3 giugno 1922 Churchill, allora Segretario alle Colonie, inviò all’Esecutivo sionista la bozza di un Libro Bianco che annunciava chiaramente che non vi era mai stata l’intenzione del governo costituire uno stato ebraico. Churchill pose l’accento sulle parole della Dichiarazione Balfour, che a suo dire “non contemplavano che la Palestina nel suo complesso dovesse essere trasformata in una casa nazionale ebraica, bensì che tale casa fosse costituita in Palestina”131. E, ancor peggio, la Transgiordania veniva sommariamente rimossa dalla “casa nazionale”. Il Libro Bianco fu un grosso passo indietro poiché, sebbene la Dichiarazione non menzionasse una maggioranza ebraica o uno stato ebraico, non vi era dubbio che Balfour avesse prospettato ai sionisti la possibilità di diventare la maggioranza nel paese e che allora, come Lloyd George scrisse in seguito nelle sue memorie, la Palestina sarebbe diventata un “Commonwealth ebraico”. Jabotinskij rientrò a Londra il 17 giugno 1922. Churchill richiese la risposta dell’Esecutivo per il giorno seguente (se non avessero accettato, non era il caso di presentarsi). Jabotinskij sapeva che Weizmann non aveva fatto le adeguate pressioni sul Segretario Coloniale. Provò a convincere i colleghi a dare un assenso condizionato. Quando essi accettarono passivamente i termini di Churchill, si rifiutò di firmare il documento finale. Ma non si dimise per protesta: l’abbandono nel momento della sconfitta gli sembrò un segno di eccessiva slealtà.

Discussioni nella WZO Dopo la vicenda del Libro Bianco apparve chiaro che Jabotinskij era in totale divergenza con i leader della WZO. Lui era aggressivo su tutta la linea, mentre loro erano misurati, acquiescenti, borghesi e burocratici. Quasi isolato nell’Esecutivo, non potendo fare nulla contro i suoi colleghi non gli restava che dimettersi e organizzare una nuova fazione. L’inevitabile accadde l’anno successivo, alla riunione dell’Esecutivo del gennaio 1923 a Berlino. Egli vi si presentò con tre risoluzioni: a)Il governo inglese doveva essere sommariamente informato che un appoggio tiepido al sionismo non era sufficiente, che l’incertezza sul sostegno inglese al sionismo stava facendo allontanare investitori e donatori, e l’Yishuv rischiava per questo la bancarotta. b)Tutti gli antisemiti e gli antisionisti dovevano essere rimossi dall’amministrazione mandataria. c)La WZO doveva dichiarare pubblicamente la propria fedeltà ai suoi obiettivi storici. Gli altri membri dell’Esecutivo furono molto diretti: perché non si dimetteva invece di sprecare il suo e il loro tempo tentando di convincerli? L’Esecutivo era il governo del sionismo, non il suo parlamento. Il loro messaggio fu ben chiaro, ma non per Jabotinskij. Egli si vedeva come la punta avanzata del sionismo, indispensabile alla causa. Non aveva fatto nulla tale da rompere la disciplina, non potevano cacciarlo e dunque quel 17 gennaio rifiutò di dimettersi. Poi, senza preavviso, quando l’Esecutivo si riunì di nuovo la mattina del 18 gennaio un messaggero consegnò al presidente la sua lettera di dimissioni. In seguito egli scrisse che la decisione fu presa dopo una discussione coi suoi seguaci, ma Schechtman, di certo non un avversario, è convinto che il passo lo fece totalmente da solo. Parlò, o tutt’al più ricevette messaggi da alcuni sodali che gli dicevano di non dimettersi. La questione è importante perché quel 18 gennaio era previsto che facesse

131 Walter Laqueur, The Israel-Arab Reader: A Documentary History of the Middle East Conflict, 1968 45 fronte a un’inchiesta speciale sulle sue relazioni con il pogromista ucraino Simon Petljura (vedi capitolo 6). Jabotinskij in seguito non ricoprì più ruoli ufficiali nella gerarchia della WZO.

Conclusione Nel 1923 il nome di Jabotinskij era pressoché sconosciuto (anche la maggior parte degli ebrei lo conosceva a malapena). Ma nel movimento sionista egli probabilmente era la figura più nota dopo a Weizmann. Il suo ruolo nel pogrom del 1920 e la sua conseguente carcerazione ne avevano fatto un eroe anche per molti al di fuori del movimento. Retrospettivamente possiamo dire che fu il suo momento migliore. Ma anche qui, realmente, cosa si può dire se non che si trattò di un pogrom razzista contrastato da un razzista e militarista? Emersero i suoi lati migliore e peggiore. Fu certamente coraggioso e non temette la prigione; avere utilizzato quel periodo per tradurre Dante è cosa intellettualmente notevole. Ma il rifiuto di parlare al segretario del tribunale perché era arabo fu una forma di razzismo, e chiamare chiunque “blackie”, anche un rapitore o un promotore di pogrom, è lo stesso che definirlo “negro”. Jabotinskij era un convinto sostenitore della segregazione razziale e in generale dell’inferiorità culturale degli arabi. Al massimo può essere considerato un coraggioso estremista di destra, nulla più. Che la resistenza araba al sionismo abbia preso la forma di un pogrom non dovrebbe stupire chi oggi ha vissuto l’intensità del nazionalismo generato dal nazismo e dalla successiva epoca delle guerre di indipendenza nazionale; allora fu il frutto dell’inevitabile lotta contro inglesi e sionisti. I secoli di dominazione turca avevano prodotto una provincia degradata, con uno strato di effendi corrotti e ignoranza e fanatismo tra le masse. Questa fu la base che consentì al sionismo di mettere radici nel paese. Le rivolte furono sempre seguite da lunghi periodi di stasi. Ma il basso livello culturale dei palestinesi fu solo una precondizione del successo del sionismo. L’altra fu l’appoggio inglese, senza il quale un’Haganah basata sul piccolo Yishuv degli anni ’20 sarebbe stata ricacciata nel mare anche dalla sola elite palestinese. Gli inglesi ovviamente non avevano più diritti su Gerusalemme o Tel Aviv che su Dublino, Belfast, Nuova Delhi o Karachi. E’ solo in Occidente, con la sua storia colonialista, che i sionisti osano ancora farsi forti con la Dichiarazione Balfour, l’accordo Weizmann-Faisal e altri orpelli legali dell’età imperiale come atti di proprietà di un paese appartenente a un altro popolo. Per la grande massa dell’umanità che ha sofferto sotto il giogo dell’imperialismo, specialmente quello dell’Impero inglese, la citazione di queste fonti serve solo a dimostrare la natura reazionaria del sionismo.

46 6. Il patto col diavolo. Simon Petljura132

Dimissioni di Jabotinskij dalla WZO Jabotinskij attaccò Weizmann e la maggioranza dell’Esecutivo sionista alla riunione del gennaio 1923, ma a sua volta non fu esente da critiche per la sua propria condotta, in particolare le sue relazioni con il pogromista ucraino Simon Petljura. I sionisti laburisti si rifiutarono di discutere le sue risoluzioni finchè non avessero ricevuto una spiegazione per il suo comportamento con gli ucraini, e l’incontro potè proseguire soltanto quando Jabotinskij accettò di comparire davanti a una speciale commissione il mattino successivo. Quando la commissione si riunì il 18 gennaio, le fu recapitata una lettera con la quale egli si dimetteva, non solo dall’Esecutivo ma anche dalla WZO. Stando così le cose, egli non riteneva di dover comparire. I sionisti laburisti furono indignati e affermarono che egli aveva voluto sottrarsi all’onta di affrontare la commissione133. Promisero che se fosse rientrato nell’organizzazione essi gli avrebbero nuovamente chiesto una spiegazione per le sue azioni. In realtà quando egli ritornò nella WZO come semplice iscritto i laburisti non richiesero più un giudizio formale sulla questione, ma l’affare Petljura lo perseguitò per il resto della sua vita. Egli ripetè sempre che le sue dimissioni non erano state legate all’audizione prevista, e che egli era orgoglioso dei propri rapporti con gli ucraini, ma è difficile credere che la consapevolezza che avrebbe potuto essere dichiarato collaboratore di un assassino antisemita, almeno dai sionisti laburisti membri della commissione, non abbia influito sulla scelta di dimettersi o almeno sulla scelta di lasciare non solo l’Esecutivo ma anche il movimento al quale aveva dedicato almeno 20 anni delle sue energie.

L’incontro con Slavinskij Il 30 agosto 1921 Maxim Antonovich Slavinskij, capo della missione diplomatica della Repubblica Popolare Ucraina in Cecoslovacchia, fece visita a Jabotinskij a Praga, dove egli si trovava per il XII Congresso Sionista Mondiale. Il governo che Slavinskij affermava di rappresentare non esisteva più, essendo stato cacciato da Kiev dai bolscevichi, ma il suo leader Simon Petljura si era rifugiato nella Galizia orientale, un territorio etnicamente ucraino occupato dalla Polonia, dove aveva ancora 15.000 uomini in armi e l’appoggio finanziario francese. L’Ucraina era diventata uno dei crogiuoli della vasta lotta per il potere nell’ex impero zarista. Una volta che i tedeschi erano stati sconfitti, la maggioranza dei contendenti si erano uniti ai bolscevichi, la forza più radicata nella classe operaia; vi erano poi gli anarchici, la cui roccaforte era la campagna dell’Ucraina orientale; le Guardie Bianche zariste, sostenute dalle flotte francesi e inglesi nel Mar Nero; i polacchi del maresciallo Pilsudskij, con la sua idea di restaurazione di un impero polacco medievale dal mar Baltico al mar Nero; e i nazionalisti ucraini della Rada (Consiglio). Circa 60.000 ebrei furono trucidati in Ucraina tra il 1917 e il 1920. Circa la metà furono massacrati dall’esercito di Petljura in almeno 897 distinti pogrom. Fu la ferocia dei pogrom di Petljura e degli zaristi, che uccisero circa 28.000 ebrei, e quella degli estremisti di destra polacchi, che massacrarono quasi tutti gli altri, a spingere la stragrande maggioranza degli ebrei ucraini tra le braccia dei bolscevichi. Nel 1921 il grosso degli ebrei nel mondo non erano comunisti, ma fu

132 (n.d.t.) In questo capitolo Brenner è molto influenzato dalla sua militanza trockista e vede il diavolo in Simon Petljura, militante socialdemocratico e poi dopo il 1917 una delle figure di spicco della repubblica ucraina. Per contro, Trockij e nell’Armata Rossa vengono rappresentati come dei santi. In realtà le cose non stanno così. Nel periodo 1917 – 1921 l’Ucraina fu attraversata da una sanguinosa guerra civile dove gli atti di barbarie furono commessi da ambo le parti e dove le fazioni socialiste spesso combatterono scontri fratricidi tra di loro. Se è vero che le truppe nazionaliste ucraine al seguito di Petljura parteciparono a pogrom contro gli ebrei, è anche vero che i contadini ucraini furono gettati tra le braccia dei nazionalisti a causa dell’autoritarismo e della politica di rapina nelle campagne (il cosiddetto comunismo di guerra) perpetrati dai bolscevichi russi e dell’Armata Rossa, che trattarono l’Ucraina come terra di conquista. Considerando le innumerevoli collaborazioni tra il sionismo e il nazifascismo, si può dire che l’accordo con Petljura nei termini in cui fu stipulato non fu uno dei crimini più gravi del pur sempre visceralmente anticomunista Jabotinskij. Di questo accordo comunque approfittarono i sionisti laburisti per attaccarlo ed emarginarlo in seno al movimento sionista. 133 Joseph Schechtman, The Jabotinskij – Slavinskij Agreement, 1955 47 opinione comune che in Ucraina e in Russia l’alternativa per loro fosse l’essere uccisi oppure il bolscevismo. Non c’è il minimo dubbio che anche gli ebrei più ricchi all’estero avrebbero considerato Slavinskij come un acerrimo nemico dell’intero popolo ebraico. Ma non Jabotinskij, che gli diede il benvenuto come un vecchio conoscente, un liberale e sincero amico degli ebrei, con il quale egli aveva collaborato alle elezioni per la Duma nel 1907134. Ora da “vecchi buoni amici”, come Slavinskij descrisse i loro rapporti scrivendo a Petljura, cercarono di migliorare l’opinione degli ebrei sul nazionalismo ucraino. Slavinskij disse a Jabotinskij che la Rada aveva in programma un’invasione dell’Ucraina sovietica nella primavera del 1922. Un eventuale successo avrebbe aperto la possibilità a nuovi pogrom: cosa si poteva fare per prevenirli? Avevano divulgato dichiarazioni che condannavano i massacri, dovevano prepararne un’altra? No, basta proclami: “Né io né nessun altro vi crederà. Ci vogliono fatti, non parole”135. Ciò che Jabotinskij propose fu che l’esercito ucraino fosse accompagnato da un corpo di polizia ebraico. Questi uomini non avrebbero combattuto l’Armata Rossa ma avrebbero protetto gli ebrei delle aree che venivano via via occupate. Slavinskij si recò al suo quartier generale per verificare la disponibilità di Petljura e Jabotinskij si consultò con 11 sionisti ucraini e russi presenti a Praga per il Congresso. Otto approvarono l’idea, ma è da sottolineare che Jabotinskij non parlò del negoziato con nessuno dei leader della WZO, nonostante il fatto che una lettera di condanna dei pogrom a firma di Slavinskij fosse stata letta alla sessione di apertura del Congresso. Il 4 settembre Jabotinskij, agendo a titolo strettamente personale senza che la WZO fosse al corrente, siglò l’Accordo con Slavinskij. Ognuno si impegnava a esercitare “la propria personale influenza” per fare sì che il corpo di polizia ebraico fosse messo a punto136. In ottobre un'operazione nazionalista sul confine ebbe un esito così disastroso che la prevista invasione dovette essere annullata, ma l'esistenza del patto fu resa pubblica dagli ucraini. I loro problemi erano innanzitutto politici, e legati strettamente con la questione degli ebrei. Erano visti già come una forza sconfitta, e il loro precedente governo a Kiev aveva conferito loro la fama di selvaggi. Finchè questa immagine fosse rimasta viva, sarebbe stato per loro impossibile convincere i francesi o i polacchi di essere ancora degli aspiranti al potere credibili. Ora uno dei principali esponenti del sionismo era disposto ad aiutarli: chi allora avrebbe potuto dire che erano ancora dei pogromisti? La risposta è che ovviamente quella fama non fu fugata. L'annuncio dell'accordo non portò nulla agli ucraini, i francesi annullarono il sostegno finanziario e la Rada scomparve dalla storia, ma la rivelazione del suo coinvolgimento quasi annientò Jabotinskij. Quando la tempesta scoppiò egli si trovava in America per il tour a sostegno del Jewish National Fund. Emes (Verità), l'organo delle Yevsekziya, le sezioni in lingua yiddish del Partito Comunista sovietico, diede enorme risalto alla notizia dell'accordo: "I sionisti stanno affondando un coltello nella schiena della Rivoluzione. Jabotinskij si è alleato con Petljura per muovere guerra all'Armata Rossa". La protesta montò fino alla liquidazione di quel che rimaneva del sionismo organizzato in Unione Sovietica. La stragrande maggioranza della stampa sionista ed ebraica, per non parlare della sinistra ebraica, condannò il trattato. Molti ebrei pensarono che Jabotinskij fosse semplicemente pazzo: che senso aveva anche solo trattare con una forza chiaramente esaurita come la Rada? Altri (non solo a sinistra) lo videro come motivato da uno spirito anti-sovietico. Il 14 novembre 1921 l'Esecutivo gli inviò un telegramma a New York, chiedendo una completa spiegazione. In dicembre l'Esecutivo dichiarò ufficialmente la propria estraneità al patto a nome dell'Organizzazione Sionista, e deliberò di chiedere conto a Jabotinskij della vicenda al suo ritorno dall'America. In tutta Europa si levarono richieste di dimissioni.

La spiegazione di Jabotinskij Alla protesta montante Jabotinskij reagì freddamente. Espresse il suo punto di vista sulla questione in una serie di articoli:

Ovunque vi sia un pericolo di pogrom contro gli ebrei, a causa di un conflitto tra due o più fazioni non ebraiche armate, io raccomando un accordo per formare una gendarmeria ebraica con l’Armata Bianca, una gendarmeria con l’Armata Rossa, una con l’armata lilla e una con

134 Joseph Schechtman, The Jabotinskij – Slavinskij Agreement, 1955 135 Robert Gessner, Brown Shirts in Zion: Jabotinsky - the Jewish Hitler, New Masses 19 febbraio 1935 136 Joseph Schechtman, The Jabotinskij – Slavinskij Agreement, 1955 48 l’armata verde-pisello, se ve ne sono; lasciamo che sistemino le loro questioni, noi presidieremo le città e vigileremo affinchè la popolazione ebraica non sia molestata137.

Questa affermazione era insieme irreale e disonesta. E' impensabile che degli ebrei potessero adottare una posizione neutrale tra due contendenti dei quali uno massacrava gli ebrei e l'altro era guidato da un ebreo. Nella storia gli ebrei, sia come individui che come comunità, sono sempre stati coinvolti nei conflitti interni alle società in cui vivevano. Inoltre la tesi non è onesta in quanto non vi è la minima prova che Jabotinskij abbia mai proposto, o pensato di proporre, una gendarmeria ebraica al seguito dell'Armata Rossa: si trattava solo di retorica. Come vedremo egli non appoggiò mai alcun tipo di alleanza militare difensiva con forze di sinistra, contro i nazisti o contro altri elementi antisemiti. Al contrario, cercò ripetutamente e ricevette il sostegno di governi antisemiti sia prima che dopo l'accordo con Slavinskij. All'inizio la posizione di Jabotinskij fu che il suo accordo non riguardava l'Esecutivo della WZO. La WZO in quanto tale non prendeva posizione sulla politica locale, dunque l'accordo poteva essere esaminato soltanto dai sionisti di Russia e di Ucraina, e questi erano banditi in teoria e quasi del tutto anche in pratica. Per lui quindi soltanto la Conferenza dei sionisti russo - ucraini in esilio aveva il titolo per giudicare l'accaduto. Tra il 7 e l'11 settembre quell'organismo si era riunito e aveva votato una risoluzione per cui l'accordo non veniva considerato come un atto di inteferenza nella politica ucraina, ma non per questo venne approvato. Schechtman, che fu uno degli estensori della risoluzione, insiste nel dire che "la Conferenza non entrò nel merito sulla questione dell'accordo"138. Il loro atteggiamento fu diverso da quello della maggior parte degli ebrei nel mondo, ma prevedibile. I giovani ebrei sovietici, comprendendo che l'Armata Rossa era l'argine tra loro e i pogromisti, si erano arruolati nei suoi ranghi, anche se lontani ideologicamente dal Partito Comunista. I membri della Conferenza, invece, erano ostili al nuovo regime, per varie ragioni: alcuni per aver perso i propri averi durante la rivoluzione, altri perchè furibondi per il bando contro il sionismo. Tuttavia rappresentavano una piccola eccezione: per la grande maggioranza degli ebrei sovietici chiunque proponesse che volontari ebrei accompagnassero un'armata pogromista che avrebbe provato ad uccidere ebrei, per lo meno nella loro veste di soldati dell'Armata Rossa, ebbene questi per loro non poteva essere che un traditore o un pazzo. Moltissimi ebrei e anche sionisti al di fuori dell'URSS all'epoca condivisero questa opinione. Non c'è dubbio che i leader della WZO non avrebbero mai approvato un patto con Petljura se Jabotinskij ne avesse parlato in anticipo. Nè diedero il loro assenso retrospettivamente. Ma essi certamente non intendevano condannarlo per questo. Egli aveva agito a titolo personale; essi avevano una linea di chiara astensione dalle vicende politiche interne di ogni nazione; il sionismo era bandito in Unione Sovietica; ed essi erano legati agli inglesi, ex alleati dello Zar e poi finanziatori delle Guardie Bianche pogromiste dopo la guerra. Weizmann e altri erano consapevoli di tutto questo e non avevano fatto nulla per protestare contro la condotta criminale del governo inglese. L'Esecutivo dunque raccomandò che fosse accettata la risoluzione della Conferenza russo-ucraina, ma i sionisti laburisti minacciarono di astenersi dal votare sulle altre questioni se Jabotinskij non avesse fornito una spiegazione su tutta quanta la vicenda. Jabotinskij, che voleva affrontare con Weizmann e gli altri la questione del loro atteggiamento pusillanime verso gli inglesi, dichiarò di volere affrontare la commissione di inchiesta. La sua sommaria e improvvisa marcia indietro quindi automaticamente indispettì i laburisti e in generale diede a tutti l'impressione che volesse evitare l'audizione. La leadership sionista, imbarazzata dall'affare Petljura e dall'inutile massimalismo sulla Palestina, era giunta a considerare Jabotinskij una spina nel fianco e, con tutto il rispetto per le sue qualità e i suoi servigi del passato, fu lieta di vederlo al di fuori del movimento. Jabotinskij rientrò presto nella WZO ma mai più come parte del gruppo dirigente. Ripetè sempre che le sue dimissioni non avevano nulla a che fare con la commissione. E in realtà la maggioranza dei membri non erano sionisti laburisti, e non intendevano arrivare alla resa dei conti con lui su quella vicenda. Avendo già messo in chiaro la questione dell'approccio con gli inglesi in Palestina, difficilmente lo avrebbero messo all'angolo anche sull'altra vicenda. Quando nel 1925 Jabotinskij ricomparve come delegato al Congresso Sionista Mondiale, nessuno tornò sull'argomento di due anni prima. Ma quando egli iniziò a farsi strada sia come oppositore della corrente borghese di

137 Joseph Schechtman, The Jabotinskij – Slavinskij Agreement, 1955 138 ibidem 49 Weizmann che di quella sionista laburista, allora l'affare Petljura divenne un punto fisso per attaccarlo in quanto ultra-reazionario.

Strascichi Jabotinskij difese sempre l’accordo; nel gennaio 1935 Robert Geisser, giornalista e comunista ebreo polacco, lo incontrò a bordo di una nave diretta in America ed egli rilasciò una celebre intervista, dicendo che:

anche oggi sarei orgoglioso di un tale accordo, come quando lo fui al momento della firma...Non credo che Petljura fosse antisemita. Aveva sano sangue contadino nelle vene. Furono i suoi soldati a sfuggire al controllo139.

Questa distinzione non aveva significato, come lo stesso Jabotinskij ammise. Il 26 maggio 1926 un ebreo, Shalom Schwarzbard, assassinò Petljura a Parigi. L’anno successivo, durante il processo (la giuria lo assolse), Jabotinskij scrisse che Petljura, indipendentemente dalle sue opinioni, era responsabile dei pogrom perché non aveva punito i colpevoli e non si era dimesso. Ma aggiunse di essere rimasto un simpatizzante del movimento nazionalista ucraino nonostante “i gravi peccati commessi da questo movimento contro il popolo ebraico”140. Alla fine della sua vita si era convinto che l’accordo fosse stato il punto più alto della sua carriera, affermando di essere più orgoglioso di quello che non della creazione della Legione Ebraica e poi dell’Haganah:

Quando morirò potete scrivere questo come epitaffio: “Questo fu l’uomo che fece il patto con Petljura”141.

Alla fine importa poco se Jabotinskij si dimise dall’Esecutivo per le divergenze con Weizmann sulla Palestina o per timore della commissione di inchiesta. Su entrambe le questioni si dimostrò molto irrealistico, prendendo posizioni che non potevano trovare riscontro nei fatti concreti. Per quanto insistesse, la WZO non aveva potere di costringere gli inglesi a cambiare linea, e la gendarmeria ebraica in Ucraina fu un progetto poco più che fantasioso. Jabotinskij fu spesso affetto da allucinazioni politiche, agendo in un mondo proprio dove i pensieri avevano il sopravvento. Quando gli inglesi e gli zaristi decisero di usare i sionisti a proprio vantaggio, come nel caso della Legione, egli ebbe un certo buon gioco, ma fu solo un mascheramento della sua essenziale follia. La collusione col ministro degli Esteri dello Zar fu un crimine come la firma del patto con Slavinskij, ma una cosa ne fece un eroe perché fece ottenere la Legione, l’altra si rivelò la bancarotta della sua concezione politica. L’idea di giovani ebrei al seguito dell’esercito pogromista ucraino sarà sempre vista come una delle sue concezioni più ignobili.

139 Robert Gessner, Brown Shirts in Zion: Jabotinsky - the Jewish Hitler, New Masses 19 febbraio 1935 140 Joseph Schechtman, The Jabotinskij – Slavinskij Agreement, 1955 141 ibidem 50 7. Principi basilari del sionismo revisionista

Dopo le dimissioni: nascita del revisionismo Il primo impulso di Jabotinskij, dimettendosi dalla WZO, fu di ritirarsi dall'attività politica e di confinarsi a scrivere per i giornali commenti sul triste stato del movimento sionista. Era in posizione isolata: anche i suoi seguaci più vicini, esiliati russi come lui, non approvarono affatto le sue dimissioni dalla WZO. Ma nonostante questa significativa divergenza nel luglio 1923 i sionisti russi in esilio annunciarono che Jabotinskij era stato inserito nella redazione del loro organo, Rasswyet (Alba). Un giornale in russo in Europa occidentale, per di più rivolto a temi ebraici e sionisti e da un punto di vista estremista, non aveva possibilità di sopravvivere autonomamente, e nell'autunno 1923 egli si recò a cercare fondi negli "stati di confine" (Lituania, Lettonia e Estonia). Furono i "Maccabei", gli studenti sionisti di Riga, che lo spinsero a rientrare all'attività di partito: "E adesso? - gli chiesero - Non hai il diritto di dire queste cose e di sobillare i giovani se non intendi coinvolgerli nell'azione. O taci, o organizzi un partito". Quella sera promise che lo avrebbe fatto. Nel dicembre 1923 fu aperta a Berlino la prima sede del nuovo movimento, e nella primavera del 1924 fu presentato il programma, a firma di un'ipotetica Lega per la Revisione della Politica Sionista - Organizzazione Provvisoria. Nel dicembre 1924 fu definito il nome, e il 25 aprile 1925 a Parigi si tenne il "Congresso di Fondazione" della Lega dei Sionisti Revisionisti. Al di fuori del nucleo costitutivo formato da emigrati, la nuova tendenza ebbe difficoltà a reclutare i veterani sionisti. La sua crescita iniziale avvenne tra gli studenti ebrei delle università dell'Europa centrale. Nonostante le dicerie sulle masse sioniste che vi si riversavano, l'organizzazione si allargò molto lentamente. Ebbe solo 4 delegati (su circa 400) al 14mo Congresso Sionista Mondiale nel 1925, e 10 nel 1927. Gli anni '20 furono il periodo in cui il revisionismo, ovvero Jabotinskij, mise a punto i suoi principi teorici sulla natura del sionismo, e la sua linea nei confronti degli inglesi e degli arabi. Sebbene Herzl si considerasse il Cecil Rhodes ebraico, la maggior parte dei primi membri della WZO non furono spinti da motivazioni imperialiste. Essi vedevano il sionismo o come un'estensione della religione ebraica o, invece, come un sostituto moderno di questa. Pochi sionisti della prima ora si immaginavano in Palestina. In Occidente il sionismo a fatica andava oltre l'attività di raccolta fondi. Esso veniva scherzosamente presentato come "un ebreo chiede soldi a un altro ebreo per mandare un terzo ebreo in Palestina". Il sionista medio non pensava alla presenza degli arabi in Palestina. Per i membri della WZO il sionismo era un'opzione a favore degli ebrei, ma non contro gli arabi. Il legame con l'imperialismo inglese non intaccò profondamente questa auto-rappresentazione. Dopotutto la dominazione inglese sulla Palestina per i membri della WZO era un passo avanti rispetto alla Turchia. L'Inghilterra significava legge, ordine e soprattutto modernità. Gli inglesi portavano sulle proprie spalle il "fardello dell'uomo bianco", i sionisti a loro volta si rappresentavano come i loro "cugini semiti", col compito di "far fiorire il deserto". Di certo, essi pensavano, gli arabi avrebbero compreso come il sionismo fosse un vantaggio per la Palestina.

Il Muro di Ferro Jabotinskij non coltivò mai queste illusioni, e una volta fuori dall'Esecutivo si sentì libero di sviluppare le sue concezioni sulla natura del sionismo. Il 4 novembre 1923 Rasswyet pubblicò un articolo, Il muro di ferro (noi e gli arabi), considerato da seguaci e nemici come il suo manifesto politico. Forse, essendo così netto nelle sue affermazioni colonialiste, i suoi epigoni non hanno pensato di divulgarlo massicciamente tra il pubblico inglese, ma naturalmente in Israele lo scritto è ben noto. E' necessario esaminarlo in dettaglio, ma la cosa è giustificata, data la sua importanza. Jabotinskij iniziò sottolineando di non essere anti-arabo:

L’autore di queste righe è ritenuto un nemico degli arabi, un assertore della loro espulsione, etc. Non è vero. Il mio rapporto emotivo con gli arabi è uguale a quello che ho con tutti gli altri popoli

51 – di cortese indifferenza. Il mio rapporto politico è caratterizzato da due principi. Primo: l’espulsione degli arabi dalla Palestina è assolutamente impossibile in ogni caso. In Palestina vi saranno sempre due nazioni; la qual cosa mi sta bene, se gli ebrei saranno la maggioranza. Secondo: sono orgoglioso di essere un membro che ha redatto il Programma di Helsingfors142. Lo abbiamo redatto non solo per gli ebrei, ma per tutti i popoli, e il suo principio è l’eguaglianza di tutte le nazioni. Sono pronto a giurare, per noi e per i nostri discendenti, che non distruggeremo mai quest’eguaglianza, e non cercheremo mai di espellere o di opprimere gli arabi. Il nostro credo, come il lettore può constatare, è completamente pacifico. Ma la possibilità di raggiungere i nostri scopi pacifici con mezzi altrettanto pacifici è tutta un’altra questione. Essa dipende, non dal nostro rapporto con gli arabi, ma esclusivamente dal rapporto degli arabi con il sionismo.

Continuò ridicolizzando chi pensava che bastasse convincere i palestinesi dei vantaggi materiali che sarebbero loro venuti grazie al sionismo:

Ogni popolazione nativa – sia essa civilizzata oppure selvaggia – considera il proprio paese come la propria dimora natale, di cui si considera l’assoluta padrona. Non permetterà mai volontariamente, non solo un nuovo padrone, ma neppure un nuovo partner. E così è per gli arabi. Quelli tra noi disponibili al compromesso cercano di convincerci che gli arabi sono quel genere di sciocchi che possono essere ingannati da un’espressione addolcita dei nostri scopi, oppure una tribù di mangia-soldi che abbandoneranno i loro diritti ancestrali sulla Palestina in cambio di vantaggi culturali e economici. Rifiuto recisamente questa valutazione degli arabi palestinesi. Culturalmente stanno 500 anni indietro rispetto a noi, spiritualmente non hanno la nostra resistenza e la nostra forza di volontà, ma questo esaurisce tutte le differenze interiori...Essi guardano alla Palestina con lo stesso amore istintivo e con lo stesso fervore con cui ogni atzeco guardava al suo Messico, o ogni sioux alla sua prateria. Pensare che gli arabi accetteranno volontariamente la realizzazione del sionismo in cambio dei vantaggi culturali e economici che potremo accordare loro, è infantile. Questa fantasia infantile dei nostri “arabofili” viene da una sorta di disprezzo per il popolo arabo, o da qualche sorta di opinione infondata su questa razza come se fosse una marmaglia pronta a essere comprata in modo da svendere la propria terra in cambio di una rete ferroviaria.

L'uso di certe parole piuttosto che di altre non aveva importanza:

La colonizzazione stessa ha la sua propria spiegazione, integrale e ineludibile, e comprensibile da ogni arabo e ogni ebreo che siano dotati di prontezza di spirito. La colonizzazione può avere un solo scopo. Per gli arabi palestinesi questo scopo è inammissibile. Questo rientra nella natura delle cose. Cambiare questa natura è impossibile.

Alcuni sionisti ingenuamente guardavano a Faisal, che gli inglesi avevano collocato come loro fantoccio a Baghdad, per fare un nuovo accordo con gli arabi. Secondo loro Faisal con le baionette arabe avrebbe imposto il sionismo sulla popolazione autoctona:

Se fosse possibile (ma ne dubito) discutere della Palestina con gli arabi di Baghdad e della Mecca come se si trattasse di una sorta di frontiera piccola e immateriale, anche in quel caso la Palestina continuerebbe a rimanere, per i palestinesi, non una frontiera ma il loro luogo ancestrale, il centro e la base della loro esistenza nazionale. Perciò sarebbe necessario portare avanti la colonizzazione contro la volontà degli arabi palestinesi, che è la stessa condizione che esiste ora.

E dunque? Coloro che pensavano che per il sionismo l'accordo coi nativi fosse essenziale potevano "ora dire no e lasciare il sionismo". Egli spiegò le implicazioni della propria posizione:

La colonizzazione sionista, anche quella più limitata, deve essere completata, o almeno portata avanti, in aperta sfida alla volontà delle popolazioni native. Una tale colonizzazione può, perciò, continuare e svilupparsi solo sotto la protezione di una forza indipendente dalle popolazioni native – un muro di ferro che le popolazioni native non possano spezzare. Questa è, in toto, la nostra politica verso gli arabi. Indicare altre strade sarebbe solo ipocrisia.

142 A Helsingfors nel 1906 si tenne la terza conferenza dei sionisti di tutta la Russia, cui Jabotinskij partecipò attivamente (vedi capitolo 2). 52

Sottolineò che tutti i sionisti credevano nel muro di ferro:

In questo senso, non vi sono differenze significative tra i nostri “militaristi” e i nostri “vegetariani”. Uno preferisce un muro di ferro di baionette ebraiche, un altro propone un muro di ferro di baionette inglesi, un terzo propone un accordo con Baghdad, e sembra soddisfatto delle baionette irachene – una preferenza strana e un po’ rischiosa, ma tutti noi applaudiamo, giorno e notte, il muro di ferro.

Se il muro di baionette (e lui preferiva naturalmente le baionette ebraiche) fosse cresciuto a sufficienza, alla fine i palestinesi sarebbero scesi a patti:

Tutto questo non significa che qualsiasi accordo è impossibile, solo che è impossibile un accordo volontario. Fino a quando vi sarà un briciolo di speranza che possano sbarazzarsi di noi, non rinunceranno alle loro speranze, non lo faranno con parole dolci o con bocconi stuzzicanti, perché non sono una plebaglia ma una nazione, una nazione forse a brandelli ma ancora viva. Un popolo vivo può fare concessioni così enormi su questioni così cruciali solo quando non gli viene lasciata nessuna speranza. Solo quando non vi sia neppure un solo varco visibile nel muro di ferro, solo allora i gruppi estremisti perderanno il loro potere, e l’ascendente passerà ai gruppi moderati. Solo allora questi gruppi moderati si rivolgeranno a noi con proposte di concessioni reciproche. E solo allora i moderati avanzeranno suggerimenti di compromesso su questioni pratiche, come ad esempio un accordo contro le espulsioni, o su argomenti come l’eguaglianza e l’autonomia nazionale. Sono ottimista che costoro riceveranno infine rassicurazioni soddisfacenti, e che entrambi i popoli, come buoni vicini, possano vivere in pace. Ma la sola via per arrivare a un tale accordo è il muro di ferro, vale a dire il rafforzamento in Palestina di un governo senza nessuna influenza araba, che è qualcosa contro cui gli arabi combatteranno. In altre parole, la sola via per noi di un futuro accordo è il rifiuto assoluto di un accordo in questo momento.

La linea del “dominion ebraico” Jabotinskij riconosceva che il debole insediamento sionista non avrebbe mai potuto far fronte agli arabi, numericamente superiori, senza la presenza degli inglesi. E sapeva per esperienza che a parte rare eccezioni i politici di Londra non erano sinceramente preoccupati degli interessi dell'ebraismo mondiale; tutto ciò a cui badavano era il loro tornaconto. I suoi scritti rivolti al pubblico inglese erano dunque inclini alla più sfacciata terminologia filo-imperialista. Nel 1917 nel suo La Turchia e la guerra aveva già dato prova di impazienza nel mettere in chiaro le cose con gli arabi, i quali dovevano capire che la

…inflessibile volontà di tenere l’intero Mediterraneo in mani europee è la base solida per cui ogni discussione su una qualche rivendicazione araba sarebbe inutile e infruttuosa… “Piemonte” è un termine politico che difficilmente ha bisogno di spiegazioni. Dobbiamo solo aggiungere che la simpatia che in generale viene rivolta al ruolo del Piemonte nel Risorgimento italiano non implica necessariamente che l’idea di un Piemonte arabo riscuota la medesima simpatia. La rinascita italiana aveva con sé grandi promesse che non troviamo assolutamente nel caso della Panarabia…vi sarebbe soltanto la formazione di un insieme di agitazioni, intrighi e disordini…Queste considerazioni ci spingono a pensare che le rivendicazioni degli arabi possano avere una possibilità di successo in questo momento se vengono formulate con la massima moderazione. L’indipendenza della Siria, ad esempio, è chiaramente e indiscutibilmente fuori questione…sarebbe interpretata da Francia, Italia e Inghilterra come un gravissimo attacco alla sicurezza dei loro imperi coloniali143.

Mentre era nell’Esecutivo Jabotinskij mutò leggermente i suoi sentimenti anti-arabi; i suoi colleghi stavano ancora brancolando alla ricerca del monarca arabo che li avrebbe accompagnati alla soglia del potere. Ma una volta fuori potè dare sfogo al suo totale antagonismo nei confronti delle aspirazioni arabe:

In Inghilterra e anche tra le nazioni civilizzate del bacino mediterraneo sta crescendo la consapevolezza che l’Europa non ha completato i suoi obiettivi sulla costa orientale e

143 Vladimir Jabotinskij, La Turchia e la Guerra, 1917 53 meridionale, che i popoli europei devono porre una volta per tutte fine ai tentativi di scacciarli da quelle coste. Un popolo che si dichiara nostro nemico e cerca di rovinarci si ritrova di fronte l’ostilità dell’intera Europa, ovvero un nemico invincibile…Non potremo mai sostenere il movimento arabo che oggi si oppone a noi, e siamo ben felici di ogni sventura di questo movimento, non solo nelle vicine Transgiordania e Siria ma anche in Marocco144.

Sin dall’inizio la nuova fazione non smise di insistere che Sion poteva essere un bastione dell’impero. L’idea fu descritta dal colonnello Henry Patterson, primo comandante della Legione e da allora in poi portavoce “gentile” del revisionismo, nell’introduzione a una riedizione della Storia della Legione Ebraica di Jabotinskij (pubblicata per la prima volta nel 1928). Per quel protestante irlandese, devoto a Re Giorgio quanto al biblico Re Giacomo, il suo ex luogotenente era un altro Giuda Maccabeo, che riportava in vita i fasti militari degli ebrei del passato. Non solo l’Inghilterra restituendo agli ebrei la loro antica patria avrebbe adempiuto alla parola rivelata di Dio, ma il nazionalismo ebraico avrebbe rappresentato anche un chiaro vantaggio “terreno”:

Una Palestina ebraica fornirebbe all’Inghilterra un’altra Gibilterra (fedele fino alla morte) all’estremità orientale del Mediterraneo.

Nel 1928 un altro colonnello, Josiah Wedgewood, parlamentare laburista a Londra, pubblicò un libro dal titolo Il Settimo Dominion, proponendo che la Palestina diventasse un dominion ebraico145. La sua idea fu subito appoggiata dai revisionisti, e Jabotinskij divenne il presidente della sezione di Gerusalemme della Lega per il Settimo Dominion. Che questi imperialisti avessero tali preoccupazioni verso il proprio compito in Terrasanta è piuttosto divertente; vi fu sempre una corrente in Gran Bretagna che riteneva che l’Impero inglese fosse una sorta di missione divina, e con la Dichiarazione Balfour questa particolare tendenza si fece sentire. Patterson e Wedgewood si comportavano come i nuovi crociati. Ma per gli ebrei come Jabotinskij e i suoi seguaci, già come con la Russia zarista, trasformarsi in soldati dell’Impero inglese era qualcosa di ridicolo. Abba Achimeir, nel 1930 il principale esponente del revisionismo in Palestina, scrisse che:

In ogni conflitto Oriente – Occidente, noi saremo sempre dalla parte dell’Occidente, poiché l’Occidente è culturalmente superiore dell’Oriente da ormai mille anni, da quando il Califfato di Baghdad è stato distrutto dai mongoli…e noi oggi siamo i primi e più fedeli portatori della cultura…è nostro interesse l’espansione dell’impero inglese anche oltre i limiti concepiti dagli inglesi stessi146.

Com’era prevedibile, la tendenza di Jabotinskij a estremizzare si espresse anche nel suo desiderio di trasformarsi in uno strumento dell’Impero inglese. Si può citare il suo messaggio all’Unione Anti- socialista e Anti-comunista in un club di Londra, o il discorso in yiddish a Varsavia il 28 dicembre 1931, quando iniziò a lamentare il declino dell’Impero:

L’Inghilterra non è più pervasa dall’antica spinta a costruire e primeggiare. E ciò che chiediamo agli inglesi è questa spinta e convinzione, più coraggio, più creatività…l’Inghilterra sta diventando continentale! Poco tempo fa il prestigio del dominatore inglese sulle colonie “colored” era molto elevato. Indiani, arabi, malesi erano consapevoli della sua superiorità e obbedivano, non senza protestare ma completamente. Lo schema di comportamento dei futuri dominatori era fondato sul principio: “fai in modo che chi è inferiore percepisca la tua inoppugnabile superiorità in ogni azione”. Ma negli uomini inglesi si sente un declino dell’istinto imperialista…La diminuzione della convinzione negli obiettivi imperialisti si riscontra in vari modi: l’indifferenza per l’emancipazione dell’Egitto, la mancanza di preoccupazione per l’eventuale perdita di India e Irlanda. Ciò non significa che tutto è perduto, in cinque o dieci anni le cose potrebbero cambiare. L’Inghilterra può ancora rieducare i suoi rappresentanti. L’appetito imperiale può ardere nuovamente, perché questo è un popolo molto potente e dotato147.

144 Menorah Journal, novembre 1930 145 Gli altri sei dominion (colonie autogovernate) inglesi erano Canada, Australia, Nuova Zelanda, Terranova, Sudafrica e Irlanda. 146 In Yakov Shavit, The Attitude of the Revisionists to the Arab Nationalist Movements, 1978 147 John Bowyer Bell, Terror Out of Zion, 1977 54 Ma perché l’Inghilterra, il cui Impero si estendeva in ogni parte del mondo, avrebbe dovuto richiedere i servigi della piccola colonia sionista in Palestina? Chiaramente, chiunque avrebbe potuto vedere che erano i sionisti ad avere bisogno di protezione, e non il contrario. Ma Jabotinskij aveva la risposta pronta, ovvero: “oggi è oggi ma domani per l’Inghilterra potrebbero arrivare i problemi”.

Non ho bisogno di soffermarmi sull’ovvietà dell’importanza della Palestina dal punto di vista degli interessi inglesi. Devo soltanto aggiungere che la sua validità dipende da una condizione fondamentale, ovvero che la Palestina cessi di essere un paese arabo…Se la Palestina rimanesse araba, essa entrerebbe in una certa orbita: secessione, federazione di paesi arabi, eliminazione delle tracce dell’influenza europea. Ma una Palestina prevalentemente ebraica, circondata da tutti i lati da paesi arabi, nell’interesse della propria sopravvivenza tenderà sempre ad appoggiarsi a un Impero potente, non arabo e non musulmano. Questa è una base assai importante per un’alleanza permanente tra l’Inghilterra e una Palestina ebraica (e sottolineo ebraica)148.

La componente militarista del revisionismo Data la consapevolezza del fatto che uno stato sionista non poteva essere ottenuto pacificamente, e che il sionismo essendo debole militarmente sarebbe sempre stato considerato un fardello dagli inglesi, la logica conseguenza era il pensiero espresso da Jabotinskij in un incontro pubblico a Berlino nel gennaio 1927: “la lettera L (come Legione) è la più importante nell’alfabeto sionista; l’opposizione alla Legione è la negazione del sionismo”149. Ripetutamente egli ribadiva il proprio cavallo di battaglia, proclamando la

…legge ferrea di ogni movimento coloniale, una legge che non conosce eccezioni, una legge applicatasi in ogni epoca e in ogni circostanza. Se si vuole colonizzare un paese in cui abita già un popolo, occorre dotarsi di una guarnigione a propria difesa. O così, o niente colonizzazione, perché senza una forza armata che renda fisicamente impossibile ogni tentativo di distruggere o prevenire questa colonizzazione, la colonizzazione è impossibile, non “difficile” o “pericolosa” ma IMPOSSIBILE!...Il sionismo è un’avventura coloniale e dunque si basa sulla disponibilità o meno di forza armata. E’ importante costruire, è importante parlare l’ebraico, ma sfortunatamente è ancora più importante saper sparare, altrimenti la colonizzazione finisce lì150.

Dal 1923 fino a dopo la fondazione dello stato d’Israele, dunque, il focus principale del revisionismo fu la questione militare. Nei primi anni il settore chiave dell’organizzazione da questo punto di vista furono le camicie brune del Betar, dall’acronimo ebraico di Unione Yosef Trumpeldor, che era stato ucciso nel 1920 difendendo la piccola comunità di Tel Hai in Galilea in uno scontro con una banda di predoni locali. Il Betar fu sempre militarizzato sia nella struttura che nell’ideologia. Al suo primo Congresso mondiale, a Varsavia nel gennaio 1929, si discusse se eleggere democraticamente i funzionari oppure organizzarsi sulla base di una gerarchia strettamente militare, e fu scelta la seconda soluzione151. Sebbene in Palestina l’Haganah godesse del supporto dell’intero movimento sionista, nella Diaspora non vi era da nessuna parte una forza paramilitare della maggioranza sionista paragonabile al Betar o al Brit HaChayal, la lega degli ex- militari revisionisti. Poiché la WZO non concedeva certificati di emigrazione in Palestina a giovani che non avessero compiuto il necessario addestramento, i revisionisti allestirono delle specie di campeggi agricoli nella Diaspora. Ma ciò fu in gran parte una copertura: gli “sport di autodifesa” e laddove possibile l’addestramento erano sempre l’attrattiva principale presentata dai revisionisti alla gioventù ebraica. Il bagaglio ideologico del primo Betar, così come del movimento a uno stadio di sviluppo maggiore, era ridotto al minimo. Il loro programma nel suo complesso fu riassunto da Jabotinskij in quello che egli chiamò l’ “Eptalogo”: 1) Malchut Yisrael: il regno di Israele (non una monarchia), ovvero una maggioranza ebraica sui due lati del Giordano 2) Legione 3) Ferrea disciplina

148 Vladimir Jabotinskij, State Zionism, 1935 149 Yehuda Benari – Joseph Schechtman, History of the Revisionist Movement: 1925-1930, 1970 150 Valdimir Jabotinskij, The Iron Law, 1925 151 Yehuda Benari – Joseph Schechtman, History of the Revisionist Movement: 1925-1930, 1970 55 4) Dignità 5) Mobilità: tutti i betarim che si recassero in Palestina dovevano mettersi a disposizione del movimento per due anni, ovunque e in ogni ruolo. 6) Lingua ebraica 7) Pensiero unico: Jabotinskij si opponeva a quello che definiva shaatnez ideologico (lo shaatnez è una combinazione di lana e lino, e la religione ebraica vietava ai credenti di indossare abiti così composti) Jabotinskij si batteva contro la conciliazione del sionismo con il socialismo, la religione o ogni altro pensiero. Vedremo tra poco che questa indicazione non venne rispettata né da lui né dai suoi seguaci, ma l’effetto in generale fu di appiattire il livello intellettuale del movimento, riducendo al minimo la discussione sulle questioni sociali, a parte pochi principi destrorsi più le eccentriche teorizzazioni di Jabotinskij stesso. Chiunque desiderasse l’uguaglianza sociale semplicemente si volgeva altrove.

La produzione letteraria di Jabotinskij Gli anni ’20 dal punto di vista letterario furono prolifici: oltre a tradurre in ebraico brani di Dante, Poe, Rostand, D’Annunzio e parti dei poemi di Omar Khayyam nella versione di Edward Fitzgerald, egli pubblicò un almanacco, scrivendo tra le altre cose il capitolo sul galateo a tavola, e fu co- editore del primo atlante in ebraico. Ma il suo lavoro di gran lunga più importante fu il romanzo del 1926, Sansone, pubblicato originariamente a puntate su Rasswyet. “Tutta la nostra generazione si formò su quel libro” dice il suo più famoso discepolo152. Nel 1950 Cecil B. DeMille realizzò il film Sansone e Dalila, con Victor Mature e Hedy Lamarr, ma il soggetto orginale è ben più forte della versione hollywoodiana. L’eroe di Jabotinskij aveva poco a che fare con la figura biblica di Sansone. Esso è un personaggio politico, non religioso. Due “popoli reali”, Israele dal deserto e i Filistei dal mare, hanno conquistato Canaan e stanno soggiogando i suoi abitanti. Ma i Filistei sono in realtà i privilegiati, poiché gli Israeliti sono divisi in 12 litigiose tribù. Il tema centrale del libro è l’acquisizione da parte di Sansone dei segreti del successo dei Filistei, ma queste conoscenze richiedono tempo per maturare. Ciò che emerge innanzitutto è il radicato colonialismo e razzismo dell’autore. Ripetutamente ci viene rappresentata un’immagine riprovevole dei Cananei:

La marmaglia cittadina, artigiani e mendicanti (composta esclusivamente da elementi delle tribù indigene, residui del passato tra i due popoli conquistatori)…i cani randagi del quartiere…tutto sembrava uguale, senza alcuna identità di razza: a ciò assomigliavano gli abitanti dell’area. … Tra le donne danite153 vi era un certo numero di cananee, seconde e terze mogli, concubine, matrigne, figliastre: precursori del processo in atto per cui il debole ceppo nativo veniva assorbito nel sangue forte e aspro dei colonizzatori. … Entrambi si dimostrarono robusti, uomini forti, nei loro occhi non vi era nulla di quell’aria spenta tipica dei nativi. Forse avevano tracce di sangue filisteo. … Sansone gli disse…: “Se gli uomini si riconoscono, non vi è alcuna inimicizia reciproca.” “So poco degli uomini” replicò Nehushtan dopo un breve silenzio “Io sono un pastore e conosco gli animali. Con gli animali è diverso” “In che senso è diverso?”. “Un cane nero e un cane marrone non si battono mai quando ciascuno è con il proprio branco, ma mettili insieme e il branco non conta più”.

In seguito, quando i suoi seguaci discutono coi loro ospiti filistei,

Sansone camminò solo per qualche tempo, pensando alle virtù pastorali di Nehushtan. Un cane nero e un cane marrone…forse.

Abbastanza presto Sansone giunge ad accettare la filosofia del saggio campagnolo, dicendo ai suoi ospiti:

152 Menachem Begin 153 I Daniti erano una delle 12 tribù israelitiche, discendenti di Dan, figlio di Giacobbe. Ad essi apparteneva Sansone. 56 La seconda cosa che ho imparato negli ultimi giorni è l’importanza di avere delle pietre di confine…I vicini vanno d’accordo finchè ognuno rimane a casa sua, ma i guai cominciano quando iniziano a farsi visita a vicenda. Gli dei hanno reso gli uomini differenti tra loro, e hanno ordinato loro di non oltrepassare i fossati che delimitano i campi. E’ un peccato che gli uomini mischino ciò che Dio ha separato.

Sansone come esponente della separazione razziale non andava molto d’accordo con i Filistei, che erano ben consapevoli della sua predilezione amorosa per le shiksa154, ma da uomo forte rispose alle loro derisioni:

“Vicino al tempio di Baal-Zebub a Ekron c’è un terreno pieno di api” rispose “Nessuno dei sacerdoti osa andare lì per pregare, tranne quelli nati con sangue aspro: questi uomini sono in grado di resistere alle punture di api, vespe e calabroni. Ma loro non sono molti, e per gli altri entrare nella terra delle api significa la morte”

Jabotinskij non voleva più la mescolanza razziale ma non intendeva escludere i convertiti, o gli ebrei per parte di uno dei genitori, o gli ebrei già sposati con non ebrei. Così, quando un profeta prova a ricordare a un israelita il divieto di matrimonio coi cananei, Sansone si erge a giudice e lo rimprovera. Ma anche qui i pregi della razza ebraica, il suo “sangue forte e aspro”, sono decisive:

Noi non siamo acqua – rispose Sansone – siamo il sale. Gli altri sono l’acqua…getta un pugno di sale in una botte piena d’acqua ed esso non si perderà, perché l’intera acqua diventerà salata.

Pur opponendosi alla mescolanza razziale, Jabotinskij insisteva che i suoi seguaci dovessero prendere esempio dai gentili. Sansone è più che un semplice avversario dei Filistei: è il loro miglior discepolo, e attraverso di lui Jabotinskij provò a fornire insegnamenti ai suoi seguaci. In una delle più drammatiche scene del libro, Jabotinskij dà loro la spiegazione della forza delle Cinque Città dei Caphtoriti155 (e del potere nel mondo moderno):

Un giorno, egli partecipò a una festa al tempio di Gaza. Fuori, nella piazza, una moltitudine di giovani donne e uomini erano riunite per le danze della festa…Un prete sbarbato guidava le danze. Egli stava sul gradino più alto del tempio, tenendo in mano un bastone d’avorio. Quando la musica iniziò la gran folla restò immobile…Il prete sbarbato diventò pallido e sembrò immergere i suoi occhi in quelli dei danzatori, che erano fissati verso i suoi. Egli divenne sempre più pallido; tutta l’energia repressa della folla sembrava concentrarsi nel suo petto, fino a minacciare di soffocarlo. Sansone sentiva il sangue attraversargli il cuore; egli stesso sarebbe soffocato se quel momento fosse duranto ancora un po’. Improvvisamente, con un movimento rapido e quasi inconsapevole, il prete picchiò il bastone, e tutte le bianche figure nella piazza si piegarono sul ginocchio sinistro e alzarono il braccio destro verso il cielo – un unico movimento, un’unica, improvvisa, mormorante armonia. Le decine di migliaia di spettatori si lasciarono sfuggire un sospiro lamentoso. Sansone barcollò; c’era sangue sulle sue labbra, tanto le aveva strette una all’altra…Sansone lasciò quel luogo in preda a un profondo turbamento. Non avrebbe potuto spiegare il suo pensiero, ma aveva la sensazione, in quello spettacolo di una moltitudine che obbediva a una singola volontà, di aver colto un barlume del grande segreto degli uomini orientati alla politica.

Come nella scrittura, l’israelita accecato alla fine distrugge il tempio dei Filistei seppellendo i suoi carnefici non ebrei, ma non prima di avere lanciato un messaggio politico, valido per gli anni ’20 del Novecento come per il secondo millennio a.C:

“Devo dare al nostro popolo un messaggio da parte tua?” Sansone riflettè per un poco, e quindi disse lentamente: “Dì loro due cose da parte mia, due parole. La prima parola è ferro. Devono procurarsi il ferro. Devono dare tutto ciò che hanno in cambio di ferro: il loro argento, la loro farina, il loro olio e il

154 Shiksa è un termine yiddish per indicare in senso dispregiativo o satirico le ragazze non ebree. Sansone si innamora della giovane filistea Semadar e, dopo la morte di costei, della di lei sorella Dalila. 155 Citati nel Vecchio Testamento, i Caphtoriti secondo gli storici provenivano dall’odierna isola di Creta. 57 loro vino, anche le loro mogli e le loro figlie. Tutto per il ferro! Non c’è nulla di più prezioso al mondo che il ferro, lo dirai loro?” “Glielo dirò. Lo capiranno.” “La seconda parola non la capiranno ancora, ma devono imparare a comprenderla, e presto. La seconda parola è: un re! Dillo a Dan, Beniamino, Giuda, Ephraim: un re! Un uomo che darà loro un segnale al quale in un attimo migliaia di mani si tenderanno. Così è tra i filistei, e così i filistei sono i signori di Canaan.”

