Piero Calamandrei 1895 - 1968

Piero Calamandrei 1895 - 1968

ISTITUTO STORICO TOSCANO DELLA RESISTENZA E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA PIERO CALAMANDREI 1895 - 1968 Storia. Piero Calamandrei nacque a Firenze il 21 aprile 1889 da una famiglia borghese in cui lo studio e la pratica del diritto erano stati tramandati di padre in figlio per circa due secoli, fino a raggiungere con lui "il massimo splendore" (2). Il nonno materno, Giacomo Pimpinelli, era stato avvocato civilista, mentre quello paterno, Agostino Calamandrei, fu pretore di Montepulciano. Il padre, Rodolfo (n. 1857), dagli anni Ottanta fino alla morte, nel 1931, aveva esercitato l'avvocatura in Firenze nello studio di Borgo degli Albizi, che sarebbe divenuto poi quello di Piero. Rodolfo fu anche docente di diritto commerciale presso l'Università degli studi di Siena e autore di studi giuridici sulla cambiale, il fallimento, le società commerciali, tra i quali spicca la Teoria dell'azienda commerciale (1891) all'epoca anticipatrice delle moderne dottrine di quell'istituto. Tra gli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento, Rodolfo sviluppò un'intensa passione politica accostandosi al radicalismo di impronta mazziniana e in specie alle idee di Felice Cavallotti. Tra la fine del secolo e i primi anni del Novecento fu più volte consigliere comunale e provinciale a Siena e a Firenze e raggiunse l'apice della carriera politica nel 1909, quando fu eletto alla Camera dei deputati per il collegio fiorentino di Santa Croce, nelle liste repubblicane. Rodolfo fu anche autore di vari scritti politici, pubblicati a partire dalla metà degli anni Ottanta, su temi quali il confronto tra monarchia e repubblica, il collettivismo e le prospettive del radicalismo in Italia, illustrate tra l'altro nella Logica del radicalismo italiano (1895). Rodolfo, infine, fu come poi Piero profondamente affascinato e attratto dalle campagne toscane (3). Se molto è noto della figura del padre e del suo forte ascendente sulla formazione e il carattere di Piero, poche sono invece le informazioni disponibili per delineare quella della madre, Laudomia Pimpinelli (1863-1937). Nell'Inventario della casa di campagna, libro di ricordi scritto tra il 1939 e il 1940 (4), Piero riservò solo alcuni rapidi accenni alla figura materna e poi su di ella tornò in un testo dell'estate del 1944, intitolato Niente di mio e scritto osservandone una fotografia giovane che egli teneva sullo scrittoio e il calco in gesso della mano, approntato, come allora si usa, sul letto di morte. Così ricordava la madre, interrogandosi sul fluire della vita e delle generazioni: Andava sessanta anni fa questa giovinetta bella dal volto ovale e dai capelli castani che io rivedo in questa fotografia col busto attillato che allora usava, colle maniche lunghe terminanti sul polso in una piccola gala: sul polso di questa mano di gesso che io posso accarezzare ora qui accanto a me: questa mano, anche nel calco, è liscia e senza rughe, mano morbida e liscia di una fanciulla. Come è possibile, o madre, che questa mia mano, che ti carezza così vecchia, sia la mano del tuo bambino: e questa tua mano così liscia sia quella che carezzavi quando stavi per morire così macerata dagli anni e dalla malattia e la sentivi diventar fredda? Io ti guardo, o fanciulla: e questa tenerezza che provo verso di te non è più quella di un figlio verso la madre, ma quella di un padre verso la figlia giovinetta. Tu mi somigli: il tuo viso allungato ha la stessa sagoma del mio [.] (5) La figura del padre e le tradizioni familiari si coniugarono con le particolari inclinazioni del carattere di Piero. Sin da bambino egli mostrò curiosità e passione verso molte cose: lo studio diventava un gioco, i giochi occasione di apprendimento e di riflessione. Tra la fanciullezza e l'adolescenza iniziò a interessarsi alla raccolta e allo studio di erbe, fiori, farfalle, tuttora custodite nell'archivio fiorentino, si appassionò anche di decalcomanie e prese a collezionare francobolli. Soprattutto, espresse un precoce talento letterario che sviluppò in sintonia con l'ambiente dello scrittore Vamba (Luigi Bertelli) e del suo «Giornalino della Domenica», cenacolo di giovani accomunati dal mito della nazione e delle generazioni che la alimentano, tema destinato a restare assai caro a Calamandrei, seppure in forme assai rinnovate (6). Notevole anche fu il valore formativo degli anni trascorsi al fiorentino liceo Michelangelo, ove ebbe modo di scoprire i classici latini e greci, grazie a docenti fortemente motivati pure nel compito di educare i giovani alla vita civile. Di questa scuola, dei suoi insegnanti, Calamandrei serbò sempre memoria: [Quegli insegnanti] non saranno stati, alcuni, grandi scienziati, ma erano tutti uomini di coscienza: ci insegnavano il greco e il latino, ma ci insegnavano, soprattutto, col loro esempio, a