Alberto

Festa di Vivere i Mostri del Moto

Introduzione di Maurizio Cucchi

© 2001 Editrice Artichut S.a.s.,Firenze

Copyright © Alberto Caramella, 2001

Introduzione

Alberto Caramella è davvero imprevedibile, e infatti ha deciso di sorprenderci ancora. Così, dopo le raccolte di poesie che ne hanno rivelato la fisionomia negli anni scorsi, dopo la serie di iniziative culturali che ci hanno aperto alla sua molteplicità di interessi – essenziale in questo senso lo spazio vivo tra poesia e architettura che si realizza già nei locali e nel bosco della Fondazione Il Fiore, dove Caramella ha ospitato grandi autori della poesia del nostro tempo, da Adonis a Strand, da Walcott a Luzi e Wright – arriva adesso un’opera assolutamente originale: per diversi motivi, e in primo luogo per la forma in cui si compie. Si tratta infatti di testi in prosa, eppure di prose difficilmente collocabili in una misura o in un’idea di genere. Prose narrative? Prose diaristiche? Prose di pensiero? Aforismi? Tutto questo insieme, e nel contempo nulla di tutto questo, nel segno di un’assoluta libertà che oltrepassa i generi. Per chi conosce l’animo inquieto e le continue peregrinazioni del pensiero di Caramella, la cosa in fondo può anche non sorprendere. Ma per chi abbia da poco imparato a conoscerne l’identità di poeta, il discorso tende a complicarsi. O meglio, a farsi più complesso. Felicemente, a mio avviso. Sono infatti convinto che il futuro della parola, per quanto riconducibile ai destini della letteratura, debba per forza di cose uscire dagli schemi ormai troppo angusti di genere, per proiettarsi in una dimensione più libera e varia, quella tout-court della poesia, dove la parola stessa possa essere parola lirica, parola di pensiero, parola di racconto e situazioni. Alberto Caramella, senza teorizzare in alcun modo, sembra far propria questa convinzione, come dimostrano le prose che ci presenta oggi. Si tratta infatti di testi che, volta a volta, accostano un genere o un altro genere, e che sempre se ne allontanano, come per insofferenza, come per insufficienza della gabbia che li designa. E la conferma più risoluta e impressionante di questa irrinunciabile tendenza è proprio nell’uso speciale e quasi sprezzante che Caramella fa dei propri versi del passato, reintrodotti nel corpo del formidabile “mostro” costituito dal suo nuovo libro. Riprende infatti sue poesie, ne abolisce la scansione metrica, e le riusa come pensieri, aforismi o immagini autonome a sé stanti e in prosa. Con un solo accorgimento che ne rivela la provenienza, e cioè con l’indicazione del libro a cui appartenevano (e continueranno, in ogni caso, ad appartenere). Un’operazione, dunque, del tutto radicale, che si offre coraggiosamente, generosamente al rischio, come è del resto nella stoffa di questo autore, che certo non ama gli accorgimenti e le finzioni letterarie, che pensa e punta sempre alto e lo fa senza mezze misure. Detto questo va pur chiarito l’orizzonte di coerenza entro il quale si muovono questi densissimi scritti, cercando anche di istituire una sorta di rapporto tra gli stessi e la poesia dell’autore. Direi che Caramella ha come sentito il bisogno di riprodurre sulla pagina i meccanismi di articolazione libera del proprio pensiero, di un’attività di pensiero che possiamo ben ritenere, se non frenetica, certo importante e infaticabile. La parola poetica, per esempio, affiora e si evidenzia, per lo più, a partire da una nebulosa o da un groviglio di movimenti mentali dai quali appunto si stacca come materia preziosa, come pietra preziosa, come luce scattante nel tempo della luce. Di tutto il resto si nutre, ne assorbe perciò come alimento la parte più viva e in tensione, eppure, non di meno, qualcosa perde, qualcosa abbandona al suo destino per urgenza e assoluta necessità di sintesi. E’ come se Caramella avesse voluto rendere giustizia a quelle nebulose, a quegli intrecci labirintici di pensiero da cui pure la parola poetica sa emergere per poi abbandonarli. Ha voluto, in qualche modo, andare a perlustrare i rivoli diversi di complessità che costituiscono la geografia da cui spicca il volo la poesia, nella piena consapevolezza che in quei territori si muovono verosimilmente altre tensioni, magari latenti, magari incerte, confuse o in difficoltosa elaborazione; eppure straordinariamente ricche di senso e virtualità. Ecco allora che il panorama si avvalora, ecco allora che Caramella non si ferma alla pur ricca ricerca di senso che la poesia esprime, ma scruta nei dintorni, visita le regioni opache, cammina negli anfratti per trovare altre vie, o altri labirinti in cui perdersi o da cui trarre nuovi impulsi. Dunque, in questa Festa di Vivere , l’autore disdegna una scelta precisa di campo e di genere. Ad esempio introduce una situazione narrativa, un movimento di racconto, ne vede i possibili sviluppi. Ma non li coltiva e non li continua secondo le buone maniere di regole letterarie codificate. Se ne sottrae, da imperterrito, impertinente outsider, come del resto è sempre stato anche in poesia. Perciò passa velocemente e con sprezzante indifferenza dalla narrazione alla riflessione, dalla riflessione persino alambiccata o di movenze barocche alla fredda asciuttezza che arriva subito dell’aforisma, della sentenza. Il suo racconto è in qualche modo, perciò, sempre indiretto: difficilmente ci mostra i personaggi nettamente sulla scena. Preferisce filtrarli attraverso il proprio pensiero, mostraceli a distanza senza dar loro la parola, poiché in effetti uno solo è il protagonista di queste prose: l’io lirico, l’autore stesso, la sua mente catalizzatrice. Ecco allora la solenne e acutissima storia, quasi borgesiana, della sublime e infame Bocca escretoria , dove anche le proposte iconografiche non sono illustrazioni bensì testo, sempre nel progetto implicito che vuole portare al di là del genere. Esistono, comunque, due linee precise di direzione, dichiarate dal titolo stesso, o meglio dai due titoli del libro. Una ( Festa di Vivere ) è quella che svolge la meditazione attraverso le cose, le circostanze dell’esistere e della lunga memoria, attraverso spunti di racconto. L’altra ( i mostri del moto ) è quella in cui la meditazione è secca, nuda, più astratta; o comunque senza soccorso di figure e accadimenti. Questa seconda linea, che si intreccia con la prima, dà quasi l’impressione di essere a sua volta il residuo di un più ampio e articolato discorrere filosofico; quasi un monologo interiore che non si sia voluto piegare alla consequenzialità logica di un discorso sistematico, ma che abbia preferito cercare una verità aperta nelle molteplici sconnessioni che ha accettato, che si è risolto a avere.

Entrando più decisamente nel merito dell’opera, se ne possono intuire alcuni nuclei rilevanti, alcuni elementi che aiutano a comprendere la varietà del disegno. Non posso che limitarmi a ciò che più mi ha colpito, nella certezza che altrettanto, o di più, o molto di più, è ben presente nelle pagine di questo libro. Per cominciare, partiamo dalla memoria, alla quale Caramella attinge con discrezione e una solo accennata patina di giusta nostalgia, ma, beninteso, non certo per una rievocazione fine a se stessa. Il suo riferirsi alla memoria è infatti legato a un’esigenza precisa, e cioè quella di una ricostruzione di sé, del sé, che si manifesta anche attraverso le testimonianze più o meno fittizie di alter-ego dell’autore: e dunque compagni segreti, doppi, proiezioni varie cui affidare il gioco di sponda per tornare alla costruzione di una sorta di identikit. In questo senso il libro presenta un lavoro che si sviluppa in varie direzioni, nelle quali troviamo per esempio la figura di Domenico Barberis, in cui appunto Caramella si sdoppia: se mi è permesso rivelare un segreto che tale poi non è, al paese d’origine dell’autore tutti si chiamano o Caramella o Barberis: come del resto in altre località tutti si chiamano, che so, Ragazzoni o Colciago… L’ottimo Barberis, dunque, diventa un po’ la sua spalla complice e involontariamente ironica, il tipo che gli dà la battuta e lo avvia nella ricostruzione del sé. In questo meccanismo – in cui entra un altro personaggio a fare da gregario d’eccezione, il Vanni – troviamo una Foto di gruppo con mistero in cui il protagonista fanciullo si mostra nella sua timida discrezione con il volto reclino. Un’immagine che ci riporta al dolce bimbo vestito da marinaretto in bianco di un altro delizioso racconto lirico, Il fischietto vero , non a caso ripreso da una raccolta precedente di poesie. E qui è bene introdurre una parentesi. Il ricorso che fa Caramella a testi o frammenti della sua produzione già edita, non è certo dovuto all’avarizia di chi vuole sfruttare al massimo ogni risorsa, spremerla fino all’osso. Tutto il contrario, anche perché sappiamo che nel carattere del nostro prevale la generosità espansiva, di cui è perfettamente consapevole, come dimostra il progettato titolo della sua opera omnia: Straripante amore . Ma accanto a quest’ultima, c’è un fondo, o un basso continuo, di ossessione, quella cosa senza la quale – come spesso mi è capitato di dire – quasi non esistono autonomia e vigore espressivo. Nel fondo di ogni artista c’è un’ossessione, una fissazione. E nei grandi artisti ce ne sono molte che si accavallano, si intrecciano, esprimono la complessità e ne creano di ulteriore. Caramella, dunque, torna sui suoi passi per necessità, e anche per il dovere morale che sente di non abbandonare una pista decisiva, una traccia magari misteriosa ma imprescindibile.

L’ossessione strutturale di cui si nutre è legata, qui, come per molti autori, all’infanzia e ai suoi miti, traumi, o cupi orrori (come quello della bestia divorante che il piccino sogna). Nel suo caso, ad esempio, il bisogno di conferma di esserci (appunto: quale sarà lui, e chi saranno gli altri della foto che possono testimoniare della sua presenza reale), di esserci stato, e di essere stato il “bravalbertino”, il bravo bambino che risponde alle richieste, alle aspettative degli adulti, della cara madre… Dalla ricostruzione di sé, della propria fisionomia, nasce il bisogno di costruire il senso di una forma superiore, che parte da quella elementare ed essenziale del soggetto nella sua irrilevante eppur totale vicenda biografica. Come dire che assodata la propria esistenza, come forma base (o formula di struttura) dell’esistere, occorrerà poi investigare forme ulteriori, e cioè quelle dell’indifferente universo in cui si agitano le diverse forme di vita, le presenze iscritte nel moto universale. Ed è qui che Caramella passa dall’investigare per situazioni all’asciugare per definizioni: passa insomma dal racconto lirico al pensiero puro, alla costruzione filosofica della sua idea di mondo (vedi ovviamente Il racconto dei mostri e poi Il libero arbitrio ). E in questo si appoggia spesso alla mediazione più alta tra i generi non-generi, e cioè la poesia, spartanamente spogliata anche dei suoi più caratteristici ed economici strumenti, come lo spazio espressivo irrinunciabile (?!) della versificazione. Ma un tratto decisivo della dialettica interna al pensiero poetante di Caramella è quello della consapevolezza dell’orrore e del senso del finito contrapposti alla tenace adesione all’esistere, che è tra i suoi meriti morali, prima ancora che estetici. Anche di questo mi è già capitato di parlare spesso: ma si tratta di un dato centrale nell’opera di Caramella, ed è quindi necessario, io credo, richiamarsi ogni volta a tale aspetto. Un aspetto che rimanda a modelli altissimi di arte e vita, non so quanto presenti consapevolmente nel nostro, ma che pure dovrebbero essergli congeniali: parlo cioè di Vittorio Sereni e Antonio Porta. Esemplare, allora, sempre all’interno di una cornice di memoria, è il racconto (sì: questa volta possiamo tranquillamente definirlo tale) Un ragazzo in Costiera Amalfitana , tra i pezzi più belli del libro. Qui il connubio tra semplicità dell’esistere e meraviglia felice dell’esistere stesso è perfetto, e l’esito è di una lievità naturale che a tratti il nostro riesce magicamente a raggiungere, e che – anche nel tono, nelle coloriture del testo, nell’intreccio di circostanze grevi e momenti di diafana purezza – fa da pendant alla secchezza economica, a volte anche sinistra, che è un altro aspetto del suo lavoro, in versi o in prosa che sia. Dalla memoria strettamente personale, l’autore sa ricostruire se stesso anche attraverso una memoria che molto coinvolge le vicende storiche, attraverso le quali sono passati uomini della sua generazione. Ed ecco allora testi come Occupazione tedesca e in fondo anche l’accuratissimo Piena d’Arno , con la Firenze invasa dal fangoso orrore che non poté seppellirla. Ma in Caramella agisce anche il gioco ironico e l’ascolto degli interlocutori e del mondo, come leggiamo nel toscanissimo Natura e natura e nell’ Orgasmo garantito, o nell’arioso e cosmopolita Taxi. Per non dire delle proiezioni geometriche che possiamo trovare nell’assurdo sigaro toscano di Clint Eastwood , l’attore che, che, come è stato detto non so più da chi, privilegiava due sue espressioni tipiche: a.con cappello – b.senza cappello… Dunque, registri vari, e perciò l’epica anonima e possente dell’immaginario antenato etrusco , e poi, ultima ma decisiva testimonianza strutturale della visione delle cose di Caramella, il gioco imperterrito, meccanico, quasi matematico della necessaria (ma a che cosa? a chi? ed entro quale disegno inconoscibile?) crudeltà naturale. Ecco perciò in brevi capitoli la storia andalusa della reciproca lotta sanguinaria di Cosa può un toro davanti a un uomo? , e il bellissimo Serpente contro serpente . In questi testi si coglie perfettamente la lucidità dell’autore nella sua visione del meccanismo – leopardianamente meccanicistico – dell’ universo e della natura, come imperterrita catena alimentare in cui la distruzione dell’altro è funzionale al proprio esistere, e che perciò non ottiene il nostro superfluo consenso, il nostro sincero, appassionato voto vanamente democratico. Ma non per questo, se è il vero che ci preme, come dev’essere, come possiamo non aprire gli occhi stupiti, vedere il sole e abbracciarlo ogni mattina al suo nuovo sorgere, vogliosi o disillusi, frementi o depressi che siamo? Tutto ciò scorre nelle pagine di Caramella, nel suo desiderio di arrivare a noi con il suo pensiero rinvigorito dall’incessante emozione di esserci, e conseguentemente di poter dire e testimoniare. Maurizio Cucchi

Milano, ottobre 2001

PARTE PRIMA

La carezza del primo dell’anno

L’albergo è molto confortevole. Tradizionalmente organizzato, è situato circa trecento metri al di sopra del lago Lemano nei dintorni di Montreux. L’altitudine, l’esposizione felice ed il tempo che regala talora qualche giornata di sole e dunque anche la gioia di un non esagerato e corroborante moto all’aperto, rendono il soggiorno distensivo, dando per di più qualche occasione di meditazione e scrittura. Nonostante la tracotanza del mio rifiuto della riflessione di Marquez secondo il quale la vecchiaia è un patto onesto con la solitudine la contraddizione si fa sempre più fievole. Onesto. L’attributo campeggia perché implica il riconoscimento di una realtà obiettiva esterna al soggetto che la considera, anche se attiene all’opera del tempo sui normali processi biologici soggettivi. Questi processi possono anche non essere “normali”. La vecchiaia è detronizzata in tal caso dalla malattia e questa può a sua volta essere detronizzata dalla morte precoce alla stregua delle aspettative di vita statisticamente promesse. Il problema della vecchiaia allora non si pone (altri occupano interamente lo schermo della coscienza) o si pone in termini diversi. Non sempre si può aspirare al patto onesto e non sempre viene offerta l’opportunità della contrattazione. A prescindere dalle condizioni psicologiche e fisiche, strettamente interconnesse tra loro, entrano in gioco (se gioco è) una molteplicità di fattori. Tra i quali emerge - è inutile negarlo - il censo. Le figure di vecchi tristi che s’incontrano al margine della strada grigi incartapecoriti alieni come vegetali pietrificati dai quali lo sguardo rifugge con un senso di colpa e di intollerabile devastazione, per l’impossibilità di attribuire veste di comune umanità a tanta malasorte, quale mai contrattazione possono aprire - o pretesa avanzare - con il loro ferocissimo fato? E quale patto possono mai stipulare? L’ambito della contrattazione onesta, si riduce ad una frangia sottile e trasparente di giocatori, i quali si immaginano che vi sia per loro spazio di libertà. Se la contrattazione comincia, il gioco presenta qualche analogia con quello del Monopoli, nel quale il giocatore più fortunato acquista delle “case” che aumentano via via il valore reddituale dei “territori” che gli sono stati attribuiti dalla sorte. Finché, dopo aver acquistato ulteriori case, si trova a passare in albergo, e questo è l’investimento massimo consentito.

Per l’ultimo dell’anno, quest’anno, mi ha raggiunto un desiderato amico incrinando vantaggiosamente la solitudine minore, quella che si suole approssimativamente definire come mancanza di compagnia. Ne ometto l’analisi. Sta di fatto che con l’amico abbiamo molto discusso senza imporci reciprocamente l’uno all’altro, incontrandoci quando capitava e quando eravamo allo stesso tavolo per i pasti succulenti dell’albergo tali da destare meraviglia, ammirazione e pace. Niente di riprovevole: da ciò anzi derivando l’effetto pacificante. Era un po’ come sentir dire dagli atteggiamenti e dalle cose: ma perché prendersela? In fondo la vita si svolge confortevolmente, il servizio è ottimo, la cucina di livello non minore. La domanda sottintesa era ancora più pertinente e tale da destare una certa invidia, e si poteva sintetizzare in termini ovviamente del tutto inconsapevoli: cosa ha a che vedere la solitudine con la vecchiaia? E’ semplice, basta vivere. Tuttavia né l’amico né io eravamo del tutto convinti. Lui ha una vita fanaticamente impegnata. Io ho avuto - ed ancora ho - una vita impegnata. Giocava forse nell’animo di ambedue un certo pregiudizio, un’immagine di maniera che riflette sfavorevolmente il modello della buona borghesia: considerato stolido e privo di immaginazione. Il mio più giovane amico era però molto interessato all’esperienza in atto e mi convinse a partecipare con lui al veglione. Da parecchi anni il brindisi tradizionale con la famiglia avviene con molta semplicità come per il passaggio da un giorno qualsiasi ad un altro. Avvicinandosi la mezzanotte, ero stanchissimo. Eppure la presenza di tante persone ben vestite e deliberate a godersela non poteva non contagiare anche la mia attenzione, che credevo distaccata. Nel grande salone le coppie erano la maggioranza: compassate ma reciprocamente benevole. taluna si alzava, incrociandosi dame e cavalieri che sedevano allo stesso tavolo, per recarsi al ballo. C’era il cantante e animatore, c’era buona musica. C’era un complesso di pochi elementi molto affiatati tra loro, apparecchiato all’ungherese con improbabili costumi arancione, che eseguiva con buona volontà ritmi popolari con un’allegria, a volte professionale e di maniera, ma a volte anche compartita e trascinante. C’era una famigliola composta da padre madre e due fanciulle che non superavano i dodici o tredici anni, l’una tutta del padre e l’altra tutta della madre, quest’ultima curatissima e garbata, alta, slanciata e per l’occasione ben vestita in lungo. Tutti composti. Mi ricordavano la famiglia del Tazio di Visconti, con in più il personaggio paterno che avrei voluto vedere anche nel film. Sforzavo la mia attitudine visiva per godere questa preziosa scenetta ed anche, inutilmente, per riuscire a capire cosa mai si dicessero tra loro. Li avevo visti sempre insieme, sempre intenti a muoversi all’unisono, sempre inappuntabili nei loro ruoli. Se i genitori danzarono, il ballo non fu mai troppo prolungato sì da lasciare sole le figlie: la minore delle quali si rassicurava duplicando i gesti della maggiore con ingenuità affascinante. Scoccata la mezzanotte nel consueto tripudio dell’una e dell’altra orchestrina, con l’aiuto dell’inevitabile coppa di champagne mi ripresi alquanto e partecipai più scioltamente sia a qualche sguardo sui fuochi artificiali che fiorivano dalle finestre, sia alla comune allegrezza. Persone ignote si avvicinavano, sorridenti e cattivanti, per brindare con autentica soddisfazione con gli estranei. Sull’onda di questo inizio ne venne poi, abbandonato il salone, una straordinaria vivacissima conversazione con l’amico ed una indiscreta esondante comunicazione di pensiero da parte mia, che contrappuntata cortesemente da lui, mi accompagnò fino alle tre del mattino, quando non avrei immaginato di resistere nemmeno fino a mezzanotte. Il mattino stesso l’amico partì prima di pranzo e mi lasciò, solitario, al mio tavolo singolo. La sala da pranzo ha una prosecuzione per così dire esterna, veranda o giardino d’inverno, collegata con la sala principale da grandi aperture: e le due parti sono separate da un davanzale decorato con fiori, al quale io davo le spalle ormai ritornato alla mia condizione , immerso in pensieri che non sono in grado di comunicarvi perché non sapevo e non so, nemmeno io, quali fossero. Mentre ero così sistemato e così lontano da ogni attitudine comunicativa sentii improvvisamente una carezza che partiva sfiorando i radi capelli ancora superstiti seguitando con educata insistenza verso la sfumatura sul collo, con un tocco delicato ed affettuoso. Non so dirvi la mia meraviglia e il mio sconcerto. Voltandomi leggermente vidi al tavolo latistante al di là del davanzale una signora di età assai avanzata e di fattezze alla mia memoria incerte, accanto al suo consorte non meno maturo, la quale sorrideva con gioia, sicura autrice della inopinata carezza. Rispose così, senza parlare. E io che ero già stato avvicinato dall’orchestrina, quasi automaticamente chiesi al maestro di così pochi allievi, di farsi dire dalla gentile signora alle mie spalle quale armonia desiderasse sentire. Nessuna parola né con lei né, più, con gli ungheresi: e nemmeno con il marito del quale ricordo, vagamente (si trattava tra l’altro di sbirciare in tralice in modo non indiscreto) l’espressione stupita ma adesiva. Chissà chi erano. Non li ho più rivisti nemmeno a cena. Fosse la solitudine anch’essa un’illusione?

Scavando, il pensiero crea le montagne ricche di picchi nido agli uccelli e Tu l’aquilone che lega la mente ai seni e questi al pube e s’innalza al volo e volteggia: e gareggia con quelli la classica innocenza della neve.

Serpente contro serpente

Si fronteggiavano a bocca aperta. Le mandibole spalancate tese ad aprirsi sempre di più. Aprendosi, le corde si tendevano al massimo nel senso dell’apertura, che però doveva essere, alla minima possibilità, richiusa: con uno sforzo tanto più difficile e severo quanto maggiormente si era estesa la divaricazione. La situazione era molto semplice: i due serpenti si fronteggiavano e ciascuno operava con tutte le sue forze. Avevano fame. La preda era ghiotta. O l’uno o l’altro dovevano mangiare. Forse - per fame - avevano cercato e voluto la situazione estrema. O forse nessuno dei due aveva giudicato possibile la fuga alternativa. Forse aveva operato anche un meccanismo di competizione. Ora erano di fronte freddi furenti e disperati. Tutto dipendeva da un minimo vantaggio. Se l’uno piegava impercettibilmente le altrui fauci aveva l’occasione di aderirvi meglio per far presa e piegarle. E così fu, senza tentativo di sottrarsi o possibilità di farlo. L’uno s’impose appena sulla bocca dell’altro, rovesciò e concentrò ogni forza dalla divaricazione alla compressione della divaricazione dell’altro: cercando al contempo di migliorare la sua presa. E piano piano guadagnò di impegno di postura e di forza finché non giunse, a metà testa dell’altro, a chiudere su se stesse le fauci avverse, rendendole inoffensive per sempre e sempre più saldamente man mano che la deglutizione o meglio l’assorbimento pneumatico dell’uno procedeva a favore dell’altro. La digestione cominciò subito, misericordiosamente disgregando le strutture vinte e possedute della pelle degli occhi e delle fauci: senza che il perdente si ribellasse alla sorte decisa, nemmeno nei primi attimi di sconfitta. Non una contrazione, non un sussulto, non un moto a frustata che tentasse la fuga. La morte presumibilmente avvenne abbastanza presto per soffocazione: mentre la lunga sagoma del vittorioso lentamente e progressivamente si ingrossava delle spoglie del vinto finché l’intero corpo di costui fu inghiottito e ne disparve perfino la parte finale e più sottile della coda. Questo monologo è un serpente che si muove a spire e secondo metameriche strutture. Se nutra o se divori non saprei. Non c’è alternativa.

Insalata di parole. E’ strano il cervello è come l’appetito una volta pesca una cosa ed una volta un'altra.

Quetzalcoalt . Non so cosa tu sia perché non vuoi vedere né donde vieni vai, non conta il tuo dolore o se tu sia mai stato: o chi tu sia (io o te) colpo di dadi ma soltanto il tragitto nell’entropia tramite te. Vedo una pelle perché la vita che tante parti regge cavalca un sogno (io, perché io?) d’ignota gloria e si ritrova intera come un eroe soltanto quando soffre di ferro d’onore coperto e s’infittisce il buio che corre in torneo (m.s.e. 74).

Quezalcoalt. Non so cosa tu sia né donde vieni o vai o se tu sia mai stato: colpo di dadi nell’entropia vedo una pelle che tante parti regge (io, perché io?) e si ritrova intera soltanto quando soffre e s’infittisce il buio perché non vuoi vedere non conta il tuo dolore o chi tu sia (io o te) ma soltanto il tragitto tramite te. Perché la vita cavalca un sogno d’ignota gloria come un eroe di ferro d’onore coperto che corre in torneo (m.s.e 74).

Clint Eastwood (Il triello)

Indifferente, furbo e feroce, Clint Eastwood guarda gli altri due: in tre disposti a triangolo e situati irregolarmente verso il confine di uno spiazzo circolare sassoso e polveroso, come accade nel desertico Ovest (della Sardegna di Sergio Leone), posto al centro di una raggiera di tombe approssimative e fatiscenti, però disposte ordinatamente come i raggi di un sarcastico sole. Che naturalmente non manca di inondare la scena senza però che si possa comprendere chi se ne avvantaggerà. I tre non sono ben disposti l'uno verso l'altro e i due verso il terzo. E' stato l'indifferente Clint a invitarli solo con lo sguardo e in silenzio nell'arena circolare, vivi tra i morti ma anche loro - potenzialmente - mezzi morti: o meglio, per essere precisi, due su tre già morti, se tutto procederà secondo le intenzioni evidenti. La metafora molteplice del sole e della vita, del cimitero che si espande a stella e dell'arena in cui si svolge la scena (l'eterna scena dell'umana competizione, e della ferocia che l'accompagna) sono invero coinvolgenti, anche se il mezzo sigaro di Clint (che in realtà odia fumare) non se ne dà per inteso e pende dalla bocca sottile e determinata del protagonista come se niente fosse. Pomo della discordia, né Paride né la scelta tra le dee bellissime, anch'esse in competizione bellicosa se ne nacque l'origine della decennale guerra di Troia, ma una tomba spalancata, colma di ben otto bisacce doppie - di quelle da gettare con trascurata forza e con una certa eleganza sul malcapitato cavallo di turno - tutte piene di dollari-oro che, dalla dimensione che si intravede, sembrerebbero monete da almeno venti dollari ognuna. La cifra totale comunque, per quell'epoca, era senz'altro astronomica: niente meno che centomila dollari. Una ricchezza favolosa. La favola era resa irresistibile dal metallo coniato. Oggi il denaro è già quasi del tutto - e presto sarà del tutto, perfino negli scambi più minuti - virtuale. Bisogna essere poeti inarrivabili per leggere una favola nell'estratto conto che di tanto in tanto perviene a ciascuno, generando ansia, fastidio, delusione o soddisfazione ma, in sé, del tutto inidoneo a sollecitare la fantasia. Beninteso la disponibilità di una somma di denaro, tanto meglio se ingente, suscita in ciascuno desideri e propositi seri o fantastici che poi sono identica cosa. L'avvenire dei figli, la prosperità della famiglia (i più accorti pensano prima a se stessi e fanno bene), un viaggio, la vita , il prestigio, le soddisfazioni della vanità, perfino postuma. Insomma, tutti i desideri umani dai più nobili ai più pravi possono trovare soddisfazione contemplando o immaginando una grossa somma di denaro. Altro però è toccarla, contarla, percepirla con tutti i cinque sensi. Già guardare le banconote (seme del denaro virtuale), toccarle, farle frusciare per udirne il mormorio, perfino odorarne la serica consistenza nei biglietti di maggior taglio può procurare un piacere fisico: che soddisfa lo spirito e il corpo, indipendentemente dall'uso che se ne supponga o se ne faccia. Chi non ha, in qualche occasione, accarezzato e fatto frusciare una banconota nuova, gustandone la consistenza ed il colore? Ma col metallo il discorso è ben diverso. Il pallido lucore dell’argento così evanescente e così consistente, ma soprattutto l'oro sontuoso pesante e morbido (quasi ad intuirne la duttilità) luminoso e tintinnante che, se fresco di conio, conserva perfino un indefinibile odore, hanno un fascino, una cupa solare bellezza che nessuno potrebbe negare, nemmeno il più disinteressato anacoreta. Il fascino coinvolgente dell'oro coniato, e la bellezza, intrinseca insieme, della moneta che pesa e che vale, ben conosce l'avaro - lo spirituale amante - che gode e nasconde l'oggetto amato e lo possiede ad esclusione di qualsiasi altro. Antro di gioia di bellezza e di cupidi sentimenti. Nella tomba aperta una bisaccia strappata con violenza faceva ruscellare la cascata coniata, accendendo cupidigia e ferocia nei tre possessivi antagonisti, ormai l'uno di fronte all'altro e l'altro al terzo, in una circolarità perfetta di tensioni ancestrali. Forse così la belva affamata sogguarda la preda, mentre i visceri si torcono nella voglia, da troppo ormai insoddisfatta. La novità, infine, era sconvolgente. Un duello… a tre. Chi avrebbe cominciato, e da chi? Quando sarebbe esplosa l'urgenza della situazione ormai senza uscita? Quando sarebbe precipitata l'inevitabile attesa - così sapientemente coltivata fino al parossismo - sciogliendosi in una intrecciata sparatoria, mai immaginata, né pregustata, prima? (e non è poco per la trama scontata dei film dell'Ovest). I tre protagonisti erano l'avidità fatta persona. Vivente contrasto tra la paura (di perdere l'oro morendo, di morire perdendolo) lo sprone della sfida, il desiderio di vincerla e il fascino della preda. La loro grinta (sostituto pellicolare della maschera tragica) li definiva: l'astuto con gli occhi a mandorla e i baffi accurati che sogguardava obliquo. Il rozzo violento e più vigliacco e sciatto che mostrava senza pudore la sua bramosia. E il nostro Clint, il più indifferente e forse il più determinato, come si conviene all'eroe, ma con poco merito: avendo, baro sottile, segnato le carte del gioco a suo favore meglio di Ulisse l'uomo dai molti inganni. La simpatia per i predestinati alla sconfitta equilibrava così l'identificazione nel proteiforme campione. In ogni caso - lo mostrassero più, lo mostrassero meno - avevano letteralmente la bava alla bocca. E mentre la macchina da presa inquadrava successivamente i volti, e il paesaggio alieno e qualche volta il mondo delle aliene tombe e lentamente il moto strofico tragico delle immagini si accelerava, ebbi ancora il tempo di pensare che sembravano gustare in bocca il sapore amarognolo del metallo aureo. Solo l'oro si gusta ed esclusivamente suo è il quinto piacere. Per provare la genuinità dell'oro delle monete si usava serrarle leggermente tra i denti perché l'oro, morbido e duttile, avrebbe conservato lieve traccia a prova irrefutabile della sua sincerità, lasciando di sé il saporetto amaro, causa di salivazione bramosa. Bando alle digressioni. Il moto circolare incalza, si riduce a balenii quasi irriconoscibili, scoppia nel fuoco di un’arma sola, di una immensa lacerante meraviglia. L'astuto si accascia. Il rozzo balla rozzamente con la pistola in mano, che scatta senza sparo, e l'impassibile Clint s'avanza verso di lui slealmente finendo d'un paio di colpi supplementari il malcapitato punito per sempre di tutte le sue maldestre astuzie. Slealissimo viene Clint, il proteiforme Ulisse, che aveva scaricato in precedenza la pistola del rozzo e che aveva potuto tenere d'occhio un avversario solo perciò senza scampo negli attimi brevi e fatali. Orrenda e squalificante slealtà, lo penso io e tutti con me, per attimi brevissimi. Subito infatti la vittoria vince e pulisce qualsiasi inganno, qualsiasi iniquità, nettando di luce sovrumana il Vittorioso. Come fu dell'astuto Ulisse, che con gli inganni vinse la guerra e ritornò solo sopravvissuto, perdendo via via i compagni generosi e amati, i subalterni illusi e perciò peggiori, per sterminare di forza e con l'inganno ancora i Proci odiosi nella celebre mattanza. Eccovi serviti: chi più ne ha più ne metta. Tanti saluti al resto e sinceri complimenti a Clint e anche, spettatori cari, al grande sempre grande Sergio Leone.

Biglietto da visita

Il mio nome è Domenico Barberis. Sono nato lo stesso giorno quasi alla stessa ora. Non pensate subito che io sia lui. Sono il Suo Amico. Anzi, ormai, uno dei suoi Amici. Uno di quelli - ma ancora forse il primo, forse il principale - che egli ha inventato nel corso della sua vita, e che ormai lo seguono amandolo e odiandolo. Non so dirvi se sia più l’amore o maggiore l’odio. Che hanno in comune una tendenza parossistica all’oggetto amato-odiato. Guardato, esaminato con attenzione, talvolta estrema, per giovare o per nuocere. Per giovare sanando le piaghe, rimarginando i dolori, stagnando il sangue che ne cola in guisa da lui spesso inavvertita. Oppure - maledetto sia lui e tutti i suoi nodi - frugandogli le piaghe, dilaniando i suoi tessuti, urticando i suoi dolori e aprendo le vie al suo malvagio sangue nero. E non crediate che nell’un caso si compiaccia e nell’altro si dispiaccia particolarmente. In realtà, ciò di cui ha più bisogno non sono né la disapprovazione né l’apprezzamento: ma molta molta attenzione. E spiego perché. La sua bava, la sua scrittura di lumacone in sé molesto, non ha punti di riferimento esterni facilmente identificabili ed anzi li custodisce tutti o quasi al suo interno: com’è - dice lui, il presuntuoso autore - del caos o dell’infinito (che poi sappiamo essere o coessere ordine finito), il quale comunque, in ogni punto, è sempre al centro senza centro. Conoscendolo bene, posso aiutarvi a capire. Nacque in un ambiente neutro: né colto, né particolarmente incolto. Si direbbe semplice, se esistessero le cose o le persone semplici. Il padre interpretò sempre il prototipo del lavoratore , a sua volta condizionato dalla povertà del suo ambiente di origine. La madre era traboccante di amore, ma non meno di ambizione e immaginazione, oltre che di timida autorevolezza (si sposò a sedici anni), sempre con qualche obiettivo da raggiungere, per il quale cercava instancabilmente condivisione ed aiuto o meglio “comprensione”, come diceva lei. Celebre, si fa per dire, un episodio. Tornava dal primo giorno di scuola, portando con sé un quadernuccio nero sul quale una generosa maestrina (che altra volta severa ne serrò la riluttante mano, tarpando rudemente i tentativi di fuga, per accompagnarlo alla madre in castigo di chissà cosa) aveva segnato il massimo dell’apprezzamento (del tutto visionario) sull’opera prima del bambinetto. Insomma un bel dieci! Guardando il quale la madre, con un tono di voce del tutto normale, e soddisfatto, pronunziò con fiducia assoluta ancor più visionaria un commento semplice e terribile insieme: “bravo albertino” (bravalbertino) “fai sempre così”. La dolce voce, il tono di totale benedizione e di gratificato amore udito allora, anche se fu ripetuto, non fu udito mai più, ma risuonò e penetrò inestinguibilmente dall’alto per ogni anfratto pertugio o zolla di quella fervida fertile giovanissima terra. Aggiungasi che il fanciullo, nato con una lussazione congenita dell’anca, ne fu curato con tre ingessature stravaganti e tardive che permisero l’impressione precoce del dolore e quella del terrore della morte, soffocandolo con tre successive operazioni dalle quali uscì peraltro zoppicante per il resto della vita. La maschera di menta!, diceva il fanciullo ad occhi spalancati: celebrando inconsapevolmente insieme la macabra asfissia del cloroformio e l’amichevole profumo della menta. E i vassoi di stagno colmi di patatine fritte, croccanti e meravigliose: festa del medesimo ospedale nel quale sperimentò il terrore della morte. Un altro oscuro dolore dominò nella fanciullezza: un rapporto molto affettuoso con il fratello maggiore. Questi portava il nome misterioso e carico di senso appartenuto al primo figlio della giovanissima sposa morto precocemente prima del compimento del primo anno di vita. La madre ed il fratello uniti in questo comune echeggiante mistero del quale il fanciullo nulla seppe e nemmeno la ragione o la vicenda di quella morte così ingiusta ed intollerabile per la madre bambina giunta appena oltre alla soglia del suo matrimonio. Impronte contrastanti che accompagneranno il suo fanciullesco cammino nel buio della notte, dove, come tutti i bambini, pativa i terrori delle “bestie”, così chiamando i giganteschi insetti neri pelosi e minacciosi che lo avvicinavano fino a non dargli più scampo e riparo: fino all’angoscioso risveglio colmo di lacrime e di paura. I mostri. Frugando nelle carte dell’Amico ho trovato un breve cenno del suo maestro elementare, il cui metodo pesò sullo sviluppo del fanciullo, timido, impacciato e incerto, come continuò ad essere da adulto, pur preda di un’intensa passionalità che si trasformava talora in apparente tracotanza. I coetanei, nell’assoluta crudeltà dei primi rapporti, nella costruzione delle gerarchie nel gruppo, non mancavano di colpire e di ferire dovunque scorgessero una possibile debolezza. L’Amico, afflitto da un cognome facilmente risibile, era inoltre caratterizzato da una selva di capelli rossi, orribilmente vezzeggiati dalla madre in boccoli. Il nostro meditò perfino di scrivere un libello dal titolo pomposo Il pelo rosso attraverso la storia, per il quale si documentò raccogliendo nomi e arruolando eminenti personaggi, fino a mettersi in condizione di affrontare il primo appello del primo giorno di scuola in prima liceo, il vecchio professor Bartoli con una lista di nomi e personaggi citati a ritroso nel tempo per finire con questa affermazione (in una scuola di preti): “Gesù Cristo era di pelo rosso!”: quando quel sapiente, che non guardava nemmeno chi chiamava all’appello, sollevò lo sguardo al nome, recitando l’epigramma di Marziale che dopo l’inizio “ rubro capillo...” dice tutto il pungente e dileggiante corredo di difetti e infamie che fin dal suo tempo lontano (quando ancora l’iconografia non aveva riservato i capelli rossi a Giuda) venivano attribuiti ai portatori di questo leonino, lucente e magnifico colore. Di ciò l’amico si fece un vanto (un compenso) fino alla spiegazione genetica che classifica il rosso come tipico di individui geneticamente semplici (si potrebbe dire puri se non si ingenerasse così equivoco) che sono perciò, geneticamente, fragili: ma come i cavalli di razza nati per la corsa e non per la soma. Chi potrà mai pesare o misurare esaurientemente le conseguenze di tante maschere di conteste figure petrigne fantastiche e inopinate, come stalattiti o stalagmiti, sorte in profonde caverne maestose o in cunicoli angosciosi ed oscuri, dalle quali dipende il nostro bello e il nostro brutto, il tono della nostra esistenza e la natura delle nostre azioni, che a loro volta si pongono a premessa di ulteriori conseguenze e maschere per altri? A leggerla come io la scrivo, pensando all’Amico, sembra che molto concomitasse a reprimerlo a deviarlo a comprimerlo, a farne cosa e persona diversa. E che molto tendesse a stimolarne lo spirito agonistico, la creatività e il bisogno di esprimersi, che poi trovò la soddisfazione più piena nel vuoto accogliente e leale della pagina bianca. Circa il suo spirito agonistico, c’è la sollecitazione che coincide con la figura del sacerdote severo e allegro, che organizzava la classe su tre file di banchi: una era quella degli ottimi, quella di mezzo dei buoni e la terza dei pessimi. Il demerito raggiungeva la massima intensità negli ultimi banchi, di modo che il primo banco degli ottimi era anche quello dei segretari di classe che tenevano il registro e sorvegliavano i compagni quando il maestro si assentava: con il diritto di segnare i reprobi alla lavagna. Chiunque, per ultimo che fosse nell’ultimo banco della fila dei pessimi, poteva sfidare qualunque condiscepolo nella sua fila o in quella dei buoni o in quella degli ottimi. Qualora fosse risultato più preparato del compagno negligente si operava un rapido trasloco. Il più preparato occupava il posto del meno preparato che si trasferiva nel suo, degradato drasticamente. Il sistema non era visto come qualcosa di terrorizzante o come qualcosa che generasse eccessiva ansia e competizione, ma diventava invece una specie di gioco allegro e triste che in sostanza conteneva il principio di giustizia stimolando nel contempo la bravura: come chi lealmente saltasse meglio o facesse meglio gli esercizi in palestra o giocasse meglio al pallone. Si sa che in tutti questi sport ci sono le giornate buone e quelle meno buone. Si può essere in forma o non essere del tutto in forma come dicono i giornali e la tv per strapagatissimi divi del pallone, che ormai non fanno più parte di un gioco ma di un Olimpo rissoso. Rimase nello spirito il sigillo d’una vita intesa (e forse vissuta, se Dio lo ha voluto) come leale competizione. Ma ora sono stanco e cambio argomento. Eccovi qualcosa sul toro e sull’uomo. Riprenderemo, semmai, in altra forse prossima occasione.