Il revisionismo classico ha gettato le basi sulle quali il moderno revisionismo ancora si appoggia. I seguaci di Jabotinskij – Sansone credono ancora che solo un muro di ferro possa sopprimere gli odierni cananei, i palestinesi. Sansone ammirava i filistei, Jabotinskij ammirava gli inglesi, i revisionisti moderni si orientano verso gli americani, sebbene come Jabotinskij sentiva che gli inglesi stavano perdendo la passione imperialista, così i moderni revisionisti vedano sempre una debolezza americana nell’atteggiamento verso gli arabi. Poiché negli anni ’20 la forza del sionismo non era sufficiente a sconfiggere i palestinesi, essi avevano bisogno dell’alleanza inglese. Oggi il revisionismo sa di dover fronteggiare l’ostilità delle masse di tutto il mondo arabo, non soltanto dei palestinesi, dunque deve avere l’appoggio continuo di un impero esterno che cerchi di indebolire la nazione araba. Sebbene il muro di ferro cresca sempre di più, Israele politicamente non è al sicuro. Sansone-Jabotinskij non comprese la massima di von Clausewitz enunciata nel secolo scorso: la guerra è solo una continuazione della politica con altri mezzi. Nessuna forza può abbattere i sentimenti nazionali della nazione araba, e diventando politicamente sempre più mature le tribù arabe a loro volta si uniranno, scenderanno in campo al seguito di un re, ovvero diverranno una forza disciplinata. A quel punto la grande nazione araba si troverà di fronte un agguerrito ma assediato Ulster-Gibilterra-Israele, privo della simpatia mondiale a causa della politica del muro di ferro. Negli anni ’20 i muri e i re di Sansone-Jabotinskij sembravano frutto di una saggia Realpolitik. Non è mai stato così, e nel mondo di oggi essi sono la garanzia di un’inevitabile sconfitta, quale che sarà, politica o militare.

58 8. Gli anni del fascismo e del terrore

La Palestina negli anni ‘20 Negli anni ’20 il sionismo era in difficoltà. Aveva aderenti ovunque vi fossero ebrei, ma essendo senza un potere reale, eccetto che nella lontana Palestina, dava l’idea di un progetto utopico, come l’esperanto o il pacifismo. Gli intellettuali lo consideravano poco più di un tentativo un po’ comico di allestire un museo nazionale. Molti ebrei vi si opponevano per la sua idea di segregazione. Le associazioni ebraiche di beneficenza erano più interessate ad aiutare le comunità esistenti in Polonia o Unione Sovietica, e l’investimento di capitali languiva. La sua maggior forza risiedeva in Polonia. Con il blocco dell’emigrazione verso gli USA (nel 1924), la Palestina divenne un’attrattiva per una considerevole porzione di piccola borghesia conservatrice e religiosa, che non vedeva un futuro con le severe restrizioni imposte dal Primo ministro Wladislaw Grabski, che usò spietatamente ogni mezzo, anche violento, per emarginare economicamente gli ebrei. L’afflusso in Palestina di piccoli uomini d’affari e artigiani156 causò un piccolo boom economico, seguito dallo scoppio della bolla finanziaria. La conseguente depressione portò pressoché a uno stop dell’immigrazione: nel 1927 arrivarono solo 2.700 coloni, mentre più di 5.000 lasciarono la Palestina. La WZO fu costretta ad allestire mense per i disoccupati, e a incoraggiarli attivamente a tornare in Europa157. Per ampliare la sua scarsa base finanziaria, la WZO fu indotta a creare l’Agenzia Ebraica, una sorta di comitato congiunto delle associazioni benefiche, che almeno sulla carta avrebbe dovuto rappresentare l’Yishuv nei rapporti con gli inglesi. Il rallentamento del tasso di immigrazione, che riportò la percentuale della popolazione ebraica a un misero 16,3% nel 1927, permise una temporanea pausa nel conflitto con gli arabi, ma solamente traducendolo in altre forme. Economicamente la competizione continuò senza sosta, in particolare in settori fondamentali come gli appalti governativi e i progetti di insediamento. A livello di massa l’antagonismo assunse la forma del separatismo organizzativo, fino all’esplosione selvaggia del pogrom del 1929. Fino alla Dichiarazione Balfour i sionisti guardarono con compassione ai chassidici che pregavano al Muro del Pianto. Insieme ai turisti stranieri condividevano l’opinione che il Muro fosse segno della decadenza della tradizione religiosa ebraica, la sua degenerazione in un fanatismo ultraterreno, con comportamenti maniacali e squallidi. Ma ora il Muro acquisì un significato “nazionalista”, sia per i sionisti che per gli arabi. Come gesto di imparzialità imperiale verso entrambi, sir Herbert Samuel aveva compensato gli arabi per l’amnistia a Jabotinskij nominando Haji Amin al-Husseini Mufti di Gerusalemme. Questi si convinse che i sionisti programmassero di di distruggere la moschea di Omar e rimpiazzarla con un nuovo tempio ebraico. Contrastò il presunto piano con una serie di ulteriori cerimonie islamiche alla moschea, incluso il ripristino di vecchi e rumorosi riti nello spazio al di sopra del Muro, mentre nello stretto vicolo in basso gli ebrei tenevano le loro preghiere. Durante il Yom Kippur158 del 1925 furono fatti tentativi di mettere delle panchine davanti al Muro, che la polizia inglese, su insistenza degli arabi, fece rimuovere, anche mentre le cerimonie erano in corso. Nel 1928 sempre in occasione del Yom Kippur gli ebrei cercarono di fissare al pavimento una parete divisoria per separare le donne, come indicato nelle sinagoghe ortodosse. Di nuovo la polizia fu chiamata a rimuovere la parete. Il Mufti rispose a questa nuova provocazione ordinando l’apertura di un cancello in fondo al vicolo, chiuso da tempo, e trasformandolo in una via di accesso per pedoni e animali. Doar Hayom, il quotidiano revisionista, iniziò a incitare gli ebrei a combattere contro il Mufti all’insegna dello slogan “Il Muro è nostro”159. Il 15 agosto 1929 alcune centinaia di giovani borghesi, per lo più betarim, le donne nascondendo sotto le vesti armi ed esplosivi,

156 L’Aliyah del 1924 – 26, denominata “Grabski” proprio perché causata dalle politiche anti-ebraiche del Primo ministro polacco, portò in Palestina circa 50.000 nuovi immigrati in un tempo relativamente molto breve. 157 Nathan Weinstock, Zionism: False Messiah, 1979 158 Giorno dell’Espiazione, festività religiosa ebraica che cade in settembre o ottobre. 159 Walter Laqueur, A History of Zionism, 1972 59 marciarono verso il Muro, e un gruppo di betarim, molti con coltelli e bastoni alla mano, issarono la bandiera bianco-blu e intonarono l’inno sionista160. Gli arabi risposero con una contromanifestazione al Muro: i religiosi ebrei furono picchiati e alcuni libri di preghiera distrutti. Due giorni dopo un giovane ebreo inseguì un pallone in un giardino arabo e fu accoltellato. Il ragazzo morì alcuni giorni dopo e il funerale si trasformò in una manifestazione. Il 23 agosto a Gerusalemme scoppiò una rivolta islamica, che si allargò rapidamente in tutto il paese con l’uccisione di numerosi ebrei.

Il pogrom di Hebron A Hebron scoppiò un pogrom il 24 agosto, con la brutale uccisione di 64 chassidim, e il giorno 29 ne furono massacrati altri a Safed. Quando l’ondata passò, 133 ebrei restavano sul terreno, la maggior parte chassidim anti-sionisti, che avevano vissuto in pace con gli arabi per secoli, e 116 arabi erano stati uccisi, per lo più dalla polizia inglese. Non tutti gli arabi presero parte ai pogrom, che furono condotti esclusivamente da musulmani, e in molti casi, soprattutto a Hebron, gli ebrei furono travolti da una folla inferocita di islamici loro concittadini161. Ma i pogrom furono un grosso danno per i palestinesi dal punto di vista dell’impatto sull’opinione pubblica, in particolare perché le prime vittime erano stati i chassidici anti-sionisti. Sia gli inglesi che i sionisti attaccarono i revisionisti per avere provocato la strage con gli articoli istigatori di Doar Hayom e la susseguente manifestazione. Jabotinskij era fuori dal paese durante i pogrom, ma una volta rientrato si levò a difesa del suo movimento: “l’adunata è stata utile, e ben riuscita”. Aggiunse che “E’ il cardine di ogni strategia forzare il nemico all’attacco prima che sia pronto. Un anno dopo sarebbe stato enormemente peggio”162. Egli andò nuovamente all’estero il 25 dicembre e gli inglesi approfittarono della sua assenza per bandirlo dal paese. Non avrebbe mai più rimesso piede in Palestina.

Il revisionismo nella WZO: una tendenza fascista? Nonostante la vicenda del Muro del Pianto, i revisionisti continuarono la loro rapida crescita. Al Congresso sionista mondiale del 1931 essi erano diventati la terza maggiore corrente nella WZO, con il 25% dei delegati. La loro principale richiesta divenne che la WZO mettesse nero su bianco la rivendicazione di uno stato ebraico, con una maggioranza ebraica, sui due lati del Giordano. Se fosse uno stato indipendente o un “settimo dominion” entro l’Impero inglese poco importava, le parole chiave per i revisionisti erano “maggioranza ebraica”. All’epoca gli ebrei erano solo il 18% della popolazione in Palestina (ancor meno contando anche la Transgiordania) e la maggioranza della leadership sionista si oppose alla proposta sulla base del fatto che non giovava dal punto di vista pratico e avrebbe soltanto aumentato l’ostilità degli arabi. Quella proposta, insieme alla vicenda del Muro, erano sintomi di una crescente distanza del revisionismo dalla linea della maggioranza sionista, basata sulla paziente acquisizione di “un altro dunam, un altro ebreo, un’altra capra”, come fu spiritosamente scritto. Jabotinskij strappò la sua tessera di membro della WZO per protesta al rifiuto del Congresso di ammettere che uno stato ebraico fosse il fine ultimo del sionismo, e iniziò a fare appello ai suoi di uscire dalla WZO. Molti dei suoi luogotenenti respinsero l’appello, pensando di non avere nulla da guadagnare abbandonando l’organizzazione mondiale, e Jabotinskij dopo una serie di compromessi decise di disfarsi della propria opposizione interna. Il 23 marzo 1933, senza alcun preavviso o consultazione con alcuno, dichiarò improvvisamente di scavalcare l’esecutivo revisionista regolarmente eletto e di assumersi personalmente la responsabilità del funzionamento della corrente attraverso un plebiscito tra gli iscritti. Per complicare ulteriormente le cose, annunciò di aver cambiato la sua precedente posizione. Essi avrebbero definitivamente atteso il Congresso sionista del 1933. La lotta entro la fazione si era sviluppata sullo stare o meno dentro la WZO, e ora che egli aveva accettato la posizione dei suoi oppositori la questione vera da discutere col plebiscito era quale tipo di movimento il revisionismo dovesse essere: solo una fazione radicale entro i parametri del sionismo borghese generale, o un partito simil-fascista? Gli iscritti dissero la loro sul colpo di mano di Jabotinskij il 16 aprile. Il voto fu schiacciante: 31.724 (93,8%) seguirono lui e solo 2.066 (6,2%) appoggiarono l’esecutivo. Per di più il dissenso finchè fu

160 Yehuda Benari – Joseph Schechtman, History of the Revisionist Movement: 1925-1930, 1970 161 John Bowyer Bell, Terror Out of Zion, 1977 162 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 60 tollerato venne soprattutto da frange ultra-massimaliste, per le quali Jabotinskij non era abbastanza anti-arabo o anti-inglese, né abbastanza filo-fascista. Fu il Betar a fornire il grosso del sostegno di Jabotinskij, sebbene la maggior parte dei suoi leader si fossero in precedenza opposti a lui sulla questione dell’abbandono della WZO. Mordechai Katz, una delle figure dominanti del Betar, in seguito scrisse che i suoi commilitoni pensarono che Jabotinski stesse conducendo una “salutare rivoluzione” del pensiero revisionista e che dovessero seguirlo, nel bene o nel male163. Il carattere della rivoluzione fu colto dalla descrizione di Katz del comportamento delle reclute del Betar nei confronti di Jabotinskij:

veramento lo adoravano…dal momento che Hitler, Stalin o Mussolini hanno dissacrato il senso della parola “leader”, è forse inevitabile che per alcune menti confuse e superficiali il fenomeno Jabotinskij-Betar appaia come il riflesso di una tendenza politica generale, per cui il Rosh Betar fosse a sua volta disprezzato…La leadership, o anche il culto della personalità, che derivano dalla scelta di uomini liberi, scaturita dalla fede e dall’ammirazione per individui dotati dalla Provvidenza di grande intelletto e grande cuore, tale leadership sarà sempre una benedizione.

Nei suoi primi anni Jabotinskij era stato chiaramente ostile al fascismo. Egli amava l’Italia liberal- aristocratica dei suoi giorni studenteschi, e si identificava con la tradizione liberal-nazionalista disprezzata da Mussolini. Nel 1926 aveva pubblicamente attaccato il fascismo:

Oggi c’è un paese nel quale i “programmi” sono stati sostituiti dalla parola di un uomo…l’Italia. Il sistema si chiama fascismo: per dare un titolo al loro profeta, hanno coniato un nuovo termine, “Duce”, che è la traduzione della più assurda parola inglese: “leader”. I bufali seguono un leader. Gli uomini civilizzati non hanno leader.

Tuttavia era sempre l’autore che aveva descritto Sansone scoprire il “grande segreto degli uomini inclini alla politica” nello “spettacolo di migliaia che obbediscono a un’unica volontà”, ed era inevitabile che il suo fanatico legionismo e iper-nazionalismo attraessero coloro che cercavano una versione ebraica del fascismo. Quali che fossero le sue personali riserve sull’idea del leader, la combinazione della pressione della base e della logica interna al suo crescente estremismo condussero inesorabilmente lui e il revisionismo nell’orbita del fascismo italiano.

Un movimento della classe media In tutte le epoche e in tutti i paesi il sionismo fu un movimento della classe media. L’alta borghesia ebraica non nutrì mai il desiderio di abbandonare la propria ricchezza nella Diaspora per la remota e povera Palestina, e dovunque la classe operaia ebraica vedeva il proprio destino intrecciato a quello dei propri fratelli di classe. Fu la condizione insostenibile della piccola borghesia ebraica, la nazione di mercanti per eccellenza, come “gli dei negli intermondi di Epicuro”164 o “nei pori della società polacca”165, che fornì la base sociale per tutte le svariate tendenze del sionismo. La piccola borghesia ebraica si vedeva collocata tra a) una borghesia autoctona a lei antagonista che voleva estrometterla dal “proprio” mercato, b) i contadini che ovunque si organizzavano in cooperative di commercio che sostituire gli “intermediari” ebrei, e c) i lavoratori che volevano abbattere l’intero sistema capitalistico. Un parte della piccola borghesia ebraica, soprattutto dei suoi figli, abbandonò completamente la propria classe per volgersi al marxismo. Una parte consistente di essa, convinta di non potere più soddisfare le proprie ambizioni di classe in Europa, cercò di sopravvivere come classe attraverso l’insediamento coloniale in Palestina166. I sionisti religiosi del Mizrachi, la più antica corrente autonoma entro la WZO167, fatta eccezione per il piccolo gruppo Hapoel HaMizrachi 168 furono sempre una corrente dichiaratamente filo- capitalista, tuttavia a causa del loro eccessivo tradizionalismo ortodosso non riuscirono mai ad attrarre la gran parte degli ebrei educati in tempi più recenti. Per di più il Mizrachi, forse come

163 Mordechai Katz, The Father of the Betar, opuscolo non datato 164 Per il filosofo Epicuro gli dèi risiedevano in spazi separati dai mondi reali (intermondi), in una condizione di apatia e indifferenza verso ciò che accadesse agli uomini. 165 Citazioni da Karl Marx, Il Capitale, libro I capitolo 2, 1867: “Nel mondo antico i popoli commerciali veri e propri esistono solo negli intermondi, come gli dèi di Epicuro, o come gli ebrei nei pori della società polacca”. 166 Enzo Sereni, Verso un nuovo orientamento della politica sionista, 1936 167 Nacque nel 1902 con un congresso fondativo a Vilna. 168 Lavoratori Mizrachi, gruppo nato nel 1922 e fautore della nascita di kibbutz e insediamenti agricoli religiosi. 61 conseguenza della sua attenzione agli anticihi precetti religiosi, significativamente non ha mai prodotto un singolo esponente con un minimo di statura teorico-politica. Anche i sionisti generali erano dichiaratamente filo-capitalisti ma erano divisi in due fazioni indipendenti, nessuna delle quali poteva pienamente soddisfare le esigenze della piccola borghesia. La fazione A divenne egemone tra i proprietari ebrei di agrumeti, la cui ricchezza si fondava sullo sfruttamento del lavoro arabo a basso prezzo. Costoro economicamente non avevano interesse a una significativa immigrazione ebraica in Palestina, poiché non volevano pagare i salari più alti che i nuovi salariati ebrei avrebbero richiesto; il loro desiderio di profitti immediati fu sempre in contrasto col loro sionismo, e perciò non potevano essere visti come eventuali leader nella WZO. La fazione B, identificabile in Weizmann, comprese appieno che una prematura ondata migratoria piccolo borghese avrebbe solo creato problemi a causa della cupidigia anarchica di tale classe, e Weizmann lavorò a stretto contatto con i sionisti laburisti per sviluppare i kibbutz, ritenendo che l’allestimento di questi collettivi di idealisti fosse il metodo più economico per sviluppare la rudimentale infrastruttura necessaria all’espansione dell’economia sionista. Weizmann scrisse al barone Edmond de Rothschild nel dicembre 1931, descrivendo le forti differenze tra i “vecchi coloni”, molti dei quali erano stati sostenuti dal barone, e il più recente movimento sionista, che ora tendeva a impiegare il lavoro arabo169. Proseguiva denunciando coloro che affermavano il bisogno di più “colonizzazione medio-borghese”, lamentando che

Gentiluomini di tal fatta sono decisamente inadatti alla Palestina, e qui rappresentano un vero pericolo. Le loro bizzarrie economiche possono essere condotte con tranquillità soltanto in un sistema altamente sviluppato; le loro attivtà sono più o meno parassitarie…Abbiamo visto quanto è accaduto durante l’immigrazione di massa del 1925 – 26, la cosiddetta “immigrazione medio-borghese”. Questa immigrazione ha prodotto due conseguenze: prima un artificioso boom commerciale, che ha comportato il trasferimento di larghe somme di denaro da mani ebraiche in mani arabe, e in secondo luogo l’inevitabile crisi che ha fatto seguito a quel boom170.

Per contro, Jabotinskij vide proprio questi elementi piccolo-borghesi come affiliati naturali per la sua corrente. Egli non fu mai minimamente interessato a reclutare al sionismo i lavoratori ebrei, poiché costoro non avevano né denaro né a suo dire le qualità adatte allo sviluppo della Palestina171. Per di più essi adoravano “un altro idolo”, il socialismo172. Jabotinskij comprese appieno che il socialismo, se portato alle sue logiche conclusioni, era totalmente incompatibile col sionismo. Quando nel 1932 uno studente gli scrisse chiedendo come mai pensasse che il comunismo non potesse essere conciliato col sionismo, la sua risposta fu piena di enfasi:

E’ inutile giocare con le parole…Per il progetto sionista sono necessarie due cose oltre al popolo. In primo luogo un territorio…e secondariamente il capitale…più del 90% del denaro per l’edificazione viene dalle tasche della nostra classe media. Il denaro per la costruzione di Tel Aviv è venuto dalla classe media, e le prime colonie sono nate da denaro donato in parte dalla gente comune e in parte dai grandi capitalisti. E il principio del comunismo è la lotta di classe contro la classe media. Ove esso avanza, distrugge la borghesia, requisendo le sue grandi ricchezze. Ciò significa recidere gli unici legami ai quali è assicurato il capitale per la costruzione in Eretz Israel173.

E quanto al territorio, il marxismo era ugualmente un anatema:

L’essenza del comunismo è che esso incita e sobilla le nazioni d’Oriente contro il dominio europeo. Il dominio per il marxismo è imperialista e sfruttatore. Io invece ritengo che il dominio europeo porti la civiltà, questa è una questione secondaria e ora non ci riguarda. Una cosa è chiara: il comunismo incita sobilla le nazioni d’Oriente, e questo lo può fare soltanto in nome della liberazione nazionale. Dice e deve dire loro: la terra è vostra e non degli stranieri. Così

169 (n.d.t.) In realtà anche i primissimi insediamenti agricoli sostenuti da Rothschild (moshavot) utilizzavano il lavoro arabo, sul modello coloniale algerino a lui ben noto. Nella Seconda Aliyah (1903 – 14) si passò al modello cooperativo socialista perorato dai sionisti laburisti e appoggiato da Weizmann. 170 Chaim Weizmann, The Letters and Papers, 1898 - 1952 171 Joseph Nedava, Jabotinskij and the Bund, 1973 172 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 173 Vladimir Jabotinskij, Sion e comunismo, Rasswyet 22 maggio 1932 62 parla e deve parlare agli arabi di Palestina…Per i nostri polmoni sionisti, il comunismo è gas velenoso, e per questo non dobbiamo averci a che fare174.

Jabotinskij mise in chiaro ciò che per lui era corollario fondamentale di questi assunti: gli scioperi potevano essere legittimi in un paese avanzato ma non potevano essere tollerati in una società in via di sviluppo come la Palestina sionista. Fu su questo punto che si avvicinò molto al fascismo classico. Nonostante tutta la sua contrarietà verso l’idea della leadership, insisteva che “il fascismo ha alcune buone idee”, tra le quali il divieto di sciopero:

Per arbitrato obbligatorio intendiamo questo: dopo l’elezione di un consiglio permamente, si deve proclamare il ricorso ad esso come unica via legittima di conciliare i conflitti sul lavoro, i suoi verdetti devono essere inappellabili e sia lo sciopero che la serrata (e anche il boicottaggio del lavoro ebraico) dovrebbero essere dichiarati tradimento degli interessi del sionismo e repressi con ogni mezzo legale e morale di cui la nazione disponga175.

Jabotinskij non andò così lontano da proporre l’abolizione degli organismi di rappresentanza dei sionisti. L’Inghilterra era una democrazia borghese e non avrebbe tollerato un regime fascista in una delle sue colonie, inoltre egli aveva le proprie riserve sul fascismo nel suo complesso, ma nel 1928 si espresse a favore dello stato corporativo, proponendo di affiancare agli organismi sionisti un’ente “superiore”:

Se si vuole dotare il sistema dell’arbitrato del giusto prestigio, esso deve essere implementato in tutti gli aspetti della struttura interna dell’Yishuv…Ciò ci conduce a ipotizzare una sorta di parlamento delle corporazioni. Prima di tutto si deve creare nell’Yishuv delle corporazioni professionali…questo parlamento delle corporazioni istituirà il sistema dell’arbitrato a tutti i livelli176.

Iniziative anti-operaie in Palestina I revisionisti non intendevano attendere una loro eventuale presa del potere statale per iniziare ad applicare il loro programma sul lavoro. Col divieto di rientro per Jabotinskij, la leadership ideologica della loro fazione fu assunta da Abba Achimeir, Uri Zvi Greenberg e Wolfgang von Weisl, tutti e tre grandi ammiratori di Mussolini. Achimeir, che teneva la rubrica Diario di un fascista sul giornale Chazit Haam, creò un gruppo clandestino, Brit HaBiryonim (Unione degli Zeloti), e iniziò a mobilitare i suoi adepti contro l’Histadrut, scrivendo sul suo diario personale: “Dobbiamo creare gruppi di azione e sterminare fisicamente l’Histadrut; essi sono peggio degli arabi; bombe ai loro raduni”177. Achimeir tenne un comizio ai suoi seguaci ad Haifa:

Voi non siete studenti: siete solo melassa. Non c’è nessuno tra voi capace di commettere un omicidio sull’esempio degli studenti che hanno ucciso Rathenau178. Vi manca lo spirito nazionalista che pervade i tedeschi179.

Achimeir e i suoi costituirono un “sindacato” anti-scioperi e nel dicembre 1932 riuscirono a bloccare uno sciopero al biscottificio Froumine a Gerusalemme, fornendo dei crumiri. Il 27 febbraio 1933 provarono a ripetere l’operazione contro uno sciopero che stava maturando nelle piantagioni di Petah Tikva. Dozzine di dimostranti furono arrestati per essersi scontrati con i crumiri. In occasione della Pasqua ebraica il Betar organizzò un corteo a Tel Aviv, e quella volta furono nettamente sconfitti in una furiosa battaglia di strada coi sionisti laburisti180. E’ da tenere presente che l’Histadrut a sua volta stava conducendo un’offensiva razzista contro i braccianti arabi negli

174 ibidem 175 Vladimir Jabotinskij, State Zionism, 1935 176 In Shlomo Avineri, The Political Thought of Vladimir Jabotinskij, 1980 177 Pubblicato dopo la requisizione del diario da parte degli inglesi, Jewish Frontier, gennaio 1935 178 Walter Rathenau (1867 – 1922), ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, di origini ebraiche, nonostante le sue concezioni in fin dei conti razziste fu ucciso da estremisti di destra per la sua parziale apertura nei confronti dell’Unione Sovietica. 179 Jewish Frontier, gennaio 1935 180 Anita Shapira, The Debate in Mapai on the Use of Volence, 1932 – 35, 1981 63 agrumeti ebraici, dunque è strano che i revisionisti l’attaccassero. Ma i Biryonim erano spinti dalla loro cattiveria fascista contro le sue attività di sindacato operaio riconosciuto.

L’uccisione di Chaim Arlosoroff Il 16 giugno 1933 Chaim Arlosoroff, laburista e segretario politico dell’Agenzia Ebraica, fu assassinato mentre passeggiava sulla spiaggia di Tel Aviv con la moglie. Due revisionisti furono accusati dell’omicidio, e Abba Achimeir di essere il mandante. Quando Hitler era salito al potere Chazit Haam aveva affermato che il nazismo era un movimento nazionale e che Hitler aveva salvato la Germania dal comunismo. Jabotinskij era disposto a tollerare nel proprio movimento i sostenitori di Mussolini, ma i filo-nazisti erano troppo anche per lui. Insistette che dovevano smettere di scrivere articoli simili:

Chiedo la fine incondizionata di questi oltraggi…se Chazit Haam dovesse pubblicare ancora una singola riga che possa essere interpretata come un tentativo di appoggio (a Hitler)…io chiederò che i suoi editori vengano espulsi dal partito181.

Il rimprovero da parte di colui che consideravano il loro Fuhrer bastò a trasformare Achimeir e soci in anti-nazisti. Con un brusco voltafaccia iniziarono ad attaccare la leadership della WZO, in particolare Arlosoroff e l’Agenzia Ebraica, braccio esecutivo della WZO in Palestina, per i loro tentativi di collaborazione con Hitler. La WZO non aveva fatto nulla per mobilitare il popolo ebraico (o chiunque altro), in Germania o altrove, nel tentativo di fermare l’ascesa al potere di Hitler; con la vittoria del nazisti essi videro la possibilità di usare il loro odio verso gli ebrei per il progetto sionista in Palestina. Hitler voleva allontanare gli ebrei dalla Germania e la WZO ne voleva una quota, quelli con denaro o con abilità utili alla costruzione della casa nazionale, da trasferire in Palestina. Arlosoroff concepì il complicato progetto di una “banca di liquidazione” da gestire in cooperazione con Germania, Italia e Inghilterra, che avrebbe gradualmente trasferito ricchezza ebraico-tedesca in Palestina. Si recò a Berlino per negoziare coi tedeschi, rientrando a Tel Aviv il 14 giugno. Il 15 giugno, Chazit Haam pubblicò un attacco ad Arsoloroff, L’alleanza Stalin – Ben Gurion – Hitler. Il grottesco titolo metteva in relazione due dei principali temi del giornale: i sionisti laburisti stavano progettando di creare un regime arabo filo-comunista, e allo stesso tempo di vendere gli ebrei ai nazisti:

Abbiamo letto…un’intervista a mr. Arlosoroff…Tra le varie frasi senza senso e stupidaggini nelle quali il ciarlatano rosso eccelle, troviamo che il problema ebraico in Germania può essere risolto soltanto con un compromesso con Hitler e il suo regime. Questi individui…adesso hanno deciso di vendere per denaro l’onore del Popolo Ebraico…a Hitler e ai nazisti… Gli ebrei accoglieranno la triplice alleanza “Stalin – Ben Gurion – Hitler” solo con repulsione e disprezzo…Il popolo ebraico ha sempre saputo come comportarsi con coloro che hanno venduto l’onore della loro nazione e della sua Torah, e sapranno anche oggi come reagire a questo atto vergognoso, compiuto alla piena luce del sole e sotto gli occhi del mondo intero182.

Arlosoroff fu ucciso la sera seguente mentre con la moglie camminava lungo la spiaggia di Tel Aviv. La polizia inglese si servì di investigatori beduini, e due revisionisti, Avraham Stavsky e Zvi Rosenblatt furono interrogati e riconosciuti dalla vedova. La polizia perquisì Achimeir e scoprì una nota di diario circa una festa tenutasi in casa sua subito dopo l’omicidio per festeggiare una “grande vittoria”, e lo arrestarono come mandante del crimine183. Appena avuta la notizia, Jabotinskij immediatamente rilasciò una dichiarazione in cui si diceva convinto della loro innocenza e prometteva vendetta.

Il Congresso sionista mondiale del 1933 Il sommovimento nella fazione revisionista creato dallo stesso Jabotinskij all’inizio dell’anno indebolì la posizione della fazione nell’arco complessivo del sionismo, con un consenso sceso al 14% nell’elezione dei delegati al Congresso mondiale dell’agosto 1933. Non solo la percentuale di voto era scesa, ma la fazione era isolata a causa dell’omicidio Arlosoroff. Né Jabotinskij fece nulla

181 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 182 Eliazer Liebenstein, The Truth about Revisionism, 1935 183 Jewish Daily Bulletin, 29 agosto 1933 64 per migliorare la situazione entrando nell’assise, a pochi mesi dalla presa del potere da parte di Hitler, circondato da una scorta di camicie brune. La presidenza del congresso subito vietò le uniformi, temendo le reazioni dei laburisti. I dirigenti della WZO dissero il minimo necessario sulla Germania, sapendo che erano in corso i negoziati per un accordo commerciale con Hitler. Jabotinskij presentò una mozione per sostenere il nascente boicottaggio anti-nazista, ma senza probabilità di successo. I suoi delegati erano tagliati fuori a causa del carattere fascista del revisionismo. Durante il congresso l’Agenzia di Stampa ebraica informò del ritrovamento da parte della polizia della lettera di Jabotinskij ad Achimeir in cui lo attaccava per i suoi articoli filo-nazisti184. La maggioranza dei delegati ritenevano che i Biryonim avessero ucciso il segretario politico dell’Agenzia Ebraica, e la lettera non fece che convincerli ancora di più. Dunque a denunciarli per l’accordo coi nazisti era un membro di una fazione composta da filo-nazisti. La mozione di Jabotinskij fu seccamente sconfitta, 240 voti a 43185. I nazisti durante il Congresso annunciarono di avere raggiunto un accordo commerciale (Haavara Agreement) con la WZO attraverso un’apposita Banca Anglo-Palestinese. I rapporti tra la WZO e i revisionisti non avrebbero potuto essere peggiori come dopo la fine del Congresso del 1933. La situazione concreta del sionismo in Palestina, che doveva costantemente crescere per far fronte alla crescita demografica araba mentre le risorse finanziarie erano limitate a causa della Depressione, fece sì che i “pragmatici” della dirigenza WZO cercassero di avvantaggiarsi dalla collaborazione con Hitler. Jabotinskij non lo sapeva, ma proprio mentre si svolgeva il Congresso il barone Leopold von Mildenstein, responsabile del dipartimento affari ebraici delle SS, era ospite della WZO in Palestina. E nel dicembre dello stesso anno Weizmann avrebbe chiesto ai nazisti il permesso di recarsi a Berlino per negoziare l’ulteriore estensione dell’Haavara Agreement nella banca di liquidazione totale concepita da Arlosoroff. Jabotinskij stesso nel frattempo stava negoziando con Mussolini, tramite il Raggruppamento d'Italia dei Sionisti-Revisionisti, l’apertura di una scuola di addestramento del Betar in Italia. Date le relazioni in corso di sviluppo con Mussolini, cinicamente si potrebbe pensare che Jabotinskij se fosse stato a capo dell’Yishuv avrebbe collaborato anche con Hitler. Questa è solo un’ipotesi, e in realtà Jabotinskij collaborò con gli antisemiti in base a precisi principi di convenienza. Essi dovevano stare ai patti, permettendo agli ebrei di difendersi dai pogromisti. Hitler non avrebbe mai consentito ciò, perché fu il nemico più implacabile per gli ebrei. Naturalmente i revisionisti non furono i soli a denunciare l’Accordo di Trasferimento: la stampa ebraica comunista documentò lo svolgimento del Congresso sionista riportando ciò che era noto delle relazioni tra sionisti e nazifascisti. L’Internazionale Socialista attaccò l’Accordo, e vi fu una grande opposizione entro la stessa WZO, in particolare in Polonia, dove le masse ebraiche istintivamente sapevano che ogni compromesso avrebbe indebolito la loro posizione nei confronti degli antisemiti locali; così anche negli Stati Uniti, dove il grosso dello schieramento sionista e anche alcuni dirigenti erano toccati dal clima riformista generato dall’affermazione di Roosevelt. Jabotinskij provò ad avviare un’attività di boicottaggio anti-nazista, ma la sua strategia in tal senso fu ridicola. Egli non volle un boicottaggio “negativo”, ovvero che chiamasse la gente a non comprare i prodotti tedeschi: secondo lui la repulsione verso le azioni di Hitler da sola avrebbe generato quel comportamento. Meglio creare un ufficio di propaganda per comunicare i prodotti che si potevano comprare. L’Esecutivo revisionista non volle essere coinvolto, sapendo che un’attività di boicottaggio seria avrebbe richiesto del denaro, e denaro non ce n’era. Jabotinskij, un segretario part-time e un dattilografo volontario rappresentarono lo staff della campagna di boicottaggio. Senza unità il boicottaggio non sarebbe mai stato efficace, e l’ultimo movimento che potesse unire gli ebrei era quella organizzazione nota per i suoi attacchi terroristici contro i sindacati ebraici in Palestina. La campagna revisionista di boicottaggio si risolse in un nulla di fatto. Hitler in realtà non era la principale preoccupazione di Jabotinskij. Questi era consapevole della nefandezza del nazismo, ma non pensava che il regime sarebbe durato a lungo, bensì che sarebbe stato frenato dagli stessi capitalisti tedeschi, o avrebbe pagato la riluttanza del mondo a comprare beni tedeschi. La Polonia, con la sua numerosa popolazione ebraica, fu sempre il fulcro dell’attività europea revisionista, e la Palestina l’obiettivo primario. Fu là che si manifestò più distintamente il carattere fascista proprio del revisionismo.

184 Jewish Daily Bulletin, 24 agosto 1933 185 New York Times, 25 agosto 1933 65 Il processo Arlosoroff In Palestina i sionisti erano sull’orlo della guerra civile, con continui scontri di strada tra laburisti e revisionisti. Ma al centro dell’attenzione vi era l’imminente processo al più famoso sodale di Jabotiskij (egli in realtà chiamava Achimeir “mio maestro e mentore”, sebbene lo avesse sempre ritenuto troppo massimalista e impolitico). Come sempre accade in questi casi, la difesa dell’imputato cercò di sottrarsi ai gravissimi indizi di colpevolezza costruendo un’assurda contro-rappresentazione dei fatti. Nel gennaio 1934 un arabo, Abdul Majid Buchari, già incarcerato per un altro omicidio, confessò l’assassinio di Arlosoroff, sostenendo di averlo voluto rapinare insieme a un amico. Una settimana dopo ritrattò, poi confessò di nuovo e poi ritrattò ancora, dicendo di essere stato corrotto da Stavsky e Rosenblatt. A chiunque ci ragionasse su sembrò un’incredibile coincidenza che il segretario politico dell’Agenzia Ebraica fosse definito traditore e minacciato da un gruppo di fascisti che si atteggiavano a giustizieri dell’antica Giudea186, e poi venisse ucciso in un incontro casuale con un assassino arabo; ma Jabotinskij affermò che “questa confessione somiglia molto alla verità”187. Il processo iniziò il 23 aprile 1934. Un tribunale civile inglese è un tribunale inglese anche in una colonia, e Achimeir fu assolto pur non avendo presentato prove a sua discolpa. Il diario non era prova sufficiente a provare una cospirazione premeditata (fu tuttavia accusato di appartenenza ad organizzazione terroristica). Dopo aver ascoltato la difesa di Rosenblatt, la corte assolse anche lui, per insufficienza di prove. Ma Stavsky fu giudicato colpevole da due giudici su tre, e l’8 giugno fu condannato a morte. Tuttavia il 19 luglio la corte d’appello rovesciò la decisione in base a una serie di cavilli legali, errori di procedura commessi dagli investigatori. Così le prove materiali a sostegno delle accuse della vedova venirono a mancare. A differenza della legge in Inghilterra, per il tribunale palestinese in mancanza di quegli elementi la condanna capitale non poteva essere comminata. Il presidente della corte fu molto dispiaciuto: “In Inghilterra la sentenza sarebbe stata confermata”, disse, e denunciò la finta confessione: “L’intero ruolo di Abdul Majid in questo caso mi suscita il grave sospetto di una cospirazione per intralciare il corso della giustizia, nel senso dell’istigazione di Abdul Majid a commettere spergiuro nell’interesse della difesa”188. La scarcerazione di Stavsky per motivi tecnici fece infuriare i laburisti, che insorsero contro di lui quando si mostrò nella grande sinagoga di Tel Aviv, e l’accusa di aver ucciso il leader laburista perseguitò i revisionisti per tutti gli anni ’30. Non vi è la minima ragione di sospettare che Jabotinskij fosse coinvolto nel fatto, o lo desiderasse o lo approvasse, ma pensare che nessun revisionista fosse coinvolto significa credere che i fatti susseguitisi siano solo coincidenze. Primo: Arlosoroff era stato minacciato il giorno precedente su un giornale revisionista. Secondo: la vedova identificò due revisionisti, seppure non precisamente. Terzo: la polizia rinvenne un diario che, guarda caso, parlava di un festeggiamento dopo l’omicidio. Quarto: un arabo sino ad allora mai sospettato spontaneamente confessa l’omicidio del leader sionista. La vedova continuò a sostenere di non avere subito alcun tentativo di rapina da parte di arabi, e che gli assassini erano ebrei, presumibilmente senza alcuna malizia legata alla fazione di appartenenza del marito. Due tribunali credettero alla sua versione, uno di questi anche mentre scarcerava l’accusato; lo stesso tribunale avrebbe ipotizzato che l’avvocato difensore avesse istigato allo spergiuro. E come se non bastasse nel 1973, 40 anni dopo, un esperto balistico in pensione, F.W.Byrd, raccontò che nel 1944 la pistola che aveva ucciso Arlosoroff era stata usata dal membro di un gruppo revisionista scissionista, la “Banda Stern”, per l’assassinio di Lord Moyne, Alto Commissario inglese per il Medio Oriente. L’esperto del tribunale spiegò che la stessa pistola era stata usata in non meno di otto omicidi politici legati al revisionismo. La sola ragione per cui

F.W.Byrd nel 1944 al processo contro gli assassini di lord Moyne non fece notare il collegamento con l’omicidio Arlosoroff fu il fatto che i reperti indiziari su quest’ultimo caso erano stati distrutti nel corso di quegli undici anni189.

Nel 1955 Yehuda Arazi-Tennenbaum, ex laburista ed ex ufficiale della polizia mandataria, improvvisamente annunciò che Stavsky era innocente e che Majid aveva ricevuto pressioni

186 L’Unione dei Terroristi si rifaceva agli antichi Sicarii, gli assassini armati di pugnale attivi durante la rivolta giudaica contro Roma. 187 Our Voice, aprile 1934 188 Palestine Post, 22 luglio 1934 189 Jewish Journal, 10 agosto 1973 66 affinchè ritrattasse la confessione. Ma un poliziotto che ammette di avere taciuto sulla carcerazione di un uomo innocente (per 22 anni) è automaticamente sospetto. La sua spiegazione del perché sospettò di Stavsky è curiosa. Disse di aver sospettato di lui perché pensava che fosse un altro Stavsky, comunista. Quando scoprì che l’accusato “era invece un betarim, si convinse che la polizia si fosse sbagliata”190. Il riferimento a uno Stavsky comunista è curioso in quanto non vi fu la minima traccia che collegasse i comunisti all’omicidio. Si deve tenere presente che all’epoca, nel 1955, Arazi non sapeva che Byrd avesse scoperto la pistola. Per accettare questa versione dovremmo convincerci questa volta che un poliziotto coinvolto nell’indagine abbia taciuto pur credendo Stavsky innocente e poi, 22 anni dopo, abbia deciso di dire la verità. La versione di Arazi metterebbe in grave dubbio il racconto di Byrd del 1973. Ma Arazi ammise di aver taciuto per 22 anni; Byrd invece nel 1944 aveva immediatamente informato le autorità competenti della sua scoperta. E’ ovvio quale dei due testimoni sia il più credibile, specialmente poichè la versione di Byrd si concilia con le altre evidenti prove presentate al processo nel 1933 (la pagina di diario e il resto). Negando di avere avuto a che fare con l’uccisione di Arlosoroff, i revisionisti non poterono difendersi sul piano politico, cioè dire che avevano giustiziato un collaboratore dei nazisti, e dunque agli occhi dell’opinione pubblica la domanda era semplicmente se i revisionisti avessero o no ucciso un avversario sionista. Con l’eccezione di alcuni sionisti di destra l’intero mondo politico interpretò la continua insistenza di Jabotinskij sul fatto che la vedova si fosse sbagliata e che Majid fosse il colpevole come ulteriori prove della responsabilità del suo movimento.

La definitiva scissione dalla WZO I Biryonim non avrebbero mai potuto vincere la battaglia con l’Histadrut: la loro Unione Nazionale del Lavoro non superò mai il 10% degli iscritti dell’Histadrut. I militanti sionisti laburisti avevano visto il trionfo di Hitler in Germania e di Dollfuss in Austria, e volevano definitivamente annientare la minaccia fascista in casa loro prima che li fagocitasse a sua volta. Il 17 ottobre 1934 1.500 laburisti intrappolarono 100 revisionisti nel loro nuovo quartier generale di Haifa, e 20 di questi ultimi fuorno portati in barella in ospedale. Ma la dirigenza sionista laburista, che commerciava a mani basse coi nazisti, difficilmente avrebbe portato avanti una campagna contro i fascisti in Palestina, in primo luogo perché una tale guerra civile avrebbe reso la classe media della Diaspora diffidente verso il sionismo191. Nell’agosto 1934 i revisionisti, rendendosi conto di non poter avere la meglio in un eventuale conflitto aperto, avevano proposto di negoziare un accordo con l’Histadrut, per porre fine alle lotta tra fazioni. I militanti dell’Hstadrut si erano opposti, ma in ottobre Pinchas Rutenberg, un uomo d’affari sionista, organizzò un incontro segreto tra Ben Gurion e Jabotinskij nella propria abitazione a Londra. Il 26 ottobre i due siglarono un accordo per bandire l’uso della violenza nelle dispute. Accordi successivi cercavano di regolare i rapporti tra i sindacati rivali, e prevedevano la fine del boicottaggio revisionista delle campagne di raccolta fondi per la WZO in cambio della riapertura dell’accesso ai betarim ai certificati di emigrazione, che erano stati loro negati a causa del crumiraggio. Gli accordi furono accolti con sfavore da entrambi gli schieramenti, e Achimeir in Palestina e Begin in Polonia vi si opposero decisamente. Il Congresso mondiale revisionista del gennaio 1935 tuttavia approvò gli accordi, ma un referendum tra i membri dell’Histadrut in marzo vide la vittoria netta dei contrari, 15.227 a 10.187. Jabotinskij allora propose una tavola rotonda dei capi per “salvare” l’unità del movimento. Ma la maggioranza non voleva trattare alla pari con la minoranza e in risposta cambiò le modalità di tesseramento alla WZO imponendo l’adesione di tutti i membri dell’organizzazione alla disciplina interna, al che Jabotinskij decise di procedere all’inevitabile rottura. Il 3 giugno 1935 i suoi militanti votarono a grande maggioranza per la proposta del loro leader di fondare un’organizzazione sionista indipendente.

Sempre più vicino all’Italia fascista Dalla metà degli anni ’30, nonostante i distinguo sul fascismo come sistema, Jabotinskij si avvicinò sempre più all’Italia. Nel novembre 1934 Mussolini ospitò una sezione del Betar nella Scuola Marittima di Civitavecchia. 134 allievi vennero addestrati dalle famigerate camicie nere, e nel 1936 il Duce in persona passò in rassegna le reclute. L’allestimento della scuola in Italia poteva solo confermare l’immagine del revisionismo come movimento fascista, ma l’altezzoso Jabotinskij non

190 Jewish Herald, 24 febbraio 1955 191 Anita Shapira, The Debate in Mapai on the Use of Volence, 1932 – 35, 1981 67 se ne curò. Scrisse a uno dei suoi seguaci in Italia, che teneva i contatti col regime, che la scuola avrebbe potuto essere aperta altrove ma “noi…preferiamo che sia istituita in Italia”192. Nell’aprile del 1935 Jabotinskij era diventato una specie di avvocato difensore di Mussolini, e durante un tour in America scrisse un articolo, Gli ebrei e il fascismo: alcune osservazioni e un avvertimento, per un giornale sionista in lingua inglese, il Jewish Day Bulletin:

Al di là di ciò che pochi pensano su altri aspetti del fascismo, non c'è dubbio che la versione italiana dell'ideologia fascista sia in fondo un'ideologia di uguaglianza razziale. Non lasciateci essere così modesti dal pretendere che ciò non abbia importanza, ovvero che l'uguaglianza razziale sia un'idea troppo insignificante per compensare l'assenza di libertà civili. Perchè non è vero. Io sono un giornalista, che non potrebbe vivere senza libertà di stampa, ma sostengo che è semplicemente vergognoso dire che nella scala dei diritti civili anche la libertà di stampa viene prima dell'uguaglianza fra gli uomini; e gli ebrei dovrebbero ricordare ciò, e tener conto del fatto che un regime che mantiene tale principio in un mondo sempre più cannibale è giustificabile, in parte ma considerevolmente, per le altre sue carenze: può essere criticato ma non dovrebbe essere ripudiato. Ci sono abbastanza termini di uso dispregiativo (nazismo, hitlerismo, stato di polizia etc.) ma la parola fascismo è di copyright italiano e dovrebbe essere usata soltanto nel suo corretto contesto, non come ingiuria. Soprattutto se la sua negatività è ancora da dimostrare. Il governo fascista oggi ha una grande influenza, e può condizionare molti, per esempio nei consessi della Società delle Nazioni. Per inciso, la Commissione Mandataria Permanente che sovrintende alla questione palestinese ha un presidente italiano. In sintesi, benchè non mi aspetti che le leve più giovani (poco rispettose degli anziani) seguano gli inviti alla cautela, i leader responsabili dovrebbero tenerne conto193.

All’apologia del fascismo fece seguito lo stupore per la conquista italiana dell’Etiopia, che rendeva l’Inghilterra sempre meno forte nel Mediterraneo, e nel 1936 Jabotinskij si convinse che era ora di cercare di ottenere un nuovo governo mandatario, preferibilmente uno disposto a usare le misure più drastiche contro gli arabi. Scrisse a un amico:

Logicamente la scelta potrebbe essere l’Italia, oppure un gruppo tra gli stati meno antisemiti interessati all’immigrazione ebraica, oppure un mandato diretto della Società delle Nazioni…tra la fine di giugno e la metà di luglio ho approfondito la prima alternativa. Risultato: non è ancora il momento, ma tra poco lo sarà194.

Jacob de Haas, già collaboratore di Herzl, alla metà degli anni ‘30 aveva aderito al revisionismo e, in quanto veterano, aveva presieduto il congresso di fondazione della Nuova Organizzazione Sionista (NZO), nel settembre 1935. Al ritorno in America descrisse il congresso nel suo spazio settimanale sul Jewish Chronicle di Chicago:

I delegati non erano fascisti, ma poiché avevano completamente perso fiducia nella democrazia non erano anti-fascisti. Piuttosto, erano profondamente anticomunisti195.

De Haas scriveva in America, non si considerava un fascista (laggiù ciò sarebbe stato ridicolo), così si convinse che i suoi compagni di partito erano soltanto anti-democratici. Ma Wolfgang von Weisl, tesoriere della NZO e suo rappresentante nell’Europa orientale, fu di certo meno sottile quando disse a un giornale di Bucarest che “sebbene vi siano diverse opinioni tra i revisionisti, in generale essi simpatizzano per il fascismo”. Assicurò al proprio interlocutore che

Egli stesso era un sostenitore del fascismo, e applaudiva alla vittoria italiana in Abissinia in quanto trionfo delle razze bianche su quelle nere196.

Queste posizioni ebbero molta risonanza a Roma, e Mussolini stesso disse a David Prato, poi rabbino capo della capitale italiana, che

192 Lettera di Jabotinskij a Leone Carpi, 7 ottobre 1931. 193 Vladimir Jabotinskij, Gli ebrei e il fascismo: qualche osservazione e un avvertimento, 1935 194 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 195 Chicago Jewish Chronicle, 18 ottobre 1935 196 World Jewry, 12 giugno 1936 68 Per il successo del sionismo voi avete bisogno di uno stato ebraico, con una bandiera ebraica e una lingua ebraica. La persona che veramente comprende questo è il vostro fascista, Jabotinskij197.

In tali condizioni il movimento si trovò a questo punto di fronte alla rivolta araba del 1936.

La Grande Rivolta Araba La storia della Rivolta Araba è stata ben ricostruita altrove e non è necessario qui entrare nei dettagli. E’ sufficiente dire che tra il 1933 e il 1936 erano arrivati in Palestina 164.267 immigrati, e la minoranza ebraica nel dicembre 1935 raggiunse il 29,9% della popolazione. Gli arabi avevano davanti a sé la prospettiva di una maggioranza ebraica in un futuro non lontano. Un grande fermento fu suscitato dalla scoperta, il 18 novembre 1935, di un carico di armi che l’Haganah aveva provato a contrabbandare nel paese a bordo di una nave che trasportava cemento, e lo stesso messe Sheikh Izz al-Din al-Qassam, un popolare predicatore musulmano, formò un gruppo guerrigliero sulle colline intorno a Nablus. L’esercito inglese lo uccise dopo poco tempo, ma la crisi esplose il 15 aprile 1936, quando alcuni reduci del gruppo di al-Qassam fermarono dei viaggiatori sulla strada per Tulkarem uccidendo due ebrei. Due arabi vennero uccisi per rappresaglia, e i funerali dei due ebrei diventarono una manifestazione, con i partecipanti che presero la direzione di Jaffa e furono fermati dalla polizia inglese che ne uccise quattro. Una contro-manifestazione presto partì a Tel Aviv, e la rivolta dilagò in tutto il paese. Scoppiò uno sciopero generale spontaneo, e la pressione dal basso spinse i clan degli effendi, rivali tra loro, a formare un Alto Comitato Arabo sotto la presidenza del Mufti. Temendo che la continuazione di quella sorta di jacquerie sarebbe definitivamente sfuggita al suo controllo, la leadership palestinese ebbe il sopravvento sui comitati locali degli scioperanti e decretò la fine dello sciopero il 12 ottobre, stante la promessa di una commissione di inchiesta del governo inglese. La questione della politica inglese in Palestina è stata oggetto di accese discussioni tra gli storici. Gli amministratori locali, come tutti i burocrati, volevano meno guai possibile, e vedevano che a provocarli era il sionismo con le sue pretese. Inevitabilmente si orientarono verso l’antisionismo, e anche l’antisemitismo, sebbene anche coloro che in qualche modo sembravano pro-arabi vedessero questi ultimi come una razza inferiore, da proteggere dagli astuti ebrei. Il sionismo fece più presa sui politici di Londra, che non avevano di fronte la pressione locale araba e ragionavano di più in termini di strategia imperiale. Ma fu il più “filosofico” degli amministratori locali, sir Ronald Storrs, a sintetizzare l’orientamento generale del governo inglese. Il primo governatore militare inglese di Gerusalemme scrisse nelle sue memorie che i sionisti “grazie a Dio giovarono all’Inghilterra tanto quanto questa giovò a loro”, formando “un piccolo e fedele Ulster ebraico in mezzo a un mare di ostilità araba”198. Per contro bisogna dire che, nonostante le loro esitazioni, senza la protezione degli inglesi e soprattutto del loro esercito il sionismo sarebbe stato ricacciato in mare dalla popolazione araba enormemente maggioritaria. Tutti i sionisti dell’Yishuv furono assai ben disposti a svolgere il ruolo di orangisti locali, e l’Haganah della WZO, controllata dai laburisti, che prima era illegale e a malapena tollerata nella pratica, fu inquadrata nelle forze armate inglesi in guisa di “ghaffir”199 o polizia indigena, o nella Jewish Settlement Police a supporto della polizia mandataria inglese (quest’ultima, a proposito dell’analogia con l’Irlanda, era composta per lo più da veterani degli infami Black and Tans200). Alla fine della rivolta, nel 1939, non meno del 5% dell’intera popolazione ebraica era inquadrata in queste forze. Solo i revisionisti rimasero fuori dall’Haganah. Essi se ne erano separati, così come la maggior parte dei sionisti di destra, sin dal 1931. Vi erano stati dissensi sulla mancanza di preparazione in occasione dei riot del 1929, ma la principale ragione della scissione fu che l’Haganah era dominata dall’Histadrut. I fuoriusciti diedero vita a una sorta di “Haganah B”, guidata da un revisionista, Avraham Tehomi, il quale nel dicembre 1936 accettò formalmente che la direzione della milizia fosse affidata a Jabotinskij. In ogni caso fu solo dall’aprile 1937, quando Tehomi e un quarto dei

197 Michael Bar-Zohar, Ben Gurion. The Armed Prophet, 1966 198 Ronald Storrs, Orientations, 1943 199 Il termine indica il guardiano del tempio, ed era in uso in Egitto e in Palestina. 200 Reparti speciali di polizia, di uniforme nera e kaki, creati da Winston Churchill nel 1919 per reprimere l’insurrezione nazionalista in Irlanda. Noti per la particolare ferocia. 69 suoi 3.000 uomini (per lo più mizrachi, sionisti generali e del Jewish State Party201, oltre a qualche revisionista) si staccarono per rientrare nell’Haganah, che il gruppo divenne una milizia genuinamente revisionista. Inizialmente Jabotinskij aveva mantenuto la strategia della moderazione (havlagah) dell’Haganah. Egli aveva sempre preferito l’idea di una milizia pienamente legale, formalmente affiliata all’esercito, e temeva che una controguerriglia clandestina avrebbe reso impossibile la prima prospettiva. Tuttavia in Palestina non vi fu mai posto per una seconda versione dell’Haganah, e la milizia revisionista, totalmente clandestina, d’ora innanzi conosciuta come Irgun (Organizzazione, da Irgun Zvei Leumi o Organizzazione Militare Nazionale), aveva ragion d’essere soltanto come gruppo terroristico. Le prime azioni, di piccola scala, ebbero inizio nel 1936. Jabotinskij provò sincero disgusto per alcune di esse: nel luglio del 1937 disse a una riunione del suo stato maggiore ad Alessandria d’Egitto, che non vedeva “eroismo o vantaggio nello sparare alle spalle a un contadino arabo col suo asino che va al mercato di Tel Aviv a vendere ortaggi”202. Ma dal novembre 1937 l’Irgun fu irrevocabilmente dedita ad attentati terroristici. Il carattere fascista del revisionismo si manifestò ancora una volta, con manifestazioni di estremismo tra i militanti e Jabotinskij, il loro leader, ad avallarle. Già nel settembre 1937 erano stati uccisi 13 arabi, presumibilmente come rappresaglia per la morte di tre ebrei. Dal 14 novembre l’Irgun passò all’offensiva, quando alcuni suoi membri volevano entrare in azione autonomamente e lo stato maggiore li coinvolse nell’organizzazione di una serie di operazioni che fecero 10 morti e numerosi feriti tra gli arabi203. In seguito vi furono innumerevoli attacchi contro obiettivi civili arabi, e il punto più alto della campagna fu raggiunto nell’estate del 1938. Il 6 luglio un bidone del latte imbottito di esplosivo scoppiò nel mercato arabo di Haifa, facendo 21 morti e 52 feriti. Il 15 luglio una mina elettrica nella città vecchia di Gerusalemme causò 10 morti e 30 feriti. Il 25 luglio un’altra bomba al mercato di Haifa uccise 35 civili e ne ferì 70. Il 26 agosto una bomba al mercato di Jaffa massacrò 24 persone; i feriti furono 36204. Le operazioni dell’Irgun sono state documentate altrove, sia dai loro sostenitori che dai loro avversari, e sarebbe ripetitivo fornire qui altri dettagli. In ogni caso gli storici, a prescindere dalla loro posizione sul revisionismo, concordano in generale sul fatto che l’effetto concreto sulla fine della rivolta fu pressoché nullo205. L’Haganah svolse un ruolo molto maggiore nella difesa dell’Yishuv sionista, ed è indubbio che questo ruolo fu a sua volta secondario rispetto allo sforzo principale sostenuto dall’esercito inglese, che coi mezzi classici della repressione coloniale (bombardamenti aerei, punizioni collettive, carcerazione senza processo, esecuzioni) schiacciò ferocemente la rivolta.

