Bruno Ceccobelli, Bilance fatali Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 Claudio Vicentini, La teoria della recitazione. Il distacco dell’attore dal personaggio, p. 1; Lorenzo Mango, Lo sguardo di Nataša. L’identità del personaggio come macchina scenica, p. 16; Antonio Pizzo, L’attore e la recitazione nella motion capture, p. 38; John Dower, Il lavoro con la motion capture: il regista e l’attore. Intervista di Antonio Pizzo, p. 70. Materiali Salvatore Margiotta, Il paradigma dell’attore. L’esperienza artistica di Carmine Maringola, p. 82; Carmine Maringola, La costruzione del personaggio nel teatro di Emma Dante. Intervista di Salvatore Margiotta, p. 96. I Libri di AAR Jean Mauduit-Larive, Corso di declamazione diviso in dodici incontri. Traduzione, introduzione e note Valeria De Gregorio Cirillo. Acting Archives Review n. 11, maggio 2016 Direzione Claudio Vicentini e Lorenzo Mango Direttore responsabile Stefania Maraucci Comitato scientifico Arnold Aronson (Columbia University), Silvia Carandini (Università di Roma, La Sapienza), Marco De Marinis (Università di Bologna), Mara Fazio (Università di Roma, La Sapienza), Siro Ferrone (Università di Firenze), Pierre Frantz (Université Paris Sorbonne), Flavia Pappacena (Accademia Nazionale di Danza), Sandra Pietrini (Università di Trento), Willmar Sauter (Stockholms Universitet), Paolo Sommaiolo (Università di Napoli “L'Orientale”) Redazione Review: Salvatore Margiotta, Mimma Valentino, Daniela Visone; Essays: Laura Ricciardi, Barbara Valentino Peer Review. Gli articoli vengono esaminati da revisori esterni. Gli articoli richiesti e concordati dalla direzione della rivista secondo il programma editoriale sono sottoposti alla valutazione interna dei direttori o dei membri del comitato scientifico, secondo le competenze. ______________________ Rivista semestrale Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 82 del 21/10/2010 ISSN: 2039-9766 www.actingarchives.unior.it Sito: www.actingarchives.it Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 Claudio Vicentini La teoria della recitazione. Il distacco dell’attore dal personaggio La regola del distacco Nella considerazione ecologica delle nozioni usate nello studio della recitazione si collocano, accanto all’identificazione, due concetti chiave, il ‘distacco’ (l’attore rappresenta il personaggio manifestandone i sentimenti senza provarli), e la ‘dislocazione’ (l’attore mentre recita rende visibile la propria presenza accanto alla figura del personaggio).1 Tuttavia anche la dislocazione viene per lo più indicata come distacco, e l’impiego delle due nozioni, sovente confuse, si è ampiamento diffuso in omaggio a una sorta di vulgata della teoria brechtiana dove il distacco e la dislocazione appaiono connessi nella produzione dell’effetto di straniamento (far apparite straordinari e quindi oggetto di attenzione critica fatti e comportamenti consueti), al punto da essere sovente intesi come sinonimi, o quanto meno come tecniche inseparabili. Le origini e lo sviluppo delle sue nozioni sono però indipendenti. Sono nozioni elaborate tra la metà del settecento e gli inizi dell’ottocento nel tentativo di rispondere a un problema assolutamente lontano dalla nozione di straniamento (che è inesistente prima di Brecht), e apparentemente insolubile: come rendere sulla scena un personaggio inadatto a manifestarsi nella realtà umana dell’attore. Nelle risposte a due diverse forme di «irrappresentabilità» del personaggio veniva messa a punto prima la nozione di distacco, e poi quella di dislocamento. Il distacco è teorizzato per la per la prima volta nell’Art du Théatre à Madame *** di Antoine-François Riccoboni apparso nel 1750. Secondo una convinzione indiscussa, posta a fondamento della teoria della recitazione fin dalle prime formulazioni d’epoca greca e romana, l’adesione emotiva è un aiuto prezioso o addirittura indispensabile alla resa delle espressioni che l’attore manifesta interpretando il personaggio. All’adesione emotiva erano attribuite due funzioni: imprimere spontaneamente sul volto e nell’atteggiamento l’espressione richiesta dalla parte, e caricarla di un’energia particolare che contagiava lo spettatore coinvolgendolo nello stato emotivo rappresentato. Contro questo postulato Antoine-François Riccoboni muoveva un’obiezione destinata a diventare celebre. Se un attore prova davvero il sentimento che 1 Sulla considerazione ecologica delle nozioni impiegate nello studio del teatro vedi C. Vicentini, Per un’ecologia delle nozioni di lavoro. L’identificazione dell’attore con il personaggio, «Acting Archives Review«, n. 7, maggio 2014 (www.actingarchives.it). © 2016 Acting Archives 1 www.actingarchives.it AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016 manifesta perde la capacità di controllare le proprie espressioni, rendendole false e confuse, o addirittura