(Nodi) - Il sangue scorre nero il sangue scorre vero mi bagna come un sasso. Sveglio nell'angoscia fatico a radunare aridi pensieri belve nella fossa. Cellule impazzite forzano la pelle vogliono sortire riveder le stelle. Odio il mio respiro odio il mio dolore. Rotola e si sperde senza direzione senza trattenersi per dissipazione senza conseguire senza costruire scivolando (in) folle il suono della nenia. Beato chi si trova chi si trattiene in sé chi sa, di sé sicuro, almeno d'esser sé. Non voglio più contare non voglio più vedere non voglio più sentire. Senza meno senza meno acuta micidiale senza nenia senza nenia verrà la sofferenza e tutto sarà chiaro (m.s.e. 220).

Come un battello naviga la strada oscilla sulle cime tra dorate colline ammorbidite nell'aria tersa densa di colore: tra grigie molli dune sale e scende, argille dissodate che stringono sui fianchi le rughe bianconere dei calanchi misteriose. Finché viola regale splende Volterra sul crinale. Par di solcare il mare. Sempre al centro e senza luogo come l'infinito. Il moto sembra fermo. Ferma l'ora. Si gonfia la mia corsa come un flutto. Come un uccello canta nel suo volo (m.s.e. 259).

Come un battello naviga la strada oscilla sulle cime tra dorate colline ammorbidite nell’aria tersa densa di colore: tra grigie molli dune sale e scende, argille dissodate che stringono sui fianchi le rughe bianconere dei calanchi misteriose. Finché viola regale splende Volterra sul crinale. Par di solcare il mare. Sempre al centro e senza luogo come l’infinito. Il moto sembra fermo. Ferma l’ora. Si gonfia la mia corsa come un flutto (m.s.e. 259).

Un infinito dopo l’altro. Una nebbia incolore accompagna la strada da Saline per Volterra. L’infinito vola nel silenzio della terra. Aliante scivoloso che su sé stesso torna.

Oppure nel viale sotto i tigli quando lodavi i riccioli pesanti con le amiche ammirate compiacenti, e la serica mitezza dei capelli: le lacrime brucianti di vergogna invano trattenute, dai calcagni intrecciati salivan tra le ciglia d'un piccolo guerriero dignitoso (m.s.e. 50).

Rimpianto di memoria

Da quanto tempo attende questa immagine. Non di essere trascritta che già lo fu, per essere stracciata al primo giudizio dubitativo (la fragilità dell’adolescenza, che il vegliardo conserva senza intenzione), ma piuttosto il coraggio della memoria: allora, oltre cinquant’anni orsono, assolutamente inconsapevole: sia dell’ansia memoriale, che pure è l’unico stimolo di qualsiasi anche precoce scrittura, sia del coraggio che occorre per secondarla, per credere che serva a qualcosa - a qualche temporaneo salvamento - la scrittura che ormai imbratta il mondo e le memorie elettroniche e futuribili, peggio delle cattive azioni dimenticate sotto i ruderi di fastosi monumenti voluti da possessivi e sanguinari tiranni e grandi sacerdoti, ed eretti da artisti felici di realizzare la loro forza creativa, segno suppostamente eterno della loro genialità. L’immagine modestissima torna dai frammenti cestinati più o meno dieci lustri or sono, e vuole - il mistero del creato s’infittisce - conservare testimonianza di sé: di una notte serena nel centro di Firenze deserto dove solo le rotaie del tram sembravano lucide e vivide, vive, nel loro scintillio, dolcemente cangiante al passo che scorreva da via Cavour verso via Martelli (s’intravedeva, nel fondo il Battistero sovrapposta memoria di pittura Vasariana immutabile) che davano il segno di ruscelletti metallici, durevoli e puliti oggi strappati o ricoperti che scivolavano silenziosi sapendo, con sicurezza, dove. Quasi condensando, nella compattezza levigata e mercuriale, forte e carezzevole della traccia definita e ben orientata, la tenera luce della notte serena, inconsumabile, colma di accogliente tepore.

Che si dibatte invano. Tutto ha da far posto a tutto. Pianto, bellezza, dolore, amore. Tutto deve finire. La poesia per far posto alla poesia. La bellezza alla bellezza. Questa mano ad altra mano, che trasparente incalza e l’accompagna. La memoria alla memoria. Senza eccezione. Non si può essere memorabili a miliardi: sei miliardi ed una riga coprirebbero il cosmo di nerume. L’esistere deve sparire nell’essere. L’essere, se è, è indifferente. Si poteva tardare un attimo di più (fatica inenarrabile di stilo) salvare qualcosa quando tutto era poco e c’era posto per serbare al poi forse perfino ai figli (già morti mentre ne scrivi) (v.n. 184).

Cosa può un toro davanti ad un uomo? (Proverbio andaluso)

E io domando: cosa può l’uomo davanti al suo destino? Eccovi di che riflettere, amici che volete la corrida un’inutile crudeltà, una orribile e sanguinosa inciviltà. Tutti i tori muoiono. E tutti i toreri. Anche se provvisoriamente sopravvivono, finiscono: spesso nel disonorevole modo: sotto le corna di un toro. Cosa può fare un toro che incontra un uomo? La gamma delle possibilità non è così limitata. L’uomo può essere forte o debole, coraggioso o vile, previdente o cieco, abile o impacciato e gli esiti dell’incontro mutano di conseguenza. Naturalmente è molto importante il luogo (lì) dove s’incontrano. Se i due si confrontano, per così dire, in natura, in un luogo definito ma vario ed aperto, i livelli del rapporto possono cambiare molto liberamente tra scontro e fuga dell’uno e dell’altro o di ambedue in direzioni diverse. La fuga sarà il più delle volte l’esito desiderato. Il toro mangia da vegetariano e non brama carne né, in ispecie, carne di uomo. L’uomo è anche carnivoro, è vero, ma, se può, si contenta di tentar prede meno imponenti e con le quali possa misurarsi in termini di vantaggio. Stimoli positivi alla lite non esistono. Quanto alla paura, può meglio sfogarsi - si è detto - con la fuga: e non c’è bisogno di aggredirne pericolosamente l’origine, la fonte, imponente o meno, per eliminarla o scongiurarla. Ognuno sa quanto muti la situazione se i due vengono posti a confronto in un luogo limitato, dove sono comunque inevitabili avvicinamenti pericolosi (e pericolosi allontanamenti) i quali affinano ed aggiungono, alla reciproca paura di base, l’elemento della concorrenza, della sfida: del gratuito agonismo. Gratuito anche perché sono ambedue maschi e per di più appartengono a specie diverse, per cui è difficile ipotizzare che l’uomo sfidi per la vacca o il toro per la donna. Ma giacché ci siamo e la parola fatale (per lo sciocco toro come per l’uomo: feminità) è stata pronunciata, vale la pena di considerare anche questo elemento di per se estraneo al luogo ma essenziale allo spirito della sfida. Possiamo anticipare una constatazione molto naturale: che tutta la vita è, nei suoi meccanismi semplici, secondo la costruzione elementare che la natura ha desiderato senza colpa di alcuno, una continua reciproca pericolosissima sfida. Parlando di corna (nella specie, se ben ricordo, dei cervi, e il soggetto era un cerbiatto maschio in giovane età) diceva Orazio che quelle giovani dell’animale in questione lo stimolavano alla lotta e all’amore . La competizione non dipende né dalle corna né dal sesso del soggetto, essendo una forza universale che su sé stessa, in modo titanico e circolare, volge e trascina ciò che vive e ciò che apparentemente non vive. Se il toro e l’uomo si incontrano in un luogo limitato, racchiuso (e per di più in presenza di pubblico: cioè di un destinatario del confronto) non può non nascere la corrida: dove l’uomo la fa da matador (colui che uccide, che macella l’animale) e il toro (allevato per essere combattivo al massimo) fa di tutto - provocato e riprovocato - per incornare l’uomo. Tant’è che a volte ci riesce, sia pur ritardando di poco il consueto destino: su queste ultime due parole, come l’intelligente lettore ha capito da un pezzo, torneremo tra breve. Per il momento torniamo alla corrida. Se tutto dipende in definitiva dal porre i protagonisti in un luogo limitato, perché farli incontrare persino con ingresso a pagamento, con tanto di biglietti più o meno distinti e costosi? A ben vedere si tratta dell’argomento principe di coloro che, disapprovando la corrida e le corride, finiscono col dire: che bisogno c’è di porre un uomo contro un toro in uno spazio chiuso? Lasciateli liberi e la stupida mattanza sarà evitata. Qui, secondo me, bisogna essere onesti, evitando di ritagliarci un pezzetto limitato e facile di realtà, per governarla facilmente a nostro comodo. E’ il caso cioè di essere coerenti e obiettivi, constatando che non esiste un luogo non definito, un luogo cioè veramente aperto: e che quindi non esiste la definizione che condanna la corrida, forse troppo semplicemente, per una dubbia “bontà di pelle” che vellica, specie le signore, con tanto facile e passeggero piacere. Si dirà: bella forza! Se neghi il distinguo neghi la conseguenza. Ma come puoi negare che il luogo della corrida sia chiuso e che - fuori - sia invece aperto? O che nessuno abbia chiesto l’opinione del toro? Guardando attentamente e tentando di vedere, ci accorgiamo che il nostro spazio è sempre definito, come il nostro tempo. Entità limitate. Allora che differenza c’è tra l’arena de toros e il suo esterno? Nessuna amici cari, se osservate con lo spirito e l’intelletto, e non con i nostri (vostri) sensi fallaci. Si tratta soltanto di una dimensione posta come arbitrariamente diversa (nel caso dell’arena) da quella posta come arbitrariamente diversa nel caso dell’universo: suppostamente “non-arena”: nel quale nessuno ha chiesto l’opinione di nessuno. Perché - allora - non evitare di porla? Non guardatemi con occhio trionfante: non dipende da me che sia facilissima la risposta, e semplicissimo sottrarsi all‘apparente lacciolo. La goccia spiega e mima il mare. La monade (in uno dei suoi significati) spiega e mima l’universo. Guardiamo nell’arena - senza pagare il biglietto - da questo spiraglio. Un toro (qualcuno) lotta con l’uomo (bravo, armato, sicuro finale vincitore). Che speranza ha? Nessuna. Ma l’uomo cosa può fare davanti al suo nero vero destino, di cui la nera vera montagna di carne del toro è soltanto un leggerissimo simbolo? Tutto si scioglie come nebbia al sole. Che possibilità ha il toro che incontra l’uomo? Le stesse dell’uomo che deve incontrare il suo destino. Tante in itinere e nessuna alla fine. Ma va notato che, sia pur eccezionalmente il toro eccezionalmente bravo e coraggioso, può essere graziato (e il pubblico applaude) dal “direttore di gara” e andarsene vivo, per essere destinato alla riproduzione delle sue eccezionali qualità. Eppure quale straordinaria varietà di situazioni potete sbizzarrirvi a immaginare per il toro e per l’uomo e - circolarmente - per l’uomo e il suo destino. Attimi magnifici o terribili o sereni perfino, che si alternano, che altercano tra loro: in presenza del coro muto o urlante di coloro che sono, che furono o che saranno del tutto inutilmente, per vivere aver vissuto o interpretare domani il ruolo obbligato della sfida. Della sfida universale della vita della vita universale della morte della morte sanguinosa sanguinaria universale. Potete supporre, giustapporre incrociare tagliare in obliquo o in verticale miriadi di metafore della corrida: ed accorgervi con gioia che sono tutte valide e belle e salutari: per vivere e per capire adesso ed ora. Perché sottrarvi il piacere di costruire a vostra immagine e a vostro piacimento le metafore vostre? E a quello di constatare per vostro conto e spontaneamente che tutte tornano e tornano ad onore e bellezza dell’arena e del suo cruento spettacolo? Adesso tocca a Voi, lettori cari. Con un’ultima avvertenza. Potrebbe taluno domandarmi: sta tutto bene, ma perché perché proprio l’arena, la corrida il matador (l’elegante macellaio), perché scrivere e parlare proprio della corrida e dell’arena per trovarvi o per supporvi tante metafore, anche altrimenti notissime e multiformi? Non obbligatemi ad essere maleducato! E perché no? Perché porre limiti al creato, alla creatività, alla poesia? Vorrebbe proprio dire che non avete inteso che l’immaginazione, la poesia, sono libere illimiti ed orazianamente pure d’ogni scelleratezza. Nel giorno, il Giorno.

O fonte d’acque blande più del cristallo pura, di schietto vino degna e di petali adorna, ti donerò domani il capricorno giovane, che già la fronte turgida d’impazienti rami e alla lotta e all’amor destinerà; invano: se il frutto ingenuo del lascivo armento di rosso sangue gelide tramerà l’acque. Sfibrante non sa quest’ora turbarti di canicola ardente; tu l’amoroso fresco preservi ai tori di vomere stanchi ed ai dispersi armenti. Ancor tu nobile farò tra nobili fonti, cantando il leccio grandeggiante sulle scavate pietre onde parlanti le tue acque scorrono.

Non indagare (infausta scienza) il tempo dato a noi dagli dei, o Biancaluce, non provocare i fati. Meglio sia soffrire sorte ignota! Voglia Giove contarci molti inverni o adesso l’ultimo, che sulle opposte sponde il mar Tirreno stanca, godi il calor del vino, e saggia, lunga speranza falcia in lasso breve. Mentre parliamo, il tempo fugge astioso: cogli nel giorno il giorno, d’altri incredula (v.n. 1).

O fonte d’acque blande più del cristallo pura, di fiori degna e del più schietto vino, ti donerò domani il capricorno giovane, che già la fronte pregna d’impazienti rami e alla lotta e all’amor destina; invano: se il frutto del lascivo armento gelide di sangue vermiglio tramerà le acque. Non sa turbarti sfibrante quest’ora di canicola ardente; tu l’amoroso fresco serbi ai tori d’aratro stanchi e all’errante gregge. Nobile io ti farò tra le più nobili fonti, cantando il leccio che cave pietre adombra onde parlanti le tue linfe scorrono.

Giovanni e Giuda per Ritsos

Il padre gli morì suicida. Lui non ne disse molto. Né io gli chiesi. Perché credo che la ragione del suicidio sia sempre il troppo amore per la vita e l’intollerabile delusione, che porta al gran rifiuto (ma è poi grande, sorride il suicida?) Resta tormentoso l’abbandono, il senso della colpa. I figli che si sentono non amati abbastanza si attribuiscono la colpa di quel supposto mancato amore, e se ne tormentano, lacerandosi impietosamente. Come spiegare loro che nel gesto disperato che toglie la vita tutto era compreso, tutto superato, tutto presente: anche e forse soprattutto l’amore per loro, per i figli: ai quali fu dedicato il rimorso atroce del suicida deluso. Che dubitava e resisteva chissà da quanto tempo, per non ferirli: perché il padre adorava la loro vita, tanto più quanto si apprestava a lasciarla sola. Oh, nodo inestricabile dell’anima! Uno strazio in più da far desiderare al suicida il colpo di spada, tagliente e chiaro, lampo del nulla. Quando Giovanni incontrò il Poeta lo elesse padre e questi lo elesse figlio perché ne conobbe l’amore infinito per lui, per la poesia e per la patria divisa perfino nella mente. Nella feroce guerra non di fazioni ma di spirito e di lingua i fratelli in Grecia si assaltavano. Come i reclusi bianchi e neri che nella stessa gabbia si dilaniano come se fosse troppo piccola per gli uni e per gli altri insieme: come i topi si assaltano nell’esperimento quando, ristretti, il numero li minaccia e li fa impazzire in cieca aggressività mortale. Questo figlio e questo padre si scelsero e scelsero la stessa patria. In un rapporto tanto più forte quanto più era spontaneo ed elettivo. E non bastando mai al padre l’amore, che nel poeta è ancora più possessivo (incerto e bisognoso) Ritsos voleva dargli in sposa l’unica figlia, perché la stirpe fosse comune e nascesse mista e fecondata. Ma c’era un altro figlio. Tanta la forza filiale della poesia e della immaginazione: Giuda accanto a Ritsos. Comparso come d’incanto in una compagnia non numerosa con cui non poteva spartire che il silenzio, era costui d’aspetto mingherlino e mite, era il fedele del Poeta, colui che gli si accovacciava vicino, che subito sentiva se fosse solo o se di qualsiasi cosa, anche di umile servizio, egli avesse bisogno: e fu accolto dal Poeta con rispetto e con amore privo d’ogni rango che non fosse quello della spontanea fratellanza. Era il suo aguzzino, il sorvegliante, il torturatore che nell’isola - in nome di chissà quale credo - l’aveva torturato ostinatamente. Finché poi, cercato il poeta piangendo, si gettò alle sue ginocchia e abbracciandolo stretto stretto, tanto da sentirne il cuore pulsare, lo scongiurava non solo del perdono, ma che gli desse il modo e l’occasione di espiare a sé stesso, di rendere l’immenso male in bene e amore. Affinché fosse gettata sulla bilancia dell’orrore, dell’ingiustizia, dell’inaccettabile convivenza di quel sé con sé - memoria memoria inabissata - la piena incandescente della sua dedizione. Vera e bella: perché vera e bella era la storia di poesia, che vive ancora, disseccato il sangue caduta nell’oblio la morte. Il figlio Giovanni e l’aguzzino Giuda: che non suicidandosi scelse la strada della resurrezione. Nessun suicida lo sarebbe più, se avesse avuto fede nel soffio di un perdono. Storia troppo contorta se cerca di spiegare un suicidio con la mancanza del suicidio. Il suicidio con la mancanza di suicidio. A meno che non si tratti sempre di amore.

Le Apuane bianche di neve e di marmo tra cirri grigi sfumati all’imbrunire vegliano alla mercé d’ogni sorte. Le ultime lame di chiaro maestose rampano in cupe imperiose raggiere. La strada corre nitidamente incontro alla sua corsa sporco bitume che invoglia ora a svoltare il volano della sorte (v.n. 121).

Era un persona ordinata soave mise fuor dell’uscio in terra il vassoio della prima colazione appese il cartello “non disturbare” si pose a letto e si tagliò le vene (c.v. 89).

Aneddoto bizantino ( Bocca escretoria )

Questo aneddoto mi è pervenuto in busta anonima e senza antrace (l’anonimato è il suo destino) con un biglietto non firmato. Eccolo: in modo che il lettore meglio di me possa giudicare se ho fatto bene o male a lasciarmi invogliare: “L’immagine questa volta è quella di due famosi mosaici. L’accostamento per tasselli frammentari - a seconda che lo si riguardi da vicino o da meno vicino - suppone vuoti interposti più o meno immaginariamente vasti: che negano la linea del disegno, marcandolo nei singoli tasselli e attenuandolo nell’insieme. Il movimento è lento, quando dipinge spazi più vasti, e viceversa concentrato quando le singole pietre scandiscono particolari rilevanti. La giustapposizione determina il brusco inciampo del più vasto disegno nella trama essenziale, la quale non può che procedere per nuclei semplici, privi di commento e di spiegazione. L’andamento dell’indagine si affida alla ricerca della prova presuntiva, idonea o meno a giustificare la condanna finale che si disbriga e si motiva in breve. Se si isolano e si accostano tra loro questi nuclei (massa dimensione e colore), la storia, truce e banale, è quasi inesistente. Il racconto è affidato alle divagazioni. Bocca escretoria fluisce nella formazione degli escrementi e nella dissoluzione catacombale: nel carattere dell’epicureo: nella prigionia dell’eros e del potere che invano tenta il destino: forza inconoscibile sia che operi nella Storia sia che operi sugli uomini o nell’uomo: essendo certo soltanto il male e giustificata la condanna (inutile protesta etica) nei confronti di Teodora la Magnanima, peraltro innocente di sé. Pronunciata con” (….)

Finché non si comincia a scrivere non si sa mai esattamente da dove la scrittura comincerà. C’è un’idea più o meno vaga che frulla per la mente. Il volo confuso ed arbitrario, ma anche allegro, di veloci e leggeri uccelli. Se si cerca la ragione soccorre una immagine (vattela a pesca perché) che nel linguaggio comune appropriatamente richiama l’aleatorietà della ricerca ed il suo frequente fallimento: nonostante la proverbiale pazienza e tenacia del pescatore. Queste righe si avviano per elementi inafferrabili e fluidi, di consistenza diversa che si muovono liberamente tra cielo e terra, stimolando la fantasia ad inseguire sé medesima.

Flavius Petrus Sabbatios detto Iustinianus (dallo zio imperatore che lo adottò)

nacque nel 482 dopo Cristo. L’impero Romano di Occidente aveva concluso la sua vicenda con Romolo Augustolo nell’anno 476 dopo Cristo, poco prima della nascita di Giustiniano, che visse per diciotto anni nel quinto secolo e per sessantacinque anni nel sesto. Il suo nome offre informazioni importanti. I nomi di Flavio e di Pietro alludono l’uno alla romanità l’altro alla Cattedra di Pietro custode della fede che fu detta ortodossa perché fondata sulla natura divina di Cristo, per distinguerla dalla fede (o eresia) dei monofisiti, che a Cristo non riconoscevano natura divina. Il primo evoca l’unità dell’Impero tramontato con l’imperatore che ripercorre nel nome la vicenda mossa dal mitico fondatore di Roma e giunta verso l’apice del suo splendore con Augusto. Attorno alla diversa concezione religiosa si erano coagulate a Bisanzio due tendenze, che all’origine presero nome dal colore delle opposte tifoserie delle due principali squadre di aurighi che gareggiavano nella corsa delle bighe. I verdi raccoglievano le simpatie e organizzavano gli interessi del commercio e dell’industria (la media o grande imprenditoria borghese di oggi) e della burocrazia allora come oggi legata, per via di funzioni parallele, agli interessi dei ceti medio-alti. Gli azzurri raccoglievano le simpatie ed organizzavano gli interessi dei grandi proprietari terrieri e della aristocrazia greco-romana. Giustiniano, di lingua madre latina, fu azzurro ed ortodosso. La grandezza nelle opere nello sfarzo nelle immani architetture nella costruzione di strade e nell’arte, fu per lui - a qualsiasi costo - espressione di vita e di affermazione di sé. Gli si attribuì il visionario progetto di restaurare il potere i confini e la gloria di un unico impero di un’unica fede e di un unico imperatore. Come se una di quelle labili palline di celluloide che rimbalzano in cima al getto d’acqua prima di ricadere, pensosamente decidesse - e operasse - per restare stabilmente al culmine. La sua fallace trinità imperiale - se pur ne concepì il progetto - ha lasciato tracce così imponenti e decisive - che ancor oggi perdurano - da far di lui eminente figura della civiltà mediterranea e perciò della “civiltà occidentale”, della quale Bisanzio e l’Oriente greco sono stati, con lui, uno straordinario punto - e ponte - di ritorno.

Il lettore può essere indotto a domandarsi se Giustiniano imperatore di Bisanzio sia il protagonista della nostra storia. Il quesito si riproporrà nel suo corso, insieme ad altri, come in un giallo d’epoca. Anche Teodora può legittimamente aspirare ad essere protagonista.

Di lei va qui detto a partire dall’anno 525. Fu presa in sposa da Giustiniano (assurto alle massime dignità dell’impero dall’anno 518) il 4 aprile 527, allorché furono incoronati coimperatore e coimperatrice insieme con Giustino e, quando il 1 agosto 527 il vecchio Giustino morì, divennero i soli sovrani dell’impero bizantino. Giustiniano aveva quarantacinque anni. Di Teodora - che ne aveva trentacinque - si dice che, quando Giustiniano se ne innamorò, fosse da poco rientrata dal Nord Africa e più precisamente da Alessandria (ivi giunta -secondo Procopio - prostituendosi per pagare le spese del viaggio) dove era entrata in contatto con alcuni influenti religiosi monofisiti, vivendo una breve esperienza lustrale e contraendo utili conoscenze in quell’ambiente. Nella capitale trovò modo di avvicinare (o di riavvicinare) Giustiniano. La nostra indagine si situa nel breve periodo tra l’arrivo di Teodora a Costantinopoli e la sua incoronazione a coimperatrice, carriera invero fulminante che ha riscontro piuttosto nelle fiabe che nella Storia. I mosaici di Ravenna offrono di Teodora un’immagine molto diversa da quella attribuita dal contemporaneo Procopio alla figlia del custode di orsi all’Ippodromo e dell’acrobata: che lo storico delinea crudamente così:

“Appena giunse all’adolescenza e fu matura entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana. Non sapeva suonare né il flauto né l’arpa, né mai s’era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l’intero suo corpo... Mai vi fu persona più succuba a qualsiasi forma del piacere...”

Durante la crisi più drammatica che Giustiniano affrontò (la rivolta di Nike che rischiò di costargli l’Impero) Teodora si espresse però con la tempra e col piglio del suo ruolo, dissuadendolo:

“Chi ha regnato non dovrebbe mai sopravvivere alla perdita della dignità e del potere. Se tu, o Cesare, decidi di fuggire, hai dei tesori: guarda il mare, hai delle navi; ma trema al pensiero che il desiderio di vivere ti esponga a un miserabile esilio e a una morte ignominiosa. Da parte mia, mi attengo all’antica massima: il trono è un sepolcro glorioso.”

Teodora e Giustiniano hanno a lungo coimperato in apparente accordo. Ma la profonda corruzione del potere e dei tempi operava nelle cantine dei fastosi palazzi e nel profondo delle passioni umane: fino al delitto, fino all’atrocità, fino alla più assoluta ignominia.

L’ho sempre combattuto; l’ho scansato. Nel braccio della madre, tenero soave. Suadente libero nella fantasia: sorridente, spietato nella donna. Macabro pugnale in mano ai potenti aspro dolore, viscida lusinga: l’orrendo potere. Ti spenga per odio qualcuno qualcosa che possa che voglia serpe da serpe non generare: e il potere il potere odi e disperda. L’assurda ribellione dura ancora. Amore straripante che sul monte aperte le divine immense braccia contro il potere redimesti solo lo scempio delle genti, l’impossibile folgore l’ardentissimo amore testimoniasti intero. E subito fu nuovo potere (v.n. 290).

Se vi raccontassi come la copertina di un vecchio libro reperito in una botteguccia del suk tunisino mi abbia dato occasione di trovare e modo di leggere le pagine di seguito ripercorse, ben pochi mi crederebbero: e d’altronde il recupero della cronistoria emersa tra la rilegatura ed il testo, che apparteneva chiaramente ad una silloge di testi giuridici romani esclusi dalla compilazione definitiva delle Pandette, ma diligentemente raccolti per documentare l’esclusione, è vicenda che ha aspetti tecnici complicati e del tutto ininfluenti. Ne risulta che tal Domitilla descritta da un anonimo e disincantato amante con le parole che seguono (presumibilmente ben più strutturate del racconto orale della ex mima) si afferma protagonista di una storia oscura e truculenta che senza di lei e senza il successivo inopinato ritrovamento non sarebbe giunta fino a noi. C’è da domandarsi se, come in un gioco di scatole cinesi, si sia giunti a identificare la vera protagonista della storia. Ma il dubbio permane. Il giallo concerne non l’esistenza del delitto, non l’identificazione dell’assassino o degli assassini, ma l’indagine per stabilire se i fatti riferiti sono veri (indagine destinata al fallimento): e dunque - più realisticamente - se gli indizi raccolti attraverso il documento, ed in più gli aneddoti di Procopio, costituiscano o meno prova a carico tale da giustificare la condanna di Teodora. L’ignoto amante, da vero bizantino, cavilla e filosofeggia con venature epicuree sul modo obliquo di parlare e di pensare della vecchia mima, scrivendo: “Bocca soavemente escretoria, se si apriva era per impastare veleni. Con varie tecniche e con varie sfumature. Partiva con la violenza imperiosa, pronta se la reazione svelava l’inconfutabile evidenza nonostante le sue abili difese, a smentire e mentire sfacciatamente per poi ripiegare, all’occorrenza, nel “non capire” o nel fraintendimento che le consentisse di sfuggire - labilmente - alla chiarezza della cattiveria tentata: recuperando decenza labile e retorica. Dalla quale prendeva le mosse la volta successiva (l’esperienza induce prudenza) per tenacemente perseguire lo scopo di insinuare, (se non poteva spargerlo di forza, gustando in tal caso la gratificazione del potere - tanto maggiore se ingiusto), il mescolato fiore dei suoi distillati veleni con toni dolci e discorsivi, con distrazioni sapienti e con un sorriso che avrebbe voluto accreditare superiore distacco e comprensione. Una “bonarietà” di dubbia connotazione: qualcosa di superficiale, di non genuino. Il tono della voce, poi, sempre ipocritamente vittimistico e creditorio induceva nell’ascoltatore quasi l’obbligo di sentirsi o in debito o in colpa: come chi goda di infierire sul più debole: mentre stava accadendo il contrario. La bocca, velenosa nella sostanza, si presentava bene ed in gradevole forma. Insomma l’unico modo di uscirne era di evitare il contatto: e, se proprio non era possibile evitarlo, di ridurlo a brevi formule imperative, se vi era luogo ad esercitare con successo la supremazia. Una supremazia di miserrima lega: sgradevole e mortificante per chi vi era obbligato dalla necessità. Gira e rigira il migliore soffre sempre in confronto al peggiore e può soltanto scegliere o la fuga o il minor male. C’è da domandarsi che soddisfazione ci trovasse mai la vecchia mima. Ma la domanda è vana se ognuno ha da seguire il proprio destino”.

“Amico mio, la lettera sull’invidia, che ti chiesi e che ora mando io, può essere lunga e documentata sui testi classici su quelli dei santi padri sulla psicologia e sulla psicanalisi risalendo per questa via - circolarmente - alla favola alla fiaba e alla mitologia. Nella versione più semplice e concisa la lettera sull’invidia può prendere le mosse da una constatazione in veste di interrogazione: Come posso esserti amico/se rechi con te e non cedi/ le proteine/ che servono a me? Dunque in-videre, voler l’altrui male, si deve. Perché si vuole lo spazio, il territorio della nutrizione e quello dell’inseminazione: per il cibo e per la procreazione: e dunque ancor più per la creazione volta lo si voglia o no all’eternità. Bisogna scacciare l’altro, annichilirlo: per far sì che il ‘suo’ spazio si renda disponibile per essere occupato. Nulla vale che la pretesa sia irragionevole come è facile constatare, dato che mai nessuno potrà occupare tutto lo spazio disponibile essendo dunque l’invidia destinata all’insuccesso e fonte soltanto di male. Si concupisce uno spazio senza ragione, ma ossessivamente. La lettera sull’invidia è molto semplice se l’accetti e la spieghi nella sua elementare semplicità. Anzi la lettera va oltre e celebra l’invidia. La natura vuole la competizione a tutto campo perché gioca sul numero e non presceglie la qualità. Vuole che la creatività confligga con la creatività per ottenere di più, se non meglio. Bisogna obbedire, Amico mio, bisogna invidiare. La lettera non ti veniva. Non osavi guardare in faccia la verità. Volevi portar verso monte l’acqua che irrefrenabilmente cala. Se tu volessi ora sapere se vi sia un rimedio, innaturale e contrario alla Legge, che la possa eludere o perfino infrangere, guardati in cuore senza pietà. Se troverai - di tuo malgrado - la generosità, se scoprirai l’impossibile straripante amore, non ti curerai dell’invidia che resterà un fotogramma sbiadito che non ripete più la realtà. Potrai gustare la bellezza d’altra mano, come se fosse la tua. Uscito di prigione la libertà tutta la libertà sarà ben tutta tua e senza amaritudine”.

“Col destino nessuno può niente e tutto finisce al niente: perdendosi il metro e di conseguenza ogni possibilità di misurazione”. Così, sfumando nella filosofia epicurea, si conclude la breve dissertazione dell’amante disincantato la cui giustificazione - afferma l’autore - “comincia e si conclude, tautologicamente, in sé, circolarmente e ripetitivamente. Com’è del circolo potrebbe ricominciare sempre in ogni punto e in ogni momento, ma io mi fermo qui - annoiato - per non annoiare di più. Basti qui. In tutto ciò non c’è niente di bello, nemmeno lo stile, e non vale la pena di continuare. Chiudiamola proprio, e proprio qui: l’altrove è sempre qui”.

Dall’orifizio, così impietosamente descritto, non potevano veder luce se non escrementi più o meno ben digesti. Di per sé il fenomeno escretorio, rappresentando il prodotto finale di numerosissimi e delicati processi che garantiscono la sopravvivenza, ben più che auspicabile, è necessario. A mano a mano che prosegue la difficile decrittazione (talora irrimediabilmente illeggibile per interi periodi, come se il tempo avesse operato con accanimento sulla trascrizione del dettato per restituirlo a maggior decenza e discrezione) colpisce la meschinità ed il compiacimento torbido dell’autrice a dispetto dell’appartenenza flavia che il suo nome vorrebbe richiamare: insieme all’associazione vagamente catacombale con i loculi sotterranei di Flavia Domitilla. Il tempo e le tombe purificano, a patto di scoprirle a conveniente distanza dal momento nel quale si è compiuta la fase ribollente della dissoluzione. Ma Domitilla ribolliva ancora, tra le abrasioni e le erosioni del testo, di sentimenti mefitici e servili. La gioia di dissacrare l’imperiale padrona, il compiacimento di vestirne di seconda mano la porpora tarlata e teatrale, e quella di sentirsi al centro del corpo e dei segreti di Teodora e del mondo sotterraneo nel quale la supposta gloria affonda le sue radici, la gioia di dominare, reputatamente, le passioni le azioni ed i pensieri stessi di Teodora, emergevano nella loro irrimediabile bruttura. Insieme al compiacimento servile di essere schiava: per guisa della mente ben più che per reale condizione: obbedendo e prostituendosi senza dignità ma anche senza responsabilità, guazzando da protagonista nell’altrui melma deliziosamente mescolata con la propria, da pari a pari e supponendo di tenere in mano le fila del destino. Sono queste le connotazioni che depongono per la attendibilità del documento. Se tali non fossero stati i sentimenti e la personalità della mima, qual mai reale soddisfazione avrebbe potuto trarre dal racconto invidioso, confidato all’amante dopo la morte per cancro di Teodora? A meno di non ritenerla tanto ingenua da ignorare in qual considerazione la tenesse l’epicureo manifestata senza complimenti ed evidente nel loro rapporto: così brutalmente realistico. Lasciamo che il dubbio, se c’è, - o la sua ombra - persista. Ecco il fatto narrato da Domitilla. Nella notte del 31 di marzo del 527 Teodora dette alla luce, settimino, al termine di un intenso travaglio cominciato poche ore prima, un feto di sesso maschile e di pelle nera, vivo e vitale, che Domitilla quasi subito uccise e squartò, prima che i vagiti del momento acquistassero forza e udibilità, per ordine e con l’aiuto di Teodora, che il giorno dopo (1 aprile 527) assisté emozionata e pallida alla cerimonia di adozione, da parte dello zio Giustino, del prediletto nipote Giustiniano il quale nello stesso giorno si sposò con lei, sempre più bella, sempre più pallida e forte.

