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RECENSIONE #18 – LA RIFONDAZIONE DELL’HARDCORE CALIFONIANO PT.2: – I DON’T WANNA GROW UP

Nella recensione di Suffer dei avevo tratteggiato una sommaria cronologia dell’hardcore americano nelle sue macro-varianti regionali, dando conto delle scene locali della west ed east coast. In questa seconda recensione dedicata a I Don’t Want to Grow Up dei Descendents riprendo il filo delle vicende della zona di , seppure affrontando una variante stilistica, sonora e lirica differente. La band di Lomita, una città di ventimila abitanti nella di LA, nasce nel cuore del movimento, all’apice della sua urgenza produttiva e della sua violenza espressiva. È infatti il 1978 quando Frank Navetta e Dave Nolte gettano le basi per quello che di lì a poco sarebbero diventati i Descendents. Come ho accennato, in California il fuoco appicato dalla prima ondata punk, da un lato di importazione inglese e dall’altro autoctona, sta rapidamente riprendendo vita con violenza e determinazione maggiori. Gli ultimi scampoli degli anni settanta testimoniano una rapida germinazione di gruppi che, partendo dalle istanze musicali e (in parte) ideologiche del punk, MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS estremizzano le esperienze sonore di Sex Pistols, Damned e Clash ma anche di Ramones e Stooges. La musica proposta da Black Flag, Germs, Weirdos e molti altri rapidamente cambia i connotati al paradigma del punk primigenio, da un lato recuperandone l’essenzialità e la violenza, dall’altro mettendosi apertamente in contrasto con le derive new-wave verso cui il punk sta tendendo. San Francisco, rispetto a Los Angeles, aveva un sostrato sottoculturale punk piuttosto radicato e solido, tanto che gruppi di rilievo come Crime e Nuns erano attivi fin dalla metà degli anni ‘70 ed avevano in qualche modo preparato il terreno per l’esplosione dei Dead Kennedys e, a stretto raggio, dei Flippers. La situazione di Los Angeles era invece più complessa, polarizzata in due aree distinte, quella della South Bay e quella di Orange County. Quest’ultima, a parte il rilevante contributo dei Middle Class, aveva un bacino di utenza piuttosto risicato, nonché si concentrava attorno ad un unico importante ritrovo, il Cuckoo’s Nest di Costa Mesa. Da questa frangia nascono gli Agent Orange, i Social Distortion e gli Adolescents, a tutti gli effetti lo zoccolo duro di questa variante regionale a cui si affiancano gli T.S.O.L e i . La scena della South Bay nasce invece sull’onda lunga dei Black Flag e vede all’inizio una sostanziale uniformità stilistica con i Red Cross e i Circle Jerks (entrambi i gruppi sono stati successivamente protagonisti di una significativa svolta sonora: i primi verso il pop-punk, i secondi verso l’hardcore-thrash). I Descendents nascono all’ombra di questo panorama sonoro ed estetico, a stretto contatto con i Minutemen –altra band di spicco della scena-, ma fin dagli esordi tendono a preferire un approccio meno eversivo ed estroverso, tentando una via nuova all’hardcore, sia sul piano musicale che su quello poetico/tematico. All’abbandono di Nolte, Navetta (chitarra e voce) integra in formazione il bassista e il batterista Bill Stevenson e pubblica il primo capitolo della discografia dei Descendents, il singolo Ride the Wild/It’s a Hectic World. Seppure decisamente poco significativo rispetto allo stile che il gruppo avrebbe di lì a poco abbracciato è palese come la scrittura tenda a integrare nel sound massicce dosi di melodia e un’immagine meno truce ed aggressiva rispetto agli altri attori della scena hardcore, con una forte componente ironica e persino comica. La svolta avviene con l’ingresso nella band del cantante Milo Aukermann, reclutato da Stevenson; il sound cambia profondamente nel primo Ep con la nuova line- up, intitolato “Fat” Ep, grazie alla combinazione di brutali sparate ultra-speed e più articolate canzoni che abbozzano un rudimentale hardcore-melodico. Nonostante questa diversità rispetto alle altre realtà della South Bay i Descendents sono perfettamente inseriti in questo nucleo di gruppi, estremamente coeso; ricorda Auckerman che: «i Black Flag sono stati la prima band di quartiere, per così dire, poi i Minutemen sono nati più omeno quando si è formata la prima line-up dei Descendents. La cosa bella di quelle band è che ovunque suonassimo eravamo tutti insieme in cartellone, eravamo una specie di grande famiglia, solidarizzavamo.». “Fat” Ep è il prodromo al primo full-lenght della compagine, intitolato , considerato uno dei più importanti capitoli dell’hardcore californiano e primo tentativo organico di fusione tra la devastante aggressività velocistica dei Black Flag con melodie vocali e chitarristiche. L’ crea l’immaginario che contraddistinguerà l’intera carriera del gruppo, dalla mascotte Milo - una rappresentazione fumettistica e parodistica del cantante Milo Auckerman- all’approccio esistenziale e intimo delle liriche, che affrontano argomenti della quotidianità come i rapporti familiari, i fallimenti personali e maldestri approcci sentimentali. Come per i Bad Religion la carriera della band subisce uno stop perché Auckerman è impegnato all’università, dove otterrà un dottorato in biochimica; in questo frangente di tre anni Stevenson si unisce ai Black Flag con i quali registra My MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