Il revisionismo nella Diaspora Se in base a studi obiettivi l’attività dell’Irgun non ebbe effetti sul campo in Palestina, le notizie di quelle violenze tuttavia fecero effetto sulla classe media ebraica in Europa orientale, che vacillava di fronte all’ondata di antisemitismo levatasi con la vittoria nazista in Germania. La destra polacca, nonostante i timori per le mire di Hitler sul Corridoio di Danzica, vide il proprio antisemitismo legittimato dall’affermazione del nuovo regime nazista, e i provvedimenti di stampo fascista aumentarono, soprattutto nelle università. Finchè sopravvisse il maresciallo Josef Pilsudski, burbero semi-dittatore, gli ebrei furono relativamente al sicuro dalle violenze. Egli aveva sempre visto l’antisemitismo come un’eredità dell’arretratezza zarista e non tollerava pogrom o altri disordini di strada. Ma dopo la sua morte, nel 1935, i suoi successori strumentalizzarono l’odio anti-ebraico, e i 3.300.000 ebrei polacchi dovettero far fronte a squadre pogromiste e alla discriminazione ufficiale. Negli stati baltici e in Austria, Ungheria e Romania gli ebrei subirono un’offensiva sia fisica che legale per estrometterli dalle loro posizioni economiche. Ogni classe per sua natura è attenta ai partiti politici che ne rappresentano gli interessi, ma nel caso della classe media ebraica, o di buona parte di essa, vi furono ragioni particolari per le quali non scelse un’alternativa più radicale. Essa aveva visto la classe operaia tedesca lasciare che Hitler prendesse il potere, e sfaldarsi senza sparare un colpo. Guardando a est trovava solo il

201 Piccolo partito sionista di destra nato nel 1933 da fuoriusciti del revisionismo. 202 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 203 John Bowyer Bell, Terror Out of Zion, 1977 204 Israel Shahak (a cura di), Begin and Co. as They Really are: An Anthology, 1977 205 Daniel Levine, David Raziel, The Man and his Times, 1969 70 ripugnante spettacolo dell’Unione Sovietica, allora nel pieno delle Grandi purghe. Stante la disperata situazione interna e la propria condizione senza speranza, una larga parte della classe media ebraica girò le spalle all’assimilazione e si volse alla Palestina. Ma il sionismo ufficiale agli occhi degli ebrei polacchi perdeva la propria attrattiva a causa del brusco taglio delle quote di immigrazione disposto dagli inglesi per calmare gli arabi in rivolta. Molti di loro si avvicinarono al Bund, che a differenza dei sionisti organizzava squadre di difesa e ingaggiava battaglie campali con i pogromisti, e un’altra grossa parte iniziarono ad aderire al Betar. Se la Palestina doveva diventare la loro terra, era evidente che ciò sarebbe stato solo con la forza e gli unici a portare avanti il tema della Palestina e quello del militarismo erano i revisionisti. Jabotinskij, fino ad allora rigorosamente “monista”, contrario alle ideologie miste, iniziò a blandire la numerosa classe media ortodossa. Egli era sempre stato un laico, non andava mai in sinagoga (tranne che per pregare in memoria del padre) e non osservava alcuno dei precetti della religione ebraica. In precedenza aveva criticato l’ortodossia per il suo oscurantismo e lo sciovinismo maschilista. Ora, nel 1935, improvvisamente introdusse una “base religiosa” nella piattaforma della NZO, per “impiantare nella vita ebraica i sacri legami con la tradizione religiosa”206. Affermò con sincerità che “La mia…generazione…ha iniziato eliminando il clericalismo e si è sviluppata eliminando la Divinità…ora però vediamo in quale stato di deprivazione possa cadere l’uomo senza Divinità”207. Pur non avendo niente a che fare con i rituali ebraici, iniziò a dire di essere “ora convinto che siano utili per guarire…i fondamenti etici sono legati a qualcosa di sovrumano”208. Queste affermazioni furono il punto più basso della sua elaborazione; anche per alcuni membri della sua famiglia tutto ciò era soltanto evidente demagogia209. Ma se la classe media ebraica si era convinta a recarsi altrove, rimaneva la questione di come riuscire a partire. Con il blocco inglese alla benché minima immigrazione di massa in Palestina, Jabotinskij ancora una volta si rivolse agli antisemiti per avere appoggio. Il movimento sionista non aveva mai creduto possibile risolvere la questione ebraica sul suolo polacco, tuttavia la dirigenza sionista aveva sempre cercato il sostegno del governo. Weizmann ebbe un incontro con il ministro degli Esteri Jozef Beck, che gli assicurò che se inglesi avessero implementato la partizione proposta dalla Commissione Peel nel 1937, Varsavia avrebbe lavorato in modo da garantire la massima ampiezza possibile alle frontiere del nuovo saterello ebraico, nell’ottica di avere la massima emigrazione dal territorio polacco. Lo stesso anno Yehuda Arazi, incaricato dall’Haganah, acquistò mitragliatrici e fucili dall’esercito polacco per contrabbandarli in Palestina all’interno di compressori a vapore. Alcuni istruttori dell’Haganah furono ammessi in Polonia per addestrare segretamente all’uso di quelle armi i suoi simpatizzanti, che quindi si sarebbero trasferiti in Palestina210. Ma essendo la WZO legata agli inglesi, quando loro su pressione araba abbandonarono la partizione e tagliarono le quote di immigrazione furono i revisionisti e entrare nelle grazie del regime polacco. Il 9 giugno 1936 Jabotinskij ebbe un incontro con Beck, e l’11 settembre con il Primo ministro Felicjan Slavoy-Sklakdowski. Nell’ottobre 1937 egli ritornò a Varsavia per incontrare il nuovo uomo forte del regime, il maresciallo Edward Smygly-Rydz. La collaborazione tra gli antisemiti e i revisionisti fu da questi ultimi con compiacimento definita “alleanza”.

Proposta di esodo Jabotinskij sulla stampa polacca invocò l’ “evacuazione” di un milione e mezzo di ebrei dall’Europa orientale, la maggior parte dei quali dalla Polonia. In un articolo rivolto agli ebrei spiegò la sua idea:

Dapprima ho pensato a un “Esodo”, una “seconda partenza dall’Egitto”. Ma non può essere. Noi siamo impegnati in politica, dobbiamo essere in grado di relazionarci con le altre nazioni e di chiedere il sostegno di altri stati. E stando così le cose, non possiamo sottoporre loro un termine offensivo, che richiama alla mente il Faraone e le sue dieci piaghe. Per di più, la parola Esodo evoca una terribile immagine di orrore, l’immagine di un’intera nazione che si muove disordinatamente e in preda al panico211.

206 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 207 ibidem 208 ibidem 209 ibidem 210 AA.VV., Encyclopaedia Judaica, 16 voll., 1971 - 72 211 Vladimir Jabotinsky, Evacuation – Humanitarian Zionism, 1937 71

Naturalmente di un esodo si trattava, a prescindere dai termini coi quali fosse indicato; e mentre il governo lo approvò immediatamente, esso fu completamente osteggiato da tutti gli ebrei polacchi, fatta eccezione per il campo revisionista. Due quotidiani sionisti che sino ad allora avevano ospitato articoli di Jabotinskij decisero di interrompere la collaborazione, ma i revisionisti alla fine andarono ancora oltre, inviando nel 1939 Robert Briscoe, membro del Fianna Fail e del parlamento irlandese212 (in seguito celebre sindaco onorario ebreo di Dublino), dal ministro Beck con la seguente proposta:

Per conto del Nuovo Movimento Sionista…vi suggerisco di chiedere all’Inghilterra di cedere a voi il Mandato per la Palestina e renderla di fatto una colonia polacca. Allora potrete spostare tutti gli ebrei polacchi indesiderati in Palestina. Ciò porterebbe grande giovamento al vostro paese, e avreste una colonia ricca e prospera per sostenere la vostra economia213.

Il piano di invasione della Palestina I polacchi non si disturbarono a chiedere agli inglesi di rilevare il Mandato, ma fecero di meglio: nella primavera del 1939 allestirono un campo di addestramento per i revisionisti a Zakopane, sui Monti Tatra. Ufficiali dell’esercito polacco istruirono a fondo 25 irgunisti palestinesi sulle tecniche di sabotaggio e insurrezione. Furono fornite armi per 10.000 uomini in previsione di un’invasione della Palestina che doveva avvenire nell’aprile del 1940214. La Polonia è lontana dalla Palestina: come pensavano i revisionisti di arrivarci? Avraham Stern disse ai cadetti di Zakopane che era in corso un negoziato con Turchia e Italia, ma di questo non c’è alcuna traccia storica. Dal 1936 il regime fascista era passato decisamente nel campo hitleriano, l’anno successivo la scuola del Betar a Civitavecchia fu chiusa e Jabotinskij interruppe tutti i rapporti con Mussolini. Ma molti revisionisti erano diventati tanto fanatici nel loro filo-fascismo che rimproverarono gli ebrei per la svolta hitleriana di Mussolini. Non li avvevano avvertiti di non attaccare il fascismo? Se solo i sionisti avessero sostenuto l’Italia nella guerra d’Etiopia, dicevano, Mussolini avrebbe mantenuto il proprio appoggio al sionismo. Stern era di questo parere, e sebbene non vi siano documenti a riprova è legittimo supporre che secondo Stern se i revisionisti avessero dimostrato a Mussolini di volere seriamente attaccare l’Inghilterra in Palestina, egli sarebbe tornato ad appoggiare il movimento. I polacchi credettero davvero in questo progetto fantasioso? E’ difficile dirlo, ma è da tenere presente che il mondo si apprestava a vedere la grande offensiva globale da parte dei Panzerkorp hitleriani. I colonnelli polacchi erano tutti ufficiali delle legioni di Pilsudski, che a suo tempo aveva progettato una bizzarria215 simile (Pilsudski durante la Grande guerra sostenne la Germania contro la Russia, prevedendo poi di voltare le spalle ai tedeschi e schierarsi con la Francia). Jabotinskij era considerato una sorta di Pilsudski ebreo. Ma anche se l’invasione non ebbe mai luogo, o fu un fallimento, i colonnelli e i revisionisti sicuramente furono in buoni rapporti, tanto che questi ultimi si addestravano e armavano nel paese. Le migliaia di betarim non si scontrarono mai coi pogromisti: a meno che non fossero attaccati, nonostante il loro militarismo si astennero sempre dal contrastare i fascisti polacchi. Shmuel Merlin, che negli anni prima della Guerra era a Varsavia come editore di un giornale revisionista, ha detto che:

E' assolutamente corretto affermare che solo il Bund fece una lotta organizzata contro gli antisemiti. Noi non prendevamo in considerazione il fatto di dover combattere in Polonia. Credevamo che il modo di risolvere la situazione fosse portare gli ebrei fuori dalla Polonia. Noi non avevamo alcuno spirito battagliero216.

212 Mentre la WZO lavorava con gli inglesi per un “Ulster ebraico” in Palestina, I revisionisti lavoravano con (alcuni) irlandesi per una “Irlanda ebraica” in Palestina, autonoma dall’imperialismo inglese. Piccolo particolare, si sarebbe trattato comunque di una Irlanda coloniale (n.d.t.). 213 Robert Briscoe, For the Life of Me, 1958 214 Jewish Spectator, estate 1980 215 Le legioni polacche di Pilsudski combatterono a fianco degli Imperi Centrali ma egli si rifiutò sempre di giurare fedeltà al Kaiser. Per un nazionalista polacco forse questa tattica non si può considerare bizzarra o folle (crack-brained), infatti fu premiata con lo sfaldamento della Russia zarista e con l’indipendenza della Polonia. Certo poi il paese fu usato dall’Intesa come fantoccio anti-sovietico (n.d.t.). 216 Intervista dell’autore a Shmuel Merlin, 16 settembre 1980 72 Il Congresso del Betar del 1938 Menachem Wolfovitch Begin fu il giovane portavoce del revisionismo negli anni ’30 ed espresse meglio di ogni altro il crescente fervore dei militanti del Betar di fronte all’approssimarsi della minaccia nazista. La loro disperazione prese la forma dell’invocazione dell’immediata conquista della Palestina. Alla conferenza mondiale del Betar nel 1938 a Varsavia il battagliero oratore chiese una modifica del giuramento dell’organizzazione. Dopo l’assassinio di Arlosoroff, Jabotinskij aveva inserito una clausola: “Leverò il mio braccio solo per la difesa”. Ora Begin insisteva nel modificare la frase in “Leverò il mio braccio solo per la difesa del mio popolo e per conquistare la mia patria”. Jabotinskij sapeva che non vi era la minima possibilità di battere gli inglesi: l’idea di invadere la Palestina nel 1940 era per lui molto vaga (probabilmente gli interessava cogliere l’occasione per avere le armi e l’addestramento), e attaccò Begin. Vi erano vari tipi di rumori al mondo, disse, ma il discorso di Begin non gli aveva ricordato altro che “l’inutile cigolìo di una porta”. Il sionismo militare per lui andava di pari passo col sionismo pragmatico di Weizmann. Per rendere tale idea fece una revisione della prima frase della Bibbia: “‘In principio Dio creò la politica’…Se voi, mr. Begin, non capite che è là che risiede la coscienza del mondo, non dovete far altro che buttarvi nella Vistola”217.

Nuovi piani di invasione Nonostante la polemica di Jabotinskij nei confronti di Begin, la modifica fu approvata. Il revisionismo era travolto da un’ondata di massimalismo, l’Irgun agiva indipendentemente da Jabotinskij e questi ancora una volta capitolò di fronte agli estremisti. Nell’agosto 1939 informò gli irgunisti della propria decisione di anticipare all’ottobre di quello stesso anno il loro piano di invasione della Palestina. Egli avrebbe guidato uno sbarco di betarim sulla spiaggia di Tel Aviv, e contemporaneamente l’Irgun avrebbe occupato per 24 ore la sede dell’autorità mandataria a Gersualemme, proclamando un governo provvisorio. Dopo l’arresto o l’uccisione di Jabotinskij, il movimento revisionista in Europa e America avrebbe quindi proclamato un governo in esilio. L’idea era chiaramente ispirata alla rivolta irlandese della domenica di Pasqua 1916, i cui capi furono giustiziati dopo la resa ma il cui sacrificio suscitò una rivoluzione popolare che alla fine portò al ritiro britannico dal sud dell’Irlanda. In questo caso non vi era da dubitare che una tale impresa avrebbe portato alla distruzione dell’Irgun come movimento. Non aveva senso l’idea che essa avrebbe trascinato i sionisti laburisti, la forza più potente del sionismo in Palestina, in una rivolta anti-inglese al seguito degli acerrimi rivali revisionisti. Per collocare il piano di invasione di Jabotinskij nella giusta prospettiva, occorre tenere presente che l’Irgun aveva spostato il proprio obiettivo dagli arabi agli inglesi in seguito al Libro Bianco del maggio 1939, che poneva fine all’appoggio inglese al sionismo. Il Libro prevedeva una riduzione dell’acquisto di terre da parte sionista, l’immigrazione limitata a un totale di 75.000 individui in cinque anni, e uno stato a maggioranza araba entro 10 anni. La risposta dell’Irgun fu l’apertura di una campagna contro le installazioni inglesi. A ciò gli inglesi reagirono in maniera molto più dura di quanto non avessero fatto durante la campagna irgunista contro gli arabi, e il comandante dell’Irgun David Raziel fu arrestato alla fine di maggio. Come se non bastasse la sera del 31 agosto la polizia inglese arrestò a Tel Aviv tutto lo stato maggiore dell’Irgun, riunito per discutere i pro e contro del piano di Jabotinskij218. E ancora quella stessa notte poche ore dopo (1 settembre 1939) i nazisti invasero la Polonia, iniziando una guerra che Jabotinskij aveva ripetutamente detto essere impossibile. Il 31 marzo egli aveva scritto alla sorella dicendo che “Non ci sarà alcuna guerra: l’insolenza tedesca presto sarà zittita…in cinque anni avremo uno stato ebraico”. Nell’ultima settimana di agosto, poco prima della guerra, scrisse che “Non vi la minima probabilità di una guerra”219. Egli si era fissato con l’idea che l’evacuazione degli ebrei dell’Europa orientale fosse l’unica soluzione agli occhi del mondo, e che quel mondo, essenzialmente l’Inghilterra dopo la svolta hiteriana di Mussolini, avrebbe applicato quell’idea per allontanare gli ebrei da Hitler e così scongiurare la minaccia di una guerra. Stante questa sua convinzione, Jabotinskij si convinse che i capitalisti non si sarebbero lasciati coinvolgere in una guerra foriera della caduta di alcuni loro regimi, come era successo all’epoca del Primo conflitto mondiale. Anche dopo lo scoppio delle ostilità provò a illudersi con l’idea della

217 Daniel Levine, David Raziel, The Man and his Times, 1969 218 Jewish Spectator, estate 1980 219 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 73 “guerra finta”, il periodo di stasi che seguì la campagna nazista in Polonia220, tanto da dire a un amico “Non credo ancora che ci sarà una guerra vera e propria”221.

L’ultimo anno di Jabotinskij Quando la guerra fu cosa certa, Jabotinskij fu mortificato ma non gli venne affatto in mente che un errore così grossolano potesse giustificare l’abbandono della leadership politica. La sua preoccupazione principale fu che:

i miei oppositori, che hanno sempre cercato di respingere le mie previsioni politiche, ora useranno questo mio errore per dire che “Jabotinskij ha di nuovo sbagliato perché non è in grado di comprendere la realtà”.

Egli informò immediatamente Londra che la sua attività contro il governo mandatario in Palestina era sospesa per le esigenze dello sforzo bellico. Gli inglesi alla fine di ottobre rilasciarono Raziel, ma la maggioranza della dirigenza e dei militanti dell’Irgun rifiutò di accettare la linea Jabotinskij- Raziel e sotto la guida di Avraham Stern continuarono isolatamente la guerriglia contro l’Inghilterra. Sostanzialmente, Jabotinskij vide la Seconda guerra mondiale come una riedizione della Prima. Ancora una volta gli ebrei d’Europa furono messi in secondo piano rispetto all’ipotetico stato ebraico; il suo obiettivo principale divenne un’altra Legione Ebraica, sebbene questa volta comprendesse che tale legione avrebbe dovuto combattere ovunque, non solo difendere la Palestina. Egli sapeva che il solo posto in cui si potesse reclutare una forza simile erano gli Stati Uniti, e cercò subito di recarsi laggiù; non riuscì a lasciare l’Inghilterra prima del marzo 1940. Fino ad allora, fece pressioni sui politici di Londra per il medesimo progetto, ma senza esito. Gli inglesi sapevano che gli ebrei li avrebbero comunque sostenuti contro Hitler, e una legione ebraica avrebbe soltanto provocato l’ostilità del Medio Oriente arabo. A quel tempo Jabotinskij era impegnato nella stesura del suo ultimo lavoro importante, Il fronte ebraico di guerra. Il libro, nonostante il titolo, non parla tanto della guerra quanto della soluzione post-bellica alla questione ebraica nell’Europa orientale. La tesi centrale di Jabotinskij è che “la vera uguaglianza per gli ebrei in quella Zona di Afflizione (a meno che un grande esodo non risolva la situazione) è destinata a rimanere un miraggio”222. Il libro probabilmente colse di sorpresa i suoi lettori, di certo non abituati a vedere scrittori ebrei giustificare l’antisemitismo:

Una grande ingiustizia! Naturalmente: ma la sola disapprovazione è inutile. La radice del problema non è l’odio verso gli ebrei (che potrebbe essere combattuto e forse eradicato) ma qualcosa di molto più elementare e primordiale: l’affinità verso il proprio popolo, un istinto che non può essere criticato, poiché dopotutto è naturale preferire i propri figli alla prole di un vicino223.

Il libro ha una caratteristica bizzarra, specialmente per un lettore di oggi di mentalità illuminata. Si afferma che un’emancipazione ebraica genuina è impossibile, poiché gli ebrei sono più intelligenti della maggioranza dei non ebrei: “l’urbanizzazione ha reso gli ebrei, mediamente se non del tutto, più attrezzati per la maggioranza dei compiti della vita moderna”. Se si inseriscono nella vita di un paese primeggiano, generando l’invidia degli arretrati gentili:

Questa è la fatale contraddizione inerente l’uguaglianza civica degli ebrei: essa può essere tale soltanto se non è completa; ma è impossibile arrivare a una rinuncia volontaria a tale privilegio224.

Dunque migliaia di migliaia di ebrei dell’Europa orientale devono trasferirsi in Palestina, per il loro bene, per il bene di coloro che rimangono, e per il bene delle nazioni circostanti. Queste nazioni scopriranno il benessere della vita nello stato ebraico fianco a fianco ai suoi vicini arabi, e sperimenteranno la piena uguaglianza con gli ebrei. Tuttavia

220 Dall’ottobre 1939 all’aprile 1940. 221 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 222 Vladimir Jabotinskij, The Jewish War Front, 1940 223 ibidem 224 ibidem 74

se gli arabi troveranno tutto ciò sufficientemente allettante per rimanere in uno stato ebraico, è un’altra questione. Se anche non lo faranno, l’autore si rifiuta di considerare una tragedia o un disastro la loro volontà di emigrare. La commissione Peel non si è tirata indietro a quest’idea. Il coraggio è contagioso. Se abbiamo una così grande autorità morale da prevedere l’esodo di 350.000 arabi…non c’è bisogno di vedere con sgomento la possibile partenza di 900.000…sarebbe poco desiderabile da molti punti di vista; ma…la prospettiva può essere discussa senza preoccupazioni…Herr Hitler, tanto detestato, recentemente sta aumentando la sua popolarità…i suoi critici…disapprovano…lo spostamento dei tedeschi dal Trentino e dal Baltico e la loro collocazione nei terreni e abitazioni rubate ai polacchi: ma è il furto ai danni dei polacchi, e non il trasferimento dei tedeschi, che suscita veramente contrarietà. Si può ritenere che se l’operazione riguardasse soltanto tedeschi, italiani e baltici…alla fine non sarebbe tanto male…l’idea di redistribuire masse minoritarie sta diventando popolare presso “il popolo eletto”225.

Jabotinskij arrivò negli Stati Uniti il 13 marzo 1940. Il sionismo là era in una fase di scarsa popolarità. La Palestina era lontana dal fronte, la maggior parte degli ebrei erano insensibili all’orrore che iniziava a compiersi sui loro parenti in Polonia, e lavorare per un’ipotetica armata ebraica non sarebbe stato allettante dal momento che chiunque sapeva che per arruolarsi nell’esercito inglese bastava recarsi in Canada226. Anche la WZO spingeva per un’armata ebraica, ma senza esito migliore di quello di Jabotinskij. Jabotinskij insistette, studiò perfino lo spagnolo in previsione di partire per l’Argentina, ma era estremamente depresso per la guerra in Europa: la situazione degli ebrei era terribile, e da un punto di vista strettamente sionista l’Europa orientale era la roccaforte, egli non poteva pensare di trovare un ampio seguito nella comunità ebraica americana, caratterizzata da una mentalità progressista e liberale. Era prostrato, mentalmente e fisicamente. Il 1 agosto disse a un amico che temeva di avere l’angina pectoris. Il giorno successivo fu visitato da un medico, che sospettò a sua volta problemi cardiaci e gli disse di ritornare per nuovi esami la settimana successiva. Passò il fine settimana in un campo del Betar a Hunter, nella contea di Greene, sui Monti Catskills, a circa 130 miglia da New York. Fu condotto là sabato 3 agosto, arrivando verso sera. Era profondamente stanco e dopo una breve rivista della guardia d’onore fu condotto a letto e venne chiamato un medico. Mentre veniva svestito sospirava: “Sono così stanco, così stanco”. Queste furono le sue ultime parole; non rispose alle iniezioni e all’ossigeno e morì alle 22,45. Pochi giorni dopo fu sepolto in un cimitero ebraico a Long Island. Lasciò un’indicazione categorica: “Le mie spoglie (se sarò sepolto fuori dalla Palestina) non siano trasferite laggiù se non su ordine del futuro governo ebraico del Paese”227. E’ segno di aspra ostilità da parte del sionismo laburista, verso la memoria di colui che Ben-Gurion spesso chiamava “Vladimir Hitler”, che il governo israeliano non abbia effettuato tale trasferimento fino al luglio 1964, 16 anni dopo la fondazione dello stato di Israele.

Valutazione finale Da ogni punto di vista Jabotinskij fu straordinario. I suoi seguaci sottolineano le sue qualità e lo dipingono come un uomo del Rinascimento ebraico, e altri lo hanno paragonato a Trockij per le sue caratteristiche di eretico, scrittore, oratore e soldato. Di certo ebbe significative capacità, e a dispetto dell’estremismo ideologico fu sempre di carattere amichevole (sebbene non vi siano tracce che abbia mai avuto contatti con arabi). Innegabilmente fu dotato come linguista: parlava bene l’yiddish, il tedesco, l’ebraico, l’italiano, il francese e l’inglese, così come la madrelingua russa, e fu in grado di parlare di fronte a un uditorio di Antwerp, che non comprendeva altri idiomi, in dialetto fiammingo, di intrattenere uno scandinavo con citazioni di saghe nordiche o di recitare Die Lorelei228 in esperanto. Ma anche nelle lingue il suo fanatismo sionista ebbe la meglio, e di arabo non imparò mai più che poche frasi.

225 Vladimir Jabotinskij, The Jewish War Front, 1940 226 Il Canada dichiarò Guerra alla Germania già il 10 settembre 1939, mentre gli USA entrarono nel conflitto solo alla fine del 1941. 227 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 228 Poema di Heinrich Heine (1824) ispirato alla omonima ondina (sirena di fiume) del Reno, figura popolare della mitologia tedesca. 75 Dal punto di vista stilistico, è come si ci fossero due Jabotinskij. Gli scritti politici rivolti ai gentili sono senza valore, parlano al pubblico e un libro come Il fronte ebraico di guerra è pieno della pomposa terminologia in uso presso l’alta società inglese nel 1940. Invece Sansone è molto curato, e i personaggi, incluso l’eroe super-uomo, sono tutti credibili, anche se la storia come egli la racconta risulta un po’ ingiallita, come le stesse pagine del libro. E’ lo sfacciato razzismo, e l’imperialismo vecchio stampo, mai più rivisto in un’opera letteraria moderna, che fanno di quel libro un pezzo da museo. Jabotinskij diede il massimo come critico sulla stampa sionista, esprimendo uno stile molto chiaro e autorevole, che egli attribuiva alla sua padronanza della grammatica e all’inclinazione a disegnare conclusioni logicamente estreme a partire dalle comuni premesse sioniste. Quando egli discute dell’assoluta necessità della forza per il successo del sionismo, o della totale dipendenza di questo dal capitalismo, diventa definitivo, quasi oracolare. Ma non si limitò mai a ciò: decenni di legami con i reazionari russi e poi inglesi gli conferirono una mentalità non solo imperiale bensì imperiosa, che lo spinse sempre verso l’ultra-destra mondiale. La sua cordiale bonomia non può mascherare il fatto che egli fu come minimo un’estremista della reazione, un dichiarato collaboratore degli antisemiti, apologeta di Benito Mussolini, e spesso poco meno che un idiota politico. In conclusione, l’interesse degli storici nei suoi confronti risiede nel fatto che sia mentore e idolo del suo discepolo più famoso al mondo, il cui primo atto una volta premier di Israele è stato mettere il ritratto di Jabotinskij appeso alla parete del proprio nuovo studio.

76 9. Menachem Begin: i primi anni

A differenza di Jabotinskij, vi è molto poco materiale reperibile sui primi anni della vita di Begin. Come vedremo, egli non parla o scrive molto sul suo periodo pre-palestinese, il che è da attribuire all’inevitabile imbarazzo a cui andrebbe incontro se descrivesse il suo ruolo nel Betar nel periodo della collaborazione con Mussolini e i Colonnelli. Per di più molti di coloro che lo conobbero in quell’epoca, amici e nemici, furono uccisi dai nazisti, e giornali, documenti, resoconti sono andati distrutti. Comunque egli ha i suoi biografi, i quali non solo hanno lavorato in circostanze difficoltose ma a vario titolo hanno trattato l’argomento con malcelata simpatia o nel migliore dei casi con cauta neutralità. I loro capitoli sui primi anni di Begin sono infarciti di materiale estraneo sugli ebrei, l’Europa orientale, il sionismo e il revisionismo, per lo più superficiale e per lo più propagandistico, tutto per riempire i vuoti creati dalla non volontà di scavare nel passato fascista del soggetto. I lettori potranno verificare i forti limiti di informazione testè descritti leggendo i libri dello stesso Begin White Nights, che parla del periodo sovietico 1939 – 42, e La Rivolta, sul periodo clandestino dell’Irgun 1942 – 49, nonchè le tre biografie citate in seguito.

Fanciullezza Menachem Wolfovitch Begin nacque a Brest-Litovsk (Brisk in yiddish), una piccola città di circa 40.000 abitanti, di cui oltre il 55% ebrei, sul fiume Bug, in quella che oggi è la Repubblica Sovietica Bielorussa, il 16 agosto 1913. Il padre Wolf Dov Begin, figlio di un mercante di legname, lavorò frequentemente per il genitore, ma fu anche segretario della comunità ebraica religiosa. La madre, Hasia Korsovkij, era discendente di un’importante famiglia di rabbini, anch’essa implicata nel commercio del legname. Wolf Dov Begin era un convinto sionista religioso del partito Mizrachi, che aveva già chiamato Herzl il primo maschio (la primogenita fu una femmina, Rachel). Il terzo figlio fu chiamato Menachem, “Consolato”, perché era nato nel “sabato della consolazione”, il primo sabato successivo al 9 Av nel calendario ebraico, giorno nel quale gli ortodossi commemorano la distruzione del Tempio di Gerusalemme. La Prima guerra mondiale scoppiò l’anno successivo. Il padre di Menachem, come molti sudditi ebrei dello Zar, era filo-tedesco, e a quanto pare non fece mistero di ciò. Le autorità militari lo espulsero dalla città, ed egli si recò a Mosca, poi a Pietrogrado e Varsavia. La madre di Menachem e i tre figli furono a loro volta spinti a lasciare la città prima dell’arrivo dei tedeschi, e si trasferirono a Kobrin, più a est, verso le Paludi di Pripyat. Quattro anni dopo, alla fine della guerra, Wolf Dov tornò a Brisk, e un anno dopo la famiglia si riunì. La città fu conquistata prima dal nuovo esercito polacco e poi da quello sovietico, e alla fine entrò a far parte della Polonia. Begin, che aveva sette anni quando l’Armata Rossa entrò in città, ha due ricordi di quell’episodio: un soldato che bussò alla porta per chiedere un pezzo di pane, e una commissaria ebrea donna che fu alloggiata presso di loro. Il piccolo Begin istintivamente provò antipatia per le sue maniere poco femminili. Egli afferma che fu disgustato dalla insistenza con cui ella sosteneva che non avrebbe esitato a sparare a qualunque loro nemico229. L’esercito polacco pullulava di assassini antisemiti: qualcuno potrebbe pensare che Wolf Dov Begin simpatizzasse per l’Armata Rossa, guidata da un ebreo, Trockij, che combatteva gli antisemiti, ma certamente non fu così. In quanto capitalista, religioso e sionista, egli odiava i sovietici, e sembra che Menachem abbia ben incorporato i valori paterni nel proprio super-Io. Un altro avvenimento riguardante il padre influì significativamente sul carattere di Menachem all’età di 10 o 11 anni: stavano camminando in compagnia di un rabbino quando due soldati polacchi cercarono di tagliare la barba del rabbino. Wolf Dov colpì uno di loro col suo bastone da passeggio e fu trascinato alla piazzaforte locale ove fu frustato per la sua colpa.

Mio padre tornò a casa duramente segnato dalle sferzate ma col morale alto, perché era convinto di avere fatto ciò che era giusto…Noi tutti fummo orgogliosi del suo comportamento – un esempio per tutti i membri della comunità ebraica230.

229 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1979 230 Frank Gervasi, The Life and Times of Menahem Begin: Rebel to Statesman, 1979 77

Begin afferma che l’esempio del padre gli fu sempre chiaramente presente:

In tutta la mia vita, non ho incontrato un uomo più coraggioso di lui. Mi è capitato tutta la vita di lavorare con persone di coraggio, ma non dimenticherò mai il modo in cui mio padre combattè in difesa della dignità ebraica231.

Sebbene l’yiddish fosse la lingua parlata in casa, il padre di Menachem volle che il figlio ricevesse un’educazione totalmente ebraica, e all’età di sette anni lo iscrisse a una scuola elementare Mizrachi. Così in una Polonia ove due terzi degli abitanti parlavano polacco e la grande maggioranza di quel 10,5% di popolazione ebraica non era in grado di tenere una semplice conversazione in ebraico, Menachem fu calato in un ambiente sionista asettico e isolato, aggravato dal fatto che il Mizrachi, con la sua rigida ortodossia, era una minoranza entro lo stesso sionismo. Il significato intellettuale di questa educazione sarà meglio apprezzato se si tiene presente che il Mizrachi non ha ancora oggi prodotto un singolo leader ideologico di primo livello, anche da un punto di vista sionista, e ancor meno nell’ambito politico. Il sionismo di Wolf Dov Begin era del tipo della classe media più filistea, una sorta di secolarizzazione primitiva del suo profondo settarismo, di tipo pantofolaio, molto più inerente all’identità ebraica che a un luogo reale con abitanti reali chiamato Palestina. All’età di dieci anni il futuro Primo ministro fece il suo primo discorso politico, con indosso calzoni al ginocchio e una kippah, issato sopra a un tavolo. L’occasione fu il festival giovanile di Lag Bomer. Tradizionalmente allegra, con falò e ragazzi che giocano con archi e frecce, la giornata è ispirata a Bar-Kochba, l’eroe dell’ultima rivolta ebraica nel 135 d.C., e i sionisti non poterono esimersi dal trasformarla in un momento di propaganda nazionalista. Due anni dopo, nel 1925, egli aderì al suo primo gruppo sionista organizzato, Hashomer Hatzair (La giovane sentinella). Oggi l’Hashomer è la sezione giovanile del Mapam, una fazione israeliana minoritaria che appoggia il più ampio Partito Laburista (ex Mapai); all’epoca era un movimento di scout. L’anno successivo tuttavia il gruppo si orientò verso una vaga idea di socialismo utopico. Ciò fu troppo per l’ottuso Wolf Dov, che convinse il figlio tredicenne a lasciare l’organizzazione, e Menachem abbandonò irrevocabilmente la sinistra, anche entro l’ambito circoscritto del sionismo, dicendo ai suoi compagni che, come ebrei, essi dovevano “prima combattere per la nostra libertà e poi per quella degli altri”232. A 14 anni Menachem fu trasferito in una scuola pubblica polacca, ove era uno dei soli tre ebrei. Apparentemente lo spostamento fu dovuto alla mancanza del denaro necessario a mantenere la scuola privata. E’ probabile che egli sarebbe rimasto un perfetto sconosciuto se non fosse stato fatto uscire dai confini del mondo educativo mizrachi. Nella nuova scuola entrò in contatto con l’ampio panorama culturale europeo, e si appassiono di letteratura, a partire da Virgilio e altri autori latini. Essendo la classe media polacca pervasa dall’antisemitismo, fu inevitabile che il ragazzo dovesse fare i conti con una serie di conflitti, ma sembra che ciò abbia soltanto ancor più indurito il suo carattere. I suoi biografi menzionano altri episodi della fase pre-revisionista, ma sono semplici aneddoti. Se, come emerso chiaramente, lo spirito comunitario ebraico e il sionismo del padre infuirono sulla sua vita, a livello individuale fu con l’adesione al revisionismo che Menachem si volse anima e corpo alla storia del movimento. Assistette a un discorso di Jabotinskij per la prima volta nel 1929, a Brest-Litovsk. E’ facile comprendere l’attrattiva che il sionismo revisionista suscitò in lui. Casa Begin era profondamente ebraica, sionista, capitalista e reazionaria, e Jabotinskij incarnava all’estremo tutte queste caratteristiche. Wolf Dov e i suoi parenti avevano trovato il messia. L’adesione al revisionismo ideologicamente per Begin fu un passaggio più naturale che mai, che non richiese alcuna rottura con il suo contesto precedente.

Betar Begin aderì e si fece rapidamente strada nel Betar in espansione; dopo un anno ne era già il capo cittadino. Nel 1931, ancora 17enne, si iscrisse alla Facoltà di Legge dell’Università di Varsavia,

231 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 232 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1979 78 “per essere in grado di difendere i deboli e gli oppressi” scrisse allora233. Fu presto cooptato nella commissione nazionale del movimento e ricevette il “portafoglio” dell’amministrazione. Oggi il sionismo è al potere ed è notoriamente una delle ideologie i cui burocratici sono meglio retribuiti, ma negli anni della Depressione il sionismo e in particolare la sua corrente revisionista era un movimento “puro”, ovvero povero, e il giovane zelota consumava un pasto al giorno e alloggiava all’ostello degli studenti ebrei, con il misero guadagno derivante dalle ripetizioni di latino agli studenti ginnasiali. Si laureò in Legge nel 1935, e sebbene non esercitò mai la professione gli studi lasciarono su di lui un’impronta indelebile. La specializzazione del suo dipartimento era l’oratoria in tribunale, e vi era un corso di dizione e retorica tenuto da un importante attore del Teatro Nazionale. Oggi Begin è riconosciuto quale uno dei migliori oratori del mondo sionista, e nonostante i due libri di memorie e i numerosi articoli settimanali pubblicati sul giornale del suo movimento, sarebbe il primo ad ammettere di non essere né uno storico né uno scrittore nel vero senso della parola234. Il Betar era un movimento in crescita quando Begin vi si unì, sia in Polonia che a livello mondiale, e continuò ad avanzare fino all’omicidio Arlosoroff, quando l’opinione pubblica ebraica bruscamente si volse contro. Begin accompagnò Jabotinskij in un giro di conferenze in tutta la Polonia in difesa di Stavsky, e fu personalmente coinvolto nella vicenda attraverso la famiglia dell’accusato, che era stata sua vicina di casa a Brest-Litovsk. Il 14 marzo 1982 Begin da Primo ministro annunciò la formazione di una commissione ufficiale per indagare sull’omicidio, dopo la pubblicazione di un libro che sosteneva la colpevolezza di Stavsky e Rosenblatt235. La commissione fu istituita nonostante la forte contrarietà di due membri del governo, che non vedevano il senso di riaprire il caso e con esso vecchie ferite. Che Begin volesse procedere è indubbia testimonianza del fatto che egli non credette, all’epoca, che i due fossero colpevoli, anche se la sua o la loro opinione sul fatto possono difficilmente essere determinanti per noi, che dobbiamo attenerci all’evidenza oggettiva. (Merlin, dal canto suo, sebbene abbia rotto col revisionismo, crede ancora che la vedova Arlosoroff fu dietro l’uccisione, pensando che il marito le fosse infedele)236. Nel 1935 il 22enne Begin era una delle figure più importanti del Betar mondiale, e quell’anno a Cracovia sedette a fianco di Jabotinskij al Secondo Congresso mondiale dell’organizzazione. Nel settembre del 1935 assunse la direzione del dipartimento di propaganda del Betar polacco. Occorre comprendere che sebbene i revisionisti polacchi fossero antinazisti, e organizzassero proprie manifestazioni di boicottaggio (almeno nei primi anni della vittoria hitleriana), la Palestina e non la Germania fu al centro delle loro attenzioni. In occasione di una manifestazione del 1937 il nome di Begin apparve per la prima volta nella lingua inglese, in un insignificante resoconto dell’Agenzia Telegrafica Ebraica (JTA), il bollettino quotidiano dell’agenzia di stampa della WZO, che il 5 aprile scrisse:

400 membri dell’organizzazione sionista di destra Brit Trumpeldor hanno manifestato davanti all’ambasciata inglese, contro il governo mandatario in Palestina…Quattro dei dieci giovani fermati durante la manifestazione sono stati arrestati. Uno è Moshe Biegun, un leader di Brit Trumpeldor.237

La polizia polacca vietò ogni altra manifestazione e Begin rimase in prigione per due settimane; ma i revisionisti non erano di sinistra, e dopo una piccola pressione attraverso i loro contatti nel governo egli fu rilasciato. Quello stesso anno trascorse cinque mesi in Cecoslovacchia come comandante operativo del Betar locale.

Il Congresso del Betar del 1938 Fu nel settembre 1938 che Begin ricevette la sua unica, grande reprimenda pubblica da parte del suo mentore. Egli non ha mai parlato pubblicamente dell’accaduto (troppo doloroso, personalmente e politicamente), ma il fatto accadde al Terzo Congresso mondiale del Betar a Varsavia, nel momento in cui il giovane entusiasta metteva la sua impronta più decisa sull’indirizzo

233 Frank Gervasi, The Life and Times of Menahem Begin: Rebel to Statesman, 1979 234 Jewish Frontier, agosto 1977 235 JTA Daily News Bulletin, 15 marzo 1982 236 Intervista dell’autore a Shmuel Merlin, 16 settembre 1980 237 JTA Daily News Bulletin, 5 aprile 1937 79 del revisionismo pre-bellico. Era un periodo di terribile pressione sugli ebrei. Hitler si era impadronito di Austria e Cecoslovacchia, i repubblicani stavano perdendo in Spagna. Israel Scheib, allora molto amico di Begin, in seguito descrisse la loro condizione:

A migliaia allargavano le braccia, non potendo far nulla. Il Betar aveva raggiunto il punto di saturazione. Per quanto tempo puoi contenere la tensione rivoluzionaria con duelli e con la stesura di petizioni?...Se non fosse stato per i processi ai trotzkisti in Russia, non c’è dubbio che migliaia e migliaia dei migliori giovani ebrei, assetati di azione e redenzione, si sarebbero uniti al movimento comunista, che combatteva ed era perseguitato238.

Al Congresso Begin propose che una frase del loro giuramento di fedeltà venisse cambiata da “Leverò il mio braccio solo in mia difesa”, che Jabotinskij aveva inserito dopo l’omicidio Arlosoroff, a “Leverò il mio braccio in difesa del mio popolo e per la conquista della mia patria”.

Finora la risposta dei movimenti sionisti è stata l’attività politica, l’insediamento, l’immigrazione di massa, la propaganda, l’alleanza con gli inglesi e la fiducia nella Scoeità delle Nazioni e nella coscienza del mondo. Ora tutto è cambiato: la coscienza del mondo ha cessato di reagire, e la Società delle Nazioni non ha più valore. I nostri alleati inglesi ci mandano al patibolo e imprigionano il meglio della nostra nazione. I nostri buoni amici inglesi ci offrono il cinque per cento di Eretz Israel e danno la precedenza alle ambizioni nazionaliste degli arabi. Noi vogliamo combattere: vincere o morire. Dopo il sionismo pratico e il sionismo politico, dobbiamo ora inaugurare l’era del sionismo militare. Dobbiamo accumulare una forza che non dipenda dai favori altrui. Se creiamo una tale forza, anche il mondo verrà in nostro appoggio239.

Jabotinskij replicò di comprendere l’ansia dei giovani, ma che doveva pronunciarsi contro la proposta di Begin da un punto di vista politico e morale:

Vi sono vari tipi di rumori…Molti immagino, conoscono il cigolìo degli oggetti. E’ difficile sopportare il rumore di una porta che cigola perché è inutile. Le parole che abbiamo udito da parte di mr. Begin rappresentano proprio questo tipo di rumore, un rumore che deve essere rapidamente fatto cessare240.

Aveva scritto troppi articoli in vita sua per sentirsi dire che l’opinione pubblica non avesse senso, e biasimò con forza il cinismo del suo discepolo:

Se voi, signore, avete cessato di credere nella coscienza del mondo, vi conviene andare in riva alla Vistola e gettarvi dentro. Oppure unirvi ai comunisti241.

Begin invocava una “ribellione in stile irlandese”242. Jabotinskij affermò che il militarismo era una cosa seria e stroncò l’analogia: “Che ribellione in stile irlandese potremmo suscitare in Eretz Israel? Gli irlandesi vivono sul proprio territorio, ma noi?”243. Begin ebbe i suoi sostenitori, tra essi Uri Zvi Greenberg e Avraham Stern e altri irgunisti giunti al Congresso dalla Palestina, e Israel Scheib difese l’amico: una porta cigolante poteva essere utile se avesse svegliato qualcuno così da salvare la casa da un ladro244. Ma Jabotinskij interruppe i pro-Begin suggerendo loro di suicidarsi insieme a lui. Durante una pausa nei lavori essi si riunirono per fondare un “club dei suicidi”, completo di statuto in 18 punti, motto e insegna, e sottoposero il tutto a Jabotinskij per la “ratifica”. Jabotiskij stette al gioco e diede la completa approvazione: “Così sia, Vladimir Primo”. L’emendamento di Begin passò, ed egli si affrettò a ricucire lo strappo, dichiarando formalmente che “Il Betar, in tutte le sue sezioni, campi e settori, è pronto al vostro comando”245.

238 Daniel Levine, David Raziel, The Man and his Times, 1969 239 Frank Gervasi, The Life and Times of Menahem Begin: Rebel to Statesman, 1979 240 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1979 241 Frank Gervasi, The Life and Times of Menahem Begin: Rebel to Statesman, 1979 242 ibidem 243 ibidem 244 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 245 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1979

80 Le conseguenze del Congresso, e la capitolazione di Jabotinskij all’isteria condizionata dalla disperata situazione in Europa, sono state descritte in precedenza: basti qui sottolineare che l’intera vicenda è indice del carattere assai fanatico del pensiero di Begin all’epoca. Il cinismo ha sempre l’ultima parola sul realismo, ma solo in quanto caricatura. Quando qualcuno osò sfidarlo chiedendogli come avrebbe potuto ottenere le forze per invadere la Palestina e sconfiggere simultaneamente gli inglesi, i sionisti laburisti e gli arabi, egli cavallerescamente sviò la legittima domanda dicendo: “Io sto proponendo un’idea. Gli esperti diranno come essa va realizzata”246.

Alle soglie della Seconda guerra mondiale Nel periodo tra il Congresso e lo scoppio della guerra il revisionismo polacco fu totalmente dominato dagli elementi più fascisti e militaristi del movimento. Abba Achimeir era stato deportato in Polonia dagli inglesi dopo un periodo di detenzione per associazione terroristica. Il campo di addestramento di Zakopane attirò anche Avraham Stern nel paese. Egli cominciò a organizzare cellule clandestine nel Betar e tra i revisionisti adulti, maggiormente legate all’Irgun. I militaristi crearono propri giornali. Essi erano sempre più pubblicamente ostili a Jabotinskij, ed egli per contro divenne sempre più preoccupato della loro influenza. Nella primavera del 1939 il comandante del Betar polacco si dimise in previsione del trasferimento in Palestina. Il suo vice decise di non essere all’altezza di sostituirlo, e in aprile Jabotinskij mise Begin al suo posto. Fu una scelta ottimale. Begin aveva mostrato fedeltà a Jabotinskij al Congresso, nonostante la polemica politica, pur mantenendo strette relazioni personali con Avraham Stern e altri, come Nathan Yalin-Mor, editore del giornale dell’’Irgun Die Tat (L’Azione). Ideologicamente sviluppò un’intesa con il fascista dichiarato Achimeir. Yehuda Behari, direttore del Jabotinskij Institute in Israele, autore dell’articolo su Begin nella Encyclopaedia of Zionism and Israel, scrive che al suo ritorno dalla Cecoslovacchia “egli si unì all’ala radicale del revisionismo, che era legata ideologicamente al Brit HaBiryonim”247. Begin si insediò nel nuovo ruolo. Prese una stanza in affitto nel cuore di Varsavia ed entrò in uno studio legale come impiegato per scrivere i suoi articoli. Il 29 maggio 1939 egli e Aliza Arnold, anch’ella appartenente al Betar, entrambi in uniforme bruna, furono sposati da un rabbino. La Palestina rimaneva al centro del suo universo, ed egli era profondamente coinvolto nell’immigrazione illegale, ma nella primavera del 1939 la possibilità di una guerra a Varsavia era presa molto sul serio, checché ne pensasse Jabotinskij nella lontana Pont d’Avon. Dunque Begin partecipò ai negoziati con il capitano Runge, capo della polizia segreta polacca, a proposito di un piano revisionista. Il piano prevedeva che l’esercito polacco allestisse unità separate ebraiche, naturalmente comandate da polacchi, e poi dopo che polacchi ed ebrei fossero, si pensava, scesi a patti con l’esercito tedesco, gli ebrei senza ufficiali polacchi sarebbero andati alla conquista della Palestina248. Il piano fallì perché il Bund, che aveva preso il 70% del voto ebraico alle amministrative del gennaio 1939, si era sempre fermamente opposto a qualunque tentativo di segregazione nell’esercito, e i polacchi sapevano che anche in quel caso avrebbe messo i bastoni tra le ruote. Inoltre, il governo era consapevole che vi era un forte declino dell’antisemitismo nella classe media polacca, a causa della minaccia proveniente dalla Germania: anche il più ottuso comprendeva che l’antisemitismo potesse soltanto dividere il paese di fronte al nemico comune249. Quando Jabotinskij giunse a Varsavia nel giugno 1939 fu contrariato nello scoprire che anche i loro appoggi nel governo ora ritenevano la questione ebraica “secondaria”. Lamentò che non si potesse fare di più: alla fine l’antisemitismo sarebbe ritornato, quando la minaccia della guerra fosse svanita, cosa di cui egli era sicuro. Ma forse sarebbe stato troppo tardi, e allora gli ebrei avrebbero scoperto che “l’iniziativa di far rivivere il Grande Sionismo dovrà riprendere dal campo antisemita”250. Così, alle soglie della Seconda guerra mondiale, la Polonia assisteva allo spettacolo revisionista in cui Menachem Begin, futuro Primo ministro di Israele, si augurava da parte del governo polacco una politica più antisemita, che quest’ultimo non osava o non voleva praticare.

246 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1979 247 AA.VV., Encyclopaedia of Zionism and Israel, 2 voll., 1971 248 Jewish Press, 13 maggio 1977 249 Joseph Schechtman, Fighter and Prophet: the Vladimir Jabotinskij Story (the Last Years), 1961 250 ibidem 81 10. Begin durante l’Olocausto

Esodo dalla Polonia L’avanzata tedesca distrusse la fantasia revisionista di un’invasione della Palestina a partire dalla Polonia. Durante i primi giorni il governo di Varsavia portò avanti alcune delle sue funzioni regolari, incluso l’incoraggiamento all’emigrazione ebraica nonostante la guerra alle porte e il bisogno di manodopera. Due dei biografi di Begin scrivono che egli e la moglie, così come l’amico Nathan Yalin-Mor e la moglie di quest’ultimo, ricevettero dei visti di espatrio. Tuttavia il governo presto decise di abbandonare la capitale per formare una nuova linea di difesa lungo il fiume Bug, e chiamò tutti gli uomini abili a lasciare Varsavia. I dirigenti di tutte le fazioni ebraiche, senza eccezione, seguirono l’ordine del governo. A prescindere se Begin e Yalin-Mor con le loro mogli intendessero ritirarsi oltre il Bug, la cosa divenne priva di senso con l’entrata delle armate sovietiche nei territori orientali, e la totale rotta dell’esercito polacco. Begin non pretende di sostenere che intendesse restare in Polonia, e nel 1977 disse a un intervistatore che:

Con un gruppo di amici raggiungemmo Lvov, nel disperato e vano tentativo di attraversare il confine e provare a raggiungere Eretz Israel; ma non vi riuscimmo. A quel punto sentimmo dire che Vilna sarebbe divenuta capitale di una repubblica di Lituania, indipendente dai russi251.

I dirigenti del Bund lasciarono Varsavia con grandissima riluttanza, persuasi che non sarebbero riusciti a convincere le masse ebraiche a difendere fino alla morte le loro case e le loro famiglie, e che ogni tentativo in tal senso avrebbe suscitato l’ira dei polacchi, che se la sarebbero presa con gli ebrei per la successiva distruzione della loro capitale. Tuttavia avevano sottovalutato i compagni del Partito Socialista Polacco, che decisero che era psicologicamente cruciale per lo sviluppo della futura resistenza che la capitale non cadesse senza combattere. I socialisti convinsero il generale Czuma, capo della guarnigione della città, a ribaltare l’ordine di evacuazione. Quando il comitato centrale del Bund raggiunse il Bug ed ebbe notizia del contrordine, diede ordine a due suoi dirigenti, Bernard Goldstein e Viktor Alter, di rientrare a Varsavia. Non ci sono tracce di tentativi analoghi di partiti sionisti di far tornare propri rappresentanti a fianco degli ebrei della capitale. Begin e Yalin-Mor non furono i soli a fuggire a Vilna. Tra i principali rifugiati vi furono Moshe Sneh, presidente della Federazione Sionista Polacca, Zerah Warhaftig del Mizrachi, e i comitati centrali di Hechalutz e Hashomer Hatzair. Nei mesi successivi solo i giovani di Hechalutz e Hashomer fecero dei tentativi di far rientrare dei loro quadri nella Polonia occupata dai tedeschi. Gli altri dirigenti sionisti a Vilna cercarono e in molti casi ottennero dei certificati di immigrazione in Palestina e voltarono le spalle ai loro congiunti, al loro movimento e al loro popolo. Secondo due dei biografi di Begin, egli fu criticato dai suoi compagni in Palestina per la fuga dalla Polonia:

ricevette una lettera dalla Palestina che lo criticava per essere fuggito dalla capitale polacca mentre altri ebrei vi erano bloccati. Come capo del Betar, diceva la lettera, egli sarebbe dovuto essere l’ultimo ad abbandonare la nave che affonda. Begin fu preso da sensi di colpa; occorsero grossi sforzi da parte dei suoi compagni per impedire che compisse atti impulsivi, che probabilmente gli sarebbero costata la vita252.

