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Raffaele Lauro DANCE THE LOVE Una stella a Vico Equense Romanzo Raffaele Lauro DANCE THE LOVE Una stella a Vico Equense Romanzo 2016 A Violetta Elvin, artista splendida e donna coraggiosa, che mi ha consentito di riscoprire l’amore per la libertà, l’arte della danza e le straordinarie bellezze naturali di Vico Equense, terra di origine dei miei nonni materni, meravigliosa e incomparabile AV V ERT ENZ A Questo libro non pretende di essere e non rappresenta la biografia della celebre danzatrice, Violetta Elvin nata Prokhorova e vedova di Fernando Savarese, ma si ispira liberamente, in una forma romanzata, autorizzata dalla protagonista, alla sua vicenda artistica e umana, sullo scenario del secondo dopoguerra e nel suo legame, quasi sessanten- nale, con Vico Equense e con la Costiera sorrentino-amalfitana. Tutti i riferimenti ai personaggi storici citati sono reali, anche se la ricostru- zione dei dialoghi, le valutazioni storico-politiche e i giudizi estetici sono da ricondurre esclusivamente all’Autore. RINGRAZIAMENTI Ringrazio, di cuore, donna Violetta e il figlio Antonio Vasilij Sava- rese, per l’onore e la fiducia, che mi hanno concesso, nel poter racco- gliere, dalla viva voce della protagonista, alcuni elementi biografici di una vicenda, umana, artistica e familiare, assolutamente straordinaria, utilizzati in un romanzo, frutto di invenzione narrativa, ancorché vero- simile; il professor Salvatore Ferraro, per la preziosa documentazione su Vico Equense e per la rigorosa correzione delle bozze di stampa; il dottor Riccardo Piroddi, per le fondamentali ricerche sulla storia del balletto, e la designer Teresa Biagioli, per la raffinata copertina. Vico Equense: il paradiso di Violetta Quella sera di inizio novembre, a Vico Equense, soffiava una frizzante brezza di terra, dolce, tiepida, quasi eccitante, che stava chiudendo una giornata eccezionalmente calda, piena di sole, luminosa, tersa, densa di colori, quasi trattarsi di un’incipiente prima- vera, piuttosto che l’epilogo della stagione autun- nale. Un autunno, quell’anno, senza piogge, tanto da destare legittime preoccupazioni nelle famiglie conta- dine, delle vere ambasce, che diventavano oggetto di animate discussioni tra i tavolini dei bar di piazza Umberto I, con due preoccupati interrogativi: le muta- zioni meteorologiche, non più occasionali, a conferma di un cambiamento radicale delle stagioni tradizionali, avrebbero inciso sulla vita delle aziende agricole, sulla tipologia delle colture e sui tempi di coltivazione delle stesse? Avrebbero modificato, nel tempo, l’assetto idro- geologico di quella terra meravigliosa, benedetta da Dio, porta di accesso alla costiera sorrentino-amalfi- tana, sintesi perfetta della creazione, scrigno, unico al mondo, di multiformi bellezze naturalistiche? A partire dall’alta montagna, che digradava dolce- mente, quasi impercettibilmente, tra panorami mozza- fiato, fino alle ciottolose spiagge, bagnate da un mare 5 sempre azzurro, e calava, tra borghi e casali collinari, lungo le numerose frazioni: la suggestiva Pietrapiana; l’antica Bonea, a ridosso del centro cittadino; Sant’An- drea, arroccata sui clivi del monte; San Salvatore, raccolta intorno alla chiesa; la placida Massaquano, piena di noceti; Patierno, rinomata per i molti caseifici; la stessa Monte Faito, verde e rocciosa; Moiano, dalle origini leggendarie; Santa Maria del Castello, sospesa sul crinale tra Vico Equense e Positano; Ticciano, ricca di uliveti e di frutteti; Preazzano, terra della cele- brata melanzana; Arola, estesa e arroccata insieme; Alberi, la frazione-balcone, con la vista proiettata sulla costiera; Pacognano, vocata alla preghiera; Fornacelle, inventrice, a Natale, del presepe vivente; l’aristocra- tica Montechiaro, e, infine, più avanti, verso Sorrento, l’orgogliosa Seiano, piccolo regno nel Regno, quasi un mondo a sé stante. A metà strada, tra la montagna e le spiagge, si affer- mava, poi, il piano, nel quale trionfava il cuore pulsante della vita cittadina, il centro urbano, che inclinava verso l’orlo estremo della costa alta, con gli imponenti palazzi signorili e i conventi, a precipizio sul mare, dirimpettai del Vesuvio, che sembravano sfidare le leggi della statica, fino a quel suggello stupefacente della Chiesa della Santissima Annunziata, autentico miracolo costruttivo, incastonato, come una gemma preziosa, nella roccia calcarea, divenuto il simbolo supremo della religiosità dei Vicani e il locus sacer della memoria collettiva. La chiesa, definita uno scrigno di arte sacra, immersa in un contesto paesaggistico irripetibile, 6 rappresentava, per i Vicani, una lauda creaturarum al Signore, come quella del “Cantico” del poverello di Assisi, in quanto il tempio era stato legato a tutte le vicende più importanti di Vico Equense, fin dal XIII