LA FIAT SEICENTO Per chi considera l’automobile qualcosa di più di un mezzo di trasporto a motore, qualcosa di diverso da un semplice assommarsi di ferro e lamiere, gomma, legno e leghe, la storia della Fiat Seicento è il simbolo della sua convinzione, il pilastro della sua fede. Quando l’amministratore della Fiat nell’immediato dopoguerra, Vittorio Valletta, annuncia nell’aprile del 1953 all’Assemblea degli Azionisti la preparazione di “un modello di vettura minore, ultraeconomica”, anch’egli fa un atto di fede. Tale vettura è l’obiettivo fondamentale con cui Valletta stesso si è ripresentato alla testa della Fiat nel secondo dopoguerra: l’automobile utilitaria come punto di forza dello sviluppo italiano, come elemento di consenso e di stabilità sociale, come spinta alla ripresa dei consumi, come volano della produzione industriale e perciò del benessere. Tutte queste aspettative concentrate in un'unica vetturetta… tramite la quale, vallettianamente ma potremmo dire anche fordianamente, vengono chiamati in causa anche i lavoratori, non soltanto come produttori ma come consumatori ed utenti. Una rivoluzione copernicana, nel risicatissimo e stentato panorama della società italiana. Difficile, oggi, ripensare lucidamente alla seconda metà degli anni quaranta, esaurita l’euforia per la fine della guerra mondiale. Nel gelido inverno 1945/1946 la popolazione era allo stremo, priva in molti casi della casa e dei più elementari mezzi di sostentamento. Oltre un terzo delle case erano sinistrate, la produzione agricola dimezzata rispetto all’anteguerra, quella industriale scesa a meno di un terzo, le casse dello Stato (uno Stato ancora privo di identità) vuote. Il cibo era razionato: 250 grammi di pane al giorno; mezzo chilo di pasta al mese; la carne se la poteva permettere solo chi poteva spendere 380 lire al chilo, la paga della giornata lavorativa di un operaio. Anche se l’industria, potenzialmente, era in grado sviluppare l’85% della capacità produttiva anteguerra, a questo risultato si frapponevano due ostacoli quasi insormontabili: la mancanza di valuta pregiata, la carenza di materie prime. Due ostacoli collegati tra loro: perché per incamerare valuta occorreva esportare, ma per esportare bisognava poter contare, essendo l’Italia forte nelle attività industriali di trasformazione, su materie prime, che erano acquistabili soltanto con valute pregiate, come il dollaro. Ma non sarebbe bastato riportare gli impianti industriali a funzionare come prima del conflitto: gli anni erano passati, occorreva anche rimettersi in quadro con il forte progresso tecnologico. I consumi, se di consumi si può parlare, erano impediti da un costo della vita che era salito di trenta volte rispetto al 1938, a fronte di un aumento dei salari di quindici volte. Basta confrontare gli indici dei prezzi all’ingrosso: se per il 1938 lo consideriamo pari a 100, nel 1945 era salito a 2060, nel 1946 a 2884. Per non parlare della disoccupazione; un milione e mezzo di disoccupati nel 1946, due milioni l’anno successivo. Il 1 debito pubblico che nel 1939 era di 145 miliardi di lire aveva raggiunto nel 1946 i 906 miliardi. Non erano serviti ad impedire la voragine né il “Prestito Pubblico per la Ricostruzione”, lanciato dal Ministro del Tesoro Epicarmo Corbino, né un credito di 130 milioni di dollari del governo militare alleato, né gli aiuti in cibo, materie prime, macchinari e medicinali dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration). E neppure l’arrivo delle navi cariche di grano, giunte in Italia grazie a Fiorello La Guardia, il sindaco di New York che non dimenticò mai le sue origini. Poco più di un pannicello caldo l’ulteriore prestito di 100 milioni di dollari ottenuto dal nostro capo di governo, Alcide de Gasperi, nel suo primo viaggio a Washington del gennaio 1947, compiuto con un cappotto imprestato da Attilio Piccioni, perché egli stesso non ne possedeva uno decente. Un’Italia stracciona e allo stremo, ma dotata, riconosciamolo, di una dignità e di una forza che oggi ci paiono un miraggio. Se Valletta avesse deciso di affidare le scelte produttive della Fiat ai risultati di un’indagine di mercato, avrebbe dovuto rassegnarsi a produrre soltanto trattori e ciclomotori. Se avesse preso sul serio, come parametro di decisione, i dati sulla struttura e sulla dinamica del reddito nazionale, difficilmente avrebbe fatto quell’annuncio nel 1953. Il fatto fu che Valletta, e anche questo lo avvicina grandemente alla figura di Ford, decise di non curarsene. Anzi, decise di ribaltare il criterio: sarebbe stata la sua vettura la spinta all’accrescimento del reddito nazionale procapite, non il contrario. Quella scelta venne fatta dunque non perché i tempi erano maturi, ma per renderli tali, anche se si correva il rischio di vendere la 600 ad un prezzo che avrebbe garantito un margine di utile molto ristretto. Ci si potrebbe allora chiedere perché Valletta aspettò tanto: dieci anni tra la fine della guerra e l’effettiva uscita sul mercato della Fiat 600, dieci anni in cui la produzione di vetture utilitarie consistette unicamente nella produzione della Topolino e delle sue varianti. Una spiegazione