Nel suo libro post-bellico, White Nights, che parla del periodo lituano e sovietico, Begin non fa riferimento ad alcuna lettera. Invece cerca di giustificare la sua fuga da Varsavia: “Non c’è dubbio che sarei stato uno dei primi ad essere ucciso se i tedeschi mi avessero catturato in Varsavia”253. Ma non c’è ragione per credere che ciò sarebbe accaduto. Tutti gli ebrei erano oggetto di selvaggia oppressione, e durante l’occupazione tedesca non vi fu mai alcuna persecuzione particolare nei confronti dei sionisti in generale o dei revisionisti in particolare. Al contrario dopo

251 Jewish Press, 2 dicembre 1977 252 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 253 Menachem Begin , White Nights, 1953 82 l’invasione dell’URSS Josef Glazman, capo del Betar lituano, fu nominato ispettore della polizia ebraica nel ghetto di Vilna. Non c’è alcun dubbio che Begin abbandonò i suoi compagni in Polonia. Lo storico revisionista Chaim Lazar-Litai è molto franco nel descrivere l’isolamento del movimento in Polonia:

all’epoca il panico e il caos regnavano a Varsavia, i militanti del Betar furono lasciati senza leader, senza aiuto o istruzioni…il movimento revisionista fu la sola fazione ebraica nel ghetto che non era in contatto con le sue istituzioni all’estero254.

Begin non ebbe mai l’intenzione di tornare in Polonia. In White Nights scrisse che informò i funzionari stalinisti che nel 1940 lo interrogavano nella prigione Lukisnki di Vilna, che

Avevo ricevuto un lasciapassare da Kovno per me e mia moglie, e anche visti per la Palestina. Stavamo per partire, e soltanto il mio arresto mi impedì di farlo255.

Poche pagine più avanti scrisse, come una sorta di ripensamento: “Stavamo per partire…ma dovemmo cedere i nostri posti a un amico”256.

Le ragioni della fuga di Begin Begin non fu spinto da un motivo di paura ad abbandonare il movimento in Polonia, bensì da motivi di prospettiva politica. Con l’eccezione delle poche iniziative di boicottaggio anti-nazista che i revisionisti avevano organizzato nei primi anni del regime hitleriano, la lotta contro il nazismo non fu mai una priorità per il suo movimento; di certo non era stato fatto nulla per mobilitare le masse ebraiche contro l’antisemitismo polacco durante il periodo pre-bellico. Non c’è dubbio che anch’egli condividesse l’opinione del suo mentore che anche dopo la guerra non vi sarebbe stato futuro per gli ebrei in Polonia. Che senso aveva dunque ritornare a una situazione che non solo era terribile nell’immediato, ma che era un anacronismo storico, privo di qualunque possibilità di soluzione? Begin era diventato famoso nel suo movimento per la sua linea univoca sul dilemma ebraico: l’immediata conquista della Palestina. Un fanatico tra i fanatici del revisionismo, vedeva i dirigenti delle correnti sioniste rivali agitarsi freneticamente per i certificati di immigrazione, e fu impossibile per lui cambiare improvvisamente linea e organizzare una resistenza clandestina, invece di trasferirsi in Palestina. Non fuggiva dal più grande disastro della storia ebraica, ma correva verso la sola opportunità di un futuro per gli ebrei. Oggi, nell’epoca post-Olocausto, tutti comprendiamo che i crimini di Hitler furono così umanamente terribili che neanche un fanatico assoluto come Begin può essere esente da sensi di colpa per la decisione di abbandonare gli ebrei polacchi. Ogni tanto Begin, che mai esita a usare l’Olocausto per attaccare i suoi avversari gentili, mostra la sua ambivalenza psicologica sull’argomento. Il numero di ottobre 1977 di Martyrdom and Resistance, organo della Federazione Americana degli Ebrei Combattenti, Detenuti e Vittime del Nazismo, riportò della furiosa opposizione dell’intero movimento dei sopravvissuti alla proposta del nuovo Primo ministro di Israele di abbandonare la pluri-decennale commemorazione israeliana dell’Olocausto (il 27 del mese ebraico di Nissan), e di unirla al Tisha b’Av, la commemorazione della distruzione degli antichi templi di Gerusalemme257. La proposta non ebbe un seguito. Altrettanto bizzarra fu la sua uscita alla Knesset il 2 marzo 1982. Si alzò e chiese agli astanti: “Quante persone vi sono in parlamento che hanno indossato la stella di David? Io lo feci”258. Ma Begin fuggì davanti ai nazisti, e non si indossavano stelle di David in Lituania quando lui era là.

Arresto Secondo un emendamento al patto tedesco-sovietico del 28 settembre 1939, la Lituania con l’eccezione di una sua parte sudoccidentale su posta sotto la sfera d’influenza dell’URSS. Il 10 ottobre Vilna fu ceduta dai sovietici ai lituani e all’Armata Rossa vennero garantite alcune basi nel paese. Il 15 giugno 1940 l’Armata Rossa occupò completamente il paese, e l’annessione formale

254 Chaim Lazar-Litai, Muranowska 7: The Warsaw Ghetto Rising, 1966 255 Menachem Begin , White Nights, 1953 256 ibidem 257 Martyrdom and Resistance, ottobre 1977 258 New York Times, 3 marzo 1982 83 avvenne il 3 agosto. Il 1 settembre un messaggero si presentò alla porta dell’alloggio che Begin condivideva con Israel Scheib, con un “invito” a Begin presso il municipio della città per discutere una “richiesta” che gli era attribuito di avere fatta. Begin comprese che non avendo egli fatto alcuna richiesta l’invito veniva dalla polizia politica. Non fece tentativi di fuggire: “La decisione non fu semplice. Ma non entrerò nei dettagli”259. Non vi è dubbio che l’avvento della guerra, la distruzione della Polonia, la conquista tedesca della Francia, l’occupazione sovietica, e la notizia della morte di Jabotinskij lo avessero demoralizzato. Sapeva di potersi nascondere, almeno per un breve periodo, ma con il suo mondo messo sotto assedio dalle due grandi dittature dell’epoca, il suo inedito pessimismo era facilmente comprensibile. A una commemorazione di Jabotinskij egli poco tempo prima aveva detto agli astanti: “Noi avremo il privilegio di combattere per Sion. Ma se non ci è concesso fare ciò, andrà bene anche soffrire per Sion”260. La NKVD mise sotto sorveglianza la casa per alcuni giorni prima di prelevare la propria preda:

Ovunque intorno vi era sofferenza. Un mare di sofferenza, grande e profondo quanto l’oceano…nei giorni della sofferenza di massa…è allora che un uomo chiede a se stesso: “Perché soffrono?”…se non si può fare nulla, non rimane altro che lo spettro della sofferenza ingiusta, uno spaventoso fantasma che quasi si impadronisce di quel che resta della propria forza vitale. Così, non dico altro che la verità quando affermo che all’avvento del giorno fatidico…la mia principale emozione fu come di intenso sollievo261.

Prigionia e interrogatori La storia della prigionia di Begin nelle mani del regime staliniano ci è giunta soprattutto attraverso il suo libro, che è estremamente leggibile e coinvolgente dal punto di vista umano. Egli non comprese minimamente lo stalinismo, e disse anche durante uno degli interrogatori che “semplicemente non ricordavo che Jabotinskij mi avesse mai detto nulla a proposito dell’Unione Sovietica”, ma curiosamente rimase affascinato dall’opportunità creata da quella rocambolesca vicenda:

Provai una certa soddisfazione nell’avere l’opportunità…di osservare, da vicino, dall’interno, i metodi, il lavoro oscuro e i signori del regno dell’NKVD. Dico la verità quando affermo che sedendo di fronte al mio interlocutore durante l’interrogatorio mi sentivo interiormente come uno studioso, e soltanto formalmente un detenuto. Potere della curiosità!262

Begin nel suo libro si affretta ad assicurarci che, se avesse dovuto scontare per intero la pena cui fu condannato, la sua curiosità sarebbe svanita, o forse sarebbe morto, ma nell’attesa le strane circostanze e le intense discussioni ideologiche con la NKVD produssero in lui alcuni comportamenti assurdi, ma molto umani. Un mattino, dopo uno di questi colloqui,

Mi sentii come se stessi ritornando da una conferenza in cui avevo partecipato a un’infuocata discussione sul futuro del mio popolo, e ora facevo ritorno alla mia stanza d’albergo…l’illusione fu così realistica…mi rivolsi al funzionario e chiesi, come se fosse il direttore dell’albergo: “E’ arrivato qualcosa per me?”. L’uomo mi rivolse uno sguardo eloquente, e imprecò.

Gli interrogatori furono straordinari e grotteschi. Begin fu accusato di attività anti-sovietica ma alla fine fu condannato per essere stato a capo del Betar in Polonia. Egli era un avvocato esperto e precisò ai suoi tormentatori che il Betar in Polonia era completamente legale, le sue attività non avevano nulla a che fare con l’URSS, ed egli non era fuggito in URSS bensì in Lituania, e che la sola ragione per cui era nelle mani dell’NKVD era che l’URSS aveva invaso il paese. Non solo non si era implicato in attività anti-sovietiche ma era anche sul punto di partire: “Dunque come posso essere punito per ciò che ho fatto in passato entro i limiti della legge?”. Gli fu detto che le leggi contro i controrivoluzionari si applicavano ovunque: “Capito? In ogni parte del mondo”. Gli interrogatori durarono a lungo, per molte notti, e Begin dovette fronteggiare ogni possibile accusa a carico del sionismo. Egli non è stato mai prodigo di notizie sulla propria carriera pre-

259 Menachem Begin , White Nights, 1949 260 ibidem 261 ibidem 262 ibidem, come tutte le citazioni del paragrafo. 84 Palestina, comprensibilmente dati i legami dell’epoca del revisionismo con gli antisemiti, ma nel corso di questi “dibattiti” fu in qualche modo costretto a difendere la politica pre-Olocausto del sionismo e del revisionismo. Begin aveva chiesto un interprete in yiddish che si rivelò essere una “enciclopedia antisionista”, col risultato che a quel punto l’inquisizione prese un livello molto serio:

Il compagno mi ha ricordato della lettera inviata da quel vostro Herzl a Plehve, il boia zarista Plehve, chiedendo il sostegno zarista ai piani del sionismo, e promettendo che il sionismo avrebbe tenuto i giovani ebrei al di fuori dei ranghi della rivoluzione.

Begin diede una pronta risposta alla domanda:

Vorrei chiederti di comprendere che Herzl sentiva come se una catastrofe stesse per abbattersi sul popolo ebraico, e vediamo oggi che aveva ragione. Era un uomo di stato ma non aveva un potere dietro di sé. Volle accelerare la salvezza del suo popolo e cercò un aiuto. Ciò che l’interprete ha detto non è affatto una novità. Herzl lavorò in un periodo particolare. Andò anche dal Sultano, dal Kaiser tedesco, andò anche dal Papa. Sentiva che il popolo ebraico non poteva attendere. Anche Jabotinskij aveva questo sentimento. Tutti noi lo abbiamo. Posso farti un esempio, Cittadino Giudice? Un incendio scoppia in una casa, e ti capita di passare di lì. Cosa fai? Naturalmente ti affretti a telefonare ai pompieri, ma se senti la voce di una donna o di un bambino gridare tra le fiamme, attenderai che i pompieri arrivino sul posto? Naturalmente no…Questa era precisamente la nostra situazione…Potevamo aspettare? Supponiamo che la Rivoluzione sia una specie di pompiere per gli ebrei perseguitati dall’antisemitismo in Polonia o in Germania…ma non possiamo attendere che essa arrivi.

Indipendentemente dal successo o meno delle repliche di Begin, un dialogo con un carceriere stalinista poteva avere solo un esito. Begin firmò la propria confessione, ma nel fare ciò fornì una preziosa spiegazione in prima persona del perché molti uomini coraggiosi avessero confessato prima di lui crimini che non avevano mai commesso:

I governanti di Mosca…avevano imparato che uno dei fattori decisivi…è il sangue dei perseguitati…Per questo…l’ebraismo riuscì a resistere ai persecutori…il cristianesimo…divenne una religione mondiale…Perciò essi non permisero alcun eroismo, alcun martirio nell’occasione pubblica del processo…La scelta di fronte all’accusato era un processo con l’annientamento ideologico o la distruzione fisica senza il processo…gli osservatori inesperti…pensarono che fossero state usate delle droghe…ma anche un profano si chiederà: ci sono droghe che fanno mentire?...Io non fui torturato né percosso…nelle celle della prigione e nelle baracche del campo di rieducazione venni personalmente a contatto con centinaia di altri prigionieri di quel periodo. Nessuno di loro era stato torturato o percosso…Essi firmarono…per la mancaza di sonno, per un sovrastante desiderio di farla finita, di porre fine alla tortura psicologica…Imparai da vicino…quali sono i fattori decisivi…Il primo in ordine di importanza è l’isolamento…se il combattente sa che la sua opera sarà resa vana, che nessuno ascolterà le sue parole…allora il filo che lo lega alle sue idee può essere spezzato…e la sua anima torturata si chiede: Chi saprà?...Che senso ha la mia sofferenza…La risposta…sarà: non ha senso. Quando questo accade il prigioniero è condannato…a fare la volontà del boia.

L’armata polacca in esilio e la legione ebraica Il 1 aprile 1941 Begin fu condannato senza processo a otto anni di lavori forzati e a giugno iniziò il lungo viaggio verso il gulag di Pechora, un campo per la costruzione di una ferrovia sulla linea dei gulag oggi famosi di Vorkuta, vicino al mare di Barents. Durante il viaggio, sul treno circolò la voce che i nazisti avevano invaso l’Unione Sovietica. Il 30 luglio i sovietici siglarono un patto con il governo polacco in esilio, riprendendo le relazioni e programmando la creazione di un esercito polacco in esilio sul suolo sovietico. Si ritiene che tra un milione e un milione e mezzo di cittadini polacchi fossero fuggiti nella Polonia orientale occupata dai sovietici all’arrivo delle armate hitleriane. Circa metà di costoro erano stati arrestati, e nel giro di poche settimane si ritrovarono di nuovo liberi. Nel settembre – ottobre 1941 due ex prigionieri revisionisti, Miron Sheskin, ex comandante del Brit HaChayal (Unione dei Soldati, l’organizzazione dei veterani) e Mark Kahan, editore di Der Moment, un giornale yiddish di Varsavia, giunsero al campo di arruolamento del nuovo esercito in esilio, nella regione del Volga, e iniziarono a rilanciare agli ufficiali polacchi la loro proposta pre- bellica di segregare gli ebrei in una legione ebraica. L’idea ebbe l’appoggio spontaneo da parte

85 degli ufficiali che gestivano il campo, ma il comandante dell’armata, generale Wladyslaw Anders, che pure era un ex zarista e convinto antisemita, comprese che la cosa non sarebbe stata approvata dai sovietici, e neanche da inglesi e americani. Tuttavia alcuni dei militari polacchi erano legati ai revisionisti già da prima della guerra, e a prescindere dalle preoccupazioni dei loro superiori decisero di mettere in pratica l’idea, nell’ottica di giungere a un’armata polacca libera da ebrei. Il colonnello Jan Galadyk, comandante della scuola ufficiali prima della guerra, si offrì di guidare il primo battaglione ebraico. Dopo la guerra Kahan descrisse il battaglione come un prototipo della legione ebraica da lui proposta. Tuttavia un ritratto molto più accurato e critico fu fornito dal rabbino dei legionari, l’agudista Leon Rozen-Szeczakacz, nel suo libro Cry in the Wilderness. Il 7 ottobre 1941 a Totzkoye, nell’oblast di Samara, un ufficiale polacco chiese ai soldati “di fede mosaica” di fare un passo avanti. La maggior parte di coloro che lo fecero ritornarono ad essere civili, e coloro che non furono scartati furono separati dal resto dell’armata e assegnati a una nuova postazione a Koltubanka. Iniziò immediatamente un mostruoso trattamento. La maggior parte del battaglione dovette indossare stivali troppo piccoli, il che voleva dire fasciarsi i piedi di stracci a 40 gradi sotto zero. Essi furono lasciati all’aperto per giorni e l’armata non li rifornì di viveri. Quando Rozen-Szeczakacz, il cappellano, giunse a Koltubanka, il suo primo compito fu iniziare la sepoltura dei morti, a centinaia di miglia dal fronte più vicino263. Alla fine la voce giunse all’ambasciata polacca e l’ambasciatore, preoccupato dalle reazioni alleate, fece in modo che le condizioni migliorassero. In ogni caso il più ampio progetto revisionista di una Legione Ebraica entro l’esercito antisemita morì, mentre l’armata in esilio si adoperava per lasciare l’URSS. Non vi era possibilità per l’armata in esilio di cooperare con l’Armata Rossa. Il governo in esilio non aveva mai digerito l’annessione sovietica dei territori orientali, nonostante il fatto che i polacchi in quelle zone fossero una chiara minoranza. Né i sovietici potevano tollerare l’aperto antisemitismo degli ufficiali dell’armata polacca. Fermamente convinto che Hitler avrebbe conquistato l’URSS, Anders decise di portare i suoi soldati fuori dal paese attraverso l’Iran, dove si sarebbero congiunti con l’esercito inglese. Stalin voleva che se ne andassero: militarmente erano poco importanti, e la loro partenza gli avrebbe dato il pretesto per costituire una propria armata polacca, controllata dai comunisti. Gli antisemiti cercarono di abbandonare quanti più ebrei possibile, e molti giovani sani furono sommariamente congedati. Nel 1942 vennero evacuate al seguito dell’armata di Anders circa 114.000 persone, e di queste gli ebrei furono il 5% dei soldati e il 7% dei civili, sebbene gli ebrei allora fossero il 33% della popolazione polacca e prima dell’inizio della politica antisemita nell’esercito vi fosse un 40% di reclute ebree. Naturalmente Kahan e Sheskin non ebbero problemi a evitare le discriminazioni e ad unirsi all’armata. White Nights sfiora appena la questione della legione: “Sheskin…mi disse…aveva iniziato negoziati per la creazione di un’unità militare ebraica entro l’esercito polacco, ma senza successo”264. Quando Begin provò a unirsi all’armata fu respinto, a causa della debolezza di cuore e della miopia, entrambe piuttosto veritiere checché si possa dire dell’antisemitismo stante dietro il respingimento. Egli dunque scrisse al capo di stato maggiore, spiegando che se non fosse stato preso sarebbe stato riarrestato. “Sheskin fece in modo che la lettera arrivasse a destinazione”265. Fu convocato a un colloquio col generale Anders, e all’ufficio di reclutamento fu inviata l’indicazione di accettare quell’ebreo. Il dottore ora trovò “cuore e polmoni eccellenti!...siete in verità un po’ miope, ma nell’esercito imparerete a sparare bene”266. Così il futuro Primo ministro di Israele attraverso le manovre con gli antisemiti lasciò l’URSS, assicurandosi di non vedere mai combattimenti contro gli assassini nazisti di suo padre e sua madre. Una delle massime ironie della Seconda guerra mondiale fu il fatto che gli inglesi accompagnarono l’esercito polacco in esilio, interamente guidato da antisemiti, in Palestina per un addestramento supplementare. Il loro collaboratore sionista racconta che al suo arrivo in “patria” nel maggio 1942:

ecco la Transgiordania. La nostra eredità…Il convoglio militare si fermò…Scesi dall’automobile, feci alcuni passi nell’erba, e respirai l’odore dei campi della mia patria267.

263 Yisrael Gutman, Jews in general Anders' army in the Soviet Union 1941–42, 1977 264 Menachem Begin , White Nights, 1949 265 ibidem 266 ibidem 267 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 86 11. La rivolta dell’Irgun e la fondazione di Israele

L’Irgun divisa in due Quando Begin arrivò in Palestina, nel maggio 1942, trovò il suo movimento, l’Irgun, in profonda crisi. La ferita della scissione non si era rimarginata. Avraham Stern e i suoi seguaci, compresi gli intimi amici di Begin Nathan Yalin-Mor e Israel Scheib (Eldad), che erano riusciti a fuggire dalla Polonia prima della chiusura completa del corridoio del Baltico, continuavano a combattere contro gli inglesi. Il 12 febbraio 1942 la polizia inglese catturò e uccise Stern e all’arrivo di Begin tre mesi dopo sembrava che il gruppo fosse sparito, sebbene si fosse riorganizzato sotto la guida di un triumvirato composto da Yalin-Mor, Scheib e Yitzhak Shamir, il quale anni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri di Begin e poi suo successore come Primo ministro. Ci si può chiedere: Begin avrebbe seguito i suoi due amici nel gruppo di Stern se fosse giunto prima in Palestina? Date la sua profonda lealtà nei confronti di Jabotinskij e la sua immensa ammirazione per Stern, è impossibile rispondere. In ogni caso nel settembre 1942 non vide motivo di unirsi agli sternisti apparentemente allo sbando, quando gli fu chiesto di assumere la guida del Betar locale. Contrariamente alla Banda Stern, i revisionisti erano fortemente filo-inglesi e arruolandosi nell’esercito britannico avevano diminuito i loro effettivi. L’Irgun aveva pressoché smobilitato dopo che il suo comandante, David Raziel, era stato ucciso in Iraq nel maggio del 1941 durante una missione per conto degli inglesi contro il governo di Rashid Ali el-Kilani, un nazionalista che si era appellato ai tedeschi nel vano tentativo di liberare il suo paese dagli oppressori britannici.

Begin diventa capo dell’Irgun La carriera politica di Begin in Palestina ebbe un inizio difficile, poiché per lui era impossibile conciliare l’attività nel Betar e quella di traduttore in inglese per i militari polacchi, dapprima ad Haifa e poi per il loro comandante a Gerusalemme. Anche in Palestina i capi dell’esercito in esilio davano prova del loro vecchio antisemitismo, e molti dei loro soldati ebrei, in particolare sionisti, avevano disertato sdegnati. Begin tuttavia si riteneva vincolato dall’onore di betarim al proprio dovere militare, e non disertò. Nel novembre 1942 sia la dirigenza della WZO che gli Alleati finalmente riconobbero che i nazisti stavano sterminando gli ebrei europei, e un gruppo di attivisti dell’Irgun negli Stati Uniti, avuta conferma della catastrofe in corso, aveva iniziato a mobilitare l’opinione pubblica americana per una campagna di salvataggio. Galvanizzati dall’inaspettato successo nel mobilitare una grossa parte dell’ebraismo americano, essi inviarono un emissario in Palestina per rivitalizzare l’Irgun e suscitare una rivolta, facendo leva sulla crescente impopolarità degli inglesi, sia in Palestina che nella Diaspora, dovuta alla loro completa mancanza di impegno per gli ebrei dell’Europa occupata. Una tale campagna richiedeva un nuovo leader dell’Irgun, con doti politiche di prim’ordine, che l’allora comandante Yaakov Meridor certamente non possedeva. Il giovane oratore del Betar polacco, che non aveva precedente esperienza cospirativa né addestramento militare, fu indicato quale successore. Arye Ben-Eliezer, l’emissario dall’America, andò dai militari polacchi con una proposta. Chiese che Begin e altri quattro ebrei fossero inviati negli USA per supportare la loro campagna per il salvataggio e per una Polonia “indipendente”, ovvero anticomunista. Il comandante acconsentì e liberò Begin. La proposta era stata uno stratagemma: nel dicembre del 1943 Begin aveva formalmente esaurito i doveri militari e fu libero di assumere il comando dell’Irgun.

La rivolta del 1944 Il mattino del 1 febbraio 1944 sui muri di tutta la Palestina ebraica comparve un proclama intitolato Alla Nazione Ebraica in Sion. Il manifesto elencava i molteplici peccati degli Alleati, degli inglesi e degli arabi contro gli ebrei europei durante l’Olocausto.

87 Gli inglesi…hanno dichiarato che non vi è alcuna possibilità di operazioni di salvataggio poiché esse “ostacolerebbero il conseguimento della vittoria”…Il Libro Bianco rimane valido…nonostante il tradimento degli arabi e la lealtà degli ebrei…e nonostante il fatto che, anche dopo la cancellazione dell’hitlerismo, non vi sia futuro per gli ebrei tra le nazioni d’Europa, divorate come sono dal loro odio per Israele…Dio di Israele, Dio degli eserciti, aiutaci tu. Non si torna indietro: Libertà o morte!268

Vi era qualcosa di bizzarro nella rivolta degli irgunisti. Il loro organico non superava le poche dozzine (all’epoca meno di due) di combattenti a tempo pieno, e non più di poche centinaia di fiancheggiatori. Inoltre Begin comprese che una guerra vera era in corso e che né gli ebrei né l’opinione pubblica mondiale avrebbero avuto simpatia per la causa irgunista se essa avesse interferito con lo sforzo finale contro il nazismo. Perciò l’Irgun non attaccò mai le installazioni militari inglesi durante la guerra, limitandosi ad azioni contro la polizia e le istituzioni del governo mandatario. Per ridurre al minimo le vittime inglesi, quando possibile venivano emessi dei pre- allarmi affinchè i civili potessero essere evacuati. La rivolta fu immensamente criticata nell’Yishuv. Fin dall’inizio le strutture politiche del partito revisionista si erano opposte a quell’avventura, e Begin dovette rompere i legami con esse. Il 6 novembre al Cairo la Banda Stern assassinò Lord Moyne, l’Alto Commissario inglese per il Medio Oriente. La leadership della WZO, alla quale Churchill aveva detto che avrebbe proposto uno stato sionista dopo la guerra, videro svanire le loro speranze a causa dell’uccisione di un amico personale del primo ministro inglese, e Ben Gurion decise una campagna di collaborazione con gli inglesi contro i movimenti separatisti. I laburisti si concentrarono in particolare sull’Irgun, pensando che gli sternisti non fossero in grado di compiere che qualche azione occasionale, mentre ai seguaci di Begin, più attrezzati, erano attribuiti numerosi attacchi alle installazioni inglesi, che ogni volta accrescevano l’ostilità di Londra verso la causa sionista. L’Haganah dichiarò aperta una “Stagione” di caccia agli irgunisti. Begin aveva finanziato la rivolta in vari modi tra cui con l’estorsione di denaro a uomini d’affari sionisti e con l’organizzazione di finte rapine a sostenitori dell’Irgun nel settore dei diamanti, i quali recuperavano il loro denaro dalle compagnie di assicurazione269. Quelle operazioni cessarono allorchè l’Haganah iniziò a catturare sistematicamente gli irgunisti che conosceva. Per la prima volta la tortura – ora un tratto distintivo del sionismo – fu introdotta nella politica in Palestina. Begin formula le sue accuse nel suo libro The Revolt:

Il trattamento inflitto a chi veniva catturato dall’Haganah era pesante…vi furono casi di irgunisti maltrattati una volta nelle mani dei loro carcerieri - compagni ebrei…Non conoscevamo ancora il “terzo grado”, ma anche il “primo grado” era sufficiente a farci infuriare270.

L’accusa è stata sostenuta anche dal noto storico israeliano Yehuda Bauer nel suo From Diplomacy to Resistance:

Molti…irgunisti…venivano interrogati e in alcuni casi subivano anche punizioni…L’Haganah in questo modo cercava di piegare la loro capacità di resistenza. Secondo quanto riportato dai protagonisti della Stagione, la tenuta dei prigionieri di fronte agli interrogatori ebraici – a differenza di quelli inglesi – era scarsa. La grande maggioranza di coloro che vi erano sottoposti forniva le informazioni richieste271.

Per ordine di Begin, gli irgunisti non condussero rappresaglie contro l’Haganah. Begin guardava avanti: contava sul fatto che, dopo la guerra, l’Haganah stessa sarebbe insorta contro gli inglesi, e non voleva che scorresse sangue tra due movimenti che in futuro avrebbero cooperato qualora fosse sorto lo stato sionista. In ogni caso l’azione degli inglesi e dell’Haganah ebbe il sopravvento e la campagna dell’Irgun andò progressivamente a spegnersi fino alla fine della guerra in Europa, nel maggio 1945, allorchè l’organizzazione di Begin annunciò che avrebbe ripreso gli attacchi contro gli edifici del governo mandatario.

268 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1978 269 Yehuda Bauer, From Diplomacy to Resistance: a History of Jewish Palestine, 1930-1945, 1970 270 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 271 Yehuda Bauer, From Diplomacy to Resistance: a History of Jewish Palestine, 1930-1945, 1970 88 Stanti le restrizioni che si autoimpose, la rivolta dell’Irgun del 1944 fu qualcosa di razionale? La risposta può soltanto essere un chiaro “no”. Il rifiuto inglese di salvare gli ebrei europei fu il pretesto per la proclamazione iniziale, ma si può affermare con certezza che la guerra privata dell’irgun agli inglesi non portò al salvataggio di alcun ebreo. Essa in realtà distolse l’attenzione dagli ebrei in Europa e permise all’apparato della WZO, sia in Palestina che negli USA, e anche agli inglesi, di gridare alla follia terrorista dell’Irgun, distogliendo l’opinione pubblica dal fatto che gli alleati e la WZO, con le proprie rispettive motivazioni, erano indifferenti alla questione del salvataggio272. Su quest’ultimo tema possiamo solo fare congetture, ma se l’Irgun avesse mobilitato gli ebrei in Palestina in manifestazioni di massa per il salvataggio, in coordinamento con il lavoro svolto dai suoi attivisti negli USA, è possibile che avrebbe potuto svolgere un importante ruolo nello spingere gli alleati a prendere iniziative. Di fatto, la rivolta di Begin non aiutò in alcun modo gli ebrei europei nel momento del disperato bisogno. In realtà, l’Olocausto era stato solo un pretesto per la rivolta e Begin, che nel periodo pre-bellico aveva perorato la fantasiosa idea di un’invasione della Palestina con l’aiuto degli antisemiti polacchi, ammette marginalmente nel suo libro:

Vladimir Jabotinskij…disse di avere letto la Bibbia e di sapere che una volta che fosse iniziato il ritorno degli ebrei in Eretz Israel, il nostro scopo sarebbe stato chiaro: Eretz Israel doveva tornare a noi…Non c’è dubbio che anche se non vi fosse stato alcuno sterminio…una rivolta ebraica, in un modo o nell’altro, sarebbe stata lanciata.

Di certo furono le considerazioni sul dopoguerra che motivarono la scelta di astenersi da rappresaglie durante la Stagione. Begin scrive che essi

Erano mossi dalla convinzione, da una profonda convinzione che non erano lontani i tempi in cui tutte le fazioni armate in Israele avrebbero combattuto fianco a fianco.

Egli allora sapeva, e lo confermò anni dopo scrivendo queste parole anni dopo, una volta finita la guerra, che dopo l’Olocausto solo un’alleanza militare tra l’Haganah e l’Irgun poteva avere un senso.

Intesa con l’Haganah: il Movimento di Resistenza La fine della guerra in Europa cambiò la topografia della politica sionista e mondiale, e l’Irgun riuscì a sfuggire al proprio totale isolamento. Sebbene la WZO non avesse appoggiato la rivolta durante la guerra, i suoi dirigenti erano ora consapevoli di dover prendere l’iniziativa per ottenere il proprio stato. I sionisti laburisti esultarono quando i loro colleghi socialisti del Partito Laburista inglese vinsero le prime elezioni del dopoguerra. Nel 1944 il Partito Laburista inglese non solo aveva perorato la creazione di uno stato ebraico, ma aveva proposto che “gli arabi fossero incoraggiati ad andarsene, e gli ebrei ad arrivare”273. Tuttavia i sionisti laburisti rapidamente si resero presto conto di cosa i laburisti inglesi volevano nei fatti: quel partito aveva la sua base nella classe operaia, era minimalista e passivo, interessato a ottenere riforme per la sua base; non si curava molto di ciò che facevano i laburisti delle colonie. Clement Attlee, Ernest Bevin e compagnia erano totalmente dell’idea di conservare quanto più possibile dell’Impero inglese, seppure nelle condizioni di debolezza del dopoguerra. Essi non erano in contrasto con le decisioni prese prima della guerra dalla burocrazia coloniale, che un ulteriore appoggio al sionismo avrebbe solo portato problemi all’Inghilterra in Medio Oriente, e le richieste di risoluzioni in tal senso rimasero lettera morta. Ben-Gurion e l’Haganah si convinsero di dover scacciare gli inglesi se volevano avere un proprio stato. Ciò richiedeva l’unità delle fazioni sioniste e dunque proposero una campagna militare congiunta all’Irgun e alla Banda Stern, organizzazioni che fino all’autunno 1945 essi avevano fermamente condannato in quanto terroristi, fascisti e pazzi. E Begin, che durante la Stagione aveva fatto affiggere manifesti che paragonavano l’Haganah a “Quisling e Laval”274, accettò di buon grado275.

272 Lenni Brenner, Il Sionismo nell’Età dei Dittatori, 1983 273 Nathan Weinstock: Zionism: False Messiah, 1979 274 Vidkun Quisling e Pier Laval furono i capi dei governi collaborazionisti col nazismo rispettivamente in Norvegia e Francia. Qui si intende collaborazionismo con gli inglesi. 275 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1978 89 L’Haganah voleva che gli irgunisti entrassero direttamente nei suoi ranghi, ma Begin non ne volle sapere. Egli era fanaticamente deciso a ottenere un Israele su entrambi i lati del Giordano, e sapeva che inevitabilmente a un certo punto la dirigenza sionista maggioritaria avrebbe “tradito” il sionismo, accettando molto meno delle rivendicazioni massimaliste dei revisionisti. Ma data la grande sproporzione di forze delle tre componenti dell’alleanza – l’Haganah aveva 40.000 membri, l’Irgun 1.500 e la Banda Stern solo 300 – eglì accettò la posizione egemone dell’Haganah nel nuovo Tnuat HaMeri (Movimento di Resistenza). Sia l’Irgun che la Banda Stern lasciarono che fosse l’Haganah a determinare quali fossero gli obiettivi da colpire. L’intesa militare fu definita nel novembre 1945, e subito l’Irgun affondò tre navi guardacoste usate per fermare l’immigrazione illegale, l’Haganah compì non meno di 186 sabotaggi ferroviari, e la Banda Stern attaccò la raffineria di Haifa. La lista degli obiettivi crebbe a dismisura: furono colpite stazioni di polizia, postazioni radio, aeroporti militari, siti ferroviari, e gli inglesi dovettero inviare nuovi contingenti di soldati. Si arrivò all’incredibile numero di 105.000 militari inglesi per controllare una popolazione sionista di circa 600.000 persone. I rinforzi non cambiarono la situazione: l’amministrazione mandataria si mise sempre più sulla difensiva, isolandosi totalmente dal resto della società, relegata nei cosiddetti “Bevingrad”, ghetti militari protetti da filo spinato e sacchi di sabbia. Nonostante le drastiche misure di emergenza, era tutto perduto.

L’attentato al King David Hotel e la fine dell’Intesa Sabato 29 giugno 1946 tutti i centri abitati ebraici furono messi sotto coprifuoco, e l’esercito inglese imperversava ovunque. Migliaia di sospetti furono incarcerati e anche molti dirigenti dell’Agenzia Ebraica, incluso Moshe Shertok, il segretario politico, finirono agli arresti. Tuttavia Weizmann rimase in libertà, e il comandante dell’Haganah Moshe Sneh sfuggì alla cattura e andò a Parigi, incontrandosi con Ben-Gurion che si trovava là per tessere relazioni diplomatiche. L’Irgun aveva già proposto di colpire il King David Hotel, quartier generale inglese, e ora l’Haganah diede la sua approvazione, considerando l’attacco una rappresaglia contro la perquisizione alla sede dell’Agenzia Ebraica. La storia dell’attacco è nota: l’Irgun minò i sotterranei, come si doveva intimò telefonicamente per tre volte di evacuare l’edificio entro trenta minuti, per qualche ragione l’avviso fu ignorato e l’esplosione uccise più di cento persone, compresi molti dipendenti civili arabi, inglesi ed ebrei. L’Agenzia Ebraica immediatamente criticò l’attacco affermando che l’Irgun aveva violato gli accordi su quando la bomba dovesse essere piazzata, e il fronte unito militare venne meno.

Il destino degli sfollati e il supporto USA al sionismo L’attentato al King David Hotel può essere considerato solo un fattore di precipitazione della rottura, che sarebbe avvenuta in ogni caso. Il “black sabbath” aveva scosso le convinzioni della dirigenza WZO di riuscire ad avere la meglio in uno scontro frontale con gli inglesi, né essa era così convinta che questo fosse necessario. La WZO era sempre stata filo-imperialista, provando sempre a mostrare che la politica di appoggio a un “fedele Ulster ebraico” fosse nell’interesse inglese. Ora essa si risolse a passare definitivamente nell’orbita americana, ma gli Stati Uniti non avevano interesse a sostenere una rivolta, men che meno contro l’impero inglese che Washington vedeva come alleato fondamentale nella guerra fredda. Ben-Gurion era giunto alla conclusione che gli ebrei sfollati in Germania fossero il fattore decisivo per ottenere il supporto americano allo stato sionista, e pose fine alla campagna dell’Haganah per rovesciare militarmente il governo mandatario concentrando gli sforzi in una campagna per un’immigrazione ebraica illegale di massa in Palestina. Nell’ottobre 1945 Ben-Gurion era stato in Germania, aveva visitato alcuni campi di sfollati, e incontrando Eisenhower gli chiese che gli ebrei dell’Europa orientale fossero ammessi nella zona americana. Spiegò la strategia ai suoi colleghi in Palestina in un memorandum del 21 novembre:

Se riusciamo a concentrare 250.000 ebrei nella zona americana, la pressione sugli USA crescerà. Non a causa degli aspetti finanziari – questo a loro non importa – ma poiché non vedono un futuro per queste persone se non in Eretz Israel276.

276 Yehuda Bauer, The Holocaust and the Struggle of the Yishuv as factors in the Establishment of Israel, 1976 90 Non furono gli ebrei tedeschi sopravvissuti all’Olocausto a rappresentare il fattore decisivo. Pochi di costoro erano scampati dalla deportazione a Est, la grande maggioranza di quelli che erano andati in esilio a Ovest non volevano tornare – né andare in Palestina – e quelli che fecero ritorno erano al sicuro in una Germania occupata militarmente dagli alleati. Fu la situazione polacca a portare acqua al mulino dei sionisti. Circa 80.000 ebrei erano sopravvissuti in Polonia, e altri 175.000 vi fecero ritorno dall’Unione Sovietica nel 1946. Ma il nuovo regime comunista era politicamente isolato dalle masse e troppo debole per difendere gli ebrei dai loro nemici reazionari, che li equiparavano ai comunisti. Così, 351 ebrei furono uccisi tra il novembre 1944 e l’ottobre 1945; i pogrom continuarono fino al 1946 e culminarono in un feroce massacro che ebbe luogo a Kielce il 2 luglio di quell’anno, nel quale 42 ebrei furono uccisi. Il massacro terrorizzò gli ebrei rimanenti e circa 100.000 di loro lasciarono la Polonia e altri paesi dell’Est Europa nei successivi tre mesi. Lo storico sionista Yehuda Bauer ammette che se avessero avuto la possibilità di scegliere liberamente tra la Palestina e gli Stati Uniti, il 50% di loro avrebbe optato per gli USA. Tuttavia la leadership sionista sapeva che i politici americani non avevano interesse ad aprire le porte ai rifugiati ebrei. In realtà, secondo lo studioso filo-sionista Samuel Halperin, una delle principali considerazioni che indussero la borghesia ebraica americana a passare dall’antisionismo al filo-sionismo fu il timore che accogliendo un ampio numero di sfollati negli USA volesse dire “importare l’antisemitismo”. Dietro le quinte il Joint Distribution Committee, organismo filantropico degli ebrei USA, ammetteva cinicamente i vantaggi di una pressione per l’emigrazione in Palestina che, si diceva, avrebbe portato a “buone relazioni giudaico-cristiane in America”277. Di certo la leadership sionista non voleva che gli USA accogliessero potenziali cittadini del suo ipotetico stato, e Bauer ci dice candidamente che:

…la leadership sionista temeva che le masse concentrate nei campi di sfollati in Germania e Austria avrebbero cercato di raggiungere i paesi d’oltremare invece di attendere che si aprissero loro le porte della Palestina278.

Begin criticò lo sbandamento della rivolta, definendolo una “resa politica e spirituale” che portò “disonore” all’Haganah279. Egli era lungi dal trascurare l’importanza degli sfollati come arma di pressione sugli americani, ma riteneva che vi fossero molte altre situazioni tali da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Mentre gli attacchi diretti agli inglesi finivano sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, avrebbe avuto una campagna di immigrazione illegale altrettanta visibilità, mentre anche le aspre battaglie della guerra civile greca erano appena menzionate?

La rivolta del 1946 - 47 Dal 23 agosto 1946 fino alla partizione ONU del 1947 i revisionisti furono soli nell'offensiva diretta contro il governo mandatario. Nel suo libro Begin naturalmente cita diversi episodi per provare che fu la continuazione della rivolta da parte dei revisionisti che alla fine portò alla dipartita degli inglesi, anche se non si arrivò alla conquista dell'intero paese (che per lui includeva anche la Giordania) e anche se la sua fazione non prese il potere. In realtà non c'è dubbio che la campagna revisionista svolse un ruolo cruciale nello spingere gli inglesi alla partenza. Alcuni anni dopo, l'ultimo comandante della polizia mandataria inglese disse che tre fatti fecero venire meno la determinazione del suo governo a rimanere, e tutti furono iniziative dell'Irgun: la fustigazione di soldati inglesi; la successiva impiccagione di altri soldati, come rappresaglia per i medesimi atti compiuti dalle forze armate britanniche; e l'assalto alla cittadella di Acri. Alla fine del 1946 due irgunisti 17enni furono condannati a 15 anni di prigione, una sentenza che difficilmente poteva intimidire alcuno poichè la permanenza in Palestina degli inglesi per altri 15 anni pareva altamente improbabile. Essi tuttavia furono anche condannati a 18 colpi di staffile ciascuno. La risposta dell'Irgun fu immediata: annunciò che se la sentenza fosse stata eseguita si sarebbe vendicata con la fustigazione di soldati inglesi. Il 27 dicembre 1946 gli imperialisti inglesi fecero frustare uno dei due giovani irgunisti, e il 29 dicembre un maggiore e tre soldati inglesi dell'NCO280 subirono a loro volta le 18 staffilate. Per mettere ancora più pressione sugli inglesi, l'Irgun annunciò che qualora l'altro prigioniero fosse stato punito essi avrebbero compiuto un

277 Samuel Halperin, The Political World of American Zionism, 1961 278 Yehuda Bauer, The Holocaust and the Struggle of the Yishuv as factors in the Establishment of Israel, 1976 279 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 280 Non-Commissioned Officers, corpi scelti inglesi di militari promossi sul campo e non per anzianità. 91 assassinio come rappresaglia. I tempi erano cambiati, gli ebrei non erano umili sottoposti, e gli inglesi furono costretti a un'umiliante ritirata, annullando la seconda fustigazione. La fustigazione era un’arma tirannica disprezzata ovunque, perciò Begin improvvisamente divenne un’eroe globale. Ma quella vittoria fu solo un atto della tragedia montante. Quattro giovani irgunisti che andavano in cerca di soldati sui quali compiere una rappresaglia furono a loro volta catturati e frustati. Uno fu battuto così brutalmente che morì, e gli altri tre furono condannati a morte insieme a un altro irgunista già giudicato. I quattro furono impiccati il 16 aprile 1947 ad Acri, e davanti al patibolo cantarono orgogliosamente l’inno sionista. Prima ancora della vendetta, il successivo 4 maggio altri prigionieri furono liberati con un attacco armato alla cittadella-prigione di Acri. La violazione di mura che avevano resistito a Napoleone, in una città tutta araba, nonostante le perdite impreviste, rappresentava un risultato incredibilmente eroico. Ma due irgunisti furono catturati, picchiati selvaggiamente e condannati a morte281. Begin afferma che la fustigazione e l’impiccagione non erano armi dell’Irgun, bensì dell’imperialismo laburista inglese; e che fu a causa della follia inglese che due sergenti furono impiccati il 30 luglio, il giorno dopo l’esecuzione degli irgunisti. La drammatica vendetta, contro un nemico così grande come l’imperialismo inglese, non poteva non avere un forte impatto sull’opinione pubblica britannica e mondiale. Il colonnello Archer-Cust, assistente del Segretario del governo mandatario dichiarò apertamente nel 1949 che “l’impiccagione dei due sergenti inglesi ci spinse ad andarcene più di ogni altra cosa”282.

Verso la partizione Se pure la crudeltà dell’imperialismo inglese e le imprese dell’Irgun proiettarono Begin sulla scena politica mondiale, tuttavia bisogna inquadrare questi fatti in un contesto più ampio. L’Haganah organizzò diverse spedizioni navali di immigrati in Palestina, di cui quella dell’Exodus Europe del 1947 è solo la più celebre, e di nuovo le immagini degli ebrei dietro al filo spinato, questa volta a Cipro283, fecero il giro del mondo. Una larga parte dell’opinione pubblica divenne favorevole al sionismo, e lo stato ebraico cominciò a essere visto come una ricompensa, di certo inadeguata ma giusta, per il massacro di sei milioni di ebrei. La pressione dell’ebraismo americano sul presidente Truman divenne massiccia. Mentre il Dipartimento di Stato cercava disperatamente di far valere la necessità di trovare alleati nella Guerra fredda, e ammoniva Truman sulle conseguenze per gli interessi americani nel mondo arabo, la politica interna gli rendeva altrettanto chiaro che se non avesse appoggiato il progetto di stato ebraico avrebbe perduto i finanziamenti all’imminente campagna elettorale da parte della ricca comunità ebraica. Questo era un argomento centrale per i democratici, da sempre dipendenti dalle donazioni dei capitalisti ebrei, che tradizionalmente vedevano il Partito Democratico come rappresentante degli emigrati. L’opinione pubblica americana non avrebbe tollerato l’uso contro gli ebrei in Palestina degli stessi metodi solitamente riservati alle “razze inferiori” dall’imperialismo inglese. La posizione della diplomazia inglese divenne insostenibile. Una conferenza trilaterale, con rappresentanti dell’Alto Comitato Arabo, dell’Agenzia Ebraica e degli inglesi, si riunì a Londra il 10 gennaio 1947, ma fallì inesorabilmente, e Bevin annunciò in una conferenza stampa il 14 febbraio che l’Inghilterra avrebbe portato la questione palestinese all’ONU a settembre. Begin comprese che gli inglesi proponevano la discussione a settembre per guadagnare tempo, e il 1 marzo l’Irgun compì in simultanea dieci attacchi contro postazioni militari inglesi, al che il governo mandatario impose la legge marziale. Quando la Camera dei Comuni si riunì il 3 marzo, Churchill e altri insistettero per un’intervento immediato dell’ONU, e quest’ultima acconsentì a indire una sessione speciale il 28 aprile.

Le posizioni di URSS e USA Fu durante la sessione speciale che Andrej Gromyko fece il suo famoso discorso che rovesciava la tradizionale opposizione sovietica allo stato sionista. Stalin era dell’idea che gli stati arabi fossero troppo reazionari per condurre una lotta efficace contro gli imperialisti, e decise che la sola strada

281 Gli irgunisti catturati furono cinque: i tre di essi che erano maggiorenni furono condannati a morte. L’assalto alla prigione di Acri del 4 maggio 1947 permise la fuga di 28 carcerati revisionisti e 214 arabi. 282 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 283 I passeggeri dell’Exodus vennero respinti dall’esercito inglese al porto palestinese di Haifa, e imprigionati in campi di internamento a Cipro; qui furono poi caricati su tre navi e riportati in Francia, da dove la nave era partita. 92 per iniziare l’allontanamento inglese della regione era che i sionisti li allontanassero dalla Palestina. Il mutamento sovietico, aggiungendosi ai fattori esaminati in precedenza, condizionò anche i democratici USA. Il Partito Comunista Americano aveva deciso di sostenere Henry Wallace contro Truman alle elezioni del 1948. Non sostenere lo stato sionista avrebbe significato per Truman esporsi agli attacchi da “sinistra”, mentre i repubblicani demagogicamente avrebbero fatto altrettanto. L’amministrazione optò per un’astuzia: avrebbe appoggiato la partizione all’ONU, confidando nel fatto che i sionisti non riuscissero a ottenere la maggioranza necessaria dei due terzi, e così Washington e Londra avrebbero potuto legittimamente lavorare a un compromesso. Loy Henderson, responsabile del Vicino Oriente al Dipartimento di Stato, spiegò la linea del dipartimento in un memorandum segreto datato 22 ottobre 1947:

Se noi forniamo un appoggio unilaterale inevitabilmente saremo coinvolti in grandi responsabilità e forzature che, siamo convinti, né il Congresso né il popolo americano vogliono sobbarcarsi…Nel caso in cui diamo seguito alla nostra attuale politica di sostegno della partizione senza sbilanciarci, conveniamo che la partizione probabilmente non raggiungerà il voto di due terzi…se la partizione non passa, crediamo che né gli USA né gli altri paesi che l’hanno sostenuta avranno difficoltà a ripiegare su un qualche piano di compromesso284.

Il voto all’ONU Con USA e URSS sulla stessa linea filo-sionista, ciascuno per le sue proprie ragioni, la commissione speciale dell’ONU inevitabilmente propose la partizione e con un’intensa attività di lobbying il 29 novembre 1947 i sionisti riuscirono a ottenere nell’assemblea i due terzi dei voti necessari. Sebbene il Dipartimento di Stato poi provò a far annullare la partizione sulla base del fatto che essa alimentava la violenza anziché fermarla, la pressione della politica interna, preoccupata per il voto ebraico, fu decisiva, e alla fine Truman diede il suo consenso alla creazione dello stato sionista. Per il resto del mondo la partizione fu vista come una vittoria sionista; per Begin essa fu solo un passo verso la vittoria. Giovava al sionismo, ma Israele senza Gerusalemme non era uno stato sionista. La leadership WZO aveva rinunciato a gran parte del patrimonio biblico, era compito dell’Irgun fare sì che non ci fossero passi indietro e ottenere una maggiore porzione del paese.

La reazione araba I palestinesi, indeboliti dalla sconfitta nella rivolta del 1936, per tutti gli anni ’40 erano stati pressochè inattivi. Il Mufti aveva partecipato attivamente alla rivolta irachena e infine si era rifugiato all’ambasciata tedesca a Teheran. Dopo che agenti tedeschi lo ebbero tratto d’impaccio in seguito all’occupazione anglo-sovietica dell’Iran, egli iniziò a collaborare strettamente col nazismo, portando arabi e poi musulmani jugoslavi e sovietici a fianco della Germania. Alla fine della guerra provò a chiedere asilo in Svizzera, ma fu deportato in Francia. Tito lo mise nell’elenco dei criminali di guerra ma non chiese mai l’estradizione; i francesi, ostili agli inglesi a causa del supporto di questi ultimi ai siriani, e consapevoli della popolarità del Mufti nel mondo arabo, lo misero agli arresti domiciliari. Quando un giornalista americano fece conoscere la sua storia nel giugno 1946, egli potè facilmente fuggire al Cairo, dove l’Alto Comitato Arabo, insieme alla Lega Araba, gli conferì la leadership del movimento palestinese, come se niente fosse accaduto negli anni precedenti. Gli ebrei in Palestina erano al corrente del fatto che egli avesse cooperato con Hitler, e il suo ritorno in Medio Oriente non fece che rafforzare la loro adesione al sionismo. Il Mufti da reazionario qual’era non fece nulla per mobilitare le masse palestinesi, che rimasero inattive e timorose di fronte all’enorme energia dispiegata dai sionisti. Tutto il potenziale di mobilitazione di massa andò in fumo quando Stalin appoggiò il sionismo; i comunisti in Palestina si divisero secondo linee etniche e il morale della fazione araba subì un duro colpo. Solo a metà del settembre 1947 la Lega Araba cominciò a parlare di guerra, e solo dopo il voto all’ONU l’Alto Comitato Arabo lanciò uno sciopero generale di tre giorni. Militarmente gli arabi non erano per niente all’altezza dei sionisti, che si erano giovati della lunga esperienza nell’esercito inglese, mentre ben pochi palestinesi avevano fatto altrettanto. Con l’eccezione della Legione Giordana, che era rimasta fedele agli inglesi, tutte le altre unità arabe

284 Elmer Berger, Pentagon Papers 1947, 1973 93 sottoposte agli inglesi si erano ribellate ed erano state umiliate, e non erano andate oltre una preparazione militare da “guardie di palazzo”. Poi c’era Abdullah di Giordania, in segreto un traditore, che condusse quasi fino alla fine trattative con la WZO per dividersi il paese e neutralizzare il Mufti. Guidati da un fanatico screditato, col supporto di regimi divisi, militarmente inefficienti e politicamente reazionari, e avendo di fronte un movimento sionista in ascesa e col sostegno pur riluttante di USA e URSS, i palestinesi avevano il destino segnato.

“Annientarli completamente”: Deir Yassin Se nell’affrontare gli inglesi Begin venne celebrato come una specie di Sansone cavalleresco, nell’affrontare i palestinesi fu una sorta di Giosuè, desideroso di passare a fil di spada questi nuovi Cananei, quando nel dicembre 1947 affermò: “La mano degli assassini verrà mozzata senza pietà”285. Disse anche a un ospite straniero che “nella guerra moderna non contano i numeri ma la strategia e il morale. Con fatica ho dovuto elaborare una strategia”. Qualora essi attaccassero, “noi dovremmo annientarli completamente”286. Il profeta Menachem alle parole faceva seguire i fatti, e di conseguenza vi furono attentati dinamitardi in caffè arabi, al mercato di Haifa e alla Porta di Damasco nella Città Santa. La certezza della guerra spinse di nuovo l’Haganah e l’Irgun una verso l’altra, e l’8 marzo 1948 fu stipulato un accordo operativo. L’Haganah dava il via libera ai piani dell’Irgun, i cui militanti li portavano a compimento. Così l’Irgun e gli sternisti ricevettero il via libera per attaccare il villaggio di Deir Yassin, nei dintorni a ovest di Gerusalemme; ciò avvenne il 9 aprile 1948. Begin non era là; non avendo un addestramento militare, non svolse mai un ruolo attivo sul campo. Ma come comandante dell’Irgun si è sempre assunto piena responsabilità di ciò che accadde quel giorno:

In quel villaggio, il cui nome fece il giro del mondo, entrambe le parti ebbero molte vittime. Noi contammo quattro morti e circa 40 feriti. Il numero di morti e feriti fu circa il 40% del numero totale degli attaccanti. Le truppe arabe subirono perdite tre volte più grandi.287

Il comunicato dell’Irgun dopo la battaglia riportò 4 morti e 32 feriti, di cui 3 gravi; 254 furono gli abitanti del villaggio massacrati. I difensori dell’Irgun sostengono che quest’ultima aveva mandato avanti un camion con un altoparlante a dire ai civili di allontanarsi, ma che questo finì impantanato in una trincea araba. Begin nel suo libro dice tristemente che:

Alcuni non lasciarono le loro case di pietra, forse per la confusione…I nostri uomini furono costretti a combattere casa per casa; per sopraffare il nemico usarono un gran numero di granate a mano. E i civili che non avevano ascoltato i nostri avvertimenti subirono inevitabili perdite288.

