289 Presenze artistiche e culturali dal nord e il ruolo di Radio Monteceneri Carlo Piccardi L’accoglienza da parte di Lugano e del Ticino degli esuli e dei perseguitati dai totalitarismi nel Novecento, opportunamente evidenziata per quanto riguarda l’aspetto umanitario e politico, non può vantare uguale riscontro a livello culturale. A tale stadio, almeno per quanto concerne le personalità venute dal nord e di altra lingua, il proble- ma si inquadra nella storia del Cantone da sempre impegnato ad affermare la propria identità di minoranza in modo rivendicativo e soprattutto protettivo rispetto alla mag- gioranza germanofona preponderante per il peso demografico ed economico, che in varie fasi fu contrastata anche con successo grazie agli strumenti del federalismo iscritto nella costituzione, ma che produsse come risultato una convivenza delle minoranze nella separatezza e nell’ignoranza reciproca piuttosto che uno sviluppo culturale nel segno del dialogo e dell’approfondimento dei distinti valori.1 Un malinteso spirito di affermazione dell’italianità negli anni Cinquanta e Sessanta poteva ancora indurre i no- stri intellettuali, un Adriano Soldini ad esempio, a guardare con pregiudizio a chi come Luigi Menapace (Il sole d’Ascona, 1957) per la prima volta aveva concesso attenzione ai personaggi della cultura e dell’arte (Marianne von Werefkin, Emil Ludwig, Johannes Robert Schürch, Richard Seewald, Ignaz Epper) scesi da oltralpe nelle nostre contrade ospitali, «un paese che certo ammirano e che certo amano nel suo amabilissimo profi- lo di laghi, colline, monti, ma che sostanzialmente è loro indifferente», rimarcandone l’estraneità alla nostra cultura prima ancora di porsi il problema del nostro disinteresse verso i valori arricchenti di cui essi erano portatori.2 1 Per quanto concerne tale problematica si veda Carlo Piccardi, L’incostante percorso identi- tario della Svizzera italiana, in Evoluzione dell’immaginario nella Svizzera italiana. Simboli, valori e comportamenti di una minoranza, a cura di Remigio Ratti, «Quaderni di Coscienza Svizzera», 35, 2014, pp. 87-92. 2 Adriano Soldini, Sole d’Ascona, «Il Cantonetto», v, 5-6 (dicembre 1957), p. 106. Il perdu- rare di tale atteggiamento fu fatto notare anni dopo da Bixio Candolfi, capodipartimento cultura della Televisione della Svizzera italiana all’intenzione della Commissione programmi della corsi nel 1969: «È nota l’incapacità o almeno la riluttanza del ticinese, dell’uomo di cultura più che del montanaro che ha conosciuto l’emigrazione, a stabilire contatti, rapporti di amicizia o di lavoro, ad 290 Carlo Piccardi Una parziale apertura verso quel mondo si ebbe sull’onda della “difesa spiri- tuale del paese” che rafforzò in Ticino la posizione degli intellettuali di orientamento “elvetista” interessati a sviluppare il dialogo con le altre culture nazionali, portando Guido Calgari alla fondazione della rivista «Svizzera italiana» nel 1941. Sennonché in proposito è sintomatica la reazione di un Pino Bernasconi testimoniata da una lettera a Montale in cui l’intraprendente editore della “Collana di Lugano” si scagliava contro la «dannata congrega di bastardi [che] lavora al fine di strappare dal nostro solco nativo – l’Italia – le giovani generazioni».3 D’altra parte le difficoltà che accompagnavano il processo di integrazione del Ticino nel serto svizzero erano già evidenti nelle esitazioni di Francesco Chiesa chiamato in causa nel 1913 da Gonzague de Reynold ad allinearsi con il nascente movimento elvetista, scelta avvenuta con precisi distinguo: Noi dobbiamo studiarci di essere, nel centro dell’Europa, non la confusione di tre popoli, che sarebbe spettacolo misero e poco durevole, e la storia ci smentirebbe a breve scadenza; dobbiamo essere la libera collaborazione di tre popoli rimasti fedeli al proprio genio, non per ostinazione o diffidenza, ma per convinzione di non poter altrimenti vivere ed operare.4 Peraltro non va dimenticato che lo stesso Calgari confrontato con la realtà di Ascona, la località ticinese più esposta alle influenze nordiche, la definì «borgata ormai imba- stardita di germanesimo, di promiscue nudità e di esotiche fogge, quell’Ascona che non è ormai più ticinese, che ostenta le sue insegne e le sue mode di dubbio gusto e contamina la sua terra e il suo lago con la plutocratica prepotenza dell’ebraismo internazionale?».5 L’avventura di Vinicio Salati Pochissimi sono stati i casi di ticinesi che seppero riconoscere il valore e la portata di tali presenze, stabilendo un rapporto diretto con loro e ricavandone stimoli per un allargamento dell’orizzonte culturale e artistico. Il caso sicuramente più significativo è rappresentato da Vinicio Salati (1908- 1994), figura di intellettuale assai originale e imprevedibile, il cui spirito ribelle lo allontanò presto dagli studi regolari