Tesi Di Dottorato in Storia Contemporanea

Tesi Di Dottorato in Storia Contemporanea

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO DIPARTIMENTO DI SCIENZE STORICHE E SOCIALI Corso di Dottorato in Storia (IX ciclo) Tesi di Dottorato in Storia Contemporanea TERTIUM NON DATUR. DC E FINE DELL’UNITÀ POLITICA DEI CATTOLICI (1989-1994) Tutor Candidato Ch.mo Prof. Pietro Cavallo Rosario Salvatore Coordinatore Ch.mo Prof. Massimo Mazzetti Anno Accademico 2010-2011 1 2 INDICE PREMESSA Mutamenti e persistenze: modi diversi di leggere il crinale degli anni ’70 p. 5 CAPITOLO PRIMO UN’OPPORTUNITÀ DI CAMBIAMENTO 1) Il fallimento del “preambolo” p. 15 2) Una parentesi: l’assemblea degli esterni (novembre 1981) p. 25 3) XV congresso: l’immagine del rinnovamento p. 45 4) Una grande occasione p. 62 5) L’opportunità non colta p. 82 6) Le elezioni del 1983 p. 100 CAPITOLO SECONDO UN TENTATIVO DI STABILIZZAZIONE 1) Il Governo Craxi p. 127 2) Il XVI Congresso Nazionale (24-28 febbraio 1984) p. 133 3) Un “altro” rinnovamento p. 151 4) Il rilancio p. 159 5) Il XVII Congresso Nazionale (26-30 maggio 1986) p. 176 6) A cavallo delle due legislature: apogeo e declino p. 199 CAPITOLO TERZO TERTIUM NON DATUR 1) L’ultimo congresso democristiano (17-22 febbraio 1989) p. 213 2) Il ritorno di Andreotti p. 254 3) Il congresso si chiude p. 276 Bibliografia e fonti d’archivio p. 309 3 4 PREMESSA Mutamenti e persistenze. Modi diversi di leggere il crinale degli anni ’70 Nel processo di evoluzione e trasformazione del sistema politico italiano, che sarebbe culminato a cavallo degli anni Novanta sulla scia di avvenimenti nazio- nali e internazionali, le elezioni del 1979 aveva segnato un passaggio delicato e importante1. All’interno di questo arco temporale, gli anni Ottanta sarebbero interpretati come un decennio attraversato da una forte perdita delle motiva- zioni ideologiche, cui avrebbe fatto da contraltare «un interesse non spento per la politica», pur se caratterizzato dall’assunzione di forme nuove, «non più ne- cessariamente legate alle tradizionali appartenenze partitiche»2. La stessa classe dirigente sarebbe parsa non sempre in grado di comprendere a fondo la nuova realtà e di farvi fronte attraverso risposte complesse e adeguate, finendo con il chiudersi in se stessa «in un gioco sempre più autoreferenziale»3. Nella prima metà del 1978, la Dc era guidata da Zaccagnini, segretario grazie a una maggioranza di centro-sinistra che, auspice e garante Moro, aveva con- dotto il partito all’incontro con il Pci. Un accordo che appariva fragile e instabi- le, retto grazie al confluire di obiettivi differenti, al di sotto dei quali si agitava- no le componenti democristiane, consapevoli che il sistema politico degli anni Settanta, intrecciando eredità del “vecchio” e novità nel frattempo emerse (sia nella società civile, che nelle istituzioni), stesse dando vita a una sintesi più complessa, che avrebbe richiesto nuovi strumenti di gestione e di raccordo. Nel partito le correnti, che caratterizzavano questo dibattito, erano raggruppate in una minoranza di “centro-destra” (fanfaniani di “Nuove Cronache”, dorotei e “Forze Nuove”), per la quale, logorata in maniera significativa la posizione del Pci e superata la fase più acuta della crisi economica, sociale e dell’ordine pub- blico, fosse giunto il momento di ricorrere alle elezioni anticipate, per porre fi- ne alla solidarietà nazionale. Sul versante opposto, la maggioranza di Zaccagni- ni, legata a Moro e alla sinistra di “Base”, continuava a ritenere l’accordo con i comunisti un elemento cruciale per garantire una transizione del sistema politi- 1 SIMONA COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 531. 2 PIETRO SCOPPOLA, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, il Mulino, Bologna 1997, p. 423. 3 In Italia, al meccanismo classico dell’alternanza tra maggioranza e opposizione si era sostitui- ta, a partire dal 1962, con la cooptazione del Psi e la nascita degli esecutivi di centro-sinistra, una pratica consociativistica tendente a far coincidere «l’area della rappresentanza con quella del governo». Il fenomeno si era ampliato, successivamente, fino a ricomprendere l’opposizione comunista nei governi di solidarietà nazionale. Questo stadio, che nelle interpre- tazioni di molti avrebbe rappresentato il culmine di un processo di stabilizzazione del sistema, viceversa, aveva dato avvio alla «parabola discendente che porta lentamente alla disgregazione dell’intero sistema […] che sclerotizza, logora e svilisce il ruolo della rappresentanza, identifica- ta tout court col potere […] né si risolvono i conflitti che sono semplicemente soffocati dal man- tello protettivo del compromesso e privati del fisiologico sbocco nelle opposizioni parlamenta- ri»; SIMONA COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 532. 