Politecnico di Milano Dipartimento di Design Corso di Dottorato in Design XXVI Ciclo

MASSIMO BIANCHINI

Industrious design DESIGN E CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI (MICRO)PRODUZIONE NELL’IBRIDAZIONE TRA INDIVIDUO E ORGANIZZAZIONE

Industrious design THE ROLE OF DESIGN IN THE EVOLUTION OF (MICRO)PRODUCTION MODELS ENABLED BY THE HYBRIDIZATION OF INDIVIDUALS AND ORGANIZATIONS

Relatore: Prof. Dr. STEFANO MAFFEI | Dipartimento di Design, Politecnico di Milano

Politecnico di Milano Dipartimento di Design Corso di Dottorato in Design XXVI Ciclo

MASSIMO BIANCHINI

Industrious design DESIGN E CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI (MICRO)PRODUZIONE NELL'IBRIDAZIONE TRA INDIVIDUI E ORGANIZZAZIONI.

Industrious design THE ROLE OF DESIGN IN THE EVOLUTION OF (MICRO)PRODUCTION MODELS ENABLED BY THE HYBRIDIZATION OF INDIVIDUALS AND ORGANIZATIONS.

Relatore: Prof. Dr. STEFANO MAFFEI Dipartimento di Design, Scuola del Design, Politecnico di Milano

Controrelatore: Prof. Dr. FRANK T. PILLER Technology & Innovation Management Group, RWTH Aachen University; Smart Customization Group, Massachusetts Institute of Technology

MASSIMO BIANCHINI ([email protected])

Tesi di Dottorato in Design Corso di Dottorato in Design

Scuola di Dottorato Dipartimento of Design Scuola di Design Politecnico di Milano

Data e luogo della sessione di difesa pubblica: http://phd.design.polimi.it/

© Copyright Massimo Bianchini, 2014 Grafica, diagrammi e illustrazioni: Massimo Bianchini (eccetto dove diversamente specificato) Stampa: SEF, Milano, 2014

Immagine di copertina: Massimo Bianchini

“Do. Or do not. There is no try.”

— Grand Jedi Master Yoda

INDICE DEGLI ARGOMENTI

ABSTRACT

RINGRAZIAMENTI

#1 TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA (P.20)

1.1 INTRODUZIONE (P.21) 1.1.1 INTERESSI DI RICERCA (P.22) 1.1.2 PERCORSO DI LETTURA (P.23) 1.2 ESPLORARE IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE: UN PRIMO STATO DELL’ARTE (P.27) 1.2.1 LITERATURE REVIEW (P.28) 1.2.2 CHI STA STUDIANDO IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE (P.35) 1.2.3 IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE NELLE INNOVATION POLICY (P.38) 1.3 METODOLOGIA (P.40) 1.3.1 IPOTESI DI RICERCA (P.40) 1.3.2 DOMANDE DI RICERCA (P.42) 1.3.3 OBIETTIVI DELLA RICERCA (P.42) 1.3.4 FRAMEWORK DELLA RICERCA (P.43) 1.3.5 FASI E ATTIVITÀ (P.45) 1.3.6 NOTE METODOLOGICHE (P.46) 1.3.7 CONFRONTO SCIENTIFICO E PUBBLICAZIONI (P.47)

#2 IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE (P.50)

2.1 L’EVOLUZIONE DEI MODELLI DI PRODUZIONE (P.51) 2.1.1 UNO SGUARDO INDIETRO. IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE IN UNA PROSPETTIVA STORICA (P.54) 2.2 L’EVOLUZIONE DELLE TECNOLOGIE DI PRODUZIONE (P.58) 2.2.1 I SISTEMI DI PRODUZIONE SU PICCOLA SCALA TRA FABBRICAZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA (P.59) 2.2.2 FABBRICARE SU PICCOLA SCALA: TECNOLOGIE E TRAIETTORIE DI SVILUPPO (P.62) 2.2.3 MERCATO E SETTORI DI APPLICAZIONE (P.70) 2.2.4 I SERVIZI PER LA FABBRICAZIONE PERSONALE (P.72) 2.3 UNA GEOGRAFIA ‘IN PROGRESS’ DI MAKING E AUTOPRODUZIONE (P.74) 2.3.1 UNA MAPPA IN PROGRESS SUGLI 'SPAZI DEL FARE': VERSO UNA RETE GLOBALE PER LA FABBRICAZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA? (P.74) 2.3.2 UNA MAPPA IN PROGRESS DELL'AUTOPRODUZIONE: VERSO UNA CULTURA GLOBALE DELLA FABBRICAZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA? (P.85) 2.4 10 ANNI DI MAKING: UN PRIMO BILANCIO (P.89) 2.4.1 PREMESSA (BREVE) SUL MOVIMENTO MAKERS (P.89) 2.4.2 ECOSISTEMA MAKERS: MOVIMENTO, COMUNITÀ E MERCATO (P.90) 2.5 I NUOVI PRODUTTORI TRA ATTIVISMO POLITICO E DERIVE CONSUMISTICHE (P.93) 2.5.1 NON SOLO MAKER: AUTORPRODUTTORI, HACKER, CRAFTER, CRAFTIVIST E DESIGNER-CRAFT (P.93) 2.5.2 I NUOVI PRODUTTORI: CONCORRENTI 'SLEALI' E CONSUMATORI DI PRODUZIONE? (P.97) 2.6 MICROPRODUZIONE OGGI: UNA NUOVA (POSSIBILE) DEFINIZIONE (P.99) 2.7 LA RILOCALIZZAZIONE DELLA (MICRO)PRODUZIONE: SMALL URBAN

7 MANUFACTURING, CITY MAKING E CITY MADE (P.100) 2.7.1 DALLE CITTÀ INDUSTRIALI ALLE CITTÀ 'INDUSTRIORE': CRESCITA DELLO SMALL URBAN MANUFACTURING (P.100) 2.7.2 NUOVE COMUNITÀ MICROMANIFATTURIERE URBANE (P.101) 2.7.3 NUOVE COMUNITÀ MANIFATTURIERE URBANE (P.102) 2.7.4 LA RELAZIONE TRA VECCHIE E NUOVE COMUNITÀ MANIFATTURIERE URBANE (P.103) 2.7.5 CARATTERISTICHE DEL CITY MAKING (P. 107) 2.8 QUANDO MICRO È MACRO: IL CASO LA MICROPRODUZIONE DELLA BIRRA ARTIGIANALE (P. 110) 2.9 MICROPRODUCTION EVERYWHERE: MICROPRODUZIONE COME SISTEMA (P.115) 2.9.1 LA MICROPRODUZIONE COME POSSIBILE PARADIGMA SOCIOTECNICO EMERGENTE (P.115) 2.9.2 MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA COME ATTIVITÀ SISTEMICA (P.117) 2.9.3 MICROPRODUCTION EVERYWHERE (P.122) 2.10 SINTESI (P.123)

#3 DESIGN E MICROPRODUZIONE (P.127)

3.1 LA MICROPRODUZIONE COME AMBITO DI OPERATIVITÀ PER IL DESIGN (P.127) 3.1.1 DESIGN E MICROPRODUZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA: UN PRIMO INQUADRAMENTO (P.127) 3.1.2 EVIDENZE DALLA PRIMA OSSERVAZIONE FENOMENOLOGICA (P.132) 3.2 IL DESIGN COME PROFESSIONE DI MASSA E L’EMERGERE DEI PROGETTISTI- (MICRO)PRODUTTORI (P.134) 3.2.1 IL CAMBIAMENTO DEI SISTEMI DI PRODUZIONE E DELLA RELAZIONE TRA DESIGNER E IMPRESA (P.134) 3.3 UN FENOMENO EMERGENTE NEI SISTEMI PRODUTTIVI IN TRASFORMAZIONE: LA FIGURA DEL DESIGNER=IMPRESA (P.136) 3.3.1 NÉ INDIVIDUI, NÉ ORGANIZZAZIONI: IL MODELLO DEL DESIGNER=IMPRESA (P.137) 3.3.2 DEFINIZIONE DI ‘PROCESSO’ NEL DESIGN PER LA MICROPRODUZIONE (P.140) 3.3.3 DAL DESIGN DEL SISTEMA PRODOTTO-SERVIZIO AL DESIGN DEL SISTEMA DI MICROPRODUZIONE (P.143) 3.3.4 IL (DESIGN DEL) BUSINESS DELLA MICROPRODUZIONE (P.144) 3.3.5 IL MERCATO DELLA MICROPRODUZIONE (P.147) 3.4 IL DESIGNER=IMPRESA E I SUOI SIMILI: UN TENTATIVO DI TASSONOMIA DELLA MICROPRODUZIONE (P.149) 3.5 COME OPERANO I MICROPRODUTTORI? IL CASO DELLA MICROPRODUZIONE DI SCARPE (P.151) 3.6 TRASFERIRE LE COMPETENZE DEL DESIGNER=IMPRESA: DUE ESPERIENZE NEL CAMPO DELLA FORMAZIONE (P.157) 3.6.1 AUTOPRODUZIONI LAB: UNA PALESTRA PER DESIGNER=IMPRESA (P.158) 3.6.2 MAKING@POLIMI: DALL’IDEA AL MERCATO (P.170)

#4 STORIE DELLA MICROPRODUZIONE (P.127)

4.1 UNA MAPPA FENOMENOLOGICA (IN PROGRESS) SU 100 CASI DI DESIGNER=IMPRESA (P.178) 4.1.1 METODO E STRUMENTI D'INDAGINE (P.178) 4.1.2 UNA MAPPA SULLA MICROPRODUZIONE DEI DESIGNER=IMPRESA (P.192) 4.1.3 LOCALIZZAZIONE GEOGRAFICA (P.194) 4.1.4 CRONOLOGIA DEI CASI (P.197) 4.1.5 BACKGROUND DEI DESIGNER=IMPRESA (P.199) 4.1.6 INTERESSI PROFESSIONALI (P.202) 4.1.7 PRODOTTI E CATEGORIE MERCEOLOGICHE (P.218) 4.1.8 DESIGN ED ELEMENTI DI INNOVAZIONE (P.228) 4.1.9 ELEMENTI DI INNOVAZIONE (P.230) 4.1.10 PROCESSI DI MICROPRODUZIONE (P.232) 4.1.11 SISTEMI DI PRODUZIONE (P.233) 4.1.12 MERCATO E DISTRIBUZIONE (P.236)

8 4.1.13 STRATEGIE DI COMUNICAZIONE (P.238) 4.2 ETNOGRAFIA DELLA MICROPRODUZIONE: CINQUE STORIE DI DESIGNER=IMPRESA (P.240) 4.2.1 LA MICROPRODUZIONE VISTA DA VICINO (P.240) 4.2.2 SLOW/D: UNA PIATTAFORMA PER LA MICROPRODUZIONE A KM0 (P.242) 4.2.3 DON’T RUN BETA: UNA MICROFACTORY TEMPORANEA PER LA PRODUZIONE DISTRIBUITA DI CALZATURE (P.244) 4.2.5 DIGITAL HABITS: FABBRICANDO SMART THINGS (P.247) 4.2.6 JORISLAARMANLAB: LA NASCITA DI UNA MULTIFACTORY (P.251) 4.2.6 UNFOLD DESIGN STUDIO: UN LABORATORIO PER LA FABBRICAZIONE INTERATTIVA (P.256)

#5 MAKERS'INQUIRY: UN'INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI (P.264)

5.1 MAKERS’INQUIRY (ITALIA): UN’INDAGINE SUI MAKERS, DESIGNER AUTOPRODUTTORI E FAB LAB MANEGER (P.265) 5.1.1 AVVIO DELLA MAKERS'INQUIRY (P.265) 5.1.2 METODO UTILIZZO (P.265) 5.1.3 STRUTTURA E COMPOSIZIONE DEL CAMPIONE (P.266) 5.1.4 NOTA ALLA LETTURA DEI DATI (P.267) 5.1.6 INFORMAZIONI DI BASE SULL’ATTIVITÀ DI MAKING E AUTOPRODUZIONE (P.268) 5.1.7 COMPETENZE TECNICHE E TECNOLOGICHE COLLEGATE AL MAKING (P.270) 5.1.8 VALORI ASSOCIATI ALL’ATTIVITÀ DI MAKING, MICRO E AUTOPRODUZIONE (P.271) 5.1.9 FREQUENTAZIONI DI MAKERSPACE E PARTECIPAZIONE A COMUNITÀ VIRTUALI DEDICATE AL MAKING (P.272) 5.1.10 PROCESSI DI PROGETTAZIONE, PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE (P.273) 5.1.11 SINTESI (P.274)

#6 CONCLUSIONI (P.276)

6.1 LETTURA E INTERPRETAZIONE DEI RISULTATI (P.277) 6.1.1 RISULTATI (P.277) 6.1.2 INTEPRETAZIONE E DISCUSSIONE DEI RISULTATI DI RICERCA (P.278) 6.1.3 LIMITI DELLA RICERCA (P.288) 6.2 FUTURI SVILUPPI DEL TEMA DI RICERCA (P.290) 6.3 GLOSSARIO (P.293)

#7 BIBLIOGRAFIA (P.296)

B1 LIBRI, SAGGI, ARTICOLI E ATTI DI CONVEGNO (P.297) B2 TESI DI DOTTORATO E DI LAUREA (P.307) B3 LINKOGRAFIA (P.308)

ALLEGATI (P.318)

A1. TABELLE E GRAFICI INDAGINE MAKERS’ INQUIRY (P.319)

9 INDICE DELLE FIGURE

FIG. 0.1 MDX3 – JORIS LAARMAN LAB FIG. 2.1 (A,B,C) LA STAMPANTE REPRAP, LA STAMPANTE 3D DI DIRK VANDER KOOJI, LA STAMPANTE 3D ‘GIGANTE’ DI ENRICO DINI (D-SHAPE) FIG. 2.2 IL MAKERSPACE TIME LAB DI GENT (BELGIO) FIG. 2.3 IL MAKERSPACE BETAHAUS DI BERLINO FIG. 2.4 UN TECHSHOP FIG. 2.5 HACKERSPACE NY RESISTOR A NEW YORK FIG. 2.6 UN DIYBIO LAB A BERLINO FIG. 2.7 ARTISANS’ ASYLUM A SOMMERSVILLE (USA) FIG. 2.8 IMPRESE CHE GUIDANO IL MONDO DEL MAKING E DEL DIY FIG. 2.9 POP-UP STORE DEI PRODOTTI SAN FRANCISCO MADE | SFMADE FIG. 2.10 THE URBAN FACTORY HEATH CERAMICS FIG. 2.11 OZONA OCCHIALI A PERUGIA FIG. 2.12 BROOKLYN NAVY YARD NY, LA SEDE DEL NEW LAB, MICROMANUFACTURING HUB FIG. 2.13 LA MAPPA ELABORATA DAL 2012 THE NEW YORKER SULLA CRAFT BEER FIG. 2.14 LA MAPPA DI THE BEER MAPPING PROJECT HTTP://BEERMAPPING.COM/. FIG. 2.15 UN KIT PER LA BIRRIFICAZIONE DOMESTICA. FIG. 3.1 IL SISTEMA DI RISORSE PER I DESIGNER=IMPRESA. FIG. 3.2 SANDALI AUTOPRODOTTI IN UN SLUM DISTRICT DI NAIROBI; FIG. 3.3 UN ESEMPIO DI ‘CREATIVE FIXING’ UTILIZZANDO IL SUGRU; FIG. 3.4 SCARPE AUTOCOSTRUITE UTILIZZANDO UN TUTORIAL SCARICATO DA INSTRUCTABLES FIG. 3.5 ROTATIONAL-MOULDED-SHOE DELLA DESIGNER MARLOES TEN BOEHMER (UK) FIG. 3.6 PANTOFOLE LASSO FIG. 3.7 BIOUCOUTURE SHOES DI SUZANNE LEE FIG. 3.9 ‘NO PLACE LIKE HOME’, LE SCARPE GPS REALIZZATE DA DOMINIC WILCOX FIG. 3.10 LE LASER CUTTER WOODENSHOES PUBBLICATE SUL MARKETPLACE PONOKO FIG. 3.11 LE 3D PRINTED SHOES DI OLIVIER VAN HERPT E JEROEN VAN DE GRUITER (OLANDA) FIG. 3.12 DON’T RUN BETA, UNA MICROFACTORY PER LA FABBRICAZIONE DI SCARPE. FIG. 3.13 (A,B) MAPPE DELLA I E II EDIZIONE DEL CORSO AUTOPRODUZIONI FIG. 3.14 ELEMENTI DI INNOVATIVITÀ DEI LABORATORI A CONFRONTO. FIG. 3.15 ELEMENTI DI INNOVATIVITÀ LABORATORI A CONFRONTO FIG. 3.16 COMUNITÀ PRODUTTIVA DEL LABORATORIO AUTOPRODUZIONI. FIG. 3.17 IL SISTEMA PER L’ASCOLTO MULTICANALE SESTETTO. FIG. 3.18 TOMATOMAKER FIG. 3.19 LA PISTOLA CUCITRICE SIU. FIG. 3.20 (A,B,C) LA MOSTRA SCHOOL OF DESIGN ALLO SPAZIO SUBALTERNO1, MILANO, 2013. FIG. 3.21 L’ESPOSIZIONE DEI PRODUTTORI DI STAMPANTI 3D ORGANIZZATA A MAKING@POLIMI. FIG. 3.22 IL MAKERSPACE TEMPORANEO ALLESTITO NEL PATIO ALLA SCUOLA DEL DESIGN FIG. 3.23 IL SISTEMA LIQUID BLOCK PER OGGETTI CASALINGHI COMPONIBILI. FIG. 3.24 IL SISTEMA PER GROWING MEG CREATO HACKERANDO UN CARRELLO PORTAVIVANDE FIG. 3.25 IL SISTEMA D’IRRIGAZIONE E COLTURA DOMESTICA NATURAL DIGITAL GREENHOUSE. FIG. 3.26 IL TELAIO IN CARBONIO ARTIGIANALE DELLA BICI MALACODA. FIG. 3.27 IL SINTETIZZATORE LUMINOSO ‘THE LUMANOISE’. FIG. 3.28 IL DRONE UTENSILE GOLIATH. FIG. 3.29 LA PRESENTAZIONE FINALE DEI PROGETTI DURANTE IL POP-UP MAKERS. FIG. 4.1 (A,B,C,D,E,F,G) MOSTRE PER DESIGNER IMPRESA

10 FIG. 4.2 DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA DEI DESIGNER=IMPRESA FIG. 4.3 (A,B,C,D) OPEN DESK DISTRIBUTED DESIGN AND FABRICATION NETOWRK (OPENDESK.CC); 3D HUBS MAP(SOURCE: WWW.3DHUBS.COM); FAB LAB WORLD MAP (FAB FOUNDATION, UPDATED TO 2012); OPEN SOURCE ECOLOGY GLOBAL COMMUNITY (SOURCE: HTTP://OPENSOURCEECOLOGY.ORG/); THE MAKERMAP TOOL (HTTP://THEMAKERMAP.COM/) FIG. 4.4 CRONOLOGIA DELLO SVILUPPO DEI PROGETTI ANALIZZATI. FIG.4.5 E 4. LA CRESCITA ESPONENZIALE DEL NUMERO DI ‘ITEM’ UPLOADATI SULLA PIATTAFORMA MAKERBOT-THINGIVERSE (SOURCE: IBM) E QUESTIONARIO SUL PRIMO UTILIZZO DI UNA STAMPANTE 3D COMMISSIONATODALLA PIATTAFORMA PONOKO (SOURCE: PONOKO.COM). FIG. 4.7 SEDIE FABBRICATE DA DESIGNER=IMPRESA. FIG. 4.8 MACCHINE E TECNOLOGIE FABBRICATE DA DESIGNER=IMPRESA. FIG. 4.9 ACCESSORI E BENI PER LA PERSONA FABBRICATI DA DESIGNER=IMPRESA. FIG. 4.10 (A,B) JORIS LAARMAN LAB AD AMSTERDAM, DEN HERDER PRODUCTION HOUSE A HERTOGENBOSCH FIG. 4.11 SCHEMA DI FUNZIONAMENTO DELLA PIATTAFORMA SLOW/D WWW.SLOWD.IT) FIG. 4.12 (A,B) REALIZZAZIONE DELLE SCARPE DON’T RUN (SOURCE: WWW.DONTRUN-BETA.COM/) FIG. 4.13 OPEN MIRROR (SOURCE: WWW.DIGITALHABITS.IT/) FIG. 4.14 PACO (SOURCE: WWW.DIGITALHABITS.IT/) FIG. 4.15 (A,B) DIGITAL MATTER E MX3D (SOURCE: WWW.JORISLAARMAN.COM/) FIG. 4.16 MAKERCHAIR (SOURCE: WWW.JORISLAARMAN.COM/) FIG. 4.17 A,B,C L’ARTISAN ELECTRONIQUE (SOURCE: UNFOLD.BE)

11 INDICE DELLE TABELLE

TAB. 1.1 PAROLE CHIAVE DELLA RICERCA NEL DATABASE SCIENTIFICO SCOPUS (P.33) TAB. 1.2 FASI DELLA RICERCA (P.45) TAB. 2.1 LE SETTE ÈTA DELL’INDUSTRIA (P.56) TAB. 2.2 L’EVOLUZIONE DEI SISTEMI DI PRODUZIONE DEI BENI (P.57) TAB. 2.3 LE TECNOLOGIE DEI FAB LAB (SOURCE: FAB FOUNDATION) (P.63) TAB. 2.4 UNA TABELLA RIASSUNTIVA SULLE TECNICHE MANIFATTURIERE PER IL DESIGN DI PRODOTTO RICAVATA DAL LIBRO MANUFACTURING PROCESSES FOR DESIGN PROFESSIONALS DI ROB, M.D. THOMPSON (P.66) TAB. 2.5 UNA TABELLA RIASSUNTIVA SULLE TECNICHE MANIFATTURIERE PER IL DESIGN DI PRODOTTO RICAVATA DAL LIBRO DI CHRIS LEFTERI, MAKING IT. MANUFACTURING TECHNIQUES FOR PRODUCT DESIGN. (P.68) TAB. 2.6 DATI SULLE PIATTAFORME PER LA MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA. (P.72) TAB. 2.7 DATI SUGLI ‘SPAZI DEL FARE’. (P.75) TAB. 2.8 ANALISI DELLA CRESCITA DEL FENOMENO MAKERS. (P.90) TAB. 3.1 CASI COLLEGATI ALLA MICROPRODUZIONE. (P.130) TAB. 3.6 COMPARAZIONE TIPOLOGIE PRODOTTI CON CODICE NACE. (P.165) TAB. 4.1 UN PROCESSO DI NETNOGRAPHY UTILIZZATO PER REALIZZARE RICERCHE DI MERCATO. (P.179) TAB. 4.2 SCHEDA SINTETICA DELLO STUDIO ‘THE CUSTOMIZATION 500’. (P.180) TAB. 4.3 EVENTI E MANIFESTAZIONI ANALIZZATE PER INDIVIDUARE IL CAMPIONE DI DESIGNER=IMPRESA. (P.182) TAB. 4.4 CAMPIONE FINALE DI DESIGNER=IMPRESA CONSIDERATO PER L’ANALISI. (P.190) TAB. 4.5 DISTRIBUZONE GEOGRAFICA DEI DESIGNER=IMPRESA. (P.193) TAB. 4.6 CRONOLOGIA DELLO SVILUPPO DEI PROGETTI ANALIZZATI. (P.197) TAB. 4.7 OFFERTA FORMATIVA DEL RCA DI LONDRA E DELLA DESIGN ACADEMY DI EINDHOVEN. (P.199) TAB. 4.8 BREVE DESCRIZIONE DEI DESIGNER=IMPRESA ANALIZZATI. (P.204) TAB. 4.9 PRODOTTI E CATEGORIE MERCEOLOGICHE DEI DESIGNER=IMPRESA. (P.217) TAB. 4.10 CONFRONTO TRA CATEGORIE MERCEOLOGICHE DI DIVERSE PIATTAFORME PER L’AUTOPRODUZIONE. (P.218) TAB 4.11 CATEGORIE DEFINITORIE DEL DESIGN PER LA MICROPRODUZIONE (P.227) TAB. 4.12 APPROCCI DI DESIGN. (P.228) TAB. 4.13 LIVELLI D’INNOVAZIONE NEL CAMPO DELLA MICROPRODUZIONE. (P.229) TAB. 4.14 LIVELLI D’INNOVAZIONE NEL CAMPO DELLA MICROPRODUZIONE. (P.229) TAB. 4.15 CLASSIFICAZIONE DEI PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. (P.231) TAB. 4.16 CONFIGURAZIONE DEI PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. (P.233)

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ABSTRACT

This research explores the topic of production models transformation taking into account the perspective of design. This change can be considered an emerging socio- technical paradigm characterized by new forms of advanced, open and distributed manufacturing.

The democratization of digital fabrication, the increasing abundance of low cost (or free) design resources and the appearance of indie online marketplaces represent a set of new opportunities to develop autonomous and integrated micro scale production activities extending directly ‘from idea to market’. Production phenomena such as making and personal fabrication related to open design and some physical or virtual places - such as Fab Labs and platforms for digital manufacturing - certainly represent a technology-based evolution of the traditional world of Do It Yourself.

Nowadays, an heterogeneous group of individuals, even without a background in design or manufacturing company, can be able to materialize its ideas in an independent way transforming concepts into real product-service solutions, potentially marketable on a global scale. In this scenario, where the innovation process seems to be driven by new players like makers, two questions emerge: What’s the (new) role of design? And how designers skills and capabilities change?

The research starts from the following assumption: the new forms of production seem to be not (so) generative without a defined design intent and without an adequate support in design skills. The proliferation of object-gadgets in personal fabrication web platforms represents a clear example. On the other hand, the low quality of many artefacts materialized within Fab Labs shows how new manufacturing technologies, while expressing great potential, are not yet able to replace industry and craftsmen (and it is not clear if they will ever be able to do so). Instead, there seems to be an interesting field of action for individuals who are able to hybridize (in an original way) design and fabrication skills in order to create new artefacts through innovative manufacturing processes based on personal configurations of the production means. And designers are among them.

A systematic study on production models changes has been conducted to describe technologies features and its possible evolution for advanced manufacturing and distribution. The thesis contextualizes new production models compared to the historical ones, from Taylorism to lean manufacturing. Then it explores the places that enable those new production forms - from Fab Labs to makerspaces, from TechShops to DIYBio Labs - and defines new types of manufacturers as makers who are also interpreters. These places and subjects have been then observed within urban contexts, in which a variety of production forms, interacting each other, have been identified. Therefore the existence of a system called 'DISTRIBUTED MICROPRODUCTION', has finally been discovered.

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The second part of the study focuses on the evolution of designer skills and capabilities in relation to distributed microproduction. In particular the research pointed out that the process of depersonalisation of designer profession together with outsourcing and deindustrialization processes are transforming (in worst) the traditional relationship bounding designers and manufacturers. At the same time new opportunities, offered by the digitization of production, are gradually pushing designers to change theirs own nature. Because of necessity and/or personal interests, designers become new manufacturers and summarize, in a personal dimension, all the functions a manufacturing company must fulfil: research and development, design, prototyping, production, promotion, distribution and searching for funds. These designers generate therefore microproduction processes where the design activity is not only focused on creating artefacts but spreads also on the configuration of the whole system needed to manufacture them: from materials, tools and machines, to production places as microfactories. The research has defined these subjects through a conceptual model calling them 'DESIGNER=ENTERPRISE', drawing an initial taxonomy of microproduction processes, design approaches, and related business models.

The third part analyses and verifies the activity of designers=enterprises both in a national (Italy) and international context. More than 100 projects developed by designers-microproducers have been observed in depth, also arranging interviews and visits to design studios. An online survey has been conducted on over 100 Italian makers, designer-manufacturers and makerspace managers studying therefore in details the microproduction processes. Basic data and information about their economic condition of designer=enterprises, their production skills and distribution strategies have been obtained and analysed in order to understand the economic sustainability of these activities and their prospects of development.

Finally, the research outcomes launch a discussion about the opportunities related to the development of new professional figures and new forms of enterprise able to HYBRIDIZE INDIVIDUALS AND ORGANIZATIONS as it happens in the case of designer=enterprise conceptual model. Observing this new emerging paradigm, two possible scenarios can be supposed. The first, related to the microproduction field, suggests new forms of interaction between designers=enterprises and the ‘traditional’ world of production, especially small industry and craftsmen. The second, related to the fields of economics and education, tries to introduce a different perspective into the design of policy initiatives supporting individual skills development and enterprise innovation capabilities.

KEYWORDS: Designer=enterprise, Advanced fabrication, Digital fabrication, Distributed manufacturing, Small (urban) manufacturing, Self-production (or, DIY), Making, Indie innovation.

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RINGRAZIAMENTI

Non ci ho mai pensato durante questi tre anni, ma adesso che mi trovo a scrivere i ringraziamenti sono davvero numerose le persone cui rivolgo un pensiero. A quelle che mi hanno insegnato qualcosa, che hanno ascoltato le mie idee, che ci hanno creduto (oppure no), che mi hanno aiutato a metterle in pratica.

Grazie a mia madre. Abile a cucire, soprattutto nella vita. Grazie a mio padre. Perché “un paese che perde la capacità di produrre non va lontano”. Grazie Anna. Perché sai materializzare i miei sogni. Grazie a Stefano Maffei. Amico, collega, relatore, mentore. Perché prima c’è sempre un ‘no’ ma poi c’è sempre un ‘facciamo’. La sua raffinata cultura onnivora, la sua disponibilità, la sua (im)pazienza hanno aiutato la mia ricerca a costruirsi passo dopo passo. Grazie a Frank Piller. L’ho incontrato tre volte durante la mia ricerca: all’inizio, a metà del percorso e alla fine, come controrelatore. Il suo lavoro è stato per me un punto riferimento e il confronto con lui ha fatto fare un passo avanti alla mia ricerca nella giusta direzione. Grazie a Marco Taisch. Mi ha dato la possibilità di lavorare con continuità a una ricerca sulle Factories of the Future, su un tema prossimo alla mia tesi di dottorato. Una importante occasione per sperimentare sul campo il cambiamento dei modelli di produzione. Grazie a Christian Zanetti perché mi sta insegnando il reale valore della multidisciplinarietà. Grazie ad Alessandra Carosi e Marco Seregni con cui ho il piacere di collaborare quotidianamente. Grazie a Ezio Manzini. Al suo sapere e alla sua inossidabile curiosità. Le conversazioni avute con lui sono state un banco di prova impegnativo per testare le mie tesi di ricerca. Grazie a Venanzio Arquilla, Alessandro Carelli e Patrizia Bolzan. Con loro ho condiviso le esperienze quotidiane di gestione della ricerca MakeFactory. Grazie a tutti i giovani progettisti del Laboratorio Autoproduzioni, il loro entusiasmo nello sperimentare i processi del designer=impresa è stato un prezioso carburante per la mia ricerca. Grazie a Beatrice Villari e Marzia Mortati, preziosi consigli non sono mai mancati. Grazie a Simona Murina per il supporto organizzativo.

Un ringraziamento alla Rete Cumulus, ad Aalto University per avermi ospitato nel lungo e magico inverno nordico. Grazie a Eija Salmi, Mikko Koria e Markku Salimakki per tutto il supporto. Un grazie a Juhani Tenhunen, per avermi accolto ad Aalto Media Factory. Grazie a Massimo Menichinelli. Le nostre conversazioni sul making si sono poi tradotte in progetti concreti. Un ringraziamento a Luisa Collina, Giuliano Simonelli e Silvia Piardi per aver facilitato la mia esperienza alla Aalto University.

17 Grazie a Peter Gall Krogh e Mie Noorgard (Aarhus School of Architecture), Anna Seravalli (Malmoe University) con cui insieme a Stefano ho condiviso la nascita e l’impegnativo sviluppo del Cluster DESIS sulla produzione aperta e distribuita. Servono tante energie per far crescere questo network. Prometto che le troverò.

Grazie infine a tutti i designer, gli autoproduttori, gli studiosi ai makers e ai gestori di makerspace che ho ‘importunato’ durante gli oltre tre anni di ricerca. Sono l’anima di questo lavoro. Grazie a Atelier NL, Sabina Barcucci (Fab Lab Trento), Enrico Bassi (OpenDot), Francesco Bombardi (Fab Lab Reggio Emilia), Julian Bond, Gary Cass (Micro’be), Andrea Cattabriga (SlowD), Valetina Croci (Open Design Italia), Katrien Dreessen (Fab Lab Gent), Amelia Desnoyers, Michael Eden (Eden Ceramics), Gualtiero Fantoni (Fab Lab Pisa), Christian Fiebig, Markus Kaiser (Solar Synter), Joon Hang Lee (Studio Homunculus), Jennis Huelsen, Merhel Karhof (Wind Knitting Factory), Joris Laarman e Filippo Girardi (Joris Laarman Lab), Tristan Kopp, Alessandro Marelli, Fabien Miejeville (Fab Lab Lyon), Eugenia Morpurgo (Don’t Run Beta), Katharina Mischer e Thomas Traxler (Mischer’Traxler), Bertrand Niessen, Italy Ohaly, Matthew Plummer Fernandez, Ariane Prin, Tejo Remy, Innocenzo Rifino (Studio Habits - Digital Habits), Zoe Romano (We Make Fab Lab), Roberto Rubini (Source Italia), Alex Schaub (Fab Lab Amsterdam), Johann Schemann (Storm), Filippo Sironi (Sinori Percussion), Oluwaseyi Sosanya (Sosafresh), Nicola Stäubli (Indie Furniture), Susanne Stauch, Marie Staver (Nervous System), Peter Troxler, Kim Uyting (Den Herder Production House), Marjan Van Aubel, Oliver Van Herpt, Dries Verbruggen (Unfold Design Studio), Emile de Visscher & The Polyfloss Team, Zhoujie Zhang (Factory). Ringrazio infine gli oltre cento maker e designer che hanno partecipato alla Makers’Inquiry.

Ora finalmente camminerò più leggero e ancora in salita.

Milano, 29 settembre 2014

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#1 TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

1.1 INTRODUZIONE

Esiste una grande questione che sta in cima a molte agende della ricerca e della politica contemporanea: come si fa a conciliare un modello di sviluppo avanzato con la progressiva affermazione di una visione di sostenibilità sociale, economica e ambientale? La risposta a questa domanda rimette al centro una grande questione: la relazione tra ideazione, produzione e consumo-fruizione delle merci e dei servizi. Questo tema sta tornando prepotentemente a essere un nodo cruciale nella discussione sui modelli di economia politica che accompagneranno le future strategie industriali dei paesi avanzati (ma non solo). Il processo di delocalizzazione e deindustrializzazione negli ultimi trent’anni ha provocato in alcuni paesi una significativa dispersione di capitale economico, culturale e sociale, oltre che di skill individuali e di comunità. Un processo che ha disciolto il tessuto produttivo di molti sistemi produttivi locali cancellando le relazioni tra individui - operai, artigiani, progettisti – e le imprese e provocando anche una selezione spietata all’interno dell’ecosistema delle merci prodotte. Questa condizione sta imponendo a paesi occidentali come USA, UK e Italia di ripensare al ritorno e alla rigenerazione delle attività produttive manifatturiere dentro i confini nazionali. Questo nuovo orientamento strategico genera nei fatti l’opportunità di focalizzare le politiche industriali contemporanee sulla rilocalizzazione delle attività manifatturiere ragionando sulla conversione e rigenerazione delle tecnologie produttive di scala verso tecnologie di scopo, come nel caso della fabbricazione additiva, più adatte ai nuovi modelli di fabbricazione personale e personalizzata. In questo scenario assume una particolare rilevanza la valorizzazione del surplus cognitivo-operativo fatto di competenze creative, tecno-scientifiche e imprenditoriali, spesso altamente qualificate, che attualmente gravitano ai margini del sistema macro industriale. Questa nuova condizione spinge concretamente verso la nascita di nuovi soggetti attivi nel campo della produzione che sono protagonisti di nuovi processi imprenditoriali e operativi finalizzati alla creazione di offerte di prodotto-servizio che passano attraverso una riscoperta del fare e promuovono la nascita e la diffusione di una nuova maker culture.

Per questi motivi la ricerca si propone di indagare il cambiamento dei modelli di produzione collegati alla fabbricazione avanzata e alla produzione distribuita studiandone la relazione con il design.

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1.1.1 INTERESSI DI RICERCA

La ricerca partendo dalla prospettiva del design si propone di indagare il cambiamento dei modelli di produzione collegati alla fabbricazione avanzata e alla produzione distribuita con i seguenti interessi:

L’INTERESSE DEL DESIGN PER I NUOVI MODELLI DI CONNESSIONE TRA DESIGN, FABBRICAZIONE DIGITALE E LE RETI DI PRODUZIONE (FABBRICHE DEL FUTURO). Il cambiamento delle relazioni tra progettazione e produzione - in termini di business, persone, luoghi e tecnologie - è un tema centrale nel dibattito sul ‘futuro del fare’. I sistemi di produzione emergenti si basano sulla combinazione di produzione on-demand e on-site e sono anche caratterizzati da un'interazione innovativa tra progettisti che lavorano nelle reti e piattaforme digitali, "pezzi" di grande industria, le piccole imprese e artigiani, produttori di tecnologia, aggregatori di servizi per la produzione digitale, comunità di hacker e creativi-creatori. L’interesse è quello di esplorare il ruolo del design all'interno di uno scenario in cui le nuove culture sociali e collaborative del making cominciano ad interagire con l’industria e l'artigianato.

L’INTERESSE DEL DESIGN VERSO I NUOVI PROCESSI PERSONALI E AUTONOMI DI PROGETTAZIONE E PRODUZIONE. La democratizzazionedel design - dall’open design alla massificazione della professione del designer - legato alla crescita della cultura DIY genera un nuovo scenario per lo sviluppo dei processi di progettazione che hanno caratteristiche diverse da quelle tradizionali. Oggi i piccoli produttori possono utilizzare più risorse di design rispetto al passato e a costi inferiori, allo stesso modo i progettisti grazie a un più facile accesso alle tecnologie di produzione possono provare a produrre direttamente e in automia. Infine, gli utenti hanno libero accesso sia a molte più conoscenze di progettazione e di strumenti e servizi di produzione a basso costo. Tutti questi soggetti possono sviluppare processi d’innovazione personali, autonomi e indipendenti in cui il design è fortemente integrato con le attività di produzione e distribuzione. La ricerca si propone di esplorare questi processi di progettazione emergenti collegandoli allo sviluppo autonomo di nuovi sistemi prodotto-servizio producibili on-demand e on-site, alla rigenerazione o aggiornamento di prodotti esistenti o alla loro riparazione creativa o hacking.

L’INTERESSE DEL DESIGN VERSO i NUOVI SPAZI PER SPERIMENTARE I PROCESSI FABBRICATIVI LEGATI AI NUOVI MODELLI DI PRODUZIONE. Un crescente numero di luoghi come Fab Lab, Makerspace e Hackerspace, addirittura le biblioteche pubbliche si propongono come nuovi e possibili impianti di produzione. Si tratta di infrastrutture per la sperimentazione e la prototipazione che cominciano a sostenere nuove forme di produzione locale, strutture in cui l'accesso aperto alla tecnologia e la potenziale collaborazione tra i partecipanti abbassa la soglia di accesso nei processi di design e produzione. Allo stesso tempo, queste iniziative si trovano ad affrontare problemi di sostenibilità economica a lungo termine e una partecipazione

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ancora abaastanza limitata. L'interesse verso questo tema sta nel comprendere come questi spazi possono essere utilizzati dai designer (ma anche da altri soggetti come le imprese e gli artigiani) per abilitare nuove forme di produzione e lo sviluppo di nuovi prodotti-servizi.

1.1.2 PERCORSO DI LETTURA

La prima parte della ricerca (Definizione del campo) propone un percorso esplorativo che prova a osservare in modo sistemico il cambiamento dei modelli di produzione - in particolare quelli su piccola e piccolissima scala - collegati a fenomeni emergenti come il making, il fabbing e la personal fabrication. Si tratta di un lavoro di analisi condotto su fonti scientifiche e divulgative che ha individuato e descritto i principali driver di un cambiamento che sta avvenendo soprattutto nell’Occidente avanzato: i) la crescita di modelli di consumo basati su beni personalizzati o personalizzabili, ii) la democratizzazione delle tecnologie di fabbricazione e dei servizi collegati, iii) la comparsa di forme alternative di distribuzione delle merci, iv) il consolidamento di forme sociali di (micro)finanziamento dell’innovazione, v) la massificazione delle attività creative e la conseguente generazione di un surplus di capacità progettuale.

Nella seconda parte della ricerca (Esplorazione del campo) i fenomeni sopra descritti sono stati approfonditi e contestualizzati rispetto al design. L’evoluzione delle tecnologie per la produzione su piccola e piccolissima scala è stata osservata utilizzando come riferimento i concetti di fabbricazione avanzata e produzione distribuita, con un approfondimento e un confronto rispetto ai modelli della specializzazione flessibile e a quello fordista-taylorista. I processi produttivi emergenti come la digital fabrication sono stati collocati in un framework generale che incorpora anche la prospettiva del design (e del designer). Questo lavoro ha consentito di evidenziare sia gli aspetti critici che le potenzialità di sviluppo di queste tecnologie nel campo dello small scale manufacturing. L’attività di esplorazione è poi proseguita con lo studio dei luoghi in cui le tecnologie i processi di fabbricazione avanzata si stanno diffondendo – dagli hackerspace ai makerspace, dai Fab Lab ai TechShop fino ai DIY Bio Lab – individuando le caratteristiche che li accomunano o li distinguono rispetto alla relazione con il design. L’insieme di queste analisi ha infine condotto a una prima ri-definizione del concetto di produzione su piccola scala o ‘MICROPRODUZIONE’. Un filone di studio parallelo ha osservato le caratteristiche dei microproduttori: dalle comunità emergenti come i makers, a quelle storicamente radicate in diverse culture come gli autoproduttori. Le pratiche della microproduzione sono state confrontate rispetto a fenomeni sociali che le trasformano in forme di attivismo o di consumerismo, anche collocando la microproduzione in una crescente ‘zona grigia’ tra economia formale e informale. L’insieme delle pratiche, delle tecnologie, dei luoghi e dei soggetti riconducibili alla microproduzione è stato quindi collegato anche a fenomeni di più ampia portata come

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l’insourcing e la rilocalizzazione-rigenerazione delle attività manifatturiere in ambito urbano. Le città sono state individuate come contesto di riferimento per la coesistenza di diverse forme di microproduzione riportando esperienze concrete – il caso della produzione di birra artigianale – che dimostrano come l’organizzazione su scala locale di molte attività di microproduzione generi un’economia in grado di competere con la produzione industriale su vasta scala. Il lavoro di esplorazione sul cambiamento dei modelli di produzione è stato sistematizzato e inquadrato in una prospettiva sistemica. Attraverso il concetto di ‘MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA’ è stato definito l’insieme delle caratteristiche e delle proprietà di un sistema di microproduzione - systemic openness, widespread interactivity, community enabling, fractal organization, social learning - e come esso può generare forme di innovazione sistemica e sociale.

La terza parte della ricerca (Esplorazione sul campo) ha analizzato nello specifico la relazione tra design e microproduzione. Un’attività che si è sviluppata in tre fasi. L’esplorazione iniziale, che aveva incrociato una serie di significative esperienze di microproduzione, è stata ampliata producendo una mappa fenomenologica che ha individuato e isolato un insieme di progettisti interessati all’utilizzo di tecnologie, servizi e network per la fabbricazione avanzata e distribuita con un fine riconducibile alla microproduzione. La ricerca si è quindi esclusivamente focalizzata sullo studio sistematico delle figure di progettisti-microproduttori. La ricostruzione puntuale del cambiamento che avviene nella relazione tra designer e impresa ha fatto emergere l’esistenza di figure di designer-produttori in cui la funzione del design va a coincidere con l’impresa che produce. Trovandosi di fronte a nuova figura di designer e/o a un nuovo modello d’impresa produttrice, è stato utilizzato il termine ‘DESIGNER=IMPRESA’ (D=I) per definire un progettista-microproduttore che riassume in una dimensione personale tutti i processi e le funzioni di un’impresa, che è in grado di concepire, realizzare e gestire un processo di progettazione-produzione-distribuzione di un bene, che intrattiene una relazione diretta con una propria comunità di utenti-clienti. Di questo soggetto ibrido sono state analizzate le competenze e i settori produttivi di riferimento. Uno studio più puntuale sul modello concettuale del designer=impresa è stato poi condotto su: i) i processi di microproduzione, ii) l’organizzazione della microproduzione, iii) la relazione con il mercato. Relativamente ai processi di microproduzione è stato esplicitato il modo in cui il designer=impresa progetta e sviluppa un’attività fabbricativa in particolare come utilizza le tecnologie, come reperisce le risorse materiali e immateriali. Analizzando i casi di microproduzione è stata poi fornita una prima classificazione dei processi di fabbricazione utilizzati (analogue-handmade, digital, bio e interactive fabrication). Dallo studio di questi processi è emersa una caratteristica peculiare del designer=impresa: la capacità di intervenire progettualmente e operativamente sulle tecnologie impiegate nei processi di fabbricazione. Relativamente ai modelli di microproduzione è stato invece esplicitato il modo in cui il designer configura le risorse per la produzione (tecnologie, processi e luoghi di produzione). Anche in questo caso è stata elaborata una prima classificazione dei

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modelli della microproduzione (microfactory, lab, hub e platform). Dall’osservazione dei modelli sono emerse altre caratteristiche del designer=impresa: la capacità di spostare il focus dell’innovazione dal design/customizzazione del sistema prodotto al design/customizzazione del sistema di produzione con la conseguente possibilità di esercitare un controllo (più) diretto e personale sui mezzi di produzione. Questa particolare forma di user e design driven innovation applicata ai processi di fabbricazione si manifesta nello sviluppo di due distinti approcci: il primo definibile come ARTIGIANATO AUMENTATO lavora per accrescere la capacità produttiva del designer attraverso la rigenerazione e il potenziamento delle tecniche artigianali, il secondo definito INDUSTRIA SEMPLIFICATA lavora invece attraverso il depotenziamento e la semplificazione tecnologica e di scala dei processi industriali. Relativamente al mercato è stato esplicitato il concetto di business del designer=impresa e quindi le principali forme di business collegate alla microproduzione. Nel potenziale mercato della microproduzione sono state osservate diverse forme di scambio, alcune delle quali non monetarie e altre di tipo collaborativo. Il termine COMUNITÀ-MERCATO è stato utilizzato per spiegare la varietà di soggetti e ruoli con cui il designer=impresa interagisce per comporre le diverse forme di profitto che sostengono la sua attività di progettista, di produttore, di imprenditore. Partendo dal presupposto che i designer=impresa alimentano un nuovo canale definito DESIGN TO CONSUMER (Olivares, 2012) sono stati classificati anche i diversi modi in cui essi si propongono al mercato. Infine, il modello concettuale del designer=impresa è stato confrontato con altri profili di microproduttori per verificare l’esistenza di caratteristiche e approcci simili al design, alla produzione e alla distribuzione. Dal confronto è emerso come la figura del designer=impresa si possa collocare al centro di una rudimentale tassonomia della microproduzione – un ‘bestiario’ – in cui compaiono altri profili che possono evolversi in un designer=impresa. Si tratta di soggetti interessati alla microproduzione occasionale e amatoriale di parti o componenti di oggetti, di sistemi di prodotti e servizi che presentano vari livelli di complessità) fino alla creazione di attività imprenditoriali della microproduzione di carattere temporaneo o permanente come nel caso del designer=impresa e delle microfactory. Il modello del designer=impresa, in particolare le sue competenze, è stato trasferito nei processi e dei modelli di formazione del designer all’interno di un laboratorio del Corso di laurea magistrale alla Scuola del Design del Politecnico di Milano. In due edizioni di AUTOPRODUZIONI LAB sono state ricreate e simulate dal vero tutte le condizioni che abilitano le attività di microproduzione. Oltre 80 giovani studenti/designer hanno intrapreso un percorso di lavoro che li ha portati in quattro mesi a materializzare un sistema prodotto-servizio attraverso uno o più processi di fabbricazione avanzata e di configurare un network di microproduzione, acquisendo le abilità necessarie per lo sviluppo di queste attività. Una seconda verifica sperimentale sul trasferimento e lo sviluppo delle competenze del designer=impresa è avvenuta attraverso un’iniziativa denominata M@P - MAKING@POLIMI, originatasi in un’altra ricerca scientifica parallela a quella dottorale. In questo caso le competenze del designer=impresa sono state testate simulando uno scenario produttivo della microproduzione in cui le pratiche produttive orizzontali del making e del fabbing

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(racchiude in un makerspace temporaneo) sono state fatte interagire con la specializzazione verticale delle pratiche produttive vicine al mondo dell’industria e dell’artigianato, rappresentate in questo caso dai laboratori tecnici della Scuola del design.

La quarta parte (Esplorazione sul campo) raggruppa un insieme di esperienze di analisi quanti-qualitativa condotte sul modello concettuale del designer=impresa che hanno l’obiettivo di verificare le diverse caratteristiche definite in precedenza. La prima esperienza ha riguardato la costruzione di una mappa fenomenologica specifica sui designer=impresa per analizzare oltre 100 esperienze internazionali di microproduzione (o light case studies) realizzate da altrettanti progettisti. Si tratta di un repertorio di casi selezionati da mostre ed eventi relativi a temi riconducibili alla microproduzione promosse da prestigiose istituzioni scientifiche e culturali e organizzate da esperti e studiosi di design, mass customization, digital fabrication, arte e artigianato. Per ciascun caso sono state ricercate e/o direttamente richieste (intervista, mail, skype) informazioni riguardanti il profilo e il background del designer, l’approccio progettuale, il processo di produzione e l’utilizzo delle tecnologie, il network di relazioni, la strategia distributiva, il mercato, le attività di comunicazione e promozione, il prezzo di vendita e la modalità di distribuzione dei prodotti. I dati ottenuti da quest’analisi sono stati confrontati con altri riconducibili al campo della microproduzione per verificare scostamenti, variazioni o possibili contraddizioni rispetto al modello concettuale del designer=impresa e rilevare differenze e similitudini anche rispetto ad altri microproduttori, ai designer e alle imprese produttrici tradizionali. La seconda esperienza si è basata su cinque casi studio di designer=impresa (o deep case studies) che hanno approfondito alcuni tra i più innovativi progetti di microproduzione mappati in precedenza. Le interviste con i progettisti sono avvenute anche visitando i loro contesti di lavoro. Gli argomenti delle conversazioni hanno ripreso i temi della precedente analisi e si sono focalizzati sulla comprensione dell’interesse verso la microproduzione (origine e motivazioni), l’utilizzo delle tecnologie nel processo che va dall’ideazione alla distribuzione degli artefatti, la configurazione del luogo e degli strumenti di produzione, l’acquisizione delle competenze necessarie per diventare microproduttore, la presenza di un network collegato all’attività produttiva e infine la modalità di relazione con il mercato. La terza esperienza di studio è rappresentata dal progetto MAKERS’INQUIRY. Si tratta della prima edizione di un’indagine socio-economica condotta nel 2014 sul mondo del making, della micro e autoproduzione all’interno di un contesto nazionale, in questo caso l’Italia. Questa iniziativa di studio, elaborata con la Fondazione Make in Italy - CDB e l’Associazione Make in Italy (che rappresenta i Fab Lab e i makerspace italiani) è stata condotta su un campione di 100 makers, designer-autoproduttori e gestori di makerspace. Questi soggetti sono stati analizzati dal punto di vista del profilo e delle competenze, mentre l’attività di microproduzione è stata analizzata dal punto di vista organizzativo ed economico con alcuni elementi di confronto rispetto ai due precedenti lavori di analisi sui designer=impresa.

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La quinta parte (Interpretazione) rilegge tutto il percorso di ricerca attraverso la tesi interpretativa dell’ibridazione tra individuo e organizzazione come possibile paradigma del cambiamento dei modelli di produzione. A partire da questa tesi si apre una discussione su possibili scenari di ricerca in cui vengono proposte alcune applicazioni del modello concettuale del designer=impresa in diversi ambiti: dalle policy per l’innovazione, alle azioni di supporto alle nuove forme di imprenditorialità, ai modelli formativi.

1.2 ESPLORARE IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE: UN PRIMO STATO DELL’ARTE

Questa ricerca esplora dalla prospettiva del design il tema del cambiamento dei modelli di produzione (in particolare quelli su piccola e piccolissima scala), un fenomeno magmatico in fase di rapida evoluzione e di costante ridefinizione, dove non esiste ancora - e forse potrebbe non esistere mai - un pensiero scientifico dominante stratificato e codificato in teorie e pratiche di riferimento per chi approccia questo tema di ricerca.

Dalla metà dei primi anni Duemila, un numero crescente di studiosi e università attive in diversi campi disciplinari – ingegnerie, computer science, scienze sociali ed economiche, architettura e design – ha cominciato a condurre ricerche e sperimentazioni su temi riconducibili al cambiamento dei modelli di produzione. Le inziative di studio e sperimentazione spaziano dalle pratiche emergenti come il making e l’autoproduzione alle tecnologie emergenti come la digital fabrication e il 3D printing, dai luoghi e i servizi emergenti come i Fab Lab e la personal fabrication fino ai processi di progettazione emergenti come l’open design (Bawens, 2012) e il design generativo. Un insieme di azioni che si è progressivamente moltiplicato fino a diventare difficilmente monitorabile per una ricerca che guarda al fenomeno da una prospettiva sistemica. L’intensificarsi di queste iniziative durante il progredire della ricerca se da un lato ha fornito conferme positive sulla rilevanza e le prospettiva di sviluppo del tema di ricerca, dall’altro ha reso necessario un costante e stimolante processo di verifica, aggiornamento e parziale ridiscussione delle conoscenze acquisite. Trattandosi di un tema di ricerca allo stato nascente, la ricostruzione dello stato dell’arte sulle conoscenze finora prodotte è avvenuta combinando tre aspetti: i) sono

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state raccolte e analizzate le pubblicazioni scientifiche e divulgative più rilevanti rispetto al tema, ii) sono stati individuati i gruppi e i centri di ricerca che si occupavano di questi temi da più tempo e da diverse prospettive, iii) sono state mappate le principali iniziative di policy a livello internazionale e nazionale che definiscono o definiranno i principali programmi di ricerca sui nuovi modelli di produzione nei prossimi anni.

1.2.1 LITERATURE REVIEW

L’inizio di questa ricerca (fine 2011), coincidente con la fase dedicata all’esplorazione del tema attraverso il lavoro di literature review, faceva riferimento a un esiguo numero di pubblicazioni scientifiche che osservavano l’evolversi dei nuovi modelli di produzione dal punto di vista sistemico. Testi da cui partire per una prima esplorazione del tema sono stati il libro di Gershenfeld Fab – The coming revolution is on your desktop (2006) e successivamente il libro Open Design Now di Van Abel, Evers, Klaassen e Troxler (2012). Ad animare il dibattito culturale e anche scientifico c’era una netta prevalenza di articoli divulgativi che per almeno un paio di anni sono stati veri punto di riferimento come il pezzo di Chris Anderson su Wired – in the Next Industrial Revolution Atoms are new Bits e gli articoli e i dossier dell’Economist sulla Terza Rivoluzione Industriale. Partendo da queste primissime fonti il lavoro di literature review si è sviluppato in diverse direzioni, toccando una pluralità di campi disciplinari. Di seguito una sintesi complessiva dei principali corpi di conoscenza scientifica esplorati in relazione al tema del cambiamento dei modelli di produzione. Da questo primo nucleo i singoli temi sono stati approfonditi con il contributo di una letteratura scientifica più specifica nei Capitoli 2 e 3.

ELEMENTI DI BASE SUL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE. La letteratura scientifica che tratta il cambiamento dei luoghi di produzione. Per comprendere come i processi di design e produzione possono essere alimentati da luoghi e piattaforme produttive di tipo aperto e collaborativo come i Fab Lab, il punto di partenza è stato l’analisi di un primo corpo di letteratura scientifica che affronta il tema dell’openness in relazione ai processi di progettazione e produzione. Considerando in una forma estesa il concetto di openness e produzione collaborativa (Bawens, 2011, Benkler 2006, Shirky, 2009) l’interesse si è però focalizzato sugli studi che tentano di classificare i modelli di co-creazione che aiutano il designer nei processi di produzione aperti e collaborativi (Mukhtar, Ismail e Yahya; 2012) e sugli studi che spiegano come le intelligenze collettive nel campo del design possono operare sul versante della democratizing production (Ehn, 2011; Serravalli, 2013). Un altro tema esplorato riguarda lo sviluppo delle pratiche produttive di tipo collaborativo all'interno degli hackerspaces, dei Fab Lab e dei makerspaces e l'emergere di una possibile peer- production generation (Troxler, 2011; Menichinelli, 2012; Moilanen, 2012) che abilita una comunità produttiva globale fatta di micro-comunità locali. Quest’ultimo aspetto

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ha costituito l’occasione per esaminare un ridotto numero di pubblicazioni che studiano le dotazioni e la capacità produttive dei luoghi come i Fab Lab (Grøthaug, 2011; Eychenne, 2012; Bicrel, 2012) e conducono osservazioni sulle caratteristiche delle comunità di soggetti che li frequentano (Maldini, 2012 e 2014). Una parte di questi testi si concentra sui possibili modelli di imprenditorialità collegati a questi spazi (Troxler e Schweikert 2011; Menichinelli, 2012, Tiala, 2011,) e sulle funzioni che i Fab Lab possono ricoprire nel campo della ricerca e della formazione (Menichinelli, 2013, Troxler e Wolf, 2011, Griffith, 2012). Aspetti ancora più specifici riguardano la capacità dei Fab Lab di nutrire nuove forme di sociable expertise (Griffiths, 2012) e di sensibilità pratica verso i temi della sostenibilità ambientale (Kothala, 2012). La letteratura scientifica che tratta il cambiamento delle tecnologie di produzione. Una seconda fondamentale attività di literature review è stato attivata sulle tecnologie per la fabbricazione digitale collegate ai nuovi modelli di produzione, addentrandosi e districandosi nella jungla di definizioni e declinazioni dei termini ‘manufacturing’, ‘production’ e ‘fabrication’1. L’obiettivo principale è stato comprendere le relazioni e le specificità tra i diversi processi di additive e subractive manufacturing all’interno del più generale concetto di advanced fabrication e acquisire conoscenze sulle possibilità d’impiego di queste tecnologie nei modelli di produzione distribuita (o networked manufacturing; Kuhnle, 2012) verificandone i principi di modularità, scalabilità e regolarità (Lipson, 2007). Una focalizzazione specifica è avvenuta sul fenomeno disruptivo del 3D printing (Lipson e Kurman, 2013) per comprendere, aldilà del tecno-evangelismo e dei dati tecnici inopinabili sulla crescita del fenomeno, le reali potenzialità di questa e delle altre tecnologie per l’additive manufacturing (Wholers, 2012, Ehrenberg, Lipson e Kurman, 2013) incluso anche l’utilizzo ‘politico’ che è stato fatto di questo termine in associazione con la Terza Rivoluzione Industriale (Carson, 2011). Altre energie sono state spese nella comprensione delle reali prospettive di queste tecnologie nello sviluppo di forme di produzione collegate ad attività in campi finora poco esplorati come il mondo della ricerca e della formazione (Geraedts, Doubrovski, Verlinden; 2012), ma anche la proiezione futura e l’impatto del cambiamento dei modelli di produzione. Questo aspetto incrocia infatti i fenomeni emergenti come l’insourcing che spingono verso la rinascita delle comunità manifatturiere in luoghi come le città, dove una parte consistente delle attività produttive era stata espulsa solo pochi anni prima. Comunità manifatturiere che si distinguono per nuovi soggetti come i maker e per nuove filiere che vanno dall’innovazione al mercato (Roche, Welhausen, 2013) e per nuovi concetti che spaziano dal concetto di made in nazionale a quello urbano (Locke, Wellhausen, 2011; Byron e Nistry, 2012).

1 Durante la fase di literature review sul cambiamento dei modelli di produzione sono stati censiti le seguenti declinazioni di questi termini: Loop Manufacturing, Distributed Manufacturing, Distributed Production, Diffuse Fabrication, Pervasive Fabrication, Networked Manufacturing, Community Based Manufacturing, Informal Manufacturing, Formal Manufacturing Agile Manufacturing, Advanced Manufacturing, Open Fabrication, Open Manufacturing, Open Production, Interactive Fabrication, Digital Manufacturing, Desktop Manufacturing, Digital Fabrication, Biofabrication, Personal Fabrication, Virtual Manufacturing, Additive Manufacturing, Subtractive Manufacturing, Stratigraphic Manufacturing, Rapid Manufacturing, Real Time Manufacturing. Instant Manufacturing, Live Manufacturing, Self-production, Slow Fabrication, Lean Manufacturing, Intelligent Manufacturing, Micro Manufacturing, Small Scale Manufacturing, Urban Manufacturing, Local Manufacturing, Formal Manufacturing. Punk Manufacturing, Indie Production, Cloud Manufacturing, Household Production, High Street Manufacturing.

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La letteratura scientifica che tratta il cambiamento delle caratteristiche dei prodotti in relazione al cambiamento dei modelli di produzione. Una prima analisi della letteratura si è concentrata sull’acquizione di conoscenze che fanno comprendere come i nuovi modelli di produzione e le nuove tecnologie per la fabbricazione digitale cambiano il modo di concepire, progettare e realizzare i prodotti. L’interesse si è polarizzato in due direzioni: da un lato l’osservazione del mondo ‘open source oltre il software’ che si declina nell’open design e nell’open manufacturing (Vallance et al., 2001, Hope, 2003, Kadushin, 2005, Menichinelli, 2007; Bawens, 2009, Howard et al. 2012) e che vede l’emergere di un approccio definibile design for manufacturing dove gli aspetti di producibilità di un artefatto si integrano all’interno della fase di progettazione (Kerbrat et al., 2011); dall’altro il mondo del design generativo che riguarda le infinite combinazioni tra forma e codice/informazione che si esplica nelle tecniche di progettazione/generazione di nuovi prodotti (Reas e McWilliams, 2010; Maeda, 2004; Nake, 2013), nella creazione di meta-prodotti (Baudrillard, 2006; Rubino, Hazenberg, Huisman, 2012, Buching, 2013) e smart thing (Montelisciani, Mazzei e Fantoni, 2014) in cui avviene l’interazione tra informazione e materia, software e hardware (Berzina et al.; 2013). L’esplorazione di questi temi ha incrociato collateralmente anche le riflessioni sulle forme nuove ed evolute di riciclo e di rigenerazione-rimanifatturizzazione dei prodotti esistenti (Slades, 2007; Gomez, 2013; Bramston e Maycroft, 2013) che sono potenzialmente collegabili alle nuove forme di produzione.

IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE OSSERVATO DALLA PROSPETTIVA DELL’INDUSTRIA. Una sterminata letteratura scientifica, che risiede principalmente nei campi dell’ingegneria meccanica industriale e gestionale, studia da tempo l’evoluzione dei modelli di produzione dal punto di vista dell’innovazione tecnologica e dei processi. E’ stato così preso in esame un insieme di pubblicazioni più ristretto che guarda alla progettazione di sistemi di produzione modulari e scalabili in grado di supportare la produzione distribuita di prodotti personalizzati mass- customizzati o tailor-made (Matt e Rauch, 2013). Un parallelo interesse si è focalizzato su un altrettanto esiguo numero di pubblicazioni che tratta il fenomeno legato alla miniaturizzazione dei sistemi di produzione industriali attraverso il concetto di microfactory (Okazaki, Mishima e Ashida, 2004, Piller, 2006). La microfabbricazione è inquadrata sia in una dimensione collegata alla fabbricazione automatizzata di microartefatti che verso sistemi di produzione on-site basati su piccolissime unità produttive dotate di un’unica macchina e in grado di realizzare prodotti personalizzati (come nel caso WholeGarment di Sima Seiki, Peterson et al., 2011). In particolare sono stati analizzati alcuni contributi che esplicitano i diversi concetti e le forme di produzione distribuita con gerarchie policentriche come le minifactory decentralizzate e (in parte) le virtual enterprise, fino ad arrivare alle forme di produzione di tipo frattale caratterizzate da automorfismo, auto-organizzazione e auto-ottimizzazione (Mourtzis and Doukas, 2010).

IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE OSSERVATO DALLA PROSPETTIVA DELL’ARTIGIANATO. Un insieme di pubblicazioni è stato analizzato

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per comprendere o riconsiderare il concetto di contemporary craft alla luce del cambiamento dei modelli di produzione. Il punto di partenza è stato lo studio di alcuni report elaborati da organizzazioni come Craft Council UK che trattano il tema dei nuovi modelli di artigianato in the age of change. Queste letture hanno fornito importanti spunti per approfondire il tema dell’ibridazione tra produzioni artigianali, design e tecnologie digitali, immaginando nuovi panorami produttivi basati sul concetto di tailor-made. In questa direzione uno specifico aspetto riguarda la lunga e ‘travagliata’ relazione tra artigianato e tecnologia (Hughes, 2004). Un crescente numero di attività artigiane comincia a incrociare le pratiche emergenti del making arrivando a generare nuove forme di produzione (digital craft) caratterizzate dall’incrocio tra digital media e digital fabrication. In questo senso anche nei processi di collaborazione tra artigiani e altri tipi di professionisti – dai designer agli esperti di material sciences a quelli di digital and communication technologies (Yair, 2011) - è stato individuato un altro tema di ricerca interessante, che offre un contributo originale alle questioni della sostenibilità sociale e ambientale dei modelli di produzione. Le nuove forme di design autoprodotto in paesi come Gran Bretagna e Olanda (Edelkoort, 2012) costituiscono infine un elemento di riflessione attorno al tema del cosiddetto Crafts Renaissance.

IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE OSSERVATO DALLA PROSPETTIVA DELL’UTENTE. Il punto di partenza è stata l’individuazione di letteratura scientifica che trattasse il tema dell’evoluzione dei processi di customizzazione e personalizzazione della produzione in relazione allo sviluppo dei processi di fabbricazione avanzata (digitale in particolare). Due in questo caso i filoni individuati. Da un lato l’opera pluriennale di studiosi come Von Hippel e Piller che hanno esplorato la progressiva evoluzione del ruolo dell’utente nei processi di produzione fino alle forme di user innovation a cui corrispondono nuove forme di servitizzazione della produzione. Questi studi indagano quali sono i reali e potenziali benefici per gli individui e le comunità locali innescati dalla crescita di forme di produzione personale basate sull’impiego delle tecnologie per la fabbricazione digitale (Kleer e Piller, 2014), soprattutto nella costruzione di nuove filiere che combinano user innovation e user manufacturing per generare nuove forme di user entrepreneurship (Shah and Tripas, 2007; Haefliger et al., 2010). Un altro insieme di pubblicazioni esaminate ha osservato l’evoluzione delle forme di produzione di soggetti come gli hacker o e gli expert amateur che grazie alle nuove tecnologie di fabbricazione trovano un nuovo sviluppo (Paulos e Kuznetov, 2010; Atkinson, 2009). Un supplemento di studi è servito per comprendere le implicazioni che queste nuove forme di produzione realizzate dagli utenti hanno nel modificare la relazione tra produzione formale e informale con possibili nuovi scenari di complementarietà tra questi due mondi (Bigsten, Kimuyu e Lundvall, 2000; Newirth, 2010).

IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE OSSERVATO DALLA PROSPETTIVA DEL DESIGN. Il punto di partenza è stato l’analisi di un ridotto numero di pubblicazioni che affrontano il tema della possibile crisi del design come attività nell’era ‘post-professionale’ (Beegan e Atkinson, 2008) causata anche

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dall’ingresso di nuovi soggetti come i maker che, insinuandosi nella dicotomia professionista-amatore, arrivano a mettere in discussione alcuni tradizionali modelli di gestione del design - e del designer - nella relazione con le imprese (Hacklin, Cruickshank e Evans, 2011). Questo tema corre parallelamente a un altro insieme di pubblicazioni scientifiche che raccontano la trasformazione della figura del progettista come possibile nuovo player nel mondo della produzione individuando nuove possibili figure ibride come il designer-maker e il designer-craftmen (Pittman, Townsend, 2011). Nell’analisi sono stati incorporati anche gli studi (pochi) che applicano alcuni elementi di teorie della critica all’osservazione delle attività di soggetti come i maker e gli autoproduttori evidenziando alcuni nodi problematici relativi ai processi di consumerizzazione della produzione (Ardvisson, 2012, Magaudda, 2012, Morozov, 2013 e 2014, Keen, 2007) in particolare in relazione alla distruzione delle capacità professionali. Anche l’influenza e l’approccio del critical design (Dunne and Ruby, 2005) è stato considerato nella fase di literature review iniziale guardando ai nuovi modelli di produzione come generatori di artefatti che incorporano forme di critica verso comportamenti di consumo individuali e sociali e spingono a riflettere sui valori esistenti, costumi e pratiche all’interno dell’attuale cultura della produzione (il concetto di Critical Making2 espresso da Matt Ratto, 2011 e 2012). Per comprendere invece come si attivano e si sostengono le nuove forme di produzione, che tipo di mercato possono avere e chi le supporta, è stata analizzata una letteratura scientifica ridotta ma emergente che studia le forme di business connesse ai nuovi modelli di produzione, soprattutto quelli su piccola e piccolissima scala. Un tema su tutti in questo campo riguarda le forme sociali di (micro) finanziamento dell’innovazione. L’analisi di testi e dati pubblicati da diversi report e pubblicazioni riporta la crescente rilevanza del crowdfunding (Mollick, 2013, Belleflammea, Lambertc, Schwienbacherd, Mortati e Villari, 2012) ma anche altre forme di consumo collaborativo (Botsman e Rogers, 2010) nello sviluppo di attività di produzione, incluso il possibile ruolo che i social media possono giocare nello sviluppo dei nuovi mercati anche nel modificare il ruolo dei consumatori trasformandoli in nuovi investitori (Ordanini et al., 2014).

UN AGGIORNAMENTO: COME EVOLVE LO STUDIO DEL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE. Per vedere come evolve l’interesse scientifico della comunità accademica mondiale verso i temi della ricerca è stato analizzato come ‘cartina al tornasole’ il database scientifico Scopus. Sono state utilizzate sia parole chiave riferite a fenomeni più storicizzati, che ad aspetti invece più innovativi o meno trattati (Tab 1.1). Argomenti come mass customization o distributed manufacturing sono trattati da una pluralità di discipline e consolidati nel dibattito scientifico. Altri temi invece come il 3D printing, se osservati dopo il 2010, registrano una notevole

2 “Open design can be employed to develop a critical perspective on the current institutions, practices and norms of society, and to reconnect materiality and morality. Introduces ‘critical making’ as processes of material and conceptual exploration and creation of novel understandings by the makers themselves” (in Open Design Now, 2012).

32 #1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

crescita nel numero di pubblicazioni scientifiche, la maggior parte delle quali confinate nelle aree dell’ingnegneria e della computer e material science. Altri argomenti, quelli più propriamente connessi al tema del cambiamento dei modelli di produzione, che interessano maggiormente discipline come il design - il tema dei nuovi produttori, dello urban manufacturing, dei nuovi luoghi di produzione, delle forme di finanziamento all’innovazione autoprodotta - risultano essere ancora poco esplorati dal punto di vista scientifico a fronte di una enorme quantità di pubblicazioni di carattere divulgativo (Tab.1.1). L’insieme di questi termini meno indagati dal punto di vista scientifico costituisce quindi il primo perimetro entro cui questa ricerca esplora il cambiamento dei modelli di produzione.

PUBBLICAZIONI PRINCIPALI AREA TIPO DI (PER ANNO) AUTORI SCIENTIFICA PUBBLICAZIONI USER 2014 (22) Von Hippel, E., Business, Article (151), INNOVATION 2013 (39) Herstatt, C., Franke, Management and Conference Paper 2012 (39) N., Hienerth, C., Accounting (144), (95), Review (17), 2011 (36) Fuller, J. Computer Science Book Chapter (5), (89), Engineering Article in Press (5). (78), Social Sciences (52), Decision Sciences (37).

MASS 2014 (117) Tseng, M.M., Tan, Engineering (1675), Article (1394), CUSTOMIZATION 2013 (192) Simpson, T.W., Qi, Computer Science Conference Paper 2012 (193) G.N., Jiao, J., Piller, (883), Business, (1015), Review (91), 2011(228) F.T Management and Book Chapter (63), Accounting (613), Conference Review Decision Sciences (31). (370), Material Science (171).

DO-IT-YOURSELF 2014 (98) Paulos, E., Buechley, Computer Science Article (459), 2013 (108) L., Kuznetsov, S. (7) (215), Social Conference Paper 2012 (102) Anon, E., Mellis (4) Sciences (176), (208), Review (56), 2011 (83) Engineering (172) Note (47), Short 2010 (85) Business Survey (36). Management and Accounting (100).

MAKER 2014 (5) Fawcett, S.E., Computer Science Article (9), MOVEMENT 2013 (14) Peppler, Waller, (10), Business Conference Paper 2011 (1) M.A., Bean, J. management and (8), Article in Press 2010 (1) Accounting (5), (1), Note (1) Social Sciences (5), Review (1). Engineering (4), Mathematics (3).

URBAN 2014 (3) Daitoh, I.,, De Leon Social Sciences (27), Article (32), Review MANUFACTURING 2012 (2) Arias, A., Jones, Economics, (5), Conference 2011 (2) D.W., Kipnis, B.A., Econometrics and Paper (3), Book 2010 (2) Curran, W. Finance (11), Chapter (2), Book Environmental (1). Science (9), Earth and Planetary Sciences (6), Arts and Humanities (5). FAB LAB 2014 (4) Diez, T. (2) Hortner, Engineering (74), Article (80), 2013 (11) H. (2), Lindinger, C. Material Science Conference paper 2012 (6) (2), Troxler, P. (2) (28), Physics and (45), Review (11), 2011 (9) Ogawa, H. (2) Astronomy (28), Short Survey (5) 2010 (5) Beauce, P. (1), Medicine (22), Conference Review Beyers, R.N. (1), Computer Science (2). Bjorner, S. (1), (18). Bosque, C. (1)

#1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA 33

2014 (8), Lau, M., Lipson, H., Computer Science Conference paper 2013 (8), Villar, N., Gellersen, (21), Engineering (24), Article (11), PERSONAL 2012 (8), Gershenfeld, N., (10), Social Science Conference Review FABRICATION 2011 (3), (6), Material Science (2), Review (2),

2010 (1) (5) Editorial (1)

DISTRIBUTED 2014 (299) Anon, Wang, L., Engineering (5.823), Article (3726), MANUFACTURING 2013 (451) Shen, Harrison, R., Computer Science Conference Paper 2012 (463) Nof, S.Y., Kunhle, (2.450); Decision (3582), Conference 2011 (461) H. Science (783); Review (318), 2010 (467) Mathematics (657); Review (193) Physics and Book Chapter (90). Astronomy (620)

THIRD 2014 (13) Clark, W.W.; RIfkin, Engineering (87), Article (177), INDUSTRIAL 2013 (26) J., Williamson, J.G., Social Sciences (82), Conference paper REVOLUTION 2012 (26) Eckstein, S, Environmental (46), Review (28), 2011 (16) Science (46), Book Chapter (18) 2010 (18) Earth and Planetary Editorial (5). Sciences (45), Arts and Humanities (38). DIGITAL 2014 (51) Choi, S.H., Sass, L., Engineering (281) Source Title FABRICATION 2013 (91) Cheung, H.H., Physical Astronomy Conference paper 2012 (54) Zoran, A., Kohler, (244), Computer (268), Article (121), 2011 (43) M. Science (37), Conference Review Material Science (14), Review (12), (26), Book Chapter (8). Mathematics (25). 3D PRINTING 2014 (445) Huson, D., Lipson, Engineering (734), Article (602) 2013 (351) H., Seitz, H., Diegel, Material Science Conference paper 2012 (141) O., Gbureck, U. (419), Computer (555) 2011 (103) Science (368), Review (54) 2010 (62) Physics and Article in press (42) Astronomy (230), Conference Review Medicine (146). (35)

CROWDFUNDING 2014 (64) Muller, M., Geyer, Computer Science Article (68), 2013 (61) W., Ghose, A., (54), Social Sciences Conference Paper 2012 (16) Parmar, A., Lehner, (33), Business, (44), Conference 2011 (4) O.M. Management and Review (7), Note (7), 2010 (1) Accounting (28), Short Survey (6). Economics, Econometrics and Finance (22), Engineering (20).

Tab.1.1 – Parole chiave della ricerca nel database scientifico SCOPUS Elsevier.

34 #1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

1.2.2 CHI STA STUDIANDO IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE

Oltre ai tecnoevangelisti come Chris Anderson e Dale Dougherty e di riviste come Wired e Make o a pensatori come Matthew Crawford, che con le loro pubblicazioni hanno avuto un ruolo di leader culturali e influencer politici rispetto all’avvento della cosiddetta THIRD INDUSTRIAL REVOLUTION e al ritorno a forme di lavoro centrate sull’umanizzazione dei processi di produzione, diversi studiosi e gruppi di ricerca stanno esplorando il cambiamento dei processi della produzione manifatturiera proponendo nuovi modelli e scenari (forecasting). Sono probabilmente tre le esperienze di ricerca fondative in questo campo. Esse si sono tutte sviluppate nella seconda metà degli anni Duemila attorno a due temi principali:

o ACCESSO APERTO E COLLABORATIVO ALLE RISORSE PER LA FABBRICAZIONE DIGITALE. Questo tema è racchiudibile nella parola FAB LAB, un programma di ricerca finanziato nel 2001 al Center for Bits and Atoms del MIT3 (finanziato nel 2001, cba.mit.edu/) e diretto da Neil Gershenfeld4 che ha poi innescato il fenomeno dei laboratori per la fabbricazione digitale su scala globale.

o DEMOCRATIZZAZIONE DELLE TECNOLOGIE PER LA FABBRICAZIONE DIGITALE. Rispetto a questo tema sono due i progetti ‘capostipite’. il progetto REPRAP avviato nel 2005 da Adrian Bowyer (University of Bath) con l’obiettivo di realizzare una stampante 3D ‘autoreplicante’ a basso costo, dall’altro il progetto FAB@HOME condotto da Hod Lipson della Cornwell University con lo stesso fine. Il progetto RepRap in particolare ha dato inizio alla rivoluzione delle stampanti 3D open-source. Molti degli oltre 100 modelli di stampanti originatesi 3D sono riprodotti usati tutti i giorni nella comunità dei Makers, alcuni di questi hanno consentito lo sviluppo di imprese come Ultimaker e MakerBot.

Il lavoro scientifico di Neil Gershenfeld, Adrian Bowyer e Hod Lipson costituisce una base di partenza importante per chi intende esplorare il tema del cambiamento dei modelli di produzione. Ma oltre al lavoro del Center for Bits and Atoms del MIT, all’Università di Bath e alla Cornell University, altri gruppi centri di ricerca che operano sull’incrocio tra i temi della mass customization, dell’open innovation (open design) e della digital fabrication e stanno fornendo importanticontributi:

3 Il programma di ricerca si è basato sulla collaborazione tra Grassroots Invention Group and il Center for Bits and Atoms (CBA) al MIT Media Lab ed è stato finanziato da National Science Foundation (Washington, D.C.) nel 2001. Al CBA sono attivi anche i seguenti programmi e progetti di ricerca: digital materials and assemblers (http://dma.cba.mit.edu/), biobits (http://bio.cba.mit.edu/), machines that make machines (http://mtm.cba.mit.edu), fab modules (http://kokompe.cba.mit.edu), programmable surfaces (http://fab.cba.mit.edu/about/faq), programmable matter (http://milli.cba.mit.edu), mind machines (http://mmp.cba.mit.edu), internet of things (http://i0.cba.mit.edu). 4 Il saggio intitolato How to Make Almost Anything - The Digital Fabrication Revolution pubblicato a fine 2012 sulla rivista Foreign Affairs presenta i risultati del lavoro di Gershenfeld su questi temi. (http://cba.mit.edu/docs/papers/12.09.FA.pdf)

#1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA 35

o Sempre negli USA, lo Smart Customizaton Group del MIT sta facendo evolvere il tema della mass customization verso i temi della personalizzazione della produzione e dell’open innovation in relazione alle potenzialità (e ai limiti) offerti dalle tecnologie per la fabbricazione digitale. All’Institute for Digital Fabrication della Ball State University (Indiana) opera invece il gruppo I-Made (www.i-m-a-d-e.org/) che indaga la relazione tra design e tecniche di fabbricazione digitale sia per l'industria che per la formazione attraverso progetti di ricerca applicata e interdisciplinare che coinvolgono studenti, professionisti del design e settore manifatturiero. o In Inghilterra all’Università di Falmouth è attivo dal 2003 il gruppo di ricerca Autonomatic (www.falmouth.ac.uk/autonomatic) che esplora la relazione tra design e tecnologie per la fabbricazione digitale lavorando in modo multidisciplinare sull'innovazione di processo e di prodotto con un approccio sperimentale sulle tecnologie digitali in combinazione con strumenti e metodi tradizionali. o Sempre in Inghilterra University of the Arts London, the Royal Institute of British Architects (RIBA), Imperial College London e TIGA hanno costituito il consorzio Creative Industries KTN che ha realizzato un osservatorio di ricerca su questo tema, Mentre David Gauntlett ha sviluppato una ricerca sul valore sociale della creatività (sfociata nel famoso libro Making is connecting). o In Spagna presso l’Institute of Advance Architecture che gestisce il Fab Lab di Barcellona è presente un nucleo di ricerca che lavora sul tema EcoMachines as Infrastructural Networks (architettura e fabbricazione digitale) ed è attivamente impegnato nel progetto Fab City5: la costruzione di un progetto di sviluppo capillare dei Fab Lab nella città di Barcellona per ri-creare un tessuto connettivo di capacità produttiva diffuse. o Dall’Olanda e dal Belgio, dove esiste un sistema di makerspace molto sviluppato e una forte cultura sul design autoprodotto, provengono esperti come Peter Troxler e Michel Bawens impegnati a studiare la relazione tra le forme di progettazione e produzione open source in relazione ai modelli di produzione connessi alla manifattura digitale e ai Fab Lab. o In Italia la Venice International University con l’economista Stefano Micelli (autore del libro Futuro Artigiano) si sta concentrando sullo studio del making e dell’autoproduzione come nuove attività economiche da collegare alle nuove forme di artigianato. Altri importanti studi sui modelli di business connessi ai Fab Lab e sul ruolo di queste strutture nei processi di formazione sono stati condotti da studiosi come Massimo Menichinelli (Aalto University, openp2pdesign.org) e da un recentissimo lavoro di ricerca sul tema della

5 La città di Barcellona durante l’ultima Conferenza Fab10 ha presentato il progetto “Fab Cities”, con il quale il consiglio comunale spera di stabilire una rete di Fablab di quartiere. L’obiettivo è avere, nell’arco di circa 6 anni, 10 laboratori attivi e integrati con le comunità locali, uno cioè per ogni distretto. http://www.domusweb.it/it/design/2014/07/17/dai_fablab_alle_fab_cities.html

36 #1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

collaborazione e dell’openness nella produzione condotto da Anna Serravalli (Malmoe University)6.

IL TEMA DI RICERCA NEL PANORAMA SCIENTIFICO DEL POLITECNICO DI MILANO. Il tema di ricerca adottando il punto di vista disciplinare del design va a toccare e stimolare una serie di competenze e di campi di studio dove all’interno del Politecnico di Milano sono presenti le seguenti linee di ricerca:7

o Methods and Tools for Product Design, con le linee di ricerca PLM-Product Lifecycle Management and Virtual Prototyping” e con alcuni dei laboratori connessi: haptics & reverse engineering e virtual prototyping & augmented reality, tecnology and production system, robotics, laser applications; o Strategic Management, Innovation Management and Organization, dove tra le diverse linee di ricerca è presente un focus sullo studio del complesso di legami e influenze reciproche strategia, management e l'uso della tecnologia, attraverso l'analisi dei processi aziendali sia all'interno che all'esterno della società. o Industrial Engineering è storicamente l’area di ricerca che lavora sulla modellazione, progettazione, automazione, funzionamento e miglioramento di impianti industriali e sistemi produttivi e dell'industria manifatturiera. In quest’area di lavoro c’è un’importante attività di leadership che il Politecnico di Milano riveste nel campo delle Factories of the Future. o Technologies for the Information Society, dove sono presenti le linee di ricerca Artificial Intelligence, Robotics and Computer vision, Advanced software architectures and methodologies, Microelectronics and emerging technologies, Networking.

Analizzando queste diverse attività di ricerca (con un aggiornamento al 2013) si possono fare due considerazioni: 1. in merito all’area dei prodotti e dei processi si fa riferimento alla sola dimensione industriale, mentre tutte le pratiche produttive legate all’artigianato o all’autoproduzione e le dimensioni del fabbing e del making non sono esplicitamente dichiarate o affrontate; 2. Il design è ancora principalmente visto come funzione connessa alla produzione, non è contemplata una visione alternativa in cui la produzione è parte integrante di un processo che si genera e si sviluppa dal progetto.

6 La ricerca di dottorato si intitola Making Commons – Attempts at composing prospects in the opening of production, ISBN 978-91-7104-583-6 (print) 7 Le frasi sulle linee di ricerca sono estrapolate dalle descrizioni delle aree di ricerca pubblicato sul portale del Politecnico di Milano http://www.polimi.it/ricerca-scientifica/areediricerca/.

#1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA 37

1.2.3 IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE NELLE INNOVATION POLICY

Esiste una grande questione che sta in cima a molte agende della ricerca e della politica contemporanea: come si fa a conciliare un modello di sviluppo avanzato, democratico ed equo, con la progressiva affermazione di una visione di sostenibilità sociale, economica e ambientale? La soluzione a questa domanda rimette al centro una grande questione: la relazione tra ideazione, produzione e consumo delle merci e dei servizi. Per motivi e obiettivi diversi, il cambiamento dei modelli di produzione è un tema oggi centrale in molti programmi di ricerca e d’innovazione di molti paesi, soprattutto in Occidente.

Negli USA, dove si è originato il movimento culturale-produttivo dei maker, le esperienze di ricerca del Center for Bits and Atoms del MIT e della Cornell University Labs e dove opera il gruppo MakerMedia, il governo americano sta investendo sul ritorno alla produzione manifatturiera e da qualche anno ha attivato specifici programmi di finanziamento (DARPA) per lo sviluppo delle tecnologie additive finalizzate alla personal fabrication. Il presidente Obama a gennaio 2013 ha varato un piano nazionale che lavora sullo sviluppo di attività manifatturiere avanzate8 per favorire l’insourcing e la rilocalizzazione delle attività industriali sul territorio statunitense. Tra le diverse azioni Obama ha lanciato un bando per la creazione di un network nazionale per l’innovazione che si basa sulla creazione di manufacturing innovation institutes su tutto il territorio nazionale:

“This type of innovation infrastructure provides a unique 'teaching factory' that allows for education and training of students and workers at all levels, while providing the shared assets to help companies, most importantly small manufacturers, access the cutting-edge capabilities and equipment to design, test, and pilot new products and manufacturing processes”. (Dal sito ufficiale US Department of Energy, 9 maggio, 2013)

Nel 2012 era stata avviata la costituzione di un primo istituto pilota denominato National Additive Manufacturing Innovation Institute (NAMII, 30mln $).9 A maggio 2013 è stato varato il bando per altri tre istituti, uno dei quali sarà dedicato alla relazione tra Digital Manufacturing e Design Innovation10:

“Advanced design and manufacturing tools that are digitally integrated and networked with supply chains can lead to 'factories of the future' forming an agile U.S. industrial base with significant speed to market advantage. A national institute focusing on the development of novel model-based design methodologies,

8 http://manufacturing.gov/docs/NNMI_prelim_design.pdf 9 “Plan to Make America a Magnet for Jobs by Investing in Manufacturing” 10 http://www.manufacturing.gov/welcome.html

38 #1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

virtual manufacturing tools, and sensor and robotics based manufacturing networks will accelerate the innovation in digital manufacturing increasing U.S. competitiveness.” (Dal sito ufficiale della Casa Bianca, 9 maggio, 2013).

In Europa, in paesi come il Regno Unito dove la manifattura era scomparsa, si torna a parlare di Made in Britain. Attraverso le iniziative di strutture come Nesta UK o The Manufacturing Institute11 si cerca di comprendere il ruolo e l’evoluzione di queste tecnologie e il loro potenziale, sia in una chiave d’innovazione sociale che nella coltivazione di giovani talenti che possano assicurare un futuro all’industria manifatturiera nazionale. In altri paesi europei come Olanda, Belgio, Spagna esistono reti nazionali, regionali e urbane di Fab Lab originatesi da programmi di ricerca europei e collegate a università e centri di ricerca che indagano le dimensioni del making, del fabbing, del DIY e del tinkering anche in relazione a temi come lo sviluppo urbano o alla riconversione/riqualificazione delle competenze dei lavoratori esplusi dal mondo industriale. In Italia l’interesse verso i nuovi modelli di produzione – in particolare making e autoproduzione in particolare – è emerso più tardi rispetto a paesi come USA o aree come il Nord Europa o la Spagna ma si è poi sviluppato moto velocemente a livello politico-istitutionale, economico-professionale (vedi Capitolo 4) e anche scientifico. L’Italia oggi è osservata con molta attenzione nel panorama internazionale. Di recente costituzione il Cluster Nazionale Fabbrica Intelligente12 (Ministero Italiano per l’università e la ricerca) nato per affronterà temi rilevanti per la manifattura del futuro in sintonia con Horizon 2020. Ancora più recente è la nascita di iniziative bottom up come l’Associazione Make in Italy e la Fondazione Make in Italy CDB che hanno tra i loro compiti quello di supportare iniziative di ricerca nel campo del making e dell’autoproduzione. Il fermento culturale operativo si sta aggregando intorno al crescente numero di eventi dedicati al design autoprodotto (da Operae a Open Design Italia a MISIAD Milano si autoproduce design) che ottengono consenso di critica e pubblico. Anche organizzazioni e associazioni d’impresa come CNA e Confartigianato finanziano iniziative culturali e di ricerca per promuovere il tema del nuovo artigianato creando occasioni di sperimentazione tra designer, makers e artigiani tradizionali. In Europa, a livello Comunitario, i temi legati al futuro dell’industria manifatturiera hanno da qualche tempo trovato un primo importante consolidamento nella creazione della Piattaforma Tecnologica Europea Manufuture (2004). Nel 2009 è stato creato il primo programma di ricerca sulle Factories of the Future. Dal 2011 è attiva l’associazione EFFRA - European Factories of the Future Research Association che gestisce le attività di roadmap finalizzate allo sviluppo di programmi di ricerca Horizon 2020 sulle nuove piattaforme abilitanti per l’innovazione nei settori manifatturieri:

“… a new European model of production systems for the factories of the future (e.g. transformable factories, networked factories, learning factories) depending on drivers such

11 www.manufacturinginstitute.co.uk/ 12 http://www.intelligentfactory.i

#1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA 39

as high performance, high customisation, environment friendliness, safety, high resource-effi ciency, enhancing human potential and new knowledge creation…”

Nel 2012 la Commissione Europea ha anche stimolato i paesi membri a investire pesantemente nelle tecnologie per la digital fabrication (3D printing) per contrastare il declino di molti settori manifatturieri. Questo tema infine è stato inserito anche nell’agenda politica dell’European Design Innovation Initiative della DG Enterprise and Industry (le linee guida sono contenute nel report Design for Growth and Prosperity13del 2012) a conferma della centralità della relazione tra design e nuovi processi fabbricativi nel cambiamento dei modelli di produzione.

1.3 METODOLOGIA

1.3.1 IPOTESI DI RICERCA

Rispetto al lavoro di literature review, all’individuazione delle più importanti attività di ricerca e dei programmi di policy e finanziamento si evidenziano tre possibili research gap, che possono aiutare a definire meglio il tema e formulare più accuratamente le domande di ricerca:

1. Il lavoro di literature review ha fatto emergere come nell’area di studi emergente che indaga il cambiamento dei modelli di produzione vi siano dei fenomeni mainstream come il 3D printing su cui si stanno concentrando gli studi di carattere scientifico, mentre risulta più carente un lavoro di lettura sistemica di questi fenomeni, non solamente nel campo disciplinare del design. In diverse letture scientifiche se il design è considerato un fattore chiave da utilizzare come risorsa, strumento o processo da utilizzare in modo aperto e condiviso nei nuovi processi di fabbricazione, diverso sembra essere il ruolo attribuito al designer che viene visto come una professione non più indispensabile o determinante nei nuovi processi di produzione (Atkinson, 2009). In questo caso l’ipotesi che si vuole dimostrare attraverso la ricerca è non solo che le competenze del designer sono ancora indispensabili ma che il designer stesso (nell’accezione allargata di progettista) è un soggetto particolarmente abile nell’utilizzare le risorse per la fabbricazione avanzata in modo originale e e in alcuni out-of-the-box rispetto a soggetti come i makers.

