www.museoinvita.it numero 1/2015 www.museoinvita.it/benati-bolognesi-a-ferrara/ I bolognesi a Ferrara: dai Carracci ad Antonio Randa Daniele Benati Il titolo di questa conferenza potrà apparire netto e forse curioso: I bolognesi a Ferrara: dai Carracci ad Antonio Randa. Se i Carracci sono notissimi, non altrettanto si può dire di Antonio Randa. Questo itinerario non è però scelto a caso. Esso parte da una constatazione che va un po’ controcorrente rispetto a quella che è la dimensione finora acquisita dagli studi, la quale tende ad accreditare a Ferrara nel Seicento un ruolo marginale come centro di produzione artistica. Il titolo di questa conferenza potrà forse apparire curioso: I bolognesi a Ferrara: dai Carracci ad Antonio Randa. Se i Carracci sono notissimi, non altrettanto si può dire di Antonio Randa. Questo itinerario non è però scelto a caso. Esso parte da una constatazione che va un po’ controcorrente rispetto a quella che è la dimensione finora acquisita dagli studi, la quale tende ad accreditare a Ferrara nel Seicento un ruolo marginale come centro di produzione artistica. Nell’immaginario collettivo Ferrara è una città dai molti aspetti, quasi caleidoscopica: è infatti nello stesso tempo la città rinascimentale per eccellenza ma anche la città della “deserta bellezza” cantata da D’Annunzio; la città di Lucrezia Borgia, ma anche quella cupa e asciutta dell’epoca delle Legazioni. Il libro molto bello di Eugenio Riccòmini del 1969, Seicento ferrarese, ci consegnava in modo assai suggestivo l’immagine di una città che, a seguito del passaggio sotto lo Stato della Chiesa, era diventata marginale, addirittura una specie di distaccamento periferico di guarnigione. In realtà gli studi successivi hanno dimostrato che anche nel Seicento Ferrara mantenne un’attività artistica ragguardevole in ambito padano, e basterebbe citare i nomi dello Scarsellino e di Carlo Bononi, ai quali si affiancano poi altre personalità di cui si va poco a poco rivalutando l’importanza. Anche nel Seicento, insomma, vi fu un tessuto di commissioni che i pittori ferraresi furono in grado di portare avanti in prima persona, nel quadro del quale gli arrivi di artisti forestieri, e persino gli arrivi dalla stessa Bologna, furono del tutto marginali. Tra le ultime pubblicazioni che hanno contribuito a chiarire questo aspetto, anche in polemica con il libro di Riccòmini di quarant’anni fa, vorrei citare la ricerca di Barbara Ghelfi, dedicata al primo Seicento ferrarese, dal quale emerge con chiarezza come in quel periodo una città ancora estremamente viva dal punto di vista della committenza abbia trovato gli artisti in grado di assolvere ai compiti che derivano dai nuovi assetti delle chiese, in ordine ai precetti della Controriforma. I Carracci a Ferrara Ecco il perché questo titolo che di necessità, come dico, va in calando: a significare che a una prima stagione, ancora con Cesare I d’Este, in cui i bolognesi, e i Carracci in particolare, trovarono a Ferrara spazio per esprimersi, ne successe una seconda in cui la produzione locale diviene autosufficiente e gli arrivi forestieri rallentano. Parlando dei Carracci, mi riferisco agli ovali eseguiti per volere di Cesare I d’Este per il Palazzo dei Diamanti. Questa impresa rappresenta l’ultima fiammata di internazionalismo da parte di una civiltà che trova in Cesare I il suo ultimo rappresentante. Egli commissiona la decorazione di questi soffitti ad alcuni pittori ferraresi come Gaspare Venturini, Giulio Cesare Cromer, lo stesso giovane Scarsellino; ma per alcuni ovali si rivolge ai Carracci a Bologna. In questo contesto Annibale Carracci realizza intorno al 1592 la Flora (fig. 1), alla quale fa seguito la Venere e Cupido (fig. 2) dell’anno successivo. Ludovico partecipa con la sua ninfa Salacia (fig. 3) e Agostino con il Plutone (fig. 4). Il fatto che all’impresa prendano parte tutti e tre i Carracci, inviando i loro dipinti da Bologna, è segno di un prestigio a queste date già acquisito. Una volta smantellati gli arredi del Copyright © 2015 MuseoinVita | Rivista semestrale, Reg. Trib. di Ferrara n. 3 – 1/02/1995 | ISSN 2420-9597 Editore: Comune di Ferrara, Piazza del Municipio, 2 - 44121 Ferrara Palazzo dei Diamanti, i quattro ovali (ma forse erano di più) andranno a finire nella Galleria Estense di Modena dove la capitale del Ducato si sposta nel 1598. Si potrebbe immaginare che l’arrivo di dipinti dei Carracci a Ferrara sia stata molto significativa e foriera di successivi sviluppi nella direzione da loro praticata. In realtà, la presenza di una scuola pittorica locale ben strutturata e valida, come dimostra anche la piccola ma molto interessante mostra in occasione della quale si svolgono questi incontri, impedì il pieno successo delle novità carraccesche. Pittori come lo Scarsellino e Carlo Bononi sono in grado di fare fronte non solo a una committenza interna, cioè destinata agli altari delle chiese cittadine, ma anche esterna, che li porta ad inviare fuori delle mura estensi quadri di grande rilevanza, oltre che di forte presa emotiva. È essenzialmente attraverso queste due figure che Ferrara