A Samuele 4 Introduzione Il 10 giugno 1940 la voce energica di Mussolini annuncia dal balcone di Palazzo Venezia che «la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna e di Francia»; l’8 settembre 1943 la voce rauca del maresciallo Badoglio annuncia per radio che «il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower». Dal vitalismo aggressivo alla mestizia silenziosa: in mezzo, più di tre lunghi anni e mezzo infiniti, tra sconfitte al fronte, città bombardate, pane nero, alpini che non tornano dalla Russia e paracadutisti che muoiono a El Alamein. La guerra fascista 1940-43 è l’epilogo drammatico di una stagione dove la retorica della parola oscura la ragione: ultima arrivata tra le nazioni industrializzate, l’Italia degli «otto milioni di baionette» entra in conflitto contro il mondo, prima Francia e Gran Bretagna, poi anche Unione Sovietica e Stati Uniti. La disfatta è implicita nella sproporzione tra le ambizioni imperialiste del regime e le possibilità reali di un paese che dispone di tante braccia e pochi carri armati e che per produrre armi deve prima trovare chi gli venda ferro e carbone. Alleato con la Germania di Hitler in un rapporto sospettoso, inizialmente di competizione e subito dopo di subalternità, il fascismo ne segue la parabola, sprofondando la nazione e se stesso nella rotta: «non abbiamo alternative, vincere con la Germania o perdere con essa» afferma il duce nella primavera del 1943, quando gli angloamericani hanno ormai conquistato «Tripoli, bel suol d’amore» e stanno preparando lo sbarco in Sicilia. Oggetto di numerosissimi approfondimenti storiografici su singole campagne militari, il periodo 1940-43 difetta di quadri d’insieme, per i quali in genere si rimanda al lavoro di Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-43, pubblicato quasi mezzo secolo fa. Dalla constatazione di questo vuoto della bibliografia nasce il lavoro di sintesi proposto in questo volume, dove viene tracciato il profilo del periodo seguendo tre direttrici principali. In primo luogo, le scelte politiche di Mussolini, stretto tra le accelerazioni strategiche di Hitler, le diffidenze reciproche tra Roma e Berlino, i limiti dell’economia nazionale e il peso di un’autorappresentazione ventennale che si decompone alla prova del conflitto. In secondo luogo, le operazioni militari, dalla «guerra parallela» dell’estate- autunno 1940 (la campagna sulle Alpi Occidentali, i movimenti di Graziani in Africa settentrionale e del duca d’Aosta in Africa orientale, l’attacco alla Grecia) alla «guerra subalterna» degli anni 5 successivi, con il Regio Esercito subordinato alla Wehrmacht nei Balcani, in Africa, in Russia. In terzo luogo, il fronte interno con il progressivo raffreddamento del consenso al fascismo e il venir meno del blocco sociale che lo ha sostenuto, sino alla perdita della capacità di controllo del regime (espressa dalle manifestazioni di aperta insofferenza del marzo 1943) e alla sua caduta silenziosa il 25 luglio («Ma che cos’era questo fascismo che si è sciolto come neve al sole?» chiederà Hitler). Accanto a questi percorsi che attraversano cronologicamente tutto il periodo, un approfondimento di cui si trovano ancora poche tracce nella ricerca: i crimini di guerra commessi da reparti del Regio Esercito nella lotta contro la Resistenza partigiana nei Balcani, la dottrina di impiegodella controguerriglia fissata dalla Circolare 3C di Roatta, i campi di concentramento per slavi, sino alle richieste di estradizione per crimini contro i civili avanzate a fine guerra dai governi dei paesi occupati. La conclusione è dedicata all’armistizio dell’8 settembre, ricostruito nei diversi teatri, atto finale di una guerra in cui muore l’Italia fascista. L’ambizione è che la sintesi possa servire ai più giovani, perché a ottant’anni dallo scoppio del secondo conflitto mondiale la memoria di quanto accaduto sta sfumando. La mia generazione ha avuto la fortuna di nascere quando la guerra era ormai terminata, ma le ferite che aveva lasciato bruciavano ancora e si riversavano nei racconti: nelle famiglie, nelle scuole, nelle piazze, nei mercati, dovunque si ascoltavano storie di rifugi antiaerei, o di farina comprata al mercato nero, o della ritirata nelle steppe russe. Tutti avevano vissuto la guerra, al fronte o a casa, e ne trasmettevano il ricordo in forma semplice e naturalespontanea. Attraverso quei racconti la nostra generazione è cresciuta ed è stata educata a un sistema di valori: abbiamo imparato che cos’è la pace sentendo parlare della paura per le bombe, per il passo degli anfibi sui selciati, per i giovani morti nella neve o nella sabbia; abbiamo imparato che cos’è il benessere sentendo raccontare della fame, della «tessera», dei surrogati senza gusto; abbiamo imparato che cos’è la libertà sentendo ricordare una stagione in cui, prima di parlare, bisognava guardarsi attorno per vedere se c’era qualcuno di troppo che ascoltava. Quella trasmissione generazionale di memoria, per ovvie ragioni anagrafiche, è venuta meno e il