secolo. Fu il vescovo Giovanni Cimino a fare edifi- care, tra il 1320 e il 1330, una nuova cattedrale su quel costone di roccia, alto 90 metri, a picco sul mare, sopra il borgo marinaro. Il tempio, che fu sede vescovile fino al 1799, esponeva, al suo interno, trenta affreschi, raffi- guranti i vescovi vicani, non l’ultimo, rappresentato da un putto, che intimava di fare silenzio. Il putto ritraeva idealmente l’ultimo dei vescovi di Vico Equense, quel Michele Natale, impiccato dalla restaurazione borbo- nica per avere aderito alla Repubblica Napoletana. Non più cattedrale dal 1818, perché inglobata nell’arcidiocesi di Sorrento, rimaneva l’esempio più raffinato di archi- tettura gotica della costiera sorrentina, con la facciata barocca, a presidio della costa e a difesa spirituale della comunità vicana. Tra quell’insieme, suggestivo, unico e irripetibile, di creazione divina e di opera dell’uomo, intreccio di storia, di fede e di tradizioni secolari, che era diven- tata Vico Equense, e quella donna, Violetta, non più giovane, venuta da lontano, signora elegante e piena di fascino, quasi diafana, stella sconosciuta ai più, che viveva, da oltre mezzo secolo, nel recinto dorato di uno di quei palazzi aviti, di fronte al golfo di Napoli, esisteva un legame interiore, profondo, misterico, fatto di passione, di rinunce, di sentimenti, di sfide, di paure e di scelte intrepide di vita. Un legame intenso, 7 sbocciato, per caso, tanti anni prima, mai interrotto e giammai rinnegato, coltivato nell’intimità, senza clamori, senza ostentazioni, quasi claustrale, custodito nel silenzio discreto della propria dimensione fami- liare. Un legame misterioso, vissuto con la sensibilità propria di una grande artista, protagonista della danza mondiale, la quale aveva avuto il coraggio e la deter- minazione di abbandonare il successo internazionale, le luci della ribalta e gli applausi dei teatri più impor- tanti del mondo, per vivere il proprio sogno d’amore in una terra nuova e straniera. Un’esistenza appartata, tra danza e amore, le cui vicende, umane e artistiche, non erano più disgiungibili da quel luogo fatato, che per lei era stato complice. Era stata una bella giornata di sole, quella, una gior- nata del tutto speciale, anticipo di una serata altrettanto speciale, per la quale la donna si stava preparando, interpretata senza apparenti emozioni, che, tuttavia, erano serpeggiate e serpeggiavano sotto lo studiato distacco di chi era abituata alla severa disciplina dei movimenti del corpo e dei moti dell’animo. La donna, infatti, come al solito, quando la temperatura esterna lo consentiva, non appena essersi risvegliata nella tardissima mattinata, aveva fatto la sua parca cola- zione, ancora in vestaglia, preparata dal fedele aiutante indiano, Shankar, sulla terrazza del suo appartamento, all’ultimo piano del palazzo di famiglia, dal quale si godeva il panorama più bello del mondo. Lo sguardo della signora, palesemente compiaciuto per quella sorprendente giornata, aveva sfiorato, quasi accarezzato, come faceva da decenni, gli elementi di quel capolavoro della Natura, senza rinunziare, come ogni mattina, di ogni giorno, in tutte le stagioni, di ammirare, per prima, la Chiesa della Santissima Annun- ziata, sottostante alla sua terrazza, in un saluto rituale, tra il sacro e il profano, segnandosi con la croce, che le ricordava il marito scomparso, a quel tempio legato da una sincera venerazione: la costa, gli anfratti, le grotte, gli scogli, ormai divenuti amichevoli, la superficie del mare e, sullo sfondo, via Caracciolo, a Napoli, le falde del Vesuvio e il cielo cilestrino, limpido come non mai. “Mahōdayā Violetta, ho molto pregato ieri sera, prima di addormentarmi, Surya, il nostro dio del sole e della vitalità, affinché le regalasse, per questo suo compleanno, una giornata piena di luce. Surya mi ha esaudito. Da noi, gli anniversari della nascita delle persone più sagge rappresentano un evento importante, una festa di tutti. Offriamo loro doni utili, in segno di rispetto, e ne riceviamo una benedizione, con l’elargi- zione delle quattro grazie: una lunga vita, un bell’a- spetto, la tranquillità e l’energia. E, poi, buttiamo, in segno di purificazione, l’acqua addosso ai passanti...”. La donna, totalmente immersa nello scenario del golfo, a quelle ultime parole sembrò scuotersi, non rinunziando, nel rispondere, all’acquisito humour anglosassone: “Shankar, mica vorrai buttare l’acqua dalle fine- stre? Non credo che i miei concittadini vicani apprez- zerebbero!”. “Mahōdayā, sono arrivati già molti telegrammi e tanti fiori...”. 9 “Shankar, non ti preoccupare, risponderò alle tele- fonate e ringrazierò tutti nel pomeriggio, anche il tuo dio Surya”. La voce si era interrotta, un segnale per l’aiutante, che subito si allontanò, lasciandola,

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