2. L’analisi dei gruppi di ricerca che operano su questi temi mostra come i nuovi processi di produzione siano principalmente osservati dal punto di vista

13 http://ec.europa.eu/enterprise/policies/innovation/files/design/design-for-growth-and-prosperity-report_en.pdf

40 #1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

tecnologico (le tecnologie per la fabbricazione digitale, addittiva in particolare) evidenziando come questi studi siamo molto presenti nell’ingegneria e in misura minore nel campo della computer science. Anche in questo caso sebbene il design sia ritenuto una risorsa importante in questi processi, esso riveste ancora un ruolo secondario, complementare o sussidiario. Una corrente di pensiero e di azione vede il design come una funzione o un’attività parametrizzata che può essere generata attraverso tecnologie basate su algoritmi e programmazione software per essere poi liberamente manipolata o processata dall’utente. Un’altra questione che dalla literature reiview sembra ancora carente sposta invece la riflessione sui temi del making e della personal fabrication in relazione alla filosofia del macchinismo. Sta crescendo, anche se ancora debole, un filone di pensiero che esprime un’aperta critica al making (Morozov, 2014) e che può far per comprendere se processi come la digital fabrication siano considerabili come una nuova forma di macchinismo in una chiave di determinismo sociale e tecnologico o se rappresenta davvero una nuova fase del rapporto tra evoluzione delle tecnologie produttive e progresso sociale in una prospettiva costruttivista. L’ipotesi che si vuole dimostrare attraverso la ricerca è che il design sta sviluppando una relazione organica con la tecnologia (spingendosi anche a ipotizzare che il design possa essere una particolare tecnologia, Arthur; 2012) e che il designer che opera nel campo dei nuovi modelli di produzione non è un semplice utilizzatore di tecnologie che ma anzi è un soggetto attivo nella loro modificazione e perfino progettazione.

3. L’analisi della letteratura scientifica e dei gruppi di ricerca appartenenti a discipline umanistiche come architettura, design ma anche alle scienze sociali ed economiche, mostrano una maggiore attenzione verso i nuovi modelli di produzione in una prospettiva differente: esplorano infatti il potenziale delle tecnologie della fabbricazione digitale e di luoghi come i Fab Lab in una chiave d’innovazione sociale e sistemica. Questo mentre cominciano a consolidarsi i primi risultati degli studi che provano a dimostrare come i Fab Lab e le piattaforme per la digital e personal fabrication siano i nuovi generatori di innovazione e imprenditorialità. Allo stato attuale non sono però stati individuati studi e ricerche specifiche sulle forme in cui evolvono i processi di generazione creativa quando si collegano ai processi di fabbricazione emergenti in termini di innovazione, di servizi, di nuovi modelli di business, di nuove tecnologie; e nemmeno è misurato il ruolo e l’impatto che essi hanno all’interno dei processi di produzione tradizionali o all’interno del sistema delle professioni del progetto. Gli economisti in particolare intuiscono l’importanza della creatività e sono in grado di connetterla ai modelli di innovazione, ma non spiegano in modo esaustivo come si sviluppano i processi di generazione creativa quando si connettono al tema dei nuovi modelli di produzione. L’ipotesi che si vuole dimostrare attraverso la ricerca è che i nuovi processi di fabbricazione non siano di per sé generatori di innovazione ma al contrario senza persone dotate di

#1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA 41

competenze progettuali o con uno scopo progettuale-produttivo ben definito i processi di fabbricazione digitale portino nella maggior parte dei casi a risultati molto modesti, tanto da farci apparire questo fenomeno più come un involuzione che come una rivoluzione industriale.

1.3.2 DOMANDE DI RICERCA

Partendo dalle ipotesi preliminari che ragionano su ‘cosa’ sta cambiando nel campo della produzione e su ‘cosa’ si vuole esplorare e confutare è stata individuata la principale domanda di ricerca: Come cambia il design – in termini di ruolo, competenze e attività - in relazione al cambiamento dei modelli di produzione?

La domanda di ricerca si propone di studiare ‘come’ avvengono i cambiamenti e nello specifico:

D2. Come cambiano i processi di ideazione, produzione e distribuzione di beni e servizi?

D4. Come cambia la figura del designer in relazione al cambiamento dei modelli di produzione?

D3. Come cambia la relazione tra designer e impresa in relazione al cambiamento dei modelli di produzione?

1.3.3 OBIETTIVI DELLA RICERCA

La ricerca si propone di approfondire un campo di studi emergente, quello in cui il design lavora con il cambiamento dei modelli di produzione. Nello specifico la tesi propone di: o costruire uno scenario evolutivo delle tecnologie per la fabbricazione avanzata e distribuita soprattutto individuando le loro potenzialità di sviluppo nei processi di design finalizzati alle produzioni su piccola e piccolissima scala;

o costruire un quadro conoscitivo sull’evoluzione dei modelli di produzione emergenti in relazione alle nuove tecnologie;

o costruire un quadro conoscitivo sull’evoluzione dei soggetti produttori con un particolare focus sulla figura del progettista;

o codificare e modellizzare i processi di produzione sviluppati dalle nuove figure di produttori;

42 #1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA

o individuare possibili utilizzi o integrazioni originali dei processi progettuali connessi alla fabbricazione avanzata e distribuita all’interno dei processi produttivi tradizionali dell’industria (PMI) e degli artigiani.

1.3.4 FRAMEWORK DELLA RICERCA

Il modello della tesi si caratterizza per il mescolamento di uno studio di tipo culturale con un approccio di ricerca fenomenologico. Gli obiettivi della ricerca qualitativa fenomenologica sono descrivere e analizzare i dati narrativi relativi a un insieme di esperienze collegate a un fenomeno come il cmbiamento dei modelli di produzione e vissute da parte dei soggetti osservati (Waters, 2010). Combinando il metodo della literature review con un mix di attività di ricerca qualitativa condotta attraverso casi studio (light cases, deep cases analysis) e survey è stato possibile riflettere sulle principali ‘idee’ circolanti in questo campo (parlare di teorie è fuorviante) analizzando i processi che stanno realmente accadendo e i diversi soggetti/realtà che li sviluppano. In assenza di specifiche teorie sul fenomeno indagato, il modello interpretativo della ricerca ha cercato di spiegare il comportamento del design in relazione al cambiamento dei processi e dei modelli di produzione appoggiandosi a teorie esistenti elaborate in altri campi del sapere (come le teorie dei sistemi e dell’innovazione sistemica, teorie della complessità, etc.) e individuando proprietà e caratteristiche intrinseche del fenomeno analizzato tali da spiegarne le caratteristiche o i comportamenti osservabili dall’esterno.

La ricerca è iniziata con l’analisi dei progetti sviluppati nei Fab Lab dando per scontato (non che ciò fosse sbagliato a priori) che il cambiamento dei modelli di produzione proponesse in qualche modo degli esiti evidenti per i soggetti. Lo studio ha però progressivamente evidenziato come in assenza di competenze progettuali questi luoghi e queste tecnologie non esprimano di per sè nulla di innovativo: in sostanza sono luoghi e tecnologie abilitanti più che generatori d’innovazione. Le attività iniziali di literature review e use case analysis hanno anche permesso di individuare la chiave interpretativa che ha poi orientato lo sviluppo della ricerca. Nei soggetti analizzati il baricentro dell’attività progettuale tende a spostarsi dalla progettazione del sistema prodotto-servizio verso la progettazione dell’intero processo ideativo-fabbricativo e la configurazione del modello organizzativo necessario per produrlo, promuoverlo e distribuirlo sul mercato. A partire da questa evidenza sono stati identificati due specifici temi di ricerca tra loro collegati: i nuovi processi progettuali (con focus su soggetti e attività) e i nuovi modelli di produzione (con focus su luoghi e strumenti di produzione). La ricerca ha optato per lo studio dei nuovi processi progettuali proseguendo lo studio dei modelli di produzione attraverso lo sviluppo a fine 2012 di una nuova ricerca scientifica denominata MakeFactory - Nuovi modelli di connessione tra

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design, fabbricazione digitale e reti produttive finanziata dal Politecnico di Milano con fondi di Ateneo per la ricerca di base (makefactory.org, periodo 2013-2014)14. La scelta di focalizzarsi sullo studio dei processi ha una ragione precisa: la fase iniziale della ricerca aveva evidenziato come fossero i nuovi processi creativi a determinare configurazioni piùà innovative dei nuovi modelli di produzione. Il cambio di prospettiva ha modificato il tipo di ricerca: da una ricerca quanti- qualitativa condotta sui luoghi e le tecnologie (che in qualche modo sono misurabili) ad una qualitativa condotta sui soggetti e le loro esperienze. Tuttavia lo studio fenomenologico se da un lato consente di ottenere elementi di conoscenza in modo diretto in assenza di dati disponibili sul fenomeno osservato, dall’altro contiene in sé una fragilità metodologica che può deformare il quadro dei risultati finali con il rischio di generare falsi positivi. Due i punti critici evidenziati: o gli esiti dell’analisi effettuate con un approccio fenomenologico devono essere ricondotte a un campo scientifico in fase di popolamento e definizione delle proprie identità disciplinari, quindi ancora instabile e in evoluzione; o la costante e concretà possibilità di confondere il campo dello studio (i processi e i soggetti) con il campo degli effetti (i modelli di produzione).

Per ridurre queste criticità la ricerca ha provato a osservare il cambiamento dei modelli di produzione in una chiave sistemica adottando un approccio di tipo additivo e inclusivo nello studio e nella lettura dei fenomeni. In questo modo ha cercato di verificare come alcuni processi o competenze nell’utilizzo delle tecnologie individuati in soggetti come i designer fossero presenti o meno in altri soggetti come i makers, oppure come l’utilizzo delle tecnologie di fabbricazione digitale in luoghi come i Fab Lab avesse punti in comune o di divergenza rispetto all’utilizzo delle stesse negli studi di design. Nel definire la metodologia di ricerca è stata posta molta attenzione a non ridurre i fenomeni indagati e le esperienze analizzate a una descrizione superficiale. A questo proposito è stato fatto un tentativo sistematico di discernere i dati e le informazioni più significative evitando la mera somma dei risultati descrittivi ottenuti. Un ultimo aspetto riguarda la relazione tra teoria e pratica all’interno della ricerca. La ricerca ha provato a sviluppare due piccole attività di sperimentazione basate sul trasferimento di conoscenze relative ai processi di progettazione e produzione ottenute attraverso lo studio fenomenologico. Queste conoscenze sono state applicate nel campo nella formazione all’interno di un ambiente ‘protetto’ - corsi e laboratori della Scuola del Design del Politecnico di Milano - dove gli effetti ‘imprevisti’ legati alla loro applicazione sono in qualche modo controllabili e correggibili. L’obiettivo di queste iniziative è quello di produrre una prima verifica sul trasferimento di conoscenze legati agli skill del designer. La validità scientifica di queste sperimentazioni dovrà quindi essere ulteriormente verificata in altri contesti.

14 Gruppo di coordinamento della ricerca: Venanzio Arquilla, Massimo Bianchini, Stefano Maffei, Dipartimento di Design del Politecnico di Milano.

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1.3.5 FASI E ATTIVITÀ

Lo schema sottostante esplica le principali fasi del percorso di ricerca (Tab. 1.2):

FASE 1. ESPLORAZIONE DEL TEMA (LIVELLO MACRO) Attività Analisi fenomenologica della relazione tra design e cambiamento dei modelli di produzione. Obiettivi - Mappatura delle nuove tecnologie produttive; - Mappatura dei nuovi soggetti produttori - Mappatura dei nuovi luoghi di produzione - Studio delle interazioni tra tecnologie, soggetti e luoghi. Metodi di ricerca - Literature review - Desk analisys - Case Studies Risultati Definizione del concetto di microproduzione distribuita15

FASE 2. ESPLORAZIONE DEL TEMA (LIVELLO MICRO) Attività Analisi fenomenologica della relazione tra design e cambiamento dei modelli di produzione focalizzata sulla figura del designer e sulle pratiche di microproduzione. Obiettivi - Mappatura delle nuove tecnologie produttive; - Mappatura dei nuovi soggetti produttori - Mappatura dei nuovi luoghi di produzione - Studio delle interazioni tra tecnologie, soggetti e luoghi Metodi di ricerca - Literature review - Desk analisys - Case Studies - Action Research Risultati Definizione del modello concettuale di designer=impresa

FASE 3. ANALISI E COMPRENSIONE (LIVELLO MICRO) Attività Analisi e comprensione dei processi progettuali finalizzati alla microproduzione sviluppati da designer=impresa su scala internazionale. Obiettivi - Mappatura dello sviluppo dei processi microproduzione - Mappatura degli approcci progettuali adelle tecnologie - Mappatura delle merceologie - Mappatura dell’approccio al mercato - Mappatura delle configurazioni dei luoghi e delle risorse produttive Metodi di ricerca - Literature Review - Digital Etnography - Case Studies

15 Il termine è già stato definito a livello generale durante il biennio di ricerca. Con il termine microproduzione si fa un riferimento al processo che ha come obiettivo la produzione di prototipi-prodotto, prodotti unici, piccole serie o serie limitate. Le finalità del processo di microproduzione riguardano: lo sviluppo di un singolo sistema prodotto-servizio (o di una serie limitata); la rigenerazione o l’upgrade di un singolo prodotto (o di una serie limitata); la personalizzazione di un singolo prodotto (o di una serie limitata); la riparazione creativa o l’hackeraggio di un singolo prodotto (o di una serie limitata); la replicazione o riproduzione di un singolo prodotto (o di una serie limitata).

#1 | TEMA E METODOLOGIA DI RICERCA 45

- Interviews Risultati Verifica ed esplicazione del modello concettuale del designer=impresa.

FASE 4. SPERIMENTAZIONE SUL CAMPO (LIVELLO MACRO) Attività Impostazione di un’inziativa di studio periodica nel campo della microproduzione condotta su makers, designer autoproduttori e gestori di Fab Lab e applicata a un contesto geografico nazionale (l’Italia). Obiettivi Ottenere dati su makers, designer e gestori di Fab Lab rispetto a: - abitudini sociali; - livello di competenze tecniche e tecnologiche; - economie legate all’attività di making, micro e autoproduzione - mercato della microproduzione Metodi di ricerca - Survey online Risultati Creazione di nuovi dati sul fenomeno dei makers, dei micro e autoproduttori.

Fase 5. INTERPRETAZIONE E CONCLUSIONI Attività Interpretare i risultati della ricerca e attivare una discussione multidisciplinare rispetto al modello concettuale del designer=impresa (inteso in termini generali come fusione tra individuo e organizzazione). Obiettivi Individuare nuove linee di ricerca rispetto al tema Metodi di ricerca Literature review Risultati Tentativo di elaborare una tassonomia della microproduzione. Individuazione di possibili ambiti di applicazione del modello contettuale del designer=impresa.

Tab. 1.2 – Fasi della ricerca .

1.3.6 NOTE METODOLOGICHE

DATI QUANTITATIVI VS DATI QUALITATIVI. La scelta di utilizzare alcuni metodi di ricerca qualitativa piuttosto che metodi di ricerca quantitativa è stata dettata da una parte dalla mancanza di dati strutturati su alcuni soggetti come ad esempio gli autoproduttori, dall’altra dalla rapida obsolescenza dei dati esistenti relativi. Un dato su tutti può far comprendere la crescita esplosiva di un fenomeno che è ancora di piccole dimensioni ma diventa sempre più complesso da studiare. Il primo censimento dei Fab Lab che questa ricerca ha prodotto all’inizio del 2012 contava meno di cinquanta laboratori, di cui uno in Italia. In soli tre anni il loro numero è quasi decuplicato. A ottobre 2014 su fabfoundation.org si contavano ormai 413 Fab Lab di cui 48 in Italia. Allo stesso modo la rapida proliferazione delle stampanti 3D ha reso queste tecnologie difficilmente mappabili nel breve periodo. E’ sufficiente guardare all’albero genealogico del progetto RepRap per avere un immediato riscontro. Dove possibile i principali dati quantitativi - come quelli sulla crescita del fenomeno Makers - sono stati qundi recuperati attraverso un lavoro di desk analisys.

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CASI STUDIO LEGGERI (LIGHT CASES). Lo studio iniziale sui processi di microproduzione è stato realizzato attraverso una raccolta di casi studio ‘leggeri’ o light cases basata su un ampio numero di progettisti (109). Lo strumento utilizzato per realizzare i light cases è stata la desk research integrata da contatto diretto via mail con per ottenere informazioni non disponibili sul web. Le informazioni cercate sui designer riguardano: skills and capabilities, progetti di microproduzione elaborati, approccio progettuale, categoria merceologica, elementi di innovazione, utilizzo e possesso dei mezzi di produzione, luogo di produzione, materie prime, materiali e componenti, prezzo, mercato e distribuzione, canali di comunicazione. Per specifici approfondimenti sul metodo si rimanda al Capitolo 4.

CASI STUDIO APPROFONDITI (DEEP CASES). Uno studio più dettagliato sui processi di microproduzione è stato realizzato attraverso una piccola indagine etnografica condotta su un numero ristretto di designer (5). Lo strumento utilizzato per realizzare i casi studio è stata l’intervista semi-strutturata in loco che ha consentito di vedere dal vivo l’utilizzo dei metodi e strumenti di progettazione. I filtri d’indagine specifici applicati per rendere le misurazioni intellegibili e comparabili con i light cases riguardano: i) il background culturale e formativo del designer, ii) l’approccio progettuale alla microproduzione, iii) la relazione con le tecnologie fabbricative, iii) il collegamento del processo a reti e comunità progettuali produttive corte o lunghe; iv) la relazione con il mercato. Per maggiori approfondimenti sul metodo di ricerca si rimanda al Capitolo 4.

SURVEY (MAKERS’ INQUIRY). Si tratta della prima release di un progetto di studio di lunga prospettiva sul mondo del making e della micro e autoproduzione chiamato MAKERS’INQUIRY (www.makersinquiry.org) che nasce con questa ricerca e va oltre questa ricerca. Makers’ Inquiry propone lo sviluppo di uno strumento dinamico per lo studio – un’indagine ripetibile periodicamente e su scala internazionale collegata a un database open source per consentire un aggiornamento continuo e una lettura personalizzata dei dati sull’evoluzione di questi fenomeni. La prima versione di questo survey on-line è stata elaborata in forma partecipata insieme a un gruppo di ricercatori e maker rilasciata nel 2014. All’indagine hanno partecipato oltre 200 soggetti. Il campione selezionato per l’analisi risportata nella ricerca è invece più ristretto e conta 103 soggetti (maker, designer-autoproduttori e gestori di makerspace). Per maggiori approfondimenti sul metodo di ricerca si rimanda al Capitolo 5 e all’Allegato 1.

1.3.7 CONFRONTO SCIENTIFICO E PUBBLICAZIONI

Il percorso di ricerca è stato accompagnato da una costante attività di pubblicazione scientifica e divulgativa e dalla partecipazione a workshop, seminari e dibattiti pubblici per discutere e verificare in ‘tempo reale’ la plausibilità delle tesi

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sostenute rispetto ai diversi passaggi della ricerca. La seconda attività è avvenuta anche all’interno di comunità scientifiche differenti – dalle scienze sociali a quelle economiche e del management – partecipando a eventi organizzati dalle nascenti comunità del making e del design autoprodotto e discutendo con singoli autoproduttori, gestori di Fab Lab, esperti di start-up imprenditoriale16. La tabella 1.3 mostra la cronologia delle pubblicazioni.

PUBBLICAZIONI 2011 Arquilla, V., Bianchini, M., Maffei, S. (2011). Designer = Enterprise?. A new policy for the growth of the next Italian design.. In: Jun Cai, Jikun Liu, Gabriel Y.L. Tong, Anthony K.C. IP. Design Management. Toward a new era of innovation. p. 177- 184, Hong Kong:Innovation and Design Management Association Limited (IDMA), ISBN: 9789881598417, Hong Kong, 3/12/2011 - 5/12/2011

2012 Bianchini, M., Maffei, S. (2012). Could Design Leadership Be Personal? Forecasting new forms of indie innovation. Design Magemement Journal, Vol. 7, Issue 1.

Maffei, S., Bianchini, M. (2012). The Rise of Indie Innovators, FORM, N.244

Bianchini, M., Maffei, S. (2012). Designer=Enterprise. How new emerging production models could change the relationship between designer and design business. Designing Business Conference 2011, 17th-19th November, Barcelona

2013 Maffei, S., Bianchini M. (2013). Self-Made Design. From industrial design all’industrious design, Ottagono, N. 256

Bianchini, M., Maffei, S. (2013). Microprodution Everywhere. Defining The Boundaries of the emerging new Distributed Microproduction socio-technical paradigm. Social Frontiers Conference 14th-16th November, London (Saggio commissionato da NESTA UK nell’Ambito di SI EU research).

2014 Bianchini, M., Maffei, S. (2014). The self-producers’bestiary. Experimenta, N.66

Carelli, A., Bianchini, M., Arquilla, A. (2014). The Maker Contradiction. The shift of DIY way of production from a revolutionary socio-technical practice to a new form of consumption in 5° STS Italia Conference. A Matter Of Design. Making Society Through Science And Technology. 12th-14th June, Politecnico di Milano, Milan.

Bianchini, M., Bolzan, P., Maffei, S. (2014). (re)Desingning Design Labs. Processes and places for a new generation of designer=enterprises. Nord Design 2014, 26th- 29th August, Aalto University – Aalto Design Factory, Helsinki

Bianchini, M., Arquilla, V., Maffei, S., Carelli, A. (2014). ‘Making’ new (analogic/digital) urban productive ecosystems. FAB10 - The 10th International Fab Lab Conference and Fab Festival, 2nd-8th July, Barcelona.

Maffei, S., Bianchini, M. (2014). Emerging Production Models: A Design Business Perspective in Faust, J., Junginger, S. (2014) Designing Business. Berg Publisher.

Tab1.3 - Elenco delle pubblicazioni realizzate durante il triennio di ricerca

16 Relatore alla conferenza legata all’iniziativa Source Self-Made Design evento sull’autoproduzione (3 settembre 2013, Firenze). Relatore a “Milano Mass Customization Workshop 2013”- will be in Milan on 5-6 Febbraio, 2013 Politecnico di Milano in collaborazione con RWTH University of Aachen (Germany). Relatore al seminario Makers and The City. Università degli Studi di Milano Bicocca (15 aprile 2014, Milano). Relatore con Stefano Maffei alla conferenza Digital Fashion, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, 9 maggio, Milano. Relatore alla MakerFaire 2014, 3-5 ottobre Roma.

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#2 IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE

2.1 L’EVOLUZIONE DEI MODELLI DI PRODUZIONE

Negli ultimi decenni all’interno dei principali sistemi economici dell’Occidente avanzato1 si è assistito a un processo di deindustrializzazione realizzato attraverso la delocalizzazione e la progressiva dismissione delle attività manifatturiere dai siti produttivi situati nei grandi bacini industriali metropolitani e dalle aree dei sistemi produttivi locali.2 Questi processi hanno causato in Europa e USA una progressiva rottura dei legami territoriali (locali e nazionali) tra i sistemi di produzione e i sistemi di distribuzione favorendo un insieme di trasformazioni nella relazione tra modelli di produzione, distribuzione e consumo-fruizione di beni e servizi che hanno a loro volta generato: o l’inversione dei rapporti di forza tra le attività manifatturiere e quelle legate alla progettazione e programmazione (software); a fronte del ridimensionamento delle prime c’è stata una crescita complessiva delle creative industries3 le cui attività, trasformate in professioni di massa, stanno alimentando un surplus di stock cognitivi che sta trasformando molte pratiche e ruoli professionali4; o la comparsa di sistemi di distribuzione alternativi ai grandi centri commerciali (che hanno causato in passato fenomeni di desertificazione distributiva delle città) attraverso la riproposizione di nuovi modelli distributivi (di vicinato) più piccoli, decentrati, reticolari e partecipati; queste esperienze intervengono sulla catena del valore produttiva-commerciale, e attraverso una logica di riduzione della carbon footprint generano una cultura della sostenibilità di prodotto, di processo e di tecnologia-organizzazione basata su reti e filiere corte (Km0); o il cambiamento dei modelli di consumo push che in un mercato saturo tendono a essere sostituiti da nuovi modelli di produzione on demand e taylor made come alternative alla produzione di grande scala; essi sono originati da una crescente domanda di prodotti personalizzati e made-to-order che nasce

1 Il teorico Andrea Branzi in molti dei suoi interventi pubblici ha parlato dell’evoluzione del design da professione 2 Si fa riferimento all’ampia letteratura che tratta il tema dei cluster e dei distretti artigianali e industriali (Porter, Becattini, Grandinetti, Micelli, 2005) dei distretti creativi urbani, e più in generale dell’evoluzione e trasformazione di questi sistemi e reti d’impresa territorializzate (Becattini, Micelli, 2003). 3 Si fa riferimento a una visione più ampia e inclusiva possibile del termine che includa le attività classificate negli studi di Florida (2003-2012) Hesmondalgh (2007); Hawkins (2001-2005) e i report epubblicati dalla Comunità Europea The Green Paper on cultural and creative industries. E una serie di documenti programmatici e report sviluppati da Paesi come UK e Finlandia come Creative Industries Mapping Document (1998) by UK Department for Culture, Media and Sport, Mapping the Creative Industries by British Council. 4 Designer’s Inquiry is an inquiry on the socio-economic condition of designers in Italy. (http://www.pratichenonaffermative.net/inquiry/en/). Un blog italiano chiamato www.laureatiartigiani.it (graduates- craftmen) racconta le esperienze di giovani laureati italiani che scelgono un mestiere artigiano, i racconti hanno notevoli punti di connessione con le tesi esposte da M. Crawford in Shop Class as Soulcraft e da Micelli in Futuro Artigiano.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 51 come risposta all’omologazione delle merci e all’alienazione generata dalle pratiche di produzione globalizzate, con l’idea di affermare un modello di consumo che metta in discussione i cicli di obsolescenza dei prodotti e la loro qualità materiale e realizzativa.

Mentre avanza questo processo di atrofizzazione dei cicli dell’economia tradizionale basata sulle pratiche dell’outsourcing, producendo grandi transizioni- tensioni nei sistemi del lavoro (disoccupazione di massa, impoverimento, tensioni internazionali sugli accordi commerciali, dumping sociale), si stanno verificando una serie di nuove condizioni socio-economiche5 che preparano il terreno per lo sviluppo di una tendenza contraria: l’INSOURCING.6 L’insourcing tenta di rallentare o bloccare i processi di delocalizzazione per rendere vantaggioso per le grandi multinazionali7 e la grande-media industria, tornare a produrre beni e servizi nei paesi di origine. I governi di USA e Europa stanno sviluppando strategie e policy8 che puntano non solo a ‘riportare a casa’ le produzioni manifatturiere attraverso incentivi economici e fiscali ma intendono ripensare in modo radicale i concetti di ‘industria’, di ‘fabbrica’ e di ‘produzione’ (e quindi di lavoro e tecnologie produttive) da un lato attraverso la creazione top down di una rete di manufacturing institutes9 per integrare comunità di studenti, artigiani e piccole imprese stimolandole a progettare e testare nuovi prodotti e processi produttivi, dall’altro favorendo lo sviluppo grassroot di comunità e culture produttive che hanno come fenomeni più evidenti: o il movimento produttivo globale dei makers e degli artigiani tecnologici che attraverso nuove forme di attivismo sociale contribuisce a diffondere pratiche progettuali e produttive connesse all’open source design (Bawens, 2008; Troxler, 2012), il design generativo (Maeda, 2001;) e alla digital fabrication; o la riscoperta-rinascita dell’autoproduzione10 sia in forme più evolute di Do-It- Yourself/Do-It-Together (DIY/DIT) che in forme professionali e

5 L’abbassamento del costo del lavoro e della produzione di energia nei paesi occidentali si contrappone al parallelo aumento del costo dei trasporti via cargo e del lavoro nelle economie emergenti Negli ultimi 10 anni il prezzo del petrolio è triplicato rendendo il trasporto via cargo molto meno vantaggioso, in parallelo la produzione domestica di energia da fonti rinnovabili diventa sempre più economicamente vantaggiosa (dati). Lo stipendio dei lavoratori cinesi è aumentato di 5 volte negli ultimi dodici anni. 6 Un recente e acceso dibattito sull’insourcing è comparso sul magazine The Atlantic con gli articoli di C. Friedman “The insourcing boom” (december 2012), A. Tonelson: 'The Insourcing Boom That Isn't', Così come un articolo di R. Foroohar di Aprile 2013 pubblicato sul Time e intitolato “How ‘Made in the USA’ is Making a Comeback. Manufacturing is back — but where are the jobs? (http://business.time.com/2013/04/11/how-made-in-the-usa-is- making-a-comeback/#ixzz2fRJRS9Hc). 7 Multinazionali come GE, Whirlpool, Otis e in parte anche Apple stanno reinvestendo per tornare a produrre. 8 Il Governo USA ha elaborato un Report per creare un National Network for Manufacturing Innovation (http://www.whitehouse.gov/sites/default/files/microsites/ostp/iam_advancedmanufacturing_strategicplan_2012.pdf), In Europa la DG Innovation and Industry dove è attiva da anni la piattaforma Manufuture ha sviluppato l’associazione delle Factory of the Future (EFFRA) e ha redatto report Design for growth and prosperity, in UK Three Dimensional Policy: Why Britain needs a policy framework for 3D printing (October 2012) (http://biginnovationcentre.com/Assets/Docs/Reports/3D%20printing%20paper_FINAL_15%20Oct.pdf) 9 Si ispirano al modello a rete dei Fraunofher Institutes tedeschi. 10 Per una definizione di Autoproduzione si veda l’articolo di Maffei e Bianchini pubblicato su Ottagono n.256 (2013) e intitolato Autoproduzione. Dall’Industrial all’Industrious design: “…un insieme di attività organizzate che hanno lo scopo di materializzare nuovi prodotti-servizi attraverso un processo costituito da auto-orientamento/scelta strategica, auto-progettazione, auto-costruzione, auto-comunicazione, auto-distribuzione. Tutte queste dimensioni possono essere

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 52 imprenditoriali (Maffei e Bianchini; 2013) grazie ai processi di evoluzione e trasformazione indotti dalla democratizzazione delle tecnologie miniaturizzate e friendly (additive, sottrattive, progettuali) che alimentano la fioritura di un nuovo hand+digital made nei tradizionali settori del design (beni per la casa e la persona) potenziato da nuove forme di marketing-distribuzione su Internet.

Lo sviluppo di questi fenomeni è abilitato a sua volta da fattori socio-economici e politici come l’aumento della popolazione urbanizzata - e quindi dei potenziali mercati localizzati - combinato con la perdita del potere d’acquisto dovuta alla crisi occupazionale, che ha in molti casi come principale sorgente proprio la chiusura e delocalizzazione delle attività manifatturiere tradizionali. Anche qui la trasformazione radicale del concetto di tempo libero diviene un nuovo fattore di produzione (Shirky, 2005) che riattiva nei cittadini-utenti l’interesse, la propensione e la necessità verso nuove forme di autoproduzione e consumo collaborativo, spingendo le autorità locali a favorire questi processi. La fine delle tradizionali relazioni gerarchiche e delle suddivisioni sociali tradizionali proprie dell’epoca industriale e post-industriale (Sennett, 2006) determina il superamento del concetto di fabbrica e di produzione come centro del conflitto e accelerano viceversa la trasformazione delle ideologie in movimenti incanalando la protesta sociale verso l’attivismo produttivo (makers e hackers costituiscono un valido esempio) e il craftivism (Greer, 2008). La convergenza e l’intreccio di queste culture e fenomeni hanno come principale evidenza la crescita di un processo di redistribuzione e rilocalizzazione delle attività manifatturiere che si manifesta soprattutto nelle città attraverso la comparsa di nuove forme di produzione post-industriali. Si tratta di forme micro e networked – definite City Made11e Modern Craft - abilitate da una nuova generazione di soggetti come i Crafter, gli Small (Urban) Manufacturer, Designer-Craft12. Si tratta di una popolazione di piccole e piccolissime imprese personali (micro and indie capitalism) che realizzano prodotti unici e miniserie (taylor made) attraverso processi integrati e temporanei d’ideazione-produzione-distribuzione che ibridano i valori dell’artigianato tradizionale con le logiche della produzione avanzata. In queste esperienze le competenze di design, che sono (molto) connesse alla sperimentazione tecnologica, assumono un ruolo centrale nei processi di innovazione (Bianchini e Maffei, 2013). Questi nuovi soggetti attraverso processi manifatturieri analogici-digitali ad alto valore aggiunto, molti dei quali ancora taciti e informali, realizzano prodotti design oriented esplicitamente concepiti e ingegnerizzati per una microproduzione realizzata attraverso processi di fabbricazione più efficienti e ‘leggeri’.

compiute in modo differente e libero ma devono coesistere in maniera sistemica per poter parlare davvero di autoproduzione. E non necessariamente quanto elencato deve essere compiuto in prima persona da un individuo/collettivo che, quando non lo realizza direttamente, deve averlo almeno come committente-organizzatore…”. 11 “…SUMs tend to be small companies that produce very high value, design-oriented products. Their size and their location in cities keeps them directly in touch with their customers so they respond to the latest trends and demands in the market…” (Byron, Nistry 2011). 12 Craft Council defines Designer-Craft as subjects that have: i) a strong involvement of the owner or head of the enterprise in all steps of the workflow (financial independence, strong personal responsibility); ii) craft, technical and management competences (apprenticeship as one means of passing on those competences, active contribution to production of products and services; iii) proximity to the client and local activities”.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 53 La piccola dimensione delle loro attività gli consente di entrare in contatto diretto con le comunità dei clienti costruendo una proposta innovativa e personalizzata (Byron and Nistry; 2011), mentre il parallelo utilizzo strategico del Web e dei social media consente loro di espandere ulteriormente queste comunità-mercato. Tutto questo genera uno scenario per la possibile crescita di un nuovo modello in cui le diverse microproduzioni sono organizzabili su scala più grande (da un modello centrato sullo start-up a uno sullo scale-up sistemico).

2.1.1 UNO SGUARDO INDIETRO. IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE IN UNA PROSPETTIVA STORICA

Making, DIY, digital manufacturing, personal fabrication e 3D printing sono i termini più utilizzati per descrivere il cambiamento del modo di produzione della cosiddetta Nuova/Terza/Prossima Rivoluzione Industriale. Di seguito non è proposta una lettura critica che mette in discussione questa visione. L’obiettivo di questo lavoro è piuttosto individuare se, nella storia più recente della produzione, ci sono state fasi evolutive con caratteristiche comuni ai fenomeni della mass personalisation (Tseng and Piller, 2003; Kumar, 2007) e della user innovation (Von Hippel, 2005). In particolare si vogliono individuare gli elementi di continuità, discontinuità e ricorsività di questo modello emergente di cui la fabbricazione avanzata e distribuita fa parte rispetto ai due principali modelli di sistemi di produzione industriale esistenti: la specializzazione flessibile su grande e piccola scala con il toyotismo e i distretti industriali e il modello taylorista e fordista. Nel modello produttivo post-fordista della specializzazione flessibile (anni ’60-90 del XX secolo) esisteva una diversificazione delle merceologie e delle offerte di prodotti sul mercato. In questo contesto i sistemi produttivi, pur variando di scala - dai grandi produttori alle piccole imprese - lavoravano ancora per un mercato da saturare, non ancora popolato di commodity e dunque ancora bisognoso di prime installazioni. La progressiva sazietà del mercato legata al soddisfacimento dei bisogni primari e secondari ha favorito un processo di evoluzione in cui la diversificazione di massa è diventata l’elemento qualificante che consentiva di vendere in forme nuove e modi diversi vecchi e nuovi prodotti. Questo fenomeno in seguito definito mass customization (Von Hippel, 2005; Piller, 2006) ha generato dagli anni ‘70 un progressivo e pervasivo cambiamento nel mercato. Già negli anni Settanta McLuhan e Nevitt in Take Today e Toffler ne La terza Ondata sostenevano che grazie allo sviluppo tecnologico13 ogni consumatore sarebbe diventato un (auto)produttore ponendo così fine all’industrialesimo e alla mass production. Toffler nel 1970 si era spinto oltre coniando il termine prosumer.

13 Iperproduzione di informazione, miniaturizzazione dei mezzi di comunicazione e continuo intreccio tra tecnologie.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 54 Oggi, sul fronte più ‘avanzato’ della produzione, quello della fabbricazione digitale e personale, l’evoluzione del modello della specializzazione flessibile presenta caratteristiche che si rifanno alla mass production e alla mass customization. E con la digitalizzazione della produzione e l’outsourcing sebbene siano mutate le forme di organizzare la produzione, l’impresa produttrice di beni è ancora un soggetto chiaramente identificabile e classificabile per dimensione, tipologia e specializzazione produttiva. Spingendosi oltre si arriva in una zona di confine, dove i contorni del modello diventano più sfumati. In questo contesto magmatico, coesiste un pulviscolo di ‘giovani’ esperienze (le più vecchie hanno 10 anni), tra loro molto diverse, che lavorano in modo nuovo o comunque diverso sul rapporto tra progettazione, produzione e distribuzione. Ci sono i laboratori prototipali dei centri di ricerca, i laboratori per la fabbricazione digitale come i Fab Lab, ci sono infine nuovi tipi di imprese che offrono servizi di fabbricazione non più e non solo per le comunità di imprese manifatturiere, ma anche per professionisti e comuni utenti. La comparsa di queste forme di produzione legandosi al cambiamento delle strutture distributive offre a una nuova popolazione di soggetti la possibilità di entrare in forma autonoma nel mondo della produzione di beni su piccola scala (autoproduzioni, pezzi unici, prototipi realizzati in microserie) collocandosi idealmente nella coda lunga di un sistema distributivo. Dal punto di vista dei processi creativi nel paradigma della democratizing and user innovation di Von Hippel (nei primi anni 2000) l’utente entra nei processi d’innovazione come esperto o anticipatore che fornisce conoscenze utili a modificare, migliorare o innovare il prodotto o il servizio. Nel modello di Von Hippel la piattaforma per le attività di progettazione, produzione e innovazione è di proprietà esclusiva dell’impresa. Nei sistemi per la fabbricazione personale, grazie alle piattaforme per l’open design, l’utente può agire come progettista e produttore della propria idea rendendosi indipendente dall’impresa. Allo stato attuale la natura, la qualità degli artefatti e l’efficacia e la sostenibilità di questi processi sui grandi numeri scontano ancora un forte gap rispetto a un modo di produrre che da decenni sta ottimizzando il sistema della lean production. Inoltre in un sistema della fabbricazione personale anche la responsabilità sulla sicurezza, la qualità e la sostenibilità dei processi e dei prodotti diventerebbero personali. In questo caso è ancora imprevedibile come e in che modo tutte le forme di controllo, tracciabilità e certificazione potrebbero essere adattate o ripensate per un soggetto diverso dall’impresa. L’evoluzione di questo modello su larga scala potrebbe avere come possibile esito la trasformazione del ruolo di molte imprese manifatturiere - ma anche subfornitori e produttori di macchine - in soggetti capaci di utilizzare e ospitare queste nuove forme d’innovazione e produzione ‘liberandosi’ dai costi dell’innovazione di prodotto (ciò che deve produrre per il mercato) per concentrarsi sull’offerta di servizi e strumenti dedicati all’innovazione dei processi per la fabbricazione personale. In un contesto come l’Italia in pochissimi anni si è assistito a una rapida crescita dei Fab Lab14. Alcuni

14 Il primo Fab Lab italiano è stato creato a Torino nel 2011 in occasione dei 150 anni dell’unità d’Italia.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 55 di essi sono insediati nei distretti industriali e collaborano con e per il tessuto d’imprese locale. In distretti della meccanica come Lecco e Modena sono nate imprese produttrici di stampanti 3D come ShareBot e WASP proprio sfruttando il know-how distrettuale. In America è recente l’annuncio di General Electrics di collaborare con TechShop, Makerbot e la piattaforma FirstBuild (firstbuild.com) per lo sviluppo di una nuova generazione di elettrodomestici. I due esempi testimoniano come questi due modelli possano essere tra loro compatibili e complementari.

Nella comparazione con il modello taylorista si possono invece fare osservazioni di più largo respiro. Marsh ha di recente provato a rileggere le precendenti epoche industriali (Tab. 2.1) per contestualizzare e definire la ‘prossima rivoluzione industriale’:

“The next manufacturing revolution is about empowering individuals with the same types of manufacturing capabilities that were once only available to large corporations… This new period, which started in 2005, features the disciplines of ‘networked manufacturing’, connecting up design with physical production even when these activities are many miles apart, global ‘niche’ production, where companies make narrow ranges of products but sell them globally, and the rapid transfer of ‘production intelligence’ in the shape of designs, intellectual property and technology…”

1-1500 1500- 1780- 1830- 1870- 1955- 2005- 1870 1830 1870 1955 2005 now DISRUPTIVE Start of Iron Venice First Industrial Second Third Fourth Fifth Industrial EVENT Age in arsenal Revolution Industrial Industrial Industrial Revolution ancient Iraq become the (1780-1850) Revolution Revolution Revolution world’s most (1840-1890) (1860-1930) (1950-2000) important shipyard INNOVATIONS Metal Standardized Textile Steam driven Process Electronic Advanced smelting, parts, Three machinery, railway chemistry, computers, material Glass dimensional metallurgy, locomotive, transfer lines, semiconductors, manipulation, production, design steam power iron hulled high data networks networked Sailing ships ship, telegraph temperature manufacturing, processing global niche production. PRODUCTS Arrowhead, Books, Underwear, Iron Railes, Cars, washing TVs, high-tech Customised cooking pottery, manually bicycles, machines, pharmaceutical, implants, utensils, clocks controlled papers, aircraft wide body ‘intelligent’ pottery machine tools, airlines toys, guns personalized security products PROCESSES Low-volume Low-volume Medium- Medium- High-volume High-volume Global niche customization customization volume volume standardization customization production, standardization standardization (mass (mass mass (mass production) production) personalisation production) KEY PEOPLE Geber, Heron Johannes Eli Whitney, Henry Henry Ford, Sir Gordon Gould, Gordon Gould, of Alexandria, Gutenberg, Henry Bessemer, Charles Talichi Ohno, Xavier Giovanni Gabriel Maudslay, Vermer von Parsons, Konrad Zuse, Fontanet, Dondi Snodgrass, James Watt Siemens, Vannevar Bush Eduard Demling Charles Hull dell’Orologio Paracelsius Charles Napier

Tab. 2.1 – Le sette èta dell’industria (fonte: P. Marsh – The New Industrial Revolution).

Il crescente numero di articoli e report divulgativi e scientifici pubblicati da magazine come The Economist riconoscono nella digitalizzazione della produzione l’elemento scatenante della cosidetta Terza Rivoluzione Industriale. Anderson in più occasioni ha rilevato come Internet abbia trascinato la produzione fuori dal tipico modello dell’impresa manifatturiera (Tab. 2.2).

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 56 Per Rifkin l’essenza della Third Industrial Revolution – del suo nuovo modello di produzione, il Collaborative Commons (Rifkin, 2014) – risiede nella convergenza tra la produzione distribuita di energia, di informazione e di artefatti. Rifkin sostiene quindi il superamento definitivo delle forme di produzione concentrate e su grande scala a favore di forme di produzione nuovamente miniaturizzate, replicabili e adattabili alle caratteristiche locali.

EVOLUTION IN MANUFACTURING (source: Institute For The Future) PRODUCTION IN LINE WEB MANUFACTURING CLOUD FABRICATION MACHINERY Manually-operated Computerized numerical Rapid prototyping / Machine tools control machine tools Additive Manufacturing (CNC) LABOR’S ADDED VALUE Skilled machine operators Programmers Designers MATERIALS Metal, wood, rubber Metal, wood, plastic, foam Plastic, low melting-point materials, powdered materials, cells, binders. DISTRIBUTION Wholesalers Retailers, direct to Fabricate on-demand, consumers Fabricate on-site RECYCLING None Select components Entire objetcs USE OF PRODUCTS

Tab. 2.2 – L’evoluzione dei sistemi di produzione dei beni.

Infine rispetto al ruolo delle tecnologie nel modello produttivo taylorista l’uomo che produce ha un ruolo subalterno rispetto alla tecnologia di produzione, nei fatti un soggetto programmato per comportarsi una macchina capace di far funzionare un’altra macchina e di essere parte di una macchina più grande (un sistema). Mumford in Technics and Civilization negli anni ’30 aveva magistralmente costruito questa travagliata relazione lungo l’arco della storia umana sostenendo come passaggio chiave che le moderne tecnologie fossero state ideate nel Medioevo e non durante la Rivoluzione Industriale:

“Il lavoratore paleotecnico cerca di controllare il mercato del lavoro e di rafforzare la sua posizione di fronte alla controparte per vedersi attribuità una parte un po’ meno esigua dei costi di produzione o dei profitti, ma non ambisce a una responsabile partecipazione in quanto lavoratore al processo della produzione. Non è preparato culturalmente a diventare compartecipe di pieno diritto in un nuovo meccanismo collettivo, nel quale l’ultimo ingranaggio era importante tanto quanto i capitalisti e gli ingegneri. Nel sistema artigianale il lavoratore si avviava a diventare uno specializzato, raggiunta una sua maturità e ormai introdotto nei segreti della sua arte, era in condizione non solo di trattare con chi gli da il lavoro, ma anche di prendere il suo posto. Non era infatti possibile togliergli gli strumenti di produzione perché facevano parte della sua personalità né potevano sminuirgli le prestazioni professionali”.

E se nell’evoluzione del modello fordista della fabbrica automatizzata l’uomo è stato progressivamente sostituito dalla macchina, nel modello della specializzazione flessibile (sia su grande che su piccola scala) si è osservato un progressivo riequilibro in questa relazione, rivalutando il contributo umano in termini di intelligenza e responsabilità nella ricerca della massima efficienza organizzativa. Con la rivoluzione digitale e lo sviluppo della fabbricazione avanzata, la relazione tra uomo e tecnologie di produzione tende a diventare addirittura proprio simbiotica perché la tecnologia sta

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 57 diventando ‘organica’ (Arthur; 2012). Un aspetto questo facilmente osservabile in molti processi della fabbricazione avanzata.

2.2 L’EVOLUZIONE DELLE TECNOLOGIE DI PRODUZIONE

Gli attuali sistemi per la fabbricazione digitale, su cui si registra un crescente interesse e impiego da parte del mercato in una chiave di making e autoproduzione, non sono una novità o un’innovazione tout-court. Esse costituiscono invece l’evoluzione della produzione prototipale dal punto di visto tecnologico (low cost e open source) e nelle modalità di utilizzo; un processo tuttora in uso da una moltitudine di imprese manifatturiere e progettisti per configurare velocemente e in modo appropriato i prodotti da mettere in produzione. Già nel 2011 Tapscott e Williams in Macrowikinomics erano incuriositi dallo sviluppo di “forme di produzione collaborative basate sulla riconfigurazione e l’adozione su vasta scala di tecnologie esistenti e in grado di trasformare le idee delle persone in prodotti tangibili correndo meno rischi, abbassando i costi e la complessità del produrre e avendo un maggior controllo e una scalabilità istantanea rispetto ai volumi di produzione”. Le stesse forme di produzione descritte nello stesso anno da Chris Anderson su Wired ‘In the Next Industrial revolution atoms are new bits’. In particolare essi si domandavano se un’impresa sviluppata sulla base di un network di (micro)fabbricazione digitale sarebbe stata un giorno in grado di competere con un produttore industriale di articoli su larga scala, affermando però che “anche il semplice fatto che esista questa possibilità solleva profondi interrogativi riguardo alla redditività dei vecchi modelli di organizzazione della creazione di valore economico, caratteristici dell’era industriale”. Partendo da questo interrogativo è possibile verificare le possibilità evolutive su larga scala e per diverse merceologie di questi modelli produttivi emergenti e se e in che misura essi possono configurare realmente una ‘rivoluzione’ o ‘evoluzione’ produttiva. L’ormai comprovata esistenza di questo passaggio per scala, possibilità funzionale e prospettive di crescita rende oggi possibile affermare che una parziale conversione del modello produttivo tradizionale – in cui la prototipazione iniziale diventa la produzione finale – non solo è possibile ma è già in atto. L’altro fenomeno che è allo stadio iniziale riguarda l’inversione dei ruoli e dei rapporti all’interno dei processi d’innovazione: la tradizionale impresa produttrice potrebbe in pochi anni non essere più l’unica o la principale proponente dell’innovazione di prodotto ma potrebbe diventare il luogo o l’attore che eroga servizi innovativi per la produzione di artefatti il cui design è sviluppato e proposto da una pluralità di soggetti. In questa prospettiva lo sviluppo di un sistema della produzione su piccola scala o microproduzione, principalmente basato sulla fabbricazione digitale, ha già un primo concreto ancoraggio nella realtà ma reca ancora con sé alcuni dubbi e criticità. Sul

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 58 mercato esistono ormai diversi studi e ricerche, come i Wohlers Report15, che fotografano periodicamente l’andamento dell’industria dell’additive manufacturing e del 3D printing confermando di anno in anno lo stesso dato: una costante crescita della produzione di macchinari e dell’impiego di queste tecnologie16 dai primi anni 2000. Ma quando parliamo di tecnologie per la fabbricazione digitale ricondotte ad attività come il making e l’autoproduzione, il 3D printing non risulta l’unica e nemmeno la principale tecnologia, anche se è quella a cui una moltitudine di studiosi e operatori riconoscono un enorme potenziale17. Un lavoro di ricerca sul campo svolto in occasione della ricerca MakeFactory18 attraverso interviste strutturate a designer e manager di makerspace19 ha fatto chiaramente emergere come queste tecnologie applicate alla produzione su piccola scala, nonostante la loro rapida evoluzione, siano ancora sottoutilizzate perché presentano costi elevati, sono considerate ancora ‘lente’ e problematiche nella loro messa a punto. Criticità tali da far concordare i lab manager sul fatto che la proporzione tra l’utilizzo delle tecnologie per fabbricazione digitale additiva e sottrattiva all’interno dei Fab Lab sia rispettivamente del 20% e dell’80%. Dati come questo fanno chiaramente emergere come nel campo della produzione su piccola scala tecnologie come la stampa 3D non sono e non saranno in tempi brevi sostitutive di altre e precedenti tecnologie, come invece affermato da diversi technology-evangelist. Anche se ovviamente il loro peso è destinato a crescere, le tecnologie per la manifattura additiva sono ancora da considerarsi complementari all’interno di un corpus di tecnologie analogiche e digitali esistenti da più tempo che intanto si stanno evolvendo sotto l’azione degli stessi fenomeni: democratizzazione e miniaturizzazione tecnologica, connessione con modelli di produzione on-demand e tailor-made.

2.2.1 I SISTEMI DI PRODUZIONE SU PICCOLA SCALA TRA FABBRICAZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA

Ma qual è il paesaggio tecnologico con cui ci si confronta quando si parla di cambiamento delle tecnologie, luoghi e servizi per la produzione su piccola scala? Per mappare quest’ambiente è necessario fissare prima alcuni ‘paletti’. Il primo serve per capire cosa significa oggi parlare di sistemi di produzione su piccola scala, soprattutto in una chiave di fabbricazione avanzata e distribuita.

15 Dati 2010 il report è stato redatto da Wohler associates http://www.wohlersassociates.com/ . 16 Wolher, T., Worldwide Trends in Additive Manufacturing in RapidTech 2009: US-TURKEY Workshop on Rapid Technologies. 17 Il report Wohlers 2013 stima che oggi più del 30% dei componenti di un qualsivoglia prodotto finito possa già essere realizzato con questa tecnica. Percentuale destinata a salire al 50% prima del 2020. 18 Il lavoro di intervista sul campo è stato realizzato insieme a Venanzio Arquilla e Alessandro Carelli. Sono stati visitati dieci Fab Lab e sono state fatte visite e interviste strutturare a designer impegnati nella sperimentazione dei processi di fabbricazione digitale come Joris Laarman. 19 Le interviste sono state condotte nel 2014 all’interno della ricerca FARB – MakeFactory – i manager dei seguenti makerspace: Fab Lab Torino, Fab Lab Pisa, Fab Lab Milano, Fab Lab Amsterdam, Fab Lab Gent, TimeLab Genk, Fab Lab Leuven.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 59 Il secondo serve per capire qual è il corpus di tecnologie e processi produttivi che fanno riferimento a questi sistemi e modelli di produzione. Il terzo serve per capire in quali luoghi e attraverso quali servizi queste tecnologie e processi sono accessibili.

Nel campo della produzione industriale le principali strategie di policy e innovazione promuovono e incoraggiano la transizione verso un paesaggio produttivo popolato di ‘(micro)fabbriche intelligenti’e ‘smart’ (Westkämper and Jendoubi, 2003), caratterizzate dall’uso efficiente di risorse, dall’estrema reattività rispetto ai mutamenti del mercato e dalla capacità di personalizzazione dei prodotti. Questo insieme di competenze è ricondotto al più generale concetto di ADVANCED MANUFACTURING di cui esiste oggi una vastissima letteratura scientifica soprattutto nel campo dell’ingegneria meccanica e industriale20. Il lavoro più utile riguarda quindi la verifica dell’esistenza di uno o più principi di base della fabbricazione avanzata rispetto al mondo della produzione su piccola scala. Nel 2012 un gruppo di lavoro dell’Institute for Defense Analysis (IDA) guidato da Stephanie S. Shipp ha prodotto un report d’inquadramento intitolato Emerging Global Trends in Advanced Fabrication. Questo lavoro ha individuato quattro aree tecnologiche di riferimento per il campo della manifattura avanzata: i semiconduttori, i materiali avanzati (con un focus sull’ingegneria dei materiali computazionali), la fabbricazione additiva e il biomanufacturing (con un focus sulla biologia sintetica). Ha quindi sistematizzato un insieme di definizioni elaborate da diversi studiosi negli ultimi quindici anni:

“… Advanced manufacturing improves existing or creates entirely new materials, products, and processes via the use of science, engineering, and information technologies; high-precision tools and methods; a high-performance workforce; and innovative business or organizational models”.

Il Report EU Advancing Manufacturing - Advancing Europe21 elaborato nel 2013 dalla DG Enterprise and Industry definisce l’advanced manufacturing come “as manufacturing technologies and production processes which have the potential to enable manufacturing industries to improve productivity (production speed, operating precision, and energy and materials consumption) and/or to improve waste and pollution management in a life-cycle perspective… From a broad range of technologies both for discrete and for continuous process manufacturing, the following can be taken as examples: 1. Sustainable manufacturing technologies, i.e. technologies to increase manufacturing efficiency in the use of energy and materials and drastically reduce

20 Dall’analisi del database Scopus-Elesevier, il termine “advanced manufacturing” compare in 199 libri e 70 journals. I principali campi scientifici di interesse sono: engineering and technology (197), materials science (76), chemical engineering (38), computer science (38), built environment (25). The International Journal of Advanced Manufacturing Technologies sotto il termine ‘advanced manufacturing’ contempla il seguente range di tecnologie e processi: Machining and forming technology; Non-traditional material removal processes, Machine tools technology; Materials joining, Laser technology and applications, Micro and nano-fabrication, Robotics, mechatronics and manufacturing automation, Precision engineering, inspection, measurement and metrology, Sustainable and green manufacturing, Additive manufacturing, Computer-integrated manufacturing systems, Application of evolutionary computing techniques in manufacturing operations, Manufacturing planning, optimization and simulation. 21 http://ec.europa.eu/enterprise/flipbook/ADMA/files/assets/common/downloads/publication.pdf (last accessed: 10th October, 2014).

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 60 emissions (e.g. process control technologies, efficient motor systems, efficient separation technologies, novel sustainable process inputs, product lifecycle management systems). 2. ICT-enabled intelligent manufacturing, i.e. integrating digital technologies into production processes (e.g. smart factories). 3. High performance manufacturing, combining flexibility, precision and zero-defect (e.g. high precision machine tools, advanced sensors, 3D printers).

Queste definizioni ricondotte alla produzione su piccola e piccolissima scala fanno chiaramente comprendere una serie di rilevanti questioni: o che la produzione su piccola scala è una delle possibili forme con cui si possono sviluppare i processi di advanced manufacturing; o che è fondamentale il ruolo giocato dalle tecnologie ICT a qualunque livello del processo o del sistema di produzione si riferiscano; o che le attività di modellazione e simulazione sono fondamentali all’interno dei sistemi di produzione in quanto consentono di verificare e dimostrare l’efficacia e la validità dei processi; o che la produzione avanzata è alimentata da una pluralità di processi di fabbricazione che nascono da diverse necessità di innovazione (sui materiali, sui prodotti, sui processi, sui luoghi di produzione); o che l’attività produttiva è fortemente centrata e integrata al design e caratterizzata dallo sviluppo di artefatti che presentano diversi livelli di complessità tecnologica, funzionale, prestazionale (Rahman 2008; Zhou, Shane Xie, Chen, 2011); o che è essenziale configurare o essere parte di network per la fabbricazione; o che è fondamentale poter rapidamente modificare, adattare e scalare i prodotti e i processi di produzione in termini di volumi e in relazione ai bisogni dei clienti o in presenza dei vincoli o delle opportunità che si presentano; o che è fondamentale produrre in modo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile realizzando beni che combinano bassi costi e alte prestazioni riducono al minimo l'uso delle risorse.

Una volta stabilito cos’è la fabbricazione avanzata in termini generali e qual è la sua relazione con la produzione su piccola scala va definito il modello con cui queste attività possono svilupparsi mantenendo la stessa impostazione e dimensione che è quello della PRODUZIONE DISTRIBUITA. Per produzione distribuita si intende una forma di produzione decentrata praticata da imprese o altri tipi di soggetti che utilizzano una rete di unità o luoghi di produzione geograficamente distribuiti che possono essere coordinati attraverso l’utilizzo di tecnologie dell'informazione (Künhle, 2010). Ma anche la gestione di piccole supply chain locali in una logica di microproduzione è una forma di produzione distribuita, così come l’utilizzo locale di risorse progettuali o produttive abilitate da piattaforme open source e peer-to-peer (Bawens, 2012). Come nel caso della fabbricazione digitale non siamo in presenza di un fenomeno nuovo o esclusivo. Anderson nel suo libro Makers fa riferimento alla produzione distribuita collegandosi allo storico modello della cottage industry dove l’attività di

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 61 fabbricazione si svolgeva all’interno delle abitazioni. Altri studiosi fin dai primi anni Duemila in coincidenza con lo sviluppo della Rete osservano questa forma di produzione evidenziandone alcune caratteristiche: la capacità auto-organizzativa delle singole entità produttive (Bousbia, Trentesaux; 2007), la capacità di riorganizzazione e riconfigurazione delle reti di produzione, la possibilità di personalizzare i prodotti secondo il fabbisogno personale o locale (Piller, 2014), la possibilità di ridurre l’impatto ambientale. Tutte capabilities che il designer ha progressivamente acquisito in quanto soggetto sempre più abile a creare valore muovendosi nel mercato del capitalismo personale (Bonomi, 2009). Inquadrando il fenomeno in una prospettiva sistemica è invece possibile far convergere le forme di produzione distribuita di prodotti con altre forme di produzione come la microgenerazione di energia e l’erogazione diffusa di microservizi (Manzini, 2014). Il concetto di produzione distribuita è particolarmente significativo se si utilizzano i suoi principi per descrivere lo sviluppo dei luoghi e delle reti per la fabbricazione avanzata, in particolare per quella digitale. La rete mondiale dei Fab Lab, o dei laboratori DIYBio o i maker hub o i network per la personal fabrication come Ponoko o 100KGarage sono tutte forme di produzione distribuita caratterizzate da luoghi che presentano la stessa impostazione una simile configurazione di tecnologie fabbricative (CAD, CNC) e possono compiere insieme azioni coordinate utilizzando Internet come un corso di formazione, un progetto collaborativo o la trasmissione di dati per il fabbing. (Menichinelli, 2012; Troxler, 2012).

2.2.2 FABBRICARE SU PICCOLA SCALA: TECNOLOGIE E TRAIETTORIE DI SVILUPPO

La produzione su piccola scala è oggi alimentata da un insieme di tecnologie per la fabbricazione avanzata e distribuita che si basano su forme evolute e innovative di relazione tra il mondo analogico e quello digitale. In termini generali con il termine Digital Fabrication o Digital Manufacturing si fa oggi riferimento a un processo di fabbricazione che prevede la trasformazione di un modello digitale in un oggetto fisico (Zhou et al. 2012; Lipson and Kurman, 2013). La fabbricazione digitale si basa dunque su due insiemi di metodologie e tecniche di produzione tra loro opposte:

o FABBRICAZIONE ADDITIVA (additive manufacturing, additive fabrication, additive processes, additive techniques, additive layer manufacturing, layer manufacturing and freeform fabrication) è definita da una serie di tecnologie che sono in grado di tradurre virtuali dati di modelli solidi in modelli fisici in un modo semplice e veloce (Gibson, Loren, Stucker; 2010). Fa riferimento a un processo di unione di materiali per stratificazione, utilizzato per fabbricare oggetti partendo da modelli 3D computerizzati. I processi sono la modellazione a deposizione fusa (FDM) e la sinterizzazione laser. Quando la fabbricazione additiva è abbinata alla preproduzione si parla di Rapid Prototyping, con il termine Rapid Tooling si fa riferimento alla preparazione di stampi o componenti, quando si applica alla produzione finale si parla di

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 62 Rapid Manufacturing. Il termine 3D printing fa invece riferimento ai processi di fabbricazioni realizzati con macchine low cost.

o FABBRICAZIONE SOTTRATTIVA (subtractive manufacturing) è un insieme di processi di lavorazione convenzionali (alcuni dei quali con una storia secolare o millenaria) realizzati utilizzando macchine utensili oggi controllate da computer (CNC) che lavorano in vario modo come strumenti di rimozione del materiale per la produzione di prodotti come frese, torni, seghe, trapani,

elettroerosioni e laser cutting.

Lo schema seguente propone un quadro d’insieme sulle tecnologie disponibili oggi per la fabbricazione digitale su piccola scala combinando dati e informazioni che si rifanno alle linee guida progettuali per equipaggiare i Fab Lab disponibili su FabWiki e Fab Foundation (Tab. 2.2)22.

ADDITIVE MANUFACTURING MATERIALI BASE 3D printing (3DP) Materiali vari (organici e inorganici) Selective Laser Sintering (SLS) Materie plastiche, polveri metalliche Direct Metal Laser Sintering (DMLS) Quasi tutti i metalli comunemente disponibili Fused deposition modeling (FDM) Materie plastiche, metalli facili da fondere Stereolithography (SLA) Polimeri fotosensibili Laminated object manufacturing (LOM) Carta Electron beam melting (EBM) Titanio

SUBTRACTIVE MANUFACTURING MATERIALI BASE CNC Lathe (Tornio) Metalli, legno, plastica, ceramica e materiali compositi CNC Milling Machine (Fresatrice) CNC Drilling Machine (Trapano) Fotoincisione CNC Electrical Discharge Machining (Elettroerosione) CNC Laser Cutter CNC WaterJet Cutter

ALTRE MACCHINE E TECNOLOGIE MATERIALI BASE Desktop Sewing and embroiding machines Tessuti Desktop Circuit Makers Materie plastiche CAD Design Softwares -

Tab. 2.3 – Le tecnologie dei Fab Lab (source: Fab Foundation).

La fabbricazione additiva è utilizzata per realizzare prodotti molto complessi o impossibili da replicare attraverso la fabbricazione sottrattiva, che invece può garantire un impiego e una combinazione di materiali diversi con costi più bassi e quindi orientati alla produzione di massa. Una stampante 3D industriale può costare anche 500.000 euro mentre i digital fabricator entry level e DIY il costo si può ridurre anche a poche centinaia di perché l’assemblaggio è a cura del cliente/utilizzatore. Per quanto riguarda la fabbricazione sottrattiva, una fresa “tascabile” può avere un costo che varia dai 1.000 ai 5.000 euro mentre per equipaggiare una struttura produttiva completa come un Fab Lab il prezzo può variare da circa 10.000 euro per un Mini Fab Lab se ci

22 http://wiki.fablab.is/wiki/Main_Page; http://www.fabfoundation.org/fab-labs/setting-up-a-fab-lab/ideal-lab-layout/,

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 63 si basa su macchine e attrezzature open-source fino a 50.000 o 100.000 euro se le macchine sono acquistate da produttori (il MIT valuta il costo un Fab Lab standard in 50.000 $)23. Osservando nell’insieme la rapida evoluzione delle tecnologie per la fabbricazione digitale è possibile tracciare una prima mappa che ne individua alcune possibili traiettorie di sviluppo, in alcune delle quali il design è già oggi protagonista:

o MACCHINE E STRUMENTI OPEN SOURCE (OS TOOLS). Nel campo del 3D printing da progetti capostipite come Fab@Home, RepRap si è assistito in pochissimi anni allo sviluppo e proliferazione ormai incontrollata di nuovi modelli e versioni di stampanti 3D. La grande maggioranza di queste sono rimaste open source, altre come nel caso di MakerBot sono diventate progressivamente ‘chiuse’ e acquisite da grandi produttori come Stratasys. Lo sviluppo di OS tools riguarda tutte le tecnologie fabbricative digitali. E’ molto semplice ormai trovare su piattaforme per l’open hardware diversi progetti di frese, torni e laser cutter completamente autocostruibili, come nel caso di Lasersaur, OSloom, LoboCNC, OpenBuild OX e il set di macchine di Open Source Ecology24. Una tendenza riscontrata in molti Fab Lab è quella di (provare a) auto-costruirsi le macchine per essere indipendenti e ridurre i costi di gestione e manutenzione.

o MACCHINE E STRUMENTI MULTIFUNZIONE (MULTIMACHINE). E’ una direzione di sviluppo in cui l’obiettivo è creare tecnologie che accorpano più funzioni o sono in grado di fare più lavorazioni. Allo stato attuale molti di questi progetti sono ancora in una fase sperimentale ma gli esempi non mancano: FabTotum è una macchina multifunzione low cost (3D printer, fresa e scanner 3D) prossima ad entrare in produzione, WASP è una macchina che lavora sull’intercambiabilità degli strumenti e quindi delle funzioni.

o MICRO E MACRO MACCHINE E STRUMENTI. E’ una direzione di sviluppo in cui l’obiettivo è produrre macchine di dimensioni differenti per rispondere a diverse esigenze di produzione. Nel primo caso le macchine come PrintBot e 3D Pen possono essere concepite per il micro-manufacturing mentre nel caso di progetti come D-Shape, Contour Crafting e il progetto Delta di WASP la produzione di macchine di grandi dimensioni ha l’obiettivo di creare un mercato in settori nuovi come quello delle costruzioni.

o MACCHINE E STRUMENTI HACKERATI O RICONVERTITI. E’una direzione di sviluppo in cui l’obiettivo è produrre nuove macchine e strumenti a partire da macchine e strumenti esistenti. In questo caso è interessante osservare come designer come Joris Laarman e Dirk Vander Kooji siano stati in grado di intervenire su macchine come i robot industriali (ABB e Kuka) per modificarli e convertirli da una produzione di scala a una di scopo.

23 http://fablab.waag.org/costs 24 Lasersaur (lasersaur.com); OSloom (www.osloom.org/); http://www.openbuilds.com/; http://jrkerr.com/lobocnc/

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 64 o BIOMACCHINE E STRUMENTI. E’ una direzione di sviluppo in cui l’obiettivo è utilizzare la natura e le biotecnologie come macchine per la produzione oppure di sviluppare macchine e strumenti in grado di lavorare su nuovi tipi di materiali organici (Wolshen, 2011)25. E’ un’area in cui sta avvenendo una forte relazione tra designer e scienziati della vita come testimoniato dal lavoro di designer Neri Oxman.

o MACCHINE E STRUMENTI MANUALI. E’ una direzione di sviluppo in cui l’obiettivo è semplificare e trasformare tecnologie complesse in sistemi manuali. Come macchine per la produzione oppure di sviluppare macchine e strumenti in grado di lavorare su nuovi tipi di materiali organici (Wolshen, 2011). E’ un’area in cui sta avvenendo una forte relazione tra designer e scienziati (biologi) come testimoniato dal lavoro di Neri Oxman.

Altre direzioni di evoluzione tecnologica sono invece più puntuali e riguardano l’implementazione delle macchine. Ad esempio nel caso del 3D printing partendo dalle versioni base dei fabbers i continui aggiornamenti puntano a rendere queste macchine più veloci, più precise, capaci di stampare e accoppiare materiali differenti, e infine anche esteticamente più gradevoli. Una direzione di sviluppo interessante riguarda invece la sperimentazione di nuovi materiali stampabili o lo sviluppo di strumenti che consentono di riciclare materie plastiche per produrre filamenti in modo tale da abbassare il costo delle materie prime che incide non poco sulla scelta di questa tecnologia.

25 States of Design 07: Bio-design - Design – Domus - http://www.domusweb.it/it/design/states-of-design-07-bio- design/

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 65

FIG. 2.1 a,b,c – La stampante RepRap, La stampante 3D di Dirk Vander Kooji, La stampante 3D ‘gigante’ di Enrico Dini (D-Shape)

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 66 Accanto a questo corpus principale di tecnologie esiste un vasto patrimonio di processi di making e manufacturing di derivazione industriale o artigianale basati sull’impiego di tecnologie e tecniche analogiche che possono essere utilizzate in modo ‘non ortodosso’. Esse possono essere adattate, reinterpretate e personalizzate nei processi della fabbricazione avanzata su piccola scala con lo scopo di produrre nuovi materiali, di usare i materiali tradizionali in modi nuovi e inattesi o di immaginare processi di produzione più intelligenti. Alcuni designer esperti di materiali come Rob Thompson26, Jennifer Hudson e Chris Lefteri che a partire dalla metà degli anni Duemila, hanno prodotto un lavoro di mappatura e sistematizzazione dei processi, le tecniche e le tecnologie utilizzabili per la produzione industriale e quella su piccola scala, dall’artigianato fino al making e l’autoproduzione (Tab. 2.1 e 2.2).

FORMING TECHNOLOGY CUTTING TECHNOLOGY JOINING TECHNOLOGY FINISHING TECNOLOGY Plastic and Rubber: Chemical: Thermal: Additive processes: Blow molding Photochemical Machining Arc Welding Spray Painting Thermoforming Power Beam Welding Powder Coating Thermal: Rotation Molding Friction Welding Anodizing Laser Cutting Vacuum Casting Vibration Welding Electroplating Electrical Discard Compression Molding Ultrasonic Welding Galvanizing Machining Injection Molding Resistence Welding Vacuum Metalizing Reaction Injection Molding Mechanical: Soldering and Brazing Dip Molding Punching and Blanking Staking Subractive processes: Die Cutting Hot Plate Welding Grinding, Sanding, Metal: Water Jet Cutting Polishing Panel Beating Mechanical: Glass Scoring Electropolishing Metal Spinning Joinery Abrasive Blasting Metal Stamping Weaving Photo Etching Deep Drawing Upholstery CNC Engraving Superforming Timber Frame Structure Tube and Section Bending Printing: Swaging Screen Printing Roll Forming Pad Printing Forging Hydro Transfer Printing Sand Casting Foll Blocking and Die Casting Embossing Investement Casting Metal Injection Molding Electroforming Centrifugal Casting Press Braking

Glass and Ceramics: Glasblowing Lampworking Clay Throwing Ceramic Slip Casting Press Molding Ceramics

Wood: CNC Machining Wood Laminating Steam Bending Paper Pulp Molding

Composites:

26 Rob Thompson insegna al Central Saint Martins College of Art and Design della University of the Arts di Londra ed è specializzato in materiali e produzione. Chris Lefteri è un designer, esperto e consulente nel campo dei materiali, insegna al Royal College of Art. Jennifer Hudson si occupa di creatività applicata ai processi produttivi.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 67 Composite Laminating DMC and SMC Molding Filament Winding 3D Thermal Laminating

Layered manufacturing: Rapid Prototyping

Tab 2.4 – Una tabella riassuntiva sulle tecniche manifatturiere per il design di prodotto ricavata dal libro Manufacturing Processes for Design Professionals di Rob, M.D. Thompson

*=Low COST VOLUMES OF SCALE SUSTAINABILITY **=Medium PRODUCTION (OBJECTS) (PROBLEMS) ***=High

CUT FROM SOLID

Machining * Low, Medium, High From small to large Waste

CNC Cutting * Low (one-off, batch) From small to large Waste

Electron-Beam Machining ** Low (one-off, batch) Medium Energy consumption

Turning (dynamic lathing) * Low (one-off) Small Waste

Jiggering and Jollyng * Medium, High Small Energy consumption

Plasma Arc Cutting * Low (batch) Small Waste, Energy consumpt.

SHEET

Chemical Milling * Low, Medium, High Small Pollution

Die Cutting ** Low, Medium Small and medium Waste

Water Jet Cutting * Low, Medium, High Medium and large Waste

Wire EDM * Low, Medium, High Small and medium Energy consumption

Laser Cutting * Low, Medium Small Energy consumption

Oxyacetilene Cutting * Low (one-off, batch) From small to large Energy consumption

Sheet Metal Forming **/*** Low, Medium, High From small to large Energy consumption

Slumping Glass *** Low (one-off, batch) Small and medium Energy consumption

Electromagnetic Steel Forming *** High Medium and large Energy consumption

Metal Spinning ** Low (one-off, batch) Micro and small Energy consumption

Metal Cutting ** Low, Medium, High Small Waste

Industrial Origami® */**/*** Low, Medium, High Small and medium Not particular problems

Thermoforming */**/*** Low, Medium, High Medium and large Waste

Explosive Forming ** Low (one-off project) From small to large Pollution (potentially)

Superforming Aluminium *** Low, Medium, High From small to large Waste

FIDU process (Oskar Zieta) * Low (one-off, batch) Medium and big Not particular problems

Inflating Metal * Low (batch) Small Not particular problems

Pulp paper *** Low (one-off) Small Not particular problems

Bending Plywood **/*** Low, Medium Small and medium Energy consumption

3D Forming in Plywood *** High Small and medium Energy consumption

Pressing Plywood ** Medium Small and medium Not particular problems

CONTINUOUS

Calendering *** High Micro and small Not particular problems

Blow Film *** High Nano, micro, small Not particular problems

Exjection® *** High From micro to large Not particular problems

Extrusion * Low, Medium, High From small to large Not particular problems

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 68 Pultrusion ** Low, Medium Medium and large Not recyclable

Pulshaping™ ** High Medium and large Not recyclable

Roll Forming *** High Small Not particular problems

Radial Forming * Medium, High From micro to small Not particular problems

Pre-Crimp Weaving * Medium and High Medium and large Not particular problems

Veneer Cutting - - From small to large Not particular problems

THIN AND HOLLOW

Glass blowing by hand */**/*** Low (one-off, batch) Small and medium Energy consumption

Lampworking Glass TUBE * Medium, High From small to large Not particular problems

Glass Blow and Blow Molding *** Medium, High Small Energy consumption

Glass Press and Blow Molding *** Medium, High Small Energy consumption

Plastic Blow Molding *** Medium, High Small and medium Energy consumption

Injection Blow Molding *** High Small Waste

Extrusion Blow Molding *** High Small and medium Not renewable

Dip Molding * Low, Medium, High Unlimited Energy consumption

Rotational Molding ** Low, Medium, High From small to large Material consumption

Slip casting */** Low, Medium, High Small and Medium Energy consumption

Hydroforming Metal *** High Medium Energy consumption

Backward Impact Extrusion * Medium, High Small and medium Not particular problems

Moulding paper pulp *** Medium, High From small to large Not particular problems

Contact Moulding *** Low, Medium Unlimited Not particular problems

Vacuum Infusion Process ** Low (and slow) Small and medium Not particular problems

Autoclave Moulding ** Low, Medium Medium Energy consumption

Filament Winding * Medium Big Not particular problems

Centrifugal Casting *** Low, Medium, High From micro to large Toxic substances

Electroforming * Low, Medium, High From small to large Not particular problems

INTO SOLID

Sintering **/*** Medium, High From small to large Not particular problems

Hot Isostatic Pressing ** Medium, High From small to large Material consumption

Cold Isostatic Pressing ** Low, Medium, High Small Not particular problems

Compression Moulding ** Low, Medium, High Small Not particular problems

Transfer Moulding **/ Low, Medium Small and medium Not particular problems

Foam Moulding *** High From small to large Not particular problems

Foam Moulding into Plywood ** Low, Medium Small and medium Not particular problems Shell

Inflating wood * Low, Medium, High From small to large Not particular problems

Forging */**/*** Low, Medium, High From small to large Not particular problems

Powder Forging *** High Small and medium Energy consumption

Precise-cast prototyping * Low, Medium, High Small and medium Not particular problems

COMPLEX

Injection Moulding *** Medium, High From micro to small Not particular problems

Reaction Injection Moulding *** Medium, High From small to large Not particular problems

Gas Assisted Injection Moulding *** High From small to large Not particular problems

MuCell® Injection Moulding *** High Micro and small Not particular problems

Insert Moulding *** High From small to large Not particular problems

Multi-shot injection Moulding *** Medium, High Micro and small Not particular problems

In-Mould Decoration *** High Micro and small Not particular problems

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 69 Over-Mould Decoration *** High Small Energy consumption

Metal Injection Moulding *** High Small Not particular problems

High-Pressure Die-Casting *** High From small to large Not particular problems

Ceramic Injection Moulding *** High Micro and small Not particular problems

Investment Casting *** Medium, High From micro to small Not particular problems

Sand Casting * Low, High From small to large Not particular problems

Pressing Glass ** Medium, High Small Not particular problems

Pressure-Assisted Casting *** High Small and medium Not particular problems

Viscous Plastic Processing *** - From small to large Not particular problems

ADVANCED

Inkjet Printing * Low (one-off, batch) From nano to micro Not particular problems

Paper-Based Rapid Prototyping * Low Small Not particular problems

Contour Crafting * Low From small to large Not particular problems

Stereolithography * Low Small and medium Not particular problems

Electroforming for Micro- * Low, Medium, High, From nano to micro Not particular problems Moulds

Selective Laser Sintering * Low (one-off) From micro to small Not particular problems

Smart Mandrels™ ** Low (one-off) Small Not particular problems

Increm. Sheet-Metal Forming * Low (one-off, batch) From small to large Not particular problems

Tab 2.5 – Una tabella riassuntiva sulle tecniche manifatturier per il design di prodotto ricavata dal libro di Chris Lefteri, Making It. Manufacturing Techniques for product design,

Da queste schematizzazioni emerge il punto di vista del design rispetto alla produzione su piccola scala. I designer interessati alla fabbricazione avanzata, pur condividendo le stesse tecnologie digitali di base usate dai maker, presentano un interesse più diversificato rispetto ai processi di produzione. Alcuni dei processi mappati sono stati progettati da designer come FIDU di Oskar Zieta (zieta.pl). In particolare emerge come i processi di fabbricazione avanzata, quelli di manifattura additiva e sottrattiva siano quelli con i costi di investimento più bassi e siano adatti per la microproduzione. Un’area progettualmente interessante riguarda invece tutti quei processi industriali e artiginali adatti alla produzione su piccola scala ma troppo costosi o complessi per essere accessibili a makers e autoproduttori.

2.2.3 MERCATO E SETTORI DI APPPLICAZIONE

Dalla comparazione dei report di diversi istituti di analisi internazionali27 si può costruire un quadro d’insieme sulla struttura, la suddivisione e la segmentazione del mercato delle tecnologie per la fabbricazione avanzata e distribuita:

o MERCATO PROFESSIONALE (B2B) che comprende in prevalenza i seguenti

27 Il CAGR (tasso composto di crescita annua) dei ricavati ottenuti da prodotti e servizi dell’AM è esattamente del 24.1%. Il fatturato totale dell’intera industria 2010 è stato di 1325 milioni di dollari, cresciuto rispetto ai 1068 miliardi $ del 2009. Le previsioni parlano di una crescita fino a 3.1 milioni di dollari entro il 2016 e 5.2 milioni di dollari entro il 2020.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 70 settori industriali: aerospaziale e aeronautico (civile e militare, aircraft, UAVs, sistemi per la difesa); automobilistico (motori sportivi, settore racing); biomedicale (protesi, impianti ortopedici, ortodonzia, hearing care); meccanico (macchinari e macchine utensili), edilizia e costruzioni (contour rafting28 e altri progetti di ricerca in questo campo).

o MERCATO CONSUMER (B2C) magmatico e ancora poco strutturato dove sono rintracciabili alcune storiche aree disciplinari del design come i beni per la casa e la persona: lighting, furniture, gioielli, calzature, abbigliamento, giocattoli, accessori per lo sport o il gaming, accanto a una moltitudine ormai incalcolabile di oggetti di merchandising, gadget personalizzati e materiale pubblicitario. Settori più innovativi riguardano invece la produzione su piccola scala di dispositivi elettronici, macchine e strumenti per la fabbricazione, piccoli robot e droni, e anche microarchitetture. Molti di questi prodotti nascono grazie l’utilizzo di servizi e strumenti per la fabbricazione digitale e personale che utilizzano file digitali contenenti progetti aperti e customizzabili. In altri casi i progetti continuano a essere sviluppati in modo tradizionale da designer e studi di design e quindi realizzati utilizzando differenti tecniche di rapid manufacturing.

A questi due mercati si aggiunge un insieme eterogeneo di prototipi e prodotti che spingono l’utilizzo di queste tecnologie in diverse direzioni fino a sperimentazioni condotte in settori come quelli delle biotecnologie o della medicina rigenerativa, dove già esistono da tempo progetti avanzati sulla fabbricazione additiva realizzati all’interno dei laboratori universitari o all’interno delle community DIY come Biohackers e DIYbio29 (Delfanti, 2009; Myers, Antonelli, 2014, ) per stampare cibo30, biomateriali e perfino parti di organi umani31. Altri casi di applicazione sono infine legati al settore agroalimentare e al settore del restauro dei beni culturali.32

2.2.4 I SERVIZI PER LA FABBRICAZIONE PERSONALE

28 Contour Crafting (CC) è una tecnologia di fabbricazione a strati sviluppata da Behrokh Khoshnevis della University of Southern California. Si ritiene possa avere un potenziale per automatizzare la costruzione d’intere strutture così come sotto-componenti. Utilizzando questo processo, si presume sia possibile costruire una casa singola o una colonia di case, ciascuna con un design diverso forse, può essere costruito automaticamente in un unico passaggio, incorporato in ogni casa tutti i condotti d’impianti elettrici, idraulici e di condizionamento. http://www.contourcrafting.org/ 29 DIYBio.org 30 La 3-D food printer sviluppata dalla Cornell Univeristy, consente di creare edible designs. http://money.cnn.com/video/technology/2011/01/21/t_tt_3d_food_printer.cnnmoney/ 31 Si vedano in proposito gli speach di Anthony Atala, intitolati “Printing a human kidney” presentato al TED 2011 http://www.ted.com/talks/anthony_atala_printing_a_human_kidney.html e “Growing new organs” http://www.ted.com/talks/anthony_atala_growing_organs_engineering_tissue.html 32 Imprese come TecnoArt http://www.tecno-art.it/main.html) o anche unità di ricerca come quelle di rappresentazione/beni culturali al Politecnico di Milano stanno sperimentando nuove tecnologie applicate alla valorizzazione e al recupero dei beni culturali. Un caso tutto italiano.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 71

La digitalizzazione della produzione ha ovviamente aperto nuove prospettive di mercato per una serie d’imprese e laboratori e privati cittadini che possono offrire servizi per la fabbricazione. In base all’utenza è possibile suddividere i servizi per la fabbricazione avanzata in due principali categorie: da un lato ci sono i servizi per le comunità d’imprese e professionisti (come i progettisti) dall’altro i servizi per la fabbricazione personale, che si rivolgono cioè a un mercato consumer:

o SERVIZI ON-DEMAND E ON-SITE PER LA FABBRICAZIONE DIGITALE. Si tratta di servizi on line e off line per la stampa 3D o il taglio laser offerti da imprese della fabbricazione digitale come nel caso di iMaterialise e LaserMio oppure da piccoli making hub.

o CENTRO SERVIZI ON-LINE PER LA FABBRICAZIONE PERSONALE. Si tratta di un aggregato di servizi che aiuta makers, bricoleur, progettisti, a configurare delle personal factory basato su sistemi di desktop manufacturing. Gli utenti possono inviare il design digitale del proprio oggetto e il sistema lo realizza attraverso una rete di produzione distribuita (making hub locali che si occupano di fabbricazione additiva e sottrattiva) fino a spingersi nella ricerca in Rete di nuovi acquirenti che possano generare un ricavo anche per l’autore del prodotto. Questi centri rappresentano il punto d’incontro tra mass customization, open design e DIY. Gli esempi di riferimento sono Ponoko (200.000 prodotti e 15 making hub locali) e Shapeways.

o LE PIATTAFORME ON LINE PER LA PRODUZIONE DISTRIBUITA. Si tratta di portali on line che connettono imprese, makerspace e privati cittadini in possesso di tecnologie per il digital manufacturing con soggetti che necessitano di un servizio di fabbricazione. Gli utenti connettendosi a piattaforme come 100kGarages e 3DHubs possono individuare i soggetti più vicini a loro dotati di digital fabricators con cui interagire personalmente per ottenere il servizio di cui hanno bisogno.

PLATFORMS N° OF UNITS LINKS TO COMMUNITY 3D Hubs 536 www.3dhubs.com Maker Map 500 ≈ themakermap.com 100k garages 500 ≈ www.100kgarages.com

Tab 2.6 – Dati sulle piattaforme per la microproduzione distribuita.

L’utilizzo delle tecnologie all’interno dei modelli di fabbricazione avanzata e distribuita presenta alcuni elementi chiave interessanti: o I modelli organizzativi d’impresa legati alla fabbricazione avanzata e distribuita si basano sulla miniaturizzazione, semplificazione e personalizzazione dei processi di produzione perché prevedono l’utilizzo di tecnologie più piccole ed economiche o la riconversione di tecnologie di scala in tecnologie di scopo, l’accesso facilitato alle conoscenze e alle risorse

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 72 tecniche tecnologiche progettuali e produttive, l’accesso a piattaforme di finanziamento. o I processi d’ideazione/produzione/distribuzione collegati ai modelli di fabbricazione avanzata e distribuita sono basati su un mix tecnologico di tecnologie per la fabbricazione digitale e personale, tecnologie robotiche, nanotecnologie e biotecnologie, tecnologie informatiche: dai software per la progettazione, software gestionali e piattaforme digitali per la progettazione, l’acquisto di materie prime, l’ottenimento di fondi, la distribuzione e vendita dei prodotti. Alcune di queste tecnologie, soprattutto quelle per la progettazione e distribuzione, possono essere manipolate, modificate o addirittura, create e auto-costruite dai progettisti, mekers e autoproduttori stessi per essere utilizzate all’interno dei loro processi di design, produzione. In alcuni casi i progettisti stessi possono essere creatori-inventori di tecnologie e macchine. o Dal punto di vista della fabbricazione avanzata e distribuita diventa sempre più interessante lo sviluppo di un approccio design to manufacturing (Kerbrat, Mognol, Hascoet, 2010) che integra tutti gli aspetti della producibilità di un artefatto direttamente durante la fase di progettazione (non solo attraverso l’utilizzo di tecnologie CAD). Diverse attività sperimentali di making, fabbing e autoproduzione vedono l’impiego di processi progettuali ‘ibridi’ basati su nuovi concetti di modularità del prodotto (anche mutuati dal mondo delle nano e biotecnologie). Quest’aspetto senza dubbio favorisce la crescita di forme di microproduzione aperta e distribuita.

Guardando complessivamente all’evoluzione delle tecnologie per la fabbricazione avanzata e distribuita emergono due questioni centrali come possibili driver di sviluppo della microproduzione. La prima questione riguarda la connessione tra le esperienze della fabbricazione avanzata e distribuita con quelle della produzione tradizionale collegate a concetti evoluti di mass customization e della personal fabrication. In questo contesto è possibile immaginare di ricavare uno spazio di azione per importare e ibridare in modo appropriato i nuovi modi di utilizzo delle tecnologie e dei servizi all’interno di quelli tradizionali e viceversa. La seconda questione riguarda il cambiamento del rapporto tra il progettista (o chiunque detiene o sa utilizzare competenze e risorse progettuali) e il produttore che, grazie alla diffusione di questi processi, può abbattere, modificare o integrare il sistema delle relazioni esistenti e il ‘potere’ detenuto all’interno del processo di realizzazione dagli artefatti.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 73 2.3 UNA GEOGRAFIA ‘IN PROGRESS’ DI MAKING E AUTOPRODUZIONE

2.3.1 UNA MAPPA IN PROGRESS SUGLI ‘SPAZI DEL FARE’: VERSO UNA RETE GLOBALE PER LA FABBRICAZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA?

Per orientarsi all’interno di un fenomeno che, come vedremo, ha assunto ormai dimensioni rilevanti per estensione delle reti, distribuzione delle piattaforme locali e numero di partecipanti delle community, sono stati utilizzati alcuni filtri interpretativi con cui individuare e descrivere i principali modelli relativi agli spazi del fare: la composizione delle comunità collegate a questi luoghi (considerando luogo e comunità del fare come elementi tra loro complementari e indivisibili), il layout e l’equipaggiamento tecnologico e la tipologia di progetti sviluppati33. Com’è noto, l’idea di spazio sociale-laboratoriale dedicato alla pratica del DIY trova negli hackerspace la sua forma archetipa (Moilanen, 2012). Se si considera la loro diffusione già a partire dai primi anni ‘90, l'emergere di nuovi laboratori e nuove comunità non direttamente coinvolte nel movimento hacker rappresenta un fenomeno relativamente recente. Oggi lo spirito di questa controcultura non è scomparso: se ne trova traccia nell’etica, nei valori e nell’operato delle nuove comunità che coesistono, collaborano e generano nuove economie, come nel caso dei makers. I motivi alla base della loro diffusione sono diversi alcuni hanno interessanti implicazioni per il design - compresa la formazione per nuove figure di nuovi progettisti - e per i sistemi di produzione locale distribuita. Di seguito un quadro di riferimento generale in cui collocare il fenomeno: o il processo di democratizzazione delle tecnologie per la digital fabrication, sia quelle per il design che quelle per la prototipazione/produzione; o la diffusione della collaborazione attraverso la rete per progetti non esclusivamente legati allo sviluppo del software; o la crescita di un mercato per prodotti dedicati a un pubblico eterogeneo di hobbisti, amatori e professionisti, oggi conosciuti come makers;

I makers rappresentano certamente uno dei casi più emblematici di riconfigurazione degli ideali delle controculture in chiave economica. Nelle loro multiformi espressioni e infinite interpretazioni locali, sono la comunità che, più delle altre, sta generando un’interessante economia. Ad essi, infatti, possiamo direttamente

33 Il lavoro di mappatura degli spazi è stato condotto insieme ad Alessandro Carelli all’interno della ricerca Makefactory (2013-2014, www.makefactory.org/farb) che ha attivato nel 2013 un percorso di osservazione sugli ‘spazi del fare’ intesi come piattaforme locali che abilitano la partecipazione di comunità di soggetti che condividono l’interesse per una o più pratica di produzione su piccola scala (making, autoproduzione, DIY) anche se operano in contesti differenti e per diverse finalità.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 74 - o indirettamente - attribuire la diffusione dei makerspace e la nascita di attività imprenditoriali come i TechShop, che offrono a un pubblico, anche non specializzato, l’accesso a strumenti di fabbricazione e competenze professionali. Allontanandoci dal perimetro tracciato del making e dalla digital fabrication, ma rimanendo nell’ambito della fabbricazione avanzata e distribuita è possibile estendere l’osservazione alla citizen science e alla open science (Delfanti, 2013), all’emergere della rete di laboratori DIYBio e la comunità dei Public Lab, a riprova della connessione fra attivismo, visione politica delle pratiche DIY e diffusione degli spazi/laboratori fondati e gestiti dalle comunità. Ulteriore conferma che la crescita delle comunità fondate sulla pratica del DIY è la diffusione degli spazi del fare non costituisce più un fenomeno marginale è rappresentata dai dati quantitativi relativi alla loro diffusione: i laboratori per la produzione su piccola scala appartenenti ai differenti network, raggiungono, ad oggi, oltre 1.400 unità diffuse in tutto il mondo (Tab. 2.5). Accanto a questi spazi del fare ‘ufficiali’ ve ne sono ovviamente molti altri che nascono come singole esperienze di tipo imprenditoriale (Artisan’s Asylum o New Lab New York)34 o come risultato dello sviluppo di iniziative di policy locali o nazionali (i manufacturing hub del piano Obama). A esclusione del franchising Techshop - unico fra i luoghi selezionati che ha alle spalle un’organizzazione commerciale in cui la comunità coincide con la base degli utilizzatori - per i restanti casi, sono le comunità locali a farsi carico dello sviluppo e della gestione dello spazio. La capacità di auto-organizzazione della community diventa, dunque, un elemento cruciale per la sua esistenza, dal momento che dovrà affrontare il set up e i costi di mantenimento dell’infrastruttura.