spingendolo all’avventura. A vent’anni nel 1928 era già a Francoforte, dove si guadagnava da vivere accompagnando al pianoforte i film muti, mentre nell’ambiente artistico tedesco conobbe Georg Grosz, Otto Dix, Otto Griebel, Hans Grundig, Lea Langer, Wilhelm Lachnit, Kokoschka, Johnny Fri- avviare utili scambi con i non pochi illustri ospiti del nostro paese. E che manchi d’altra parte un minimo di disponibilità è quasi sempre una fola. L’abbiamo constatato anche se una conferma non era necessaria, tutte le volte che abbiamo avvicinato questi ospiti per interessarli ad una collabora- zione televisiva» (Nelly Valsangiacomo, Dietro il microfono. Intellettuali italiani alla Radio svizzera, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2015, p. 86). 3 Renato Martinoni, Notizie dalla “provincia sonnolenta”. La Svizzera italiana che guarda all’I- talia, in Per una comune civiltà letteraria. Rapporti culturali tra Italia e Svizzera negli anni ’40, a cura di Raffaella Castagnola e Paolo Parachini, Firenze, Franco Cesati Editore (“Documenti d’archivio e di letteratura italiana”, 8), 2003, p. 24. 4 Francesco Chiesa, Svizzera e Ticino. Tre discorsi tenuti nel 1913, Lugano, Tip. Luganese, 1914, p. 8. 5 Guido Calgari, Il vero Ticino, Bellinzona, Leins & Vescovi, 1936, p. 25. Presenze artistiche e culturali dal nord 291 edländer. Nel 1933 a Zurigo nella cerchia dei fuorusciti fu in contatto con Ignazio Silone (1900-78), mentre questi dava alle stampe (in tedesco) Fontamara. Dal 1929 [in realtà dal 1927] al 1933 ho vissuto in Germania, come giovane gior- nalista, pianista di cinema (allora c’era il “muto”) e ho conosciuto molti artisti della Germania, specie a Francoforte, Colonia, Berlino e Dresda. Saltuariamente venivo a Zurigo e qui, verso il 1933, conobbi Ignazio Silone che mi fu presentato dal compa- gno [Hans] Oprecht, fratello dell’editore che dirigeva una libreria alla Rämistrasse, la Verlag Oprecht und Helbling. Il compagno Oprecht, che fu poi anche presidente del Partito socialista svizzero e col quale ero legato da cara amicizia, mi aveva parlato di un «taciturno giovane italiano già comunista e ora dissidente» (e del quale poi appresi vita e miracoli attraverso le conversazioni avute dal Silone stesso) che sarebbe stato contento di avere qualche rapporto con un “intellettuale” di lingua e cultura italiana, dopo essere stato in solitudine forzata a Davos, a curarsi e scrivere. I primi contatti furono piuttosto formali e “distanti” anche per il fatto che io, per motivi di lavoro, avevo degli impegni in Germania. Ma quando nella notte del 15 gennaio 1933 venni arrestato a Dresda (dopo le famose votazioni che avevano portato Hitler al potere) pensai subito alla fuga e infatti il 22 marzo di quello stesso anno potevo superare la frontiera svizzera e rifugiarmi a Zurigo. Qui, appunto, nel 1933, usciva – in tradu- zione tedesca e dall’editore suaccennato – Fontamara – il primo romanzo di Silone (tradotto da Nettie Sutro). Il volume me lo “bevvi” di un fiato e lo ripresi subito. Telefonai a Silone e ci ritrovammo, al caffé Odeon, allora frequentato anche dai primi “fuorusciti” tedeschi, quelli che avevano subito capito che la Germania stava avviandosi verso destini non certo rosei. Indi, alla “Cooperativa” della Militärstrasse, gli incontri con Silone si fecero più intensi e intimi. Debbo riconoscere che non era facile “farlo parlare”, il suo carattere di uomo chiuso, fine osservatore, di poche essenziali parole, fu la caratteristica che mi colpì immediatamente. In tema di poli- tica – essendo lui di otto anni più anziano – sapeva vedere chiaro e trarre immediate dirette conclusioni. Criticava apertamente, seppur con una nota di leggero malinco- nico sarcasmo, l’atteggiamento di certi compagni che persistevano a non voler vedere la realtà del momento e a non lottare con tenacia in difesa dei diritti democratici, specie nei confronti dei profughi! Sia per quanto riguardasse la politica da svolgere nei confronti dell’Italia fascista, sia per gli errori dei Movimenti clandestini, e da ultimo anche nei confronti del nuovo Moloch nazista che serrava da nord le fron- tiere della Svizzera. Nel giugno del 1934 entravo come redattore a «Libera Stampa» (di cui fin dal quattordicesimo anno d’età ero stato corrispondente e saltuariamente cronista, più per questioni di arte che non di politica). Chiesi a Silone di mandarmi qualche nota, qualche scritto, ciò che subito fece. Naturalmente erano corrisponden- ze gratuite. Più tardi riuscii a convincere Canevascini – il padreterno del socialismo ticinese – di pubblicare in appendice di «Libera Stampa», Fontamara. Silone era assai contento, siccome sapeva che copie di «Libera Stampa» andavano giornalmente in Italia. Si lamentò con me per l’irregolare correzione delle
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