
INDICE Voglia di comandare Parte prima IL FAZZOLETTO ROSSO L’ateo a orologeria Parte seconda LA CAMICIA NERA L’uomo della Provvidenza Parte terza IL CASCO COLONIALE L’impero di retroguardia Parte quarta IL CAPPOTTO TEDESCO Infauste sponde E-book realizzato da Filuc (2003) VOGLIA DI COMANDARE Al colpo di pistola di Sarajevo, che pochi udirono, seguì il rombo del cannone che sorprese l’Europa in pieno tango argentino, il ballo in voga. L’Italia doveva decidere se entrare in guerra, e a fianco di chi, o se rimanerne fuori. Mussolini, dopo lunghe incertezze, cominciò a parlare di neutralità «condizionata», una formula ancora ambigua, sebbene potesse significare la preferenza per un intervento accanto alla Francia. Anche gli uomini a lui più vicini non capivano bene che cosa egli volesse. A cena, una sera, alcuni suoi colleghi giornalisti gli chiesero quale fosse mai il suo pro- gramma, ed egli rispose d’impeto nel suo dialetto romagnolo, e perciò in tutta sincerità: «Me a voi cmandè!», «Io voglio comandare!». Indicava così, con una battuta quasi casuale, la sua visione della vita, una Weltanschauung, come amerà dire in seguito per nobilitare una filosofia poco sapiente, ma molto calcolatrice. Per quanto possa apparire paradossale, il suo continuo richiamo a un alto insegnamento nicciano, «Vivere pericolosamente», che divenne un suo motto di battaglia, non era che una modesta copertura per i rischi verso i quali il suo impertinente pragmatismo avrebbe potuto condurlo. Non era «volontà di potenza» la sua, per dirla ancora con il pensatore tedesco, ma più praticamente «voglia di comandare». E ciò perché l’ansia di potenza comporta anche il sacrificio per le proprie idee, mentre la smania di comando ne impone l’abbandono. Nella sequenza delle parti in cui questo libro è suddiviso, sono indicate, attraverso capi d’abbigliamento, le fasi della metamorfosi politica mussoliniana, protese o ad acquisire un potere sempre più ampio o a salvare il salvabile, quando tutto sembra perduto. Sicché le idee non sono che uno sfondo trascurabile, una sorta di quinta teatrale mobile e sostituibile secondo le esigenze del momento e gli obiettivi che si intende perseguire. Nelle sue trasformazioni, mirate di volta in volta a soddisfare la voglia di comandare, Mussolini è stato rivoluzionario e conservatore, repubblicano e monarchico, ateo e credente. È stato massimalista quando quella scelta gli consentiva il dominio sul partito socialista, e conservatore quando colse la natura moderata del paese, rendendosi conto che in Italia un estremista di sinistra non sarebbe mai arrivato al potere. È stato ateo a orologeria quando agiva tra le masse più diseredate; si è mostrato credente quando doveva consolidare il potere con l’appoggio della Chiesa. Da repubblicano ha accettato la monarchia, avendo ancora bisogno del sostegno d’un grande convincimento popolare, e tornò a essere repubblicano a Salò, Quisling di Hitler, in odio al Savoia che lo aveva licenziato. Ciò che contava era l’esercizio del comando, e non la difesa delle proprie idee che, se diventavano un ostacolo, venivano rimosse e cambiate. Mussolini stesso, con una punta di civetteria intellettuale, usava definirsi un «problemista». Si dipinse così fin dalla prima ora del fascismo. Per lui le ideologie erano «maglie di ferro» e, per fare dell’ironia, aggiunse che erano anzi «maglie di stagnola». Alla voce sul fascismo, che scrisse con Gentile per l’Enciclopedia italiana, pose in rilievo il pragmatismo e l’adattabilità della sua azione politica. Non sentendosi vincolato a pregiudiziali, egli poteva essere, per sua esplicita ammissione, reazionario e rivoluzionario: «Se il carro precipita, credo di fare bene a fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza». Gli chiedevano quale fosse il suo programma non soltanto i colleghi giornalisti, a cena, ma un po’ tutti. Egli rispondeva con imperio: «Non sono, ahimè, i programmi che difettano in Italia!». E allora che cos’era il fascismo? «Il fascismo è un movimento di realtà, di verità, di vita che aderisce alla vita. È pragmatista. Non ha apriorismi. Non promette i soliti paradisi dell’ideale». Si poteva almeno sapere chi fosse realmente Mussolini? Se lo chiedevano in continuazione, in Italia e all’estero. Gli inglesi lo chiamavano l’«uomo del mistero», e questa definizione incontrava il suo gradimento, come si arguì quando tirò le orecchie a un giornalista che aveva rivolto ai suoi lettori quella stessa domanda: «Chi è Benito Mussolini?». Lui gli mandò a dire di chiudere subito il referendum, pubblicando bene in vista questa autodefinizione: «Poiché l’onorevole Mussolini dichiara di non sapere esattamente ciò che egli è, assai difficilmente lo possono sapere gli altri». Giovanni Ansaldo, che lo aveva amato e odiato, andava compilando nel