pericolose. Questo pericolo, ma solo sporadicamente e in termini assai generici, era già stato considerato dalla letteratura precedente. Si ricordava il tragico episodio di Montdory colpito da paralisi sulla scena del Théâtre du Marais nell’agosto del 1637 mentre pronunciava con eccessiva veemenza le imprecazioni del personaggio di Hérode nella Mariamne di Tristan. Si ricordava anche la fine di Montfleury morto trent’anni dopo in seguito ai furori declamatori con cui aveva interpretato la follia di Oreste nell’Andromaque di Racine. Ma non era necessario arrivare a tanto. Le insidie dell’emozione potevano avere effetti meno tragici ma comunque devastanti. Nelle Réflexions sur l’eloquence de ce temps del 1671 René Rapin citava il caso di un avvocato trascinato dal suo discorso al punto da ingarbugliare la pronunzia e diventare incomprensibile. In tempi più recenti Grimarest aveva osservato che un’eccessiva passione, realmente provata da un avvocato, poteva alterarne la voce e impedire un’efficacia scelta delle parole, e Jean Poisson aveva ribadito l’esigenza di regolare l’adesione emotiva nel parlare in pubblico perché altrimenti la voce si soffocava e la memoria si smarriva.2 Si trattava però dei danni provocati da un evidente eccesso emotivo. Con Antoine-François Riccoboni la questione si poneva in termini diversi. Non riguardava soltanto un’eventuale sovrabbondanza di adesione sentimentale. Si stabiliva piuttosto una regola assoluta che escludeva sempre e comunque la partecipazione interiore, più o meno intensa che fosse: «se si ha la sfortuna di provare realmente quello che si deve esprimere», stabiliva l’Art du Théatre à Madame ***, «non si è in grado di recitare». Veniva proposto un esempio che doveva apparire inequivocabile: Se in un punto di intenerimento vi lasciate trasportare dal sentimento della vostra parte, il vostro cuore si troverà ad un tratto serrato, la vostra voce si soffocherà quasi del tutto; se cade una sola lacrima dai vostri occhi, dei singhiozzi involontari impacceranno il gosier, vi sarà impossibile proferire una sola parola senza dei singulti ridicoli. Se dovete allora passare subitamente alla più grande collera, ciò vi sarà forse possibile? No, senza dubbio. Cercherete di rimettervi da uno stato che vi priva della facoltà di proseguire, un freddo mortale si impadronirà dei vostri sensi e per qualche istante non reciterete più che macchinalmente. Cosa ne sarà in quel momento dell’espressione di un sentimento che richiede molto più calore e forza del primo? Quale orribile scompiglio ciò non produrrà nell’ordine delle sfumature che l’attore deve percorrere affinché i sentimenti appaiano legati e sembrino nascere gli uni dagli altri?3 2 R. Rapin, Réflexions sur l’eloquene de ce temps, Paris, Barbin et Muger, 1671, pp. 69-70 ; J.-L. Le Gallois de Grimarest, Traité du Récitatif, Paris, Jacques Lefèvre et Pierre Ribou, 1707, p. 118 ; J. Poisson, Réflexions sur l’art de parler en public, s.l., 1717, p. 25. 3 A. F. Riccoboni, L’arte del teatro, tr. it., introduzione e note di E. De Luca, Napoli, Acting Archives, , 2015, p. 182, www.actingarchives.it (Books). 2 Claudio Vicentini, Il distacco dell’attore dal personaggio Dunque anche gli stati d’animo moderati, come l’intenerimento – diversi dagli impeti del furore tragico, dall’odio, dalla disperazione – trascinano l’attore in una sorta di confusione espressiva. Poi Antoine-François Riccoboni passava a un secondo esempio: Un attore entra in scena, le prime parole che sente devono causargli una sorpresa estrema, coglie la situazione e tutto a un tratto il suo viso, l’aspetto e la sua vice marcano uno stupore da cui lo spettatore è colpito. Può egli veramente essere sorpreso? Egli conosce a memoria ciò che gli verrà detto: giunge a bella posta perché glielo si dica.4 La conclusione, di nuovo, era chiara. Esistono circostanze e scene in cui l’adesione emotiva è impossibile. Il distacco inteso come regola assoluta della recitazione veniva ribadito nel Paradoxe sur le comédien di Diderot, composto tra il 1773 e il 1777 e pubblicato parecchio tempo dopo, nel 1830.5 Qui le considerazioni e gli esempi si moltiplicavano e riguardavano due generi di argomenti assai diversi. Gli argomenti del primo genere sottolineavano l’inaffidabilità dell’adesione emotiva. Nessuno può decidere di provare un sentimento quando vuole, e dunque, osservava Diderot, nessun attore potrebbe produrre l’espressione dettata dalla parte nel preciso momento in cui viene richiesta dallo sviluppo del dramma.6 Inoltre, affidandosi alla propria sensibilità emotiva, l’attore sarebbe soggetto alle interferenze dei sentimenti della sua vita privata che turberebbero lo stato interiore necessario alla resa del personaggio: «avrà anch’egli un padre, una madre, una moglie, dei figli, dei fratelli»
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