Quando conobbe o ritrovò Teodora al suo rientro da Alessandria, Giustiniano - già al culmine del potere - se ne innamorò “perdutamente”. Il suo fu un matrimonio indegno, e forse anche in ciò volle dar prova (come imperatore e come uomo) della propria onnipotenza. Tanto più saliva nel potere e ne sperimentava il peso ed il piacere, tanto più abbisognava di una compagna come Teodora. Bellissima, esperta di cose e di persone, consapevole se non colta (per le frequentazioni - nude in ogni senso - con tutte le principali personalità di Costantinopoli) di mente chiara e disincantata, avida quanto lui di potere, di sfarzo e di gloria, e colma, traboccante di forza fisica e morale, e inoltre amante disinibita ed esperta, capace di fargli trovare nell’alcova soddisfazioni degne della porpora imperiale. Giustiniano non conosceva - di nome - la ninfomania, ma aveva avuto tutto il tempo prima del matrimonio di sperimentarne le caratteristiche: che non influenzano né l’intelligenza né la cultura né la sensibilità e nemmeno i sentimenti, e che, anzi, trovano in questa “patologia” (tra momentanee cadute) alimento poderoso e costante. La forza dell’eros è una forza prorompente di natura - dalla natura - come la frequente eruzione di un vulcano che può essere tragica e meravigliosa ovvero orrenda e distruttiva: ma non manca certo di quel calore primigenio che genera e perpetua la vita.

Negli occhi, immense stelle trafugate mansueto e triste velluti il giudizio: un mare liquido di tenerezza una luce di cielo già spiovuto trobocca anch’ora, triste, se rammenti. Un girone d’inferno brucia dentro scavato con perfidia indifferente. E’ solo una parola quel giudizio. (...) Con quanta tenerezza hai consumato estrema l’ignominia luminosa (...) A caso digitata nel mistero crepitava nel caso una domanda. Si stampa punteggiata nella retina la semplice risposta dal mistero. Semplice ameba. Invano complicata. Com’è cresciuto orribilmente terribilmente fino nel fondo più alto del creato mentre le stelle scoppiano fango del cielo e fondono fatta una verità totale eterna purissima scagliata contro Dio (l.m. 149).

Era stata una prostituta? Chi avrebbe potuto rimproverarlo all’imperatore predestinato, se imperatore era nel dominio interno ancor prima che in quello esteriore? Cosa toglieva la “ninfomania” al compimento armonioso dei suoi bisogni? Semmai aggiungeva indispensabilmente. Giustiniano era un infaticabile lavoratore: avere a portata di mano, sempre pronto, sempre generoso, tutto ciò che occorreva non rappresentava forse una situazione di privilegio? Qualunque cosa facesse di sé Teodora, non lo deluse mai. Ne comprendeva l’opera. Ne era partecipe. Lo aiutava. Certamente lo ammirò, complice sollecita e fiera. Chi più?

Non è facile supporre che Teodora fosse radicalmente diversa dalla descrizione che si legge in Procopio. Costui era contemporaneo di Giustiniano e di Belisario, del quale fu consigliere e segretario nel corso delle sue campagne. Nella sua opera principale (i Bella ) riferisce accuratamente l’episodio di forza d’animo di cui dette prova la coimperatrice in occasione della rivolta di Nike: e le parole che Teodora, donna della quale tutti conoscevano l’origine “infame”, pronunciò in quella occasione. Alla riunione drammatica nella quale Giustiniano si dichiarava su concorde consiglio dei presenti propenso alla fuga per salvare la vita, era presente Belisario, che con ogni verosimiglianza ne riferì direttamente al suo storico ed amico. Per Procopio le figure di un Belisario e di un Giustiniano, terrorizzati e pronti alla fuga, non erano facili da esprimere e rendere pubbliche. Se riferì, come ha fatto, l’unica possibile ragione fu quella della fedeltà alla sua opera. Gli episodi nei quali Procopio ripercorre i nefasti di Teodora furono scritti invece negli Anekdota , il così detto Liber Secretum . Questo strano libro, del quale la critica oggi unanime nel ritenerlo autentico dubitò se fosse o meno di Procopio, si proponeva, a quanto ne scrisse l’autore, di integrare e completare l’opera precedente cercando di investigare sulle “cause” degli eventi. Sappiamo che la vita sociale di Bisanzio, la più popolosa ed importante città dell’area mediterranea in quel tempo, era dominata dagli spettacoli che si svolgevano in anfiteatro (la corsa delle bighe) e poi ancora da spettacoli musicali teatrali e mimici che si svolgevano tra l’una e l’altra delle corse e che si ripetevano anche separatamente per diletto del popolo ed in particolare delle classi più fortunate. I ricchi organizzavano tali spettacoli per proprio conto, non per diletto esclusivamente artistico ma per godere delle costose opportunità di piacere che l’occasione poteva facilmente offrire. E’ ovvio che l’ipocrisia imperava e che coloro che partecipavano alle celebrate esibizioni di mimo, di canto e danza, svolte in particolare da donne poco abbigliate, non si degnavano nemmeno di salutare le compagne di festa se il giorno dopo le incontravano per strada. Erano delle “infami”. Senza speranza di riscatto sociale e bisognose di mezzi che si procuravano come potevano e come era più facile. Se gli “aneddoti” possono stupire e stimolare il libero apprezzamento del lettore, è innegabile che nel loro complesso rispecchiano una realtà. Non si può riguardare alla figura di Teodora senza considerare l’ambiente al quale apparteneva con le due sorelle, tutte e tre figlie d’arte. Né si spiega in particolare la passione di Giustiniano per Teodora se non sulla base naturale di ogni passione totalizzante: che privilegia l’aspetto fisico e sessuale. Il rapporto tra Giustiniano e Teodora ignorò le “convenzioni” sociali e religiose sulle quali signoreggiò il sentimento comune dell’impero e la loro passione. Pensiamo al terrore alla solitudine del potere. Pensiamo a Teodora emersa dal nulla alla sua posizione lunare, che si sorregge nella labile orbita del magnanimo Giustiniano, (anch’egli insicuro, anch’egli fragile quanto è semionnipotente deluso di non esserlo del tutto) e non parrà paradossale la similitudine del pulcino nella stoppa che non trova appiglio per i suoi fragilissimi artigli e sente continuamente mancar sotto di sé il sostegno: tormentata dall’eros e facilmente indotta ad affidarsi ad esso, potere ceco e primigenio, nel quale soltanto istintivamente crede ed al quale si affida per vivere, per afferrare e predare, sfruttando la forza cosmica della natura le rapide paurose, le rombanti cascate.

Scandaglio VI. Chino là dove a margine di strada tra luci ed ombre dalla valle viola l'aura del nume ch'io respiro spira e martoriata crocefissa carne da cento mani cede fatta molle e si dibatte imprigionata e spera e tra i lamenti il suo terrore esala il tuo non essere, là piango solo (m.s.e. 158).

E se Giustiniano fosse morto prima del sospirato matrimonio, oppure dopo? Che ne sarebbe stato di lei, delle sue ambizioni e della porpora prima sperata e poi labilmente conseguita? Dove trovare appoggio e sosta sull’orlo dell’abisso, tanto più oscuro e pericoloso quanto più alto il ciglio? A chi affidarsi? A tutti ed a nessuno. A Giustiniano anzitutto. Ma anche a Giovanni di Cappadocia, avido e violento - lui e i suoi compari - e pur potentissimo ministro delle finanze, che promuoveva e regolava il flusso enorme di denaro, tratto da tasse esose, da violenze e raggiri d’ogni genere, che era necessario a sostenere il titanico programma (in ogni campo titanico) di Giustiniano. Nelle sue rozze mani stavano i cordoni della borsa dell’impero. Ma anche a Triboniano, non meno avido e corrotto “sempre pronto” - registra Procopio - “a vendere la giustizia per guadagno, ogni giorno, regolarmente, abrogando certe leggi” proponendone altre “in base alle richieste di coloro che potevano comperarsene i servigi”: ma anche grande studioso che con la sua sterminata cultura incantava chiunque lo incontrasse, Teodora compresa. Su Triboniano poté contare Giustiniano per realizzare l’unità del diritto che ancora oggi costituisce il fondamento primo di tutti i sistemi giuridici positivi, tutti costruiti con le pietre che egli conservò e restituì ad ogni successiva costruzione. Come ignorare la enorme potenza in atto del personaggio? Come non intuire l’importanza l’indispensabilità della sua presenza nel momento e nel futuro?

Ogni giorno ho sprecato il mio giorno. Ho gettato nel vento il mio seme. La natura ne spreca a miliardi. Sono il cibo di tanti strozzini. Ricomincia ogni segno ogn’istante. Silenziosa la formula si scinde. Cede ioni risalda elettroni. Infinite fatiche insensate. Insensato ronzio degli insetti. Si ritrova una pagina bianca (v.n. 147).

All’uno e all’altro - alla vicenda labile di Giovanni di Cappadocia (il denaro, l’oro sovrano) e a quella perpetua di Triboniano (il diritto, o la sua illusione) - si afferrò Teodora, tentando di aggrapparsi alla loro anima ed ai loro sensi, cercando, con rischiosissima tenace prudenza, di ridurre i suoi rischi, nell’intreccio dei calcoli e delle convenienze nei quali la matematica attuariale non poteva aiutarla, ma esclusivamente il suo istinto di potenza e di donna: a seconda dei tempi delle circostanze e degli eventi. L’eros era la sua fede, il suo talismano, che d’altronde imponeva la sua fame. Alla quale provvide elettivamente Domitilla per mano, diciamo così, di un negro (a tutti noto come eunuco) che nascondeva un indomito vigore sessuale per esibirlo in segreto alla schiava ed alla imperatrice ovvero ad ambedue, in complicati intrecci a due e a tre. Di questo personaggio, la cronaca dettata da Domitilla non dà altre informazioni tranne quella che era di pelle nera e di taglia minuta e poco appariscente, sempre triste della tristezza naturale all’eunuco, ma attivissimo nel campo - campi - suo. Bocca escretoria afferma che Teodora ne era presa al punto da trascurare - avido lui - ogni precauzione (come con Giustiniano) per cui accadde che si trovò incinta senza sapere di chi dei due (ma credendosi in realtà incinta del nero, col quale i rapporti erano incandescenti) proprio nel momento più delicato: quando Giustino, che sentiva affievolirsi le forze, era in procinto di adottare Giustiniano: che a sua volta, a quel trionfo, voleva unire quello su (e con) Teodora, sposandola. Conseguita la certezza del suo stato al compimento della seconda luna andata in bianco Teodora visse settimana dopo settimana - con l’abominevole schiava - una terribile incertezza. Se il nuovo nato fosse stato di pelle bianca avrebbe potuto forse recarlo a Giustiniano, giustificandogli il segreto della gravidanza con l’esigenza politica di non inquinare prematuramente e pubblicamente la comune quotidiana scalata al potere: contando di essere creduta perché le ragioni di alcova sono sempre credute, o credibili con un margine di dubbio, per la loro naturale forza. Ma se invece il nascituro fosse stato di pelle nera, come le due complici ritenevano pur desiderando che così non fosse? Non c’era che attendere e sperare: mentre maturava un orribile proposito. Né il nero potentissimo amante, né Giustiniano, potentissimo futuro imperatore, s’accorsero di ciò che stava accadendo e, sorride sarcastica la bocca escretoria, mai nulla ne seppero dopo. Teodora cominciò a nutrirsi con parsimonia e giunse così fino al quinto mese senza denunciare l’apparenza della sua condizione e facendo la sua solita vita, anche d’alcova. Procopio descrive Teodora come “bella di aspetto e nel complesso avvenente minuta e pallida anzichenò. Il suo sguardo sotto le sopracciglia... era penetrante”. Inoltre “curava il suo corpo minuziosamente” e “sempre meno di quanto avrebbe desiderato”. “Appena alzata entrava nel bagno, e solo dopo avervi trascorso molto tempo usciva e prendeva la colazione. Dopo andava di nuovo a riposare. Voleva dormire molto da giorno fino all’imbrunire e di notte fino a sorgere del sole”... ma “l’imperatrice pretendeva tuttavia di governare l’impero nelle poche ore che restavano”. I funzionari dello stato dovevano prestarle giuramento come all’imperatore. Le sue abitudini di lavoro e di vita collaborarono al fine propostosi di celare la gravidanza. A partire dal sesto mese denunciò ripetuti mal di schiena ai quali trovava asserito sollievo con bende strette circolarmente. Poi le lombalgie divennero talmente penose da non consentire aggressive scosse, costringendola spesso a giacere supina ed indisturbata per alleviare il dolore, dal quale guarì dopo il parto precoce.

La verosimiglianza. Era un magistrato anziano e se leggeva le carte di un processo, cercava di capire la verità che poi sapeva essere più facile vedere di riflesso, per non esserne accecato, nello specchio della verosimiglianza. Conosceva bene la legge e sviscerava attento tutti i problemi posti dall’interpretazione: vagliava con scrupolo il processo per verificarne la solidità. Ma compiuto questo scrupoloso lavoro riacquistava anche la sua legittima libertà. Le garanzie le ritrattazioni tutto era ormai compiuto e ben presente: e d’ogni piega c’era il diritto ed il rovescio, sicuramente, sempre. Allora risaliva al primo rapporto dei carabinieri. Generalmente il militare ha dei valori, crede abbastanza in quello che fa. Persona di cultura non illimitata non per questo manca di buon senso e d’esperienza e in generale si comporta con lealtà. Il rapporto era un punto di vista. Ma pur bisogna che uno ci sia. Non era certo peggiore di altri, aveva le sue giuste probabilità. Dal rapporto partiva il ragionamento, la sorgente: prima che gli affluenti la mutassero in fiume. E valutava tutto il resto in modo che il fatto si serbasse puro, per quanto può, dopo tante e così dotte distrazioni. Generalmente la sentenza gli veniva bene. Tutto trovava luogo e giusta spiegazione, almeno non minore di altra per attendibilità. E dal fatto nasceva, ritrovato, anche il diritto meno dubbioso. Era un giurista, non sottovalutava la procedura, le garanzie e la giurisprudenza: ma poi tra sé poteva commentare talvolta: “Sarebbe stato più facile dar retta a quel modesto carabiniere tanto tempo fa”.

Quella notte, Domitilla lasciò il Palazzo verso l’alba e si avviò al Corno d’Oro uscendo dalle mura e costeggiandole a passi rapidi in direzione del Bosforo, dove alcuni informi fagotti presto scomparvero nelle correnti ancora buie. L’imminenza della cerimonia facilitò la terribile decisione, ma le ore che la precedettero e l’accompagnarono fino all’esito delittuoso furono terribili ed indimenticabili perfino per loro: tanto da concorrere forse alla tardiva confessione liberatoria. Che orribile miscuglio. Resta da tentare lo scioglimento del quesito se la cronaca di Domitilla, che crudelmente si autoaccusò ed accusa Teodora sia o attendibile: e concorra a confortare gli aneddoti narrati da Procopio. Perché avrebbe mentito Domitilla alla sua stessa cronaca quasi postuma? L’indifferente amante che la raccolse e la tramandò corredata da un ritratto impietoso dell’ex mima, mostra una tale conoscenza della psicologia e dell’anima del soggetto da far ritenere che non sarebbe stato facile ingannarlo fino ad indurlo a raccogliere una confessione inventata. Il mosaico dell’anima di Teodora non offre alternative. Anche se resta enigmatico com’è enigmatica l’effigie di S. Vitale. Teodora è colpevole e lei, le sue ceneri, devono essere condannate. Condanna pronunciata con: (….) “dolente tristezza”. “Si scrivono, quasi da sé, le parole”.

TEMPRAT’ACCIAIO

Polla minuscola di vulcano ardente bocca alterni pietre fuse ai freschissimi impulsi della terra commisti in breve tratto a valle tra vacui fumi e rumori sconvolti di cui s’espande riducente sfera ovunque e si disperde il salto aereo l’ammanco cieco il respiro dolente e poche d’ossa il marmo serba tisica memoria che s’interrompe e frange il suo volume come tarda ambizione storia che negata si tramanda.

La forza e il potere (Congedo da Procopio)

La storico Procopio dichiara di voler completare l’opera della sua vita. “Deve” svelare quanto è ancora avvolto dal silenzio e le cause di quanto ha esposto “fino qui”. Si riferisce ad accadimenti “narrati nei libri precedenti” e ribadisce che “qui” (nell’ultimo libro: gli Anekdota ) “deve” puntualizzare le cause degli eventi, credendo “necessario” “esporre solo qui le ragioni vere dei fatti” e “quanto è ancora avvolto dal silenzio”. Di fronte alla efferatezza dei fatti si scopre disarmato. “Non parvero uomini” - dice di Giustiniano e di Teodora - “furono demoni malefici o esiziali”. Ne vede la prova “soprattutto dalla potenza degli atti”, “giacché fra l’umano e il demoniaco la differenza che corre è ben grande”. Ma la “potenza degli atti”, per ogni uomo, non ha altro limite se non quello dei mezzi di cui dispone e delle occasioni nelle quali opera ed agisce: che possono assumere in chi detenga il potere, una potenza tale da far pensare ad una sua “alterità” dominante e sovrumana: che però la rovina o l’inevitabile morte del potente smentisce e cancella. Procopio insiste sullo “scellerato” matrimonio osservando che “non c’è via d’iniquità che rimanga impervia” “a chi non sdegna di apparire abbietto” e “si infischia della vergogna di ciò che fa”; attribuendo a tale atto il ruolo di “vero interprete e testimone e storico del suo carattere”. Senonché - se voleva trovare come storico la causa, le ragioni degli “atti di potenza” - non spiega nulla perché qualsiasi potere assoluto si è sempre “infischiato della vergogna di ciò che fa”. Attribuisce alla “Fortuna” “la prova di Forza” “quella Fortuna al cui impero sovrano poco importa delle umane cose, né che i fatti siano logici, né che agli uomini paiano accaduti secondo ragione. Essa esalta a grande altezza inopinatamente, per un estro irrazionale, taluno che pare invischiato nelle reti di mille ostacoli, e non arretra di fronte a nulla di nulla ma segue il suo cammino con ogni mezzo fin dove ha stabilito, e tutti si tolgono prontamente di mezzo e cedono il passo all’avanzare della Fortuna”. E ripete altrove, con la variante del “Caso” la medesima conclusione agnostica e sconfortata: “i fatti umani non sono retti dai consigli umani ma dall’influsso divino. Gli uomini parlano di Caso e non sanno per quale ragione gli eventi procedono come essi li vedono. Si dà il nome di caso a tutto quello che appare irrazionale. Ma di ciò pensi ciascuno quello che vuole”. Avendo esposto - e continuando a ricordare - innumerevoli stragi, delitti, empietà ed arbitrii Procopio non trova né le spiegazioni né le ragioni e le risposte che aveva “dovuto” - “necessariamente” - inseguire.

Tutto avviene per denaro o potere, per potere o denaro. Una forza unica che ogni altra genera, domina ed afferra con le sue due braccia. La forza trascina e divorante riconduce a sé tutto ciò che può, e dunque avidamente sradica, si nutre, muta e distrugge, ma lascia inevitabilmente - quando è passata, mutata a sua volta o sostituita da altra o semplicemente caduta e morta - effetti che non possono non esprimere (si direbbe per le leggi statistiche) atti ambivalenti sia nel loro immediato che nel loro futuro: come i moti (del) nel caos, in “luoghi” e “tempi” diversi. La forza che distrugge crea, necessariamente, “altro”. Esprimendo le “potenzialità” della forza. Si possono cercare e trovare e valutare non ragioni o cause, ma gli “ effetti ” - degli atti della forza - i quali, visti da qualche arbitrario punto di vista ex-post, possono, almeno in parte, equilibrarsi con altri effetti coevi e futuri. Nell’alternanza causa/effetto si può ammettere che la successione e lo scontro dei moti assuma prima o poi, da vicino o da lontano, forme o dimensioni leggibili da qualche punto di vista prescelto, al momento, nei vari tempi e nei vari luoghi. La ricerca che disorientava Procopio è del tutto oziosa. Il potere (nel linguaggio di Procopio: la forza) si giustifica - o meglio esiste - in sé: opera perché deve esercitarsi: ed opera essenzialmente per la conservazione di sé e per l’accrescimento di sé, unica ragione che la forza del potere intenda e possa. Il potere non può andare “oltre da sé”: ha limite in sé, e su di sé si aggira, come un tornado. “Ma di ciò pensi ciascuno ciò che vuole” ha scritto Procopio. Posso dirvi, autorevolmente autorizzato, cosa ne penso io. Il potere nonostante ogni sforzo di garanzia rinasce insopprimibile dalle sue ceneri. In mille guise. Osserviamo il pulviscolo, occasionalmente svelato in un raggio di sole. Gli eventi gli uomini le passioni le ambizioni, insomma la totalità loro, ognuna cosa si muove secondo la spinta che riceve e l’attrazione che subisce, velocemente e caoticamente: senza seguir disegno o lasciar traccia dietro di sé. Non segue il piano, non la verticale, non torna su sé stessa né in cerchi né in corsi e ricorsi. Semplicemente si muove: e parrebbe certo assurdo ammettere che, in siffatta condizione, taluno o più di quei corpuscoli sia in grado di deliberare veramente o di scegliere. Con i migliori ossequi alla storia e alla storiografia: collegamenti ex post (di necessità) e talora plausibili. Basta poi spostare il punto di vista (le invasioni che diventano migrazioni, o viceversa) oppure la scala dei tempi, ovvero le localizzazioni spaziali o culturali o accidentali (la storia scritta dai vinti) ed i collegamenti appaiono per quello che sono: relazioni stabilite da taluno, in tal momento e circostanze, da tal punto di vista (e via andando) tra fatti che accadono, vanno, accadranno e andranno per conto loro, secondo il loro caotico moto.

Non esiste la storia se non quando si scrive, per la credenza che la storia esista: ed allora si scrive: che non c’è.

Supponendo che studiando le cose e gli eventi effettivamente e innegabilmente da ciascuno sperimentati se ne possa trarre per ipotesi di simmetria generale utile indicazione al di fuori del soggetto per darsi un’idea di qual sia il panorama fuori dalla finestra, non è difficile rendersi conto della medesima struttura corpuscolare delle nostre esperienze e della nostra memoria: approssimativamente ed arbitrariamente relazionate in un contenitore comune (il sé di ognuno): come se qualcuno si fosse divertito a ritagliare o meglio a ricavare un solido trasparente da quel raggio pulviscolare. All’interno del quale le cose vanno (continuano ad andare) esattamente come fuori: e così anche (per effetto ottico vero e reale) nella particella di spazio riservata temporaneamente alle “pareti” del supposto contenitore. L’io pretenzioso che imperatore non è.

L’ipotesi di simmetria generale che anche altrove il cortese lettore troverà, propone – almeno - un atto di coraggio ed un metodo unificante secondo il quale la ricerca nell’interno confine di sé sia idonea ad essere confrontata, e probabilmente rafforzata e forse unificata e comunque utilmente integrata con i risultati della ricerca di ogni altro scibile svolta al di fuori di sé (“nell’altro da sé”) com’è nella fisica e nell’astronomia che studiano e ripercorrono in parallelo le particelle minuscole e le realtà immense, secondo simmetrie ipotizzabili. In ciò sta o starebbe una rivoluzioncella copernicana alla rovescia ponendo la “ conoscenza ” - arbitrariamente relazionata “dopo” - su di una precaria vetta che guarda da un lato l’universo del sé e dall’altro l’universo dell’ “altro da sé ” attraverso un’unica lente . Per indurre modestia ricorderò che nulla sappiamo e nulla forse mai sapremo della materia che, restando scura, riempie e percorre l’universo senza lasciare traccia visibile. Si calcola che detta materia rappresenti circa il novanta per cento del totale. Se il principio di simmetria funziona davvero, bisognerà fin d’ora rassegnarsi a lasciar nel buio completo (dove nemmeno il moto caotico aiuta) anche il novanta per cento del nostro preziosissimo e molto amato “in sé”. E nell’incertezza il resto.

PARTE SECONDA

Lacerti di scienza e di poesia (i Nodi)

La materia è composta di atomi, che a loro volta sono fatti di quark ed elettroni. Secondo la teoria delle stringhe, tutte queste particelle sono in realtà microscopiche stringhe chiuse ad anello e in vibrazione. L’universo ha delle dimensioni extra, arrotolate in forma di spazi di Calabi-Yau. Per molti anni i fisici che studiavano le cinque teorie di stringa erano convinti di lavorare su teorie completamente distinte. La seconda rivoluzione delle superstringhe ha mostrato che tutte e cinque le teorie di stringa fanno parte di un unico schema onnicomprensivo, il cui nome provvisorio è M-teoria. Tenuto conto delle dualità, le cinque teorie di stringa, la supergravità in undici dimensioni e la M-teoria rientrano in uno schema unificato. Grazie alla M-teoria l’intensità delle quattro forze fondamentali si unifica in una unica Forza. Che sia quella stessa Forza nella quale si è imbattuto Procopio?

Presocratici di nuovo. Vorrei far poesia d’epistimologia tornando sapientissimo al linguaggio del pensiero che primo non sapeva e fresco penetrava immaginando che volava senz’ali per tentare. Vorrei tentare ancora immaginando con tutte queste ali senza volo (l.m. 113).

Discendeva (da dove?) con prudenza ruscellava sinuosa tra i declivi si adattava s’acquattava sogguardava riprendeva cautamente la discesa si appozzava nelle soste necessarie esplodeva turbinosa dai suoi gorghi improvvisi rimbalzanti silenziosi e del ricciolo fangoso conservava un ricordo una forma una conquista mentre d’altri il disegno cancellava senza perdere la logica del corso per seguire del suo peso accortamente il più lieve e mutevole argomento fino al murmure linguaggio articolato fiume colmo di profonde risonanze scivolose come l’onda che discende che le crea che le vive e si confonde curiosando nei suoi liquidi pensieri (l.m. 94).

Constatazione ed ipotesi ( Cosmogonia ritmica ). Una sostanza plastica vitale inanimata viva universale veloce intercambiabile moltiplica nel moto sempre identico, medesimo, diacronica molteplice nel tempo mossa da intenti tutti diseguali per tanti quanti sono i tentativi i meccanismi che devono adeguarsi. Crea la chiave serratura propria: interazione e contrapposizione. La soluzione vive e l’organo si fa tra possibilità necessità. Ed ogni minimo punto di vista, originale individualità, è necessario nell’eternità simillimo talvolta e sempre solo trascendente immanente sempre sé. Moto in potenza moto in atto stasi l’identità in due diverse fasi. Si muove l’essere al nulla contrario spazio esistenza tempo e movimento: ma qui si ferma la constatazione. Punto di transito fugace esiste mera l’ipotesi dell’esistenza: mediatrice tra l’Essere ed il Non. Per attimi li svela: che si svela (v.n. 51).

Limiti e simmetrie. Se io fossi il creato che crea se fossi immenso pur essendo forma vorrei conoscermi guardarmi bene considerare alla rovescia il mondo e liberarmi sempre più del peso di non saper io stesso cosa io sia e giocherei spontaneamente libero la mia necessità di realizzarmi esattamente come faccio io (l.m. 288).

Il racconto dei mostri ( là dove conduce il moto: il sé e le credenze )

Gnothi Seauton. Dall'alto tempio spaziava l'oracolo sul folto degli olivi: onde sul mare. Azzurro sul frontone dileggiava l'augusto imperativo. Ma dentro il tempio, menti sottili e di ragione chiara, il giudizio abdicavano agli incensi, lambiccando responsi lambiccati. Perfino allora libero e vero era straniero nella patria sua l'umile orgoglio del pensiero (m.s.e. 302).

La mente crede cose mostruose. Le credenze hanno bisogno di esserlo: o mitiche o illogiche o assurde: contrarie a qualsiasi di buon senso. Troppo semplice per chi vuol credere. Se c’è la volontà di credere tutto è credibile e tanto più lo è o lo diventa quanto più si allontana dalla comune e banale credibilità. Quasi che il meccanismo dell’animo razionale si rovesciasse e operasse la convinzione che non può non essere vero ciò che si presenta e viene proposto come incredibile. L’abdicazione è richiesta. Ottenuta che sia si radica la credenza nell’animo e nel gregge. Opera lo spirito gregario, vigoreggia l’imitazione sorge l’appartenenza, l’orgoglio e la sicurezza di appartenere. Fiorisce -seguitata dal dubbio - la fede col suo potere: che dalla forza credibile e reale del potere trae alimento di concreta utilità. E allora tutto accade in nome dei mostri: e le cose che ne derivano - talvolta nel bene innocuo, più spesso nel male genitore dei mali - sono mostruose. E seguitano così: di generazione in generazione, di tempo in tempo. La volontà di credere nasce dalla paura di soffrire, e massime da quella di morire. Eppure morirai, non temere! Non c’è da temere.

La violenza dell’uomo razionale. Invece è così semplice vivere e morire come quelle folle nelle cineteche. Amputate, amputate il lobo d’ogni credenza (m.s.e. 135).

Questa facoltà di credere sembra specifica della “forma” umana. Si guardi alla storia dei riti e delle religioni. Generazioni di uomini credono a cose, dianzi ignote alle generazioni precedenti: che ne credevano di diverse. Ciascuna crede cose opposte e contrarie a quelle contemporaneamente credute da altri. Come se le scorgesse con i suoi occhi o potesse toccarle con le sue mani. Con forza ben maggiore del potere della spada. Ogni credenza dura più a lungo di qualsiasi impero: ed esercita e sostiene un potere incommensurabilmente maggiore e più penetrante: perché domina dall’interno, con apparenza di libertà e perciò in schiavitù totale. Immaginavo di poter trovare la fonte di un fenomeno così conturbante ed immenso non già nella storia ma nella struttura stessa della “forma” umana. Domandai ad un esperto del cervello se tra le zone deputate a questa o quella funzione, non fosse stata identificata la zona che consente all’uomo di credere, deputata specificamente alla credenza: e che, amputata, impedisse finalmente di credere ai mostri. La domanda non fu apprezzata. Ho pensato allora, per giustificarla, che la facoltà di credere sia il mezzo per trarre dal caos una delle sue tante “possibilità”: il mezzo per la “forma” umana di orientare un raggio di comprensione verso l’ignoto “mutando” arbitrariamente, per virtù intrinseca del “mezzo”, (la credenza), i codici di comportamento. Un errore che consente di sperimentare proiezioni nuove, che diventano necessità (a devianza acquisita) in data tempi e in dati luoghi: operando per successioni vincolanti e perciò spiegando la tremenda potenza del credere: obbligatoria e comandata (nel risultato d’una certa credenza) come il codice della forma di un naso: che in quel naso sviluppa e matura e non in altro. Mi domandavo anche quale fosse la genesi e la struttura dell’ “errore” che muove la successione, la successiva complicazione di fattori semplici: la cui semplicità è a sua volta relativa: perché il fattore semplice può ben essere complicato se lo considero dal punto di vista della successione che l’ha generato: storia in sequenza “semplice/complicato/semplice” che si perde nella notte dell’ignoto, nella serie infinita delle successioni passate e future ovvero adesso in sosta. Si ammette come naturale che in certe circostanze la “forma” precedente (nell’immediato) sviluppi l’ala per volare o un certo tipo di becco per pescare in un certo habitat. Se ne dà una spiegazione nel senso che tra una serie di errori compiuti si sviluppa quello, e quello si consolida come mutazione, che è più adatto all’ambiente. Anche tenendo conto dell’immensità dei tempi ed anche supponendo una vertiginosa girandola di “errori” (vere e proprie proposte, secondo la tesi, che l’ambiente rifiuterebbe tranne “una”) mi sembra che una siffatta rappresentazione induca quanto meno al dubbio: specie tenendo conto della varietà potenzialmente infinita delle possibili proposte; non meno “infinita” del tempo a disposizione per vagliarle. Perciò i due fattori, approssimativamente coincidenti, dovrebbero potersi elidere a vicenda: e così assumo da parte mia, per sviluppare l’ipotesi. Bisogna ammettere che il dialogo tra i due fattori, la “forma proposta nuova” e “l’ambiente” che la verifica, sia un dialogo almeno parzialmente mirato: si da ridurre il numero delle proposte rendendo più rapida e fattibile la scelta. In realtà si può immaginare che la “forma” sviluppi subito o porti intrinseca in sé una certa capacità di “riflessione” delle e sulle caratteristiche dell’ambiente dato. Una “intelligenza” non riflessiva (non individuale nel senso di possedere il senso di sé) ma semplice o naturale (che è data per scontata quando si osserva che l’uccello aveva bisogno dell’ala, la quale “perciò” si sviluppò dalla “forma” precedente; ovvero che necessitava un certo becco per pescare e “perciò” questo comparve e si affermò nel dato ambiente) mi sembra plausibile intrinsecamente: perché ciascuna “forma” in quanto espressiva di una propria necessità non può recepirla se non relativamente (e insieme) all’ambiente, che concorre a determinarla. Permettendone, così, il “rapido sviluppo”. Ciò equivale ad ammettere la relatività dell’indistinto, del “caos”: e più precisamente una doppia relatività. Della “forma” che è tale ma che non nega il caos; e del caos, che è tale ma che dialoga come se fosse già orientato verso la forma. La simmetria della conclusione depone per la sua plausibilità, perché il rapporto simmetrico sembra una delle regole fondamentali della nostra esperienza (dell’estetica, della gnoseologia, dell’etica) con una forza di persuasione intrinseca che prescinde dalla riprova sperimentale alla quale peraltro l’ipotesi deve essere sottoposta nei limiti del possibile. Dal necessario coraggio del pensiero deriverebbero immaginazioni ancor più astratte (c’è differenza tra immaginazione e fantasia) sulla struttura dell’ente/moto: ente perché è: moto perché s’accorge di essere in quanto muove esistendo. Una delle sue possibili chiavi di lettura è l’intrinseca qualità dell’adattamento, mirato secondo le circostanze. Una intelligenza muta che acquista consapevolezza (ben relativa) a livello di “forma” successiva. Per tentare un nome si potrebbe denotare il fenomeno come: “successioni relative reciprocamente orientate tra “caos” e “forma””. Secondo una regola (relativa) di successione che comporta la complicazione in sequenza di fattori semplici (nel senso, relativo, già spiegato: semplicità/complicazione; complicazione assunta come semplicità e nuova complicazione, e così procedendo) reciprocamente e successivamente relazionati ed orientati in una manifestazione di (stellare) continua e reciproca di creatività. Senza distinguere tra “animato” e inanimato. Il tentativo di scalata non presenta ulteriori appigli che si possano (attualmente) utilizzare. Ammesso l’ente/moto, ammessa l’interazione biunivoca orientata dei due aspetti relativi (è vero il vero e il contrario del vero, secondo la logica della contraddizione e della incoerenza costantemente in relazione dialettica con la logica della coerenza e della non contraddizione: e viceversa) come afferrare l’inafferrabile dialettico? Come isolare l’ente dal moto, o viceversa? Considerato da lungi, come la terra da una stella, si può chiamare Iddio (nel senso della più assoluta creatività positiva e negativa)? Si può dire che, come tale, è e non è, diviene e ritorna: è insieme immanente e trascendente, unità e pluralità, essenzialità e relazione, moto e stasi? E si può supporre che una volta fosse diverso (era in principio l’immoto mistero) e che “poi” (ma ha senso il “poi” prima del movimento; e si può dire che il movimento neghi la compresenza?) si è diversificato? Non è forse il principio stesso della successione (che istintivamente si pensa lineare) al postutto circolare? Con la conseguenza che, mentre è, il moto nega se stesso e torna e si fonde con l’essere statico che l’accompagna? (E simmetricamente viceversa?). Ovvero si deve pensare alla spirale per simmetria dalla sequenza cromosomica o secondo l’intuizione del Vico? O non si deve ammettere che la spirale stessa segue un’orbita circolare: e tutto torna e ritorna in “forme” successive per riconfluire instancabilmente nel tutto? E quest’ultimo è finito o non finito? Ovvero nega risolutamente l’alternativa posticcia (che deriva dal limite del nostro punto di vista)? Riabbracciando l’uno come l’altro paradigma: senza senso dal punto di vista stellare? E’ possibile (perciò tanti interrogativi) tentare un messaggio limitatamente fraintendibile in tal senso, usando parole? Cioè segnali concepiti nell’ambito di una lingua: per barbagli che negano la lingua data o la superano di gran lunga? Inevitabilmente il pensiero riprecipita su se stesso: problema di tutti i problemi. La successiva simmetrica complicazione di dati semplici: l’identità ente/moto; la dialettica “caos”/”forma”: la relatività e l’intercondizionamento dei fattori (la logica della coerenza e della non contraddizione che illumina il linguaggio logico opposto: e viceversa): i successivi “errori” orientati della “forma” precedente, restano testimoniati dalla simmetria stessa, come la traccia luminosa di una particella testimonia il suo passaggio? E’ questa una constatazione “obiettivabile” (sia pure in senso di nuovo relativo) o non testimonia soltanto di un codice immanente al pensiero che non può fornire prova attendibile su ciò che ne esula (tornando al limite misero della logica cartesiana del “cogito ergo sum”)? Bisogna concludere, a quanto pare, che siamo “parte” (“forma”) di un “tutto” (“l’ente-moto”) inconoscibile e dunque “mostruoso” proprio come qualsiasi credenza è “mostruosa”.

L’ipotesi di simmetria che regola o ispira - comprendendovi apparenti dissimmetrie -il percorso della nostra luce può autorizzarci a prestare all’universo il nostro animo piccolo e incerto per scrutarne e tentare di comprenderne l’immensa identità. Saper poco, quel poco che con modestia l’uomo recuperi di sé - senza gigantismi tolemaici - potrebbe essere il modo per conoscere almeno parte di ciò che è possibile conoscere dell’universo: in una sorta di epistemologia di quel luogo del quale abbiamo la disponibilità provvisoria e dove si incontrano e lasciano tracce fugaci i messaggi di molti canali intra o extra particolari: che siamo “Noi” col nostro provvisorio “Io”, e l’universo col suo sé (l.m. 287).

Da questo buio materno che scolora fuori le cose sotto nubi appena accumulate e dentro, il caldo flusso del caffè marrone come il tabacco che torna a fumigare e segue ben noto il giro della terra che torna a girare - come se ne avesse ancora voglia -; dalla rinascita che fuori e dentro perseguita le cose; dalla nitida presenza sciapa della sorte; dagli stimoli e conflitti ed appetiti; dal terrore dal dolore che s’espande nel passato nel futuro indovinato che dalla mente risale fumigante faticosamente, che cosa viene o resta? E’ come navigare ciecamente, più che via via la luce dimostra nessuno sa che cosa. E’ come condurre la nave arrugginita che nasconde la sua stessa prora e cerca l’urto della chiglia per cui non sai cosa guardare. O dove più si vede, anche se volgi indietro nella scia che s’immagina sciacquare. Non sapere e non vedere a nessun patto o sforzo cosa fa marciare il rumore soffocato del motore, lo stantuffo che seguita a pompare: e dove induce la riga che seguita a sgorgare. Spremendo bava nera. Un meccanismo che spiega a perfezione senza spiegare: finché la mano non cerchi di sostare che poi riprende e non sa finire.

Dall’altra parte del lago la neve si lascia vedere e partorisce ancora il buio - piano piano . L’alveo materno trema non d’amore - si deve sgravare - e sbava liquido amniotico. Torna stanco a dimostrare. Se qualcosa c’è non lo sa dire. Entra l’ombra del cameriere giacca bianca gualcita. Stanchezza di prendere il vassoio i resti ora già dentro l’orifizio anale, e sparire, grigia nel lago che non sa finire.

