Vincenzo Camuccini e i Maestri dell’Accademia di San Luca Il racconto storico nella pittura dell’Ottocento a cura di Rocambole Garufi Vincenzo Camuccini Direttore della romana Accademia di San Luca, dove Sebastiano Guzzone fu allievo diverse volte premiato, Vincenzo Camuccini ebbe un’importanza notevolissima nell’impostazione “teatrale” dei quadri italiani. Si pensi, per capirlo, ai “Vespri siciliani” del veneziano Francesco Hayez, tanto frainteso da Giulio Carlo Argan nel suo sopravvalutato manuale (L’arte moderna). In effetti, mettere a paragone la pittura di un David con la coeva pittura italiana appare piuttosto scorretto, se si tiene conto della cultura dei due popoli. L’Italia, più che in una dimensione storica, ha trovato la sua vera identità nello spettacolo, inteso come “recita” della Storia e dei valori condivisi. L’Italia è la terra del melodramma e della novellistica (si pensi, per l’Ottocento al Di Giacomo, al Fucini, al Verga… fino ad arrivare allo stesso Pirandello). Non c’è, in Italia, il comune sentire dei forti scontri sociali o identitari. Possono esserci vampate ribellistiche, ma certamente non la sistematica, e troppo spesso tragica, coerenza dei francesi, dei russi, dei tedeschi. Guzzone ne fu un interprete eccelso – superando lo stesso Camuccini e, in parte, lo Hayez -, perché cosciente delle dimensione “colloquiale” che da noi ha il discorso artistico. Solo alla luce di questa premessa vale la pena di riscoprirne l’opera… soprattutto mettendo da parte i principali nemici di ogni vera cultura: i narcisismi provinciali, le arbitrarie superbie delle caste culturali, la barbarie di essere sordi alle voci non acquisite al sistema. (Rocambole Garufi) “Guido Reni gli suggerisce l’equilibrio dinamico dei gruppi; i quali, violentemente percossi da luci e ombre obliquamente proiettate, traducono in spettacolo propriamente teatrale quell’eco del naturalismo caravaggesco ancora percettibile in tanta parte del primo Settecento romano. Ne risulta una declamatoria dignità, un’aspirazione a classico rigore, che non diventa (come nel Marat davidiano) eloquente espressione di appassionato impegno ideologico, così come non la sfiora l’inquietudine fantastica dei chiaroscuri preromantici. Quegli schizzi, tecnicamente affascinanti per la bella sicurezza del tratto, riflettono, in sostanza, il clima culturale in cui Vincenzo Monti pochi anni prima aveva elaborato l’Aristodemo e il Caio Gracco […]e intanto si cimentava onorevolmente con la recente tecnica della litografia (IDioscuri). Fece il ritratto di Maria Luisa di Borbone (Pitti) e per la stessa dipinse Cornelia madre dei Gracchi(Lucca, Pal. ducale); seguirono le Storie di Attilio Regolo per casa Capeletti, a Roma; il Furio Camillo del palazzo reale di Genova”(Anna Bovero – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 17 (1974) Vincenzo Camuccini (1771 – 1844), Attilio Regolo ritorna a Cartagine, stampa, Museo Vincenzo Camuccini (1771 – 1844), Virgilio legge l’Eneide ad Augusto, stampa, Museo Vincenzo Camuccini, Cornelia e i Gracchi, edizioni di Seb. Avanzo – Paris, stampa, Museo Vincenzo Camuccini, L’incorruttibile console Manio Cùrio Dentato, stampa, Museo Vincenzo Camuccini, Collattino celebrante le virtù di Lucrezia offesa da Tarquinio, stampa, Museo Vincenzo Camuccini, Le donne consegnano i tesori ai vincitori, Edizioni di Seb. Avanzo – Paris, Museo Vincenzo Camuccini, La coragiosa Timocle davanti ad Alessandro il Grande, stampa, Museo Ignoto, Città espugnate da Carlo Gustavo Wrangeli (24 ottobre 1657). Stampa, Museoe Vincenzo Camuccini Figlio di Giovanni Battista, commerciante in carbone di famiglia ligure, e di Teresa Rotti, nacque a Roma il 22 febbr. 1771. Incoraggiato e materialmente sostenuto dal fratello maggiore Pietro, iniziò il suo tirocinio pittorico nello studio di D. Corvi, stimato maestro e accademico di S. Luca. Incline agli effetti drammatici dei contrasti di luce e d'ombra, di lontana ascendenza caravaggesca, il Corvi era tuttavia ossequiente alle soluzioni classicheggianti proposte alla pittura del Settecento romano dalla preponderante autorità di Pompeo Batoni; e agli alunni trasmise i modi tipici di quell'accademismo, tutt'altro che dogmatico, come dimostrano gli esiti diversi di un Landi e di un Cades, condiscepoli del Camuccini. Questi, in ogni modo, alieno da nostalgie settecentesche come da umori preromantici, imboccò senza esitare la via del classicismo e temprò la sua cultura non tanto sugli esempi del Batoni, quanto nello studio sistematico dell'antico e del Cinquecento: studio attestato da disegni numerosissimi e anche da qualche dipinto. A prescindere dal Sacrificio di Noè, esercitazione di scolaro quattordicenne, convien citare, come già significativa dell'interpretazione neoclassica di Raffaello, la copia della Deposizione (1789) eseguita dal