Leadership E Potere Mafioso: L’Élite Di Cosa Nostra* Di Attilio Scaglione

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Leadership E Potere Mafioso: L’Élite Di Cosa Nostra* Di Attilio Scaglione Leadership e potere mafioso: l’élite di Cosa nostra* di Attilio Scaglione 1. Le dimensioni del potere mafioso Tra le finalità dei mafiosi, come è noto, non vi è unicamente l’accumulazione del denaro attraverso l’uso della violenza o la minaccia del suo utilizzo, ma anche e soprattutto la gestione del potere all’interno del proprio territorio di competenza [Catanzaro 1988, 2010; Gambetta 1992; Santino 2006; Sciarrone 2006, 2009]. L’esercizio dell’autorit{ da parte delle famiglie mafiose non può essere osservato in maniera unidimensionale. Il potere dei mafiosi presenta molteplici sfaccettature che qui possiamo solo accennare. Una delle modalità più tipiche è costituita dalla riscossione del pizzo che costituisce probabilmente il segno più tangibile della «signoria territoriale» mafiosa e un fattore di legittimazione dell’iniziativa criminale. Non a caso, il racket delle estorsioni è stato spesso considerato alla stregua del pagamento di una tassa che ciascun individuo corrisponde volente o nolente allo Stato-mafia. Un altro elemento caratteristico dell’iniziativa politica di Cosa nostra è rappresentato dalla capacità di interrelazione dei singoli esponenti mafiosi con la politica. Nelle zone in cui operano, forti di un controllo pressoché assoluto del territorio, i mafiosi riescono ad intercettare una parte considerevole dei finanziamenti pubblici, instaurando scambi collusivi con esponenti delle istituzioni e della politica, in cambio della promessa di sostegno elettorale e/o di altri benefici. Il controllo di ingenti quantità di risorse economiche consente inoltre ai rappresentanti delle cosche di rivestire un’importante funzione di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. La distribuzione di posti e di risorse accresce e consolida il prestigio e il consenso sociale dei mafiosi tra gli strati meno abbienti della popolazione. Il meccanismo clientelare si traduce, a sua volta, nella possibilità di orientare il voto di una massa considerevole di individui, la cui preferenza sarà destinata a quei soggetti previamente indicati dagli esponenti del sodalizio criminale [Sciarrone 2011]. In tutti questi casi, tra le componenti più rilevanti del potere mafioso possiamo dunque includere le risorse relazionali possedute dai membri della consorteria. Adoperando un concetto sociologico, Sciarrone ha evidenziato come ciascun mafioso possieda una dotazione di capitale sociale che impiega per perseguire i propri obiettivi. Il reticolo relazionale di un mafioso è generalmente piuttosto complesso. Esso si compone sia di legami forti, che mettono in collegamento i mafiosi uniti dal vincolo associativo, sia di legami deboli che connettono gli stessi agli esponenti della cosiddetta zona grigia [ibidem]. Un tipo di legami particolari, che per certi aspetti potremmo definire “ibridi” rispetto alla dicotomia granovetteriana, perché non pienamente “forti” né completamente “deboli”, sono quelli che collegano i mafiosi di una cosca qualsiasi agli esponenti delle altre cosche di Cosa nostra. Questi legami risultano molto utili per il consolidamento del potere all’interno della propria famiglia di riferimento ma anche per l’accrescimento della leadership nel contesto organizzativo criminale più generale. In questo lavoro, concentreremo l’attenzione proprio sulle dinamiche che caratterizzano le relazioni tra le famiglie di Cosa nostra. L’organizzazione mafiosa siciliana, e in modo particolare quella palermitana, si presenta come un oggetto di ricerca privilegiato per la peculiarità della sua articolazione. L’intero sodalizio può essere, infatti, rappresentato come una federazione di singole cosche formalmente autonome, che operano in maniera esclusiva su un determinato territorio, generalmente un quartiere o un paese, stabilendovi quello che potremmo definire un vero e proprio monopolio della violenza illegittimo. Tali cosche, ed è questo l’elemento che distingue la mafia siciliana delle altre organizzazioni criminali italiane come la camorra e l’ndrangheta, sono tenute insieme da un vincolo di appartenenza che ne * Stesura preliminare e provvisoria. Si prega di citare solo con il consenso dell’autore. rilassa i rapporti attenuandone i potenziali conflitti, cui fa riscontro un medesimo meccanismo di solidarietà reciproca, che pur non entrando in azione in maniera automatica si rivela il più delle volte efficace per il superamento delle diverse criticità. Ricostruire, anche solo parzialmente, il sistema relazionale che connette queste famiglie potrebbe fornire, a nostro avviso, un valido contributo per lo studio del potere mafioso. Studiare il potere in Cosa nostra significa analizzare i meccanismi relazionali che conducono le famiglie alla sua conquista. Nel prosieguo di