War e Family Man, editi entrambi nel 1984. Quando tutto sembrava finito per i Descendents i musicisti tornano al lavoro ed entrano in studio nel 1985. La genesi di I Don’t Wanna Grow Up è piuttosto complessa, non solo sul piano compositivo ma anche logistico e di registrazione. Con Stevenson ancora in tour con i Black Flag le prove dei nuovi brani avvengono con mezzi di fortuna, in condizioni non ottimali, ricorda Milo in un’intervista a Vice: «Bill era in tour con i Black Flag e finimmo a provare nel garage di Tony [Lombardo, bassista]. Bill doveva usare una batteria da bambini e suonavamo tutti a volume estremamente basso perché eravamo nel garage di Tony. Così quando andammo in studio eravamo impreparati e penso che la componente giocattolosa abbia influito sul risultato finale, perché suona molto più leggero rispetto al primo album.». Il suono del disco è effettivamente meno potente e duro rispetto al debutto, anche perché il produttore David Tarling, legato ai Black Flag aveva problemi di alcolismo e non riusciva a sostenere il lavoro durante le registrazioni, lasciando spesso il mixer nelle mani di Stevenson, alle prime esperienze nel ruolo di produttore. Nel frattempo la scena hardcore americana, dopo i fasti creativi dei primissimi anni della decade, sta vivendo un momento di riflusso con numerose contaminazioni (in particolare con il pop e il thrash metal) e il secondo lavoro dei Descendents si inserisce in un contesto non facile per il genere. Dopo un periodo di sostanziale inattività, interrotto da sporadiche apparizioni live, il quartetto si ritrova dunque in studio con problemi di instabilità di formazione, tanto che Navetta registra solo tre tracce e poi abbandona, lasciando il posto al nuovo chitarrista Ray Cooper (in realtà già presenza in sede live nelle apparizioni a singhiozzo degli anni precedenti). Seppur non avvicinandosi alla perfetta alchimia tra potenza hardcore e affabilità melodica del debutto il secondo lavoro dei Descendents si rivela fondamentale per lo svecchiamento del genere, esasperando diversi stilemi di Milo Goes to College e avviando il genere verso i successi, anche commerciali, degli anni ‘90. Anche sul versante dell’immagine la band prosegue nella costruzione di un impatto visivo fumettistico e autoironico, con il fumetto di un baby-Milo col pannolone che campeggia in copertina. Fin dall’apertura di Descendents si capisce come il gruppo abbia perfezionato una formula più moderata di hardcore, decisamente meno improntata alla velocità ed all’assalto sonoro, capace di integrare in un sostrato chitarristico distorto ed aggressivo elementi melodici e sintattici mutuati dal surf-rock settantiano. Il brano, come la quasi totalità delle canzoni di I Don’t Want to Grow Up, è un mid tempo piuttosto quadrato, il cui flusso è spezzato da frequenti stacchi batteristici a cui si accompagnano micro-sezioni chitarristiche più frammentate rispetto alla continuità di accordi ribattuti che costituiscono l’ossatura del brano. La sequenza armonica di ribattuti in ottavi La/Sol/Re viene dunque screziata da un breve inciso in funzione propulsiva, in cui al riff stoppato della chitarra corrisponde la sincope della batteria (una sorta di versione modificata del d-beat).