5 co verso una democrazia “funzionante”, anche a costo di ridiscuterne i termi- ni4. Tra questi estremi stava il Presidente del Consiglio, Andreotti, che, con l’obiettivo di non indebolire il proprio esecutivo, cercava di non drammatizzare i termini della discussione, presentando l’accordo come un dato acquisito nell’ambito del riallineamento dell’assetto politico e, soprattutto, evitando di tirare in ballo eventuali sviluppi futuri del rapporto tra Dc e Pci5. Il rapimento e il successivo assassinio di Moro (marzo 1978), il presunto coinvolgimento nella vicenda Lockheed e le dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica Leone (giugno 1978), l’elezione del socialista Pertini (luglio 1978), il dissenso comunista sull’ingresso dell’Italia nello Sme, la rottura dell’alleanza Dc-Pci, le conseguenti dimissioni del Governo Andreotti (dicembre 1978-gennaio 1979) e i risultati delle elezioni anticipate (giugno 1979) avevano contribuirono ad acce- lerare i tempi del riassetto delle prospettive politiche. Le elezioni del 1979 avevano reso l’immagine dei nuovi equilibri: la tenuta della Dc, la flessione del Pci, lo svuotamento delle destre e la stabilità socialista, avevano riconsegnato un sistema che appariva nuovamente garantito e tutelato dall’eventualità di un “sorpasso” comunista. Smarrito, con la morte di Moro, un percorso politico di medio periodo, vinte le prime battaglie contro il terrori- smo e superate le paure più immediate, la solidarietà nazionale era parsa svuo- tata di significato a una parte crescente della Dc6. La prospettiva di un incontro con i comunisti aveva sempre creato malumori all’interno del partito; il risulta- to delle elezioni aveva ridato fiato a chi da sempre aveva disapprovato quella strategia, che, aveva colto l’occasione per chiedere anche il definitivo supera- mento della maggioranza di centro-sinistra che sosteneva Zaccagnini7. All’indomani delle elezioni, un chiaro segnale di quanto stessero mutando i rapporti e gli equilibri interni ai democristiani era venuto dalla mancata elezione 4 La cosiddetta “terza fase”, in positivo, appariva alquanto non definita e aperta a più soluzioni, viceversa, in negativo, mostrava la presa di coscienza dell’esaurirsi delle formule centriste e di centro-sinistra e la susseguente esigenza di un confronto con il Pci. In Moro, a differenza che in altri esponenti della Sinistra democristiana, essa non assumeva la forma compiuta di una proposta politica, conservando i caratteri di uno stato di necessità e di passaggio verso altre e più stabili soluzioni; AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 179-180. 5 PIERO CRAVERI, Dagli anni di piombo agli anni Ottanta, in GIUSEPPE GALASSO (a cura di), La Storia d’Italia, vol. 23, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2005, p. 366. 6 Inoltre, le elezioni avevano confermato l’immagine di una Dc in cui andava amplificandosi lo squilibrio fra un consenso elettorale sbilanciato verso destra, e una linea politica protesa a sini- stra, come è stato sostenuto, «in quegli anni aveva raggiunto il suo acme la peculiare tendenza della Dc ad allargare il più possibile il consenso elettorale verso destra, praticando contempo- raneamente una politica di alleanza con formazioni alla sua sinistra», AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il partito italiano, cit., p. 198. 7 Per consentire ad Andreotti di chiudere l’alleanza con il Pci, Moro aveva ricomposto vari spezzoni democristiani: alla maggioranza che aveva sostenuto l’elezione di Zaccagnini (dalla quale si era distinta “Forze Nuove” di Donat Cattin, con l’esclusione di una componente, “Nuove Forze”, guidata da Guido Bodrato), si era aggiunto il sostegno dei dorotei di Piccoli (in rottura con Bisaglia), degli andreottiani e dei fanfaniani (staccatisi dal gruppo di Forlani); GIORGIO GALLI, I partiti politici italiani (1943/2000). Dalla resistenza al governo dell’Ulivo, Bur, Mi- lano 2001, p. 182. 6 a presidente del gruppo democristiano alla Camera di Giovanni Galloni, espo- nente della sinistra e tra i più intransigenti fautori di un ampliamento del signi- ficato politico della solidarietà nazionale. A Galloni era stato preferito Gerardo Bianco, anch’egli originariamente legato alla “Base”, dalla quale si era allontana- to per divergenze sulla linea politica da seguire dopo la scomparsa di Moro8. Il gruppo dirigente democristiano, acquisito il dato elettorale, si era trovato a dover riordinare la dialettica interna e delle alleanze di governo. Sotto questo aspetto, il fallimento del mandato affidato da Pertini a Andreotti, aveva imme- diatamente vanificato l’ipotesi di una riproposizione dell’unità nazionale. Esclu- sa dai numeri una maggioranza centrista, restavano sul tappeto due alternative: un più articolato coinvolgimento

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