PHYSICAL SPACES N° OF UNITS LINKS TO COMMUNITY Hackerspace 956 hackerspaces.org Fab Lab 294 labs.fabfoundation.org Makerspaces (Make) 103 makerspace.com DIY Bio 40 diybio.org Public Lab 21 publiclab.org TechShop 9* www.techshops.it/ (*11 in apertura negli USA)

Tab 2.7 – Dati sugli ‘spazi del fare’

34 http://artisansasylum.com/site/, http://newlab.com/

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 75

Fig. 2.2 – Il Makerspace Time Lab di Gent (Belgio)

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 76 FAB LAB.35 Sono il risultato di uno dei temi di ricerca condotti dal Center For Bits and Atoms (CBA) del MIT sul processo di democratizzazione delle tecnologie per la digital fabrication. Secondo Fab Foundation, l’ente che coordina la rete internazionale dei Fab Lab, questi sono laboratori, o piattaforme, di prototipazione locali, connesse a un network globale, che abilitano le comunità territoriali a innovare attraverso l’accesso a strumenti di fabbricazione digitali e alle conoscenze necessarie per adoperarli. Il tema della riproducibilità e dell’accesso alla tecnologia è espresso attraverso un nucleo indispensabile di tecnologie per garantire la riproducibilità e la trasferibilità dei progetti da un laboratorio all’altro, e da una parte all’altra del mondo, non può mancare nell’equipaggiamento di ogni laboratorio. Ma, come sottolinea Neil Gershenfeld, la vera forza di questi laboratori è sociale, piuttosto che tecnologica, e poggia principalmente sul lavoro e l’organizzazione delle comunità. Sul sito della Fab Foundation sono disponibili informazioni dettagliate e suggerimenti per poter fondare un Fab Lab, come la costruzione del layout, la descrizione del personale e la costruzione delle partnership, l’organizzazione delle attività, ecc. Non si tratta di linee guida alle quali attenersi rigidamente, pena l’esclusione dal network; non esiste infatti una certificazione di autenticità per i Fab Lab, piuttosto, far parte della comunità internazionale richiede condividerne lo spirito e le linee di condotta espresse nella Fab Charter. Dal punto di vista del design è interessante osservare come i designer non solo frequentano o utilizzano i Fab Lab per lo sviluppo dei propri progetti per l’accesso ai servizi produttivi o alle conoscenze della community collegata o per frequentare i corsoi di formazione offerti, ma un numero crescente di designer è interessato al modello di business del Fab Lab per trasformare il proprio studio di progettazione in un Fab Lab.

FAB LAB (fabfoundation.org/)

COMUNITÀ Makers, autoproduttori, progettisti, programmatori, studenti, cittadini, amatori, bricoleurs, artisti, artigiani, imprese. EQUIPAGGIAMENTO Il set di macchine per la fabbricazione analogica/digitale additiva e sottrattiva è codificato nelle linee guida progettuali. Le macchine sono tendenzialmente di proprietà del laboratorio che può anche auto-costruirne di nuove. MATERIALI Sono acquistati in proprio dalle persone e si possono acquistare dal laboratorio, spesso si utilizzano materiali di recupero (es. trashware). LAYOUT Il layout è codificato. PROGETTAZIONE C’è la possibilità di sviluppare e materializzare progetti individuali o collettivi utilizzando risorse progettuali personali oppure open source, anche di sviluppare progetti condivisi in rete con altri Fab Lab.

HACKERSPACE. Diverse fonti concordano nel considerare C-Base, fondato a Berlino a metà degli anni Novanta, il primo archetipo di hackerspace, inteso come luogo di ritrovo stabile e auto-gestito dalla comunità hackers locale. In seguito, la grande diffusione di questi spazi ha generato una rete informale che, a oggi, conta 35 Link: Fab Charter, CBA | FAQ, Fabfoundation | inventory, Fabfoundation | funds Comunity rating, Wiki.Fab

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 77 circa un migliaio di hackerspace, prevalentemente concentrati in Europa occidentale e nel Nord America. L’eterogeneità delle pratiche svolte all’interno degli hackerspace, e la loro sostanziale unicità e indipendenza pur appartenendo ad una rete internazionale, rende difficile guardare le attività attraverso il filtro delle “categorie” o “discipline”. Informatica, elettronica, meccanica, prototipazione di manufatti ecc. semplicemente co-esistono nelle pratiche del “fare da sé” o DIY. Come emerge dalle numerose definizioni di hackerspace disponibili, la dimensione comunitaria è uno dei temi prevalenti, insieme al tema dell’auto-organizzazione dei membri della comunità, e il senso di appartenenza ad un movimento informale, prevalentemente basato sulla condivisione dell’etica hacker. La comunità hacker ha prodotto negli anni progetti e conoscenza liberamente divulgate attraverso il web. Alcuni di questi progetti sono oggi conosciuti anche al di fuori della comunità hackers fino a diventare in certi casi Start Up finanziate con capitali di Venture, come nel caso di Makerbot, originariamente un progetto open-source sviluppato all’interno dell’hackerspace NYC Resistors.

HACKERSPACE (hackerspaces.org)

COMUNITÀ Hackers, informatici, artisti, auto-produttori, progettisti, programmatori, studenti, cittadini, amatori. EQUIPAGGIAMENTO Varia in base alle attività e agli interessi della comunità di riferimento. MATERIALI Sono acquistati in proprio dalle persone e si possono acquistare dal laboratorio, spesso si utilizzano materiali di recupero (es. trashware). LAYOUT Il layout non è codificato a priori. PROGETTAZIONE C’è la possibilità di sviluppare e materializzare progetti individuali o collettivi utilizzando risorse progettuali personali oppure open source, anche di sviluppare progetti condivisi in rete con altri hackerspace.

MAKERSPACE. Il termine Makerspace è un termine comunemente utilizzato per indicare un luogo o laboratorio aperto alla pratica del making e DIY. Oltre a ciò, la diffusione del termine si deve agli sforzi compiuti dal gruppo Maker Media (e della rivista Make) per promuovere la cultura del DIY presso un pubblico più vasto. Makerspace è, dunque, il nome scelto dalla rivista per identificare i laboratori del fare:

“… makerspaces are community centers with tools. Makerspaces combine manufacturing equipment, community, and education for the purposes of enabling community members to design, prototype and create manufactured works that wouldn’t be possible to create with the resources available to individuals working alone. These spaces can take the form of loosely-organized individuals sharing space and tools, for-profit companies, non-profit corporations, organizations affiliated with or hosted within schools, universities or libraries, and more. All are united in the purpose of providing access to equipment, community, and education, and all are unique in exactly how they are arranged to fit the purposes of the community they serve. Makerspaces represent the democratization of design, engineering, fabrication and education. They are a fairly new phenomenon, but are beginning to produce projects with significant national impacts”. (www.makerspace.com)

Come per la maggior parte dei modelli di spazi del fare descritti in questo capitolo, la partecipazione alla rete dei Makerspace avviene su base volontaria: il nome è da

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 78 considerarsi infatti come un open-brand attraverso il quale aderire alla rete dei laboratori. La visione che anima l’idea del programma MENTOR Makerspace (economicamente sostenuto da DARPA), le sue valenze educative e le guidelines consigliate per la sua creazione sono raccolte in un booklet, gratuitamente accessibile attraverso la piattaforma online del progetto (http://makerspace.com/). Sempre con riferimento al booklet, ciò che dovrebbe distinguere un Makerspace da un altro laboratorio/spazio dedicato al DIY riguarda essenzialmente il suo inserimento all’interno, e a supporto, di un contesto formativo (scuole, biblioteche, ecc.). Questo perché, la capacità di fornire agli studenti un ambiente educativo immersivo, e un’esperienza di apprendimento basata sul learning by doing e sul superamento della separazione fra teoria e pratica, dovrebbe favorire lo sviluppo di competenze progettuali e dinamiche di auto-apprendimento. La vocazione educativa del progetto rispecchia la più generale volontà del gruppo editoriale di svolgere un ruolo attivo nella promozione della STEM Education, unendo l’approccio pragmatico tipico del movimento maker all’insegnamento delle materie scientifiche. Infine una nota: nella lista ufficiale dei Makerspace compaiono anche laboratori che appartengono al network dei Fab Lab e degli Hackerspace. Questo, oltre a sottolinea il carattere inclusivo del progetto Makerspace, sembra, al contempo, validare l’ipotesi di una certa sovrapponibilità fra le differenti tipologie di laboratori.

MAKERSPACE (makerspaces.org)

COMUNITÀ Hackers, informatici, artisti, auto-produttori, progettisti, programmatori, insegnanti, studenti, mentor. EQUIPAGGIAMENTO Varia in base alle attività e agli interessi della comunità di riferimento. MATERIALI - LAYOUT Il layout non è codificato. PROGETTAZIONE C’è la possibilità di sviluppare e materializzare progetti individuali o collettivi utilizzando risorse progettuali personali oppure open source, anche di sviluppare progetti condivisi in rete con altri makerspace.

TECHSHOP. E’ una catena di laboratori di fabbricazione fondata nel 2006 in California che ad oggi conta un network di 9 facility distribuite negli USA. I TechShop si distinguono dai laboratori introdotti fin qui perché, oltre ad occupare strutture di grandi dimensioni (mediamente circa 15.000 mq), sono equipaggiati con strumenti professionali per la lavorazione di materiali diversi. Offrono inoltre spazi condivisi per la lavorazione e la socializzazione, corsi di formazione di vario livello e servizi di incubazione di impresa, e sono accessibili anche a un pubblico non specializzato attraverso la sottoscrizione di una membership. TechShop stabilisce partnership regionali come con la catena di negozi di ferramenta e bricolage Lowe's per la sede di Austin (Texas) e Ford a Detroit (Michigan), che nel 2012 ha attivato la membership annuale al laboratorio a circa 2.000 impiegati.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 79

36 (Techshop.ws) TECHSHOP

COMUNITÀ Makers, autoproduttori, artigiani, imprese, progettisti, programmatori, studenti, cittadini, hobbisti, bricoleur. EQUIPAGGIAMENTO Il set di macchine per la fabbricazione analogica/digitale additiva e sottrattiva è codificato nel franchising. Le macchine e le attrezzature sono di proprietà del laboratorio. MATERIALI Sono acquistati in proprio dalle persone e si possono acquistare dal laboratorio, spesso si utilizzano materiali di recupero (es. trashware). LAYOUT Il layout è codificato nel modello di franchising. PROGETTAZIONE C’è la possibilità di sviluppare e materializzare progetti individuali o collettivi utilizzando risorse progettuali personali oppure open source, anche di sviluppare progetti condivisi in rete con altri hackerspace.

DIYBIO LAB37. Il movimento che fa da sfondo alla diffusione di questi garage biolab - di cui il nome, DIY Bio, è un chiaro rimando alle pratiche di autoproduzione originariamente riconducibili alla controcultura Punk - si ispira idealmente ai valori di condivisione e accesso pubblico alla tecnologia e alla conoscenza del movimento hackers. Non sorprende dunque che alcuni dei membri di questa comunità, che comprende professionisti della ricerca, artisti che operano nell’intersezione tra biotecnologie e bioetica, semplici appassionati e hobbisti, si riconoscano nel nome di Biohacker, e guardino agli hackerspace come al modello archetipo di laboratorio. In alcuni casi, infatti, i DIY Bio Lab sono ospitati all’interno di hackerspace preesistenti. Una delle difficoltà più ricorrenti nella creazione dei Bio Lab, oltre naturalmente alle fonti di finanziamento, riguarda proprio l’acquisizione delle strumentazioni professionali, al quale si aggiunge il problema della loro reperibilità. Spesso, infatti, le aziende produttrici non vendono gli strumenti di laboratorio ai privati, anche per motivi di sicurezza. I DIYBio lab sono, dunque, equipaggiati con strumenti reperiti in vario modo, hackerati o auto- costruiti sulla base di progetti sviluppati e condivisi dalla comunità. Il nascente

36 http://en.wikipedia.org/wiki/TechShop, http://www.techshop.ws/class_types.html, http://corporate.ford.com/news- center/press-releases-detail/pr-techshop-and-ford-celebrate-one-38116, http://corporate.ford.com/news-center/press- releases-detail/pr-ford-drives-innovation-36446 37 http://hplusmagazine.com/2010/01/22/diy-bio-growing-movement-takes-aging/ http://www.wired.com/wiredscience/2010/12/genspace-diy-science-laboratory/ http://www.theguardian.com/technology/2009/mar/19/biohacking-genetics-research http://www.theguardian.com/science/political-science/2013/jul/15/science-policy-venter http://www.wired.com/magazine/2011/08/mf_diylab/ http://www.nature.com/news/2010/101006/full/467650a.html http://issuu.com/plutopress/docs/delfanti_biohackers/1?e=2066883/2435472 http://www.theguardian.com/environment/true-north/2013/jun/06/kickstarter-money-glow-in-the-dark-plants http://radar.oreilly.com/2012/10/biohacking.html http://www.nature.com/news/2010/101006/full/467650a/box/1.html http://www.ceh.ac.uk/news/news_archive/documents/guidetocitizenscience_version2_interactiveweb.pdf http://www.flickr.com/photos/waagsociety/sets/72157632101105131/ http://vimeo.com/openwetlab ftp://ftp.ige.unicamp.br/pub/CT001%20SocCiencia/29%20novembro/Researcj%20in%20the%20wild%20Callon.pdf http://jcom.sissa.it/archive/09/01/Jcom0901%282010%29C01/Jcom0901%282010%29C03/Jcom0901%282010%29C03. pdf

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 80 movimento DIYBio ha dato un importante contributo alla diffusione citizen biology generando nuovi spazi e tecnologie per la ricerca nel campo della biologia molecolare e sintetica, e facilitando la divulgazione e le applicazioni dei risultati scientifici - storicamente sfavorita dal sistema dei brevetti - presso un pubblico più ampio. Se, oggi, parlare di un coinvolgimento diretto del design nello sviluppo di biotecnologie al di fuori dei contesti di ricerca istituzionali potrebbe sembrare prematuro, dall’altro, assistiamo contemporaneamente al moltiplicarsi di progetti ed esperienze nate dalla relazione fra design, ricerca artistica e scientifica. In molti di questi casi, la presenza di laboratori attrezzati, accessibili ed aperti alla sperimentazione attraverso l’approccio DIY risulta, dunque, determinante.

DIYBIO LAB (diybio.org/)

COMUNITÀ Makers, autoproduttori, progettisti, programmatori, studenti, cittadini, hobbisti, bricoleur, EQUIPAGGIAMENTO Strumenti e attrezzature reperite in vario modo oppure autocostruite. MATERIALI Sono prodotti nel laboratorio. LAYOUT Il layout non è codificato nel modello di franchising. PROGETTAZIONE C’è la possibilità di sviluppare e materializzare progetti individuali o collettivi utilizzando risorse progettuali personali oppure open source, anche di sviluppare progetti condivisi in rete con altri laboratori DIYBio.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 81

Fig. 2.3 – Il Makerspace Betahaus di Berlino Fig. 2.4 – Un TechShop

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 82

Fig. 2.4 – Hackerspace NY Resistor a New York Fig. 2.5 – Un DIYBio Lab A Berlino

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 83

Fig. 2.6 – Il Makerspace SITU a NY Fig. 2.7 – Artisans’ Asylum a Sommersville (USA)

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 84 2.3.2 UNA MAPPA IN PROGRESS DELL’AUTOPRODUZIONE: VERSO UNA CULTURA GLOBALE DELLA FABBRICAZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA?38

All’inizio del terzo millennio l’interesse verso l’autoproduzione appare più vivo che mai. Dall’analisi di diverse fonti scientifiche e non si può realmente affermare che in tutto il mondo si sta riscoprendo o potenziando questa pratica. Nei paesi in via di sviluppo l’autoproduzione storicamente collegata all’arte di arrangiarsi si sta evolvendo per creare forme d’innovazione improvvista capaci di trasformarsi in imprese. Allo stesso tempo nei paesi occidentali una crescente popolazione di cittadini amatori e professionisti si sta nuovamente interessando all’autoproduzione di un’ampia varietà di beni come cibo, accessori per la casa e la persona fino ad artefatti tecnologicamente complessi. Innanzitutto quando parliamo di ‘autoproduzione’ intendiamo definire “un insieme di attività auto-organizzate che hanno lo scopo di materializzare nuovi prodotti-servizi attraverso un processo costituito da auto-orientamento (scelta strategica), auto-progettazione, auto-costruzione, auto-promozione, auto- comunicazione, auto-distribuzione” (Bianchini, Maffei; 2012, 2013). Possiamo anche inquadrare l’autoproduzione come un insieme eterogeneo di pratiche e processi che rispondono a diversi obiettivi ma condividono tendenzialmente una caratteristica: sono utilizzati per produrre o fabbricare singoli artefatti materiali o microserie a partire da un set limitato di tecnologie e di risorse umane ed economiche. DO-IT-YOURSELF, SELF-MADE DESIGN e PERSONAL FABRICATION sono espressioni oggi comuni oggi utilizzate per discutere questo fenomeno da ricondurre a un insieme più ampio di fenomeni storicizzati che appartengono trasversalmente a tutte le nostre società. L’autoproduzione esiste da sempre ed è praticata ovunque in quanto coscienza di sé stessi come produttori e della propria pragmatica capacità di fare le cose con mezzi propri, in autonomia. Una pratica con forti elementi di autoreferenzialità che se è portata all’eccellenza genera cultura materiale, in alcuni casi arte, mentre se è spinta all’estremo può portare all’autosufficienza (il concetto di self-reliance espresso da Ralph Waldo Emerson nel lontano 1841). Un’altra constatazione riguarda la tendenza a riferirsi all’autoproduzione in modo sommario e indifferenziato, come di una pratica che presenta tratti e caratteristiche simili ovunque è praticata mentre nella realtà si tratta di un contesto plurale, ‘anarchico’ e non privo di contraddizioni. Un insieme di micromondi (Papert, 1981; Rieber, 1992) dove convivono pratiche arcaiche con tecnologie di recente sviluppo, pratiche individuali con altre totalmente open e distribuite, pratiche totalmente confinate e isolate con altre ibridate nei processi produttivi propri del mondo artigianale e industriale. L’autoproduzione offre una varietà infinità di possibilità produttive combinate con una libertà di (auto)organizzazione.

38 Questo contributo rielabora una parte dell’articolo a cura di Bianchini, M., Maffei, S. (2014) The Self-producers Bestiary, Experimenta, n.66. Un numero monografico dedicato all’autoproduzione.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 85 E’ invece in tempi molto più recenti che si può osservare l’autoproduzione in termini sistemici. Oggi vi si fa riferimento in primo luogo come a una pratica strettamente collegata allo sviluppo della digital fabrication, quindi all’attività dei makers, e in secondo luogo in riferimento all’evoluzione del progettista come produttore indipendente che opera su piccola scala. Per altri soggetti, come i craftivist, l’autoproduzione ha invece un valore ‘politico’ ed è collegata all’abbandono di professioni intellettuali per il ritorno a lavori manuali (Crawford; 2009). Questo è vero nella misura in cui la figura dell’autoproduttore contemporaneo trova una reale corrispondenza con il rapido processo di democratizzazione del design e delle tecnologie produttive e con l’ulteriore evoluzione della figura del prosumer e dell’expert amateur (Kuznetsov and Paulos, 2010). La facilità di accesso a queste risorse e la loro connettività abilitano nelle economie post-industriali occidentali nuovi percorsi di autoproduzione che reinventano merci e processi produttivi industriali, mentre nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo s’innestano su una preesistente ‘arte di arrangiarsi’, potenziandola. Con il termine NON-CORPORATE PRODUCERS AND CONSUMERS39 si comincia a riconoscere e considerare all’autoproduzione un ruolo di ‘alternativa’ rispetto al mondo ‘ufficiale’ della produzione. Questa la geografia dell’autoproduzione che sta emergendo nel mondo: L’Occidente, dopo aver perso o espulso una parte cospicua delle proprie produzioni fordiste e post-fordiste, comincia a sperimentare forme organizzate e imprenditoriali di micro e autoproduzione in chiave amatoriale, professionale e imprenditoriale che emergono in coincidenza con l’avvio dei processi di insourcing e rilocalizzazione urbana delle attività manifatturiere (il fenomeno SUMs, Small Urban Manufacturers). In USA il Do-It-Yourself (DIY) è sempre più collegato alla dimensione tecnologica e sperimentale del making, del crafting40 e del tinkering e alla cultura iperliberista delle start-up. In UK, culla del movimento arts and crafts e della controcultura punk, l’autoproduzione promuove una cultura produttiva indipendente collegata con l’artigianato contemporaneo (la figura del designer-craftman individuata dal Craft Council). In Italia il concetto di autoproduzione si sta affrancando dalla sua dimensione puramente hobbistica o sperimentale per concentrarsi sulla dimensione del ‘progetto-autoprodotto’ che si collega a una storica tradizione artigianale. In Francia con il termine SYSTEME D (o Debrouillard) si fa riferimento all’abilità di pensare e agire velocemente per improvvisare una soluzione. Questo termine è stato in seguito adottato nella letteratura sull'economia informale per definire la quota dell’economia mondiale costituita da attività economiche sommerse anche di tipo produttivo (Newirth, 2010). In Germania, dove non ci sono parole specifiche per definire l’autoproduzione (si utilizza il termine TRICK17 come equivalenza al termine System D), esiste una solida cultura hacker sempre più orientata al making e all’autoproduzione (molti hackerspace si sono trasformati in makerspace).

39 Si tratta di una categoria individuata su Wikipedia alla voce ‘prosumers’ in relazione al pensiero di Alvin Toffler (http://it.wikipedia.org/wiki/Prosumer). 40 I Crafter sono persone che decidono di trasformare un’attività autoproduttiva di tipo hobbisitco in una attività economica vendendo i prodotti su piattaforme come Etsy o Amazon attraverso il servizio ‘Marketplace’

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 86 In Asia, India in particolare, Radjou, Prabhu e Ahuja parlano di JUGAAD INNOVATION (‘innovazione frugale’) proponendo una visione dell’innovazione autoprodotta dove i prodotti risolvono in modo rapido e semplice un problema molto concreto. Si tratta di soluzioni generate in contesti con scarsità di risorse e guidate dal concetto di austerità. Così come per i makers, un jugaad movement, fatto di autoproduttori-inventori-innovatori definiti low-tech street corner entrepreneurs41, sta dunque crescendo nelle zone rurali e urbane dell’India (nelle slum factories) specializzandosi in innovazioni di prodotto, di servizio e di processo spesso dedicate a chi sta ai margini della società42. Vladimir Arkhipov con il suo Design del popolo del 2007 ha sistematizzato un pluriennale lavoro di studio condotto sui prodotti homemade o sui folk artifacts, oggetti di design e autoproduzione realizzati da innovatori anonimi nel periodo delle grandi privazioni della Russia post-sovietica modificando centinaia di oggetti di uso quotidiano43 con operazioni a metà tra ready-made e hackeraggio. In Cina il termine autoproduzione – ZIZHU CHUANGXIN – è associato ai concetti di innovazione indigena e indipendente praticata però su scala industriale. Gran parte della crescita economica cinese degli ultimi quindici anni è collegata proprio a questo fenomeno: molte invenzioni-innovazioni tecnologiche generate in Occidente sono state acquisite dalle imprese cinesi che le hanno prima fatte loro manipolandole per adattarle al contesto produttivo locale e poi le hanno incorporate in prodotti finiti da esportare in grande quantità nelle economie che non potevano permettersi le versioni originali. In Brasile il termine GAMBIARRA fa riferimento a soluzioni improvvisate, adattamenti, aggiustamenti realizzati su prodotti o risorse industriali esistenti senza metodi, piani o progetti predefiniti. Qui l’autoproduzione è vista in sostanza come INNOVAZIONE IMPROVVISATA. Gli studiosi brasiliani che esplorano la tra relazione tra gambiarra e design (Boufleur; 2006) sottolineano che il divario tra produzione e consumo provoca molti oggetti da utilizzare in pratica in modo diverso che configurano questa pratica come una vera e propria forma alternativa di design. In Africa, dove esiste una ricchissima tradizione di innovazione autoprodotta, il termine JUA KALI è utilizzato per riferirsi a una persona o a un imprenditore a cui è riconosciuta la capacità di costruire o riparare praticamente qualsiasi cosa su richiesta. Lo stesso governo keniota usa questo termine per riferirsi al settore dell’economia informale in Kenya. Questi autoproduttori che operano negli slum districts di Nairobi sono definiti “… medici di strada, capaci di lavorare per mantenere le cose in vita…”44.

41 Secondo gli studiosi di Jugaad innovation sono sei i principi che guidano questi autoproduttori: i) cercare le opportunità nell’avversità; ii) fare di più con meno; iii) pensare e agire in modo flessibile; iv) mantenere le cose semplici; v) includere i soggetti che stanno ai margini; vi) seguire le proprie passioni 42 Secondo gli autori del libro questo modello di innovazione autoprodotta può essere esportato con successo anche nella grande industria, soprattutto quella dei pasi occidentali. Soggetti come NESTA stanno studiando le potenzialità della jugaad innovation in una chiave di innovazione sociale http://www.nesta.org.uk/news/frugal-innovations. 43 Un lavoro che partendo dalla Russia è stato poi allargato all’Europa. 44 In tutto il Kenya ci sono milioni di imprenditori Jua Kali. Nella sola città di Nairobi c'è una stima di oltre 500.000 ‘autoproduttori di soluzioni improvvisate’ praticate in tutti i settori immaginabiliDove la formazione professionale è molto scarsa, le persone che hanno maturato esperienze di nicchia sono quelle che s’impongono sul mercato.Il designer Italiano Francesco Faccin ha realizzato un’osservazione sistematica di uno slum di Nairobi mappando un repertorio di oggetti realizzati in autoproduzione ma pensati in una logica di produzione di piccola serie, di microproduzione. Made

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 87 Così i designer provenienti dai paesi più poveri come l’Africa – ispirati da maestri riconosciuti del saper fare arrangiato e grazie a maggiori possibilità di accesso ai mezzi per la progettazione, la produzione e la comunicazione riescono ad aggirare il gap tecnico-tecnologico nei confronti dei contesti produttivamente più avanzati, elevando qualitativamente e globalmente le proprie realizzazioni fino ad accreditarsi come player credibili nel nascente mercato globale della microproduzione.

in Slum – Triennale di Milano. Ovviamente molte di queste riparazioni, offerte a prezzi stracciati e senza garanzie, anche se apparentemente ben fatte rivelano una qualità scadente e sono inoltre pensate per fornire una soluzione immediata e quindi non necessariamente costituiscono un ragionamento sulla sostenibilità a lungo termine.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 88 2.4 10 ANNI DI MAKING: UN PRIMO BILANCIO

2.4.1 PREMESSA (BREVE) SUL MOVIMENTO MAKER

I MAKERS, nati nel 2005 con la fondazione della rivista MAKE, sono diventati nell'immaginario collettivo i pionieri della cosiddetta ‘Terza Rivoluzione Industriale’ (Anderson, 2012; Rifkin, 2012; Marsh, 2013; Lipson, Kurman, 2013) nonché fautori di un Movimento che affonda le sue radici nella pratica del Do-It-Yourself (DIY). Contestualmente alla crescita numerica e dimensionale delle piattaforme digitali, diversi studi, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, si sono focalizzati sul rapporto tra ‘attività di produzione e consumo all’interno delle dinamiche di collaborazione in rete’. Fenomeni come i) la personalizzazione delle commodities in prodotti sempre più ‘umanizzati’ realizzati insieme agli utenti (Campbell, 2005); ii) la crescente diffusione di strumenti online per la (mass) customization e le piattaforme per il file sharing (Piller, 2012); iii) il processo di ‘consumerizzazione’ delle pratiche degli hackers (Magaudda, 2012) evidenziano una crescente connessione tra pratiche di produzione e pratiche di consumo. Un concetto che è stato ben riassunto nei termini prosumption (Ritzer and Jurgenson, 2010) e produsage (Bruns, 2007). Questi studi, pur riferendosi a molti dei fenomeni emersi negli ultimi anni su Internet, non tengono ancora conto dei makers in quanto comunità globale dedicata alla pratica del Do-it-Yourself (DIY), attività questa sviluppatasi grazie all’opera di divulgazione di Make Magazine a partire dal 2005. Spesso descritti come gli anticipatori della cosiddetta 'Terza rivoluzione industriale' (Rifkin, 2012; Marsh, 2012), essi sono generalmente associati al concetto di personal fabrication, alla diffusione delle communities legate all’open hardware e ai sistemi open source per il design e il phisical computing. Per la caratteristica relazione che stringono con la tecnologia, i makers sono oggi descritti e raccontati da una pluralità di voci eterogenee, da cui spiccano quelle di tecnology evangelists e startupper (Anderson, 2011, 2012). Sul fronte scientifico, negli ultimi anni, si è intensificato il numero dei contributi45 che affrontano il tema dei makers dal punto di vista fenomenologico, estendendo le aree di ricerca, fra le altre, al design e all’human-computer interaction. Nonostante questi studi si focalizzino prevalentemente sulla figura del ‘maker come produttore’, diversi segnali e strategie, fra cui l’interessamento di grandi gruppi multinazionali che operano soprattutto nel settore dei software CAD e dell’additive manufacturing come

45 La ricerca sui database ISI Thomson e Scopus Elsevier con le Keywords ‘Maker Movement’, ‘Makers Phenomenon’, ‘Makers community’ non ha prodotto risultati.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 89 Autodesk e Stratasys, suggeriscono oggi che le dinamiche di produzione-consumo affrontate nelle scienze sociali, possono offrire un punto di osservazione alternativo anche sul fenomeno dei Makers.

2.4.2 L’ECOSISTEMA MAKERS: MOVIMENTO, COMUNITÀ E MOVIMENTO

I dati sulla crescita del fenomeno Makers sono stati ricostruiti attraverso un lavoro di desk analysis realizzato su più fonti – report ufficiali pubblicati dei soggetti indagati, articoli su riviste, quotidiani online, riviste di settore e blog specializzati – e sostengono l’esistenza di un sistema socioeconomico del making (Tab. 1) definibile come ‘Maker Ecosystem’, un termine coniato da Maker Media (gruppo O’ Really Media). Questa ipotesi è avvalorata non solo dai numeri ma dalla presenza di un elevato livello d’interazione tra molti degli attori economici attivi in questo campo46.

SOGGETTO NASCITA SITUAZIONE 2012-2014 NOTE FAB LAB 2003 294 Fab Lab esistenti Neil Gershenfeld afferma che il numero di Fab Lab raddoppia ogni 18 mesi MAKE MAGAZINE 2005 300.000 lettori ARDUINO 2005 Circa 5.000 unità Arduino prodotte al giorno FAB@HOME 2005 Le stampanti Fab@Home 3D sono Il progetto si è concluso nel 2012 state costruite in 43 Fab@home perché ha raggiunto il suo obiettivo: il labs nel mondo. numero di stampanti 3D domestiche ha superato quelle industriali. ETSY 2005 500 impiegati e 30 mln di Ricavi 2011: 500 mIn $ acquirenti e di venditori. Ricavi 2010: 314 mIn $ Ricavi 2009: 180 mln $ RASPBERRY PI 2006 2,5 mln di unità vendute al 2012 (400.000 delle quali si pensa siano utilizzate da bambini) MAKER FAIRE 2006 100 Faires nel 2013 con 530.000 61 Faires nel 2012 (+64%) visitatori 24 Faires nel 2011 (+335%) TECHSHOP 2006 7 TechShop aperti 11 in apertura (in USA) PONOKO 2007 15 making hub nel mondo 200.000 prodotti realizzati REP@RAP 2008 Al 2012 circa 200 modelli creati Il Family tree RepRap pubblicato su Wikipedia è aggiornato al 2012 MAKERBOT 2009 Oltre 35.000 stampanti vendute. Acquisita nel 2013 da Stratasys per 400 Da 35.000 a 100.000 oggetti caricati mln $ su Thingiverse nel 2013 con 21.1 mln di download

Tab.2.8 – Analisi della crescita del fenomeno Makers.

All’interno di questo sistema è possibile distinguere due insiemi di soggetti che presentano sia una diversa relazione con i Makers e il mercato del making che una divergente impostazione nella concezione e nell’impiego delle tecnologie e del design:

46 Diversi sono i casi di scambio e collaborazione per l’organizzazione di eventi, per l’apertura di canali promozionali e commerciali per il sostegno ad attività di vario genere.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 90

SOGGETTI CHE GUARDANO AI MAKERS COME A UNA COMUNITÀ (DI PRATICA). Si tratta di realtà che operano principalmente senza scopo di lucro per promuovere in varie forme la (cultura della) democratizzazione della produzione attraverso la filosofia open source. Soggetti come i Fab Lab47 o esperienze come RepRap48 non considerano i makers come un movimento ma come una delle diverse figure che fanno parte di una comunità di pratica più ampia con cui collaborare in modo simbiotico e mutuale49. Questa relazione, per sostenersi, prevede un mix di meccanismi economici alternativi che ragionano principalmente sul volontariato, sul consumo collaborativo, sulle donazioni e sul crowdfunding anche se non c’è una chiusura alle logiche del mercato. In particolare la rete dei Fab Lab, che è cresciuta velocemente mantenendo inalterato il proprio modello iniziale,50 attraversa oggi una fase di istituzionalizzazione (FabFoundation) che punta ad armonizzarne lo sviluppo. Questi luoghi sono oggi alla ricerca di formule di sostenibilità economica che bilanciano la presenza di servizi gratuiti e a pagamento51 e spingono per aumentare sia il livello di autonomia e indipendenza nello sviluppo delle tecnologie produttive (generando risparmi sugli acquisti e sulla manutenzione dei macchinari)52 che la capacità di generare progetti, innovazione e imprenditorialità.

SOGGETTI CHE GUARDANO AI MAKERS COME A UNA COMUNITÀ- MERCATO. Dentro questa categoria possiamo distinguere due tipologie di imprese. Alla prima tipologia appartengono imprese come Arduino, RaspberryPi, Ultimaker e MakerBot che si caratterizzano per lo sviluppo di progetti-prodotti open source, piattaforme di prodotto servizio attorno a cui si costituisce un’ampia comunità di makers che ne rappresenta, al contempo, il principale mercato. Il concetto di COMUNITÀ-MERCATO (Bianchini e Maffei; 2012) deriva dalla sovrapposizione fra comunità di pratica e comunità di consumo. Queste imprese stanno aumentando la propria quota di mercato da un lato utilizzando con successo le leve strategiche offerte dalla globalizzazione, dall’altro sviluppando una relazione strutturata con il sistema industriale dell’hardware e del software. Arduino in pochi anni si è evoluta da progetto open source sconosciuto al di fuori di precisi ambiti di utilizzo a impresa globale dell’open hardware53. MakerBot, una start up che opera nel settore consumer delle stampanti 3D e recentemente acquisita da Stratasys, gigante del settore, ha focalizzato

47 I fab Lab sono una rete globale di laboratori di fabbricazione nati a seguito delle ricerche dell’ Centre for Bits and Atoms sull’ auto-riproducibilità delle tecnologie di fabbricazione digitali. 48 Rep Rap è il nome della comunity che ha creato il primo progetot di stampnate 3D open source a cui si deve l’ampia diffusione dei modelli di stampanti low-cost. 49 In molti Fab Lab l’utilizzo delle macchine è gratuito e si paga solo il materiale che si utilizza. 50 Ufficialmente ad aprile 2014 si contano 294 laboratori distribuiti su scala globale (fonte: FabFoundation, www.fabfoundation.org/) 51 La maggioranza dei Fab Lab è nata con il supporto di enti e istituzioni pubbliche. Molti di essi, esaurito il sostegno economico per l’avvio dei laboratori, attraversano ora una fase in cui hanno bisogno di garantirsi la sostenibilità economica. 52 L’autocostruzione delle tecnologie è uno dei punti dello sviluppo dei FabLab. 53 Produce sedici diverse versioni del proprio controller (in Italia, attraverso Smart Project, ne produce circa 5.000 al giorno), ha un mercato internazionale in Europa e in America e di recente ha aperto una sede commerciale in Svizzera. http://www.domusweb.it/it/design/2013/03/15/visita-alle-fabbriche-arduino.html

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 91 la propria strategia nel consolidamento e l’espansione della la propria comunità- mercato attraverso la piattaforma Thingiverse. Nella relazione con il mercato questi soggetti lavorano per divulgare la filosofia del making attraverso la vendita di ‘starter kit’ e investendo in progetti formativi come MakerBot Academy54, pensati per ‘gruppi e comunità della produzione distribuita’ come Fab Lab, Scuole e Università. Al secondo gruppo appartengono invece imprese come Maker Media, TechShop ed Etsy che fondano il proprio business principalmente sulla costruzione di piattaforme comunicative, promozionali e commerciali che abilitano i makers sia a conoscere, condividere e promuovere progetti che ad acquistare tecnologie e prodotti. Queste realtà non abbracciano la filosofia dell’open source ma sono basate sul principio dell’open access per ampliare il più possibile la comunità di makers offrendo loro un’ampia offerta di servizi con costi accessibili55, alcuni dei quali seguono la logica del freemium. Maker Media è il caso più rappresentativo: è publisher della rivista Make, producer dell’evento MakerFaire, gestore dell’e-commerce MakerShed e attivatore dell’iniziativa Makerspaces56, una directory globale di luoghi che si riconoscono sotto questo brand e si differenziano dai Fab Lab57. Realtà come Maker Media e TechShop hanno contribuito e tuttora contribuiscono in modo determinante alla nascita e alla crescita del Movimento Maker anche grazie al sostegno politico ed economico del governo americano che sta sviluppando azioni precise per la rigenerazione della nuova cultura manifatturiera in USA. Etsy ha progressivamente trasformato (non senza polemiche) la propria piattaforma da mercato esclusivo per crafters e produttori amatoriali in un marketplace accessibile alle piccole imprese58. Altri grandi player della distribuzione come Amazon hanno invece intrapreso il percorso inverso lanciando l’apertura di un 3D Printing Store, che offrirà la possibilità di personalizzare e produrre oggetti personalizzati attraverso un servizio di stampa 3D.

54 Maggiori informazioni sul progetto MakerBot Academy sono disponibili a questo indirizzo: https://makerbot.com/academy/. Il sito ufficiale del progetto Makerspace e la repository dei laboratori affiliati è raggiungibile è disponibile al seguente link: http://makerspace.com/ 55 Il ticket d’ingresso alla MakerFaire varia da 10 a 35$, l’abbonamento digitale di un anno a Make costa 19.90$. 56 (http://makerspace.com/makerspace-directory) l’iniziativa e il Makerspace Playbook è stata finanziata con fondi DARPA. 57 “Makerspaces are like community FabLabs, in that both provide a wide variety of technologies for fabrication to people who might not otherwise have access to such powerful tools. Makerspaces differ from the FabLab model in that we try not to be prescriptive of any single set of tools and equipment a Makerspace should have. As a result, Makerspaces also tend to embrace a wider range of domains and types of projects” In Makerspace Playbook, p.5. (http://makerspace.com/wp-content/uploads/2013/02/MakerspacePlaybook-Feb2013.pdf) 58 http://www.businessweek.com/articles/2013-10-16/etsys-new-rules-open-doors-to-bigger-sellers

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 92 2.5 I NUOVI PRODUTTORI TRA ATTIVISMO POLITICO E DERIVE CONSUMISTICHE

2.5.1 NON SOLO MAKERS: AUTOPRODUTTORI, HACKERS, CRAFTERS, CRAFTIVIST, DESIGNER- CRAFTMEN

Studiosi di diverse discipline si stanno interessando alle forme di produzione indipendenti su piccola scala. Chi si occupa di marketing, management e gestione della produzione ha compreso che la mass customization non basta più alle imprese e che anche la personalizzazione e la co-creazione dei prodotti (Piller, 2014) sono destinate ad attenuare la loro spinta propulsiva in termini di user centered innovation scontrandosi o ibridandosi con le logiche user driven innovation dell’(auto)produzione aperta e distribuita, soprattutto nelle sue forme on-site e tailor-made. Chi si occupa di economia e scienze sociali è infine interessato alla trasformazione delle pratiche produttive e all’impatto che queste hanno sulla vita delle persone e delle imprese. Chi si occupa di design ha compreso che una nuova generazione di designer-nativi-digitali sempre più ‘orfani’ o insoddisfatti della relazione con il mondo dell’industria usano in modo strategico l’autoproduzione, facendone una costante del proprio paesaggio artefattuale. La microproduzione sta emergendo come pratica e cultura in quanto: o tocca sempre più aspetti della produzione materiale dell’uomo estendendosi a beni che fanno riferimento a una pluralità di tipologie, categorie e merceologie: dai beni finali a quelli strumentali, da quelli semplici a quelli di medio-alta complessità tecnologica, da quelli di piccole e di grandi dimensioni, da quelli producibili localmente a quelli realizzabili su scala globale; o ha la capacità di diffondersi (distribuirsi) a tutti i livelli nella nostra società ed è praticata da parte di un insieme vasto e trasversale di soggetti che cresce in parallelo all’aumento delle risorse, degli strumenti e delle conoscenze che abilitano/supportano queste forme di produzione. E’ nei fatti un’attività democratica poichè interessa i ricchi e i poveri che vivono nei contesti rurali e nelle città e che hanno conoscenze produttive scarse o elevate. E’ un fenomeno che da subculturale e controculturale sta progressivamente diventando mainstream;

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 93 o è in grado di generare forme di micro reddito e di risparmio59 che in alcuni casi rappresentano un’alternativa economica rispetto alla produzione artigianale e industriale mentre in altri è una concreta opportunità per arginare o sconfiggere le (nuove) forme di povertà materiale. In molti casi si tratta di economie invisibili e informali che non sono computabili e quantificabili nell’economia tradizionale anche se concorrono a generare ricchezza60. Essa può inoltre avere anche un carattere solidale rientrando nelle formule e nei circuiti del consumo collaborativo; o è in sostanza già configurata – per alcune tipologie di beni - per essere un’opzione concreta, percorribile e vantaggiosa dal punto di vista della sostenibilità sociale e ambientale perché è collegata a recycling, upcycling, refurbishing, fixing e repairing, alla produzione on-site e alle reti Km0.

Le nuove forme di produzione su piccola scala si sviluppano quindi grazie a un processo di riappropriazione dei processi di materializzazione che può avvenire in vari modi: reinterpretando e reimparando o reinventando tecniche produttive artigianali e industriali, sfruttando le possibilità di interazione tra mondo analogico e digitale - grazie a tecnologie open source e low cost - e l’accesso a conoscenze sempre più qualificate e organizzate su ‘come si fanno le cose’ (l’how to make di Gershenfeld).

Ma chi sono i nuovi microproduttori? Cosa spinge sempre più persone a praticare queste forme di produzione? Chi sono i nuovi microproduttori? quali sono i loro approcci alla produzione e quali gli aspetti critici collegati a queste attività? Nel mondo della microproduzione non esistono solo i makers. Anzi, all’interno di questo Movimento confluiscono soggetti che sono portatori di interessi e visioni molto diverse come sottolineato anche da Morovoz:

“… Just who are these people? Like the Arts and Crafts movement — a mélange of back-to- the-land simplifiers, socialists, anarchists and tweedy art connoisseurs — the makers are a diverse bunch. They include 3D printing enthusiasts who like making their own toys, instruments, and weapons; tinkerers and mechanics who like to customize household objects by outfitting them with sensors and Internet connectivity; and appreciators of craft who prefer to design their own objects and then have them manufactured on demand.”

L’AUTOPRODUTTORE CONTEMPORANEO. Autoproduzione e DIY sono pratiche intrinsecamente legate alla storia dell’uomo, che l’avvento della società moderna ha progressivamente cercato di sostituire con la produzione di massa e l’economia dei consumi. Anche nel campo del design questa pratica ha una storia riconosciuta.

59 L’autoproduzione si diffonde nella società occidentale anche perché una parte della popolazione, sotto-occupata ed economicamente indebolita dalla recente crisi economica, può accedere facilmente a forme-base di questa pratica in diversi campi di attività: dall’agricoltura alla riparazione-rigenerazione di prodotti. Un caso interessante è la città di Detroit. 60 Non esistono leggi che regolamentano l’attività autoproduzione. Negli Stati Uniti è emersa la necessità di una prima regolamentazione del mercato a seguito del caso delle armi stampate in 3D. In Italia l’autoproduzione è di recente stata riconosciuta come un’attività economica a se stante che può generare un profitto. Durante l’analisi degli studi di settore, nel campo del design in Italia sono stati censiti 260 casi di professionisti dell’autoproduzione (circa il 4% del totale).

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 94 Dopo il massiccio sviluppo del mercato al consumo del fai-da-te avvenuto nei decenni scorsi, l’autoproduzione nelle sue forme più indipendenti e innovative sta diventando un’attività centrale per comprendere le possibili future dinamiche nella trasformazione produttiva-distributiva e del consumo. Oggi assistiamo a un’evoluzione del tradizionale mondo del fai-da-te individuale verso comunità sempre più organizzate di expert amateurs (Kuznetsov e Paulos, 2012):

“We define DIY as any creation, modification or repair of objects without the aid of paid professionals. We use the term “amateur” not as a reflection on a hobbyists’ skills, which are often quite advanced, but rather, to emphasize that most of DIY culture is not motivated by commercial purposes”.

Possiamo definire gli autoproduttori contemporanei come degli innovatori indipendenti che progettano, fabbricano, vendono e promuovono in maniera autonoma i propri progetti e prodotti. Si potrebbero definire come riconfiguratori di ruoli, attività-processi e microfiliere (produttive, ideative e distributive) che vedono nelle attività di autoproduzione un modo per popolare il mondo dell’esperienza umana con artefatti personali, personalizzati o personalizzabili. Questo aspetto li rende assimilabili alla figura dell’artigiano o del maker, senza però condizioni limitanti come il vincolo dell’esecuzione manuale nei processi di produzione o la necessità di essere autori unici del processo progettuale. L’autoproduzione contemporanea è definibile come:

“… Un insieme di attività organizzate con lo scopo di materializzare nuovi prodotti- servizi attraverso un processo costituito da auto-orientamento/scelta strategica, auto- progettazione, auto-costruzione, auto-comunicazione, auto-distribuzione. Tutte queste dimensioni possono essere compiute in modo differente e libero ma devono coesistere in maniera sistemica per poter davvero parlare di autoproduzione. Quanto elencato non deve necessariamente essere compiuto in prima persona da un individuo o un collettivo che, quando non lo realizza direttamente, deve però esserne almeno il committente- organizzatore.” (Maffei e Bianchini, 2013).

HACKTIVISM E CRAFTIVIST. L’attivismo sociale e produttivo degli hackers (hacktivism)61 si sta progressivamente ibridando nella cultura maker e in quella dei designer (otto von busch e karl palmås, 2006):

‘Hacking as a modifying culture has always been around but became a broader technological activity with amateur radio and car modding in the 1920s. It is rooted with classic Do-It-Yourself (DIY) culture but became “hacking” first with the introduction of computers’.

Per soggetti come i Craftivists (Greer, 2007) l’avvio di un’attività produttiva rappresenta invece una forma di attivismo politico e sociale o il rifiuto di uno stile di vita consumistico:

“Craftivism is the practice of engaged creativity, especially regarding political or social causes… By advocating the use of creativity for the improvement of the world, craftivists

61 Per Eric Raymond ”hackers build things, crackers break them.” Raymond, E.S. (2001) “how to become a hacker” at http://www.catb.org/esr/faqs/hackerhowto.html

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 95 worldwide taught knitting lessons, sewed scarves for battered women’s shelters, and knitted hats for chemotherapy patients. In a world that was growing increasingly large and unfamiliar, craftivism fought to bring back the personal into our daily lives to replace some of the mass produced”. (Betsy Greer, “Craftivism.” Encyclopedia of Activism and Social Justice. 2007. SAGE Publications)

Crawford (2008) associa il craftivism anche ad un cambio radicale dello stile di vita che si realizza attraverso il passaggio da professioni puramente ‘intellettuali’ a mestieri manuali.

MICROPRODUZIONE E NUOVE FORME DI ARTIGIANATO. C’è una sottile linea di discendenza tra l’attuale produzione indipendente e il Movimento Arts and Crafts. Nonostante esprimesse un’indubbia qualità progettuale e una nuova cultura materiale il movimento Arts and Crafts, come sostiene Morozov, era morto agli inizi del Novecento per la sostanziale insostenibilità economica del suo modello produttivo. Il suo spirito è però riemerso a più riprese: dalla controcultura degli anni Sessanta, con la celebrazione della semplicità e del back-to-the-land al movimento “do it yourself” legato alla cultura punk sono state offerte delle alternative alla cultura e alla produzione di massa. Subculture che hanno successivamente trovato una propria collocazione nel sistema capitalista. Una nuova generazione di crafts people sta oggi emergendo dalla convergenza tra competenze artigianali, tecnologiche-digitali e design. Crafts Council UK ha descritto i designer-craft come:

“…highly qualified makers, practitioners, researchers and innovators…grounded in an educational experience that involves learning by doing… Innovation, high quality, authenticity and aesthetic value are important characteristics of the contemporary crafts output.” However, the new ways of working that are emerging for the craftspeople of the 21st century have led to the concept of ‘Modern Craft’. The post-industrial, Future Factory is, for example, a logical step forward that connects the advantages of mass production with those of traditional craft. In the new scenario the boundaries of the craft sector may be shifted towards larger scale production and an even greater sophistication of crafted products demanding, in parallel, a greater need for competence in design innovation.

Ma ci sono anche altre forme di artigianato amatoriale che si stanno sviluppando. Oltre ai maker (forse impropriamente) definiti artigiani digtitali, nel caso dei crafters esiste una preesistene e diffusa capacità manuale di fare oggetti di qualsiasi tipo ha trovato in piattaforme online come Etsy il terminale distributivo che prima mancava per professionalizzare un hobby e traformarlo in un micro-business formalizzato su scala globale.

2.5.2 I NUOVI PRODUTTORI: CONCORRENTI ‘SLEALI’ E CONSUMATORI DI PRODUZIONE?

Il mondo della microproduzione vive certamente una fase di grande fermento. Ma al termine di questa prima fase che potremmo definire positivista e di evangelizzazione

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 96 cominciano a crescere le posizioni critiche che evidenziano anche il ‘lato oscuro’ di queste pratiche e le possibili conseguenze negative per la società. Critici come Andrew Keen da tempo sollevano profonde perplessità sulla qualità (materiale) esprimibile da una cultura produttiva concepita attorno al ruolo dell’amatore rispetto a una basata sulle competenze professionali. Per Keen l’autoproduzione di tipo amatoriale è una forma di narcisismo individuale che si realizza attraverso la creazione di prodotti autoreferenziali in cui la qualità è livellata verso il basso (Keen, 2007). Ma se la democratizzazione delle pratiche di produzione crea i presupposti per la proliferazione di artefatti di dubbia utilità e infima qualità – si tratta di un dato reale che accomuna molti progetti pubblicati su Instructables - è altrettanto vero che si promuovono forme di innovazione inattesa, informale e indipendente poi liberamente utilizzabili anche dai professionisti. Ed è proprio nell’informalità di queste attività che risiedono altri aspetti critici. Se esempio guardiamo ai makerspace come a nuovi luoghi effettivi di produzione possiamo osservare che non sono sottoposti a tutti i vincoli, alle leggi alle certificazioni di un tradizionale luogo di produzione. Lo stesso discorso può essere fatto sui prodotti e le certificazioni che ne garantiscono la qualità o la sicurezza. In una prospettiva di forte crescita della microproduzione questi elementi potrebbero costituire un’asimmetricità rispetto alle produzione tradizionali. I dati sulla forte crescita del mercato di beni e servizi per il making e il DIY in rapporto al breve lasso di tempo in cui questa crescita è avvenuta (2005 nasce il movimento maker) lascia anche un altro spazio di riflessione sull’evoluzione della figura del maker e dell’autoproduttore. Va ancora pienamente compreso se un movimento come i makers stia maggiormente abilitando la crescita di una comunità di imprenditori e innovatori (MakerMedia li definisce Leading Edge Makers62) oppure favorisca la crescita di soggetti più interessati alla pura replicazione o alla personalizzazione di progetti esistenti. Va inoltre compreso se e in che misura siano i maker e gli autoproduttori a determinare un nuovo mercato o se invece siano essi stessi un potenziale mercato di consumo da soddisfare in termini di beni e servizi per la produzione. L’ipotesi è che sia in atto un processo di trasformazione di una parte dei makers da produttori a consumatori (nonché prosumer) indotta dagli stessi attori economici che hanno contribuito alla nascita della ‘cultura makers’ (Carelli, Bianchini, Arquilla, 2014). Questo aspetto può essere osservato nel rapporto fra comunità dei makers e ‘mercato del making’ in cui operano soggetti come Maker Media, unanimemente riconosciuto come leader di pensiero e uno dei principali attori economici del ‘mercato del making’63

62 The report on Maker Market underlines a data about ‘Leading Edge Makers’: 17% of the interviewed people identifying themselves as “Leading Edge” makers, defined for the survey as makers who describe themselves as an entrepreneur, innovator, or influencer. 63 Non c’è dubbio che la diffusione a livello mondiale del concetto di ‘maker’ risieda principalmente nella strategia di comunicazione di Maker Media, l’editore di Make Magazine, “[...] the first magazine and media brand devoted entirely to the maker movement and the powerful combination of open source hardware + personal fabrication tools + connected makers, to generate sweeping changes from the classroom to the boardroom

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 97

Fig. 2.8 – Imprese che guidano il mondo del making e del DIY (fonte: rielaborazione Ponoko Media Kit).

Il risultato tangibile di questa strategia, similmente a quanto osservato da Magaudda (2008) nella pratica dell’hacking, è il processo di ‘consumerizzazione dell’attività di making’. Un caso interessante riguarda l’evoluzione degli strumenti presenti sulla piattaforma MakerBot-Thingiverse, la più nota community online per la condivisione di file 3D, diventata negli anni il cuore della strategia commerciale della start up che l’ha fondata. I suoi strumenti on line per il download e la customizzatione dei progetti si sono progressivamente modificati64 trasformando della figura del maker da produttore a consumatore di produzione, in cui la ‘pratica del fare’ è progressivamente affiancata e sostituita dall’offerta di ‘un’esperienza di making semplificata’. Questo aspetto che non è di per sé negativo perché significa che abbassa le barriere di accesso al making ha però come potenziale rischio quello evocato da Andrew Keen, livellare verso il basso le competenze necessarie per ideare e realizzare un artefatto, riducendo il design a una questione di personalizzazioni superficiali e incoraggiando l’utente a fare uso di sistemi vincolati alle funzioni previste dal produttore. Resta da dimostrare nel lungo periodo se tutto questo produca un beneficio sulla qualità e l’avanzamento delle conoscenze legate alla produzione e, più in generale, sulla cultura materiale della nostra società.

64 Per una trattazione più approfondita dell’argomento si rimanda a Carelli, A., Bianchini, M., Arquilla, V. (2014). ‘The ‘Makers contradiction’. The shift from a counterculture-driven DIY production to a new form of DIY consumption’. 5th STS Italia Conference A Matter of Design: Making Society through Science and Technology Milan, 12–14 June 2014.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 98 2.6 MICROPRODUZIONE OGGI: UNA NUOVA (POSSIBILE) DEFINIZIONE

Provando a sistematizzare le conoscenze prodotte finora dall’esplorazione del cambiamento dei modelli di produzione è di seguito proposta una prima definizione del termine ‘microproduzione’. Con esso si fa riferimento a un processo di produzione distribuita (o distribuibile) su piccolissima che ha come obiettivo la materializzazione e la successiva distribuzione di artefatti concepiti come pezzo unico o micro-serie attraverso l’impiego di un processo di fabbricazione avanzata di tipo analogico/digitale. La microproduzione intesa come processo ideativo-fabbricativo può avere le seguenti finalità: o replicazione o riproduzione di un prodotto; o personalizzazione di un prodotto; o riparazione creativa o hackeraggio di un prodotto; o rigenerazione o il re-manufacturing di un prodotto; o sviluppo di un sistema prodotto-servizio.

Partendo da questa definizione conseguono alcune precisazioni: o quando si parla di ‘tecnologie per la ‘microproduzione’ si fa riferimento a un corpus di tecnologie analogiche e digitali che sono utilizzate per il processo di progettazione, fabbricazione e distribuzione degli artefatti; o quando si parla di ‘design per la ‘microproduzione’ si fa riferimento all’insieme di processi ideativi-creativi, di metodi e tecniche per la progettazione degli artefatti, incluso le tecnologie, i dispositivi e le strategie per la loro fabbricazione e distribuzione; o quando di parla di ‘sistema di ‘microproduzione’ si fa riferimento a uno o più modello di organizzazione produttiva e alle risorse coinvolte: le tecnologie impiegate e la configurazione del luogo di fabbricazione e le competenze legate al processo ideativo-fabbricativo; o quando si parla di ‘modello di ‘microproduzione’ si fa riferimento all’insieme delle attività di microproduzione che si organizzano in un luogo sottoforma di reti, filiere o cluster, inclusi i servizi di supporto ai processi di ideazione, fabbricazione, distribuzione e finanziamento degli artefatti.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 99 2.7 LA RILOCALIZZAZIONE DELLA (MICRO)PRODUZIONE: SMALL URBAN MANUFACTURING, CITY MAKING E CITY MADE

2.7.1 DALLE CITTÀ INDUSTRIALI ALLE CITTÀ ‘INDUSTRIOSE’: CRESCITA DELLO SMALL URBAN MANUFACTURING

Negli ultimi quattro decenni abbiamo assistito a grandi e continui processi di riconfigurazione delle attività produttive all’interno nelle città. In alcune economie occidentali avanzate, come USA e UK, i governi nazionali e locali che negli anni ’90 avevano promosso – o comunque non ostacolato - i processi di delocalizzazione, esplusione e chiusura delle produzioni manifatturiere dalle città e dalle regioni urbane verso i paesi emergenti con la prospettiva di riposizionare la produzione verso nuovi settori di attività - servizi, industrie creative, finanza, ICT - stanno oggi ritornando a varare politiche industriali e altre iniziative legate all’innovazione che spingono per il rilancio e la rivitalizzazione delle attività e delle produzioni manifatturiere in ambito urbano adottando un modello spinto di mass customization caratterizzato dal rimodellamento di competenze e attività legate alla produzione manifatturiera, che spaziano dalla prototipazione allo sviluppo di nuovi materiali65, riposizionando l’industria urbana verso produzioni hi-tech e rinnovabili66. Contestualmente un opposto fenomeno di urbanizzazione e distrettualizzazione dell’industria è avvenuto nelle città dei paesi emergenti. Un altro fenomeno comune nelle metropoli dei paesi in via di sviluppo e in alcune città occidentali deindustrializzate riguarda la crescita di forme di non-corporate productions (o System D, Newirth, 2012). Si tratta di attività di autoproduzione e produzione su piccola e piccolissima scala, spesso di tipo laboratoriale, distribuite nel tessuto urbano, realizzate a livello individuale e/o comunitario da soggetti spesso privi di competenze esplicite nel campo della produzione industriale e artigianale ma collegate a forme di fabbricazione avanzata come il fabbing. Il fenomeno dell’urbanizzazione delle produzioni manifatturiere artigianali e industriali è quindi certamente collegabile al recente sviluppo di economie urbane and metropolitane centrate sull’adozione di nuovi modelli microeconomici (Sassen; 2011) in risposta a una serie concomitante di fattori e condizioni:

65 Si parla di plastronica e i compositi avanzati. 66 Bristol e Glasgow stanno emergendo come “super cities” che guidano il riposizionamento del British Manufacturing

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 100 o l’aumento della popolazione nelle città stimola produzioni e i prodotti collegate a reti e filiere più corte; o una crescente domanda di prodotti personalizzati in risposta all’omologazione delle merci dettata dalla “regole” della globalizzazione; o la miniaturizzazione delle tecnologie produttive facilita la reintroduzione di un certo tipo di produzioni, si sviluppa ad esempio il fenomeno del fabbing e crescono il numero di maker facilities nelle città (ad esempio Barcellona); o aumentano le imprese, le comunità e le professioni creative e l’offerta di piattaforme e comunità reali/virtuali che offrono “contenuti” per il design e l’autoproduzione e contribuiscono a diffondere nelle città le pratiche progettuali e produttive. In parallelo cresce l’offerta formativa legata all’insegnamento delle tecniche produttive (enti e organizzazioni pubbliche, ma anche artigiani); o la recessione economica mondiale segna un periodo di trasformazione per l’ecosistema imprenditoriale e agisce come catalizzatore per la crescita di una nuova generazione di imprenditori e piccole imprese soprattutto in ambito urbano. Inoltre il mondo interconnesso determina e diversifica localmente nuovi modi di lavorare e nuovi modi di fare impresa.

Autorevoli centri di ricerca come Pratt Center for Community Development interessati a questo fenomeno sostengono come le nuove tendenze produttive pongono le imprese al di fuori della crisi economica globale ed evidenziano come le imprese manifatturiere urbane stiano generando un nuovo ecosistema di business che potrebbe influenzare il modo in cui si fa industria in molti paesi occidentali.

L’insieme di queste attività confluisce sotto il termine URBAN MANUFACTURING (Byron, Nistry, 2010) e abilita la partecipazione di nuovi soggetti che non sono né operai, né artigiani che possiamo definire SMALL URBAN MANUFACTURERS o CITY MAKERS (Bianchini e Maffei; 2014):

“Small Urban Manufacturers (SUMs) is a subset of industrial activities that include utilities, transportation and warehousing, and service activities, such as equipment service and repair, catering, commercial laundries, etc. While these other activities employ similar workforces, occupy the same land, and face many common challenges with manufacturers, this paper discusses manufacturing as the production and assembly of products (NAICS Codes 31‐33), including and artisanal production commodities (consumer goods), high technology (such as medical imaging equipment), and artisanal production (such as artisanal foods and custom furniture"

In città come New York, Los Angeles o San Francisco l’azione dei city makers determina lo spostamento dal concetto di “Made in” nazionale al concetto di URBAN MADE come testimoniato dai brand Made in Brooklin e SFMade.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 101 2.7.2 NUOVE COMUNITÀ MANIFATTURIERE URBANE

I city makers hanno storie, profile e interessi molto diversi. Alcuni di questi, come i makers e gli autoproduttori sono sia gli induttori che il risultato del cambiamento in atto. Attraverso nuove forme di attivismo contribuiscono a diffondere nelle città nuove pratiche progettuali e produttive. In altri casi i city makers lavorano al potenziamento di attività esistenti e principalmente collegate alla riparazione degli oggetti o alla riconversione di attività non manifatturiere come nel caso degli esercizi commerciali che si dotano di microstrutture produttive o studi di progettazione o piccole software house che avviano attività di micro e autoproduzione. E ancora altri servizi di produzione on- site si sviluppano all’interno dei centri commerciali, degli esercizi commerciali o dei centri per il fai-da-te67. Lo sviluppo di makersapces e maker hub68 favorisce la nascita di piattaforme e reti di servizi per la produzione on-demand nei quartieri o nei distretti urbani, i laboratori artigiani e le officine compiono upgrade tecnologici e si “aprono” alla città mettendo in condivisione le proprie strutture, attrezzature e competenze. Luoghi come le biblioteche o i bar si stanno dotando di tecnologie e macchine per la produzione, come nel caso dei Sewing e dei Repair Café, e anche i laboratori di scuole e università si stanno trasformano in maker facility aperte alla frequentazione dei cittadini. In questo modo cresce l’offerta formativa dedicata alla produzione. Infine la diffusione capillare delle tecnologie per la personal fabrication introduce nuove possibilità produttive a scala domestica-condominiale, riabilitando la dimensione del garage. Le città diventano così “palestre del fare” dove una moltitudine di persone re-impara a produrre. Questo innervamento comincia a dialogare e convergere con altre attività connesse alla produzione: o PRODUZIONE DI MATERIE PRIME. Soggetti come i creativi o i progettisti diventano nuovi produttori di materie prime e semilavorati. Grazie allo sviluppo di nuove tecniche, tecnologie e servizi di disassemblaggio, decostruzione, riciclaggio e riuso per creare nuovi materiali69 (SUGRU, Polyfloss). Prodotti in vetro, cemento, plastiche o singole parti e componenti hardware diventano a loro volta materia prima per la realizzazione di nuovi prodotti, fino a spingersi verso la creazione di materie prime biologiche (Biocouture) o all’avvio di microproduzioni di materiali avanzati (plastronica) grazie anche alla diffusione della chimica DIY (openmaterials.org). In altri casi la produzione di materie prime è legata alla diffusione di microimpianti70 per la produzione di cementi, plastiche, metalli (come desktop foundry, mini- filande o forni refrattari DIY).

67 Il Gruppo Adeo proprietario di diversi marchi di centri di distribuzione per bricolage e fai-da-te (Leroy Merlin, Brico Center) si è interessata allo sviluppo di Fab Lab nei propri punti vendita. 68 Esistono più di 200 Fab Lab nel mondo e il loro numero raddoppia circa ogni 18 mesi. Cresce anche il numero di maker club o community come Tech Shop o Artisan’s Asylum che offrono in città servizi per la produzione e promuovono l’insegnamento, l’apprendimento e la pratica nel campo dell’artigianato. 69 (http://www.youtube.com/watch?v=sq36fn5jwKY), (http://www.themicrofactory.org/what.html) 70 Nell’hackerspace Pumping Station: One di Chicago è stato recentemente costruito un microforno per fondere alluminio. http://makezine.com/2009/11/11/charcoal-foundry-build-at-chicago-h/

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 102 o CONFIGURAZIONE DI LUOGHI E TECNOLOGIE DI PRODUZIONE. Si riconfigurano i tradizionali modelli di organizzazione della produzione urbana ripensando ai luoghi Atelier, Bottega, Studio, Laboratorio e Fabbrica anche attraverso lo sviluppo di tecnologie produttive miniaturizzate e low cost. Con investimenti economici sempre più contenuti grazie all’open source (design e hardware) è oggi possibile autocostruire una crescente varietà di strumenti e macchine utensili. Diversi sono gli OS tools e le Multi machine71 nati come progetti pilota per paesi in via di sviluppo (o per un’economia di guerra) che sono adatti alla produzione urbana. Torni, telai, stampanti 3D e frese manuali, analogiche e/o digitali si possono realizzare anche in legno o addirittura con i LEGO72 per costruire da zero piccole officine o integrare dotazioni esistenti, grazie anche alla presenza di maker community (Open Source Ecology). Infine un numero crescente di robot industriali sotto utilizzati o non più utilizzati suggerisce a soggetti diversi dalla grande industria nuove forme di impiego di singole unità dando vita a nuove imprese dedicate al recupero, all’hackeraggio o alla customizzazione73.

o SVILUPPO DI NUOVI MODELLI DI DISTRIBUZIONE. Si riconfigurano i canali distributivi grazie a nuove reti e piattaforme per la commercializzazione delle micro e autoproduzioni. I Produttori Urbani hanno anche in questo caso un numero crescente di opzioni: possono realizzare un proprio e-commerce (come fanno molti designer-impresa) possono utilizzare le piattaforme per la personal fabrication (Ponoko) e i personal marketplace per l’artigianato (Etsy), fino ad affidarsi alle nuove piattaforme indipendenti per il design-to-order o il design on demand che da un lato rappresentano i nuovi mercati delle idee (Outgrow, OpenCraft) dall’altro l’acquisto dei prodotti è legato a network di microproduzione on-site o a km0 (Slowd, Primato Pugliese, Zanoby, Custommade). Tutto questo mentre sul versante dell’autoproduzione una realtà consolidata come i GAS si sta evolvendo con la nascita dei primi Gruppi di Autoproduzione Solidale e di Scambio (GASeS).74

2.7.3 LA RELAZIONE TRA VECCHIE E NUOVE COMUNITÀ MANIFATTURIERE URBANE

Ma quando si parla di microproduzione è essenziale considerare che le nuove attività manifatturiere spesso nascono o si insediano su un tessuto produttivo preesistente che

71 Multimachine (http://opensourcemachine.org/), Open Source Lathe (http://www.oslathe.com/), Open Source Loom (http://osloom.org/), Microfactory MOW (http://www.youtube.com/watch?v=rWgPH1vMFTk). 72 http://www.youtube.com/watch?v=Cf6mWQ8QreA, http://www.youtube.com/watch?v=0frbhO-k2BU 73 Robot industriali come i KUKA sono “hackerati” per fabbricare differenti tipologie di prodotti come nel caso delle sedute di Dirk Van Der Kooji (www.dirkvanderkooij.nl/) mentre multinazionali come ABB “prestare” robot industriali a designer per sperimentare nuovi processi produttivi e nuovi materiali come Mataerial (www.mataerial.com). 74 Nei GASeS sono possibili diverse formule di autoproduzione: ciascun membro può essere specializzato nell’autoproduzione di un unico prodotto che poi sarà scambiato oppure si organizzano sessioni collettive in cui i membri si organizzano per produrre un unico tipo di prodotto.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 103 spesso può vantare delle storie e delle esperienze consolidate. In diversi contesti urbani assistiamo alla coesistenza di un crescente e diversificato numero di attività e forme di produttive più tradizionali con attività nuove e modelli misti in trasformazione. Le più recenti si affiancano così ad altre pre-esistenti che hanno sviluppato un buon livello di resilienza agganciandosi ad alcuni fenomeni subculturali urbani: o microproduzioni storicamente collegate all’artigianato classico che nel modello più tradizionale erano confinate nell’assemblaggio, riparazione, confezionamento di prodotti (ristoratori, sarti, calzolai, falegnami, ottici) e che oggi ritornano a forme di produzione propria; o microproduzioni collegate ad attività artigianali operanti in settori particolarmente sensibili alla crescente richiesta di elaborazioni, customizzazioni e personalizzazioni75 anche estreme di prodotti come i mezzi di trasporto (auto, motociclette e biciclette) caratterizzato dalla forte propensione a trasformare prodotti industriali in pezzi unici; o microproduzioni di recente insediamento collegate ai grandi metabolismi urbani (es. settore agroalimentare76) che in pochi anni hanno visto l’evoluzione del modello dei community gardens in urban farms e la parallela introduzione di piccole unità produttive come i microbirrifici77 e i microcaseifici78; o microproduzioni sviluppate nei settori low-tech delle industrie creative (design, moda, architettura) che trovano una particolare applicazione nei prodotti per la moda e gli accessori per la persona e nei beni per la casa (arredamento, illuminotecnica, casalinghi, piccoli elettro e manodomestici, micro-architetture); o microproduzioni sviluppate in settori produttivi high-tech che hanno un collegamento storico o diretto con la grande industria e il mondo della ricerca (informatica, robotica, meccatronica, plastronica, biotecnologie, ….) e che sono impegnate nella produzione sperimentale robot, droni, protesi biomedicali, materiali e nuove macchine utensili; o una crescente ed eterogenea popolazione (di migliaia) di microproduttori amatoriali e occasionali interessati alle logiche DIY/DIT anche in un’ottica di replicazione, riparazione, rigenerazione, riprogettazione o ri- funzionalizzazione di prodotti esistenti (fixers, remakers, refurbishers, customizers and hackers).79

75 Si fa riferimento al tuning, al pimping e tutte le forme individuali di custom-made e custom-built. 76 Secondo le Nazioni Unite sono 800 milioni le persone che praticano agricoltura urbana in forma di friend gardens, family gardens, community gardens, corporate gardens che vale il 15-20% della produzione mondiale di cibo. 77 Nella città di Milano sono nati solo negli ultimi anni tre microcaseifici come il Centro della Mozzarella. In molte città cresce la produzione di Miele sviluppata da apicoltori urbani. 78 Nello stesso tempo è in aumento anche il mercato dei kit per l’orticoltura, l’apicoltura, la birrificazione e la panificazione domestica. 79 Un’altra questione interessante riguarda le differenze e le sovrapposizioni tra l’attività delle imprese di microproduzione - di cui alcune centinaia scelgono la via dell’autoproduzione totale79 - (Maffei e Bianchini, 2013). Le aree di continuità, di complementarietà e sovrapposizione tra micro e autoproduzione risiedono invece nella possibilità di accedere e utilizzare le stesse tecnologie e servizi di produzione (3D printing, computational and personal fabrication), gli stessi servizi di condivisione e scambio di risorse progettuali (scambio di files e idee su scala globale),

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 104

Infine la diffusione sempre più capillare di makerspaces nei quartieri delle città80, la comparsa degli strumenti per la fabbricazione digitale nelle case dei cittadini utilizzabili in condivisione va a infrastrutturare una rete urbana di servizi per la produzione accessibili a un elevato numero di persone81. Partendo da questo presupposto è quindi ipotizzabile lo sviluppo di un nuovo scenario per la produzione urbana caratterizzato non più solo dalla presenza di città industriali ma anche dalla crescita di città industriose capaci di organizzare in un sistema competitivo un insieme di capacità produttive autoctone, realizzate in micro-luoghi, diversificate, innovative e caratterizzate da una fronte impronta comunitaria.

Fig. 2.9 – Il pop-up store dei prodotti San Francisco Made | SFMade (fonte: www.sfmade.org/)

gli stessi servizi di comunicazione e social networking, le stesse piattaforme di distribuzione, le stesse forme di finanziamento (come microcredito o crowdfunding). 80 si tratta di sewing cafè, repair cafè, and bike cafè. 81 Il numero sulla crescita dei makerspace è continuamente aggiornato. Allo stato attuale FabFoundation nel conta oltre 400 ufficiali. In alcuni paesi come L’Olanda e in alcune città come Milano e Barcellona come si stanno costituendo reti regionali o reti urbane di FabLab.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 105

Fig. 2.10 – La Urban factory Heath Ceramics (fonte: www.sfmade.org/)

Fig. 2.11 – Ozona Occhiali a Perugia (fonte: http://microfactories.progettistiinrete.it/)

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Fig. 2.12 – Brooklyn Navy Yard NY, la sede del New Lab, Micromanufacturing Hub (newlab.com/)

2.7.5 CARATTERISTICHE DEL CITY MAKING

LE MICROIMPRESE MANIFATTURIERE URBANE SONO ‘COSTRUTTRICI DI COMUNITÀ’. Gli small urban manufacturers si caratterizzano per una propensione alla collaborazione e alla costituzione di comunità, network o alleanze più o meno formalizzate (Brooklyn Navy Yard a NY, SFMade ma anche Urban Manufacturing Alliance). Le città culturalmente dense ed eterogenee dove è più forte la presenza di comunità e imprese creative, sono il terreno ideale per la crescita delle microimprese manifatturiere urbane. Ciò può avere una duplice spiegazione: da un lato il numero dei microproduttori urbani è ancora ridotto e soprattutto settorialmente diversificato per cui le imprese sono quindi più stimolate a collaborare perché hanno la necessità e il vantaggio economico di condividere spazi e risorse. Si tratta di un possibile modello che mostra come potrebbe essere una comunità industriale del 21°secolo, operativa su piccola scala e con imprese agili che sfruttano la classe creativa. Per attività come l’urban manufacturing che necessitano di scambio informale i processi di costruzione della fiducia sembrano giocare un ruolo centrale.

I CITY MAKERS ‘APPARTENGONO’ ALLA CITTÀ. Attraverso le loro produzioni essi interpretano l’identità e l’orgoglio di un luogo geograficamente, socialmente e storicamente ben definito. Nel caso SFMade, la città di San Francisco diventa parte integrante della proposta di valore complessivo dei microproduttori, è parte del loro brand e dei loro prodotti. Diverse imprese che producono in città lo fanno consapevolmente a un costo più elevato, perché hanno deciso che la produzione locale è una componente vitale della loro strategia di business – nonostante il costo aggiuntivo che ha mantenere le attività d’impresa entro i limiti della città.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 107 I CITY MAKERS SUTILIZZANO E VALORIZZANO COMPETENZE E MANODOPERA LOCALE. A San Francisco ad esempio i microproduttori urbani hanno trovato una particolare forza nello sviluppo di attività che utilizzano come base le competenze delle popolazioni urbane, le comunità d’immigrati e l’abilità progettuali dei settori creativi. La stragrande maggioranza dei produttori realizzano prodotti di consumo, tra cui abbigliamento e accessori; alimentari e bevande; bioedilizia e prodotti per i trasporti; e una vasta gamma di prodotti emergenti del design con tecnologia che sfidano la classificazione tradizionale. Pratt center riporta che molti laureati under 30 si recano da queste imprese per progettare o imparare a produrre o costruire. Si tratta in sostanza un approccio di tipo pre-industriale a livello di scala e di tipo post-industriale a livello di strategia.

IL CITY MAKING È UN’INSIEME DI ATTIVITÀ PRODUTTIVE SETTORIALMENTE DIVERSIFICATE. Dagli studi condotti da SF Made (2010) e da Pratt Center (2011) emerge una fotografia sulle nuove attività di microproduzione urbana molto diversa rispetto a quella di un’industria monolitica. Esso è composto da imprese piccole e flessibili, una rete vivace e distribuita di fornitori, dei partner di evasione degli ordini e canali di distribuzione, sia fisici che online. Il rapporto SFMade 2010 illustra come l’80% delle imprese manifatturiere urbane impiega meno di 20 persone ciascuno. Sempre dal report elaborato da Pratt Center intitolato “SUM Small Urban Manufacturing” emerge che le microimprese produttrici localizzate in città hanno produzioni di elevato valore con prodotti design-oriented. Basti pensare ai birrifici artigianali o all’abbigliamento. Le microimprese urbane sembrano rappresentare lo strumento più idoneo per assecondare il trend della “industrializzazione personale” con cui ad esempio un paese come l’Italia può competere al meglio sullo scenario internazionale.

L’URBAN MANUFACTURING HA UNA DIMENSIONE PRODUTTIVA “PERSONALE E HUMAN CENTERED”. Il cuore e l'anima dell’urban manufacturing è rappresentato dalla qualità della forza lavoro. Si tratta di artigiani qualificati, tecnici e progettisti che abilitano le imprese a offrire nuovi prodotti con una maggiore qualità, tempi di consegna più brevi, un servizio ai clienti più reattivo, un’offerta di nuovi prodotti più frequente. Le loro piccole dimensioni e la loro posizione in città li tiene in contatto diretto con i propri clienti in modo da poter identificare e rispondere alle ultime tendenze e le esigenze del mercato. La loro ubicazione metropolitana permette loro anche di far crescere una manodopera altamente qualificata e versatile. Microproduttori urbani svolgono un ruolo particolarmente importante in alcuni dei quartieri più svantaggiati delle città, in cui molte delle nostre aziende si trovano. In Italia le microimprese manifatturiere urbane sono ritenute socialmente utili per diversi motivi: aumentano la stabilità economica e finanziaria, la coesione sociale all’interno delle città.

LE 5 “I” DEL CITY MAKING: INDIGENO, INTEGRATO, IBRIDO, INTELLIGENTE E INDIPENDENTE. Una questione di fondo: non tutti i microproduttori urbani sono

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 108 City Makers e non tutto ciò che è prodotto in città è City Making. Il City Making è una forma di produzione generata da una popolazione di attività produttive indigene distribuite in modo ‘granulare’ all’interno del tessuto urbano. Un’altra importante condizione riguarda l’integrazione tra la domanda e l’offerta di beni e la domanda e l’offerta di servizi collegati alla micro e autoproduzione, che devono essere ritenute attività vantaggiose e desiderabili a più livelli: economico, sociale e ambientale. Da queste prime condizioni si ricava che il City Making è una forma di produzione ibrida formale/informale che non è: i) solamente orientata al profitto; b) effettuata solo tramite soggetti di diritto come le imprese che si basano sui tradizionali modelli di divisione del lavoro; c) spesso non risponde a molte delle tradizionali norme giuridiche di diritto commerciale. Si tratta quindi di un insieme di attività manifatturiere ancora difficili da misurare con i tradizionali indicatori socio- economici. Solo rientrando però in un circuito di luoghi, pratiche, strumenti e servizi che invece sono “codificati” o regolamentati esse possono essere in qualche modo pienamente formalizzate. Riprendendo il concetto di creative intelligence elaborato da Nussbaum (Nussbaum 2013), il City Making è considerabile come un’attività intelligente (o smart) in cui la parte puramente produttiva (making) entra in un processo più ampio che prevede lo sviluppo di nuove competenze: estrarre e distillare la conoscenza utile da diversi giacimenti (knowledge mining), costruire scenari e narrazioni in cui collocare e dare un senso alla produzione (framing), “giocare” con la produzione stessa attraverso azioni di simulazione e dissimulazione non solo tecnologica (playing), esercitare nuove forme di leadership con i soggetti coinvolti a vario titolo nella produzione: partner, audience, customer, fan, friends (pivoting). Il City Making può abilitare nuove forme di indipendenza rispetto ai tradizionali circuiti della produzione e del consumo di massa (anche in una logica di downshifting) e lavora affinché la città diventi un luogo più autonomo dal punto di vista produttivo anche sviluppando un approccio alla materializzazione dei beni di tipo ricostruttivo (repairing) e rigenerativo (refurbishing e re-manufacturing).

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 109 2.8 QUANDO MICRO È MACRO: IL CASO LA MICROPRODUZIONE DELLA BIRRA ARTIGIANALE

Negli ultimi anni diversi studiosi di economia e sociologia ma anche riviste come Business Week and The New Yorker si sono occupati di un fenomeno nato all’inizio degli anni 90 e direttamente riconducibile al tema della microproduzione: la forte crescita su scala globale del consumo della ‘birra artigianale’ (o craft beer) alimentata dalla costante crescita di un movimento di micro e autoproduttori e dall’aumento dei microbirrifici. Un fenomeno che contiene e in alcuni casi ha anticipato alcuni trend riconoscibili nella microproduzione di altri tipi di beni. Il fenomeno dei birrifici artigianali, microbirrerie o microbirrifici (microbreweries) nasce in Inghilterra negli anni ‘70 e ri-nasce negli Stati Uniti negli Anni’80 attraverso il recupero di alcune tradizioni produttive (soprattutto europee) che andavano perdendosi. Questo nuovo modello produttivo creava una separazione dall’autoproduzione domestica (homebrewing) e determinava la conseguente creazione di una nuova nicchia di mercato che avrebbe poi conosciuto un successivo forte sviluppo negli anni ’90. Oggi la birra artigianale costituisce ancora una parte minoritaria della produzione ma in diversi paesi sta raggiungendo quote di mercato82 che la rendono competitiva con quella industriale. Ma il dato più interessante di questo fenomeno è sicuramente rappresentato dalla sua crescita esponenziale83 che si esprime non solo nella velocità di crescita del mercato, ma anche nella comparsa di nuovi microproduttori e la velocità con cui il prodotto innova ed eleva le proprie qualità. In sostanza molti microbirrifici possono concorrere con le industrie sul fronte dei processi di produzione ma allo stesso tempo hanno prodotti paragonabili per qualità alle realtà artigianali (come i monasteri belgi) che vantano una tradizione pluricentinaria di perfezionamento del prodotto. Il primo aspetto per inquadrare il fenomeno riguarda la diversificazione dei modi e dei soggetti in cui l’attività di birrificazione su piccolissima scala è possibile:

82 Secondo il rapporto della Brewers Association, nel 2012 i 2.300 piccoli e indipendenti birrifici artigianali americani hanno aggiunto 33,9 miliardi di $ all'economia degli Stati Uniti. Dal 2011 al 2012 il numero dei microbirrifici negli Stati Uniti è cresciuto del 20% (377 nuove unità), mentre erano solo 42 nel 1978. Per alcune grandi catene di distribuzione come l’americana Costoco la birra artigianale costituisce oggi circa il 30% della birra venduta. 83 Dati Assobirra 2013: I 445 microbirrifici artigianali italiani hanno prodotto 300 mila ettolitri costituendo l’1% per cento della produzione nazionale e il 2-3% del valore stimato in circa 60milioni di euro. Il dato più interessante sulla crescita delle birre speciali – importate ma soprattutto artigianali e italiane – viaggia tra il 10 e il 20% annuo. La stima è che in pochissimi anni (2-3) il consumo di birra artigianale rappresenterà metà del consumo pro-capite.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 110 o MICROBIRRIFICI ovvero impianti che producono birra in piccole quantità che tendenzialmente non dispongono di un locale di mescita e la cui produzione è totalmente o nella gran parte destinata alla vendita a locali e negozi; o NANOBIRRIFICI84, costituiscono la versione ridotta di un microbirrificio e sono generalmente condotto da una sola persona che produce birra in piccolissime quantità; o BREWPUB sono locali dotati di un impianto di produzione generalmente utilizzato per il consumo interno; o BEER FIRM sono impianti preesistenti che sono affittati a privati, i quali possono quindi produrre birra artigianalmente ma in quantità non raggiungibili con un normale impianto casalingo.

Oltre a questa scala si entra nel mondo dell’autoproduzione e si apre un altro mercato sempre più specializzato nella commercializzazione di una vasta gamma di HOMEBREW KIT (più o meno professionali) e la possibilità per gli amatori di acquistare materie prime e attrezzature per affinare la propria produzione.

Un recentissimo articolo di The Guardian, intitolato ‘The craft beer revolution: how hops got hip’85, ha raccontato come nel Regno Unito, a fronte di un generale crollo dei consumi di birra e dalla chiusura di diversi pub tradizionali, si stia registrando un vero e proprio boom delle birre artigianali prodotte da giovani e ‘creativi’ birrai con ricette in grado di promuovere sapori diversi e radicali. Un mercato cui le grandi imprese del settore guardano con molto interesse. A questo proposito in una intervista all’Inkiesta, il titolare di un famoso e pluripremiato microbirrificio italiano86 riassumeva il suo successo di microproduttore con questa frase “… La differenza sta nell’utilizzo di materia prime e tecnologie diverse ma soprattutto nella capacità artigianale di inventare e raffinare prodotti”. Oltre a sottolineare la componente ‘creativa’ applicata anche all’utilizzo dei materiali e allo sviluppo di tecniche e processi, l’articolo rifletteva anche su un altro proprio su questo aspetto: anche se il fenomeno è facilmente visibile è tutto difficile da quantificare perché non esiste più alcuna chiara definizione di ciò che è ‘artigianale’ sia dal punto di vista del processo di produzione che dal punto di vista dell’origine del prodotto. Schnell e Reese nel loro libro Microbreweries, Place, and Identity in the United States (2014) hanno studiato la rapida crescita del fenomeno della birra artigianale negli Stati Uniti (oltre 2.300 microbirrerie e brewpub nate dalla metà degli anni 80) sostenendo che questa espansione è fortemente collegata al concetto di neolocalismo una più ampia tendenza della società verso l'autenticità e l’identità locale dei prodotti che in campo alimentare si è già manifestata in modi ben più visibili. In precedenza, nel 2012, The New Yorker ha infine provato a esplorare meglio il fenomeno attraverso una mappa interattiva (Fig.3) che faceva emergere come la

84 Un soggetto è un’attività riconosciute dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. 85 http://www.theguardian.com/lifeandstyle/2014/aug/13/craft-beer-revolution-hops-brewers-flavours 86 Un birrificio di Lurago Marinone (Co) che ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti internazionali per le sue produzioni.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 111 presenza dei microbirrifici si stesse distribuendo in modo omogeneo nel paese soprattutto nelle aree dove non c’era una simile tradizione.

Fig. 2.10 – La mappa elaborata dal 2012 The New Yorker (http://projects.newyorker.com/story/beer/) mostra una panoramica generale del settore artigianale della birra americana basata su dati rilasciati nello stesso anno dalla US Brewers Association, che vanno dalla totale birrifici artigianali per Stato a tassi di crescita birreria individuali.

Fig. 2.13 – La mappa di the Beer Mapping Project http://beermapping.com/.

Fig. 2.14 – The Nola Brewery - microbirrificio nel cuore del quartiere francese di New Orleans.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 112

Fig. 2.15 – Un kit per la birrificazione domestica.

Altri studiosi coadivuati da un numero crescente di report e analisi di mercato hanno individuato una serie di ragioni che spiegano il successo della microproduzione della birra: o I microbirrifici sono riusciti a ‘prosperare' in un periodo di recessione perché hanno offerto un prodotto di qualità più elevata a consumatori molto informati che cercavano prodotti di qualità superiore. o I microbirrifici presentano una elevata capacità e velocità nella differenziazione del prodotto, questo in parte dovuto all’attitudine sperimentale che consente ai microproduttori di reinterpretare la tradizione senza esservi vincolati e di sperimentare senza che questo possa avere troppe ripercussioni sull’attività nel caso di insuccesso. o I microbirrifici diventano parte attiva e strumento del patrimonio culturale locale. La microproduzione della birra è un’attività caratterizzata da facili barriere di accesso che consente agli amatori con pochi soldi di autoprodurre e affinare le loro produzioni e perfino di proporle sul mercato. Ne è una testimonianza la crescita delle vendite di kit per la birrificazione domestica (homebrew kit)87 e la presenza di piattaforme social dove appassionati e hobbisti possono socializzare con i microproduttori per affinare le loro tecniche. o I microbirrifici non assumono posizioni anti-corporative e non si caratterizzano per un atteggiamento ipercompetitivo rispetto alla grande industria, ma anzi si caratterizzano per la capacità di creare reti ed alleanze con altri microproduttori. Questo aspetto non conflittuale ha consentito a diversi produttori industriali nazionali e internazionali di sfruttare il trend di mercato collegato a questo fenomeno sviluppando una propria produzione di birra artigianale che entra in competizione con quella dei microbirrifici.

87 Da un’indagine della HomeHomebrew Principianti: 80% dei negozi intervistati aumento delle vendite con esperienza di kit di attrezzature homebrew per principianti, a significare un notevole aumento di interesse per hobby.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 113 Dal caso della microproduzione della birra emerge ancora una volta la presenza di una forma di microproduzione che presenta una natura e caratteristiche simili a quelle osservate negli small urban manufacturers, nei makers e negli autoproduttori: i) ripropone su piccola scala un processo che sul piano tecnologico è assimilabile all’industria; ii) è finalizzato allo sviluppo di un prodotto che presenta caratteristiche di unicità e artigianalità ed è fortemente contaminato sul piano dell’innovazione dall’unione tra capacità progettuale, sperimentazione laboratoriale ed elementi di socialità.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 114 2.9 MICROPRODUCTION EVERYWHERE: MICROPRODUZIONE COME SISTEMA

2.9.1 LA MICROPRODUZIONE COME POSSIBILE PARADIGMA SOCIO-TECNICO EMERGENTE

La diffusione e la convergenza di un crescente numero di attività produttive su piccola scala, accomunate dall’utilizzo di risorse peer-to-peer e alimentate da una pluralità di culture progettuali e produttive può favorire la crescita di nuove forme di microproduzione che possono essere viste come un nuovo SISTEMA DISTRIBUITO (Kühnle, 2010; Manzini, 2014). La microproduzione può essere osservata come MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA (DM), ovvero un insieme coerente di entità e attività produttive autonome e indipendenti che sono fisicamente distribuite in alcune aree geografiche (principalmente le città) che possono connettersi e interagire tra loro attraverso reti e piattaforme che facilitano lo scambio di dati e know-how (progettuale, tecnico e tecnologico) e con la capacità di rielaborare/reinterpretare la cultura del luogo in cui risiedono. Questa impostazione porta a definire il concetto di Microproduzione Distribuita in una forma più estesa e inclusiva:

“…un insieme di pratiche e processi produttivi finalizzati alla materializzazione di artefatti materiali (o parti di essi) in pezzi unici o serie limitate, ideati con uno scopo o un’intenzione progettuale, costruiti e assemblati a mano o fabbricati per mezzo di strumenti e macchine analogiche e digitali, in forma individuale o comunitaria, da una pluralità di soggetti (amatori, professionisti e imprese) all’interno di luoghi temporanei o permanenti di dimensioni ridotte (non necessariamente siti produttivi dedicati) e quindi distribuiti in modi e contesti non tipologizzati.” (Bianchini e Maffei, 2013).