rischio, per i più giovani, è crescere pensando che tutte le garanzie di cui fruiamo oggi siano definitive: la storia dell’umanità insegna che nulla è dato per sempre e che le conquiste vengono conservate solo se si ha la consapevolezza del loro significato. Alla forza educativa delle testimonianze dirette bisogna 6 sostituire la conoscenza del passato, quella che si acquisisce attraverso lo studio della storia, le proposte dei media, le suggestioni della rappresentazione letteraria o cinematografica. Purtroppo nel nostro paese vige un sistema scolastico dove la storia è poco in onore e la storia antica ha assai più spazio della storia contemporanea. Qualsiasi studente ha sentito parlare della battaglia di Canne, o di Annibale, o di Ottaviano Augusto; pochi sanno collocare Stalingrado, lo sbarco in Sicilia, Rommel; quasi nessuno Badoglio, Ciano, Von Ribbentrop. Bisognerebbe prendere atto delle lacune e avere il coraggio di riformare radicalmente i programmi: se non è possibile dedicare maggiore tempo alla storia, allora la si studi dalla Rivoluzione francese in poi e si riducano tutti i secoli precedenti a grandi quadri d’insieme. Da storico, mi piange il cuore; da cittadino, preferisco nuove generazioni consapevoli del loro presente. E il presente è figlio del passato prossimo, non del passato remoto. 7 I La campagna delle Alpi Occidentali Una dichiarazione avventata [La campagna delle Alpi occidentali è il titolo del capitolo II] 10 giugno 1940, il balcone di piazza Venezia Lunedì 10 giugno 1940 è una giornata di sole spavaldo, ma e a Roma grava un caldo afoso: quando le vetrate si aprono e Mussolini si affaccia al balcone di Palazzo Venezia sono le 18.00 appena passate e la piazza davanti brulica di camicie nere già inzuppate di sudore. I primi gruppi sono arrivati alle 15.00, gli altri si sono allineati a mano a mano, riempiendo anche via del Plebiscito, corso Umberto (l’attuale via del Corso), via dei Fori Imperiali, la salita che porta a via Nazionale. Adesso lo schieramento è completo, fitto di facce tese, in una selva di gagliardetti, labari, vessilli, stendardi, bandiere. Pietro Capoferri, che regge la segreteria del partito, ordina il «saluto al Duce» e la folla, secondo un rito collaudato, urla in risposta: «A noi!». Il duce fissa la piazza con sguardo marziale: dietro di lui, lo stato maggiore del regime, il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, quello dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, quello della Cultura popolare Alessandro Pavolini. Subito dopo scende un silenzio grave. Tutti sanno che il duce annuncerà la guerra, tutti la vogliono e tutti la temono. Le mani appoggiate in avanti sulla pietra del davanzale, il labbro inferiore sporgente, la mascella stretta, Mussolini rotea gli occhi sulla folla guardando tutti senza vedere nessuno. Poi, da attore consumato, esordisce con la voce bassa e profonda: «Combattenti di terra, del mare e dell’aria, camicie nere della rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania, ascoltate. Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria». I grandi altoparlanti Marelli diffondono le parole con un sottofondo rauco, che è già rumore di battaglia. Il duce alterna il fragore dell’annuncio alle pause di silenzio: la raffica di una frase forte a effetto («È l’ora delle decisioni irrevocabili», ripetuto due volte [nel filmato e nell’audio ripete soltanto «l’ora» non tutta la frase però]perché penetri bene nelle coscienze), un’interruzione che attraversa la folla come un fremito, poi il boato fatale: «La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». 8 La piazza risponde con urla, applausi, cori, tricolori al vento. Un lungo minuto di frenesia, al di fuori degli schemi convenzionali delle piazze fasciste, che il duce osserva con volto immobile prima di interrompere con un cenno della mano. Difficile stabilire il confine tra l’entusiasmo convinto e l’isteria di massa. Forse quella di piazza Venezia è soprattutto una reazione liberatoria, dove i cittadini in camicia nera si contagiano l’uno con l’altro. Da quando Hitler ha attaccato la Francia tutti sanno che l’Italia fascista entrerà nel conflitto: si tratta solo di decidere quando, tra una settimana, tra un mese, dopo l’estate. Gli italiani sono stati educati per vent’anni alla guerra: nei sussidiari delle elementari, nelle vignette del «Corriere dei Piccoli» e del «Balilla», nelle pagine dei giornali, hanno letto che l’Italia fascista è erede della grandezza delle legioni romane, che la guerra è l’igiene del mondo ed esalta le nazioni giovani, che il maggior orgoglio di una madre è sacrificare il figlio alla grandezza della patria e il maggior onore di un uomo è combattere anonimo per quella stessa grandezza. «Dovere», «ardimento», «energia», «sacrificio» sono concetti che hanno sentito ripetere dai maestri a scuola, dai podestà in piazza, dai cinegiornali dell’Istituto Luce, dai gerarchi in giro per la penisola, spesso dai sacerdoti nell’omelia.
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