Domanda al Rosso Fiorentino. Eri sincero? Quante volte vorremmo saperlo, come la luce nel buio. Ma la luce è buio appena meno. Si scorge in cima un grande affollamento, di gente ascesa da tre scale che deve calare un corpo rilassato morto senza rischiare che cada da solo. La croce quasi scompare: e quanto al Cristo è spoglia ormai soltanto: se siede ormai alla destra del padre. Lo sguardo che è salito sulle scale scende deluso che quasi manca il volto del Gesù misericorde e puro. E s’imbatte nell’urlo del dolore di San Giovanni della Madre affranta della Maddalena che terrestre s’incendia obliqua del dolore che offre lei alla madre. Nel centro enorme e solitaria spicca la radice il primo tratto della croce tronco che ricresce enorme. A cui, gigante tutto s’appoggia. Il colore irreale le macchie scheggiate che come pietre formano figure, messaggi astratti d’immenso terrore. La vita eterna sembra radicarsi nel futuro incrollabile fede di speranza e carità. Eri sincero?

Escatologica. Le buste chiuse spedite a casaccio. Le buste chiuse spedite in omaggio. Che recano i frammenti di un messaggio che si compone e si scompone in via dall’una all’altra busta di passaggio. Le buste usate che si gettan via con qualche notazione presa in viaggio.

Grünewald (La Crocifissione) (“Le retable d’Issenheim”) Io comincio dalla fine nella notte del mondo quando la morte del Dio rovescia il mondo ed il passato indica col dito il capo appeso senza meraviglia ed il dolore si piega e si rovescia sul viso della vergine Maria che sembra di carbone rigida e vecchia, neve candida che dalla veste ondeggia, gareggia col libro e con l’agnello che dalla madre si sono formati. E guarda sempre Lei che eletta riapre il passato che nell’annunciazione si piega ancora s’apre con i capelli di sangue e d’oro che a ritroso piega ancora quando è la donna della natività: e all’altro lato una sfera d’energia sovrumana umilia la morte nel volto fantastico del creato e prefigura l’atomo che fonde, e chiude la storia. Il grande libro aperto a modo mio si richiude e torna il Cristo gigantesco e terribile notte nera: guarda bene la morte di Dio, l’unica speranza. Saranno stati contenti gli antoniani ed avranno pagato bene Grünewald. O forse era il Dio resuscitato nella placenta, partorito areostato dal sepolcro a risalire; ma le mani della madre restano strette all’una all’altra gridando in silenzio aiuto perché nessuno parla ed il silenzio è nero salvo quel dito lungo il doppio dove addita le proporzioni tornate bambine che non hanno punti di riferimento se non l’anima e qualche volta un lago una finestra un corvo che sembra un surrealistico Dalì, confondendo nell’arte tutti i tempi come vera pur lasciando al lettore coltivato di dire donde venne e cosa fu ed a me si scorgere il miracolo del cofano perfetto contenente articolato preciso accavallato smisurato gioiello d’armonia di precisione e previsione come più tardi (o subito?) sarà il cavallo di Troia od il volo a reazione. La compresenza è il requisito della suprema eternità (c.v. 57).

Il racconto dei mostri ( là dove conduce il moto: il sé e la conoscenza ).

Può essere singolare perfino l’idea di far epistemologia in righe ritmiche nei pressi del duemila. L’autore testimonia che non è nata l’idea, ma quasi direttamente, e certo acriticamente, la riga ritmica.

Nemo. Sul ponte del battello il capitano attende in uniforme di parata e calmo con la mano, sull’attenti, saluta il messaggero che consegna con breve inchino rispettoso gli ordini in busta sigillata. Lunga rotta, lontano con cautela attraversata. In veste da fatica, appena giorno, il capitano obbedirà. E annota: “anche se tutto” (sul diario di bordo) “proprio tutto non capisco” “obbedisco” (v.n. 251).

Tutto ciò che ci arriva dall’esterno indica concordemente che tutto si muove. Tutto ciò che ci proviene dal nostro interno indica del pari che tutto si muove. Tutto l’arco della nostra riconoscibilità sia dell’esterno sia dell’interno concorre a farci ben chiaro che il moto è l’unico dato costante che ci occorre di verificare senza eccezioni.

Temperie . Tutto varia furiosamente: la relativa stabilità della mente la sua compresenza è di pura follia (v.n. 180).

Sembra che qualcosa di stabile sia verificabile. La riconoscibilità di noi stessi come punto di vista nel quale affluiscono informazioni e la costante consapevolezza di sé. Talvolta ci dimentichiamo di noi stessi: apparentemente nel sonno o quando operiamo intensamente e sembra quasi di non esistere più. Ma appena c’è uno stimolo un’occasione o una sosta nel diverso movimento che ci impegna, immediatamente torna il riferimento a sé. Questa sensazione è semplice apparenza: ogni volta il nostro io muta: ogni volta cambia ciò che vi si specchia. Il linguaggio parla dello “specchio della coscienza”. E’ come se dentro di noi ci fosse effettivamente una superficie speculare che raccoglie sempre il nostro esistere e ne dà il punto di riferimento, necessario per la consapevolezza del moto. Lo specchio è fisicamente neutro: vuoto perché non ha altra funzione che quella di rinviare l’immagine (concorrendo però attivamente a crearla operando sullo stimolo) che volta a volta si presenta. Un’immagine di fondo che sembra costante (anche se non lo è) è pur sempre rimandata: l’immagine di essere sé, di essere il punto di appartenenza di tutto ciò che deriva dai cinque sensi sull’esterno e punto di riferimento di tutti i messaggi che giungono dall’interno: la ipseità di tutto ciò che viene percepito.

Laudi . La nudità completa lo specchio che si vuota che si spoglia e si fa pieno in perfetta accoglienza che non distingue nella creazione semplice moto d’infanzia e gioco di lieta e pura coralità. Laudato sii Tu sempre mio Signore. Meglio se stamani la luce dell’inverno al sole al vento voli ma sia l’anima pronta. A miliardi naviganti universi come il mare a miliardi naviganti universi di stupore. E’ l’ora libera consenziente imparziale. E così sia. (l.m.. 304 )

L’individualità è un equilibrio dinamico. Giunge al limite del dubbio, del perché si debba così obbligatoriamente essere sé.

Parsimonia conoscitiva . Il nostro mondo è corto quanto il corso l’intende della luce se quando arriva più non parte (o esatta non riporta la sua fonte vicinissima lontana). Non avrai scienza di ciò che è stato ed è, eternamente, se non immaginando, che non è, con la poesia col libero pensiero: i miti il mondo degli dei: dove il mondo vero lampeggia a tratti nel panta rei. Se dalle nostre mani nasce l’attimo luminoso vero sicurissima immagine ridente dolcissima creatura della mente, allora forse sei . (v.n. 101)

Noi viviamo per attimi. Esistiamo per secondi. Il nostro universo è una esperienza polverizzata. Cerca di conoscersi e di trovare un senso nel confronto delle parti nella trama che la memoria riesce a tessere tra l’una e l’altra minima tessera creando una pseudo-continuità una pseudo-storia che nessuno saprebbe verificare intrinsecamente e che tuttavia balugina e si esprime (o sembra) attraverso la molteplicità.

Aforismi ritmici . Solo frammenti nel caleidoscopio, (ma tanti!): di colori contrastanti. Ognuno par compiuto nell’ordine degli angoli disordinati: coglie un po' di luce senza disegno, arbitrariamente. Mi provo a rigirare, scuoto dolcemente. Non si forma nessuna geometria. Non appare nessuna simmetria. Se manca l’illusione degli specchi le nostre azioni (sono) i prodotti deietti della mente dispersi senza senso sul cammino. Nessuna traccia ai cani del futuro. (i.p. 83).

Se in ognuno di noi vi sono dei moduli di consapevolezza e di espressione “istintivamente prefabbricati” e posti dentro di noi a guida di un nostro modo di agire a guida di una mini-sequenza di movimento e di consapevolezze che opera nell’ambito del nostro microcosmo, ciò può spiegare la ripetitività di certi nostri comportamenti: la uniformità, attraverso l’apparente varietà di situazioni, delle risposte che noi abbiamo dato e diamo agli stimoli che ci sono posti dal reale e dalle varie circostanze anche psicologiche della nostra esistenza. Non so se sia qui il caso di far presente che l’espressione che mi è venuto di dare al mondo nel corso di tanti anni è sempre un modulo puntuale e compresente. Un modulo nel quale gli attimi contano, le situazioni si esprimono fuggevolmente e tutto quanto è vivo ricordabile constatabile (nella lotta che ciascuno di noi conduce per opporsi al moto della dimenticanza, per andare controtempo e per impedire che il moto universale cancelli tutto dei nostri piccoli moti come se non fossero mai stati) si esprime esclusivamente attraverso una riproposizione di ricordi di attimi di situazioni spesso rapidissime che hanno colpito l’immaginazione la fantasia oppure la ragione ovvero hanno coinvolto nell’azione e sono stati come fermati da quello specchio momentaneamente più attento e momentaneamente più attrezzato (la scrittura, la poesia) per tentare di fermare le immagini polverizzate: colte nel moto da un punto di vista. Coinvolti nella vita noi non riusciremo mai a dare un significato oggettivo alla vita. Non riusciremo mai a vederla dall’alto o di lato o dal basso o comunque da una prospettiva totalmente fuori dal singolo fluire del moto. Non resta che rifugiarsi in questa sorta di sondaggio per cui certe “posizioni” si stagliano singolarmente e possono essere colte singolarmente e, forse, riconnesse ex post in un tracciato o in (arbitraria) una forma compiuta che ne permettano una lettura.

Insistenza. Dall’alba che s’inganna sulla luna che bianca si confonde verso il cielo al giorno che percuote l’universo nel fulgido solare mezzogiorno e scivola già stanco nel meriggio, fino alla pace della lunga sera, il moto circolare, luce ed ombra, scandisce la misura del creato: tututto l’Uno volge su sé stesso e fugge verso il cielo (v.n. 58).

In sé da sé mutevole l’onda nel flusso del mare specchia la forma non forma universale. Come il pendolo muova o bruci il magma o chi se chi o dove l’immensa foce attinga tace la bellezza e cela (l.m. 240).

L’insieme dei moti di un sistema è uguale a zero. Tutto concorre in un punto ideale di pari peso di piena simmetria. Ed il totale è uguale è zero (la vita mia). Universale è sempre uguale. E scrivo ancora (l.m. 219).

Altra vita nel cosmo. Forse eravamo necessari ad essere di minuscolo specchio del creato che resterebbe però assai deluso se il nostro solo guardasse, minuscolo (l.m. 124).

Immanenza o trascendenza. Ho concluso di non - aver nessun pensiero. Io sono nero un punto sulla lavagna dove qualcuno scrive da dentro da fuori in nero sul nero senza darsene - nessun pensiero (v.n. 106).

La scienza nova. Il mistero è forse semplice se pensi che si formano e disformano le forme che il creato è creatore interamente, che si guarda e si riguarda intensamente, che si cura e rassicura veramente. Al di fuori del percorso uno e bino non c’è posto per cercare un’altra essenza che siffatta stupendissima creazione trova in sé, se l’adoro, una ragione (l.m. 112).

La logica del caos non può rinunciare a nessuna possibilità: e dunque muove non secondo il principio di coerenza e non contraddizione, ma secondo quello della contraddizione e della incoerenza. E’ dunque vero tutto, vero nel senso di fatto realizzato o possibile, ed il contrario di tutto; caoticamente. Il fatto progressivamente sceglie, in quanto si compie. Sceglie forme concluse che si isolano transitoriamente, e - isolandosi - hanno bisogno di una organizzazione (e di codici o di norme) che si aggregano e operano secondo una sequenza data - ispirata alla ripetizione di sé e alla conservazione di sé - secondo coerenza e non contraddizione: necessariamente se la norma e l’organizzazione sono forma. La forma non nega il caos (che coesiste): ed opera e muove secondo la sua necessità. E dentro la forma risorge l’errore che nega la organizzazione e la norma che l’esprime. Gettando i dadi, incessantemente si specializzano i codici che -errando- incessantemente mutano. Moto che utilizza il precedente moto. E la precedente forma, che nega. Finché appare la nostra forma. E in essa il pensiero che spinge la penna. Transitivamente.

Errore universale. L’angolo della divaricazione allontana l’errore dal suo centro, che si perde, s’abbaglia nello sbaglio: non muta grado ma grandisce sempre. Quando si muove la geometria si perde il punto si dissolve il tratto sfuma lo spazio sfuma il tempo a un tratto nudo bagliore, fuso nell’errore (m.s.e. 139).

Scienza e magia. Come il neutrone silenzioso passa nella camera a nebbia senza traccia ed orgoglioso la minuta massa, perfetto nodo, leva alla minaccia passa così la tua nebbiosa scia vera e non vera, rapida magia. Non un sogno soltanto hai già sognato ma anche il suo percorso già segnato. Come un pensiero, scienza immaginata, la lieve particella è già passata (m.s.e. 199).

Esperienza mistica. La fervida fatica al calor bianco se fonde la barriera slega l’anima che nel profondo sale alla sorgente, e un coro numinoso di rotanti sfere di suoni d’armoniosi intenti prende la mano detta dentro fonde e riconduce all’universo insieme. Sciolta la pelle che la pietra vive intendi: e il fuoco e l’acqua e sora morte. Infinite le cose si conoscono unica vita, sterminata stella (v.n. 181).

La speranza di scongiurare la solitudine, il tempo, la morte: l’istinto della poesia, cioè di fare, di durare, spinge e sferza al lavoro. Per lasciare una traccia: buona cattiva; forse soltanto un rifiuto. La speranza fabbricatrice: il bisogno di essere o almeno di esistere. Le pericolose parole: strumenti labili e malfidati, con i quali è difficile costruire. Eppure bisogna. Riducendole a fatti. Allineandole come pietre. Vengono da lontano. Erano prima di noi; saranno dopo di noi. Trasmigrano da linguaggio a linguaggio. Il raggiro sia diretto e ben dosato. Perché vivida e diretta sia la diffrazione creatrice; e la parola si faccia nuovo pensiero. Ricreandosi e ricreando. Parole brevi. Il creativo mistero della comunicazione è in pericolo. La parola è abusata. Mille commercianti disonesti e superficiali ne abusano e non sanno. Le immagini prepotenti, definite, multiformi: prive di stimolo s’impongono dall’etere. Sperpero di energia: inutile distruzione di boschi. Tornare alla parola. Precisa, concreta; divinamente mistificante. Il messaggio sia breve sostantivo pesante come cosa: e così frainteso, fino alla più totale evanescenza.

Antimateria. Per uno sbaglio di tempo o di via nel buco nero dovevo piegare e trapassare in un’altra realtà. Dove il silenzio scende come musica, dove risale l’acqua spumeggiando se dal tramonto la luce risale ed i miei passi possono tornare sopra i miei passi. L’incertezza regna. Non si decide sanguinosamente. Dove non taglia inerte ghigliottina tempo col tempo ed ogni alternativa dove armonioso un pendolo bilancia passate scelte e percorre fedele avanti indietro in perfetto momento più lieta più bella la stessa realtà (m.s.e. 17).

E il verbo si fece parola. Era in principio l’immoto mistero che la parola perfuse nel moto segno creante a se stesso dal seno. Vennero al corso titanici spazi. Fulse la luce. Tempi muti sorsero. Ruppero note discordi il silenzio. Parola che ricresce, l’universo corre e si esprime nel nostro intelletto, alto e ridente verbo di poesia (l.m. 71).

Divagazione sulla provenienza del pensiero e sulla creatività ( per Adelia ).

Da dove nasce il rumore del tuo (del mio) pensiero? Non quello che si propone di pensare. Che collega stimoli esterni (letture, conversazioni, domande) o interni - ma qui siamo al limite - orientati da uno scopo deliberato: rispondere, precisare, capire, assimilare, sviluppare, motivare qualcosa: dirigendo a ciò il flusso - o il riflesso - (non a caso immagini d’acqua e di luce: fluide entità di scorrimento) di pensieri più o meno collegati allo scopo deliberato. E nemmeno quello che indaga che cerca ad effetti pratici, dai più banali a quelli meno collegati con la necessità fino a giungere alla speculazione pura: pensiero che può essere intenso od intensissimo ma che è pur tuttavia frutto di un atto di scelta, di un intervento gerarchico di tipo volitivo (cerco di non usare la parola volontà) che - diciamo così - obbedisce ad un ordine (ancorché non formulato) ed obbedisce come un buon soldato. Quello cui sto pensando (la condanna del pensiero è di pensare se stesso, senza però riuscire mai a specchiarsi intero) è quel venire, quel proporsi inevitabile del pensiero di (pensieri) quando non si “vorrebbe” o non si “penserebbe” di pensare: ed anzi sarebbe desiderata una pausa e si opterebbe - se potessimo - per il non pensare, per il silenzio del pensiero. Mi tentava, ieri, questo desiderio e sulla associazione di una allettante promessa trascritta in calce alla carta dal lettere di questo sereno Albergo (“à l’écart de tout bruit” “dans un parc de 7 hectares”) essendomi cullato nell’idea che si potesse almeno diminuire il rumore di questo pensiero, le forme ossessive dell’idea stessa (spontanea e non richiesta l’idea, altrettanto le forme) furono dapprima: “abbasso l’audio del mio pensiero” (che su se stesso continuava): e poi, desiderando una forma metrica (e qui operò l’associazione derivata dalla carta da lettere che avevo sott’occhio) “il rumore, il rumore del mondo” / (senza distinguere tra dentro e fuori, ma “pensando” al dentro) / “è qui scartato evitato ingannato” / “(abbasso l’audio la radio pensiero)”. Immagine ristretta tra parentesi per sottolinearne la sperata compattezza nel senso desiderato: scartare (à l’écart, “al riparo”?) evitare ingannare. Tutti tentativi inutili perché il pensiero continua a pullulare ad emergere per conto suo e non si lascia né scartare né evitare né ingannare. Se anche tenti la “distrazione” se vuole se ne torna bel bello come pare a lui: come pure può accadere che una volta emerso - se non ti affretti a darne traccia - se ne vada e scompaia irrecuperabile per sempre, come accade in certi sogni quando recuperi la sensazione di aver sognato ma non recuperi né ricordi cosa, qualche volta un pensiero una riscoperta del quale sai che ti parve fondamentale ma che non esiste (è) più, e non conosci più: nonostante l’angoscia e la pena che ti fanno sforzare al ricordo. D’altronde il rumore di fondo che volevo - almeno - smorzare non è nemmeno un sogno, che si svolge al di sotto della coscienza. Al contrario il pullulare spontaneo del pensiero la domina. Non si può confondere neppure con l’altro gradevole fenomeno che si usa indicare come “sogni ad occhi aperti” nei quali l’irrealtà è per così dire pigramente pilotata da un atto prontamente gratificato che può essere o di immaginazione incoraggiata a tema o anche di abitudine. Certi sogni ad occhi aperti sono ricorrenti (abitudinari) e quasi indispensabili a rassicurare a dare gioia ed importanza di sé. I miei, per esempio, che si ripetono dalla lontana infanzia, probabile suggestione dei primi indimenticabili libri di avventure, riguardano immagini (guerriere) di implicita vittoria indefinita, che coinvolgono la potenza di navi da battaglia, oppure di artiglierie formidabili (300 cannoni!) e di condottieri forti e potentissimi: anzi, è ovvio, il condottiero è sempre uno e sempre il medesimo sé da allora (forse dieci anni, ma anche meno) fino ad oggi che ne ho settantatré: e ancora non me ne vergogno. Né so negarmeli, immaginandone tuttora varianti seppure non clamorose. Questo rumore di fondo del pensiero è dunque proprio come una radio perennemente accesa che trasmette in continuazione e c’è da credere che lo faccia anche quando altri pensieri orientati o drammaticamente a volte stimolati dalla realtà interiore od esterna si sovrappongono disturbandone oscurandone o anche deviandone momentaneamente il messaggio. Se questa è l’immagine più o meno esatta di “questo” pensiero (pensiero continuo pensiero spontaneo pensiero incontrollabile pensiero ineludibile pensiero martellante sui temi suoi pensiero insinuante, pensiero perseguitante) se cioè è ricevuto dalla consapevolezza che è inesorabilmente condannata a parteciparlo, dov’è l’emittente dove la stazione radio o le stazioni radio che trasmettono, talora contendendosi la frequenza tentando di sovrapporsi l’una contro l’altra e di far prevalere ciascuna i propri messaggi? Ho sempre pensato, sulla base di una tendenza universale alla simmetria (che ovviamente comprende l’asimmetria, cioè il suo simmetrico contrario: ma di ciò basti, che questo sarebbe un altro -già fatto- discorso), che l’organismo umano nel suo complesso si organizzi ed operi su strutture analoghe a quelle di qualsiasi altra organizzazione e dunque - perché no? - analoghe anche a quelle di una organizzazione sociale, fatta di ben distinti individui collegati però da marcate interrelazioni tra loro. Per dirla subito per paradosso - che almeno ci farà intendere alla grossa - mi pare possibile ritenere che qualsiasi trasparente minima ed imprigionata cellula tenti di trasmettere nell’organismo il proprio messaggio (come farebbe uno sperduto dimenticato cittadino di campagne lontane o lontanissime: sempre deluso nel suo desiderio di contare qualcosa) che naturalmente si perde nel rumore di fondo, nel caos dei messaggi che si contendono l’un l’altro l’udibilità. Certamente non vanno persi del tutto - in questa per me plausibile ipotesi - i messaggi di grado complesso, che provengono cioè da tessuti ed organi qualificati siano essi relativamente stabili in sede proprie o relativamente diffusi su tutto, per così dire, il territorio del nostro organismo. Penso cioè che la pelle il sangue il cuore il fegato e così via abbiano emittenti proprie e trasmettano di continuo i loro messaggi certo utili e certo recepiti da qualche parte dove troveranno accoglienza e risposta: almeno spero. Anzi voglio confidarvi che secondo me, se mai la scienza delle cose giungesse a questo livello, sarebbe facilissimo monitorare lo stato di ciascuna organizzazione o parte del nostro essere corporeo e non corporeo (distinzione davvero rozza) e stabilire dove c’è e perché c’è un’alterazione grave: si da correggerla tempestivamente. Si potrebbe aggiungere - ma si tratta ormai di fantasia più che di immaginazione - che la ribellione della cellula trascurata che accende la rivoluzione cancerogena e determina il fatale sovvertimento dell’organismo, potrebbe essere prevenuta raccogliendone il messaggio urlato: oh, quanto disperatamente, urlato prima della degenerazione distruttiva Tornando all’argomento del discorso non c’è dubbio che il rumore di fondo del pensiero è a volte brutalmente dominato. Anzitutto dal dolore che lo rende inarticolato, come lo rende inarticolato e quasi soppresso (finalmente) nella consapevolezza pura, un piacere intenso ed essenziale. Più comprensibilmente è dominato da “pensieri fissi”, tipicamente quelli che concernono cose o persone amate: allorché lo stimolo fortissimo della generazione o della più generale ma non meno forte creatività riempie tutte le frequenze d’onda e conclama la sua assoluta presenza, la sua assoluta e divorante compresenza che lascia provvisoriamente qualche spazio ad altri pensieri solo per tornare poi prepotentemente ad occupare tutto lo spazio disponibile. Questi messaggi dal profondo, che giungono da organi deputati o collaboranti, sono tuttavia di identificazione relativamente facile. Ma il rumore di fondo che persiste sempre? Quello che non riceve impulsi “colossali” ma che è presente ed ineludibile nella sua varia espansione che segue e non segue coerenze, occasioni e singolarità? Insomma il rumore ordinario, l’ordinario pullulare del pensiero: così variabile, così monotono così -si è detto - insinuante, che cosa è mai e da dove è trasmesso e perché mai, proprio mai, si attenua o quasi esclude se non quando si attenua o quasi si esclude nel sonno la coscienza? Non so dare una spiegazione se non in senso eclettico. E’ cioè probabile che questa sorta di rumore rappresenti il tono, variabile ma costante, di una personalità: coordinando o lasciando che si sovrappongano liberamente in una mescolanza individuante alcune tendenze che sono lontana sommatoria sintesi o mescolanza di tendenze vitali che non hanno niente a che fare con la coscienza: l’attitudine alla gioia quella all’amarezza, quella alla liquidità o alla durezza ecc. Insomma gli “stati” fondamentali che si alternano bensì, ma secondo una legge di permanenza, e che costituiscono i messaggi della personalità: ovvero la personalità. Beninteso non è che la gioia o la tristezza vengano (se non come componente) dal dato organo o tessuto: ma nel rapporto e nella sintesi delle trasmissioni si creano le armonie - o le disarmonie - più complesse e tendenzialmente ricorrenti. Tra le quali si insinua il fenomeno della creatività. O, se volete la musa. Che a volte trasmette e detta come se avesse concepito altrove: e qui non voglio indagare, non voglio spiegazioni. E’ troppo bello ed esaltante obbedire, creare, come se fosse un altro a dettare: che poi sei Tu. Oh deliziosa virtù del creato seguire senza paura questo dettato. E lavorarci su.

Sole silenzio solo lago sola pace d’esistere: con l’audio al minimo per il pensiero (c.v. 21).

Conclusione. Le credenze non si giustificano e conducono ai mostri ai quali circolarmente conducono la conoscenza e il pensiero che del pari non si giustificano. Resta la creatività, lo spontaneo impulso della vita. L’Energia. La Forza.

Confine. Se si ammette una energia (E) che riesce (e tende: puro scherzo e gioco messo in ruzzo dal caso: bizzarria pura) ad autoalimentarsi e a riprodursi in certi limiti spazialmente definiti (e come non ammetterla se noi tutti viventi “la siamo”) la quale perciò si ponga necessariamente in relazione attiva con ogni “altra” (con ogni sé, compreso il proprio, con ogni altro da sé: ad ogni livello, dal più semplice al più complesso: sia analogo che difforme da sé) tutto il resto appare, assai più che semplice ovvio. Posto che qualcosa “doveva” “naturalmente nascere” da continue bizzarrie in relazione tra loro, noi ne siamo, per quanto possibile, spiegati. Resta “soltanto” da spiegare l’Energia. Una domanda preliminare s’impone: che bisogno c’è di spiegarla?

Dove scende lo sguardo sia l’attimo insorvegliato senza che s’incrini nessuno di paura al moto al pullulare semplice che guarda con rispetto facendo largo intorno e nel momento. Forse si sentirà parificato ognuno eguagliato equilibrato in bilico un momento: la sistole e diastole così leggera e casta che il moto sembri fermo, l’immenso silenzioso ritorno nell’origine, fiducia nel futuro. Quando dubitando che sia stato sarà deformato il ricordo vieti l’inesistere di chi ci fu caro la domanda la ragione. Cosa viva bella e fugace dovrebbe avere una ragione? (c.v. 28).

Il senso escatologico della colpa.

Il senso di colpa, cromosomico cellullare, la vita intuisce ad ogni livello animato e fors’anche inanimato sentendosi trasgressiva –la trasgressione stessa d’ogni codice- trovando tentativo di riscatto, moto che torna, circolarmente, nel senso stesso della colpa: che così testimonia e dà certezza –certa incerta- alla vita della sua vita e alla transitoria esistenza. Seguono da lontano tutti gli scongiuri, i miti, i sacrifici –anche umani- di ogni religione.

Mi distendo su me stesso e mi compongo. Ho fatto tanto male o l’ho subito? C’era sempre un bisogno d’innocenza. Ora sono stanco e non vorrei più moto, ma semplice esistenza. Quasi un sepolcro subito colmo di dissoluzione e marcio di paura.

Il libero arbitrio, nel moto dell’io e del pensiero.

Ognuno di noi è incompiuto, almeno nel senso che non ha potuto imboccare i destini alternativi che il libero arbitrio appresta a ciascuno: lasciando intatto, e perfetto, il disegno immutabile dell’universo (v.n. 126/127).

Quando penso registro un pensiero nato altrove. Chissà, se sento, da dove sento. E come è libero il nostro arbitrio se come l’acqua discende a valle? Eppure io vivo di libertà per esser tale (polvere al vento) qual’esser devo precisamente. Come un soldato disciplinato che nulla sa: ma per puntiglio tiene il suo posto ad ogni costo: in libertà: pura assoluta (la libertà) necessità della necessità (v.n. 100).

Compresenza. La scena muta variamente. Il vento della sorte scinde e riaggrega le apparenze nell’universo nell’anima nella mente. L’ambiente nasce partorisce e muta identico. Continuamente. Non si svolge non si evolve niente. La scena tenta identiche apparenze. Cambia la prevalenza. Cambia l’osservazione. La storia è inesistente. La successione. Onnipresente. Gli attori sono tutti in scena. Variamente, secondo dove cade il raggio, l’arte si offre intera. Fotogramma di gruppo, singolarmente, l’acronia di cui sobbolle l’esistente spiega - prova? - l’eternità?

Non è vero che sia limpido il pensiero o nasca puro se sembra chiaro. Va roso, va sbucciato a rivelare ciò che ingannava se tale sembrava. Rotto lo scudo la perfezione uccide. Nutre e profuma la mandorla amara (l.m. 239).

Contenuto e contenente. Quando l’idea si consegna precisa s’illumina d’un lampo il contenente. Un nuovo territorio ti sorprende. Più grande scuote l’onda sonora. Si rassetta la mente (v.n. 104).

Riflessione. Non ho più tempo. Finirà, per simmetria, il Tempo: il giudizio è cosa distrutta senz’appello. Un fatto. Una prova un cenno minima follia moto impercettibile provando e riprovando nell’universo. Ordine simmetrico. Un punto. Il punto al negativo: dissimmetrie diverse confuse per ripetizione infinita, simmetrica: l’ordine del caos disordinato. La logica (antilogica) dell’incoerenza e della contraddizione pone ordinatamente il contrario e l’incoerenza, in luogo in vece della soluzione. Ripete disordinatamente la sostituzione per creare. Con pazienza (v.n. 270).

Riprova. Le tartarughe vanno lente lente: quelle di mare volano leggere unite un giorno intero scivolose per compensare la dura alienità della natura, l’amara diffidenza degli scudi nell’immensa liquida stagione: leggerissimo luogo per sognare così durevole una felicità di pietra, più che bestiale. Principio d’incoerenza e di contraddizione di logica profonda come il mare (v.n. 271).

Il moto dell’io. Gli esseri viventi operano come punto di transito. Acquisiscono e restituiscono come un tubicolo che ad una estremità “ingloba” (cibo, immagini, suoni, odori, sapori) ed all’altra estremità reflue. Le due funzioni sistole/diastole servono (sono) la vita. Se questa è affermazione (di non si sa cosa) di sé (e si continua a non sapere) l’affermazione è nell’impadronirsi, possedere, far proprio, inglobare: e nel restituire, dare, esprimere (spremer fuori) lasciare una traccia. Non a caso all’altra estremità del tubicolo convivono quasi promiscuamente gli organi di deiezione e di generazione: che hanno in comune di “lasciare una traccia” un segno. L’affermazione è dunque sia nel “prendere” che nel “lasciare” che si riconnettono poi nell’esprimere, nel lasciare: perché tanto più si ingloba tanto maggiore è la pienezza e dunque di tanto aumenta la espressione, la traccia; che finisce per misurare la realizzazione, per essere la realizzazione stessa. Ma per aumentare la realizzazione è reciprocamente indispensabile aumentare ai due capi del tubicolo i territori esclusivi, i poteri (i territori del cibo ed i territori dell’inseminazione).

Necessita esser sé per tramandare non per durare . L’io singolare staffetta viva crea, originale e moltiplica il moto: che nello scambio non dovrà durare. Non serve ancora memoria di sé resta s’immerge ed opera il seme cellulare il mutamento la memoria del gesto, opera a sé. Nell’assoluta necessità ho scelto l’esercizio più difficile: immemore di me di tramandare una bellezza mia universale dal davanzale stretto della mia libertà non singolare (l.m. 289).

Ego ed alter ego

All’atto della scelta del luogo destinato alla salutare permanenza le mie personali capacità visive erano, di necessità, assai limitate. Vidi, o intravidi, il nome dell’albergo e quello ben noto di Montreux: di più l’indicazione di un grande parco e decisi impulsivamente di partire alla volta dell’Hotel Victoria. Portai con me le lettere scritte a Domenico. Non di ieri. Non destinate alla pubblicazione. Cose e pensieri di sconcertante ingenuità. Ben consapevole della indiscrezione non chiedo permesso all’autore. Conto sull’impunità quasi certa perché Domenico non legge mai ciò che io pubblico. Pare che gli interessi talvolta partecipare prima: ma questo lo deduco io.

So che ti senti colpevole. La colpa si vorrebbe sotterrarla: si vorrebbe non guardare in faccia le azioni le omissioni che non ci piacciono. Fuggirle e fuggire tutto ciò che ce le ricorda. Ma siamo poi tanto colpevoli? E sono gli altri così esenti da colpe? E le circostanze del caso sono così drammatiche? O forse è difficile il compito di rimediare: e ciò turba più della colpa (o forse turba che l’impegno non valga al rimedio): per modo che è più facile sentirsi turbati e soffrire la colpa, piuttosto che avere il coraggio di rimediarvi; e - se è irrimediabile - di confessarla, ammetterla, proclamarla e domandarne perdono. Non esiste un metro assoluto un’etichetta certa che identifichi la colpa come realtà. Reale è la vita. Alla viltà di soffrire - compiacendoti del nascondiglio anonimo e irresoluto - opponi la risoluzione ferma di un coraggio fatto di pietà di carità di comprensione di umiltà di umanità. Esci a riscaldarti a contemplarti vivere il battito di ciglio che nel cosmo ti è destinato. La lunga notte attende sicura. Nella selva oscura dove regnano menzogne e verità dove le pietre a volte concedono l’illusione di seguire un cammino, che il piede segue volentieri su quelle sanguinando, tanti hanno trovato, in ogni aspetto, voce spontanea e quasi l’obbligo di scriverne via via. O è più importante non turbare, non fare soffrire; lasciare che le acque scorrano placide all’inevitabile foce cui sono destinati monumenti, illusoriamente più duraturi del bronzo? La tua verità, per te, l’hai scritta. Brucia tutto. Vanità delle vanità. Perché dubiti, arrogante presuntuoso, cosa credi di fare. Non ne ritornerà che amarezza e danno: nessuno vuole sincerità: nemmeno, forse chi crede che tale sia. Tutte le regole lo vietano, perfino il buon gusto. Ahi, natura natura. Chi non ha potuto partorire, nel flusso di acque scomposte di turgidi muscoli, tra sangue fatica e dolore maleolente, qualcosa di sicuramente morituro, eletto quanto miserabile: ottimo e pessimo: capace di tutto in ogni direzione fino a coprire tutto il possibile: sfera infinita che pulsa e si dilata e su sé medesima torna: miserrimo niente la cui sostanza e il cui movimento nessuno mai saprà determinare ed al quale però la madre di regola non rinuncia: non sa rinunciare e non rinuncia. Tenta la vita, perché questo è l’istinto, la Legge. Tenta allora la verità, nel senso nel quale coincide con l’esperienza. L’ora della riflessione è venuta. Famiglia e figli avviati ad una loro strada sulla quale sei un estraneo. I giochi sono fatti e c’è soltanto da esercitare fin dove possibile e fin dove ne sarai capace disponibilità pazienza e solidarietà. Si tratta, in definitiva, di subire. Nel cerchio degli affetti s’allarga il silenzio, la non partecipazione reciproca. I contatti finiscono il più delle volte per testimoniare quanto poco siano stati condivisi sforzi, lavoro, obiettivi, scelte estremamente impegnative ma motivanti e perfino esaltanti. Va detto, guardandoti dentro, che non eri poi così traboccante di energia essendo la tua forza frutto essenzialmente di concentrazione. I raggi non numerosi, concentrati come attraverso una lente d’ingrandimento esposta al sole, giungevano a scottare a bruciare ed a incendiare. Non resta, Amico mio, che prendere atto dei limiti: mantenersi in un impegno di scrittura e di iniziative volte a conservare per poco ciò che è stato conseguito o ciò che può essere ancora di stimolo al suo conseguimento. Un hobby di vita. In funzione noiosa di sé e di un futuro ormai limitato sul quale non c’è da far gran conto né da sperare e per il quale è grottesco ogni investimento di “fusione eroica”, emotiva esistenziale lavorativa. Temo tanto che ti annoierai, a partire da questo bel giugno del 1988. Scrivimi ancora.

Caro Domenico, da come lo descrivi era sicuramente un legame fortissimo che ha superato le più pesanti prove dell’esperienza, che è solo di sé e solo minima. Questo può dirsi da una parte sola ed il resto è soltanto illazione. Ma se si giudica un legame non necessario (alla stregua di altro punto di riferimento) dove torna il pensiero, l’interno confronto l’aperto conflitto in rabbia feroce in dissonanza totale con nostalgia col desiderio di distruggere e rifare l’altro, che non si può, col giudizio costante di difettività con la sempre ripetuta constatazione che non va e insomma con un colloquio interno che è lite rimprovero costante e nostalgia e insomma odio che comporta quello che l’amore avrebbe pur potuto essere, per altri con altro in circostanze appropriatamente rifatte che sono e furono soltanto virtuali, e che nessuno potrebbe immaginare a ragione nemmeno in ipotesi… se il legame resiste così persino e segue oltre l’interruzione oltre la negazione oltre il suo tradimento oltre il disgusto e l’ira e segue e prosegue come una catena odiosa che si può solo trascinare ma dove si ritrovano rapporti, che non estingue il dispetto e cose e figli anch’esse ignote ignoti e tutti i fatti, non condivisa vita, senza trovare mai la parola d’assenso di constatazione di obbediente alimento ovvero di riconoscimento (e solo si constata nell’oggi del passato miserabile lamento e diffidenza piena)... se dunque si giudicasse un legame, come sembra necessario, da siffatta presenza in odio e amore forse sarebbe o pur sarebbe stato anch’esso mescolato amore e forse ancor sarebbe definibile ancora amore. Certo va connotata questa parola strana come una caccia un pasto un’ansia di divorare come la presa ansiosa crudele e primordiale della bestia che assale, dello spirito che vuole comunanza totale. Bisogna entrare nella parola (e per riprova in ogni aspetto che graffia meno perché la conoscenza non divora e rigirarsi insomma in ogni suo pertugio e visitare le sale dei musei dei contenuti del suo passato bruciato del suo futuro che pure è nato e seguita imperterrito a pesare)... bisogna entrare a ritrovare il niente il tutto del legame del letame della vita un morso e via giammai finita. Come il leone che assale che piega e la preda confusa si duole e duole e duole la presa il legame d’amore e s’accomoda vigile amorosissimo alla giugulare, il leone.