Ma quali sono le caratteristiche e le proprietà che ha o può esprimere un sistema distribuito di questo tipo? La DM è considerabile come un sistema multiagente (Ferber, 1999; Woolridge, 20019) che esprime un’intelligenza progettuale88 e produttiva distribuita potenziata dalla relazione con la Rete o con altre forme di intelligenza artificiale89. In un sistema multiagente emerge un comportamento coopetitivo che si origina dalle relazioni e dalla connessione e organizzazione in rete delle singole entità per orientarle ai bisogni delle singole persone e del mercato che esse generano90. Nei contesti in cui il numero d’interazioni tra questi soggetti (o agenti) aumenta in

88 Riprende il concetto di creative intelligence elaborato da Nussbaum (2013). 89 Basandosi sul pensiero di Ferber, i micro-produttori sono considerabili come agenti della produzione che presentano modelli congnitivi intenzionali e modulari che consentono loro di realizzare i propri fini produttivi tenendo costantemente conto dei vincoli e delle opportunità date dalla presenza e dalla relazione con gli altri microproduttori. 90 A questo proposito Kühnle (2010) scrive:“…As the responsibilities for operations are stroingly tied to organizational units and their socio-technical nature, Distributed (micro)Manufacturing also has all the features of human influenced-complex network building…”.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 115 maniera significativa si sviluppano nuovi approcci produttivi (relativi a processi, tecniche e organizzazione) che rappresentano l’emergenza di una cornice paradigmatica di natura sociotecnica. Dal punto di vista sociotecnico anche la Microproduzione Distribuita, come altri sistemi distribuiti, presenta le seguenti proprietà generali (see tab. 1):

o FLESSIBILITÀ, è in grado di creare diverse configurazioni di soggetti e di connessioni nella realizzazione dei processi produttivi per “modulare” la produzione: produrre lo stesso prodotto in modi diversi, produrre differenti tipi di prodotto, differenti versioni di prodotti simili, o dello stesso prodotto (varianti o multipli);

o SCALABILITÀ/ADATTABILITÀ, è in grado di far variare i processi di produzione (pezzi unici, piccole serie o prodotti “moltiplicati”, lotti come somma di piccole produzioni gemelle) e allo stesso presenta la capacità di crescere o ridursi dal punto di vista dimensionale (numero di nodi) e geografico (estensione della rete); inoltre le produzioni o le pratiche (tecnologiche, organizzative, sociali) originatesi in un uno specifico contesto produttivo possono essere replicate e adattate per trasferirle e diffonderle in altri contesti;

o TRASPARENZA, i processi e le perfomance produttive possono essere tracciabili, visibili, comprensibili e condivisibili. Il sistema inoltre ragiona sullo sviluppo continuo di applicazioni legate all’infovisualizzazione e al monitoraggio/controllo delle risorse (maker map) anche in relazione alla crescente incorporazione nei prodotti e nei mezzi di produzione di dispositivi e tecnologie di controllo91;

o INTEROPERABILITÀ, è in grado di far coesistere e cooperare un insieme diversificato di competenze e capacità produttive e di promuove forme di cooperazione attiva tra persone e sistemi di produzione tradizionali e automatizzati (human integration and friendliness, Kühnle, 2010);

o CONNETTIVITÀ, tende a sviluppare interazioni a tutti i livelli (materiale e immateriale, prodotto e servizio, uomo-macchina) anche perché il sistema tende a sviluppare componenti-base e tecnologie tra loro interagenti e compatibili che fanno evolvere e innovare i processi e i prodotti (Arthur, 2010);

o ERROR-FRIENDLINESS O RESILIENZA, è in grado di tollerare errori, insuccessi o fallimenti commessi dai singoli microproduttori senza compromettere il funionamento comlessivo del sistema.

I modelli produttivi e d’impresa della DM assumono così un ruolo e un valore sociale riconosciuto perché interpretano la cultura globale e valorizzano competenze e manodopera locale e perché assumono una dimensione personale e human-centered.92

91 I processi produttivi sono controllati (es. Arduino) inoltre una serie di geolocalizzazione) riferimento al tema degli SPIME e alle 5 tecnologie utilizzate. 92 Guida EC alla Social Innovation (inclusione sociale, p.22).

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 116 In questo senso la Microproduzione ha un valore di inclusività sociale93 (Benkler, 2006) e di innovazione partecipata94 (Brown, 2013) che presentano molti punti di contatto con la social innovation e può essere considerata come un motore di sviluppo per l’ecosistema socioeconomico. In questa direzione un’altra importante caratteristica della DM riguarda l’integrazione tra la domanda e l’offerta di beni e la domanda e l’offerta di servizi collegati alla manifattura che devono essere vantaggiosi e desiderabili a più livelli: economico, sociale e ambientale.

2.9.2 MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA COME ATTIVITÀ SISTEMICA

Con lo sviluppo della service economy, i processi di servitizzazione hanno progressivamente trasformato i prodotti in product-service systems e i sistemi di produzione industriale in un Manufacturing Service Ecosystem95 (Neely, Benedettini, Visnjic, 2011). Questa dimensione ecosistemica è osservabile nel campo della MD, in particolare nello sviluppo del 3D printing e della personal fabrication e il Fab Lab Ecosystem (Troxler, 2013) che nascono già nella service economy e operano per abilitare una produzione distribuita e democratizzata. Le principali caratteristiche che qualificano la MD come un sistema socio-tecnico (DMS) sono: systemic openness, widespread interactivity, community enabling, fractal organization, social learning.

APERTURA SISTEMICA (SYSTEMIC OPENNESS)96. Nelle scienze sociali, un sistema aperto è un processo che scambia materiale, energia, persone, capitali e informazioni con il proprio ambiente (interactional openness, Luhman, 2004). La crescita del movimento open source97 grazie alla sua espansione dal mondo del software a quello del design, dell’hardware dei dati e dei materiali sta generando le condizioni per il potenziale sviluppo di filiere e sistemi di produzione in grado di http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/presenta/social_innovation/social_innovation_2013.pdf http://ec.europa.eu/enterprise/policies/innovation/files/social-innovation/strengthening-social-innovation_en.pdf Gasson, S., “Human-Centered Vs. User-Centered Approaches to Information System Design”, The Journal of Information Technology Theory and Application (JITTA), 5:2, 2003, p.31-32., http://plusacumen.org/ 93 Inclusività sociale perché la MD ha basse forme di accesso (è abbastanza facile diventare autoproduttore, la MD può facilitare la partecipazione di soggetti prima esclusi dal lavoro, può creare forme di produzione distribuita che consentono piccole integrazioni di reddito…). 94 Tim Brown parla di innovazione partecipata riferendosi alla dimensione sociale del making “Rapid prototyping and “learning by making” is already an accepted strategy for effective innovation. For participatory systems, this is even more important because the complexity of the interactions cannot possibly be anticipated by even the smartest of plans. The reality is that these prototypes cannot live in the lab; they have to be let out into the wild. So, we need to start getting comfortable with letting others participate in our innovation activities. Of course this means that many of our accepted notions of IP and trade secrets go out of the window. This is very scary for the lawyers” http://designthinking.ideo.com/?p=301. 95 http://www.emeraldinsight.com/journals.htm?articleid=1795171 96 Growth Waves, Systemic Openness, and Protectionism William R. Thompson and Lawrence Vescera International Organization Vol. 46, No. 2 (Spring, 1992), pp. 493-532 Published by: The MIT Press Article Stable URL: http://www.jstor.org/stable/2706861 97 Open hardware project, Open Design at Open Knowledge Foundation, Open Source Hardware and Design Alliance, Open Source Hardware User Group, Open Knowledge Foundation, Open Hardware Freedom Defined, Open Hardware Association, Open Materials, Open Hardware Catalog,

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 117 esprimere una systemic openness (e.g. Open Source Ecology). Sebbene il legame tra mondo open source e produzione distribuita abbia implicazioni e problemi ben più complessi rispetto al campo del software (Troxler, 2013), la DM si presenta oggi come un laboratorio diffuso (forse il più avanzato esistente) per la sperimentazione reale di forme di systemic openness. Nel campo della DM assistiamo alla compresenza di sviluppatori, organizzatori e utilizzatori di openness che ibridano gli strumenti dell’open innovation con le pratiche comunitari e di sviluppo collaborativo dell’open source dando una centralità al design (Avital, 2012). I designer-produttori rappresentano senza dubbio un elemento culturale e operativo di riferimento nell’utilizzo strategico dell’openness. Dal primo open design manifesto98 (Kadushin, 2005) una crescente comunità di designer-produttori-sviluppatori integra i principi dell’open source nei tradizionali processi di design fornendo versioni “chiuse” e “aperte” dei propri prodotti (e.g. Oskar Zieta, Design for Download Droog Design); altri invece sviluppano ex-novo interi sistemi e piattaforme che abilitano l’open design lavorando sullo sviluppo di nuove regole e standards (e.g. Wikihouse and Open Desk, Open Structure). Queste piattaforme vanno a completare l’attuale presenza delle piattaforme per l’open hardware e l’open production (e.g. Instructables) consentendo così a un numero crescente di micro e autoproduttori di attingere a un sistema di risorse aperte che offre loro la possibilità di colmare i gap tecnologici e progettuali o realizzativi necessari per completare le proprie produzioni. L’openness sta infine diventando un terreno di confronto, collaborazione tra mondo della DM e l’industria manifatturiera tradizionale. Un numero crescente di medie e grandi imprese o associazioni d’impresa sviluppa progetti pilota centrati sull’open innovation che promuovono (es. Natevo) o “utilizzano” la micro e l’autoproduzione per testare nuovi utilizzi e applicazioni delle proprie tecnologie, sviluppare nuovi concept di prodotto e di processo.

INTERATTIVITÀ DIFFUSA (WIDESPREAD INTERACTIVITY). Nelle teorie dei sistemi una proprietà emergente compare quando un numero di entità semplici (i.e. the makers) operando in un determinato ambiente (i.e. a Fab Lab) originano comportamenti più complessi in quanto collettività (Buchanan, 2003).99 La prima condizione per lo sviluppo della DM è che un certo numero di microproduttori riesca a stabilizzarsi interagendo tra loro (scambiando conoscenze, materie, prodotti, tecniche e tecnologie) influenzandosi reciprocamente nei comportamenti e nelle performance produttive. E’ solo grazie alla continua interazione tra i microproduttori che questo sistema acquisisce nuovi comportamenti ed è in grado di innovare. Per favorire lo sviluppo di DM system non è quindi interessante agire sui singoli micro-produttori ma è invece utile operare sugli strumenti, sui dispositivi e sui servizi che ne favoriscono l’interazione nei processi di design (from tinkering to things, come nel caso dei makerspaces), nei processi d’apprendimento d’uso tra microproduttori e macchine (from bits to atoms, come nel caso del fabbing o del rapid manufacturing) con processi di interazione collettiva cognitiva (dai files/codici ai prodotti, come nel

98 http://www.ronen-kadushin.com/files/4613/4530/1263/Open_Design_Manifesto-Ronen_Kadushin_.pdf 99 Nexus: Small Worlds and the Groundbreaking Theory of Networks, Mark Buchanan

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 118 caso dell’open design, o del generative design e from frames to things, come nel caso dei tutorials video sull’how to make)100. Le crescenti possibilità di combinare questi tipi d’interazione101 promuovono lo sviluppo di nuovi processi di progettazione- produzione-distribuzione testimoniato dalle nuove tipologie di interfacce come le design apps, l’interactive fabrication102 (gestural and interactive sculpting, spatial sketching), le haptic technologies (haptic, tangible, embedded and embodied interfaces).103

COMUNITÀ ABILITANTI (COMMUNITY ENABLING): (MICRO)NETWORK E ALLEANZE. Un sistema per essere realmente innovativo deve avere la capacità di costruire alleanze (Leadbeater, 2013). Questa proprietà nel campo del DM system si traduce in una pluralità di microproduttori che sviluppano progetti Community Based Fabrication (i.e. Fab@home, RepRap) anche individuando modelli di Community Supported Manufacturing (Bawens, 2011) dove i siti di produzione - un impianto di fabbricazione digitale – sono cofinanziati o co-gestiti da un numero di soggetti interessati allo sviluppo di determinati prodotti o produzioni siano esse individuali o collettive (hackerspaces). Questi modelli di Microproduzione tendono ad abilitare, utilizzare e valorizzare competenze e processi di lavoro locali mettendo in relazione queste competenze con quelle presenti sulle piattaforme globali. Il concetto di comunità (Himanen, 2003 + altro da sociologo del lavoro) è quindi ben visibile anche nelle attività di microproduttori urbani e anche dei distributori indipendenti della microproduzione i quali danno vita ad associazioni e alleanze locali, scalabili ed estendibili a livello nazionale e globale: SFmade with Urban Manufacturing Alliance104. Queste iniziative realizzate da diverse tipologie di microproduttori presentano dinamiche e logiche ricorrenti e comuni che vedono il consolidamento di una comunità di microproduzione a partire dalla creazione o dalla frequentazione di un luogo, di un’iniziativa produttiva o da un insieme disperso di esperienze. La convergenza di questi soggetti sulla base di interessi comuni determina la modellizzazione dell’esperienza o della comunità sottoforma di toolkit105, standards,

100 Craft Tuts, Instructables, La sezione project di Make, alcuni progetti pubblicati sui siti dei fablab 101 Quando parliamo di interazioni facciamo riferimento sia a processi di connessione e aggregazione che a processi di condivisione e scambio che possono riguardare: informazioni e conoscenze relative al design, alle pratiche e alle tecniche di produzione, alle tecnologie e alle macchine, all’utilizzo di luoghi e strutture.. 102 Gestural sculpting, interactive sculpting, spatial sketching. See http://www.interactivefabrication.com/ (last accessed: 13th August 2013) 103 Esempi sono Computer Augmented Craft del designer Christian Fiebig, 3D Printing Pen, Artisan electronique di Unfold Design Studio, Haptic Intelligentia di Studio Homunculus, Constructables Interactive Lasercutting. OS Loom, OS Lathe. 104 The Urban Manufacturing Alliance (UMA, www. http://urbanmfg.org) is a national collaborative of non-profit, for- profit and governmental stakeholders across major US cities, working together to grow manufacturing businesses, create living wage jobs and catalyze sustainable localized economies. The alliance has developed a specific toolkit (http://urbanmfg.org/wp-content/uploads/2013/05/UMA-Local-Branding-Toolkit-Final1.pdf) L’attività di affiliazione è finalizzata alla promozione di brand platform per il locally-made, 105 UMA Toolkits are practical guides focused on sharing best practices from multiple UMA cities, with a focus on implementation. From workforce development to local branding to land use and zoning, UMA Toolkits cover the specific challenges and solutions that are working now to help grow and support the local manufacturing sector in our cities. “Urban Manufacturing Alliance Toolkit: How to Develop a Locally-Made Brand Platform” http://urbanmfg.org/wp-content/uploads/2013/05/UMA-Local-Branding-Toolkit-Final1.pdf,

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 119 wiki106 certificazioni107e licenze che ne formalizzano principi e regole e ne rendono possibile la partecipazione-riproduzione-replicazione-reiterazione attraverso meccanismi di iscrizione e affiliazione. Questi modelli comunitari che presentano processi strumenti di autovalutazione e peer-review sono indicativi del fatto che vi siano dei buchi legislativi in materia di open design, micro e autoproduzione che possono anche favorire la creazione di alleanze che hanno fini produttivi controversi (come Defense Distributed).108

ORGANIZZAZIONE FRATTALE (FRACTAL ORGANIZATION). Le Fractal Organizations109 si caratterizzano per avere gerarchie piatte e la capacità di distribuire compiti e responsabilità (Hoverstadt, 2009). Allo stesso modo nel sistema DM si trasformano alcuni modelli gerarchici consolidati nel campo della produzione manifatturiera, come ad esempio nella relazione tra produttori di beni finali e subfornitori (di macchine, materie prime e componenti). In questo sistema emergente la relazione tra microproduttori e produttori/fornitori di tecnologie è sostanzialmente parificata, la cosa differente è che i produttori di tecnologie come MakerBot e Arduino sono le nuove micromultinazionali della microproduzione (l’equivalente di per il sistema industriale tradizionale). In alcune entità del sistema DM sono chiaramente osservabili una serie di caratteristiche e di comportamenti appartenenti a questo tipo di organizzazioni frattali (Warnecke, 1997). La prima caratteristica è la self-similarity: i microproduttori tendono a sviluppano processi di tipo automorfico, cioè quando crescono o si trasformano tendono a preservare tutte le proprie caratteristiche organizzative, strutturali e costitutive. Il modello organizzativo del Fab Lab sta crescendo in modo esponenziale proprio adottando un processo a rete cellulare110. Ogni Fab Lab mantiene infatti inalterato il modello originale non crescendo dimensionalmente ma replicandosi e connettendosi . Lo scale up del modello del DM si ha quindi non per crescita dimensionale o economica ma per aumento della granularità delle attività. Questo garantisce la flessibiltà auto-organizzata dei piccoli volumi di produzione garantiti dai singoli microproduttori, ma anche la possibilità di grandi volumi prodotti dal sistema nel suo complesso (perché o potenzialmente in grado di attivare, orientare e coordinare le comunità di microproduttori distribuendo i

106 http://wiki.fablab.is/wiki/Main_Page 107 dal rilascio di Certified Local Manufacturer Program garantiti da associazioni come SFMade, all’utilizzo del Copyleft 108 Un’associazione di fabbricatori di armi open source che si propone di sviluppare e pubblicare liberamente il design di armi che possono essere scaricate e riprodotte da chiunque con una stampante 3D.The specific purposes for which this corporation is organized are: To defend the civil liberty of popular access to arms as guaranteed by the United States Constitution and affirmed by the United States Supreme Court, through facilitating global access to, and the collaborative production of, information and knowledge related to the 3D printing of arms; and to publish and distribute, at no cost to the public, such information and knowledge in promotion of the public interest. 109 P. Hoverstadt (2009). The Fractal Organization: Creating Sustainable Organizations With the Viable System Model, John Wiley & Sons Inc. 110 Il numero di Fab Lab nel mondo raddoppia circa ogni 18 mesi (segue la Legge di Moore sullo sviluppo dei microprocessori). Al suo interno sono attivi diversi gruppi operanti in contesti e in settori diversi che sono autonomi nello sviluppo di attività o iniziative collegate alla Microproduzione ma allo stesso tempo sviluppano comportamenti connettivi con gli altri gruppi per generare iniziative capaci di far crescere in Italia un Sistema di Microproduzione dotato di luoghi e aggregatori di servizi per la Microproduzione, di produttori di tecnologie, di attività di formazione e ricerca, di fiere di settore ed eventi specializzati e popolato da un numero crescente di imprese e professionisti della Microproduzione.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 120 volumi di produzione). Questa adattabilità sistemica della DM richiede un mix di stili di leadership (Leadbeater, 2013) personali (Bianchini, Maffei, 2013) che diventano collettivi grazie a processi di delega temporanei. Il sistema della DM è inoltre ridondante perché non c’è alcuna separazione-specializzazione funzionale tra le sue parti: in sostanza tutti i microproduttori sono potenzialmente artefici dello sviluppo di qualunque parte organizzata della DM.

APPREDIMENTO SOCIALE (SOCIAL LEARNING). Nella DM la convergenza e simultaneità tra le pratiche del learning by doing, by using (Rosemberg 1982; Arthur, 2010) e by interacting (Lundvall, 1994) abilitate dalla rete, dal fare collettivo e dal moltiplicarsi delle esperienze personali dei microproduttori generano norme e comportamenti che si configurano come un sistema sociale. La logica che li guida è peer-to-peer, che si manifesta attraverso processi di social learning, in particolare centrato, in questi early stage di sviluppo, nelle pratiche del copying and emulation. L’aspetto di fondo riguarda la ricostituzione di un'idea della creatività che in un sistema di DM si coltiva attraverso molteplici tipi d’intelligenza (e di conoscenza diffusa) e grazie a percorsi educativi personalizzati (Robinson, 2010) e in cui la dimensione del tinkering è essenziale per innovare (Brown, 2011)111. Nel sistema della DM sono riconoscibili due assi centrali nei processi di apprendimento: la relazione tra processi taciti ed espliciti e la relazione tra processi individuali/personali e sociali/collettivi. Da un lato i microproduttori tendono a concentrare nella cacità cognitiva individuale un set di competenze professionali che prima erano presenti e distribuite in più soggetti. Si tratta di processi di apprendimento che abilitano la capacità di visualizzare dentro di sè tutti gli aspetti progettuali, produttivi e distributivi è la prerogativa (Bianchini, Maffei, 2013). Dall’altro a testimonianza dell’importanza dei processi espliciti di diffusione e acquisizione della conoscenza in questo campo esiste un crescente numero di piattaforme come Instructables, I-fix-it, Craft-Tuts che codificano o generano conoscenza e informazioni su cosa e su come produrre individualmente (DIY) o collettivamente (DIT) alimentando processi di apprendimento per copying o emulazione. Tutto questo significa che i tradizionali modelli di apprendimento ritualizzati e iniziatici tipici dell’artigianato (Sennett, Micelli, 2011; Adamson, 2013) vengono via via integrati con modelli formativi differenti: più sociali, aperti e centrati sul tinkering (esempio iTinker School), diffusione di modelli educativi informali (esempio Etsy hacker school). Questa compresenza di diversi modelli di learning è comunemente riscontrabile in molti makerspace dove esistono spazi e programmi dedicati alla formazione “how to make” (e.g. Fab Academy, Betahaus) oppure nei luoghi (e.g. Artisan’s Asylum, Techshop) dove i modelli formativi hanno forti similitudini con quelli della vocational education.

111 Alcune realtà del mondo della formazione si sono accorte di questa possibilità e cominciano a sviluppare programmi formativi che codificano e trasmettono conoscenze per soggetti come i D=E: Kaos Pilot è un corso di studi focalizzato su personal development, value-based entrepeneurship, creativity and social innovation; il progetto xSchool di John Tackara che fornisce ai progettisti competenze pratiche per aiutare le loro imprese e istituzioni ad essere più sostenibili o la Thinkering School che insegna ai bambini a diventare competenti attraverso forme di learning by doing legate alla dimensione fisica e sperimentale del making.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 121 2.9.3 MICROPRODUCTION EVERYWHERE

Un sistema emergente come la DM può nascere e crescere in modo spontaneo e da situazioni decentralizzate, ma per affermarsi deve possedere una certa combinazione di diversità, organizzazione e connettività. Molte microproduzioni, soprattutto quelle più innovative sebbene presentino tutte queste caratteristiche e siano logiche dal punto di vista ambientale, economico e sociale nella realtà non sono ancora in grado di produrre un cambiamento reale, significativo e misurabile all’interno dei contesti in cui operano. La condizione essenziale e vincolante per lo sviluppo del sistema della DM è quella di poter entrare in relazione con un ecosistema più complesso come quello urbano dove il centro della produzione è oggi dato dai servizi. Dietro allo sviluppo della DM c’è quindi l’idea che sia possibile immaginare l’esistenza di un’ecologia della produzione il cui motore è costituito da un sistema di microproduzione materiale e immateriale che comprende anche la dimensione dei servizi in una chiave di innovazione sociale ed ecosistemica:

“…An innovation ecosystem is a non hierarchical form of collaboration, in the past mostly founded on a territorial proximity like Smart Regions or Districts but nowadays extending globally worldwide, where big OEMs (original equipment manufacturer), SMEs networks, ICT suppliers, universities and research centers, local public authorities, individual consultants, customers and citizens work together for promoting and developing new ideas, new products, (new services), new processes, new markets…” A definition by COIN projects [www.coin-ip.eu]1

Le città contemporanee potrebbero essere quindi innervate da microreti e microfiliere della DM, integrate con il metabolismo (energia, materia, merci) di un ecosistema urbano e potrebbero produrre nuove culture materiali a partire da un uso intelligente del capitale territoriale di risorse e competenze considerato in una prospettiva bioregionale (McGinnis, 1999). La relazione tra il sistema della DM e l’ecosistema urbano con i suoi molteplici servizi determina le condizioni per lo sviluppo locale di un ecosistema produttivo che definiamo Microproduction Everywhere (ME) che può generare un allineamento dinamico tra la domanda locale e l’offerta di prodotti e capacità produttiva (anche di servizi). In un’ottica di ecologia della produzione questo bilanciamento può produrre effetti positivi sui processi del lavoro, di produzione-uso dell’energia e delle materie prime, allo stesso tempo soddisfacendo il bisogno di prodotti-servizi in termini di quantità e qualità. In poche parole la Microproduction Everywhere può generare, attraverso un accesso e un controllo distribuito dei mezzi e della scala di produzione, nuovi processi di sense-making produttivo. La ME può quindi rendere più efficienti e sostenibili anche i servizi abilitando i processi di micro e autoproduzione in questo campo, stimolando lo sviluppo di servizi caratterizzati da modelli di autogestione.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 122 Tutto questo ha un’ultima implicazione: la possibilità che la ME possa anche essere place-making112 o urban-regenerator113. I processi di civilizzazione (industriale) hanno plasmato i nostri ambienti di vita; nei processi di industrializzazione classici l’insediamento della produzione contribuiva a strutturare sia l’ambiente fisico che quello sociale-cognitivo. Nel campo nella DM questo aspetto è invertito: sono i contesti urbani svuotati dalla produzione industriale che modellano o definiscono la DM quando si rilocalizza e si distribuisce nell’ecosistema urbano a partire da come è fatto l’ambiente e dalle possibilità/modalità di insediamento che offre. La ME è dunque un ecosistema che si fa strutturare dalla città perché la sua parte generativa è vincolata dall’ecosistema esistente in un processo di co-evoluzione e co-innovazione. Possibili campi di applicazione della Microproduction Everywhere in relazione al mondo dei servizi potrebbero essere: Urban farming and Community supported agriculture114 (Equipment), Education and Culture (Technical equipment for schools and museums), Mobility and transportation (customization and regeneration of vehicles, bicycle), Health sector (Technical Equipment and protesys), Security (i.e. drones and other equipment for monitoring and surveillance), On-site production services (per l’autoproduzione di beni, per la riparazione, rigenerazione e rimanifatturizzazione di prodotti).

2.10 SINTESI

In questo capitolo è stato esplorato il cambiamento dei modelli di produzione su piccola e piccolissima scala evidenziando i seguenti aspetti: o che la microproduzione può abilitare l’utilizzo e lo sviluppo di tecnologie evolute come quelle per la fabbricazione avanzata e distribuita anche attraverso forme originali di impiego; o che esistono diverse forme di produzione su piccola e piccolissima scala riconducibili a diverse tipologie di beni; o che è possibile lo sviluppo di un sistema della microproduzione e che questo sistema può operare e competere con i sistemi di produzione su grande scala; o che diverse attività di microproduzione possono coesistere e interagire in una forma ecosistemica all’interno di determinati contesti come le città.

Definendo le principali caratteristiche di questo fenomeno sono stati isolati gli elementi su cui nel successivo capitolo sarà analizzata la relazione tra design e microproduzione: o elementi che specificano e qualificano la relazione tra design, making e autoproduzione e microproduzione;

112 Placemaking is a multi-faceted approach to the planning, design and management of public spaces. Placemaking capitalizes on a local community’s assets, inspiration, and potential, ultimately creating good public spaces that promote people’s health, happiness, and well being. Placemaking is both a process and a philosophy. 113 La zonizzazione è uno dei problemi maggiori per quanto riguarda gli small urban Manufacturers (fonte: Pratt Report on Small Urban Manufacturing e manifesti delle associazioni di produttori locali). 114 http://p2pfoundation.net/Community_Supported_Agriculture

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 123 o elementi che specificano la relazione tra design e tecnologie per la fabbricazione avanzata e distribuita; o elementi che specificano la capacità del design di utilizzare le risorse per la microproduzione in modo diverso e originale; o elementi che specificano la capacità del design di operare o di collaborare con una o più figure di microproduttori.

#2 | IL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE 124

#3 DESIGN E MICROPRODUZIONE

3.1 LA MICROPRODUZIONE COME AMBITO DI OPERATIVITÀ PER IL DESIGN

3.1.1 DESIGN E MICROPRODUZIONE AVANZATA E DISTRIBUITA: UN PRIMO INQUADRAMENTO

L’individuazione della microproduzione come campo di ricerca principale ha reso necessaria la realizzazione di una mappa fenomenologica, anche parziale e imprecisa, in grado di fornire una prima plausibile rappresentazione sistemica della microproduzione, che ne individua i principali autori e isola la presenza del design. La realizzazione di questo strumento aperto e in progress è avvenuta attraverso un lavoro di desk analysis condotto sui soggetti collegati in vario modo alla fabbricazione digitale su piccola scala, cioè la forma di microproduzione più rappresentativa rispetto al cambiamento dei modelli di produzione manifatturiera. L’utilizzo di alcune parole chiave – maker, Fab Lab, digital fabrication, personal fabrication e open design – ha immediatamente individuato i soggetti più popolari. Muovendosi per connessioni e raffinando progressivamente la ricerca è stato possibile individuare nuclei coerenti di soggetti con caratteristiche comuni. Altri casi individuati nella precedente fase di literature review sono stati inseriti nella mappa. La piattaforma online della rivista Make e alcuni Fab Lab1 (i più strutturati) sono stati utilizzati per risalire sia ai produttori di tecnologie per la digital fabrication che a progetti di ricerca e didattica ad essi collegati. I primi FabLab (a fine 2012 ne esistevano ‘solo’ una cinquantina nel mondo) sono stati inizialmente osservati in quanto luoghi che rappresentavano e tuttora rappresentano la punta dell’iceberg di un movimento – quello dei Makers – molto più ampio e tuttora inesplorato in modo sistemico composto non solo da hobbisti, amatori ma da un insieme crescente di nuove imprese produttrici di beni, servizi e tecnologie, di professionisti del progetto. Un mondo come sostiene Gershenfield (2005) “che contiene già in sé tutti gli elementi che prefigurano o configurano il cambiamento del modo con cui progettiamo- produciamo-distribuiamo beni e servizi”.

Sotto il cappello della personal fabrication è stato invece individuato un insieme magmatico di soggetti con caratteristiche riconducibili a un’impresa produttrice di beni finali ma dotati di una natura e di forme organizzative differenti. La ricerca

1 A fine 2011 i Fab Lab nel mondo erano circa cinquanta.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 127 condotta incrociando le parole ‘open design’ con ‘digital fabrication’ ha infine svelato una popolazione eterogenea di soggetti (non perfettamente quantificabile) comprendente progettisti di diverse discipline, artisti, artigiani contemporanei correlati in vario modo alla fabbricazione digitale in cui si è cominciato a isolare modelli originali (alcuni dei quali taciti) di approccio alla fabbricazione digitale. L’attività di ricerca ha consentito di individuare un primo elenco di soggetti (Tab. 3.1) che operano nel campo della microproduzione sotto tre categorie principali: 1. erogatori e aggregatori di servizi per la fabbricazione digitale 2. produttori di tecnologie e macchine per la fabbricazione digitale 3. progettisti che utilizzano processi e tecnologie per la fabbricazione digitale

MAPPA FENOMENOLOGICA (Generata nel 2011, verificata e aggiornata al 2014)

Nazione macchine e tecnologie di Produttori produzione* per servizi aggregatori e Erogatori digitale fabbricazione della Imprese e Designer

EROGATORI E AGGREGATORI DI SERVIZI PER LA MICROFABBRICAZIONE DIGITALE 01. Big Blue Saw – Online man. and waterjet cutting (www.bigbluesaw.com) USA X 02. eMachineShop – Machine Custom Online (www.emachineshop.com) USA X 03. Digital Forming (www.digitalforming.com) UK X X 04. Materialise (www.materialise.com; www.i.materialise.com) Belgium X X 05. Freedom of Creation by 3D Systems (freedomofcreation.com/) USA X 06. Print23D – From individuals to industry (www.printo3d.com) USA X 07. Objet Ltd (si è fusa con Stratasys a fine 2012) Israel X 08. TechShop (techshop.ws/) USA X 09. Ponoko – The Personal Factory (ponoko.com) New Zealand X X 10. Formulor (è un making Hub Ponoko) (http://www.formulor.de/) Germania X 11. Vectorealism - making Hub Ponoko (http://www.vectorealism.com/) Italia X 12. RazorLAB - making Hub Ponoko (http://www.razorlab.co.uk/) UK X 13. Shapeways (shapeways.com/) Netherlands/USA X 14. Fluid-forms – Design Your Own Products (fluid-forms.com/) Germania X 16. ThingGiverse (by MakerBot Industries) USA X 17. RedEye On Demand – Rapid Prototyping Service (by Stratasys) USA X 18. Lasermio – Taglio Laser lamiera (lasermio.com/) Italia X 19. Sculpteo – Votre design 3D (sculpteo.com/en/) France X 20. WholeGarment – Factory Boutique Shima Seiki (www.fbshima.co.jp/) Japan X X 21. DesignSmash (design-smash.com/) Australia X 22. LamIdea – Idee in Lamiera (lamidea.com/) Italia X 23. E.Os e-Manufacturing Solutions in laser sintering (www.eos.info/) Germany X 24. Solido3D (http://solido3d.info/) Italy X 25. Artisan’s Asylum US 26. Quirky – Social Product Development (quirky.com/) USA X X 27. Microfactory MOW by DaeKyung Ahn (www.ahndaekyung.com) UK X X

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 128 28. FaBot by Studio LO (www.studiolodesign.fr/) France X X X 29. Unfold Design Studios (unfold.be/pages/projects) Belgium X 29. Nervous System (n-e-r-v-o-u-s.com/) USA X X 30. Bathsheba Sculpture (www.bathsheba.com/) USA X 31. Because We Can – Design build studio (www.becausewecan.org) USA X 32. Unto This Last –Furniture Workshop (www.untothislast.co.uk/) UK X 33. Skecthair by Diatom Studio (diatom.cc/) UK / Portugal X X 34. Sketch furniture by Front Design (designfront.org/news.php) Sweden X X 35. Mataerial by Joris Laarman Lab (jorislaarman.com) Netherlands X 36. Studio:Ludens (studioludens.com/) Netherlands X X 37. D-Shape (www.dinitech.it/) Italy X X X 38. Haptic Intelligentia by Studio Homunculus (studio-homunculus.com/) Netherlands X X 39. Endless furniture by Dirk Van Der Kooji (dirkinvorm.nl/) Germany X X X 40. Spamghetto by ToDo (todo.to.it/) Italy X X 41. CoReFab by Aeds – Ammar Elouini (digit-all.net/) France X X 42. NewsKnitter by CasualData (casualdata.com/newsknitter/) Turkey X 43. Ivy by Mos (ivy.mos-office.net/) USA X X X 42. Tissue collection by 1 of 1 Studio (1of1studio.com/) USA X X 45. Isopt by Susanne Stauch (goldprodukt.de/individualized/) Germany X X X 46. SitScape by Hackenbroich (hackenbroich.com) Germany X 47. 1234lab sound in object (www.1234lab.org/) UK X X X 48. Lazerian (lazerian.co.uk) UK X X 49. Michael Eden (http://www.edenceramics.co.uk) UK X X 50. Chae Young Kim (chaeyoungkim.com/) UK X X 51. Gareth Neal (garethneal.co.uk/) UK X X 51. Studio Mrmann (www.mrmann.co.uk/) UK X X 52. TimorousBeasties (timorousbeasties.com) UK X X 53. Gary Allison (garyallson.co.uk) UK X 54. Assa Ashuach (www.assaashuach.com/) UK X 55. Tord Boontje (tordboontje.com) UK X 56. Melanie Bowles (melaniebowles.co.uk/m_bowles/Home.html) UK X X 57. Zachary Eastwood Bloom (www.zacharyeastwood-bloom.co.uk/) UK X X 58. Ronen Kadushin – Open Design Manifesto (www.ronen-kadushin.com/) Germany 59. MCOR Technologies (www.mcortechnologies.com/index) Ireland X 60. ShopBot CNC Routers(www.shopbottools.com/) USA X 61. Stratasys (www.stratasys.com) USA X 62. Z Corp (è stata assorbita nel 2013 da 3D System) USA X 63. Fabbster (www.fabbster.com/reseller.php) Germany X 64. Epilog Laser Cutter (www.epiloglaser.com/) USA X 65. Pico Printer by Asiga (https://www.asiga.com/about/) USA X 66. BluePrinter (www.blueprinter.dk/) Denmark X 67. SLM (www.slm-solutions.com) Germany X 68. Matsuura Lumex Avance 25 (www.matsuura.co.uk) UK X 69. Origo (www.origo3dprinting.com) Belgium X 70. LulzBot (www.lulzbot.com/en/) USA X X 71. Delta Micro Factory Corporation (www.pp3dp.com) Japan X 72. Printrbot (printrbot.com/) USA X 73. 3D StuffMaker (3d-printing.com.au) India X X 74. DWS Systems (dwssystems.com) Italy X 75. Lumenlab Micro CNC (micro.lumenlab.com/) UK X 76. Bit From Bytes by 3D Systems (www.bitsfrombytes.com/) UK X 77. Roland DG (www.roland.com/products/en/UM-3G/) Italy X 78. MakerBot Ind. (www.makerbot.com/) acquisita da Stratasys nel 2013 USA X 79. Ultimaker (www.ultimaker.com/en/) Holland X 80. HP 3D DesignJet (hp.com) USA X 81. 3D Systems (3dsystems.com/) USA X 82. Arduino Open Hardware (arduino.cc/) Italy X X 83. Raspberry Pi (www.raspberrypi.org/) UK X X 84. Watterott Open Hardware (watterott.com) Germania X 85. Snootlab Open Hardware (snootlab.com) Fancia X 86. Basic X NetMedia (basicx.com/) USA X

SOFTWARE LIBERI E A PAGAMENTO PER LA MICROFABBRICAZIONE DIGITALE 87. Autodesk 123D (autodesk.com) USA X 88. 3DS Max (autodesk.com) USA X

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 129 89. AutoCAD (autodesk.com) USA X 90. AC3D – Inivis (inivis.com/) USA X 91. FormZ – AutoDesSys (formz.com/) USA X 92. NetFabb (netfabb.com/) Germany X 93. Rhino3D - Rhinoceros by McNeel (rhino3d.com/) USA X 94. SolidWorks by Dassault Systèmes S.A (solidworks.it/) USA/France X 95. ZBrush by Pixologic (pixologic.com/home.php) USA X 96. Vectorworks by Nemetschek (http://www.vectorworks.net/) USA X 97. Art of Illusion Free open source software (http://aoi.sourceforge.net/) - X 98. Blender Free software by Blender Foundation (www.blender.org/) Netherlands X 99. Google SketchUp Free software by Google (sketchup.google.com/intl/it/) USA X 100. Sculptris Free software by Pixologic (www.pixologic.com/sculptris/) USA X 101. K-3D Free open source software (k-3d.org/) - X 102. MeshLab Free open source software (meshlab.sourceforge.net/) - X 103. MeshMixer Free open source software (meshmixer.com/) - X 104. OpenSCAD Free open source software (openscad.org/) - X 105. RapCAD Free open source software (www.rapcad.org/) - X 106. Wholegarment by Shima Seiki’s (shimaseiki.com/wholegarment/) Japan X 107. Organovo Tissue on demand (organovo.com/) USA X X 108. Nextfab Studio – Gym for Innovators (nextfabstudio.com/) USA X X 109. Labo Citoyen for Leroy Merlin - Group Adeo (http://owni.fr) France X 110. Open Design City Berlin (opendesigncity.de/) Germany X 111. Fab Foundation (http://www.fabfoundation.org/) Worlwide X X 112. HackerSpaces (hackerspaces.org) Worlwide 113. Instructables (instructables.com/) USA X 114. FabFi (fabfi.fablab.af/distribution/) Afghanistan X X 115. Associated Fabrication (www.associatedfabrication.com/index.php) USA X 116. Open Source Ecology (opensourceecology.org/) USA X

PROGETTI DI RICERCA E PROGRAMMI DIDATTICI SULLA FABBRICAZIONE DIGITALE 117. RepRap Project - University of Bath (reprap.org/) USA X X 118. Fab@Home - Cornell University2 (www.fabathome.org/) USA X X 119. How To Make (almost) Anything (MIT - mtm.cba.mit.edu/) USA X 120. Machines that Make (MIT - mtm.cba.mit.edu/) USA X 121. Fab Academy / Fab Foundation (MIT - mtm.cba.mit.edu/) Worlwide X 122. FabLab House by IAAC Barcelona (www.fablabhouse.com/) Spain X 123. OpenWear ricerca europeo dal 2009 al 2012 (openwear.org/) EU X X

Tab. 3.1 – Casi collegati alla microproduzione.

Il complesso dei casi individuati evidenzia tre categorie principali nel 3campo della microproduzione:

o PRODUTTORI DI TECNOLOGIE E MACCHINE PER LA MICROPRODUZIONE. Racchiude casi di produttori di macchine e tecnologie (software e hardware) per la microfabbricazione digitale. Questi soggetti in alcuni casi sviluppano anche piattaforme e servizi per la produzione come MakerBot con Thingiverse e ShopBot con 100KGarage. Alcuni di questi come Ultimaker e ancora MakerBot hanno sviluppato i propri dispositivi low cost e entry level a partire da un unico progetto open source, RepRap. Diversi sono anche i grandi e piccoli produttori di software che rilasciano versioni free, open e semplificate di software per la digital fabrication - Autodesk 123D e Google SkecthUp - e infine i produttori di microcontroller open hardware come Arduino. A

2 Progetto chiuso per raggiunto obiettivo. 3 Ultimo aggiornamento della mappa: maggio 2014.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 130 questi soggetti va aggiunto un sistema di subfornitura di materiali e componenti per la fabbricazione digitale che contempla ad esempio i produttori di filamenti per la stampa 3D.4

o EROGATORI E AGGREGATORI DI SERVIZI PER LA MICROFABBRICAZIONE DIGITALE. Racchiude casi di utilizzatori di macchine e tecnologie per la fabbricazione digitale (con diverse forme d’impiego) per lo sviluppo di servizi: da quelli servizi per la progettazione a quelli per la prototipazione rapida e produzione fino alla commercializzazione dei prodotti. Da un lato ci sono le imprese specializzate nei servizi per la fabbricazione digitale on-demand su piccola scala come Shapeways, FluidForms e iMaterialise, altre come Ponoko operano sul mercato come intermediari della personal fabrication per designers, maker, fornitori di materie prime e componenti. Si tratta di una comunità-mercato globale di microproduttori-utenti-clienti attorno a cui si sviluppa un’offerta aggregata di servizi legati alla progettazione e alla commercializzazione dei prodotti, mentre la fase produttiva è distribuita su una rete service locali per la fabbricazione digitale, come nel caso di Vectorealism (Italia), RazorLab (UK) e Formulor (Germania) che operano per Ponoko. Accanto a queste imprese esistono alcuni network per la fabbricazione digitale, alcuni dei quali direttamente gestiti dai produttori di tecnologie. E’ il caso di ShopBot con 100kGarages (ma MakerBot con Thingiverse e Instructables con Autodesk) una piattaforma web che connette i possessori di digital fabricators, tra cui ovviamente i clienti ShopBot, con gli utenti interessati a produrre artefatti progettati in proprio o con risorse di open design. I possessori delle macchine mettono a disposizione una parte della propria capacità produttiva sottoforma di servizi on-demand, gli utenti e i progettisti possono invece trovare il fabber nel luogo a loro più conveniente (vicino a loro o vicino al luogo in cui vivono le persone interessate all’acquisto dei prodotti). La crescita di queste realtà è confermata dal recente sviluppo di nuovi network totalmente indipendenti come 3DHubs e MakerMap. A un livello più strutturato troviamo le reti di makerspace. Nelle decine di Fab Lab, nei TechShop e in alcuni tra i centinaia di hackerspace i micro e autoproduttori come i makers o i designer possono fruire di servizi per la fabbricazione digitale. Accanto a queste forme ibride di

4 http://reprap.org/wiki/Printing_Material_Suppliers. Di seguito un elenco di produttori di filamenti Produttori filamento 3mm diametro: 2PrintBeta(Germany); 3D Printer Stuff (USA); Bits From Bytes (UK); Buy 3D Ink (USA); BotMill (USA); Croxword (Taiwan); Diamond Age Solutions Ltd. (NZ); Esun, Alibaba (China); Faberdashery Ltd. (UK); Fabrications Of TheMind (UK); German RepRap Foundation (Germany); KDI Polymer Specialist Ltd (UK); Kent's Strapper (Italy); Lybina Pty Ltd (Australia); Makerbot (USA); MakerGear (USA); Mendel-Parts.com (Netherlands); Mixshop (Canada); New Image Plastics, (USA) Plastic welding rod, (USA), 3D Printer Filament (USA); Oz Reprap Supplies (Australia); Paoparts (France); Plastireal (Brazil); ProtoParadigm (USA); Qingdao TSD Plastic Co., Ltd. (China); RepRapCentral.com (UK); RepRapSource (Germany); RepRapWorld (Netherlands); Supply3DPLA.com (Sweden); UltiMachine (USA); Ultimaker Shop (Netherlands); WeisTek.net (China); Wim-kd85.com (Belgium). Produttori filamento 1.75mm diametro: 3D Printer Stuff (USA); Buy 3D Ink (USA); BotMill (USA); Croxword (Taiwan); Diamond Age Solutions Ltd. (NZ); Faberdashery Ltd. (UK); German RepRap Foundation (Germany); Makerbot (USA); MakerGear (USA); Mendel-Parts.com (EU); Mixshop (Canada); Paoparts (France); ProtoParadigm (USA); UltiMachine (USA); Reprapsource (Germany); Supply3DPLA.com (Sweden); PP3DP (China); WeisTek.net (China).

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 131 franchising esistono invece le grandi catene di distribuzione del fai-da-te come Leroy Merlin che intuiscono il potenziale di luoghi come i Fab Lab e stanno studiando come tradurre questa formula all’interno dei propri centri facendo così un upgrade dei propri laboratori interni. Alla fine ci sono i makerspace che ospitano club e scuole per la fabbricazione e offrono servizi a pagamento per esterni come nel caso di NextFab e Artisan’s Asylum. L’insieme di questi soggetti costituisce oggi una vera e propria rete globale per la micro-fabbricazione distribuita.

o IMPRENDITORI DELLA MICROFABBRICAZIONE DIGITALE. Questa categoria racchiude un primo insieme di progettisti di varie discipline (design, architettura e ingegneria) ma anche designer-craftmen (Craft Council, 2009) interessati in vario modo all’impiego delle tecnologie, degli strumenti e dei servizi per la microfabbricazione digitale con obiettivi che spaziano dalla sperimentazione5 all’autoproduzione, fino alla creazione di vere e proprie microimprese dedicate alla produzione di beni finali. All’interno di questo range di soggetti si possono distinguere alcuni approcci progettuali peculiari. Esistono progettisti dotati di strutture laboratoriali per l’autoproduzione che contengono tecnologie per la fabbricazione digitale, progettisti che sviluppano in proprio le tecnologie software e hardware per la fabbricazione avanzata di prodotti, progettisti che riadattano o riprogettano macchine industriali che utilizzano poi per fabbricare i propri prodotti, infine progettisti che creano ex-novo macchine per la fabbricazione digitale.

3.1.2 EVIDENZE DALLA PRIMA OSSERVAZIONE FENOMENOLOGICA

La prima mappa fenomenologica sulla microfabbricazione digitale (intesa come parte più ampia del fenomeno della microproduzione) anche se incompleta e imprecisa a causa della crescita magmatica del fenomeno osservato, ha rilevato alcuni elementi fondamentali che hanno indirizzato i successivi passi della ricerca. La mappa è stata riprodotta nello stesso modo a quasi due anni di distanza evidenziando i cambiamenti nei soggetti osservati (scomparsa, crescita, nuove relazioni, partnership,…). Queste le principali evidenze:

o La quasi totalità dei casi mappati è tuttora esistente e operativa, nel caso dei produttori di software, hardware e dispositivi per la fabbricazione digitale ci sono realtà che sono diventate globali come Arduino, altre imprese come Objet e MakerBot si sono fuse o sono state acquisite da grandi imprese come Stratasys.

5 http://www.cstem.it/artists_e.php; http://www.transmediale.de/fci; http://www.crowdspring.com/; http://www.we- designs.org/#about; Institute for post-industrial design Basel http://hyperwerk.ch/; Mostra Craft Council http://www.labcraft.org.uk/makers; Disseny Hub Barcelona http://www.dhub-bcn.cat/en/exhibition/fabrication- laboratory-0; http://www.fabricate2011.org/ ; http://futureeverything.org

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 132 o Diversi casi mappati interagiscono tra loro. I produttori di macchine interagiscono con gli aggregatori di servizi (come Ponoko o 100KGarages) attraverso partnership o sponsorship, i designer sono collegati in gruppi o collettivi. L’esistenza di una pluralità di soggetti collegati allo stesso fenomeno che si relazione tra loro e con i propri sistemi di riferimento originali (quello del design, quello dell’industria, …) evidenzia la necessità di riflettere sulla natura sistemica delle attività di fabbricazione digitale che sono parte integrante del contesto della microproduzione distribuita.

o Alcuni casi contenuti nella mappa (come iMaterialise, Shapeways) confermano le ipotesi iniziali sull’evoluzione in atto nel campo del design e l’originalità dell’approccio adottato da parte di alcuni progettisti nell’utilizzo delle tecnologie per la fabbricazione digitale. Se da un lato l’adozione delle tecnologie industriali per il rapid prototyping e il rapid manufacturing da parte di molti studi di progettazione è un fatto assodato che prosegue dagli anni 90 è interessante osservare i casi di progettisti interessati a impiegare in modo innovativo le versioni consumer (entry level, lowcost e open source) di queste tecnologie. Il primo passaggio riguarda l’evoluzione nell’utilizzo di queste tecnologie dalla semplice attività di prototipazione alla produzione di artefatti (o parti di essi). Il secondo passaggio vede i progettisti intervenire sulle tecnologie per crearne di nuove o modificarne di esistenti facendole lavorare con il preciso obiettivo di ottenere un prodotto e/o un processo originale.

La ricerca ha quindi operato una prima importante focalizzazione tematica sullo studio specifico della figura del progettista interessato all’utilizzo delle tecnologie, dei servizi e dei network per la fabbricazione digitale (e analogica) con un fine produttivo collegato alla microproduzione.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 133 3.2 IL DESIGN COME PROFESSIONE DI MASSA E L’EMERGERE DEI PROGETTISTI-(MICRO)PRODUTTORI

La ricerca dottorale nella sua fase iniziale ha evidenziato come le mutate condizioni di alcune economie post-industriali mature stanno creando i presupposti per la rapida trasformazione dei processi di progettazione, produzione e distribuzione di beni e servizi. Il cambiamento strutturale del sistema produttivo industriale e la crescita di nuovi modelli di produzione sta ovviamente influendo sulla relazione con il design e i fenomeni d’innovazione. In particolare sta mutando la tradizionale relazione tra l’impresa che usa il design, il progettista e i processi d’innovazione, che divengono temporanei, non proprietari e di scopo. L’individuazione di un primo nucleo di progettisti interessati alla microproduzione realizzato con la prima lettura fenomenologica ha cominciato a inquadrare il fenomeno dei designer impegnati nei processi di microproduzione6: dei DESIGNER- MICROPRODUTTORI. Le conoscenze generate su questo tema sono di seguito opportunamente sistematizzate per spiegare le seguenti questioni: o come si origina il fenomeno dei designer-microproduttori; o chi sono i nuovi designer-microproduttori e che caratteristiche hanno; o come operano e quali attività sono in grado di sviluppare; o quali sono i loro modelli di business.

3.2.1 IL CAMBIAMENTO DEI SISTEMI DI PRODUZIONE E DELLA RELAZIONE TRA DESIGNER E IMPRESA

La democratizzazione delle tecnologie di progettazione, la progressiva personalizzazione dei processi di produzione e la diffusione di nuovi modelli distributivi sono fenomeni connessi che disegnano un nuovo scenario generale in cui la creazione, la materializzazione e l’accesso a molti beni e servizi sta velocemente cambiando. Il processo di miniaturizzazione e digitalizzazione delle tecnologie produttive sta rendendo alcuni soggetti come i maker o gli autoproduttori - prima estranei o marginalizzati rispetto a questo modello - capaci di superare i propri limiti

6 Nel primo paper presentato al convegno DMS2011 scritto da Arquilla, V., Bianchini, M., Maffei, S. intitolato “Designer=Enterprise. A new policy for the next generation of Italian designers” è stato fatto un inquadramento del fenomeno dei designer-microproduttori nella realtà italiana. Un successivo articolo pubblicato nel 2012 sul Design Management Journal scritto da Bianchini, M e Maffei, S. intitolato “Could design leadership be personal? Forecasting new forms of indie capitalism” ha approfondito i modelli organizzativi dei designer-microproduttori. Infine un saggio del 2012 scritto da Bianchini, M. e Maffei S. Emerging Production Models: A Design Business Perspective. propone il tema dei modelli di business dei designer-microproduttori.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 134 entrando nei circuiti globali sviluppando forme peer-to-peer costituite da network di piccole imprese e non solo. Le possibilità di sperimentazione offerte dal making e dal fabbing insieme al fenomeno dei makerspace cominciano a modificare la concezione dei tradizionali luoghi di produzione e rendono possibile ridiscutere il concetto di bottega, officina, laboratorio, galleria e atelier come possibili contesti dove si integrano e avvengono nuove forme progettazione, produzione e distribuzione dei prodotti. Mentre nei sistemi industriali maturi come l’Italia alcuni di questi fenomeni cominciano a essere diffusamente presenti, la recente crisi economica globale sta ancora producendo la disintegrazione delle filiere e dei cluster d’impresa radicati e integrati sul territorio (distretti industriali/sistemi produttivi locali), continuando a mandare in crisi il tradizionale modello di relazione con il design sotto diversi punti di vista. Quando molte imprese (grandi, piccole e distrettualizzate) ridimensionano, delocalizzano, o peggio, dismettono contemporaneamente le proprie produzioni, le attività di design ne sono inevitabilmente colpite e il sistema del design (cioè il sistema delle competenze professionali e manageriali di design che opera dentro e fuori le aziende) entra in un regime critico. La comunità di designer e il tessuto di servizi e professioni che li supportano entrano in crisi7: faticano a rimpiazzare le relazioni perse perché nei territori non nascono nuove opportunità inoltre molte di loro non hanno una forza finanziaria e una struttura organizzativa sufficiente per internazionalizzarsi e operare in mercati ancora non saturi (Paesi BRIC). L’insieme di questi processi, comune a molti distretti produttivi e creativi locali delle economie occidentali, lascia sul campo una moltitudine di competenze produttive e progettuali sciolte, libere e prive della leadership di processo delle strutture organizzative di filiera (causa la de- localizzazione dei brand più affermati medio-grandi) che le attivano. In breve: talenti, risorse materiali e capacità produttive senza (più) una guida. A tutto questo si aggiunge un altro importante trend sistemico: mentre diminuisce il numero delle imprese manifatturiere tradizionali aumenta il numero di designer e/o i soggetti che detengono competenze di design. Come dice Branzi il DESIGN È DIVENTATO UNA PROFESSIONE DI MASSA. A riprova di questo fatto è stato fatto un semplice calcolo: Nel 2007 la somma dei soli laureati in design delle prime 60 scuole e università di design presenti nella classifica stilata da Business Week era di oltre 140.000 unità!8. Con questi numeri non è quindi più dato (o perlomeno si sta evolvendo velocemente) il tradizionale rapporto tra design e impresa: cambia il rapporto tra domanda e offerta di progetto e cambia di conseguenza il rapporto tra committente e realizzatore. Si assiste a una sovrapposizione dei ruoli: storicamente l’impresa produttrice e il designer esistevano come organizzazioni/funzioni/competenze separate, con una distinzione chiara di ruoli, compiti e gerarchie: un’organizzazione commissionava il progetto (l’impresa produttrice) e un altro soggetto lo realizzava (il designer). Oggi grazie alla trasformazione e alla convergenza dei processi di

7 Uno studio di carattere non scientifico intitolato Designers’ Inquiry condotto nel 2012 su un campione di 767 designer di età compresa tra i 21 e 35 anni (di cui il 96% italiani) ha evidenziato una serie di istanze principalmente di carattere economico sulle caratteristiche del campione: redditi molto bassi con entrate irregolari (il 32% da 0 a 5.000 euro, il 40% euro tra 5.000 e 20.000 euro), necessità di svolgere un secondo lavoro per integrare il proprio reddito (33% dei casi), mancanza di tutele, necessità di avere reti di contatti consolidate per ottenere collaborazioni. 8 http://images.businessweek.com/ss/07/10/1005_dschools/index_01.htm?chan=rss_topSlideShows_ssi_5

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 135 progettazione, produzione e distribuzione, ciò che prima era realizzato dall’insieme di un’impresa, un designer e un’eventuale altra impresa di distribuzione può adesso essere accorpato dentro un unico soggetto che detiene o gestisce tutte queste competenze. E’ questo il caso particolare rappresentato dai micro e autoproduttori.

3.3 UN FENOMENO EMERGENTE NEI SISTEMI PRODUTTIVI IN TRASFORMAZIONE: LA FIGURA DEL DESIGNER=IMPRESA

Dalla crisi della tradizionale impresa produttrice sembrano emergere nuovi soggetti, che da una posizione marginale stanno assumendo una nuova (e forse involontaria) centralità. Si tratta di nuove figure di produttori in cui la funzione del design va a coincidere con l’impresa stessa diventando l’attivatore e il gestore unico di tutto il processo di progettazione-produzione-distribuzione nonché il promotore di una relazione diretta e personale con le comunità di utenti-clienti. Il designer diventa così a tutti gli effetti un microproduttore capace di configurare un’attività temporanea o permanente di produzione e distribuzione di beni e servizi senza necessariamente diventare un’impresa manifatturiera. Questo insieme di esperienze e soggetti è stato raggruppato in una nuova categoria definita DESIGNER=IMPRESA (D=I). Per inquadrare questa figura la ricerca ha abbozzato una prima definizione: “…i ‘designer=impresa’ sono figure di designer-microproduttori che riassumono in una dimensione personale tutti i processi e le funzioni di un’impresa: dalla ricerca e sviluppo all’ideazione, dalla concept generation alla progettazione esecutiva, dalla prototipazione alla produzione, fino alla promozione e distribuzione dei prodotti” (Bianchini, Maffei e Arquilla; 2011).

Ma chi sono nella realtà i Designer=Impresa? Si tratta prima di tutto di un insieme magmatico ed eterogeneo di esperienze progettuali e produttive realizzate da designer, architetti, ingegneri, artigiani, tecnologi, artisti, imprenditori. Nuovi makers che hanno un percorso di genesi e crescita (individuale e collettivo) basato su percorsi singoli e idiosincratici. Si tratta ad esempio di: o produttori e aggregatori di servizi per la fabbricazione che controllano network per la produzione distribuita e la microproduzione; o designer che sviluppano artefatti realizzabili poi attraverso processi di fabbricazione avanzata;

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 136 o designer che progettano e producono macchine per la fabbricazione digitale e distribuita; o designer che possiedono strutture laboratoriali per l’autoproduzione o progettano macchine che poi utilizzano per autoprodurre; o makers che possiedono luoghi temporanei attrezzati per la fabbricazione digitale; o comunità per l’open design di macchine e tecnologie per la fabbricazione avanzata.

L’insieme di questi percorsi, dove le pratiche di progettazione e produzione tendono a coincidere con le persone stesse e con un sistema di produzione che diventa personale, denota che siamo realmente in presenza di un processo di trasformazione rispetto ai modelli di relazione più consolidati tra designer e impresa. Questo fenomeno ha naturalmente delle conseguenze sui processi di innovazione che tendono anch’essi a riconfigurarsi. Questo nuovo sistema di attori e attività è supportato da un insieme connesso di tecnologie digitali e meccatroniche che diventano più piccole, multifunzionali e accessibili-connettive all’utilizzo individuale o collettivo. Questo mix di nuovi strumenti e processi è la base per realizzare strumenti per progettare, produrre, distribuire e creare nuovi marketplace che possono risiedere su una o più piattaforme. La dimensione tecnologica open source consente al progettista-produttore (che ne è capace) di progettare o personalizzare direttamente gli strumenti necessari alla propria attività oppure di utilizzare (condividere) gli strumenti di altri soggetti (simili o pari) personalizzandoli rispetto ai propri scopi.

Nel corso del 2012 è stata prodotta una seconda definizione che integra e completa la precedente: “Il designer=impresa (D=I) è un promotore d’innovazione, un maker con competenze progettuali, produttive e distributive che attiva un processo temporaneo finalizzato allo sviluppo di un singolo prodotto-servizio elaborando la propria soluzione consapevole che sul mercato esista (o si possa creare) uno spazio o un’opportunità per accoglierlo. E’ chi sviluppa concretamente il progetto ma anche chi realizza un prodotto senza essere un professionista del design perché agisce comunque come progettista, trasformando una situazione data in una desiderata (Simon,1969). I D=I sono attori di un mercato complesso e articolato caratterizzati dallo sviluppo di processi ideativi che utilizzano servizi alla produzione di facile accessibilità e dalla configurazione di forme di distribuzione tendenzialmente personalizzate collegate a comunità-mercato“ (Bianchini, Maffei, 2012).

3.3.1 NÉ INDIVIDUI, NÉ ORGANIZZAZIONI: IL MODELLO DEL DESIGNER=IMPRESA

Le principali caratteristiche che definiscono i designer=impresa possono essere descritte rispetto alla sua natura e alle competenze, al modello di organizzazione delle

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 137 attività, ai settori produttivi di riferimento, ai processi e agli strumenti utilizzati nella relazione tra design e produzione.

LA NATURA E LE CAPABILITIES DEL DESIGNER=IMPRESA. I D=I si caratterizzano per il loro maker instinct, ovvero la capacità di costruire e far crescere le cose e di connettersi con gli altri nel processo decisionale per farle (Johansen, 2007). Si tratta di una capacità di leggere i contesti complessi che danno vita a un modello di design leadership situazionale che si riconosce nel modello della contingenza (Vroom e Yetton, 1973) dove l’efficienza della leadership è funzione della situazione a cui essa si relaziona e dove lo stile della leadership si adatta al contesto. Il D=I deve dunque agire con competenza per far fronte a situazioni complesse, mobilitando e fondendo in modo pertinente le risorse personali, sociali e tecnico-specialistiche. Deve saper leggere le situazioni complesse e imparare da esse. Saper apprendere è infatti essenziale per saper guidare (anche temporaneamente) altri soggetti competenti come le risorse produttive libere e disponibili nei distretti. Nel caso del D=I l’imprenditore, il progettista e il manager coincidono in un unico soggetto la cui leadership assume la forma personale (Andersson, Curley, Formica, 2010). Il D=I ingloba dentro di sé un set di competenze professionali che prima erano presenti e distribuite in più figure. Si tratta di processi di apprendimento taciti che sono e restano personali, dove la capacità di visualizzare dentro di se tutti gli aspetti progettuali, produttivi e distributivi è la prerogativa. Il D=I è infatti un particolare tipo di learning organization singolare (Senge,1990) che opera con rapidità e risponde costantemente ai cambiamenti che intervengono nell’ecosistema produttivo o nel proprio mercato grazie a una forma di pensiero sistemico, a modelli mentali propri, alla padronanza personale e alla capacità di apprendere dagli altri.

MODELLO ORGANIZZATIVO. Adottando un modello organizzativo project-based e grazie al “sapersela cavare” (Lindblom, 1959) il designer=impresa può coordinare il modello delle attività che spaziano dalla progettazione alla distribuzione di queste tipologie di beni. Non utilizzando un modello di organizzazione delle attività codificato a priori, ci si trova in presenza di una figura flessibile ed evolvente che è capace di riconfigurare le proprie attività di progettazione, produzione e distribuzione con modelli organizzativi temporanei (o perpetual beta). Il modello organizzativo D=I presenta queste caratteristiche tendenziali: o assenza di una struttura organizzativa stabile. I processi sociali e decisionali hanno una dimensione personale e sono applicati a tutti i livelli e lungo tutto il processo. Non esistono autorità o gerarchie interne che facilitano i processi di comunicazione verticale e orizzontale: Il D=I è spesso il principale (se non l’unico) responsabile delle relazioni con l'esterno e non esiste una situazione sociale interna che ne mette in discussione la leadership; o impiego di tecnologie customizzabili. Il D=I ha un accesso diretto e il controllo personale di strumenti per la progettazione (software), di sistemi miniaturizzati per la produzione (macchine utensili) e di sistemi configurabili per la distribuzione (piattaforme digitali) che sono basati su tecnologie low cost, autocostruite o customizzate partendo da modelli open source come nel

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 138 caso delle stampanti 3D RepRap, del progetto Sketchair di Diatom, e dei software per il generative design di Nervous System9; o un network glocalizzato di attori che operano su piattaforme reali e virtuali. Il D=I ha diverse opzioni per sviluppare le proprie attività. Può accedere alle piattaforme per il crowdsourcing basate su modelli economici pay for performance come Innocentive dove il D=E concorre come problem solver, oppure dedicate a pratiche collaborative tra professionisti come Quirkly e Jovoto. Può accedere a piattaforme per il finanziamento di imprese, idee o progetti come Funding Circle, Starteed, Indiegogo e Kickstarter che configurano un vero e proprio sistema di servizi sociali per il finanziamento, l’incubazione, l’accelerazione d’impresa basato sul crowdfunding e il P2P lending, che consentono al D=E di uscire dai circuiti tradizionali del credito e del venture capital per reperire le risorse necessarie allo sviluppo di attività imprenditoriali o per il lancio di nuovi prodotti. Può accedere a piattaforme di servizi per la fabbricazione e la personalizzazione di prodotti. Quando il D=I per motivi di costo, di scala o di complessità della tecnologia non può produrre da solo si affida ai servizi offerti da artigiani, modellisti, laboratori designeyed, centri servizi o network per la microfabbricazione: dai makerspace come i Fab Lab e i TechShop fino a veri erogatori/aggregatori di servizi per la fabbricazione personale come Shapeways, Ponoko, Materialise. Può infine accedere alle piattaforme che erogano servizi di supporto alle attività di produzione e autoproduzione grazie alle comunità DIY come Instructables o Tinker Code; o La possibilità di essere leader di una propria comunità-mercato. Grazie all’azzeramento dei costi di comunicazione e allo sviluppo dei social media il D=E può dialogare personalmente, operativamente e contemporaneamente con più persone (utenti/clienti), imprese e professionisti, creando comunità diverse per tipologia, funzione e durata. Si tratta di gruppi o reti sociali fisiche e virtuali configurate come comunità di pratica, d’azione e d’interesse che vanno a comporre comunità-mercato personali composte non solo da clienti- utenti-consumatori ma anche da fan, amici, investitori, supporter, sviluppatori e altre imprese. Sono contesti dove non avviene più solo un semplice scambio tra “impresa” e “cliente” ma si costruisce un modello interazione diretta tra il “design leader” e “followers” (Forbes, Wield, 2002). Esistono infatti casi di D=E che gestiscono blog personali o sono particolarmente attivi su Facebook, Twitter e Pinterest oppure organizzano workshop corsi di formazione o partecipano a conferenze.

I SETTORI PRODUTTIVI DI RIFERIMENTO. Il designer=impresa si caratterizza per la capacità di configurare situazioni produttive complesse in cui c’è una compresenza di più attività: può essere un consulente di design che avvia un ramo di attività relativo alla produzione e distribuzione di prodotti; un’agenzia di design che

9 http://www.sketchchair.cc/, http://reprap.org/wiki/RepRap/it http://www.spamghetto.com/, http://casualdata.com/newsknitter/

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 139 accanto alla propria offerta di servizi al progetto genera una serie di beta-progetti; un’impresa produttrice o un artigiano che accanto all’offerta di servizi alla produzione utilizza tecniche-tecnologie per realizzare produzioni sperimentali. Può essere infine un amatore che sviluppando la propria passione crea la propria impresa. C’è il caso di Enrico Dini, un esperto di robotica che ha sviluppato un nuovo sistema di costruzione basato su una stampante 3D e ha fondato un’impresa dedicata, D-Shape,10 che ha all’attivo collaborazioni con la Fabbrica della Sagrada Familia e con l’ESA per la realizzazione di edifici sperimentali. C’è anche il caso di Dirk Van Der Kooji11 che utilizza un robot per l’industria automobilistica da lui stesso customizzato per autoprodurre sedie e complementi d’arredo. Il D=I opera oggi prevalentemente in settori produttivi a bassa e media complessità tecnologica - tessile abbigliamento, arredamento, accessori per la casa e la persona, ma anche macchine utensili, biciclette, motocicli e perfino moduli abitativi temporanei - ma in alcuni casi può allargare il proprio raggio di azione anche a settori ad alta complessità (es. veicolistica, meccatronica,…). Lo sviluppo delle sue attività non è automatico ma procede in genere per tentativi mixando logiche evolutive di tipo settoriale (continuità di attività nello stesso settore) tecnologico (continuità di attività con la stesse tecnologie) o di mercato (continuità di attività per le stesse categorie di utenti).

3.3.2 DEFINIZIONE DI ‘PROCESSO’ NEL DESIGN PER LA MICROPRODUZIONE

Il D=I è stato considerato come un CONFIGURATORE DI PROCESSI: operando all’interno di un mercato complesso e iper-diversificato, dove le condizioni e le caratteristiche della progettazione, della produzione e della distribuzione sono diverse e mutevoli, egli mette in campo processi variabili che gli garantiscono il raggiungimento dei propri obiettivi senza dover configurare stabilmente le attività di produzione (o senza possederne i mezzi) ogni volta che sviluppa un prodotto-servizio. Il D=I è quindi un soggetto indipendente che si connette a diversi network progettuali, produttivi e distributivi con cui opera senza essere vincolato dal fatto che, anche in presenza di un successo di mercato, debba automaticamente effettuare passaggi di scala o stabilizzare (diventando a tutti gli effetti un’impresa) la propria attività o delle proprie produzioni. E’ un soggetto che decide caso per caso: o se produrre sempre la stessa tipologia di prodotto; o se produrre sempre alla stessa scala; o se produrre sempre con lo stesso network o tipologia di soggetti; o se produrre sempre nello stesso luogo; o se produrre solamente o anche distribuire.

10 http://d-shape.com 11 http://www.dirkvanderkooij.nl/

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 140 Il D=I ridefinisce la propria attività in funzione del modello organizzativo di produzione-distribuzione che vuole assumere più o meno temporaneamente: configura tutto il processo che deve gestire, sceglie e configura le tecnologie e i network di risorse materiali e immateriali per produrre e distribuire i propri prodotti. E’ in sostanza un PROTOTIPATORE RAPIDO DI PROCESSI PRODUTTIVI E D’IMPRESA grazie alla sua capacità e velocità di creare rapidamente le prime versioni (concrete, ovvero reali) di un’innovazione di prodotto-processo. Un aspetto fortemente qualificante dei Designer=Impresa è la CAPACITÀ DI INTERVENIRE PROGETTUALMENTE SULLE TECNOLOGIE PER LA PROGETTAZIONE E LA PRODUZIONE.

Dal punto di vista dei processi produttivi di seguito è elencato l’insieme di processi di fabbricazione avanzata ad oggi riconducibili al campo della microproduzione che il Designer=Impresa utilizza, modifica o combina sulla base delle proprie esigenze:

o ANALOGIC/HANDMADE FABRICATION. E’ un processo che consente di progettare e materializzare un oggetto a partire dall’utilizzo di tecniche di fabbricazione che prevedono l’utilizzo delle sole capacità manuali dell’uomo e/o l’impiego di strumenti utensili, elettroutensili e macchine analogiche il cui funzionamento è manuale, meccanico o elettromeccanico.

o BIO FABRICATION12. E’ un processo che consente di progettare e materializzare un oggetto a partire dallo sfruttamento di fenomeni biologici e biochimici, dall’utilizzo di tecniche naturali e artificiali di coltura e allevamento di (micro)organismi viventi e dall’utilizzo di tecniche di fabbricazione anche digitali (bioprinting) che prevedono l’impiego di composti organici o biomateriali. (Mironov et al., 2009).

o DIGITAL FABRICATION. E’ un processo che consente di progettare e realizzare oggetti solidi e tridimensionali partendo da disegni e/o modelli digitali materializzati attraverso l’utilizzo di diverse tecniche di fabbricazione additiva e sottrattiva e l’impiego di macchine (anche assemblate e modificate) oppure ideate e autocostruite (Gershenfeld, 2012; Lipson, 2013).

o INTERACTIVE FABRICATION. E’ un processo che consente di progettare e materializzare in tempo reale oggetti solidi e tridimensionali attraverso tecniche di manipolazione diretta della materia abilitate da interfacce e dispositivi connessi a strumenti, utensili e macchine analogiche e digitali (Willis et al., 2011).

o DISTRIBUTED FABRICATION. E’ un processo che si sviluppa a partire da una piattaforma fisica e/o virtuale che offre servizi, risorse e competenze che abilitano e supportano i microproduttori (individui e gruppi o reti) nella

12 Mironov definisce la Biofabrication “…as the production of complex living and non-living biological products from raw materials such as living cells, molecules, extracellular matrices, and biomaterials. Cell and developmental biology, biomaterials science, and mechanical engineering are the main disciplines contributing to the emergence of biofabrication technology” Biofabrication. Mironov V., Trusk T, Kasyanov V, Little S, Swaja R, Markwald R (2009). “Biofabrication: a 21st century manufacturing paradigm” in Biofabrication. Jun;1(2)

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 141 materializzazione di oggetti attraverso l’utilizzo di uno o più processi di fabbricazione.

Dal punto di vista dei processi d’impresa per questi soggetti è oggi possibile sviluppare i propri progetti-prodotti basandosi su una crescente gamma di servizi e strumenti on-line e off-line gratuiti, low cost, o pay-per-use che li supportano nelle diverse fasi del processo di microproduzione (Fig. 4.2):

Fig. 3.1 - Il sistema di risorse per i designer=impresa.

o IDEAZIONE E DESIGN, attraverso i servizi e le risorse fornite dalle applicazioni per il design e l’open design come Open Structure e WikiHouse, e dalle design community come BubbleUs o le piattaformer-repository online di modelli digitali o linee guida progettuali progettazione come Thingiverse o OpenHardware.

o ISTRUZIONE E FORMAZIONE, attraverso servizi di formazione e informazione. Molte conoscenze tecniche necessarie per la progettazione e la produzione sono reperibili da strumenti e tutorial scaricabili online da piattaforme come Instructables e dai corsi offerti da Makerspace e produttori di tecnologie.

o FINANZIAMENTI E INCUBAZIONE, attraverso i servizi forniti dalle piattaforme per il crowdfunding come Kickstarter e IndieGoGo, o i laboratori di ricerca multidisciplinari (come ad esempio del Design Factory) e le numerose venture capitalist, acceleratori e incubatori d'impresa che sono attivi in modo sempre più capillare sui territori.

o PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE, attraverso la fornitura di prodotti e servizi da parte dei progettisti e produttori di dispositivi e tecnologie per la

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 142 fabbricazione digitale (dai digital fabricators open source legate al progetto RepRap di dispositivi a basso costo commerciali come Makerbot e Ultimaker), centri di fai da te, workshop e makerspace come TechShop e Fab Labs, local and micromanufacturing hub come Artisan’s Asylum, reti per la produzione distribuita come 100kgarages, 3D Hubs e MakerMap, gli aggregatori e servizi e i centri di produzione virtuali come Ponoko, alle piattaforme di distribuzione on-line o showroom come Etsy, fino ai festival del design indipendente e le MakerFaire.

3.3.3 DAL DESIGN DEL SISTEMA PRODOTTO-SERVIZIO AL DESIGN DEL SISTEMA DI MICROPRODUZIONE

Tutti gli esempi d’innovazione sistemica vedono la creazione di nuovi prodotti e servizi che incorporano nuovi strumenti e tecnologie e di infrastrutture che rendono le innovazioni disponibili (Leadbeater, 2013). Molti sistemi sono largamente basati sulla relazione tra macchine. Altri sono basati solo sulle persone. Ma quasi tutti combinano elementi umani e tecnologici (Mulgan, 2013). Nel caso di molti D=I questa relazione diventa quasi simbiotica (Fuller, 1970; Smart, 2005; Arthur, 2010)13. Ciò favorisce la ricerca di nuove forme di partecipazione diretta e di controllo personale della produzione e sposta il focus dell’innovazione DAL DESIGN DEL SISTEMA-PRODOTTO AL DESIGN DEL SISTEMA DI PRODUZIONE-DISTRIBUZIONE, rendendo di fatto luoghi, processi, tecniche e tecnologie di produzione tutti elementi da progettare. La cosa da sottolineare è che è in atto un processo sociale di riappropriazione del controllo diretto e personale dei mezzi di produzione. In sostanza si sta configurando un corpus di strumenti e macchine che da un lato creano un ARTIGIANATO AUMENTATO (AUGMENTED CRAFT) rendendo possibile simulare, riprodurre e potenziare le tecniche artigianali, dall’altro ricreano un’INDUSTRIA SEMPLIFICATA (REDUCED INDUSTRY). riproducendo in forma estremamente miniaturizzata e manualizzata interi processi e impianti industriali (Bianchini, Maffei; 2013). La capacità di utilizzare, modificare, progettare e configurare le singole tecnologie produttive (più piccole, semplici da usare, facili da spostare e da unire in rete per creare reti). consente una diffusione granulare della produzione infrastrutturando una rete di luoghi reali e virtuali che ripensano i tradizionali modelli di organizzazione della microproduzione. Il significato di luoghi come atelier, bottega, studio, opificio, officina e laboratorio mutano per dare vita a sistemi produttivi che possono avere una dimensione personale (personal fabrication) o collettiva (community-based fabrication) e possono dare vita a una pluratità di processi produttivi diversificati e personali dove la produzione handmade si combina con la digital fabrication e in alcuni casoi con la biofabrication

13 “B. Arthur: “la tecnologia sta diventando organica, la natura sta diventando tecnologia” / http://www.multiversoweb.it/rivista/n-07-corpo/dal-%E2%80%98sapiens-sapiens%E2%80%99- all%E2%80%99%E2%80%98homo-technologicus%E2%80%99-la-co-evoluzione-uomo-macchina-834/ Smart The Simbiotic Age, 2004 http://www.accelerationwatch.com/laws.html#tech

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 143 (natura come una fabbrica). In questo nuovo paesaggio tecnologico possiamo distinguere tre possibili scenari evolutivi dei luoghi di produzione:

o (MICRO)FACTORIES, ovvero unità produttive di piccole e piccolissime dimensioni che sviluppano uno o più processi di fabbricazione (soprattutto per la fabbricazione digitale addittiva e sottrattiva) attraverso un mix di strumenti e tecnologie miniaturizzate, open e peer-to-peer: nano factory (factory-in-a-box), desktop factory (factory on a table) e micro-factory (factory in a room), ma anche microfabbriche mobili (kiosk and floating factories), temporanee (pop-up factories), connettive (plug-and-play factories) e didattiche (teaching factories) e multi-factory (factory che contengono altre microfactory).

o LAB E HUB (FABLABS, MAKERSPACES, HACKERSPACES, MACHINESHOPS), ovvero strutture laboratoriali pubbliche e private che offrono servizi per la produzione on-demand e on-site nei quartieri o nei distretti urbani. Luoghi simili si stanno sviluppando nelle università e nelle scuole nei centri per il fai- da-te o in luoghi pubblici come le biblioteche o i bar si stanno dotando di tecnologie e macchine (come i repair cafè e sewing cafè);

o PIATTAFORME, ovvero piattaforme di servizi per la personal fabrication, piattaforme collaborative per l’open design, l’open hardware o il design-to- download, e piattaforme per la Microproduzione (design-to-order e design-on- demand) direttamente integrate con la distribuzione che da un lato rappresentano i nuovi mercati delle idee. Queste piattaforme dall’altro consentono di gestire network di Microproduzione on-site o a km0 composti da designers, maker e artigiani (come ad esempio Slow/d, Primato Pugliese).

3.3.4 IL (DESIGN DEL) BUSINESS DELLA MICROPRODUZIONE

In un mercato del design ancora largamente guidato da affermati designer professionisti, c’è una popolazione emergente di più anonimi D=I che operano nella zona dove il valore si sposta dai prodotti tangibili alle idee da materializzare. In questo spazio, il D=I, piuttosto che essere l'esecutore o interprete di un progetto innovativo realizzato poi da terzi può svilupparlo in proprio perché sono in grado di attuarlo concretamente. Il D=I costituisce forse il più recente passaggio evolutivo da uno storico modello di attività in cui il progettista poteva vivere anche la sua intera vita professionale su alcune idee di successo (con il modello delle royalties) a quello in cui il designer scommette su un'idea e investe il suo ‘nome’ e il suo denaro per trasformarlo in un prodotto o un business che egli lancia sul mercato, cercando di ridurre il rischio, per quanto possibile, anche attraverso il coinvolgimento di altri giocatori o gli utenti stessi. Analizzando il primo insieme di D=I individuati è stato abbastanza facile osservare come molti di essi seguano uno sviluppo imprenditoriale di tipo hands-on

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 144 (prima si crea il prodotto e quindi si crea l'impresa) che si discosta dal tradizionale processo di incubazione di impresa (prima configuro l'impresa che poi successivamente creerà i prodotti). L'obiettivo di molti D=I non è solo quello di vendere prodotti. In alcuni casi, i file digitali dei prodotti sono immessi gratuitamente (o in versione freemium) e open source sul mercato per aumentare la reputazione sociale e professionale del progettista: numero ‘like’ e ‘download’ stanno diventando nuovi tipi di valuta. In altri casi, la microproduzione è utilizzata come strumento (sonda di progettazione o dimostratore) per reperire sulle piattaforme per il crowdfunding le risorse necessarie all'avvio di un'attività produttiva imprenditoriale. Ma anche i progettisti che continuano a lavorare per mercato del progetto tradizionale cominciano a guardare a quello nascente della microproduzione come a una concreta soluzione per integrare, occasionalmente o permanentemente, il loro reddito oppure come a un investimento per sviluppare un nuovo business. I designer spesso iniziano la sperimentazione di uno o più prodotti in piccole quantità o pezzi unici a volte sviluppando un processo, una tecnica, uno strumento o una tecnologia originale. Se la prova ha esito positivo, il processo di fabbricazione viene rifinito organizzando le risorse necessarie per soddisfare la potenziale domanda (spesso poche unità). Allo stesso tempo, nuove versioni o linee di prodotto possono essere progettate. Se aumentano i feedback positivi dal mercato, il designer può trasformarsi in un D=I: le attività di produzione possono gradualmente rimpiazzare o completare le attività di pura progettazione. Di certo, questo non è un percorso regolare o irreversibile, ma è un processo che rende il design un soggetto in costante evoluzione. Design e produzione possono diventare un’attività ‘continua’ e ‘contigua’ modificando il tradizionale campo di attività dei designer che hanno lavorato per l'industria e i servizi principalmente come fornitori e consulenti. Anche nel loro approccio al mercato, i D=I possono concepire la competizione e il vantaggio competitivo in un modo diverso. Non usano le tradizionali strategie di marketing e strumenti (almeno inizialmente) e lavorano per creare la propria comunità-mercato con cui stabilire una relazione fisica che virtuale, anche attraverso l'uso dei social media. Osservando queste dinamiche nel loro complesso, si assiste al consolidamento di un nuovo modello chiamato DESIGN TO CONSUMER (Olivares, 2012) dove il D=I combina le potenzialità offerte dalle tecnologie di produzione con un rinnovato rapporto con il mondo dell'artigianato e si collega a servizi di e-commerce e logistica per organizzare personalmente la consegna dei propri prodotti attraverso il web. Partendo da un modello generale di business con queste caratteristiche, si osserva una diversificazione dei modi in cui i D=I si propongono al mercato:

o DESIGN KM0. Il designer-microproduttore sviluppa un progetto concepito per essere acquistato online e quindi materializzato il più vicino possibile al cliente attraverso una rete di produzione distribuita di produttori locali (makerspace, artigiani ma anche imprese manifatturiere) oppure direttamente dal cliente stesso (DIY).

o DESIGN ON DEMAND. Il designer-microproduttore sviluppa progetti o strumenti e servizi di progettazione e produzione accessibili dal cliente quando lo

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 145 desidera o quando lo ritiene necessario, pagando il progetto o il servizio in base all’utilizzo che intende farne. o DESIGN SU MISURA. Il designer-microproduttore sviluppa il progetto e lo materializza sulla base delle specifiche richieste del cliente anche attraverso un rapporto diretto basato su attività di co-progettazione e co-produzione. o DESIGN GENERATIVO. Il designer-microproduttore sviluppa un metodo di progettazione in cui il prodotto è generato attraverso una procedura basata sull’utilizzo di un insieme di regole o algoritmi di composizione, spesso definite attraverso la modellazione parametrica. Il designer o l’utente può quindi generare una variante del prodotto e quindi materializzarlo a partire da un modello generale che può essere modificato manipolandone i parametri fino alla selezione del risultato desiderato (Reas, McWilliams; 2010). o DESIGN MICROSERIE. Il designer-microproduttore sviluppa il progetto e il prodotto con lo scopo di materializzare e vendere oggetti che sono materializzati in piccolissime serie o edizioni/collezioni limitate nel numero o

nel periodo di produzione. o DESIGN PEZZI UNICI. Il designer-microproduttore sviluppa il progetto e il prodotto con lo scopo di materializzare e vendere solo oggetti che hanno

caratteristiche di unicità. o DESIGN OPEN SOURCE. Il designer-microproduttore sviluppa il proprio prodotto anche attraverso una forma di progettazione ‘aperta’ basata cioè sull’utilizzo di informazioni progettuali documentate in forma digitale e pubblicamente condivise online. Nella maggior parte dei casi non è richiesto al cliente/utente alcun compenso monetario che può quindi copiare, modificare il progetto e quindi materializzare il prodotto rispettando, se previste, le regole per l’utilizzo e la re-distribuzione dell’idea (es. licenze Creative Commons)

(Kadushin, 2010; Menichinelli, OpenDesign Group, 2012). o DESIGN DIY (O DESIGN YOUR OWN). Il designer-microproduttore delega le fasi di progettazione e/o produzione al cliente attraverso l’implementazione di strumenti abilitanti come linee guida progettuali, manuali d’istruzioni,

configuratori di prodotto. o DESIGN FOR DOWNLOAD. Il designer-microproduttore sviluppa il progetto e lo pubblica su una piattaforma online. Il cliente accede al progetto, può scaricarlo gratuitamente o a pagamento per (auto)produrlo dove vuole senza

intermediari o spese di spedizione. o DESIGN TO ORDER. Il designer-microproduttore sviluppa i propri progetti e li promuove attraverso una piattaforma fisica o virtuale. I progetti sono messi in produzione solo se viene raggiunto un quantitativo minimo di ordini (o pre-

ordini) tali da assicurare la sostenibilità economica della fase produttiva

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 146 Naturalmente i designer=impresa possono sviluppare il proprio business passando da un modello prevalente a un altro oppure utilizzando più modelli in contemporanea.

3.3.5 IL MERCATO DELLA MICROPRODUZIONE

Guardando alle storie di diversi designer=impresa è possibile abbozzare i tratti di un ‘mercato della microproduzione’ animato da una pluralità di soggetti e ruoli con cui si possono attivare diverse forme di scambio, alcune delle quali di tipo non monetario. Il designer=impresa prova a capitalizzare in diversi modi la sua attività attraverso diverse forme di credito. Come detto in precedenza, in diversi casi il principale fine dell’attività di microproduzione non è (solo) quello di vendere i prodotti, ma anche i processi e la capacità o la possibilità di realizzarli. Questo serve ad ottenere il ‘credito’ necessario (in termini di consenso e reputazione) per sviluppare nuove produzioni o per avviare collaborazioni professionali con le imprese. La microproduzione è quindi uno strumento, un dimostratore reale della capacità di innovazione sistemica messa in campo dal progettista. Il ‘mercato’ della microproduzione comprende vari tipi di clienti con cui il Designer=Impresa intrattiene una relazione diretta (anche in termini di amicizia e parentela) e personale (sia face-to-face e sui social media) ma anche professionale. Si tratta di imprese, artigiani, makers e altri progettisti che vogliono partecipare attivamente all’attività di microproduzione acquistando i prodotti oppure investendo e ‘scommettere’ sull’attività di microproduzione stessa. Ci sono i microinvestitori interessati all’acquisto del prodotto ma anche allo sviluppo dell’attività produttiva e i supporter (fan, friend, e follower) che possono promuovere e diffondere l’attività del microproduttore sui social media. Ci sono altri progettisti e makers con cui attivare alcune forme di sharing economy (Benkler, 2006; Bootsman, 2012: dal prestito di attrezzature, allo scambio di aiuti al supporto reciproco). Questo è il motivo per cui si può parlare di comunità-mercato (Bianchini, Maffei; 2013). Nella comunità-mercato il cliente non si limita all’acquisto ma partecipa più o meno direttamente alle attività del designer=impresa: da quelle progettuali e produttive a quelle di carattere promozionale fino al finanziamento. In questa prospettiva si possono individuare cinque forme di relazione dei designer=impresa con il mercato:

o DESIGN AND MAKE TO SHOW. Il designer=impresa sviluppa la propria attività con l’obiettivo di essere selezionato a mostre, festival, conferenze e altri tipi di manifestazioni. Entrare in questo circuito significa avere una visibilità su diversi media, notorietà presso il pubblico ed entrare in contatto con potenziali clienti, aumentare la propria reputazione professionale. Questo si può tradurre sia in una vendita di prodotti, che nella possibilità di attivare nuove sperimentazioni produttive o di avviare collaborazioni come progettista ‘tradizionale’.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 147 o DESIGN AND MAKE TO SHARE. Il designer=impresa sviluppa i propri prodotti con l’obiettivo di condividerli con il pubblico. In questo caso vi sono diverse possibilità di openness. Uno stesso prodotto può essere venduto contemporaneamente in forma definitiva, in kit per autoassemblaggio oppure può esserne veicolato il file digitale open source per la totale autoproduzione. In questo modo il designer democratizza il prodotto monetizzando in diversi modi: soldi per la vendita diretta, notorietà consenso e reputazione nel caso della condivisione.

o DESIGN AND MAKE TO SELL. Il designer=impresa sviluppa i propri prodotti con l’obiettivo di venderli al pubblico in tutte le occasioni e le modalità in cui è possibile. Può affidarsi a distributori più tradizionali come i negozi specializzati o le gallerie per l’artigianato contemporaneo (ma anche i musei), può venderli occasionalmente nei temporary shop, nei pop-up store o nelle mostre-mercato. E può ovviamente venderli online. In questo caso può decidere se sviluppare un proprio e-commerce oppure se affidarsi alle piattaforme e ai distributori esistenti il cui numero è attualmente in forte crescita.

o DESIGN AND MAKE TO SCALE-UP / START-UP. Il designer=impresa sviluppa i propri prodotti con l’obiettivo di implementare e stabilizzare la propria attività produttiva oppure di avviarne un nuova (o semplicemente un nuovo processo o una nuova macchina). Oltre naturalmente alle tradizionali forme di (micro)credito, il D=I può reperire risorse economiche attraverso ‘donazioni’ oggi facilmente effettuabili online, rivolgersi al mercato del progetto che spazia dai venture capitalist, ai bandi per lo start-up di microimprese innovative fino alle piattaforme per il crowdfunding14, fenomeno questo a cui sempre più designer ricorrono, supportati da una crescente letteratura e manualistica di riferimento che insegna le migliori strategie.

14 Da http://it.wikipedia.org/wiki/Kickstarter: “Kickstarter per mantenere il proprio scopo di piattaforma di finanziamento per progetti creativi, ha delineato tre linee guida che tutti gli autori di progetti devono seguire: 1. Gli autori possono solo finanziare progetti; 2. Tali progetti devono ricadere in una delle tredici categorie creative del sito; 3. Gli autori devono evitare gli usi proibiti del sito, tra cui la beneficenza e le campagne di sensibilizzazione. Kickstarter ha richieste addizionali per i progetti di hardware e design del prodotto. Queste comprendono: - bandire l'uso di rendering fotorealistici e simulazioni dimostrative del prodotto; - limitare le ricompense a singoli oggetti o a una collezione ragionevole di oggetti (es. set di lampadine per casa); - richiedere un prototipo fisico; - richiedere un piano di fabbricazione.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 148 3.4 IL DESIGNER=IMPRESA E I SUOI SIMILI: UN TENTATIVO DI TASSONOMIA DELLA MICROPRODUZIONE

Ma chi sono realmente i designer-microproduttori? Come producono? Quali competenze hanno? Di seguito è proposta una prima rudimentale tassonomia degli ‘idealtipi della microproduzione’, categorie emergenti di soggetti che insieme ai deisgner=impresa vanno popolando il campo della produzione su piccolissima scala sfruttando le nuove risorse tecnologiche e progettuali.