A dispetto del precedente, ben noto attentato dinamitardo dell’Irgun al mercato di Haifa, Begin insiste che:

L’addestramento ricevuto dai nostri soldati durante gli anni della rivolta era basato sul rispetto nelle tradizionali leggi della guerra. Noi non le infrangemmo a meno che il nemico non lo facesse per primo, costringendoci come si fa in guerra a compiere rappresaglie289.

I fatti di Deir Yassin sono stati ben ricostruiti. Un testimone dell’Haganah, il colonnello Meir Pael, dopo il congedo dall’esercito israeliano nel 1972 finalmente decise di fornire un resoconto pubblico dell’accaduto:

Nello scontro che seguì ci furono quattro morti e una dozzina di feriti…ben presto la battaglia era finita, e il fuoco cessato. Nonostante la calma, il villaggio non si era ancora arreso. L’Irgun e la Lehi vennero fuori dai loro nascondigli e iniziarono a “bonificare” le case. Essi sparavano a chiunque vedessero, donne e bambini inclusi, e i comandanti non fermavano il massacro…Io pregai il loro comandante di far cessare il fuoco, ma senza esito. Nel frattempo 25 arabi erano

285 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 286 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 287 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 288 ibidem 289 ibidem 94 stati messi su un camion che attraversò Mahane Yehuda e Zichron Yosef (come i prigionieri di una marcia trionfale nell’antica Roma). Alla fine del tragitto, essi vennero condotti alla cava tra Deir Yassin e Givat-Shaul e uccisi a sangue freddo…I comandanti negarono anche la richiesta di far seppellire ai propri uomini I 254 corpi degli arabi. Il triste compito fu portato a termine da due unità paramilitari fatte venire al villaggio da Gerusalemme290.

Lungi dal fare apologie di Deir Yassin, i veterani dell’Irgun ora tornano sulla scena del loro infame crimine per commemorare quanto da loro compiuto. Eppure nel 1982 il professor Zvi Ankori, che aveva comandato le truppe dell’Haganah che successivamente occuparono il villaggio, chiese di poter dire qualcosa al raduno:

Entrai i sei o sette case – disse Ankori – Vidi genitali tagliati e ventri di donne squarciati. Dai segni dei colpi d’arma da fuoco, si capiva che erano stati assassinati…Ma come - chiese uno degli astanti – lei ebbe il tempo di sollevare i vestiti e cercare i genitali? Non voglio discutere – disse Ankori – Penso solo che i giovani debbano sentire ciò che ho da dire291.

Non vi è dubbio che Deir Yassin fu una mostruosa atrocità. Jacques de Reynier, il rappresentante della Croce Rossa in Palestina, si recò nel villaggio subito dopo il massacro e incontrò il comandante dell’Irgun, che gli disse: “Se trova dei corpi, li può prendere, ma di sicuro feriti non ce ne sono”292. I due capi rabbini sionisti in Palestina, I.H. Herzog e R.Z. Uziel, diramarono un comunicato congiunto di condanna dell’assassinio, che invitava gli esecutori a rendersi conto della profondità del “disonore che hanno gettato sull’Yishuv, per il quale i loro atti sono un spregevole abominio”293. L’Agenzia Ebraica espresse il suo “orrore e disgusto per la barbara maniera”294 con la quale il villaggio era stato catturato. Begin naturalmente ebbe a replicare all’universale condanna del massacro di Deir Yassin. Il mondo per lui stava mentendo sul conto dell’Irgun:

Il quartier generale arabo a Ramallah diffuse un resoconto crudo e atroce, accusando gli irgunisti di avere massacrato donne e bambini. Alcuni funzionari ebrei, temendo l’Irgun in quanto avversario politico, non si lasciarono sfuggire questa descrizione propagandista per danneggiare l’Irgun. Un eminente rabbino fu indotto a condannare l’Irgun prima di avere avuto il tempo di chiarire la verità. Dal male, comunque, derivò il bene. La propaganda araba suscitò una leggenda di terrore tra gli arabi e i loro soldati, che erano presi dal panico al solo nominare i militari dell’Irgun. La leggenda fu più efficace di mezza dozzina di battaglioni delle forze armate israeliane295.

Così, dal male derivò il bene: la versione in ebraico de La Rivolta riporta che:

Gli arabi nel paese, indotti a credere alle dicerie sui “macellai dell’Irgun”, furono presi completamente dal panico e iniziarono ad abbandonare i loro luoghi di residenza. Questa fuga di massa presto si trasformò in una rotta precipitosa e disordinata. Dei circa 800.000 arabi che abitavano l’attuale territorio dello stato di Israele, solo 165.000 sono ancora qui. Il significato politico ed economico di questi sviluppi difficilmente può essere sopravvalutato296.

L’attacco dell’Irgun a Jaffa Nonostante le rimostranze, l’Haganah difficilmente poteva pensare di punire l’Irgun, di cui aveva ancora bisogno nella guerra contro gli arabi. Reduce da Deir Yassin, l’Irgun cercava una nuova preda, e Begin puntò su Jaffa, che nell’utopico piano di partizione dell’ONU doveva far parte dello stato arabo ma come un’enclave interamente circondata dai confini israeliani. Pressata da ogni lato dalle forze militari arabe, l’Haganah attribuiva scarsa importanza alla cattura di quel centro urbano di 70.000 abitanti, ma Begin aveva messo a punto un “piano di conquista” e la notte del 25 aprile 1948 l’Irgun attaccò, con due mortai da tre pollici a scaricare centinaia di granate sulla città

290 Israel Shahak (a cura di), Begin and Co. as they really are, antologia di testi 1977 291 Davar, 9 aprile 1982 292 Testimonianza raccolta dall’Insitute for Palestine Studies di Beirut. 293 Palestine Post, 13 aprile 1948 294 Palestine Post, 12 aprile 1948 295 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 296 Ibidem, versione ebraica 95 sotto assedio. Si trattava dell’operazione più grossa svolta da quell’organizzazione come forza autonoma e Begin, consapevole che l’Haganah non sarebbe stata d’accordo, l’aveva tenuta all’oscuro del piano. Secondo i resoconti irgunisti, gli arabi si difesero con grande determinazione ma non poterono resistere ai colpi di mortaio, e lentamente iniziarono a cedere. L’Irgun non riuscì a prendere l’intera città – l’esercito inglese glielo impedì – ma decine di migliaia di palestinesi, memori di Deir Yassin, abbandonarono le case e fuggirono. Disse Begin:

Due possono essere state le cause di questa fuga precipitosa. Una era l’identità dell’aggressore e la fama che la propaganda aveva creato intorno ad esso…Il secondo fattore furono i nostri bombardamenti…Yigal Yadin, ufficiale operativo dell’Haganah, mi disse poi che non avevamo fatto abbastanza economia delle nostre preziose granate.297

Begin non ha raccontato ai suoi lettori le vergognose conseguenze dell’assalto. Nel suo Seven Fallen Pillars Jon Kimche, noto storico filo-sionista, fu molto chiaro:

Per la prima volta…una forza armata ebraica si diede al saccheggio su vasta scala…Tutto ciò che poteva essere trasportato fu portato via da Jaffa…Ciò che non potè essere prelevato fu distrutto…il saccheggio di case e negozi arabi fu presto liquidato giustificandolo come dettato dal bisogno di aiutare i rifugiati ebrei rimasti senza casa, e in generale a causa degli attacchi partiti da Jaffa per quattro mesi298.

Kimche non può essere accusato di faziosità, in quanto fece la stessa accusa nei confronti dell’Haganah:

Dopo un po’ i soldati dell’Haganah e del Palmach si unirono al devastante saccheggio e distruzione, che cala come un velo nero su quasi tutti i successi militari ebraici299.

Proclamazione dello stato di Israele Il 15 maggio 1948 fu proclamato lo stato di Israele e Begin uscì dalla clandestinità per fare il suo primo discorso radiofonico:

La rivolta ebraica del 1944 – 48 è stata coronata dal successo…la fondazione è avvenuta, ma solo la fondazione…per il ritorno dell’intero Popolo di Israele alla sua patria, per la restituzione dell’intera Terra di Israele ai suoi proprietari indicati da Dio…la nostra patria divina è un tutt’uno. Il tentativo di dividerla è non solo un crimine, ma un oltraggio e un’aberrazione. Chiunque non riconosca il nostro diritto naturale alla nostra intera patria, non riconosce il nostro diritto a ciascuna sua parte…O Dio di Israele, arma i tuoi soldati e benedici la loro spada che suggella nuovamente il patto che Tu hai stipulato con il Tuo amato popolo e la Tua terra prediletta. Avanti nella battaglia! Avanti fino alla vittoria!300

L’Affare Altalena La creazione dello stato di Israele non significò la fine della storia militare dell’Irgun. La sera stessa Begin ebbe un incontro con il nuovo ministro della Difesa provvisorio e gli disse che la sezione estera dell’Irgun aveva portato in Francia un vecchio cargo per trasporti militari da 4.000 tonnellate, ribattezzato Altalena301. Non rivelò che la nave doveva caricare armi fornite segretamente dal governo francese, irato per il ruolo inglese nel cacciare Parigi dalla Siria. Begin propose che l’IDF contribuisse con 250.000 dollari all’acquisto di armi. Due giorni dopo il governo rifiutò la proposta, poiché veniva dalla vituperata Irgun. Il 31 maggio furono istituite le Israeli Defence Forces e il giorno dopo l’Irgun siglò un accordo per confluire nell’esercito israeliano in capo ad alcune settimane. Gli irgunisti entrarono nell’IDF come unità autonome. Poiché Israele non rivendicava Gerusalemme come proprio territorio, sia l’Haganah che l’Irgun colà mantennero organizzazioni separate. Il 2 giugno Israele e gli arabi siglarono una tregua, che doveva partire dall’11 giugno e

297 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 298 Jon Kimche, Seven Fallen Pillars, 1976 299 ibidem 300 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 301 Lo pseudonimo di Jabotinskij da giovane. 96 proibiva l’introduzione di armi e uomini in più da parte dei rispettivi eserciti. Quel giorno stesso l’Altalena salpò dalla Francia con 900 reclute irguniste e migliaia di armi. Begin sostiene di non aver saputo della partenza della nave ma, non volendo assumersi la responsabilità della rottura della tregua, immediatamente provò a farla rientrare in porto. Egli insiste che a quel punto l’IDF autorizzò la prosecuzione del viaggio. L’Irgun aveva proposto che l’80% delle armi andassero alle unità entrate nell’IDF, e il restante 20% all’unità autonoma di Gerusalemme. Fonti revisioniste riportano che alla fine l’80% delle armi furono messe nella disponibilità dell’IDF, ma che il 20% dovevano ancora arrivare “a Gerusalemme”. La nave aveva l’ordine di arrivare direttamente a Tel Aviv, tuttavia con l’entrata in vigore della tregua l’IDF inviò via radio l’ordine all’Irgun di dirigersi a Kfar Vitkin, una roccaforte sionista laburista sulla costa più a nord, lontano dagli occhi dei funzionari ONU. Là le armi sarebbero state scaricate e messe sotto la custodia del governo. Tuttavia Ben-Gurion non voleva assolutamente rafforzare un esercito ideologicamente avverso, e Begin fu informato che il governo non si sarebbe assunto la responsabilità di far scaricare le armi. L’Altalena arrivò il 20 giugno: 850 uomini sbarcarono e i restanti 50, con l’ausilio di un battaglione di irgunisti incluso Begin, iniziarono a scaricare il cargo. Il giorno successivo l’IDF presentò a Begin un ultimatum di dieci minuti: le armi dovevano essere consegnate immediatamente o il governo avrebbe usato la forza. I dieci minuti diventarono alcune ore, durante le quali l’Irgun decise di lasciare una piccola guardia al carico già portato a riva, mentre l’Altalena salpò verso Tel Aviv dove gli irgunisti avevano più sostenitori e dove si pensava che Ben-Gurion non avrebbe osato iniziare quella che poteva trasformarsi in una guerra civile. Quando l’esercito aprì il fuoco, Begin era ancora sulla spiaggia e la sua prima reazione, pur non essendo mai stato coinvolto in combattimento contro gli inglesi o gli arabi, fu di non abbandonare i suoi uomini. I suoi ufficiali non vollero dargli retta e lo condussero sulla nave302. Sei irgunisti e due soldati dell’IDF morirono nello scontro a fuoco che ebbe luogo sulla spiaggia mentre la nave faceva rotta verso Tel Aviv. Essa arrivò di notte, si spinse fino a 700 yarde dalla riva e fu immediatamente accolta da una scarica di fucileria. Il mattino dopo il capitano issò la bandiera bianca, ma Begin iniziò a strillare al megafono gridando alla gente sulla spiaggia di venire in aiuto per scaricare le armi. Questo fu troppo per l’IDF, che iniziò a bombardare la nave. Alcuni passeggeri furono uccisi a bordo, tra questi Avraham Stavsky, il fanatico di Brit Habiryonim che aveva evitato il boia nel 1934 per il coinvolgimento nell’uccisione di Chaim Arlosoroff, e che ora era l’intestatario dell’Altalena. Un proiettile colpì la stiva della nave e le munizioni ivi stipate cominciarono a esplodere. Il capitano diede l’ordine di abbandonare la nave, ma Begin rifiutò di arrendersi. Il capitano abbastanza comprensibilmente non era in vena di eroismi e Begin fu trattenuto sul ponte della nave con il coltello di un marinaio puntato sulla schiena303. Quando tutti ebbero lasciato la nave, il capitano fece scortare fuoribordo da due marinai il futuro Primo ministro di Israele304. 14 irgunisti erano stati uccisi nell’attacco dell’IDF. Dovendo fronteggiare gli eserciti arabi su diversi fronti, il governo nonostante avesse accusato l’Irgun di volersi armare per un colpo di stato decise di non mettere alla berlina l’organizzazione di Begin. Quest’ultimo diffuse via radio una versione diversa dell’Affare Altalena, negando l’accusa di tentato golpe e affermando la semplice intenzione di introdurre armi di cui vi era bisogno, e alla fine scoppiando il lacrime. Era ovviamente necessario sciogliere l’organizzazione in modo dignitoso, e dunque Begin si recò a Gerusalemme per rassegnare formalmente le dimissioni al comandante dell’unità autonoma locale dell’Irgun. Il 17 settembre 1948 la Banda Stern assassinò il conte Folke Bernadotte, mediatore speciale dell’ONU, e Begin si affrettò a dichiarare che non vi era alcun legame tra gli assassini e l’Irgun di Gerusalemme. Ciononostante tre giorni dopo il governo impose un ultimatum per lo scioglimento dell’unità irgunista di Gerusalemme; il giorno dopo Shmuel Katz, l’ultimo comandante dell’Irgun, convocò una conferenza stampa per annunciare le proprie dimissioni.

Il Partito della Libertà (Tnuat HaHerut) In ottobre Begin annunciò la formazione di un nuovo partito, il Tnuat HaHerut (Movimento della Libertà), per continuare la lotta contro gli arabi e i sionisti laburisti. La sua piattaforma era un rigido

302 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 303 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1978 304 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 97 revisionismo, centrato sulla dichiarazione che la patria ebraica dovesse estendersi ai due lati del Giordano. La tradizione filo-fascista fu mantenuta attraverso l’organo di partito, Herut, che aveva tra i suoi collaboratori regolari Abba Achimeir, Uri Zvi Greenberg e Wolfgang von Weisl, tutti grandi estimatori di Mussolini negli anni ’30. In novembre Begin giunse in America per quello che sperava essere una trionfale campagna di raccolta-fondi, ma per molti aspetti il tour fu disastroso. Egli doverosamente raccontò a Jabotinskij, sulla tomba a Long Island, che uno stato ebraico era stato creato, e fu ricevuto dal sindaco di New York William O’Dwyer. A un ricevimento in suo onore al Waldorf Astoria Begin doveva intervenire per 45 minuti, ed era stato invitato a parlare del futuro. In realtà egli fece un discorso di due ore mezza, fin dopo la mezzanotte, soffermandosi sulle glorie della lotta dell’Irgun e in particolare sulla fustigazione dei soldati inglesi. Secondo il resoconto di Shmuel Merlin, primo segretario generale del nuovo partito, “sembrò che avesse parlato due giorni e mezzo”. Il 4 dicembre 1948 il New York Times pubblicò una lettera firmata tra gli altri da Hannah Arendt, Albert Einstein, Sidney Hook e Seymour Melmen. Con l’adesione di Einstein, l’appello attirò molta attenzione. Sebbene scritte da un punto di vista sionista, le forti affermazioni divennero la classica rappresentazione della politica revisionista fino a qull’epoca, riprodotta in molte occasioni:

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat HaHerut), un partito politico che nella organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti nazista e fascista. E’ stato fondato autonomamente e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, un’organizzazione terroristica sciovinista di destra in Palestina... Oggi costoro parlano di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino a poco tempo fa predicavano apertamente la dottrina dello stato fascista. E’ nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere… Un esempio terribile è stato il suo comportamento nel villaggio arabo di Deir Yassin… L’accaduto di Deir Yassin esemplifica il carattere e le azioni del Partito della Libertà… hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale…Alla luce delle soprascritte considerazioni, è imperativo che la verità su Begin e il suo movimento sia resa nota a questo paese. Ed è ancor più tragico che i vertici del sionismo americano si siano rifiutati di condurre una campagna contro le attività di Begin…305

305 New York Times, 4 dicembre 1948 98 12. Ventinove anni nel deserto

Primo risultato elettorale dell’Herut Non era l’Irgun che aveva ottenuto l’indipendenza per Israele? Non era la Giordania ancora sotto il giogo dell’hashemita Abdullah? Di certo l’elettorato israeliano, o almeno il 30-40%, ispirato dall’oratoria di Begin avrebbe votato per il nuovo partito nelle prime elezioni del paese. Così la pensava Menachem Begin quando apprese con disappunto che nelle elezioni del 25 gennaio 1949 l’Herut aveva preso soltanto l’11,5% dei voti, e solo 14 dei 120 seggi nell’Assemblea Costituente. L’Herut fu terzo, dietro al MAPAI di Ben-Gurion (il partito laburista israeliano), con 46 seggi, e al MAPAM (Partito Unitario dei Lavoratori) allora formato da gruppi sionisti filo-URSS, con 19 seggi. Il Fronte Religioso, una coalizione di gruppi ortodossi, prese 16 seggi; i sionisti generali, facenti capo a Weizmann, ebbero 7 seggi; i Progressisti anticlericali, un partito della classe media, 5 seggi; i restanti seggi furono dispersi e tra essi uno andò a Nathan Yalin-Mor, condannato a otto anni per aver guidato un’organizzazione terroristica dopo l’assassinio del conte Bernadotte, e in seguito amnistiato. Gli altri della vecchia guardia del partito revisionista si candidarono ma non ottennero seggi e di lì a poco confluirono nell’Herut. Poiché i revisionisti erano rientrati nella WZO dal 1946, l’Herut ora era parte di un movimento sionista riunificato. La campagna del 1949 fu la prima di otto sconfitte elettorali consecutive, prima che Begin riuscisse finalmente ad arrivare al potere nel maggio 1977. Nei primi anni il partito acquisì rapidamente la fama di scheggia impazzita del sionismo, e Begin potè constatare che i sacri principi del revisionismo classico generavano ostilità in una larga parte della popolazione. Il successivo, lento e leggero spostamento al centro di Begin e quello sempre crescente dell’intera società israeliana all’estrema destra, permisero infine ai revisionisti di arrivare al potere. Fin dall’inizio la linea dell’Herut fu la “liberazione” di tutta la Palestina. Furono tuttavia i rifugiati palestinesi, mai domi, a prendere l’iniziativa cercando continuamente di rientrare ai loro villaggi, o nella speranza di rimanervi o almeno di portare via ciò che dopotutto era loro proprietà. Israele allora era senza dubbio una forza occupante e Ben-Gurion non cercò di intraprendere alcuna guerra di conquista. La sua replica alle incursioni fu una serie di azioni mordi e fuggi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. L’Herut considerò sempre queste azioni come futili, insistendo continuamente che solo la “liquidazione delle sacche arabe nel territorio nazionale ebraico” poteva risolvere il problema. Dal momento che il programma concreto di tutti i partiti sionisti era la trasformazione di un territorio arabo in stato sionista, nessun governo israeliano avrebbe potuto raggiungere una pace vera, ma la pace è quanto volevano le masse ebraiche, e il costante appello alla guerra alienò a Begin le simpatie del grande pubblico. Il nemico interno principale era l’Histadrut, e l’Herut la osteggiò su tutta la linea. Il partito manteneva in piedi la minuscola Federazione Nazionale Revisionista del Lavoro, ma l’Histadrut aveva dalla sua parte circa l’85% dei lavoratori. L’Herut allora chiese la nazionalizzazione degli uffici di collocamento dell’Histadrut, e l’arbitrato obbligatorio per le dispute salariali. Esso chiese anche la nazionalizzazione dell’Histadrut Sick Fund, fondo di assistenza che serviva gran parte della popolazione, e lo smantellamento del complesso di fabbriche e attività commerciali che facevano dell’organizzazione laburista il principale datore di lavoro nel paese, così come l’abolizione dei privilegi fiscali nei kibbutz. Ma gli immigrati che prima della guerra avevano contribuito a costruire l’Histadrut erano molto devoti alla loro associazione e un tale programma, che ne significava la dissoluzione, potè solo trovare la loro inflessibile ostilità. Per i primi anni insomma non vi fu nessun tema sul quale l’Herut potesse far leva per attirare un ampio consenso. Begin impiegò questo periodo per scrivere La Rivolta, che non fu la storia dell’Irgun, come lui scrisse, ma piuttosto un memoriale, una sorta di glorificazione di quel gruppo. Egli fece visita ai sostenitori dell’Irgun negli USA, in Europa e in America del Sud, e durante una visita in Argentina ebbe un cordiale incontro con Juan Peròn, già conosciuto per i suoi orientamenti filo-nazisti durante la guerra e l’accoglienza a migliaia di criminali di guerra nazisti. Nella seconda tornata elettorale alla Knesset, nel 1951, l’Herut perse 6 dei suoi 14 seggi, e il suo impotente estremismo suscitò ben poca attrattiva.

99 La questione delle riparazioni Centinaia di migliaia di ebrei europei, e altre centinaia di migliaia dal mondo arabo, si riversarono in Israele. Furono allestiti enormi centri di accoglienza per gli immigrati, e il cibo e il vestiario dovettero essere razionati. A meno di non precipitare nella catastrofe economica, il paese doveva fare qualcosa, e Ben-Gurion decise di vagliare la possibilità di ottenere riparazioni dalla Germania Ovest. La velocità era essenziale, poiché l’acuirsi della Guerra fredda avrebbe fatto sì che gli americani fossero sempre meno inclini a fare pressioni sulla Germania. Nell’autunno del 1951 Nahum Goldmann ebbe un incontro con Konrad Adenauer e si accordò per una cifra provvisoria di un miliardo di dollari di riparazioni. Ora era necessario l’avallo della Knesset per la prosecuzione dei negoziati. Molti israeliani, e molti ebrei, di tutte le ideologie, ritenevano che qualunque risarcimento in denaro fosse solo un insulto alla memoria delle vittime dell’Olocausto. Il MAPAM si oppose ai negoziati, e così fecero alcuni singoli dirigenti del MAPAI, ma i più agguerriti avversari delle riparazioni furono l’Herut e Menachem Begin. La Knesset doveva discutere la questione il 7 gennaio 1952. Quel mattino Begin, parlando da un balcone, arringò un’adirata folla di 15.000 persone:

Quando ci avete cannoneggiato, ho ordinato ai nostri compagni di non rispondere al fuoco. Ma oggi dirò “Si!”. Sarà una guerra all’ultimo sangue…Non c’è un tedesco che non abbia ucciso i nostri padri. Ogni tedesco è un nazista. Ogni tedesco è un assassino. Adenauer è un assassino…Forse ci impiccheranno, ma non importa306.

Begin entrò nella Knesset per prendere parte al dibattito e la folla marciò verso l’edificio, forzando le barriere di filo spinato e i cordoni di centinaia di poliziotti. Mentre la discussione iniziava, i manifestanti si misero a lanciare pietre. Sassi e bottiglie volarono in mezzo alla sala. Begin attaccò il governo: “So che ci metterete nei campi di concentramento, ma non vi saranno riparazioni dalla Germania”307. In solidarietà coi dimostranti affermò di rinunciare all’immunità diplomatica. Fuori si contarono 200 feriti, di cui 92 poliziotti, e 400 fermi. Ma due giorni dopo il parlamento votò con una maggioranza di 61 a 50 l’autorizzazione a continuare i negoziati. Begin fu temporaneamente sospeso dalla Knesset. Il 12 marzo, giorno dell’apertura ufficiale dei negoziati all’Aia, 70.000 persone si riunirono a Tel Aviv. Questa volta Ben-Gurion prese la precauzione di far scendere in strada migliaia di membri dell’Histadrut e dei kibbutz per proteggere gli edifici pubblici, e ciò fu sufficiente per spingere Begin a raccomandare alla folla di non farsi indurre alla violenza. Il riot contro le riparazioni tedesche non fece altro che screditare Begin, mentre nei successivi 12 anni arrivarono nel paese miliardi di marchi tedeschi sottoforma di materiale ferroviario, reti telefoniche, container, impianti di irrigazione, tutto acquistato tramite compagnie inglesi, e molte altre cose tra cui denaro liquido a singoli cittadini israeliani. Senza le infrastrutture fornite attraverso il denaro delle riparazioni così aspramente osteggiate dall’Herut, c’è da chiedersi se Israele sarebbe stata in grado di mantenere, e di accrescere, la superiorità tecnologica così essenziale a garantire le continue vittorie sui suoi nemici.

Isolamento dopo il riot Con la riduzione della pattuglia parlamentare e il discredito ottenuto nella questione delle riparazioni, i due anni successivi al riot furono per l’Herut il periodo di massimo isolamento. Begin utilizzò questo lasso di tempo per scrivere White Nights, pubblicato nel 1953. Sebbene privo di valore politico dal punto di vista dell’ideologia sionista, e sebbene la sua previsione di uno scontro finale tra l’NKVD e l’esercito sovietico dopo la morte di Stalin fosse qualcosa di assolutamente fuori dalla realtà, il libro descrive i campi di detenzione e le prigioni di Stalin, ed è di utile lettura. Begin fece dei viaggi per conto dell’Herut in Europa, USA. America del Sud e tra l’ottobre 1953 e il gennaio 1954 fu in Sud Africa, Rhodesia e Congo Belga. Incontrò il primo ministro sudafricano Daniel Malan, la cui fazione nazionalista aveva aspramente contrastato l’ingresso di rifugiati ebrei nel paese durante l’era di Hitler. Lasciando il Sud Africa, Begin inviò una lettera a Malan:

Non dimenticherò mai la memorabile conversazione con voi, signor Primo Ministro…Quando, se Dio vuole, tornerò a casa, parlerò al mio popolo dell’orientamento favorevole a Israele e al

306 Frank Gervasi, The Life and Times of Menahem Begin, 1979 307 ibidem 100 suo benessere da parte del popolo e del governo del Sud Africa. Io prego, spero e credo che l’amicizia tra i due paesi sarà rafforzata308.

La crisi di Suez e la questione delle carte d’identità L’Herut fece molto meglio nelle elezioni del 26 luglio 1955, salendo da 8 a 15 seggi. Le costanti incursioni sul confine e l’incapacità del governo di risolvere il problema avevano fatto rientrare i voti persi nel 1951 a favore dei sionisti generali, che dal 1949 al 1951 erano passati da 7 a 20 seggi e ora ridiscesero a 13, di nuovo dietro l’Herut. Nel settembre 1955 Nasser si rivolse all’Unione Sovietica chiedendo sostegno contro Israele e Inghilterra, che ancora controllavano il Canale di Suez, e fece un accordo per una fornitura di armamenti cecoslovacchi; da allora in avanti Begin fu sul proprio terreno, e invocò una guerra preventiva contro l’Egitto. Com’è noto, il MAPAI non aveva bisogno di sollecitazioni dall’Herut in questo campo. Quando Nasser nel 1956 annunciò la nazionalizzazione del Canale, a ciò seguì inevitabilmente l’invasione israelo-anglo-francese del 29 ottobre. Naturalmente Begin sostenne la guerra e nel 1957 attaccò Ben-Gurion per avere abbandonato il Sinai e la Striscia di Gaza di fronte alla minacciosa ostilità di USA e URSS insieme. Begin si recò per la seconda volta in Sud Africa il 14 agosto 1957, provando a far leva sull’interesse che il Sud Africa poteva avere nelle implicazioni dell’attacco israeliano all’Egitto dell’anno precedente. Ma in quanto estremista senza incarichi non poteva offrire nulla al regime dell’apartheid. In politica interna Begin si dimostrò un accanito oppositore della secolarizzazione della vita israeliana. Il 22 giugno 1958 il governo dichiarò che chiunque si fosse definito ebreo dovesse avere una carta di identità recante quella specificazione. La decisione suscitò un tumulto poiché gli ortodossi insistevano che solo i figli di madre ebrea o chi fosse stato convertito da un rabbino potessero essere considerati ebrei. L’Herut non faceva della osservanza religiosa un criterio di appartenenza all’ebraismo, ma Begin stesso è in parte credente, rispetta le usanze kosher e si rifiuta di lavorare al sabato. Egli si levò al fianco dei partiti religiosi nel protestare contro il provvedimento:

Altri popoli inizialmente erano allo stato selvaggio, vivevano in giungle e caverne, temevano il tuono e il fulmine e il potere degli astri. Le nazioni straniere sono arrivate e hanno imposto la loro religione su di loro…Il nostro popolo si è formato in maniera diversa. Tutto è cominciato con una promessa divina…Ed è in base a questa promessa che esso è tornato in Eretz Israel…Davvero il governo crede che, per quanto riguarda l’ebraismo, si possa differenziare tra religione e identità nazionale?...Può un membro del popolo ebraico essere calvinista, anglicano, battista, anabattista?309

Le elezioni del 3 novembre 1959 videro una minima variazione: l’Herut guadagnò due seggi, salendo a 17 e diventando il secondo partito.

Gli anni ’60: verso la rispettabilità Nelle elezioni del 15 agosto 1961 la situazione non registrò cambiamenti: il partito non aveva un indirizzo chiaro, e Begin fu indotto a fare dei tentativi di cambiamento della propria immagine. Per molti anni egli aveva tenuto discorsi dai balconi, e girato il paese su una Cadillac scortata di motociclisti a sirene spiegate. Il discorso dal balcone era una specialità di Mussolini, e anche i motociclisti ricordavano all’opinione pubblica la natura fascista dell’Herut: alla fine Begin li abbandonò entrambi. Il partito prese decisamente la via della rispettabilità nella primavera del 1964, quando il primo ministro Levi Eshkol acconsentendo a una richiesta dell’Herut diede ordine di riportare in Israele il corpo di Jabotinskij, e per giunta ricollocandolo sul monte Herzl, nel luogo riservato ai leader del movimento sionista. L’episodio non solo diede una patina di rispettabilità all’Herut ma fu anche un passo importante nell’involuzione del Partito Laburista dalle sue origini di sinistra, poiché Jabotinskij era sempre stato un implacabile nemico del movimento operaio sionista. La cerimonia sul monte Herzl fu un atto puramente simbolico, ma nell’aprile 1965 il partito compì il suo primo vero passo verso il potere formando un blocco, il Gush Herut-Liberalim o Gahal, insieme al Partito Liberale che sostanzialmente erano i vecchi sionisti generali. Entrambi i partiti mantennero

308 Harry Hurwitz, Menachem Begin, 1977 309 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin: 1979 101 un’esistenza autonoma anche se Begin fu di fatto il leader della coalizione. Benchè i due partiti ottenessero solo 26 seggi nelle elezioni del novembre 1965, molti meno dei 34 complessivi che avevano preso nella tornata precedente (la causa fu una scissione tra i liberali), ciononostante si trattò di un grande passo avanti per Begin. Ora per la prima volta vi era una prospettiva reale di una sua vittoria attraverso l’alleanza con altri elementi di destra. Un fatto importante fu che i liberali insistettero affinchè l’Herut abbandonasse la sua decisa posizione anti-Histadrut, e dopo un periodo di dibattito i membri del partito di Begin decisero di aderire all’organizzazione operaia. I leader dell’Histadrut provarono a escluderli, conoscendoli come anti-laburisti di lunga data, ma il tribunale deliberò che ogni partito politico avesse il diritto di organizzare una propria fazione all’interno dell’Histadrut. Entrandovi a far parte, l’Herut rinunciò a ogni idea di smantellamento della stessa, e la richiesta di arbitrato obbligatorio venne ristretta soltanto ad alcune industrie di base. I liberali poi erano un partito di imprenditori, la loro opposizione al MAPAI era basata su questioni economiche interne, e non di politica militare, e dunque non avevano interesse al problema dell’annessione della Giordania a Israele; Begin generosamente concesse loro che nell’alleanza con l’Herut questo tema non venisse affrontato. Fu la guerra del 1967 a portare la rispettabilità definitiva per Begin e l’Herut. Sul punto di lanciare l’attacco preventivo contro gli stati arabi, Eshkol chiese a Begin e a un liberale di entrare in un governo di unità nazionale come ministri senza portafoglio. Il giorno dopo Begin riportò al suo mentore sul monte Herzl: “Signore, capo del Betar, dobbiamo informarla che uno dei suoi seguaci ora detiene una carica di ministro nel governo di Israele”310. Begin non creò problemi alla maggioranza laburista fino a dopo l’elezione di ottobre 1969, nella quale il Gahal consolidò la sua quota di 26 seggi. Begin non voleva rimanere nel governo del nuovo primo ministro, Golda Meir, a meno che questa non avesse acconsentito a stabilire l’arbitrato obbligatorio nelle industrie di base. Nel contempo il segretario di stato americano William Rogers annunciò che gli USA avrebbero cercato di risolvere la questione mediorientale negoziando coi sovietici, bypassando la volontà israeliana. Poiché ciò avrebbe significato il ritiro da almeno alcuni dei territori occupati nel 1967, Begin ritenne di dover appoggiare la Meir nel rifiuto della proposta di Rogers, e lasciò perdere la questione dell’arbitrato obbligatorio. Con ciò, un altro ostacolo all’eventuale ascesa al potere di Begin fu rimosso. Israele in quanto stato coloniale può solo sopravvivere se la sua classe operaia rimane fedele al governo. Se i capitalisti spingono la lotta di classe a un grado che va oltre la “normalità” capitalistica311, corrono il serio rischio che i lavoratori, o una parte di essi, rompano il legame e si alleino con le nazionalità oppresse. Nel 1969 il governo israeliano pensò di poter forzare Nasser a porre fine alla sua “guerra di attrito”, ovvero la costante pressione sulla linea israeliana di fronte a Suez, con un pesante bombardamento dell’Egitto. Presto i sovietici si schierarono dalla parte dell’Egitto e fu chiaro che la strategia israeliana aveva fallito, e che Nasser non avrebbe capitolato. L’opinione pubblica mondiale cominciava a volgersi contro Israele e gli americani si preoccuparono per il crescente coinvolgimento sovietico. Rogers prese di nuovo l’iniziativa con la proposta di 90 giorni di tregua e l’avvio di negoziati per porre fine alla guerra a condizione che la maggior parte dei territori occupati tornassero allo status pre-1967. Golda Meir non pensò mai che i negoziati avrebbero comportato altro che la fine del conflitto in corso sul Canale, la conquista del quale non era negli obiettivi israeliani, dunque per non inimicarsi gli USA accettò la proposta di Rogers. Per Begin la questione era di principio: non c’erano territori occupati ma piuttosto “Eretz Israel liberata”, ed egli si sarebbe “tagliata la mano destra” piuttosto che restare in un governo che solo avesse detto di ipotizzare la restituzione dei quei territori. Il 6 agosto 1970 il Gahal votò contro il governo e Begin riprese posto all’opposizione. Comunque, anche se il ritiro dal governo era avvenuto sulla questione di un possibile ritiro israeliano dalla Cisgiordania, d’ora in poi le rivendicazioni della Transgiordania uscirono dalla propaganda dell’Herut. Tre anni di esperienza di governo in una coalizione ampia, estesa dai marxisti sui generis del MAPAM fino all’Herut, avevano provato a Begin che nessun’altra maggioranza sarebbe stata indotta a una guerra in Giordania. Con l’abbandono del primo caposaldo del revisionismo, l’ex ministro ora rispettabile divenne un serio candidato al potere. Era davvero difficile immaginare gli USA come disposti a lasciare che Hussein perdesse il proprio paese (la lealtà dei satrapi dell’impero va sempre premiata): e se in Giordania fosse nato

310 Eithan Haber, Menachem Begin: the Legend and the Man, 1978 311 Come nel caso dell’imposizione di un arbitrato obbligatorio per le questioni salariali in alcuni settori dell’economia (n.d.t.). 102 un governo anti-americano? Eric e Rael Jean Isaac, due noti propagandisti revisionisti, hanno senz’altro ragione nell’affermare che:

La fermezza della concezione di Jabotinskij è tale che se in una futura guerra la Giordania dovesse cadere in mani israeliane, un governo a guida Herut sarebbe più restìo a rinunciare a quel territorio piuttosto che al Sinai o al Golan312.

Primi anni ‘70 Nel febbraio 1971 Begin fece parte di una delegazione governativa a una conferenza sugli ebrei sovietici in programma a Bruxelles. Egli non ha mai appoggiato la lotta degli ebrei all’interno dell’URSS, né per i loro diritti nazionali né per i diritti democratici in generale, ma ha sempre rivendicato una soluzione per la questione ebraica nell’Unione Sovietica. Il fedele seguace di Jabotinskij affermò che:

Invece dello slogan “Lasciate stare il mio popolo” dobbiamo ribadire la richiesta di evacuazione di tutti gli ebrei sovietici, ed essere pronti ad accoglierne circa due milioni entro un breve periodo313.

Non solo l’idea di un esodo di massa dall’Unione Sovietica era un’illusione (molti ebrei dell’URSS sono profondamente assimilati, e il matrimonio misto è anche più diffuso che in Occidente), ma successivamente, nel 1973, Begin propose una giornata di sciopero degli ebrei americani in occasione della visita di Breznev negli USA. Se aveva in modo riluttante compreso ciò che è realistico in politica interna, tali proposte (l’esodo di massa degli ebrei sovietici, lo sciopero degli ebrei americani) dimostrarono che egli era rimasto ciò che era sempre stato: un congenito massimalista. A Meir Kahane314, capo della Jewish Defense League, fu impedito dagli organizzatori di accedere alla conferenza a causa del suo appoggio al terrorismo. Poiché insisteva, fu fermato dalla polizia belga ed espulso dal paese. Begin in proposito dichiarò che, pur non conoscendo Kahane e non avallando la sua condotta, “l’epoca in cui degli ebrei accusano altri ebrei alla polizia è finita per sempre”315. (Invece Kahane è stato arrestato dalla polizia israeliana non meno di 66 volte, molte delle quali su insistenza di Begin). Nel gennaio 1972 Kahane scrisse la prefazione alla nuova edizione inglese de La Rivolta:

Questo libro è particolarmente importante per la gioventù ebraica…Troppi giovani ebrei si indottrinano coi successi di altri movimenti di liberazione nazionale e non hanno la minima idea del fatto che il loro popolo ha avuto un movimento di liberazione di eccezionale purezza e coraggio…Le menti dei giovani ebrei non verranno distolte dall’immagine di Fidel, del Che o di Ho Chi Min fino a quando non avranno appreso nuovi nomi: Gruner, Ben Yosef, Hakim, Ashbel e Barazani316.

Terzo viaggio in Sudafrica Nell’autunno 1971 Begin fece un altro viaggio in Sudafrica. Come ex ministro del governo israeliano che aveva conquistato il Sinai, e come migliore amico israeliano del regime di Pretoria, ebbe un incontro con Johannes Vorster, il Primo ministro (che era stato arrestato nel 1942 per il suo orientamento filo-nazista). Essi discussero il problema di Suez (la guerra del 1967 ne aveva determinato la chiusura), il ruolo sovversivo dell’Unione Sovietica e quello delle Nazioni Unite. Begin sostenne di essere contro l’apartheid ma che, in questo mondo crudele, Israele doveva trovare gli amici dove poteva, senza tener conto delle questioni interne. Fatto sta che questo anomalo oppositore dell’apartheid non esitò a diventare presidente della Israel – South Africa Friendship League.

312 Eric e Rael Jean Isaac, The Impact of Jabotinskij on Likud’s Policies, 1977 313 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 314 Meir Kahane (1932 – 1990), rabbino americano revisionista, membro del Betar e fondatore nel 1968 della Jewish Defense League. Nel 1971 emigrò in Israele, dove la JDL si trasformò nel piccolo partito razzista Kach, dedito a violenze fisiche e verbali contro gli arabi e negatore del carattere secolare di Israele. Kahane fu assassinato in una via di New York il 5 novembre 1990. 315 Lester Eckman, Gertrude Hirschler, Menachem Begin, 1979 316 Prefazione a The Revolt, Nash Edition 1972 103

Il Generale Sharon e il Likud Il periodo tra le guerre del 1967 e del 1973 fu l’età d’oro degli “eroi”, con i partiti che cercavano affannosamente di accaparrarsi i generali artefici delle incredibili vittorie militari israeliane. Il principale esponente di questo piccolo gruppo fu Ariel “Arik” Sharon, che aveva esordito nell’Haganah e raggiunse la fama come comandante dell’Unità 101, specializzata nei raid oltreconfine. Mantenne lo stesso spirito offensivo come comandante nell’esercito regolare durante le guerre del 1956 e del 1967. Ritiratosi dall’esercito nell’estate 1973, quando sembrò che non sarebbe riuscito a diventare comandante in capo, si unì ai liberali. Gli ex sionisti generali non furono mai militaristi, in un certo senso essi erano i continuatori della tradizione pacifista della piccola borghesia shtetl317, il loro compito era fare soldi, mentre le battaglie sioniste erano appannaggio dei laburisti e dei revisionisti; Sharon ovviamente si unì a loro perché non avevano alcun altro eroe tra i loro ranghi. Quasi subito dopo l’adesione, egli rassegnò le dimissioni e in agosto annunciò che se il Gahal e gli altri partiti di destra non avessero subito formato una coalizione per far fronte all’Allineamento Laburista (MAPAI e MAPAM) si sarebbe ritirato dalla politica. La sua idea fece molta presa, in particolare nei settori giovanili delle isolate forze di destra, e la loro spinta indusse i dirigenti, compreso Begin che temeva inizialmente di perdere il primato personale in una coalizione ampia, a fondare il Likud (Unità), nel settembre 1973. Le elezioni avrebbero dovuto svolgersi in ottobre ma furono posticipate a dicembre a causa dello scoppio della Guerra del Kippur. L’attacco siro-egiziano, brillantemente eseguito attraverso il canale di Suez, sulle prime colse alla sprovvista la Meir e il suo ministro della Difesa Moshe Dayan, che in quanto razzisti sottovalutarono la capacità degli arabi di intraprendere una guerra moderna. Tuttavia col passare dei giorni gli israeliani riuscirono a ristabilire la supremazia militare e ciò proprio grazie a Sharon, attraverso un’audace azione a Suez che tagliò fuori l’esercito egiziano a Ismailiya. Sebbene i 2.559 caduti fossero un colpo per la società israeliana, e spingessero migliaia di soldati a dare vita a caotiche manifestazioni di piazza, nelle successive elezioni l’Allineamento perse solo quattro seggi, scendendo a 51. Ma il Likud ora conquistò 39 seggi, sette in più del risultato delle sue componenti alla tornata passata, e rappresentava un’alternativa valida all’Allineamento. A questo punto i pre-requisiti essenziali, dal punto di vista programmatico e organizzativo, per la vittoria elettorale di Begin c’erano tutti. Sebbene l’abbandono “de facto” dell’idea di Jabotinskij della Giordania come parte della “patria” fosse cruciale per le prospettive di Begin, egli rimase sempre fermamente contrario alla minima concessione riguardo ai territori già occupati da Israele. Si oppose aspramente agli accordi di “disimpegno” imposti dagli USA allo stato sionista, che obbligarono quest’ultimo a ritirarsi da Suez e da parte delle Alture del Golan. Nel 1975 il Likud provocatoriamente tenne il suo congresso a Kiryat Arba, vicino a Hebron, in Cisgiordania. Negli anni seguenti, i betarim si recarono spesso sul Monte del Tempio, che ora era il sito della Moschea di Al-Aqsa della Moschea di Omar, con abiti civili a coprire le divise del Betar, per poi metterle in mostra e intonare canti nazionalisti. Ogni volta essi venivano cacciati dalle autorità islamiche con l’appoggio della polizia israeliana, ma nel marzo 1976 la loro sceneggiata provocò una grossa rivolta nella Città Vecchia318. Tuttavia non fu lo sciovinismo del Likud a garantirgli il potere, bensì il collasso del sionismo laburista, dopo 29 anni di predominio e otto vittorie elettorali consecutive.

Il declino del Partito Laburista Per alcuni mesi prima delle elezioni del maggio 1977, il pubblico israeliano fu scosso da una serie di accuse e condanne per corruzione a carico di importanti figure dell’establishment laburista. Il responsabile per l’Histadrut degli affari arabi nei Territori Occupati fu riconosciuto colpevole di estorsione quando era a capo del consiglio operaio di Dimona; quindi Asher Yadlin, capo del Kupat Holim, il fondo di assistenza sanitaria dell’Histadrut, fu nominato Governatore della Banca di Israele e venne fuori che aveva preso tangenti in ambito immobiliare, tenedosi una parte del denaro e girando il resto al Partito Laburista per saldare le spese elettorali 1973. Il 3 gennaio 1977 Avraham Ofer, ministro dell’Edilizia, si suicidò dopo essere stato accusato di guadagni illeciti dalla vendita di alloggi governativi, concedendo sconti a giornalisti compiacenti e personaggi pubblici.

317 Il termine (assonante al tedesco stadt, città) indica le comunità ebraiche urbane dell’Europa orientale. 318 Jerusalem Post, 23 marzo e 2 aprile 1976 104 Sebbene la lettera lasciata da Ofer respingesse sdegnosamente le accuse, nessuno dubitò della sua colpevolezza. Come se non bastasse, il 15 marzo un giornale israeliano rivelò il fatto che la moglie del Primo ministro Yitzhak Rabin aveva un conto bancario in dollari a Washington, in violazione delle leggi israeliane sulla valuta. Lei lo ammise, ma insistette di avere depositato solo 2.000 dollari. Invece in aprile un altro giornale scoprì che i Rabin avevano due conti correnti americani e uno di essi era ancora aperto, con un ammontare di 10.000 dollari. Rabin, sorpreso a mentire, annunciò le immediate dimissioni (sebbene tecnicamente rimase in carica fino alle elezioni). Non è difficile comprendere perché il movimento sionista laburista andò incontro alla corruzione. Nel corso dei decenni il partito aveva perso tutti i suoi capisaldi ideologici. Benchè si presentasse come espressione dei lavoratori ebrei, era stato in coalizione con diversi partiti capitalisti; aveva abbandonato qualunque idea secolarista una volta fatto dell’ortodossia la religione di stato, per lo più attraverso concessioni al Fronte Nazionale Religioso, il Mizrachi; aveva sviluppato legami coi capitalisti ebrei americani, cercando affannosamente i loro finanziamenti, ben sapendo che molti di questi avvenivano frodando il fisco; e si era profondamente legato al governo USA e alla CIA, che finanziò scuole dell’Histadrut per sindacalisti asiatici e africani. E tutto ciò fu coronato dall’espropriazione della terra e delle proprietà dei profughi palestinesi con l’avvento della guerra del 1948. Esso era entrato nella storia con un serio bagaglio teorico, nel tentativo di combinare socialismo e nazionalismo, ma il tentativo – un socialismo coloniale – fallì in partenza, e la cinica mentalità che il sionismo laburista acquisì in corso d’opera portò al suo declino, diventando una sorta di Tammany Hall di Sion319. La burocratizzazione del Labour Party contribuì alla sconfitta anche da un altro punto di vista: dal 1973 il Likud aveva già superato l’Allineamento tra gli “Orientali”, gli ebrei africani e asiatici e i loro figli nati in Israele. Prima della fondazione dello stato il sionismo non era mai stato popolare tra gli ebrei arabi, con l’eccezione degli ebrei dello Yemen. La fondazione dello stato di Israele suscitò un’ondata di rivolte anti-ebraiche. Anche se con un minimo di raziocinio era facile capire che era il sionismo la causa della tragedia di questi ebrei “sefarditi”, il fatto è che costoro se la presero con gli arabi e iniziarono sempre più a seguire il nazionalismo di Begin. All’epoca in cui erano arrivati in Israele, l’aspetto socialista del sionismo laburista si era esaurito, nel 1946 l’Histadrut aveva abolito il tetto al salario per la propria leadership, e il movimento ormai burocratizzato non fece alcun tentativo di tutelare gli interessi dei sefarditi. Anche se una piccola fazione di questi ultimi, le “Pantere Nere” degli anni ‘70, entrò nell’orbita del Rakah320, il Partito Comunista, il grosso degli Orientali divennero la “po’ white trash”321 del caleidoscopio etnico-politico israeliano.

La vittoria elettorale del Likud Sebbene i sondaggi non prevedessero la vittoria del Likud, date le difficoltà legali dell’Allineamento la sconfitta di quest’ultimo fu inevitabile. Nelle elezioni del 1977 esso perse 19 posizioni, passando da 51 a 32 seggi, e il Likud salì da 39 a 43. Mentre il Likud si rafforzò tra i sefarditi, il Movimento Democratico per il Cambiamento (DMC) dell’archeologo Yigal Yadin, un nuovo partito moderato, prese 15 seggi, la maggior parte dei quali sottratti al Labour tra gli elettori della classe media askenazita, e così permise la vittoria di Begin. Il Likud prese il 33% dei voti (dal 30,2% che aveva); il Labour solo il 24,6%, crollando dal 39,6% precedente; il DMC l’11,6% e i partiti religiosi il 14%. Begin mise insieme una maggioranza parlamentare a partire dal Mizrachi, che in precedenza era stato al governo con Rabin ma che si era spostato decisamente a destra alleandosi con uno dei leader degli estremisti di destra di Gush Emunim (Blocco dei Fedeli). Agudas Yisrael, un partito non-sionista ultra ortodosso, innanzitutto interessato a mettere la religione ebraica in ogni aspetto della vita israeliana, acconsentì a votare la fiducia alla coalizione senza entrare nel governo. Sharon, che aveva costituito un suo minuscolo partito, Shlomzion, prese due seggi e ottenne il ministero dell’Agricoltura. Moshe Dayan, che in precedenza aveva lasciato l’Allineamento, divenne

319 Tammany Hall fu un’organizzazione americana collegata con il Partito Democratico, con sede a New York e operante dal 1789 alla fine degli anni sessanta del Novecento, che per decenni controllò le politiche della città, anche attraverso la corruzione e le clientele. 320 Nato nel 1965 da una scissione antisionista nel Partito Comunista Israeliano, nel 1967 prese tre seggi e nel 1973 quattro. Prima delle elezioni del 1977 formò la coalizione Hadash con le Pantere Nere di Israele. 321 Il parallelo è con la classe subalterna bianca degli USA, razzista nei confronti di neri e latinos. 105 ministro degli Esteri. Mesi dopo, il 24 ottobre, anche il Movimento Democratico per il Cambiamento entrò nel governo. Il 21 giugno Begin divenne Primo ministro di Israele; il suo primo atto fu appendere un ritratto di Vladimir Jabotinskij sulla parete del proprio ufficio. Sebbene il discepolo avesse, suo malgrado, abbandonato alcuni principi del maestro, non vi è dubbio che Begin fu sempre fedele al nucleo della concezione di Jabotinskij; che egli fu un razzista, un colonialista, e devoto al capitalismo come il suo mentore. Il suo avvento al potere non fu qualcosa di rivoluzionario nel sionismo ma piuttosto un’estensione dello sviluppo intrapreso dai precedenti governi laburisti. Erano stati quei governi, e non Begin, a iniziare a creare nuove colonie in Cisgiordania. Furono loro a dire agli ebrei americani di votare per Nixon, e a formare i legami con la CIA. Fu Rabin, e non Begin, che invitò Vorster in Israele nel 1976. E fu il sionismo laburista, e non il revisionismo, che per primo armò i Falangisti in Libano. Jabotinskij fu in anticipo sui tempi, questo non va dimenticato. Il sionismo dovette attraversare alcune fasi prima di assumere la forma corrente. Begin non fu una sorta di mutazione sionista; il sionismo poteva svilupparsi solo dietro un muro di ferro e, alla fine, la sua ideologia ufficiale si saldò con la sua realtà.

106 13. La strada per Sabra e Chatila

La gestione dello stato di Israele da parte di Menachem Begin fu semplicemente un’estensione della precedente storia del sionismo e del movimento revisionista. A un’analisti approfondita appare chiaro che la sua politica condusse inesorabilmente al mostruoso massacro di Sabra e Chatila. Il suo fanatismo è evidente, e costa a Israele il sostegno e le relazioni con il mondo, oltre che soprattutto vite umane. Fin dall’inizio le questioni interne non furono mai la sua priorità, ma anche in quel campo fu ineluttabilmente reazionario. Solo in un ambito fu costretto a essere moderato: le attività economiche extra-sindacali dell’Histadrut e i kibbutz non furono disturbati, e solo una compagnia statale fu venduta. La burocrazia insista nel sistema si è rivelata impossibile da scalfire. Ma l’attacco di Begin al tenore di vita delle masse iniziò quasi subito, nel luglio 1977 e poi nell’ottobre. Seguendo il suggerimento dell’economista americano Milton Friedman, tagliò pesantemente i sussidi che avevano tenuto bassi i prezzi di beni essenziali come il pane e la benzina, aumentò le tasse e consentì la detenzione libera di valuta estera. Anche i burocrati dell’Histadrut, da tempo avvezzi a fungere da strumento del governo per imporre tagli ai salari dei lavoratori, furono spinti a chiamare un’ora di astensione dal lavoro. Tuttavia, prima che il malcontento di massa potesse diffondersi, Begin mise a segno un colpo diplomatico che per un periodo rese impossibile per qualunque sionista muovergli contro: il 9 novembre Anwar al-Sadat annunciò di voler venire in Israele con intenzioni di pace.