è nel gigantesco volume di capitali che risultò necessario impegnare per produrre un modello in grande serie (cosa che la 500 del 1936 non era mai stata). Si erano dovuti affrontare sforzi immensi, ed indebitamenti da capogiro, sostenuti grazie agli azionisti e agli obbligazionisti. Nello stesso tempo però occorreva sostenere in maniera adeguata il livello dei salari e degli stipendi, in modo da porre le condizioni per una diffusione di massa del nuovo modello. Queste condizioni furono raggiunte nell’estate del 1953, al termine dei primi sette esercizi del dopoguerra. Già da tempo però Dante Giacosa, responsabile della progettazione, e i suoi collaboratori lavoravano al progetto della “100” (così si chiamò inizialmente la Seicento). Si era consapevoli infatti della necessità di sostituire la 500 C. La 500 C Giardiniera, con carrozzeria in legno e masonite, aveva sì avuto grande successo, ma non poteva essere prodotta in grandi quantità ancora per molti anni. Si puntava ad un veicolo moderno, a quattro posti, con un peso non superiore a quello della 500 e costo inferiore. Un bel problema! Giacosa si rese rapidamente conto, come ci racconta nelle sue affascinanti memorie, che 2 per raggiungere entrambi gli obiettivi occorreva abbandonare lo schema tradizionale (motore anteriore, trazione posteriore) e adottare la sistemazione del gruppo motore-trasmissione o tutto avanti o tutto dietro. Partì dalle dimensioni dell’abitacolo, che doveva essere sufficiente ad accogliere quattro persone (e usò se stesso come manichino di riferimento), per arrivare alla forma esterna. Poi, i costi, e quindi il peso del materiale impiegato nella costruzione. Fu la valutazione del costo a fargli scegliere la disposizione del tutto dietro. La “tutto avanti”, che gli avrebbe consentito un grande spazio per la carrozzeria, risultava di costruzione nettamente più cara di quello che gli era stato concesso. La vettura con il motore dietro, essendo più leggera, era anche più economica. Molti anni dopo, nel presentare la Seicento ai suoi lettori, Auto Italiana scriverà proprio di questo aspetto (10 marzo 1955): “Con tale sistema (del tutto dietro, n.d.a) si ritorna ad una più equilibrata ripartizione del carico sui due assi, che era stata gradatamente sacrificata sovraccaricandosi sempre più l’anteriore, di fronte all’opportunità di “centrare a ponte” il carico dei passeggeri…In secondo luogo il motore posteriore riduce il peso: non solo perché viene abolito l’intero albero di trasmissione con i suoi supporti e giunti, e il ponte oscillante; ma perché semplifica tutta la costruzione della cassa, sottraendola alle sollecitazioni e trepidazioni del motore e della trasmissione. Tutto l’insieme della vettura, antistante all’asse motore, diventa, più che una vera e propria macchina, una specie di leggera cabina mobile, propulsa da tergo: si semplificano tutti i problemi costruttivi e in primo luogo il fattore costo. In terzo luogo il motore posteriore migliora nettamente l’abitabilità, consentendo maggiore spazio netto disponibile, in lunghezza e in altezza, con misure esterne d’ingombro inferiori a quelle della corrispondente vettura classica. Infatti il motore nella coda non solo non costringe ad allungarla, ma l’accorcia, perché occupa sempre meno spazio del motore classico con annessi e connessi…In quarto luogo il motore posteriore migliora la silenziosità e la piacevolezza di utenza: non solo il rumore si lascia alle spalle: ma vengono eliminati radicalmente, con la soppressione della fonte, gli inevitabili ed altrettanto molesti rumori dell’albero di trasmissione”. Scelta dunque la posizione del tutto dietro, Giacosa si concentrò sul raffreddamento, che in un primo tempo disegnò ad aria, e il cambio, che ricalcò dal rivoluzionario cambio usato a suo tempo sulla Cisitalia. Doveva essere un cambio automatico o semiautomatico, in modo da eliminare il pedale della frizione e rendere ancora più facile l’uso della vettura, che si immaginava acquistabile anche da chi fino a quel momento non aveva mai guidato. In realtà questo cambio si rivelò molto più difficoltoso del previsto e lo stesso Salamano, ex pilota di vaglia e collaudatore per eccellenza delle vetture Fiat, stentava a raccapezzarcisi. Giacosa dovette arrendersi e rassegnarsi ad un gruppo motore tradizionale, a quattro cilindri (il disegno iniziale ne prevedeva due), raffreddato ad acqua, con un cambio normale a quattro marce. Nel gennaio del 1953 le specifiche del progetto erano: motore a 3 quattro cilindri di 570 cc, potenza 16 CV, peso previsto della vettura a vuoto 515 kg, velocità massima 88 km/h. Pur essendo uno schema tradizionale, parecchi erano i dettagli di grande originalità. Per esempio, non potendo inserire tra il motore e la parete posteriore un ventilatore e un radiatore, se non allungando la vettura (con un conseguente aumento del peso e perciò del costo), Giacosa sistemò il radiatore a lato del motore, con il ventilatore calettato sull’alberino della pompa dell’acqua, che avrebbe spinto l’aria per la ventilazione del radiatore in avanti, in senso contrario al moto della vettura.
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