questo lavoro, approfondiremo l’analisi del potere come concetto relazionale, soffermandoci in particolare sui legami che si stabiliscono tra le famiglie mafiose palermitane. Un interessante spunto di riflessione è dato dalle risultanze dell’operazione antimafia “Perseo” del dicembre 2008. L’indagine ha infatti rivelato il tentativo da parte dei principali leader della provincia di Palermo di ricostituire la commissione provinciale di Cosa nostra. La vicenda è interessante perché da sempre la storia della commissione, detta anche cupola, come vedremo nel prossimo paragrafo, è collegata a quella della conquista del potere. Potendo contare su un materiale giudiziario ricco di informazioni ed elementi utili alla ricostruzione dei legami e dei rapporti che collegano i mafiosi, quale quello che scaturisce dall’operazione “Perseo”, si rende dunque possibile tracciare il network relazionale complessivo delle organizzazioni mafiose della provincia di Palermo. A tal fine, nel terzo paragrafo, saranno impiegate le tecniche di analisi delle reti. Lo studio delle dinamiche relazionali messe in atto dai mafiosi per la conquista del potere si concentrer{ sia sull’osservazione dell’intero reticolo, sia sulle singole figure dei leader delle famiglie palermitane. 2. La commissione di Cosa nostra In questo lavoro, come detto, concentriamo l’attenzione sulla capacità di networking delle cosche mafiose. L’idea alla base della nostra riflessione è che le risorse relazionali dei mafiosi costituiscano un elemento fondamentale per l’acquisizione del potere e la legittimazione dello stesso agli occhi dei gruppi rivali. Dire che i legami tra le cosche costituiscono una componente della leadership mafiosa significa innanzitutto ripercorrere la storia dei rapporti tra le famiglie partendo dalle vicende che hanno portato alla costituzione dell’organo collegiale di Cosa nostra: la commissione provinciale di Palermo. Se infatti il potere è un concetto relazionale, la sua conquista passa attraverso delle vere e proprie strategie relazionali (alleanze ma anche conflitti) tra le famiglie mafiose e questa considerazione ci ricorda come tali rapporti siano stati spesso regolati attraverso l’organismo della commissione. La cupola viene istituita per la prima volta sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, nel febbraio del 1958, dopo una serie di incontri tra boss della mafia americana e siciliana tenuti all’Hotel delle Palme di Palermo. L’istituzione di un simile organismo, composto dai rappresentanti dei mandamenti, risponde all’esigenza di regolare i rapporti tra le famiglie e di porre fine ai conflitti endemici che periodicamente mettono a rischio la sopravvivenza di Cosa nostra. Il rappresentante della commissione, per enfatizzarne la natura collegiale, e la qualità di primus inter pares, assume inizialmente la qualifica di “segretario”. L’esperienza della commissione è brevissima. L’organismo viene sciolto nel 1963 in seguito alla prima guerra di mafia, che ne sancisce il fallimento per l’incapacità di assolvere alla sua funzione nel momento in cui entrano in gioco interessi grandi come quelli sottesi al traffico di stupefacenti che contrappongono la famiglia La Barbera a quella dei Greco. La cupola viene ricostituita su basi nuove che ne modificano parzialmente la struttura all’incirca dieci anni più tardi, nel 1973. Al vertice si colloca un triumvirato, composto da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade e Luciano Liggio, che riproduce i rapporti di potere allora esistenti. La nuova cupola svuotata delle sue funzioni residuali di coordinamento finisce così per conformarsi ai criteri di gestione della triade mafiosa. All’inizio degli anni Ottanta, durante la seconda guerra di mafia, nella quale viene assassinato Stefano Bontate e il rappresentante della cupola sulla carta è Michele Greco, il processo di trasformazione della Commissione giunge a compimento. Il potere ormai incontrastato dei corleonesi ne stravolge la natura collegiale e apparentemente “democratica”. La Cupola viene trasformata in organo esecutivo e centro di direzione strategica, e al suo vertice si pone Salvatore Riina che diviene di fatto il capo indiscusso dell’intera organizzazione. Con l’arresto di Riina, avvenuto nel 1993, la commissione, ormai decapitata, cessa di funzionare, pur sopravvivendo nella struttura ordinamentale dell’organizzazione siciliana, le cui regole, almeno nella forma, non hanno perso vigore. In assenza di Riina, il ruolo di vertice dell’associazione mafiosa è assunto da Bernardo Provenzano, il quale tuttavia, non avendo mai goduto di un’investitura formale da parte dei capi mandamento, nei tredici anni che lo separarono dalla sua cattura (2006), adotta uno stile di gestione prudente che si addice più alla figura del consulente che a quella del capo. In realt{, l’anziano boss corleonese, in un momento di crisi
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