MICROPRODUTTORI DI PARTI O COMPONENTI. Si tratta di una popolazione tendenzialmente indistinguibile di soggetti in cui si possono riconoscere le figure del GROWER, del FIXER, del REMAKER e del CUSTOMIZER. Questi soggetti, tendenzialmente amatori, utilizzano le proprie o più spesso le altrui competenze progettuali-tecniche-scientifiche per elaborare soluzioni creative che hanno lo scopo di recuperare o arricchire le funzionalità di prodotti esistenti. Questi autoproduttori parziali e occasionali non sono così rilevanti se considerati singolarmente mentre è complessivamente interessante osservare il loro ruolo di prosumer in relazione all’utilizzo di un crescente numero di piattaforme per il DIY, l’open hardware, la personal fabrication. Il grower è letteralmente ‘colui che ha l’abilità di far crescere le cose’. Le nostre città si stanno popolando di ‘coltivatori’ che non praticano l’agricoltura in forma tradizionale ma utilizzano kit e dispositivi fai-da-te - più o meno tecnologici e interattivi - che servono controllare la crescita di piante e l’incubazione di animali15. Il grower è anche in grado di sviluppare processi DIY di fermentazione, distillazione, lievitazione condotti su piccola scala che consentono l’autoproduzione di alimenti e bevande (formaggi, alghe, funghi, birra). Questi processi sono oggi abilitati anche dallo sviluppo della scienza open-source e dal consolidamento di una rete di laboratori come DIYBio. Il fixer è letteralmente ‘colui che ripara o ripristina le cose’. Questi soggetti sono interessati all’autoproduzione di singole parti utilizzabili, spesso utilizzando in modo intelligente tecnologie come la stampa 3D per riparare prodotti industriali danneggiati o di cui è impossibile reperire parti di ricambio. Altri sono invece interessati a sperimentare soluzioni tecniche per la ‘riparazione creativa’ anche aiutati dallo sviluppo di materiali come Sugru (Fig. 2). I fixer stanno crescendo come un vero e proprio movimento che opera contro l’obsolescenza programmata (il made to break, Slade; 2007) con iniziative che promuovono la riparabilità degli oggetti come ifixit.org e r-riparabile.com o il fixer manifesto di SUGRU. Il remaker è un soggetto interessato al rifacimento tal quale di un oggetto esistente o di un suo modello digitale oppure alla revisione o alla rigenerazione ripetitiva di sue parti che appaiono usurate o obsolete senza che questi prodotti perdano la propria

15 (su Instructables sono ormai centinai i tutorial riguardanti queste attività)

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 149 identità. Il remaker è una figura che si sviluppa grazie alla convergenza tra digital fabrication e open design; la replicazione di un semplice oggetto o di un dispositivo come una stampante 3D (vedi RepRap) rappresenta spesso l’attività iniziale di un percorso da maker. Il customizer è un soggetto interessato a intervenire su oggetti esistenti con lo scopo di modificarne l’aspetto o potenziarne le prestazioni pur conservandone funzioni e modo d’uso. E’ in sostanza un ‘personalizzatore di cose’ capace di autoprodurre componenti o accessori che utilizza per rielaborare le cose. Molti progetti digitali disponibili su piattaforme come Thingiverse sono customizable things. Queste forme di autoproduzione non sono riconducibili alla mass customization ma hanno invece diversi punti in comune con il tuning, la cultura tailor-made finalizzata alla trasformazione e preparazione estetica, meccanica, impianti dei veicoli.

MICROPRODUTTORI DI PRODOTTI E SERVIZI. Si tratta di una famiglia più circoscritta di dilettanti e professionisti dell’autoproduzione in cui si possono riconoscere le figure dell’HACKER e del MAKER. Si tratta di figure che spesso detengono competenze progettuali combinate con un elevato interesse verso le tecnologie e una forte vocazione alla sperimentazione; la loro attività in condizioni favorevoli di mercato potrebbe stabilizzarsi in una forma d’impresa. L’hacker è una figura che utilizza il progetto e le proprie (o altrui) competenze tecnico-produttive per intervenire su prodotti esistenti riprogettandone principalmente le funzioni o il modo d’uso. Il maker è un autoproduttore capace di elaborare nuove soluzioni di prodotto/servizio che comprendono anche un intervento progettuale sul processo produttivo, incluse le tecnologie e i dispositivi necessari alla produzione se non sono già disponibili sul mercato. Per i maker, la progettazione della macchina (SW e HW), la visibilità/trasparenza della performance produttiva per produrre e l’interazione tra utente-processo assumono una forte centralità. Innumerevoli sono oggi i casi di progettisti che hanno costruito macchine analogiche-digitali (Capitolo 4) che sono pensate come sistemi abilitanti per una produzione individuale o collettiva lavorando sull’interattività di strumenti e tecniche artigiane o sulla manualizzazione- miniaturizzazione dei processi industriali.

IMPRESE DELLA MICROPRODUZIONE. Si tratta di una famiglia di soggetti che hanno modificato una parte della propria abituale attività o ne hanno avviata una ad hoc per occuparsi di autoproduzione in modo imprenditoriale. Possiamo distinguere due figure: il DESIGNER=IMPRESA e la MICROFACTORY. A differenza degli altri, per questi soggetti è vitale un peculiare aspetto: la necessità di far convivere la necessità della libertà produttiva personale con una dimensione organizzativa strutturata che caratterizza l’impresa produttrice di beni. Nel caso del designer=impresa (Bianchini, Maffei; 2012)16 siamo di fronte a un imprenditore a titolo temporaneo che utilizza le proprie (o altrui) competenze

16 Designer=impresa sono “[…] independent agents who work with various design, production and distribution networks with10 out being constrained by the need, even in the presence of a market success, to automatically make scale changes or

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 150 progettuali, tecnico-produttive e distributive per sviluppare il prodotto servizio e alcuni aspetti relativi al sistema di produzione – il processo e il servizio - da posizionare sul mercato, che può essere composto da un cliente o anche un’impresa interessata ad acquisire il sistema stesso. La microfactory costituisce infine l’evoluzione del designer=impresa in un imprenditore permanente della microproduzione che progetta e realizza il prodotto- servizio e il luogo (microstrutture dedicate) in cui avvengono in contemporanea le attività di ricerca, progettazione, fabbricazione e anche distribuzione, anche ricorrendo a canali alternativi come il crowdfunding.

3.5 COME OPERANO I MICROPRODUTTORI? IL CASO DELLA MICROPRODUZIONE DI SCARPE

Utilizzando il bestiario come strumento e applicandolo alla produzione di un artefatto come la calzatura è possibile fare comparazioni tra il mondo dell’artigianato, dell’industria e quello della micro e autoproduzione, sia nelle sue forme più tradizionali che in quelle emergenti collegate ai processi di fabbricazione avanzata e distribuita. In campo industriale i principali produttori di calzature, soprattutto quelle sportive, hanno da tempo sviluppato un servizio di mass customization, nei fatti praticamente una commodity17. Più di recente anche gli artigiani, sfruttando le nuove piattaforme digitali come CustomMade, sono in grado di offrire servizio di personalizzazione on-line design your own shoes now. In alcuni casi come Aliveshoes (www.aliveshoes.com) quando le forme di produzione artigianali Made in Italy incontrano la mass customization viene offerta la possibilità a un utente qualsiasi di configurare la propria calzatura, utilizzare un personal brand e personalizzare il packaging, di mettere in produzione arrivando a trarne anche profitto se il prodotto raggiunge un quantitativo minimo di preordini (sul modello Design to Order di Cuuso System - Elephant Design). Nel mondo dell’autoproduzione esistono poi diversi casi di calzature autoprodotte che si rifanno a tradizioni locali e secolari o a capacità di innovazione improvvisata (Fig. 3.2), e sono comuni anche i corsi e i laboratori per l’autoproduzione di sandali e scarpe offerti da artigiani. Ma cosa succede nel campo della micro e autoproduzione contemporanea? (FIXER, REMAKER e CUSTOMIZER). In questo caso non è tanto rilevante osservare fa ogni singolo fixer, remaker o customizer ma è più significativo guardare alle risorse che essi a disposizione per l’autoproduzione. Questi soggetti possono sperimentare stabilize their activities or products (thus becoming outright enterprises)” (Arquilla, Bianchini e Maffei; 2011, Bianchini e Maffei; 2012). 17 Brand come Adidas, Puma, Nike, Converse e New Balance dispongono di configuratori di prodotto

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 151 utilizzi di tecniche e materiali per la ‘riparazione creativa’ come nel caso del SUGRU (Fig. 3.3). Oppure possono utilizzare informazioni e tutorial pubblicati su piattaforme come Instructables per cimentarsi con l’autoproduzione, oppure ancora optare per l’autoproduzione di nuovi dettagli, componenti o accessori, che hanno lo scopo di modificarne l’aspetto dell’artefatto o potenziarne le prestazioni pur conservandone funzioni e modo d’uso (Fig. 3.4). Risorse che si trovano online su piattaforme come Thingiverse e che possono essere facilmente customizzate. Ma ci sono anche prodotti di open manufacturing predisposti per il remaking. il produttore spagnolo di filamenti per stampa 3D Recreus, ha creato un modello di scarpe da ginnastica chiamate Sneakerbot II che possono essere materializzate con una stampante 3D18. Le scarpe sono portatili e possono essere piegate e confezionate in un sacchetto per facilitarne il trasporto. (HACKER). Il designer inglese Dominic Wilcox ha progettato e prototipato nel 2012 le scarpe “No Place Like Home”. Si tratta di un hackeraggio. Queste scarpe hanno una tecnologia GPS nel tacco, un’antenna posta all’altezza della caviglia e led luminosi in punta. In pratica, la scarpa con il GPS comunica con l’altra wireless mostrando la distanza che manca per arrivare al punto scelto (Fig. 11). (MAKER). Il designer olandese Oliver Van Herpt ha sviluppato un metodo per lo sviluppo di scarpe stampate in 3D stampato personalizzate fatte esattamente per adattarsi al piede di chi lo indossa. Biocouture è una società di consulenza di design con sede a Londra che sperimenta l'uso di biomateriali per i settori della moda, abbigliamento sportivo e di lusso. Il bioatelier di Suzanne Lee sta studiando l'uso di microrganismi viventi per produrre scarpe attraverso un processo di biofabbricazione. (DESIGNER=IMPRESA). Nel 2009, la designer inglese Marloes Ten Bhomër ha messo a punto le rotational-moulded-shoes, un paio di scarpe realizzate con uno stampo rotazionale manuale autoprodotto. E’ un processo in cui uno stampo negativo viene riempito con una piccola quantità di liquido e come stampo inizia a ruotare, questo materiale solidifica contro le pareti interne dello stampo, formando un guscio, una forma cava. Le Vacuum Shoes dello spagnolo Lou Moria possono essere prodotte partendo da un unico pezzo di plastica riciclabile gommosa: "in this model I tried to think about shoe manufacture and marketing in a different way," said Moria. "This shoe may not last long – but so is the cheap one we can find in the market today – but it's being made in a few seconds from one material and technology and can easily be recycled as one piece." (intervista a DeZeen, 4 settembre 2014). La scarpa è realizzata con tecnologia di formatura sotto vuoto. La scarpa è anche la sua confezione: strappando una linguetta e rifilandola lungo la tomaia la si può immediatamente utilizzare. Sempre Lou Moria ha prodotto una scarpa stratificata in tela con segni forati che permettono all'utente di ritagliare parti diverse che diventano sporche o strappate, per rivelare il nuovo strato sottostante. Il numero di livelli in ogni sezione è stato determinato calcolando il livello di usura delle diverse parti.

18 Il materiale, Filaflex 1,75 millimetri, è un filamento elastico che permette di creare parti elastiche, senza dover apportare alcuna modifica alla stampante 3D.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 152 (MICROFACTORY). La microfactory, come definito in precedenza, costituisce l’evoluzione del designer=impresa in un imprenditore permanente. Ecco alcuni casi. Il designer finlandese Janne Kyttanen ha creato una linea di scarpe stampabili in 3D. I file digitali con il modello 3D delle scarpe possono essere scaricati gratuitamente, stampati 3D in circa sette ore. I prodotti sono progettati per essere stampati in 3Dcon la stampante CUBEX grazie al marketplace Cubify (3D System). Un altro progetto in collaborazione con 3D Systems è invece quello di United Nude con la stilista Iris Van Herpen. Le scarpe sono composte da tre parti stampate in 3D e assemblate. Nel 2010, Il designer francese Gaspard Tiné-Berès mentre studiava a Londra al Royal College of Art, ha avuto l'idea di tagliare un pezzo di ricambio di feltro e di cucirlo con i lacci delle sue sneaker. In soli tre anni sono nate le pantofole Lasso. Lanciate su Kickstarter nel Febbraio 2013 hanno raggiunto il +344% rispetto all’obiettivo iniziale (1,275 backers: £58,624 ottenuti contro £17,000 richiesti). Infine Eugenia Morpurgo, una designer italiana che ha creato Don’t Run (Beta) una microfactory temporanea per la produzione di scarpe personalizzate utilizzando le tecnologie per la fabbricazione digitale presenti in un Fab Lab (vedi caso studio Capitolo 4).

Come si può osservare da questa breve carrellata di casi la microproduzione contemporanea è un fenomeno complesso in termini di soluzioni funzionali, estetiche proposte e anche di qualità realizzative. Molti artefatti prodotti sono però imperfetti, a volte inefficienti e malfunzionanti, altri casi sono (in apparenza) indistinguibili dai prodotti industriali o artigianali. Altri ancora sono evidentemente immaturi e necessitano di ulteriori affinamenti. Altri infine introducono nuovi canoni estetici anche perché legati a processi produttivi innovativi. Questo aspetto è intrinsecamente connesso alla loro dimensione ibrida di prototipo-prodotto. In molti casi ciò non sembra costituire un problema insormontabile per un nascente mercato dell’autoproduzione dove spesso il costo o il prezzo (in molti casi elevato) non è esclusivamente collegato al valore dell’oggetto in sè, ma al valore economico e sociale del processo che lo ha generato o dell’esperienza che si è acquisita attraverso tale pratica.

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#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 156 12

Fig. 3.2 – Un paio di sandali ‘Birkenstock style’ sandal autoprodotti in un slum district di Nairobi; Fig. 3.3 – Un esempio di ‘Creative fixing’ utilizzando il SUGRU; Fig. 3.4 – Un paio di scarpe autocostruite utilizzando un tutorial scaricato da Instructables Fig. 3.5 – Le rotational-moulded-shoe della designer Marloes ten Boehmer (UK) Fig. 3.6 – Le pantofole Lasso, Lanciate su Kickstarter nel Febbraio 2013 hanno raggiunto il +344% rispetto al target iniziale (1852 paia preordinate) e sono oggi vendute in 43 paesi. Fig. 3.7 – Le Bioucouture shoes di Suzanne Lee prodotte utilizzando pelle ‘coltivata’ Fig. 3.8 – Le United Nude 3D printing di Iris Van Herpen composte da 3 parti stampate in 3D e assemblate. Fig. 3.9 – ‘No Place Like Home’, le scarpe GPS realizzate dal designer-maker Dominic Wilcox Fig. 3.10 – Le laser cutter woodenshoes pubblicate sul marketplace Ponoko Fig. 3.11 – Le 3D printed shoes di Olivier van Herpt e Jeroen van de Gruiter (Olanda) Fig. 3.12 – Don’t Run Beta, una microfactory per la fabbricazione analogica-digitale di scarpe.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 157 3.6 TRASFERIRE LE COMPETENZE DEL DESIGNER=IMPRESA: DUE ESPERIENZE NEL CAMPO DELLA FORMAZIONE

Per testare e verificare sul campo le conoscenze sui processi di design per la microproduzione, codificate nel modello concettuale del designer=impresa, sono state messe a punto due iniziative nel campo della formazione. Queste sperimentazioni lavorano sulle due dimensioni che coesistono nella figura del designer=impresa – l’individuo e l’organizzazione – operando da un lato sullo sviluppo degli skill legati ai processi di microproduzione, dall’altro sulla progettazione dei sistemi di produzione dedicati a queste attività. Il contesto scelto per effettuare le due iniziative è stato il Politecnico di Milano, la Scuola del Design e il Dipartimento di Design. Trattandosi di un ambiente di sperimentazione ‘controllato’ l’obiettivo di queste iniziative non è dimostrare che il modello del designer=impresa funziona. L’interesse è invece capire come attraverso questo modello (in termini di capability e di organizzazione delle risorse per la produzione) il designer acquisisce velocemente nuove competenze nel campo della microproduzione.

La prima iniziativa è il Laboratorio AUTOPRODUZIONI - NUOVI MODELLI DI CONNESSIONE TRA DESIGN, PRODUZIONE DISTRIBUITA E FABBRICAZIONE AVANZATA (2012-2014). Si tratta di un’esperienza di action-research che ha trasferito le conoscenze sui processi di microproduzione all’interno di un laboratorio del 2° anno del Corso di laurea magistrale presso la Scuola del Design. L’ipotesi di partenza era dimostrare come fosse possibile applicare queste competenze per realizzare un’esperienza di autoproduzione del tutto originale. La sperimentazione aveva come primo obiettivo quello di verificare l’efficacia del modello del designer=impresa, ovvero se le competenze trasferite fossero effettivamente in grado di condurre all’ideazione e alla materializzazione di un artefatto innovativo facendo acquisire al designer nuove capacità a livello professionale. Il secondo obiettivo riguardava la generatività del modello, ovvero se a partire da questa prima esperienza i progettisti potessero intraprendere un percorso professionale-produttivo valutando la microproduzione come possibile alternativa/opzione.

La seconda iniziativa, MAKING@POLIMI | DALL’IDEA AL MERCATO è invece parte della ricerca scientifica MAKEFACTORY - NUOVI MODELLI DI CONNESSIONE TRA DESIGN FABBRICAZIONE DIGITALE E RETI PRODUTTIVE (2013-2014). MakeFactory è una ricerca finanziata dal Dipartimento di Design1 per esplorare il ruolo e le potenzialità del design (e della ricerca di design) all’interno di uno scenario produttivo emergente in cui le pratiche del making e del fabbing

1 Il gruppo di coordinamento della ricerca MakeFactory è composto da Venanzio Arquilla, Massimo Bianchini e Stefano Maffei. #3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 157 interagiscono con i mondi dell’industria, dell’artigianato e dell’autoproduzione. La ricerca si è infatti focalizzata sulla relazione tra design e reti produttive tradizionali ed emergenti ponendo molta attenzione sullo studio dei luoghi di produzione in ambito urbano come i Fab Lab ma anche dei designer=impresa. MakeFactory prevedeva anche la creazione di Making@PoliMi, un laboratorio temporaneo sperimentale capace di utilizzare in modo alternativo le risorse dei laboratori di design dipartimentali, simulando una situazione di relazione con laboratori di tipo artigiani o PMI. Making@PoliMi doveva connettere queste risorse con il mondo della fabbricazione digitale per sperimentare nuovi processi ideativi-fabbricativi che potessero coinvolgere designer, ricercatori, tecnici e produttori di tecnologie. L’ipotesi di partenza era dimostrare come fosse possibile creare un network di produzione basato sulla connessione tra design, maker facility e fabbing in grado di condurre allo sviluppo di processi di microproduzione ‘dall’idea al mercato’. Primo obiettivo della sperimentazione era provare a connettere i laboratori di design con le maker facility come i Fab Lab verificando l’efficacia di questo nuovo modello ibrido. Uno specifico interesse era nel comprendere se la nuova configurazione fosse in grado di potenziare il modello esistente del design workshop (una settimana di progettazione intensiva per la generazione di concept innovativi) per trasformarlo in un centro temporaneo per la microproduzione in grado di ideare e creare artefatti innovativi. Attraverso questa sperimentazione si voleva dimostrare che: o la figura del designer è in grado di sviluppare un processo di ideazione- produzione-distribuzione completo in un periodo limitato di tempo; o i sistemi-prodotto realizzati in questo modo possono avere un mercato e possono presentare livelli di innovatività e anche di complessità tecnologica e realizzativa; o l’università è un luogo dove è possibile attivare processi di questo genere (università come piattaforma abilitante del fare o come possibile factory of the future).

L’intento della sperimentazione è far acquisire alla Scuola e al Dipartimento di design nuove competenze nel campo del design per la microproduzione trasferibili nelle attività di formazione e ricerca.

3.6.1 AUTOPRODUZIONI LAB: UNA PALESTRA PER DESIGNER=IMPRESA

Il Laboratorio AUTOPRODUZIONI (A.A. 2012/2013 e 2013/2014) ha esplorato i cambiamenti strutturali dei mercati, le forme emergenti di produzione- distribuzione e il cambiamento del ruolo e della figura del product designer, delineando gli scenari emergenti dell’autoproduzione: DIY, digital fabrication, advanced fabrication, distributed manufacturing, fabbing, critical design, crowdsourcing.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 158 Nelle due edizioni del corso più di ottanta giovani designer sono stati supportati a sviluppare una propria visione critica socio-tecnica su questi fenomeni lavorando sulla prospettiva del designer=impresa2. Ogni studente è stato stimolato a lavorare sull’intera sequenza di attività che porta alla materializzazione di un artefatto: ricerca e progettazione, prototipazione-produzione-riproduzione (unendo tecniche di fabbricazione analogica e digitale) e promozione-distribuzione- commercializzazione. I designer, individualmente o in piccoli gruppi, partendo da un interesse progettuale personale verso un settore, una categoria merceologica, una tecnologia o il bisogno di uno specifico gruppo/comunità di utenti potevano: o sviluppare il concept di un sistema prodotto-servizio autoproducibile attraverso l’utilizzo di uno o più processi di fabbricazione avanzata o la configurazione di un network di microproduzione; o sviluppare il concept di un sistema prodotto-servizio che abilitasse l’attività di micro o autoproduzione attraverso la creazione di un nuovo strumento o tecnologia di fabbricazione/produzione o la modifica di uno strumento o una tecnologia esistente. Gli studenti partendo da zero dovevano arrivare in circa quattro mesi a materializzare un sistema prodotto-servizio e a presentarlo durante una mostra autorganizzata creando i presupposti per discutere l’avanzamento dei progetti con la comunità del design e il pubblico e stabilire un primo contatto con il mercato.

La ricerca ha documentato tutte le attività del laboratorio attraverso un blog (newitalianlandscape.it/designduepuntozero). Le informazioni relative ai trentasei progetti, realizzati dagli oltre ottanta studenti durante le due edizioni del corso, sono stati sistematizzati elaborando due mappe info-grafiche (Fig.1a,b). In questo modo è stato possibile analizzare lo sviluppo dei processi di microproduzione. Di seguito sono presentati i principali risultati di questa sperimentazione. Sono stati raggruppati nelle stesse categorie utilizzate per analizzare i casi di designer=impresa.

Fig. 3.13 a e b - Mappe della I e II edizione del Corso Autoproduzioni

2 Durante ciascuna edizione del laboratorio ci sono stati invitati circa 15 ospiti: autoproduttori, gestori di piattaforme e-commerce, gestori di Fab Lab, esperti di fabbricazione digitale, esperti di open design. Ciascun ospite era invitato a presentare punti di forza e debolezza rispetto al proprio lavoro in modo tale da fornire allo studente gli elementi per costruirsi un opinione #3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 159 LAB COMMUNITY TUTOR PER MAKING (supporto agli studenti per produzione) LAB COMMUNITY MAKER TUTORS (supporting the students in manufacturing) Imprese manifatturiere FATTI E NUMERI Rivenditori Manufacturing companies Retailers [1] [2] [4] Artigiani tradizionali* AND Traditional artisans* FACTS FIGURES Esperti e Consulenti Studenti Maker Facility** Altri sogetti Experts and consultants [29] [28] Students [16] Maker facilities** [1] Other soggetti Artigiani tecnologici* [1] Technological artisans* Artigiani tecnologici* Technological artisans* [2] Docenti Politecnico di Milano [3] Professors Maker Facility** Scuola del Design [3] 101 33 29 Maker facilities** Corso di Laurea Magistrale in Design Soggetti coinvolti Cultori della materia Soggetti coinvolti Soggetti coinvolti Laboratorio di Sintesi Finale Involved subjects [6] Lab tutors Involved subjects Blog/Forum on-line Involved subjects Centri/Laboratori di ricerca A.A. 2012/2013 Online Blog/Forum [8] [1] Artigiani tradizionali* [7] Research centres and labs Traditional artisans* Rivenditori [1] Retailers Scuole [3] Schools Professionisti invitati [28] Invited experts (as lecturers) Altri sogetti Tutor per making [2] Imprese manifatturiere Other soggetti Singoli esperti “Maker tutors” [33] Manufacturing companies [2] [1] [3] Individual experts Centri/Laboratori di ricerca Research centres and labs ESPERTI E CONSULENTI (supporto tecnico informativo) EXPERTS AND CONSULTANTS (providing technical information)

*Settori produttivi | Manufacturing sectors: ** Per “Maker facility” si intendono laboratori come "Maker facility" means laboratory such as FabLab, SISTEMA e/o PROCESSO e/o PRODOTTO e/o SERVIZIO e/o MATERIALI / COMPONENTI e/o TECNICA / TECNOLOGIA e/o LUOGO - Legno e Arredo | Woodwoork and Furniture Fablab, Design Workshop, Maker space, Maker lab, Design Workshop, Maker space, Maker lab, Hacker and/or and/or and/or and/or and/or and/or - Carpenteria metallica | Metalwork Hacker space e Tech Shop. space, and Tech Shop. SYSTEM PROCESS PRODUCT SERVICE MATERIAL / COMPONENTS TECHNICS / TECHNOLOGY PLACE - Meccanica | Mechanics Delle 16 Maker Facility 6 sono laboratori del 6 of the 16 Facility are labs of the Politecnico di - Ceramica | Ceramics Politecnico di Milano: Modelli e Prototipi, Laser, Milano: Models and Prototypes, Laser Virtual Virtual (Design/Manufacturing) - Illuminotecnica-LED | Lighting-LED Virtual Prototyping & Reverse Modeling, Prototyping & Reverse Modeling, Decoration, Physical - Strumenti digitali | Digital Instruments Allestimenti, Physical Computing, Fotografia. Computing, Photography

Valore = +1) Value = +1) ELEMENTI INNOVATIVI ASPECTS INNOVATION EASYPAINT SESTETTO ESTRATTO WIRECLASSIC LATHE HACK ALCIDE OPLON BRKT LA FISSA KALEIDO BLOOM MUSIC INK CHAIR FACTORY ACCUA EPOCA .EASE PARSEC HYDROSHELF

Stefano Ivan SCARASCIA Ludovica CANZUTTI Li QIXING Massimo FERRERO Giada LAGORIO Pierluigi CHIARELLO Giacomo GHELLERE Luisa BATTISTELLA Marianna MILIONE Matteo SQUAIELLA Gilda NEGRINI Martina MILANO João MONTENEGRO Gabriele BASEI Carlo CERUTI Federico GHIGNONI Margherita GIACOMOZZI Davide PUCCIO Francesco Shyam ZONCA Yu XIAOWEI Edoardo T. LONGONI Jasmine PILLONI Francesco TARANTINO Dario SPERA Martina DELL’ACQUA Wu HUIJING Riccardo VENDRAMIN Alessandro MADAMI PROGETTO & PROCESSO DI AUTOPRODUZIONE DESIGN & SELF-PRODUCTION PROCESS

Valore = +1) Value = +1)

TIPOLOGIA DI PROCESSO TECNICHE E TECNOLOGIE PRODUTTIVE MANUFACTURING TIPOLOGY MANUFACTURING TECHNICS AND TECHNOLOGIES

[6] [0] [12] [18] [8] [7] [3] DESIGNER COMUNITA’ OPEN DESIGN e/o MAKER FACILITY e/o MICROFABBRICA e/o RETE MICROPRODUZIONE* MODELLO PRODUTTIVO PRODUCTION MODEL Analogico Digitale Analogico & Digitale Fatto a mano Manifattura sottrattiva Manifattura Additiva Programmazione software DESIGNER OPEN DESIGN COMMUNITY and/or MAKER FACILITY and/or MICROFACTORY and/or MICROPROPRODUCTION NETWORK* Analogic Digital Analogic & Digital Handmade Subtractive manufacturing Additive manufacturing Processing

*Netword composti da autoproduttori, makers, artigiani *Network of DIY people, makers, artisans

Autore | Author Massimo Bianchini - 2013 LAB COMMUNITY TUTOR PER MAKING (supporto agli studenti per produzione) FATTI E NUMERI LAB COMMUNITY MAKER TUTORS (supporting the students in manufacturing) Artigiani tecnologici* [4] [8] Maker Facility** FACTS AND FIGURES Technological artisans* Maker facilities**

Tutor per making Studenti “Maker tutors” [50] [51] Students Politecnico di Milano Scuola del Design 137 50 Corso di Laurea Magistrale in Design Soggetti coinvolti Soggetti coinvolti Laboratorio di Sintesi Finale Involved subjects Artigiani tradizionali* Involved subjects Rivenditori A.A. 2012/2013 Traditional artisans* [16] [15] Retailers

Docenti [3] Professors

Professionisti invitati Cultori della materia Imprese manifatturiere Altri sogetti Invited experts (as lecturers) [28] [5] Lab tutors Manufacturing companies [6] [1] Other soggetti

e/o e/o e/o e/o e/o e/o *Settori produttivi | Manufacturing sectors: ** Per “Maker facility” si intendono laboratori come "Maker facility" means laboratory such as FabLab, SISTEMA PROCESSO PRODOTTO SERVIZIO MATERIALI / COMPONENTI TECNICA / TECNOLOGIA LUOGO - Legno e Arredo | Woodwoork and Furniture Fablab, Design Workshop, Maker space, Maker lab, Design Workshop, Maker space, Maker lab, Hacker and/or and/or and/or and/or and/or and/or - Carpenteria metallica | Metalwork Hacker space e Tech Shop. space, and Tech Shop. SYSTEM PROCESS PRODUCT SERVICE MATERIAL / COMPONENTS TECHNICS / TECHNOLOGY PLACE - Meccanica | Mechanics Delle 16 Maker Facility 6 sono laboratori del 6 of the 16 Facility are labs of the Politecnico di - Ceramica | Ceramics Politecnico di Milano: Modelli e Prototipi, Laser, Milano: Models and Prototypes, Laser Virtual Virtual (Design/Manufacturing) - Illuminotecnica-LED | Lighting-LED Virtual Prototyping & Reverse Modeling, Prototyping & Reverse Modeling, Decoration, Physical - Strumenti digitali | Digital Instruments Allestimenti, Physical Computing, Fotografia. Computing, Photography

Valore = +1) Value = +1)

ELEMENTI INNOVATIVI ASPECTS INNOVATION MALACODA CHOCOMATICA SONIC SALSA MAKER ZAKU’ SIU HAZY EDGES LOCK 'N' STOCK TEARDROP OPERA SOAP EMOME FOLK STITCH DIFFUSE IMPRINT ALCHIMIA BAAKI WEAVE

Matteo BRICCOLA Federico DIGIROLAMO Luca DELL’ORO Alessandro CORLIANÒ Elena D’URBANO Pietro MALVEZZI Erica MARGINI Michela CAVALLERI Marco MONTI Carolina BECATTI Matilde MERCIAI Annalisa BARBIERI Ksenia ROGACHEVA Carolina FERRARI Micol POLON Riccardo Maria LANDRIANI Davide ORIANI Valeria DE SIO Mauro BERGAMASCHI Giorgio FORTI Roberta DI LORENZO Francesco Paolo COSENTINO Giulia MAGARELLI Andrea MAMBRINI Silvia STOCCO Sarah RICHIUSO Andrey Rafael Silvia GIUSTOZZI Georgi NOVOLSELETS Simona COSENTINO Ilaria VITALI Laura CIPRIANI Luigi Giovanni MURA Jenny DE NOTARIIS Claudia GUARDAVACCARO Marta LO BIANCO Mattia INGANNI Valeria D’ALESSANDRO Ludovica ZENGIARO Irene TRAUTLUFT DECARVALHO PINTO Maddalena SALVETTI Francesca FREGAPANE Giada MARTINELLI Mengdi XU Shuning YAN Radomir Emilov SHTEREV Francesca PIZZI

Imprint è un sistema di oggetti per la Alchimia è un sistema di riscaldamento BAAKI is a babycarrier per neonati da 0 a Weave è un telaio portatile da viaggio MALACODA è un telaio per mountain Chocomatica è una temperatrice per il Sonic è un prodotto che aiuta i ciclisti a Salsa Maker è un passapomodoro da Zakù è un sistema per l’autoproduzione SIU è un sistema innpvativo per la Hazy è una macchina fotografica a foro Edges è un tutore che si adatta al corpo LOCK’N'STOCK è un innovativo sistema TEARDROP è un sistema di strumenti e Soap Opera è un kit per l’autoproduzi- EMOME è un sistema che rileva, segnala Sistema modulare per idroponica open Diffuse è una luce intelligente per il personalizzazione dei propri packaging, per esterni che propone un nuovo 9 mesi ergonomico e versatile. corredato di strumenti in legno per la bike da enduro realizzato interamente in cioccolato, una macchina che controlla prevenire gli incidenti. Ha un sensore che cucina, utilizzato per realizzare la salsa di di snack che rappresenta un’alternativa cucitura e la confezione di abiti. stenopeico. e all’abbigliamento di chi lo indossa. di portapacchi posteriore per biciclette a accessori per la preparazione domestica one di sapone utilizzando ingredienti e traccia i cambiamenti degli d’animo di source autoregolato e controllabile laptop che sfruttando Arduino regola la dalle etichette alle confezioni. sistema di riscaldamento, alimentato a tessitura. carbonio. la temperatura di scioglimento per capta le auto in movimento provenienti pomodoro come vuole la tradizione. ai distributori automatici. scatto fisso. di fitocosmetici. naturali e ricette personalizzabili. una persona, attraverso l’uso di piccoli attraverso Arduino. luce in relazione all’utilizzo del notebook. pirolisi. BAAKI is a babycarrier for infants from 0 ottenere tavolette di qualità. da direzioni dove il ciclista non può SIU is an innovative systemfor sewing Hazy is a pinhole camera. Edges is a tutor that adapts to the body sensori collegati ad un core elettronico. Imprint is a set of tools for customizing to 9 months, for different uses thank to Weave is a travelling loom equipped MALACODA is an enduro mountainbike vedere. Salsa Maker is the new tomato sauce Zaku is a Do-It-Yourself system for and making clothing. and clothing of the wearer. LOCK’N'STOCK is an innovative back TEARDROP is a DIY system for Soap Opera is a DIY kit for soap. It Modular and open source hydroponic Diffuse is a smart laptop light that packaging. It’s a workstation that Alchimia is a new and innovative way of his different configurations with wooden tools. frame all made of carbon fibre. Chocomatica is a chocolate machine Sonic is a product that helps cyclists to maker able to let you produce real snacks which is an alternative to bike rack, intended for fixed bikers. homemade phytocosmetic preparation. allow the people to produce soap EMOME is a system that detects, reports home system self-regulated and performs two functions using Arduino. contains everything you need to create outdoor heaters which offers a new which controls the melting temperature prevent accidents. It is equipped with a tomato sauce respecting tradition. vending machines. starting from natural ingredients and and track the changes in the mood of a controlled by Arduino. labels, small printed material and heating system. to obtain fine chocolat tablets. sensor that picks up the car moving customizing the recipes. person. It uses small sensors connected customize paper and cardboard where the cyclist can not see. to an electronic core. packaging. PROGETTO & PROCESSO DI AUTOPRODUZIONE DESIGN & SELF-PRODUCTION PROCESS

Valore = +1) Value = +1)

TIPOLOGIA DI PROCESSO TECNICHE E TECNOLOGIE PRODUTTIVE MANUFACTURING TIPOLOGY MANUFACTURING TECHNICS AND TECHNOLOGIES

[11] [2] [5] [17] [11] [7] [3] DESIGNER COMUNITA’ OPEN DESIGN e/o MAKER FACILITY e/o MICROFABBRICA e/o RETE MICROPRODUZIONE* MODELLO PRODUTTIVO PRODUCTION MODEL Analogico Digitale Analogico & Digitale DESIGNER OPEN DESIGN COMMUNITY and/or MAKER FACILITY and/or MICROFACTORY and/or MICROPROPRODUCTION NETWORK* Analogic Digital Analogic & Digital

*Netword composti da autoproduttori, makers, artigiani *Network of DIY people, makers, artisans

Autore | Author Massimo Bianchini - 2013

TIPOLOGIE DI PROGETTI. L’autoproduzione si origina spesso da una necessità o un interesse personale. L’auto-committenza è quindi un elemento centrale nei processi di autoproduzione. Nel laboratorio Autoproduzioni è stato eliminato il concetto del brief progettuale lasciando piena libertà di scelta ai designer. In questo modo gli output progettuali del laboratorio sono diventati imprevedibili (un quarto dei progetti non è classificabile secondo i codici NACE). Il risultato è stato un insieme eterogeneo e diversificato di progetti, tra loro non paragonabili se non rispetto all’esito del processo di autoproduzione. Questo aspetto ha disinnescato le dinamiche competitive tra gruppi in favore di dinamiche più collaborative. Un’analisi tipologica e merceologica dei progetti ha evidenziato i seguenti aspetti, alcuni dei quali legati a opposte tendenze: o l’interesse verso lo sviluppo di macchine, tool and toolkit che abilitano o potenziano l’autoproduzione di beni finali lavorando sul potenziamento di tecniche artigianali oppure sulla semplificazione di processi industriali. o l’interesse nello sviluppo di artefatti anche complessi come gli elettrodomestici trasformati in oggetti manualizzati (o manodomestici) a cui si contrappone l’interesse per lo sviluppo di smart thing dotate di sensori per la comunicazione, la tracciabilità, la localizzazione. o l’interesse verso nuove categorie di prodotti come i droni collegate al mondo dei maker o del DIY e all’open design o al design generativo a cui si contrappone l’interesse nello sviluppo di prodotti tecnici ‘vintage’ come gli sci che possono essere realizzati configurando piccole reti di microproduzione che uniscono designer e artigiani.

PROGETTO BREVE DESCRIZIONE SETTORE (EU NACE3) AUTOPRODUZIONI LAB – 1ST EDITION SESTETTO A multichannel audio-player with a Reproduction of sound recording separate speaker system, to allow the (Code 22.31) personal self-production of musical listening. ESTRATTO A vegetal ink derived from waste Manufacturing of paints, varnishes, and materials found in our kitchen garden. similar coatings, printing ink and mastics (Code 24.3) WIREFRAME Historical icon-design objects design Manufacturing of furniture (Code 36.1) reconstructed by using ironwire simulating the concept of 3D models wireframe. HACK LATHE A low cost and open source lathe Manufacture of machine-tools (Code 29.4) purchasable in kit or for DIY. BRKT A ‘meta-product’ for skateboarding No related codes which allow the users to increase theis technical awareness. LA FISSA An home made pasta maker in wood Manufacturing of non-electric domestic and steel appliances (Code 29.72) KALEIDO A motion control system designed to Manufacturing of optical instruments and make time-lapse through rotation and photographic equipment (Code 33.40) straight movement of the camera. BLOOM A "low-cost" modular system for Manufacturing of electric domestic personal heating consists of an appliances (Code 29.71) electrically powered radiant fabric. MUSIC INK An educational game whose main Manufacturing of musical instruments

3 http://ec.europa.eu/competition/mergers/cases/index/nace_all.html #3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 162 characteristic is the use of a conductive (Code 36.3) paint, which allow children to play their own drawings. CHAIR FACTORY System-Service for repair and regenerate No related codes disused chairs through a reverse modeling low-cost technology. ACCUA A modular and open source hydroponic No related codes home system self-regulated and controlled by Arduino. EPOCA Epoca ski is a vintage collection of Manufacturing of sports goods (Code 36.40) handmade wooden ski, taking inspiration of olympic historical models. .EASE Flying drone for environmental Manufacturing of instruments and monitoring equipped with detection appliances for measuring, checking, testing, sensors and able of moving and recharge navigating and other purposes except independently based on user-defined industrial processes control equipment paths. (Code 33.20) PARSEC A system for DIY furniture small Manufacturing of lighting equipment and products based on small joints in resin electric lamps (Code 31.50) and ironwire. HYDROSHELF An hydroponic vertical system that No related codes enables you to grow vegetables at home in a simple, clean and cost-effective way. EASYPAINT A machine for making interior wall Manufacturing of brooms and brushes decorations composed of self-inking (Code 36.62) rollers. AUTOPRODUZIONI LAB – 2ND EDITION MALACODA Malacoda is an enduro mountain bike Manufacturing of bicycles (Code 35.42) frame all made by carbon fibre. CHOCOMATICA Chocomatica is a chocolate machine Manufacturing of electric domestic which controls the melting temperature appliances (Code 29.71) in order to obtain fine chocolat tablets. SONIC Sonic is a product that helps cyclists to Manufacturing of electrical equipment for prevent accidents. It is equipped with a engines and vehicles (31.61) sensor that picks up the car moving where the cyclist can not see. SALSA MAKER A new tomato sauce maker which Manufacturing of non-electric domestic respect tradition. appliances (Code 29.72) ZAKÙ A DIY system to prepare snacks which Manufacturing of electric domestic represents an alternative to vending appliances (Code 29.71) machines. SIU An innovative system for sewing and Manufacturing of non-electric domestic making clothing. appliances (Code 29.72) HAZY A pinhole camera. Manufacturing of optical instruments and photographic equipment (Code 33.40) EDGES A tutor that adapts to the body and Manufacturing of medical and surgical clothing of the wearer. equipment and orthopaedic appliances (Code 33.10) LOCK’N’STOCK An innovative back bike rack, intended Manufacturing of locks and hinges for fixed bikers. (Code 28.63) TEARDROP A DIY system for homemade Manufacturing of non-electric domestic phytocosmetic preparation. appliances (Code 29.72) SOAP OPERA A DIY kit for soap making that allow the Manufacturing of non-electric domestic people to produce soap starting from appliances (Code 29.72) natural ingredients and customizing the recipes. EMOME A system that detects, reports and track No related codes the changes in the mood of a person using small sensors connected to an electronic core. FOLK STITCH An unusual decorative mix, capable of No related codes bringing together contemporary taste and traditional artisanal know-how. IMPRINT A toolkit for customizing packaging. It’s No related codes a micro-workstation that contains everything you need to create labels, small printed material and customize paper and cardboard packaging ALCHIMIA An innovative way of outdoor heaters Manufacturing of steam generators, except which offers a new heating system. central heating hot water boilers (Code 28.3)

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 163 BAAKI A baby carrier for infants from 0 to 9 No related codes months, for different uses thank to his different configurations

WEAVE A travelling loom equipped with Preparation and spinning of textile fibers wooden tools. (Code 17.1)

Tab. 3.6 – Comparazione tipologie prodotti con Codice NACE.

ELEMENTI D’INNOVATIVITÀ DEI PROGETTI. Ciascun progetto è stato analizzato verificandone gli elementi innovativi. I designer, seguendo l’unico vincolo dato dal laboratorio - un prodotto-servizio autoproducibile o un prodotto- servizio per l’autoproduzione - hanno operato in questo modo: o i progettisti che si sono concentrati sull’autoproducibilità dell’artefatto sono intervenuti sul prodotto e sul processo. Alcuni hanno modificato una tecnica o una tecnologia o riconfigurato il sistema di produzione, altri invece si sono invece più focalizzati sulla (ri)progettazione di singole parti e componenti. Nel fare questo alcuni hanno sperimentato l’impiego di materiali inediti per la categoria merceologica di riferimento, in un caso ci si è addirittura spinti verso lo sviluppo di un nuovo materiale. o i progettisti che hanno lavorato maggiormente sullo sviluppo di sistemi per l’autoproduzione, per gestire la complessità di questi artefatti (macchine e strumenti), hanno sviluppato processi di cannibalizzazione, hacking o re- manufacturing di artefatti esistenti riciclandone parti o componenti HW e SW e ricombinandole con altre di loro progettazione-produzione o programmazione. Nella seconda edizione c’è stato un maggiore sviluppo di sistemi per l’autoproduzione (macchine, singoli strumenti e toolkit) e più in generale di progetti più complessi. Ciò potrebbe dipendere dal fatto di avere un metodo didattico già sperimentato e un network consolidato di maker facility.

Fig. 3.14 – Elementi di innovatività laboratori a confronto.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 164 CARATTERISTICHE DEI PROCESSI DI FABBRICAZIONE. Ciascun progetto è stato mappato durante il suo percorso di materializzazione cercando di capire quali fossero le tecnologie e i processi di produzione impiegati (Fig. 3.15). I processi di produzione, osservati nel complesso, risultano essere ancora principalmente focalizzati sulla dimensione analogica anche se in molti di loro è stata attivata una prima importante combinazione con il digitale. Questo aspetto è visibile nella scelta delle tecniche e delle tecnologie di produzione dove la relazione analogico/digitale si esprime in un utilizzo bilanciato tra tecnologie per la fabbricazione sottrattiva e additiva (nei Fab Lab il rapporto tra subtractive e additive manufacturing è 80 a 20), mentre risulta ancora bassa la produzione di software o l’utilizzo di open hardware nei progetti. I designer impegnati nello sviluppo delle smart thing hanno infatti imparato autonomamente ad usare e a programmare controller come Arduino proprio durante il corso, consultando tutorial, manuali o iscrivendosi a gruppi e comunità di pratica su Internet.

Fig. 3.15 – Elementi di innovatività laboratori a confronto

IL LABORATORIO COME NETWORK DI MICROPRODUZIONE. Ciascun designer (o gruppo) ha costruito una propria rete di relazioni con soggetti interni ed esterni all’università per sviluppare la propria attività di autoproduzione: technical lab, maker facilities (Fab Lab e maker service come Shapeways), artigiani tradizionali o ‘tecnologici’ (che utilizzano macchine CNC) e piccole imprese manifatturiere. L’insieme di questi soggetti, unito al gruppo di professionisti dell’autoproduzione invitati a presentare le proprie storie, ha creato nei fatti una comunità di pratica e produzione, una rete sociale-produttiva di cui curiosamente studenti e docenti costituiscono una minoranza.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 165 Questo network ha supportato in vario modo le attività di autoproduzione: dal semplice supporto informativo sulle tecniche e sulle tecnologie di fabbricazione alla traduzione dei processi fabbricativi analogici in digitali (e viceversa) o all’impiego di materiali e componenti fino a relazioni più evolute sfociate in attività di codesign e coproduzione di parti o elementi dei sistemi prodotto. Osservato nel suo complesso, Autoproduzioni Lab può essere visto come un abilitatore di processi di microproduzione, un micromanufacturing hub virtuale e temporaneo aperto al territorio e basato su un modello didattico without borders.

Fig. 3.16 – Comunità produttiva del laboratorio Autoproduzioni.

PRESENTAZIONE DEI PRODOTTI. I progetti sono stati presentati al pubblico attraverso due mostre autorganizzate presso la galleria Subalterno 1 di Milano4: la prima intitolata School of Design la seconda Underdogs | Dalle aule al mercato5. Entrambe sono state recensite su storiche riviste di settore come Domus e Interni. Al termine della prima edizione di Autoproduzioni Lab i designer hanno autonomamente formato un collettivo chiamato Produzione Impropria6 con cui hanno partecipato a una mostra al Salone del Mobile 2013. Alcuni designer hanno poi proseguito nello sviluppo dei loro progetti7.

4 http://www.subalterno1.com/ 5 http://www.newitalianlandscape.it/underdogs/?lang=it, http://www.domusweb.it/it/notizie/2014/02/25/subalterno1_underdogs.html 6 https://www.facebook.com/ProduzioneImpropria?fref=ts 7 Il designer-musicista Stefano Ivan Scarascia nel 2013 ha progettato SESTETTO un sistema di riproduzione audio multicanale in cui voci e strumenti sono diffusi separatamente da sorgenti indipendenti e diversificate nei materiali e nelle tecnologie in base al tipo di suono. Oggi ha modellizzato il suo prodotto, lo realizza su richiesta e lo utilizza per promuovere la sua musica. Carlo Ceruti con .EASE ha creato un sistema prodotto-servizio per il monitoraggio di siti industriali e archeologici basato su un drone da ricognizione. Oggi sta sviluppando il suo prodotto dentro il Parco Tecnologico Kilometro Rosso e fa parte della community DIY Drones. Gilda Negrini e Riccardo #3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 166

Fig. 3.17 – Il sistema per l’ascolto multicanale Sestetto.

Fig. 3.18 – TomatoMaker

Vendramin, con Music Ink hanno sviluppato un gioco educativo la cui principale caratteristica è l'utilizzo di una vernice conduttiva che permette ai bambini di suonare i propri disegni. Il loro progetto è stato selezionato alla Maker Faire 2013 e sono stati invitati a trasmissioni radiofoniche e televisive (MTV). Gabriele Basei, con EPOCA SKI. una collezione vintage di sci artigianali in legno che rivista in chiave contemporanea i modelli olimpici storici, ha vinto lo Zero Design Festival 2014 e ha poi partecipato a una mostra alla Triennale di Milano – Design Museum. Altri progetti hanno ricevuto recensioni su riviste online come designboom.com: SIU, TOMATOMAKER, SOAP OPERA.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 167

Fig. 3.19 – La pistola cucitrice SIU.

CONSIDERAZIONI FINALI. L’esperienza Autoproduzioni Lab, che costituisce l’embrione di una reale iniziativa sperimentale da condurre su più vasta scala, ha fornito alcune interessanti e inattese indicazioni sulla possibile e futura applicazione del modello del designer=impresa. Questa esperienza è effettivamente riuscita a far acquisire in poco tempo agli studenti/designer una serie di competenze spendibili nel campo della microproduzione. Tutti i designer, partendo dalle conoscenze fornite, sono effettivamente riusciti a progettare, materializzare e mostrare un prototipo-prodotto funzionante in soli quattro mesi. La cosa interessante è che si sono originati progetti tutti molto diversi tra loro. Naturalmente questo esito è solo un primo rudimentale elemento di verifica ma fa supporre che, a partire da un insieme condiviso di conoscenze di base sul processo, il modello del designer=impresa può essere facilmente interpretato in modo personale generando effettivamente una varietà progettuale a cui corrisponde una maggiore varietà produttiva. Un'altra questione riguarda invece la potenziale capacità di questo modello di costruire relazioni. Il laboratorio ha generato un potenziale network di microproduzione in grado di far coesistere e collaborare luoghi di produzione multipurpose come i Fab Lab e luoghi specializzati come i laboratori artigianali o le PMI. Un comportamento non indotto ma simile a quello osservato durante lo studio dei casi di designer=impresa.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 168

Fig. 3.20 a,b,c – La mostra School of Design allo spazio Subalterno1, Milano, 2013.

3.6.2 MAKING@POLIMI: DALL’IDEA AL MERCATO

MAKING@POLIMI costituisce l’attività terminale della ricerca MakeFactory (makefactory.org/farb) e rappresenta la concretizzazione di un percorso di ricerca cominciato un anno prima (2013). La fase iniziale della ricerca si è caratterizzata per l’individuazione di una serie di esperienze di connessione tra design, making e fabbing. Questo lavoro preliminare ha consentito di isolare e descrivere alcuni modelli innovativi di ‘spazi del fare’ che sono stati analizzati in base al modello di governance e alle finalità economiche e quindi classificati in base al tipo di attività (profit-non profit) e al processo di creazione delle community che li gestiscono (top down e bottom up, Tab. 3.7). Da questi modelli sono stati individuati alcuni casi studio italiani e internazionali di Fab Lab, makerspace e laboratori di designer=impresa che sono stati poi approfonditi nei primi mesi del 2014

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 169 attraverso interviste realizzate in loco. Lo studio di questi casi è servito per progettare e organizzare Making@PoliMi.

SOGGETTO ISTITUZIONE DI CITTÀ FINANZIATORE ACCESSO RIFERIMENTO FAB LAB Amsterdam AMSTERDAM Waag Society (Holland) Pubblico Aperto Amsterdam JORIS LAARMAN LAB Joris Laarman (Holland) Privato Ristretto Mediterranean Academy Cava De’ MEDITERRANEAN of Architecture Tirreni FAB LAB (MEDARCH) (Italy) Privato Ristretto Museo di scienze Trento MUSE FAB LAB naturali Trento (Italy) Pubblico Aperto Torino FAB LAB TORINO Officine Arduino (Italy) Privato Aperto FAB LAB PISA Università di Pisa Pisa (Italy) Pubblico Ristretto Reggio Reggio Emilia Emilia FAB LAB R. EMILIA Innovazione (Italy) Pubblico Aperto Leuven FAB LAB LEUVEN KU Leuven (Belgium) Pubblico Aperto Vrije Universiteit Brussel, and Erasmus University College Brussels BXL FAB LAB Brussels. (Belgium) Pubblico Aperto Media Art & Design Faculty Genk - University College of Limburg and University Genk FAB LAB GENK College PXL (Belgium) Pubblico Aperto TIMELAB Vlamish community, Gent Pubblico Aperto Flanders Province and (Belgium) City of Gent.

Tab. 3.7 - Elenco dei Fab Lab, dei makerspace e lab intervistati durante la ricerca MakeFactory.

Making@Polimi si è sviluppata in un periodo limitato di tempo (60 giorni marzio-aprile-maggio 2014) partendo dalla selezione di cinque idee di sistema- prodotto da prototipare-fabbricare all’interno di un makerspace temporaneo organizzato nella Scuola del Design e infine promosse sul mercato. Il modello didattico e l’impianto organizzativo tradizionale del design workshop, che caratterizza la Scuola del Design (5 giorni intensivi di progettazione con un brief da sviluppare in un concept eventualmente prototipato), è stato reinterpretato nell’ottica della personal fabrication, grazie all’allestimento di un makerspace temporaneo all’interno della Scuola del Design. Il makerspace temporaneo è stato concepito come una maker facility che mette in rete una parte degli equipaggiamenti e delle competenze presenti nei laboratori di design (Modelli e Prototipi, Allestimenti, Moda, Virtual Prototyping, Photo e Movie) integrandoli con una serie di attrezzature in dotazione ai Fab Lab o ai Tech Shop (stampanti 3D, Frese CNC e Laser Cutter).

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 170 La configurazione del makerspace ha l’obiettivo di mettere in condizione i designer/team di progetto di materializzare un prodotto seguendo le regole e le linee guida progettuali e produttive stabiliti dall’iniziativa.

MAKING@POLIMI: LE REGOLE DEL GIOCO. Per l’iniziativa è stato messo a punto un bando, una open call aperta 30 giorni, per selezionare sei progetti proposti da altrettanti team multidisciplinari i cui componenti hanno competenze nel campo dell’autoproduzione, della progettazione, dell’open design, dell’interaction design e del design generativo, delle tecnologie per la fabbricazione analogica e digitale. Unico vincolo è che ciascun progetto (inedito sul mercato) doveva essere realizzato in cinque giorni utilizzando le tecnologie fornite dal makerspace temporaneo e quelle presenti nella rete dei laboratori di design. I progetti potevano appartenere a diverse merceologie ed essere concepiti come come pezzi unici o, al contrario, per essere pubblicati in rete e realizzati in forma distribuita (open design) anche attraverso processi di design generativo. Potevano riguardare anche oggetti interattivi, wereable technology e smart thing collegati a servizi digitali oppure strumenti e dispositivi analogici/digitali da utilizzare per produrre altri artefatti. Il bando prevedeva anche un piccolo budget per coprire i costi di realizzazione dei diversi progetti (o parte di essi). Alla selezione hanno partecipato diciotto team e sono stati selezionati sei progetti (Tab. 3.8).

GRUPPO PROGETTO Lorenzo Frangi GOLIATH is an authonomous robot on wheels able to move and cut, mill or Davide Cevoli carve different kind of surfaces, allowing to overcome common problems Lorenzo Ferrari related to the dimensional limitations of the CNC tools, while helping restoring the value of manual experience. Antonio Cavadini LUMANOISE is a type of LDR synth based on a simple electronic circuit, to create square wave oscillators, saw-tooth and a low-pass filter. The pitch of such oscillator is ruled by the amount of light it receives through a photo- resistor (LDR), the more the light is projected the higher the pitch. This project then aims to experiment with alternative solutions for the design of the shell. Carlo D’Alesio MEG is the first automated and open source greenhouse, created to allow a Massimo Difilippo community of worldwide growers to share information about their crops. The Piero Santoro project Breaking MEG involves creating a hackathon of the Open Source project MEG.

Studio Habits: NATURAL DIGITAL GREENHOUSE is an irrigation and lighting system for Innocenzo Rifino indoor plants, connected to a database of behaviours via Bluetooth and Wi Fi. Diego Rossi Mauro Piatti Michele Tenca Alessandro Crespi Mauro Bergamaschi MALACODA is an enduro mountain bike frame entirely made of carbon. The Matteo Bricola project will be testing a new junction method of the frame parts, which will exploit flat surfaces rather than tubular.

Nathalie Bruyère LIQUID BLOCK aims to realise big inlayed wooden and customizable plates, Pierre Duffau made with a generative design processes. Cécile Laporte Irina Pentecouteau

Tab. 3.8 – Descrizione dei progetti di Making@Polimi

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 171

LA SETTIMANA DEL WORKSHOP. Durante i cinque giorni di Making@PoliMi (5-9 maggio 2014), i progettisti hanno realizzato i propri prodotti lavorando fisicamente nel makerspace temporaneo allestito alla Scuola del Design a diretto contatto con i laboratori. I progetti erano stati precedentemente impostati dai designer e ne era stata verificata la fattibilità di massima. Non c’era comunque certezza dell’esito. Un gruppo di docenti, tecnici e ricercatori del Politecnico di Milano ha fornito ai progettisti supporto tecnico e progettuale. Al termine della settimana workshop i progetti sono stati presentati al pubblico durante un evento pubblico chiamato Pop-Up Makers organizzato insieme all’associazione di makers WeMake (associazione.wemake.cc/). Tutto il processo è stato accuratamente documentato per consentire ai designer di avere il materiale necessario per preparate video per la presentazione dei progetti a campagne di crowdfunding e iniziative d’incubazione.

Fig. 3.21 – l’esposizione dei produttori di stampanti 3D organizzata in occasione di Making@PoliMi.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 172

Fig. 3.22 – Il Makerspace temporaneo allestito nel patio della Scuola del Design, Politecnico di Milano

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 173

Fig. 3.23 – Il sistema Liquid Block per oggetti casalinghi componibili. Fig. 3.24 – Il sistema per growing MEG creato hackerando un carrello portavivande della KLM.

#3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 174 Fig. 3.25 – Il sistema d’irrigazione e coltura domestica Natural digital greenhouse. Fig. 3.26 – Il telaio in carbonio artigianale della bici Malacoda. Fig. 3.27 – Il sintetizzatore luminoso ‘The Lumanoise’. Fig. 3.28 – Il drone utensile Goliath.

Fig. 3.29 – La presentazione finale dei progetti durante il Pop-Up Makers.

CONSIDERAZIONI FINALI. Making@PoliMi ha consentito di svolgere una doppia verifica: da un lato ha permesso di appurare come vi sia una chiara complementarietà tra making e design e, dall’altro, ha dimostrato come le risorse produttive verticalmente specializzate del sistema dei laboratori unite a uno spazio produttivo connettivo siano potenzialmente in grado di supportare processi di microproduzione all’interno di ambienti non dedicati. La visione genuina, che ha alimentato l’esperienza Making@PoliMi8 ha provato a ribaltare il tradizionale rapporto tra design e industria che esiste nella Scuola del Design per tentare la ‘terza via’ della microproduzione: mettere i designer nella condizione di poter produrre da sé (autoprodurre) progetti che, altrimenti, avrebbero forse poche concrete opportunità di vedere la luce.

8 Making@PoliMi e tutti i suoi progetti sono stati selezionati per partecipare alla MakerFaire 2014 (3-5 ottobre 2014). #3 | DESIGN E MICROPRODUZIONE 175 #4 STORIE DELLA MICROPRODUZIONE

4.1 UNA MAPPA FENOMENOLOGICA (IN PROGRESS) SU 100 CASI DI DESIGNER=IMPRESA

4.1.1 METODO E STRUMENTI D’INDAGINE

Partendo dal presupposto che il design per la microproduzione è considerabile come un fenomeno emergente di carattere sistemico, il problema da porsi riguarda la sua osservazione (Morin, 2002). Il compito è dunque quello di leggere un comportamento emergente dal punto di vista qualitativo. L’idea (e il tentativo) di realizzare un’osservazione più sistematica all’interno di quest’ambito è motivata da quattro questioni: o fissare un punto di osservazione – quello del design – all’interno del più ampio tema del cambiamento dei modelli di produzione, un contesto magmatico, instabile e in continua fase di ridefinizione; o costruire la prima versione di uno strumento che possa consentire di leggere in modo dinamico (in progress) e in chiave sistemica il fenomeno del design per la microproduzione dalla prospettiva del design; o strutturare una casistica di riferimento attualmente frammentata; o verificare la fondatezza di alcune ipotesi teoriche sulla figura del designer=impresa e sulla sua attività di microproduttore.

Per realizzare una lettura fenomenologica più approfondita, in mancanza di dati quantitativi scientifici consolidati, la ricerca si è concentrata sull’individuazione di metodi di ricerca qualitativa da compiere però su un insieme ampio di casi tale da fornire anche un primo seppur parziale riscontro numerico del fenomeno (l’ottica sistemica). I metodi di ricerca qualitativi condotti con tecniche e strumenti come le interviste o l’osservazione partecipata non sono stati ritenuti idonei e praticabili nella prima fase dello studio (le interviste sono state condotte successivamente su un numero ristretto di soggetti a partire dai risultati della lettura fenomenologica) su un campione di soggetti locali (perché la lettura non è significativa) che internazionali (perché il fenomeno è ancora troppo ‘disperso’ e quindi ci vorrebbe troppo tempo per interagire con i soggetti da studiare).

L’approccio scelto è stato quello di concentrarsi pragmaticamente sull’individuazione e lo studio di alcune esperienze scientifiche di studio dei fenomeni emergenti condotte su soggetti in condizioni simili a quelle dei microproduttori e su temi prossimi al design.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 178 Da un breve lavoro di studio realizzato su specifiche fonti bibliografiche relative ai metodi di ricerca è emerso come prima indicazione che l’esplorazione dell’attività digitale dei designer=impresa potesse essere un punto di partenza per indagare e analizzare la loro attività professionale. Internet offre la possibilità di verificare in poco tempo un ampio numero di casi di progettisti (con una buona distribuzione geografica) che, stante le ipotesi di ricerca, dovrebbero avere tutto l’interesse a promuovere o mostrare la propria attività in Rete. Con questa impostazione altre indicazioni sono emerse come utili per condurre il lavoro di mappatura sul design per la microproduzione: o applicare un metodo e uno o più strumenti di digital etnography (Kozinets, 2002)1, nello studio puntuale dell’attività progettuale dei D=I a partire dall’analisi di un insieme di diversi contenuti digitali (Fig. 4.1); o bilanciare i metodi della digital etnography, principalmente focalizzati sullo studio delle attività online svolte dalle community, con elementi e aspetti provenienti da altre attività di studio focalizzate sullo studio di community e attività più prossime al mondo del design e con un saldo ancoraggio nel mondo della produzione di beni e servizi.

HYPOTHESYS ENTREE IMMERSION AND ANALUYSIS & DEVELOPMENT OBSERVATION REPORTING

Problem statement and Define search terms Longitudinal monitoring Text mining associated questions based on hypothesis of identified discussion, Drill down with sites Team planning Conduct initial search examples Recording of Explore and identity Interpretation observations online communities Persona Development for netnography immersion Ensuring ethical standards

Tab. 4.1 – Un processo di Netnography utilizzato per realizzare ricerche di mercato.

L’approccio alla mappatura dei designer=impresa è stato quindi concretamente impostato e tradotto in un’attività di coolhunting che potesse combinare desk analysis (websurfing, social networking, blog) con l’osservazione visiva dei contenuti prodotti dai designer=impresa (utilizzando spesso immagini fotografiche e/o video a supporto delle ricerche) ibridata con alcuni elementi mutuati dall’impostazione generale di una best practice come THE CUSTOMIZATION 500, uno studio internazionale sulla customizzazione e la personalizzazione nell’e-commerce, uno studio diretto da Dominik Walcher e Frank T. Piller che fornisce periodicamente una lettura sullo stato dell’arte della mass customization e della personalizzazione in Internet (Tab. 4.2).

1 Per una trattazione completa sui metodi e gli strumenti per la digital etnography si rimanda all’opera Robert V. Kozinets in particolare a queste due opere: Kozinets, Robert V. (1998), “On Netnography: Initial Reflections on Consumer Research Investigations of Cyberculture,” in Advances in Consumer Research, Vol. 25 e Kozinets, Robert V. (2010), “Netnography: The Marketer’s Secret Weapon” White Paper.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 179 Dal punto di vista metodologico durante la fase di messa a punto e utilizzo di questi due metodi è stato necessario apportare alcuni aggiustamenti, cercando di mantenere un’impostazione quanto più possibile chiara e rigorosa di una lettura che si configura come qualitativa (e minimamente quantitativa).

THE CUSTOMIZATION 500 (http://www.mc-500.com/)

THE CUSTOMIZATION 500 è lo studio di riferimento più completo al mondo nel campo della mass customization e confronta 500 sistemi di configurazione online e le loro offerte di personalizzazione. Lo studio è diretto dai professori Dominik Walcher, Università di Scienze Applicate di Salisburgo, e Frank Piller, MIT Smart Customization Group e RWTH Aachen e ha l'obiettivo di fornire una vetrina con lo stato dell’arte stato sull’evoluzione della mass customization e della personalizzazione in internet. Lo studio fornisce un quadro completo sulle caratteristiche del mercato della mass customization e osserva da vicino la capacità delle imprese di interagire con i consumatori sviluppando un offerta di co- design personalizzata. Le fasi di questo studio possono essere sintetizzate in (1) Raccolta, (2) Classificazione, (3) Descrizione e (4) Valutazione.

METODOLOGIA. La ricerca ha individuato prima le dimensioni da

analizzare e valutare con gli esperti che poi sono state raffinate, pre-testate

e codificate con uno strumento per il sondaggio online. Ogni singolo web di mass customization doveva essere valutato valutato da almeno tre esperti indipendenti. Questa procedura è ritenuta necessaria per garantire la cosiddetta affidabilità inter-rater, che è la misura comune per la qualità dei dati. Accanto a questa procedura lo studio ha cercato di utilizzare dati oggettivi e quindi misurabili relative al numero di opzioni invece di inserire troppe misure soggettive, dove un pregiudizio non può essere totalmente eliminato. Le valutazioni hanno avuto luogo in tre fasi. Nella prma fase gli indirizzi Internet di tutti i 500 siti di MC sono stati assegnati in modo casuale ai valutatori. Il primo compito era quello di raccogliere informazioni di base sulla società e sulla storia e le caratteristiche dello strumento di mass customization. Nella fase successiva ai valutatori è stato chiesto di identificare le categorie di prodotti offerte dalla società con il modello della MC (massimo 4) scegliendo il prodotto più personalizzabile e testando in prima persona lo strumento per la mass customization. Ai valutatori è stato infine chiesto di fornire uno screenshot con il logo dell’azienda e una tipica scena di configurazione prodotto. In parallelo alla ricerca è stato fatto anche un lavoro complete di ricerca completa con Google inserendo diverse parole chiave. Come risultato di questa raccolta di dati, abbiamo raccolto una lista di più di 1.000 diverse offerte di Mass Customization. Dopo lo screening era risultato che circa 600 corrispondevano ai requisiti, mentre la ricerca mostrava anche come dato sorprendente come vi fosse un elevato numero di imprese (17 su 100 imprese) che in poco tempo erano già uscite da questo nuovo mercato.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 180 Configuratore online Nike ID

Tab. 4.2 – Scheda sintetica dello studio ‘The Customization 500’. L’incrocio tra questi due differenti approcci di ricerca pone inevitabilmente due nodi metodologici da sciogliere:

o la relazione tra dati qualitativi e quantitativi in una ricerca prevalentemente qualitativa. L’obiettivo principale di un’indagine netnografica è reperire informazioni qualitative sull’attività del designer- produttore attraverso un’attività di ricerca sul web e di osservazione sulle comunità online che frequenta o su cui produce contenuti come i social media. I dati e le informazioni sui casi sono stati in due modi: reperimento di una parte dei contenuti prodotti dal designer o da altri soggetti sul web messi in relazione con quelli prodotti da altri designer e prendendo nota delle attività svolte dal designer. La relazione con il metodo di Customazion 500 sta nel provare a ottenere dati qualitativi su un numero significativo di casi, in questo caso non per fare un benchmark tra designer ma per qualificare l’attività di design per la microproduzione rispetto ad altri ambiti. Un altro aspetto chiave riguarda l’osservazione prolungata dei soggetti nelle netnografie, con la necessità di monitorare i dati il più a lungo possibile prima che i risultati dell’indagine vengano in qualche modo sintetizzati. Da questo punto di vista è stato costruito un ‘database-diario digitale’ in formato Excel (che sarà trasferito in un blog denominato FabLand) su cui sono stati progressivamente inseriti tutti i casi di designer individuati durante l’intero periodo della ricerca annotando le informazioni più importanti sull’evoluzione delle attività.

o la scelta, validazione e valutazione dei casi e dimensioni da analizzare. Trattandosi di un fenomeno ancora più emergente rispetto alla mass customization (per certi aspetti ne è l’estremizzazione) l’individuazione delle dimensioni da analizzare è evoluta contestualmente a quella dei casi da osservare. Le dimensioni da analizzare sono emerse dal precedente lavoro di literature review e sono state applicate come categorie all’insieme di casi identificati. Il lavoro di valutazione e validazione dei casi è avvenuto basandosi sul lavoro forma diretto e indiretto e indiretto svolto da un

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 181 insieme di esperti e studiosi di design e microproduzione.2 La combinazione incrociata di articoli, opinioni qualificate esercizi di valutazione svolti durante alcune attività di didattica avanzata e di ricerca di base condotte su questi temi hanno consentito di ridurre gli elementi di soggettività, parzialità e inattendibilità.

Durante il lavoro di inquadramento e prima lettura fenomenologica è stato isolato un primo gruppo di circa 30 progettisti e creativi che utilizzavano in modo originale e innovativo strumenti, tecniche e tecnologie di fabbricazione con lo scopo di sviluppare autonomamente processi di micro e autoproduzione. Questi processi sono stati inizialmente definiti dalla ricerca come “… un insieme di attività personali individuali e/o collettive finalizzate alla materializzazione di artefatti concepiti come pezzi unici o microserie (nell’ordine delle decine di unità) caratterizzati da una rilevante riduzione della scala e da forme di utilizzo ‘facilitate’ delle tecnologie di produzione”.

Il nucleo iniziale di light cases è stato implementato attraverso un continuo lavoro di coolhunting. Trattandosi di un fenomeno ancora povero di una casistica strutturata e stabilizzata e di una letteratura scientifica di riferimento, dal 2011 al 2014 è stata condotta una ricerca sistematica di casi attraverso un’attività di desk analysis, conversazioni e interviste con personaggi chiave3, visite a eventi e manifestazioni internazionali (che lavoravano su temi contigui alla ricerca dottorale) che presentavano casi di progettisti e creativi impegnati in vario modo in attività di micro e autoproduzione (Tab. 4.3).

EVENTO (ANNO / LUOGO) BREVE DESCRIZIONE DESIGN AND THE ELASTIC MIND “Design and the Elastic Mind explores the reciprocal relationship (2008 / New York) between science and design in the contemporary world by bringing together design objects and concepts that marry the most advanced www.moma.org/interactives/exhibitio scientific research with attentive consideration of human limitations, ns/2008/elasticmind/ habits, and aspirations. The exhibition highlights designers’ ability to grasp momentous changes in technology, science, and history—changes that demand or reflect major adjustments in human behavior—and translate them into objects that people can actually understand and use. This Web site presents over three hundred of these works, including fifty projects that are not featured in the gallery exhibition.” ANNUAL INTERNATIONAL FAB It is the annual international Fab Lab forum which gathers fab lab CONFERENCE managers, core members, FAB researchers and reflective practitioners (from 2004 / Various cities) from the global Fab Lab network and beyond, for a week of dialogue sessions, hands-on workshops and a one-day symposium offerd by global fablab network. It is an opportunity for the network to come together and share best practice, as well as plan for the future.

2 Una serie di casi sono stati individuati, discussa e validata attraverso un lavoro collettivo organizzato in un Laboratorio di Sintesi Finale intitolato del Corso di Laurea in Design del Prodotto intitolato ‘Autoproduzioni’ (http://www.newitalianlandscape.it/designduepuntozero/) e attraverso la ricerca FARB – Make Factory (http://www.makefactory.org/farb/). 3 Interviste e conversazioni a Valentina Croci (organizzatrice evento Open Design Italia); Paola Zini (organizzatrice evento Operae); Enrico Bassi (manager Fab Lab Torino); Massimo Menichinelli (manager Aalto Fab Lab – Helsinki); Francesco Bombardi (Fab Lab Reggio Emilia); Fabien Mieyeville (IDEA Fab Lab - Universitè de Lyon); Alex Schaub (manager Waag Fab Lab – Amsterdam) - Peter Troxler.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 182 TECHNOCRAFT: HACKERS, The exhibition explores the disappearance of the border between the MODDERS, FABBERS, TWEAKERS designer and the consumer. The exhibited designers span many AND DESIGN IN THE AGE OF continents and decades, including Max Lamb, Enzo Mari, 5.5 Designers, INDIVIDUALITY Studio Makkink and Bey, Martino Gamper. (2010 / San Francisco)

CREATE YOUR OWN The CYO 2011 has been explored the reality and future behind (2011 / Berlin) individualisation, co-creation, and personalisation — mega trends that are shaping the European consumption landscape. The event has been masscustom.info/blog/2011/04/ co-organized by a consortium of European companies and research institutes in the field of mass customization. LAB CRAFT – DIGITAL The Crafts Council exhibition features 26 makers who combine the ADVENTURES hand, mind and eye, technical mastery of tools and material and aesthetic IN CONTEMPORARY CRAFT sensibility, with cutting-edge digital technologies such as rapid (2012 / London) prototyping, laser cutting, laser scanning and digital printing. The exhibition shows a new visual language which involves manipulating, http://www.labcraft.org.uk/ distorting and exploiting the parameters of digital software and fabrication tools. These tools enable the production of objects that move beyond the limitations of the hand. DIGITAL MAKERS CNA Next – CNA Giovani Imprenditori organizza annualmente un (Dal 2012, Firenze) evento dedicato alla valorizzazione della figura dell’artigiano digitale. L’evento prevede una settimana di iniziative sull’innovazione, sui http://www.cnanext.it/1218-2/ giovani, sul lavoro collaborativo, sulla formazione, sui Digital Makers, sull’Agenda Digitale Italiana e sui nuovi media. THE-MACHINE: The Machine Exhibition shows how new machines will shape our lives DESIGN A NEW INDUSTRIAL and our society in the future. The industrial revolution was a revolution REVOLUTION of engineers. Now, it is designers who are ushering in a new revolution. (2012, 2013 / Genk, Rotterdam, Tools, materials and systems have become facets that contemporary Eindhoven) designers are appropriating to suit their own purposes. Designers work in networks that enable them to develop new materials, the-machine.be/en their own machines and systems. They are seeking out ways of producing and distributing their work themselves. These developments offer an alternative to mass production, but also point to different ways of organising our economy and society. The aim of The Machine is to shed light for viewers on this new industrial revolution by designers in an interactive way. C-FABRIEK: PRODUCTION LINES C-Fabriek is a collection of young designers reclaiming control over their FOR THE NEW FACTORY creations. Within an empty factory in Eindhoven they create their (2012 / Milan) individual production line, machines, tools and products; re-establishing a relationship with their audience. The C-Fabriek is a studio/workplace / c-fabriek.nl museum/gallery/shop. A place where designers work and create, but also, present their processes and methods to the public. By doing so they suggest alternatives to industrialization, production and consumption. INDUSTRIOUS|ARTEFACT: The Zuiderzee Museum in Enkhuizen has organizing the exhibition to THE EVOLUTION OF CRAFT shows how historical crafts in the former Zuiderzee region have evolved (2012 / Amsterdam) and how they influence contemporary design and industrial processes. Own small industries. The exhibition examines the development of the zuiderzeemuseum.nl craft by demonstrating interrelationships between production processes from the past of the Zuiderzee and contemporary translations of tailor- made industry. In the past few years, attention has been increasingly devoted to the design process, the action. Within that process, artists and designers create their own crafts and their own small-scale industries or artefacts. Moulds and machines. The exhibition provides a platform for national and international designers who display, in a broad sense, the evolution of crafts and artefacts in their work. OPEN DESIGN ARCIPELAGO: Domus Magazine has presented an exhibition of open design and digital THE FUTURE IN THE MAKING manufacture that puts control of production processes in the hands of (2012 / Milan) designers and consumers.

(IN)VISIBLE DESIGN (In)visible Design shows 100 stories from the Future and Beyond: an (2013 / Milan) exhibition/event for exploring how change is a matter of subtle,

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 183 indiscernible, invisible transformations, today and even more so www.invisible-design.it/ tomorrow. From the micro-transformations in our daily lives to the macro-transformations in our society and economy, (In)visible Design investigates today’s complex scenarios in order to anticipate their impact on our future. A great collective exhibition and a business event about innovation, both composing a mosaic of design as a resource for bringing into existence what does not yet exist, for making real what is still too abstract, for shaping what is still shapeless. THE LIVE FACTORY – MAKE MY Royal Academy of Art, The Hague has presented the exhibition Live DAY Factory Make My Day at the Salone Internazionale del Mobile in Milan. (2013 / Milan) The Exhibition consisted of three closely connected zones, which explored various notions of th production process. The human body and www.kabk.nl/milano2013.php?id=066 the relationship between the human body and its surrounding space are 5 the connecting themes in the Live Factory. Students and alumni of the Royal Academy of Art experimented with raw materials, techniques and forms in the Live Factory production line. LINKING PROCESS The exhibition often show final results and finished designs, the process (2013 /Milan) of getting there stays hidden. This overlooks the beauty of creation and ignores the relevance of development and innovation when a design is http://www.designacademy.nl still unfinished. Crucial links to the public, the industry, co-creators, manufacturers, producers and many others are formed during ‘the making of’. The phase of concept development, trial and error, sketching, building and rebuilding leads to new discoveries and cross-overs. The sooner these findings are shared with others, the better the chances of success. Valuable networks can grow from the early stages of the design process, boosting the potential of a single concept. LINKING PROCESS showcases this potential and focuses on the route to the final piece. This revealing exhibition displays not only the end result, but also the underlying ‘invisible’ design steps of 60 graduates, forging new links between their work and the world. THE FUTURE IS HERE: Design Museum has collaborating with the UK’s innovation agency, the A NEW INDUSTRIAL REVOLUTION Technology Strategy Board, to deliver a major new exhibition about the (2013 / London) sweeping changes in manufacturing that are transforming our world. New manufacturing techniques will involve the users of products as the-future-is-here.com/topic/all never before, revolutionising the role of the consumer. How we manufacture, fund, distribute, and buy everything from cars to shoes is progressing fast. The Future is Here shows what that means for all of us. The boundaries between designer, maker and consumer are disappearing with a growing movement of ‘hacktivists’, who share and download digital designs online in order to customise them for new uses. In a highly experimental move the museum will house the first ‘Factory’ of its kind where visitors can discover how 3D printing works and witness live production. The exhibition looks at what exactly drives innovation and how it can lead to increased productivity and economic growth. A visit will reveal how the new industrial revolution has the potential to affect everyone, radically altering our attitudes to the pace of change driven by new technology. It is the role of designers and the design process to participate in exciting new technologies, so that more people than ever before can take part in the production of our physical world. OPERAE – INDIPENDENT DESIGN Operae is three days event dedicated to independent design. As it reaches FESTIVAL its fifth edition, Operæ has become a key appointment in the Italian (Dal 2010 / Torino) design agenda. A real performing stage for young designers and new talents, as well as for well-known designers. Each year Operæ offers the http://operae.biz/ chance to delve into contemporary design trends, to look closely at manufactured products of the third millennium, and search for the links between design, new production processes, society and business. OPEN DESIGN ITALIA – IN THE Since 2010, Open Design Italia is a market-exhibition on self-production, MAKING which is a designing process in which the creative activity (planning, (Dal 2010 / Modena, Bologna e thinking) is directly linked to the production activity. It is aimed at

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 184 Venezia) designers, fashion designers, artists, makers, craftsmen and companies and/or studios who propose objects for which they conceive and http://opendesignitalia.net determine all the production and distribution phases of the product. Open Design Italia selects products that offer a high narrative value by conveying the know-how needed for their production and by favoring the short supply chain; such objects should clearly emphasize the collaborations between the designers and the local enterprises and craftsmen who took part in the production. Open Design Italia 2013 has been focused on the networking activities between self-producing designers, entrepreneurs and sector institutions by encouraging meeting opportunities aimed at improving the projects, at creating new production partnerships and at building new distribution channels. FABRICATE Fabricate is organised by the Professorship for Architecture and Digital (Dal 2013 / Zurich) Fabrication of ETH Zurich in collaboration with the Bartlett School of Architecture, University College London. is bringing together www.fabricate2014.org/ researchers and practitioners in design and making within architecture, construction, engineering, design, manufacturing, material and software design. Reviewed by an international panel of experts, projects presented at the conference have been selected through a call for work. An international publication and exhibition will complement the conference. FABRICATE 2014 will disseminate selected work alongside a series of thematic essays by world leading architects and engineers. Submissions of all scales and stages of realisation have been welcomed. SOURCE – SELF MADE DESIGN Source born from the idea of giving a new space for creativity and youth (Dal 2013 / Firenze, Milano) in Florence. An exhibition of self-made design, debates, conferences, workshops, meetings, lectures in order to give to the audience the www.sourcefirenze.it possible future scenarios on production. The event will provide space for about forty creative designers – Italian and international – who will attend presenting from one to three items each one. Participation is free because we believe that young people need accessible space, in order to invest their energies in research and innovation, and because this allows us to select only quality projects. The self-production for us is a form of research which companies should increasingly look at with curiosity and interest. Among goals of the event, there is the desire to make easier the meeting between designers, craftsmen, traders and companies, in order to stimulate a debate on different design subjects and intrigue the audience of non-experts. ADHOCRACY The exhibition explores a new direction in contemporary design through (2013 / New York) twenty-five projects—presented through artifacts, objects, and films. In the place of standardized, industrialized perfection, the exhibition www.newmuseum.org/exhibitions/vie embraces imperfection as evidence of an emerging force of identity, w/adhocracy individuality, and nonlinearity in design. As design welcomes the new technologies of the information age, the field itself is being reshaped. Some have built their practice around the collaborative ideology of the open source movement; others explore the opportunities opened up by new low-cost fabrication technologies. Some are exploring new economic models of production; others are challenging the established hierarchies between designers and end-users. MAKER FAIRE ROMA – THE The Maker Faire is the greatest show (and Tell) on Earth – a family- EUROPEAN EDITION friendly showcase of invention, creativity and resourcefulness, and a (2013-2014 / Roma) celebration of the Maker movement. It’s a place where innovators show what they are making, and share know-how about technology and craftsmanship.

Tab. 4.3 –Eventi e manifestazioni analizzate per l’individuazione del campione di designer=impresa.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 185

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 186

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 187

Fig. 4.1 (a,b,c,d,e,f,g) Mostre per designer impresa: Design and the Elastic Mind (MoMa, New York, 2008); C-Fabriek organizzata da Design Academy Eindhoven nel 2012; Open Design Arcipelago – The Future in the making (Salone del Mobile, Milano, 2012); European Maker Faire di Roma nel 2013, prima edizione; Operae, la mostra mercato del design autoprodotto a Torino (edizione 2012); Live Factory e Linking Processes, le due mostre organizzate da Royal Academy of Art de L’Aia e Design Academy Eindohven per il Salone del Mobile di Milano 2013.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 188 Altri casi isolati di designer=impresa sono stati aggiunti estendendo il lavoro d’indagine ai progetti pubblicati sulla piattaforma online della rivista Make, sulle piattaforme per il crowdfunding Kickstarter e IndieGoGo e sui marketplace per la microproduzione come OutGrow dove però la presenza del design era fortemente subordinata al tema del making, delle tecnologie di fabbricazione o dello start-up imprenditoriale. Questo metodo ha verificato come in poco tempo vi sia stata una forte concentrazione di iniziative che avevano (e hanno) l’obiettivo di comprendere da varie prospettive cosa stia accadendo in relazione al tema del cambiamento dei modelli di produzione. Il metodo di selezione ha permesso di individuare i casi partendo da una base precedentemente ‘filtrata’ dal lavoro di importanti istituzioni culturali e scientifiche, alcune delle quali appartenenti al mondo del design. La maggior parte degli eventi considerati è stata organizzata da importanti musei come MoMa e London Design Museum, faceva parte di importanti manifestazioni come il Salone del Mobile di Milano e il London Design Festival, era stata organizzata e curata da studiosi di fama internazionale come Paola Antonelli, Li Edelkoort, Neil Gershenfeld, Fiona Ruby e Anthony Dunne, Stefano Micelli o da scuole e università come Royal College of Art London, Design Academy Eindhoven, ETH Zurich, IaaC Barcelona, MIT Center for Bits and Atoms a cui è riconosciuta una leadership sui temi affini alla microproduzione. Sistematizzando le informazioni sui concept delle iniziative individuate sono emersi degli ‘addensamenti tematici’, alcuni dei quali saranno verificati trasversalmente nella successiva attività di mappatura dei casi: o la trasformazione delle merci: dalla standardizzazione e la perfezione industriale all’idea di artefatti unici, individuali, caratterizzati dalla mancanza di una linearità progettuale. o la relazione tra design, produzione materiale e produzione d’informazione/conoscenza: l’utilizzo dei dati come elemento di progetto, la possibilità/opportunità di generare, scambiare (più o meno liberamente) informazioni relative al design e ai processi di produzione e il valore sociale, culturale ed economico legato alla condivisione e diffusione delle conoscenze sul know-how progettuale e produttivo; o la relazione tra design, ideologie collaborative ed etica professionale: Il tema dell’accesso condiviso ai contenuti e alle risorse per la progettazione e la produzione (open design e open hardware); il tema del controllo dei processi di produzione quando passa nelle mani dei designer e dei consumatori; l’utilizzo di tecnologie che comportano l’esplorazione o la ridefinizione dei limiti etici del progettista. o la relazione tra design e tecnologie di fabbricazione/produzione: il cambiamento delle attitudini del progettista grazie al diretto utilizzo delle tecnologie produttive; la connessione diretta e contestuale tra l’attività creativa (pianificazione, programmazione e progettazione) quella produttiva; l’interazione del progettista con le nuove tecnologie e i nuovi spazi di produzione, la capacità dei progettisti di sperimentare

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 189 in prima persona i cambiamenti nella tecnologia e nella scienza e di tradurli in processi di innovazione indipendenti. o la relazione tra design e nuovi modelli economici di produzione. La necessità di individuare nuovi modelli di connessione tra micro e autoproduttori, piccole imprese e artigiani per creare nuovi tipi di network e filiere. o la ridefinizione delle relazioni (e delle gerarchie) tra designer, imprese e utenti finali: la scomparsa delle nette distinzioni tra designer, maker e consumatori e la costruzione di un sistema di relazioni dirette che si costruisce con i consumatori e il mondo della produzione tradizionale produttiva (il making of) e distributiva.

4.1.2 UNA MAPPA SULLA MICROPRODUZIONE DEI DESIGNER=IMPRESA

L’attività di analisi ha portato alla creazione di un database con 109 light cases, adottando i seguenti criteri di selezione: o soggetti che presentavano un interesse prioritario ed esplicito per i processi di fabbricazione avanzata e produzione distribuita; o soggetti che sono stati selezionati a più eventi tra quelli analizzati; o soggetti che hanno realmente materializzato i loro artefatti attraverso processi di microproduzione permanenti o anche temporanei e sperimentali.

DESIGNER=IMPRESA PROGETTO ANNO PAESE

1 Mischer'Traxler Studio The Idea of a Tree 2009 Austria

2 Julian Bond Pixel Vases 2010 UK

3 Donna Franklin & Gary Cass Micro’be' (fermented fashion) 2012 Australia

4 Tejo Remy & Renee Veenhuizen Concrete Chair 2010 Holland

5 Filippo Sironi (Sinori Design) Sinori Percussion 2008 Italy

6 Noe Officine Aluminium Hardshells Metal guitars 2001 Italy

7 Andrea Cattabriga Slowd - Design a KM0 2011 Italy

8 Jane ní Dhulchaointigh Sugru 2008 UK

9 Ronen Kadushin Eclipse Light (open design object) 2005 Germany

10 Droog Design Lab Design for Download (Box-o-rama) 2011 Holland

11 Fattelo! Fattelo Lamp 2012 Italy

12 LMBRJK Sadl Stool n.a. Belgium

13 Avund Avund Leather Goods 2012 USA

14 Daan Brandenburg Made in Brabant 2012 Belgium

15 Dirk Van Der Kooij Endless Flow 2010 Holland

16 Thomas Maincent Spider Farm V1 e V2 2011 Belgium

17 Dae Kyung Ahn Microfactory Mow 2009 UK

18 Studio LO FabBot 2010 France

19 N-e-r-v-o-u-s System Nervous Jewels 2007 USA

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 190 20 Diatom Studio SketchChair 2011 UK/New Zealand

21 Front Design Sketch Furniture 2006 Sweden

22 Joris Larmaan Lab MX3D-Metal / MX3D-Resin (Mataerial) 2011 Holland

23 Studio:Ludens Design Tools (Pattern Making) 2011 Holland

24 Enrico Dini D-Shape 2010 Italy

25 Studio Homunculus Haptic Intelligentsia 2012 Holland

26 ToDo Spamghetto 2010 Italy

27 Ammar Elouini CoReFab 2007 France/USA

28 CasualData NewsKnitter 2007 Turkey

29 Susanne Stauch Isopt 2008 Germany

30 Lazerian Mensa Collection 2009 UK

31 Michael Eden Eden Ceramics 2008 UK

32 Gareth Neal Anne Table 2008 UK

33 Gary Allson Woven Wood - Making it digital 2010 UK 34 Shapes in Play Fabbrica Lamps 2010 Germany

35 Zachary Eastwood Bloom Information Ate My Table 2010 UK

36 Markus Kayser SolarSinter 2011 UK

37 Open Source Ecology Global Village Construction Set 2003 USA

38 Wikihouse Wikihouse 2012 UK

39 Atelier NL PolderCeramics 2008 Holland

40 Studio Libertiny Made by Bees 2007 Holland

41 Raw Color Cryptographer & Encoded Textiles 2012 Holland

42 Phil Ross Yamanaka Furniture (Mycotecture) 2012 USA

43 Trikoton The Voice Knitting Machine 2007 Germany

44 Christian Fiebig Computer augmented Craft 2010 Germany

45 Will Shannon The particle board Factory 2011 UK

46 Oskar Zieta Plopp Stool (FIDU technology) 2007 Poland

47 Marloes Ten Bomer RotationalMouldedShoe 2009 UK

48 Elisa Strozyk Wooden Textile 2011 Germany

49 Sonja Baeumel Crocheted Membrane 2009 Austria

50 Giulio Iacchetti InternoItaliano 2012 Italy

51 Reed Kram e Clemens Weisshaar My Private Sky 2012 Sweden/Germany

52 Ariane Prin From Here For Here #1 2011 UK

53 IFU - Instruction for USE IFU - Instructions for Use 2014 Italia

54 Johannes Hemann Storm series 2008 Germany 2006- 55 Max Lamb Pewter Objects 2011 UK

56 Myfirst Studio Myfirst Roto Moulder 2012 UK

57 Studio Swine The Sea Chair Project 2012 UK

58 Kieren Jones The Chicken Project 2012 UK

59 Suzanne Lee Bio Couture 2010 UK

60 Marjan Van Aubel The energy machine (Energy Collection) 2012 Holland

61 The Polyfloss factory The Polyfloss factory 2010 UK

62 Studio Shio Lights 2013 USA

63 Le Van Bo Hartz IV moebel (EuroChair 24) 2010 Germany

64 Annika Frye Improvvisation machine 2013 Germany

65 Unfold Design Studio L’ Artisan Electronique 2011 Belgium

66 Merel Karhof Wind Knitting Factory 2012 Holland

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 191 67 Zhang Zhoujie Digital lab 2011 China

68 Nicola Stäubli Indie Furniture 2011 Switzerland

69 Joni & David Steiner & FabHub Open Desk - Design for Open Making 2010 UK

70 Pia Design Processed Papers 2010 UK

71 Lucas Mullié & Digna Kosse Foodconvertors 2012 Holland

72 Eugenia Morpurgo & Juan Montero Don't Run (Beta) 2012 Italy/Spain

73 Laura Lynn Jansen (& Thomas Vailly) Inner Fashion 2013 Holland

74 Thomas Vailly Process Design Table Production Unit 2012 Belgium

75 Thomas Lommée Open Structure 2011 Belgium

76 Francesco Zorzi The Invisible Line 2012 Italy

77 Itay Ohaly The Creative Factory (02) 2012 Israel

78 Tristan Kopp ProdUSER - Become a Maker! 2012 France

79 Pieke Bergmans Illusion: printed wooden table 2013 Holland

80 Besau Maguerre MOA CNC 2010 Germany

81 LeeLABStudio Clocks 2012 UK

82 Zoe Romano Open Wear 2009 Italy

83 Matthew Plummer Fernandez Digital natives 2012 UK

84 Florian Schmid Stitching Concrete 2009 Germany

85 Sandy Noble Polargraph | Drawing by Robot 2011 UK

86 Fraser Ross DIY Pen 2008 UK

87 Studio Jo Meesters Redefining Genetics 2008 Holland

88 Stephen Siepermann Riptstool 2010 Holland

89 Assa Ashuach Assa Table Loop Light 2010 UK

90 Melanie Bowles The People's Print 2009 UK

91 Clare Page e Harry Richardson Lost Twin Ornament #2 2009 UK

92 Shelley Doolan Iteration 512 (Cast Glass) 2010 UK

93 Daniel O'Riordan Ripple Tank Table 2010 UK Glass investment casting 3D printed 94 Tavs Jorgensen moulds 2009 UK

95 Jo Hayes Ward Random Rings 2007 UK

96 Studio Habits Open Mirror - Digital Habits 2012 Italy

97 Archivio Design Lampade Laser 2013 Italy

98 Braam Geenen Gaudi Chair (Gaudi stool) 2011 Holland

99 Marteen Baas Clay furniture 2009 Holland

100 Eric Klarenbeek Mycellium Chair 2012 Holland

101 Olivier Van Herpt 3D printed shoes 2013 Holland Iris van Herpen, Neri Oxman, Julia 102 Koerner 3D printed fashion 2013 Holland/US/Austria

103 Great Thing To People (GT2P) Catenary Pottery Printer 2013 Chile

104 Lynne MacLachlan Bubble jewellery 2011 UK

105 Behrokh Khoshnevis Contour Crafting 2006 US

106 Sandro Gonnella Ozona 2006 Italy

107 FabTotum FABtotum 2012 Italy

108 Sosa Fresh (Oluwaseyi Sosanya) 3D Weaver 2014 UK

109 UntoThisLast UntoThisLast 2009 UK

Tab 4.4 – Il campione finale di designer=impresa considerato per l’analisi.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 192 Per ciascun caso di microproduzione sono state ricercate le seguenti informazioni: o storia, il profilo e il background del designer, il suo interesse, motivazione e approccio verso la microproduzione; o attività di microproduzione, per stabilire se è occasionale, temporanea oppure è un’attività fondamentale; o attività di design, per comprendere la filosofia, l’approccio progettuale, l’originalità degli strumenti i metodi e delle tecniche impiegati; o processo di produzione, sul possesso e l’impiego di tecnologie e risorse produttive, sulla capacità di progettare tecnologie e mezzi di produzione o di adattare/modificare tecnologie esistenti, sullo sviluppo di relazioni con altri soggetti produttori; o strategia distributiva e promozionale sul mercato, i canali di distribuzione e promozione, l’utilizzo strategico dei social media, il prezzo di vendita dei prodotti.