Nessuno vorrebbe (garbuglio dissennato) rivivere il passato. Viverlo scelto vorremmo aggredito, l’aggressore, formato a nostra immagine e a nostra somiglianza, che imperterrito seguita (v.n. 281).

Il piacere del cibo, elementare. Si lascia possedere docilmente. Se ti abbisogna l'interlocutore la lotta le catene il sangue scorrono. E' quando divorando parla Amore (m.s.e. 56 ).

Queste righe mi furono affidate dall’Amico, per tanti anni paziente interlocutore e compagno: com’io di lui. In un rapporto non scevro da profonde inimicizie da laceranti disapprovazioni, da guerre aperte, seguite sempre da una indissolubile incomprensione da una comunione organica e speculare di ragione e di irrazionalità: tante e tali commistioni da farmelo caro: come se fosse un altro me stesso e forse più.

Conversazione finale. Ticchettano i giorni come grandine che prima lenta poi più fitta batte con un rumore ciclico di scroscio quando più ardita la mitraglia coglie che gelida si scioglie sulla terra spazio reale arreso, virtuale. Ormai tutto è vicino. Comunicazione. Se vanno sempre insieme quando sarà l’ora del tempo vero, virtuale e non udremo il pungente ticchettio entrando uscendo per virtù di un tocco che non dovrebbe mancare? Previsione e logica, persuade ma c’è qualcosa qualcosa d’imprevisto se trapanante ciclica scroscia la grandine (c.v. 85).

In effetti si potrebbe credere l’Olimpo ormai assestato la folgore di Zeus, il big bang e i tempi che si sono mossi dopo i pianeti obbedienti al suo cipiglio e la terra rimasta tonda con sorpresa di taluno e d’altro no. Che resta da scoprire ancora? Della realtà si riconosce il filo. Non resta che tirare ma presto o tardi o la capacità o il filo finirà. Ed allora ci vorrà un’altra realtà. Dalla fantasia o dalla meccanica invenzione virtuale: tratta pur sempre dentro di sé ma non reale. Si perderà confusa la Domanda. Ne resterà pallido il dubbio nella realtà. Reale o virtuale? (c.v. 94).

Diceva l’Amico che la “Flagellazione” esprimendo un altissimo risultato estetico, contiene inoltre (fideisticamente) nella impostazione e nel metodo della soluzione dei problemi estetici affrontati, il metodo intraducibile (ma oggi gli elaboratori elettronici fanno miracoli: e mimano l’intelligenza, la musica la letteratura e presto saranno accanto all’uomo, monumento umanoide e sapiente dell’uomo) che potrebbe consentire, se noto e tradotto, d’impostare altri metodi paralleli omogenei e simmetrici, ovvero speculari o perpendicolari, disomogenei: suscettibili di curare il cancro alla mammella e l’eczema auricolare ovvero di risolvere un problema di matematica, o di fisica o di paleontologia; o anche di suggerire il giusto modo di operare la soluzione etica di un dato conflitto. Insomma la forma per ordinare qualsiasi piccolo o grande caos. La bellezza dell’azione, la bellezza della conoscenza la bellezza della forma.

Parole e musica . Domenico riferisce la sua esperienza, che io registro senza responsabilità. L’occasione della confidenza di Domenico è una constatazione banale. La musica (i suoni della musica) si sono diffusi da qualche decennio in guisa inimmaginabile. Catturano tempo e, per così dire, spazio d’anima, sempre crescenti. Parallelamente e rapidamente si immiserisce la forza e la fruibilità del linguaggio e della parola in generale, e specialmente della parola scritta sia in prosa che in poesia. Le necessità degli accresciuti contatti ha facilitato l’affermazione di un vocabolario, povero ma praticamente utile, che consente ai cittadini delle nazionalità più disparate d’intendersi tra loro, per lo più facendo uso della lingua inglese, che si frammenta al suo interno in barbarizzati atteggiamenti particolari che si differenziano progressivamente dal loro modello. Poco male se questa rozza comunicazione per mezzo di una sorta di esperanto minimale, non fosse accompagnata dal degrado della lingua di origine delle singole comunità. L’esperienza che Domenico mi ha confidato parte da un tempo imprecisato della sua prima adolescenza. Si pensava musicista: pianista, un po' meno violinista: e forse un po' di più direttore d’orchestra. Sogni senza senso di ragazzo ma imperniati sul suono: non sulla parola. L’esperienza prosegue, acronicamente, in fasi successive. Siamo oltre i dodici anni quando gli amici più stretti - tranne uno di carattere chiuso, fantastico ed astratto che si mantenne neutro - in gara tra loro si dedicarono a uno strumento allora di moda: la fisarmonica dal grande respiro. E si dimostrarono autodidatti tali da farne orchestra - ciascuno da se ovvero l’uno con l’altro - nelle musiche non sofisticate ma suggestive suonate di solito su questo mezzo popolare. Con una ricchezza di varianti, di registri, di fiato e di tenuta dei suoni che lo strumento consentiva con generosità: riuscendo ad un risultato sicuramente non comune e diverso da quello del dilettante. Ricordo mortificante per l’Amico che avrebbe appassionatamente desiderato di possedere una analoga facoltà espressiva del suo amore per i suoni, che invece gli fu totalmente negata dalla totale inabilità a qualsiasi strumento... L’Amico può testimoniare inoltre che quando, nell’immediato dopoguerra prese a frequentare i concerti di musica classica al Comunale di Firenze, nella completa ignoranza di ciò che ascoltava, pian piano tuttavia la sensibilità al suono dell’orchestra ottocentesca si aprì in lui, progressivamente: fino ad indurlo a fuggire l’esperienza. Perché fuggirla? Perché, allora, l’impegno che gli si prospettava, già dalle prime soglie dell’università, era di un severo scontro con la realtà mortificante di quel tempo: con le distruzioni con la dispersione delle risorse e del lavoro di un intero venticinquennio tra le due guerre: con la chiara consapevolezza di dover affrontare con forza di carattere l’inospitale futuro. Il carattere nei giovani - si sa - non nasce normalmente ferreo. Il godimento di quella musica induceva il tenero ascoltatore alla dolcezza che si dice abbia ammansito le fiere, caratteristica nella musica sentita, anche se non culturalmente coltivata. Egli usciva dai concerti sfibrato, indebolito e quasi dissipato nelle forze coesive della propria personalità: tanto da fargli sembrare insormontabile l’impegno che lo attendeva.. E dunque se li vietò. Ricorda l’Amico che la predilezione per il suono si “convertì”, per così dire, spontaneamente nella predilezione del suono in poesia: che l’Amico cominciò a scrivere precocemente e poi costantemente per tutta la vita ed ancor oggi. Egli testimonia, col notato valore relativo, che la poesia nasce “ quasi” suono. Non solo le rime, le assonanze e i più consueti e generici richiami fonici si mescolano, si divaricano nascono e si accompagnano con la parola poetica, che contrappuntano ed accompagnano nei suoi sensi terrestri ed astratti. Ma quale parola? Questo passaggio interrogativo acquista, per l’Amico, una importanza particolare. Egli teorizza, sostiene e si sforza di applicare una nozione (un senso) della parola che trovi radice nei dizionari. Tanto da poter sognare di scrivere, una volta o l’altra, un “viaggio nel dizionario”. Tanta è la forza della musica nella sua essenziale indeterminatezza, accompagnata dal rapporto astratto e scientifico delle scansioni che si svolgono e si costruiscono mathematico more, altrettanta è la ricchezza di senso, polimorfa ed inesauribile, del linguaggio poetico com’egli lo descrive (nonostante la sostanziale inafferrabilità del senso). In tale senso si iscrive il naturale e necessario fraintendimento, la naturale e necessaria sovrapposizione di sensi e di polisensi, ma permane la forza significativa concreta (pietra che vola d’ali proprie?): se è vero che in sua assenza la poesia risulterebbe illeggibile ed inascoltabile se non come suono (ed “arbitrario” soggettivo inconoscibile mito). La poesia, nella confessione dell’Amico, costituisce un messaggio in più che la musica pura non possiede per la semplice ragione che non può e non vuole possedere il senso della parola. La competizione tra le arti, se si volesse istituire, non avrebbe né vinti né vincitori. Qualsiasi forma è lecita nell’arte: se è frutto di fantasia, di trasparenza, di leggerezza. Niente è più lieve della bellezza. Levità e bellezza così difficile da conseguire. La musica la pittura, sono meno necessariamente legate ad un peso che l’arte deve aggredire e superare. Anche l’architettura e la scultura non possono fare a meno del peso. L’Amico ama il peso la concretezza, l’aspro sapore dell’impatto materico, la catena da spezzare: che esige un surplus di “azione”. Leonardo ironizzava sulla fatica sul sudore e sul cattivo odore dello scultore in lotta meccanicistica con la materia e col suo peso. Ma certo Michelangelo architetto e scultore non è meno artista di Michelangelo pittore. Si tratta di scelte che ciascuno opera secondo la sua necessità. L’Amico si sforza di raggiungere la leggerezza senza perdere il contatto rassicurante col peso della parola polisemica e vaga, ma pur sempre “collocabile” - alla fonte - quanto è “dislocabile” senza posa. Rompo l’amicizia.

Un Sito per l’io.

La casa adolescente . Una fanciulla slega le membra già proporzionate asimmetriche ancora con luminosa meraviglia e candida semplicità. Così aggraziata non è stata ancora e con stupore si domanda l’anima come sarà (l.m. 41).

L’opera inutile. Se l’esistenza è l’essere che muta e muore se muove intanto E’. La gratuita bellezza puro dona forgiato senso d’ogni vana cosa che triste o lieto o stanco ghirigoro intatto lascia il cielo sempre vuoto che tutto è in fuga al vento della sorte che presta libertà ad ogni volo che questa riga lascia indifferente il foglio cancellato e non fa niente (l.m. 46).

“Quando contemplo un’architettura (astratta naturale o costruttiva) - dice l’Amico provvisoriamente riammesso - penso che alla poesia manchi la terza dimensione; e quando vedo volumi privi del tutto di rapporto armonioso penso che manchi loro la poesia. E’ solo questione di parole? In qual misura può differire il rapporto tra Architettura e poesia tra Poesia e architettura dal rapporto con la musica e con la pittura se tutte le arti si ispirano all’armonia e cercano la bellezza? Eppure il linguaggio tridimensionale occupa e conquista il mio spirito e lo purifica. Puoi sperimentare un fenomeno reale. Entra, con la tua misura, “dentro” questo luogo.” “Ebbene che mai succederà?” chiedo non troppo interessato. “Avrai un’idea - un sentimento - d’una costruzione dentro di te e d’una costruzione nella quale le tue idee e sentimenti si fonderanno: in un estremo inesprimibile rigore ed in un unico sentire. Ti troverai in un “ Sito ” del tempo e dello spazio che ti accerterà della tua esistenza, ti consolerà e ti difenderà dalla tua fragilità nel cavo armonioso che la natura avvolge nei gusci e nelle galassie.” Mi sono ricordato di quando Domenico menzionava, attribuendolo ad Archiloco, un frammento ignoto ai più e mai altrimenti ritrovato che egli così riferiva: “Scrivere deve essere come la zampata del leone: imperiale, roca, compiaciuta che non la vedi mentr’egli procede e nobilmente uccide”.

L’ultima stanza. Forse l’idea di un cadavere purulento, cosa triste ed abbietta che fu già forma vivente - la tua - può essere accettabile se puoi constatare e affermare a te stesso che hai adempiuto alla funzione assegnata di realizzare le potenzialità della forma: l’affermazione , il suo svolgimento in sé e fuori di sé, e la proiezione oltre sé: allora puoi pensare all’esito col piacere, o almeno con la soddisfazione che la natura assicura al compimento di ogni funzione. Se hai fatto ciò che dovevi, nell’occasione straordinaria di partecipare all’immenso misterioso cantiere, puoi lasciarlo: anzi puoi appercepire la necessità di lasciarlo. Quale fosse o sia il progetto è altra Funzione, che non ti riguarda. Obbedisci. Eliminare scientificamente l’io. Accantonare l’identità per darsi fiduciosamente alla Regola. La religione è l’accettazione convinta della morte, che comporta la Fede.

Ho sperimentato lo i-o mu-o-io. Posso tornare.

Grazie per l’incertezza e per l’indifferenza, per l’umorismo e l’ironia discreta per la risata sfacciata sguaiata che danno sale al volgere del giorno con generosità di pena e di gioia. Come alla scena il colpo della scena che d’improvviso balena e trascina lo spettatore quasi addormentato, disegni forme sbalordite fertili con un genio tenace sconvolgente che ne gode ne soffre e pur s’intriga e ride a volte incerto ad occhi chiusi. In te zampillerà colmo l’orgoglio dell’artista nell’attimo che pensa e realizza eternamente l’opera, interamente fuso, che contempla. Allora mi stupisco, fato cortese, che ci sia spazio un attimo soltanto a che il pennello contempli la tela prima che passi e si rinnovi l’onda. La foglia di quell’albero mi vedo dito di marmo scheggia di pensiero: e so che è giusto ch’io debba finire, fato amoroso, generoso fato, perché si svolga pura l’invenzione (v.n. 288).

PARTE TERZA

Foto di gruppo con mistero.

Si tratta di compiere un’analisi paziente. Ma a chi può interessare di seguirla? Mi ha scritto Vanni (il primo da sinistra nella foto, dopo due ragazze che sembrano sorelle, lui in posa eminente come se fosse seduto sopra un sasso: sulle ginocchia è più improbabile: le braccia, il busto sono troppo rilassati) che oggi ha circa ottant’anni: “Ho riconosciuto Giancarlo si vede bene” (infatti è in piedi all’estrema destra della foto di gruppo, e si riconosce bene) “ma non sono riuscito a identificarti, non so se c’eri”. Ma chi è Vanni, chi è Giancarlo, e chi sono io, destinatario del dubbio di esistenza nella foto? Ci sono due fanciulli nella foto, seduti l’uno accanto all’altro, più innanzi verso il proscenio: e se Giancarlo, nato nel 1919, ed ora scomparso lasciandomi l’unico superstite della famiglia di origine, mostra l’apparente età di diciotto (forse diciannove o diciassette) anni, la mia, se fossi uno dei due fanciulli, doveva essere di circa nove anni (tenuto conto che io sono nato di marzo e lui di settembre) o di nove anni e mezzo circa. L’ipotesi tornerebbe con l’apparenza dei due fanciulli seduti e dunque la foto dovrebbe essere stata scattata durante le vacanze estive del millenovecentotrentotto, che si svolgevano a Cireglio in agosto, un amabile luogo sulla montagna pistoiese a circa seicento metri di altezza. Il paese si arrampicava lungo la diritta salita della statale fino alla piazza con la chiesa, arricchita da una forte torre campanaria verso la sommità della quale si alzava, superandola, un ornello che lassù aveva trovato alloggio e nutrimento levandosi contorto ma vigoroso dal muro esterno, inalberandosi come una bandiera viva perennemente esposta. Che non fu peraltro perenne se oggi non è più visibile (Vanni - che è Giovanni Grazzini Cruscante e critico cinematografico illustre, quest’agosto scomparso - mi precisò che l’ornello fu distrutto con la torre e con la chiesa dagli eventi bellici). I boschi lì attorno erano boschi di castagni, con qualche leccio o querciolo. Ma il bosco fitto che sovrasta il paese era brutalmente interrotto dal vigore di una roccia nuda emergente, chiamata il “sasso” di Cireglio. Avendo la mania di salire in cima ad ogni cosa che s’innalzasse (campanili e torri e cupole e cupolette, ma non vere montagne), quasi a prenderla a sfida, mi provai a scalarlo, dando prova di un’inesperienza pari alla presunzione. Si dimostrò allora liscio e scivoloso come un grande ciottolo di fiume, e per fortuna la dimensione era poca e l’altezza limitata, perché -scelta naturalmente la più impervia via- ne riportai meno graffi e abrasioni di quante non meritasse l’impresa sconsiderata, solitaria e senza mezzi. Il quale vizio non dipendendo da me ma dai cromosomi, m’è rimasto anche in seguito e ci ho consumato la vita, anche con profitto: ma anche senza profitto né per me di né di altri. Questa però sarebbe un’altra storia. Si può tuttavia constatare che il giovane eroe non affrontò più montagne, e dunque se ne può ritenere che i cromosomi sono intelligenti e possono riconoscere i loro limiti. Partendo dalla chiesa e andando a destra nel bosco, si giungeva dopo un sentiero pianeggiante, ma comodo ed ampio, alla casa che affittammo per due o tre estati. C’era la madre, raramente il padre, e i due figli separati dall’abisso dei nove anni di differenza che il minore si sforzava di rosicchiare stando il più possibile accanto al maggiore. Il quale una volta trasse qualche legittimo vantaggio dalla sua tolleranza, perché io (sfacciatamente prediletto da nostra madre) gli servii d’argomento per poter uscire dopocena e consentirgli di raggiungere dietro un pagliaio una ragazza che portava il nome mitico del cominciar del giorno. E vi dico ancora che quel sentiero, talvolta percorso da solo a sera, quando cominciava invece la notte, con i brividi lunghi del vento e con i fruscii del sottobosco, provocava brividi lunghi nella schiena e l’aprirsi degli occhi e degli orecchi - resi così ancor più sensibili al mistero -, spingendo il passo accelerato e poi la corsa verso casa, verso il lume che già, discosto, rassicurava. Proseguendo invece oltre la chiesa a sinistra del campanile, fermo come un bersagliere con le fronde al vento, si arrivava non lontano alla casa dove Vanni viveva con la madre, interamente dedicata al ruolo. Donna ospitale e un po' bizzarra teneva casa aperta ad ogni ora, senza preavviso né invito, facendo compagnia di tutti i giovani in vacanza, sia per non farla mancare al suo Vanni, sia - penso adesso - per soffrir meno la solitudine e per il piacere di dedicarsi a questi giovani, opponendosi alla loro dispersione e offrendo un luogo di ritrovo e di accoglienza cordiale con qualche bibita e merenda senza tener conto dell’ora dei pasti. Insomma un luogo di protezione e libertà, di compagnia e conoscenza: perché chiunque si presentasse, con l’uno o l’altro degli abituali ospiti, era bene accolto. Un’opera di generosità e di gran successo e perciò non da tutti compresa per l’ovvia gelosia. Alla generosa ospitalità e compagnia era posto tuttavia una sorta di semaforo che, se “rosso”, segnalava l’indisponibilità ai clienti sempre in arrivo. Era costituito, il semaforo, da una mattonella di coccio colorato appesa all’ingresso che, se voltata, precludeva l’entrata in tal caso indiscreta. E l’indagine? Si comprende che la mia presenza nella foto è più che probabile: quasi sicura. E allora è quasi sicura anche l’identificazione in quello dei due fanciulli che volge il capo - abbassato verso terra - sedendo un po' di traverso nella medesima direzione, per limitare l’impatto dei raggi solari, per i quali ho sempre avuto una estrema sensibilità oculare, tanto da poter appena e con sforzo tenerli aperti per pochissimi secondi prima dello scatto delle fotografie. Anche l’inclinazione lieve del capo è caratteristica e l’arco delle spalle è somigliante a quello del fratello in piedi. Soggettivamente ne sono persuaso, quel fanciullo ero io (sono io?). Il percorso dell’indagine può aver non solo confermato una identificazione (beninteso “quasi” certa), ma anche la difficoltà (o forse il mistero) di ritornare in sé medesimi, persino nelle forme esterne: e di farvi coincidere (si direbbe appendervi) brandelli di memoria, come gli stracci di cui vestivano gli spaventapasseri. Ma il tempo non si spaventa mai e non si è spaventato nemmeno in questo caso. Chissà cosa ne sapete adesso di Vanni, di Giancarlo e di un ragazzo acerbo. Cosa mai possiamo sapere, guardando una foto di sessant’anni fa? Cose, persone, vicende lontane, ancora di più di quelle del vicino di casa. Persone aliene, anche le più care e quanto alla ricerca di sé non so con certezza nemmeno se mi sono riconosciuto a ragione. Eppure qualcuno ne ha tratto vantaggio. Si scrive, credo, per ritrovare sé, per presentare a sé stessi, cosa si ritrova di questo sé, insomma per specchiarsi - sì, per presentarsi - e se pur la conoscenza resti parziale, allarga l’anima e dà senso anche la memoria arbitraria, la quale allarga tutta la nostra comune umanità. Quel fanciullo chino, la faccia volta a lato ed un po' piegata a ripararsi dal sole, viveva le ansie della prima età e non sapeva ciò che si può credere o vedere oltre sessant’anni dopo. Ma forse qualche tratto sfuocato c’era già, bene o male, nella foto e nel ricordo cercato e suscitato. A che pro? Di riconoscere per segni lievi, per tratti ritrovati, che quel che è stato doveva essere. Ed è. Volete saperlo? Quel bambino fa tanta tenerezza e tanta compassione per essere vissuto: fino ad essere me (non me). Bambino mio, direbbe la mamma.

Il passato... il passato, Amico mio, è l'unica cosa che esiste perché non esiste più: è l'unica cosa sicura che dura che pura non lacera più. La pietra del fatto compiuto sarà l'invincibile pietra affondata dimenticata. L'incerto presente insegue il futuro; dilegua il futuro passato venturo: ma ciò che ha vissuto sarà. Allora... Amico mio... dimmi perché se non ho fatto niente che sia male debbo il mio gallo ad Esculapio anch'io? (m.s.e. 287).

Questa carne banale mi abbandona già. Per grave peso di vizi banali perché non regge al peso dell'età. Non levo altissimi sguardi orgogliosi al mio bilancio della terza età. Casa famiglia lavoro illusioni figli nipoti: che banalità. Mi dispiace (oh, quanta compassione) per l'aspra pena, la cattività: io ch'ero nato per la libertà . Ascolto, busso con più discrezione che se fossi intruso all'altrui soglia. Vorrei conoscere meglio il nemico, il compagno di sempre. Presentarlo prima che insieme si passi la soglia (m.s.e. 288).

Professione di figlia (voce prima)

In realtà miagolava. All’aspetto gradevole ed elegante, la voce sottraeva non poco. Era come se una malformazione del palato la facesse parlare con difficoltà e un po’ di naso, ma il suono che ne usciva era metallico e graffiante, dissonante e sgradevole come il miagolio di un gatto che pretenda o protesti, ma contemporaneamente soffi a ricordare le fusa che potrebbe fare. Per riuscire a tanto, le parole si modificarono in conformità e non saprei dire come, ma risultavano spesso illeggibili come una riga cancellata. Conobbi il padre, tutto preso dalla dolce follia di certi studi dottissimi tra platonici e matematici (ne venne, tra l’altro, un librone che mi sfidava e che tentai di leggere incautamente, senza riuscire nemmeno a scalfirlo), che me la affidò per certi aspetti pratici ai quali ormai non si sentiva interessato: né voleva distogliersi. Si vede che è diffusa - e dunque perdonabile - quest’ansia di conoscere la vita, quando l’età avanza, prima di lasciar la vita: e ognuno tenta con qualche chiave sua e qualche volta la serratura gira, ma solo un poco, avaramente, e poi s’inceppa e non avanza più. Certo ne nacque di saper qualcosa e qualcosa capire. Era stato un padre molto affettuoso ed aveva molto vezzeggiato quella sua gattina (la chiamava così, confermò la figlia - ormai adulta assai - che spesso e volentieri parlava del padre) che lo confortava con i suoi occhi languidi di ciò che pare lesinasse la moglie: figura oscura, nelle mezze confidenze dei due, che si confuse sempre con i muri della stanza. E la gattina, godendosi il calore e stiracchiandosi ed acciambellandosi col medesimo garbo, finì per imitarne il linguaggio inarticolato delle inflessioni e dei suoni, infilandovi dentro di malavoglia (a giudicare dai risultati) quello articolato e colto che andava via via ad arricchirla. Direte voi: è mai possibile? Non chiedetelo a me. Non saprei dirlo. Ma frequentato il padre (che risultò ben disinvolto nelle azioni, egoista finalmente freddo, al fondo ingeneroso) e frequentata la figlia che ne aveva ereditato alcuni tratti di carattere, nemmeno tra i migliori, il pensiero si affacciò con naturalezza. E qui, se non sembrasse troppo presuntuoso, bisognerebbe richiamare un altro pensiero che non c’entra niente con quello in (prudente) esame. Ad onore di un chirurgo amico che fa proprio così, basti dire del mitico primario o luminare che udendo il colpo di tosse di un paziente in fondo alla corsia, azzarda con sicurezza la diagnosi che poi risulta giusta. Certo c’è da sbagliare dalla grossa. E poi: che borione immodesto! Pensando all’amico chirurgo, che ho visto all’opera, ci può essere una spiegazione che diminuisce l’azzardo. Sempre all’erta, in tutti i casi della vita, anche banali: nel senso più totale che a tutto prestava un’attenzione fervidissima. Sul paziente, poi, l’attenzione e la volontà di capire erano incandescenti: se l’esperienza e la scienza della professione sua erano, si supponga, normali o pur alte, l’attenzione coglieva in tempo brevissimo tante sfumature o millimetrici segni, che egli leggeva assai meglio e più numerosi di un altro guardando attraverso la lente d’ingrandimento del suo impegno estremo. Tutto perso all’oggetto e nell’oggetto, senza residui. E dunque a parità o anche a disparità d’altri fattori, vedeva e capiva di più. L’idea mi sembra plausibile, in certi limiti. Ormai, vegliardo, me la prendo più calma. Ma la curiosità inesauribile, il sincero interesse per cose, persone e fatti loro e l’attenzione scintillante d’ogni particolare si sono spesso fusi nell’intuizione della soluzione che poi si è documentata congrua ed esatta, con margini accettabili di varianza. Che rischio pensarla così. Per me e per gli altri: e quanti errori. Sempre meno, penso però per consolarmi, di chi -superficiale o di carattere semplicemente diverso- così non faccia: o peggio lo faccia essendosi impegnato (d’attenzione spasmodica: “fuso”) o poco o pochissimo. Se siete disposti a dar credito - almeno di scusa - alla mia opinione sull’artefatta voce da gattina con spiegazioni siffatte bene, altrimenti siete autorizzati a pensare ad una semplice coincidenza, non senza un colpetto di coda da parte mia: le coincidenze non sono mai semplici. Un fatto reale ve lo posso riferire, concludendo. Fatto reale ed autentico. Parlando una volta del suo stretto rapporto con il padre mi disse testualmente (parole rimaste impresse a fuoco nella mia memoria): “cerco di pensare col mio cervello” (disse proprio così: “cervello”) “i pensieri suoi”. Ne restai come trapassato. Professione di figlia: “fusa” tanto da aver dimenticato il cuore.

Bambolina di pane ( voce seconda )

Allora, donare il cuore accade davvero: non è un’espressione del linguaggio. O meglio lo è. Del linguaggio arcano strumento della vita e della storia dell’uomo, che tutto lo contiene e lo esprime: viaggiando esplorando e lavorando nel quale, la irreale realtà dona tutto il senso che se ne può trarre. E tanto meglio se le lingue sono più di una e tutte ricche ed amate: se ne possono trarre insegnamenti nuovissimi, perché nuovo o diverso è il punto di vista. Imparare a mente si dice in francese apprendre par coeur . La mente dunque -incrociando i punti di vista - sta, per così dire, tra cervello e cuore. Lo sguardo attraverso il pertugio modesto può arricchire - magari con l’immaginazione, che il linguaggio stimola incomparabilmente - e arricchire molto o moltissimo. Ma veniamo alle bamboline di pane. Erano l’opera del babbo panettiere. Allora il pane si faceva di notte, perché accogliesse col suo profumo essenziale la nuova vita di ciascuno dall’alba in poi. Quando rientrava al mattino, stanco e assonnato, portava con se una bambolina fatta di pane, impreziosito in pasta con un poco d’olio e qualche profumo spesso di ramerino, ben formata con le sue treccine e gli occhi fatti con due chicchi di zibibbo. Doveva essere un segnale perfetto. Dare, nutrire con un pane specialissimo e garbato: e, con l’affetto, accogliere il risveglio dell’altra bambolina. Quest’ultima testimonia invece che mancava il più, mancava l’affetto. Il padre amava molto la moglie, che rischiò di perdere la vita quando nacque la loro bambina. E il padre avrebbe sempre conservato con la figlia un rapporto traumatico e conflittuale: le bamboline di pane erano, per lei dolorosamente, tutte destinate alla madre, per compiacere l’amore di questa verso la figlia. Come in ogni testimonianza, pur resa in buona fede, c’è da domandarsi (non già se risponda al vero in se inesistente o al difficile verosimile) ma almeno se sia esauriente. Tutto alla moglie, tutta alla figlia, tutta alla madre: ma è un giro troppo semplice e veloce. Sembra che salti o ignori qualcosa. Il balletto intrecciato dell’amore-odio o dell’odio-amore, di regola è più complesso o più sfumato. Nella specie per l’amore amore-odio (prima che diventasse odio odio-amore) della figlia verso il padre, depone la voce della figlia che è di tono soave inalterabile sempre dolce e controllato, ma ormai, dopo tanto tempo, del controllo s’è persa ogni traccia, e resta il dono della serenità che in ogni circostanza gratifica gli ascoltatori e soprattutto gli ascoltatori telefonici. E’ come se sparisse ogni tensione o problema, ogni preoccupazione, ogni contrasto. Effetto illusorio, che proprio come tale affascina l’immaginazione e lascia sperare in quel tipo di mondo che forse tutti vorremmo: senza stridori, senza rumori, accogliente come una culla. Riferisce l’interessata, con una certa soddisfazione, che gli amici in cerca di pace, a volte, si siedono e dopo un po' si addormentano. La vocina seguita dolce, tranquilla e inesorabile, e per lo più rifiuta gli altrui problemi e, sembrerebbe, i propri. E’ come guardare un lago ben protetto che non s’increspa mai e che respinge qualsiasi sasso, non si sa come, prima che giunga a contatto con l’imperturbabile pelo dell’acqua. A chi finalmente, incuriosito, domandi se mai s’arrabbi, se mai muti quell’inconsueto sereno, risponde (dolcemente) che mai o quasi mai accade in presenza d’altri e che quando non ne può più si allontana verso luoghi solitari o pochissimo frequentati, verso la campagna o il mare per sfogarsi - si presume - con urla, con lacrime e con strapazzi vari. Si presume, com’è ovvio, ciò di cui non si può avere esperienza diretta: né saprei immaginare come si scomponga, di fatto, la culla protetta e la sua illusoria protezione. Una forma siffatta e ferrea non può essersi forgiata che nell’ardentissimo fuoco del dolore e dell’amore dell’infanzia, dove e quando i sentimenti primi ardono insieme e tutto possono piegare: in qualsiasi direzione, contro qualsiasi logica comune, seguendo soltanto la loro supposta inconsapevole coerenza e le scelte cieche che vi albergano. Il padre, dopo aver consegnato la sua bambolina quotidiana, andava a dormire stanco della notte trascorsa nel lavoro: e nella casa calava il silenzio. Forse cominciò per gioco, o così l’accreditò la madre. Forse fu affermato con autorità e durezza. La regola s’impose e la conversazione si svolse sempre a bassa voce. Con dolcezza inenarrabile verso il padre nel tono della voce della figlia, che si tenne sempre trascurata e che credette e crede di odiarlo. Mentre oggi ancora la voce non si alza. Lo protegge. Lo culla - e se ne fa cullare - per tutta la giornata. E chi l’ascolta - che non sia lui - è soltanto un occasionale e ignaro ospite d’altro mondo, se non addirittura parassita inconsapevole d’amore, o forse di odio: e chi conosce la differenza è bravo...

Il padre di giorno dormiva e mentre dormiva nasceva la voce della sua bambina: bassa, serena, uguale (per non disturbare) che cinquant’anni dopo continua a suonare, a pacare. Colloquio sereno con la mammina (bellissima agli occhi grandi della donna bambina) la quale il padre compiaceva facendo le bambole, le bambole di pane per dono alla sua poca fame...

Sintassi di gioventù ( voce terza )

Il momento sintattico passò presto –tutto passa- ma costituì indelebilmente il suo linguaggio. Rigoroso, autoritario, ormai fuso nei caratteri stampati a piombo- oggi farebbero ridere, così pateticamente obsoleti –che ripeterono la stampa uguale (ordinata e disordinata) ogni giorno dall’alba al tramonto. La medesima pagina, tutt’al più con qualche variante di usura: e che a tutt’oggi continua per poche pagine ancora. Gli occhi ad aeroplanino, il passo a piedi larghi un po’ allargati a paperina. Ma gli occhi brillavano stupiti e battenti al volo delle ciglia e ondulava svelto il corpicino, molto di donna poco di bambina, sospinto dalle forze di natura. Sul paese, non grande e non piccino, baluginavano le luci di princisbecco della generazione nuova che si affacciava allo spettacolo ripetitivo, che appariva lucente di ogni aspettativa, luce che invitava vera a possedere il mondo, all’indomani della fine di una guerra che sembrava già lontana, e libero l’avvenire. La piccola società –un universo intero- si sogguardava. C’era, per lei, la tradizione della famiglia –e dunque la sistemazione- su schemi di piccola borghesia. C’era la tentazione della scalata alla piccola società, ancora decorata dalla presenza di qualche rampollo di niente in verità, eppure allettante obiettivo per la realizzazione fiabesca della femminilità. Convenientemente più maturo il giovane di turno, convenientemente rubacuori e sregolato, da redimere e da predare. Nella realtà (ma chi la vedeva?) c’era poco da redimere ed ancora meno da predare. Costui era persona, ma non personalità, invero modesta: dedicata, giorno per giorno, a dissipare le ultime vestigia di risorse e di socialità: senz’altro avere se non parvenza fisica e piccoli principi: scarso di cultura ma non di adesione al suo modo di attore predace e giornaliero. Tutto andò come doveva andare. La rivelazione insospettata della sensualità, la carezza lunga, morbida e quasi svogliata che la invase consolidarono la scelta, l’affidamento e la sprovveduta donazione. Dalla parte di lei, la scommessa significò “tutto”: ma l’altro, naturalmente, si dimostrò incerto, e sostanzialmente imprendibile: soprattutto alla prospettiva delle responsabilità. E fece marcia indietro: spiegando, dall’alto della sua esperienza superiore e vissuta, che il primo amore fa perdere il sonno e l’appetito, ma provvisoriamente soltanto: e dunque si restasse buoni amici e magari occasionali amanti. La famiglia di lei, che aveva distolto lo sguardo dallo svolgimento delle cose –dubbiosa però e lusingata dal possibile esito positivo- si fece avanti correndo ai ripari per evitare (quando tutto era impresso) che la figlia si bruciasse interamente perdendo il modulo tradizionale nel quale –secondo lei e secondo loro- tutto si sarebbe dovuto (trionfalmente, si fa per dire) ricomporre secondo dovere. Quello era un nullafacente con le mani pronte soltanto a consumare: figuriamoci! Tanto valeva cercare di afferrare il vento, superficiale e incerto sulla terra. E così, secondo copione, la farfalla si bruciò le ali. Offesa e vulnerata profondamente nei sentimenti e nel suo fervido orgoglio femminile. Nell’animo suo ormai preso, il dono era senza ritorno; e pur divisa tra la banalissima scoperta “unica” e il rispetto dei suoi sogni e delle consimili rispettabili paturnie della famiglia di origine, lei era Giulietta e dunque pronta a seguire nella morte (delle convenzioni) il malcapitato Romeo: che Romeo però non era né aveva la minima voglia di essere. Per brevità (si sa che queste situazioni sciacquano incostanti tra flusso e risacca) si può venire alla conseguenza. Uscita da una parte (della quale peraltro era prigioniera essendo cresciuta nei moduli e negli affetti familiari) e non avendo potuto entrare nell’altra si trovò sola e sperduta in mezzo al guado, sdegnosamente aggrappata al suo immenso salutare orgoglio di donna, come si era scoperta. Come l’organismo sano circonda di un guscio calcareo l’infezione che non può sterminare, incapsulò ferreamente il fatterello insieme a buona parte al suo futuro: volgendo altrove le sue pericolose e nuove lame, affilate dall’involontario (e grossolano) arrotino. Ma, sia ben chiaro, non si sarebbe mai più concessa. E tenne la comoda parola ferreamente opponendola ad ogni tempo. Moglie e madre si realizzò senza mai realizzarsi veramente, anche se vero potè essere l’investimento dei resti del suo amore, e verissimi gli amori grandi della maternità. I resti, insufficienti a chiunque –e allo spirito di chiunque- furono sostanzialmente indifferenti verso il compagno: e deludenti, e presto e via via vulneranti allo spirito di lui, per quanto di aristocratico di orgoglioso e sdegnoso che il temperamento di ognuno comporta: e, in particolare, quello intrinseco alla sensibilità morbosa del prescelto sfortunato. Nei confronti dei figli quei resti generarono assai più generosa premura ma fu dilettuosa la totale assenza, e, più, il rifiuto di ogni condivisa responsabilità e progetto. Si ripiegò nel suo comodo –scomodo- egoismo già presente nel fondo, al punto da sacrificare gli altri alla ridotta incrollabile forma: ad un principio spicciolo di edonismo che era evidentemente l’opposto dell’etica di un progetto. Vita restitutiva, indennitaria, e, inevitabilmente secondaria e deviante. Mentre nel nodulo calcareo infrangibile sobbolliva nella inevitabile decomposizione –orribile sepolcro- la delusione, consumata dal tempo dimenticato. Di altre biografie non volle stampare pagina o memoria vera: per quanto possano essere vere le comuni noterelle umane, questa compresa. Chissà quante altre cose ci sarebbero da dire, che possono essere immaginate o ignorate: se si tiene conto della successione dei fattori (semplice –complicato- semplice e così andando) e soprattutto del fatto che nel colloquio tra individuo e ambiente (compreso il suo medesimo sé) la forma base, suppostamente necessaria per vivere in quell’ambiente in tutte le sue varie dimensioni ed occasioni si era ormai formata: e come tale agì indipendentemente dal fatto che funzionasse o meno al mutar delle condizioni che presiedettero alla sua nascita. Su tal considerazione, riduttivamente semplificata, e su tale astrazione concretissima lo sguardo può aver visto quanto basta –senza spiegare né dolori né fallimenti- e può dunque volgersi curiosamente altrove, portando con sé –chissà- la pazienza e la comprensione dell’eventuale lettore. A ben guardare la pesca è difficile per tutti.

L’orgasmo garantito.