esser persone perbene. [...] Erano uomini che credevano in ciò che facevano e che ci davano il meglio di loro per aiutarci a trovare dentro di noi il meglio di noi (7). Dopo la licenza liceale, intraprese gli studi giuridici presso l'Università di Pisa, laureandosi nel 1912 sotto la guida di Carlo Lessona, con una tesi in diritto processuale civile. Dopodiché ottenne una borsa per studi di perfezionamento a Roma, presso la scuola di Giuseppe Chiovenda, eminente processualista e ispiratore dei suoi successivi studi giuridici. Nel 1915, vinto il concorso di diritto processuale civile, fu nominato professore straordinario all'Università di Messina. In quello stesso 1915, tuttavia, Calamandrei partì per il fronte come volontario, animato da un interventismo di stampo democratico che affondava le radici nella sua cultura mazziniana e risorgimentale, ma che progressivamente si caricò di interrogativi sul senso del conflitto e del sacrificio che il paese era stato chiamato a sostenere. In fondo, scriveva nelle lettere inviate dal fronte alla fidanzata Ada Cocci, la sola giustificazione storica della guerra in corso era la lotta per porre fine a tutte le guerre. Durante le operazioni belliche, Piero entrò in contatto con il mondo dei contadini divenuti soldati, uomini che, a parer suo, mettevano a repentaglio le proprie vite pur ignorando in tutto o in parte le motivazioni di tanta violenza. La causa della guerra, ebbe modo di annotare in una lettera ad Ada, "riusciamo appena ad intenderla] noi, persone colte ed educate, ma certo sfugge alla mentalità di un contadino, estesa quanto è esteso il suo campo" (8). Per Calamandrei, specie dopo essere entrato a far parte dell'Ufficio P (Propaganda), la guerra fu occasione per scoprire le proprie capacità di educatore e di oratore: ancora ad Ada, il 6 agosto 1917, raccontò che "in una piazzetta circondata di casette deserte e sforacchiate dalle granate, parlai, in tenuta di combattimento (perfino avevo sulla testa l'elmo!), di Cesare Battisti, in presenza del generale, del colonnello e di molte centinaia di soldati" (9). Allo stesso tempo, la guerra ne mise alla prova le qualità di avvocato, in veste di difensore di soldati e ufficiali di fronte ai tribunali militari. Il periodo bellico, infine, fu anche quello in cui formò la propria famiglia: nel 1916 Piero sposò Ada (10) e nel 1917 nacque Franco, loro unico figlio. Tornato dalla guerra, chiamato nel 1918 all'Università di Modena e nel 1920 a quella di Siena, Calamandrei riprese e concluse il trattato La cassazione civile (11), la sua opera giuridica di maggior impegno, ove propugnava attorno al riordino e all'unificazione della Corte di Cassazione un disegno di riforma del sistema giudiziario imperniato sul ruolo del giudice e su una distinzione tra procedura e merito, che ne accrescesse l'efficienza e dunque il rilievo civile. Ha scritto in proposito Mauro Cappelletti: [.] se oggi noi in Italia abbiamo un'unica Corte Suprema di Cassazione in luogo delle varie Cassazioni regionali, ciò è dovuto in notevole parte a quella battaglia di Piero Calamandrei, iniziata sulle pagine del suo grande trattato e continuata poi, in vario modo, su libri, su giornali, su riviste, nella sua opera di parlamentare. [...] Difendere l'unicità della Cassazione significava, per Piero Calamandrei, difendere la certezza del diritto, attraverso la lotta contro gli sbandamenti della giurisprudenza priva di un centro di unificazione [...], significa sicurezza dell'individuo, chiarezza dei suoi doveri, ma anche dei suoi diritti verso lo Stato, fiducia nella serietà della funzione giurisdizionale e pertanto, di riflesso, fiducia dell'uomo nei suoi propri diritti e nelle sue azioni: in una parola, fiducia nella sua libertà (12). L'esperienza della guerra lo sollecitava, infatti, a enfatizzare il ruolo del diritto nello stato costituzionale moderno, presidio di legalità e però anche strumento di equità, non insensibile, in prospettiva, alle esigenze delle classi popolari. La profondità della dottrina, dunque, si accompagnava ad un'attenzione crescente per la pratica: giuridica, nell'intraprendere anche l'avvocatura, e direttamente civile e politica, testimoniata da vari scritti, pur su temi giuridici, apparsi su riviste quali «Volontà» e la salveminiana «Unità» e animati da una presa di distanza sempre più marcata dalla montante involuzione autoritaria del mito patriottico e della memoria dell'esperienza bellica. Nel 1924 fu chiamato nella costituenda Facoltà giuridica dell'ateneo fiorentino, titolare della cattedra di diritto processuale civile che avrebbe tenuto fino al 1956, anno della sua morte. A Firenze, investita dalla crescente aggressività fascista peraltro già vissuta personalmente con la mortale aggressione subita nel 1921 da Nicola Cocci, zio della moglie Ada Calamandrei

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