Giani Stuparich – Scipio Slataper (1922)

Giani Stuparich – Scipio Slataper (1922)

QUADERNI DELLA VOCE ^ . -^ RACCOLTI DA GIUSEPPE PREZZOLIMI D GIANI STUPARICH l SCIPIO SLATAPER PUBBLICAZIONE DELLA SOC. AN. ED. " LA VOCE „ 1922 QUADERNO 56, SERIE QUARTA-FIRENZE PQ PROPRIETÀ RISERVATA DI QUESTO LIBRO SONO STATE STAMPATE 2$ COPIE NUMERATE SU CARTA A MANO CHE'si VENDONO A LIRE jHifi^ CIASCUNA yflNTi Elodì moglie mia, ho pensato quésto lavoro avendoti sempre presente e vicina, e siccome tu vi ritrovi tanta parte del tuo passato, esso è cosi tuo come mio e perciò io lo dedico a te con amore. "LA VOCE,, Trieste senza tradizioni di coltura — Primi tentativi — Due generazioni — Scipio Slataper scolaro — Le prime novelle — Il movimento vociano — Dai < Caratteri » alle < Delizie indigene » — Crisi vociane — « Impressioni in margine ». Scipio Slataper nacque a Trieste nel 1888. Egli non è triestino soltanto di nascita, ma di ca- rattere e di coscienza. Non è un triestino fratello sen- timentale, irredento redento, ma è il triestino reden- tore che ha dato a Trieste una realtà significativa e air Italia ha scoperto una sua regione ignorata nel fondo e in quel fondo ricca di vita e di nuovi valori. Perchè egli fu una fresca coscienza d'italiano cre- sciuta da una torbida miscela di razze. ELd ebbe la forza di sradicarsi dal margine in cui si esauriva l'am- biente nativo; e senza rinnegare questo, anzi accettan- dolo in se con piena coscienza, seppe vivere e farlo vivere nella corrente della storia. Forza tanto più ammirevole, che dovette foggiarsi da sola gli istrumenti per domare la ribelle e contra- stante materia, Trieste non aveva mezzi ne tradizione di coltura. Trieste era stata una città cosmopolita, s'era fatta italiana per combattere più efficacemente, negli inte- ressi per lei vitali del commercio, la rivale di fronte, Venezia, città italiana. Per i medesimi motivi nel tem- po stesso si concedeva materialmente a un signore stra- niero. Questa contradizione da prima non fu sentita, ma a poco a poco venne formando quel contrasto di vita 8 — così caratteristico della recente storia triestina. Contra- sto che andò radicandosi sempre più, sino a sbocciare in dramma intimo in qualche coscienza individuale. Fu questo sentirsi uniti d'aspirazioni con la madre patria ed essere staccati anzi opposti nella concorrenza per le necessità di ogni ora, il fatto che impedì la for- mazione di quella base stabile da cui solo può sorgere una vita di coltura. Prima dell'unificazione d'Italia, la vita di Trieste si squilibrò tra lo sforzo d'ingrandirsi a emporio commer- ciale, con tutto il preoccupante assorbimento delle co- scienze da parte dei piccoli valori pratici, e l'opposta quiete di alcuni ricercatori di valori astratti. Dopo, es- sendosi acuito quel contrasto, si esaurì tra l'ingranaggio degli interessi e la fiaccante tensione d'una politica quasi morbosa. Per farsi un'idea dell'azione avvelenatrice di que- st'ultima, bisogna considerare in genere come sono vis- sute le popolazioni dell'Austria-Ungheria. Chi s'è im- merso per qualche tempo nell'atmosfera compressa in cui esse respiravano, più facilmente può comprendere e la loro psicologia e l'aspetto tutto speciale delle loro colture. Nell'intricarsi d'una duplice fronte di battaglia da nazione a nazione e da nazione a governo centrale, si viveva sotto l'incubo d'una minaccia continua, tanto più grave quanto era più oscura e imprecisa. E non basta; questa doppia minaccia, di fianco (e il più delle volte addirittura incuneata, come era il caso degli slavi nella Venezia Giulia), e da lontano, cioè da Vienna che disponeva secondo fini strategici, ((superiori», delle sin- gole porzioni nazionali, veniva complicata, talvolta sino ali esasperazione, da varie abitudini sentimentali nate e concresciute nella lotta giornaliera acuta e senza tregue. Nascere in questi paesi voleva dire nascere con una eredità malferma, da puntellare momento per momento. Camminare voleva dire urtare. Non c'era un posto, uno solo, dove riposare in contemplazione. Se t'assidevi sulla sponda d'un ruscello, per confonderti col suo cal- mo fluire, dall'altra sponda ti giungeva subitamente un grido a cui dovevi opporti. Se cercavi in alto la serenità del cielo che si spiega sulle schiene luminose delle mon- tagne, trovavi sulla stessa cima già assiso chi al tuo appressarsi avrebbe puntato i piedi per difendersi e il bastone levato per ferire. E così da bambino ti insegnavano a parlare la tua lingua come si maneggia un pugnale, da giovane a comprimere tutta la tua energia verso uno scopo solo e a sbattere il tuo entusiasmo contro una barriera cieca, stregata, che risorgeva come la abbattevi. Uomo, sen- tivi il dovere, ormai conficcato come un pungolo dentro la carne, di stare in guardia per il bene tuo e dei tuoi figliuoli e per la memoria di tuo padre. Un'estenuante e eterna vigilia, senza il cambio e senza la soddisfa- zione di poter dare una volta il segnale d'allarme per una battaglia