riesce a mantenere nella prima metà del Seicento il suo ruolo di rilevante centro di produzione artistica. Il ponte che Cesare I d’Este getta nei confronti dell’arte bolognese e dei Carracci non ha dunque modo di svilupparsi proprio per questi motivi e, in tal senso, rappresenta una netta eccezione la Crocifissione con i profeti al Limbo (fig. 5) che Ludovico Carracci, ormai anziano, invia per la chiesa di Santa Francesca Romana. In questa prova straordinaria compare il tema del suffragio, sul quale torneremo più avanti. In questo caso, è la croce di Cristo, quindi il sacrificio compiuto dal Figlio di Dio, a porsi come ponte tra la vita terrena e l’Aldilà, assicurando alle anime del Purgatorio, a cominciare da Adamo e dai progenitori, la possibilità di accedere al Paradiso. Si tratta di un dipinto commovente, che Ludovico esegue nel 1614, a pochi anni dalla morte, e che si connota per un marcato empito sentimentale e una fantasia quasi visionaria. Nei suoi quadri Ludovico non esita ad impiegare accenti assai coinvolgenti dal punto di vista emotivo, come dimostrano il grande squarcio di nubi con il quale si proietta la Croce e, in basso, le anime purganti che attendono di essere salvate attraverso il sacrificio di Cristo. Dopo le aperture verso Bologna di Cesare d’Este e degli olivetani, non si registrano a Ferrara commissioni ad altri pittori bolognesi della stessa importanza. Ci si è interrogati di recente sul perché non ci siano state commissioni, ad esempio, all’altro grande protagonista della pittura felsinea, ovvero Guido Reni. La risposta può senz’altro essere ricercata nella spiccata propensione, tutta ferrarese, per una pittura di indirizzo naturalistico, lontana quindi dal senso ideale e metafisico dell’arte di Reni. Non si tratta cioè, come pure si è supposto, di un problema di ordine economico derivante dall’alto prezzo delle tele di Guido Reni, notoriamente tra i pittori più cari d’Italia: qualche anno dopo, infatti, Ferrara si rivolgerà più volte a Guercino, altro pittore noto per l’alto costo dei suoi quadri. Ciò significa piuttosto che Guido Reni, con le sue astrazioni e la sua capacità di accedere a un mondo ideale, ad una pittura che si fa pensiero, pura preghiera, non riesce evidentemente a fare breccia nell’immaginario dell’antica capitale degli Estensi, a testimonianza di come Ferrara, attraverso artisti come Bononi, lo Scarsellino e per certi versi lo stesso Guercino, rimanesse legata alle premesse che affondano le proprie radici nella grande cultura pittorica cinquecentesca, del Dosso, dell’Ortolano e del Garofalo. Si tratta infatti di artisti che nel Seicento vengono ancora apprezzati e copiati e dei quali lo Scarsellino e Bononi, certo in modo diverso tra loro, sono percepiti come degni eredi. Si tratta dunque di una temperatura stilistica e di un gusto che Ferrara difende come proprio patrimonio identitario, al quale anche i pittori forestieri dovranno adeguarsi. Cesi e Massari in San Cristoforo alla Certosa All’interno di questa vicenda, un caso molto interessante è costituito dalla decorazione della Certosa di San Cristoforo, dove sono attivi due pittori bolognesi assai legati tra loro: Bartolomeo Cesi e, poco dopo, Lucio Massari. La commissione matura nell’ambito dell’ordine certosino, secondo dinamiche particolari: non a caso ritroviamo a Ferrara gli stessi pittori già impiegati dai certosini a Bologna nonché in altre realtà cartusiane della regione. Si tratta, insomma, di un circuito in qualche modo extra-cittadino. Dopo aver lavorato nelle Certose di Maggiano, presso Siena (1594, 1613), di Bologna (1595-1597, 1616) e di Firenze (1616), intorno al 1620 troviamo Bartolomeo Cesi impegnato per quella di San Cristoforo a Ferrara, dove spedisce il monumentale quadro con Il beato Nicolò Albergati che mostra il reliquiario col capo di Sant’Anna (fig. 6). Riguardo la data di esecuzione, per questa come per altre sue opere, è lo stesso Cesi a fornirci informazioni in una serie di appunti relativi alla sua attività che i suoi eredi forniranno poi al canonico Carlo Cesare Malvasia, il quale li pubblicherà parzialmente nella sua Felsina pittrice (1679). www.museoinvita.it - 1/2015 2 Il quadro di Cesi è, per certi versi, un prolungamento della pittura cinquecentesca: siamo nel 1620 ma Bartolomeo Cesi porta avanti a Bologna, così come nelle altre città in cui lavora, una specie di riattualizzazione della “Maniera”, non ostante i Carracci avessero da tempo rivoluzionato la cultura figurativa obbligando i centri artistici limitrofi a prendere atto della direzione in chiave neo-veneta, e dunque naturalistica, da loro impressa alla pittura bolognese. Anche per i Carracci il disegno è uno strumento importante ai fini dell’avvicinamento che essi perseguono nei confronti del reale. Al contrario Cesi mantiene salde le convinzioni, che erano state proprie della Maniera, circa la priorità del disegno come mezzo per “controllare” e selezionare il naturale e per restituirlo nella massima sua limpidezza, privandolo cioè di ogni elemento sgradevole o comunque contingente.
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