C. per lord Bristol (Roma, propr. Camuccini). A fondare teoricamente la cultura del giovane pittore provvedevano, fra il 1780 e l'84, le Opere del Mengs, edite dal D'Azara, gli scritti di F. Milizia e, soprattutto, la Storia delle arti del disegno presso gli antichi del Winckelmann, allora appunto tradotta in italiano; e vi provvedeva anche l'attività instancabile di Ennio Quirino Visconti, con le prime, esemplari illustrazioni del Museo Pio Clementino (1783-1807). Fra i pittori che in quei giorni tenevano il campo, il C. dovette seguire sopra tutti Gavin Hamilton come l'interprete più ortodosso del "bello ideale"; e, nella scia dell'inglese, egli si trovò a dipingere, nel 1790, la scena di Archelao con Paride fanciullo per un soffitto della villa Borghese, rinnovata in quegli anni sotto la direzione dell'Asprucci, e palestra dei giovani artisti romani. Degli anni successivi conserviamo un folto gruppo di schizzi a penna acquerellati (Cantalupo, coll. Camuccini) e alcuni bozzetti (ibid.; Roma, Gall. naz. d'arte moderna; Napoli, Gall. naz. di Capodimonte) a documentare la lunga e complessa elaborazione delle opere che dovevano assicurare al C. l'ammirazione del pubblico e far di lui il protagonista della pittura ufficiale in Roma: la Morte di Virginia (1793-1804) e la Morte di Cesare (1793-1807). Poco ci dicono oggi le due vaste, scolorite, troppo rilisciate composizioni, esposte a Napoli, nella Galleria nazionale di Capodimonte; ben altrimenti interessanti riescono i bozzetti, rapidi e vivaci nell'estrema semplificazione delle forme, e ancor più i disegni, le "prime idee" che svelano chiaramente le profonde radici culturali del pittore nel classicismo del Seicento romano: poiché alla prospettiva raffaellesca egli non giunge per via diretta, ma per il tramite del Domenichino e del più severo Poussin, così come Guido Reni gli suggerisce l'equilibrio dinamico dei gruppi; i quali, violentemente percossi da luci e ombre obliquamente proiettate, traducono in spettacolo propriamente teatrale quell'eco del naturalismo caravaggesco ancora percettibile in tanta parte del primo Settecento romano. Ne risulta una declamatoria dignità, un'aspirazione a classico rigore, che non diventa (come nel Marat davidiano) eloquente espressione di appassionato impegno ideologico, così come non la sfiora l'inquietudine fantastica dei chiaroscuri preromantici. Quegli schizzi, tecnicamente affascinanti per la bella sicurezza del tratto, riflettono, in sostanza, il clima culturale in cui Vincenzo Monti pochi anni prima aveva elaborato l'Aristodemo e il Caio Gracco. Il Monti, che era in rapporti personali con il C., abbandonò Roma durante la rivoluzione del 1798; anche il pittore se ne allontanò temporaneamente e, consigliato forse dall'amico P. Benvenuti, se ne andò a completar la propria cultura in Firenze, dove conobbe Luigi Sabatelli. Cozì si compiva quel cerchio di strettissimi rapporti e scambi di esperienze che già si era delineato con l'amicizia fra il C., il Bossi e l'Appiani. Passata la tempesta, il C. rimpatriava, e la sua fama crescente lo faceva accogliere, nel 1802, nell'Accademia di S. Luca, dove resta un suo Ritrovamento di Paride (il bozzetto, conservato a Londra, propr. sir A. Blunt, è stato esposto nel 1972 alla mostra londinese The Age of Neo- Classicism: vedi catal., n. 40, p. 26). L'anno successivo Pio VII nominò il C. direttore dei mosaici di S. Pietro (Arch. della Rev. Fabbr. di S. Pietro: I piano, serie 3, pacco 14, f. 3171, ed egli fornirà per il transetto della basilica il cartone dell'Incredulità di S. Tommaso (Guattani, I, pp. 36 s.). Principe dell'Accademia di S. Luca dal 1806 (benché non avesse ancora l'età richiesta dallo statuto), il C. era ormai l'incontrastato dittatore della pittura romana. I quadri di soggetto religioso lo dimostrano fedele agli effetti chiaroscurali del suo maestro Corvi (Presentazione al Tempio, 1806, Piacenza, S. Giovanni; G. G. De Rossi, Lettera... baron de Schubart..., s.l. né d.; P. Giordani, Sopra un dipinto..., in Scritti..., I, Milano 1856, pp. 122-132); l'artista appare inoltre brillante, anche se non profondo osservatore, nei numerosi ritratti grandiosamente impostati dei personaggi più in vista nella società e nella cultura: Thorvaldsen, 1808, Roma, Accademia di S. Luca (altra versione a Roma, propr. Di Bagno); il Duca di Blacas, 1819, Cantalupo, collezione Camuccini; l'Autoritratto (è stato distrutto dalla guerra l'Autoritratto più celebre del pittore, ill. in Capitolium, VIII [1932], p. 71, ne esiste un altro, in età matura, incompiuto, nella collezione Camuccini, a Cantalupo), o in altri pittoricamente piacevoli per le tinte prevalentemente chiare e la franchezza del tocco, sì da riuscire di una freschezza insospettabile nelle opere di tono ufficiale:
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