Descendents – riff 2 chitarra e batteria MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

È evidente come il gruppo tenda a staccarsi dall’intelaiatura motivica tipica dell’hardcore più “riffato” e metallizato, andando a recuperare una prassi più tradizionale, guardando senza paura ad un approccio che incrocia il punk-rock classico (seppur ripulito e rimodulato) e persino elementi melodico/armonici classic-rock. I primi due brani della scaletta costituiscono un compatto nucleo macro-formale del disco, concepiti come un unico segmento musicale bipartito, omogenei sul piano ritmico e melodico. Anche dal punto di vista dei testi si riscontra una sostanziale uniformità, le due tracce d’apertura sono infatti una dichiarazione d’intenti, la ripresa di un discorso interrotto per tre anni dopo il debutto del 1982. Descendents è una lettera aperta in cui la band (e in particolare Lombardo e Cooper, al suo unico contributo autorale nel disco) si ripresenta sulla scena dopo le vicessitudini degli anni passati; come afferma Lombardo nel documentario The Story of Descendents/ALL: «Descendents fu scritta da me e Ray sul fatto che Bill aveva lasciato la band» e diventa anche una chiamata a raccolta per i fan della prima ora.

Descendents – strofa 1

Just because we've gone away Solo perché ce ne siamo andati, here's a message from me and Ray c’è un messaggio da me e Ray we're not gonna let the music die non lasciamo che la musica muoia: join us if you've got the energy Unisciti a noi se ne hai la forza

La rivendicazione identitaria del primo pezzo prosegue, in maniera più personale nella title-track, toccando uno dei temi più cari alla band, quello della giovinezza e dell’innocenza, della purezza idealista della scena. A differenza di molte altre realtà coeve i Descendents non fanno però proclami iper-aggressivi e violenti, ma rivendicano -forse con maggiore consapevolezza e sicuramente con più ironia di molti colleghi- il diritto a “non crescere”, a rimanere giovani ed ingenui. Lombardo, in un intervista del 2013, afferma che: «Volevo scrivere una canzone come I Don’t Want to Grow Up perché volevo dire: “non voglio crescere perché non voglio essere come certi adulti che influenzano negativamente il mondo. Non voglio semplicemente essere un ragazzo e vivere da ragazzo, non voglio crescere perchè non voglio diventare come te.”». Il lessico è volutamente elementare e secco, ripetitivo e assemblato con brevi slogan, combinando la sintesi estrema delle lirche hardcore-punk con la laconicità del linguaggio dei bambini.

I Don’t Want to Grow Up – Ritornello e strofa 1

I don’t wanto to grow up Io non voglio crescere I don’t wanto to grow up Io non voglio crescere If growing up means being like you Se crescere singifica diventare come te then I don’t want to be like you allora io non voglio essere come te Recycled trash Sei spazzatura riciclata It’s deja vu un deja vu MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