Vogliamo l’orgasmo garantito . Si leggeva così sul tratto di muro antistante la porta di un’aula della Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, negli anni Sessanta, quando il petrolio a buon mercato fece presa sui filosofi che -seduti comodamente sulla materia inquinante- si convinsero e proclamarono che tutto era possibile all’uomo e che tutto si poteva domandare e, come diritto, avere. Non che la richiesta in sé fosse ingiusta o arbitraria. E’ ben noto che l’orgasmo maschile ha lo scopo di emettere il seme che si contenderà il privilegio di fecondare l’ovulo femminile spinto all’incontro dalle contrazioni dell’orgasmo femminile: tanto meglio se contemporaneamente. Dubito però che fosse questo il ragionamento, o la ragione, sottostante alla concisa allocuzione incisa a colori sull’intonaco doverosamente neutro della Facoltà. Sembra piuttosto, come si ricavava da altri contesti o commenti marginali scritti sulle grandi pagine murali, che si alludesse alla fretta maldestra e alle goffe polluzioni precoci dei compagni di sesso maschile, spesso - anche loro - colmi di pregiudizi, di idee criminosamente iniettate nell’atto sessuale a cura della società. La quale insegna a mettersi il tovagliolo, ma non come trattare e usare la delicata materia dell’atto sacro, che talvolta (ma spesso è un’illusione) sia la femmina che il maschio più fortunati o naturalmente predisposti, credono di conoscere e sperimentare benissimo per dono di natura. Anche in tal caso, però, la pretesa e la lamentela riguardavano l’aspetto soggettivo e piacevole dell’orgasmo femminile. Restando oscuro, nella concisione della formula, a quale orgasmo si riferisse il testo ora in discorso, posto che la femminilità offre una varietà molto alta di orgasmi e persino un’altrettanta vasta gamma di non-orgasmi, tuttavia si direbbe intensamente piacevoli. Ne segue che la formula, così apparentemente chiara, va letta in realtà come una richiesta di piacere o del massimo piacere possibile, restando lo scopo della natura in secondo piano o almeno affidato alle astute trappole che la stessa natura ha disseminato a iosa in ogni aspetto del piacere sessuale. Dunque il piacere. E il dolore? Certamente esistono meccanismi plurimi e vari a seconda dei luoghi dove l’uno o l’altro si manifestano, i quali operando spiegano e chiariscono - qualora siano noti - il come del dolore. Quanto al perché, è più facile scorgerlo sul versante del piacere, e sembra logico considerarlo come un premio per un comportamento corretto (come all’animale ammaestrato) nell’interesse della struttura che deve conservarsi (ad es. i piaceri del cibo) e riprodursi (i piacere sessuali). Non è azzardato pensare che il dolore sia un premio negativo (cioè una punizione) di un comportamento scorretto da parte della struttur a o di qualche suo settore; volto a invocare il ritorno della struttura al comportamento desiderabile, che la struttura stessa spesso non può restaurare o recuperare. La semplicità dell’ipotesi non esclude la infinita varietà degli atteggiamenti piacevoli o dolorosi: che però - semplificando - sono, indifferentemente tra loro, il premio della vita. Premio meritato? Possibile che cercando di fare qualche passo a tentoni nella nebbia vaga ed insistente che ci circonda si debba tornare alla banalità? O forse così non è. Se piacere e dolore hanno lo stesso scopo, che è quello di preservare la struttura - e la forma - e di contribuire a ripeterla indefinitamente, se ne potrà concludere oggettivamente che non c’è molta differenza tra l’uno e l’altro. E forse la chimica un giorno riuscirà a sostituire il dolore con un suo equivalente di piacere (già questo sarebbe un utile proposito, già questa sarebbe una bella ricerca). Inoltre il corollario evidente dell’indifferenza oggettiva è che - viceversa - soggettivamente nel dato luogo, nel dato contesto e per la data struttura o forma data, la differenza c’è, eccome: ma quale? Forse quella fugace di un “atteggiamento”, della sensazione della sua “velocità” su di una strada medesima che tuttavia, per chi la sperimenta, costituisce - tra i due estremi - una differenza abissale e preoccupante. Chi potrebbe, allora, rimproverare la ricerca - la pretesa - di far pendere la bilancia dal versante del piacere? Non so immaginare con precisione l’impulso che mosse la lontana autrice ad affidare al muro-libro la sua libertà di pretendere. Ma forse il pennarello, protestando la sua ignoranza, ha trovato da sé la risposta. Libertà di pretendere. E perché no? Petrolio o non petrolio, chi vorrebbe toglierci la libertà di pretendere - che poi è simile a quella di sognare, che poi è simile alla beata sensazione dell’appagamento immaginario, che poi è simile alla felicità stessa - se non possiamo di più che osare di scrivere e pretendere? Leggo e rileggo nella memoria l’espressione empia nel luogo improprio e concludo: avevi ragione, amica mia, voglio l’orgasmo garantito anch’io.

L’innocente (anamnesi confidenziale). Nella corsa del treno arroventato trasentiva precoce il contadino la forza a gesti attratta da lontano. Obbediente col dito al gonnellino, le calze bianche un poco aperte al moto, attenta sosteneva il nuovo gioco. Finché l’obeso occhi negli occhi porse l’offerta e scese seguitando maga la rossa luce impavida lontana. (correva il tempo a passo di parata, fino alla semplice pace della sera) (v.n. 203).

A più mani aggredita correva la sua pelle come torta festosa di vacanze sul moscone in cabina, in ascensore occhi rapiti più del solleone viveva del suo cuore la stagione dolce e lucente di curiosità. Presa e rapita irresistibilmente la forma si cercava nella mente, con passi gracili che volano leggeri al compleanno della mia vecchiaia dove scricchiola e non scricchiola la ghiaia arsa e dispersa dagli antiche fiumi che non s’immaginavano di levigare e rodere per farti correre guizzi di luce, stridi di follia per farti scricchiolare al tuo venire, al tuo passare (l.m. 194).

Il fischietto vero.

La vecchia fotografia mostra una marinara tutta bianca, scarpe bianche, indossata da un fanciullo in posa. Il fanciullo ripercorre con orgoglio, nella memoria dell’uomo che rivede l’immagine, i suoi ricordi salienti: i pantaloni lunghi e soprattutto il fischietto vero che lo fa vero come marinaio: la sua splendida fantasia di allora. Mentre di solito le “altre” marinare finivano in un cordoncino cucito al taschino, soltanto ornamentale. Il fischietto vero è il talismano del fanciullo, lo accerta del suo potere, del suo essere, e dà rassicurata concretezza al sogno di essere marinaio. Tanto da sopravvivere - i pantaloni lunghi; il fischietto vero - alla estraneità della fotografia, quasi frammento di materia altrui. L’uomo rilegge la fotografia come una immagine altrui voluta da altri. E così apre un dialogo con la madre che aveva acconciato e preparato il piccolo suo marinaretto (sé medesimo, amato, importante esistente) che segue l’atto del fotografo da dietro l’obiettivo, trepidante che renda bene... ma che cosa? Il suo sogno di avere un bambino il più bello il più dolce del mondo, costruito da lei, realizzato da lei (per lei) che ne è così assolutamente orgogliosa e realizzata a sua volta. Il figlio cresciuto cerca di dar corpo al sogno che si costruiva dietro la macchina, che invece guardava col suo obiettivo impietoso, tondo come bocca di cerbottana pronta al : e ripercorre nell’immagine (con l’occhio proprio con l’occhio della madre indistintamente) i capelli composti a bouclé (un ricordo per lui mortificante; gratificante per lei), ovvero lo sguardo di triste dolcezza: che evoca confusamente al figlio cresciuto ricordi sfuocati: le timidezze, la solitudine, l’introversa problematicità i primi peccati del fanciullo (è il vestito della prima comunione?). Il colloquio dolcissimo immaginato col pensiero (lo sguardo brillante dietro la macchina, che costruisce bellissimo nitido pulito perfetto il figlio generato quasi per l’immedesimazione mitica con la Madonna e col Gesù bambino) è interrotto dalla realtà dell’obiettivo. Lo sguardo del figlio, lo sguardo della madre, l’occhio della cerbottana: l’obiettivo della macchina. Evocato da quest’ultima il veleno del tempo che tutto distrugge è fulminato (fissato) come in un lampo al magnesio. L’immagine plasmata è fulminata nella sua irrimediabile estraneità. Ed è come se il bianco (l’immagine la sensazione la marinara dominante) si allargasse dilatandosi nel vuoto, vuoto come un’idea priva di concretezza, non più sorretta dall’orgoglio della madre. Bianca che più bianca non c’è (come per il migliore dei detersivi) fino alla bianchissima trasparenza del vuoto del nulla.

Il capo del filo. Ti ricordi a Maresca la mattina in pineta la nostra colazione con tanti riccioli di burro nuovo sotto le chiazze di sole nel fresco la meraviglia di quel giorno nato tra i verdi prati, cinquant'anni fa? E l'altra volta quando ti condussi nel treno, nella notte, col tuo pianto dalla sorella nel suo letto bianco e tragica il lenzuolo ai visitanti tristi impacciati folti a mano a mano voltavi con gran gesto sacro e un volto scuro appariva, come il crocifisso di bronzo che dal viaggio riportammo? Spiccava il bronzo scuro sul lenzuolo come l'adunco dito nero e lungo che all'ospite venuto da lontano porgeva avaro un grissino stantio, e n'ebbi più paura che del volto del tuo dolore, dell'ignoto dramma. Risalirò come una volta e senza meraviglia al piccolo pulito cimitero sopra le Langhe. Pace accanto a te. Grembo materno senza tempo mio. O quando entrato all'improvviso e senza alcun sospetto nella vostra stanza più tardi ne scendesti rosa, limpida con gli occhi che indugiavano ridenti. E l'anima confusa non mi dice oggi nemmeno il perché della fuga o cosa mi tenesse veramente e perché torna il frammento al ricordo di quelle scale di me fermo in basso incerto allora forse incerto sempre. Di notte mi tormenta questa riga mi spinge fuor dal letto al foglio preme. Ed i ricordi scopre; alza la mano. E poi l'inganno l'altro femminile inganno e l'altro: che si dona intero, ma instancabile sempre si moltiplica a somiglianza e immagine di specchio che mentre sei presente ti riflette qual vuoi e l'altro poi od anche insieme per strana cecità divisamente, disponibile sempre tutt'intero e sempre vuoto e pronto a contenere (la lettera che scritta all'un piegata si distende per l'altro a foglio intero). Ma poi per verità cosa contiene? Se non esiste l'immagine tua, che come specchio ti proponi ad altri di questo gioco strano cosa resta? Gioco di specchi immagini fuggenti e la necessità, il giro dei suoi lampi. Accompagnavo in autostrada il feretro con l'anima svuotata dal dolore: e pur temevo, irrefrenabilmente, che tu vivessi ancora. Troppo l'ingombro il peso dell'amore. «La lira monocorde che m'ispira ha il suon velato»: antico il verso torna. Raffreddato belato del passato, nebbiosa cornamusa, si dissipa la forma e mi dileguo anch'io (m.s.e. 45).

Storia di penna di penne e di memoria.

Ma non di caccia. Era una Parker d’oro degli anni Settanta, sottile elegante e tutte le volte che le mie segretarie la portavano alla periodica revisione - era molto delicata - ne riportavano l’estasiata mirabilia degli specialisti, come se si fosse trattato di una Ferrari d’epoca, di un gioiello di meccanica e di precisione. Non avevo mai avuto né il tempo né la possibilità di approfondire. Restava quel senso di soddisfatto orgoglio e di privilegiato possesso che si rinnovava ogni due tre anni quando la penna veniva portata in revisione. Ne tornava lucida come nuova ma senza brillare troppo come è della buona lega dell’oro elegante e molto puro: opaco e splendente ma anche sufficientemente metallico per far intuire funzionalità e forza. La chiamavo, con vero affetto, la “penna della vedova ” e così era conosciuta dai collaboratori e dai clienti più consueti che, anche loro, ne avevano fatto un benevolo simbolo di fiducia: mostrata come un totem e rispettata come tale. Segno di buon impegno e di fiducia bilaterale. Alcuni la chiamavano la “pennina” per le sue eleganti dimensioni e ne parlavano come se fosse una qualità, un attributo della persona che proteggeva il loro punto di vista. Il nome di penna della vedova trova riferimento nel fatto che fu il dono della vedova di un amico caro, professionista di semplice titolo ma di totale dedizione al lavoro, che morì di un precoce infarto lasciando la moglie e un solo figlio maschio, del quale, chi sa perché o per quale premonizione, mi aveva spesso parlato affidandomene una sorta di bizzarra tutela morale che mi parve allora una stranezza. Invece mi trovai ad accompagnare il suo cadavere a casa, dopo aver ottenuto con fatica che non ne fosse fatta l’autopsia e dopo averlo prelevato dalle camere mortuarie dell’ospedale - dove giaceva rigido e nudo e con il membro rigido (particolare ignoto e macabro) - che ora si chiamano “Cappelle del commiato”. Sia dunque la morte un commiato, e non pensiamoci più. In effetti fu molto presto così. La moglie si risposò precocemente. Il figlio non mi consentì di trovare la sua amicizia. Mi presentavo di provenienza, per così dire, paterna. Madre e figlio tra loro lo chiamavano “il bestia” perché lavorava troppo (per loro, tenerissimo): e perché di conseguenza era forse assente, forse non abbastanza dedicato ai traffici teneri della famiglia. Arrivai dunque per comporre la salma in quel luogo che con tanti sacrifici aveva recentemente acquistato e vi trovai un atto legale, notificato qualche ora prima, che faceva seriamente temere la perdita della casa che rappresentava il più ingente frutto dei risparmi dell’amico. Le sorti ci furono generose e io feci per lui ciò che lui avrebbe fatto per me, e la vedova mi consegnò il pacchettino contenente la preziosa penna con spontaneo gesto di scelta gratitudine. Finché un giorno, dopo tanti anni, ad altro nobile ed eletto amico e cliente, che per anni aveva ammirato il totem, l’offrii sprovvedutamente in dono per non so quale impeto di generosità, e quegli accettò rapidissimo, e se ne andò fiero con la sua legittima preda, subito rimpianta dall’incauto donatore. Ora, lui morto, la seconda vedova, ignara della storia ma per suggestione di persona a me tanto cara, mi riporta in dono la medesima penna. Segno d’amore e destino: e segno ancor più che tutto torna o non si allontana. Ed ora sono qui, e temo e spero. Ora che da tanto (sarà un vizio?) ho regalato a destra e a manca tante penne di pregio, raccolte in dono nel corso del mio lavoro: e scrivo ormai da tempo con le più varie fungibili e modeste penne a sfera, quasi a punirmi di non so che cosa. Guardo il pacchetto non aperto ancora e ne vedo il contenuto. Dubito di me, del mio passato, ora che lascio il carico per mantenermi a galla. Forse, penso, la può volere la persona cara, come continuità e segno di valore di nuovo meritato. Mi pare più giusto: sarà più bello così se vorrà accettare. Sapeva fin dall’inizio la penna dove posare. Stamani, però, si è compiuto qualcosa di banale, o forse un destino epocale. All’inizio della professione, la penna era una Parker. Io scrivevo con l’inchiostro verde dei tubetti di corredo. Ora rammento. Anche prima scrivevo con l’inchiostro verde: dunque la Parker c’era già. Quanto è durato il verde inchiostro! Ho scritto immensamente, continuamente. Le lettere d’amore, le lettere agli amici. E poi tutti quei fogli della professione! Scrivevo su una carta modestissima, che compravo in grandi risme, che stava morbida sotto la penna ed il pennino elastico della stilografica. Il rapporto tra carta e penna era spontaneo, calcolato come una piccola danza che mi dava giusto il tempo di riflettere. Finché la carta non si trovò più. Cercata nelle vecchie scorte delle cartolerie e perfino presso le cartiere, finché un cliente, di cartiera appunto, non mi guardò con commiserazione e decretò la morte del cimelio: non si fabbrica più! Nella memoria vedo ancora i masselli di carta scritta, arrotolata e ingiallita, ma rallegrata ancora dal verde stinto. Ma poi chissà. La forza creativa della memoria, la commistione degli affetti, degli eventi e le loro misteriose concatenazioni profonde si sovrappongono al dato di cronaca, al fatto: fino, a volte, a contrabbandarne uno radicalmente diverso. E’ ora ormai di confessarlo. La pennina d’oro non fu donata, fu smarrita nell’ansia palpitante d’una causa, e qualcuno - mai scoperto - ne ebbe vantaggio indebito. Quella da me donata e rimpianta, trucco di memoria la memoria l’ha annientata: doveva sostituire, impersonare, far durare l’altra, quella ritornata, quella che contava che sopravviveva in altro sito: e che è tornata - Lei - non vista nel pacchetto chiuso previdentemente e necessariamente non aperto. Avevo messo in sì bell’ordine il ricordo! Andava tutto così bene. Mi duole turbarlo. Sarà meglio non turbare lo scambio delle identità. Ancora so dov’è la mia pennina d’oro, che non si è persa mai.

Taxi

Ma col tassista, col tassista hai parlato. Informazioni, brevi discorsi in libertà. Confidenze. I caratteri sempre vari. Cupi costretti in sé come se la guida creasse dei binari, un automatico percorso di sentieri dove la vita scorre in penombra, rifiutando la luce. Si sente, allora, una ribellione sorda, un’ostilità verso il passeggero che sale per breve tratto ma poi scende, se ne va, libero, chissà dove: e invece il conducente no; riprende il sentiero con un’altra faccia dietro, un altro odore: bagaglio noioso da porta a porta; che si porta in viaggio senza curiosità. Le risposte, allora, sono tarde; così lente che giungono appena prima della ripetizione dubbiosa della domanda; svogliate o enigmatiche, scoraggianti. E il tragitto s’allunga, si ripiega, finisce con sollievo. Più raro il tentativo di discorso, il commento sul tempo, sul traffico, il cauto sondaggio d’opinione sui fatti del giorno. Ma qual mezzo mai più pratico e funzionale? Rapido percorso di città nuove, mobilità d’impressione reale vicina e concreta. A Mosca, il tassista (un po’ d’inglese un po’ di cenni, qualche parola tentata in idiomi vari: esperanto poverissimo) che dopo un corso tra palazzoni infiniti e la programmata visita alle stazioni della città - un’idea brillante, devo dire; un finestrino sulle più lontane provenienze: dall’Ucraina; dalla Siberia dagli Urali; - volle essere pagato in vodka, lecita agli stranieri. prima cauti e poi più cordiali. Centoventi rubli, allora, uno stipendio medio (forse il suo, a parte le mance liquide): pochi rubli, meno di dieci per la casa; pochi, relativamente, per i bisogni essenziali, poveri, senza fantasia. La sufficienza minimale assicurata ma niente più. Ed allora il bisogno della vodka liberatrice; della birra: mortificato dai prezzi proibitivi al rapporto: una sola bottiglia o due di vodka più del costo della casa per un mese. Gli sguardi furbi... e quelle stazioni. Una folla cenciosa, come talvolta nel nostro meridione più povero, ma più precaria ancora e più pittoresca, forse per i lontani luoghi di partenza e d’arrivo. Cenci, colore, folclore e soprattutto miseria senza pulizia né libertà. Una valigia di fibra immensa legata con le corde, incrinata da rughe più chiare a mostrare la trama interna molliccia, pericolante: e una donna grassa seduta sopra, sorretta certo dal contenuto costruito come muro e non dal contenente precario: che da un momento all’altro poteva, così sembrava, venir meno sul supporto afflosciato. L’ansia della scena la desolazione dei cenci, delle gonne sovrapposte di panni ruvidi, ruvidamente colorati, la pezza a triangolo in testa e la grande faccia scura di razza aliena, ottusa: inutile al viaggio inutile. Che mai poteva vedere, quale necessità poteva aggredirla, quale luce, se tutto sembrava immobile e sciatto? E a New York gli straccioni alcolizzati della Bowery. Nella parte alta di Harlem, gli uomini torvi, in bande, pochissime le donne, come se non avessero il permesso di mostrarsi sulla pubblica via, sulle piazze riservate agli uomini neri, sotto palazzi a tanti piani, colorati. Più magri che a Mosca, artigliati dal cemento armato corroso, tarlati, scrostati (per chi conosce la differenza non bombardati; mitragliati, i vetri rotti più di quelli interi) come se immense ragnatele fossero cadute incrinando, ingrigendo, contaminando ciò che l’uomo aveva contaminato con gioiosa baldanza dissennata. Chissà quali regole dell’economia, chissà quali leggi del mercato e delle etnie pronunciavano sentenze contro l’uomo (ma il freddo, almeno, non era siberiano). A Cape Town la sprezzante protesta del tassista bianco (i bagagli non li aveva toccati) per l’obolo al facchino nero: triste, miserrimo tentativo di esorcizzare l’ipocrita pena, il torcistomaco (del resto lieve) consapevole dell’inutilità e della sua stessa ipocrisia - presto cacciato via dal ricordo (così sembrava, e si voleva) - e l’umile rassegnazione del nero, come di cane fuori dal cancello che a coda bassa rientra attendendo il castigo. Le bidonville ridenti di fiori e di colori come farfalle sui rifiuti e l’incidente con la testa battuta nel tettuccio, mentre si saliva verso la montagna, verso il panorama dell’estremità del capo. Capo. Capo veramente cima-fine del mondo, spettacolo infinito. A sera, sotto la croce del sud nel cielo infinito: per un tono, una vibrazione d’altezza d’altipiano che solo l’Africa sa dare, forse causa principale del mal d’Africa. E lucono le stelle come buchi brillanti nel cielo... I rischi a Rio de Janeiro: i rischi di tassisti romani napoletani e sambaioli: tra curve stridenti e frenetici rimbalzi di samba. Ne vidi uno, appena sceso, corretto: in giacca e cravatta e berretto; gli occhiali a stanghetta lucenti, che invece di battere a macchina, di dare a ciascuno il biglietto, il debito foglio, il certificato, batteva frenetico e senza un sorriso il ritmo di samba tra torsi taurini di donne esplodenti, come se quello e non altro fosse il destino. Lo porto negli occhi più vivo: come il corpo scomposto (compostissimo) che il mimo De Curtis ha stilizzato con arte infinita; e forse alla samba non c’era mai nemmeno stato. Lo sfascio di questa città meravigliosa - diceva il tassista a Roma - ha una ragione precisa. Nessuno l’ha mai governata. I politici erano sempre di passaggio, senza amore: una tappa della loro carriera. Sotto Pasqua parlavo al tassista: aprivo gli occhi tornando verso casa. Che uova grandi, ma allora Pasqua è vicina! Che cosa stupenda, che buona la cioccolata! Ma mi hanno detto che viene rifusa cioccolata già vecchia. No, anzi al contrario!, gridava guidando. Per la forma dell’uovo occorre cioccolata purissima. E io di rimando. Ma guarda, ma guarda, come il giudizio può guastare il gusto del giusto. Così io pensando che l’uovo è peggiore, gustavo come ottima cioccolata inferiore. Del resto è tutto soggettivo. Basti pensare ai polli del tempo passato. Così forte la carne sull’osso, così gustosa nella fatica del morso. E invece oggi si apprezza la carne che quasi a guardarla lascia libero l’osso … Ha ragione ha ragione. C’è troppa abbondanza, nulla più stimola, nulla più fa gola. Mio figlio, vede, lo vedo a casa. Sempre sdraiato, molle sul divano; e intorno, intorno, la fidanzata e le amiche. Una cosa, vede, una cosa che a me che son vecchio dice qualcosa m’impegna, mi dà nostalgia, mi stimola al corso. E quel torso sempre sdraiato, annoiato. E’ proprio così: gli manca il dolore; non hanno sapore, sono falsi polli allevati. Ora apro il cancello, lei entra e ritorna all’indietro. La strada più oltre è bruttina. A Milano Linate in ritardo. In taxi verso Malpensa, al volo intercontinentale. Guardava, guardava nel retrovisore. Vecchio, con l’occhio curioso ma spento. Vedo che lei non è d’oggi. Sta per partire, il lungo viaggio di certo la porterà lontano. Domani avrà già dimenticato tutto. Allora mi ascolti, devo parlare. Vede, sono in un punto infernale. Già vecchio, ho trovato una donna che s’apre e conforta il mio triste mestiere: sempre qui, dietro il motore. Una speranza. Ma vede, ogni volta misuro la distanza di me come sono dall’altra persona; e allora è una fine sempre ripetuta. E guardi - non tema - mi prende la voglia di uscire fuori di strada. Non faccia così, non deve. Ognuno ha solo una giornata. E’ come se in discesa a ruota libera volesse salire. Non può che subire, rallentare. Chi le dice che non sia meglio così? Il dolore che provo le dà ragione. Guardi che cosa. Mi ha spinto a parlare, a parlare così; mi scusi signore, non tema, vado svelto, siamo quasi arrivati. La ringrazio, al contrario, di questa fiducia: era tardi ero arrabbiato, mi rodevo dentro di me . Invidiavo il suo viver sicuro, il motore obbediente. Ora sono più calmo, siamo tutti ugualmente in viaggio. La lascio di fretta, scusi anche lei, si faccia coraggio. Ho fatto una corsa, una corsa affannata. Temevo e speravo. Puntuale, tedesco, l’aereo in pista rollava, spingendo a pieni motori. Esausto, tornato a rilento, sono salito in autobus.

Piena d’Arno

Un bailamme! La memoria. La memoria tradisce sempre. Ognuno ricorda quel che vuole ricordare. E il tempo? E’ come il Leporello di Don Giovanni. Che cosa vai cercando, se non sai mai dov’è? Ha fretta, ti scansa, ti spinge al futuro: è come battere, bussare al muro. Le cose poi son fuori di noi e dunque aliene: agisci tra le cose sulle cose e gli urti sono continui con la materia che le compone, con gli strumenti che le tormentano, e così con le persone. Ho scritto le persone: ma perché? L’inconsapevole ha ragione ancora una volta, perché delle persone sono animati il tempo e la memoria, dove oscilla e tenta la nostra coscienza. Ecco: l’esame di coscienza. Può darsi che conduca da qualche parte, passando attraverso la memoria, il tempo e le persone delle quali peraltro poco o niente si può sapere. Meglio una cronaca. O meglio: un’accozzaglia di fatti nudi che non sia nemmeno cronistoria. A volte basta uno sguardo, la memoria, il riflesso che rinasce d’uno sguardo. Torna in mente quel cataclisma d’acqua che fu l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966. Ne parlava Ale stamattina (che parla poco) raccontando di quando era bambina forse di tre anni e ricordava fotograficamente d’essersi affacciata (è più probabile che la tenessero in braccio) alla finestra e d’aver visto un fiume d’acqua nella strada, una corrente vorticosa che scalzava dal falegname e dalla segheria accanto manufatti di legno che la bambina vide come tronchi (ma saranno stati più probabilmente travicelli ed assi lavorate) e si leggeva nella sua espressione la meraviglia strana ed infantile d’aver visto una bocca di bottega che vomitava quella mercanzia: incredibile e meravigliosa ai suoi occhi grandi e piccini. Parlar di cataclisma non è troppo. Quella domenica mattina c’era un silenzio pesante, innaturale a ripensarci, e poche macchine giravano nel centro, dove andavo a far ordine in ufficio: ma tutto sembrava normale, salvo quel trascurato peso: forse il gran peso dell’acqua intuita chi sa per quale segno della mente: come gli uccelli talvolta intuiscono il pericolo, e s’allontanano. Ricordo ancora lo stupore attonito del portiere salito al primo piano che mi diceva pallido e stremato per le scale: “C’è l’acqua che sale da piazza del duomo!”. Ed io incredulo con lui a guardare dalla finestra verso il duomo per vedere un animale quatto, oscuro, silenzioso e sporco che saliva inesorabile la strada, che subito ci fece fuggire da quel tranquillo silente salire da padrone del mondo. Appena in tempo per montare in macchina, lì davanti, per andare in senso contrario alla bestia oscura, che per dispetto e stizza d’essere scoperta si disvelò intera brutalmente, mentre saltavano i tombini delle fogne. Un corridoio furente che sparava fontanazzi minacciosi e rumorosi d’un liquido ormai nero e maleolente, perché la rabbia della piena si era procurata nelle cantine nafta oleosa e nera che schizzava in alto, spinta dalla sua stessa pressione, come un fetido sangue da nascoste arterie. Per caso e fortuna raggiunsi i miei che non erano ancora usciti: ed eravamo in zona di livello appena superiore a quello massimo raggiunto dalla piena. Mentre scrivo, sull’onda che sgorga dalla penna, come un’anima che voglia esprimere i suoi moti sotto la parola, ritrovo il sollievo di quell’ora e la paura: non si sapeva dove sarebbe arrivata la malvagia presenza dell’acqua, che si era scatenata assurdamente in cattiveria per ragioni sue, del tutto ignote tranne per quel moto terribile intravisto, sorprendente di furia contenuta, di furia oscura, di pace indifferente, di ressa vorticosa. Le notizie arrivavano a bocconi, erano saltate tutte le convenzioni, non esistevano più l’ordine, il normale disordine, le usuali cadenze. La forza naturale invadente traboccava ben oltre i ricordi della guerra, contenitore troppo breve quello umano, per competere con un corruccio esuberante ed inumano che conclamava ciascuno a riconoscerlo, nelle latebre più dure delle cellule, minima pellicola che ci regge. Scoprendo e scardinando per paura l’incertezza incosciente del caos e della mente. Cosa fossero o come trascorressero le prime ore, i primi giorni quasi non rammento. Ognuno su se stesso. Il furore serpeggiava tra la gente: non succedeva niente non si vedeva il minimo conforto, tutte le strutture tacevano di botto, l’autorità stava inutilmente . Come può la memoria contenere una piena? E invece sì, con un ricordo solo che passa dall’uno all’altro e si trascina dietro intero l’Arno, dopo tanta inutile iracondia finita a quel momento in limacciosa vena. E viene dagli occhi grandi e piccini della bambina meravigliata ancora d’una bottega accanto, familiare e nota, che vomitava incontenibilmente tronchi d’albero enormi e fangosi. Senza peso tra saltelli e schizzi vorticosi.

Buon giorno

Sembra una lotta di galli. Circoscritti in breve spazio gorgogliano sommessi minacciosamente, anche se con le zampe sembrano occuparsi di altro, ma scattano veloci alla prima occasione. Il rumore è del pubblico. Loro non perdono tempo con le voci, o queste si perdono tra le piume che volano per ogni dove. Nel caso in esame il pubblico - enorme al confronto - c’è ma non si sente. La lotta tra i due è come distillata, non volano le penne: ma è furiosissima. Si rubano l’un l’altro il coccodè, il chicchirichì. Non sono dello stesso sesso ma si combattono striduli, si rubano la parola. L’una veste di sembianze femminili. Accentuate quanto basta e un po’ di più. Lei è giovane e bella. I primi piani sul suo volto insistono: perfettamente attrezzata per la seduzione adopera gli occhi - grandi e nitidi nel trucco - muove a tratti il corpo e con la bocca allude. Lui è più impacciato ma si sente intelligente - e non è - e bello. Si comporta come se fosse sempre sotto l’occhio della mamma: si sente apprezzato comunque. E volano tra i due, che le strappano a pochi interlocutori - arbitri atipici più che protagonisti - le notizie più terribili. Milioni di morti, cifre senza senso che grondano di sangue silenzioso, di dolore, di fame e di alienità. Il tutto a colori. Lui vince più spesso. E’ stridulo e veloce e la voce dell’altra, ottusa, ne resta prevaricata: ma si dibatte si insinua, cerca la rivincita. E sembra che la macchina da presa premi il vincitore. Ed io ascolto per un po’. Altrove mi da pace una figura inconsueta. E’ un’inviata e parla da sola ma non si impone. Ha l’aria di una ragazza mite, tiene le spalle un po’ piegate, quasi raccolte a non esibirsi troppo: una figura discreta familiare, e spiega con coraggio adeguato e ragionevolmente, vestita come se parlasse in casa. Conclude giudiziosamente. L’ascolto volentieri. La sento con consenso e con simpatia. M’incoraggio e torno al canale di prima. Nulla è cambiato. Spengo la televisione.

Fuggevolmente torno, una mattina. Si è tolta il reggipetto inarca la falcata. Ha conquistato la postazione separata.

La bottega

Giocherellando con gli spiccioli, monetine e monete dell'euro, mentre al telefono l'amica si preoccupava, sollecita alla difficoltà al rischio degli errori di un'anziana venditrice sottocasa che usa fare i conti in lire sui pezzi di carta da involtare (e chissà come adesso), è venuta a visitarmi la figura del Gabrielli dal quale di pomeriggio talora andavo, in commissione, sul tardi, quando ci si accorgeva che qualcosa mancava alla prossima cena. Spesso imbandita con latte intero e caldo, condito con un pizzico di sale ed arricchito di burro fresco: un bel pezzetto che galleggiando rinunciava piano piano alla sua forza, spargendo attorno e trattenendo a sé una bella aureola gialla profumata e consistente. La ciotola rotonda e senza manico era di buona capienza, e il suo contenuto destinato ad accogliere le fruste fresche di pane bianchissimo e croccante, snello e cordiale come se fosse un grissino cresciuto per la voglia di rendersi utile ancor più e misurato al morso: ma solo pane, fatto di farina bianca, acqua e lievito, crosta ben cotta e croccante con la mollica di bolle dilatate sulle quali, tagliando, veniva depositato ancora burro fresco. Nel caldo latte col sale e con il burro ormai fuso s'immergeva la frusta tagliata e ricomposta - arricchita, dopo il burro, di casalinga marmellata di frutta - prima di giungere a destinazione, dove trovava bocca predisposta e scivolosa, ed il palato attento risvegliato. Dove si fondeva, in facile vittoria scricchiolante, con i sapori modesti odorosi e freschi di siffatta semplicissima cena. Molto cara a mia madre poco appassionata di cucina, e molto cara a noi, ma in particolare a me: per quel non so che - forse, penso adesso - di ritorno ritardato, ben più importante e ricco, al sapori del mattino: come se il giorno avesse ben fruttato prima di concludersi là dov'era cominciato. Il pizzicagnolo dunque (salami, prosciutti ed ogni qualità di maiale e di pezzi conservati e sapidi: ma anche pane pasta scatolame burro e formaggi e così andando) forniva il pane freschissimo di forno, formato in quelle fruste odorose e delicate: ovvero il burro, e, con l'occasione, altre delizie destinate oculatamente ad altra occasione. Che voluttà il mascarpone fresco, quando ancora qualche goccia appariva dalla garza larga sovrapposta dov'era appeso! La "bottega" (chissà che una volta queste dovizie non uscissero da una botte sdraiata) e il bottegaio. E' un "bottegaio", si diceva nel parlar comune, come a designare una rozza furberia avida e chiusa nel suoi ristretti orizzonti di commerciale ruberia: non disgiunta però - in quei confini - da una intelligenza acuminata e percettiva, nata rigogliosa dalla naturale accortezza e dalla costante osservazione. Naturalmente “faceva il conto" ad ogni cliente (ma qualche volta "segnava" sul registro, - fatto di riserve di carta da involto ricucita alla buona - per clienti abituali e accreditati) che si iscriveva a grandi cifre sulla carta dell'involto esterno, di colore giallastro o grigio e di grana ruvida e grossolana. Scriveva a matita, a cifre grandi e frettolose, che si susseguivano fino ad un finale tratto frettoloso, che separava gli addendi dal totale. L'involto poi scendeva verso il cliente e la matita (il "mozzicone", non so se deliberatamente accorciato per comodità e per risparmio) saliva verso l'orecchio destro dove trovava comodo e acconcio ricovero, anche se breve: in luogo di facile ritrovo senza tema di dimenticanza o smarrimento, che avrebbero impicciato il lavoro. L’involto scendeva perché il Gabrielli si muoveva su una pedana d'una certa altezza, dietro il banco angolare dove si trovavano ben disposte le varie cibarie: tutte in vista dei clienti e dominate dall'alto a colpo d'occhio, ma a giusta distanza per la mano del ministro, al quale bastava piegarsi poco - dopo essersi orientato - per arrivare rapidamente alla merce prescelta e poi alla bilancia dove era pesata sulla carta oleosa trasparente degli involti interni forte tanto da non lasciare trapelare i cibi semiliquidi. Per gli affettati e per tutto ciò che doveva essere tagliato con forza bastevole a vincere la consistenza, il Gabrielli si volgeva alle sue spalle dove poteva rifornirsi a varie altezze, alternativamente abbassandosi se del caso, e affettava tagliava troncava e tutto finiva sulla bilancia: e gli addendi si allineavano - si fa per dire - sulla carta dell'involto finale, tra voli e ritorni del mozzicone al suo nido, operoso e veloce come una rondine. Il giovanetto imbambolato in piedi stava a guardare tra gli odori inconsueti e violenti (cattivanti e scostanti) intento a ripercorrere la sensazione di turbamento esaltata da tanta appetitosa morte, pronta -aperta - per essere goduta. Innegabilmente il pizzicagnolo dominava: unico protagonista e sovrastante addetto che provvedeva e che soddisfava ogni bisogno. Il Gabrielli (alto, benevolo e stempiato che sotto il grembiale esibiva una proporzionata prominenza professionale, inevitabile simbolo di cornucopia e d'abbondanza) era consapevole della sua autorità e sogguardava col capo reclinato - e di sotto in su - per restaurare un piano protettivo e sereno sulle teste dei cuccioli in attesa. Di tale autorità usava con misura permettendosi quel tanto di prepotenza (gli spessori della carta, la velocità dei "peso" prima che la bilancia si assestasse) che l'esperienza gli assicurava perdonata e impunita dai clienti fedeli. Più prudente con i nuovi. Seppi in seguito che questo privilegiato complesso di opportunità e di circostanze lo accreditò qualche volta - a quanto pare - con taluna o tal'altra del suo pubblico femminile che (in ora adatta ad abbassare il bandone per un giusto riposo) si lasciò serrare nell’odorosa penombra per seguirlo nel retrobottega dove assaporò autorevoli ed ignote -ma assai condivise- delizie. Tornato a casa gustavo -ignaro- un rito, forse non poi così diverso, nella semioscurità e nel calore della nostra sala da pranzo.