Sadat e gli Accordi di Camp David Il viaggio di Sadat a Gerusalemme, il successivo trattato di “Camp David”, il ritiro israeliano dal Sinai e infine l’assassinio del leader egiziano sono ben noti e non richiedono di essere tratteggiati se non per sommi capi. La capitolazione egiziana in un certo senso arrivò in ritardo. Sadat aveva rotto con l’URSS nei primi anni ’70, prima della guerra del 1973. Egli non pensava che l’Egitto e la Siria potessero vincere la guerra, il suo scopo fu convincere gli USA che gli arabi avrebbero potuto creare complicazioni in Medio Oriente e dunque che gli americani avrebbero dovuto costringere Israele a fare concessioni. Il suo viaggio in Israele fu semplicemente parte della strategia che vedeva negli USA l’elemento decisivo negli equilibri mediorientali. Egli sapeva che il Dipartimento di Stato aveva concluso, dopo la guerra del 1967, che Israele era l’unico regime di destra nella regione sul quale poter contare militarmente nella lotta contro l’ “espansionismo sovietico”, come il Dipartimento di Stato definiva i movimenti nazionalisti e socialmente radicali. Quel che Sadat cercò di fare fu convincere gli imperialisti che essi potevano in realtà contare sulle burocrazie statali arabe in tandem con il “fedele Ulster ebraico”. Questi elementi, staccati dalle masse, in determinate occasioni storiche hanno mobilitato il loro popolo per acquisire indipendenza dagli imperialisti, ma i loro legami economici con l’Occidente continuano e, alla fine, essi devono scegliere: o si reintegrano nell’economia capitalistica mondiale e cercano di risolvere gli immensi problemi di sviluppo economico interno con l’aiuto degli imperialisti, o si spostano a sinistra. Sadat comprese che gli americani non avevano alcuna intenzione di rompere con gli israeliani e che una precondizione per collaborare con Washington era una cessazione di fatto della lotta contro il sionismo. Egli scelse la strategia di offrire agli americani più di quanto non facesse Israele, isolando il bellicoso Begin che l’amministrazione Carter vedeva come un ostacolo all’apertura verso il mondo arabo e africano improvvisamente garantita da Sadat. La televisione fece del discorso di Sadat alla Knesset del 19 novembre 1977 un evento mondiale, ma l’audacia di questa mossa non potè mutare la realtà della situazione. Sebbene l’intero processo del trattato sia noto come “Camp David” dalla conferenza che ivi si svolse (5 – 17 settembre 1978), la forma finale degli accordi fu predefinita dalla dichiarazione di Jimmy Carter del 28 dicembre 1977, quando egli diede l’assenso a uno stato palestinese indipendente. Washington ben sapeva che l’indipendenza sarebbe stata vista come una vittoria dei palestinesi, e che avrebbe ispirato i rivoluzionari altrove raddoppiando i loro sforzi. Comunque, mentre Begin aveva assicurato ai fanatici coloni del Sinai che si sarebbe ritirato a Neot-Sinai, due miglia a est di El- Arish, su questo dovette obbedire a Carter, poiché nessun leader egiziano avrebbe potuto vendere la pace con Israele al suo popolo con gli insediamenti sionisti nel Sinai. Così il difensore delle tradizioni ebraiche ebbe buon gioco a prestare ascolto ai rabbini, che gli dissero che il Sinai non

107 era parte della Terra Promessa. (Tecnicamente essa inizia proprio là, precisamente sul “fiume d’Egitto”, il Wadi al-Arish, ma Begin sapeva che rivendicare il fiume era fuori questione. Né Carter né Sadat si preoccupavano dei dogmi biblici.)

Difetti degli Accordi I difetti degli accordi sono evidenti su tutta la linea: i palestinesi non avevano voce in capitolo; gli israeliani non acconsentirono a mantenere l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza per soli cinque anni; Gerusalemme fu esclusa dai trattati, lasciando lo status quo, ovvero il controllo e la sovranità israeliana. I poteri del cosiddetto consiglio autonomo non furono definiti ma avrebbero dovuto essere discussi da egiziani, giordani e israeliani. All’esercito israeliano sarebbe stato permesso di mantenere le postazioni laddove definito da egiziani, giordani e israeliani. Gli insediamenti esistenti sarebbero rimasti e la questione dei nuovi insediamenti non era definita. La possibilità del ritorno dei rifugiati sarebbe stata determinata da Israele e i due stati vicini e l’autorità palestinese sulla base della fattibilità economica e non del diritto. Le truppe americane, intese come forza “multinazionale” dovevano essere schierate tra l’esercito egiziano e quello israeliano, ma solo in territorio egiziano. Per indorare la pillola Washington provvide a fornire al Cairo aiuti economici e militari. Questa macroscopica violazione dell’elementare diritto all’autodeterminazione dei palestinesi fu grottescamente coronata il 27 ottobre 1978 dall’annuncio che Begin e Sadat avrebbero ricevuto il premio Nobel per la Pace. Dopo un acceso dibattito alla Knesset, in cui molti sodali di Begin, tra cui Moshe Arens (futuro ministro della Difesa) votarono contro gli accordi a causa dell’abbandono del Sinai, il trattato divenne realtà il 26 marzo 1979, anche se il cosiddetto piano per l’autonomia morì nella culla. Sadat fu poi assassinato il 6 ottobre 1981 da un fondamentalista islamico. Fu un caso se a ucciderlo non fu la sinistra: avendo rinunciato ai diritti di parte della nazione araba, fu considerato da tutti un traditore.

L’economia israeliana sotto Begin Economicamente, Israele sotto Begin andò incontro al disastro; sebbene il trattato aprisse le porte dell’Egitto ai prodotti israeliani, la politica beginista in Cisgiordania e successivamente in Libano alienò a tal punto l’opinione pubblica egiziana che l’attività commerciale dopo una spinta iniziale calò bruscamente. Incapace di commerciare con i vicini, a causa delle politiche del sionismo in generale e di Begin in particolare, l’economia israeliana divenne completamente politica, dominata dal militarismo in molti suoi aspetti. Sotto Begin Israele diventò il paese record in una serie di indicatori economici basilari: il più alto tasso di inflazione; il più alto debito estero pro-capite; le più alte tasse e, con circa un terzo dell’export industriale rappresentato da armi, il più grande esportatore bellico nel mondo in percentuale322. La piccola Israele ora è il settimo esportatore di armi al mondo e si può dire che senza questo export e senza gli aiuti americani il paese sarebbe in bancarotta323. La sua agricoltura è la più avanzata del mondo dal punto di vista tecnico, e il paese ha la più alta percentuale di laureati, ma questi indubbi talenti non possono uscire dall’ambito militare: Israele deve sfidare i fornitori di armi dei paesi arabi e, per la propria incapacità a vivere in pace con gli arabi, non ha intorno a sé un mercato per i propri beni di esportazione non militari. Esso si è rivolto verso la vendita di armi come soluzione dei propri problemi, agendo come alleato degli USA negli affari con quei regimi che Washington non può rifornire direttamente a causa dell’impopolarità dovuta alla repressione dei diritti civili. Questa politica ha soltanto generato ostilità globale nei confronti di Israele senza minimamente risolvere le sue difficoltà economiche strutturali. Come alternativa Israele deve costantemente fare affidamento su Washington per aiuti economici che contengano i suoi crescenti debiti a breve termine. E questo ha provocato un’erosione del sostegno politico degli USA, poiché gli americani non capiscono perché le risorse interne debbano essere tagliate mentre l’arsenale israeliano, già smisurato, debba essere ulteriormente aumentato. I salari reali iniziarono a calare immediatamente, del 3% nel 1977 e così via fino al 2,5% nel 1982324. Naturalmente essendo l’etica capitalistica egemone nell’Israele beginista, il fardello della sua economia è caduto sugli strati più poveri della popolazione, sia araba che ebraica, mentre i ricchi e parte della classe media, non pagando tasse sui guadagni finanziari, spinsero il valore

322 Thomas Stauffer, U.S. Aid to Israel: The Vital Link, 1983 323 ibidem 324 Jerusalem Post, 2 gennaio 1983 108 degli scambi alla Borsa di Tel Aviv da 66 milioni di dollari nel 1976 a 20 miliardi alla fine del 1982325. La resistenza della classe operaia agli attacchi di Begin non fu mai efficace. Dopo lo sciopero del 1977 vi fu una serie di lotte parziali dei singoli sindacati per il salario e il costo della vita e il 19 marzo 1979 l’Histadrut chiamò un altro sciopero nazionale, di mezza giornata, seguito da altre due ore di astensione generale il 13 agosto. Ma questi timidi tentativi non bastarono; nel periodo del governo laburista l’Histadrut era diventata poco più che una compagnia imprenditoriale e una grossa parte degli scioperi avveniva o direttamente contro le aziende dell’Histadrut o a gatto selvaggio contro ditte private. Con la sconfitta dei laburisti la burocrazia sindacale potè dare prova di un pò di autonomia dal governo, ma costoro non erano gli uomini in grado di condurre una lotta significativa contro lo status quo.

Antagonismi intra-ebraici Mentre il 70,5% dei segretari locali dell'Histadrut erano ebrei orientali, la percentuale scendeva a meno del 25% tra i membri dell'esecutivo centrale326. I burocrati della vecchia guardia laburista est- europea rimasero ciò che erano diventati - una casta superiore - e qualunque mobilitazione di massa avrebbe inevitabilmente rafforzato la richiesta di maggiore rappresentanza sefardita a livello nazionale. Begin nelle elezioni del 30 giugno 1981 guadagnò supporto tra le comunità orientali, ma in realtà i sefarditi persero terreno sotto il suo governo. La differenza di reddito tra ashkenaziti e sefarditi in realtà aumentò. Dal 1981 il reddito medio delle famiglie di lavoratori afro-asiatici era sceso dall’82,2% all’81,1% di quello dei salariati ashkenaziti327. Le famiglie sotto il livello di povertà relativa (40% del reddito medio) passarono dal 2,8% al 6.6%, e sebbene le famiglie a carico di lavoratori ebrei africani o asiatici di nascita fossero solo il 32,4% del totale, esse erano il 52,1% nel decile con reddito medio più basso328. Nell’aprile 1983 il tasso di disoccupazione in alcune “zone di sviluppo urbano” del nord, abitate soprattutto da orientali, salì al 10%, il doppio della media nazionale329. Vi fu una consistente crescita dell’antagonismo intra-ebraico da quando Begin giunse al potere, e per lo più egli ne beneficiò. Durante la campagna elettorale del 1981 a Petah Tikva i candidati dell’Allineamento furono bersagliati con spazzatura, a Gerusalemme gli ex ministri Yitzhak Rabin e Shimon Peres furono inseguiti e dovettero farsi scortare alle auto dalla polizia, la sezione laburista a Tel Aviv subì un attentato incendiario e le auto con adesivi dell’Allineamento spesso si ritrovarono con le gomme tagliate. Gruppi di orientali sovente zittivano gli oratori ai comizi al grido di “Begin re di Israele!”. Alla fine Begin fu costretto a dissociarsi dai teppisti: oggi Israele non può permettersi di perdere il sostegno degli ebrei della Diaspora, molti dei quali non sono pronti ad accettare una dittatura. La maggioranza delle masse sefardite si oppongono fortemente anche al movimento Peace Now, un fronte pacifista pro-Allineamento, perchè lo vedono come un gruppo ashkenazita. In rare occasioni l'ostilità intra-ebraica si è manifestata entro i confini della demagogia del Likud. Quando un ebreo orientale fu ucciso dalla polizia nel quartiere di Kfar Shalem nel dicembre 1982 mentre difendeva un edificio annesso illegalmente alla sua casa, nel ricco rione ashkenazita "Ashke Nazim" furono tracciate delle svastiche, e centinaia di sefarditi cacciarono fuori dal quartiere il sindaco del Likud, per il quale la maggior parte di loro aveva votato. Per comprendere a fondo il fenomeno politico degli "orientali" è necessario tenere presente che quasi il 12% delle donne israeliane, la maggior parte africane e asiatiche di nascita, sono completamente analfabete; che nel 1978 una ricerca dell'Università Ebraica rivelò che il 40% delle masse ebraiche non riusciva a seguire i notiziari televisivi perchè non era in grado di capire termini come "inflazione" e "crisi energetica"330; che l'esercito stima che tra 30 e 40mila giovani israeliani non hanno un livello di istruzione da scuola primaria; che 100.000 potenziali soldati non hanno fatto più di quattro anni di

325 New York Times, 16 gennaio 1983 326 Yael Yishai, Israel’s Right-Wing Jewish Proletariat, 1982 327 ibidem 328 ibidem 329 JTA Daily News Bulletin, 17 maggio 1983 330 Jewish Currents, marzo 1978 109 scuola331; e che solo il 2% degli israeliani nati da genitori afro-asiatici sono laureati (mentre i figli degli europei lo sono al 17,5%)332. Dato il livello culturale, le persecuzioni subite nei paesi di provenienza e il recente sfruttamento da parte della burocrazia dell'Allineamento, ci vorrebbe un grosso sforzo per promuovere un distacco degli orientali dall'Herut, visto che la disoccupazione aumenta e gli standard di vita sono sempre in calo. Questo l'Allineamento non sarà mai in grado di farlo, e per quanto riguarda l'OLP sebbene essa sia per lo stato laico e spesso nella sua propaganda sottolinei lo sfruttamento degli orientali, tuttavia non recluta ebrei. L'OLP non ha una strategia per staccare gli orientali dal sionismo, e lascia questo compito alla sinistra ebraica, in primo luogo i comunisti del Rakah. Il Rakah ha avuto un piccolo successo nel formare un'alleanza con alcuni reduci delle Pantere Nere, ma poichè è evidente che il conflitto centrale nel paese è tra i sionisti e l'OLP, la sinistra ebraica che sostiene i palestinesi non potrà superare la diffidenza degli orientali verso gli arabi finchè costoro non vedranno che i palestinesi non li vogliono uccidere, e non li accoglieranno all'interno della stessa organizzazione. Fino ad allora, finchè l'OLP non parlarà loro in ebraico, che è la lingua attuale dei giovani, finchè non emerge una strategia nei loro confronti, finchè non ci sono ebrei nell'OLP, i quartieri e le zone di sviluppo urbano abitate dagli orientali rimarranno le "Shankill Road"333 del "fedele Ulster ebraico".

Bigottismo religioso sotto Begin E’ stato detto che se il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto, la religione è di certo il primo. Se lo sciovinismo fu il primo idolo delle folle beginiste, la sua strategia parlamentare si fondò anche sull’assecondare gli ultra-ortodossi. Il Likud come tale non è mai stato abbastanza forte per governare da solo, e per formare una coalizione ha avuto bisogno di rivolgersi ai partiti religiosi, il Mizrachi, Agudas Israel e poi al Tami. Il Mizrachi si alleò ai revisionisti nei primi anni ’30, ma non pensò mai di seguirli fuori dalla WZO. E quando lo stato di Israele fu creato, esso entrò in coalizione col partito laburista e fece parte di tutti i governi per 29 anni, addentrandosi nei meandri della politica e imponendo allo stato le restrizioni dell’ortodossia. Agudas Israel si era opposta al sionismo fino all’Olocausto, consigliando la passività agli ebrei della Diaspora. Poiché quel consiglio portò al disastro, il movimento capitolò ideologicamente, accettando lo stato anche se non il sionismo. In ogni caso fino alla vittoria di Begin esso non entrò in alcuna coalizione di governo. Entrambi i gruppi sono socialmente molto conservatori, e il programma di politica interna di Begin non presentò alcun problema per loro. La sua intenzione di andare oltre le già grandi concessioni all’ortodossia garantite dall’Allineamento si mostrò allettante, e il National Religious Party (NRP, Mizrachi) entrò immediatamente nel primo governo Begin, mentre Aguda lo sostenne coi voti alla Knesset. Non fu facile per Begin spingere Israele ancora più avanti lungo la strada del bigottismo settario. Vi sono molti israeliani non religiosi, non solo tra i sostenitori dell’Allineamento ma anche nel Likud e pure nello stesso Herut. La svolta revisionista verso l’ortodossia iniziò all’epoca di Jabotinskij, ma quest’ultimo non era ortodosso, ed è difficile immaginare che avrebbe fatto alla religione le concessioni decise dai laburisti al governo, per non parlare dei provvedimenti di Begin. Questi dovette per lo più lasciare ai parlamentari del Likud la possibilità di votare secondo coscienza su questi temi, e di conseguenza impiegò molti anni a far passare dei temi che dopotutto non erano nel programma fondamentale del suo partito. Israele arruola le donne (solo le donne ebree) nel suo esercito: ma gli ortodossi hanno sempre sostenuto che le loro donne non potessero andare sotto le armi poichè dovevano essere sempre controllate prima dai padri e quindi dai mariti. L’esenzione fu permessa dai laburisti, ma era dovere della donna di provare la propria appartenenza all’ortodossia. Begin cambiò la regola, e ora le autorità accettano l’esenzione anche solo con un’autodichiarazione. A causa della lunga storia di persecuzioni cristiane contro gli ebrei, molti ebrei considerano con disprezzo gli ebrei convertiti al cristianesimo. Così Begin non ebbe difficoltà nel dicembre 1977 a far passare alla Knesset una legge per cui diventava punibile con la reclusione fino a cinque anni l’offerta di materiale propagandistico pro-conversione. Queste concessioni non mutavano più di tanto lo status quo e fu relativamente facile farle approvare, ma fino al gennaio 1980 Begin non

331 Jerusalem Post, gennaio 1982 332 Yael Yishai, Israel’s Right-Wing Jewish Proletariat, 1982 333 Shankill Road: via principale di Belfast Ovest, roccaforte dei paramilitari filo-inglesi. 110 riuscì a far cessare le manifestazioni di protesta che si svolgevano ogni venerdi a Tel Aviv, città a maggioranza Likud. La “riforma” più controversa fu il suo emendamento alla legge sull’interruzione di gravidanza che permetteva l’aborto per ragioni sociali. Quando nel novembre 1979 egli provò a far approvare l’emendamento non vi riuscì, nonostante il suo voto personale favorevole. Soltanto nel dicembre 1980 imponendo la disciplina di partito riuscì a far abolire l’aborto per ragioni sociali. Nel marzo 1980 fu approvata una legge per la quale soltanto i rabbini ortodossi avevano l’autorità di decidere chi potesse registrare i matrimoni ebraici, di fatto sancendo lo status di illegalità dei settori ebraici riformisti e conservatori, che tra loro annoverano la grande maggioranza dell’ebraismo mondiale, anche religioso. Mentre nella Diaspora i riformisti e i conservatori superano abbondantemente gli ortodossi, in Israele entrambi sono piuttosto insignificanti e non in grado di farsi valere. Sia l’Allineamento che il Likud hanno avuto buon gioco nel negare loro l’uguaglianza legale rispetto agli ortodossi poiché i loro colleghi all’estero sono profondamente borghesi e passivi politicamente. I riformisti e i conservatori della Diaspora sono imbarazzati per il fatto che Israele discrimini la loro fede, ma la loro fedeltà al governo è di carattere razzista: è uno stato ebraico, e dunque può permettersi di discriminare i loro diritti, in un modo che in altri paesi susciterebbe vibranti proteste, anche da parte di queste anime candide. Begin aveva promesso di fermare i voli della El-Al al sabato, ma ciò comprensibilmente avrebbe provocato l’opposizione dell’Histadrut, preoccupata per la perdita di posti di lavoro e per la perdita di 50 milioni di dollari di introiti statali, per lo più in valuta estera. Ma la El-Al fallì e dovette essere riorganizzata. L’Histadrut, preoccupata solo del salvataggio della compagnia anche a costo di operare dei tagli, diede il via libera alla riorganizzazione e anche alla nuova politica di assenza di voli al sabato. Per molti aspetti l’aspetto più scandaloso della politica religiosa di Begin coinvolse il suo ministro Aharon Abuhatzeira, che nel 1981 fu processato per illecito finanziario. Abuhatzeira non fu riconosciuto colpevole poiché uno dei suoi complici, testimone per conto dell’accusa, venne meno al proprio ruolo. Tuttavia due giudici dichiararono che vi era “pesante sospetto” su uno dei conti correnti del ministro. Questi ammise a sua volta che dei fondi erano assegnati alle organizzazioni religiose sulla base di considerazioni politiche. Il Procuratore Generale presto formulò nuove accuse sulla base delle attività svolte da Abuhatzeira quando era sindaco di Ramle. Il ministro era di origine marocchina e di certo i suoi seguaci videro le accuse nei suoi confronti come un complotto ashkenazita contro i sefarditi. Abuhatzeira lasciò il NRP per costituire un suo partito, il Tami (Movimento per la Tradizione Ebraica), che rapidamente acquisì il sostegno di Nessim Gaon, il ricco capo della Federazione Sefardita Mondiale, e di due altri parlamentari orientali. Nelle elezioni del 1981 il nuovo partito prese solo il 2,3%, ma Begin necessitava dei suoi tre voti alla Knesset per la sua coalizione post-elettorale e Abuhatzeira, nonostante le accuse, fu nominato ministro del Lavoro e dell’Immigrazione nel nuovo governo. Egli è stato poi riconosciuto colpevole di corruzione e condannato a tre mesi di servizi sociali, svolti presso una stazione di polizia. Quando fu fondata la WZO, molti dei primi sionisti videro il loro movimento come un fattore di secolarizzazione e riforma della vita ebraica. In realtà non accadeva affatto ciò, al contrario il sionismo rappresentò un freno alla secolarizzazione degli ebrei. Ciononostante nei primi tempi la maggioranza dei teorici sionisti non erano ortodossi e molti erano sinceri liberali. Dopo la fondazione dello stato, però, la maggioranza degli immigrati furono ortodossi, e così è ancora oggi; inevitabilmente il movimento ha assunto un carattere sempre più religioso. Molti dei sionisti più o meno laici dell’epoca passata alla fine hanno fatto la loro personale “pace con Dio”. Non solo Jabotinskij assecondò l’ortodossia, ma anche Ben-Gurion, che non osservava le usanze alimentari ortodosse, diede mandato affinchè tutte le cucine dell’esercito servissero cibo kosher. Il mondo giustamente ha concentrato la sua critica all’ostilità razzista del sionismo verso i palestinesi, ma il suo recente ruolo di difensore del bigottismo ortodosso nel mondo ebraico non deve essere minimizzato. Per Begin, il maggior pericolo per il sionismo nella Diaspora è il crescente livello di assimilazione culturale e di matrimoni misti tra i giovani. Per controbattere le sue indicazioni furono che i genitori avessero cura che i figli imparassero la lingua ebraica e le sacre scritture. Inoltre, sebbene per la Legge del Ritorno ogni ebreo convertito a qualunque altra religione non è sia più considerato un ebreo, il sionismo moderno in particolare durante il governo di Begin individua i suoi migliori alleati nell’ultradestra cristiana evangelica americana, fondamentalista e razzista, decisa a porre fine alla separazione tra stato e chiesa negli USA. Begin ebbe stretti legami con

111 Jerry Falwell della Moral Majority, che ritiene che il “raggruppamento” degli ebrei nella “Terra Promessa” sia una precondizione per il ritorno del Messia sulla Terra.

Dall’aratro alla spada: le esportazioni di armi israeliane Israele attualmente è il settimo esportatore mondiale di armamenti, e i suoi clienti formano il “who’s who” della destra mondiale. Secondo l’annuario SIPRI del 1980, pubblicato dal Stockholm International Peace Research Institute (le cui statistiche riguardano i tardi anni ’70), il principale cliente di Israele era il Sudafrica, seguito dall’Argentina e quindi da Salvador334. Altri acquirenti sono ora Haiti, Guatemala, Honduras, Costa Rica, Cile, Zaire, Taiwan e Filippine. Un caso particolarè è l’Iran, che ufficialmente è del tutto anti-sionista, ma che Israele ha armato per la prosecuzione della guerra contro l’Iraq335. E’ importante comprendere bene che Israele a iniziato a svolgere la funzione di arsenale della reazione mondiale sotto il governo laburista, e continuerà così sotto qualunque amministrazione. Si può quindi affermare con certezza che solo la sconfitta del sionismo farà finire il suo traffico di armi. Sotto Begin qualunque preoccupazione per l’opinione pubblica mondiale svanì e di fatto sotto il Likud i politici israeliani parlano apertamente del proprio ruolo di intermediari degli Stati Uniti. Il ministro Yaakov Meridor, predecessore di Begin a capo dell’Irgun, disse ad Haartez il 25 agosto 1981:

Noi diciamo agli americani: non fateci concorrenza a Taiwan, non fateci concorrenza in Sudafrica, non fateci concorrenza nei Caraibi o in altri posti dove non potete vendere armi direttamente. Lasciate che lo facciamo noi. Venderete armi e munizioni attraverso un intermediario. Israele sarà il vostro intermediario.

Secondo tutti gli indici, il Sudafrica è il secondo miglior alleato di Israele dopo gli USA. Alcune volte dopo l’ascesa di Begin al potere il ministro degli Esteri sudafricano Reolof Botha fece visita in Israele, come riportato dal Christian Science Monitor il 7 settembre 1977. Da allora innanzi le cisite divennero pubbliche. Nel febbraio 1978 il ministro delle Finanze Simcha Ehrlich si recò a Pretoria e Haartez riportò (7 febbraio) che Israele avrebbe svolto la funzione di punto di raccolta dei beni sudafricani che sarebbero stati esportati in USA e Comunità Europea come prodotti israeliani, aggirando il boicottaggio contro il regime di apartheid. Il 14 dicembre 1981 il New York Times riportò che il ministro della Difesa Ariel Sharon aveva appena trascorso dieci giorni con l’esercito sudafricano in Namibia:

Sharon…ha detto che il Sudafrica è uno dei pochi paesi dell’Africa e dell’Africa sudoccidentale che sta provando a resistere all’infiltrazione militare sovietica…Sharon…ha affermato che il Sudafrica abbisogna di più armi più moderne se vuole contrastare con successo le truppe sostenute dall’URSS336.

Il 23 giugno 1981 il Rand Daily riportò la notizia che Israele stava addestrando i guerriglieri dell’UNITA in Namibia, contro il governo angolano: in settembre l’Economist scrisse che vi erano 200 addestratori israeliani in Sudafrica337. Per sua natura, lo sviluppo di armi nucleari israelo-sudafricane è avvolto dal segreto, ma della sua esistenza non si può dubitare. Ancora una volta, esso è iniziato sotto l’Allineamento, ma sembra avere subito un’accelerazione sotto il Likud. Nel marzo 1980 l’allora ministro della Difesa Ezer Weizman fece un viaggio “segreto” in Sudafrica, ma la stampa israeliana riportò che la missione era legata allo sviluppo di un sottomarino nucleare. L’11 dicembre Haaretz citò resoconti su una cooperazione tra Taiwan, Sudafrica e Israele per produrre un missile da crociera d’avanguardia338. Il 17 maggio 1982 Haaretz recensì un nuovo libro, Two Minutes Over Baghdad, affermando che lo stesso terzetto di paesi aveva sviluppato una bomba a neutroni e lavorava a un missile con gittata di 2.400 chilometri, oltre che a un cannone nucleare339.

334 SIPRI Yearbook 1980 335 New York Times, 8 marzo 1982 336 Benjamin Beit-Hallami, Israel and South Africa 1977-82: Businness as Usual – and More, 1983 337 New York Times, 14 dicembre 1981 338 Benjamin Beit-Hallami, Israel and South Africa 1977-82: Businness as Usual – and More, 1983 339 ibidem 112 Supporto USA a Israele L’amministrazione Carter fece alcune uscite sui diritti umani e a volte criticò la politica israeliana nei territori occupati, ma in generale Carter appoggiò Begin. Anche Reagan qualche volta manifestò disappunto nei confronti di Begin. Dopo che quest’ultimo ebbe bombardato il reattore nucleare di Osirac a Baghdad il 7 giugno 1981, sospese la consegna di alcuni aerei caccia, per poi effettuarla in agosto. Nel dicembre di quell’anno Reagan sospese il protocollo di intesa per la cooperazione strategica, appena siglato, dopo che Begin ebbe esteso la legislazione civile alle Alture del Golan, di fatto annettendole. L’invasione del Libano nel giugno 1982 spinse Washington a ritardare la possibile vendita di 75 aerei F16, e a interrompere i rifornimenti di cluster-bombs. Alla fine Washington è tornata sui propri passi: il 14 giugno 1983 ha annunciato di essere disposta a riattivare il memorandum se Israele lo vuole. La giustificazione fornita di solito è che Israele debba essere “rassicurato” che l’America non abbia intenzione di metterne a repentaglio la sicurezza. In questo modo, è stato detto, Begin si mostrerà più “flessibile” nei confronti dei palestinesi. Naturalmente questo è assurdo, e l’Herut non cederà un pollice di “Eretz Israel”. Al di là del proprio fanatismo, Begin è estremamente scaltro da un punto di vista pratico e ha compreso la politica americana molto più di quanto i politici americani comprendano il sionismo. Egli sa che gli USA hanno bisogno di Israele più di quanto Israele abbia bisogno degli USA. Per la classe dominante americana, il Golfo Persico è cruciale: essa è consapevole che se il petrolio saudita uscisse dalla sua sfera d’influenza ciò significherebbe la fine del suo dominio globale, e perciò ha armato fino ai denti quel paese, così come l’Egitto, la Giordania, l’Oman, lo Yemen del Nord e il Sudan. Tuttavia non ha fiducia in alcuno di questi regimi, che hanno una storia di colpi di stato e uccisioni. Peggio ancora, in tutti questi paesi il nazionalismo panarabo è l’ideologia dominante tra le masse. La simpatia per la Palestina è molto diffusa, e dunque Israele in particolare con Begin rappresenta una fonte costante di profonda ostilità sociale. I governi pro-USA naturalmente non hanno alcun interesse nel sobillare le masse contro Israele, perchè ciò vorrebbe dire suscitare forze che rapidamente si volgerebbero contro loro stessi. Ma la loro passività durante l’invasione del Libano è servita solo a renderli più odiati. Gli USA sanno di non poter contare su alcun esercito arabo per far fronte a un’eruzione di fermento nazionalista, che potrebbe manifestarsi per le più diverse ragioni incluso una provocazione israeliana. Alla fine, anche se Israele suscita un’ostilità di massa che potrebbe mettere a repentaglio lo status quo, il suo esercito è l’unica forza locale su cui gli americani pensano di poter contare per aiutarli a reprimere una qualunque rottura rivoluzionaria. Reagan sa che i regimi reazionari non faranno nulla per cercare di fermare questa alleanza strategica con Israele. Begin per molti anni ha cercato di convincere gli USA che Israele è cardine della difesa del “mondo libero” contro l’ “aggressione sovietica” e sa che qualunque preoccupazione dell’America per la tendenza israeliana alla guerra non lo deve turbare più di tanto. In ogni caso i Democratici sono molto più filo-israeliani dei Repubblicani, e il governo israeliano quindi non è preoccupato dell’eventualità che Reagan non venga rieletto. Di solito i Democratici ricevono i finanziamenti per la loro ricca campagna elettorale da due fonti: le burocrazie sindacali, legate all’Histadrut in maniera ufficiale e non; e gli ebrei ricchi, che sono dalla loro parte sin dai tempi dell’immigrazione ebraica negli USA. Questi stessi finanziatori sono i principali supporters di Israele ed è impensabile che qualche elemento di spicco del partito democratico, eccetto forse i Blacks, possa rompere questo schema340. Già i Democratici al Congresso hanno spinto un riluttante Reagan ad aumentare i contributi a fondo perduto a Israele per l’anno 1984, arrivando a 400 milioni di dollari341. Jabotinskij insistette sempre che il destino del sionismo era legato integralmente a quello del capitalismo e dell’imperialismo; nel turbolento Medio Oriente odierno il destino del capitalismo è a sua volta legato al sionismo. Dunque sebbene i politici americani si augurino devotamente che il Likud venga rimpiazzato dal “responsabile” Allineamento (che farebbe alcune concessioni ai giordani e forse anche ai palestinesi), se non vi sono ulteriori complicazioni come il massacro di Beirut il sostegno degli USA, per quanto riluttante, è in ogni caso assicurato.

Il Popolo Eletto sceglie ancora: le votazioni del 1981 Il punto più basso della popolarità di Begin fu indubbiamente il gennaio 1981, quando fu costretto a convocare elezioni anticipate al 30 giugno, quattro mesi e mezzo prima della scadenza naturale

340 Stephen Isaacs, Jews and American Politics, 1974 341 New York Times, 29 maggio 1983 113 del suo mandato. Era scoppiata una lite tra due ministri: il titolare dell’Educazione sostenne una commissione ministeriale che raccomandava un aumento del 60% dello stipendio degli insegnanti, e il ministro delle Finanze vi si oppose per il rischio di rivendicazioni in altri settori. Quando il governo appoggiò l’aumento, il ministro delle Finanze si dimise e il Rafi, il suo partito, uscì dal Likud. Al calo dei salari reali e al forte aumento dell’inflazione, la più alta a livello mondiale, si aggiunsero le dimissioni del ministro degli Esteri Moshe Dayan e poi di Ezar Weizman, ministro della Difesa (entrambi convinti che il rifiuto di Begin di negoziare la minima autonomia per Gaza e la West Bank, per la quale anche Carter aveva insistito a Camp David, potesse indispettire il governo e l’opinione pubblica americana). La popolarità di Begin calò a un misero 14% nei sondaggi. Il programma dell’Allineamento era in primo luogo focalizzato sulle proprie proposte di accordo per una soluzione della questione palestinese. Per Begin la sovranità ebraica su Eretz Israel era un principio sacro, e rinunciare a un solo pollice della West Bank o di Gaza rimaneva sempre fuori questione. Per l’Allineamento quei territori erano una dote allettante, ma la sposa non lo era. Secondo programma originario del Partito Laburista:

Israele è sempre stata destinata ad essere uno stato ebraico, indipendente e democratico, che mantiene piena eguaglianza di diritti per tutti i suoi cittadini senza differenza di fede o nazionalità. In base a questo scopo storico, la politica del Likud, che mira all’annessione dell’intera West Bank e di Gaza coi suoi abitanti, deve essere respinta. Questa politica trasforma Israele da stato ebraico a stato binazionale342.

I laburisti sapevano che a lungo andare Israele può sopravvivere solo in tandem con le posizioni di Washington. Ciò che proponevano erano essenzialmente gli accordi di Camp David come interpretati da Carter: essi appoggiavano la “soluzione giordana”, ovvero la cessione delle aree densamente abitate a Hussein (ma lasciando gli insediamenti esistenti sotto la sovranità israeliana), e la costruzione “soltanto” di nuovi “insediamenti di sicurezza” in aree disabitate (la Valle del Giodano, il Mar Morto, la costa tra Egitto e Gaza). Israele avrebbe tenuto anche la maggior parte del Golan (per ragioni di sicurezza ovviamente l’esercito avrebbe dovuto restare in quelle zone) e i rifugiati palestinesi sarebbero stati ricollocati in West Bank o in Giordania. I lettori attenti non avranno difficoltà a comprendere che questo programma non possa assolutamente portare alla pace (nessun palestinese degno di tale nome accetterebbe un bantustan), ma per almeno provare a metterlo in pratica i laburisti avevano bisogno di battere Begin, che era in difficoltà ma non fuori gioco. Si misero allora a discutere su chi sarebbe stato ministro di cosa nel governo che erano sicuri di conquistare. E così facendo la loro prevalenza nei sondaggi cominciò a calare giorno dopo giorno. Come abbiamo visto essi non avevano alcun programma concreto per portare gli orientali all’uguaglianza con la loro base askenazita, e il ministro delle Finanze di Begin annunciò astutamente nuovi provvedimenti economici, che tutti gli osservatori internazionali giustamente definirono “economia elettorale”, che di certo avrebbe aumentato il debito estero e che poteva essere pagata soltanto dai contribuenti americani. Vi furono tagli alle tasse sui beni di consumo durevoli, come televisori e automobili, entrambi importati; blocco dei prezzi e crescita dei sussidi per tenere bassi i beni primari. Chiaramente tutto ciò era senza senso per una coalizione che aveva sempre arringato l’opinione pubblica sulle virtù dell’austerity, ma queste “riforme” fecero riavvicinare a Begin la classe media liberale ashkenazita. E se anche la posizione dell’Allineamento sulla questione palestinese era cinicamente sciovinista, non potè mai competere con quella di Begin in questo campo: tre settimane prima delle elezioni i piloti dell’esercito bombardarono il reattore nucleare di Osirac a Baghdad. Il calo dei prezzi e le bombe insieme fecero il loro effetto, e le masse orientali manifestarono la loro rabbia nei confronti degli strati sociali ashkenaziti attaccando con violenza i comizi dell’Allineamento, a tal punto che gli stessi sostenitori ashkenaziti di Begin cominciarono a preoccuparsi, ed egli fu costretto a pronunciarsi pubblicamente contro i propri veementi supporter. Alla fine, il voto fu deciso dalle alleanze. L’Allineamento salì dal 24,6% al 36,6%, ma solo perché il Movimento Democratico per il Cambiamento si era sciolto durante il precedente mandato, e la sua classe media askenazita era tornata ai laburisti. Anche il Likud crebbe, dal 33,4% al 37,1%, aumentando il voto tra gli afro-asiatici dal 46% al 66% (dal 65% al 72% tra i loro figli nati in

342 The Middle East, marzo 1981 114 Israele). Tra gli elettori nati in Europa il Likud passò dal 19% al 24% e tra i loro figli nati in Israele dal 23% al 32%. Il distacco tra i due principali contendenti era molto limitato, ma i tre partiti religiosi (NRP, Tami e Aguda) alla fine si ritrovarono a destra con Begin su molti temi, e dunque quest’ultimo ebbe il mandato per continuare il suo percorso politico già tracciato, e portare il paese ancora più avanti sulla strada della teocrazia.

L’aumento del razzismo Sebbene la politica di Begin in Cisgiordania attirasse più attenzione, la sua politica verso la minoranza araba-israeliana, pari al 17% della popolazione (tecnicamente cittadini di Israele con eguali diritti secondo la Dichiarazione di Indipendenza), dimostra ciò che è la base fondamentale del sionismo: il razzismo. A questo riguardo Begin non fece che proseguire la costruzione dell’impianto discriminatorio già messo in cantiere dall’Allineamento; ciononostante fece alcune innovazioni. Poiché Israele è uno stato vassallo degli USA, che hanno una serie di leggi che formalmente garantiscono l’eguaglianza, e i sionisti non vogliono suscitare l’ostilità dei liberali colà attraverso il varo di discriminazioni “ufficiali”, il razzismo si manifesta in maniera ipocrita. Ciò però ha cominciato a cambiare con Begin. La progressiva cancellazione dei sussidi per i beni alimentari ha obbligato il governo a “compensazioni” nei confronti degli ebrei più poveri, che come abbiamo visto sono i principali sostenitori del Likud. Meron Benvenisti su Haartez ha spiegato come Begin abbia astutamente discriminato gli arabi poveri. L’esercito israeliano è ufficialmente discriminatorio: vi sono ammessi i maschi ebrei e i maschi drusi (che sono arabi ma con una religione estremamente accomodante verso qualunque ordine costitutito), ma i cristiani non sono ammessi, neppure come volontari. I musulmani delle città (la maggioranza della popolazione araba) non sono ammessi né come reclute né come volontari; i beduini sono ammessi solo come volontari, tradizionalmente essi sono ostili ai musulmani delle città e indifferenti al nazionalismo; la minoranza dei Circassi, musulmani ma non arabi, non sono ammessi343. Benvenisti prosegue:

Gli arabi sono stati discriminati da quando esiste lo stato di Israele. Gli arabi israeliani vivono nel buio della discriminazione in ogni aspetto della vita. L’attuale governo ha solo cambiato le modalità, non la sostanza. Fino ad ora la discriminazione era giustificata con argomentazioni “oggettive” e “pratiche”, come la sicurezza…Ora sembra che il governo non abbia bisogno di queste spiegazioni edulcorate344.

Queste leggi sui militari si sono diffuse in altri ambiti occupazionali, come quando nel 1978 il ministro dei Trasporti cambiò le regole nella marina mercantile stabilendo che per avere una promozione ai livelli più alti fosse necessario avere svolto il servizio militare345. Le discriminazioni sono state estese anche nell’educazione. Nel 1982 le esenzioni dai pagamenti scolastici erano garantite ai veterani dell’esercito, altre forme simili furono introdotte, in particolare borse di studio e prestiti agli studenti delle zone di sviluppo urbano; ma queste erano quasi tutto abitate da orientali, e solo una città araba è stata indicata come zona di sviluppo urbano346. Alcuni sociologi hanno osservato che uno dei migliori modi per valutare una società è il modo in cui questa tratta le donne. Qui il governo del Likud è un passo avanti rispetto al suo predecessore poiché il 1 gennaio 1982 è entrata in vigore una legge sulle pari opportunità nell’occupazione, che vieta annunci e assunzioni discriminatorie. Tuttavia Nitza Shapira-Libal, consulente di Begin sulle questioni femminili, ha ammesso candidamente che la legge non riguarda le dimissioni per maternità, promozione o pensionamento; e naturalmente non tutela le donne arabe347.

La situazione in Cisgiordania Le condizioni del palestinesi in Cisgiordania e a Gaza sono ben note, essendo state documentate sulla stampa mondiale per molti anni, e non è necessario aggiungere qui materiale informativo, salvo sottolineare che le libertà civili che ogni americano o europeo occidentale conosce

343 Haaretz, 15 agosto 1979 344 ibidem 345 Haaretz, 20 aprile 1982 346 Jerusalem Post, 8 maggio 1983 347 Jewish Currents, aprile 1982 115 semplicemente qui non esistono: non ci sono partiti politici o sindacati legali, e gli scioperi sono fuorilegge. La stampa è completamente censurata, chiunque può essere arrestato o imprigionato a discrezione delle autorità senza processo, oppure con un processo davanti al tribunale militare. Nel 1977 il London Sunday Times affermò senza mezzi termini che gli israeliani, in questo caso l’Allineamento, compivano torture sistematiche nei Territori. Da allora Begin ha ribadito che il suo governo non ammetteva la tortura. Ma il 1 maggio 1979 il New York Times pubblicò una fotografia di Ismail Ajweh, editore del giornale di Gerusalemme Est Al Shaab, sottoposto alla macchina della verità sotto gli occhi di Mordechai Gazit, ex direttore del laboratorio poligrafico della polizia: Ajweh fu detenuto per 120 giorni senza accuse, e affermò di essere stato torturato per 18 giorni, e poi fu messo in isolamento per 60 giorni. Gazit disse:

Sulla base delle evidenze raccolte dal poligrafico, ci sembra che mr. Ajweh abbia detto la verità e che effettivamente sia stato torturato durante gli interrogatori.348

La brutalità non si è mai fermata. Il 31 maggio 1983 il New York Times riportò un’altra vicenda, basata su un’intervista con Arthur Kutcher, un riservista israeliano nato in America reduce da un periodo di stanza in Cisgiordania. Tra le altre cose egli disse che:

..era stato assegnato alla guardia delle celle in cui venivano rinchiusi i prigionieri dello Shinbet, celle senza finestre e senza servizi, in cui i prigionieri venivano tenuti per un giorno o due. Sebbene egli non vi fosse entrato, potè vedere che le finestre erano murate e vi era un terribile odore. L’odore era quello di un gabinetto sporco349.

Non ci si può sbagliare su quelli che sono gli scopi del terrorismo di stato sionista in Cisgiodania. Nel 1982 Robert Friedman, editore di Present Tense, una rivista dichiaratamente filo-sionista, intervistò Hagai Lev, inviato da Begin a New York per guidare la sezione americana dell’Herut. Friedman spiega che:

Né Lev né Begin…invocano l’espulsione forzata dei palestinesi dalle loro case in Cisgiordania e Gerusalemme Est…Ma, sottolineando che Israele ha un problema nei territori occupati, poiché Giudea e Samaria difficilmente possono essere ebraiche con una popolazione di 1 milione di arabi e solo 20.000 ebrei, Lev suggerì che gli arabi alla fine si sarebbero stufati di vivere sotto il controllo israeliano e se ne sarebbero andati “volontariamente”. Di fatto questo sta già accadendo, notò Lev con un certo entusiasmo, poiché il numero degli arabi in Cisgiordania è rimasto costante dal 1967, anche se l’area ha il più alto tasso di nascite al mondo350.

348 New York Times, 1 maggio 1979 349 New York Times, 31 maggio 1983 350 Present Tense, autunno 1982 116 14. Olocausto a Beirut

Begin sicuramente passerà alla storia innanzitutto per i massacri di Deir Yassin e di Beirut. Anche se si può ammettere che l’invasione del Libano fu un successo militare (dopotutto l’OLP fu cacciata dal confine e da Beirut, e di fatto eliminata come forza militare autonoma), il massacro di Beirut fu un disastro politico così grave che rappresenterà un punto di svolta decisivo nella storia dello stato di Israele, nonostante il fatto che Begin sia riuscito a rimanere al potere dopo il massacro, e che i suoi protettori americani in realtà abbiano aumentato il supporto materiale verso di lui. Perché alla fine la celebre massima di von Clausewitz è vera: la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Ma né Begin né nessun altro potranno vincere per sempre l’ostilità interna e l’isolamento globale attraverso la guerra. Nel mondo moderno è l’opinione pubblica attiva, espressa attraverso le manifestazioni e i movimenti, che risulta decisiva, non gli armamenti. Se i capitalisti americani appoggiano ancora il Likud, con tutte le riserve del caso, milioni di americani comuni, che erano in larga parte pro-Israele quando iniziò l’invasione, presto hanno visto Begin come hanno giudicato tempo addietro Richard Nixon, ovvero l’incarnazione del male. Ancora più importante: il massacro ha fatto scendere in piazza 400.000 israeliani, dei quali almeno 300.000 ebrei, per una delle più grandi manifestazioni contro la guerra dell’epoca moderna. Che costoro per la maggior parte si ritengano sionisti è cosa non da poco, ma quando le masse si radicalizzano di solito portano con sé le ideologie instillate in loro dalle istituzioni della società in cui vivono; esse sognano una versione idealizzata di ciò che hanno appreso. Solo attraverso la verifica dell’impossibilità di realizzare le proprie aspettative esse si rendono conto che la rivoluzione è l’unica soluzione possibile alle loro aspirazioni. Il crescente movimento antimilitarista tra i soldati imparerà abbastanza presto che i dirigenti dell’Allineamento e di Peace Now non sosterranno un serio movimento di obiettori dentro l’esercito israeliano, così come non si oppongono alle politiche del Likud. Alla fine questi soldati si renderanno conto di dover andare oltre costoro, e oltre il sionismo, per unirsi con la vittima principale di quest’ultimo, i palestinesi, in un nuovo movimento laico e democratico per una Palestina laica e democratica.

La programmazione dell’invasione Non c’è dubbio che il tentativo di assassinio di Shlomo Argov, ambasciatore israeliano in Gran Bretagna, il 3 giugno 1982, fu solo il pretesto per l’invasione del Libano. L’OLP non ebbe nulla a che fare con la vicenda Argov, e pochi giorni dopo il Primo ministro inglese Thatcher affermò che gli attentatori erano della fazione anti-OLP di Abu Nidal, e che i rappresentanti dell’OLP a Londra erano nella “lista nera” di quei terroristi351. David Shipler, corrispondente in Israele del New York Times, molto bene informato, scrisse dopo il massacro che il piano iniziale di invasione fu messo a punto nella primavera del 1981, innanzitutto per far fronte a quella che allora sembrava l’imminente sconfitta della destra libanese alleata di Israele. Il piano dovette essere accantonato quando gli americani ottennero dall’OLP l’adesione al cessate il fuoco del luglio 1981, ma Sharon era determinato ad portarlo avanti e lo discusse con diversi diplomatici (presumibilmente americani). Egli voleva metterlo in atto prima delle elezioni presidenziali libanesi del settembre 1982. In realtà il piano fu poi divulgato e la rivista parigina sionista di sinistra, Israel and Palestine, ne fornì una descrizione estremamente accurata nel marzo 1982:

Questo piano strategico straordinariamente articolato, sottoposto a test stile “giochi di guerra” in varie war-rooms computerizzate in giro per il mondo, prefigura con un’unica manovra quello che sarà il futuro scenario secondo la strategia “minimalista” di Gerusalemme: destabilizzazione dell’OLP, conquista del sud del Libano fino al fiume Litani e creazione di una dinastia falangista guidata da Bashir Gemayel in quello che rimarrà del Libano; con alcune aree annesse alla Siria e altre enclave governate da musulmani obbedienti…la maggior parte dei palestinesi oggi in Libano verranno deportati (o cacciati dall’ondata di guerra e uccisioni) nella vicina Giordania…Il piano include anche la presa della capitale libanese per eliminare o comunque disgregare l’attuale leadership dell’OLP. La presa di Beirut sarà seguita dalla internazionalizzazione

351 New York Times, 7 giugno 1982 117 dell’occupazione libanese e si concluderà col ritiro israeliano (dopo la fine della prima ondata di uccisioni) e la sostituzione con una forza internazionale sotto controllo americano352.

La crisi del mondo arabo La guerra, come la politica, è un evento dialettico, un’interrelazione tra estremi. Israele non avrebbe potuto irrompere in Libano senza i fallimenti dell’establishment politico arabo, OLP compresa. Saddam Hussein in Iraq aveva invaso l’Iran ed era stato respinto al confine. Nel tentativo disperato di uscire dalla guerra che aveva iniziato, Saddam chiamò Khomeini per concordare un cessate il fuoco cosicchè entrambi potessero intervenire in sostegno dei palestinesi. Gli iraniani speravano di infliggere un colpo mortale agli iracheni, e la guerra sul terreno proseguì, a danno della causa palestinese. Gli stati dichiaratamente capitalisti, Giordania, Arabia Saudita e Emirati del Golfo, non avevano interesse a combattere per i palestinesi e dunque si schierarono dalla parte dell’Iraq, temendo che una vittoria di Khomeini nel conflitto avrebbe suscitato rivolte popolari nelle loro stesse società. Hosni Mubarak, erede politico di Sadat, rimase sulle posizioni filo-imperialiste del predecessore, e gli stati del Maghreb non fecero nulla. La Libia di Gheddafi, con le sue ricchezze e i suoi armamenti, ma con solo due milioni di abitanti e separata da Israele da un Egitto ostile e numericamente superiore, potè solo offrire all’OLP il suggerimento di non ritrarsi da Beirut e di compiere un “suicidio rivoluzionario”. L’esercito siriano è competitivo ma la sua aeronautica è stata battuta nettamente dagli israeliani, che hanno infierito sul suo sistema di difesa missilistica. I siriani si sono presto resi conto che il proprio esercito sarebbe stato distrutto da Israele, e di fatto si sono ritirati dalla guerra. Le truppe dell’OLP si sono battute coraggiosamente, ma senza aerei e senza carri armati la loro situazione in una guerra di posizione era senza speranze. In seguito molti palestinesi hanno accusato i propri dirigenti per il fatto, tra le altre cose, di avere separato le milizie dal resto della popolazione, che non era armata. Senza dubbio gli israeliani avrebbero esitato se avessero saputo di trovarsi di fronte a un intero popolo armato, o se avessero attaccato avrebbero avuto un numero di vittime molto più elevato, ma questa grave mancanza fu solo uno degli aspetti negativi della condotta dell’OLP prima dell’invasione. Per anni prima della “tregua” del luglio 1981 le fazioni dell’OLP si erano fatte concorrenza una con l’altra in inutili incursioni, dando luogo a raid di fedayin dall’esito suicida, per concludere nel marzo e aprile 1981 con patetiche azioni oltreconfine mediante deltaplani e palloni aerostatici353. In Palestina, le bombe presero il posto delle mobilitazioni della maggioranza araba in Galilea e nei territori occupati. Sebbene vi fossero diverse dimostrazioni spontanee e alcune organizzate, la leadership militarista in esilio a Beirut non le prese mai nella dovuta considerazione. Dopo la rotta dalla Giordania nel 1970, i dirigenti dell’OLP cominciarono a perdere fiducia nell’idea di stato democratico e laico su tutta la Palestina. Dopo il 1974, quando adottarono un utopico programma riformista ad interim che prevedeva un mini-stato in Cisgiordania, i loro tentativi di attacchi militari divennero poco più che violente sfuriate messe in atto per far presente al mondo la situazione dei palestinesi, nella speranza che l’Occidente facesse pressione su Israele costringendolo a ritirarsi dalla Cisgiordania. Coerentemente con la scarsa fiducia nutrita nella diplomazia, l’OLP – e in particolare la sua fazione più importante, Fatah di Yasser Arafat – scelse di non interferire negli affari interni degli stati arabi, sebbene fosse ben chiaro che la maggior parte di quei regimi erano o apertamente o segretamente ostili alla causa palestinese. L’OLP scelse la linea dell’opposizione minima, cercando di ottenere da quei regimi ciò che poteva, e alla fine ricevette dei finanziamenti da due dei più dispotici, l’Arabia Saudita e il Marocco, ben sapendo che si trattava di contentini elargiti dai due governi anche per riacquistare credibilità agli occhi delle loro stesse popolazioni. Arafat vedeva i palestinesi in una posizione di debolezza, sia di fronte a Israele che di fronte agli stati arabi, e non poteva contare solo sull’organizzazione e l’audacia rivoluzionaria per uscire dall’impasse. Invece l’OLP temporeggiò e venne meno al proprio dovere nazionalista di mobilitare le masse, ovunque nel mondo arabo, per i diritti democratici fondamentali. I dirigenti dell’OLP erano seri e in buona fede, ma erano dei nazionalisti borghesi, fecero la scelta sbagliata e la pagarono col sangue. Il loro alleato locale, il Movimento Nazionalista Libanese (MNL), era in una prospettiva anche peggiore, diviso in milizie rivali spesso in guerra tra loro. I gruppi più coscienti, e con essi il Partito

352 Israel and Palestine, marzo 1982 353 New York Times, 16 aprile 1981 118 Comunista Libanese, si vedevano completamente condizionati dagli stati arabi, in particolare Libia, Siria e Iraq, che sostenevano economicamente le varie fazioni. Ma anche con l’arrivo del denaro saudita lo stato libanese aveva di fatto cessato di esistere molti anni prima dell’invasione, e il suo esercito appariva più spesso in televisione che nelle strade. Il MNL non aveva osato convocare una costituente per rimpiazzare lo stato confessionale, né fece seri tentativi di amministrare le zone sotto il proprio controllo militare. La bancarotta del MNL fu sancita ben prima dell’invasione. Sebbene alcune delle sue componenti, specialmente a Beirut, si battessero valorosamente, quelle più conservatrici, in particolare il Partito Progressista Socialista a maggioranza drusa, non lo fecero rimanendo nelle loro roccaforti in montagna, e il MNL finì in pezzi.

Il successo militare israeliano in Libano Una volta che gli israeliani ebbero abbattuto i missili siriani nella Valle della Bekaa il 9 giugno, e che i siriani ebbero accettato la tregua il giorno 13, la questione dell’esito militare non fu più in dubbio. I militanti dell’OLP si batterono piuttosto bene ma non poterono far nulla contro gli armamenti degli avversari, e gli israeliani si diressero verso Beirut congiungendosi con i loro vassalli falangisti che si erano rintanati nella parte est della città. Beirut Ovest fu soggetta a uno spietato assedio. Negli USA il 12 giugno 750.000 persone manifestarono per uno stop nucleare multilaterale. Ma mentre gli attivisti più radicali denunciarono l’invasione del Libano, il grosso degli oratori non parlarono della guerra, e sia Begin che Reagan seppero di non avere nulla da temere dal movimento pacifista americano. Il 13 giugno morì il re dell’Arabia Saudita Khaled, e uno dei partecipanti al funerale fu l’egiziano Hosni Mubarak, il che fu il primo momento di rottura dell’isolamento egiziano nei confronti del mondo arabo dal tempo degli accordi di Camp David. Invece che un segno di riavvicinamento tra gli arabi, la presenza di Mubarak significò che altri stati reazionari stavano cedendo agli americani, e di certo non avrebbero fatto nulla per i palestinesi. Il 18 giugno Begin ebbe l’ardire di apparire alle Nazioni Unite per discutere di disarmo. 100 delegazioni, due terzi del totale, boicottarono il suo intervento, ma la maggioranza anti-israeliana all’ONU permise agli USA di mettere il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza contro l’invasione, lasciando che Begin continuasse i suoi crimini nell’impunità. Ma il 25 giugno l’opposizione mondiale si manifestò concretamente attraverso le dimissioni forzate di Alexander Haig da Segretario di Stato USA. Il generale Haig era diventato un fanatico del militarismo ed era troppo direttamente a favore della blitzkrieg di Begin. Il suo sostituto, George Schultz, era il presidente del Bechtel Group, profondamente coinvolto in accordi miliardari per l’edilizia in Arabia Saudita, ed era ritenuto un “filo-arabo”; in effetti fece alcune dichiarazioni sui diritti dei palestinesi sulla Cisgiordania nel suo discorso di insediamento. Tuttavia fu Businness Week a sottolineare ciò che il mondo si aspettava davvero da lui:

..la nuova situazione creata dall’invasione del Libano…richiede drammatici cambiamenti nei toni e nell’impostazione della politica estera americana, sebbene non necessariamente negli aspetti fondamentali.