Il sarcasmo puerile di questa canzone si esprime anche sul piano metrico e melodico, ci sono diversi cambi da 4/4 a 5/4 che sortiscono un effetto spezzettato e zoppicante mentre la melodia vocale del ritornello suona come uno sfottò infantile e parodistico. Da questi primi brani emerge in maniera chiara una componente del tutto particolare della scrittura dei Descendents, che rinuncia sia all’aspetto minaccioso e virilmente aggressivo dei Black Flag che al complesso arsenale critico e politico dei Bad Religion. È un filone lirico e musicale, improntato sovente all’ironia, al sarcasmo, all’autocritica e al divertimento che influenzerà moltissimo il pop-punk degli anni ‘90, smitizzando l’aura seriosa e perennemente rissosa dell’hardcore delle origini. Questa linea tematica si declina in maniera diversa anche nella terza traccia, Pervert, in cui Auckerman racconta la propria ossessione per il sesso attraverso un testo esageratamente volgare e provocatorio, ma pervaso da un senso di colpa innato, anche in questo caso filtrato attraverso una lente adolescenziale e scanzonata. Nel documentario The Story of Descendents/ALL è lo stesso cantante, in una intervista di metà anni ‘80, a spiegare il senso della canzone: «Alle volte voglio fare sesso così tanto che penso di essere un pervertito, ecco perché ho scritto la canzone. Nonostante pensi che il sesso sia la cosa più salutare del mondo, quella più naturale, qualche volta per qualche strana ragione la mia psiche mi dice che probabilmente sono un pervertito a volerlo così tanto.». Il brano, di per sé un divertente sfogo e un campionario di “fuck” e “cunt”, è un’altra faccia dell’approccio innovativo dei californiani, capaci di parlare con ironia e autoconsapevolezza di un tema solitamente inibito al mondo hardcore. Steven Blush nel suo libro “American punk hardcore” dedica un intero capitolo alla questione sessuale nel mondo hardcore americano affermando che: «L’hardcore è stata la prima corrente del rock priva di una vera componente sessuale […], il più folto gruppo degli adepti erano degli assessuati incalliti. Di certo i concerti non finivano in un orgia come i love-in psichedelici [...]». Se da un lato il gruppo si diverte a scrivere brani scanzonati e provocatori, dall’altro si cimenta in piccoli quadretti personali, introspettivi, quasi intimi, che aprono anche in questo caso nuovi scenari poetici nel duro universo hardcore. Dopo l’euforia goliardica e irriverente dei primi pezzi, il primo lato del lavoro continua con Can’t go Back e My World, scritte rispettivamente da Stevenson e Auckerman; qui l’ascoltatore viene condotto nel versante più riflessivo della scrittura dei Descendents, all’ombra della festosa esplosione vitalistica d’apertura. Nel pezzo firmato da Auckerman viene tratteggiata la figura dell’outsider, dell’adolescente sempre ai margini, sia nel contesto scolastico che in quello sociale del divertimento. Da questi versi la figura del musicista punk esce totalmente ridisegnata rispetto a quella del muscoloso e rissoso ragazzo ribelle e sovversivo; il protagonista è un “secchione”, studioso e solitario, mai a proprio agio e deriso persino dalla propria ragazza “I tried to show her my song/She laughed and said the chords are all wrong” (Ho provato a farle sentire la mia canzone/Lei ha riso e ha detto che gli accordi erano tutti sbagliati). Incompreso e introverso si ripara nel suo personale mondo mentale, in cui nessuno può entrare.

My World – Strofa 1 e ritornello

Ah! Stop knock-knock-knockin'! Ah! Smettila di bussare! Stop knock-knock-knockin'! Smettila di bussare! Stop knockin', stop it! Basta bussare, smettila! MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

I went to the No Nukes rally Sono stato alla manifestazione No Nukes The Don Quixotes made me feel silly I Don Chisciotte mi hanno fatto sentire stupido. Went to the show Sono andato al concerto punk-rock, Nobody that I know did go nessuno che conosco ci è andato Went to my university Sono andato alla mia università, Boys and girls dress up and look pretty i ragazzi e le ragazze vestiti bene e di bell’aspetto Went to the party last night Sono stato alla festa ieri notte I was there, but it was really out of sight. ero lì, ma nessuno mi ha visto. My world is my mind Il mio mondo è la mia mente I'm locking myself inside sto chiudendo me stesso lì dentro People they can't get in La gente non ci può entrare I have no use for them non ho alcuna utilità per loro.

