
1 Il volume viene pubblicato in occasione di I libri di casa mia. La biblioteca di Fellini in mostra Rimini, Museo Fellini, 14 novembre 2008 - 13 aprile 2009 a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci allestimenti Barbara Vannucchi grafica Ennio Grassi 2 © Fondazione Federico Fellini via Oberdan, 1 - 47900 Rimini http://www.federicofellini.it e-mail: [email protected] copertina di Enzo Grassi stampato da La Pieve Poligrafica Editore - Villa Verucchio (RN) nel novembre 2008 La Fondazione Federico Fellini, avendo per quanto nelle sue possibilità espletato le ricerche necessarie all’individuazione del copyright delle immagini, rimane a disposizione di eventuali aventi diritto. I LIBRI DI CASA MIA LA BIBLIOTECA DI FEDERICO FELLINI a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci introduzione di Tullio Kezich 3 fondazione federico fellini 4 SOMMARIO 7 Se leggi non sei mai solo di Tullio Kezich 11 Le biblioteche di Federico Fellini di Oriana Maroni 25 LA BIBLIOTECA FUORI DI SÉ 27 I libri di Fellini di Gianfranco Angelucci 35 Se penso ai libri di Corso Italia di Rosita Copioli 5 43 TESTIMONIANZE 45 Daniela Barbiani 47 Ermanno Cavazzoni 49 Norma Giacchero 51 Fiammetta Profili 53 Moraldo Rossi 57 CATALOGO 225 INDICI 227 Indice dei rinvii 233 Indice degli accessi secondari 247 Indice dei soggetti 259 Indice delle note, evidenziazioni e sottolineature 261 Indice dei dedicatori 6 SE LEGGI NON SEI MAI SOLO di Tullio Kezich Non sono un abituale frequentatore di camposanti, anche quando vi riposano persone care, ma all’occasione mi piace visitare i luoghi in cui vissero e si congedarono gli scrittori predi- letti. E così qualche anno fa da Locarno, dove mi trovavo per il Festival del cinema, mi sono spinto fino alla vicina Tegna, all’imbocco delle Centovalli, per scoprire qualche memoria della texana Patricia Highsmith, morta nel ’95 proprio in quell’angolo del Canton Ticino. Non sono certo di aver identificato la sua villa fra altre simili, anche perché non incrociai nessuno che potesse aiutarmi; e la stessa situazione si stava ripetendo mentre mi aggiravo inutilmente fra le lapidi del minuscolo cimitero. Miracolosamente transitò una linda donnetta di mezza età, che alla mia domanda rispose: «Vuol dire la signora americana? Ma sì, sta laggiù, proprio accanto alla mia mamma. Venga, venga…». Pervenimmo a una parete di loculi, su uno dei quali lessi con subitanea commozione il nome d’arte di Patricia Highsmith (non quello anagrafico, Mary Patricia Plaugman). Nel vedermi con le lacrime agli occhi la buona signora 7 deve aver pensato che fossi un parente stretto, o che come minimo fossi un compatriota americano, tanto che si congedò con una stretta di mano particolarmente affettuosa lascian- domi meditabondo in cospetto dell’umile avello. Analizzando in seguito quel momento di emozione mi sono reso conto che (come sempre mi è capitato con certi scrittori) avevo scoperto una segreta consonanza con la Highsmith fin dagli antichi tempi in cui mi folgorò il film L’altro uomo di Hitchcock. Qualche tempo dopo lessi Strangers on a Train, primo dei tanti romanzi dell’autrice divorati in seguito (non tutti, ne ha scritti 22, più 5 libri di racconti), intrecciando con quell’anima tormentata, solitaria e alcolica un misterioso legame che non si può neppure considerare basato su reali affinità elettive. Un’esperienza simile, e qui vengo al punto, a quella dell’amico Fellini. Il quale di Patricia fu un fedele lettore, ammirato e insieme atterrito dai «libri avvelenati di una strega». Lo racconta nella sua testimonianza Gianfranco Angelucci: tra Federico spinto verso l’autrice da «una specie di survoltata curiosità» e l’eremita della provincia elvetica si stabilì un filo diretto rinsaldato dalla comune amicizia con l’editore della Diogenes Verlag, Daniel Keel, che della scrittrice fu poi l’esecutore testamentario; e magari (bisognerebbe chiederlo a lui), li fece perfino incontrare. Mi azzardo a ipotizzare che Federico si deliziò particolarmente ai cinque titoli, scritti da Patricia fra l’85 e il 91, che hanno per protagonista Tom Ripley, il falsario e assassino più se- ducente di tutta la letteratura, un genio del male che appare la sublimazione del malfattore. Uno sfacciato bidonista vincente dal quale (scommetto che il regista l’ha pensato) lo scia- gurato bidonista perdente Broderick Crawford avrebbe avuto tanto da imparare. Ma come mai leggendo le gesta agghiaccianti del sofisticato avventuriero, io da una parte e Federico dall’altra, non ne abbiamo mai parlato? Il mio stupore si rafforza scorrendo le altre palpitanti testimonianze di questo singolare catalogo di una mostra singolarissima: oltre che discutere di libri con Angelucci, Fellini ne parlava anche con Daniela Barbiani, Fiammetta Profili, Norma Giacchero. A questi strettissimi compagni di lavoro il Poeta (ai tempi di La dolce vita lo chiamavamo così, ma anche il Faro) raccontava volentieri le sue peripezie di lettore, le illuminazioni, gli entusiasmi