Occupazione tedesca

Si stava combattendo aspramente una guerra già finita. Era chiaro a chiunque che i tedeschi l’avevano irrimediabilmente perduta. Perché dunque durava l’inutile e ancor più ignobile carneficina? Solo perché perdurasse un potere o un ritorno di produzione proficuo per taluni, o perdurasse un orgoglio, una coerenza, una follia lucida e terribile che riempiva di orrore di timore e di morte quelle che venivano chiamate, forse per derisione, le popolazioni “civili”? Tra il mare Tirreno ed il mare Adriatico corre una catena di montagne lungo le quali l’esercito tedesco si era arrestato dopo la lunga ritirata dal sud della penisola, disponendosi a difesa secondo un tracciato da mare a mare -sorta di lunga ideale trincea - alla quale era stato assegnato il nome di Linea Gotica dalle antiche popolazioni germaniche che assai grosso modo avevano stabilito i confini della loro invasione, o migrazione, tra quelle montagne. Lungo la strada che scavalca gli Appennini al passo della Futa e unisce l’alta Toscana con la valle Padana, si erge ormai soltanto un cimitero di guerra tedesco, che in questo inoltrato pomeriggio autunnale grigio e piovoso (chiuso e chiusa la temperie che nessuna luce riesce ad aprire) si presenta inaspettatamente al panorama che si confonde e si staglia nella memoria. Il monumento segue le sinuosità del terreno e i dislivelli con impressionante naturalezza. Tutto è ordinato pulito solenne. La pietra delle tombe, la scarpata che le collega di livello in livello, di spalto in spalto si direbbe, sono del colore grigio ferro della divisa di quei fanti, quando erano vivi, e della oscura giornata autunnale: non lontano ormai l’inverno. Gli allineamenti sul terreno sono precisi, disciplinati come se quelle pietre tombali fossero ancora un esercito schierato a difesa, allineato, determinato, disciplinato: minaccioso e però triste. Come se ormai, di tutto questo grigio, di tutto questo ferro, dominasse la consapevolezza dell’inutilità, ed insieme la fierezza di essere ancora coraggioso, ancora combattivo, fermo esercito a difesa del terreno che fu, forse, percorso dai Goti. Passando tra le tombe, (tutto è tenuto esemplarmente nitido) si vedono le date, qualche volta il nome, qualche volta le notizie che la cura della pietà e del coraggio è riuscita a raccogliere. Si tratta in maggioranza di date che, ad oggi, non fanno differenza: tra l’essere morti allora sulla linea Gotica in combattimenti lunghi violenti ed inutili, ovvero dopo, poiché oggi non vivrebbero comunque più. Non è pensiero che consola, anzi accentua la follia del sacrificio, della strage anticipata, e il turbamento che nel flusso dei tempi della morte resti immobile, allineato, impotente questo monumento di inutile fierezza, di spietata fermezza: fantasma ferrigno di ghiaia intrisa d’acqua, di granito e pietre dalla sommità del colle alla cappella ossario alle porte del cimitero. O forse c’è qualcuno, c’è qualcosa che vuole esprimersi per queste pietre, per questo ordine di spiriti d’impresa? Oggi certo tutto è cambiato. Lo spirito tedesco di morte disciplinata e fiera, - a costo di questi morti inutili che stringono il cuore di nostalgia - sarà forse scomparso, forse dissipato nella società di agio e di consumo: e più nessuno dei giovani d’oggi coltiverà il sogno di feroce gloria, di ben costruita grandezza ad ogni costo. Avessero potuto scegliere questi fanti! L’opera d’arte che lo spirito esprime e quella dello spirito stesso che si esprime, da chi, da quali morti sogni sono guidati? La musica solenne si compiace, tra l’umida ferrigna ghiaia, di scricchiolare. Non so. Non oso più pensare. Da ogni parte guardato, questo sogno è sogno in ogni tempo deturpato, e oggi ormai senza senso, se uno ne ebbe mai. Eppure è come se l’uomo pronunciasse, senza nazione, tra queste forti balze un suo indefinibile, fermissimo credo. Una sfida.

L’autore cerca un treno

(Si cerca sempre qualcosa. Preferibilmente gli occhiali. Ma, questi ritrovati, la penna quell’appunto e chissà che cosa. Non cercata si trova una fattura, s’apre un’altra vena: che cos’era l’impagato, chi l’ha dimenticato. E quando hai già dimenticato la ragione ti distrai, fai qualche passo con l’attenzione rivolta altrove e tendi inutilmente la mano con la certezza di trovare gli occhiali. Per quanto mi riguarda sono riuscito a perdere perfino il collarino per fissarli. Sembra quasi la morale di una storia che non c’è. L’autore questa volta sarà facilitato se non altro dalla dimensione del treno, ammesso che quest’ultima c’entri per qualcosa. Ecco la minima storiella senza ornamenti: che vi intrattenga giusto il tempo di preparar la scena).

Nell’estate del 2000 mi trovavo sul lago di Lemano, all’Hotel Victoria Glion sur Montreux - ouvert toute l’année - e una impiegata del bureau (o, come direi, per l’accoglienza) mi consigliò di tornare a Firenze, dove vivo, con un vagone-letto che partendo da Montreux poco dopo le ventitré arrivava a Firenze alle sette del mattino. Mi parve comodo perché l’età non agevola le coincidenze e questo invece era un treno diretto: e per quanto sia precario il sonno, il vagone-letto avrebbe assicurato pur sempre un discreto risparmio di fatica. C’è da considerare (alla mia età) che giungendo a destino al mattino se ne risente durante il giorno: mentre l’alternativa di viaggiare di giorno lo consuma, ma consente un buon riposo notturno e così di gustare appieno il giorno che segue. Sia come sia, decisi di fare il tentativo e dico subito che la differenza tra le due alternative risultò invero tenue, fermo restando il vantaggio dei bagagli: e forse ebbe spazio anche l’immaginazione o anche, chissà, l’accoglienza e il, raro, interessamento. Il percorso notturno, il sonno interrotto, la piccola cabina che solca la notte, come la veglia il sonno: ed il rumore, a volte soffocato a volte manifesto. Insomma ancora una piccola avventura (ma quale?). Un viaggio ancora avventuroso per chi sapesse viverlo appena fuori del suo rigoroso e ferreo binario: godendo le luci offuscate e i rapporti ovattati della notte. Chiesi anche per il ritorno: se c’era, cioè, il treno gemello che, transitando da Firenze, portasse a Montreux sempre utilizzando le ore notturne. L’impiegata promise di informarmi, ma il suo biglietto conteneva la notizia che il treno gemello per il ritorno “non esisteva”. Questa signorina avrà avuto all’epoca una ventina di anni (chissà che anno è ora) poco più poco meno, ed aveva un’aria molto professionale con un tailleur azzurro che rendeva inappuntabile la fresca camicetta, indossata del resto anche dalle sue colleghe. Mi provocava un certo sconcerto una lentezza tutta sua a prendere possesso delle cose e a regolarsi di conseguenza: anche se poi partiva ed arrivava con apparato di efficienza. Una volta le dettai poche righe di lettera in francese, pregandola di trascriverla col mezzo meccanico e per la prima volta la sua espressione imperturbabile si incrinò lievemente quasi per una leggera sofferenza, quando lasciò intendere che non sapeva usare né il computer né una macchina da scrivere, tant’è che, gentilmente, me la trascrisse chiaramente a mano. Dato il compito non banale di cui era investita e il livello dell’albergo restai sorpreso: e fui indotto a riflettere esaminando meglio la protagonista che non era del resto sgradevole da guardare. Il volto regolare si connotava per la fissità della pelle e dei tratti, ravvivata da un lieve costante e invariabile sorriso a mezzo, che la faceva somigliare - col trucco ai pomelli tipo pesca rosea - ad una improbabile testa di biscuit come avevano le bambole di una volta: simbolo di qualcosa da me mai definito. Forse della astrattezza di un sogno: nel quale bene si iscrivono i più vari giochi della fantasia infantile di bambine intente a spogliare, vestire, nutrire svegliare e far riposare le loro bambole assolutamente obbedienti e disponibili sempre con la medesima misura e con le stesse fattezze che mutavano soltanto per il calare di pesanti ciglia lunghe e folte quando la bambola veniva posta supina. La protagonista, che invece stava in piedi dietro un banco o fuori, in tal caso camminando misuratamente sulle lunghe gambe diritte, non aveva nessun bisogno - e nemmeno voglia - di muovere le palpebre e quindi gli occhi dell’imperterrito viso di biscuit levigato colorato ed immobile nel suo involucro laccato, restavano anch’essi in stato di immobilità, ma non penetranti o vivi o fastidiosi. Erano semplicemente aperti e fermi nel color grigio chiaro dell’acqua del Lemano sotto il sole, e prendevano atto - si direbbe - di esserci e di starci senza particolari curiosità, forse appena lasciando intendere quanto desiderassero (considerazione suggerita dal complesso delle immobilità e non già esplicita) che nulla mutasse apprezzabilmente in loro o nell’ambiente circostante, persone comprese. Questo totale disinteresse di principio per la realtà circostante, bene incellofanata dalla e nella struttura di sé con encomiabile ma triste praticità, destava tuttavia il mio interesse quasi microscopico e una certa incertezza sui risultati della (pacata) ricerca. Non mi convinceva la risposta di inesistenza del treno gemello da Firenze a Montreux: essendo normale che le comunicazioni siano più o meno simmetriche nei due sensi. Ero inoltre stimolato dal desiderio di scuotere l’imperturbabilità della protagonista, desiderio che spesso mi assale oggi di fronte alla distratta sufficienza di certi atteggiamenti giovanili, non del tutto giustificati dalla presenza di un superatissimo destinatario in barba bianca, ma anzi il più delle volte generalizzati verso l’ambiente, di nuovo comprese le persone. Fu così che pregai l’immobile di informarsi ancora ma rispose che la stazione aveva confermato il Messaggio; e la pregai infine di informarsi a Ginevra, col medesimo risultato negativo. L’idea di questo treno fantasma cominciava ad inquietarmi sproporzionatamente. Era come se vi scorgessi un simbolo o una metafora che per me - devo confidarvelo - è un vizio essendomi da qualche anno dedicato quasi esclusivamente alla poesia. Anche tenendo conto di ciò l’interesse per il treno fantasma era veramente sproporzionato: ma permaneva innegabile (una cosa esprime il rigo ed un’altra, forse, lo spazio bianco tra le righe). Durante il percorso verso Firenze in vagone letto, una compagna di viaggio, partita da Ginevra col figlio, alla quale manifestavo la mia meraviglia che non esistesse il gemello del nostro treno, mi mostrò trionfante il suo biglietto (essendo ipovedente non fui in grado di leggerlo direttamente) che era da Ginevra a Lucca, fino a Firenze in vagone letto: ed inoltre anche di ritorno (in vagone letto) da Firenze a Ginevra. La mia soddisfazione di aver scovato il fantasma fu quasi esultanza, come se avessi potuto automaticamente spezzare l’incomunicabilità glassata e imprendibile della protagonista con la notizia shock (vedi bene il treno esiste!) anche se prevaleva il dubbio che anche questa notizia per me così gioiosa, fosse invece da lei tranquillamente vista nella morta trasparenza del suo lago, giammai increspato, per quanto ad oggi lo conosco, da un qualsiasi moto. Giunto a Firenze e sceso dal treno confidai subito il mio giubilo a Tony e alle mie collaboratrici, incaricate di contattare la nostra agenzia di viaggio per prenotare di lì a pochi giorni il mio ritorno a Montreux, naturalmente in vagone letto. Ma l’agenzia non ne venne a capo. L’orario non menzionava il treno né da Roma né da Firenze e le telefonate si moltiplicarono, allagando il mio tempo nell’angoscia di non essere creduto (eppure la compagna di viaggio era stata esplicita e aveva sventolato il biglietto già fatto e pagato) e in quella di aver di nuovo perso la realtà di questo treno malauguratamente tornato fantasma. Finalmente l’azione combinata delle gentili collaboratrici e dell’agenzia di viaggio stabilì che un certo treno (il nostro, finalmente) partiva da Roma transitando per Firenze con vagoni letto sia per Zurigo sia per Ginevra che prendevano ciascuno la giusta strada a Milano: essendo però il “numero” del treno (ormai indispensabile per far lavorare gli elaboratori che ci governano) erroneamente collegato soltanto con la direzione Zurigo e non con la direzione Ginevra. L’iniziativa personale di Tony con una paziente coda di fine luglio durata oltre due ore e mezzo alla stazione centrale di Firenze, condusse finalmente alla conquista vittoriosa dell’unico posto letto ancora disponibile - nell’arco di una settimana - per la domenica notte del trenta di luglio: e vittorioso mi sentivo anch’io soprattutto all’idea di avere sconfitto - con sproporzionato dispiegamento di risorse e di partecipazione ansiosa - la infingardaggine delle cose e delle persone che accanto a te passano e vivono nell’astratta cupa miseria o grandezza di sé, proprio come se tu non esistessi nemmeno. La supposta vittoria sulla protagonista diventava una affermazione di esistenza, sempre più dubbiosa mano mano che il mondo respinge il mondo e aggiunge l’alienità totale a quella sofferta dall’età e destinata a chi la porta subendone il peso con reattività decrescente. Del resto non saprei nemmeno dire, con la massima sicurezza, se la supposta vittoria fosse addirittura un’affermazione importante perché nonostante lustri di speleologia teorica e applicata e sempre severissima, non sono ancora giunto ad orientarmi molto dentro di me e sparirò dunque in quel labirinto e nel labirinto dell’universo senza poterlo sapere. L’affermazione di vita, se tale fu, fu comunque bruscamente incrinata dal controllore del vagone letto, che, installandomi con squisita cortesia, mi informò inopinatamente che il treno - ritornato così per me fantasma - non fermava a Montreux. Giungeva bensì a Ginevra ma da un’altra direzione d’arrivo quando cioè la stazione di Montreux era già stata - per così dire - aggirata: e raggirato io. Inoltre il viaggio che nella direzione opposta durava sette ore circa (con fermata a Montreux) si sarebbe concluso per me a Losanna - prima fermata utile per tornare indietro a Montreux - dopo oltre dieci ore dalla partenza. Da Losanna (per scendere, per cambiare e risalire sul locale per Montreux) la solidarietà umana ha molto operato nei fatti e nelle parole di intensa consolante cadenza napoletana e di preziosa fraternità comunicativa, e così sono finalmente arrivato all’albergo Victoria Glion, finalmente strappando un regolare biglietto - anzi ho ripreso il documento e lo conservo - che mi prometteva invano un vagone letto - diretto - da Firenze a Montreux. E la metafora? Devo esplicitarla io caso mai ci fosse? Mi ci proverò ma vi invito, cari ed inesistenti lettori, a cimentarvi anche Voi cercando la più adatta al gusto e alla mente di ognuno. Per me, lo dirò in breve, la metafora è che il mondo l’ambiente, cioè, comprese le persone, (mi dispiace dirlo) astratto incognito e privo di ogni possibilità di reale lettura (la solitudine è abissale) e di appropriazione costruttiva e, per così dire, nutrizionale: come la protagonista la quale, è appena il caso di aggiungere, ascoltando in francese all’accoglienza le mie peripezie e qualche mio semplificato pensiero, non ha proposto motto alcuno limitandosi al suo volto laccato, al suo sguardo né vuoto né pieno, gradevole forse ma certo non sgradevole, perfettamente incognito, perfettamente astratto, O forse - ma non l’ha detto - non ha capito il mio francese, limitandosi a mantenere e ristabilire pacata la sua garbata inesistenza. Caro lettore: au revoir: beninteso se riuscissimo insieme ad afferrare il treno fantasma.

Treno locale. Un paio di scosse un metallico clamore conclusivo ed è partito. Sono rimasti tutti quanti a terra. Qualcuno c’era e d’altri non ho traccia (in fondo alla banchina è scomodo il ghiaione è stato già difficile salire l’extrasistole). E poi l’odore che dispiace e piace di fumo di carbone e d’olio minerale. Non so perché l’orario mattiniero né perché questo treno, ma forse mi ha chiamato. La carrozza dev’essere di terza. E’ molto vecchia ormai. I sedili di legno ed i braccioli scomodi son lucidi dall’uso prolungato. Non se ne vedono più così. Oggi sembrano sonde spaziali. Dovrebbe starsene al museo. E poi quel nome. Carrozza depravata (ed i cavalli?) discesa su rotaie mortificata che manda sbuffi e gocciola come un bollitore. Fa freddo la mattina. Molti dormono. Sono rimasti tutti quanti a terra. Ma c’é il viaggio il senso di partire il gelo familiare. Quegli odori, quelli del mattino. Stomaco vuoto, senza colazione. Ma un senso vago come d’euforia. Un paio di scosse. Ci si stacca. Non c’è più l’affanno di salire con i piedi impacciati dal breccione (l.m. 80).

Età. Sono finito in quest’albergo strano che ricordavo quarant’anni fa. I bagni monumento del passato le zampe di leone qua e là le foto di carrozze primi secolo cavalli dame e piume a sazietà perfino i generali col pennacchio quando il governo e l’alta società passavano l’estate al Grand Hotel. Quasi spento lo vidi nel passato ripulito consunto imbalsamato visitato da vecchi ormai soltanto. Ungaretti recitava nel salotto arrabbiato arrotando forte l’erre e tutti mi guardavano a traverso: un giovane un ragazzo senza età. Passeggiando nei lunghi corridoi come allora i vegliardi più importanti come allora mi sento senza età (l.m. 100).

Etruschi

Bisogna guardare questa collina com’era. Una fossa, un borro, una precipite discesa dall’erta del colle tra due avare braccia. Il sole sorgeva dal ciglio ad est e si faceva largo a fatica a mano a mano che illuminava dentro il ventre boscoso, solitario, ascoso, tra le grandi labbra beanti, fumiganti nel mattino. L’Etrusco guardava sotto di sé precipite il ciglio che risaliva all’altro lato al colle e discendeva poi con gli occhi verso la valle, allargata in basso. Vigoreggiava un cono di verzura fresca e compatta: e di cipressi e qualche pino emergenti tra le pietre. Alcuni giganti: ed altri fini, anemici di terra. Larici e lecci e ciuffi di quercioli a mano a mano a colpi d’ascia vinti, dove s’aggirava industrioso l’uomo che rispartiva la compatta mura, che ritrovava le pieghe più nascoste, soggiogando le balze ad una ad una. Riuniva le pietre sparse come resti a scolpire gradinate riempite a biche della risulta dello scavo al piede, portato sopra a pareggiare il muro, dove sparivano le costole di pietra del profondo. Si dislegava faticosamente un piano architettato, irregolare, rotto dagli ostacoli che non c’era modo d’aggirare. Su questi lavorava il tempo e l’acqua regimata e il contadino, che riparava i muri ed affondava la vanga nel terreno rischiarato e coltivava l’olivo e i frutti. Le barbe, laboriose sotterra, si spargevano con l’ansia di afferrarla, di farne un pane per il proprio pane. Tra luoghi secchi e porche ricche d’umidore, che davano colore nella frasca a ciocche verdeggianti e rade di fatica. Piano piano d’ossa calcinate, già prima torte da fatica immane, si formava dal folto primitivo un percorso per l’occhio e per la mente: che d’altre mani e tempi si giovava, nella violenza della creazione, e si spargeva in macchie di colore. Lasciando intatte irregolari isole, gli scogli e le verdure troppo forti e ribelli, presidiate dalle pietre affioranti radicate intere, a fondo. Il primo sguardo, il primo varco aperto mutava la sembianza ed all’antico orrore intarsiava la verosimiglianza della lenta operazione. Occorre scoprire la lenta piega del correre del tempo, le mani morte, la traccia della lotta immutata. Per riadagiare e rispettare il bosco adesso illuminato e lieve. Per colmare, accarezzare dove l’opera lo vuole ed il corso nuovo. Per dare spazio all’arcipelago emerso. E nel folto diradare, ordinare i percorsi oscuri, e rinunciare: mescolando sconfitte coraggiose: lasciando che la storia si ripeta. L’etrusco deve riconoscersi com’era. L’umiltà del tempo svela la tenerezza.

Da quando visitai nei dintorni di Chiusi una tomba etrusca, allora non aperta che di rado ad uomini soltanto, mi segue un attimo remoto così reale che letto nella stanza affrescata sembrava appena nato. Nel pomeriggio lasciato fuori, in salita verso la collina con i boschi che respiravano nell’umido tombale la dolce calura del meriggio asciutto di quell’ora, tra le messi vivide di vento sul crinale, il Lucumone prendeva un attimo regale. La schiava stava distesa schiena a schiena sullo schiavo chino, e l’Etrusco, fiero in piedi di tre quarti, quasi di spalle, la prendeva tenendole le gambe sulle spalle, guardando lei, l’ora: e la terra coniugando nel possesso, nel mistero. Che nei territori dell’inseminazione illude e ricomprende l’appropriazione senza confine o fine, che si confonde, potere e gloria, col piacere della pelle: e con quello dell’anima nell’universo. Era così vero, così eloquente il messaggio ricopiato dalla mano paziente del pittore, che lo stesso identico protagonista sembrava essere (non esistere): vivere, e lui stesso dipingere. Non varrebbe la pena di darne cenno, se non fosse che l’attimo di tutti, la folgorazione, la compenetrazione, il senso divino, la luce di un “Io” creante realizzato in perfusione materna di connubio con Dio si è perduto nella notte risplendente: l’Etrusco prese la terra ancora a lui vicina, senza incertezza. Il contemporaneo spia, incerto e diffidente, l’abbaglio forse non più vero, ma poi il miracolo torna e scintilla ancora: et idem fuit.

Interni etruschi. Distesa il servo chino sulla schiena regge la schiava che l’Etrusco appoggia aperta alle sue spalle e prende in piedi. Alto il meriggio asciutta la calura prende la messe i boschi la collina fiero nel vento, all’universo fuso. Rito eternante nel frusciar nel buio, vero ne volle l’abbaglio sotterra che ad ora brilla, percosso tra i secoli, dolce terra spiando fuori. Et idem. (Candidissima nox, materna fulgens) (v.n. 182).

Ero partito da Bagnoli in tempo. Ritornavo a fare il carico del ferro risalendo verso Populonia la costa che le navi di frequente discendevano. Dal bordo le voci si incrociavano. Avevo avuto presto la notizia e già scorgevo da lontano la montagna, ripulita dal vento di grecale. Sapevo che nel monte giaceva la dimora, ben tagliata all’interno della cava abbandonata, oscura e chiara sotto la ceppaia, proporzionata. Apparecchiata al banchetto come prima di partire. Chiusa nell’eterna libagione (i cespugli rinati sulla terra) in perfetta sicurezza vivi riservata, senza tempo e senza identità. Pura e sola l’eternità. La fede vera non cura la memoria.

Populonia. Giorno e notte schiumavano le braci. Tra nubi polverose piombo e ferro nel respiro affannoso delle genti (le navi scalpitanti le gocciole roventi). Di fumi e scorie appesantiti a vita salivano alle cave abbandonate trafitte di misura per serrare di salde mura l’ingegnosa vita. Nelle ceppaie di foreste fuse scavarono profondi gusci solidi per vita eterna nella pietra viva (nessuna traccia lasciarono del nome) tra poche suppellettili spaiate prese ed esposte per curiosità (l.m. 284).

Partenze. Forse ripensando a quella sera è come se ci avesse detto addio con un banchetto come quegli etruschi stesi sull'urne, prima di partire o per nave o per carro o per cavallo (come andavano in vita per commercio solerti e sorridenti) (come sotto i pini c'intrattenne l'Amico quella sera) volevan figurarsi che la morte fosse un viaggio soltanto più lungo senza ritorno, ma questo accadeva non poche volte anche ai partenti vivi: che tornavano al caro appuntamento all'urna preparata come nave per ripartire per l'ultima volta. Al Tuo viaggio, steso a Te d'accanto, confuso un po' dolente del ritardo con un sorriso levo la patèra e provvisoriamente m'alzo e parto. Levo la patèra al mio viaggio (m.s.e. 268).

Grand Hotel Gallia

Ero sempre sceso in quell’albergo, per ragioni di decoro, ma sempre non oltre lo stretto necessario, perché lo consideravo assai costoso. Aspettavo il conto con una certa trepidazione. Non saprei perché, nel segno di ragione. La spesa era necessaria, proporzionata all’opera intrapresa. Del resto avrei meritato il soggiorno anche soltanto per amenità. Le risorse per la famiglia non sarebbero state certo compromesse. Eppure trepidavo. Come se fosse spreco spendere per me, soggiornare nell’albergo lussuoso. Ed ecco il sogno lunghissimo perché ripetuto. Stavo in quell’albergo. In una stanza davvero importante dove c’era anche un bel soggiorno con la televisione e con la scrivania per lavorare. C’era un po’ di confusione dabbasso, mi pare che dicessero a causa di un cambio di gestione. Si stava molto bene, mi sentivo protetto. Giunto al termine previsto del soggiorno, il conto non venne e non avevo voglia di partire. Mi parve naturale di cambiare stanza, e di restare. Accadde ciò più volte e io vedevo, con l’occhio della fantasia, il conto che s’ingrossava, e traboccava, dalla prima pagina e via via anche dalla seconda e dalla terza pagina fitto fitto, illeggibile. Ma stavo così bene. Allora restavo, stupito e silenzioso. Una volta chiesi la fattura. Non fui sentito, o così parve. Permaneva il sentimento della colpa. Il comodo soggiorno. I tappeti felpati. L’ascensore lucido e silente. Io passavo e qualche volta mi sembrava - felice- di essere come trasparente. Il momento finale s’imponeva. Dovevo rientrare. C’era il timore di essere scoperto. Ma io avrei pagato, se ricevevo il conto. Il torto, se c’era, era non mio ma dell’albergo e le stanze... le stanze erano in chiaro. Di giorni ne erano passati tanti, anche se sembravano aver perso precisa successione e identità. Tante cose, in modo vago, c’erano da fare. La falsa situazione aveva ormai raggiunto la maturità. Allora io - nel sogno - partivo e trepidavo, senza pagare. Ero ben noto. Mi conoscevano da anni. Sapevano la durata della permanenza. Sul treno del ritorno, e poi di tanto in tanto, e sempre più di rado, sogno di quel conto fitto fitto, di molte pagine, d’importo misterioso, che mai non giunse a me: e che dovrei pagare. Ne sento colpa ancora. Ma pure prevale il sentimento, che non mi assolve, che quel conto merita di restare impagato: e merito io stesso che cada in prescrizione. Come accade nei sogni la logica del sogno è assai stringente.

Albergo Raffaello. Passi svogliati per la discesa. Più sciolti al piano. Poi la fatica lieta d’ascendere. Il cuore gonfia accelerato. Per brevi vie, subito erte, cresce il respiro. Oggi fa caldo. Bella giornata. Cerco di fare un poco di fiato. Cammina meglio. Buona sgambata. Siamo simpatici, noi rossini! Il padre aperto. La madre cauta guarda prudente verso l’intruso. Due giovinetti; due toni di rosso. Quello più vivo, gli occhi chiarissimi, - (è più del padre) - sorride in delizia. Messaggi brevi. Senza domande. Senza pretese. Con discrezione. Come le navi, quando s’incrociano, con le sirene. Che posso chiederti? Non so fermarmi. Non so conoscere. Ma siamo uguali. Cogli un segnale. Da solo a solo. Deve bastarci anche se fossimo posti per secoli su questa via ora più alta del campanile. La rispettosa coralità.

Tentazione di saziare la sete velenosa. Possesso delle cose, delle persone: stabile sicuro: scongiuro all’incertezza. Sono all’albergo. Dimora transitoria, che si ha, per quel che serve e si può. Come questi pensieri.

Vent’anni dopo. Gli arredi poveri ma già datati tra specchi e legni chiari il bar d’anni cinquanta tutto di quiete vecchia profumava che giovanissima feriva la memoria: ma Raffaella che un tempo beccheggiava gloriosa, adesso dal rollio pesante in tralice sogguarda, e riconosce. ”E’ rimasta la voce” dice piano (v.n. 295).

Natura e natura

In Toscana la parola natura ha due significati noti. Permettetemi un moto di fierezza e di patriottismo per questa regione che a me sembra splendidissima e fortunata, quanto più ci vivo. E’ una regione fatta di continenti, di territori, di valli e di colline, di burroni e montagne, di paesi e città: insomma, di contrade tutte diverse l’una dall’altra, e distantissime, come se fossero appunto lontani continenti, anziché vicinissime terre sulle quali una bellezza incomparabile signoreggia l’anima e la mente. Come avrete ben compreso non temo di essere considerato un provinciale di corta veduta che non conosce il mondo e si crede chissà chi, e chissà cosa crede il proprio paesello perché non ha avuto l’occasione (e forse, se l’aveva, l’ha scansata per pigrizia) di misurarsi con gli altri in campo aperto, o di confrontare le cose di casa con quelle del mondo. Anche se per parte mia, devo confessarvi, qualche viaggio e qualche confronto l’ho pur fatto, e l’ho potuto estendere con qualche solitaria lettura. Che dirvi poi d’una città come Firenze? Vi dirò soltanto che ne sono così ciecamente innamorato, da sentire il peso di questo amore al punto di non volere né potere approfondire la conoscenza che ne ho, e che è ben misera frazione dell’intero. Penso che, nato e vissuto a Firenze per tutta la vita, e avendo avuto a disposizione dalla sorte un’occasione tanto straordinaria, riuscirò a morire senza averla conosciuta. Consolazione relativa essendo, al mio desiderio di possesso e di dominio, la riflessione ineccepibile che così è per tutto: cose, eventi e persone, compresi noi stessi. Eccovi dunque un bell’esempio delle contraddizioni dell’amore. Guardando dall’alto del Piazzale Michelangelo il panorama di Firenze, mi capitò di dire a un turista, che esprimeva il suo entusiasmo, che lo capivo bene, e mi lusingava che così gli sembrasse Firenze, ma che io, di quel panorama, avevo paura. Ne ero respinto come da impresa troppo superiore alle mie forze. E soggiungevo che da tempo mi ero dedicato a un turismo minore, visitando e amando città illustri e bellissime (Lucca o Pisa o Livorno o Siena) dov’era più facile ritagliare e limitare una scelta. O cittadine illustri, ricche di gioie padroneggiabili nell’arco di una giornata, come sono numerosissime in Toscana: lasciando le quali era facile l’illusione di aver fatto propria la bellezza. Del resto i poeti hanno descritto la bellezza come cosa terribile, paurosa o addirittura spaventevole, nello stesso sentimento di quello che io soffrivo e soffro. Non c’è che dire, la bellezza complica la vita ed è umano che si cerchi di semplificarla, visto che di suo le complicazioni non mancano mai. Cosa c’entra tutto ciò col doppio significato della parola “natura”? Si è che, nelle campagne toscane (altro capitolo di bellezza) tale parola significa tutto ciò che ho ricordato e ancor più esprime “il fondamento dell’esistenza nella sua configurazione fisica e nel suo divenire biologico, in quanto presupposto conoscitivo, principio operante, o realtà fenomenica, spesso come termine, attivo o passivo, di un rapporto di ordine logico, estetico, morale con le facoltà dell’uomo”: ma significa inoltre (Devoto-Oli pag. 1261), popolarmente, “gli organi genitali specialmente femminili”, Con questo “specialmente” io non sono affatto d’accordo, nonostante l’autorità degli Autori, e sarei dell’opinione fermissima di cancellarlo. Non che gli organi maschili siano meno naturali di quelli femminili, anche se sono, ovviamente, tutt’altra cosa. A favore di questa precisazione milita, mi pare, la ragione della lingua, essendo la natura sostantivo femminile e non maschile. Né io, nelle dorate campagne della Toscana, l’ho mai sentita adoperare, in questo significato, se non in senso esclusivamente femminile. Qualche ulteriore considerazione conferma, credo, l’attribuzione del gran nome della Natura esclusivamente al piccolo territorio della natura femminile. Va qui constatato, per inciso, l’improbabilità che l’attribuzione sia avvenuta in senso contrario: da natura a Natura. Forse l’orgoglio smisurato femminile, in qualche caso singolo, è giunto a pensarlo, con riferimento al proprio personale territorio. Ma che il nome si sia così ingigantito nella generalità dell’uso, letterario o volgare, mi sembra decisamente contraddetto dalla preesistenza antica di un culto femminile ispirato a Demetra. Culto che, proprio perché ispirato a una femminilità astratta e universale, mal si attaglia all’espansione, se è vero che nel più ci sta il meno e nel generale il particolare: ma non è però vero che nel meno ci sta il più. Non mancano, del resto, testimonianze illustri che, rettamente interpretate, confermeranno l’opinione. Un filosofo e poeta di gran forza come Domenico (Tommaso) Campanella, pensatore visionario concretissimo che ragiona come Machiavelli, nel sonetto “ fatto sopra un presente di pere mandate all’autore dalla sua donna, le quali erano tocche dalli denti di quella ”, con la sua indomabile rivoluzionaria onestà intellettuale tutta volta alla libertà, all’indipendente investigazione della Natura, così scrisse: “ Quand’io m’avveggio, benché tardo omai / che solo amor può darci il sommo bene, / lo qual filosofando io non trovai / se virtù di mutar fanciulla tiene / pere in ambrosia e i tristi in giorni gai / cangiar vita e costume or mi conviene.” Pur non essendo (benché Domenico) dell’Ordine di San Domenico, la penso come lui: e sarà subito chiaro che cosa intendo. Ma prima devo sgombrare il campo dalla possibile interpretazione non corretta. Potrebbe infatti sembrare a un malizioso lettore del sonetto, che il filosofo abbia compiuto il cammino inverso, dianzi giudicato improbabile, risalendo dalla particolare natura della sua donna al Sommo Bene ignorato, benché a lungo cercato e non trovato dalla sua filosofia. Non sarebbe corretto. Il filosofo ragiona per primalità generalissime ed astratte e come filosofo della Natura (Sommo Bene). Ammaestrato dall’esperienza - nel caso delle pere - applica l’universalità al territorio concreto della sua donna. Esattamente ciò che in via generale mi appare meraviglioso nel linguaggio d’uso toscano: che il nome Natura sia stato attribuito con efficacia eccezionale ed eccezionale forza poetica, al territorio della femminilità e della inseminazione, al “consacrato fonte” (per dirla con Domenico, il maggiore) “dell’immortalitate all’appetito”. Trasumanando la parola dal generale al particolare, per designare quel patetico luogo nel quale si celebrano le fondamentali illusioni di fusione di comprensione, di continuazione e di eternità dell’uomo, il linguaggio dei toscani ha compiuto il miracolo di trasfondere tutto in uno: un miracolo di concisione di verità e poesia. Anche se, dal maggiore al minore contagiandosi il vizio, la mia postilla filosofeggia a sua volta e dunque critica cavilla e limita scrivendo: “L’ingegno il seme sparso / sul consacrato fonte / dell’immortalitate all’appetito / come ed in chi siede? / Nel rizoma lunghissimo universo / c’è forse ancora un punto o ci sarà / nel quale senza te risorgerai?” Il massimo ed il minimo. La speranza vicinissima e lontana.

Dalla parte dove batte il polso ( L’adempimento . La festa di vivere ).

Avevo giusto scritto (senza sapere perché) d’un signore soave il quale, messo fuor dell’uscio il vassoio della prima colazione e attaccato alla maniglia il cartello non disturbare, si era posto a letto e tagliate le vene. Credo che il pensiero del suicidio si accosti periodicamente a molti e nasca dalla solitudine (dei sentimenti non ricambiati o dello spirito abbandonato, o dalla depressione), e dal timore della morte, paradossalmente: essendo questa l’unica medicina per curare sia il timore che la morte stessa. In ogni modo il pensiero venne e suggerì spontaneamente un mezzo che sarebbe interessante quantificare in percentuale, consultando le statistiche dei suicidi. Personalmente, dalle cronache che mi sono capitate sott’occhio, non credo che il mezzo sia oggi molto frequente. Eppure si tratta di un metodo classico, se è ricordato nei libri. Il bagno caldo (per attutire il dolore e la sensazione di freddo crescente, man mano che il sangue defluisce), la diletta schiava al fianco, e, di tanto in tanto, la benda che stagna il flusso tamponando i polsi (o il polso?) tagliati, quasi a gustare a sorsi la morte resa più serena da musiche o letture o conversazioni: scusate se non ricordo bene ma tanto tempo è passato da quelle immagini (allora di lontano estraneo sogno) che ben può darsi che la memoria le abbia destrutturate in parte, in altra parte ricostruite deformando arbitrariamente il tessuto originario. Lo stesso nome del personaggio descritto mi pare incerto. Era forse Petronio, o poteva essere anche Mecenate, con un dubbio assai secondario che fossero magari tutti e due. Certo, mi consolo, non era Cicerone la cui lingua (o linguaccia) fu inelegantemente servita a Cesare Augusto su di una tavoletta: lingua debitamente infilzata come le farfalle da collezione predilette dagli amanti dell’entomologia. In mancanza di ricordi sufficientemente precisi delle altrui esperienze, il suicidio in questione io lo ricostruisco, tecnicamente, così. Senz’altro un bagno ben caldo con la precisazione - non so quanto prevista o documentata dalle cronache - che la vasca dev’essere tenuta a livello costante ma con acqua corrente che via via illanguidisca il colore del sangue che defluisce e si diluisce. Questo colore in circostanze occasionali sogguardato, parte da una espansione nuvolosa, presso la sua fonte, bella per il colore e le volute: ma presto si ammala, perde vivezza, muore e sporca. Conterei invece che la presenza dell’acqua corrente attenui l’inconveniente e consenta semmai di ammirare assai meglio le espansioni nuvolose dalla fonte. Inoltre, per quanto sia incongrua ogni preoccupazione che superi il tempo tecnico di questo tipo di suicidio, c’è il vantaggio che si evita l’imbarazzo dello “spargimento di sangue” (il linguaggio custodisce immagini precise) e inoltre il vantaggio di non esibire un cadavere intriso e impresentabile. Il quale, al contrario, sarà -al malcapitato inventore (colui che trova)- di nettata presenza, e anche conservato caldo nei primi maneggiamenti, ed elegantemente esangue, di un pallore cereo che è stato spesso attribuito a Dame, ma anche a Cavalieri di aristocratica presenza. Riprendendo il filo del discorso, bisogna evidentemente fare un passo indietro e riportarsi (pazienza se ne occorre più di uno) all’inizio della sequenza, immaginando, in prima persona, di essere sul punto di entrare in vasca ai giorni d’oggi, con il conforto del progresso che la nostra presuntuosa supponenza ci fa credere. Occorrerà sicuramente un bisturi molto fine e, se si vuole e non dà noia l’odore, un po’ di cloroformio. Per cui entrati si possa anestetizzare e tagliare con gesto secco e profondo quanto basta, io credo, là dove batte il polso e dove sarà stato preventivamente controllato il battito, forse accelerato dalle circostanze. Per chi non sia mancino o ambidestro la scelta è obbligata: bisogna operare con la mano destra sul polso sinistro, a meno che non si possa contare su un aiuto efficiente e sicuro. Questo è un aspetto forse opzionale ma delicato. Ai tempi di Petronio la partecipazione del terzo, se desiderata, era semplicissima. Uno schiavo non si sarebbe mai sognato di deludere o disturbare noiosamente il suo Signore. Uno schiavo affezionato e di buon cuore, tra tanti, si sarebbe certo trovato: mentre oggi è difficile altrettanto. Inoltre lo schiavo, essendo storicamente oggetto e non soggetto, mai avrebbe potuto essere coinvolto nel fatto, specie presso i Romani, che -finissimi giuristi- non si sarebbero mai sognati di imputare qualcosa ad un oggetto. Mentre oggi, un giovane e colto Procuratore della Repubblica potrebbe magari imputare al collaboratore un’omissione di soccorso verso l’amico deciso a lasciare il mondo come e quando a lui piaccia. Perché, potrebbe argomentare il giurista di oggi, mancò di prestarlo al moribondo - ancorché contro la volontà di lui - concorrendo a un evento letale del quale potrebbe essere addirittura ipotizzato coautore intenzionale e dunque, essendo vivo, imputabile. Nessuno può pensare a cuor leggero di dar siffatte noie a chi lo aiuta. Ma a tutto c’è rimedio. Trovato l’uomo, o pur la donna (che Diogene insegnò assai difficile da trovare) basterebbe suggerirgli di sparire senza lasciar tracce dopo il fatto, che essendo sicuramente di suicidio si presenterebbe come opera singola -non so se capolavoro - del suicida. Mi sono trattenuto sulla figura ipotetica dell’aiutante (che come tirapiedi aiuta il boia: tirandoli, mentre costui spinge bruscamente il condannato in basso da dietro le spalle) perché nell’analisi tecnica questa figura parrebbe di rilievo per attenuare possibili rischi. Quello, ad esempio, che il protagonista, avviandosi si spera dolcemente a perdere conoscenza, finisca con la testa sott’acqua e si trovi dunque, sia pure in extremis e forse in situazione di semi-incoscienza, a patire la morte per annegamento mentre il pregio che si va cercando è quello di una morte libera e indolore. Devo confessarvi che io una mezza idea in proposito l’avrei, ma, gira e rigira, si deve ammettere di non saperne abbastanza. Mi occorrono alcune informazioni che solo la scienza medica potrà fornirmi, necessarie peraltro prima di prendere partito definitivamente. Non mi pare al momento necessario, perché, dando per scontata una tecnica sufficientemente accorta ed affidabile, siamo arrivati a uno dei punti cruciali del problema. Quello della morte indolore : che di per sé non è un problema non esistendo né prima - quando si vive - né dopo l’evento.