Nonostante questo scenario di sofferenza ed emarginazione, per Auckerman la musica rappresenta un riscatto, una valvola di sfogo e un veicolo espressivo, così come lo studio. Un mondo dove non si può entrare, in cui non c’è nient’altro che se stessi e la propria coscienza: “I went inside my closet/Took my and strummed upon it […] Went to my desk to study/ There's no world no love nobody but me “ (Ho aperto l’armadio/Ho preso la chitarra e ci ho strimpellato sopra […] Sono andato al mio tavolo per studiare/Non c’è mondo, né amore, nessuno a parte me.). Questo linguaggio semplice ma intenso, filtrato attraverso un universo emotivo adolescenziale, è uno dei paradigmi di molto pop-punk degli anni a venire, qui espresso con grandissima forza e combinato con una musica decisamente più aggressiva e meno plastificata di quella che le band di ragazzini produrrano, col supporto delle major, dagli anni ‘90 in poi. È un altro, fondamentale, giro di vite nella ricostruzione di un identità punk-hardcore, svuotata dai manierismi e dalle sovrastrutture ormai abusate, dalle aggressioni verbali svuotate dell’urgenza dei primi anni ‘80. Nel secondo lato di I Don’t Want to Grow Up il potenziale melodico del gruppo deflagra in tutta la sua varietà, dando vita ad una sequenza di brani agili, dotati di brevi e memorizzabili segmenti melodici. Da Silly Girl ad Ace, passando per Christmas Vacation e Good Good Things, i Descendents dimostrano di saper scrivere pezzi dall’enorme potenziale radiofonico, seppur supportati da un apparato sonoro che non rinuncia alle chitarre distorte e al consueto andamento mid-tempo hardcore. Ognuno di questi capitoli ridefinisce il concetto di melodia applicata al punk, declinando la combinazione tra melodie chitarristiche e vocali; si pensi ad esempio al muting di Christmas Vacation su cui Auckerman canta una delle melodie più elaborate dell’intero disco, o alle atmosfere rock di Ace in cui la velocità si abbassa ancora, lasciando spazio agli intrecci vocali e agli arpeggiati della chitarra. È interessante notare come la mutazione in chiave rock dell’hardcore tenda in molti casi a mantenere alcune caratteristiche cardine del genere, mutandole ed isolandole, per poi reinserirle in un contesto sonoro diverso. In In Love this Way ad esempio il d-beat batteristico viene rallentato e sgonfiato, accostato ad un impianto chitarristico decisamente meno pieno ed aggressivo: è un tentativo di mantenere la componente propulsiva del beat sincopato seppur privandolo della sua componente più fisica e speed. L’effetto è molto efficace e ruffiano, e costituisce un ulteriore elemento di innovazione nell’approccio hardcore melodico della band, ancora una volta punto di riferimento, in largo anticipo, per l’intera ondata pop-punk della decade successiva. Nei pezzi presenti sulla seconda facciata, effettivamente sbilanciati sul versante melodico, il gruppo si spinge dunque oltre i consueti confini MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS dell’hardcore, e lo fa fino in fondo, con brani leggeri e sentimentali: si vedano ad esempio le dichiarazioni d’amore di In Love this Way e di Silly Girl, completamente svuotate di ogni dogmatismo punk anti-sistema. Un ulteriore ma determinante ingrediente nella ricetta dei Descendents per la ridefinizione dell’hardcore è rappresentato dai brani veloci, in up tempo, meno evoluti sul piano melodico ma ugualmente anthemici e memorizzabili. Questa tipologia di canzoni si concentra nella prima parte del disco e mantiene, seppure in maniera minore rispetto a Milo Goes to College, un legame con la scena della South Bay. Rockstar e No FB, incastonati all’interno di una corona di pezzi più quieti, ironici e melodici contibuiscono alla creazione di quel tipico andamento ad onde che diventerà una costante non solo della produzione del gruppo di Stevenson e compagni, ma dell’interno panorama melodico dell’hardcore. I due brani speed di I Don’t Want to Grow Up sono anche quelli che presentano le caratteristiche più estreme sul versante formale, assumendo l’aspetto aforistico dell’hardcore più intransigente, fatto di pochissime idee motiviche reiterate e brevissimi incisi cantati. A completare lo spettro tematico del disco c’è persino una dichiarazione di vicinanza all’etica dello straight-edge, espressa nel brano GCF (acronimo per “Good Clean Fun”), seppure, come spesso avviene nell’universo lirico dei Descendents, in maniera meno assoluta e netta rispetto agli integralisti del movimento (Minor Threat). In conlusione I Don’t Want to Grow Up è un disco importantissimo, che si muove su più livelli, un disco che, al di là dei brani che contiene e del sound che propone, forse eccessivamente orientati sul versante melodico rispetto al primo Lp, si spinge oltre le logore barriere espressive della prima ondata hardcore. In questo lavoro la ridefinizione del sound della South Bay avviene con coraggio, apre a nuove possibilità di scrittura, ingloba elementi melodici estranei e esplora una via indedita, che conduce a nuovi scenari sonori e tematici. Rispetto ad un altro approccio melodico alla materia hardcore, quello proposto ad esempio dai Bad Religion, qui si si tenta un radicale stravolgimento della grammatica di base del genere, intaccando elementi paradigmatici come la velocità dei pezzi e la seriosità degli argomenti trattati. Sicuramente il radicale ripensamento di questi assiomi stilistici non sempre produce un sound del tutto compiuto, perdendo terreno in termini di impatto e freschezza di scrittura, ma prepara il terreno per i dischi successivi, più armonizzati con le istanze più cinetiche di Milo Goes to College. Assieme a Suffer è proprio in I Don’t Want to Grow Up che l’esplosione commerciale del punk negli anni ‘90 poggia le sue radici, è da questi esperimenti che germoglieranno le carriere di Offspring, , Pennywise e NOFX. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

