GIUSEPPE GHIGI LA MEMORIA INQUIETA Cinema e resistenza Giuseppe Ghigi La memoria inquieta. Cinema e resistenza © 2009 Libreria Editrice Cafoscarina ISBN 978-88-7543-222-5 Prima edizione febbraio 2009 Libreria Editrice Cafoscarina Ca’ Foscari, Dorsoduro 3259, 30123 Venezia www.cafoscarina.it Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma, meccanica, elettronica, fotocopiata, o altro, senza il preventivo permesso scritto dell’editore. INDICE UNA MATTINA… 7 MI SON SVEGLIATO… L’ALBA. LA COSTRUZIONE DEL MITO: 1943-1951 27 HO TROVATO L’INVASOR… ANNI SESSANTA: L’ANTIFASCISMO DEI CAMALLI 111 A CONQUISTARE LA ROSSA PRIMAVERA… GLI ANNI DELLA RIVOLTA 161 FISCHIA IL VENTO, URLA LA BUFERA... L’ULTIMA FASE. I VINTI 215 FILMOGRAFIA 259 BIBLIOGRAFIA 339 UNA MATTINA… In Ferie d’agosto di Paolo Virzì (1995), uno dei perso- naggi canta alla figlia Bella ciao, come faceva quando era piccola per addormentarla. Nell’Italia degli anni novanta l’inno della resistenza è diventato una ninna nanna. Fin qui ancora nulla di seriamente preoccupante, ma il grave accade quando la bambina, dopo poche battute, se ne va annoiata con un: «Che palle, papà…». Bella ciao è, dun- que, roba da vecchi nostalgici, un reperto archeologico: come la resistenza. Più di trent’anni prima, in pieno boom economico, Dino Risi aveva messo alla berlina la società italiana dei neo arricchiti privi di memoria storica, grezzi e qualun- quisti. In Scenda l’oblio, uno degli episodi de I mostri del 1963, in pochi minuti il regista sintetizza l’atteggiamento del pubblico nei confronti della resistenza e di quel cine- ma che ancora si ostina a raccontarla. Siamo in un cine- matografo; sullo schermo un soldato nazista in sidecar entra in scena incrociando dei militari tedeschi che stanno per fucilare dei prigionieri civili. Nella platea del cinema, tra gli spettatori, vi è una coppia borghese: lei ostenta una stola di pelliccia, è molto truccata e gioca indolente con un grosso anello al dito; lui indossa un gessato scuro, ha i capelli neri impomatati e al polso un vistoso orologio d’oro. L’uomo estrae dalla giacca un portasigarette d’oro e offre da fumare alla donna, che rifiuta. I soldati, intanto, ammassano contro il muro i prigionieri; uno di questi cerca di fuggire, incitato dai compagni, ma una raffica di mitra lo uccide. Nella platea, lei sbadiglia e lui fuma sen- za emozione. Anche il giovane ufficiale tedesco fuma, mentre ordina annoiato: «Feuer!». I soldati sparano sui prigionieri e si allontanano, lasciando dietro di loro un mucchio informe di cadaveri e il pianto di un bambino. La coppia borghese non modifica la propria indifferenza. Lui si china a parlare alla donna che appare annoiata: «Ecco, vedi: il muretto della nostra villa lo vorrei proprio come quello. Semplice: solo con le tegoline sopra». L’ac- condiscendente risposta di lei, «Sì... sì...», giunge fuori campo, sull’inquadratura dei cadaveri. Con il solito acume sociologico, Risi si diverte a met- tere in commedia l’atteggiamento qualunquistico che ser- peggia da sempre nella società italiana ed ora involgarito dall’incipiente benessere sociale. Quei “mostri” nascono ben prima del boom economico: sono i prodotti del ven- tennio fascista che ha anestetizzato le coscienze politiche e il risultato di un dopoguerra che, dopo una fugace fiammata etica, ha riaddormentato velocemente il paese nella comoda culla democristiana senza rielaborare il lut- to della dittatura. L’ironia di Risi è rivolta anche agli ste- reotipi del cinema neorealista-resistenziale. La breve se- quenza che si proietta in Scenda l’oblio è un condensato di luoghi comuni: una pattuglia di cinici soldati tedeschi trucida civili innocenti e al massacro sopravvive un bam- bino piangente (è la citazione evidente del finale di Paisà di Roberto Rossellini). 8 La resistenza è diventata noiosa celebrazione neoreali- sta e il fascismo addirittura una realtà dimenticata: «Mus- solini? Chi? Il padre del pianista?», chiede la protagonista della Voglia matta di Luciano Salce (1963). Mussolini e la lotta di liberazione sono ormai fantasmi del passato an- che un po’ fastidiosi, come il cinema neorealista che si ostina a mettere in scena una realtà capace di turbare le coscienze narcolettiche degli italiani dell’età della Vespa e dei “poveri ma belli”. In “Giochi di società”, una sce- neggiatura inedita di Ennio Flaiano del 1959, tre uomini di mezz’età, ben vestiti, dall’aria borghese e tronfia, e- scono da un cinema dove si proietta Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. «Ma chi è quel cretino che ti ha detto che è un bel film?», domanda uno di loro. «Mio figlio. Va sempre al cineclub. Dice che è il film che ha avuto più premi al mondo», risponde l’altro. «Bella figura ci fac- ciamo all’estero. Baracche, miseria e ladri», ribatte il ter- zo. «Ti ricordi quando De Sica cantava Parlami d’amore Mariù? Allora era divertente… adesso fa il comunista»1. Ne I nostri anni di Daniele Gaglianone (2000), Nata- lino, anziano e disilluso partigiano che vive solitario in montagna, al documentarista che gli chiede che cosa sia stato lo spirito della resistenza, risponde: «Oggi questa storia interessa poco a noi che l’abbiamo vissuta, figu- riamoci agli altri! Non è rimasto niente. Lapidi, corone rinsecchite, bei discorsi. Non frega più niente a nessuno». Non c’è ironia: è lo stato delle cose nell’Italia della se- conda repubblica. La citazione più potente è quella di Buongiorno, notte di Marco Bellocchio del 2003. Chiara, brigatista rossa, guarda dallo spioncino della cella Aldo Moro, e la figura dello statista democristiano si alterna alle immagini del 1 I dialoghi della sceneggiatura inedita di Ennio Flaiano sono riportati in GIAN PIERO BRUNETTA, Cent’anni di cinema italiano. 2. Dal 1945 ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 212. 9 finale di Paisà quando i soldati tedeschi uccidono cru- delmente i partigiani gettandoli nell’acqua del Po. Il mon- taggio visivo è commentato da brani dalle “Lettere di condannati a morte della resistenza”. È il dubbio di Chia- ra e del regista: i metodi brigatisti non sono per caso e- guali a quelli dei nazisti, non usano la stessa “ragion poli- tica” del nemico? Bellocchio cita le immagini di Rossel- lini, diventate memoria collettiva, ad indicare un ethos cinematografico e umano che si contrappone al presente: i brigatisti rossi stanno tradendo i valori stessi della resi- stenza, valori per cui credono di combattere. Bellocchio vuole restituire al cinema quell’ethos perduto con un montaggio ejzenštejniano, antinaturalistico, “resistente” cercando di evitare la retorica e lasciando che le immagi- ni da sole pongano domande. La resistenza, quella vera, appare nel film altrove: è il momento del ricordo del padre partigiano, quando i fami- gliari e i vecchi compagni della lotta di liberazione riuniti assieme a tavola cantano Fischia il vento. È la fotografia di un passato etico perduto, di valori come libertà e giu- stizia ridotti a una canzone da fine pasto celebrativo e al contempo il ricordo di una possibilità etica. Lo sguardo tenero di Chiara, che si apre in un sorriso, è di chi comin- cia a capire gli errori politici della propria generazione nel confronto con il passato. La comprensione dell’im- passe non produce tuttavia cambiamenti: il rituale della violenza deve andare avanti e, per le Brigate rosse, Aldo Moro deve essere ucciso. È la paralisi dei tempi. Se la storia è sempre il progredire di passi avviati in preceden- za, nella società degli anni settanta si è invece chiusa in una logica senza via di scampo né di progressione: «Né con lo stato, né con le Br». All’oblio sociale della resistenza, varie generazioni di registi hanno risposto nel tempo tentando di rianimarne la memoria e usando quel punto nodale della nostra storia 10 come strumento del dibattito politico e, negli ultimi anni, come pietra di paragone con un periodo in cui i valori fondanti della democrazia antifascista sono rimessi in di- scussione. Che la lotta di liberazione sia un “oggetto in- gombrante” e irrisolto, è provato anche dalla continuità con cui il cinema italiano la racconta sin dai primi giorni di libertà, con parte del paese ancora sotto dominazione tedesca, passando poi per gli anni del boom economico, del sessantotto, e della seconda repubblica. Dapprima è testimonianza etica, cinema della, più che sulla resisten- za, e poi affermazione di appartenenza e di lotta politica, ricostruzione di memoria, volontà di revisione, ma anche epica, monumentalizzazione, celebrazione retorica, “ci- nema resistente”. È curioso, ma non casuale, che le fasi in cui i cineasti decidono di affrontare tematiche resistenzia- li corrispondano a particolari momenti politici e anche a ben determinate stagioni produttive del cinema italiano: il neorealismo, la commedia all’italiana, il cinema d’impe- gno civile, la crisi intimistica, la fiction di stile televisivo. La storia del cinema resistenziale si intreccia, di fatto, con altre storie, compresa quella del cinema italiano tout court. È necessario preliminarmente delimitare i termini temporali e tematici del nostro lavoro. Per resistenza in- tendiamo il movimento armato e politico contro il nazifa- scismo che si sviluppa nell’Italia centrale e settentrionale dopo l’8 settembre del 1943 e si conclude nella primavera del 19452. Definiamo pertanto cinema resistenziale solo quei lungometraggi che hanno un riferimento a fatti rela- tivi a questo periodo, estendendo la periodizzazione a qualche film che racconta ciò che è accaduto dopo il 25 aprile come conseguenza della lotta di liberazione (non 2 Cfr. GIANFRANCO PASQUINO (a cura di), La politica italiana – Dizio- nario critico 1945-95, Laterza, Roma-Bari 1995. La voce “Resisten- za” è di ORESTE MASSARI. 11 prenderemo perciò in considerazione le opere che trattano della resistenza al fascismo prima del 25 luglio del 1943).
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