Il 26 giugno ebbe luogo in Israele la prima importante manifestazione contro la guerra, con 15.000 partecipanti a un’adunata convocata dal Comitato contro la guerra in Libano, una coalizione di sionisti dell’Allineamento e di antisionisti. Il Comitato si era sviluppato dal precedente Comitato in difesa della Bir Zeit University, organizzato per protestare contro la soppressione della libertà accademica in quell’ateneo. Il Comitato di Bir Zeit non aveva mai mobilitato più di 5000 persone, e a questo punto Peace Now, organizzazione dell’Allineamento, che aveva precedentemente deciso che per lealtà sionista non avrebbe manifestato contro la guerra, si rese conto che con quella scelta sarebbe stata messa ai margini e convocò una manifestazione per il 3 luglio. Scesero in piazza tra i 70.000 e i 100.000 dimostranti, anche se gli organizzatori del raduno proibirono ogni segno di sostegno all’OLP. Il Likud riuscì a portare un piazza un numero eguale di persone in una contro-manifestazione il 17 luglio. Dal 19 luglio anche il poco schizzinoso Reagan fu costretto a sospendere le forniture di cluster-bombs. Le immagini televisive del brutale assedio iniziarono a portare in piazza un crescente numero di dimostranti, in particolare in Europa occidentale ma anche in America, che era sempre stata la seconda roccaforte del sionismo. Washington comprese che una conquista sanguinosa di Beirut avrebbe provocato troppe proteste a livello mondiale, e Reagan allestì una missione internazionale composta da USA, Francia e Italia per

119 interporsi tra gli israeliani e le milizie dell’OLP mentre queste ultime lasciavano la città. Il che avvenne tra il 21 agosto e il 1 settembre. Il 23 agosto il parlamento libanese elesse un nuovo presidente del paese. In ogni caso l’elezione in Libano è una caricatura della democrazia, poiché il parlamento è eletto con un criterio confessionale e i seggi sono distribuiti in base al censimento del 1932 (nel 1932 i cristiani erano il 55% della popolazione e dunque oggi hanno 54 dei 99 seggi, mentre l’attuale popolazione è costituita per il 60 – 65% da musulmani e drusi!). Il presidente deve essere maronita (una corrente cristiana cattolica ma con riti e tradizioni particolari, in molti casi diversi dalla chiesa di Roma). I membri di questo parlamento in particolare erano stati eletti dieci anni prima, avendo esteso arbitrariamente il proprio normale mandato di sei anni con la scusa della guerra civile. L’elezione ebbe luogo in una caserma, sorvegliata dalle truppe occupanti, con un solo candidato: Bashir Gemayel, leader delle Forze Libanesi, la milizia dominata dal Partito Falangista, composta per il 96% da cristiani. Washington giudicò l’OLP sconfitta militarmente e politicamente, e pensò che fosse ora di definire un piano che soddisfacesse sia Israele che i reazionari arabi. Il 1 settembre Reagan presentò la sua proposta, essenzialmente l’accordo di Camp David condito con l’opzione giordana dell’Allineamento: la Cisgiordania, eccetto Gerusalemme, sarebbe divenuta parte di una confederazione con a capo il dittatore Hussein. La risposta di Begin fu sprezzante: il 5 settembre annunciò tre nuovi insediamenti proprio nella West Bank. Il 10 settembre i marines USA si ritirarono, con i francesi e gli italiani al seguito rispettivamente l’11 e il 13, nonostante le proteste del primo ministro libanese, musulmano, che insisteva che il principale obiettivo della forza multinazionale fosse di proteggere i civili palestinesi e libanesi, e che gli americani si erano impegnati a mantenere le truppe per 30 giorni. Di certo questo fu l’apice del successo di Begin. Senza dubbio buona parte dell’opinione pubblica aveva voltato le spalle a Israele, ma fu un prezzo accettabile in cambio della sconfitta dell’OLP e della creazione di uno stato fantoccio in Libano.

Il massacro e la commissione di inchiesta Martedi 14 settembre un’enorme esplosione scosse il quartier generale falangista a Beirut, e Gemayel rimase ucciso. Poco dopo, Begin comunicò all’ambasciatore americano che:

I nostri soldati mossero verso Beirut Ovest…lo facemmo per essere sicuri di prevenire i possibili accadimenti. Eravamo preoccupati che potessero esservi spargimenti di sangue…Il comandante della falange, sopravvissuto, teneva sotto controllo la milizia. Egli è un brav’uomo. Avevamo fiducia che non provocasse incidenti. Ma gli altri, chissà?354

Sharon mosse l’esercito verso Beirut Ovest il 15 settembre, e subito chiese agli stessi falangisti di entrare nei campi profughi di Sabra e Shatila il giorno 16. Nessuno sa quanti furono massacrati colà nei due giorni successivi, Sharon ammise poi 700 – 800 vittime, l’OLP ne comunicò 2.000, ma con abili manovre Begin e Sharon strapparono la sconfitta politica dalle fauci della vittoria militare. In che modo? Se dobbiamo dar retta Begin, ancora una volta il mondo ce l’ha con gli ebrei: “I goyim uccidono altri goyim e poi se la prendono con gli ebrei”355. In quest’ottica il 22 settembre il Likud respinse alla Knesset con 48 voti a 42 la richiesta di una commissione d’inchiesta. Ma lo stesso giorno l’intera popolazione araba di Israele e dei territori occupati scese in sciopero generale. Il 25 settembre almeno 400.000 persone, la maggior parte ebrei (circa il 10% dell’intera popolazione del paese) si riunirono a Tel Aviv a un’adunata chiamata dall’Allineamento e da Peace Now. Essi chiesero un’inchiesta e le dimissioni di Begin e Sharon, ma non il ritiro israeliano dal Libano. La manifestazione fu una delle più grandi dimostrazioni contro la guerra dei tempi moderni e i funzionari di Washington, inclusi i peggiori soloni pro-Israele del Partito Democratico, memori del movimento contro la guerra in Vietnam e del conseguente Watergate, fecero pressione affinchè Begin cedesse. Il 28 settembre egli controvoglia costituì una commissione d’inchiesta. I mesi successivi furono un insuccesso di propaganda per il sionismo, nella misura in cui la stampa riportò le testimonianze davanti alla commissione. Quest’ultima, alla fine, l’8 febbraio 1983 emise il suo verdetto, per bocca del presidente giudice Yitzhak Kahan, del giudice Aharon Barak e del generale Yona Efrat:

354 Testimonianza di Begin alla commissione di inchiesta, riportata su New York Times, 9 novembre 1982 355 Time, 21 febbraio 1983 120

Non abbiamo dubbi che non vi fu cospirazione o pianificazione da parte di alcuno tra i politici israeliani, i militari dell’IDF e i falangisti allo scopo di perpetrare atrocità nei campi.

I commissari stabilirono che Begin non era stato direttamente informato dell’intenzione di introdurre i falangisti nei campi, e che l’aveva saputo solo quando essi erano già dentro, a una riunione di gabinetto la sera del 16 settembre. Ma egli non aveva espresso obiezioni all’idea, anche dopo le “osservazioni del vicepremier Levy, che contenevano un ammonimento sul pericolo insito nell’azione dei falangisti”. La commissione rifiutò di accogliere la spiegazione di Begin per tale mancanza: “Non possiamo accettare l’osservazione del Primo ministro per cui egli era assolutamente ignaro di tale pericolo”. La commissione concludeva che “la mancanza di interessamento del Primo ministro sull’intera questione implica un certo grado di responsabilità da parte sua”. Sharon divenne il capro espiatorio:

Nella sua testimonianza…anche il ministro della Difesa ha adottato la linea che nessuno aveva immaginato che i falangisti avrebbero perpetrato il massacro…Ma…è impossibile giustificare la non considerazione del pericolo da parte del ministro della Difesa. Non ripeteremo qui ciò che…abbiamo già detto riguardo la fama universalmente nota delle etiche di combattimento dei falangisti, il loro odio verso i palestinesi e i piani dei loro leader nei confronti dei palestinesi una volta che avessero assunto il potere…non è richiesta capacità profetica per sapere che…esisteva il concreto pericolo di atti di barbarie…Dallo stesso ministro della Difesa sappiamo che queste considerazioni egli non le ha minimamente fatte.

La commissione dichiarò che:

Il ministro della Difesa è personalmente responsabile…è opportuno che il ministro…tragga le appropriate personali conclusioni…e se necessario…che il Primo ministro consideri se debba esercitare la necessaria autorità, con la quale procedere a…rimuovere il ministro della Difesa dall’incarico356.

Diversi altri esponenti politici furono messi sotto accusa: il ministro degli Esteri Yitzhak Shamir non trasmise l’informazione in suo possesso che il massacro era in corso, ma la commissione non ne chiese le dimissioni. La commissione fu particolarmente severa con il capo di stato maggiore, generale Rafael Eytan, ma non ne chiese le dimissioni perché era prossimo alla pensione. Essa chiese le immediate dimissioni di Yehoshua Saguy, direttore dell’Intelligence militare; criticò Amir Drori, capo del Comando settentrionale, per il suo “ruolo totalmente passivo”; il generale Amos Yaron, comandante delle truppe a Beirut, fu ritenuto colpevole di non avere agito immediatamente quando ebbe notizia per la prima volta delle atrocità in corso la prima notte del massacro, e la commissione chiese che venisse privato delle mansioni sul campo per tre anni. Il capo dell’intelligence civile, il Mossad, fu criticato per non aver fatto valere la propria consapevolezza dell’inaffidabilità dei falangisti, ma non furono raccomandati provvedimenti nei suoi confronti357. Begin naturalmente da parte sua rigettò sempre il rapporto nella sua interezza e, all’interno del gabinetto, minacciò le dimissioni se i suoi ministri avessero insistito nel chiedere le dimissioni di Sharon358. Ma gli altri ministri e Washington sapevano che qualcosa andava fatto e Sharon fu declassato a ministro senza portafoglio. Begin fu sempre impenitente: il 16 maggio 1983 contraddisse il suo nuovo ministro della Difesa Moshe Arens, che su consiglio dei suoi legali aveva respinto la proposta di nomina di Yaron a nuovo capo dell’esercito, con la promozione a generale di divisione. Begin ripristinò la nomina di Yaron, ma dopo l’iniziativa di Aren non osò approvare la promozione359. La commissione non poteva fare di più. Dire che i due principali governanti israeliani volessero e si aspettassero un massacro – anche se non della portata che effettivamente ebbe – avrebbe voluto dire che il sionismo era degenerato nella mostruosità, e i membri di tali enti non lo ammetterebbero mai. Ma la questione è questa: la commissione affermò che Begin non fosse al corrente

356 New York Times, 9 febbraio 1983 357 ibidem 358 ibidem 359 ibidem 121 dell’ingresso dei massacratori nei campi prima che questo avvenisse, ma Begin da una parte confermò ciò e dall’altra dette l’impressione opposta. Prima disse:

Giudice Barak: (Sharon) Disse qualcosa a proposito del ruolo dei falangisti? Begin: Il loro ruolo evidentemente era di combattere i terroristi… Barak: Secondo quello che lei dice, lei mercoledi mattina era al corrente che i falangisti dovevano combattere? Begin: Se il ministro della Difesa me lo disse, allora per forza ne ero al corrente. Barak: No, egli non afferma di averglielo detto. Begin: Bene, se non me lo ha detto allora non ne ero al corrente.

Poi si lasciò scappare una frase sul fatto che fosse già al corrente:

Giudice Kahan: Quando fu discussa con lei la prima volta la questione del ruolo dei falangisti… Begin: Lo apprendemmo alla riunione di gabinetto. Barak Lei ebbe diverse discussioni col capo di gabinetto e anche col ministro della Difesa. Lei non chiese loro…qual’era il ruolo dei falangisti? Begin: Quando? Che giorno? Barak: Martedi, mercoledi e giovedi. Begin: No, la questione non fu discussa tra noi, Dunque non feci domande in proposito. Barak: L’assassinio di Bashir Gemayel non vi portò a pensare che forse a quel punto i falangisti non dovessero essere coinvolti? Begin: Non mi venne di pensare, Vostro Onore, che i falangisti se fossero entrati nei campi per combattere i terroristi avrebbero commesso tali atrocità o massacri.

Begin disse alla commissione di non aver saputo che i falangisti erano stati inviati nei campi prima della riunione di gabinetto della sera di giovedi 16 settembre, un’ora e mezza dopo l’ingresso. Ma qui egli si stava riferendo chiaramente ai suoi pensieri di martedi, mercoledi e giovedi, prima dell’ingresso nei campi e prima della riunione di gabinetto. Due giornalisti di livello, David Landau del sionista Daily News Bulletin e David Shipler corrispondente del New York Times, notarono le frasi di Begin, ma la commissione, che aveva già deciso di non accusare alcun israeliano di volere l’uccisione dei palestinesi da parte dei falangisti, decise di sorvolare sulle implicazioni di questa particolare testimonianza360. Begin e Sharon conoscevano bene la storia dei falangisti: dovevano aspettarsi quelle atrocità. Il 15 settembre, il giorno prima del massacro, il New York Times pubblicò un dossier sul defunto Bashir e il suo movimento:

In un viaggio a Berlino in occasione dei Giochi Olimpici del 1936, il padre Pierre rimase impressionato dalla disciplina della Germania hitleriana. I movimenti nazionalisti e fascisti di Francisco Franco e Benito Mussolini ispirarono l’ideologia del nuovo partito…Durante la guerra civile, Bashir comandò l’assedio al campo profughi palestinese di Tel al-Zaatar…Alla fine dell’assedio, i sopravvissuti del campo vennero uccisi dalle truppe falangiste…Nel 1979, dopo che Suleiman Farangiyye, l’ex presidente maronita del Libano, fu uscito dall’alleanza cristiana, i soldati di Gemayel compirono una rappresaglia contro suo figlio ed erede politico, Tony. Nel raid furono uccisi Tony e 32 suoi sostenitori...Nel 1980 le forze falangiste assaltarono il resort sulla spiaggia di un rivale cristiano, Dany Chamoun. Gli ospiti di Chamoun sul bordo della piscina vennero presi a mitragliate. I medici in seguito riportarono che molti corpi delle vittime avevano subito mutilazioni.

Non c’è il minimo dubbio che Sharon sapesse con chi aveva a che fare. Il 22 settembre, quattro giorni dopo il massacro, Sharon parlò in propria difesa alla Knesset:

Io le voglio chiedere, Shimon Peres…c’è un’altra questione…Tel al-Zaatar361, quando lei era ministro della Difesa. Non entrerò qui nei dettagli. Come mai la coscienza non vi rimorde? Furono assassinate migliaia di persone. E, onorevole Peres, le voglio chiedere dov’erano gli ufficiali dell’IDF quel giorno, e se era una vicenda che poteva essere prevista.

360 New York Times, 9 novembre 1982 361 Tel al-Zaatar (La Collina del Timo), campo profughi palestinese presso Beirut, roccaforte dell’OLP, fu assediato per 4 mesi dalle Forze Libanesi falangiste che vi entrarono il 12 agosto 1976 compiendo uno spaventoso massacro. 122 Begin e Sharon avevano sempre voluto un bagno di sangue a Beirut: Begin disse alla commissione perché Sharon non aveva bisogno di dirgli che i falangisti sarebbero entrati nei campi:

Vorrei soltanto dire che a margine di una riunione di gabinetto del 15 giugno vi fu una discussione specifica a proposito della partecipazione dell’esercito libanese e delle forze libanesi…esse avrebbero occupato l’area sud-ovest di Beirut. Noi dicemmo loro che l’IDF era in guerra, stava subendo molte perdite, e volevamo liquidare i terroristi.

Il 19 settembre, il giorno dopo che i falangisti ebbero lasciato i campi, Shipler rivelò i motivi della decisione:

La valutazione fu che i falangisti, con vecchi conti da regolare e informazioni dettagliate sui combattenti palestinesi, sarebbero stati più spietati dell’IDF, e probabilmente più efficaci.

Il 4 ottobre il Time magazine riportò che “In alcune occasioni Bashir Gemayel disse ai funzionari israeliani che gli sarebbe piaciuto radere al suolo i campi profughi e trasformarli in campi da tennis”362. I lettori ricorderanno, anche se forse la commissione no, che Begin aveva negato che atrocità simili furono compiute dalla sua stessa Irgun a Deir Yassin nel 1948. Aveva affermato che l’accusa era propaganda menzognera, ma aveva sottolineato il fatto che l’effetto di tale “propaganda” era stato di allontanare centinaia di migliaia di palestinesi da quello che sarebbe diventato Israele. Lo scopo dell’invasione, come rivelato da Israel and Palestine, era distruggere lo “stato nello stato” rappresentato dall’OLP e, come Deir Yassin, allontanare i civili palestinesi. Come sia il Time che il New York Times riportarono, Begin e Sharon già in giugno erano al corrente di ciò che i dirigenti falangisti avevano in mente di fare, quando decisero che la Falange sarebbe stata impiegata per allontanare i palestinesi da Beirut. Begin voleva cacciare i palestinesi, esattamente come la sua Irgun aveva cacciato questi cananei moderni nel 1948. I commissari, sia nell’audizione di Begin e Sharon che nel report finale dell’inchiesta, sottolinearono che i due avrebbero dovuto sapere che l’assassinio di Bashir avrebbe provocato la vendetta della Falange. Begin e Sharon prefigurarono il massacro già in giugno, dunque non vi è alcun dubbio che l’assassinio di Bashir rafforzò le loro speranze in tal senso. Kahan chiese a Sharon se “In contatto…coi dirigenti falangisti lei ebbe informazioni sulle loro intenzioni a proposito dei palestinesi?”. Sharon replicò:

In generale la mia valutazione fu che essi volessero creare le condizioni affinchè alla fine i palestinesi lasciassero il Libano…lo stesso Amin Gemayel, se ben ricordo, al funerale del 15 settembre usò la parola ‘vendetta’. La parola ‘vendetta’ venne usata, per così dire, nelle nostre discussioni. Allora fu così. Giudice Kahan: Nacque il sospetto di atti di vendetta o massacri di palestinesi da parte dei falangisti? Sharon: No, no, ma voglio dire…chiunque pensi che durante combattimenti in aree urbane…i civili vengano risparmiati…è in errore… Kahan: Ciò che intende naturalmente è…non uccisioni intenzionali. Sharon: Si…Credo che nessuno si aspettasse che le Forze Libanesi avrebbero agito come noi. Io non pensai che le forze libanesi avrebbero agito come noi363.

La commissione raccolse varie testimonianze secretate, e quando pubblicò il suo rapporto allegò un’appendice destinata ai soli membri del governo. Il 21 febbraio Time riportò che:

(la commissione) ha comunicato che essa (l’appendice) contiene anche ulteriori dettagli sulla visita di Sharon alla famiglia Gemayel il giorno dopo l’assassinio di Bashir. Secondo quanto riferito Sharon disse ai Gemayel che l’esercito israeliano sarebbe entrato a Beirut Ovest e che egli si aspettava che le forze cristiane entrassero nei campi profughi palestinesi. Sharon discusse anche coi Gemayel la questione della vendetta per l’assassinio, ma i dettagli della conversazione non sono noti.

362 Time, 4 ottobre 1982 363 New York Times, 26 ottobre 1982 123

In seguito Sharon ha querelato Time per diffamazione, negando che il rapporto contenesse tali affermazioni. Naturalmente l’autore non conosce il contenuto dell’appendice, ma dalle fonti ufficiali è piuttosto chiaro che, a prescindere dal fatto che egli abbia detto ad Amin Gemayel di uccidere i civili palestinesi, dalla sua testimonianza sull’uso della parola “vendetta” da parte di Amin al funerale di Bashir si evince che egli sapeva che probabilmente i maschi palestinesi sarebbero stati massacrati:

Vorrei dire una parola, col permesso dei membri della commissione, sulla questione della vendetta, per come la conosco da parte degli arabi. La vendetta adeguata per gli arabi non include bambini, donne e anziani. Sicuramente vi sono arabisti più esperti del sottoscritto, sì, io dico ciò soltanto in base all’esperienza. La vendetta esiste, senza dubbio. Senza alcun dubbio essa esiste364.

Anche altri esponenti israeliani di alto rango erano consapevoli che i falangisti avrebbero compiuto un massacro. Il Capo di stato maggiore, generale Rafael Eytan, disse alla riunione di gabinetto la sera del 16 settembre che

Lo vedo nei loro occhi…ciò che aspettano…Amin ha già parlato di vendetta e tutti stanno affilando le spade365.

Begin di fronte alla commissione usò lo stesso linguaggio ambiguo di Sharon. Essa voleva sapere perché, date le sue comunicazioni all’ambasciatore Draper366, non avesse pensato che i falangisti avrebbero fatto un massacro:

Begin: Vostro Onore, posso solo ripetere quanto ho già detto, ovvero che in quei giorni a nessuno di noi venne in mente che i falangisti che erano entrati nei campi non avrebbero combattuto contro i terroristi. Essi entrarono per combattere contro i terroristi, e solo contro di loro. Efrat: Non fu discusso il problema, non vi furono dubbi sull’intenzione da parte loro di risolvere il problema dei palestinesi nell’area di Beirut in un certo modo, data la loro attitudine verso quel popolo, tentando di liberarsi di loro? Begin: No signore, non ci abbiamo pensato367.

Kahan lo incalzò sulla discussione della possibilità di atrocità alla riunione di gabinetto del 16, quando il massacro era già in corso. Il vicepremier David Levy aveva avvisato che le atrocità erano probabili, e che gli israeliani sarebbero stati accusati di non averle prevenute:

Begin: Egli manifestò notevoli perplessità ma anche il ministro Levy non richiese una discussione o decisione contro l’ingresso dei falangisti, o per il loro ritiro… Barak: Ma le parole del ministro Levy a quel punto non vi hanno indotto a pensare: ‘Un momento, i falangisti sono là, vendetta, uccisioni, spargimento di sangue, fermiamoli’ ? Begin: Onorevole Giudice, il fatto è che nessuno pensò che essi avrebbero commesso delle atrocità. Come ho già detto. Semplicemente nessuno ci pensò, nessun ministro né altri dei presenti. Il ministro Levy, come ho detto, affermò ipoteticamente che ciò poteva accadere, ma non chiese, diciamo, di discutere della questione o di decidere o di votare, non fece richieste in tal senso. Efrat: Anche il capo di stato maggiore a questa riunione si espresse sull’argomento. Non lo cito esattamente, ma si è espresso sull’argomento, e ha detto…’Già oggi dei drusi sono stati uccisi laggiù, vi sarà un’escalation mai vista, vedo già nei loro occhi cosa stanno aspettando etc.’ Begin: Posso solo sottolineare il fatto che nessuno dei ministri si è espresso, in nessuna riunione è suonato il campanello d’allarme sulla base di questi elementi368.

364 New York Times, 26 ottobre 1982 365 New York Times, 9 novembre 1982 366 Si ricorderà che Begin aveva comunicato all’ambasciatore USA che l’IDF sarebbe entrata a Beirut Ovest “per evitare spargimenti di sangue”. 367 ibidem 368 ibidem 124 Prima di varare il rapporto, i commissari decisero di dare a tutti coloro per i quali si prospettava un verdetto avverso la possibilità di deporre ancora o di addurre altre testimonianze. Begin rifiutò di comparire ma inviò una dettagliata memoria in difesa di se stesso e della decisione di far intervenire gli assassini:

Secondo le autorevoli informazioni che erano in nostro possesso…i terroristi…si lasciarono dietro 2.000 uomini armati, equipaggiati e organizzati, concentrati soprattutto nei campi di Sabra, Shatila e Fakhani. Il compito delle Forze Libanesi era di combattere questi terroristi369.

Tuttavia, fu subito messo in luce da David Shipler, sul New York Times del 10 dicembre, che Sharon aveva testimoniato che i falangisti ammontavano a non più di 100 – 200 uomini. Chiaramente 200 uomini sarebbero stati ben pochi per affrontare 2.000 terroristi disperati e bene armati. Per di più gli israeliani, se avessero davvero pensato che i falangisti stessero andando incontro a consistenti forze nemiche, avrebbero inviato una squadra di collegamento dell’IDF per comunicare in ebraico con l’esercito israeliano in caso di difficoltà. I commissari affermarono che la decisione di inviare i falangisti nei campi sarebbe stata ammissibile se l’IDF avesse fatto ogni passo possibile per avvisare la popolazione civile. Ripetutamente essi sottolinearono che non potevano capire come nessuno dei generali coinvolti avesse prevenuto le atrocità. In realtà Sharon fece attenzione che nessun israeliano entrasse nei campi, proprio perché si sapeva che i civili sarebbero stati uccisi, e serviva un alibi, e cioè: non fu visto nulla e si pensò che i falangisti stessero combattendo contro i terroristi. “Quelli che gli dei vogliono distruggere, prima li rendono pazzi”370. La commissione non poteva comprendere che la logica dei criminali di guerra non è la logica degli esseri razionali. Gli esseri razionali non dicono all’ambasciatore americano che intendono frapporsi tra i falangisti e i loro nemici e poi lasciano che essi si scatenino contro quei loro nemici, senza guardare, sapendo che compiranno la loro vendetta. Ma benché legati fanaticamente al terrorismo, Begin e Sharon erano diventati esperti nel confezionare scuse menzognere e alibi. Essi volevano mandare via gli “animali a due zampe” da Beirut Ovest, ma l’opinione pubblica mondiale li costringeva a non entrare in quella zona. L’assassinio di Bashir, e la necessità di “proteggere” i musulmani e i palestinesi, improvvisamente fornirono loro il pretesto per muovere nell’area. Ma essi si erano resi conto che il loro stesso esercito non sarebbe stato abbastanza spietato da compiere il lavoro – vi erano troppi elementi di Peace Now tra i soldati. Ma chiaramente chiunque poteva comprendere che “2.000 terroristi” avrebbero giustificato l’ingresso della Falange. I combattimenti “in aree urbane” erano la giustificazione per l’assassinio di civili. Qui essi fecero il loro grosso errore di valutazione: volevano un massacro, ma non delle dimensioni che questo raggiunse. Solo il numero sufficiente (punire pochi per spaventare molti) per cacciare il resto. Levy li aveva avvertiti che se ci fosse stato un massacro sarebbero stati accusati di non averlo prevenuto. Ma entrambi questi sinceri democratici avevano una risposta pronta: egli non chiese di votare sulla questione, dunque che colpa avevano loro? Presumibilmente la modestia impedì loro di candidarsi a vicenda per il premio Nobel per la Pace. Che la commissione non abbia riconosciuto i due colpevoli di assassinio premeditato la dice lunga sul livello generale di moralità del sionismo, più che su Begin e Sharon o Sabra e Shatila. Secondo la logica della commissione dobbiamo tutti credere che Israele fu guidata da due incompetenti che non badarono alle avvisaglie fornite ai giornalisti israeliani e da altri che si limitarono ad avvisare che il rischio di un massacro era elevato.

369 New York Times, 10 dicembre 1982 370 Aforisma comunemente attribuito al tragediografo greco Euripide. 125 15. Yitzhak Shamir prende il testimone

Le dimissioni di Begin Il 30 agosto 1983 Begin disse ai suoi colleghi che non poteva più continuare a fare il Primo ministro. Egli non diede spiegazioni per la sua decisione, ma presto la vera ragione venne fuori; il novembre precedente era andato all’estero per una visita negli USA, nonostante il ricovero della moglie per un enfisema, e portò con sé il loro medico personale. Mentre era in America la moglie morì, e Begin si rimproverò di averla privata del medico371. Nel giugno 1983 il suo aspetto scarno e inespressivo aveva suscitato i commenti di David Shipler sul Times372. Poi, dopo l’annuncio di dimissioni, Phepard Kanter, professore di psichiatria clinica alla Columbia University, diagnosticò la malattia di Begin in una lettera al Jerusalem Post:

…una condizione estremamente comune che in passato è stata definita melanconia involutiva e attualmente è indicata quale depressione endogena. Spesso sopraggiunge età avanzata e in forma particolarmente accentuata in seguito alla morte della persona amata…questo tipo di depressione può essere curato in tre settimane con antidepressivi, con una probabilità di successo pari a circa l’80%, o in due settimane con terapia di elettroshock, con successo al 95%.

Mesi dopo Begin era ovviamente ancora in stato di malattia, e l’annuncio del suo staff di una malattia della pelle che gli impediva di comparire in pubblico non fu altro che un’innocente bugia per salvare la sua reputazione. Sembra che le sole persone che non si resero conto di aver a che fare con un uomo finito furono i leader della sua coalizione, che lo vedevano come collante del loro litigioso governo grazie al suo carisma, e che gli chiesero disperatamente di restare. Alla fine l’Herut scelse come suo successore il ministro degli Esteri Yitzhak Shamir, al posto di David Levy, in un contesto in cui né l’etnia (Levy è marocchino) né l’ideologia giocarono un ruolo decisivo. La maggioranza del corpo del partito che elesse Shamir (436 voti a 302) era orientale, ma il suo “sefardismo” non trova espressione democratica; conferire il potere alla classe lavoratrice ebraica orientale significa la caduta del sionismo. L’attuale rabbia plebea degli orientali nei confronti dei loro vecchi padroni, i burocrati laburisti askenaziti, non si è espressa altrimenti che nell’appoggio a Begin, un altro askenazita, e ora circa metà dei delegati orientali hanno seguito il suggerimento del più popolare tra i loro imbonitori sul mercato, l’askenazita Sharon, e hanno acclamato a gran voce un altro funzionario del Betar polacco. L’opinione pubblica e gli esperti concordarono sulla debolezza del nuovo governo, con un sondaggio che rivelava che una lista dell’Allineamento guidata dall’ex presidente Yitzhak Navon avrebbe sconfitto un traballante Likud sorretto da Shamir373. Due dei principali portavoce di Begin, Ben Porat ed Ehud Olmert, predissero una permanenza a breve termine del nuovo premier, rispettivamente sei settimane e trenta giorni. Il fatto che Shamir sia durato di più è attribuibile alla non volontà dell’Allineamento di soppiantarlo, poiché esso sapeva di non avere soluzioni ai gravissimi problemi economici ereditati.

Il retroterra di Shamir Il nuovo Primo ministro era nato col nome di Yitzhak Yzernitzkij a Rozeny, nell’odierna Bielorussia, nel 1915. Suo padre aveva fondato una scuola ebraica nella piccola comunità, ed egli fin dai primi anni parlò correntemente l’ebraico. Frequentò il ginnasio ebraico di Bialystok e proseguì alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Varsavia. Già membro del Betar, giunse in Palestina nel 1935, dove entrò all’Università ebraica. Tuttavia abbandonò la giurisprudenza per l’Irgun, mantenendosi con il lavoro saltuario di muratore. Con la rivolta araba del 1936 divenne istruttore nelle “cellule nazionali”, un movimento giovanile revisionista, e fu coinvolto militarmente nella

371 New York Times, 29 agosto 1983 372 Times, 26 giugno 1983 373 Jerusalem Post, 28 settembre 1983 126 regione di Tel Aviv. Si sa poco della sua carriera nell’Irgun, ma un episodio è noto. Nel 1938 Yzerntzkij e una recluta 15enne, Eliyahu Bet Zouri, provarono a creare un gruppo di raccolta fondi a sostegno della WZO attraverso la riscossione di pedaggi dai viaggiatori che lasciavano Tel Aviv. Essi prepararono un rudimentale ordigno a base di polvere da sparo che esplose prima del tempo, ustionando gravemente le gambe di Bet Zouri ed escoriando il volto del futuro Primo ministro di Israele374. Ma questo bizzarro incidente non fu nulla in confronto con la sua carriera nei ranghi più elevati della Banda Stern.

L’apice della follia Quando Jabotinskij abbandonò le campagne terroristiche, gli inglesi rilasciarono il comandante in capo dell’Irgun, David Raziel, ma tennero prigionieri Avraham Stern e quasi tutti i membri dello stato maggiore dell’organizzazione fino al giugno 1940. Stern considerava una “tregua” unilaterale come una resa, e continuò a proporre un patto formale con gli inglesi, cosa che Londra non prese mai in considerazione. La maggioranza dei dirigenti e del membri dell’Irgun erano dalla sua parte, e dunque ebbe buon gioco a spingere Raziel alle dimissioni375. Sei giorni prima di morire, il 3 agosto 1940, Jabotinskij riconfermò Raziel, e in settembre Stern, ora noto come Yair (Luce, da Eleazer ben Yair, il comandante degli zeloti a Masada durante la rivolta ebraica contro i romani del 70 d.C.), lasciò la “Organizzazione Nazionale Militare in Terra di Israele” per formare la propria “Organizzazione Nazionale Militare in Israele”. Stern, nato a Suwalki, in Polonia, nel 1907, era emigrato in Palestina nel 1925, nei tardi anni ’20 ebbe una borsa di studio a Firenze e quando fece ritorno dall’Italia era diventato fascista. Alla fine degli anni ’30 concluse che l’Irgun clandestina non dovesse avere legami con alcun movimento politico ufficiale che si mantenesse entro i confini della legalità mandataria. Egli era anche pervenuto a considerare incoerente un movimento fascista con un “liberale gladstoniano” alla guida. Rendendosi conto che il sionismo fosse finanziariamente dipendente dalle elargizioni della borghesia ebraica, Jabotinskij non volle cedere alla demagogia sociale populista del fascismo classico, ma Stern non ebbe tali scrupoli. Secondo il suo discepolo Nathan Yalin-Mor, egli “non era un socialista, ma si opponeva con decisione alla retorica anti-socialista dei revisionisti”376. L’avvicinamento del Duce a Hitler non creò problemi a Stern. Durante i bei tempi della collaborazione italiana, i fascisti revisionisti si erano legati a tal punto a Mussolini che ora inventarono una serie di spiegazioni per il tradimento del loro eroe. Un organo revisionista americano scrisse che in realtà la colpa era degli ebrei. Dopo tutto,

Per anni abbiamo raccomandato agli ebrei di non parlar male del regime fascista in Italia. Siamo sinceri prima di accusare altri per le recenti leggi anti-ebraiche italiane, e guardiamo in primo luogo alle responsabilità dei nostri gruppi radicali377.

Fuori dall’alveo revisionista la mente di Stern – Yair iniziò a vorticare. Il suo manifesto, Ikarei ha Tehiyyah (I principi della rinascita), definiva alcuni obiettivi. Il popolo ebraico in quanto Popolo Eletto aveva pieno diritto all’intero patrimonio biblico come stabilito nel versetto 15:18 della Genesi, ogni cosa dal fiume d’Egitto all’Eufrate. Doveva compiersi uno “scambio di popolazione”, ovvero l’espulsione forzata dei palestinesi, e la costruzione del Terzo Tempio378. Fermamente convinto che le potenze dell’Asse avrebbero vinto la guerra, Stern contattò l’agente italiano in Palestina, un irgunista379. Quest’uomo tuttavia lavorava contemporaneamente per il CID inglese, e Stern sospettò che facesse il doppio gioco380. Per essere certo di essere in contatto con l’Asse, gli sternisti inviarono Naftali Lubinczik a Beirut, che era sotto il controllo della Francia di Vichy, ove egli nel gennaio 1941 incontrò due tedeschi, Alfred Roser (agente dell’Intelligence militare) e Werner Otto von Hentig del ministero degli Esteri. L’11 gennaio 1941 essi inviarono il

374 Gerold Frank, The Deed, 1963 375 Yehuda Bauer, From Diplomacy to Resistance: a History of Jewish Palestine, 1930-1945, 1970 376 Jewish Spectator, estate 1980 377 In Paul Novick, A Solution for Palestine, 1938 378 Uri Davis, Israel: Utopia Incorporated, 1977 379 Daniel Levine, David Raziel: The Man and His Times, 1969 380 Yehuda Bauer, From Diplomacy to Resistance: a History of Jewish Palestine, 1930-1945, 1970 127 memorandum degli sternisti che proponeva la collaborazione all’ambasciata tedesca ad Ankara, ove fu ritrovato dopo la guerra381. Il documento, intitolato Linee fondamentali della proposta dell’Organizzazione Nazionale Militare in Palestina (Irgun Zvai Leumi) riguardo alla soluzione della questione ebraica in Europa e alla partecipazione della OMN alla guerra a fianco della Germania, mette Shamir in un’impietosa prospettiva storica, e dunque necessariamente va citato per intero:

E’ spesso affermato nei discorsi dei dirigenti dello Stato nazionalsocialista tedesco che una soluzione radicale della questione ebraica implica un'espulsione delle masse ebraiche dall'Europa (un’Europa libera dagli ebrei). Questa è la condizione primaria della soluzione del problema ebraico, ma non è realizzabile se non tramite il trasferimento di queste masse in Palestina, in uno Stato ebraico entro le sue frontiere storiche. Risolvere in tal modo problema ebraico, liberando così in modo definitivo il popolo ebraico, è l'obiettivo dell'attività politica e dei lunghi anni di lotta del movimento israeliano di liberazione e della sua Organizzazione Militare Nazionale in Palestina (Irgun Zvai Leumi). La OMN, conoscendo la posizione benevola del governo del Reich verso l'attività sionista all'interno della Germania e i piani sionisti riguardanti l'emigrazione, stima che: -Potrebbero esistere degli interessi comuni tra l'instaurazione in Europa di un ordine nuovo secondo la concezione tedesca e le reali aspirazioni del popolo ebraico, così come sono incarnate dalla OMN. -Sarebbe possibile la cooperazione tra la nuova Germania e una rinnovata nazione ebraica. -La fondazione dello Stato storico ebraico su una base nazionale e totalitaria, legato con un trattato al Reich tedesco, potrebbe contribuire a mantenere e a rinforzare nell'avvenire la posizione della Germania nel Vicino Oriente. Sulla base di tali considerazioni, a condizione che siano riconosciute, dal governo tedesco, le aspirazioni del movimento di liberazione israeliano, la OMN in Palestina offre la sua partecipazione alla guerra a fianco della Germania. Questa offerta della OMN, riguardante attività nel campo militare, politico e di informazione in Palestina e, con determinati accorgimenti, al di fuori della Palestina, andrebbe a collegarsi con l’addestramento e l’organizzazione di forza militare ebraica in Europa, sotto il comando della OMN. Queste unità militari prenderebbero parte alla battaglia per la conquista della Palestina, se così venisse stabilito. La cooperazione del movimento di liberazione israeliano andrebbe anche a incontrare le linee di uno dei recenti discorsi del Cancelliere del Reich tedesco, nel quale Herr Hitler sottolinea di essere disposto a utilizzare tutti gli accordi e le alleanze atte a isolare l'Inghilterra e a sconfiggerla. Un breve sguardo d’insieme sulla formazione, natura e attività della OMN in Palestina: La OMN si sviluppò in parte dall'attività di auto-difesa in Palestina e in parte dal movimento revisionista (New Zionist Organization), con il quale la OMN è rimasta strettamente legata attraverso la persona di mr. V.Jabitnskij fino alla di lui morte. La linea filo-inglese del movimento revisionista in Palestina portò nell'autunno di quest'anno382 a una rottura completa tra esso e la OMN, così come alla conseguente scissione entro il movimento revisionista. Lo scopo della OMN è la costituzione dello stato ebraico entro i suoi confini storici. La OMN, a differenza di tutte le correnti sioniste, rifiuta l'idea che la colonizzazione graduale sia l'unico mezzo per prendere possesso della patria e utilizza i propri metodi, la lotta e il sacrificio, quali soli veri mezzi per la conquista e la liberazione della Palestina. A causa del proprio carattere militante e della sua linea anti-inglese la OMN è costretta, sotto la costante pressione delle autorità inglesi, a esercitare clandestinamente la propria attività politica e l'addestramento militare dei propri membri. La OMN, le cui attività terroristiche iniziarono nell'autunno dell'anno 1936, divenne particolarmente importante nell'estate del 1939 dopo la pubblicazione del Libro Bianco inglese, con l'aumento e il successo dell'attività di terrorismo e sabotaggio verso le proprietà inglesi. All'epoca queste attività, cosi come le trasmissioni radio clandestine a cadenza quotidiana, vennero riportate e discusse sull'intera stampa mondiale. La OMN mantenne sedi politiche autonome a Varsavia, Parigi, Londra e New York fino all'inizio della guerra.

381 ibidem 382 Il 1940. Il documento evidentemente fu redatto alla fine del 1940 e poi datato 11 gennaio 1941 (n.d.t.). 128 L'attività di Varsavia era per lo più dedicata all'organizzazione militare e all'addestramento della gioventù sionista, e si svolgeva a stretto contatto con le masse ebraiche che specialmente in Polonia sostenevano e supportavano entusiasticamente la lotta della OMN in Palestina. A Varsavia si pubblicavano due giornali ("The Deed" e "Gerusalemme Liberata"): essi erano organi della OMN. La sede di Varsavia mantenne stretti legami con il governo polacco uscente e i circoli militari che mostravano la più grande simpatia e comprensione verso gli scopi della OMN. Nel 1939 gruppi selezionati di membri della OMN furono inviati dalla Palestina in Polonia, dove l'addestramento militare fu completato negli appositi campi da ufficiali polacchi. I negoziati che ebbero luogo tra la OMN e il governo polacco a Varsavia per il conseguimento dei propri obiettivi (di cui si può facilmente trovare prova negli archivi del governo polacco uscente) furono interrotti a causa dell'inizio della guerra. La OMN è strettamente legata ai movimenti totalitari europei quanto a ideologia e struttura. La capacità di combattimento della OMN non potrà mai essere bloccata o seriamente indebolita, nè dalle più severe misure adottate dall’amministrazione inglese e dagli arabi, nè da quelle dei socialisti ebrei.

Lubinczik disse ai nazisti che, se i tedeschi avessero ritenuto che uno stato sionista non fosse politicamente spendibile, gli sternisti avrebbero accattato il “piano Madagascar”, ovvero la deportazione temporanea degli ebrei europei nell’isola africana, sotto il dominio tedesco. Essi ritenevano che tale ripiego fosse analogo all’iniziale accettazione di Herzl dell’Uganda come colonia provvisoria383. L’emigrazione ebraica in Madagascar era stata una delle “soluzioni” più fantasiose discusse dagli antisemiti europei prima della guerra, e nel 1940 gli hitleriani avevano parlato di una “colonia” ebraica sull’isola come parte della loro ipotetica Africa imperiale. I tedeschi dissero a Lubinczik che gli interessi degli arabi avrebbero avuto la priorità, e Berlino non mostrò più interesse per quei sionisti infidi384. Ciò tuttavia non fece desistere gli sternisti. Poichè nel luglio 1941 la Francia di Vichy era stata sconfitta in Libano e Siria, Nathan Yalin-Mor cercò di raggiungere i nazisti nella neutrale Turchia, ma fu arrestato in Siria dagli inglesi nel dicembre 1941385. Quale fu – ed è – l’atteggiamento di Shamir di fronte a tutto ciò? Nicholas Bethell lo intervistò per il proprio libro del 1979, The Palestine Triangle, e Shamir gli disse che lui era stato:

...contro le aperture verso l’Italia. Non pensavo che avrebbero portato a nulla di buono. Ma Stern ricordava bene il proprio lavoro in Polonia prima della guerra. Aveva mandato molti ebrei in Palestina sfruttando l’antisemitismo dei funzionari polacchi. Alla fine volle provare386.

Nell’ottobre 1983, dopo l’insediamento come Primo ministro, Shamir fu intervistato dal quotidiano israeliano Yediot Ahronot. Alla fine questa volta venne fuori la questione dei nazisti:

Vi era un piano per rivolgersi all’Italia e per contattare la Germania, sulla base dell’idea che questi paesi potessero appoggiare un’immigrazione ebraica di massa. Io mi opposi, ma mi unii al Lehi dopo che l’idea dei contatti coi paesi dell’Asse fu accantonata387.

Anche se prendessimo per buone queste fandonie, tuttavia il Primo ministro non stava comunque confessando di essersi consapevolmente unito a un’organizzazione filo-nazista? Egli tuttavia stava mentendo. Ci sono prove che egli fu uno dei primi seguaci di Stern. Gerold Frank, nel suo libro del 1963 The Deed, sull’uccisione di lord Moyne da parte degli sternisti, parla in tre occasioni di un incontro “nei giorni immediatamente successivi alla scissione Raziel-Stern” nel quale Yzernitzkij provò a portare i giovani ancora incerti dalla parte della fazione di Stern: “Gente!” disse con voce tonante “Se volete assaggiare fuoco e polvere da sparo, venite con noi!”388. Per di più, Shamir opportunamente “dimentica” che vi furono due tentativi di allearsi con gli hitleriani, e non c’è dubbio che egli era un membro di spicco dell’organizzazione prima che Yalin-Mor facesse il tentativo infruttuoso di ricontattare i tedeschi in Turchia.

383 Chaviv Kanaan, Germany and the Middle East, 1835-1939, 1975 384 Jerusalem Quarterly, primavera 1982 385 Encyclopedia Judaica, alla voce “Nathan Yalin-Mor” 386 Nicholas Bethell, The Palestine Triangle: The Struggle for the Holy Land, 1935-48, 1979 387 The Times, 21 ottobre 1983 388 Gerold Frank, The Deed, 1963 129 Sebbene oggi Shamir neghi di essere stato membro della Banda Stern quando questa provò a collegarsi con gli acerrimi nemici degli ebrei, è probabile che pochi credano a questa plateale bugia. A questo punto ci verrà detto, naturalmente di nascosto, che sebbene la proposta di alleanza fosse senza senso, ciononostante essa fu fatta prima che lo sterminio degli ebrei cominciasse, e fu fatta soltanto nella speranza di salvare vite ebraiche. Come abbiamo visto, tuttavia, Stern era stato in Polonia negli anni subito prima della guerra, e non aveva fatto nulla per mobilitare gli ebrei polacchi contro gli antisemiti, e Nathan Yalin-Mor e Israel Scheib (Eldad) erano fuggiti in Lituania all’arrivo dell’esercito tedesco, e non fecero alcun tentativo di rientrare in Polonia per organizzare la resistenza clandestina. Gli sternisti avevano sempre pensato che l’antisemitismo fosse giustificato e inevitabile, e non potesse essere combattuto. Essi erano fermamente convinti che il nazismo fosse l’avvenire. Come sionisti, credettero che esso fosse una specie di vento malefico che non porta benefici a nessuno, e cercarono di mettere le vele del sionismo in direzione di quel vento. Provarono a giustificare questa loro posizione in una serie di trasmissioni radio illegali:

C’è una differenza tra persecutore e nemico. I persecutori si sono levati contro Israele in ogni generazione e in ogni epoca della nostra diaspora, a partire da Haman per arrivare a Hitler…La fonte di tutti i nostri mali è il nostro essere in esilio, l’assenza di una patria e di uno stato. Dunque, il nostro nemico è lo straniero, il dominatore del nostro paese che vi impedisce il ritorno del nostro popolo. Il nemico sono gli inglesi, che conquistarono il paese col nostro aiuto e sono rimasti dopo la nostra partenza, ci hanno tradito e hanno gettato i nostri cari in Europa nelle mani dei persecutori389.

Shamir ancora rivendica i legami dei revisionisti con gli antisemiti polacchi, e disse a Bethell che “Fu un accordo politico. Essi ci aiutarono con motivazioni antisemite. Noi spiegammo loro: ‘Se volete liberavi degli ebrei, dovete sostenere il movimento sinonista’”390. Shamir oggi pretende di non essere stato totalmente coinvolto nell’attività filo-nazista della Banda Stern, ma siamo pienamente legittimati a concludere che la sua contemporanea collusione coi Colonnelli sia il termine di paragone del suo atteggiamento nei confronti dei nazisti. Dati i legami anteguerra del revisionismo con Mussolini, e il fascismo dichiarato di molti suoi molti suoi dirigenti e militanti, dobbiamo prendere alla lettera gli sternisti quando scrissero ai nazisti definendosi totalitari. Fu il suo nazionalismo fascista, e la convinzione che l’antisemitismo fosse una legittima forma di nazionalismo dei gentili, che condussero Yzernitzkij ad appoggiare l’ipotetico “patto col Diavolo”.

La morte di Stern Il nuovo gruppo perse rapidamente la maggior parte dei suoi seguaci allorchè essi iniziarono a rendersi conto di dove Stern li stesse portando, e o ritornarono nell’Irgun o si arruolarono nell’esercito inglese. Gli irriducibili non fecero che aumentare il proprio isolamento autofinanziandosi con rapine alle banche sioniste o estorsioni a singoli391. La loro attività anti- britannica in questo periodo si limitò a malapena a un attentato con esplosivo all’ufficio immigrazione di Haifa, contro la deportazione nelle Isole Mauritius di immigrati illegali, all’affissione di manifesti e a disperati scontri a fuoco con il CID392 che stava loro alle calcagna, sostenuto da elementi dell’Haganah e dell’Irgun. Nel 1941 molti sternisti furono arrestati compreso Yzernitzkij. Il 9 gennaio 1942 la rapina a una banca dell’Histadrut fece due vittime tra i dipendenti, e gli inglesi fermarono due sospetti. Come vendetta gli sternisti tesero un agguato al CID. Il 20 gennaio una finta esplosione in una loro base per la fabbricazione di ordigni attirò il CID sul posto, e qui un’altra bomba uccise due ispettori e ne ferì altri due. Naturalmente ciò fece raddoppiare gli sforzi del CID, e la maggior parte dei militanti ancora in circolazione vennero fatti prigionieri o uccisi. Stern rimase sempre più isolato e provò a nascondersi. Non avendo altre opportunità trovò rifugio in una base di un camerata che era già stato arrestato. Il 12 febbraio 1942 il CID vi fece irruzione, lo scoprì nascosto in un guardaroba e lo uccise393.

389 Martin Sicker, Echoes of a Poet: A Reconsideration of Abraham Stern – Yair, 1972 390 Nicholas Bethell, The Palestine Triangle: The Struggle for the Holy Land, 1935-48, 1979 391 John Bowyer Bell, Terror Out of Zion, 1976 392 Criminal Investigation Department, spaciale settore della polizia mandataria. 393 Yehuda Bauer, From Diplomacy to Resistance: a History of Jewish Palestine, 1930-1945, 1970 130

Nuovo corso terroristico I seguaci di Stern ancora liberi erano desiderosi di vendicarsi nei confronti della polizia inglese: il 22 aprile l’auto di un ispettore saltò in aria e il 1 maggio un’altra auto di polizia per poco non fu distrutta da una mina elettrica. Questi episodi furono tuttavia gli ultimi sussulti , dopo i quali l’organizzazione di fatto interruppe l’attività. Fu la fuga di Yzernitzkij e Eliyahu Giladi dal campo di detenzione di Mizra, vicino Acri, che segnò la ripresa del movimento, ora denominato Lohamei Herut Yisrael (Combattenti per la Libertà di Israele), o semplicemente Lehi394. Yzernitzkij stava lentamente ricostruendo i contatti tra i pochi sopravvissuti quando concluse che Giladi rappresentava una minaccia per la sicurezza del gruppo. Quest’ultimo aveva deciso che dovevano impegnarsi in una campagna di uccisioni di dirigenti della WZO, incluso Ben-Gurion, e minacciò di espellere i militanti che si fossero opposti a quel progetto. Yzernitzkij, di sua iniziativa, ordinò che fosse ucciso senza un processo interno, dopodiché riunì alcuni del suo gruppo e offrì di essere processato a sua volta in caso di loro disapprovazione di ciò che aveva fatto. Non c’è bisogno di dire che costoro approvarono il suo operato395. Nell’estate del 1943 Nathan Yalin-Mor fece uscire un proprio articolo dal campo di detenzione di Latrun, proclamando che la prigionia era una pena insopportabile per un combattente. Da allora innanzi a ogni membro del Lehi coinvolto in una retata fu proibito di abbandonare l’arma per evitare l’arresto. L’ordine era “Uccidere, essere uccisi, ma non la prigione!”396. La motivazione razionale dell’ordine era che la consapevolezza del rischio di sparatorie avrebbe indotto la polizia a limitare i blocchi stradali per semplici controlli, ma di fatto esso condusse all’uccisione di alcuni altri militanti sternisti e poliziotti, rafforzando l’idea dell’opinione pubblica che si trattasse di disperati. L’effetto fu una sorta di “autodisarmo” fino alla Pasqua ebraica del 1944, quando Begin, allora a capo dell’Irgun, incontrò Yzernitzkij e lo convinse che quella linea ostacolava la programmazione “se in ogni momento vi possono essere scontri imprevisti tra uno o più militanti clandestini e le forze nemiche”397. Durante la notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre 1943 Yalin-Mor e altri 19 sternisti fuggirono dalla prigione di Latrun attraverso un tunnel e presto un triumvirato prese la guida del Lehi: Yalin-Mor e Scheib come propagandisti e Yzernitzkij come comandante operativo. Scheib era un mistico di destra, capace soltanto di pomposità retoriche, e fu Yalin-Mor a fornire le specifiche linee politiche. Le notizie sull’Olocausto in Europa avevano reso psicologicamente impossibile per loro, in quanto ebrei, mantenere una linea fascista o pro-nazista, ma Yalin-Mor mantenne e sviluppò la demagogia di Stern. Il Lehi ora vedeva due altri potenziali alleati: i sovietici, di cui Yalin-Mor comprese la futura svolta anti-inglese dopo la guerra; e gli arabi. Pur proclamando ancora il proprio stato sionista dal Mediterraneo all’Eufrate, essi ora sostennero di essere parte di un più ampio fronte antimperialista in Medio Oriente. La nuova linea fornì gran parte delle motivazioni stanti dietro l’uccisione al Cairo di Walter Guinness, Lord Moyne I, il ministro di Churchill in Medioriente. I giovanissimi assassini furono Eliyahu Hakin e Eliyahu Bet Zouri, ma l’organizzatore fu un chassidico di Tel Aviv dalla lunga barba: rabbi Dov Shamir398. Shamir giustifica ancora l’uccisione. Moyne

era Segretario Coloniale quando la sfortunata nave carica di immigrati, la Struma, raggiunse Istanbul, ed egli fu uno di coloro che fece pressione sui turchi affinchè la respingessero nel mar Nero399…Fu uno di coloro che quando fu interpellato in quanto vi era la possibilità di salvare un milione di ebrei400 dall’Olocausto nazista, disse: “Cosa ne farò di costoro?”401

394 Gerold Frank, The Deed, 1963 395 Yediot Ahronot, 7 settembre 1983 396 Jewish Spectator, estate 1980 397 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 398 Gerold Frank, The Deed, 1963. Yzernitzkij sotto falso nome e identità. 399 La nave fu affondata nelle prime ore del 24 febbraio 1942, per errore, da un sottomarino sovietico, che la scambiò per una nave turca, e i passeggeri perirono tutti. 400 Il riferimento è alla trattativa avviata dai nazisti nel marzo 1944 per negoziare la liberazione di un milione di ebrei ungheresi, alla quale gli inglesi si opposero. Lord Moyne giustificò il rifiuto della trattativa spiegando all’intermediario sionista Joel Brand di non sapere dove ricollocare i profughi. Vedi La storia di Joel Brand, 1956. 401 The Times, 21 ottobre 1983 131 Tuttavia fino al 1940 Stern scrisse ai nazisti per informarli delle proprie attività che “con determinati accorgimenti”, avrebbero potuto esprimersi “al di fuori della Palestina”. Quando Yalin-Mor giunse in Palestina, Stern gli disse del suo progetto di uccidere il ministro inglese in Egitto, per dimostrare che la loro battaglia non era solo contro la presenza inglese in Palestina ma contro l’Impero in sé. Ma quando Londra diede quell’incarico a un australiano, il piano dovette essere temporaneamente accantonato, poiché l’uccisione di un australiano non sarebbe stata compresa. Il ritorno in carica dell’ex Segretario Coloniale, nel 1944, rimise il progetto all’ordine del giorno402. Nel 1944 il sionismo in Palestina non interessava molto gli egiziani, alle prese con il dominio inglese sul loro territorio, e vi fu un’istintiva simpatia verso i due giovani che avevano ucciso il rappresentante degli odiati stranieri, e le buone impressioni furono rafforzate quando Bet Zouri affermò che essi non erano sionisti403. Sebbene il ruolo di Moyne nel negare la Palestina come luogo di accoglienza degli ebrei europei fu secondo Shamir la giustificazione dell’uccisione, quell’atto non aiutò per nulla gli ebrei superstiti nei territori occupati dai nazisti, e alienò gran parte dell’opinione pubblica e del governo inglese dalla causa sionista, dando all’Haganah il pretesto per collaborare apertamente con il CID contro l’Irgun404 (vedi capitolo 11). Begin, i cui uomini erano braccati dall’Haganah, dice che:

I nostri uomini erano stupiti di vedere militanti del Lehi camminare senza paura per le strade di Tel Aviv. L’enigma fu risolto con la formazione del Movimento di Resistenza unificato. Allora mi dissero che il Lehi promise a Golomb (dell’Haganah) che avrebbe sospeso le operazioni contro gli inglesi, e di conseguenza l’Haganah non fece operazioni contro il Lehi in quel periodo405.