NOTE

[1] Cfr. "Recensione #11: La rifondazione dell'hardcore californiano: Bad Religion - Suffer. [2] Cfr. CHICK Stevie, Spray Paint the Walls: The Story of Black Flag, PM, 2011, p. 81. [3] Cfr. OGG Alex, SMITH Winston, RAY Ruby, Dead Kennedys: Fresh Fruit for Rotting Vegetables: The Early Years, PM, 2014, p. 45. [4] Cfr. MacLEHOD Dewar, Kids of the Black Hole: Punk Rock Postsuburban California, University of Oklahoma, 2012, p. 3. [5] Cfr. EPTING Chris, Rock 'n' Roll in Orange County: Music, Madness and Memories, Arcadia, 2014, p. 102 sg. [6] Cfr. EARLES Andrew, Gimme Indie Rock: 500 Essential American Underground Rock 1981- 1996, Voyageur, 2014, p. 79. [7] BLUSH Steven, American Punk Hardcore. Una storia tribale, Shake, 2007, p. 102. [8] Cfr. COGAN Brian, Encyclopedia of Punk Music and Culture, Greenwood, 2006, P. 22. [9] Cfr. www.vice.com; 28/07/2016. [10] Cfr. markprindle.com [11] Cfr. COGAN Brian, Op. cit., p. 55. [12] Cfr. : The Story of Descendents/All, 2013. [13] Cfr. RITCHIE Ryan, Why Former Descendents' Bass Player Isn't Rushing Out to See the Band's New Documentary, in OCWeekly, 23 Agosto 2013. [14] Cfr. Filmage: The Story of Descendents/All, 2013. [15] BLUSH Steven, Op. Cit., p.45. [16] HAENFLER Ross, Straight Edge: Clean-living Youth, , and Social Change, Rutgers University, 2006, p. 225