(Oh, mio Ignorato Allocutore ti ringrazio di avermi fatto vivere abbastanza per comprendere per gustare così completamente l’importanza e la gioia d’ogni momento che mi farai ancora vivere.)

Siamo dunque in presenza di un lato del problema, o semplicemente del problema che occorre avvicinare con spirito libero e nel massimo rispetto: il problema del dolore. Ci sarebbe da stupirsi che il mezzo tecnico riesumato non abbia trovato più frequente utilizzazione nel caso, ad esempio, della pena di morte. Ancorché qui s’innesti un’altra difficoltà, come quella di superare la mancanza di collaborazione da parte del condannato che più facilmente poteva trovarsi nella cultura classica, venata di stoicismo: oggi quasi incomprensibile, se non come attributo vago e privo di attualità. Socrate aiutò la cicuta seguendo disciplinatamente le istruzioni del boia che gli presentò la coppa: ma anche quella morte mi sembra, comunque, peggiore per la presenza progressiva e crudele del freddo che salendo dalle gambe fermò quel gran cuore. Che, sia detto per inciso, volle morire e cessar di battere, per mezzo del suicidio che patì con la scusa dell’esempio e con quella di testimoniare l’osservanza alla legge e la sua chiara umanità, ma che volle - io credo - per sfuggire al dolore. Perseguendo nobili intenti pedagogici, ma inseguendo (insegnando?) a livello più profondo anche la civilissima libertà di morire, quando e come si voglia. Torniamo al problema con questo autorevole viatico. Perché mai l’uomo dovrebbe accettare di soffrire? L’autore, nei giorni scorsi, ha dovuto domandarselo necessariamente. Un cagnolino mordace, crudele e spesseggiante, lo tormentò d’improvviso, mutando da un attimo all’altro una condizione di vita precaria per l’età e non priva di disagi, ma sostanzialmente accettabile, anzi (a contentarsi) gioiosa. Piena ancora di creatività e quindi della divina gioventù della vita. Questo cane morde furiosamente: i suoi denti s’affondano nel piede e nel luogo del piede che arbitrariamente sceglie. Lo dilaniano ferocemente senza dilaniarlo. Il morso è improvviso e variamente s’inoltra. Cambia la profondità, cambia la durata. Strappa e poi decresce, lasciando nell’attesa impaurita e vile del prossimo assalto, che inevitabilmente giunge. Non c’è rimedio, salvo alcune goccioline. Attenzione: non più di tante, altrimenti tutto si scompiglia nella dolorosa carne: lo stomaco l’equilibrio la nausea, dove lo spirito si sperde perfino negli intervalli del morso, ed allora il rimedio diventa peggiore e si aggiunge al male. Dopo una notte insonne di muto dialogo col cagnolino, le gocce in debita dose fecero effetto e, miracolosamente, la vita ricominciò. Al termine della notte bianca, più nera dell’inferno, mi svegliai (anche se mai avevo dormito) con la decisione evidente dinanzi agli occhi. No. Il dolore, la morte dolorosa - se si può, se è dato in qualche modo - non deve essere accettata. E se fossi assalito a tradimento, privato della libertà di operare? Se mi trovassi prigioniero di me (un ictus, una paralisi) e parzialmente cosciente? Meglio rinunciare a qualcosa? Ma chi mai ti avvertirà del momento? Far come Socrate, patirla quando ancora si può decidere. O almeno avere chiare le idee, essere pronti ad alzarsi precipitosamente dal convito, a uscire dalla porta più vicina, via dal turpe dolore. Devo capire bene, abituarmi all’idea, decidere, operare. Ma l’istinto (penso), il benedetto maledetto istinto della vita, s’affaccia, pretende di interloquire sotto veste di problema morale: “Devi subire la condanna alla vita”. Perché? La vita non è per me né una condanna né il male di vivere. E’ la festa di vivere. Piena di gioia finché dura con accettabile margine utile. Non vedo il suicidio in termini di trasgressione (a che cosa?) ma di adesione. Se non posso decidere di nascere, nato e nato libero, è mio diritto di libertà, mio rischio mio problema scegliere - se potrò, se potrò!- quando e come morire. Questa non è stolta ribellione, ma adempimento di una superiore volontà che ci fa percepire la vita come un bene, come un dono : e come festa di straripante amore. Questo mi deve essere chiaro anche se sarò inetto, anche se non sceglierò a tempo, anche se ricadrò in questa orribile miseria di “finir male” e non potrò realizzare il sogno di un bel cadavere esangue e pulito, nato dolcemente e lasciato in decente eredità a chi debba occuparsene: correggendo un’evidente distorsione della natura a nostro danno. Come si corresse il freddo col fuoco, la fame col cibo, l’ansia con la sicurezza di un tetto, la tempesta col rifugio: per vivere, per gioire della vita e della sua straordinaria, tracotante, infinita bellezza. Rivendico al suicidio questa dignità: quando sia coraggio di salvaguardare la vita, e non vile fuga solo perché il capriccioso vivente non l’accetta (stando e vivendo benissimo e magari gustando a piene mani la gioia di creare): per un imbelle ed imbecille pretesa, per atteggiamento di incontentabilità. Il problema è il dolore che morde ed attanaglia, e non il dolore che consente e dà sapore alla vita. Dopo la nerissima notte bianca ho dormito sulle mie benefiche goccioline. Quanti tormenti dell’anima al risveglio, di cui queste righe danno testimonianza! Ma quanta gioia scorre dalla penna mentre ve li confido! Io credo che la bellezza consola mentre uccide. E così sia - se mai sarà - della buona morte: del suicidio figlio della libertà: partorito dalla gioia di vivere.

La sorte spinge. Carezzando il tormento che il pugnale al Poeta tentò, per mano di Amleto.

Harakiri lirico. Perdere la bellezza questo è il pugnale che taglia fulgidissimo ogni voglia di vivere ancora e mentre affonda ancora consola (l.m. 34).

Un ragazzo in Costiera Amalfitana.

Ero io. Ma non sono io. Io sono quello che racconta tentando di ricordare. E’ già dubbia - e non ricordo - la ragione della scelta. Del viaggio, anzitutto. Si tratta dei primissimi anni Cinquanta, degli anni di Università, perché il viaggio, questo lo ricordo bene, si svolse d’aprile, quando sulla costiera era bassa stagione e anche i turisti erano ai primissimi arrivi. Certamente non si svolse durante il liceo, perché la scuola media non consentiva, ricordo, un intervallo libero di un paio di settimane in quella stagione. Non fu, d’altronde, un viaggio (come altri) per studiare da solo, e con calma per qualche esame. Non ricordo assolutamente la ragione di quella vacanza. Forse dovevo distrarmi o superare qualche amarezza, qualche delusione che ai giovani non manca mai. Avevo insomma poco più di vent’anni e per quanto allora gli studenti cominciassero a muoversi con naturalezza maggiore, non era comune assentarsi da solo dalla famiglia. I giovani erano poveri ed io non amavo né i sacchi a pelo, né gli zaini, né gli atteggiamenti disinvolti o sportivi: che avrei desiderato ma nei quali non mi sarei sentito a mio agio. Ero timido e si può dire che temessi la sfacciata gioventù, anche se ero aperto alla gioia. Chissà quali furono dunque le ragioni della scelta (la costiera amalfitana e più precisamente Positano). Il viaggio da Firenze, non si svolse certo con un mezzo proprio: allora erano rare le macchine e rari anche i motorini, per i quali non avevo del resto la minima propensione. Certo ero del tutto solo e non si trattava di una scappatella, sicuramente desiderata, ma superiore alla mia capacità d’iniziativa del momento. Una sorta di ritardo nell’esperienza pratica, anche se non nell’immaginazione delle cose concernenti il sentimento o il rapporto tra i sessi. Stasera è nato, da una conversazione occasionale su quel breve soggiorno sulla costiera, il desiderio di cimentarmi a darvene conto. Si tratta di lacerti usati dal tempo, abrasi, stracciati e ricostruiti a larghe maglie ed arbitrariamente. Come un mantello di cenci disuniti che non ripara e quasi non serve più, ma c’è voglia di indossarlo come se potesse offrire un tepore desiderato e precario. A Positano abitavo in alto, dove costava meno, e c’erano tante, tante scale. Che mi parevano interminabili a scendere e a risalire, anche se una notte due signorine tedesche, romantiche e meno giovani di me, compitarono con insistenza a mia richiesta - e io con loro - una frasetta di quella lingua da noi poco nota: “Ich bin zufrieden”. Scendevamo insieme a tre quelle scale dove l’una attendeva due o tre gradini sotto di me, con l’altra che si concedeva qualche bacetto e qualche inesperto maneggiamento (tanto per rendere omaggio, credo, al mito dell’ amante latino , malamente impersonato) e poi scendeva a sua volta alcuni gradini in più mentre io sostavo con la sua amica e ripetevo l’impresa. E così via di gradini in gradini e di zufrieden in zufrieden fino alla fine di quelle scale e del soggiorno delle nordiche pulzelle che si concluse in effetti la mattina, senza che di più fosse fatto. Né so dove mai finissero quelle scale, che per lunghe che fossero dovevano pur finire. Non mi ricordo della risalita, che suppongo più lunga: più faticosa con minori fermate e con qualche visione delle luci della Buca di Bacco, locale già famoso e frequentato dalla nobile schiatta delle famiglie o più cospicue o più titolate di Napoli e Salerno. Entratovi una volta chissà come e trovando chissà dove il coraggio di chi guarda dagli spiragli, conobbi un dorato ma ben più sveglio ed aitante giovanotto che si chiamava quasi come me (secondo nome mio e nome suo identici e il suo cognome solo con una esse in più) ed una nobile e dorata fanciulla giovanissima che (la dolce vita era ancora di là da venire) si mormorava avvezza alla cocaina e ai facili amori. Fragile e bella nella sua aria di perduta snob, minuta e con grandi occhi cerchiati fuor di misura che ballava abbandonata al cavaliere di turno, come se fosse gettata e lo volesse; gettata proprio via da sé. Rammento la curiosità stupita e il dolore di quello spreco -che sembrava insensata e turpe offesa alla bellezza- ma non so dirvi come quella serata finisse o che parte vi avessi. Torna lo sciacquio del mare su quella costa a ciottoli, dura sotto le calzature più che a piedi nudi e dolorosa e bella nella luce notturna incantata. E poi s’apre un altro strappo dell’ignoto che si ricuce mentre sto trattando un modico prezzo col vetturino Antonio (quasi non c’era persona che non si chiamasse Antonio) per l’affitto della sua carrozzella e del cavallo: lire cinquemila per tutta la giornata. E noi tre che partivamo insonnoliti, facendo curva dopo curva, seno dopo seno, mare dopo mare al trotto e al passo tutta la costiera da Positano ad Amalfi: la chiesa sulla scale, la ripida piazzetta la facciata a strisce bianche e nere: o bianche e verdi? E poi da Amalfi su fino a Ravello alle ville Rufolo e Cimbrone. Un parco in piano che sotto gli alti pini s’avvia al grande scoglio: ed ogni passo sembrava un ingresso, un nuovo ingresso ancora, una cascata d’aria e di bellezza sacra, piena, pia su l’erba e gli aghi leggeri fino ad un balconcino, minima coffa arcuata che s’apriva a un’intollerabile veduta, magnificenza pura che volava da Ischia a Capri, dal golfo di Napoli a quello di Salerno. Costretto ad abbassare gli occhi, troppo piena troppo piena la sfolgorante gioia, la bellavista che superava la parola e riposava poi sulla porta di bronzo del duomo di Ravello, coniata prima di quella del mio Battistero. Giornata piena, un lampo lungo eterno fino alla prima sera, quando al ritorno scesi e già pungeva il freddo. E qui la sosta, nolente Antonio, il cavallo indifferente e saggio, alla bottega d’un ex marinaio che dai legni induriti dal mare, da un catalogo d’arte orientale e dalle sue mani che non legavano più nodi ma tagliavano ad arte quelli del legno, accarezzava e costruiva le statue aliene, esotiche che comprai senza aver denari e costui da signore mi concesse credito, con la generosità della sua semplice arte aristocratica e terrena.. Poi la strada dell’ultimo ritorno a notte incominciata, con me sdraiato e stanco sulla carrozzella, avvolto nella coperta del cavallo, e Antonio rassegnato d’aver quasi donato al ragazzo una giornata felice. E ancora adesso, e nemmeno allora, so cosa vidi, perché senza sguardo me lo disse la gioia dentro di me, impegnata a tener testa al flusso infinito che aggrediva attorno. Non ricordo il sonno, non so d’aver pensato il mio ricordo a pezzi innamorato. Il treno per Salerno sembrava una tradotta. Impauriva la linea ad un binario solo, e il rumore sconnesso (come d’altro treno che arrivasse) suscitava visioni di campagne e branchi di bufale nitide scolpite come in punto di morte, se così si dice. E le persone: civili, ingrigite, parche. Come il vicolo sconnesso a fianco dell’Università (Primum non nocere) lunghissimo in salita. Al muro antico appoggiate le bancarelle (il carro col mulo talora accanto) traboccanti di messi bufaline, di formaggi variati a dismisura di fogge e di freschi sapori: il ragazzo goloso che impugnava una frusta croccante di pane nuovo che apriva ad ogni banco o quasi, fino alla cima. Panini gonfi di mozzarelle tonde a treccia, ad ovuli, a saccoccia, colanti e fresche, mangiati in allegria nei tocchi di frusta divisa: finché non finì la frusta e non finì la via. Ma la panica dovizia ebbe il colmo in altro lacerto, in un altro giorno. A Nerano (quasi nessuno sapeva dove fosse: perché ci sono andato e come o per che strada?) in cima al golfo di Napoli prima che svolti verso la costiera, a sud. Poche case niente da mangiare e finalmente una spiaggia sassosa di ciottoli generosi, più grandi ancora di quelli già noti, ormai verso le due pomeridiane, dove periclitava una baracca un’osteria, un pittoresco emporio adorno di cordame, di pomodori appesi a seccare ed una lunga veranda a pochi passi dal mare. Proprio adesso è rientrata la barca, venga a vedere. La rapida imbandigione: aragoste, gamberi, acciughe ancora vive e l’aspro vinello pieno di sapore che le riconosceva con il suo vigore. Stavolta il ragazzo era ebbro nell’accogliente scia di pesce, pescatori e gioia (oh, gioia mia!) e finito il festino semplicissimo, superbo, non si teneva più. Visto un fucile a due canne appeso, chiese di sparare. Perché? La domanda non era diffidente e la risposta - perché voglio far festa - non stupì nessuno. Due colpi di fucile in aria, due scoppi gioiosi: come fuochi di giorno artificiali di suoni, chiusero il canto, l’omerica giornata. Ma nulla, di nuovo, sul ritorno. Nulla della partenza da Positano a Firenze. E ancora non so il perché di Positano. Napoli era prossima, capitale bellissima e superba, o anche Salerno: ma quella fu la meta. Preordinata? Prescelta, ragionata? E’ tutto qui, d’altro non so. Ero solo. Ma ora ancora tra questi pochi stracci immaginati o rivissuti o ricordati, non sono solo: non ho sentito mai d’esser solo. Tanto aggrediva, colma, la bellezza. Ogni cellula una certezza, una carezza.

L’incorruttibile scoperta vera sincera che sicura ci ha donato il pensiero, l’incorruttibile vero è la coscienza di dove morire di non poter accettare l’ignoto della forma che deve finire la stessa forma che ti fa pensare, godere della tracotante bellezza della festa di vivere (c.v. 108).

Ambizione

C’era una grandissima folla. E non so come né perché mi sono trovato anch’io in stazione, con una sensazione di grave pericolo, costretto a contendere per salire in treno. Il momento era terribile. Si sentivano i motori che dal cielo portavano ululando la distruzione che strideva fuggendo per le strade. Il treno sostava esposto senza scampo ad ogni danno della sorte, un lungo lumacone luccicante sul quale s’accalcava per scendere e salire gente d’ogni parte e foggia di vestire. Sembrava che nessuno volesse ritardare. C’erano notizie scoraggianti. Più oltre, in galleria, colpito all’orifizio nero un treno incendiato per inerzia s’era inoltrato e il fuoco e il fumo facevano una strage. Qualche scampato ancora ne tornava stravolto annerito con gli occhi sbarrati lacrimosi che gridavano più del silenzio. Eppure ritentava di salire spingeva per far presto: ed io lo stesso, arrivato allora, maculavo inutilmente le mie vesti, smarrito sospinto incoraggiato, non so perché, a ritentare ancora. Sta di fatto che gli scompartimenti erano pieni di gente stretta anche sui braccioli, e d’altri in piedi appesi e tentennanti, con la mani schiacciate dai bagagli che ingombravano anche i corridoi, dove passare era un’impresa da giocolieri di necessità. Ma tutti sfoggiavano buone maniere. Nel terrore non c’erano insulti. Solo il rumore che frustava fuori e l’incessante tentativo di muovere dal posto, come se ciascuno avesse in mente un programma preciso e fosse in grado di tentare ancora. Mi sembrava una cosa senza senso. Ne restavo sbalordito ad ogni istante. Ma cercavo ostinato diligente il mio scompartimento riservato.

Che cosa torna questa notte in sogno? Ritornano le bestie i mostri dell’infanzia.

Mille e una

La creatività, amici cari, è fastidiosa. Reclama spazio, e dunque lo sottrae, agli altri e a sé. Determina necessariamente conflitti. Tanto più quanto si dilata, o - si potrebbe dire - è generosa: spogliando il termine da ogni connotazione positiva di senso. La creatività (se altrui) si espande e minaccia coloro che debbono subirla non richiesta. A volte, raramente, il muro del suono si spezza e l'eccezionale impulso dilaga rombando nello spazio. Anche in questa ipotesi la creatività comporta effetti tutt'altro che gradevoli: una sorta di rancore sordo dei destinatari (ma perché mai doni siffatti e incoercibili?) e nell'autore stesso: sempre vagamente deluso, anche se, innegabilmente, gode di creare: e tanto più gode se -essendo genuina la creatività - quest'ultima è un obbligo senza scampo. I quali effetti si dilatano al tempo gemello dello spazio: sottratto (il tempo) a sé e agli altri. Una vera e propria calamità. Non c'è scusa che tenga, nemmeno la mille e una. Ciononostante, per contraddizione logica ed assurda, Domenico sente la necessità di parlarne con l'Interlocutore che ha sempre sottomano. Ne è nato un raccontino, o più semplicemente una curiosità, un bisogno di conoscere. La forma è quella di processo: nel senso però di mero percorso, di moto a qualcosa, che in nessun caso tende a verificare e tanto meno a addebitare responsabilità di sorta. Nessuno ha colpa di ciò che scorre perché scorre.

Milleuna

La giuria non ha avuto esitazioni e la condanna è stata unanime. li condannato non ha intenzione di proporre appello e lo dichiara. Tutto risulta semplificato. C'è un'atmosfera cordiale tanto quanto le circostanze lo consentono. Tutti pensa Domenico - siamo colpevoli e lo ripete convinto a me, suo peggior nemico: l'innocenza non ha senso. E neppure la sincerità. Il Giudice, dovendo commisurare la pena al fatto, aggiorna l'udienza al primo pomeriggio per sentire, in proposito, il punto di vista del condannato. Tutto deve svolgersi secondo le buone forme: Socrate insegna aggiunge il dotto, con un sorriso.

Per chi ha intraveduto le circostanze che hanno attraversato la puerizia e l'adolescenza di Domenico, deformandole furiosamente come d'uso, il raccontino riprende le mosse dalla fine della seconda guerra mondiale: che ha sconvolto tutto. Procopio pensa che la Forza (oggi meglio dire l'Energia) domina la storia e la singola vicenda delle persone. Si può immaginare come un sangue che naturalmente zampilla in ciascuno, a modo di fonte. Generosa in Domenico. Non forza fisica. Anche quella dei sentimenti era disarmata e fragile agli impulsi copiosi sia del dolore che della gioia. Per taluno la vena è scarsa e basta appena a sé stessa. Si torce difensivamente e defluisce facilmente, poco o nulla restando a disposizione di chi si avvicina. Talvolta invece il rivo trabocca a casaccio, e talaltra devia per canali orientandosi con quel tanto di misura e direzione che può essere imposta al disordine: nel limiti del libero arbitrio. Si sarebbe sentito musicista (ma non ne ebbe il talento) e dunque -finito il liceo- l'alternativa desiderata era o la filosofia o la fisica pura che hanno in comune l'attitudine alla conoscenza e alla solitaria operosità della mente e del cuore: ben distante dal gorgo e dall'urto diretto delle cose. Tutto era da ricostruire: e dunque Domenico si vietò l'una e l'altra alternativa: sordo al più genuini impulsi della sua personalità. Ne venne, tutto all'opposto, una scelta etica e imprudentissima insieme di vita pratica: aggravata dal suo spirito agonistico. Allo studio e alla pratica del diritto, (al bonum civium) furono dedicati e concentrati i pochi raggi della sua luce - se così può dirsi -fino al punto di farsi piacere ed amore di cose distantissime da sé e presto amatissima parte di sé. Nella qual via inoltrandosi, a prezzo non vile, man mano crebbe nel concorso di circostanze favorevoli e faticose, un pieno successo professionale e concreto, nel quale restarono come affluenti minori sia una certa attitudine alla teoria generale del diritto (non così distante dalla filosofia) sia una gratificante e precocemente intensa attività pedagogica (non lontana dall'etica): amatissima quest'ultima da Domenico. Nel successo della professione e della distrazione pedagogica ebbe parte essenziale il suo carattere. Coloro che erano assistiti come coloro che ascoltavano nell'aula, percepivano l'interesse la curiosità la solidarietà umana e professionale per loro (e non per l'utile che peraltro cresceva nel corso del tempo, fino a dilagare come risultato indiretto) tanto da far perdonare un vistoso costante difetto di informazione (di "fisica presenza"): sentendo come vero e genuino l'atteggiamento che considerava meglio operare che comunicare: secondo la regola del buon artigiano che bada all'oggetto e "sacrifica" la persona (prima di tutto sé stesso) che ricompare semmai dopo , senza apparire . Una sorta di poietica cromosomica riconosciuta: quasi una famiglia da proteggere come quella del sangue alla quale il nostro mostrò propensione naturale e fortissima: tanto da fargli “sperare" sei figli (ne vennero quattro: i giurati). Nel giro di diciassette mesi nacquero la primogenita e il secondogenito (nella prima casa apparecchiata al matrimonio ovviamente ritardato da mille ostacoli pratici) e poi, con l'intervallo di alcuni anni, la terzogenita e poi l'ultima figlia, separate tra loro da un intervallo di circa tre anni. La terza nascita costituì una severa scossa: non per la dolce bambina minuscola che venne alla luce curiosissima (tanto da sollevarsi nella culla per più forza della schiena a dare un'occhiata attorno, prima di ricadere sdraiata) ma per la ragione pratica che cedettero per sovraffollamento le strutture del primo modesto appartamento ed inoltre perché si rese evidente che il terrorizzato padre avrebbe dovuto cercare od inventare ben altra misura alle risorse della famiglia. Cosa che si realizzò via via con un effetto valanga: nel quale si inseriva la ben nota rincorsa tra bisogni e risorse e viceversa. Avvenne così che dopo alcuni anni trascorsi in un più ampio sito familiare, (reso purtroppo disponibile dal vuoto lasciato dalla perdita prematura della madre) fu rischiosamente comprato un cospicuo immobile appena fuori città. Seme delle così dette caseaccanto: così designate nel lessico materno ed in altre occasioni designate, in quel lessico, le "catapecchie". Il nostro coltivava (uno dei suoi tanti miti visionari) anche quello della civiltà contadina: e voleva offrirla alla moglie e al quattro figli (frattanto anche l'ultima era stata donata dal caos generoso). E la rincorsa continuò. Fatto questo passo determinante in collina sì dovevano assicurare le risorse per mantenerlo, meno precariamente di quanto potesse essere assicurato da una libera professione. Come in un complicato delta verso la foce, il corso si ramificò e si intrecciò in cose case e rincorse parallele che sfogarono ad iosa sia il suo amore per la architettura poetica sia quello per la poesia architettonica sia il terrore di non fare abbastanza. Il vizio di scrivere "righe" (così Domenico le chiamava, con se stesso e con me: per ragioni sue tra le quali non ultime umiltà ed incertezza) ha dato vita a nove volumi (compreso il presente) pubblicati dal 1995 in poi. La diga al riparo della quale s'era accumulata filtrata distillata l'acqua d'una vita (al tocco inopinato del campanello che suona per avvertire che i giri della giostra stanno per finire) si incrinò in fontanazzi che diruppero il deposito: che mai avrebbe dovuto mettersi in moto. Tacendo d'altro e andando alla rinfusa, le figlie hanno da tempo ciascuna il proprio studio e le "caseaccanto" (o catapecchie) sono ricolme. Al figlio sono stati successivamente offerti tre siti di riferimento, alla primogenita ne fu offerto uno ora raddoppiato, alla terzogenita un altro che sta per raddoppiarsi, e all'ultima nata prima un sito e poi un altro più confortevole. Tutti e quattro sono ormai da tempo uomo e donne "fatti" -meravigliosamente sbocciati tutti nel figli loro (in complesso un folto gruppetto di otto nipoti uno più bello e bravo dell'altro) e nelle loro professioni: dove sono stimatissimi ed impegnati, con la precisazione che la terzogenita non è del tutto a suo agio nel ruolo che il padre servone, per una volta, -Domenico ne è pentitissimo- ha troppo consigliato. Le condividesse o meno - Domenico ha in definitiva supportato e aiutato (del suo possibile) le decisioni di ciascuno. Tanto che ciascuno ancora attinge - se vuole, quando vuole, e spesso senza accorgersene - a quel che ancora possa dare di conforto o di sostegno. Al "luogo comune" si aggiunsero ancora una serie di iniziative e risorse che avrebbero dovuto essere leggibili, al di là del beneficio concreto, come segni di un valore più alto questo sì - davvero prezioso. Purtroppo il fraintendimento (la naturale difesa) ha fatto premio, ben oltre la sua inevitabilità: ed è inutile recriminare. Semmai incuriosisce la ragione per la quale una figura paterna non poi deteriore rispetto a tante (troppe) nelle quali l'egoismo meschino si spinge fino a contendere vergognosamente un minimo di elementare protezione alla prole, abbia potuto assumere una connotazione "nemica" dell'uno o dell'altro: con una vena serpeggiante di giudizio che si aggira intorno al concetto di abbandono e, perché no?, di sfruttamento a fini propri o esclusivamente propri. La mancanza di questa ragione è a sua volta ragione del l'accettazione della condanna. Domenico può dire con solitario orgoglio che ciò che consegna al figli che ormai non hanno più bisogno di nulla salvo che della tenacia di continuare ad essere come sono, è un patrimonio raro di lealtà e di disinteresse personale fondato sulla competizione onesta e assolutamente trasparente. Non ha fatto nemmeno come Manzoni che lasciò vergognosamente morire Matilde affogata mille volte prima della volta definitiva nel suo stesso respiro: abbandonata a Pisa -come un bagaglio in deposito - alle cure (vada a loro merito affettuose) della sorella e del marito di lei, padre padre autentico, mentre il grande letterato (Domenico si rimprovera anche la letteratura) le rifiutò il conforto implorato di una sua visita prima di morire: con missive trasudanti ipocrisia. Lo scaricabarile dei coniugi è certamente inutile umiliante e logorato dalla ripetitività. Se Domenico ne parla è per debito di verità (cosa del tutto soggettiva) - che nessuno conosce - e lui meno di chiunque altro. Però se Vostro Onore cercasse giurisprudenza in proposito la lettura -che il Magistrato compie accuratamente - dei documenti consegnati alle stampe, convincerebbe chiunque che quelle pagine sono vita autentica e soggettivamente vera: e martellanti (questo vero) con la forza della più insistita convinzione. In un documento del quale è stata autrice una psicologa, Domenico lesse senza meraviglia l'affermazione altrettanto convinta della madre, che lei, nel matrimonio, "non si è mai concessa". Come si fa a sposarsi e a non concedersi? Questo al figli deve interessar poco. Non fosse che è venuto a mancare l'indispensabile tramite perché tanta confusa straripanza paterna, venisse fatta percepire -almeno con le sue ragioni- ai figli: liberi poi, ovviamente, di giudicar come volessero. Le diverse forme cromosomiche della immaginazione di Domenico dovevano pur condurre in qualche caso (se non altro statisticamente) ad una condivisione, ad un apprezzamento, ad una almeno labiale coincidenza. Mai una parola mai. Che non fosse di lagnoso fastidio o di contrarietà. Mai un interessamento più o meno fattivo: non parliamo di lode. Che veniva a iosa da altri per cause futili, si direbbe, rispetto a quelle originate dalla profusione familiare di Domenico. C'è stupore sempre rinnovato ogni volta che il pensiero si indugia, anche se ormai la polvere è calata.

Il punto di vista domandato a Domenico, (che viene dopo la condanna accettata e perciò particolarmente inutile) è che un argine di compostezza, un argine di simmetria doveva emergere nella sua semplicità. Le cure parentali, il conforto elementare, ma fondamentale del nido. Proprio come in natura sì predispone il luogo - anzitutto - e si traccia il vallo che protegge le vite giovani: dove il nutrimento, dello spirito e della carne, trova agio sicuro di consumo e di crescita. Coloro che ne usufruiscono non si domandano di dove venga il loro supposto diritto che emerge solo se manca. Non ne portano, né debbono, gratitudine. L'impegno non facile sottrasse tempo: a loro troppo tempo. L'ala restava in moto al difficile volo o ripiegata nella pausa. Sull'argine purtroppo non c'era chi guardasse: né poco né molto: anzi mancava l'argine addirittura e non apparivano né serenità né architettura. Il legittimo orgoglio di operare si deturpava in egoismo vile che non era: ed anzi era straripante amore delle cose, delle persone e del loro dolore. Ogni pietra, ogni atto, un atto d'amore. Spogliato il quale sono rimasti ciottoli scheggiati e pungenti. Non compiutamente apprezzati neppure come umile fondamento di coloro che poterono costruirvi sopra la loro cura parentale.

Il raccontino di fantasia finisce qui. Non é vero. Ma forse la conclusione (o la preghiera) é vera.

Invoco da Vostro Onore la determinazione massima della pena.

Purché la condanna, quasi interamente scontata in attesa di giudizio, restituisca, nel ricordo, una vita utile. E a Domenico la preziosa libertà di essere ora come avrebbe voluto essere, non dalla fine ma dal principio.

Gli annali di un giorno.

Questo è proprio un incidente. Dovuto al ritardi del proto e dunque aggiunto in cianografica ed all'ultimo momento quando già corrono le macchine. Se non vi piacesse, com'è probabile, prendetevela con chi mi ha messo fretta.

Ti aggiri col lumino nel mio buio. La caverna è grata, mentre gocciola per stalattiti e cresce per stalagmiti. Ma vede cosi poco il generoso impegno: che scivola e nasconde, senza trovare il buio. Che ora ti parla, né sa come prestarti aiuto. Posso descriverti un mantello morbido che s'agita e percorre le pareti. Il silenzio il freddo. La lontanante strada. Posso, qua e là, segnalarti un sasso, una breve spiaggia che contorna la polla nera. E dentro strani esseri che si discostano dal cono passeggero. Sembrano ciechi ed adattati bene: candidi mollicci come seta, che pure sentono la luce e si allontanano, come disturbati. Nel loro ambiente la vita si avvicina e corre nel profondo, cercando la sua preda che fugge e si nasconde. Sono vivi da tempo immemorabile e suscitano rispetto e compassione. Più in là le rocce brillano screziate. E se lo senti c'è un rumore lieve, un gocciolio dolce e persistente. Cosa ti ha portato nel penetrale oscuro? Com'è tracciata la tua incerta strada? Tutto s'incanta nel tuo lento andare tra le paure e i venti misteriosi che or ora freddi scendono nel mistero: e un brivido percorre ed indica il cammino, o così pare. Chi sa se dura l'acetilene. Però non vedo moscerini: nulla vola. Ed anche questo è strano: e piano piano ti vedo scomparire. Forse hai preso una diversa via. Forse riscopri dove non so seguitarti, né seguirti ancora. Ma posso immaginare la ricerca, il tuo curioso andare. Forse hai trovato modo di risalire e forse hai sbagliato strada. Forse seguendo una falda di luce sei giunto alfine a rivedere il giorno, la luce immaginata delle cose. Allora sarà dimenticato il tuo percorso e torna a te l'immaginazione. E' una dose di rischio che ti spetta: che me ne dici del l'esplorazione? Permane ancora la tua curiosità? E cosa vedi nel tuo mondo alieno? Forse ti sei levato finalmente in piedi. 0 forse giaci, nascosto da un cespuglio. E' passato nella notte un nuovo inizio? Hai salutato la fine dell'anno? 0 preferisci bene augurare al nuovo? Ti dura ancora l'entusiasmo? Vivi? Senza parere è trascorso il tempo: e tenti invano di prendere appunti. I punti sono tanti e ognuno riguarda dal suo nero. E' ancora la polla o sgorga nuova la fontanella breve? C'è differenza tra là sopra e sotto? E come ondeggia il colmo della terra? Eri davvero, una volta, un mollusco? E cosa andava, che pensavi allora? Hai scoperto la valva Il guscio la difesa. E quando non sapevi cosa fare, hai chiuso tutto per vibrare solo. Un fastidio un granello ti prendeva: e piano piano il tuo secreto cala e l'addolciva, e quando ormai non dava più fastidio continuavi per non saper che fare. Chi ti poteva dir che la patologia che l'ignoranza si mutava in perla? Guarda un po' tu dove siamo finiti, in questa luce che non conserva il bruscolo, ma ti somiglia in tono ed in colore. Sarà questa una cosa preziosa, come diranno i pescatori profondi, che portano il respiro sotto i flutti e quando emergono recano speranze? Oggi hai dormito più a lungo dei solito e stai sognando ancora per stanchezza, per saggezza. 0 forse sei, semplicemente, stanco. Talvolta, nel viaggio del profondo, si incontrano stupori e cattedrali che riportano l'eco del suono senza concedersi alla luce. E lo spirito ne rimane abbagliato. L'eco è ingannevole. Non si sa mai donde provenga. Anzi ripete e insiste da diverse provenienze con un effetto di smarrimento. E di miopia esaltante e dolorosa. Allora si ascolta e si riprova, quasi a cercare la riprova, delirante sempre sempre, ma maestosa come la volta altissima che si intuisce: e pipistrelli rari, volano allora contraddittoriamente al volo, - o così sembra - spiaccicati messaggi che il radar non protegge. Fortunatamente si ritrova la spelonca, un budello dove il tatto tra pareti ignote quasi rassicura. E segue al corso, lasciando sulle mani, gelato, l'umidore. E lo stimolo a continuare ancora. Maestria del fato e dell'immaginazione operosa. Che spinge a tentare un segno al buio mentre le due pietre stridono tra loro. Il Veuve Clicot Ponsardin, Couvée, è fallace obliterante, disorienta con le diverse provenienze del profumo. La festa solitaria del mattino e le caverne assumono sembianza di cave nel gesso profonde: di frescure degne di ebbrezza debole e dignitosa, sprigionate a caso e senza senso. Non aiuta nemmeno un poco di festa mattutina. La fantasia si ribella allo stimolo e lo trascura. Vorrebbe ben altro e ben oltre. Ma che cosa? I mostri si affollano e non c'è che scegliere. Vince la forma dello scorpione, il saggio nemico che nelle dure chele attanaglia e fulmineo avvelena: che talvolta per mordere la fiamma che lo annoia e lo circonda morde se stesso a morte: e si distende e si affloscia, quanto dianzi fiero e veloce inalberava la sua falce nera. E non aiuta, segnando un destino che l'etica rifiuta. Guarda dove s'annida! Ancora un sorso, millesimato, calibrato: e via. Nero sul nero, invisibile il senso prodigioso, Via, senza fretta, via. Passino i giorni, riproducente moto, senza che nessuno li curi. Vadano dove saranno o sanno, tra sogno e veglia: e voglia di sapere. Tornino tornino notti risplendenti e sia ogni bestemmia vana, e per di più bestemmia. E così sia. Vedovi tutti d'ogni compagnia. Perché non cessa l'inutile magia? La situazione sta evolvendo secondo il processo non lineare del caos strutturato 2 (z n+1 =z n+c)). Ogni evento (z n+1 ) si sviluppa sulla base dell'evento precedente elevato al quadrato con l'aggiunta di un fattore c costante, ma irrazionale. Ho sempre trovato identico ricetto dopo ogni pagina. Com'è bello - così -non essere soli.

…E intanto siamo arrivati all'euro: euro-pa euro-foria euro-tanasia oro-mania e prima o poi - ma sì - faremo un viaggio, amico raro, in Romania.

Ed ora tocca a voi, fantasmi cari: siete una stringa stretta per vibrare insieme.