e i rifiuti che caratterizzavano il suo rapporto con la pagina; e poi gli regalava i libri arrivati in omaggio che non voleva leggere e invece acquistava per loro i libri che gli erano piaciuti. Anche con Ermanno Cavazzoni, autore di Il poema dei lunatici che ispirò La voce della luna, il Maestro parlò tanto di libri. Ma perché allora con me, sodale di più lunga data, non lo fece mai o, senza esagerare, molto meno? In proposito ho formulato una teoria. La cosa a cui Federico teneva di più non era la sua statura di creatore (della quale, da per- sona intelligente, ogni tanto si prendeva il lusso di dubitare), ma della sua unicità. Ci teneva a essere sempre se stesso, un prototipo, un artista impermeabile a qualsiasi influenza dal- l’esterno. Non solo dal cinema, dal quale si difendeva non andandoci mai. Ma anche dalla pittura e dalla letteratura, mentre la musica non l’ha mai particolarmente appassionato, gli bastava Nino Rota. Ammetteva di «copiare dalla vita», un po’ assecondando l’antica ottica del caricaturista e molto applicando la prassi neorealista assorbita all’ombra di Rossellini. Però non avrebbe mai ammesso di «copiare dall’arte». E io, pur amico, amicissimo, seguace della prima ora, restavo pur sempre un critico. Cioè uno che bene o male era un occasionale transfuga dal campo di Agramante, quello dei recensori considerati da ogni artista i veri nemici naturali. Uno di coloro che per abitudine professionale di fronte a un’opera tendono a cercarne i precedenti, a fare collegamenti, a insinuare possibili derivazioni. Insomma il silenzio su Patricia (e su tante altre letture) me lo spiego così: fu il netto rifiuto di qualsiasi 8 parentela. Delle sue letture infantili Federico rievocava soprattutto il “Corriere dei Piccoli”, con le storiel- le disegnate e le poesiole che le illustravano in sincrono: ed era già un modo, che sarebbe diventato tipico del futuro cineasta, di legare inscindibilmente il racconto all’immagine. Delle letture successive citava spesso lo choc procuratogli da La metamorfosi di Kafka. Né gli di- spiacque, agli albori della carriera, che fosse suggerita una sua nobilitante filiazione dal pove- ro Franz quando i critici si accorsero che Agenzia matrimoniale, percorrendo quei labirintici corridoi dell’Ospizio romano di San Michele a Ripa, era inequivocabilmente permeato di un’atmosfera kafkiana. Mentre in seguito anche della parentela con Kafka il nostro avrebbe fatto a meno. Nella fase iniziale del lavoro per il cinema, accanto ai giornali di cui fu sempre attentissimo lettore, sfogliava quasi esclusivamente il materiale di base che gli serviva per le sceneggiature. Ma non stento a credere che non arrivò mai a finire la fluviale trilogia Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, pur attardandosi in allegri simposi con l’autore, famoso buongustaio, e collaborando alla stesura di un copione impeccabile per il film di Lattuada. E in un recente convegno ho sentito un suo aiuto regista, Moraldo Rossi, confermare che nel corso degli esterni di I vitelloni l’amico si era portato dietro un solo libro, Le confessioni di Sant’Agostino, di cui leggeva sì e no due paginette per sera. Pur scansando il tema «libri letti», e concentrandoci su quello «cose viste», con Federico ab- biamo parlato ugualmente tanto, sicché nei nostri incontri sull’arco di oltre quarant’anni non sono mai mancati gli argomenti di conversazione. Lui non era il tipo di amico con cui si può anche stare uno di qua e l’altro di là senza pronunciare parola; e in proposito ricordo con tenerezza la dedica che mi fece nell’80 sul suo libro Fare un film: «Caro Tullio, quanti anni di chiacchiere, di balle. Ma di vera amicizia!». Avrei poco o niente di mio da aggiungere, insomma, al puntuale e accurato saggio di Oriana Maroni che apre il catalogo. Dal quale emerge un Fellini più lettore di quanto lo immaginavo soprattutto riferendosi alle soglie della terza età, quando afflitto da una snervante insonnia pervenne alla scoperta sia pure tardiva dell’importanza insostituibile che assume nel corso dell’esistenza l’abitudine di leggere. Questa mostra intitolata familiarmente I libri di casa mia è degna di attenzione e di studio perché passa in rassegna i 2000 volumi che Fellini non stracciò e non regalò al primo che gli passava davanti, ma che accresciuti dall’abitudine degli acquisti perpetui nelle vicine librerie del Babuino rimasero a portata di mano sugli scaffali del nido di via Margutta essendo ormai diventati (accanto ai sogni, sempre più rari) un comple- mento fondamentale del suo faticoso transito notturno. Le somme si possono cominciare a tirare dalle voci, qui raccolte, di felliniani più vicini a lui, proprio quotidianamente, e tanto più informati di me. Mi preme solo sottolineare il lapidario messaggio fedelmente annotato da Angelucci, uno di quei moniti felliniani che restano stampati per sempre nella mente e nel cuore e riaffiorano al momento giusto.
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