Per facilitare la classificazione delle informazioni attribuite ai singoli casi, soprattutto in riferimento all’approccio progettuale, alle caratteristiche del processo di microproduzione e agli elementi di innovazione, è stato utilizzato un insieme di termini e definizioni supportate da letteratura scientifica, alcune delle quali sviluppate durante la ricerca dottorale.4 Per ciascun caso analizzato è stato raccolto materiale documentale di tipo testuale, grafico e iconografico reperito principalmente sui siti Internet personali ma anche su articoli di design magazine e riviste scientifiche o monografie dedicate. Quando non è stato possibile raccogliere specifiche informazioni attraverso queste fonti il designer è stato personalmente contatto via mail o Skype. Grazie a quest’attività sono stati avviati contatti e relazioni con circa 50 designer5.

4.1.3 LOCALIZZAZIONE GEOGRAFICA

L’analisi, sebbene dichiaratamente non quantitativa, ha mostrato la seguente distribuzione geografica dei Designer=impresa (Tab. 4.5).

PAESE N. DESIGNER CITTA’ UK 32 London (24), Exter, Bath, Manchester (2), Falmouth, Glasgow, Milinthorpe, Cambridge, Holland 21 Arnhem, Amsterdam (6), Eindhoven (8), Hertogenbosch, Zaandam (2), Rotterdam, Utrecht (2). Italy 15 Milano (6), Giussano, Roma, Poggibonsi, Modena, Perugia, Pisa, Bologna, Ancona, Torino. Germany 12 Berlino (7), Amburgo, Offenbach am Mein, Bad Sooden Allendorf, Balingen.

4 Per spiegazioni più approfondite si rimanda al Capitolo 3 sul designer=impresa. 5 Il lavoro di mappatura è stato aggiornato a più riprese e il continuo lavoro di ampliamento e revisione del campione ha permesso di monitorare lo sviluppo delle attività dei primi soggetti mappati individuando così un gruppo più ristretto di progettisti con cui realizzare casi studio più approfonditi (full cases).

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 193 USA 6 Los Angeles (2), NY, Boston, Somerville, New Orleans. Belgium 6 Brussels (2), Antwerp (2), Gent (2). Austria 3 Wien (3) Israel 2 London France 1 Paris Spain 1 London Sweden 2 Stockholm Australia 1 Crawley Chile 1 Santiago de Chile China 1 Shanghai Nigeria 1 London Poland 1 Zurich Switzerland 1 Zurich Korea 1 Seoul Turkey 1 Istanbul New Zealand 1 London Totale 109

Tab.4.5 – Distribuzone geografica dei designer=impresa.

Fig. 4.2 – Distribuzione geografica dei designer=impresa

I 109 designer=impresa provengono da 20 diversi paesi con una netta prevalenza delle nazioni europee (113) e una presenza più contenuta in Nord America (USA). Da questa lettura, seppur parziale, l’Europa risulta il contesto professionale e culturale di riferimento del design per la microproduzione, anche se non è detto che lo sia per attività simili guidate da competenze differenti. Questo dato trova infatti un primo riscontro dalla comparazione con altre mappe relative a reti di luoghi e risorse per il making e la digital fabrication e piattaforme per l’open source design e la produzione distribuita: il network globale dei Fab Lab, The MakerMap e 3Dhubs Open Source Ecology e Open Desk (Fig. 4.2a,b,c,d). Queste mappe confermano sempre una netta concentrazione di attività di microproduzione in Europa e in Nord America.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 194

Fig. 4.3 a,b,c,d – Open Desk distributed design and fabrication netowrk (opendesk.cc); 3D Hubs Map (source: www.3dhubs.com); Fab Lab World Map (fab foundation, updated to 2012); Open Source Ecology global community (source: http://opensourceecology.org/); The MakerMap tool (http://themakermap.com/)

Mentre la correlazione tra le mappe conferma dinamiche simili in Europa, la situazione è diversa per il Nord America nonostante il metodo di selezione ha considerato anche importanti iniziative organizzate negli USA. Essendo i casi scelti prevalentemente con il filtro disciplinare del design è plausibile che la

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 195 microproduzione in Europa abbia un legame più forte con il design, mentre negli Stati Uniti ci sia una relazione più consolidata con il making. L’Europa, guardata in dettaglio, suggerisce alcuni considerazioni di carattere generale. La prima evidenza è che la relazione tra design e microproduzione appare più radicata in Nord Europa nei paesi come6 come UK, Olanda, Germania e Belgio con una forte cultura nel campo del design. Anche l’Italia ha una posizione molto interessante: i) è il paese di riferimento per l’area Euromediterranea; ii) è uno dei contesti europei con il maggior fermento nell’ambito della microproduzione - il terzo per numero di casi di eccellenza rilevati7. Un dato curioso è la quasi totale mancanza di designer=impresa provenienti dai paesi scandinavi (dato confermato dal basso numero di Fab Lab).

Altre considerazioni emergono guardando la localizzazione urbana delle attività dei designers. L’insieme dei casi è distribuito in 50 diverse località che contano non solo le grandi metropoli, ma anche medie città e piccoli centri. Le attività risultano più radicate nelle tradizionali città di riferimento per il design. Londra è il polo di riferimento (con 28 casi), seguito da Eindhoven e Amsterdam (16) Berlino (7) e Milano (6). In queste città la presenza di un sistema del design forte (poli formativi, culturali e un ricco tessuto professionale) è probabilmente un elemento determinante nello sviluppo dei sistemi per la microproduzione. UK, Olanda e Italia hanno anche diversi casi distribuiti in città e centri urbani più piccoli. Questo dato fa supporre che la maggioranza dei designer=impresa può essere vista come potenziali small urban manufacturers (Byron, Mistry, 2012).

4.1.4 CRONOLOGIA DEI CASI

Le date (anno) di sviluppo dei progetti realizzati dai designer=impresa sono state osservate dal punto di vista cronologico (Tab. 4.6). Il grafico fotografa un costante aumento dei casi di designer-microproduttori e un parallelo interesse da parte del mondo culturale a questi fenomeni8. Regno Unito e Olanda sembrerebbero i Paesi anticipatori del fenomeno della microproduzione in Europa (2008-2010).

6 Alcune considerazioni sulle specificità del design per la microproduzione tra Europa e Stati Uniti sono state inizialmente esplorate in un articolo scritto con Stefano Maffei, pubblicato nel 2013 sulla riviste Ottagono N.257 e intitolato Self-made Design. From industrial to industrious design. 7 L’italia va ricordato è anche il paese europeo in cui le piccole e microimprese (con meno di 10 addetti) hanno il peso più elevato in termini di valore aggiunto o di addetti. 500.000 società di capitali, di cui oltre 400.000 microimprese. N. 162 - Le microimprese in italia: una prima analisi delle condizioni economiche e finanziarie (micro-enterprises in italy: a first analysis of economic and financial conditions Uno studio promosso dalla Banca d’Italia nel 2013 a cura di Stefania De Mitri, Antonio De Socio, Paolo Finaldi Russo, Valentina Nigro, aprile (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef162) 8 I dati relativi al periodo 2013-2014 sono invece meno rilevanti perché la ricerca dei casi si è progressivamente arrestata per consolidare il campione e realizzare il lavoro di analisi e mappatura.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 196 ANNO PROGETTI PAESE NOTE 2001 1 Italy - 2003 1 Usa Open Source Ecology project 2005 1 Germania Ronen Kadushin (Open Design Manifesto) 2006 4 Sweden, USA Italy, UK - 2007 6 USA, France, Turkey, - Holland , Germany Poland, UK 2008 9 Italy, UK (4), Germany Design and the Elastic Mind (MoMa) (2), Holland (2) 2009 12 Austria (2), UK (7), - Germany, Italy 2010 19 UK (9), Holland (2), Lab Craft (Craft Council) France, Italy (2), Germany (4) 2011 19 Italy, Holland (4), New The Machine Exhibition Zealand, UK (6), (C-mine, Genk) Germany, Switzerland, Belgium (3), China 2012 26 Australia, Italy (6), Spain, C-Fabriek Belgium (2), Holland (5), (Design Academy Eindhoven) USA (2), Sweden, Germany, Israel, France, Korea, UK (7) 2013 12 USA, Austria, Chile, - 2014 Holland (4), Italy (2), UK (2), Germany; Nigeria/UK,

Tab.4.6 – Cronologia dello sviluppo dei progetti analizzati.

Fig. 4.5 – Cronologia dello sviluppo dei progetti analizzati.

I dati sulla crescita dei casi di microproduzione, anche se non ancora molto significativi, a livello tendenzale sono confrontabili con quelli sulla crescita dei makerspace, del mercato del DIY o delle tecnologie per la fabbricazione digitale9. Un aspetto che andrebbe maggiormente approfondito riguarda la possibile relazione diretta tra la crescita dei casi di microproduzione e la crisi economica

9 In soli dieci anni il numero dei Fab Lab è arrivato a oltre 400 (raddoppiando circa ogni 18 mesi), i ricavi di Etsy sono passati da 180 mln di $ del 2009 a oltre 500 mln di $ del 2011, i download di file digitali dalla piattaforma Thingiverse Makerbot dal 2011 al 2012 sono passati da 7.500 a circa 28.000.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 197 globale; allo stato attuale non esistono però dati strutturati che dimostrino un chiaro nesso causale tra i due fenomeni.

Fig.4.6 a,b – La crescita esponenziale del numero di ‘item’ uploadati sulla piattaforma MakerBot- Thingiverse (Source: IBM) e questionario sul primo utilizzo di una stampante 3D commissionato dalla piattaforma Ponoko (Source: Ponoko.com).

4.1.5 BACKGROUND DEI DESIGNER=IMPRESA

La maggioranza dei soggetti analizzati ha ovviamente un curriculum e un background da designer (73 su 109, vedi Tab. 2 Allegato). La maggior parte delle competenze riguardano il design di prodotto, ma è interessante notare un certo numero di designer con competenze di design engineering e interaction design, ciò significa avere conoscenze nel campo della progettazione parametrica, delle tecnologie CAD e della programmazione software. Più contenuto è il numero di fashion e communication designer anche se la microproduzione ha nella moda e nella grafica due suoi settori di interesse. Un dato emerge su tutti: un terzo dei soggetti si è laureato alla Design Academy di Eindhoven o nei MA in Product Design e Innovation Design Engineering del Royal College of Art di Londra. Queste due scuole grazie a

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 198 programmi formativi con determinate caratteristiche e dotazioni in termini di design e maker facilities (vedi Tab. 4.7) sembrano tra le più ‘attrezzate’ nella formazione di progettisti polivalenti in grado di operare nel campo della produzione tradizionale (industria e artigianato) che nel campo della microproduzione in forma autonoma e indipendente. A conferma di questo dato, dieci di loro hanno sviluppato la propria attività di microproduzione durante il proprio percorso di studi10 e in alcuni casi la microproduzione faceva parte del tema della tesi di laurea.

Il dato sul numero di designer non è però del tutto scontato. Un terzo dei casi analizzati non ha uno specifico background di design anche se ha competenze progettuali riconducibili a uno o più campi delle industrie creative. In 10 casi i Designer=impresa hanno una formazione di tipo ingegneristico (informatica ed elettronica aerospaziale, ingegneria gestionale e dei sistemi) e dunque buone competenze e conoscenze teoriche o pratiche sulle tecnologie per la fabbricazione digitale e i processi/sistemi di produzione industriali (es. automazione). Tra i casi di microproduttori con studi di architettura, molti presentano una specializzazione in scienze dell’architettura o pianificazione e hanno competenze di architettura computazionale (e quindi buone competenze in modellazione parametrica). In pochi casi il background di partenza fa riferimento al mondo delle hard science (matematica, chimica e biologia e fisica) caratterizzate dalla combinazione di studi teorici e dall’applicazione di metodi scientifici di verifica sperimentale. Un dato che fa riflettere riguarda la totale assenza di D=E con competenze specifiche nel campo delle discipline economiche come il marketing e il management. Sebbene queste competenze a livello base siano parzialmente presenti nei programmi formativi di molte scuole di design, la loro assenza è interpretabile come un possibile cambio di paradigma oppure come un gap da colmare.

MA DESIGN PRODUCTS. “Product Design Course at RCA gives great importance to analytic learning processes including ‘discovery phases’ based on prototyping and materials testing, which are considered crucial for the realization of any project. RCA puts at students’ disposal a range of maker facilities, which combine both digital and

traditional fabrication, enabling designers to become professional self- ROYAL COLLEGE producers. The Royal College of Art has also organized several OF ART LONDON exhibitions attracting lots of visitors during the Milan Design Week. (http://www.rca.ac.uk/) Finally, some designers are now part of Craft Council network as designer-craftsmen” MA INNOVATION DESIGN ENGINEERING. “IDE programme is a leading-edge, creative product development course that involves experimentation, design, engineering and enterprise activities. In multidisciplinary teams or as individuals, participants work at the centre of complex, demanding projects with an emphasis on prototyping and proving propositions. The programme is external facing and encourages all to tackle important real-world issues involving advanced technical, design and social parameters. We believe that design is a verb not a noun”. THE INSTITUTE OF MAKING 10 Julian Bond, Filippo Sironi, Jane ní Dhulchaointigh - Sugru, Dirk Vander Kooji, Markus Kayser, Magdalena Kohler e Hanna Wiesener, Oskar Zieta e Ariane Prin

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 199 (http://www.instituteofmaking.org.uk/) is a multidisciplinary research club for those interested in the made. Annual membership of the institute is available to all UCL staff and students. The programme of symposia, masterclasses and public events explores the links between academic research and hands-on experience, and celebrates the sheer joy of stuff. Its mission is to provide all makers with a creative home in which to innovate, contemplate and understand all aspects of materials and an inspiring place to explore their relationship to making. At the heart of the Institute of Making is the Materials Library – a growing repository of some of the most extraordinary materials on earth, gathered together for their ability to fire the imagination and advance conceptualisation. A place in which makers from all disciplines can see, touch, research and discuss, so that they can apply the knowledge and experience gained to their own practice. Alongside the collection is the MakeSpace – a workshop where members and guests can make, break, design and combine both advanced and traditional tools, techniques and materials. DESIGN LABS at DAE tackles every year a different topic usually finalized to re-establish a direct relationship between design practice and the public. Students work individually to design their own production lines creating machines, tools, or products. Furthermore the laboratory promotes a direct interaction with the public that can DESIGN ACADEMY EINDHOVEN suggest to designers alternatives solutions to industrialization, (http://www.designacademy.nl/) production and consumption. DAE puts at disposal its own internal workshops (wood, metal, plastics, screen printing, textile, ceramics, digital technology, a photo studio and a library) while at the same time there are active collaborations with external enterprises and museums in order to promote local manufacturing techniques. Design Academy Eindhoven counts very much on the organization of international events where the presented projects (‘alpha phase’) are ‘pushed’ to become quickly efficient self-production business models. KOMPAS DEPARTMENTS. DAE has four compass points together form the full professional framework of design. Market allows designers to develop their personal talents into content that is suitable for business. Things such as presentation, entrepreneurship, economical aspects and your own position as a professional are the focal points. Forum places design and the design profession in a socio-cultural context. Designer can learn to understand and interpret the times in which we live through research and reflection. Lab is the academy’s laboratory. Here designers can conduct methodical research and performing in-depth experiments. Designers can also learn abstract thinking and analytical methods. The central focus is on the interaction between the creator, the product and the user. Finally at Atelier designers can learn how to think while they act. Designers can consider their own process and growth and become more conscious of their intuition, uniqueness and authenticity.

Tab. 4.7 - L’offerta formativa del RCA di Londra e della Design Academy di Eindhoven.

Altri aspetti interessanti emergono da un piccolo gruppo di nove microproduttori le cui competenze di partenza riguardano un’attività produttiva artigianale. Si trattava di artigiani che hanno deciso di (r)innovare e completare le proprie conoscenze attraverso un percorso formativo di tipo accademico centrato sul design. A questo gruppo di soggetti se ne aggiungono altri che hanno intrecciato i percorsi di studio o quelli professionali con esperienze produttive temporanee condotte presso laboratori artigiani. Infine ci sono anche D=E che hanno deciso di investire in formazione avanzata attraverso un dottorato di ricerca.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 200 Questo spaccato mostra che il percorso professionale e formativo del Designer=impresa può anche andare in senso ‘inverso’ ed essere ‘reversibile’: non solo designer che diventano maker ma anche maker-designer. I temi della formazione e della ricerca si confermano molto importanti anche dal punto di vista professionale: 18 microproduttori dichiarano nella propria biografia di svolgere un’attività formativa occasionale o permanente presso scuole e università (lectures, seminari e workshops) mentre 12 dichiarano di svolgere un’attività di ricerca all’interno delle università in qualità di dottorandi, ricercatori o professori. Non mancano nemmeno i casi di D=I che hanno proposto manifesti ‘progettuali’ come Ronen Kadushin e Jane ní Dhulchaointigh rispettivamente gli autori di Open Design Manifesto11 e di Fixers’ Manifesto. E’ infine ipotizzabile - ma deve essere dimostrato - che le attività di formazione o ricerca potrebbero costituire anche una fonte di reddito più o meno rilevante12 rispetto all’attività progettuale (Arquilla, Bianchini, Maffei, 2011) oltre che a un importante contributo all’innovazione dei processi di microproduzione.

4.1.6 INTERESSI PROFESSIONALI

Dal punto di vista qualitativo sono state analizzate le descrizioni e delle presentazioni dei profili personali dei D=I pubblicate sui siti web personali o stralciate da interviste e articoli. Gli interessi tra loro coerenti sono stati accorpati nei seguenti addensamenti tematici: - Relazioni tra forme di produzione analogica e fabbbricazione digitale. Un consistente gruppo di D=I è fortemente interessato a indagare la relazione tra le forme di produzione manuali/artigianali e le tecnologie di progettazione e fabbricazione digitali (Mischer’ Traxler – Idea of a Tree). In altri casi la manifattura digitale è vista come strumento che abilita la collaborazione interdisciplinare con le forme di produzione artistica. Per microfactory come UntoThisLast c’è l’interesse a combinare la capacità produttiva di una bottega artigiana locale con i prodotti e i costi della produzione industriale di massa. Altri D=I sono interessati a combinare artigianato e tecnologie per la fabbricazione digitale con il fine di creare prodotti personalizzati (Eugenia Morpurgo e Juan Montero - Don't Run Beta). La relazione design-artigianato-fabbricazione digitale è anche esplorata a livello di piattaforme e reti distribuite in grado di esaltare una cultura produttiva localizzata (Giulio Iacchetti – InternoItaliano). Di contro si registrano interessi inversi ovvero l’adozione di un approccio

11 http://www.ronen-kadushin.com/files/4613/4530/1263/Open_Design_Manifesto-Ronen_Kadushin_.pdf; http://sugru.com/manifesto 12 Questo aspetto era stato inizialmente individuato e analizzato per la realtà italiana in Arquilla, V., Bianchini, M., Maffei, S. (2011) Designer =Enterprise. A new policy for the growth of the next Italian design, Tsinghua – DMI International Design Management Symposium, Hong Kong date: 3-5 December.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 201 'artigianale' per l'uso della tecnologia e prototipazione rapida manipolando i processi produttivi industriali (Daniel O'Riordan – Ripple Tank Table).

- Nuove forme di interazione tra uomo e sistemi di micro e autoproduzione. Questi interessi si articolano nello studio di tecniche, tecnologie e processi spingendosi a sperimentare nuove macchine e strumenti per la fabbricazione digitale che interagiscono, supportano, potenziano e collaborano con le persone (Christian Fiebig – Computer Augmented Craft, Reed Kram e Clemens Weisshaar – My Private Sky). Questi interessi spaziano dallo sviluppo di metodi produttivi digitali da innestare su tecniche produttive manuali (LMBRJK) fino a esplorare la relazione tra corpo umano e tecnologie per la fabbricazione digitale (Unfold – L’Artisan Electronique) e alle interazioni umane nei processi di produzione ottenute ad esempio attraverso l’intersezione tra interaction design, physical computing haptic interface e digital fabrication (Studio Homunculus – Haptic Intelligentsia). Si tratta di forme di interazione che abilitano anche nuove forme di controllo diretto e personale sui processi e i sistemi di produzione. Quest’area ospita anche posizioni progettuali divergenti che oscillano tra la volontà di sostituire gli approcci standardizzati e irreggimentati del design industriale con processi di progettazione generativi impostati su parametri strutturali che si sottraggono alle mode (Marloes ten Bohmer – Couture Shoes) oppure lavorare sulle parti intuitive del processo di progettazione e produzione, incluso l’introduzione di concetti come l'improvvisazione all’interno dei processi di produzione seriali (Annika Frye - Improvvisation Machine).

- Modificazione, riconversione e rigenerazione di processi produttivi esistenti e tradizionali. Alcuni D=I mostrano un interesse per la rigenerazione dei processi di produzione tradizionali e iperlocali (Daan Brandenburg - Made in Brabant), l’interesse nell’utilizzo di materie prime naturali, tradizionali e locali finalizzato allo sviluppo di nuove tecniche di produzione (Atelier NL – Polder Ceramics) e l’interesse verso processi produttivi che sviluppano una relazione intelligente con l’ambiente circostante (Merhel Karhof – The Wind Knitting Factory). Altri sono invece interessati alla modificazione (customizzazione o hackeraggio) e alla riconversione di macchine e processi industriali esistenti per fini di sostenibilità ambientale e sociale “per trasformare la 'produzione di massa in produzione personalizzata” (Joris Laarman – MDX Mataerial, Dirk Vander Kooji – Endless Furniture, Pieke Bergmans – Illusion Printed Wood Table) anche attraverso la progettazione di tecnologie su misura (Sandy Noble - Polargraph).

- Relazione tra design e utenti. L’interesse dichiarato di molti D=E è quello di esplorano il rapporto tra design e consumer attraverso i processi di produzione (Julian Bond – Pixel Vases) che possono mettere in discussione questi ruoli eliminando le convenzioni esistenti (Front Design – Sketch

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 202 Furniture). Alcuni sono interessati allo sviluppo di processi e sistemi di produzione connessi a nuovi modelli di consumo e mercificazione dei beni in grado di sovvertire la perfezione materiale del design industriale, anche sviluppando l’esperienza produttiva del consumatore come esperienza che ne arricchisce la cultura materiale (Thomas Vailly – Inner Fashion; Italy Ohaly - The Creative Line 01).

- Interesse verso le forme di produzione collaborative, aperte e distribuite. Riguarda l’interesse verso i processi collaborativi che puntano al coinvolgimento diretto degli utenti nella creazione e (co)produzione dei prodotti che acquista (Tristan Kopp - prodUSER). Da questa impostazione generale consegue un interesse nello sviluppo di vari tipi di piattaforme open source che ridefiniscono la relazione tra tecnologia, prodotti e servizi; che sperimentano forme di produzione auto-organizzate a circuito chiuso (Marcin Jakubowski – Open Source Ecology); che aprono settori produttivi chiusi e complessi come l’edilizia (Studio 00:/ - Wikihouse) abilitando forme di microproduzione distribuita collegate a sistemi web di progettazione semplificati che simulano sistemi di gioco didattici e modulari come Lego o Meccano (Thomas Lommèe - Open Structure, Matthew-Plummer Fernandez – Digital Natives).

- Relazione tra design, produzione e scienze naturali. L’interesse da parte dei D=E a esplorare la relazione tra design e scienza (biologia) per la creazione di sistemi produttivi ‘naturali’ totalmente sostenibili (Studio Swine - Sea Chair Project) centrati sull’impiego di materiali e processi biologici e biochimici. Un gruppo di D=E dichiara infatti uno specifico interesse a esplorare soluzioni ibride tra tecnologia e natura che mettano in discussione le attuali metodologie di produzione per testare nuovi scenari di produzione basati sull’utilizzo di materie prime organiche e viventi (anche di scarto) e l’impiego ‘intelligente’ di esseri viventi per la realizzazione di artefatti (Suzanne Lee - Biocouture, Thomas Libertiny – Made by Bees, Phil Ross - Yamanaka Furniture). Nel campo della microproduzione accanto alla più praticata relazione analogico/digitale potrebbero emergesse anche relazioni di tipo ‘organico/analogico’ e ‘organico/digitale’. Le produzioni sviluppate tra design e scienze si evolvono da un confronto permanente con dati scientifici generati attraverso il metodo scientifico (esaminare, sperimentare, analizzare e scartare) e spingono il D=I a ridefinire i confini anche (bio)etici della propria attività.

L’insieme dei casi è stato analizzato dal punto di vista dell’attività progettuale finalizzata alla microproduzione. Partendo dalla selezione di un progetto rappresentativo per ciascun microproduttore è stato esplorato poi il portfolio progetti per verificare l’esistenza di altre iniziative (Tab 4.8). L’obiettivo è verificare se la microproduzione è un’attività occasionale e isolata oppure è invece strutturata

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 203 in un filone di attività, se è costituita da un insieme diversificato di iniziative che esplorano diverse direzioni progettuali, oppure se queste si originano da un unico metodo o processo messo a punto dal designer.

DESIGNER=ENTERPRISE PROGETTO RAPPRESENTATIVO NOTE SULL’ATTIVITÀ MISCHER'TRAXLER STUDIO Idea of a Tree è una macchina digitale Nuovi prodotti/progetti con la stessa (Idea of a Tree) autoprogettata a energia solare per produrre filosofia o principio (Collective works, elementi d’arredo. Forma e colore di ogni Till You Stop, Drawing Time). prodotto sono determinati dalla quantità di luce solare disponibile durante la fabbricazione. Il sistema a energia solare fa ruotare uno stampo che avvolgere un filo attorno a sé che è prima passato attraverso un serbatoio di colla e poi in un serbatoio di colorante. JULIAN BOND I pixel vases sono il prodotto di una macchina Nuovi prodotti/progetti con la stessa (Pixel vases) analogica autoprogettata chiamata Pixel macchina o tecnologia (Olmec Light Casting Machine. Ogni vaso prodotto con series, Flower Stack, Pixel lights, questo metodo è unico ed ha il proprio numero Hexagonal Pixel Vases). di produzione. Le forme che possono essere realizzate variano notevolmente e ogni vaso può essere personalizzato. DONNA FRANKLIN E GARY Micro'be' è un processo sperimentale nato dalla Nuovi prodotti/progetti con lo stesso CASS collaborazione di un artista e di un biologo che metodo, tecnica o processo (è in fase (Micro’be’ – Fermented sostituisce le macchine tessili con colonie di avanzata lo sviluppo di un tessuto microbi che fanno fermentare l'indumento con prodotto con la fermentazione della fashion) l'obiettivo di produrre capi di abbigliamento in birra che sarà presentato nel 2015alla un pezzo unico e senza nessuna cucitura Settimana della Moda di Milano). (pensato soprattutto per lo sport). I microbi del vino fermentando producono un tessuto composto da microfibra di cellulosa. TEJO REMY E RENEE Concrete Chair nasce dall'esigenza di creare Nuovi prodotti/progetti con lo stesso VEENHUIZEN mobili all'aperto molto resistenti ma con un metodo, tecnica o processo (la tecnica (Concrete Chair) aspetto domestico e confortevole. Per questo è Soft Moulding è stata utilizzata per stata sviluppata una tecnica definita Soft produrre altri mobili). Moulding con colate di cemento e schiuma rinchiuse in stampi tessili flessibili. FILIPPO SIRONI - SINORI Sinori è uno strumento musicale a La produzione di Sinori è la principale DESIGN percussione, nato da una ricerca riguardante i attività di microproduzione. (Sinori percussion) materiali metallici utilizzati in musica per la produzione di suoni. E’ composto da una lastra metallica di acciaio con una maniglia sferica in legno e da una fettuccia di cuoio o materiale polimerico per appenderlo. Si tratta di uno strumento versatile che si presta a generi musicali differenti. NOAH NOAH realizza una serie di chitarre e bassi in La produzione di chitarre è la principale (Metal Guitars) metallo il cui suono è stato apprezzato da attività di microproduzione. musicisti del calibro di Bruce Springsteen, Ben Harper e Lou Reed. Le chitarre sono interamente progettate, disegnate, realizzate, assemblate e rifinite a mano in Italia in una microfactory a Milano. ANDREA CATTABRIGA Slowd è una piattaforma che connette designer SlowD è la principale attività di (Slowd) e aziende artigiane modificando il modo di microproduzione produrre e distribuire nuovi prodotti con un modello definibile Design a Km0. Una volta scelto il prodotto nello Shop è possibile decidere di acquistare online e ricevere a casa il prodotto, oppure trovare l’artigiano della rete Slowd più vicino a casa tua per accordarsi sulla produzione. Si possono acquistare prodotti finiti, kit per assemblaggio fai da te e progetti cartacei. JANE NÍ DHULCHAOINTIGH Sugru è un collante universale sviluppato e Sugru è la principale attività di (Sugru) prodotto da un piccolo gruppo di designer e microproduzione scienziati dei materiali (è una tecnologia brevettata). Combina plasticità, adesione alle superfici e flessibilità di utilizzo. Si utilizza come la plastilina e poi si indurisce.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 204 RONEN KADUSHIN13 Eclipse Light è un prodotto di open design i cui Nuovi prodotti/progetti con la stessa (Open Design Objects) i dati CAD sono pubblicati online sotto licenza filosofia o principio. Creative Commons per essere scaricati, copiati e modificati ed è prodotta attraverso macchine a controllo numerico e senza utensili speciali. DROOG DESIGN LAB "Design for Download" è un progetto lanciato Droog sviluppa diversi progetti (Design for Download) da Droog Design nel 2012. E’ una piattaforma sperimentali sulla micro e per il design scaricabile, caratterizzato da autoproduzione. progetti aperti, realizzabili con strumenti di progettazione parametrici facili da usare e realizzabili con una rete di produttori locali a bassa e alta tecnologia CNC (come prodotto significativo è stato scelto box-o-rama). FATTELO! 01Lamp è una lampada interamente prodotta 01Lamp è al momento la principale (Fattelo Lamp) in cartone industriale e venduta in kit da attività di microproduzione. assemblaggio. In alternativa è possibile scaricare il disegno in open source e autoprodurre la lampada comprando on-line solo la parte elettrica. LMBRJK Sadl Stool è un prodotto nato dalla fusione tra Lo stesso tipo di prodotto è stato (Sadl Stool) fabbricazione digitale e capacità artigianale prodotto sperimentando tecnologie (definito Digital Wood). Lo sgabello viene diverse (Cactus bowl; Trilip Vases). prima disegnato al computer con software CAD è poi tagliato in 80 strati separati poi riassemblati e incollati a mano. Il processo, dalla concezione iniziale alla produzione finale avviene completamente nel laboratorio del designer. DAAN BRANDENBURG Made in Brabant è un progetto che rigenera Made in Brabant è al momento la (Made in Brabant) una tecnica e una macchina tradizionale per principale attività di microproduzione. fare le scarpe di legno, adattate per creare complementi d’arredo. Il legno appena tagliato è lavorato localmente in nuovi oggetti come brocche e vasi fatti a mano. AVUND Avund sviluppa e produce una vasta gamma di La produzione di articoli in pelle è al (Avund Leather Goods) prodotti realizzati utilizzando pelli conciate momento la principale attività di con sostanza vegetali. Si tratta di prodotti microproduzione. minimi e funzionali ma che combinano tecnologie per la fabbricazione digitale e abilità manuali. I prodotti sono progettati per ridurre al minimo gli scarti di materiale minimo e per avere un montaggio efficiente. DIRK VANDER KOOJI Endless è una linea di mobili prodotta Ha realizzato diversi prodotti partendo (Endless Furniture) riciclando materie plastiche. Dirk Vander dalla stessa tecnologia introducendo Kooij ha riprogrammato un vecchio robot varianti tecniche sul processo di stampa industriale per trasformarlo in una stampante (Chubby Chair, Fat Line Furniture, 3D a bassa risoluzione in grado si stampare Changing Vases, Calculated Caos,Pulse sedie e tavoli. Il robot Endless, strato dopo Chair, Chubby coat). strato, è in grado di produrre una sedia in 3 ore. La tecnologia consente al progettista di modificare il modello dopo che un mobile è stato prodotto - un vantaggio che il tradizionale processo di stampaggio a iniezione non offre. La macchina può essere programmata per costruire mobili di qualsiasi forma e dimensione. THOMAS MAINCENT SpiderFarm (Animal technology for Human Ha sviluppato prodotti/progetti diversi (Spider Farm V.1 e V.2) Practices) è il progetto di una biofactory per la con processi diversi (Ephemeral Glasses - produzione di seta filata da ragni che Polyamide sintering) ricostruisce le condizioni ambientali di habitat naturale di un ragno. All'interno della 'farm' i ragni filano la seta per uso umano SpiderFarm è un progetto aperto che si propone di sviluppare nuovi materiali e oggetti ancora non realizzati . DAE KYUNG AHN Microfactory MOW è un progetto centrato Ha sviluppato un altro strumento con lo (MicroFactory MOW) attorno alla progettazione di macchine per la stesso principio. produzione di utilizzo domestico. Si tratta di una macchina che consente alle persone di realizzare propri prodotti casa in modo semplice riutilizzando materiali come il cartone e allo stesso tempo condividere i propri progetti in modalità open source.

13 Al Salone del Mobile 2014 Ronen Kadushin ha presentato la platform e la prima collezione di CYRCUSLAB.COM (direct design - direct market) at the Triennale di Milano under the new museum dedicated to the "autarchy". In a black room 20 items in "download" design made by a new generation of designers and authors of international renown, in digital mode (3dprint, LaserCut, CNC)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 205 STUDIOLO FaBot è un robot ultraleggero pensato per - (FaBot) tagliare e bruciare grandi aree di materiali. Può essere utilizzato per la post-produzione di oggetti esistenti. N-E-R-V-O-U-S SYSTEM Nervous System ha sviluppato un servizio di Più software sono sviluppati con lo (Nervous Jewels) design e fabbricazione basato una serie di stesso principio applicazioni software (online) per il design parametrico (ispirati a forme naturali) utilizzate per generare i disegni digitali di oggetti poi fabbricati digitalmente con l’uso di stampanti 3D. DIATOM STUDIO Sketchair è un software open source che Progetti diversi sviluppati con altre (SketchChair) consente a chiunque di progettare e costruire i tecnologie digitali. propri mobili attraverso tecnologie di fabbricazione digitale. Il progetto è stato finanziato con Kickstarter ($31,475 ottenuti da 584 backers su un goal di $18,000 goal). FRONT DESIGN Skecth Furniture è un metodo sperimentale Non ci sono altri progetti sviluppati con (Sketch Furniture) per materializzare oggetti partendo da schizzi a le stesse caratteristiche. mano libera sviluppato dalla combinazione di due tecnologie avanzate. Una penna è utilizzata per ‘disegnare nell'aria’ vari pezzi di furniture. I disegni sono registrati con Motion Capture diventando file digitali poi materializzati attraverso Rapid Prototyping JORIS LAARMAN LAB MX3D Resin-Metal (Mataerial) è un nuovo Laarman ha all'attivo diversi progetti (MX3D-Metal Mataerial) metodo di produzione additiva sviluppato definiti Bits & Crafts collegati alla hackerando un robot industriale ABB. Questo fabbricazione digitale che riflettono sul metodo permette di creare oggetti 3D su futuro dei processi di produzione: qualsiasi superficie indipendentemente dalla Digital Matter, utilizza un robot sua inclinazione e morbidezza senza bisogno di industriale per costruire un prodotto strutture di supporto aggiuntive. Utilizzando la artigianale (tavolo rococo); Maker Chair tecnologia di estrusione innovativa e resina Bits and Parts indurimento super veloce è possibile (http://www.3ders.org/articles/20140516 neutralizzare l'effetto della gravità durante il -joris-laarman-3d-printed-first-metal- corso del processo di stampa. Allo stesso modo chair-introducing-3d-printed-chair- è stato sviluppato MX3D Metal, un progetto you-can-download-now.html) che punta a creare un conveniente strumento di stampa 3D multiasse disponibile per consumatori e workshop. STUDIO:LUDENS Pattern Making è una serie di configuratori Ha all’attivo altri progetti con la stessa (Pattern Making) per consentire alle persone di creare pattern filosofia/principio (Design coasters, grafici per tessuti o carte da parati. Repper è Design boxes, Design fractal). uno di questi. ENRICO DINI D-Shape è un sistema di costruzione robotica D-Shape è la principale attività di (D-Shape) (3D printing) che utilizza nuovi materiali per microproduzione. creare strutture in pietra (un impasto di sabbia e uno speciale inchiostro bicomponente inorganico ed ecocompatibile che ha la capacità di trasformare la sabbia in roccia). Una volta avviato il file in stampa 300 ugelli realizzano i prodotti, strato dopo strato, producendo pezzi unici o macroblocchi che possono essere poi trasportati e assemblati in cantiere. STUDIO HOMUNCULUS Haptic Intelligentsia è uno strumento che Sviluppo di altri prodotti e sistemi (Haptic Intelligentsia) porta la pratica artigianale all’interno di una sperimentali per la microproduzione tecnologia digitale. Il processo di stampa 3D è (ConsumerLABORatory, Group Project). modificato attraverso lo sviluppo di un’interfaccia aptica. Che consente all’utente/produttore di sviluppare un rapporto tattile con un oggetto virtuale. TODO Spamghetto è un sistema di design generativo Sviluppato una serie di progetti (Spamghetto) per produrre carta da parati con una grafica sperimentali partendo dalla stessa che utilizza le mail spam. Partendo dalle tecnologia (Tweetghetto e Code) anche se misure delle pareti attraverso un software lo studio di comunicazione ha generativo utilizzando le mail di spam è progressivamente abbandonato la strada possibile disegnare un motivo che si adatta ai dell’autoproduzione. muri avvolgendo e abbracciando gli ostacoli. AMMAR ELOUINI CoReFab è una sedia creata dal computer Altri progetti di interior design sono (CoReFab) attraverso un'animazione digitale e poi stati realizzati attraverso l’utilizzo materializzata attraverso la tecnologia di sperimentale di tecnologie per la stampa 3D. fabbricazione digitale. CASUAL DATA NewsKnitter è un sistema autoprogettato che Attività di microproduzione occasionale (News Knitter) converte le informazioni raccolte dai e sperimentale. quotidiani in vestiti. Dati e informazioni provenienti dal web possono essere analizzate, filtrate e trasformate in uno schema visivo unico per capi di abbigliamento. Il sistema è costituito da due differenti tipi di software:

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 206 mentre si riceve il contenuto dal vivo alimenta l'altra converte in modelli visivi , e una macchina da maglieria rettilinea completamente computerizzato produce l'output finale. SAUSANNE STAUCH Isopt è un progetto di ricerca su una serie di Sta sviluppando progetti e una tesi di (Isopt) recipienti in porcellana, progettata dottorato sul tema della manifattura direttamente dal consumatore finale. collaborativa. Integrando strategie e metodi computazionali, l’utente definisce attraverso una semplice interfaccia la forma finale dell’oggetto, che viene poi prodotto in ceramica direttamente da una stampante 3D. Interrogandosi su quali siano le caratteristiche e le forme che effettivamente desidera e cerca nell’oggetto, l’utente stesso viene coinvolto in modo attivo in un processo di creazione partecipata. LAZERIAN Mensa Collection è il risultato di una serie di Ha sviluppato altri prodotti con (Mensa collection) sperimentazioni digitali sul legno compensato l’utilizzo di tecnologie per la sviluppate in due anni di lavoro e culminato fabbricazione digitale (Sedia Bravais, la nella creazione di una nuova collezione di scultura in carta Gerald the Dog). mobili. MICHAEL EDEN I vasi di Michael Eden combinano le Nuovi prodotti con la stessa (Eden Ceramics) tradizionali tecniche artigianali nella filosofia/principio. lavorazione della ceramica con le tecnologia digitali, tra cui la stampa 3D e l’additive layer manufacturing. GARETH NEAL I suoi pezzi unici d’arredo come Anne Table Nuovi prodotti con la stessa (Anne Table) sono una sintesi tra i processi di fabbricazione filosofia/principio. tradizionali e digitali, con disegni che si impegnano in modo intuitivo con le qualità taciti incorporati nei materiali, processi , e la funzione. GARY ALLSON Woven Wood nasce dalla collaborazione tra Nuovi prodotti con la stessa (Woven Wood) Allson e un textile designer. Il progetto esplora filosofia/principio. come i metodi digitali possono essere utilizzati per tradurre le strutture del tessuto tessile in modo ingrandito nel legno lavorando con le tecnologie per la fabbricazione digitale. Il progetto punta a combinare legno e tessuti per creare nuove superfici esplorando l'uso di strumenti software per il tessile e l'utilizzo di un router digitale, per sviluppare un processo innovativo che può portare alla realizzazione di porte, tavoli, schermi o pannelli per finestre. Il progetto è in fase di sviluppo. JOHANNA SPATH; Fabbrica Lamp collega la tessitura tradizionale Altri prodotti sviluppati con tecnologie JOHANNES TSOPANIDES con la fabbricazione digitale. L'ombra sembra digitali e interattive (CloudSpeaker, (Shapes in Play) essere naturalmente soffiato intorno alla SoundObject, InfObject). lampada a LED come un tessuto nel vento. L'oggetto è però creato digitalmente proprio come lo schema che collega i due fili intrecciati. MELANIE BOWLES Melanie Bowles lavora nel campo del design Altri progetti sviluppati con altre logiche (Digital Shibori) tessile digitale occupandosi di stampa digitale e tecnologie. su misura. I suoi tessuti sono prodotti su commissione coinvolgendo il consumatore durante un processo di progettazione e produzione sostenibile che utilizza risorse locali. ZACHARY EASTWOOD- Information Ate my Table sviluppa il rapporto Altri progetti sviluppati con processi di BLOOM dicotomico tra prodotto e informazione fabbricazione digitale ("Ceramic" CNC (Information Ate my Table) nell'era digitale. Il tavolo non si dsarebbe milled found table, "The space between potuto realizzare senza l'utilizzo di strumenti di all things", , "We control the horizontal progettazione e produzione digitale (processi and the vertical"). di taglio e fresatura), allo stesso modo i vantaggi di queste tecnologie sono disattivati durante il processo di elaborazione dei dati CAD. La sovraproduzione di dati digitali ‘divora’ una parte del tavolo durante la fase di produzione. MARKUS KAYSER Nei deserti del mondo dominano due elementi: Ha sviluppato in precedenza un progetto (Solar Synter) sole e sabbia. Il primo offre una ricca fonte di simile che lavora sullo sfruttamento energia con un enorme potenziale. Il secondo dell’energia solare Sun Cutter. offre un approvvigionamento quasi illimitato di silice in forma di quarzo. Solar Synter sviluppa l'idea di una nuova macchina che utilizza questi due elementi. Usando i raggi del sole invece di un laser e sabbia invece di resine Solar Synter sviluppa un nuovo processo di sinterizzazione a energia solare per la

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 207 produzione di oggetti di vetro laddove è disponibile luce solare e sabbia. MARCIN JAKUBOWSKI Open Source Ecology è una piattaforma per la GVCS costituisce la principale attività di (Open Source Ecology) progettazione e produzione aperta e distribuita microproduzione. OSE ha ottenuto nel che sta sviluppando una serie di progetti open 2011 un finanziamento con Kickstarter source riconducibili all'interno di un sistema ($40,000 richiesti e definito Global Village Construction Set $63,573 ottenuti da 1,384 backers). (GVCS). Si tratta di una serie di 50 macchine fondamentali in grado di consentire un livello di civilizzazione adeguato, la prima delle quali la 3D printer è stata realizzata nel 2007. STUDIO 00:/ WikiHouse è una piattaforma progettuale per Il progetto collegato è Open Desk - (Wikihouse) lo sviluppo di un set di ‘costruzioni open Design for Open Making source’ che consente a tutti di progettare e https://www.opendesk.cc/ produrre microarchitetture con tecnologie semplici e accessibili (fresature a controllo numerico di pannelli di compensato) e con componenti assemblabili con minime competenze tecniche o abilità. ATELIER NL Polder Ceramics è una serie di vasi e articoli Altri progetti simili he sviluppano (Polder Ceramics) casalinghi realizzati raccogliendo argilla da macchine completamente analogiche varie parti dei Paesi Bassi e dimostrando come (The Clay Machine, The Clay Service, la storia di una certa area determina le Soup machine). caratteristiche del suolo. E' stata realizzata una macchina che illustra il processo dal momento di scavo e di raccolta della terra che viene essiccata e macinata in polvere. La macchina serve per creare un campionario fatto di piastrelle di argilla che servono a identificare la provenienza del materiale. STUDIO LIBERTINY Made by Bees è un vaso realizzato in una Sono stati sviluppati altri progetti in (Made by Bees) settimana con l'impiego di oltre 40.000 api. auto e microproduzione (Paper Vases è Studio Libertiny ha costruito un alveare a una serie di vasi contenenti forma di vaso che le api possono colonizzare. internamente un disegno unico e Studio Libertiny ha chiamato questo processo realizzati in pezzi unici insieme a un ‘slow prototyping’. Il prodotto nonostante la sua artigiano; Welded Stools è una serie di natura effimera è molto resistente e durevole sgabelli autoprodotti utilizzando la (favi perfettamente conservati sono stati trovati saldatrice in un processo di additive nelle tombe dei faraoni nell’antico Egitto). manufacturing). RAW COLOR Cryptographer genera tessuti traducendo Diversi progetti sperimentali che (Cryptographer) parole in codice. Sbiancando il tessuto il spaziano dalla fabbricazione manuale, messaggio diventa tangibile. La macchina è alla biofabbricazione di inchiostri allo controllata da messaggi di testo e ogni carattere sviluppo di macchine, strumenti e è trasformato in un'icona specificata, con teniche di colorazione. conseguente continua evoluzione dei modelli a seconda dell'interazione con i singoli utenti. Si tratta di un progetto tecnicamente complesso che ha visto la collaborazione con altri studi di interaction design e programmatori software per lo sviluppo dell’interfaccia e la programmazione degli elementi di controllo dei motori e della parte elettronica. PHIL ROSS L’artista-artigiano ha sviluppano una tecnica Lo stesso processo sono stati sviluppati (Yamanaka Furniture) definita Biotechnique. Crea oggetti a partire mattoncini modulari per costruire una dalla coltivazione di un fungo utilizzato come microarchitettura (progetto materiale primario. 'Mycotecture'). TRIKOTON - MAGDALENA Trikoton è una design label che esplora l'uso Trikoton è la principale attività di KOHLER E HANNA della voce umana per creare modelli a maglia microproduzione. WIESENER in tessuto. Bande di frequenza di un messaggio audio sono convertiti in codici binari e (The Voice Knitting Machine) incorporati in indumenti. Macchina Voice Knitting è un'installazione basata su una vecchia macchina per maglieria meccanica degli anni 70, che è stata hackerata per diventare interattiva, utilizzando segnali vocali. E' stato quindi usato un microcontrollore e 24 piccoli motori per imitare una scheda modello che potrebbe essere controllata direttamente dal input dell'utente che è stato elaborato da un computer collegato. Sulla piattaforma trikoton.com, è possibile registrare un messaggio, una canzone o una melodia. La loro intensità, frequenza e modulazioni vengono convertiti in codici binari per modelli di maglieria, unico come la voce umana. CHRISTIAN FIEBIG Computer Augmented Craft è un sistema- Ha all'attivo diversi progetti che (Computer Augmented Craft) macchina caratterizzato dalla presenza di lavorando sui processi di fabbricazione un'interfaccia digitale che simula e suggerisce digitlae e interattiva (Bend_u, Digital in tempo reale diverse posizioni per la Vanitas, Chesterlfield). collocazione di pezzi di metallo simulando la

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 208 posizione e rendondola poi eseguibile. La macchina suggerisce decisioni al progettista- produttore mentre lavora. WILLIAM SHANNON Particle Board Factory (Fabbrica di trucioli) è Diversi progetti relativi a Mini, Micro e (Particle Board Factory) una factory mobile concepita per produrre Nano unità produttive analogiche. mobili in truciolare da vecchi pezzi di arredo. OSKAR ZIETA L’acronimo FiDU significa «Freie Innen- Oskar Zieta con la stessa tecnologia ha (FIDU technology) Druck-Umformung» (deformazione libera per sviluppato un'intera collezione di pressione interna). L’obiettivo di Zieta era prodotti: sgabelli, sedie, appendiabiti, scoprire un modo per rendere più stabile una librerie. lamiera relativamente sottile e leggera. Normalmente a tale scopo si ricorre alla piegatura e alla saldatura. Zieta ha seguito un altro percorso: ha saldato insieme due sottili lamiere con il laser e poi le ha gonfiate con aria compressa ottenendo degli elementi tridimensionali dalle forme strane, ma sorprendentemente stabili e robuste. L'azienda di Oskar Zieta si chiama oggi Zietadesignprocess MARLOES TEN BHÖMER Marloes ten Bhömer produce calzature che Sotto il termine Couture Shoes è (Rotational Moulder Shoes) sono provocatorie Il suo lavoro fonde raccolta una collezione di scarpe sperimentazione artistica e tecnologica realizzata sperimentando (a partire dal sperimentando hands on diversi processi e 2003) una serie di processi e di materiali: materiali. scarpe fatte con pelle-pesta. ELISA STROZYK Wooden Textile è un materiale metà legno e sviluppo di altri prodotti d'arredo che (Wooden Textile) metà tessile, tra duro e morbido, sfidando cosa utilizzano legno: Wooden Textiles, può essere previsto da un materiale o categoria. Wooden Carpet, Colored Wooden Rugs, Sembra e gli odori familiari, ma si sente strano, Miss Maple, Furniture Objects. in quanto è in grado di muoversi e formare in modi inaspettati. SONJA BÄUMEL Crocheted membranes traduce i dati scientifici Crocheted mambranes fa parte di un (Cricheted Membrane) in pezzi all'uncinetto creando un nuovo lavoro più ampio sulle membrane linguaggio di progettazione tra scienza e invisibili (oversized petri dish, bacteria (fashion) design. texture, visible membrane I, bacteria Il progetto rappresenta una visualizzazione di textile and the (in)visible film). come si potrebbero utilizzare popolazioni di batteri per creare nuovi vestiti che reagiscano alla temperatura di ciascun individuo. Le texture potrebbero essere meno spesse sulle aree in cui abbiamo bisogno di meno calore e più fitte costruiti su zone del corpo fredde e per creare nuove silhouette correlate corpo. GIULIO IACCHETTI Internoitaliano è un nuovo sistema di - (InternoItaliano) produzione e vendita di oggetti d'arredo. Un sistema di fabbrica diffusa. Internoitaliano è costituito da una rete di laboratori artigiani e piccole aziende manifatturiere che incarnano l'eccellenza della capacità italiana di creare manufatti di altissima qualità. REED KRAM E CLEMENS My Private Sky è una serie di porcellane per I due designer hanno sviluppato diversi WEISSHAAR Nymphenburg realizzate combinando tecniche progetti relativi alla fabbricazione (My Private Sky) tradizionali di produzione di porcellana con un digitale e interattiva. Il progetto software programmato per personalizzare la Multithread ha introdotto un nuovo decorazione dei piatti registrando le paradigma nelle strutture force-driven: costellazioni astrali. My Private Sky consiste in un software genera un set completo di una serie di 7 dischi singolarmente a mano modelli digitali per tubi e giunti di dipinte, ognuna delle quali è del tutto unico e collegamento che sono successivamente personalizzato per l'acquirente. Ogni set è una stampati in 3D con Selective Laser copia unica, individuale come l'acquirente. Melting (SLM). Questi sono consegnati a una squadra di artigiani che uniscono insieme le parti e applicano i diversi colori al telaio seguendo il calcolo degli sforzi generato dal computer. ARIANE PRIN From Here to Here #1 è un progetto collegato Sviluppo del progetto alla scala del (From Here to Here #1) alla produzione sostenibile di matite che si basa quartiere e sviluppo di altri progetti che su due questioni principali. La prima riguarda esplorano il tema dell’aumento della creazione di prodotti utili e specifici per un sostenibilità dei processi di produzone luogo partendo dai rifiuti che da quel luogo (es. macchine fai date per la produzione esso si generano. La seconda riguarda la di energia). legittimità di creare nuovi oggetti mantenendo il piacere di fare senza avere il senso di colpa dell'inquinare. INSTRUCTION FOR USE IFU© – Instruction for Use è un servizio piattaforma che propone al pubblico progetti di design 'Fai da Te' utilizzando semplici istruzioni cartacee ed un video tutorial che spiegano ed accompagnano l’utente nell’acquisto del materiale, degli utensili e nella fase di costruzione.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 209 JOHANNES HEMANN Storm è una serie di prodotti generati Diversi progetti e processi con diversi (Storm Series) dall’azione del vento che in un ambiente chiuso materiali (Pressed Wood, Lotka Lights, simulano la violenza di una tempesta. Solo Stolen wood) un’influenza indiretta può essere esercitata sulla progettazione delle singole forme. Questa avviene cambiando i parametri come materiali, calore, tipo di adesivo, direzione del vento o la dimensione della scatola. MAX LAMB Pewter Objects sono oggetti sviluppati - (Pewter Objects) attraverso un processo di sand casting condotto in natura o in ambienti controllati. STUDIO MYFIRST My First RotoMoulder è una macchina - (My First RotoMoulder) autocostruita per fare oggetti in plastica, alimentata da un trapano a batteria. Realizzata con materiali di scarto, il dispositivo produce prodotti di plastica cavi ruotando uno stampo su due assi, mentre le resine induriscono all'interno. La macchina è stata costruita a costo zero a partire da materiali di scarto e semplicemente alimentato da un trapano a batteria. Con l'uso di resine bio impostazione freddo è possibile creare una gamma completamente sostenibile di prodotti plastici cavi. STUDIO SWINE Dalla scoperta del Pacific Garbage Patch nel Studio Swine ha all'attivo diversi (The Sea Chair Project) 1997 (due volte la dimensione del Texas, altri progetti sperimentali a scopo sociale cinque sono stati trovati attraverso gli oceani come Can City microfonderia per del mondo). Questo materiale plastico richiede alluminio per i raccoglitori ambulanti migliaia di anni per degradarsi, che rimangono nelle città dei paesi in via di sviluppo. nell'ambiente per essere rotto in frammenti sempre più piccoli dalle correnti oceaniche. Recenti studi hanno stimato 46.000 pezzi di plastica per Km2 negli oceani del mondo. Sea Chair è uno sgabello interamente realizzato in materiale plastico recuperato dall’oceano attraverso dispositivi e macchine per la raccolta, il trattamento e la produzione di sgabelli. E’disponibile anche in formato open source. KIEREN JONES The Chicken Project è un progetto di critical (The Chicken Project) design che mette in discussione la nostra dipendenza sulla produzione di massa. Kitchen project è il progetto di una biofactory in grado di produrre oggetti fisici (tessuti e complementi d’arredo) a partire dall’utilizzo di scarti dell’industria alimentare (es. pelle e ossa di pollo). SUZANNE LEE Biocouture è una società di consulenza di Partendo dallo sviluppo di una (BioCouture) design che sviluppa di materiali biologici nel collezione di abiti, sono state sviluppate campo della moda, dell’abbigliamento sportivo anche le BioCouture shoes. e di lusso. BioCouture è una pelle biologica ottenuta attraverso un processo di coltivazione che sfrutta risorse rinnovabili (o rifiuti) minimi. MARJAN VAN AUBEL The Energy Machine è un mobile con un 'Diversi progetti e sperimentazioni tra (The Energy Machine) insieme di oggetti che sono costantemente al cui Well proven chairs; Table 1/7; The lavoro per accumulare energia. La vetreria sausage machine. utilizza la luce solare come fonte di energia sostenibile, ma può funzionare anche sotto la luce diffusa. Le celle solari sono completamente integrate negli oggetti stessi, un sistema autosufficiente unico. Quando si inserisce il bicchiere, il cabinet appositamente progettato raccoglie e memorizza l’energia e funziona come una batteria: questo potere può essere adattato in molti modi, dalla carica il telefono per alimentare una sorgente luminosa. POLYFLOSS La semplice tecnologia messa a punto consente (The Polyfloss Factory) la trasformazione dei rifiuti plastici in una nuova materia prima chiamato Polyfloss. Polyfloss potrebbe essere descritto come ‘lana plastica’. Questo accumulo di fibre sottili ha una bassa densità che ci permette di progettare e realizzare nuovi prodotti in plastica, senza tecniche costose o complesse di lavorazione come stampaggio ad iniezione. STUDIO SHIO Shio è scultura minerale illuminata che si basa (Shio lights) sul principio che la fisica crei oggetti. Penso a loro come esseri viventi di cristallo, congelati nel tempo, e pieno di luce. No due sono sempre

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 210 LE VAN-BO EuroChair 24 è un Do It Yourself-Chair, che - (Hartz IV Moebel € 24 Chair) costa 24 euro e può essere costruito in 24 ore. L'idea: il design senza tempo e di alta qualità per tutti. La sedia si ispira a classici moderni, ed è parte di un progetto di arredo chiamato "Hartz IV Möbel" (benessere tedesco). Questi mobili non sono in vendita. Il processo di Do It Yourself è ciò che conta. Il VHS ora offre 24 laboratori Chair Euro. Piano di costruzione è gratuitamente qui. ANNIKA FRYE La macchina, sviluppata durante un dottorato Altre sperimentazioni in questo campo (Improvvisation Machine) di ricerca, è più di un semplice strumento: La come premould lamps (2014); rot molded prima serie di pezzi comprende diversi oggetti lamps. come vasi, contenitori e ciotole. Ogni oggetto è unico. L'intonaco si indurisce entro 30 minuti. Gli oggetti sono levigati dall'esterno, il loro interno è ricoperto con vernice. Al primo sguardo, il materiale simile alla ceramica, ma l'intonaco è più leggero. Inoltre, le parti in legno e altri materiali possono essere aggiunti. CLAIRE WARNIER E DRIES L’artisan electronique è un sistema per la Unfold ha all'attivo diversi progetti che VERBRUGGEN - UNFOLD stampa 3D della ceramica che sfrutta non solo lavorano sui processi di fabbricazione DESIGN STUDIO il potenziale delle nuove tecnologie e materiali digitale come 3D Printing Kiosk. per la fabbricazione digitale, ma proietta la (L’artisan Electronique) storia delle tecniche ceramiche artigianali nel futuro. Una stampante 3d basata sul progetto RepRap open source e modificata per stampare ceramica è stata collegata a un’interfaccia aptica che simula un tornio virtuale che rende possibile la modellazione manuale/digitale dell’oggetto in ceramica che sarà poi stampato in 3D. MERHEL KARHOF Wind Knitting Factory è una macchina da La designer ha all’attivo lo sviluppo di (Wind Knitting Factory) maglieria tubolare da esterno utilizzabile con la altri windworks sola forza del vento. Il tessuto prodotto è (http://www.merelkarhof.nl/merel_karh raccolto e utilizzato per confezionare sciarpe e of_-_product_design/Windworks.html) altri accessori. Ogni sciarpa ha una propria etichetta che indica in quanto tempo si è lavorato a maglia e in quali date. ZHOUJIE ZHANG Le sedie prodotte da Digital Lab uniscono una Prima delle sedie era stato sviluppato un (Digital Lab chair) fase di progettazione CAD parametrica con altro progetto: Digital Vessels. tecniche di realizzazione completamente manuali e artigiane. NICOLA STÄUBLI Indie furniture è un progetto che esplora Un altro progetto pensato per (Indie Furniture) nuove forme di mass-customization. E’una l’autoproduzione DIY cardboard for soluzione di storage su misura composto da kids giunti mobili universali e personalizzato http://www.nicola- pannelli di legno. Un pezzo unico di staubli.com/foldschool/ arredamento è stato creato con l'aiuto di un aiuto di pianificazione online che fornisce anche l'elenco dei materiali. I connettori sono acquistati on-line, mentre il legno è fornita attraverso il falegname dietro l'angolo o il negozio fai-da-te. STUDIO 00:/ OpenDesk è una piattaforma globale per la Vedi progetto Wikihouse (solo Joni e David Steiner) produzione locale di arredamento. Si può usare per scaricare, creare e acquistare mobili per il proprio spazio di lavoro. OpenDesk dispone di una rete globale di produttori e una collezione di mobili da una serie di designer internazionali. Con ‘Open Making’ i progettisti ottengono un canale di distribuzione globale mentre i makers ottengono posti di lavoro redditizi e nuovi clienti. È possibile ottenere prodotti di design, senza il cartellino del prezzo designer, un più sociale, ecologica alternativa alla produzione di massa e di un modo conveniente per acquistare prodotti su misura. PIA DESIGN Processed Papers è una tecnica sviluppata da - (Processed Papers) Pia durante i suoi studi. Attraverso un processo di compattazione la carta diventa un materiale naturale solido simile al legno che può essere lavorato con macchine analogiche e digitali per creare oggetti componibili. LUCAS MULLIE & DIGNA Foodconvertors è il progetto di alcune - KOSSE ‘fabbriche di cibo da tavola, desktop factory per (Foodconvertors) la conservazione e preparazione dei cibi. Con queste macchine installazioni, le azioni umane sono limitate e il cibo si prepara quasi

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 211 interamente nel foodconvertor. EUGENIA MORPURGO CON Dont’Run Beta è una linea di progettazione e - JUAN MONTERO produzione trasparente, aperta e collaborativa (Don’t Run Beta) per calzature. Le calzature sono prodotte su misura in collaborazione con il cliente utilizzando materie prime riciclabili e processi di fabbricazione digitale (laser cutting e 3D printing) unite all’abilità artigianale. Don't Run Beta ha un metodo di assemblaggio semplificato (numero limitato di componenti e uso specifico di materiali e tecnologie nelle suole, connettori e la tomaia). I prodotti sono concepiti per essere reversibili e sostenibili. LAURA LYNN JANSEN E InnerFashion è una linea di micro-produzione - THOMAS VAILLY locale. Si tratta di un intero sistema di prodotti, (Inner fashion) che vanno dalla generazione idea di vendita al dettaglio tramite processi di fabbricazione. Su questa linea sono diplayed tutte le fasi del ciclo della moda, che vanno dallo stock di tessuto al modo in cui veste sono presenti e venduti tra cui passerella, negozio e abito in camera. Naturalmente il nucleo della linea è il processo di produzione a bassa tecnologia. THOMAS VAILLY Creative Line02 è un modo versatile di Il designer è esperto e studia/sviluppa (The Creative Line 02) tecnologia e basso per la produzione di forme processi di microfabbricazione: articoli plastiche fluide e organiche. Fogli di lattice su Volume (The New Sistem sono come le superfici numeriche, e possono http://www.roosjeklap.nl/work/120- essere allungati, scalati e soffiato per creare Trust-Design,-Part-Three-of-Four) and un'infinità di volumi di fluido. Linea 02 è un the metabolic factory. dialogo tra modellazione 3D, prototipazione rapida, artigianato e design. THOMAS LOMMÉE OpenStructures (OS) è un progetto- - (Open Structure) piattafroma che riguarda lo sviluppo di un sistema universale per la progettazione e costruzione di oggetti dove ognuno progetta per tutti. L'obiettivo finale è avviare un puzzle universale che permetta alla più ampia gamma di soggetti - dagli artigiani alle multinazionali - di progettare, costruire e scambiare la più ampia gamma di componenti modular. Si tratta di un esperimento in corso che vuole scoprire cosa succede se gli oggetti di design si basano su uno standard di regole progettuali comuni che stimolano lo scambio di parti, componenti, esperienze e idee e aspira a costruire le cose insieme. FRANCESCO ZORZI Invisible - Line di Francesco Zorzi è un modo - (Invisible Line) alternativo e low tech di produrre illustrazioni monocromatiche. Acqua bollente, spazzole metalliche, telai serigrafici e lampadine sono trasformati in nuovi strumenti creativi, che utilizzano il calore come proprio inchiostro da inserire su rotoli di carta termica per fax che sono utilizzati come tele. ITAY OHALY The Creative Line01 è un insieme macchine Il designer ha all'attivo diversi progetti (The Creative Line 01) low tech per intaglio libero, stampaggio sperimenatli sulle macchine per la rotazionale e taglio, per la microproduzione di fabbricazione. vari oggetti. In questo processo, il confezionamento di un oggetto è utilizzato come stampo, che definisce e influenza forma dell'oggetto e la consistenza. L'atto di apertura dello stampo viene trasferito dal produttore al cliente. TRISTAN KOPP ProdUSER – Become a Maker offre agli (ProdUSER) appassionati di ciclismo un set di strumenti per la preparazione per costruire biciclette uniche utilizzando un insieme di giunti appositamente progettati. Queste parti di collegamento sono utilizzate le giunzioni dei quattro tubi che compongono un telaio di bicicletta. Lo scopo del prodotto è coinvolgere l'utente finale nella realizzazione della bicicletta. PIEKE BERGMANS Illusion: printed wooden table sono due - (illusion Printed Wood Table) coppie di tavoli di legno trattati superficialmente con uno speciale metodo costruttivo, autoprogettato, al fine di corrispondere immagini stampate da tutti i lati. Collaborando insieme all'artigiano Pieter van der Aa è stata utilizzata una tecnica di laser printing per sviluppare pattern innovativi.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 212 STUDIO BESAU- MOA CNC è un progetto sperimentale di - MARGUERRE hackeraggio tecnologico sviluppato com Tom (MOA CNC) Pawlofsky (www.Pawlofsky.de) e con Ludgar Hovestadt, professore di architettura e computer-aided design all'ETH (www.arch.ethz.ch/DARCH). Riguarda la riconversione di una macchina CNC in un telaio. LEELABSTUDIO Si tratta di una collezione di orologi digitali. I designer hanno all'attivo diversi (Clocks) progetti e sperimentazioni collegate alla fabbricazione digitale e interattiva (design digitale e generativo: Fleur de wall Weave chair e Spline Furniture) ZOE ROMANO Openwear è stata una piattaforma Zoe Romano lavora a diversi progetti nel (Open Wear) collaborativa per la creazione di moda attiva campo dei processi di fabbricazione: per tre anni dal 2009 al 2012. Una comunità gestisce il fabLab WeMake, Sviluppa online dove è possibile condividere i valori, progetti nel campo dell'interaction conoscenze e pratiche di lavoro collaborativo e design per la moda. distribuito. MATTHEW PLUMMER- Un annaffiatoio e un action figure sono stati tra Un precedente interessante progetto FERNANDEZ gli oggetti di uso quotidiano scansionati e relativo all'interactive fabrication al (Digital Natives) distorte dal designer Matthew Plummer design generativo era Sound/Chair (del Fernandez per creare questi vasi stampati in 3D 2007).Water-jet cut e polyethylene foam. sfaccettate e riccamente colorate, i Digital Natives. Gli algoritmi deformano la forma matematicamente riposizionando la sua serie di coordinate. FLORIAN SCHMID Un nuovo materiale chiamato Concrete Canvas - (Stitching Concrete) è stato sviluppato per produrre una serie di sgabelli Stitching Concrete in tessuto impregnato di cemento poi inzuppando in acqua per renderlo pieghevole. Il nuovo materiale è costituito da cemento stratificato tra tessuto e un supporto in PVC. Una volta bagnato può essere manipolato per alcune ore prima dell'indurimento. Gli sgabelli finiti conservano l'aspetto morbido del tessuto piegato, ma sono a prova di fuoco, impermeabili e abbastanza forti per sedersi. Il tessuto della tela di canapa è pervasa di cemento poi tagliato e cucito e lasciato steso sul legno per asciugare. Il materiale è resistente all'acqua, al fuoco e ai prodotti chimici. SANDY NOBLE Polargraph è un semplice dispositivo che (PolarGraph) disegna un'immagine utilizzando una normale penna, alcuni motori e qualche stringa. AMÉLIA DESNOYERS Digital Wax Print esplora il rapporto tra Progetto Shaping Sugar (Digital Wax Print) digital fabrication e la tecnica manuale di (BioFabrication). Guardando l'industria tintura a cera. Fonde due metodi di produzione del vetro, la designer ha messo in contrastanti, creando uno strumento che parallelo la tecnica del vetro soffiato e trasforma un'azione industriale in un processo zucchero casting per creare un nuovo di produzione su piccola scala eseguendo la progetto di food design: occhiali da funzione di un solo passo all'interno di una zucchero. sequenza complessiva. Adattando la macchina al processo - prendendo una tecnica tradizionale focalizzata sulla ripetizione e collegandola alla precisione prevista dei dati per la fabbricazione digitale – si creano risultati che differiscono dalle aspettative. FRASER ROSS La penna DIY è pensata per l'autoproduzione (DIY Pen) di massa, un oggetto bidimensionale/tridimensionale che indaga quali forme possono essere creati dalla produzione di lamiera piana e dalla combinazione di due materiali molto diversi. JO MESTEERS Ispirato dai processi sottostanti e dei principi Il designer ha all'attivo alcuni progetti (Redefinging Genetics) della natura e della scienza, il vaso Redefinging collegati alla fabbricazione digitale e Genetics è composto da 6.000 piccole aste, che analogico che riflettono sul post- sono state costruite manualmente attraverso un consumo come PULP. programma per computer in 3D. Per questo progetto Jo Meesters ha collaborato con Willem Derks e TNO Industries nell'applicazione dell’alumide, un materiale fatto di alluminio e polvere di nylon. STEPHEN SIEPERMAN Ript STool è uno sgabello concepito senza - (Ript Stool) giunti ma solo l’utilizzo di fascette di plastica. fori nel materiale forniscono stanza per unire pezzetti di mdf senza l'utilizzo di colla. E’ disponibile come "fai da te", versione o readymade con diverse opzioni di fascette e

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 213 feltro colorati. MELANIE BOWLES The People’s Print è una piattaforma open - (The People’s Print) source per le persone che appassonati di textile design. Promuove interazione sociale, design open source e metodi di lavoro collaborativi per creare produzioni tessile e moda sostenibili. People's Print offre una serie di strumenti e servizi per potenziare il partecipante e consumatore e metterlo al centro del processo di progettazione. CLARE PAGE E HARRY Lost Twin Ornament #2 rappresenta una - RICHARDSON – sperimentazione delle possibilità offerte dalle COMMITTEE tecnologie per la prototipazione rapida. Coppie incongrue di oggetti sono scelte e collegate tra (Lost Twin Ornaments) loro. Le sculture risultanti sfruttano le complesse forme nuove che si generano dal morphing mettendo in discussione l'estetica futurista abilitata dalle tecnologie digitali. Shelley Doolan Le forme dei vetri Iteration derivano dall’uso - (Iteration 512) di equazioni che controllano l'interazione tra le onde. L'output di queste equazioni è un modello tridimensionale elaborato utilizzando un software di modellazione. DANIEL O’ RIORDAN O'Riordan ha sviluppato un metodo di - (Ripple Tank Table) produzione per lo sviluppo di pattern per oggetti che riproducono il momento effimero della pioggia quando colpisce l'acqua. TAVS JORGENSEN Jorgensen indaga su come le nuove interfacce Con il gruppo di ricerca Autonomatic di (Glass investment Casting informatiche possono facilitare l'estetica Falmouth ha all'attivo altro progetti with 3D Moulding) personalizzata dei manufatti. come una collaborative CNC machine (Interactive fabrication), JO HAYES WARD Random Rings sono gioielli creati con - (Random Rings) microbuilding blocks che presentano un'estetica architettonica e biologica con l'obiettivo di catturare la luce attraverso la creazione di strutture intricate che suggeriscono riferimenti geometrici e matematici. STUDIO HABITS – DIGITAL Open Mirror è uno specchio ovale interattivo Digital Habits è una collezione che HABITS che consente di collegare iphone o ipod per insieme a Open Mirror comprende altri (Open Mirror) l'ascolto della musica anche in un ambiente quattro prodotti: due lampade come il bagno e per un utilizzo anche con le interattive (Dragon e Cromatica); un mani bagnate. altoparlante digitale fabbricato in cemento e abete (P.A.C.O.); un sistema audio a parete (osound) ARCHIVIO DESIGN La lampada in cartone è sviluppata per - (Lampade Laser) EETICO è un progetto che nasce con l'obiettivo di rafforzare la rete e artigianale creativa produzione della provincia di toscana. L'intento è quello di creare una fabbrica Comune tra designer e artigiani. BRAAM GEENEN Gaudi Chair/Stool è uno sgabello stato Partendo dallo sgabello il designer sta (Gaudi Chair/Stool) progettato utilizzando lo stesso metodo di sviluppando la collezione di sedute. Lo Antoni Gaudí mentre per determinare la studio è coinvolto in altri progetti: struttura dello schienale della sedia, è stato costruzione di un robot open source utilizzato uno script software. Lo script è interamente realizzato con 3D printing e basato su tre fasi: la distribuzione delle forze ricerca sui materiali biocompositi. sulla superficie della sedia, la direzione delle forze sulle 'costole' e la loro altezza. Il progetto indaga come la nuova tecnologia può essere basata su concetti semplici, logici. In questo caso, un concetto che ha dimostrato la sua forza e la bellezza di più di cento anni. MARTEEN BAAS + DHPH Clay furniture sono mobili fatti di argilla (Clay Furniture) sintetica, con un scheletro metallico all'interno che ne rinforza la struttura. Sono prodotti manualmente nella multifactory DHPH (la production house di Marteen Bass). STUDIO ERIC KLARENBEEK Eric Klarenbeek studia nuovi processi per la (Mycelium Chair) stampa 3D di organismi viventi, come il micelio dei funghi in combinazione con materie prime locali per creare prodotti con un impatto ambientale negativo. La maggior parte dei prodotti sono creati attraverso processi industriali intensivi. La stampa 3D fornisce solo in parte in una soluzione, dal momento che possiamo produrre localmente collegandoci a "Makers service" attraverso portali web esistenti. Il problema è che i materiali applicati, che sono la maggior parte

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 214 delle materie plastiche a base di olio, e prodotto industrialmente. Lo stesso vale per "bioplastiche" che spesso usano OGM. Klarenbeek ha collaborato con un team di scienziati presso l'Università di Wageningen per la produzione dell'impasto organico stampabile. Progettisti e scienziati hanno sperimentato con allevamento di materiale stampato con micelio, Materiali che sono stampabili in 3-D dove il micelio possa crescerci sopra di cui la Mycelium chair è un esempio. OLIVIER VAN HERPT E’ una scarpa personalizzata creata esattamente Il designer ha all'attivo diversi progetti (3D Printed Shoes) per adattarsi al piede di chi lo indossa. Con collegati alla fabbricazione digitale (3D l’utilizzo di scansione 3D e la stampa 3D è Printing Ceramics, 3D Printed Beeswax, possibile creare scarpe uniche fabbricate Delta Drawing Machine, Time Writer, localmente e fatto per le caratteristiche di ogni Granule Extruder, 3D Dripping, CNC piede. Ogni scarpa è diversa in quanto molte Milling Machine, Biocomposite). persone hanno differenze tra i due piedi. La scarpa ha un peso leggero e una forte struttura aperta. IRIS VAN HERPEN, NERI E’ una collezione di undici vestiti creati dalla Iris Van Herpen ha all'attivo diverse OXMAN E JULY KOERNER designer olandese van Herpen e stampati 3D. collezioni sperimentali. Neri Oxman si (3D printed fashion) Uno di questi, una gonna elaborato e mantello, occupa di biofabbricazione e è stato realizzato in collaborazione con Neri fabbricazione digitale al MIT. Oxman artista, architetto, designer e docente del Media Lab del MIT e poi stampato in 3D da Stratasys. GREAT THING TO PEOPLE Catenary Pottery Printer E’ una macchina per Lo studio ha all'attivo altri diversi (Catenary Pottery Printer) generare oggetti di ceramica utilizzando una progetti di digital crafting. versione analogica di progettazione parametrica. "This project gives us a new scope - more parametric, less digital - allowing us to speak about parametric design without computers and digital fabrication laboratories which generates dialogues from academic contexts to communities of artisans," he continued. The designers have used the machine to make tableware, candle-holders and lamps, and suggest that the process could be scaled-up to make larger objects like furniture using lost-wax casting or resin. LYNN MCLAHAN Bubble Jewels sono gioielli che imitano la Ha sviluppato altri prodotti con lo stesso (Bubble Jewels) forma e la consistenza delle bolle di sistema. sapone.sfrutta gli ultimi ritrovati delle tecnologie digitali. La designer costruisce nuovi strumenti software digitali per generare modelli e strutture che manipola giocosamente. I gioielli sono poi realizzati con le più moderne tecnologie di fabbricazione digitale accanto tecniche artigianali tradizionali. BEHROKH KHOSHNEVIS Contour Crafting è una tecnologia per la - (3D printer Contour Crafting) manifattura additiva in grado di stampare una casa in meno di 24 ore. Questa tecnologia riduce il consumo energetico e le emissioni utilizzando un processo di stampa rapida 3D per fabbricare componenti di grandi dimensioni. Con un solo passaggio è possibile costruire una casa o più edifici, anche con design differenti, aggiungendo in ogni casa tutti i condotti per impianti elettrici, idraulici e di condizionamento d’aria. SANDRO GONNELLA Dopo aver fatto esperienza nel mondo - (Occhiali Ozona) dell'occhialeria, disegnando occhiali per grandi marchi, Sandro Gonnella ha aperto un atelier- boutique (una urban microfactory) per creare occhiali su misura utilizzando processi artigianali, semi industriali e strumenti per la fabbricazione digitale. MARCO RIZZUTO E FabTotum è un personal fabricator low cost - GIOVANNI GRECO (una multimachine) in grado di compiere tre (FabTotum) lavorazioni additive manufacturing (stampa 3D), subractive manufacturing (fresa) e scanner 3D. E’ open source e personalizzabile e sarà commercializzata entro fine 2014. OLUWASEYI SOSANYA 3D Weaver è un telaio che può tessere filati in Il designer ha all'attivo altri progetti (3D Weaver) tre dimensioni. Allo stato attuale la stampante collegati alla fabbricazione digitale (Floe, è in una versione rudimentale ma in fase di Beest in a Box, 3D Painter, Project sviluppo e ‘industrializzazione’. Chaboo) UNTO THIS LAST Unto This Last è una urban microfactory

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 215 (Londra) che progetta e produce una propria collezione di mobili design to order, direttamente producibili nel laboratorio retrostante attraverso l’utilizzando una fresa CNC.

Tab. 4.8 – Breve descrizione dei designer=impresa analizzati.

In oltre la metà dei casi (60 su 109) la microproduzione non è né l’unica né la principale attività svolta dal designer. In altri 28 casi dall’analisi del portfolio emerge che l’attività di microproduzione è un’attività occasionale di tipo sperimentale. Per i restanti soggetti (21 su 109) la microproduzione risulta essere l’attività principale o comunque un’attività prioritaria. Nella grande maggioranza dei casi (88 su 109) è possibile affermare (e confermare) che la microproduzione è un’attività importante ma tendenzialmente concepita e sviluppata in modo parallelo o complementare all’attività professionale progettuale.

Questo dato necessita di approfondimenti più puntuali e di parziali correttivi perchè diversi casi di progettisti hanno da poco lanciato i loro progetti e stanno lavorando al loro sviluppo. Tra i 60 casi in cui la microproduzione è complementare all’attività progettuale si possono osservare comportamenti o attitudini corrispondenti a due diversi possibilità di sviluppo queste attività: da un lato ci sono soggetti che tendono a consolidare e stabilizzare le proprie microproduzioni attorno allo sviluppo di una macchina, una tecnologia, un principio, una tecnica o un metodo, dall’altro invece ci sono soggetti interessati a esplorare contemporaneamente diverse direzioni progettuali e produttive. Salvo poche eccezioni come Joris Laarman, che è capace di sviluppare contemporaneamente più attività di microproduzione (vedi casi studio approfondito), l’attitudine alla specializzazione è naturalmente prevalente nei soggetti che hanno sviluppato un processo di microproduzione molto caratterizzato come nel caso degli Endless furniture di Dirk Vander Kooji o dei Pixel vases di Julian Bond. I pochi soggetti che hanno maggiormente strtutturato le proprie microproduzioni, nella maggioranza dei casi hanno sviluppato questi processi con la tesi di laurea o grazie dall’ottenimento di un piccolo finanziamento iniziale (crowdfunding, finanziamenti da soggetti pubblici o venture capital)14. Per i D=I la formazione sembrerebbe configurarsi come una forma low cost di R&S e incubazione che di avere a disposizione risorse economiche, e l’accesso a strutture e reti di competenze che aiutano il primo percorso di materializzazione del prodotto o la verifica sperimentale del processo.

14 I casi sono: Sinori Design – Sinori Percussion, Noah Guitars, Andrea Cattabriga - SlowD, Jane ní Dhulchaointigh - Sugru, Nervous System, Joris Laarman – MDX3 Mataerial, Enrico Dini – D-Shape, Open Source Ecology, Oskar Zieta – Plopp furniture, Marloes Ten Boemer – Couture Shoes, Suzanne Lee - BioCouture, Merhel Karhof – The Wind Knitting Factory, Eugenia Morpurgo e Juan Montero – Don’t Run Beta, Sandro Gonnella – Occhiali Ozona, UntoThisLast Furniture).

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 216 4.1.7 PRODOTTI E CATEGORIE MERCEOLOGICHE

I 109 light cases sono stati analizzati dal punto di vista merceologico per indviduare le principali categorie di riferimento per la microproduzione. Queste sono state definite attivando un confronto generale con altri sistemi di classificazione delle attività economiche come il codice ATECO/NACE15. L’analisi dei prodotti sviluppati dai D=E ha evidenziato sette diverse categorie (Tab 4.9).

PRODOTTI-PROGETTI CATEGORIE BENI PER LA CASA Arredi per casa (23) (71 prodotti/progetti) Vasi, suppellettili e altri recipienti (18) Tavoli e sedie (16) Lampade e illuminotecnica (9) Articoli casalinghi (4) Arredi per ufficio (1) BENI PER LA PERSONA Tessuti e Abbigliamento (14) (36 prodotti/progetti) Scarpe (4) Gioielli (2) Orologi (2) Occhiali (1) Altri accessori (3) MACCHINE UTENSILI Macchine tessili (1) (15 prodotti/progetti) Macchine per la fabbricazione digitale (5) Macchine per la preparazione del cibo (1) Macchine per lo stampaggio di materie plastiche (1) Macchine per la produzione di oggetti in vetro e ceramica (2) Macchine per la produzione di arredi Macchine per la produzone di artefatti grafici (3) Strumenti per il fai da te (1) (MICRO)ARCHITETTURE Sistemi per l’edilizia prefabbricata (2) (4 prodotti/progetti) Sistemi per la costruzione di microarchitetture e allestimenti (2) STRUMENTI PER LA MUSICA Strumenti musicali (2) (3 prodotti/progetti) Sistemi per l’ascolto audio (1) MEZZI DI TRASPORTO Biciclette (1) ALTRO Prodotti per la grafica (3) (4 prodotto/progetti) Prodotti per la riparazione di oggetti (1)

Tab. 4.9 – Prodotti e categorie merceologiche dei designer=impresa.

Il primo dato interpretativo riguarda la tipologia e la varietà di prodotti (24). Sebbene si confermi la presenza delle tipologie di beni che fanno riferimento ai tradizionali settori del design (beni per la casa e la persona), scompaiono curiosamente alcune categorie come gli elettrodomestici sostituiti da un insieme di macchine analogiche e digitali utilizzate per la fabbricazione di diverse tipologie di prodotti (cibo, tessuti, oggetti per la casa, mobili). In altri dieci casi il designer progetta un primo bene - la macchina - che serve per produrre gli artefatti. Entrambi questi beni sono collocati sul mercato in forme diverse (i prodotti venduti e le macchine affittate o utilizzate a tempo).

15 http://ec.europa.eu/competition/mergers/cases/index/nace_all.html; http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/Nsi/Strumenti/Codici+attivita+e+tributo/Codici+attivita+at eco/

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 217 I prodotti raggruppati in categorie sono stati confrontati con quelli (e le relative categorie) presenti su tre piattaforme online legate alla microproduzione: Outgrow16 (un marketplace per indie innovator), Makezine (la piattaforma per makers di Make magazine), Instructables (la piattaforma per il DIY) e Etsy (artigianato amatoriale e hobbismo). L’obiettivo è verificare, ove possibile, se ci sono differenze evidenti (Tab. 4.10) tra la microproduzione promossa dai designer e quella degli outgrowers, dei makers e di chi si cimenta con il DIY.

CATEGORIE D=I OUTGROW ETSY MAKE INSTRUCTABLES (outgrow.me) (Etsy.com) (makezine.com) (instructables.com) Beni per la casa Design Arte Music (macrocategories) Beni per la persona Gadgets Home & Garden General Food Apparecchiature Apple accessories Jewels Electronics Outside elettroniche Android Woman Art & Design Play Mezzi di trasporto accessories Man Home Technology Macchine utensili Home Childre Makers Workshop (Micro)architetture Fashion Vintage Arduino Everything Food Marriage Craft Sporting gadgets Fun & Games Photography Kids & Family Pens & Stylus Wallets Boards & Videogames Everything but Apple Miscellaneous

Tab. 4.10 – Confronto tra categorie merceologiche di diverse piattaforme per l’autoproduzione.

Dalla comparazione tra le categorie merceologiche si possono subito fare due considerazioni: Outgrow e Make hanno una categoria specifica attribuita al design mentre su Instructables il design non è nemmeno considerato. Osservando molti ‘oggetti di design’ pubblicati su Outgrow si vede chiaramente come pur essendo di pregevole fattura e quasi indistinguibili da prodotti industriali siano principalmente considerabili come ‘accessori per prodotti industriali’ (non a caso ci sono due categorie ‘Apple e Android accessories’) mentre su Make e Instructables c’è invece una maggioranza di prodotti allo stadio prototipale e assimilabili a gadget, con la sola differenza dei progetti di macchine utensili e robot pubblicati su Make.

BENI PER LA CASA (SEDIE). Per quanto riguarda questa categoria è stata preso come riferimento la sedia, un ‘classico’ oggetto su cui si sono esercitate generazioni di designer. Osservando questi prodotti con il filtro della microproduzione è subito osservabile una molteplicità di forme e materiali impiegati che testimoniano come, rispetto ai processi di produzione, i D=I ragionino in modo svincolato dalle logiche dell’industria e dell’artigianato.

16 Outgrow.me è il marketplace online dove è possibile acquistare molti prodotti che hanno ottenuto un finanziamento attraverso crowdfunding.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 218 Nei prodotti dei D=I sembra esistere anche una constante tensione, o una ricorrente forma di contraddizione, tra i concetti di 'serialità' e 'unicità'. Alcuni di queti prodotti sono certamente unici, anche se fabbricati con macchine o dispositivi meccanici, perchè i processi produttivi sono concepiti inserendo alcune variabili incontrollabili come il tempo o l'interazione tra individui. In altri casi i prodotti sembrano invece originati in modo randomico mentre in realtà si tratta di una casualità controllata matematicamente. Un altro concetto riguarda il superamento del concetto di 'perfezione' storicamente appannaggio dell'industria e di 'imperfezione' proprio dell'artigianato. Nei D=I sembra farsi strada l'idea del prodotto 'perfettibile', ovvero di un artefatto 'non definitivo' che può rimanere tale oppure essere 'perfezionato' in diversi modi e anche non dal designer stesso. Un'altra caratteristica contraddittoria riguarda l'apparente fragilità o instabilità formale suggerita da molti di questi prodotti che si scontra invece con le sorprendenti caratteristiche prestazionali che questi artefatti esprimono, come risultato di molteplici tentativi e sperimentazioni.

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Fig. 4.7 – Sedie fabbricate da designer=impresa.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 221

Provando a comparare le sedie prodotte dai D=I con le centinaia di modelli realizzate da makers e hobbisti pubblicate su Make, Instructables ed Etsy (su Outgrow non ci sono arredi in vendita) è possibile osservare come partendo dallo stesso materiale (es. rifiuti), concetto (es. riuso), tecnologia (es. stampa 3D) o filosofia (es. open source) gli esiti siano diversi e visibili ad occhio nudo. I prodotti dei makers e degli hobbisti non sembrano in grado di esprimere una cultura progettuale caratterizzata da un percorso progettuale, di ricerca e sperimentazione e nella maggiorparte si riducono a esercizi base di hacking e re-making o a sperimentazioni ludiche ed estemporanee.

MACCHINE. E’ sicuramente la categoria merceologica più interessante e per certi peculiare dei D=I, in quanto in diversi casi rappresenta il vero prodotto della loro attività. Questa categoria include un’ampia varietà di macchine utensili e macchine processuali analogiche (anche manuali) e digitali che ripensano in forma originale le tecniche di manifattura additiva e sottrattiva o le tecniche per la formatura di materiale amorfo. L’analisi delle macchine dei D=I fa emergere alcune caratteristiche ricorrenti: o Hackeraggio o customizzazione di macchine industriali (es. robot per automazione) per convertirle da una produzione di scala a una produzione di scopo (o mulipurpose) e adattate per realizzare pezzi unici e microserie (es. Joris Laarman, Trikoton, Dirk Vander Kooji); o Hackeraggio o customizzazione di vecchie macchine industriali e strumenti artigianali analogici in macchine e strumenti digitali compatibili con altre tecnologie per la progettazione e la fabbricazione digitale (es. dotazione di unità Arduino come nel caso di Trikoton); o Re-making di macchine esistenti per la riproposizione di un processo produttivo (es. fabbricazione digitale) su scala più grande o più piccola (es. Contour Crafting, o D-Shape per stampare case) o in forma semplificata da industriale automatizzato ad artigianale manualizzato come nel caso delle macchine per lo stampaggio rotazionale (My First Roto Moulder, The Improvvisation machine di Annika Frye, o lo stampo per le rotonationalmouldershoes di Marloes Ten Boemer); o Creazione ex-novo di macchine che ripropongono in forma semplificata i processi produttivi di grandi impianti industriali trasformandoli in linee per la produzione su piccolissima scala (es. Le Creative lines di Italy Ohaly, Thomas Vailly e Laura Lynn Jansen); o Creazione ex-novo di macchine che ripropongono in forma totalmente analogica le tecniche e logiche della progettazione e della fabbricazione digitale (come nel caso della Pixel Casting Machine di Julian Bond); o Creazione ex-novo di dispositivi con interfacce aptiche o digitali che dialogano con le macchine per la fabbricazione (analogica e digitale) facilitando le attività di progettazione e microproduzione stimolando la ‘collaborazione’ tra uomo e macchina ( Haptic Intelligentsia di Studio Homunculus o Computer Augmented Craft di Christian Fiebig);

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 222 o Creazione ex-novo di macchine automatiche in grado di sfruttare uno o più fenomeni naturali per sviluppare autonomamente processi di microproduzione (come Idea of a Tree di Mischer’Traxler e SolarSynter di Marcus Kayser). o Creazione ex-novo di tecniche per il trattamento delle superficie basate sull'hackeraggio di software e tecnologie CAD con lo scopo riproduzioni di fenomeni fisici attraverso le tecnologie per la fabbricazione digitale.