campale. Tutto un esercito di uomini ri- versati alla periferia, per difendere il posto centrale lasciato vuoto, dove avrebbero dovuto vivere costruen- do; ma non potevano. Questa continua tensione di militanti era naturale che impedisse il formarsi e il disporsi organicamente di una base di coltura, per la quale è necessaria una — IO — certa calma in cui si depongano gli strati e si concretino le forme. Nasca cioè la tradizione. Ora, tradizione in questo senso non esisteva nei paesi dell'Austria. Esisteva bensì una tradizione sentimentale, in quanto un sentimento di coesione e di lotta perdu- rava attraverso le generazioni, ma anche questa come è natura dei sentimenti, saltuaria e nebbiosa. Quindi non vera tradizione di coltura, che è soprattutto tra- dizione di giudizi. La parola, il giornale, il libro, la scuola che, usati con libertà d'intendimento e di critica, sono efficaci mezzi di coltura, erano invece mezzi di propaganda. La propaganda al posto della coltura. Mettete la propaganda, intenzionale subdola pove- ramente superficiale e, a rigor di termini, disgregatrice al posto della coltura, libera franca profondamente ric- ca e organicamente critica, e avrete trovato la chiave per capire la miseria delle storie intellettuali delle va- rie nazioni del vecchio impero danubiano. Nessuna si salva. Nessuna è riuscita a innalzare nep- pure un vertice in quell'atmosfera in cui guardano le altezze dei due valori universali, arte e filosofia. La stes- sa nazione czeca, la più compatta e sviluppata, non ha dato che mediocri artisti e più mediocri filosofi. Ma il fenomeno più caratteristico lo presentano i due brani di nazioni, tedesca e italiana, che vivendo stac- cati dal loro complesso omogeneo, non hanno potuto ne saputo fruttificare fuori del terreno fertile delle tra- dizioni materne. Vediamo la provincia italiana. Dtie nomi soli che si- gnifichino qualche cosa : Rosmini, Tommaseo. Sì anche Segantini, Ma i Prati, i Besenghi, i Revere, gli Zam- boni? Figurano nelìe storie letterarie accurate; se ne parlerà ancora, si scopriranno magari; solo perchè val- gono di più della dimenticanza, ma non perchè rap- presentino o significhino valori imperituri. Vediamo Trieste. Questa città che pur col tempo venne accentrando il flusso vitale della Venezia Giulia, fu intellettualmente più povera della stessa sua provin- cia; dove dalla calma solitaria di qualche paesello sor- geva pur di tanto in tanto un ingegno di promessa, se non d'affermazione. Trieste, se è passata nella storia, lo deve ai suoi pi- roscafi, ai suoi moli, ai suoi sacchi di caffè. Ma se an- diamo oltre la sua intraprendenza commerciale in ge- nere, troviamo una pagina sola, nei bronzei annali della storia, che ricordi Trieste : quella di Guglielmo Ober- dank; che impersona la sua fede e la sua impotenza, la sua volontà negativa e il suo martirio. E come mancò d'uomini, così naturalmente mancò di centri e di correnti intellettuali. Non un giornale, una rivista, degni d'esser chiamati organi di coltura. Caratteristico verso il 1840 il tentativo de « La Favilla ». Significativa la lettera che nel fondare questa rivista, Antonio Madonizza capodistriano scriveva all'amico conte Prospero Antonini il 3 1 agosto 1 835 : « Se le mie fatiche avessero ad esser derise od in qualunque altro simile modo vandalico compensate, potrei liberamente trarre cospicuo argomento per dire che questa gente è viva-morta ed incapace di ogni più piccola aspirazione verso il migliore ». Se tuttavia « La Favilla )) durò per qualche anno, fu per la costanza di pochi individui e per i tempi eccitati che preparavano il quarantotto, non per l'accoglienza né l'aiuto della cittadinanza; la quale — 12 — dopo il *48, tolto il contatto con le altre Provincie ita- liane, immiserì anche più. Quando la giovinezza ambiziosa di Scipio Slataper urgeva per entrare fattore attivo nella vita cittadina, in sul primo decennio del secolo ventesimo, le cose non erano profondamente mutate. C'era sì un più largo contatto con la vita spirituale d'Italia, ma tutto di superfìcie. Un ricco teatro, del resto il solo svago che avesse sempre attirato i grassi com- mercianti e i banchieri triestini, poteva stare alla pari coi maggiori d'Italia, ma con questi condivideva pure il livello bassissimo delle intenzioni artistiche. Una « uni- versità popolare » di nome, di fatto un'impresa di con- ferenzieri, ebbe il torto di far conoscere ai triestini troppo dell'Italia vecchia e parolaia e niente dell'Italia nuova; ma in fondo servì a far circolare l'aria nel chiu- so; aria che purtroppo i triestini pigliarono tutta per pura, mentre in gran parte erano zaffate di stantio. Vi- vacchiava una (( Minerva » ristretta e prolissa, e un tantino infingarda società di filiazione arcadica. Una biblioteca, non poverissima di volumi, ma molto disor- dinata e di locali miserabili. Nessuna sala di lettura. Ma in compenso e di questa e della biblioteca, una libreria modello.

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