La fase di rispettabilità della Banda Stern L’accordo con l’Haganah sfociò nel poco longevo Movimento di Resistenza post-bellico, che diede improvvisamente ai vituperati fascisti e terroristi della Banda Stern una nuova rispettabilità agli occhi dei sionisti, ma l’alleanza si ruppe dopo l’attentato al King David Hotel, che indirettamente portò anche alla caduta di rabbi Shamir. L’esercito inglese aveva concluso che l’Irgun avesse organizzato l’azione da Tel Aviv, e nell’aprile 1946 impose il coprifuoco sulla città. Shamir, seppur mimetizzato barba lunga, cappello nero e un lungo caffetano, fu preso in una retata e riconosciuto da un detective a causa delle folte sopracciglia406. Due settimane dopo fu trasferito in una prigione di Asmara, in Eritrea. Egli fuggì dalla prigione con altri irgunisti il 14 gennaio 1947 e dopo un rocambolesco viaggio nel vano nascosto di un’autobotte giunse ad Addis Abeba. Da lì riuscì a passare a Gibuti, nel Somaliland francese, ove fu di nuovo incarcerato. Tuttavia i rappresentanti dell’Irgun in Francia convinsero il Primo ministro Robert Schumann, ostile agli inglesi per il successo di questi ultimi dell’allontanare la Francia dal Medio Oriente, a ordinare il trasferimento di Shamir e di un altro irgunista evaso a bordo di una nave francese, ed egli giunse in Francia all’inizio del 1948 ove ebbe l’asilo politico. In maggio giunse nel nuovo stato di Israele. La propaganda di Yalin-Mor aveva fornito agli sternisti un’immagine anti-imperialista, non solo alle loro alcune centinaia di seguaci in Palestina ma anche all’estero. Egli affermò alla stampa che:

Noi siamo per una Palestina democratica, libera e indipendente. Ci opponiamo a ogni sorta di sfruttamento. Non siamo anti-socialisti. Crediamo in uno stato forte fondato sui metodi cooperativi. La maggioranza del popolo ebraico in Palestina è formata da lavoratori, e noi crediamo che essi governeranno bene il paese407.

La maggioranza dei dirigenti del Lehi tuttavia rimasero decisamente a destra, vedendo in queste parole solo un’abile tattica. Queste correnti militariste sono tipiche per la loro ambiguità ideologica, i loro membri non badano molto a ciò che viene detto in loro nome, finchè hanno la possibilità di far parlare le armi.

402 Midstream, marzo 1980 403 Gerold Frank, The Deed, 1963 404 Middle Eastern Studies, ottobre 1979 405 Menachem Begin, The Revolt: Story of the Irgun, 1951 406 Nicholas Bethell, The Palestine Triangle: The Struggle for the Holy Land, 1935-48, 1979 407 New York Post, 28 dicembre 1945 132 Vi fu almeno un incontro con Meir Vilner del Partito Comunista di Palestina408. Tuttavia quando i sovietici appoggiarono il piano di partizione del 1947, gli sternisti denunciarono quell’accordo come una negazione del diritto ebraico alla totalità di Eretz Israel sui due lati del Giordano. Qualunque linea progressista in seno al Lehi svanì completamente con la sua partecipazione al massacro di Deir Yassin.

L’assassinio del conte Folke Bernadotte Con la creazione dello stato sionista il Lehi si dissolse nelle strutture israeliane, e i suoi seguaci entrarono nell’IDF, ma come l’Irgun esso continuò a mantenere un’esistenza indipendente a Gerusalemme. Fu l’assassinio il 17 settembre 1948 del conte Folke Bernadotte, inviato speciale delle Nazioni Unite, che portò all’autodistruzione del Lehi. Per mesi la stampa dell’organizzazione aveva attaccato Bernadotte, e quando una sigla completamente sconosciuta, Hazit HaMoledeth (Fronte Patriottico), rivendicò l’attentato, tutti compresero che esso in realtà era stato opera della Banda Stern. L’assassinio fu percepito dall’opinione pubblica mondiale come un crimine, e il governo di Ben-Gurion mise fuorilegge il Lehi e fece arrestare Yalin-Mor e altri membri del gruppo, mentre Shamir fu costretto a nascondersi. La maggior parte degli organizzatori dell’attentato naturalmente sono sempre stati riluttanti a descriverne l’attuazione. L’identità dell’esecutore materiale, Yehoshua Cohen, fu scoperta molti anni dopo, ed egli ammise il crimine con Ben- Gurion, che era diventato (e rimase) suo grande amico409. I procuratori israeliani stabilirono che non vi erano prove sufficienti per collegare direttamente Yalin-Mor all’accaduto, e preferirono processare lui e Matityahu Schmulewitz in base all’Ordinanza di Prevenzione del Terrorismo, davanti a un tribunale militare, anziché in quanto capi di un’organizzazione terroristica410. Yalin-Mor davanti ai giudici accusò Bernadotte: “Egli ostacolava l’annessione ebraica del regno di Transgiordania, e dell’intera Palestina”411. Yalin-Mor fu condannato a otto anni di prigione, e Shmulewitz a cinque. Yalin-Mor tuttavia il 25 gennaio 1949 si candidò alle prime elezioni della Knesset nella lista del Partito dei Combattenti, conquistò un seggio, e il 14 febbraio fu amnistiato con tutti gli sternisti ancora detenuti412. Shamir potè uscire dalla clandestinità. Shamir fu uno degli organizzatori dell’attentato? 34 anni dopo egli rifiutò di concedere un’intervista a Amitsur Ilan, che stava studiando la vicenda, ma quest’ultimo basandosi su fonti ufficiali e su altre interviste concluse infine che Shamir fu il principale promotore dell’esecuzione413. L’opinione di Ilan è la stessa di coloro che hanno scritto dell’episodio, come Benny Morris che firmò l’articolo di fondo del Jerusalem Post sul futuro Primo ministro: “Si ritiene da più parti che egli abbia pianificato…l’uccisione del mediatore ONU in Palestina, il conte Folke Bernadotte, nel settembre 1948”414. Shamir rimase fino alla fine nel Partito dei Combattenti, ma esso si disgregò di lì a poco, con la fuoriuscita dell’ultradestra nel 1950 e la mancata candidatura di Yalin-Mor nelle elezioni del 1951. Shamir e Yalin-Mor entrarono in affari che sulle prime andarono male. Allora Shamir divenne gestore di una catena di cinema, e quindi provò a mettere in piedi un’impresa di costruzioni nel Negev415.

Da terrorista clandestino a terrorista di stato Nel 1955 il governo laburista reclutò nel Mossad l’ex organizzatore di assassinii. Naturalmente la carriera di Shamir nella polizia segreta sionista è avvolta nell’oscurità. Who’s Who in Israel - 1978, conformemente alla propria linea di condotta in tali casi, si limitò a dire che aveva svolto il servizio in un “ruolo importante”. Fu scritto che fu uno dei principali luogotenenti dell’allora capo del Mossad Isser Harel, e che organizzò diverse operazioni contro scienziati tedeschi in Egitto416. E’

408 Haaretz, 11 febbraio 1983. Il PCP aveva perso il suo carattere antisionista dopo la scissione dei membri arabi nel 1943 (n.d.t.). 409 Michael Bar-Zoar, Ben-Gurion: a Biography, 1978 410 Palestine Post, 23 gennaio 1949 411 Arab World, settembre 1968 412 Sune Persson, Mediation and Assassination. Count Bernadotte's Mission to Palestine in 1948, 1979 413 Haaretz, 7 settembre 1983 414 Jerusalem Post, 18 settembre 1983 415 Koteret Rashit, 7 settembre 1983 416 Koteret Rashit, 7 settembre 1983 133 lecito domandarsi se ebbe a che fare con le lettere esplosive ricevute da costoro. E’ stato anche riportato che era a capo dell’ufficio del Mossad in Europa quando andò in pensione nel 1965. Dopo la pensione Shamir divenne un piccolo uomo d’affari e poi manager di varie attività, tra cui nei tardi anni ’60 di una fabbrica di gomme a Kfar Sava417. Si dedicò al movimento ebraico sovietico, si unì all’Herut nel 1970 e divenne capo del suo nuovo dipartimento all’immigrazione. Ma qualunque cosa Begin pensasse di lui in quei giorni, quando per la prima volta si candidò alla Knesset, nel 1973, fu solo il 27esimo nella lista dell’Herut. Sebbene una volta eletto alla Knesset non vi svolgesse un’attività particolare, da parlamentare la sua ascesa fu rapida, e nel 1975 fu eletto presidente dell’Herut. Nel 1977, dopo la vittoria del Likud, divenne presidente della Knesset. Sempre intransigente, si astenne al voto del settembre 1978 sugli accordi di Camp David e a quello del marzo 1979 sul trattato di pace con l’Egitto. Credeva che Sadat volesse soltanto recuperare il territorio egiziano per poi tornare su posizioni conflittuali. Nel marzo 1980 sostituì come ministro degli Esteri Moshe Dayan, il quale si era reso conto che Begin stava ingannando Carter a proposito dell’idea di “autonomia” contenuta negli accordi di Camp David. La sua nota abilità nel fantasticare apparve vistosamente in occasione di un suo discorso del 5 ottobre 1981 davanti all’ultra-conservatrice Foreign Policy Association a New York:

L’opinione pubblica in Occidente è sottoposta a rumorosi clamori a supporto della causa palestinese…la propaganda araba rivendica una patria, così la chiamano, per i palestinesi senza patria…E’ importante comprendere che la Giordania è la Palestina, e il conflitto non è, né fu mai, tra Israele e un popolo senza stato. Una volta compreso ciò, la dimensione emotiva che suscita problemi di coscienza in alcuni sarà rimossa. Guardando le cose sotto questa ottica, voi avete da un lato uno stato arabo giordano-palestinese, e dall’altro Israele, dunque il problema si riduce a un conflitto territoriale tra questi due stati. Il conflitto dunque si riduce alla sua dimensione reale, e gestibile418.

Shamir e il massacro di Sabra e Shatila In quanto membro del governo, Shamir condivide tutte le responsabilità relative all’invasione del Libano e al successivo massacro, ma la Commissione Kahan lo chiamò in causa per un supplemento di colpa specifica:

Il ministro degli Esteri sig. Yitzhak Shamir, è stato informato che la commissione potrebbe esprimersi contro di lui se stabilisse che, dopo avere ricevuto dal ministro Zippori419 il 17 settembre 1982 resoconti sulle azioni dei falangisti nei campi profughi, egli non fece i passi adeguati per verificare se tali resoconti corrispondessero ai fatti e non portò quei resoconti alla conoscenza del Primo ministro e del ministro della Difesa. Nel memorandum che il ministro degli Esteri ci ha inviato in risposta alla summenzionata informazione, egli spiega che ciò che udì dal ministro Zippori circa la “indisciplina” dei falangisti non lo indusse a pensare che si trattasse di un massacro; egli pensò invece che si trattasse degli scontri con i terroristi. Non è semplice conciliare le versioni contrastanti su ciò che il ministro Zippori disse al ministro degli Esteri. Noi tendiamo a ritenere che nella conversazione telefonica il ministro Zippori parlò di un “massacro” in corso da parte dei falangisti, ed è possibile che egli abbia anche parlato di “indisciplina”. Ciononostante non siamo in grado di escludere la possibilità che il ministro degli Esteri non abbia sentito o non abbia capito bene il significato di ciò che udì dal ministro Zippori. Allo stesso modo il ministro degli Esteri non ha negato che a proposito di quanto il ministro Zippori gli disse egli fu condizionato dalla consapevolezza che il ministro Zippori fosse contrario alla politica del ministro della Difesa e del Capo di stato maggiore sulla guerra in Libano, e in particolare sulla cooperazione coi falangisti. Quanto emerso in tale circostanza (ovvero che l’affermazione di un ministro a un altro ministro non riceve l’attenzione dovuta a causa delle cattive relazioni tra i membri del governo) è deplorevole e preoccupante. La nostra impressione è che il ministro degli Esteri non fece nessun tentativo reale di verificare ciò che aveva sentito dal ministro Zippori sulle operazioni

417 Jerusalem Post, 18 settembre 1983 418 Times, 6 ottobre 1981 419 Mordechai Zippori, ex militare, ministro delle Comunicazioni e viceministro della Difesa. 134 falangiste nei campi, poiché da parte sua vi fu un atteggiamento scettico a priori nei confronti delle affermazioni del ministro. E’ difficile trovare una giustificazione per informazioni ricevute da un membro del governo, specialmente nelle circostanze in cui tali informazioni giungevano. Il ministro degli Esteri avrebbe dovuto almeno porre le informazioni ricevute all’attenzione del ministro della Difesa e non accontentarsi di chiedere a qualcuno del suo ufficio se erano arrivate notizie da Beirut aspettandosi che chi faceva parte del suo staff sapesse ogni cosa e l’avrebbe informato se fosse accaduto qualcosa di fuori dell’ordinario. Dal nostro punto di vista il ministro degli Esteri sbagliò nel non prendere alcun provvedimento dopo la conversazione col ministro Zippori a proposito di ciò che aveva udito da Zippori sulle azioni dei falangisti nei campi420.

Si ricorderà che il 16 settembre il governo aveva sentito l’affermazione dello stesso Capo di stato maggiore: “Lo vedo nei loro occhi…ciò che aspettano…Amin ha già parlato di vendetta e tutti stanno affilando le spade”. Ancora una volta vediamo come la Commissione ricavò conclusioni minime da fatti platealmente evidenti. Zippori era stato avvertito da Zeev Schiff, analista militare di Haaretz, ed è ragionevole pensare che o informò Shamir della fonte, o Shamir gli chiese chi fosse la fonte. Per di più, se anche Shamir forse personalmente non condivideva le esitazioni di Zippori riguardo la linea del Capo di stato maggiore, Zippori stava solamente confermando a un giorno di distanza i timori espressi dallo stesso Capo di stato maggiore. Shamir dapprima ignorò l’affermazione di quest’ultimo, e poi l’accurato resoconto di Zippori, perché a quanto pare, emotivamente e consapevolmente, voleva un massacro. Questa è l’unica conclusione compatibile con la sua lunga carriera di assassino e fanatico sionista.

Shamir al potere: il silenzio è assordante Perché non vi fu alcuna protesta tra i sionisti quando un uomo con la storia di Shamir giunse al potere? Solo pochi mesi prima, nel febbraio 1983, due giornalisti di Haaretz, il principale quotidiano del paese, avevano scritto della collaborazione tra la Banda Stern e i nazisti, quando l’allora ministro degli Esteri Shamir aveva attaccatato il sionista di sinistra Uri Avnery per un’intervista ad Arafat. Ma a parte la richiesta di un’indagine da parte di M.K. Virshuvskij del piccolo Shinui421, nessuno prestò molta attenzione alla notizia. Quando Shamir fu indicato per la successione a Begin, l’Associazione Israeliana dei Combattenti Antifascisti e delle Vittime del Nazismo inviò messaggi al Presidente Herzog e al governo chiedendo loro di non permettere a Shamir di assumere l’incarico, sulla base della recente evidenza che egli fu “uno di coloro che fecero il tentativo di allearsi coi rappresentanti ufficiali della Germania nazista”422. E il professor Yesheyahu Leibowitz, uno dei più insigni studiosi e critici, doverosamente scrisse una lettera ad Haaretz, chiedendo di sapere come mai non vi fossero proteste per il fatto che il paese ora avesse un quasi-collaborazionista come Primo ministro. L’opposizione ufficiale, l’Allineamento, tuttavia tacque. Il suo silenzio fu basato su due considerazioni. Nell’immediato, l’opposizione non aveva la seria intenzione di prendere il potere al principio del crollo della Borsa israeliana, ma vi erano anche ragioni storiche profonde per la loro mancanza. I sionisti laburisti erano ben consci della linea della Banda Stern quando l’avevano accolta nel Movimento di Resistenza nel 1945, e il governo laburista conosceva la storia personale di Shamir quando lo accolse nel suo Mossad. Sapeva bene del passato fascista dell’Herut quando incluse Begin nel governo nel 1967. Come avrebbe potuto l’opposizione nel 1983 essere improvvisamente turbata dal passato di Shamir? Per di più, i laburisti si erano legati a così tanti criminali dall’Olocausto in poi (Nixon e Vorster solo per citarne due) da aver perso ormai ogni volontà di lamentarsi di un quasi-collaboratore di Hitler.

La crisi economica Il 10 ottobre 1983 la nomina di Shamir fu approvata con 60 voti contro 53, ma non prima della consueta concessione all’Aguda, tipica del Likud. Al partito ortodosso come boccone fu promesso un editto che limitasse la vendita dei prodotti suini (le leggi attuali vietano solo l’allevamento dei maiali nelle aree non cristiane). Il governo poi acconsentì a fare pressioni sul sindaco di

420 Times, 9 febbraio 1983 421 “Cambiamento”, partito laico centrista fondato nel 1974, all’epoca aveva due seggi alla Knesset. 422 Jerusalem Post, 18 settembre 1983 135 Gerusalemme perché rinunciasse al progetto di costruzione di una piscina mista (per maschi e femmine) nelle vicinanze di un quartiere ortodosso423. Ma il nuovo premier dovette presto far fronte a un problema molto più urgente di maiali e bagnanti, ovvero il crollo della Borsa di Tel Aviv. Di fronte a questo egli fornì la classica risposta dei reazionari, ovvero tagli al bilancio: “I livelli di vita e di consumo saranno ridotti, a parte le fasce di reddito più basse”424. Anche prima della crisi le statistiche indicavano che l’economia stesse andando verso il disastro. Mentre la disoccupazione era il solo al 5% a livello nazionale, essa era mediamente del 23% nella fascia 18 – 24 anni delle zone di sviluppo urbano. La disoccupazione tra i giovani nei quartieri popolari ebraici era indicata a livelli quasi altrettanto alti425. Nel contempo le esportazioni in agosto calarono del 15% rispetto all’agosto precedente. L’ “export militare” si interruppe bruscamente426. L’agricoltura israeliana perdeva i suoi mercati mentre altri stati colmavano il gap tecnologico. Il sistema dei moshavot, le fattorie private legate tra loro attraverso le cooperative commerciali, erano a rischio non avendo seguito l’esempio dei kibbutz, che si erano diversificati nel settore industriale. Dall’altro lato le importazioni salivano, e nel 1982 il deficit commerciale arrivò a 5 miliardi di dollari. Il tasso annuale di inflazione del 132% costrinse di fatto la popolazione a trovare il sistema di ridurre le spese, e Yoram Aridor, ministro delle Finanze di Begin, aveva cinicamente calcolato che per il governo sarebbe stato meglio se la gente avesse investito in azioni piuttosto che in beni di consumo. Vennero emessi nuovi stock a condizione che il denaro investito fosse prestato allo stato. Il mercato si bloccò e il valore delle azioni salì al 70% dell’inflazione. Il fatto che Israele non avesse una tassazione sui guadagni finanziari attirò gli speculatori stranieri. Alla fine la bolla ebbe un brusco stop e le banche dovettero chiedere grossi prestiti al governo per tenere vivo il mercato e alla fine loro stesse azioni, dal momento che a inizio ottobre gli investitori iniziarono a venderle nella corsa sfrenata alla conversione dei loro svalutati shekel in dollari. Il crollo della moneta locale spinse la gente a correre nei supermercati, con la certezza che i prezzi sarebbero aumentati. La Borsa fu costretta a chiudere, e il 12 ottobre il Jerusalem Post uscì con tre immagini: Shamir sorridente seduto sulla poltrona di Primo ministro, il ministro delle Finanze imbronciato e una fila di borse allineate in un supermercato. Il 17 ottobre Aridor venne sostituito con Yigal Cohen-Orgad. Solo tre mesi prima egli aveva parlato all’assemblea dell’Herut e aveva attaccato così duramente la politica di Aridor da suscitare un putiferio, con la sospensione del meeting per motivi di sicurezza427. Il nuovo ministro potè soltanto offrire un’ondata di tagli nel livello di vita. L’immediato aumento del 50% dei prezzi di alimentari, carburanti e altri beni primari, e l’aumento del 23% dei beni d’importazione, furono seguiti dall’aumento dei tassi di interesse e dal raddoppio della tassa sui viaggi all’estero. Furono tassati gli assegni familiari e le pensioni, e anche la frequenza a scuola dei figli. Fu proposto di obbligare i disoccupati ad accettare qualunque impiego fosse loro offerto a 60 chilometri dal luogo di residenza, pena la perdita dei sussidi. Lo scopo dichiarato era di abbassare il livello di vita generale del 10 – 12%, e quello dei dipendenti pubblici del 15%. Si mise in conto l’aumento della disoccupazione ma Cohen-Orgad assicurò che non più di 18.000 ebrei ne sarebbero stati colpiti, in quanto i primi coinvolti sarebbero stati gli 80.000 lavoratori arabi dei territori occupati. I burocrati dell’Histadrut, come al solito, reagirono in maniera minimale, con due ore di sciopero il 16 ottobre, nonostante la richiesta dei consigli operai locali di astenersi dal lavoro per un giorno428. Il 12 dicembre anche l’editorialista del Post lamentò che:

…il calo dei salari reali tra ottobre e il prossimo gennaio potrebbe arrivare al 40 – 50%. Il grande mistero in tutto ciò è cosa stia facendo in proposito Yeroham Meshel, Segretario generale dell’Histadrut. Aspetta degli scioperi spontanei per salire sulla cresta dell’onda del malcontento? Oppure ha accettato tranquillamente la tesi per cui la sola alternativa agli attuali tagli è la disoccupazione di massa, cosa che lo spaventa ancora di più429.

423 Jerusalem Post, 5 ottobre 1983 424 Times, 11 ottobre 1983 425 Jerusalem Post, 12 settembre 1983 426 ibidem 427 Haaretz, 12 luglio 1983 428 Post, 12 ottobre 1983 429 Post, 12 dicembre 1983 136

Se si considera che i lavoratori dell’industria israeliani guadagnavano in media soltanto 4,67 dollari l’ora nel 1982, in confronto coi 4,99 dollari della Spagna, è chiaro che la loro situazione stesse diventando critica430. Se l’Allineamento o l’OLP avessero una minima capacità strategica, Shamir e il Likud cadrebbero in un botto. Per come stanno le cose, quasi certamente egli perderà la carica in un prossimo futuro se il malcontento aumenta, per essere rimpiazzato da qualcun altro del Likud o dei fannulloni dell’Allineamento431. Stante l’empasse nazionalista dell’OLP, e la sua attuale faida interna, il distacco degli orientali dal Likud, lento ma oggettivo, potrebbe non immediatamente svilupparsi nella direzione dell’antisionismo. Stiamo tuttavia assistendo alle fasi iniziali della malattia terminale del sionismo. E’ impossibile per ogni regime sionista risolvere i suoi problemi economici senza pagare un forte prezzo politico. Come correttamente sottolineò Jabotinskij, il sionismo è un’avventura coloniale, fondamentalmente in contrasto con le aspirazioni nazionali dei palestinesi e delle masse panarabe. E’ il dominio sulla Palestina e ora sul sud del Libano che gli impedisce di essere isolato dal mercato arabo. Neanche l’apertura verso l’Egitto con gli Accordi di Camp David ha modificato ciò, in quanto gli egiziani si rifiutano di comprare i prodotti israeliani, specialmente dopo l’invasione del Libano. Per di più, i prodotti israeliani non possono trovare libero mercato in nessun paese musulmano eccetto la Turchia, né nei paesi comunisti eccetto la Romania, e gran parte dell’Africa e dell’Asia sono off-limits per i prodotti israeliani. Israele senza dubbio ha fatto fiorire il deserto, l’agricoltura è il suo punto forte. Ciononostante gli export agricoli ora costituiscono solo il 10% delle esportazioni e si stima che nel 1983 siano state distrutte 150.000 tonnellate di agrumi prodotti a costi eccessivi, e la crescente concorrenza di Marocco, Algeria, Spagna e Grecia si è manifestata sulle vendite israeliane in Europa432. La tendenza evolutiva dell’economia israeliana va dall’agricoltura all’esportazione di beni industriali high-tech, in particolare armamenti, basata su uno strato di lavoratori altamente qualificati. Ma la recente metamorfosi in un’attività di sfruttamento della manodopera a basso costo, in senso coloniale classico, ha creato un problema irresolubile di disoccupazione e bassa educazione tra i giovani ebrei dei distretti popolari, che non hanno posto nel sistema occupazionale attuale e che non sono più disponibili a tornare ai lavori manuali malpagati, visti ormai come prerogativa soltanto degli arabi. Il servizio militare è funzionale ad assorbire la disoccupazione, in quanto sottrae i giovani dal mercato del lavoro per 28 mesi, una media di circa un mese all’anno per tutti i maschi sotto i 45 anni. L’esercito rappresenta un’opportunità di carriera per la popolazione in eccesso nei kibbutz, che nonostante sia contraria al governo del Likud tuttavia fornisce all’aereonautica e agli altri settori militari specializzati un numero sproporzionato di quadri. Per di più la pratica con l’attività militare ha permesso di aumentare le capacità tecniche dell’intera forza lavoro israeliana. Con tutto ciò, l’ipermilitarismo sionista è un fardello economico pesante. Nel 1982 il pagamento del debito, in gran parte dovuto all’importazione di armi, costituì il 35% del Prodotto Nazionale Lordo433.

L’America viene in soccorso Nel tentativo di risolvere la crisi economica, il governo di Shamir si è mosso in due direzioni. Da una parte Cohen-Orgad sta raccomandando un parziale stop all’ulteriore colonizzazione della Cisgiordania. Sono stati proposti 31 nuovi insediamenti, ma il ministro delle Finanze vuole evitare di sostenerne la maggior parte434. La Settlers Organization, piuttosto correttamente, ha detto che la sua linea è un “suicidio ideologico” e che ogni ritiro, anche minimo, significa mettere a repentaglio l’intera impresa sionista. Dall’altra parte, il 29 ottobre 1983 l’amministrazione Reagan ha varato la Terza Direttiva sulla Sicurezza Nazionale, optando per un accresciuto ruolo di Israele in Libano, e con la visita di Shamir a Washington del 28 novembre – 2 dicembre è stato raggiunto un accordo di cooperazione

430 Post, 27 novembre 1983 431 (n.d.t.) Il 23 luglio 1984 si tennero nuove elezioni anticipate e i laburisti e il Likud formarono amorevolmente un governo di unità nazionale, con due anni di premiership a testa: prima Shimon Peres (1984 – 86) e poi di nuovo Shamir (1986 – 88). 432 Midstream, novembre 1983 433 Guardian, 14 dicembre 1983 434 Times, 29 dicembre 1983 137 strategica tra Israele e Stati Uniti. Una commissione programmerà esercitazioni militari comuni, l’utilizzo del porto di Haifa da parte degli USA e lo stoccaggio dei prodotti USA in Israele. Attualmente la fornitura di armamenti USA a Israele è di 1,7 miliardi, di cui metà in concessione. Nell’anno fiscale 1985 gli USA daranno a Israele solo 1,4 miliardi in armamenti, ma tutti in concessione. Il 50% del denaro deve essere speso in loco per lo sviluppo del cacciabombardiere Lavi invece che nell’acquisto di aerei americani, un accordo inedito nella storia del supporto militare USA ai suoi clienti. Il Pentagono potrà acquistare più prodotti e servizi israeliani. Inizieranno negoziati per un trattato sul libero commercio, che attualmente esiste solo con il Canada435. Sotto l’Allineamento la politica israeliana era intesa a evitare il diretto contrasto con l’Unione Sovietica, ma il Likud ora si presenta all’opinione pubblica americana come il bastione del “Mondo Libero” nella guerra globale, e non solo in Medio Oriente. Il legame con l’antisovietico viscerale Reagan naturalmente accresce la preoccupazione nell’opinione pubblica israeliana. Shamir non è un buon oratore, e nessuno ha creduto al suo discorso alla Knesset del 5 dicembre 1983 in cui ha negato di aver stipulato qualsiasi accordo militare segreto. Haaretz ha affermato senza mezzi termini che è difficile credere che americani e israeliani non abbiano coordinato i loro raid aerei contro le forze nazionaliste libanesi e siriane436.

In futuro L’opinione pubblica israeliana si è polarizzata sempre più sulla questione dell’occupazione del Libano; la sconfitta delle forze di Gemayel a Beirut Ovest437 e il susseguente ritiro dei marines438 hanno soltanto incrementato la tensione nel paese. Quando Shamir visitò il sud del Libano nel novembre 1983, un riservista gli disse che gli sembrava di essere in un film sulla conquista tedesca dell’Europa, e una consistente minoranza di israeliani già concorda con lui439. Ai primi di febbraio 1984, ancor prima della sconfitta falangista, Haaretz riportò che il 39,5% degli israeliani era favorevole a un ritiro incondizionato440. La debacle di Gemayel e il ritiro di Reagan significano il fallimento del tentativo del Likud di imporre a Beirut un governo che lo aiuti a controllare la parte meridionale del paese, e Shamir rimane con due possibilità: il ritiro, che sarebbe interpretato come una sconfitta politica, se non militare, o l’occupazione permanente del sud del Libano, con la certezza di più vittime israeliane e senza una prospettiva di soluzione del problema palestinese. In ogni caso, per di più, Israele non recupererà più il sostegno popolare perduto negli USA. L’errore di Reagan è stato di pensare che la “sindrome vietnamita” fosse ormai un retaggio del passato. Invece egli ha dovuto far fronte all’evidenza che il popolo americano non è disposto a veder morire i suoi giovani in difesa del sistema capitalistico. Gli attivisti anti-sionisti negli USA ora sapranno come trarre vantaggio dalla “sindrome post-libanese” per opporsi a qualunque tentativo della politica di utilizzare i militari israeliani, a loro volta sempre più refrattari, per compiere il lavoro sporco per Wall Street. In entrambe le società il crescente movimento contro la guerra è ostacolato dalla profonda arretratezza ideologica delle masse, per varie differenti ragioni. Nella ricca America il riformismo è molto forte, e nel caso della Palestina la situazione è aggravata dalla dipendenza economica dell’ala liberale del Partito Democratico dai finanziamenti di quella stessa borghesia ebraica che sostiene il sionismo. Il professor Israel Shahak, noto israeliano anti-sionista, ha perfettamente ragione quando scrive che

Vediamo…quanto il cosiddetto attivismo americano per i diritti umani è compromesso quando si parla del razzismo ebraico. Oggi (nel 1983) non troverete che poche organizzazioni negli USA

435 Guardian, 14 dicembre 1983 436 Times, 6 dicembre 1983 437 Sin dal giugno 1982 la resistenza libanese si organizzò nel partito islamico Hezbollah, addestrato e assistito dai pasdaran iraniani, che subentrò all’OLP nella guerriglia contro l’occupazione sionista e i falangisti. L’11 novembre 1982 un attentato suicida con un’auto guidata dal 19enne Ahmad Qasir distrusse il quartier generale israeliano a Tiro, uccidendo 75 militari. L’11 novembre è diventato per Hezbollah il Giorno del Martire. (n.d.t.) 438 Il 23 ottobre 1983 241 marines e 56 paracadutisti francesi morirono in un doppio attentato a basi delle forze multinazionali a Beirut. Il 18 aprile dello stesso un attacco suicida contro l'ambasciata USA aveva fatto 63 morti, di cui 17 cittadini statunitensi, inclusi agenti della Cia. (n.d.t.) 439 Al-Hamishmar, 9 novembre 1983 440 Times, 7 febbraio 1984 138 che spendano una parola di protesta contro queste atrocità (distruzione di case che offrono riparo a presunti terroristi), e intendo anche quelle organizzazioni che ogni tanto dicono qualcosa sulla “soluzione della questione palestinese”.441

In Palestina, le masse sia arabe che ebraiche sono ancora dominate dall’ideologia nazionalista. I leader di Peace Now, di gran lunga il gruppo più ampio nel campo della pace israeliano, sono degli incorreggibili razzisti. Il loro legame col sionismo è così profondo che essi non cercano di reclutare attivisti tra il 17% della minoranza araba del paese. E’ ovvio che qualunque movimento pacifista che si rifiuti categoricamente di coinvolgere il 17% della popolazione è automaticamente condannato all’impotenza. Peace Now fa affidamento sul ritorno dell’Allineamento al posto del sempre più impopolare Likud. Di certo il Likud cadrà, ma pensare che i colonialisti e i razzisti dell’Allineamento possano risolvere la crisi di una società razzista e coloniale è una dimostrazione di grande ingenuità. Perché la causa palestinese faccia dei passi avanti, occorre superare il nazionalismo, il riformismo e il terrorismo. L’OLP ora è profondamente divisa a causa della recente guerra fratricida in Libano, e la susseguente visita di Arafat a Mubarak in Egitto. E’ troppo presto per dire se essa continuerà a essere un’unica entità o le sue fazioni continueranno a contendere tra loro come adesso. Una cosa tuttavia è assolutamente certa: la lotta contro il sionismo continuerà e inevitabilmente avrà successo. Jabotinskij fu corretto nel definire il sionismo come un’avventura coloniale e razzista. Egli previde uno stato sionista predominante in Medio Oriente e un mondo controllato dall’imperialismo, con la popolazione palestinese ad accettare il proprio destino così come è accaduto ad altre popolazioni indigene prima di essa. Ma non previde la situazione attuale, nella quale la maggior parte dei popoli colonizzati hanno raggiunto la loro indipendenza. Non avrebbe potuto prevedere una situazione nella quale i palestinesi sono la parte più avanzata del mondo arabo, nè che la dottrina sionista-revisionista del Muro di Ferro cadrà inesorabilmente. Perché non è concepibile nella mentalità moderna l’accettazione della minima disuguaglianza tra le nazioni. I palestinesi hanno sopportato molti terribili calvari, e altre prove li attendono, ma hanno la capacità di crescere ideologicamente, come tutte le nazioni oppresse, e inevitabilmente svilupperanno la corretta strategia per la vittoria. L’antidoto alla politica del Muro di Ferro è un movimento laico democratico per una Palestina laica e democratica, un’organizzazione che unisca il popolo palestinese con la minoranza ebraica progressista, una minoranza che crescerà certamente a causa delle infinite guerre imposte alla popolazione ebraica dal sionismo, e a causa della crisi economica che scaturisce da quelle guerre. Pensare altrimenti, credere alla continuità del Muro di Ferro, significa ritenere che vi sarà un’eterna eccezione al cammino verso un mondo laico e democratico.

(1984)

441 Israel Shahak, Is Israel on the Road of Nazism?, 1983 139 Appendice Il Muro di Ferro (noi e gli arabi) di Vladimir Jabotinskij (1923)

Contrariamente all’eccellente regola di venire immediatamente al punto, devo iniziare quest’articolo con un’introduzione personale. L’autore di queste righe è ritenuto un nemico degli arabi, un assertore della loro espulsione, etc. Non è vero. Il mio rapporto emotivo con gli arabi è uguale a quello che ho con tutti gli altri popoli – di cortese indifferenza. Il mio rapporto politico è caratterizzato da due principi. Primo: l’espulsione degli arabi dalla Palestina è assolutamente impossibile in ogni caso. In Palestina vi saranno sempre due nazioni; la qual cosa mi sta bene, se gli ebrei saranno la maggioranza. Secondo: sono orgoglioso di essere un membro che ha redatto il Programma di Helsingfors. Lo abbiamo redatto non solo per gli ebrei, ma per tutti i popoli, e il suo principio è l’eguaglianza di tutte le nazioni. Sono pronto a giurare, per noi e per i nostri discendenti, che non distruggeremo mai quest’eguaglianza, e non cercheremo mai di espellere o di opprimere gli arabi. Il nostro credo, come il lettore può constatare, è completamente pacifico. Ma la possibilità di raggiungere i nostri scopi pacifici con mezzi altrettanto pacifici è tutta un’altra questione. Essa dipende, non dal nostro rapporto con gli arabi, ma esclusivamente dal rapporto degli arabi con il sionismo. Dopo questa introduzione posso adesso venire al punto. Che gli arabi della terra d’Israele accettino volontariamente di addivenire a un accordo con noi è qualcosa che oltrepassa tutti i sogni e le speranze del presente e del prevedibile futuro. Esprimo così categoricamente tale intima convinzione non per spaventare la componente moderata dello schieramento sionista ma, al contrario, perché desidero preservarla da tale spavento. A parte coloro che sono virtualmente “ciechi” dall’infanzia, tutti gli altri sionisti moderati hanno capito da un pezzo che non ci sarà mai la minima speranza di ottenere l’approvazione, da parte degli arabi della Terra d’Israele, a una Palestina a maggioranza ebraica. Ogni lettore avrà certo un’idea almeno approssimativa della storia antica degli altri paesi che sono stati colonizzati. Suggerisco al lettore di richiamare alla mente tutti gli esempi conosciuti. Se provasse a cercare anche solo un esempio di paese che sia stato colonizzato con l’approvazione degli abitanti nativi, non lo troverà. Gli indigeni (non importa se sono civilizzati oppure selvaggi) hanno sempre opposto una fiera resistenza. Inoltre, i modi in cui i colonizzatori si sono comportati non hanno mai avuto alcuna efficacia. Gli spagnoli che conquistarono il Messico e il Perù, o i nostri stessi antenati dell’epoca di Giosuè si comportarono, lo possiamo dire, come predatori. Ma i cosiddetti “grandi esploratori”, gli inglesi, gli scozzesi e gli olandesi, che furono i primi veri pionieri del Nordamerica, erano persone di un livello etico molto alto; persone che non solo avrebbero desiderato lasciare i pellerossa in pace ma che avevano compassione persino di una mosca; persone che credevano, in tutta sincerità e innocenza, che in quelle foreste vergini e in quelle grandi pianure vi fosse spazio a sufficienza per tutti, sia per i bianchi, che per i pellerossa. Ma le popolazioni native resistettero, sia ai coloni barbari che a quelli civilizzati, con il medesimo grado di crudeltà. Un altro punto assolutamente ininfluente è quello di sapere se esisteva o meno il sospetto che il colono avrebbe voluto cacciare gli indigeni dalla sua terra. Le vaste aree degli Stati Uniti non hanno mai contenuto più di uno o due milioni di indiani. Gli indigeni combatterono i coloni bianchi non per la paura che essi avrebbero potuto espropriarli, ma semplicemente perché non c’è mai stato un indigeno, in qualunque luogo o epoca, che abbia accettato l’insediamento di estranei nel proprio paese. Ogni popolazione nativa – sia essa civilizzata oppure selvaggia – considera il proprio paese come la propria dimora natale, di cui si considera l’assoluta padrona. Non permetterà mai volontariamente, non solo un nuovo padrone, ma neppure un nuovo partner. E così è per gli arabi. Quelli tra noi disponibili al compromesso cercano di convincerci che gli arabi sono quel genere di sciocchi che possono essere ingannati da un’espressione addolcita dei nostri scopi, oppure una tribù di mangia-soldi che abbandoneranno i loro diritti ancestrali sulla Palestina in cambio di vantaggi culturali e economici. Rifiuto recisamente questa valutazione degli arabi palestinesi. Culturalmente stanno 500 anni indietro rispetto a noi, spiritualmente non hanno la

140 nostra resistenza e la nostra forza di volontà, ma questo esaurisce tutte le differenze interiori. Possiamo parlare quanto vogliamo delle nostre buone intenzioni ma essi capiscono quanto noi quello che non va bene per loro. Essi guardano alla Palestina con lo stesso amore istintivo e con lo stesso fervore con cui ogni atzeco guardava al suo Messico, o ogni sioux alla sua prateria. Pensare che gli arabi accetteranno volontariamente la realizzazione del sionismo in cambio dei vantaggi culturali e economici che potremo accordare loro, è infantile. Questa fantasia infantile dei nostri “arabofili” viene da una sorta di disprezzo per il popolo arabo, o da qualche sorta di opinione infondata su questa razza come se fosse una marmaglia pronta a essere comprata in modo da svendere la propria terra in cambio di una rete ferroviaria. Quest’opinione è assolutamente infondata. Individualmente gli arabi potrebbero anche essere comprati ma questo non significa certo che tutti gli arabi della Grande Israele siano disposti a svendere un ideale patriottico che nemmeno gli abitanti della Papuasia baratterebbero. Tutte le popolazioni indigene resistono ai coloni invasori fino a quando hanno la speranza di sbarazzarsene. Questo è quello che gli arabi stanno facendo in Palestina, e che continueranno a fare fino a quando vi sarà un briciolo di speranza di impedire la trasformazione della “Palestina” nella “Terra d’Israele”.

Qualcuno tra noi ha immaginato che vi sia stata un’incomprensione; che non avendo gli arabi capito le nostre intenzioni allora ci sono ostili ma, se dicessimo loro chiaramente quanto sono modeste e limitate le nostre ambizioni, tenderebbero le braccia in segno di pace. Anche questo è un errore che si è dimostrato tale molte volte. Ricorderò solo un incidente. Tre anni fa, durante una visita qui, Sokolow fece un grande discorso proprio su questa”incomprensione”, utilizzando un linguaggio tagliente per provare quanto gli arabi si sbagliassero nel supporre che noi volessimo portare via le loro proprietà o espellerli dal paese, o ucciderli. Non era affatto così. Non volevamo neppure uno stato ebraico. Tutto quello che volevamo era un regime rappresentativo della Società delle Nazioni. Una replica a questo discorso venne pubblicata sul giornale arabo, Al-Karmil, in un articolo il cui contenuto riporterò qui a memoria ma fedelmente, ne sono sicuro. “I nostri notabili sionisti sono inutilmente preoccupati - scriveva l’autore - Non c’è incomprensione. Quello che Sokolow afferma riguardo al sionismo è vero. Ma gli arabi lo sanno già. Ovviamente, i sionisti oggi non possono sognare di espellere o di uccidere gli arabi, e neppure di fondare uno stato ebraico. Chiaramente, in questo periodo sono interessati solo a una cosa: che gli arabi non interferiscano con l’immigrazione ebraica. Inoltre, i sionisti hanno promesso di tenere l’immigrazione sotto controllo in accordo con la capacità di assorbimento economico del paese. Ma gli arabi non si fanno illusioni, poiché non sono stati posti altri limiti alla possibilità di immigrazione”. Il redattore del giornale è anche disposto a credere che la capacità di assorbimento della Grande Israele sia molto grande, e che sia possibile insediare molti ebrei senza danneggiare neppure un arabo. “Ma questo è ciò che vogliono i sionisti, e che gli arabi non vogliono. In questo modo gli ebrei diventeranno, poco a poco, la maggioranza e verrà creato, ipso facto, uno stato ebraico e il destino della minoranza araba dipenderà dalla benevolenza degli ebrei. Ma non sono stati gli stessi ebrei a dirci quanto sia “piacevole” essere una minoranza? Non c’è possibilità di equivoco. I sionisti vogliono una cosa: libertà d’immigrazione ed è proprio l’immigrazione ebraica che noi non vogliamo”. La logica di questo redattore è così semplice e chiara che dovrebbe essere imparata a memoria e assunta come parte essenziale della nostra concezione della questione araba. Non è importante da parte nostra citare Hertzl o Herbert Samuel per giustificare le nostre azioni. La colonizzazione stessa ha la sua propria spiegazione, integrale e ineludibile, e comprensibile da ogni arabo e ogni ebreo che siano dotati di prontezza di spirito. La colonizzazione può avere un solo scopo. Per gli arabi palestinesi questo scopo è inammissibile. Questo rientra nella natura delle cose. Cambiare questa natura è impossibile. C’è un piano che sembra attrarre molti sionisti ed è il seguente: se è impossibile avere l’approvazione degli arabi palestinesi, allora bisogna ottenerla dagli arabi della Siria, dell’Iraq e dell’Arabia Saudita e forse anche dell’Egitto. Ma anche se questo fosse possibile, non cambierebbe la situazione di partenza. Non cambierebbe l’atteggiamento degli arabi della Terra d’Israele verso di noi. Settant’anni fa, venne conseguita l’unificazione dell’Italia, con la conservazione da parte dell’Austria di Trento e Trieste. Tuttavia, gli abitanti di queste città non solo si rifiutarono di accettare la situazione, ma combatterono contro l’Austria con raddoppiato vigore. Se fosse possibile (ma ne dubito) discutere della Palestina con gli arabi di Baghdad e della Mecca

141 come se si trattasse di una sorta di frontiera piccola e immateriale, anche in quel caso la Palestina continuerebbe a rimanere per i palestinesi, non una frontiera ma il loro luogo ancestrale, il centro e la base della loro esistenza nazionale. Perciò sarebbe necessario portare avanti la colonizzazione contro la volontà degli arabi palestinesi, che è la stessa condizione che esiste ora. Ma anche un accordo con gli arabi fuori della Terra d’Israele è un’illusione. Per indurre i nazionalisti di Baghdad, della Mecca e di Damasco ad approvare una concessione così pesante (quella di rinunciare alla conservazione del carattere arabo di un paese ubicato al centro della loro futura “federazione”) dovremmo offrire loro qualcosa di importante. Noi potremmo offrire solo due cose: o denaro o assistenza politica, o entrambe. Ma non possiamo offrire nessuna delle due. Riguardo al denaro, è ridicolo pensare che possiamo finanziare l’Iraq o l’Arabia Saudita, quando non ne abbiamo abbastanza per la Terra d’Israele. Dieci volte più illusoria è l’assistenza politica alle ambizioni arabe. Il nazionalismo arabo mira agli stessi scopi cui mirava il nazionalismo italiano prima del 1870 e il nazionalismo polacco prima del 1918: all’unità e all’indipendenza. Queste ambizioni implicano lo sradicamento di ogni traccia di influenza inglese in Egitto e in Iraq, l’espulsione degli italiani dalla Libia, l’eliminazione della dominazione francese in Siria, Tunisia, Algeria e Marocco. Da parte nostra sostenere un tale movimento sarebbe suicida e proditorio. Se trascuriamo il fatto che la Dichiarazione Balfour è stata firmata dall’Inghilterra, non possiamo dimenticare che è stata firmata anche da Francia e Italia. Non possiamo cospirare all’eliminazione dell’Inghilterra dal canale di Suez e dal Golfo Persico, e del dominio coloniale francese e italiano sulle terre arabe. Un tale doppio gioco è inammissibile sotto ogni punto di vista. Dobbiamo perciò concludere che non possiamo promettere nulla agli arabi della Terra d’Israele o alle nazioni arabe. La loro approvazione volontaria è impensabile. Quindi tutti coloro che ritengono che un accordo con le popolazioni native sia una condizione essenziale che il sionismo debba rispettare, possono ora dire “no” e rinunciare al sionismo. La colonizzazione sionista, anche quella più limitata, deve essere completata, o almeno portata avanti, in aperta sfida alla volontà delle popolazioni native. Una tale colonizzazione può, perciò, continuare e svilupparsi solo sotto la protezione di una forza indipendente dalle popolazioni native – un muro di ferro che le popolazioni native non possano spezzare. Questa è, in toto, la nostra politica verso gli arabi. Indicare altre strade sarebbe solo ipocrisia.

Due brevi osservazioni. in primo luogo se qualcuno obbietta che questo punto di vista è immorale, rispondo: non è vero; o il sionismo è morale e giusto, o è immorale e ingiusto. Ma questa è una questione che avremmo dovuto risolvere prima di diventare sionisti. La questione ora è risolta, e in senso affermativo. Noi riteniamo che il sionismo sia morale e giusto. E poiché è morale e giusto, deve essere fatta giustizia, non importa se Giuseppe o Simone o Ivan o Achmet sono d’accordo oppure no. Non c’è altra moralità. Tutto questo non significa che qualsiasi accordo è impossibile, solo che è impossibile un accordo volontario. Fino a quando vi sarà un briciolo di speranza che possano sbarazzarsi di noi, non rinunceranno alle loro speranze, non lo faranno con parole dolci o con bocconi stuzzicanti, perché non sono una plebaglia ma una nazione, una nazione forse a brandelli ma ancora viva. Un popolo vivo può fare concessioni così enormi su questioni così cruciali solo quando non gli viene lasciata nessuna speranza. Solo quando non vi sia neppure un solo varco visibile nel muro di ferro, solo allora i gruppi estremisti perderanno il loro potere, e l’ascendente passerà ai gruppi moderati. Solo allora questi gruppi moderati si rivolgeranno a noi con proposte di concessioni reciproche. E solo allora i moderati avanzeranno suggerimenti di compromesso su questioni pratiche, come ad esempio un accordo contro le espulsioni, o su argomenti come l’eguaglianza e l’autonomia nazionale. Sono ottimista che costoro riceveranno infine rassicurazioni soddisfacenti, e che entrambi i popoli, come buoni vicini, possano vivere in pace. Ma la sola via per arrivare a un tale accordo è il muro di ferro, vale a dire il rafforzamento in Palestina di un governo senza nessuna influenza araba, che è qualcosa contro cui gli arabi combatteranno. In altre parole, la sola via per noi di un futuro accordo è il rifiuto assoluto di un accordo in questo momento.

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scritti di Jabotinskij

Città di pace (poema 1898)

Povera Charlotte (poema 1902)

Una lettera sull’autonomia (articolo 1904)

Il Bund e il sionismo (articolo 1906)

Paese alieno (poema 1908)

I quattro figli (racconto 1911)

Razza (articolo 1913)

La Turchia e la guerra (saggio 1917)

Il muro di ferro (noi e gli arabi) (articolo 1923)

La legge del ferro (articolo 1925)

Sansone (romanzo 1926)

La storia della Legione Ebraica (saggio 1928)

Lo stato ebraico e la via per ottenerlo (articolo 1931)

Sion e comunismo (articolo 1932)

Sionismo di stato (articolo 1935)

Gli ebrei e il fascismo: qualche osservazione e un avvertimento (articolo 1935)

Lo stato ebraico (saggio 1936)

Evacuazione: il sionismo umanitario (articolo 1937)

Il fronte ebraico di guerra (saggio 1940)

143 testi citati

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Betar. Movimento giovanile revisionista, filofascista.

Brit HaBiryonim. Unione degli “Zeloti”, primo organismo paramilitare revisionista in Palestina, attivo dal 1930.

Bund. Unione Generale dei Lavoratori Ebrei, ebrei socialisti russi e polacchi, antisionisti.

Gahal. Coalizione di centro-destra israeliana comprendente l’Herut di Begin e i liberali, dal 1965 al 1973.

Haganah. La Difesa, milizia sionista fondata da Jabotinsky e successivamente controllata in Palestina dai sionisti laburisti, embrione del futuro esercito israeliano.

Hashomer Hatzair. Giovani Sentinelle, movimento giovanile sionista di sinistra.

HeChalutz. I Pionieri, movimento giovanile dei sionisti laburisti.

Herut. Libertà, partito fondato da Menachem Begin nel 1948 dopo la smobilitazione delle milizie revisioniste

Histadrut. Associazione dei lavoratori ebrei in Palestina.

Irgun Zvei Leumi beEretz Israel. Organizzazione Militare Nazionale in Terra d’Israele (NMO), o semplicemente Irgun, milizia revisionista fondata nel 1931. Nota anche come Etzel. Dal 1942 al 1948 è guidata da Menachem Begin.

Irgun Zvei Leumi beIsrael. Organizzazione Militare Nazionale in Israele (NMO). Scissione dall’Irgun avvenuta nel 1940, meglio nota come Banda Stern dal nome del fondatore. Dal 1944 cambia nome in Lehi. Fu comandata anche da Yitzhak Shamir.

Jewish Agency. Agenzia Ebraica, di fatto la sezione dell’Organizzazione Sionista Mondiale in Palestina.

Likud. Unità, partito di destra israeliano nato nel 1973 dalla fusione dell’Herut di Begin con altre formazioni politiche, su spinta di Ariel Sharon. Attualmente al governo in Israele con Benjamin Netanyahu.

Lohamei Herut Israel (Lehi). Combattenti per la Libertà di Israele, paramilitari revisionisti, nome assunto dalla Banda Stern dal 1944 al 1948.

MAPAI. Acronimo ebraico di Partito dei Lavoratori della Terra di Israele. Partito politico sionista laburista fondato nel 1930 e diretto da David Ben-Gurion. Fu lo strumento principale dell’affermazione del sionismo laburista in Palestina e nel movimento sionista mondiale.

MAPAM. Acronimo ebraico di Partito Unificato dei Lavoratori. Nato nel 1948 dalla fusione di partiti laburisti minori, filosovietico, entrò nel primo governo israeliano.

Mizrachi. Organizzazione sionista religiosa fondata nel 1902 a Vilna in Lituania. In genere il termine si riferisce a correnti e partiti sionisti ortodossi.

147 New Zionist Organization (NZO). Nuova Organizzazione Sionista, fondata nel 1935 dai revisionisti di Jabotinskij fuoriusciti dalla WZO.

Poalei Zion. Lavoratori di Sion, Associazione internazionale dei lavoratori sionisti.

POSDR. Partito Operaio SocialDemocratico Russo, fondato a Minsk nel 1898, protagonista della Rivoluzione del 1917 in particolare con l’ala bolscevica guidata da Lenin. Il Bund ebraico contribuì alla fondazione e fece parte dell’ala menscevica.

World Zionist Organization (WZO). Organizzazione Sionista Mondiale, fondata nel 1897, dagli anni ’20 vide al suo interno una corrente centrista (generale), una di “sinistra” (laburista) e una di “destra” (revisionista). Quest’ultima si staccò nel 1933 e rientrò nel 1946.

Zionistische Vereinigung fur Deutschland (ZVD). Federazione Sionista Tedesca.

148