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Fig. 4.8 –Macchine e tecnologie fabbricate da designer=impresa.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 225 Uno scopo principale guida i D=E è chiaramente individuabile nella progettazione di queste macchine: l’ottenimento del controllo diretto e personale delle tecniche e dei processi di produzione. Questo aspetto che conferma le ipotesi iniziali si traduce concretamente da un lato nella digitalizzazione e informatizzazione delle tecniche e delle pratiche manuali e artigianali (per esempio il potenziamento digitale o il monitoraggio digitale di uno strumento manuale) e dall’altro nella miniaturizzazione e umanizzazione dei processi e delle attività industriali (per esempio la riduzione di scale e complessità di tecnologie e impianti industriale e la loro miniaturizzazione e manualizzazione). Queste due impostazioni sono risultate equamente presenti nei casi analizzati: in circa la metà dei casi (55 casi attribuibili ad artigianato aumentato e 45 a industria semplificata).17

Ma anche altre caratteristiche risultano enfatizzate. Dal punto di vista estetico queste macchine ‘citano’ o si rifanno a immaginari tecnologici ucronici e distopici che spaziano dalle macchine settecentesche (es. gli automi di Vaucanson, le macchine di Turing o le prime macchine a vapore) fino alle tecnologie steampunk o cyberpunk. Dal punto di vista costruttivo queste macchine rendono di fatto IL PROCESSO PRODUTTIVO TRASPARENTE, VISIBILE, MOBILE E RIALLESTIBILE trasformandolo di fatto in una performance che può essere riprodotta in forma distribuita oppure diventare itinerante e partecipata costituendo un potenziale valore aggiunto nella vendita del prodotto. Dal punto di vista prestazionale le macchine si caratterizzano infine per la tendenza a sviluppare la componente ‘’ nella microproduzione: prodotti monomaterici, monolitici e semplici incastri che riducono al massimo le fasi di assemblaggio e post-produzione che diventano insesistenti o sono delegabili al cliente-utenti

BENI PER LA PERSONA. Da uno sguardo d’insieme ai prodotti progettati dai D=I emerge una oscillazione tra la moda intesa come pratica di microproduzione collettiva e sostenibile (a livello sociale, ambientale ed economico) e la moda intesa come sviluppo di prodotti wereable unici, personali da produrre su misura e direttamente sul corpo. Entrambe le tendenze sono esplorate in diverse direzioni con l’apparente obiettivo di superare il concetto convenzionale di moda. Nel primo caso abbiamo esempi di piattaforme sperimentali come Open Wear e The People’s Print che abilitano forme di microproduzione open source e collaborative e sperimentano nuove forme di apprendimento al fare. L’altro filone di attività lavora più sullo sviluppo di nuove tecniche (soprattutto digitali) per la progettazione e produzione di tessuti, capi di abbigliamento e accessori che lavorano sulla misurazione del corpo, sui suoi comportamenti, sui parametri biometrici o sulle grandezze biofisiche come nel caso 3D printed fashion di Iris Van Herpen e Neri Oxman, 3D printed shoes di Oliver Van Herpt e le scarpe di Marloes Ten Bomer. Grande attenzione è infine posta nella ricerca sui nuovi materiali soprattutto nel campo delle biotecnologie e della biofabbricazione come

17 Nel caso delle 8 piattaforme di servizi per la micro e autoproduzione questo aspetto non è applicabile.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 226 testimoniato da progetti come BioCouture, Micro’Be’ e Crocheted membrane di Sonja Baumel.

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Fig. 4.9 –Accessori e beni per la persona fabbricati da designer=impresa.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 228 4.1.8 DESIGN

I casi sono stati analizzati e classificati dal punto di vista dell’approccio, dei processi e dei metodi progettuali utilizzati, provando a comprendere a livello generale quali potessero essere gli aspetti progettuali più innovativi in relazione all’attività di microproduzione. La ricerca ha studiato, individuato e definito (attraverso un lavoro di literature review) una serie di approcci, ambiti e specializzazioni che caratterizzano il design per la microproduzione (Tab. 4.11 , per spiegazioni più esaustive si rimanda al Capitolo 2) utilizzati per classificare i progetti:

DESIGN PER LA MICROPRODUZIONE BREVE DESCRIZIONE DESIGN KM0 Un progetto concepito per essere acquistato online e quindi materializzato il più vicino possibile al cliente. DESIGN ON DEMAND Uno strumento e servizio di progettazione e produzione accessibile dal cliente quando egli lo richiede. DESIGN SU MISURA Un progetto/prodotto materializzato sulla base delle specifiche richieste del cliente. DESIGN GENERATIVO Un progetto/prodotto concepito attraverso una procedura basata sull’utilizzo di regole matematiche o algoritmi di composizione. spesso definite attraverso la modellazione parametrica. DESIGN MICROSERIE Un progetto/prodotto concepito per essere materializzato e venduto in pochi esemplari. DESIGN PEZZI UNICI Un progetto/prodotto concepito per essere materializzato e venduto in un unico esemplare. DESIGN OPEN SOURCE Un progetto/prodotto concepito attraverso l’utilizzo di informazioni progettuali documentate in forma digitale e pubblicamente condivise online. DESIGN DIY ( O DESIGN YOUR OWN) Un progetto/prodotto concepito e/o prodotto dal cliente attraverso strumenti di progetto messi a punto dal designer. DESIGN FOR DOWNLOAD Un progetto le cui informazioni possono essere utilizzate gratuitamente pagamento per scopi di autoproduzione. DESIGN TO ORDER Un progetto/prodotto che viene fabbricato solo se raggiunge un quantitativo minimo di ordini tali da giustificarne la sostenibilità della fase produttiva.

Tab 4.11 – Categorie definitorie del design per la microproduzione.

Guardando i casi nel loro insieme si può realmente constatare come lo sviluppo di un nuovo campo di attività definito DESIGNER TO CONSUMER sia realmente possibile per il design. In questo campo, che naturalmente comprende la micro e autoproduzione, la traslazione/riproposizione tout court delle pratiche progettuali pensate per lavorare con l’industria e collaborare con l’artigianato non è possibile. E nemmeno è pensabile che la crescita di soggetti come i

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 229 designer=impresa non possa influenzare anche le figure più classiche e tradizionali del designer autoprodotture e del designer-craftsmen.

Il primo dato da commentare sul design riguarda lo scopo dell’attività progettuale, dove la grande maggioranza dei designer=impresa (ma non la totalità) appare concentrata sulla realizzazione di microserie e/o pezzi unici. Questo dato, che di per sè è una semplice conferma dell’operatività nel campo della microproduzione, appare più interessante se lo si relaziona con altri approcci che caratterizzano il design della microproduzione. Il primo riguarda la concezione del design come un’attività on measure, on demand, to order (36 casi) e a Km0 (7) costruita o modificabile sulle esigenze di una singola persona (D-Shape, Gareth Neal, Marloes Ten Bomer, Oliver Van Herpt), attivabile quando il cliente la richiede (Ariane Prin, Mischer’Traxler), realizzabile dove il cliente la desidera o dove per lui è più conveniente (Slowd). Il passaggio successivo riguarda i tentativi in atto da parte di diversi D=I (circa 40 casi) di spingere l’attività progettuale oltre la customizzazione e personalizzazione puntando sull’open source e DIY delegando il design o la sua produzione ad altri soggetti. Da qui nasce l’interesse verso lo sviluppo di piattaforme di servizio aperte e collaborative che ragionano su diverse logiche: in Open Structure c’è l’idea di definire regole progettuali ‘universali’ che abilitino soggetti diversi a progettare cose diverse (se le regole sono le stesse per tutti è possibile che qualcosa progettato da una persona possa essere poi utilizzabile da un’altra); in Wikihouse e OpenDesk o Instruction for Use dove prevale l’idea di costruire progetti e linee guida progettuali per la produzione distribuita. In ogni caso il designer lavora quindi per stabilire le regole del gioco e proponendole all’utente sottoforma di strumenti ‘smart’ e ‘ready to use’ o di ‘semilavorati di progetto’. Per svolgere queste attività un altro cambiamento osservabile risiede nella nuova capacità del designer di intervenire hands-on sui metodi e gli strumenti per la progettazione, soprattutto quelli digitali. Da utilizzatore passivo di strumenti per il design, il designer si trasforma all’occorrenza in un progettista-sviluppatore di tecnologie e applicazioni per sé o per altri. Il designer acquisisce o adatta alcune sue competenze (come l’interaction e web design) operando come un coder che ‘scrive il design’ (inventa, modifica o manipola i software) o creando nuovi strumenti e interfacce che rendono il design un’attività generativa o gesturale. Il designer incorpora così la dimensione istintiva e sperimentale del tinkering all’interno delle tecniche di progettazione digitale oppure ripropone schemi, modelli e linguaggi progettuali semplificati – plug and play - da connettere immediatamente all’attività produttiva (Haptic Intelligentsia di Studio Homunculus, L’Artisan Electronique di Unfold).

APPROCCIO DI DESIGN N. CASI DESIGNER=IMPRESA DESIGN KM0 7

DESIGN ON DEMAND 8

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 230 DESIGN SU MISURA 27

DESIGN GENERATIVO 27

DESIGN MICROSERIE 53

DESIGN PEZZI UNICI 37

DESIGN OPEN SOURCE 17

DESIGN DIY 21

DESIGN FOR DOWNLOAD 2

DESIGN TO ORDER 1

ALTRO 4

DESIGNER CON UNA SOLA DIMENSIONE DI PROGETTO 35

DESIGNER CHE COMBINANO DUE O PIÙ APPROCCI 74

Tab. 4.12 – Approcci di design.

4.1.9 ELEMENTI DI INNOVAZIONE

Un tentativo di classificazione dei progetti è stato realizzato anche dal punto di vista degli elementi d’innovazione su cui i designer si sono focalizzati. In particolare la ricerca ha individuato quattro aspetti principali riguardanti l’innovazione dei designer=impresa (Tab. 4.13, 4.14):

LIVELLO DI INNOVAZIONE MATERIALI E/O COMPONENTI Riguarda lo sviluppo nuova applicazione di un materiale esistente, il miglioramento delle proprietà di un materiale o lo sviluppo di un nuovo materiale (high-tech, green, smart, clean, compositi, bio, nano, …); SISTEMA PRODOTTO SERVIZIO Riguarda l’innovazione della combinazione di prodotti e (PRODUCT SERVICE SYSTEM – PSS) servizi le cui caratteristiche sono in grado di soddisfare la

domanda e i bisogni dell’utente. La definizione di PSS in questo caso è vista come la più ampio e inclusiva possibile e può assumere diversi punti di vista scientifici (Sakao and Lindalh, 2009; Morelli, 2006; Tukker 2006; Verganti, 2004; Manzini and Vezzoli, 2002,). Dal punto di vista della microproduzione un focus particolare è sulle smart things e sui meta-products (Rubino, Hazenberg e Huisman, 2012). SERVIZIO “… A service innovation is a service product or service process that is based on some technology or systematic method. In services however, the innovation does not necessarily relate to the novelty of the technology itself but the innovation often lies in the non-technological areas. Service innovations can for instance be new solutions in the customer interface, new distribution methods, novel application of technology in the service process, new forms of operation with the supply chain or new ways to organize and manage services.” (TEKES, 2010; Hertog, 2000)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 231 PROCESSO DI (MICRO)PRODUZIONE Riguarda l’innovazione di uno o più elementi che contribuiscono alla materializzazione dei prodotti: i materiali, le macchine, le tecniche e le tecnologie di progettazione e produzione. SISTEMA DI (MICRO)PRODUZIONE Riguarda l’innovazione di uno o più elementi che contribuiscono alla materializzazione dei prodotti e alla loro collocazione sul mercato: il processo e il luogo di fabbricazione, le macchine e le tecnologie e l’organizzazione la gestione della produzione e della relazione con il mercato (Brandolese, 1993).

Tab. 4.13 – Livelli d’innovazione nel campo della microproduzione.

Materiale Sistema Prodotto- Servizio di Processo di Sistema di e/o Servizio microproduzione microproduzione microproduzione Componente

Materiale e/o 3 0 0 7 0 componente

Sistema Prodotto- 0 23 0 0 0 Servizio

Servizio di 0 0 12 1 1 microproduzione

Processo di 7 0 1 42 0 microproduzione

Sistema di 0 0 1 0 20 microproduzione

10 23 14 50 21

Tab. 4.14 – Livelli d’innovazione nel campo della microproduzione.

Dall’analisi emerge che, anche se in misura diversa, nel campo della microproduzione la capacità di innovare dei designer=impresa non si focalizza (più) solo sul prodotto ma si estende o si sposta sull’innovazione di processo e di sistema (di produzione). Questo aspetto è testimoniato dai diversi progetti di macchine e tecnologie, di tecniche e nuovi metodi di produzione e anche dall’interesse a progettare, configurare e allestire i luoghi in cui i designer possono produrre i loro beni oppure organizzare nuovi servizi per la micro e autoproduzione realizzata da altri soggetti. Aspetto questo confermato anche dalla presenza delle piattaforme di servizi che lavorano in questa direzione. La relazione con i processi è forte nei casi in cui l’elemento più innovativo è costituito da un materiale o un componente. Soprattutto nel caso dei biomateriali il tema della loro producibilità è quindi del processo è fortemente presente. Ma anche nei casi di innovazione di prodotto la componente sistemica è molto forte. Molti di questi prodotti e progetti sono in realtà delle smart things oggetti che abilitano la creazione di network e piattaforme che abilitano le forme di produzione aperte, partecipate e distribuite. Interessante è infine la relazione tra l’innovazione di design e l’innovazione tecnologica che in questo caso di esplicita nella capacità del designer di ‘mettere a sistema’ elementi e forme di innovazione high-tech, low-tech e no-tech, confermando non solo la propensione a progettare il sistema-prodotto e a (ri)progettare, (ri)configurare e customizzare il sistema di

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 232 produzione che lo genera (Bianchini e Maffei, 2012 e 2013) ma anche a ragionare sulla possibilità di invertire le gerarchie nella progettazione dei due sistemi.

4.1.10 PROCESSI DI MICROPRODUZIONE

Il compito specifico della ricerca è studiare i processi di microproduzione. Per questo motivo i progetti sono stati idealmente scomposti e analizzati dal punto di vista delle tecnologie, delle materie prime impiegate e del possesso e utilizzo dei mezzi e dei luoghi di produzione. I processi di microproduzione sono stati quindi classificati utilizzato un insieme di termini ‘una tassonomia dei processi’ rielaborati dalla ricerca (Tab. 4.15 , per spiegazioni più esaustive si rimanda al Capitolo 3): fabbricazione analogica/handmade; fabbricazione digitale, fabbricazione interattiva, biofabbricazione e (piattaforme per la) fabbricazione distribuita. Applicando una o più categorie ai progetti dei D=I è emerso il seguente risultato:

Analogic/ Digital Interactive Bio Distributed Handmade Fabrication Fabrication Fabrication Fabrication Fabrication Analogic/Handmade 18 19 4 1 2 Fabrication Digital Fabrication 19 32 3 1 4

Interactive Fabrication 4 3 10 2 1

Bio Fabrication 1 1 2 6 0 Piattaforme Micro e 2 4 1 0 7 Autoproduzione 44 59 20 10 14

Tab. 4.15 – Classificazione dei Processi di microproduzione.

La digitale fabrication è il processo di microproduzione più presente (59 casi). Circa la metà dei progetti utilizza digital fabrication in forma ‘pura’ (32) ma sono molti i casi in cui questi processi si legano a quelli di analogue/handmade fabrication (19). I processi di produzione analogici dei D=I presenti in forma ‘pura’ sono circa 20. Data la loro caratteristica di innovatività in relazione alla sostenibilità ambientale e sociale che promuovono sono a pieno annoverabili a pieno titolo nei processi di fabbricazione avanzata. Anche i processi definibili di interactive fabrication sono presenti sia in forma pura che collegati principalmente alla fabbricazione analogica e alla biofabbricazione, per le ragioni di potenziamento e di controllo di cui si è già scritto. Un discorso a parte va fatto per la biofabbricazione e per le piattaforme per la micro e autoproduzione. La biofabbricazione avviene in principalmente in forma pura perché probabilmente il designer sta da (troppo) poco tempo lavorandoci e forse mancano ancora le competenze progettuali e produttive adatte a digitalizzarne i processi, a connetterli con altre modalità di fabbricazione per renderli aperti e collaborativi. Le piattaforme per la micro e autoproduzione si trovano sia in forma pura, come ‘semplici’ erogatori di servizi e abilitatori, aggregatori e organizzatori di processi di

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 233 produzione distribuita, sia in relazione alle attività di produzione analogica e digitale realizzate da una pluralità di soggetti (deisgner, makers, DIY people).

4.1.11 SISTEMI DI PRODUZIONE

Un lavoro di ricostruzione e verifica (anche attraverso contatti diretti) è stato finalizzato a ricomporre un quadro informativo di base sul possesso, l’impiego e la configurazione dei mezzi di produzione da parte dei D=I. L’obiettivo finale è comprendere a livello generale come essi organizzano il processo e il sistema di microproduzione.

MATERIE PRIME. I designer=impresa utilizzano un’ampia varietà di materiali inorganici (vetro, metalli, argille,…) e organici (legno, plastiche, tessuti, materiali biologici) (66 e 68 casi) sono utilizzati sia singolarmente (30 e 45) che in forma combinata. Le evidenze più interessanti sono certamente sul fronte dello sviluppo di nuovi materiali o di nuove tecniche per il loro recupero e produzione. Circa un quarto dei designer dichiara nelle specifiche tecniche dei propri prodotti di utilizzare solo materie prime, pezzi o componenti recuperate da prodotti dismessi o scartati da altri processi di produzione. Un gruppo di progetti analizzati è attivamente impegnato sul recupero e il riciclo di materie prime e la produzione di nuovi materiali: Polyfloss è un materiale plastico ottenuto da un processo di ‘filatura’ della plastica (una macchina per filare lo zucchero hackerata), From Here For Here #1 e The Chicken sono riflettono su come produrre materie prime trasformando i rifiuti di comunità o gli scarti dell’industria aviaria, Dirk Vander Kooij utilizza nel suo processo di stampa 3D solo materie plastiche recuperate; Studio Swine ha progettato un insieme di macchine e sistemi per il recupero dei nurdles (le masse di zuppa plastica18 che galleggiano negli oceani). Altri progettisti si sono invece cimentati nello sviluppo di nuovi materiali: Marloes Ten Bomer ha creato la ‘pellepesta’ (pelle indurita) per produrre le sue scarpe piegate, Elisa Strokyz ha creato un tessuto di legno, Tejo Remi con la tecnica soft moulding producono un tessuto cementificato, mentre un gruppo di soggetti lavora sullo sviluppo di biomateriali: Micro’be’ e Mycellium sono materiali con caratteristiche interessanti ottenuti da semplici processi di fermentazione di batteri e coltivazione di funghi (vedi Fig.2). Molti di questi materiali hanno costi molto elevati perché il processo di produzione necessita di essere implementato e scalato, ma alcuni di questi già oggi hanno un costo comparabile con quelli prodotti industrialmente19.

MEZZI DI PRODUZIONE. Circa la metà dei D=I direttamente interpellati dichiara di possedere, in forma temporanea o a titolo definitivo, una o più

18 http://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_plastica_del_Pacifico; Studio Swine ha anche sviluppato il progetto Can City basato su una piccola macchina per il recupero porta a porta dell’alluminio e l’immediata trasformazione in lingotti (www.studioswine.com/can-city). 19 Il costo di un Kg di Polyfloss varia da 20 a 50 € del tutto in linea con i costi dei materiali plastici per la stampa 3D.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 234 macchine CNC per il rapid prototyping e la fabbricazione digitale (3D printer, laser cutter e frese CNC) anche ottenute con formule come il comodato d’uso gratuito diventando così beta tester per conto delle imprese produttrici. In una decina di casi è si avvalgono di servizi per la fabbricazione offerti da Fab Lab e artigiani. Ma il dato più interessante riguarda i 38 designer che si autocostruiscono le macchine e le utilizzano insieme a quelle acquistate creare a nuovi sistemi per la microproduzione.

LUOGHI DI PRODUZIONE. Partendo dallo studio dei mezzi di produzione è stato ricostruito, sempre in termini generali, il modo in cui i D=E configurano i propri sistemi per la microproduzione (Tab. 4.17). Il risultato dell’analisi ha rilevato l’esistenza di una grande varietà di configurazioni produttive temporanee o permanenti possibili che fanno chiaramente comprendere come l’attività di microproduzione non è sempre e solo realizzata in house ma anzi, fa emergere un mosaico di possibili connessioni e interessanti forme di ‘outsourcing’.

CONFIGURAZIONE DEL LUOGO E DEL SISTEMA DI PRODUZIONE N. CASI D=I DESIGNER CON ‘DIGITAL LAB PROPRIO (workshop, laboratorio, atelier, officina) 41 DESIGNER CON MICROFACTORY PROPRIA 24

DESIGNER + NETWORK PRODUZIONE DISTRIBUITA (artigiani e autoproduttori) 14

DESIGNER CON ‘DIGITAL LAB’ PROPRIO + RETE ARTIGIANI ESTERNI 5 DESIGNER CON ‘DIGITAL LAB’ PROPRIO + IMPRESA ‘HI-TECH’ ESTERNA 4 DESIGNER CON MULTIFACTORY PROPRIA 3

DESIGNER CON MAKERSPACE PROPRIO 3 DESIGNER + ‘DIGITAL LAB’ ESTERNO (università) 2 DESIGNER CON ‘DIGITAL LAB’ PROPRIO + IMPRESA ‘HI-TECH’ + RETE ARTIGIANI 2

DESIGNER CON MICROFACTORY PROPRIA + MAKERSPACE ESTERNO 2

DESIGNER + ‘NATURE AS A FACTORY’ (con produzione all’aperto o presso altro sito) 2

DESIGNER CON ‘DIGITAL LAB’ PROPRIO + MAKERSPACE ESTERNO 1

DESIGNER CON MICROFACTORY PROPRIA + ‘DIGITAL LAB’ ESTERNI (università) 1

DESIGNER CON MICROFACTORY PROPRIA + RETE ARTIGIANI 1 DESIGNER + MAKER SERVICE ESTERNO 1

Tab 4.16 – Configurazione dei processi di microproduzione.

Come ampiamente prevedibile la configurazione produttiva più semplice è la diretta implementazione dello studio di design equipaggiato con una o più macchine per la fabbricazione digitale (circa 40 casi). In alcuni (pochi) casi il designer si spinge più in là trasformando il proprio studio direttamente in un makerspace (come nel caso del Fab Lab di StudioLo, della DH-PH Den Herder Production House di Marteen Baas e Bas den Herder ma di recente da altri studi di design come DotDotDot con lo spazio OpenDot).

Un quarto dei D=I grazie al fatto di aver autocostruito le proprie macchine possono di fatto essere considerati soggetti che si dotano di una microunità di

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 235 produzione autonoma che può avere diverse dimensioni o dotazioni. Possiamo quindi parlare di designer che possiedono una desktop-factory (circa 10m2) come Julian Bond e la Pixel Casting Machine o la Particle Board Factory di William Shannon (spostabile su un carrello da traino), una micro-factory (circa 50m2)20 come la Wind Knitting Factory di Merhel Karhof o una mini-factory (circa 100m2) come la Digital Factory di Zhang Zhoujie. Oltre a questi soggetti abbiamo anche un nuovo tipo di luogo definibile come multi-factory, ovvero una factory che contiene altre desktop e micro-factory. Il laboratorio di Joris Laarman ne è un fulgido esempio. E’ suddiviso in microspazi equipaggiati con una specifica macchina che fa capo a un determinato processo per lo sviluppo di un determinato prodotto come nel caso della produzione di MDX-3 Mataerial o della Puzzle Chair.

20 micro factory. A small-scale machining and assembly area utilising micro machine tools and requiring only 500mm x 700mm working area. First proposed by the Mechanical Engineer Laboratory (MEL) of Japan in 1990 http://ec.europa.eu/enterprise/policies/innovation/files/design/design-for-growth-and-prosperity-report_en.pdf

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 236

Fig. 4.10 a,b - Joris Laarman Lab ad Amsterdam, Den Herder Production House a Hertogenbosch

L’analisi fa però emergere anche un’altra realtà: la microproduzione non è un’attività svolta unicamente in house. Sono molteplici le possibili configurazioni in cui una parte (o la maggior parte) del processo di microproduzione è realizzabile in outsourcing. In questo caso il D=I diventa a tutti gli effetti un design editor che configura la propria supply chain appoggiandosi a un makerspace, un maker hub o un maker service (come un servizio on demand di stampa 3D), un’impresa high- tech che fornisce tecnologie o soluzioni (un produttore di digital fabricators), una rete di artigiani o di autoproduttori. Alla fine del processo il designer può controllare e assemblare i prodotti in house, occuparsi del packaging e della distribuzione. L’esistenza di questa varietà di possibilità produttive forse conferma una delle ipotesi di partenza della ricerca dottorale e cioè che nel campo del design per la microproduzione non sono solo i luoghi che abilitano i processi di microproduzione - come osservato nel caso dei Fab Lab - ma sono chiaramente i processi di microproduzione che abilitano l’uso di luoghi di produzione nuovi e tradizionali, perché ne suggeriscono nuove forme di utilizzo, perché ne stimolano la riorganizzazione o rigenerazione dei mezzi di produzione, perché infine ne suggeriscono la creazione di nuovi.

4.1.12 MERCATO E DISTRIBUZIONE

E’ la parte più problematica dell’analisi date le difficolta nel reperimento dei dati. Dai siti internet di molti designer non è semplice trovare le informazioni sul costo e le modalità di acquisto dei prodotti, più efficace invece è stato il contatto diretto. Questa difficoltà sembra confermare una questione di fondo sulla relazione con il mercato emersa in molti dibattiti e convegni sul making e l’autoproduzione: la distribuzione è l’anello debole nei sistemi della microproduzione. Da un lato sembrano mancare nei D=I strategie commerciali adeguate e dall’altro il sistema

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 237 della distribuzione tradizionale non sembra proporre soluzioni che fanno saltare passaggi e ridurre i moltiplicatori sui prezzi dei prodotti. Il primo dato che è stato possibile costruire mostra come le strategie di vendita dei designer cerchino di sfruttare un insieme diversificato di canali ma non vi siano ad oggi soluzioni consolidate o reali best practice a livello di strategie commerciali. In oltre 40 casi i designer provano a vendere online i propri prodotti attraverso un personal shop on-line sul sito personale o attraverso piattaforme e-commerce. In un identico numero di casi il canale di riferimento è quello dei negozi, delle gallerie, dei pop-up store. Va sottolineato che in paesi come Inghilterra e Olanda i microproduttori trovino una propria collocazione nel mercato dell’artigianato contemporaneo che è strutturato e qualificato come sistema e può contare su un circuito di luoghi in grado di valorizzare adeguatamente i prodotti. La dipendenza da questi luoghi tende - come riportato da designer come Italy Ohaly – a rendere esclusive queste produzioni mantenendone i costi elevati. In sostanza il designer vorrebbe e potrebbe abbassare i costi dei prodotti ma trova resistenze nelle gallerie che giudicano quel prezzo troppo basso. Questo canale è quindi più adatto ai microproduttori che realizzano artefatti in pezzi unici e microserie che hanno prezzi elevati e possono addirittura essere quotati sul mercato. Un altro canale utilizzato prevede la vendita dei prodotti a collezionisti, musei, esposizioni. Diversi prodotti dei D=I analizzati sono stati acquistati da musei come MoMa e V&A Museum per far parte di importanti collezioni di design o sono stati chiamati a esporre in importanti mostre e manifestazioni. In alcuni casi i prodotti sono anche venduti negli shop dei musei. Questo canale consente da un lato al designer di entrare in diretto contatto con potenziali clienti ma dall’altro mostra come la microproduzione può essere utilizzata come strumento per esibire o promuovere la capacità di ‘produrre innovazione’ del designer. Questa strategia di visibilità consente al designer di accrescere la propria notorietà e reputazione che si può tradurre in nuove collaborazioni con le imprese tradizionali.

I prezzi dei prodotti sono stati trovati in circa la metà dei casi mentre in venti casi si stava definendo il prezzo per il lancio sul mercato. La maggioranza dei prodotti è costosa, anche se i costi sono in molti casi allineati a quelli delle produzioni artigianali o si avvicinano ai costi maggiori attribuiti ai prodotti industriali customizzati o personalizzati rispetto a quelli standard (soprattutto nel campo dell’arredamento e della moda). Diversi prodotti nel settore dell’arredo possono arrivare a costare alcune migliaia di euro e sono realizzati solo su richiesta altri come nel caso di UntoThisLast hanno invece un prezzo allineabile ai produttori industriali di fascia media. Con qualche eccezione i prezzi scendono nel caso di prodotti come vasi, suppellettili e altri articoli casalinghi (da poche decine a qualche centinaio di euro) così come per i prodotti tessili e di abbigliamento (una sciarpa di Wind Knitting Factory costa circa 65 €). La tendenza più interessante nel campo della microproduzione è però la logica con cui alcuni D=I si muovono sul mercato offrendo di fatto diverse opzioni per avere lo stesso prodotto in modo gratuito e a pagamento (es, Ronen Kadushin,

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 238 Oskar Zieta, Joris Laarman, Studio Habits) Quindi è vero che il microproduttore spesso vende il prodotto a un costo elevato ma al contempo offre la possibilità a persone che hanno capacità di spesa molto bassa di autocostruirsi versioni più economiche dello stesso prodotto: da un lato risparmiando sulla manodopera, dall’altro indicando gli hub locali dove realizzare il prodotto a costi contenuti magari optando per materiali, componenti e finiture meno costose o più semplici.

4.1.13 STRATEGIE DI COMUNICAZIONE

Partendo dal presupposto che l’attività di comunicazione su Internet e i social media sono sempre più strategiche per lo sviluppo di un’impresa, la presenza dei D=I su Internet è stata analizzata in dettaglio. Quasi tutti i designer promuovono l’attività di microproduzione sul proprio sito personale, sono pochi i casi in cui è stato sviluppato un sito ad hoc per comunicare un prodotto o un progetto come nel caso di Studio Habit(s) con la linea di prodotti Digital Habits (http://www.digitalhabits.it/). In pochi casi e relativamente ai servizi o ai prodotti piattaforma (es. The Peoples’ Print) il designer ha creato un blog per alimentare il lavoro di una community intorno alla microproduzione. La presenza sui social media è quella che offre elementi più contrastanti. Due social media presi come principale riferimento: Facebook per il flusso di informazioni notizie e You Tube o Vimeo per i contenuti visivi. Per 46 soggetti non è stato possibile trovare un profilo Facebook, mentre in soli 5 casi i D=I hanno rivelato di essere molto più attivi su Twitter.

Alle pagine Facebook dei restanti 61 è stato applicato un metodo base della social media analysis che prevede il calcolo del PTAT (People Talking About This)21 come indicatore importante del lavoro che si sta svolgendo sui social media (la misurazione dell'user engagement) applicando la seguente formula:

PTAT ______X 100 N° DI FAN DELLA PAGINA

Considerando che la UE stima il 2% il dato medio relativo una buona attività di user engagement, solo 9 D=I sui 60 che hanno una pagina (non personale) su Facebook superano questa soglia. Questi soggetti lavorano molto sulla crescita delle

21 Più è alto il PTAT più il lavoro fatto sui social media è di buona qualità operando. il PTAT Prende in considerazione gli ultimi sette giorni, e misura, una serie di attività, quali: Nuovi mi piace alla Pagina (nuovi fan), Mi Piace a singoli post (immagini, post di testo, video, sondaggi, condivisioni di eventi…), Commenti ai post, Condivisioni di post, Commenti ad eventi creati e pubblicati dalla Pagina, Risposte a sondaggi creati dalla Pagina, Tag della Pagina in foto pubblicate dai suoi Fan, Menzioni della Pagina da parte dei suoi Fan, Check in effettuati dai Fan (per le Pagine Luogo)La somma di questi indici è un indicatore dell’efficacia delle azioni su Facebook. Il PTAT va commisurato al numero totale dei fan.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 239 proprie community on-line perché sono ritenute un canale di mercato importante come nel caso di Sugru (26.000 fan), Open Source Ecology (25.000 fan) e N-e-r-v- o-u-s (10.000 fan). Tuttavia esistono anche casi di efficienza nella gestione di comunità online molto piccole come nel caso di Gareth Neal (solo 180 fan) che è un microproduttore di pezzi unici con un mercato molto piccolo. I D=I sono quindi presenti su Internet e sui social media, ma lo sono in forma ‘statica’ e poco ‘incisiva’, nonostante circa un quarto di loro abbia già costruito comunità online che contano centinaia, in alcuni casi, migliaia di membri. La situazione è invece molto diversa dal punto di vista della presenza sui social video, con 90 designer su 109 preferiscono pubblicare i propri lavori attraverso Vimeo. Questa scelta può essere dettata sia dalla possibilità di postare video di alta qualità e perché a differenza di You Tube ha costruito la propria reputazione sul fatto di fornire una piattaforma video professionale con funzionalità avanzate e probabilmente un pubblico più specializzato che generalista.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 240 4.2 ETNOGRAFIA DELLA MICROPRODUZIONE: CINQUE STORIE DI DESIGNER=IMPRESA

4.2.1 LA MICROPRODUZIONE VISTA DA VICINO

Partendo dall’analisi degli oltre cento light cases sulla microproduzione è stato selezionato un gruppo più ristretto di progettisti in cui sono stati osservati i processi di generazione creativa all’interno dei sistemi di produzione configurati dai designer=impresa. Si tratta di cinque diverse storie raccontate attraverso altrettante interviste22 che approfondiscono il modo in cui i designer concepiscono e sviluppano i propri processi di microproduzione, il modo in cui utilizzano le tecnologie oppure le progettano o modificano, il sistema di relazioni che garantisce loro la possibilità di produrre e infine le scelte che compiono per distribuire i propri prodotti sul mercato. Ciascuno dei casi è stato scelto per un motivo preciso. Slow/d rappresenta il tentativo di costruire una ‘filiera della microproduzione distribuita’ basata sulla relazione evoluta tra designer, artigiani, PMI e makerspace in una prospettiva di rigenerazione dei sistemi produttivi locali. Don’t Run Beta è l’esempio di una designer - Eugenia Morpurgo - che utilizza le tecnologie della fabbricazione digitale presenti nei Fab Lab per la microproduzione di scarpe configurando microfactory temporanee. Studio Habits ha creato Digital Habits un sistema per la microproduzione di smart things esplorando le possibilità offerte dalla relazione tra interaction design e fabbricazione digitale. Unfold Design Studio attraverso progetti come l’Artisan Electronique’ lavora sulla democratizzazione delle tecniche di produzione; grazie alla combinazione tra tecnologie aptiche e tecnologie per la fabbricazione digitale concepisce nuove forme di ‘artigianato digitale’. Infine JorisLaarmanLab, uno studio di design olandese che fa della progettazione dei processi per la fabbricazione avanzata il suo principale campo di attività. MX3D è l’esempio di come un designer può immaginare e realizzare un nuovo processo per la fabbricazione additiva per assecondare i propri intenti progettuali, superando le possibilità offerte dalle tecnologie esistenti.

22 Il metodo scelto per i casi studio è quello dell’intervista semi-strutturata. Sono stati contattati in totale 20 soggetti (un quinto del campione). Le interviste sono state realizzate nel periodo 2012-2014, in Italia e all’estero, in alcuni casi recandosi presso il luogo in cui il designer lavora, in altri casi l’intervista è stata realizzata utilizzando Skype.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 241 4.2.2 SLOW/D: UNA PIATTAFORMA PER LA MICROPRODUZIONE A KM0

SLOW/D (http://www.slowd.it/) è una piattaforma Web nata nel 2011 da un’idea di Andrea Cattabriga e Sebastiano Longaretti con l’obiettivo di offrire a designer e artigiani un modo alternativo e collaborativo per produrre e vendere online artefatti artigianali prodotti localmente attraverso un concetto di design a Km0. La piattaforma Slow/d abilita i designer a proporre le proprie idee di prodotto mentre una community formata da altri designer e artigiani li supporta nel processo di verifica, prototipazione e produzione. Il cliente può acquistare online il prodotto di un designer e l’artigiano più vicino a lui si occuperà di produrlo.

APPROCCIO PROGETTUALE ALLA MICROPRODUZIONE. “Slow/d nasce per rispondere ad alcune domande che Sebastiano ed io ci siamo posti: quando abbiamo delle idee come e dove possiamo produrle? E’ possibile immaginare un sistema alternativo per produrre in modo più sostenibile ed efficace?”. Slow/d è una piattaforma per la microproduzione distribuita in grado di portare le idee dei designer direttamente sul mercato organizzando una filiera produttiva a km0 che ottimizza le risorse e il know-how di un territorio. Il tentativo di questa start up è lavorare in modo diverso con le capacità progettuali e produttive attraverso un modello definito slow design in cui designer e artigiani mettono a disposizione della piattaforma una parte del proprio tempo, delle proprie risorse e competenze. Dal punto di vista produttivo, Slow/d stimola i designer e gli artigiani a creare e materializzare nuove categorie di artefatti nate dalla convergenza tra ICT e digital manufacturing. A oggi sono ancora pochi i designer che coltivano competenze progettuali complementari come il coding, così come sono poche le imprese artigiane che decidono di lanciarsi in questo mercato emergente. Per compensare questo deficit di competenze i Fab Lab stanno facendo il loro ingresso all’interno della filiera Slow/d23. Dal punto di vista gestionale, l’attività di Slow/d si basa su una quotidiana pratica di peer-review dei progetti proposti dai designer. Questo esercizio ha consentito a Cattabriga di acquisire una capacità critica sulla fattibilità dei progetti e una capacità di guardare ai processi di microproduzione da tre punti di vista: quello del designer, quello dell’impresa produttrice e quello del gestore di un servizio di microproduzione. In sostanza Slow/d opera come curatore dei processi di micro e autoproduzione.

TECNOLOGIE E PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. Slow/d è una piattaforma ICT integrata: non solo e-commerce ma un sistema che automatizza l’intero

23 A settembre 2014 è stata lanciato ‘design for co-making’Slow/d all’interno dell’Internet Festival di Pisa un’iniziativa che punta a creare una filiera temporanea tra design, ICT e artigianato. Si tratta di una filiera pop-up che sperimenterà la progettazione e la realizzazione di un prodotto artigianale-digitale in 48 ore all’interno di una fabbrica estemporanea. Alla comunità dei designer è richiesto di proporre un progetto da realizzare in occasione dell’Internet Festival e da hackerare durante un workshop pratico. Il progetto selezionato è quello che meglio di altri di presta alla generazione di innumerevoli combinazioni, varianti ed espansioni.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 242 processo che va dall’idea progettuale al prodotto da realizzare presso uno o più luoghi di produzione. In uno scenario come quello italiano, caratterizzato da una crescente dismissione dei sistemi industriali, Slow/d ipotizza che nei distretti ci saranno sempre più tecnologie produttive inutilizzate e sempre più persone qualificate inoccupate. Questo patrimonio può essere così parzialmente recuperato in una logica di microproduzione distribuita. Le tecnologie ICT possono essere utilizzate per facilitare la messa in rete e il coordinamento delle capacità produttive individuali fornendo un insieme di servizi e strumenti che parametrizzano i processi di produzione individuali.

NETWORK. La collaborazione tra designer e artigiani è l’essenza stessa di Slow/d, che oggi conta nella propria rete oltre 50 imprese attive mentre altre 180 hanno richiesto di entrare insieme a circa 40 progettisti. Il modello collaborativo di Slow/d si basa su un meccanismo di costruzione della fiducia tra designer e artigiani. Secondo Cattabriga gli artigiani e le PMI hanno compreso che è finito il periodo in cui i loro prodotti si vendevano senza difficoltà ed è passato anche quello in cui c’era spazio per competere solo sulle qualità tecniche. Secondo Slow/d è arrivato il momento di superare le qualità individuali, in favore di uno scambio di conoscenze con altri soggetti: “Come si chiede al designer di condividere il progetto si chiede all’artigiano di andare oltre al propria dimensione del fare meglio per fare insieme. Dopo che questi due soggetti hanno imparato a fare bene quello che sanno fare devono imparare a fare bene quello che non sanno fare ma che serve per creare nuove opportunità di lavoro. Per fare questo servono processi di apprendimento nuovi per produrre, per progettare e creare un economia collaborativa”. Attualmente nel sistema Slow/d la componente più resiliente è paradossalmente proprio il designer. Molti di loro non hanno pienamente compreso il cambiamento del mercato del progetto, le cui dinamiche trasformano il design in un sistema diversificato di valori, dove il prodotto può trasformarsi in licenza. L’esperienza di Slow/d racconta di un persistente arroccamento sulla tutela della proprietà dell’idea proprio in un momento storico in cui non c’è mai stato tanto bisogno di portare il design nel cuore delle piccole imprese. Per molti artigiani il design è lo strumento più facile, utile, versatile ed economico da utilizzare. Per il designer si tratta dunque di trovare nuovi modi di collaborare con l’impresa basati su un diverso sistema di scambio. Le piattaforme come Slow/d potrebbero in un futuro prossimo diventare uno strumento di lavoro quotidiano per il designer-autoproduttore e le imprese.

MERCATO E DISTRIBUZIONE. Slow/d è un sistema ‘anomalo’: non è un B2C e nemmeno un B2B puro. L’accesso alla piattaforma è gratuito: sono richiesti solo 29 Euro quando avviene il matching tra designer e artigiano. Tuttora Slow/d si finanzia attraverso consulenze e progetti speciali. La fase distributiva è in fase di sviluppo con la messa a punto di alcuni strumenti per la gestione del processo: “stiamo parametrizzando il modo con cui gli artigiani costruiscono il prezzo dei prodotti. Li aiutiamo a diventare più ‘scientifici’ e a trasferire meglio lo schema di costo sul prodotto”. Recentemente sono stati siglati gli accordi con i corrieri. Questo

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 243 consente di costruire un sistema più veloce: all’artigiano che si occupa di produrre il pezzo basta un click sulla piattaforma e il giorno seguente il corriere passa a fare il pick-up. I designer che collaborano con Slow/d non sono vincolati nella distribuzione, possono comunque distribuire i propri prodotti in modo indipendente i propri prodotti. Molti di loro accettano il conto vendita purché il prodotto circoli e partecipano agli eventi dedicati all’autoproduzione perché percepiscono che c’è una dignità in questo tipo di attività. Capiscono che l’economia della microproduzione si costruisce con sbocchi commerciali diversificati spesso inusuali e imprevisti. Accettano il fatto che si tratta di un mercato mutevole dove il progettista per operare deve mostrare una ferrea volontà.

Fig. 4.11 – Schema di funzionamento della piattaforma Slow/d (source: www.slowd.it)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 244 4.2.3 DON’T RUN BETA: UNA MICROFACTORY TEMPORANEA PER LA PRODUZIONE DISTRIBUITA DI CALZATURE24

EUGENIA MORPURGO25 è una designer italiana specializzata nella sperimentazione di nuovi processi di produzione e nello sviluppo di digital crafts. Tra questi progetti c’è DON’T RUN BETA è una linea di produzione pilota per fabbricare scarpe creata da Eugenia Morpurgo insieme a Juan Montero:

“It is an experimental system focused on illustrating the possibility of a transparent, open and collaborative production line for shoe making and design. Taking a step away from the established status quo and the relentless pursuit of quantity and profit. Don't Run - Beta is intent on highlighting a possible alternative to mass production through small scale on demand digital fabrication… The decentralisation of large scale production and distribution makes it possible to offer greater localised control to both designers and consumers. Creating a system for design that is accessible, flexible and with components that invite repair, adaptation and intervention based on a dialogue rather than and definite blueprint. Don't Run - Beta has created a template which offers greater personal understanding and shared responsibility throughout the products lifecycle and demands a higher physical relationship between the point of conception and consumption. This shift in system transfers shoe production from factory floors across the globe to self contained high street factories in towns and cities. Proposing new roles for the consumer who becomes the co-worker, student and teacher.”

APPROCCIO PROGETTUALE ALLA MICROPRODUZIONE. L’interesse di Eugenia verso la microproduzione nasce in Africa grazie a un’esperienza di cooperazione internazionale che si traduce in una tesi di laurea sul design e la sostenibilità nei paesi in via di sviluppo. In questi Paesi la mancanza di industria impone ai designer di progettare i prodotti creando contestualmente anche piccoli sistemi per produrli, semplificando le tecnologie. Proseguendo i propri studi alla Design Academy Eindhoven, Morpurgo si è trovata con sorpresa a operare con input progettuali molto simili: il design in Olanda, per carenza di industrie manifatturiere e per cultura accademica, ha una tradizione radicata nel campo dell’autoproduzione, che negli ultimi ha avuto un ulteriore impulso con la diffusione dei Fab Lab26. Eugenia Morpurgo si è così interessata alla micro e autoproduzione come alternativa all’industrial design, perché offre al designer la possibilità di essere indipendente dall’industria e di avere un controllo diretto sui

24 L’intervista è stata realizzata con Eugenia Morpurgo. 25 http://www.eumo.it/. He is an Italian designer researching new production processes and working in the field of Digital Crafts. In 2009 she did her bachelor at the Industrial design course of the IUAV University of Venice where she graduated with Musa, an insulation panel designed for Rwanda and made with banano plant. After she moved to The Netherland to attend the master in Social Design at the Design Academy Eindhoven. Here she graduated in 2011 with Repair It Yourself, a research on the repairing culture in era of the prosumer, that lead to the development of a repairable street shoe concept. Repair It Yourself has been awarded with the International prize at the Design Biennal of Liege. Parallel to her studies, she took part to the research program on craft and development Atelier Rwanda Currently she lives between Holland and Paris and works as an independent designer on social design and research project, commisioned by several cultural intitustions, leading workshops in the international network of Fablabs. 26 Iniziative come The Machine e C-Fabriek (2010 e 2012) hanno alimentato il dibattito culturale sul cambiamento dei modelli di produzione all’interno del mondo del design.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 245 prodotti che realizza. Dietro quest’approccio c’è da sia la volontà di non relazionarsi con logiche produttive ritenute poco sostenibili a livello sociale, economico e ambientale, che l’interesse di ‘vivere il processo produttivo in prima persona’ imparando le varie fasi di produzione attraverso il coinvolgimento di persone con diverse competenze. Eugenia Morpurgo si occupa di microproduzione dal punto di vista professionale ma il suo lavoro principale è e rimane quello di progettista. L’interesse risiede nel progettare un sistema di produzione, sperimentarlo, implementarlo al massimo e quindi ‘aprirlo’ per lasciare che altri lo utilizzino, lo diffondano e lo facciano evolvere. Nella High Street Factory di Gent. l’idea è stata quella di concentrare le attività di progettazione, produzione e distribuzione nello stesso posto (una microfactory temporanea) per testare la validità di questo modo di produrre27. Il focus di Don’t Run Beta è sempre sulla trasparenza e la condivisione del processo produttivo con i clienti-utenti, i progettisti e i produttori interessati a questo sistema. Mostrare il processo è importante per far comprendere all’utilizzatore finale la natura del prodotto. Può essere utilizzata come dimostratore. Un aspetto collegato riguarda il fatto di rendere la produzione itinerante. Potendo spostare le macchine si può nuovamente spostare la produzione sul territorio mettendo in relazione le tecnologie proprie con le risorse materiali locali influenzando così l’evoluzione del processo e del prodotto.

TECNOLOGIE E PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. Eugenia Morpurgo è interessata a tutte le tecnologie che si trovano nei Fab Lab perché costituiscono un punto di riferimento rispetto all’idea di produzione distribuita. Al contrario non c’è invece nessun interesse a introdurre complessità tecnologica nei propri prodotti. Dietro a questa impostazione c’è infatti l’idea di un prodotto aperto che evolve con l’evoluzione dei processi di fabbricazione digitale e dei luoghi in cui questi processi avvengono in modo condiviso. In Don’t Run Beta la relazione tra tecnologie analogiche e digitali si risolve in uno stretto rapporto tra fabbricazione digitale e handmade. Un altro esempio è il progetto Digital Wax Print, una stampante 3D per cera impiegata nell’applicazione della tecnica batique. Si tratta di una tecnologia autoprodotta che ibrida un processo industriale e uno artigianale. La macchina è stata progettata facendo riferimento proprio alle tecnologie presenti nei Fab Lab per garantirne la compatibilità e la replicabilità.

NETWORK. In Don’t Run Beta attualmente è tutto autoprodotto in house appoggiandosi alla rete dei Fab Lab. Lo sviluppo futuro di Don’t Run prevede la creazione di una rete di microproduzione distribuita che include ovviamente i Fab Lab ma anche designer, artigiani tradizionali e piccole industrie per la realizzazione in serie di componenti. La frequentazione dei makerspace è importante per imparare a utilizzare le macchine per la fabbricazione digitale, mentre l’utilizzo dei

27 Nel caso di High Street Factory a Gent le macchine sono state affittate dal Fab Lab locale Time Lab.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 246 social media come You Tube e dei tutorial facilita lo studio e l’autoapprendimento delle tecniche di produzione.

MERCATO E DISTRIBUZIONE. Eugenia Morpurgo sostiene che nel campo della microproduzione non tutti i processi possono portare alla tradizionale vendita dei prodotti, che anzi in molti casi è una componente minoritaria. Ad esempio nel caso delle linee di abbigliamento di Thomas Vally e Laura Lynn (Inner Fashion Line)28 tutto si basa sulla creazione di un’installazione produttiva che racconta una storia, che lavora come dimostratore mentre la vendita degli abiti non è la componente primaria. E’ l’originalità del processo che paga. Se invece si considera un prodotto più tecnico come la scarpa le cose cambiano. Morpurgo ha venduto le sue scarpe nelle factory temporanee che finora ha allestito. I prezzi erano trasparenti e formulati sulla base dei costi delle materie prime e dell’affitto delle macchine (tempo di produzione). Il prezzo delle scarpe era volutamente allineato a brand come Camper (circa 130€) cercando di offrire un prodotto su misura a un prezzo accessibile.

Fig. 4.12 a,b – Realizzazione delle scarpe Don’t Run (source: www.dontrun-beta.com/)

28 http://www.vailly.com/projects/inner-fashion/

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 247 4.2.4 DIGITAL HABITS: FABBRICANDO SMART THINGS

HABITS è uno studio di design creato nel 2005 da Innocenzo Rifino e Diego Rossi che opera in settori come illuminazione, furniture e consumer electronics. Nel 2011, l’interesse per la ricerca e la sperimentazione nel campo degli artefatti digitali ha spinto lo studio a sviluppare una nuova attività chiamata Digital Habits. Si tratta di un laboratorio che progetta e auto-produce smart things. Dal 2012 a oggi Digital Habits ha creato una collezione di cinque device interattivi: Open Mirror, Osound, Paco, Dragon e Cromatica.

APPROCCIO PROGETTUALE ALLA MICROPRODUZIONE. L’interesse di Digital Habits verso la microproduzione si sviluppa grazie alle crescenti possibilità offerte dalla combinazione tra interaction design e digital fabrication che consentono di autoprodurre oggetti complessi senza il bisogno dell’industria. Open Mirror, la prima smart thing autoprodotta da Digital Habits era stata inizialmente pensata per un’impresa cliente. Questo progetto è rimasto nel cassetto fino al 2011, quando c’è stato l’incontro con Andrea Banzi (Arduino) che ha consentito allo studio di compiere le prime sperimentazioni su questo tema. L’elemento che ha determinato la creazione di Digital Habits è stata la possibilità di fare ‘prototipazione rapida di oggetti intelligenti’. Lo studio ha quindi potenziato il proprio laboratorio, che già aveva alcune macchine per la prototipazione rapida di base, configurandolo come un centro per la microproduzione. Questo passaggio è stato graduale e naturale. Innocenzo Rifino sostiene che per produrre su vasta scala è necessario operare in un grande canale di distribuzione e calcolare bene i costi. Invece la microproduzione è uno strumento più controllabile che consente di ‘esplorare dal vero’ e in modo convincente le potenzialità del prodotto e le sue possibili evoluzioni. In questo quadro, la fabbricazione digitale offre l’opportunità di fare un upgrade permanente dei prodotti. Questa nuova esperienza sta insegnando a Studio Habits a comprendere meglio le logiche di gestione della produzione delle imprese, dall’altro offre la possibilità di portare sul mercato le idee che i clienti non sono interessati a produrre ma su cui il designer comunque crede.

APPROCCIO PROGETTUALE ALLA MICROPRODUZIONE. Tutti i progetti di Digital Habits si sono evoluti con l’evolvere delle competenze tecnologiche e produttive dello studio. Open Mirror è stato il primo device musicale pensato per un ambiente insolito come il bagno. Constatando l’esistenza di un mercato per questo tipo oggetti, sono stati poi progettati altri due device, Osound e Paco. Con Cromatica e Dragon è stata infine introdotta anche la componente luce. Il percorso di evoluzione tecnologica di Digital Habits, inizialmente condotto con il supporto di Arduino, è proseguito autonomamente con il design di una propria scheda elettronica. Questa soluzione che consente un maggiore controllo dei componenti hardware per la musica è stata subito utilizzata a partire dai progetti OSound e Paco.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 248 La complessità di una smart thing rende molto difficile l’autoproduzione ottimale di tutte le sue parti. Questo modo di produrre presenta inoltre diversi problemi di controllo della qualità: sulle parti meccaniche c’è molta vicinanza tra microproduzione e industria mentre nelle parti elettroniche le differenze diventano più ampie. I prodotti Digital Habits hanno una garanzia biennale ma non esiste un servizio di assistenza post-vendita: è più economica la sostituzione del prodotto che la sua riparazione. Questa è la ragione per cui, per ridurre al minimo gli inconvenienti c’è la rinuncia a fare prodotti troppo estremi in favore di artefatti più robusti e c’è la tendenza ad eliminare finiture superficiali troppo costose, delicate o su cui non si è in grado di garantire una qualità ottimale. In prodotti come Open Mirror e Osound l’estetica risulta plasmata dalla tecnologia del taglio laser perché in sostanza sono oggetti con un’apparenza bidimensionale. Questo però è diventato un limite, Digital Habits ha quindi pensato ad altre tecniche che permettevano di uscire dalla bidimensionalità. L’idea è stata quella di creare oggetti colati arrivando a utilizzare un materiale prodotto da Italcementi. Le tecnologie di fabbricazione digitale consentivano invece di costruire stampi rifiniti per il colaggio del cemento. Il terzo passo è stato quello di creare un oggetto, la lampada Dragon, composto da piccoli moduli indipendenti aggregati all’infinito: un escamotage per derivare una forma complessa da un investimento semplicissimo. Il quarto passo è stato infine quello di pensare a un oggetto svincolato dalle tecniche produttive. Con Cromatica buona parte dei pezzi sono stati realizzati con tecnologie per la produzione di massa. Questo ha reso necessario il passaggio dall’autoproduzione all’autofinanziamento attraverso il crowdfunding.

TECNOLOGIE E PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. A livello generale Studio Habits è più focalizzato sui processi che introducono complessità tecnologica negli oggetti piuttosto che allo sviluppo di nuove tecnologie produttive. La microproduzione è stata utilizzata come strumento per ottenere un finanziamento attraverso il crowdfunding e stabilizzare così il processo produttivo. Dal punto di vista dell’equipaggiamento tecnologico, Studio Habits utilizza software di progettazione CAD e Arduino in combinazione con le proprie tecnologie digitali per la manifattura additiva e sottrattiva. Digital Habits possiede due stampanti 3D (una professionale e una open source entry level), una laser cutter, una fresa da banco, un banco per elettronica, un piccolo spazio per il moulding e la verniciatura, un’area per il co-working e uno spazio multifunzionale che può servire anche da showroom. Lo studio possiede anche tutta la strumentazione professionale per documentare i propri progetti: il pitch per il crowdfunding del progetto Cromatica29 è stato autoprodotto in house.

NETWORK. Digital Habits ha una piccola comunità digitale che collabora per la parte elettronica e il software. I file di Open Mirror sono stati rilasciati in Rete, ma la comunità globale dell’open hardware non si è dimostrata così reattiva o interessata nello sviluppo del progetto. Dal punto di vista produttivo, lo studio in

29 su Kickstarter.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 249 genere realizza la prima micro-serie dei prodotti curando design, parte meccanica ed elettronica. Per i prodotti che hanno più richiesta viene creata una rete di microproduzione ad hoc coinvolgendo produttori specializzati nella realizzazione di singoli componenti mentre internamente avviene solo l’assemblaggio e la verifica finale. Dato che gli ordinativi sono discontinui e geograficamente sparsi non è possibile organizzare un vero e proprio sistema di produzione. L’evoluzione di Digital Habits è comunque chiara: da autoproduttori puri si stanno trasformando in design editor capaci di configurare e gestire reti di microproduzione.

MERCATO E DISTRIBUZIONE. Dal punto di vista del mercato Digital Habits punta a introdurre nei propri prodotti interfacce gestuali, funzioni inusuali o funzioni ibride. Questo consente di sottrarsi alla competizione diretta con imprese specializzate come Bose o B&O, con cui un confronto sulla performance acustica sarebbe insostenibile. La distribuzione è invece il punto debole di questo sistema. Per distributiva è stato creato uno shop online che non è ancora ben sviluppato. Digital Habits distribuisce così propri prodotti attraverso piattaforme e-commerce specializzate in design e hi-tech che hanno richieste più basse rispetto a uno showroom (il 20-30% contro il 50%). In questo modo c’è più margine sulla filiera, si riducono i passaggi ed è possibile lavorare direttamente anche con il consumatore finale. In parallelo viene pratica un’attività di micro-contract con altri designer e architetti per inserire i prodotti dentro residenze e hotel. Dal punto di vista dei costi i prodotti realizzati in questo modo sono indubbiamente più cari. Sono fabbricati senza l’utilizzo di tecniche produttive di massa mentre la possibilità di customizzazione ne giustifica il prezzo più elevato. Il prezzo è determinato in modo semplice, applicando un moltiplicatore poco sopra il 230. Anche per Studio Habits i principali ritorni economici non provengono dalla microproduzione ma dall’interesse che questi prodotti suscitano presso le grandi imprese e quindi da nuovi contratti di collaborazione. La microproduzione consente ai clienti di toccare con mano l’innovazione prodotta dallo studio, di chiederne un’applicazione, fornisce loro nuovi stimoli.

30 In settori come il furniture che ha più passaggi il moltiplicatore è da 4 a 6. Dal colloquio con molti autoproduttori mi risulta che il moltiplicatore dei makers è il 2.5. Noi poi siamo in un settore – consumer electronics - dove i margini di prodotto sono molto bassi. Non è come l’arredo in questo settore si accontentano del 20%.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 250

Fig. 4.13 - Open Mirror (source: www.digitalhabits.it/) Fig. 4.14 - PACO (source: www.digitalhabits.it/)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 251 4.2.5 JORISLAARMANLAB: LA NASCITA DI UNA MULTIFACTORY31

Joris Laarman32 è un famoso designer olandese laureatosi alla Design Academy Eindhoven. JORIS LAARMAN LAB è stato creato nel 2004 insieme alla regista Anita Star ed è definito da Laarman stesso come “un parco giochi sperimentale istituito per studiare e plasmare il futuro. In questo luogo si armeggiano le nuove possibilità della tecnologia con artigiani, scienziati e ingegneri per aggiungere significato culturale al progresso tecnologico mostrando la bellezza di come le cose potrebbero funzionare”. Dal 2004 Joris Laarman lab ha autoprodotto diversi progetti che creano o sperimentano in vario modo tecnologie e processi per la fabbricazione digitale tra cui: Bone Furniture, Digital Matter, Particles, Halflife Lamp, Bits&Parts, Mataerial consciuto come MX3D cui questo caso studio darà particolare attenzione. Molti dei suoi prodotti sono stati aggiunti alle collezioni permanenti numerosi rinomati musei internazionali come il MoMA, V & A, Centre Pompidou e il Rijksmuseum di Amsterdam. MX3D è una nuova tecnologia per l’additive manufacturing che si basa sull’hackeraggio di un robot industriale ABB. Al robot è stato aggiunto uno strumento che consente l’estrusione del metallo, mentre un insieme di applicazioni software appositamente progettate consente a Laarman di progettare e produrre oggetti con forme molto complesse.

APPROCCIO PROGETTUALE ALLA MICROPRODUZIONE. Laarman è spinto a sviluppare processi di fabbricazione avanzata principalmente perché molti dei suoi progetti non sono materializzabili utilizzando le tecnologie di produzione esistenti. C’è una costante ricerca di nuove soluzioni che vanno oltre i limiti tecnologici, dimensionali e prestazionali degli strumenti per la fabbricazione digitale offerti dall’industria. Laarman sviluppa i propri progetti direttamente in digitale. Non ha conoscenze pratiche sull’utilizzo delle tecnologie di fabbricazione ma ne studia costantemente l’evoluzione. I suoi collaboratori sviluppano le tecnologie hardware e software per lui. Immagina un processo di fabbricazione a partire dallo studio delle tecnologie esistenti e dei loro limiti rispetto all’idea progettuale. Di conseguenza organizza le

31 Questa intervista è stata realizzata a più riprese. Lo studio di Joris Laarman è stato visitato a marzo 2014 all’interno della ricerca MakeFactory. In quell’occasione è stato possibile intervistare Joris Laarman insieme a Tim Geurtiens e Filippo Gilardi i designer che hanno lavorato direttamente all’ideazione e allo sviluppo di Mataerial. 32 From Joris Laarman Website: “In the fall of 2010 Joris Laarman Lab was commissioned by the High museum Atlanta to develop a kinetic installation that would illustrate a direction of future design. The installation is part of the exhibition "modern by design” that also features Nendo’s Visible Structuresand works from the High’s growing collection of contemporary design that showcases late twentieth- and early twenty-first century design. Next to that the exhibition will feature a selection of works chronicling three key moments inThe Museum of Modern Art’s design collection and exhibition history—"Machine Art” (1934), "Good Design” (1950–1955) and "Italy: The New Domestic Landscape” (1972). Digital materials are basically physical molecular building blocks similar to for instance Lego. But in increasingly smaller dimensions it promises to have stunning science fiction like qualities. They can be combined like cells in a living tissue, forming materials with customizable properties. The promise of digital material is that material won’t be static anymore. It will be a matter of time when we can upload a design to an amount of material and it would be assembled, or even better, assemble itself into that design. An object of digital material could be re-assembled over and over again.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 252 proprie risorse per sviluppare una nuova tecnologia oppure utilizzare un processo esistente in modo originale come nel caso del progetto Bits & Parts33. In questo caso è stata avviata una collaborazione con Ultimaker che ha fornito 15 stampanti 3D fatte lavorare in batteria per fabbricare simultaneamente le 80 parti che compongono la Maker Chair open source. Per Laarman è anche molto importante progettare e mostrare la performance produttiva. Questa attitudine fa parte del suo background formativo. Per ogni progetto è svolto un attento lavoro di documentazione, regia e post-produzione. Il racconto della performance produttiva è così parte integrante del processo di produzione. Il processo deve essere raccontato alla clientela e al pubblico di riferimento.

TECNOLOGIE E PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. Laarman utilizza un ampio numero di tecnologie per la fabbricazione avanzata: da quelle digitali alle biotecnologie (in Halflife ha usato cellule staminali). Le tecnologie sono utilizzate o direttamente create dentro lo studio per poterle controllare personalmente sperimentando ciò che si ha in mente. In questo modo si accorciano o si saltano i tradizionali passaggi con i modellisti e le imprese. Laarman è arrivato a MX3D progressivamente (in tre anni) e attraverso precedenti esperienze in cui si sperimentavano un processo di produzione e una tecnologia. Nel progetto Bone Chair le tecnologie per la digital fabrication (3D printing) sono state utilizzate per creare lo stampo in cui colare la resina34. La prima esperienza di utilizzo di un robot riguardava il progetto DigitalMatter (2010)35 una scrivania barocca interamente composta da migliaia di piccoli pixel cubici in metallo magnetizzato assemblata dal robot stesso (Fig.X). Un progetto sperimentale e provocatorio: un robot che assembla un oggetto simbolo dell’artigianato tradizionale composto da materia digitale. Con MX3D è nata prima l’idea del processo e quindi del prodotto. MX3D si è originato dal precedente progetto Mataerial (MX3D Resin) del 2011 in collaborazione con due studenti dello IaaC Barcellona. L’idea originale era quella di realizzare una stampante che avesse libertà di azione, che offrisse cioè la possibilità di stampare linee senza supporti e senza problemi legati alla gravità. Il pensiero era quello di utilizzare un robot per automazione in modo nuovo. In quel periodo allo IaaC facevano già corsi in cui si utilizzavano robot in modo sperimentale. Con Material si è partiti dall’hacking di una tecnologia esistente (il robot) per creare un

33 http://bitsandparts.org/#download. Per stampare gli 81 pezzi della Maker Chair sono necessarie circa 200 ore di stampa e 5 Kg di materiale per un valore di 150 euro. Se si possiede la stampante il costo finale per la fabbricazione di una sedia è di circa 200€. Se invece è necessario recarsi in un Fab Lab con un costo orario della stampa stimato in circa 9€ all’ora il costo finale di fabbricazione sale a circa 2000 €. In sostanza conviene comprarsi una stampante per stampare il prodotto. 34 Ogni anno vengono prodotti pochi esemplari di Bone Chair tutti numerati. Il costo di ogni sedia è di 5.000 euro. 35 Digital Matter “Digital materials are basically physical molecular building blocks similar to for instance Lego. But in increasingly smaller dimensions it promises to have stunning science fiction like qualities. They can be combined like cells in a living tissue, forming materials with customizable properties. The promise of digital material is that material won’t be static anymore. It will be a matter of time when we can upload a design to an amount of material and it would be assembled, or even better, assemble itself into that design. An object of digital material could be re- assembled over and over again”.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 253 nuovo concetto di manifattura additiva. Inizialmente sono state fatte diverse sperimentazioni sui materiali ricercando una plastica termosensibile e termoindurente. Una volta scelto il materiale è stato sviluppato il sistema per estruderlo, montando sul robot due siringhe e due pistole termiche per estrudere il materiale bicomponente e al contempo riscaldare la plastica per solidificarla. Il software del robot era già stato hackerato (HAL sviluppato da un francese).36 Laarman ha quindi riflettuto su come far evolvere il processo mantenendo il principio della tecnologia ma lavorando su un nuovo tool, cioè una saldatrice per il metallo. La sperimentazione sui metalli è iniziata manualmente con una torcia per saldare installata su una fresatrice rotta per testare i primi movimenti computerizzati. Una volta affinato lo strumento è stato applicato a un robot ABB di ultima generazione collocato in un’apposita stanza, creando di fatto una microfactory. L’integrazione tra tool, robot e software di controllo è stata sviluppata grazie alla relazione con un distributore commerciale. Una volta raggiunti output interessanti la tecnologia è stata subito spinta verso performance maggiori. Laarman ha messo alla prova il processo realizzando una panca con una struttura complessa. Per progettare l’oggetto è stata sviluppata un’applicazione software che consentisse a Laarman di realizzare un progetto ‘estremo’ in funzione dei limiti produttivi della macchina37.

CONFIGURAZIONE DEL LUOGO DI PRODUZIONE. Attualmente Joris Laarman Lab è una struttura localizzata in un quartiere di Amsterdam anche se l’idea di Laarman è spostare il lab in un quartiere industriale più adatta alla produzione. C’è un piano elevato con lo studio tradizionale e un locale dedicato alla manifattura additiva con le stampanti 3D. Al piano terra c’è il sistema dei laboratori: un laboratorio per la manifattura sottrattiva (Fresa CNC), un laboratorio per la lavorazione del legno, un laboratorio per MX3D, un laboratorio per il casting e il moulding (resine, colle e qualsiasi cosa debba essere colata), un’officina e uno spazio dotato di un sistema idraulico per lavori di levigatura. Se nel laboratorio prevale lo spirito del garage nelle esibizioni pubbliche i soggetti come i robot sono dotati di dispositivi laser che perimetrano l’area di fabbricazione, che una volta superati determinano il blocco istantaneo del computer. Ogni laboratorio opera come una microfactory, focalizzata su uno specifico processo, l’insieme delle singole unità crea una multifactory ovvero una fabbrica che contiene microfabbriche e consente lo sviluppo multiplo di più processi.

36 HAL sviluppato da un francese è un’applicazione software che consente di utilizzare robot industriali (http://hal.thibaultschwartz.com/). 37 Secondo gli intervistati KUKA pur avendo software chiuso è molto più aperto alla sperimentazione e i suoi robot sono più facili da hackerare, ad esempio Il gruppo Bot & Dolly dell’University of Michigan) ha creato un toolkit per hacking. ABB non è interessato perché software ABB è tutto open source. ABB però non è interessato alla sperimentazione e non è troppo incline finchè l’industria pesante ha molto mercato. Kuka è invece più interessato alla piccola impresa e all’artigianato. Nel caso di Material il robot è un ABB affittato (circa 300 al mese con un prezzo basso per il riscatto.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 254 NETWORK DI MICROPRODUZIONE. Laarman non è un autoproduttore puro ma collabora con un network di soggetti. Alcuni come Michal Piasecki38 sono esperti di design generativo. Poi ci sono fornitori di tecnologie come ABB e Ultimaker ma anche imprese e artigiani ‘analogici’ come un esperto saldatore, una fonderia e maestranze qualificate che fanno lavori di rifinitura. Nel caso dei lavori in legno Laarman si rivolge stabilmente alle scuole professionali locali perché gli studenti tirocinanti sono ben preparati e contribuiscono in modo determinante ad elevare la qualità dei lavoro.

DISTRIBUZIONE E MERCATO. Il mercato di Joris Laarman è esclusivo: I suoi progetti sono venduti presso una rete di prestigiose gallerie come Friedman Benda a New York e Atlanta, e una galleria d’arte a Seoul. Il museo di Groningen gli finanzia una parte delle attività di ricerca mentre il contratto con Friedman Benda permette a Laarman di dimezzare i costi di produzione delle sue sperimentazioni. Allo stato attuale questo è l’unico mercato che in questo momento consente a Laarman lo sviluppo delle proprie attività di microfabbricazione. Dal punto di vista del mercato esistono altri designer come Dirk Vander Kooji che hanno sviluppato un processo simile. Kooji a differenza di Laarman Fa però un utilizzo molto più specifico del robot. Ha personalmente sviluppato la tecnologia e il processo e l’ha in seguito stabilizzato in una microfactory. Laarman è considerabile più come art director e un imprenditore della microproduzione. Con MX3D è emersa l’idea di sviluppare e brevettare un set di strumenti per robot. MX3D potrebbe in breve diventare una start-up rivolta al mondo dell’architettura oppure il processo potrebbe essere venduto in licenza a un’impresa interessata.

38 (http://michalpiasecki.com/). http://peerproducedspace.files.wordpress.com/2009/08/an-evolutionary- approach-to-mass-customization-of-products.pdf. Piasecki M. and Hanna S. (2010), A Redefinition of The Paradox of Choice, presented on the Design Computing Cognition conference 2010 (DCC’10) in Stuttgart, Germany. Piasecki M. and Hanna S. (2009), Review of B2C Online Product Configurators, presented on MCPC’09, 5th World Mass Customization and Personalization, Helsinki, Finland.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 255

Fig. 4.15 a,b – Digital Matter e MX3D (source: www.jorislaarman.com/) Fig. 4.16 - Makerchair (source: www.jorislaarman.com/)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 256 4.2.6 UNFOLD DESIGN STUDIO: UN LABORATORIO PER LA FABBRICAZIONE INTERATTIVA

UNFOLD (www.unfold.be) è uno studio di design fondato ad Anversa nel 2002 da Claire Warnier e Dries Verbruggen39, dopo la loro laurea presso la Design Academy di Eindhoven. Lo studio fin dall’inizio ha sviluppato una forte propensione alla multidisciplinarietà tra design, tecnologia e arte. Unfold ha all’attivo diversi progetti nel campo della microproduzione caratterizzati dall’interazione tra le tecniche di produzione analogiche e tecnologie computazionali digitali. Tra questi uno dei progetti più significativi è certamente L’Artisan Electronique40. Questo progetto reinterpreta una delle più antiche tecniche artigianali per la produzione di suppellettili in cercamica combinandola con i nuovi media digitali, mantenendo inalterato il processo di lavorazione dell’argilla. Una stampante 3D open source è stata modificata da Unfold stessa per estrudere argilla. La stampante è poi stata collegata a un tornio virtuale che possibile modellare gli oggetti senza toccare la materia e senza avere le competenze di un artigiano ceramista, ma potendo comunque materializzare autonomamente un’idea progettuale:

“… On one side of the table, there is a chair. When you are seated, there is an empty potter’s wheel and a green laser in front of you. Behind the wheel the image of a revolving cylinder is projected. By touching the laser beam with your hand, the shape of revolving cylinder changes according to the movements of your hand. It’s a potter’s wheel where the material to be moulded consists of air. A virtual potter’s wheel”.

APPROCCIO PROGETTUALE ALLA MICROPRODUZIONE. L’approccio di Dries Verbruggen al tema della micorproduzione parte da un interesse personale che si è successivamente combinato con un interesse progettuale verso le tecnologie digitali: “… fin da bambimo avevo un forte interesse nel costruire le cose, prendendo roba da diverse parti e assemblandola. Questo interesse l’ho affindato nel tempo attraverso il mio percorso di formazione sperimentando processi di produzione, cercando di capire come la materia e il materiale possono ‘reagire’ in relazione agli stimoli del progettista. Allo stesso tempo sono sempre stato affascinanto dal mondo digitale. Per questo motivo ho studiato interaction design e design digitale. Tuttavia ero frustrato dall’utilizzo dello schermo come unico strumento di lavoro”. Nell’approccio alla microproduzione Unfold ritiene che a partire dalla rivoluzione industriale gli individui e i designer hanno perso molta indipendenza nella produzione. Sperimentare nuove soluzioni che possano restituire autonomia

39 L’intervista è stata realizzata con Dries Verbruggen via Skype nel gennaio 2014. Il caso studio è stato integrato con alcune riflessioni di Claire Warnier riportate in un articolo scritto per Cumulus Network (http://www.unfold.be/pages/projects/items/l%E2%80%99artisan-electronique-text/theory/date) 40 L'Artisan Electronique è un'installazione commissionata da Z33 per la progettazione mostra di prestazioni e sviluppato in collaborazione con Tim Knapen e la comunità RepRap. L'Artisan Electronique era in mostre in Abu Dhabi (Abu Dhabi Art Fair), Gerusalemme (Museo di Israele), Rotterdam (CBK), Enkhuizen (Zuiderzeemuseum), Bruxelles (design Flanders Gallery), Londra (Aram Gallery).

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 257 o controllo nella produzione agli individui è ritenuto un aspetto molto interessante della loro attività. A Unfold interessa il framework in cui l’utente può interagire con le tecnologie produttive. Questa fase è solo all’inizio, gli strumenti per il digital manufacturing sono in forte espansione ma le persone non sanno bene cosa farci e il loro utilizzo è molto limitato. Secondo Dries molto del lavoro di Unfold affrontando questa domanda: "qual è il ruolo del designer in questo scenario di cambiamento?" Unfold lavora per ampliare le possibilità offerte delle nuove tecnologie intervenendo direttamente sugli strumenti di progettazione e produzione, cioè gli strumenti digitali del designer41. Nel caso de L’Artisan Electronique all’inizio è stata personalizzata la stampante 3D per estrudere argilla. L’open hardware ha quindi permesso – similmente agli artigiani tradizionali - di creare i propri strumenti rompendo gli schemi predeterminati dettati dagli strumenti digitali esistenti. L’interesse progettuale è quindi focalizzato sui nuovi linguaggi progettuali capaci di far interagire il design con i materiali e le macchine per la produzione. Un aspetto interessante riguarda la progettazione di strumenti interattivi per il ‘physical design’. Ne L’Artisan Electronique il tornio da vasaio virtuale aggiunge un nuovo elemento fisico nell’attività di progettazione. Muovendo le mani si modella il prodotto e l’oggetto digitale viene poi stampato. Un prodotto progettato digitalmente ha enormi vantaggi. I disegni digitali possono essere facilmente adattati e attraverso i digital fabricators possono essere riprodotti in modi diversi. Questo aspetto introduce un altro tema rilevante rispetto alla relazione tra le tecniche di produzione e una nuova idea di unicità e artigianalità del prodotto. Le tecniche di Rapid Manufacturing sono così avanzate che la risoluzione è di alta qualità e il tasso di errore è zero. Gli oggetti in ceramica che vengono stampati tuttavia sono sempre imperfetti. Ogni oggetto stampato è unico: alcuni hanno una risoluzione fine e altri sono più grossolani. Sempre secondo Claire Warnier: “In un mondo di produzione di massa, non siamo più abituati alle imperfezioni e le piccole differenze tra oggetti simili. Ma la stampante per argilla, d'altra parte, non è perfetta e rende i suoi prodotti un po’più umani”. Per questo modtivo nonostante Unfold si dichiari interessato a rendere il processo di stampa più conveniente, rimane la fascinazione sulle imprefezioni di questo processo che posso essere visti come nuovo elemento di progetto.

CONFIGURAZIONE DEL LUOGO DI PRODUZIONE. Il lavoro di Unfold non è mai sullo stesso progetto e allo stesso tempo il nostro studio non è molto grande. La dotazione prevede principalmente macchine multipurpose. Unfold possiede uno studio di due locali, uno più piccolo (nella loro casa) dove sono installate due

41 Claire Warnier sostiene le posizioni espresse da Jan Middendorp nell’articolo Toolspace’ pubblicato su LettError (http://letterror.com/writing/toolspace/) che dimostra quanto sono importanti gli strumenti per un designer. Middendopr si riferisce all’insoddisfazione dell’ artigiano verso gli strumenti acquistati sul mercato e alla sua propensione a personalizzarli, convertirli e espanderli’. Allo stesso modo Middendorp osserva gli strumenti digitali del designer: ‘un programma di progettazione digitale è imposto ai progettisti, come se si trattasse di una camicia di forza preimpostata’. I software offrono enormi possibilità, ma non sono mai infinite. Il designer si confronta con i limiti della sua capacità all'interno del programma sta lavorando in questi programmi sono anche fonte prevalentemente chiuso.; è quasi impossibile per adeguarli alle esigenze e ai desideri del progettista.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 258 stampanti 3D, una di queste è modificata per fare sperimentazioni l’altra invece serve per la produzione, nel locale più grande c’è una piccola officina attrazzata per le sperimentazioni con piccole macchine utensili e da taglio. Molte parti delle installazioni realizzate sono stampate 3D nello studio, come nel caso del progetto del 3D printer Kiosk. A una specifica domanda sulla relazione con Fab Lab e makerspace Dries Verbruggen ha risposto: “... mi piacerebbe collaborare di più con i Fab Lab presenti nelle università (Antwerp e Bruxelles). Di questi luoghi non per nulla attratto da macchine come le laser cutter, mentre sono invece più interessato alle competenze esistenti nel modificare le macchine e le tecnologie e al tema dell’open source… I Fab Lab inoltre sono interessanti in una chiave di produzione distribuita perché allo stato attuale sono pochi i ceramisti in grado di utilizzare il processo de L’Artisan Electronique”.

TECNOLOGIE E PROCESSI DI MICROPRODUZIONE. Unfold ha un approccio decisamente sperimentale ai temi delle produzione. I progetti sullo stratigraphic manufacturing sono stati preceduti da una fase di conoscenza diretta delle tecnologie. Dries e Claire hanno acquistato una stampante in kit e se la sono autocostruita capendo che era uno strumento interessante. Questo ha consentito loro di di individuare i motivi per cui alcune stampe vanno male e perché la macchina non sempre funziona come dovrebbe. Unfold ha continuamente esplorato gli aspetti tecnici della macchina. Trattandosi di una RepRap è stato per loro più semplice effettuare adattamenti e modifiche e quindi sviluppare progetti come l’Artisan Electronique. Unfold nello sviluppo dei propri progetti definisce il processo di produzione e modifica le tecnologie a suo piacimento, infine lavora sugli strumenti o gli elementi di interfaccia per far interagire fisicamente il processo di progettazione con quello di fabbricazione. Verbruggen sostiene che diversi altri progettisti lavorano sui processi di produzione perché sono l’opposto dell’industria, perché produrre in questo modo significa opporsi anche all’anonimizzazione della produzione personalizzata.

Una parte fondamentale dei processi di produzione è mostrare la performance produttiva. Dries sostiene che funziona davvero bene per le sperimentazioni di Unfold: “…ci piace l’idea di raccontare una storia di cui gli artefatti sono parte della narrazione”. Ad esempio nel progetto Kiosk 2.042 la trasparenza del processo serve per riflettere sul concetto di autorship in uno scenario in cui le merci sono tradotte in modelli digitali che sono al di là del controllo del designer. L’obiettivo delle sperimentazioni di Unfold è comprendere come cambia la relazione tra design e mondo della produzione e come si può evitare di trattare il design di prodotto come un’attività ‘consumistica’: “…Certo rivelare tutto il processo espone il designer

42 Kiosk 2.0 (2012) is a project that explores a near future scenario in which digital fabricators are so ubiquitous, that we see them appear on street corners, just like fast food today is sold in NY style mobile food stalls. A place where you can quickly get a custom made fix for your broken shoe, materialise an illegal download of Starck’s Juicy Salif orange squeezer that you modified for better performance or quickly print out a present for your sisters birthday (http://www.unfold.be/pages/projects/items/kiosk-20).

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 259 al rischio che venga copiato. Ma almeno sarà copiato qualcosa che il designer vuole che si diffonda in termini di mentalità e approccio”. Secondo Dries il tema della banalizzazione del progetto collegata a tecnologie come il 3D printing si risolve in due modi: inventando processi intelligenti che stimolano il designer a usare queste tecnologie in modo innovativo, sviluppando progetti partecipativi che coinvolgono l’utente nel processo di produzione. Diverso è invece il ragionamento sull’openness riferita al processo, che rispetto al prodotto, richiede invece molto più tempo nel documentare le varie fasi e spiegarle. Lavorare sull’openness di processi significa spendere troppo tempo ad aiutare gli altri a replicarlo sprecando energie preziose che invece potremmo dedicare allo sviluppo del progetto: “…in sostanza è come investire il proprio tempo per aiutare gli altri a fare una copia peggiore del tuo processo, invece di concentrarsi sullo sperimentare nuove situazioni produttive che possano ispirare altre persone”. Infine, relativamente all’acquisizione delle conoscenze e delle competenze sui processi di produzione, Dries Verbruggen sostiene che Internet è molto utile per il suo lavoro di studio. La Rete è considerata un buon facilitatore per documentarsi sulle innovazioni tecnologiche, ma non può risolvere i problemi reali che insorgono durante le sperimentazioni. Per questo il contatto fisico e le osservazioni dal vero nel mondo della produzione (dalle fabbriche agli artigiani) forniscono una pluralità di stimoli che poi possono essere collegati con le informazioni ottenute sulla rete. Nel caso dell’Artisan Electronique lo studio sulla stampa 3D e le tecniche di estrusione della plastica sono state collegate con le tecniche di avvolgimento della ceramica. La nuova stampante è stato poi collegata al tornio virtuale collaborando con l’interaction designer Tim Knapen. E’ invece interessante l’esperienza di Verbruggen sull’acquisizione delle competenze per lo sviluppo de L’Artisan Electronique che suggerisce un modo per bilanciare l’utilizzo di conoscenze e competenze: “Quando abbiamo sviluppato l’idea de L’Artisan Electronique abbiamo parlato con diversi artigiani e tutti ci dicevano che era impossibile, quando invece abbiamo parlato con i produttori di stampanti della comunità RepRap l’approccio era diverso…. Ciò che abbiamo imparato è che all’inizio di un progetto è meno necessario dialogare con gli specialisti come gli artigiani mentre l’’ingenuità’ funziona bene. Lavorare con gli specialisti è più utile dopo che il progetto è stato realizzato. Essi possono guardare ai risultati concreti e capire come migliorare il progetto. Ma se sono coinvolti nella fase di concept generation, non funziona”.

NETWORK. Nell’approccio di Unfold l’open design è ritenuto una risorsa importante. Claire Warnier riferendosi a L’Artisan Electronique ritiene che “… il fatto che uno studio di design e non una società d’ingegneria sia riuscito a modificare una stampante 3D per produrre oggetti in ceramica e a creare il primo tornio da vasaio virtuale introduce un elemento di riflessione. dimostra come un soggetto non esperto di tecniche o tecnologie possa oggi sviluppare una proof of concept, creando o hackerando strumenti che cambiano la pratica di progettazione e produzione. Questo è possibile solo grazie alla diffusione della filosofia open source (software e hardware). Ne L’Artisan Electronique per modificare la testina per la stampa

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 260 dell’argilla, Unfold si è basato sull’open design di una testa per estrudere la glassa delle torte, dotata di un serbatoio per l'argilla collegato ad un compressore d'aria. La pressione sul serbatoio produce un flusso costante di pasta di argilla che può essere spostato tramite una valvola elettronica. In questo modo è possibile creare la forma strato per strato in modo simile agli oggetti di plastica ma senza riscaldamento del materiale.

DISTRIBUZIONE E MERCATO. Per i progetti come quello sullo stratigraphic manufacturing Unfold sta sviluppando uno shop online. Un’applicazione come Kiosk 2.0 potrebbe invece essere venduta all’interno di un museo per mostrare come funziona il processo di design e stampa 3D. Si tratta di un oggetto- installazione che ha lo scopo di educare all’utilizzo intelligente delle nuove tecnologie di fabbricazione. Unfold a oggi non produce grandi quantità di oggetti che sono venduti attivamente. L’obiettivo non è vendere migliaia Artisan Electronique ma è più esplorare e mostrare una via alternativa alla produzione di massa sperimentando nuovi processi di produzione. Un altro interesse riguarda la divulgazione di queste esperienze43. L’intento di arrivare sul mercato non è sempre consapevole: “A volte capiamo l’effetto delle nostre idee sul mercato solo dopo aver esposto un prodotto. Altre volte invece vendiamo oggetti per autofinanziarci progetti. Spesso cerchiamo di autofinanziarci i progetti su cui vogliamo sperimentare nuovi scenari e processi di produzione. Ad esempio nel 2008 e nel 2009 per autofinanziarci un nuovo progetto sulla stampa 3D abbiamo venduto 100 oggetti autoprodotti ad amici, famiglie e clienti abituali”. Ad esempio con L’Artisan Electronique è stato fatto un test di mercato vendendo una quarantina di pezzi del valore di circa 100 € ciascuno. Il limite in questo momento è dato dallo sviluppo della macchina che, una volta affinato, potrà consentire di vendere prodotti a un prezzo più conveniente: “… non si può parlare di microproduzione in senso compiuto se una tazza per il caffè espresso costa 50€. Si tratta di prezzo per oggetti da collezionesti. D’altro canto è anche vero però che non si tratta di un prodotto industriale ma di un prodotto artigianale ottenuto attraverso una tecnologia digitale”. Un aspetto cruciale riguarda la vendita dei prodotti disconnessi dal loro processo di produzione. Secondo Verburggen è molto difficile giustificare il valore di questi artefatti se li si osserva o acquista separati dal processo fabbricativo che li ha generati. Solamente dopo aver osservato e partecipato alla loro produzione allora anche un prezzo più alto - ma certamente inferiore a quello che pagherebbe un collezionista - può essere compreso dal cliente. Infine relativamente al collegamento tra open source e business Verbruggen pone questo interrogativo: “…ma siamo davvero sicuri che la gente voglia autoprodurre tutte le proprie avendo il controllo sul prodotto e sul processo? Secondo noi va cercata una posizione di equilibrio. Allo stesso tempo penso che vadano ancora bene compresi i modelli di business basati sull’openness. Pensiamo

43 Verbruggen, D. (2014). Printing Things: Visions and Essentials for 3D Printing. Die Gestalten Verlag (1100)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 261 che vadano capito cosa rimane chiuso e cosa rimane aperto. Prsonalmente non sono un fanatico della protezione della proprietà intellettuale, ma penso che vada trovato un principio e un modus operandi nel caso dell’openness. Nel mio caso tutto ciò che utilizzo in modalità open source e che poi modifico deve essere rilasciato di nuovo in open source. Viceversa ciò che di mio produco può e deve essere valutato.

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 262

Fig. 4.17 a,b,c - L’Artisan Electronique (source: unfold.be)

#4 | STORIE DELLA MICROPRODUZIONE 263 #5 MAKERS’INQUIRY: UN'INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI

5.1 MAKERS’INQUIRY (ITALIA): UN’INDAGINE SUI MAKERS, DESIGNER AUTOPRODUTTORI E FAB LAB MANEGER

5.1.1 AVVIO DELLA MAKERS’INQUIRY

L’idea di realizzare un’indagine sulla condizione socioeconomica sul making, la micro e autoproduzione ha preso avvio da una constatazione di fatto: diversi soggetti - dal mondo della ricerca scientifica a quello della politica, dell’economia e delle discipline economiche e le scienze sociali, studenti e studiosi, amministratori e politici stanno studiando il cambiamento dei modelli di produzione, i fenomeni dei maker, della digital fabrication e del design autoprodotto. Un numero crescente di studenti e ricercatori si reca nei Fab Lab o alle MakerFaire e pone domande ai maker e ai lab manager. Per contro è ancora molto difficile reperire dati quantitativi accessibili che descrivono questo fenomeno in maniera sistemica, specialmente nel caso dei designer-autoproduttori. A oggi esistono alcuni interessanti studi scientifici di carattere etnografico sulle comunità operanti di singoli Fab Lab (Maldini, 2014)1, altri studiano invece l’offerta di servizi di questi spazi (Mortara e Parisot, 2014)2. Altri ancora si concentrano sulle tecnologie (Eychenne, 2012) o sull’open hardware3. Anche Maker Media ha condotto uno studio sul mercato dei maker (vedi Capitolo 2).

Il principale problema è che i dati disponibili sono chiusi, dispersi e frammentati e allo stesso tempo maker, micro- e autoproduttori non ricevono feedback. Partendo dalla necessità di trovare dati per la ricerca dottorale in grado di supportare il modello del designer=impresa e della microproduzione è stato realizzato un progetto pilota di studio di queste realtà denominato MAKERS’INQUIRY. Tre gli aspetti chiave di questa iniziativa: o E’ stata condotta non solo sui maker, sui designer-autoproduttori e sui lab manager in quanto soggetti ma anche sul making, la micro e autoproduzione come attività economica;

1 Maldini, I. (2014). Digital Makers: an Ethnographic Study of the FabLab Amsterdam Users in A matter of design - 5th STS Conference. Politecnico di Milano – 12th – 14th June; 2 Dr. Letizia Mortara, Dr. Simon Ford and Dominik Deradjat, Centre for Technology Management, Institute for Manufacturing, University of Cambridge: “Classifying Fab Spaces: A Cluster Analysis” 3 OSHW Community Survey 2013http://www.oshwa.org/oshw-community-survey-2013/

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 264 o i diversi soggetti (maker, designer e lab manager) sono stati coinvolti nella fase di definizione delle domande a loro dedicate; o I risultati saranno rilasciati in modalità open data in una forma direttamente utilizzabile per lo sviluppo delle loro attività.

Questo progetto è stato realizzato in collaborazione con la Fondazione Make in Italy CDB (www.makeinitaly.org/)4 e l’Associazione Make in Italy (www.makeinitaly.org/) con il supporto della rete DESIS - Design, Social Innovation and Sustainability (www.desis-network.org/) . Il progetto MAKERS’INQUIRY è stato lanciato alla European MakerFaire di Roma del 2013 con l’obiettivo di presentare i primi risultati nella successiva edizione. La prima versione della MAKERS’ INQUIRY è stata sperimentata in Italia nel corso del 2014; l’obiettivo finale è estendere l’indagine nel tempo ad altri Paesi per ampliare il database open source e studiare il fenomeno a livello internazionale, anche attivando confronti tra soggetti, territori, organizzazioni e istituzioni.

5.1.2 METODO UTILIZZATO

Il survey online, composto da 66 domande (vedi Allegato 1) in modo collaborativo con un elenco coinvolgendo maker, designer, autoproduttori, studiosi ed esperti5 e trovare una risposta alle seguenti domande: o Maker, designer-autoproduttori ‘vivono’ di making? o Sono in grado di generare un modello economico alternativo? o I processi collaborativi, di condivisione e scambio che esistono all’interno di questo mondo, sono davvero reali ed efficaci? o I makerspaces sono davvero luoghi in grado di abilitare nuove forme di produzione? o I prodotti realizzati sono realmente competitivi se comparati con forme di produzione industriali e artigianali? o I makers sono davvero portatori di nuove soluzioni tecnologiche? o I metodi di apprendimento dei makers generano davvero innovazione? Se sì, di quale tipo?