dopoguerra per il «Borghese» ancora longanesiano un dizionario degli italiani illustri e meschini. Giunto al nome di Mussolini rinviò laconicamente il lettore a quanto si sarebbe scritto su questo personaggio nel 1990. Nella scarna noticina, Ansaldo si rivolgeva al lettore «curioso o malizioso». Al lettore da lui ipotizzato è dedicato questo libro. Mussolini vi appare con le sue contraddizioni che non lo assolvono dalle sue responsabilità, poiché la condanna storica del fascismo, di cui egli è stato il fondatore e l’interprete, è senza appello. Vi appare con le luci (poche?) e le ombre (molte?) necessarie al racconto di una vicenda personale intessuta di eventi di cui un popolo è stato protagonista e vittima. Vi appare, astuto manipolatore di folle, con la spregiudicatezza che lo distingueva, con la straordinaria abilità manovriera, la vivace fantasia, l’acuta intelligenza, la debolezza degli avversari, l’acquiescenza di chi se ne serviva, il fascino e la seduzione misteriosa d’una personalità che insieme attraeva e respingeva. Nei momenti di sfiducia pensava che forse avrebbe tutt’al più meritato un busto al Pincio: «Le balie e le serve, vi si ritroveranno per i loro appuntamenti». Non si sbagliò di molto. «Vediamoci stasera sotto il balcone della buonanima», è il saluto dei romani nel darsi convegno in piazza Venezia. MUSSOLINI «MUSSOLINI BENITO. Uomo politico ( 1883-1945). Rinviamo il lettore curioso o malizioso a ciò che sarà pubblicato su questo personaggio nel 1990.» Giovanni Ansaldo [1952] Parte prima IL FAZZOLETTO ROSSO L’ateo a orologeria I Le figure di tre grandi rivoluzionari dell’Ottocento dominavano l’animo di Alessandro Mussolini, un risoluto esponente dell’internazionalismo romagnolo barricadiero, fabbro ferraio nella vita civile. E quando il 29 luglio del 1883 ebbe il primo figlio maschio dalla giovane moglie Rosa Maltoni, maestra elementare di campagna, volle fanaticamente glorificare le imprese sediziose dei tre personaggi imponendo al neonato i loro celebri nomi: Benito, Amilcare, Andrea. In cambio di una decisione smaccatamente ribellistica, la moglie pretese che il neonato fosse battezzato in chiesa. E per qualche tempo il compromesso faticosamente raggiunto mantenne tesi i rapporti fra i coniugi che peraltro si fronteggiavano esponendo sulle pareti di casa i loro idoli: da una parte un’immagine della Madonna di Pompei, dall’altra un’effigie di Garibaldi a cavallo. Scegliendo quei tre nomi, il fabbro correva col pensiero alle gesta di Benito Juàrez, di Amilcare Cipriani e di Andrea Costa. Ne era ammirato e travolto. Nelle riunioni degli internazionalisti aveva sentito parlare delle vicende che non molti anni prima avevano insanguinato il Messico e di come Juàrez, capeggiando la resistenza all’instaurazione imperiale voluta da Napoleone III, avesse vinto la battaglia facendo passare per le armi Massimiliano d’Asburgo. Più vicine ad Alessandro Mussolini erano le imprese di Amilcare Cipriani, appena d’una decina d’anni più anziano di lui. Cipriani era ancora avvolto nella gloria della spedizione dei Mille cui aveva partecipato raggiungendo l’Aspromonte. Era repubblicano, antipapalino e, al momento della nascita di Benito, già da un anno si trovava nel penitenziario di Porto Longone a scontare una condanna per propaganda sovversiva. Andrea Costa, il «romagnolino», il terzo degli eroi che infiammavano la fantasia di Alessandro, si batteva, insieme con Giosue Carducci, Filippo Turati, Mario Rapisardi, per ottenere la scarcerazione di Cipriani. A questa azione il fabbro non faceva mancare il suo apporto. Andrea Costa, con Bakunin e Carlo Cafiero, aveva inoltre progettato una insurrezione in Italia, che doveva prendere le mosse da Bologna con l’obiettivo di scatenare nel paese una rivoluzione sociale: «Su via, rovesciamo questo mondo che ci schiaccia». E il fabbro leggeva avidamente una sorta di racconto utopico che il «romagnolino» aveva pubblicato nel 1882, intitolandolo Un sogno, pari a un Louis-Sébastien Mercier casalingo. In esso Imola, la città natale dell’autore, veniva immaginata come una libera e fiorente cittadella del sole socialista. Nel clima d’un’Italia in subbuglio nasceva Benito. L’Italia aveva raggiunto l’unità politica da poco più d’un ventennio e Roma era diventata capitale del nuovo Stato appena da tredici anni. Per il settanta per cento la popolazione, che non superava i ventotto milioni di abitanti, era costituita da analfabeti. Aspro era il contrasto fra Stato e Chiesa. Soprattutto in Romagna, terra di mangiapreti, la lotta per la supremazia volgeva in rissa. In politica estera l’Italia si era affiancata all’Austria e alla Germania, dando vita alla famosa alleanza che prese il nome di Triplice. Benito nacque alle due pomeridiane
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