MAKERS’INQUIRY è stata ufficialmente avviata a luglio 2014. In tre mesi la partecipazione è stata stimolata a più riprese. Sono state fatte campagne di

4 La missione della Fondazione “Make in Italy CDB” è quella di supportare i makers e in particolare i FabLab italiani, facendoli crescere e aiutando chi volesse aprirne di nuovi. 5 L’idea di costruire l’indagine Makers’Inquiry è nata attraverso questa ricerca. Il lavoro di impostazione delle domande del survey è stato condiviso con Alessandro Carelli, Alessandra Carosi, Patrizia Bolzan (Politecnico di Milano, Dipartimento di Design), Massimo Menichinelli (Aalto University), Francesco Bombardi (Fab Lab Reggio Emilia), Anna Seravalli (Malmoe University), Peter Gall Krogh e Mie Noorgard (Aarhus School of Architecture), Federico Bovara e Bianca Il successivo lavoro di costruzione del survey e di lettura dei dati è stato realizzato dall’autore insieme a Massimo Menichinelli e Stefano Maffei.

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 265 comunicazione mirate attraverso l’associazione Make In Italy (che rappresenta i maker e i makerspace italiani), la Fondazione Make in Italy partner del progetto e la comunità Facebook ‘Fabber in Italia’. Per realizzare l’iniziativa è stato creato un sito www.makersinquiry.com utilizzando Limewire per organizzare il survey online. Il livello di partecipazione è stato periodicamente monitorato. Per invitare designer e autoproduttori a partecipare sono stati coinvolti gli organizzatori dei principali eventi dedicati al design autoprodotto come Operae, Open Design Italia e Source. In settembre sono stati pubblicati alcuni post e articoli su riviste online vicine a questi mondi che invitavano alla partecipazione. Un invio di mail personalizzate è stato effettuato ai circa 375 designer che avevano preso parte alle diverse edizioni delle manifestazioni sul design autoprodotto e indipendente sopra citati. In parallelo è stato preparato uno script per clusterizzare le informazioni e per il successivo rilascio in formato Open Data sul database. I dati e i grafici sono stati quindi rielaborati utilizzati per produrre un primo report per lah European Maker Faire 2014.

5.1.3 STRUTTURA E COMPOSIZIONE DEL CAMPIONE

L’ultima estrapolazione dati in funzione della presentazione alla Maker Faire è avvenuta il 29 settembre 2014, così da avere le informazioni il più aggiornate possibile. Il questionario è stato redatto in forma anonima. Ai soggetti coinvolti è stato chiesto solo l’indirizzo mail (che non verrà reso pubblico) per verificare a campione l’effettiva partecipazione dei soggetti. L’obiettivo di partenza per la versione completa della Makers’Inquiry era stimato in 250 soggetti suddivisi in tre categorie: maker, designer-autoproduttori e gestori di makerspace. Il dato più aggiornato ha riportato 214 soggetti che compilato il survey. 103 di questi hanno completato più della metà delle 60 domande (in pratica ogni survey compilato è assimilabile a un piccolo caso studio). Un campione di 103 soggetti, composto da 49 design autoproduttori, 41 maker e 13 gestori di makerspace, è stato utilizzato per costruire la versione teaser del report finale da presentare alla European Maker Faire di Roma (5 ottobre). Questo lavoro ha consentito di discutere con la comunità del making le prime evidenze dell’indagine ottenendo indicazioni e suggerimenti da utilizzare per la realizzazione del report finale e del Database Open Source. Un altro obiettivo della presentazione è stato ovviamente quello di promuovere l’indagine presso la comunità maker (circa 90.000 persone nell’edizione 2014 della MakerFaire) per estendere il campione e coinvolgere altri paesi per replicare l’indagine su scala internazionale.

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 266 5.1.4 NOTA ALLA LETTURA DEI DATI

Per non creare confusione nel pubblico sotto il termine di making sono state accorpate le attività dei maker, quelle dei designer-autoproduttori e quelle dei gestori di makerspace. In sostanza l’indagine raggruppa le attività più innovative nel campo della produzione su piccolissima scala (microproduzione). Di seguito sono riportati i principali risultati (in progress) della prima versione di MAKERS’INQUIRY articolati nelle seguenti sezioni: informazioni personali, informazioni di base sull’attività di making, competenze tecniche e tecnologiche, valori associati al making, frequentazione di spazi per la fabbricazione, processi di progettazione, produzione e distribuzione, aspetti economici collegati all’attività di making.

5.1.5 INFORMAZIONI PERSONALI

MAKER, PROGETTISTI-AUTOPRODUTTORI E GESTORI DI MAKERSPACE IN ITALIA: UN PRIMO (AUTO)RITRATTO. La maggioranza dei maker, dei designer-autoproduttori e dei gestori di makerspace ha un’eta compresa tra i 20 e i 45 anni con una concentrazione prevalente di soggetti nella fascia tra i 30 e i 40 anni. L’età media è 35 anni (con un minimo di 21 e un massimo di 58 anni). Non ci sono state risposte di soggetti under 21 o minorenni, un dato curioso se comparato con la più giovane età della scena maker di paesi come gli USA. Il 70.8 % dei soggetti che si occupa di making sono uomini, un quarto circa (24.2%) è invece composto da donne. Il Make in Italy, come in altre parti del mondo, si conferma come attività prevalentemente maschili. La quasi totalità dei maker, dei designer-autoproduttori e dei gestori di makerspace interpellati è di nazionalità italiana (96,1%). Non è stato possibile identificare comunità o gruppi etnici, mentre è invece emerso un minuscolo gruppo di maker e designer che opera all’estero (3). Dal punto di vista linguistico se l’italiano è ovviamente la lingua predominante (93%) anche l’inglese, che è considerata una lingua fondamentale, è parlato dal 90% degli intervistati (un dato interessante se comparato alla media italiana)6. Questo dato connette la comunità italiana su scala globale.

GEOGRAFIA DEL MAKE IN ITALY: CITY MAKING E MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA NEI DISTRETTI INDUSTRIALI. La distribuzione urbana dei makes,

6 L’EF, impresa che si occupa di studio delle lingue straniere, ha invece stilato una classifica sulla conoscenza dell’inglese in vari Paesi sulla base di un indice legato ai test «Proficiency». Al primo posto c’è la Norvegia, con un punteggio di 69,09 classificato come «alto livello di competenza». L’Italia si trova a metà classifica, esattamente al 23° posto, con un punteggio di 49,05 che viene definito «basso livello di competenza». Al livello dell’Italia ci sono Paesi come come Taiwan, Cina, Brasile, Spagna. Peggio di noi solo un gruppo di Paesi come Perù, Venezuela, Turchia, Kazakhstan, Colombia, Panama, Vietnam. Spagna e Italia hanno il punteggio più basso di conoscenza dell’inglese tra gli adulti in Europa anche se si inizia a studiarlo molto presto a scuola.

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 267 dei designer-autoproduttori e dei gestori di makerspace sembra seguire una power law). Il 30% dei soggetti tende a concentrarsi in poche città, mentre esiste una ‘coda lunga’ diversificata di 57 luoghi. Interessante è la comunità di Milano (13,6%) dove la concentrazione di soggetti è tre volte maggiore rispetto a Roma e Bologna (4,8%) e quattro volte rispetto a Padova e Parma (3,6%). Milano, indiscussa capitale nazionale del design, sembrerebbe candidarsi come possibile capofila anche della scena maker. Milano e Roma sono anche le città in Italia in cui sta nascendo il maggior numero di makerspace (5 a Milano e 3 a Roma). Se in queste città sembra che si stia autonomamente infrastrutturando un sistema della microproduzione o City Making, appare interessante capire in che modo osservare tra loro un insieme frammentato di esperienze situato in ben altre 57 località. La ricerca ha provato a ‘geolocalizzare’ questi soggetti a livello urbano, provinciale e regionale, utilizzando dati ISTAT – GIS. Il risultato è una serie di mappe che mostra più nuclei con diverse concentrazioni di attività nel Nord e Centro Italia con una distribuzione territoriale parzialmente sovrapponibile alla geografia dei distretti industriali. Nel Sud Italia emergono alcune realtà più isolate. C’è Napoli, un contesto in cui è viva una tradizione di artigianato e microproduzione, c’è cultura di design, fermento creativo e retaggio industriale, ci sono università e centri di ricerca. Anche Catania ha caratteristiche simili, mentre la Puglia negli ultimi anni si è caratterizzata per la capacità di investire sulle nuove forme di impresa. Un’ultima osservazione condotta a livello regionale colloca Lombardia , Emilia Romagna, Veneto e l’asse Milano-Bologna come il centro nevralgico della scena del Make in Italy. La relazione tra design e making andrà quindi meglio compresa e indagata all’interno di una pluralità di luoghi con caratteristiche differenti.

5.1.6 INFORMAZIONI DI BASE SULL’ATTIVITÀ DI MAKING E AUTOPRODUZIONE

MAKING, MICRO E AUTOPRODUZIONE: PRIMO IMPIEGO, SECONDO LAVORO O HOBBY? Il primo dato ottenuto è quello sul reddito dei maker, dei designer-autoproduttori e dei gestori di makerspace. La maggioranza dei soggetti (36,8%) appartiene a una fascia di reddito compresa tra 10.000 e 25.000 euro. Un 24.2% dichiara un reddito tra 0 e 10.000 euro e un 19.4% tra i 25.000 e i 50.000 euro. Il 10% circa dichiara di non avere reddito mentre il 5% ha un reddito superiore a 50.000 euro. A maker, designer-autoproduttori e gestori di makerspace è anche stato chiesto quale percentuale del reddito derivasse dal making o dall’autoproduzione. Tra coloro che hanno risposto (la metà) si conferma che il making nella realtà italiana rappresenta un’attività principalmente secondaria. Per il 35% dei soggetti il making concorre in minima parte alla

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 268 costruzione del reddito (da 0 al 30% del reddito). Esiste poi una fascia intermedia (il 9% dei soggetti) che trae da queste attività dal 40% al 70% del proprio reddito. Una piccola parte di soggetti (quasi il 10%) trae dal making dal 80% al 100% del proprio reddito. Il dato medio così basso potrebbe essere forse influenzato dal fatto che si tratta di attività molto recenti. A maker, designer e lab manager è stato quindi chiesto da quanto tempo si occupassero di questa attività. Oltre il 60% dei soggetti ha dichiarato di occuparsi di making e autoproduzione in un periodo compreso da uno a cinque anni fa. Il 15,5% del campione sostiene di occuparsi di making da meno di un anno, l’8,8% al contrario se ne occupa da 5 a 10 anni. Il dato del 60% potrebbe essere messo in relazione con l’intensificarsi della Grande Recessione (dal 2008 a oggi). In relazione al precedente dato economico la maggioranza dei maker, dei designer-autoproduttori e dei lab manager (il 63.1%) conferma che il making è un’attività economica secondaria e complementare. Un dato interessante colloca queste attività in due direzioni opposte. Per il 19.4% si tratta dell’attività lavorativa principale e per il 17.4% è invece hobby. Making e autoproduzione cominciano a essere attività in grado di generare piccole integrazioni al reddito esistente (82,5%) e in alcuni casi di costituire un vero lavoro. In sostanza non si vive di solo making e autoproduzione, ma queste attività aiutano a ‘vivere meglio’ (economicamente). Questo dato suggerisce altre due considerazioni: la prima riguarda l’evoluzione di una parte consistente delle attività da hobby a lavoro. Una parte minoritaria dei maker si dichiara hobbista. Questo dato, riferito soprattutto ai designer, conferma ad esempio che l’autoproduzione va affiancare più che a sostituire l’attività progettuale, confermando le ipotesi sostenute nella costruzione del modello del designer=impresa. Ma se il making non è l’attività principale, di cosa si occupano maker, designer- autoproduttori e gestori di makerspace? Escludendo circa un quarto di soggetti che non ha risposto a questa domanda (24.2%), un terzo dei maker e degli autoproduttori (33.98%) afferma di operare come libero professionista (tra questi molti designer, architetti e ingegneri) insieme ad altri profili imprenditoriali (artigiani e piccole imprese di servizi). Il numero di soggetti che lavora come dipendente rappresenta circa il 24% del campione. Making e autoproduzione si confermerebbero quindi come attività di carattere ‘indipendente’ e ‘autonomo’. Il fatto che la metà dei soggetti opera come free lance (54%) supporta questa affermazione. Solo un quinto di soggetti ha invece un contratto di lavoro stabilizzato a tempo indeterminato (15%) o determinato (5%). La cosa più interessante è che l’attività di making non risulta collegata a contratti di lavoro occasionali o a progetto. Guardando ai dati economici nel complesso è possibile distinguere due possibili categorie: da un lato gli imprenditori e i professionisti del making e dell’autoproduzione, dall’altro i soggetti che hanno un lavoro principale e si occupano di making come attività integrativa o hobby.

I LUOGHI E LE RETI DEL MAKING, DELLA MICRO E AUTOPRODUZIONE. Il 55% dei soggetti dichiara di svolgere la propria attività di making o parte di essa in

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 269 ambito domestico mentre il 65% dichiara di svolgere questa attività o parte di essa all’interno di un makerspace/Fab Lab e/o di un laboratorio artigiano. Segue l’ufficio come luogo di produzione (21.3%). Percentuali molto inferiori riguardano luoghi come le officine, le università, le fabbriche, le scuole e i coworking. A un primo sguardo il dato senza dubbio più interessante è che queste attività sono svolte in più luoghi e che questi luoghi potrebbero essere tra loro complementari. L’attività di produzione fatta a casa, in studio o in ufficio sembrerebbe trovare un possibile completamento nella specializzazione analogica dei laboratori artigiani e nelle pratiche collaborative e nelle tecnologie digitali dei makerspace e dei Fab Lab. (O viceversa).

5.1.7 COMPETENZE TECNICHE E TECNOLOGICHE COLLEGATE AL MAKING

COMPETENZE TECNICHE E TECNOLOGICHE: SEGNALI DEBOLI DI UN RITORNO AL SAPER FARE? A maker, designer-autoproduttori e lab manager è stato chiesto quale fosse il livello di competenze informatiche, elettroniche e progettazione CAD/CAM insieme a quelle sulla fabbricazione analogica e digitale. Dai dati emerge che l’informatica è una competenza comune sia a livello amatoriale che professionale, mentre la progettazione CAD/CAM si afferma come la competenza tecnologica più presente in ambito professionale. La fabbricazione digitale è quindi una competenza molto più amatoriale che professionale, mentre alto è il numero di soggetti che dichiara di non avere nessuna competenza. La fabbricazione analogica è un’attività molto più presente di quella digitale, ma anch’essa è praticata molto più a livello amatoriale che professionale. L’elettronica risulta la competenza tecnologica più debole a tutti i livelli. Osservando tutte queste competenze nel loro insieme, la scena del making e dell’autoproduzione sembrerebbe caratterizzarsi per i seguenti aspetti: o una competenza tagliata sull’asse che va dalla programmazione software e la progettazione CAD/CAM (competenze di tipo professionale) alla fabbricazione analogica (con competenze di tipo amatoriale); o la fabbricazione digitale e analogica è un’attività affrontata nella maggioranza dei casi partendo prima da competenze di tipo amatoriale e poi professionale. o interessante notare quanto ci siano più soggetti con competenze elementari di elettronica. C’è quindi un gap di competenze evolute nel campo dell’interaction design e il physical computing che comincia adesso ad essere affrontato. o Ci sono più esperti di progettazione che esperti di fabbricazione. Su questo dato pesa il numero dei designer-autoproduttori.

A questi soggetti è stato anche chiesto dove avessero appreso le competenze. Il valore più alto è risultato essere quello di ‘autodidatta’. Il ruolo della

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 270 scuola/università è interessante nello sviluppo delle competenze di informatica ed elettronica. Sembra invece che emerga una difficoltà da parte di maker, designer e lab manager nell’acquisire le competenze sulle tecnologie e i processi di fabbricazione. Dalle risposte risulta che l’acquisizione delle competenze sulla fabbricazione digitale e analogica avviene maggiormente attraverso l’esperienza lavorativa. Il contrario rispetto all’acquisizione delle competenze nel campo dell’elettronica. Le competenze tecnologiche nel campo della progettazione risultano ben sviluppate, ma vanno forse cercate nuove soluzioni sull’apprendimento dei processi di fabbricazione. Collegandosi alle risposte sui luoghi di produzione gli artigiani potrebbero essere considerati come possibili palestre per la fabbricazione analogica, mentre i Fab Lab per quella digitale. Maker e autoproduttori riportano infine vari livelli di confidenza con le tecnologie quando le ‘maneggiano’. Sembra però emergere un interesse a collegare l’attività di progettazione con quella costruzione di nuove macchine oppure la modifica di tecnologie esistenti (es. hacking).

5.1.8 VALORI ASSOCIATI ALL’ATTIVITÀ DI MAKING, MICRO E AUTOPRODUZIONE

PERCHÈ OCCUPARSI DI MAKING? Il principale motivo che spinge i soggetti intervistati a occuparsi di making (e autoproduzione) è legato alla voglia di sperimentare (in oltre 70 casi su 103). Subito dopo si evidenzia un elevato interesse verso la creazione concreta di prodotti-servizi o l’avvio di un’attività imprenditoriale (in 65 casi su 103). L’interesse verso la dimensione sperimentale del making e dell’autoproduzione è legato all’interesse ad apprendere ‘dal fare’ (58 casi su 103). In diversi casi queste attività di produzione sono viste come una forma di divertimento (55 casi su 103). Un aspetto che meriterebbe un ulteriore approfondimento riguarda invece la dimensione sociale del making. In oltre 70 casi su 103 la volontà di conoscere persone non è ritenuta prioritaria. Allo stesso modo (60 casi su 103) la volontà di collaborare con gli altri non è un motivo ritenuto valido o sufficiente per intraprendere questa attività. La ricerca di alternative agli attuali modelli capitalistici di produzione e consumo delle merci sembra dividere esattamente in due la comunità dei soggetti intervistati (52 si contro 51 no). Un nucleo maggioritario di soggetti non associa l’attività di making e autoproduzione alla possibilità di generare un impatto positivo rispetto alla propria comunità locale (57 su 103) mentre un numero inferiore ma comunque significativo dimostra invece un interesse verso questo tema (45 su 103). Da queste risposte si conferma che il mondo del making e dell’autoproduzione si caratterizza per un’energia positiva incanalata in una volontà individuale di intraprendenza e innovazione che passa attraverso la sperimentazione pratica, confermando la propensione al learning by doing caratteristica di questo mondo. Si

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 271 può osservare un interesse prevalente nel guardare al making e all’autoproduzione più in chiave personale che in una dimensione collaborativa e di comunità, ma questo può essere un aspetto endemico della realtà italiana.

IL MAKING È ‘COSA SERIA’ E I MAKER ‘FANNO SUL SERIO’ I dati confermano una forte relazione tra il concetto di making e quello di autoproduzione (dato in parte ‘viziato’ dalla maggiore presenza di designer- autoproduttori nel campione) mentre decisamente più bassa risulta essere l’associazione tra making e DIY. Una schiacciante maggioranza di maker e autoproduttori non ritiene questa attività un passatempo, né tantomeno un’attività ricreativa da svolgere durante il tempo libero (meno di 10 su 103 casi). Sembrerebbe tramontare un luogo comune sul making come attività di ‘cazzeggio tecnologico’. Un dato interessante riguarda l’associazione tra making e tecnologia. Il mondo del making internazionale collega questi due elementi (vedere le analisi di mercato della rivista Make), mentre per la scena italiana questa caratteristica non sembra essere presente in modo così pronunciato. Divide infatti il campione l’associazione tra making e digital fabrication (51 si e 52 no). Pochissimi soggetti associano inoltre il making al physical computing e al tinkering (82 no su 103 casi). Anche il tema dell’openness (open design, open software e open hardware) non è ritenuto prioritario se associato al making (65 non interessati su 103). Il making infine non risulta in molti casi associato nemmeno a una dimensione di collaborazione e di scambio/condivisione di conoscenze o beni. Esiste invece una prevalente associazione del concetto di making ai nuovi luoghi del fare: Fab Lab e makerspace.

RUOLO DEL MAKING, MICRO E AUTOPRODUZIONE NELLA SOCIETÀ. Una stragrande maggioranza del campione sostiene che il ruolo del maker e l’autoproduttore non sia compreso o riconosciuto dalle istituzioni. C’è invece un’asserzione largamente positiva verso la percezione che i maker costituiscano un nuovo movimento e allo stesso modo i dati evidenziano che il making è ritenuta un’attività che riveste un’importanza sociale. In conclusione sembra emergere che maker, designer-autoproduttori e lab manager chiedano più spazio nella società e più attenzione da parte delle istituzioni. Essi sembrano realmente riconoscersi come parte di un nuovo movimento in grado di avere un impatto nella società. Più dibattuto è il tema del ruolo politico del maker. Per un numero non indifferente di soggetti il making ha un’implicazione politica o può essere visto come una forma di attivismo.

5.1.9 FREQUENTAZIONI DI MAKERSPACE E PARTECIPAZIONE A COMUNITÀ VIRTUALI DEDICATE AL MAKING

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 272 FREQUENTI UN LABORATORIO SPAZIO DI FABBRICAZIONE? SI, ANCHE PERSONALE. La comunità osservata divide l’attività di making e autoproduzione tra spazi individuali e spazi collettivi. Il 48% dei soggetti afferma di frequentare un makerspace o un Fab Lab, ma è rilevante osservare come il 36% invece non frequenti uno spazio collettivo perché ne possiede già uno privato. Tra coloro che frequentano makerspace e Fab Lab è alto il numero di persone che si associano o diventano membri (almeno il 70% tra coloro che hanno detto sì) esiste anche una percentuale minoritaria di persone non associate che ci va periodicamente. Un’ulteriore domanda ha chiesto di specificare la tipologia dei laboratori frequentati. Un terzo del campione non ha risposto mentre il restante 70% si è diviso in questo modo: un terzo dei 103 soggetti frequenta un Fab Lab (27%) o un makerspace (6%). Quasi un quarto (23%) frequenta invece un laboratorio artigiano, l’8% frequenta un laboratorio di quartiere o un living lab. Dalle risposte sembra riproporsi un nuovo possibile schema produttivo incardinato su due pilastri: da un lato ci sono i nuovi luoghi come i Fab Lab caratterizzati da una dimensione produttiva collaborativa/collettiva, dall’altro la ‘tradizione italiana’ del laboratorio artigianale (dimensione produttiva collaborativa/individuale).

5.1.10 PROCESSI DI PROGETTAZIONE, PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE

APPROCCI ALLA PROGETTAZIONE. Oltre l’80% dichiara di creare da zero i propri progetti. Meno del 40% utilizza e modifica progetti esistenti (in modalità open design). Poco meno del 50% sviluppa il progetto mentre lo realizza materialmente (il tinkering non sembra così sviluppato). Il 90% dei maker e autoproduttori non utilizza design generativo e oltre l’80% non sviluppa progetti in collaborazione con una community (in sostanza non fa codesign). Da questo primo quadro emerge una bassa propensione alla collaborazione nella fase di progettazione, e anche il design open source sembra essere una pratica ancora poco sviluppata.

PRODOTTI DEL MAKING: TRA UNICITÀ E MICROSERIALITÀ. Uno sguardo ai dati porterebbe a definire due principali categorie con cui osservare le produzioni del making: da un lato c’è il mondo dei prototipi (58 su 103 casi), dei pezzi unici (40 su 103) e dai prodotti personalizzati (42 su 103), dall’altro il mondo della piccola serie (59 su 103) e in misura molto minore le edizioni limitate (37 su 103). Non sembra esserci interesse per i prodotti hackerati, riparati o rigenerati e per la produzione di prodotti software. Il dato sulla produzione è stato ulteriormente esploso chiedendo i dati sui volumi. Il 32% dei soggetti è interessato al prodotto unico e alla microserie fino a 10 unità (12% fino a 5 unità, 20% fino a 10 unità). Il 34% per cento è invece focalizzato sulla miniserie (meno di 50 unità 21%, meno di 100 unità 13%). Un 14% dichiara di produrre oltre 100 artefatti all’anno. Nel 20% di chi non ha risposto c’è

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 273 anche probabilmente qualche soggetto non interessato alla vendita dei prodotti o anche chi realizza solo protòtipi.

IL MERCATO DEL MAKING: LA DISTRIBUZIONE È L’ANELLO DEBOLE? La distribuzione si conferma l’anello debole nel campo del making e dell’autoproduzione. Maker e designer-autoproduttori provano a vendere i propri prodotti in diversi modi, ma forse senza adeguate strategie commerciali. La vendita basata sulla riduzione del numero di intermediari sembra prevalere, così come tutte le formule dove maker e designer-autoproduttori ‘ci mettono la faccia’, vendono in prima persona, forse cercano una relazione diretta e personale. Non a caso forse il passaparola è la formula più utilizzata (60 casi su 103), seguito a lunga distanza dalle mostre mercato (38 casi su 103) e dalle fiere (28 casi su 103). Per quanto riguarda il Web, maker e autoproduttori solo in 20 casi optano nello sviluppo di marketplace personali on-line mentre tendono ad affidarsi alle piattaforme e-commerce (58 casi su 103). Infine la fiducia è bassa nella distribuzione al dettaglio anche con formule più innovative come i temporary shop (30 si su 103).

5.1.11 SINTESI

La prima release di dati di MAKERS’INQUIRY ha mostrato alcuni esiti interessanti che confermano in molti casi le ipotesi formulate e le tesi sostenute attraverso il modello del designer=impresa. Due sono i livelli di risposte che si possono formare: il primo riguarda le risposte alle domande di MAKERS’INQUIRY; il secondo le risposte in relazione alla verifica del modello del designer=impresa.

Makers, designer-autoproduttori e lab manager sono in grado di ‘vivere’ di making? L’analisi del contesto italiano ci dice che un numero esiguo di soggetti trae la maggioranza o la totalità del proprio reddito dall’attività di making, micro e autoproduzione, mentre nella maggior parte dei casi si tratta ancora di un’attività che genera risorse integrative. Il dato certo è che sempre meno l’interesse che muove queste attività è puramente amatoriale.

I processi collaborativi, di condivisione e scambio che esistono all’interno di questo mondo, sono davvero reali ed efficaci? I dati sulla realtà italiana dicono in realtà un’altra cosa: collaborazione e openness non sono così importanti. Emerge un ritratto del making e dell’autoproduzione come attività di carattere personale capace di relazionarsi con contesti anche collaborativi (come i Fab Lab) ma sulla base di interessi e obiettivi individuali.

I makerspaces sono davvero luoghi in grado di abilitare nuove forme di produzione? I dati ottenuti non sono in grado di rispondere a questa domanda, ma

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 274 confermano un utilizzo misto dei makerspace sia in una chiave di sperimentazione- prototipazione, che di supporto a piccole forme di produzione. Emerge però un processo di ‘privatizzazione’ di questi spazi che si collega però alla messa in rete di altri luoghi di produzione come i Fab Lab e le botteghe artigiane.

I prodotti realizzati sono realmente competitivi se comparati con forme di produzione industriali e artigianali? I dati che parlano del mercato del making non confermano pienamente questa direzione ma riportano di una quota di soggetti che si specializza nella produzione e vendita di prodotti unici e microserie.

Rispetto al modello concettuale del designer=impresa il dato certamente più interessante riguarda il cambiamento delle forme del lavoro o delle forme di impresa. C’è una quota di professionisti di varie specializzazioni - non solo designer, architetti, ingegneri, esperti di comunicazione e tecnici - che si interessa alla produzione e che concepisce questa attività in una forma d’impresa. Essi uniscono un interesse alla sperimentazione di processi e prodotti con la dimensione pragmatica della produzione e dell’intraprendere attraverso di essa.

#5 | MAKERS’INQUIRY: UN’INDAGINE SUI MICROPRODUTTORI 275 #6 CONCLUSIONI

6.1 LETTURA E INTERPRETAZIONE DEI RISULTATI

NOTA METODOLOGICA. Attraverso un approccio fenomenologico di tipo additivo e sistemico, caratterizzato da una logica inclusiva, Questa ricerca ha cercato di mettere a fuoco un tema di ricerca magmatico e in fase di formazione. Come in un sistema operativo, la validazione dei concetti chiave della ricerca - DESIGNER=IMPRESA e MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA - è avvenuta mediante l’apertura di più cartelle e sottocartelle (gli argomenti di supporto alla tesi principale e gli approfondimenti di carattere secondario) in cui sono stati generati file (conoscenze e dati) con formati intellegibili per essere utilizzati da più software e applicazioni (design e altre discipline). Questo approccio ha inevitabilmente reso la ricerca più densa di contenuti. Il rischio è stato quello di produrre confusione, distrazione e disorientamento rispetto al focus principale che riguarda l’evoluzione della relazione tra designer e impresa all’interno del più ampio cambiamento dei modelli di produzione. Grazie a questo insieme di esplorazioni è però stato possibile trovare più agganci possibili con la realtà scongiurando così la creazione di falsi positivi, la temuta possibilità di scambiare lucciole per lanterne. Trattandosi di una ricerca esplorativa il lavoro sui casi studio è ad esempio da ritenersi provvisoriamente definitorio e soprattutto non definitivo. Si tratta di un’attività in progress che ha provato a leggere e interpretare un fenomeno emergente in uno scenario di grande trasformazione. I casi studio nei formati light e deep, il survey e le altre sperimentazioni contenute nella ricerca costituiscono perciò solo un primo e parziale elemento di verifica qualitativa rispetto alla realtà. Un insieme di carotaggi che serviranno per impostare le future direzioni di sviluppo rispetto al tema di ricerca.

6.1.1 RISULTATI

Di seguito sono riassunti i principali risultati ottenuti attraverso il percorso di ricerca. Una considerazione preliminare va fatta sulla loro natura. La tesi non aveva l’obiettivo di utilizzare la disciplina del design per dimostrare scientificamente un fenomeno di così grande portata come il cambiamento dei modelli di produzione. Molto più concretamente il design è stato utilizzato come punto di partenza e come cartina al tornasole per osservare il processo di trasformazione in atto nei mondi del design e della produzione individuando gli elementi di discontinuità rispetto ai modelli più consolidati di relazione tra designer e impresa.

#5 | CONCLUSIONI 277 La ricerca non ha generato o influenzato questa discontinuità. Più semplicemente l’ha ‘scoperta’ e ha provato a definirla attraverso il concetto del designer=impresa, spiegando i modi in cui si potrebbe dimostrare che essa esiste e arrivando a ipotizzare in che modo si potrebbe sviluppare una nuova relazione tra designer e impresa. Allo stesso modo la ricerca ha provato a definire le caratteristiche della microproduzione in chiave sistemica e in forma distribuita, seguendone le tracce all’interno dei contesti urbani, anche se non ha ancora verificato (al di fuori di ogni ragionevole dubbio) che esso esista.

IL MODELLO DEL DESIGNER=IMPRESA. Il modello concettuale del designer impresa rappresenta un insieme di elementi che si riferiscono a due distinte entità – il progettista (inteso come individuo) e l’impresa produttrice (intesa come organizzazione) – e all’evoluzione della loro relazione all’interno di una cornice paradigmatica: il cambiamento dei modelli di produzione, soprattutto quelli su piccola e piccolissima scala. Il modello concettuale del designer=impresa che esprimere e sintetizza le conoscenze acquisite rispetto ai principali elementi del cambiamento nella relazione tra design e impresa è stato costruito sullo studio dei seguenti elementi: o la presenza un processo integrato, autonomo e indipendente di progettazione- produzione-distribuzione che va dall’idea al mercato; o la presenza di un percorso progettuale che trasforma la creatività in output produttivi concreti (prototipo-prodotto, pezzo unico e/o microserie) attraverso una configurazione personale di tecnologia, tecniche o processi di fabbricazione anche inventati o modificati dal designer stesso).

Applicando questo modello allo studio dei casi la ricerca ha ad esempio compreso ed evidenziato il rapporto tra design e pratiche produttive analogiche e digitali che emergono su piccola e piccolissima scala. Un altro elemento di riflessione individuato riguarda l’openness dei processi produttivi (Bawens, 2012) e la loro possibilità di configurazione e personalizzazione, così come la presenza di pratiche e attività produttive di carattere individuale, ma di tipo collaborativo e comunitario. Del designer=impresa è stata infine osservata la capacità di collegare i processi di microproduzione a reti, filiere, comunità progettuali e produttive sia corte che lunghe. Da questi nuovi processi ideativi-fabbricativi sono state individuate le principali classi di beni e categorie merceologiche, le tecnologie impiegate e le loro potenzialità e possibili direzioni di sviluppo. La comprensione dei cambiamenti negli schemi mentali e nei processi produttivi individuati nella figura del designer=impresa ha inoltre consentito di isolare i componenti fondamentali dei nuovi processi di fabbricazione avanzata e distribuita e di compararli con quelli più tradizionali della mass customization e della specializzazione flessibile. Attraverso il modello concettuale del designer=impresa è stato possibile affrontare il tema della design leadership, che osservato all’interno di questi fenomeni assume una configurazione originale: invece che legarsi semplicemente a un’organizzazione articolata diviene centrata su una dimensione personale. Una pubblicazione scaturita

#5 | CONCLUSIONI 278 da questa ricerca1 ha raccontato l’insieme delle attività di progettazione e produzione collegate a processi decisionali di natura individuale. Queste attività si traducono in una forma di leadership che si esercita attraverso l’accesso diretto e il controllo personale dei processi di ideazione-produzione-distribuzione. Questa forma è stata definita PERSONAL DESIGN LEADERSHIP. La definizione del concetto di microproduzione distributia è stata invece ottenuta attraverso un lavoro in progress di analisi e interpretazione in una prospettiva d’innovazione sociale delle nuove forme di produzione su piccola e piccolissima scala che si stanno sviluppando in contesti diversi - design, modern craft, maker e DIY culture - contestualizzando la figura del designer=impresa. La ricerca ha ricostruito l’emergere di un insieme di idee, processi, tecnologie e valori comuni tali da ipotizzare che la microproduzione distribuita possa essere interpretata come un paradigma socio-tecnico cornice che può quindi originare nuovi ambiti e percorsi d’innovazione. La ricerca è arrivata a definire la microproduzione distribuita spiegandone le caratteristiche costitutive e i fattori di sviluppo e descrivendone gli aspetti sistemici in chiave socio-tecnica.

ELEMENTI DI BASE PER LA COSTRUZIONE DI UNA TASSONOMIA DELLA MICROPRODUZIONE. La ricerca, attraverso il suo percorso di esplorazione sistemica, ha avuto a più riprese la necessità di tentare un primo lavoro di categorizzazione rispetto ai diversi fenomeni osservati nel campo della microproduzione. La costruzione di queste semplici tipologie ha condotto a individuare possibili nuovi idealtipi come il designer=impresa. Un riferimento teorico a supporto di questo tipo di lavoro è stato individuato nello studio sui sistemi di costruzione delle tipologie elaborato da Doty e Glick (1994)2. Questo primo risultato necessita però di essere verificato in una più ampia prospettiva storico-sociale per convalidarne la discontinuità o viceversa evidenziarne gli elementi di ciclicità. Dal punto di vista tassonomico, la ricerca ha elaborato alcuni schemi di classificazione di base. Quelle relative ai processi di progettazione e fabbricazione e ai luoghi di microproduzione sono state realizzate incrociando il lavoro sulla letteratura scientifica con l’analisi dei casi. Per definire le diverse figure di microproduttori si è partiti da alcune figure esistenti come i maker e gli hacker completando la classificazione con altri soggetti le cui caratteristiche sono state individuate ma non sono ancora perfettamente focalizzate, quindi ancora passibili di variazioni e scostamenti. Questo lavoro, osservato nel suo complesso, abbozza una rudimentale tassonomia della microproduzione (Tab. 5.1) che può aiutare a osservare le attività di microproduzione da più prospettive disciplinari. Un lavoro che naturalmente dovrà essere ripreso e progressivamente sistematizzato, verificato e infine validato.

1 Bianchini, M., Maffei, S. (2012). Could Design Leadership Be Personal? Forecasting new form of microcapitalism. Design Management Journal. Volume 7, Issue 1. 2 To reduce the current state of confusion (about classification), we provide the following clarification. The First two terms, Classification Scheme and Taxonomy refer to classification system that categorize phenomena into mutually exclusive and exhaustive sets with a series of discrete decision rules. The Third term Typology refers to conceptually derived interrelated set of ideal types. Unlike classification systems. Typologies do not provide decision rules for classifying organizations. Instead, typologies identify multiple ideal types, each of which represents a unique combination of the organizational attributes that are believed to determine the relevant outcome(s).

#5 | CONCLUSIONI 279 Trattandosi di fenomeni emergenti e in rapida evoluzione sono infatti necessari tempi più lunghi per poterne confermare o modificare le classificazioni.

SOGGETTI DESIGN PROCESSI LUOGHI (SERVIZI) Grower Design to order Fabbricazione Analogica (Micro)Factories Fixer Design to measure Fabbricazione Digitale Lab ReMaker Design on demand Fabbricazione Interattiva Hub Customizer Design pezzi unici Bio Fabbricazione Piattaforme Hacker Design microserie Maker Design generativo Designer=impresa Design open source Microfactory

Tab. 5.1 – Elementi di base per una tassonomia della microproduzione.

L’utilità di questa tassonomia sta nel trovare tutte le possibili combinazioni tra soggetti, approcci progettuali, processi e luoghi per leggere più facilmente una o più attività di microproduzione. La ricerca non ha invece avuto il tempo di lavorare su un’altra potenziale interessante tassonomia: quella delle ‘cose’. Nello studio del cambiamento dei modelli produzione è emerso a più riprese il tema dell’evoluzione della natura degli artefatti collegati alla micro e autoproduzione. Termini come prototipo, prodotto, manufatto, artefatto, cosa, roba assumono oggi significati diversi rispetto alla relazione che hanno con chi li produce o li utilizza, alla materia di cui sono fatti, alle caratteristiche delle tecnologie che li generano o a quelle che contengono.

6.1.2 INTEPRETAZIONE E DISCUSSIONE DEI RISULTATI DI RICERCA

Il lavoro d’interpretazione che segue collega tra loro i principali argomenti e i concetti sviluppati durante il percorso di ricerca individuando, attraverso alcuni filtri interpretativi, i nodi concettuali più importanti distinguendoli dalle argomentazioni di supporto.

LA TESI INTERPRETATIVA PRINCIPALE La ricerca è stata attivata osservando una (allora) carente letteratura scientifica specifica sul collegamento tra design e cambiamento paradigmatico dei modelli di produzione3. Un cambiamento, come più volte citato, incarnato da un coacervo di fenomeni produttivi emergenti come il making, le forme evolute di Do-It-Yourself, la personal fabrication e, più in generale, le altre possibili forme di user innovation (Von Hippel, 2011) aventi come fine la produzione di uno o più artefatti attraverso tecnologie e processi per la fabbricazione avanzata e distribuita.

3 Questo gap si è progressivamente ridotto nel 2013 e 2014 grazie al crescente numero di pubblicazioni dedicate a questi temi, di convegni e conferenze.

#5 | CONCLUSIONI 280 Sostenendo una tesi sullo sviluppo di queste attività abilitate da nuove design capabilities, la ricerca ha sistematizzato e generato un insieme di conoscenze utilizzabili dai professionisti per sviluppare o migliorare le proprie attività di micro e autoproduzione e dalle istituzioni – dal mondo della formazione ai policy maker - per stimolare nuove forme di design entrepeneurship, nuove piattaforme di servizio per queste attività, nuove forme di design innovation capaci di rigenerare la relazione tra designer e industria/artigianato.

L’ipotesi da cui ha preso avvio questo studio si è basata su un preciso tema- problema di ricerca. Nei sistemi di produzione tradizionali - su grande e piccola scala - gli studi sulla relazione tra le attività di design e quelle legate alla produzione si sono storicamente focalizzati sul rapporto che intercorre tra uno o più individui (un singolo progettista o una rete di progettazione) e una o più organizzazioni (l’impresa produttrice, una rete, l’industria)4. La tesi interpretativa sostenuta attraverso questa ricerca è invece la seguente: nei nuovi modelli di produzione, soprattutto quelli su piccola e piccolissima scala, quando ci si riferisce al design si assiste alla comparsa di nuova figura di progettista o a una nuova forma di impresa in cui avviene l’ibridazione tra la dimensione dell’individuo e quella dell’organizzazione e un’integrazione tra l’attività progettuale e quella produttiva. La ricerca ha definito designer=impresa questo nuovo individuo-organizzazione

Il modello concettuale del designer=impresa è stato collegato a una pluralità di temi e concetti che la ricerca ha esplorato e approfondito (Tab. 5.2). Nel lavoro di approfondimento orizzontale (Capitolo 2) è racchiuso il tentativo di collocare il tema della microproduzione rispetto allo scenario più generale del cambiamento dei modelli di produzione e alcune delle sue evidenze più importanti come il making, l’autoproduzione, l’urban manufacturing confrontandole con i soggetti (i makers), i processi (la digital fabrication) e i luoghi (i makerspace) i sistemi (i contesti urbani). Nel lavoro di approfondimento verticale (Capitoli 3, 4 e 5) la ricerca ha studiato come si configura un processo di microproduzione, quali sono le principali tecnologie impiegate e come si progettano, modificano o utilizzano in relazione ai percorsi di sviluppo dall’idea al mercato.

ARGOMENTI TRASVERSALI ARGOMENTI SPECIFICI

MICROPRODUZIONE CITY MAKING PERSONAL DESIGN LEADERSHIP (teorie dell’economia urbana) (discipline del management) DISTRIBUITA COMUNITÀ-MERCATO AUGEMENTED CRAFT (teorie dell’economia urbana) REDUCED INDUSTRY DESIGNER=IMPRESA (production management)

Tab. 5.2 – Argomentazioni principali e corollari della ricerca

4 Ovviamente esiste una sterminata letteratura scientifica appartenente a diverse discipline che si è occupata di questa relazione da diverse prospettive: sociologica e sociotecnica, tecnologica, economica, gestionale e imprenditoriale. Questa estesa attività scientifica ha anche prodotto nei decenni un robusto corpus di metodi e strumenti che hanno (infra/iper)strutturato questa relazione con l’intento di incrementare la performance del design nei processi produttivi e d’innovazione dell’impresa, ma mantenendo ben separate queste due entità.

#5 | CONCLUSIONI 281

COME CAMBIA IL DESIGN RISPETTO AL CAMBIAMENTO DEI MODELLI DI PRODUZIONE? Questa domanda, connessa all’ipotesi iniziale, è stata declinata su tre livelli per discutere e argomentare il cambiamento del progettista, della pratica del design, del contesto operativo in relazione al cambiamento generare dei modelli di produzione.

La prima risposta a questa domanda è stata fornita attraverso la definizione del concetto di microproduzione che permette di articolare le diverse pratiche di produzione su piccola scala dal punto di vista dei processi, delle tecnologie, dei soggetti e dei luoghi definendo di volta in volta il ruolo del design.

Il primo livello di discussione riguarda l’ibridazione tra le attività di design e produzione legato al cambiamento della struttura e delle dinamiche domanda- offerta di progetto/progettazione e di prodotto/produzione nel campo della microproduzione. Nel Capitolo 2 lo studio sul cambiamento dei modelli di produzione ha evidenziato come in alcuni paesi dell’Occidente avanzato la diminuzione delle imprese manifatturiere causata dai processi di delocalizzazione e deindustrializzazione stia determinando la disintegrazione delle tradizionali forme di organizzazione della produzione e di generazione della domanda di progetto, mandando in crisi la relazione con il design. Contestualmente, la massificazione delle professioni creative (Capitolo 2) sta generando un surplus di capacità progettuale qualificata. Una parte di questa, per interesse e/o necessità, si orienta verso il mondo dell’autoproduzione oppure va ad alimentare le nascenti piattaforme per l’open design e la personal fabrication, aumentando così i contenuti di design a basso costo in circolazione (più progetti downloadabili e personalizzabili). Allo stesso tempo la diffusione dei dispositivi per la fabbricazione digitale e dei luoghi come i makerspace genera una nuova offerta di servizi di fabbricazione a basso costo per una pluralità di soggetti tra cui i designer stessi. Questa nuova offerta di design e produzione sta diventando progressivamente accessibile per un numero crescente di utenti privi di queste capacità facilitandoli nella materializzazione di artefatti sempre più aderenti alle proprie idee. La crescente disponibilità e accessibilità delle risorse per la progettazione e la produzione e l’ingresso di nuovi attori comincia a ridisegnare il mercato del progetto e del prodotto tanto nel campo della produzione industriale quanto in quello microproduzione modificando i tradizionali ruoli e rapporti di forza tra chi progetta, chi produce e chi consuma. Appare via via più evidente che l’impresa produttrice e il progettista stanno cessando di essere gli unici proponenti, sorgenti o gestori dell’innovazione e che l’impresa presto potrebbe diventare un luogo o un attore di servizio alla produzione, un ricevente dell’innovazione sviluppata altrove, proposta da altri e generata attraverso situazioni ibride. Un’affermazione questa, vicina alla posizione espressa da Von Hippel a proposito della relazione tra consumatori-innovatori e impresa: “business needs to

#5 | CONCLUSIONI 282 organize their product development systems to efficiently accept and build upon prototypes developed by users”. A questo proposito Von Hippel, Ogawa e De Jong individuano tre fasi in questo nuovo paradigma dell’innovazione: i) gli utenti sviluppano i prodotti per loro stessi, ii) altri utenti valutano e scartano oppure copiano e migliorano, iii) i produttori entrano quando il potenziale di mercato è chiaro. Nel campo della microproduzione questo passaggio può diventare duplice. Non solo figure come i designer o i maker possono oggi agire come produttori ma anche i consumatori riescono in misura crescente a definire e a produrre artefatti in cui sono riconoscibili tracce di attività progettuali. Alcuni designer=impresa hanno compreso questo passaggio e cominciano ad attrezzarsi per rispondere a questa necessità: da un’offerta di progetto e prodotto pensata per l’utente a una configurazione della propria attività in una chiave di progettazione e produzione on-demand e on-site che lascia all’utente lo spazio e la possibilità di operare autonomamente. Dalle applicazioni per il design generativo, ai modellatori con interfacce aptiche, ai configuratori di design cresce il ventaglio delle soluzioni progettate dai designer per abilitare altri soggetti a progettare in modo personale e indipendente.

Il secondo livello di discussione riguarda l’integrazione tra progettazione e produzione alimentato dall’ibridazione dei processi e delle tecnologie per il design e la fabbricazione. La ricerca ha cercato di dimostrare, attraverso il lavoro di studio iniziale e soprattutto con i casi studio, come nel campo della microproduzione vi sia una crescente e progressiva integrazione - fisica/virtuale e analogica/digitale - tra le attività progettuali e quelle produttive. Questo processo, realizzabile in diversi modi, è di tipo biunivoco: da un lato l’integrazione di uno o più aspetti di producibilità di un artefatto entra direttamente nella fase di progettazione (Kerbrat, Mognol e Hascoet, 2010) dall’altro uno o più aspetti di progettazione di un artefatto possono essere introdotti in tempo reale nell'attività produttiva (è il caso di alcuni designer=impresa come Unfold, vedi Capitolo 4). Questo aspetto è stato osservato nelle caratteristiche generali dei processi di fabbricazione avanzata grazie al costante sviluppo delle tecnologie CAD e, più nello specifico, all’interno dei processi di fabbricazione su piccolissima scala realizzati dai designer=impresa grazie alla messa a punto di processi di fabbricazione basati su nuove interfacce che fanno interagire design e produzione (Willis et al., 2011): la fase ideativa (quando esiste) e quella progettuale diventano contestuali alla fase produttiva, in alcuni casi addirittura coincidenti. Lo stesso aspetto è poi riscontrabile nell’impostazione delle pratiche di diverse tipi di microproduttori: dai maker, più basati sulla propensione al tinkering e alla sperimentazione hands-on, ai crafter più vicini all’impostazione del pensiero progettuale-manuale dell’artigiano (Micelli, 2012). Questa possibilità si prospetta anche a livello amatoriale per i soggetti interessati al DIY, grazie alla convergenza tra gli strumenti per la mass customization, reverse engineering e la digital fabrication. Basandosi su questi elementi la ricerca ha cercato di comporre uno scenario contenente i diversi elementi che delineano lo sviluppo di un sistema produttivo indipendente, autonomo e non contrapposto all’artigianato e all’industria tradizionale.

#5 | CONCLUSIONI 283 Un sistema composto da reti e filiere di singoli microproduttori e vari tipi organizzazioni produttive comunitarie come i makerspace. Una possibile ‘terza via’ alla produzione basata su una crescente popolazione di PRODUTTORI INFORMALI (Newirth, 2012), di cui i designer=impresa fanno parte (Capitolo 4).

Il ruolo del design nella composizione di un possibile scenario della microproduzione distribuita potrebbe così presentare due direzioni di sviluppo tra loro complementari. Nella prima direzione è plausibile immaginare che un insieme crescente di attività indipendenti di microproduzione trovi un progressivo consolidamento, saldandosi in chiave sistemica con altre forme di microproduzione già presenti nel campo dei servizi (Manzini, 2014; Rifkin 2014). In questo caso il design è un common, uno strumento condiviso, un’attività di tipo collaborativo e una pratica codificabile/processabile che può essere ‘facilmente’ appresa e utilizzata per soddisfare i bisogni produttivi di una comunità vasta e diversificata di individui. La democratizzazione delle attività di progettazione e produzione implica infatti una sostanziale cessione o perdita di leadership delle organizzazioni (le imprese) nella gestione di questi processi e delle relative competenze in favore di una leadership personale esercitata dagli individui (Bianchini, Maffei; 2012). In questo modo cambiano però anche i filtri di selezione delle idee che non sono più esclusivamente professionali. Ciò reca con sé una serie di criticità legate all’amatorializzazione del design, alla banalizzazione e superficialità del progetto, o peggio ancora la creazione di prodotti inutili, non sicuri o dannosi. Questi fenomeni sono chiaramente osservabili in centinaia di progetti customizzabili pubblicati su piattaforme per il making e l’autoproduzione come Thingiverse e Instructables. Il contenimento di questi effetti negativi implica un trasferimento di competenze progettuali su larga scala, la responsabilizzazione degli individui in quanto entità progettanti e la messa in discussione degli attuali modelli formativi del design in favore di processi di lifelong e social learning. Gli esempi che vanno in questa direzione ci sono già: le tinker school, in cui programmi e laboratori per il making nelle scuole primarie e secondarie sono una realtà, così come la crescente offerta di corsi offerti dai makerspace o di starter-kit e tutorial per la microproduzione (Capitolo 3). Il design in questo campo, oltre che come innovatore indipendente (Bianchini, Maffei, 2012), può trovare un proprio spazio come disciplina che elabora soluzioni in grado di abilitare o educare/stimolare altri soggetti a progettare e produrre in modo autonomo e responsabile, sia in forma individuale e collettiva. I diversi casi di progettisti impegnati a definire nuove regole progettuali (Capitolo 4), a sviluppare piattaforme open source modificabili o implementabili in modalità uno a uno, a creare tools per l’autoprogettazione testimoniano di questa possibilità. La seconda direzione prospetta una crescente ibridazione tra le attività di microproduzione distribuita e le attività produttive tradizionali, fino a immagine che l’industria ‘inglobi’ o riproduca al suo interno questi nuovi modelli di produzione per stimolare percorsi di INNOVAZIONE IMPROVVISATA. Le crescenti connessioni tra makerspace, imprese e artigiani e il crescente insediamento di questi nuovi luoghi all’interno dei sistemi produttivi locali ci raccontano questa tendenza e dell’occasione offerta soprattutto alle piccolissime imprese di accedere a un nuovo sistema di

#5 | CONCLUSIONI 284 competenze che può consentire loro di fare innovazione di prodotto e di processo on- demand e on-site, con costi accessibili e senza appesantire le proprie strutture. Questo è lo spazio in cui il design grazie alla conoscenza di questi due mondi può ricoprire un importante ruolo di attivatore e facilitatore dei processi di innovazione. Molti casi di designer=impresa raccontano un duplice orientamento: il design può far interagire le proprie risorse progettuali e produttive con le risorse e le competenze presenti nei makerspace e le imprese per dare vita a nuove reti di impresa, oppure può selezionare singole tecnologie e competenze presenti in più imprese per creare nuovi modelli di virtual factory (Fuehrer, Travica, 1997).

Il terzo livello di discussione riguarda l’integrazione tra le attività di design e produzione legato all’ibridazione tra luoghi e servizi per il design e la fabbricazione. Nella fase di analisi e in quella di sperimentazione la ricerca ha dimostrato come nel campo del design esistono nuove pratiche di microproduzione che si esplicano attraverso un insieme di attività e risorse che risiedono in luoghi tipologicamente nuovi. Luoghi come i makerspace certamente possono supportare la capacità progettuale (e produttiva) del designer in relazione all’evoluzione del proprio ruolo di microproduttore ma sono di per sé generatori di progettualità. Una recente ricerca sul mondo dei Fab Lab condotta dall’università di Cambridge (Bit by Bit, Mortata, Parisot; 2014) ha infatti osservato come l’accessibilità locale ai makerspace rivesta un ruolo chiave nello sviluppo di nuovi business basati su idee che altrimenti sarebbero state abbandonate ma afferma anche che nella maggior parte dei casi i processi ideativi non avvengono dentro i makerspace. Nella ricerca questo aspetto è stato osservato in più circostanze nei casi studio e nel survey online. La ricerca nel suo complesso ha dimostrato che il designer è in grado di progettare e configurare luoghi di produzione in modo autonomo e indipendente. E’ in sostanza in grado di ibridare luoghi e servizi di progettazione con luoghi e servizi per la produzione. I luoghi di produzione creati dai designer=impresa possono fare riferimento alle nuove tipologie esistenti – come nel caso dei designer che ‘importano’ il modello del Fab Lab nella propria attività – oppure avanzano l’idea di creare nuovi luoghi che reinterpretano o reinventano i luoghi di produzione tradizionali come la fabbrica e la bottega artigiana lavorando sulla miniaturizzazione o la semplificazione tecnologica o viceversa sul potenziamento digitale di pratiche produttive analogiche. Oppure ancora possono essere messi in rete luoghi e servizi di produzione diversi tra loro (come nel caso Slow/d). In questo caso la tesi sostenuta è che nel cambiamento dei modelli di produzione - se è vero che tecnologie nuove e democratizzate presenti in luoghi facilmente accessibili abilitano i processi di microproduzione individuali - è altrettanto vero che questi luoghi e le loro tecnologie esistono, si plasmano e si configurano principalmente sulla base dei processi di microproduzione che vi si realizzano (Arthur, 2012). In questo passaggio s’intravede un’evoluzione in chiave produttiva della cultura della mass customization. Le nuove figure di progettisti-produttori tendono ad allargare il proprio focus progettuale e la loro capacità di customizzazione e personalizzazione dal sistema-prodotto al sistema di produzione, aumentando lo

#5 | CONCLUSIONI 285 spettro delle possibili configurazioni che può assumere l’attività di microproduzione (Capitolo 4). L’utilizzo strategico delle tecnologie presenti in questi luoghi è una delle chiavi per consentire al designer di diffondere altrove i propri processi di fabbricazione e di sviluppare la propria attività in una forma distribuita (come nel caso Don’Run Beta, Capitolo 4). A questo specifico aspetto è collegato il tema della scalabilità di questi modelli della microproduzione. Al contrario di molte start up tecnologiche per molti designer=impresa lo scale-up non risulta essere né automatico né tantomeno prioritario. In alcuni casi c’è un deliberato interesse a non sviluppare la propria attività di produttori se questa va a discapito di quella professionale. Questo aspetto è emerso soprattutto nei casi studio approfonditi. Alcune opzioni in caso di successo sono quelle di ‘rinunciare a crescere’ aprendo il processo o cedendone la licenza ad altri soggetti, oppure creare una rete di produzione agendo poi come editor. In questo comportamento c’è una sostanziale differenza tra la figura del designer- imprenditore e quella del designer=impresa. Storicamente nel design italiano mentre i designer-imprenditori si caratterizzano maggiormente per la volontà del progettista di creare un’impresa produttrice di tipo tradizionale (come nei casi storici come Makio Hasuike con MH-way nel 1982 e Riccardo Sarfatti nel 1978 con Luceplan), nel caso dei designer=impresa la microproduzione può essere vista come un’attività che consente al designer di fare ricerca, di rigenerare la propria capacità progettuale e di continuare nella propria attività professionale. Un insieme di nuove figure di produttori che rinunciano alla crescita dimensionale dell’impresa e dove il concetto di scalabilità dei luoghi e dei processi di produzione si attesta sulla scala micro e su reti distribuite peer-to-peer potrebbe avere delle ripercussioni sulle policy che lavorano sullo sviluppo imprenditoriale. Porre l’attenzione sulla componente più ‘micro’ del concetto di microimpresa5 e guardare a queste entità in modo diverso – micro a livello individuale (una persona e una macchina) ma potenzialmente macro se organizzata in reti distribuite - vorrebbe dire provare a rimettere in discussione il senso di alcuni concetti che sono alla base della definizione di un’impresa come quelli di organico, di fatturato o di settore. I soggetti e le esperienze che sono state fatte confluire sotto il modello del designer=impresa potrebbero configurare nuove forme di microcapitalismo indipendente (Nussbaum, 2012) in grado di generare microeconomie basate su nuclei cellulari business to business che lavorano su varie forme di microproduzione distribuita.

6.1.3 LIMITI DELLA RICERCA

Il processo di verifica di questa ricerca è arrivato a una ragionevole argomentazione delle tesi proposte attraverso un lavoro qualitativo condotto principalmente su casi esplorativi. Ovviamente le considerazioni interpretative, per quanto valide,

5 Una microimpresa è definita come un'impresa il cui organico sia inferiore a 10 persone e il cui fatturato o il totale di bilancio annuale non superi 2 milioni di euro.

#5 | CONCLUSIONI 286 costituiscono ancora un pezzo di conoscenza in progress che avrebbe bisogno di essere ulteriormente validato con ulteriori integrazioni sul piano qualitativo e quantitativo. Di seguito sono riportati i principali elementi di cui si riconoscono precisi limiti in termini di conoscenze, approccio e metodo. Partendo da queste constatazioni si individuano alcune aree in cui la ricerca potrebbe orientarsi per proseguire il percorso di verifica e sviluppo delle argomentazioni proposte.

STUDIARE LA MICROPRODUZIONE IN UNA DIMENSIONE QUANTITATIVA Lna ricerca ha definito le caratteristiche del modello del designer=impresa e descritto i principi di un sistema della microproduzione distribuita. Rimane però parzialmente insoluta la metrica complessiva del design per la microproduzione. In sostanza vanno verificate le regole del gioco di questo sistema per renderne misurabili le caratteristiche, le proprietà, le capacità e le performance. Partendo da questo limite la ricerca dovrebbe proseguire nello studio dei designer=impresa anche in una dimensione quantitativa6. Un primo tentativo di costruire dati quantitativi in forma strutturata è stato conseguito attraverso l’indagine Makers’Iquiry. Questo studio, seppur condotto su un campione significativo di soggetti in relazione ai numeri complessivi dell’autoproduzione in Italia, è però ancora lontano dal fornire un dato di scala. Data l’emergenza di questi fenomeni, la loro natura evolvente e temporanea, è importante comprendere come le attività di microproduzione possano funzionare nel lungo periodo e come si possano misurarne correttamente output ed effetti. Se dai risultati per ora acquisiti appare chiaro che la microproduzione intesa come processo possa avere una maggiore misurabilità non è ancora perfettamente a fuoco come misurarne gli output in termini di prodotti, servizi e tecnologie. Individuare gli indicatori che misurano le attività di microproduzione significa poter misurare le performance produttive e innovative dei designer=impresa rispetto alle imprese tradizionali, consentendo di misurare queste attività anche per aggregazioni settoriali o territoriali e in momenti diversi.

ESPLORARE LA MICROPRODUZIONE IN UNA DIMENSIONE MULTIDISCIPLINARE. La ricerca durante il suo percorso esplorativo ha toccato diverse discipline. In più casi questo è successo mutuando pezzi di conoscenza utili ad argomentare le tesi proposte e a spiegare specifici fenomeni o caratteristiche che avevano a che fare con la relazione tra design e cambiamento dei modelli di produzione. La tesi è arrivata nelle sue conclusioni a definire un tema generale – quello delle nuove forme di organizzazione dell’attività professionali (creative e progettuali) o delle nuove forme di impresa produttrice – che non sono propriamente caratteristiche del

6 Anche se le parti di analisi, studio e sperimentazione sui designer=impresa hanno complessivamente consentito di raccogliere e studiare più di 300 casi. 109 casi sono quelli osservati nell’analisi etnografica sia come light cases che come deep cases, 103 soggetti sono stati intervistati attraverso la MAKERS’INQUIRY e circa 110 studenti del laboratorio di autoproduzione.

#5 | CONCLUSIONI 287 campo disciplinare del design. A questo tema ci si è arrivati in modo non completamente consapevole. In pratica la ricerca aveva l’obiettivo di re-imparare delle cose sulla relazione tra design e produzione e nel fare questo ne ha osservate delle nuove. Essa ha agito adottando l’approccio entusiasta di un maker: ha preso gli elementi del campo di ricerca ritenuti più interessanti, li ha smontati e osservati per capirne le logiche, ha creato un prototipo che prova a rielaborarne alcune capacità in modo proiettivo (il modello del designer=impresa) e infine lo ha testato (hands on) per verificarne il funzionamento. Al termine di questo processo è pronta per rilasciare queste conoscenze in modo aperto e condiviso consentendo ad altre discipline di compiere lo stesso percorso. Questa ricerca si è mossa con la consapevolezza che certamente anche altri soggetti si sono avvicinati a questo tema di ricerca con un altro linguaggio e a partire da un'altra disciplina e cultura. Alla disciplina del design, per affrontare questo tema, manca per esempio la profondità di visione necessaria per inquadrare il fenomeno die designer=impresa in una prospettiva storica e all’interno dei vari cicli economici, immaginando dove esso si colloca e dove va. Una competenza tipica di territori della conoscenza come l’economia politica. Dalle interviste e dai casi è emerso a più riprese la possibilità per il designer-impresa di operare mettendo insieme altri individui e altre parti di imprese. Questo presupporrebbe un’apertura delle imprese e dei sistemi produttivi locali (come i distretti industriali) nella direzione della generazione di organizzazioni produttive virtuali che si configurano ogni volta sulla base degli interessi di soggetti come i designer=impresa e delle relative comunità mercato. Una proposta provocatoria, ovviamente tutta da verificare, è quella di usare il modello del designer=impresa come ‘testa di ponte’ per verificare l’esistenza di modelli ibridi individuo-organizzazione anche all’interno di altri campi. Il sistema di suddivisione del pensiero economico ipotizza infatti modelli che si applicano o all’individuo (il lavoratore, il cittadino) o all’organizzazione (l’impresa, lo stato), ma non sembrano esistere modelli economici fondati sulla fusione tra individui e organizzazioni. Questo è plausibile anche perché le condizioni che alimentano la crescita di queste forme ibride non potevano esistere tal quali prima. La ricerca si è spinta a osservare il fenomeno della microproduzione con alcuni modelli produttivi legati alle teorie economiche classiche o a sistemi economici misti, mancano però le conoscenze economiche necessarie per riconoscere l’esistenza di soggetti assimilabili al modello del designer=impresa (individui=organizzazioni) nelle diverse teorie economiche e della produzione. Tracce di questo fenomeno si possono rintracciare in relazione al tema dell’impresa virtuale (una forma di organizzazione che però non lo è nei canoni classici). Principali caratteristiche delle virtual enterprise sono legate alla loro natura temporanea, all’utilizzo di tecnologie ICT, alla non necessità di creare nuove entità legali, alla complementarietà del know-how tra i vari soggetti che partecipano all’attività produttiva e alla possibilità di generare forme di produzione distribuita. Caratteristiche individuabili anche nel modello del designer=impresa che proprio per questo meritano di essere indagate confrontandosi con più discipline, soprattutto economiche, ingegneristiche. Il possibile aggancio di questa ricerca alle scienze sociali

#5 | CONCLUSIONI 288 riguarda invece la verifica del modello del designer=impresa in relazione al tema del capitalismo personale (Bonomi e Rullani, 2005) o al tema delle nuove individual enterprise abilitato dalla crescita delle ICT. La ricerca ha infine osservato la dimensione della microproduzione dentro la città. il fenomeno del city making o dello small urban manufacturing, è stato per ora studiato in funzione della sua relazione con il modello del designer=impresa. Proprio perché questo tema non è stato trattato con la giusta profondità andrebbe collegato al campo dell’economia urbana: da un lato per verificare il modello di microproduzione dei designer=impresa in relazione alle teorie sulla localizzazione urbana delle attività produttive centrate sulle imprese e quelle centrate sugli individui (ad esempio i modelli di Von Tunhen e Alonso), dall’altro per comprendere le specificità e le caratteristiche evolutive dei modelli e i processi della microproduzione quando viene realizzata all’interno di un contesto urbano piuttosto che in un contesto rurale come un distretto industriale o artigianale.

ESPLORARE I PROCESSI D’INNOVAZIONE NEL CAMPO DELLA MICRO PRODUZIONE. Il progredire dello studio sul tema dei designer=impresa ha incrociato anche altri temi interessanti ai fini della ricerca che meriterebbero un approfondimento puntuale. Questo argomento merita di essere esplorato in due diverse direzioni. Il primo aspetto riguarda la relazione tra il tema di ricerca e l’innovazione sistemica. La tesi ha trattato questo tema nello sviluppo del concetto di microproduzione distribuita ma si è fermata nello studio di base delle proprietà di un sistema. Certamente un’importante direzione di sviluppo della ricerca riguarda gli approfondimenti sulle teorie dei sistemi e sulle teorie dell’innovazione sistemica. Il secondo aspetto riguarda l’osservazione di una discontinuità nei percorsi di innovazione dei designer=impresa. Nel campo della microproduzione si evidenzia un processo di destrutturazione e ‘sburocratizzazione’ dei processi di progettazione che solitamente caratterizzano l’approccio del design strategico nello sviluppo dei sistemi di prodotti-servizi. Questo campo sembra caratterizzarsi per l’assenza di metodi e tools che codificano o regolamentano i processi di generazione di idee e la loro trasformazione in concept e quindi in prodotti, che misurano la qualità o la producibilità degli artefatti, nonché altri metodi e tools utilizzati per misurare e valutare l’insieme delle fasi e delle attività presenti nei processi appena descritti. Al contrario si evidenziano più similitudini con i processi di innovazione frugale (Radjou, Prabu, Ahuja; 2012), di grassroot innovation (Hielscher e Smith; 2014) e reverse innovation (Govindarajan e Trimble, ) che caratterizzano la microproduzione nei paesi emergenti o in via di sviluppo come l’India. La ricerca ha incrociato questi modelli e si è limitata a ricondurli in forma sistematizzata al fenomeno della microproduzione distribuita e dell’autoproduzione (vedi Cap. 2) raggruppandoli sotto il termine provvisorio di indie innovation (Bianchini e Maffei; 2013).

#5 | CONCLUSIONI 289 6.2 FUTURI SVILUPPI DEL TEMA DI RICERCA

Questa sezione riflette sulle possibili esplorazioni e iniziative concrete che la ricerca potrebbe attivare in relazione agli argomenti sviluppati. La ricerca ha operato per modellare i principali concetti nella relazione tra design e nuovi modelli di produzione, con l’obiettivo di creare una base, la più stabile e solida possibile, per successive applicazioni che potranno essere trasferite in più domini dove si ripropone il ripensamento della relazione tra individuo e organizzazione: dal mondo delle professioni del progetto ai sistemi industriali e artigianali, dai sistemi per la formazione, la ricerca ,l’innovazione e il trasferimento tecnologico, ai sistemi di policy per stimolare nuove forme di imprenditorialità basate su nuovi modelli di produzione.

SVILUPPARE GLI SKILL LEGATI AL MODELLO DEL DESIGNER=IMPRESA. Osservando l’evoluzione del tema di ricerca alcune cose sono ovviamente già cambiate. Dagli studi condotti comincia a farsi largo l’idea che la microproduzione possa dare vita ad attività ibride che non sono più (solo) professionali e non sono più (solo) imprenditoriali. Allo stesso tempo c’è la netta percezione che stia progressivamente tramontando una visione del making e dell’autoproduzione come attività prevalentemente hobbistiche. Making, micro e autoproduzione possono anche essere viste come un insieme di attività produttive che si fondano su basi culturali e professionali evolute. La ricerca ha mostrato a più riprese come diversi designer=impresa partono da un’attività di consulente d’impresa, formatore, ricercatore, progettista puro per poi far evolvere un’attività di produzione. Nella definizione di designer=impresa c’è quindi l’idea che le abilità utilizzate per realizzare le imprese siano in realtà anche quelle che servono per generare progetti di prodotti e servizi. E’ come se emergesse un continuum tra tre elementi - progetto, prodotto e impresa - che diventano tra loro intercambiabili. Lo scenario produttivo che ne consegue è legato a una dimensione di creatività che si esercita su piccola scala e localmente (anche se con prospettive commerciali potenzialemente globali) e in maniera pragmatica: in alcuni casi vicino alla sperimentazione, in altri casi vicino alle esigenze dei singoli e delle comunità. Alimentare questo scenario significa sostenere iniziative e azioni rivolte allo sviluppo delle abilità di questi soggetti e alle condizioni che le abilitano. Dal punto di vista degli skill, un tema di progetto riguarda le iniziative che stimolano la crescita degli individui che entrano nel mondo della professione- produzione con un approccio bottom-up e grassroot. Le azioni dovrebbero così lavorare sullo sviluppo delle competenze di base legate alla microproduzione. Dal punto di vista delle condizioni abilitanti, una possibile direzione di progetto è quella di lavorare sulla costruzione di comunità-mercato delle idee (Cap. 3). Contesti che siano in grado di valutare la qualità e l’efficacia dei prodotti realizzati con

#5 | CONCLUSIONI 290 parametri che premiamo i risultati generati e non ad esempio il numero dei progetti di start-up finanziati. Fare questo richiederebbe di mettere in campo una nuova progettualità istituzionale per creare strategie e strumenti (normativi, tecnologici, economici e finanziari, sociali) che mettano i soggetti come i designer=impresa nelle condizioni per crescere ed affermarsi. Molte delle politiche di sviluppo guardano al sostegno degli skill individuali o alla creazione delle nuove imprese tendenzialmente in modo separato. La condizione dei soggetti come i designer=impresa suggerisce forse la necessita di nuovi strumenti che favoriscano questa sua duplice condizione di professionista e impresa produttrice. La progettazione di misure che incentivino il continuo passaggio e travaso di competenze, risorse dall’attività professionale a quella imprenditoriale-produttiva.

NUOVI LUOGHI E RETI PRODUTTIVE PER LA MICRO PRODUZIONE. Nel campo della microproduzione così com’è stata osservata la scomparsa della divisione tra designer e impresa produttrice è stato rilevata la crescente integrazione tra luoghi della progettazione e luoghi della produzione. Dallo studio dei designer=impresa, dai casi studio e dal survey Makers’Inquiry emerge come la microproduzione tenda a svolgersi in una pluralità di luoghi – casa, ufficio, makerspace, laboratorio artigiano - e che questi luoghi possono essere tra loro dialoganti. Nei luoghi emergenti come i Fab Lab è infatti insita un’idea di semi- permanenza, di temporaneità e di configurabilità degli spazi. Una situazione ideale in cui le professioni creative si possono fondere con le nuove dimensioni produttive. Un possibile sviluppo del tema di ricerca emerge dall’osservazione della generatività di questi luoghi. Questo tema è legato alle politiche che guardano ai Fab Lab e makerspace come nuovi spazi deputati a generare le imprese del futuro. Questo è l’indicatore solitamente utilizzato. L’ipotesi è questo insieme di luoghi sia più adatto a generare nuove forme di lavoro basate sul valorizzare del potenziale delle tante possibili configurazioni ibride tra individuo e organizzazione, piuttosto che lavorare come un nuovo tipo di acceleratore d’impresa. Un possibile lavoro di studio potrebbe quindi provare a misurare la capacità di questi luoghi generare impresa e/o nuove tipi di professionalità nel campo del design e della produzione.

NUOVI PROCESSI E LUOGHI DI APPRENDIMENTO PER LA MICRO PRODUZIONE. Il tema dei nuovi skill nel campo della microproduzione può essere ricondotto anche allo sviluppo di nuovi modelli di apprendimento e formazione. Durante la ricerca è emersa in più occasioni la volontà di tradurre le conoscenze acquisite in uno strumento metaprogettuale contenente le linee guida per realizzare iniziative formative sui temi della microproduzione. A questo proposito è stata prodotta una desk analysis sulle facility universitarie che si occupano di making (technical lab, design workshop, design factory) utilizzando come campione le università e le scuole di design della Rete Cumulus7. Questo lavoro, che ha mappato le più promettenti esperienze formative nel campo del design per la microproduzione, evidenzia l’importanza di lavorare sulla creazione

7 Questo lavoro completa uno studio avviato durante un trimestre trascorso alla Aalto University nel 2012.

#5 | CONCLUSIONI 291 di enabling environments8 (Bianchini, Maffei, Bolzan; 2001), luoghi che mescolano formazione, ricerca, produzione e distribiuzione grazie un mix di condizioni favorevoli tra loro correlate: poca burocrazia, supporto alle attività produttive e distributive, tariffe e fiscalità vantaggiose (es. membership), accesso a network di ricerca internazionali. Condizioni che possono influire sulla capacità del designer=impresa di agire all’interno della società come un’organizzazione e lo spingono a impegnarsi in processi di sviluppo della propria attività più sostenibili ed economicamente efficaci. Guardando alla relazione tra luoghi e nuove attività progettuali e produttive sembrano delinearsi due possibili modelli di ambienti in cui promuovere i processi di microproduzione: un primo modello di luoghi dove concentrare spazi per la progettazione, produzione e distribuzione dove le attività di microproduzione coesistono con le attività di ricerca, incubazione e libera sperimentazione. Embrioni di questi luoghi sono le design factory universitarie, i manufacturing hub e institutes. Un secondo modello, andando nella direzione opposta, potrebbe contemplare lo sviluppo di attività di microproduzione in una rete di luoghi dove avvengono separatamente le attività di progettazione, quelle produttive e quelle dove avviene la promozione. Tutto questo tratteggia le caratteristiche di una innovation policy che affronti il tema delle ‘palestre del fare’. Luoghi ideali per la crescita di soggetti che si industriano per creare nuovi modelli di produzione. Degli industrious designer.

8 Un progetto con caratteristiche simili, denominato POLIFACTORY, è stato avviato all’inizio del 2014 e riguarda la creazione di una design factory al Politecnico di Milano. POLIfactory è un struttura per la ricerca progettata da tre dipartimento del Politecnico di Milano: Design, Ingegneria Meccanica e Informatica, Elettronica e Bioingegneria. Si tratta di una struttura che si propone come centro di riferimento, all’interno e all’esterno dell’Ateneo per le attività di ricerca, consulenza e didattica sperimentale (ricerche di dottorato e tesi di laurea multidisciplinari) sui temi collegati a making, digital fabrication, personal fabrication, micro e autoproduzione e urban manufacturing. Hanno lavorato a questo progetto: Massimo Bianchini, Stefano Maffei, Venanzio Arquilla, Luisa Collina, Silvia Piardi, Mauro Ceconello e Luca Cosmai del Dipartimento di Design, Monica Bordegoni del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Maristella Matera del Dipartimento di Ingegneria Elettronica, Informatia e Bioingegneria. Il progetto POLIfactory è stato approvato e quindi finanziato dal Rettore del Politecnico di Milano nel 2014.

#5 | CONCLUSIONI 292 6.3 GLOSSARIO

Di seguito un elenco dei principali termini utilizzati dalla ricerca. Alcune definizioni fanno riferimento a voci di enciclopedie scientifiche, altre sono riportate da pubblicazioni scientifiche, altre ancora sono state elaborate o rielaborate ex-novo.

− AUTOPRODUZIONE. Insieme di attività auto-organizzate che hanno lo scopo di materializzare nuovi prodotti-servizi attraverso un processo costituito da auto-orientamento (scelta strategica), auto-progettazione, auto-costruzione, auto-promozione, auto-comunicazione e auto-distribuzione del progetto/prodotto (Bianchini e Maffei, 2012 e 2013).

− AUGMENTED CRAFT. È un’attività di microproduzione in cui è chiaramente riconoscibile un processo di digitalizzazione delle pratiche analogiche artigianali. Questo processo può avvenire attraverso la simulazione digitale di tecniche o strumenti artigianali (grazie ad esempio allo sviluppo di interfacce aptiche) o l’ideazione di nuove tecniche o strumenti di progettazione e/o fabbricazione digitale che si integrano con quelli esistenti. L’esito di questo processo consente un controllo diretto e personale dei mezzi e delle tecniche di produzione (Bianchini e Maffei, 2013).

− BIO FABRICATION. E’ un processo che consente di progettare e materializzare un oggetto a partire dallo sfruttamento di fenomeni biologici e biochimici, dall’utilizzo di tecniche naturali e artificiali di coltura e allevamento di (micro)organismi viventi e dall’utilizzo di tecniche di fabbricazione anche digitali (bioprinting) che prevedono l’impiego di composti organici o biomateriali. (Mironov et al., 2009).

− CITY MAKING. E’ un insieme di attività produttive su piccola e piccolissima scala (miniserie e pezzi unici) diffuse in modo granulare all’interno dei contesti urbani. Questo sistema di produzione è fortemente legato ai processi di miniaturizzazione e digitalizzazione delle tecnologie di fabbricazione, alla facilità di accesso alle risorse progettuali, alla presenza di modelli di distribuzione che privilegiano la relazione diretta con gli utenti e le comunità- mercato. Queste attività riguardare il making, l’autoproduzione, settori tradizionali come tessile abbigliamento e accessori per la persona, mezzi di trasporto, legno arredo ma anche nuovi settori come la robotica (droni), biomedicale (protesi) la micro-architettura o la produzione di smart thing.

− COMUNITÀ-MERCATO. E’ gruppo o una rete sociale fisica e/o virtuale configurata come comunità di pratica, di azione o di interesse che è composta non solo da utenti-clienti- consumatori ma da utenti che si comportano come fan, amici, sostenitori, supporter e investitori interessati in vario modo a promuovere o partecipare anche gratuitamente allo sviluppo del prodotto e alla sua diffusione sul mercato (Bianchini e Maffei, 2012).

− DESIGNER=IMPRESA. Sono figure di progettisti-microproduttori che riassumono in una dimensione personale tutti i processi e le funzioni di un’impresa: dalla ricerca e sviluppo all’ideazione, dalla concept generation alla progettazione esecutiva, dalla prototipazione alla produzione, fino alla promozione e distribuzione dei prodotti. Sono forme di impresa della micro e autoproduzione temporanee o permanenti (Bianchini e Maffei, 2012).

DIGITAL FABRICATION. E’ un processo che consente di progettare e materializzare oggetti solidi e tridimensionali partendo da disegni e/o modelli digitali materializzati attraverso l’utilizzo di diverse tecniche di fabbricazione additiva e sottrattiva e l’impiego di macchine

#5 | CONCLUSIONI 293 esistenti acquistate, affittate, assemblate, modificate oppure ideate e autocostruite in proprio (Gershenfeld, 2012; Lipson, 2013).

− DO-IT-YOURSELF (DIY). Attività dedicata alla creazione, alla modifica o alla riparazione di oggetti senza l'ausilio di professionisti pagati e senza una motivazione legata a fini commerciali (Kuznetov e Paulos, 2012).

− FABBRICAZIONE AVANZATA. E’ un insieme di prodotti e processi di produzione che si basa sull’utilizzo di tecnologie innovative. L’obiettivo della fabbricazione avanzata è quello di migliorare i materiali, i prodotti e i processi esistenti (o crearne di completamente nuovi) attraverso l'uso integrato della scienza, dell'ingegneria, delle tecnologie dell'informazione e del design, di strumenti e metodi di alta precisione, di una forza lavoro ad alte prestazioni e infine modelli di business o organizzativi innovativi.

− INDIE INNOVATION (O INDEPENDENT INNOVATION). Si tratta di processi di innovazione di prodotto e processo ‘dall’idea al mercato’ realizzati da soggetti che non hanno legami con il mondo mainstream della produzione tradizionale, della ricerca e sviluppo e della distribuzione, della finanza e che operano al di fuori della loro sfera influenza. Gli innovatori indipendenti non si non si avvalgono dei servizi e degli strumenti disponibili nei tradizionali circuiti e processi dell’innovazione (Bianchini e Maffei, 2012).

− INTERACTIVE FABRICATION. E’ un processo che consente di progettare e materializzare in tempo reale oggetti solidi e tridimensionali attraverso tecniche di manipolazione diretta della materia abilitate da interfacce e dispositivi connessi a strumenti, utensili e macchine analogiche e digitali (Willis et al., 2011).

− MICROPRODUZIONE. Con esso si fa riferimento a un processo di produzione distribuita (o distribuibile) su piccolissima che ha come obiettivo la materializzazione e la successiva distribuzione di artefatti concepiti come pezzo unico o micro-serie attraverso l’impiego di un processo di fabbricazione avanzata di tipo analogico/digitale. La microproduzione intesa come processo ideativo-fabbricativo può avere le seguenti finalità: la replicazione o riproduzione di un prodotto; la personalizzazione di un prodotto, la riparazione creativa o hackeraggio di un prodotto, la rigenerazione o il re-manufacturing di un prodotto l’ideazione e fabbricazione di un nuovo sistema prodotto-servizio (Bianchini 2012).

− MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA. E’ un insieme di pratiche e processi produttivi finalizzati alla materializzazione di artefatti materiali (o parti di essi) in pezzi unici o serie limitate, ideati con uno scopo o un’intenzione progettuale, costruiti e assemblati a mano o fabbricati per mezzo di strumenti e macchine analogiche e digitali, in forma individuale o comunitaria, da una pluralità di soggetti (amatori, professionisti e imprese) all’interno di luoghi temporanei o permanenti di dimensioni ridotte (non necessariamente siti produttivi dedicati) e quindi distribuiti in modi e contesti non tipologizzati (Bianchini e Maffei, 2013).

− PERSONAL FABRICATION. E’ un’attività di fabbricazione che riguarda la produzione di artefatti, cose, strutture meccaniche incluse di sistemi di rilevamento, di logica, di attuazione e dispaly partendo da disegni digitali (Neil Gershenfeld, 2005). Questo processo strettamente collegato alla fabbricazione digitale o fabbing può sfruttare diverse tecniche di fabbricazione additive e/o sottrattive: dalla stampa 3D al taglio laser e la fresatura. Il fenomeno della Personal Fabrication è alimentato anche dalla nascita di community in cui i disegni digitali vengono condivisi e messi a disposizione gratuitamente dagli utenti. nonché da servizi che consentono di accedere ad alcune tecnologie di Digital Fabrication direttamente online o ancora da community che interscambiano esperienze nella creazione di prototipi o manufatti digitali (Wikipedia).

#5 | CONCLUSIONI 294 − PROCESSO DI MICROPRODUZIONE. Si tratta di un processo integrato e variabile di progettazione-produzione-distribuzione che garantisce la materializzazione di un prodotto- servizio senza necessariamente dover configurare stabilmente un’attività di produzione o senza possederne i mezzi di produzione. Uno degli aspetti qualificanti di questi processi è anche la capacità dei microproduttori di intervenire sulle tecnologie la fabbricazione per progettarle ex- novo o modificarle.

− PRODUZIONE DISTRIBUITA. Conosciuta anche come distributed manufacturing, networked manufacturing o local manufacturing, è una forma di produzione decentralizzata in cui una o più imprese possono operare con una rete di mezzi di produzione diffusa sul territorio coordinandola in modo analogico e/o digitale. Esempi di questa forma produzione sono lo storico modello della cottage industry ma anche la produzione manifatturiera che avviene in ambito domestico o nei luoghi come i Fab Lab.

− REDUCED INDUSTRY. È un’attività di microproduzione in cui è chiaramente riconoscibile un processo di umanizzazione dei sistemi di produzione industriali. Questo può avvenire attraverso la miniaturizzazione e/o la semplificazione tecnologica di complessi processi di produzione industriali. L’esito di questo processo consente di avere un controllo diretto e personale dei mezzi e dei processi di produzione. (Bianchini e Maffei, 2013).

− SISTEMA DI MICROPRODUZIONE. Il sistema della microproduzione secondo i due principali schemi di classificazione dei sistemi di produzione (Wortmann, 1983; Brandolese, Brugger, Garetti, Misul, 1985) si configura come una produzione di tipo Design to Order - Make to Order e si caratterizza per la capacità di gestione di produzioni unitarie o microserie, di muoversi sul mercato principalmente in base a singoli ordini o micro-commesse (tende a costruisce prodotti già venduti) e sfrutta tutto l’arco delle modalità di produzione: dai micro e nano impianti di processo (nel caso della biofabbricazione) ai quelli di produzione e assemblaggio.

#5 | CONCLUSIONI 295 #7 BIBLIOGRAFIA

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#7 | BIBLIOGRAFIA 317

#A

APPENDICI

#A | APPENDICI 319 A1.1 TABELLE E GRAFICI INDAGINE MAKERS’ INQUIRY

INDAGINE SOCIOECONOMICA SUI MAKERS, SUL MAKING SULLA MICRO E AUTOPRODUZIONE

MAKERS’ INQUIRY ITALIA (www.makersinquiry.org) è un progetto promosso e coordinato dal Dipartimento di Design del Politecnico di Milano con la Fondazione Make in Italy e l’Associazione Make in Italy. L’iniziativa è nata all’interno del cluster di ricerca DOP - Distributed & Open Production della rete DESIS - Design, Social Innovation and Sustainability (www.desis-network.org/) . MAKERS’ INQUIRY utilizza il termine ‘maker’ in forma inclusiva riferendosi a tre tipologie di soggetti: o individui che materializzano artefatti attraverso processi analogici/digitali; o progettisti che si occupano di autoproduzione; o gestori di makerspace o di strutture simili.

GRUPPO DI RICERCA

MASSIMO BIANCHINI, STEFANO MAFFEI, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano FRANCESCO BOMBARDI, FabLab Reggio Emilia, Ass. Make in Italy, Università Modena e R. Emilia. MASSIMO MENICHINELLI, Fondazione Make in Italy, Deparment of Media, Aalto University

STRUTTURA DELL’INDAGINE

Sei un … Maker Progettista Gestore di autoproduttore makerspace 1. Informazioni personali Età Si Si Si Genere Si Si Si Nazionalità Si Si Si Città Si Si Si Titolo di studio Si Si Si Indirizzo di studi Si Si Si Lingue conosciute Si Si Si Interessi personali Si Si Si Stato sociale Si Si Si Reddito annuale (per fasce) Si Si Si 2. Informazioni di base sull’attività di making D1. Il making è la tua attività principale? (Se la risposta è SI, vai a D4) Si Si Si D2. Qual è la tua attività principale? Si Si Si D3. In quale settore operi? Si Si Si D4. Che tipo di contratto hai? Si Si Si

320 #A | APPENDICI D5. Da quanto tempo ti occupi di making? Si Si Si D6. Con chi svolgi la tua attività di making? Si Si Si D7. Dove svolgi la tua attività di making? Si Si No D8. Quanto in % del tuo reddito annuale proviene dall’attività di Si Si No making? 3. Competenze tecniche e tecnologiche associate all’attività di making D9. Quali sono le tue competenze tecniche e tecnologiche? Si Si Si D10. Qual è il livello delle tue competenze tecniche e tecnologiche? Si Si Si D11. Come hai acquisito queste competenze? Si Si Si D13. Qual è il tuo livello di ‘confidenza’ con le tecnologie? Si Si Si D12. Cosa fai per aggiornare le tue competenze tecniche e Si Si Si tecnologiche? 4. Valori associati all’attività di making D14. Chi è per te un maker? Si Si Si D15. Quali sono le motivazioni che ti spingono a occuparti di Si Si Si making? D16. Quali tra le seguenti parole chiave associ al making? Si Si Si D17. Quanto sei d’accordo con le seguenti affermazioni? Si Si Si D18. Quanto sono importanti per te lo scambio, la condivisione e la Si Si Si collaborazione rispetto a… 5. Frequentazione di makerspace e partecipazione a comunità virtuali dedicate al making D19. Frequenti un laboratorio/spazio di fabbricazione? (Se No, D20) Si Si Si D20. Di quale laboratorio/spazio di fabbricazione si tratta? Si Si Si D21. Che attività svolgi all’interno di questo luogo? Si Si Si D22. Quante persone lo frequentano? Si Si Si D23. Partecipi a una o più comunità online dedicate al making? Si Si Si (Se No, aD26) D24. In quali delle seguenti comunità online sei coinvolto? Si Si Si D25. Che attività svolgi all’interno di queste comunità? Si Si Si D26. Quanti maker fanno parte della tua rete sociale virtuale? Si Si Si 6. Processi di progettazione, produzione e distribuzione D27. Qual è il tuo approccio alla progettazione? Si Si Si D28. Rispetto alla tua esperienza di produttore, in percentuale quanto Si Si Si della tua attività è collegata a… (fabbricazione analogica/digitale) D29. Rispetto alla tua esperienza di produttore, in percentuale quanto Si Si Si della tua attività è collegata a (autoproduzione/outsourcing) D30. Se non possiedi le tecnologie che utilizzi per la tua attività di Si Si Si making, come fai a usarle? D31. Come vendi i tuoi prodotti? Si Si Si 7. Progetti e/o prodotti realizzati D32. Che tipo di progetti o prodotti realizzi? Si Si Si D33. A quali categorie merceologiche appartengono? Si Si No D34. Nel caso di prodotti materiali quanti ne realizzi annualmente? Si Si No D35. Offri servizi collegati al prodotto? Si Si No D36. Il risultato della tua attività è un’innovazione? Se si, di che tipo? Si Si Si 8. Aspetti economici dell’attività di making D37. Generalmente come sostieni la tua attività di making? Si Si Si D38. A chi vendi i tuoi progetti o prodotti? Si Si Si D39. Quali sono le principali spese che devi affrontare per la tua Si Si Si attività D40. Quali tecnologie hai acquistato negli ultimi 2 anni? Si Si Si D41. Chi sono i tuoi principali fornitori? Si Si Si 9. Offerta di servizi per il making (solo per gestori di makerspace) D42. Quali fra i seguenti elementi costituiscono la tua offerta di No No Si servizi? D43. A quali soggetti offri questi servizi? No No Si D44. In che modo comunichi la tua offerta di servizi? No No Si D45. Che tipo di formazione/aggiornamento offri? No No Si D46. Per quali fasce d’età? No No Si D47. Dove svolgi queste attività? No No Si 10. Aspettative collegate all’attività di making D47. Sei soddisfatto della tua attività di making? Si Si Si D48. Come pensi sarà tra 2 anni la tua attività di making? Si Si Si D49. Cosa chiederesti alle istituzioni per facilitare la tua attività di Si Si Si making? Allegati 1 foto del luogo in cui svolgi la tua attività di making Si Si Si 1 foto del tuo progetto/prodotto più importante Si Si Si

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334 #A | APPENDICI La democratizzazione dei dispositivi di fabbricazione digitale, la crescente disponibilità di risorse progettuali a basso costo, la comparsa di piattaforme commerciali indipendenti e nuove forme sociali per il crowdfunding consentono a individui e gruppi di persone, senza essere progettisti o imprese, di sviluppare attività produttive autonome e informali su piccola e piccolissima scala. Dall’idea direttamente sul mercato. Tuttavia, queste nuove forme di produzione senza un intento progettuale e un adeguato supporto di competenze progettuali non sono di per sé (così) generative. Allo stesso modo tecnologie come il 3D printing, sebbene abbiano un grande potenziale, non sono ancora in grado di sostituire la produzione industriale o l’artigianato.

C’è quindi uno spazio d’azione per quei soggetti, tra cui i designer, capaci di ibridare competenze progettuali e fabbricative trasformandosi in progettisti-microproduttori. Designer capaci di operare non solo sugli artefatti ma anche sulla configurazione diretta delle risorse im- piegate per produrli: dai materiali agli strumenti e le macchine, fino ai (micro)luoghi di produzione. Designer che riassumono e controllano in una dimensione personale tutte le funzioni di un’impresa: ricerca e sviluppo, produzione e distribuzione. In una parola: DESIGNER=IMPRESA. I designer=impresa e altre figure emergenti di microproduttori come i makers sembrano anche essere i potenziali interpreti della rina- scita e rigenerazione delle comunità manifatturiere, soprattutto quelle urbane. Una molteplicità di forme di produzione avanzata che disegna- no un possibile sistema di MICROPRODUZIONE DISTRIBUITA.

I risultati della ricerca aprono una discussione sulle opportunità di sviluppo legate alla crescita di nuove figure professionali o nuove forme d’impresa caratterizzate dalla fusione tra individuo e organizzazione.

Politecnico di Milano, ottobre 2014