La Scultura Italiana All'esposizione Universale Del 1855

La Scultura Italiana All'esposizione Universale Del 1855

Università degli Studi di Trieste Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Storia e Storia dell’Arte Forme della conoscenza storica dal medioevo alla contemporaneità XXI ciclo di dottorato Storia dell'arte contemporanea Scultori italiani alle Esposizioni Universali di Parigi (1855-1889): aspettative, successi e delusioni Dottorando MATTEO GARDONIO Relatore Prof. MASSIMO DE GRASSI ANNO ACCADEMICO 2007-2008 1 Introduzione Il crescente interesse verso l'arte italiana dell'Ottocento ha portato, nell'ultimo decennio, a numerosi studi sull'argomento. In particolare, ne è emerso un momento tutt'altro che depresso o privo di idee artistiche innovative e, verrebbe da dire, coinciso con il declino del ruolo delle regie accademie, dopo la metà del secolo XIX. Eppure, isolati i nuclei migliori di quel secolo borghese (Macchiaioli, scuola di Resina, Scapigliatura), per il resto c'è ancora molto da fare. Nel caso specifico della scultura, è apparso il poderoso volume di Mario De Micheli nel 1992 che, sebbene riportasse all'attenzione degli studiosi un argomento caduto nel dimenticatoio, tendeva non tanto ad una rivalutazione degli scultori italiani dell'Ottocento, ma ad una agiografia di tali personalità. Si è dunque capito che mancava uno strumento utile per definire questi scultori, non nelle intenzioni ma nelle opere realizzate. Tali basi sono state gettate da prima nel volume degli scultori dal Neoclassicismo al Liberty di Vincenzo Vicario ed in seguito, in due edizioni, di cui la seconda accresciuta notevolmente alla luce di nuove scoperte, di Alfonso Panzetta. Proprio Panzetta nell'introduzione al Dizionario degli Scultori dell'Ottocento e del primo Novecento del 2003, notava come le rassegne internazionali avessero sancito il successo di alcune scuole di scultura italiana dell'Ottocento (in particolare quella milanese). Il successo, come vedremo qui di seguito, sarà di matrice mercantile più che artistica. Spetta ad Anne Pingeot aver fissato i termini della scultura italiana dell'epoca nelle rassegne parigine; la studiosa, appoggiandosi alla bibliografia dell'epoca, non poteva che far emergere un panorama piuttosto desolante dove, la scultura italiana, sebbene vincente in termini di premiazioni, risultava perduta nel tecnicismo e virtuosismo più miope. In realtà, spostando di poco le prospettive della questione, ne è emerso un mondo spesso sconosciuto, fatto di ragnatele sociali, rapporti governativi, problemi di indipendenza 2 nazionale, emigrazione di scultori, come operai nelle miniere, dall'Italia alla Francia. Sostanzialmente, le Esposizioni Universali di Parigi rappresentavano molto per gli scultori italiani, a seconda della mèta prefissata: vendere, affermarsi, cambiare vita, ribadire il proprio ruolo e, in alcuni casi, capire cosa si facesse altrove. Ovviamente un territorio così ampio, è portatore più di domande che di risposte, essendo sostanzialmente ancora vergine. Non si è fatta ancora chiarezza sulle fonti visive di molti scultori che approdarono a Parigi e vi ritornarono, probabilmente affascinati dalla splendida vita fatta di lustrini dei grandi accademici francesi; solo Rodin è stato preso nella dovuta considerazione, in termini scientifici, da Flavio Fergonzi, nel rapporto di dare-avere con gli scultori italiani; ma il dibattito è già di matrice novecentesca, poiché il grande scultore francese pone in essere interrogativi avanguardisti. Quindi, nel caso degli scultori che esponevano tra il 1855 ed il 1889, le problematiche, per certi versi, furono anche più complesse; furono scultori che, orfani di un neoclassicismo canoviano o timidamente verista di Bartolini si trovarono, di colpo, sbalzati nell'Italia post-unitaria. Fu una modernità violenta, feroce, brutale e che in termini artistici poteva fare ben poco. Ecco perché Giulio Carlo Argan, lucidamente, capì che l'Italia non aveva vissuto un suo romanticismo; negli ideali di libertà certamente, ma nell'arte, certamente no. I rapporti con Parigi, e veniamo al nostro argomento, furono complessi in un arco temporale come questi quarant'anni: la Francia passò, da liberatrice e amica a, nel 1889, odiata e nemica nelle faccende coloniali. Tale fondale, è alla base delle partecipazioni alle esposizioni universali ed anche la critica transalpina più avveduta dell'epoca, ammetteva che l'Italia aveva ben altre cose a cui pensare che all'arte. Come vedremo, c'era anche chi, nella penisola tentava di acciuffare le novità che arrivavano da Parigi, anche in termini teorici, ma poi, ed è tutto sommato più commovente che irritante, decifrava il tutto con il linguaggio a lui familiare, che voleva dire neoclassicismo, purismo, tradizione canoviana. Molti furono gli scultori che ebbero una larga fama a Parigi e che in Italia, ancor oggi, vengono confusi con altri, oppure mancanti di dati biografici, anche i più 3 basilari; viceversa, molti, adorati in Italia, a Parigi raccolsero ben poco, se non delusioni cocenti. E' il contesto qualcosa significa; se pensiamo, ad esempio, alla scultura di Raffaello Pagliaccetti raffigurante Pio IX al 1878, non ci stupisce che a Parigi non ebbe i risultati sperati, mentre in Italia era acclamata. Alcuni si schierarono con l'accademismo di matrice francese, alcuni ebbero rapporti stretti con il mondo accademico francese, altri furono a Parigi solo di passaggio per l'esposizione e, pochissimi, furono quelli che tentavano di divincolarsi da una tradizione sia accademica italiana sia di stampo parigino, anche se, nell'etichetta, più affascinante. Insomma, erano più le difficoltà, come cadere in qualche tentacolo di un'enorme piovra accademica, fosse italiana o francese, che vivere un momento di stimoli artistici diversi e nuovi. L'equivoco perdura ancora oggi poiché si pensa erroneamente che, la scultura italiana dell'epoca, fosse Vincenzo Vela per la generazione più ritardataria e Medardo Rosso per quella più giovane. Ma, alla luce delle partecipazioni alle esposizioni universali parigine, dove si contavano più di duecento opere a edizione, la semplificazione pare assai rischiosa. Superficialmente, dando un'occhiata ai cataloghi e alle riviste ufficiali delle esposizioni universali, si potrebbe dire che gli italiani furono, in assoluto, i migliori nel panorama europeo; ma anche gli stessi cataloghi, osservandoli bene, sono rivelatori d'un dato: erano i più numerosi di tutte le altre compagini. Si puntava dunque sulla quantità. Ma anche il problema della qualità era equivocato; il bello, e la critica francese dell'epoca era davvero spietata con gli scultori italiani su questo punto, si mescolava al grazioso, e la scultura si perdeva nell'oggetto, più che nell'idea complessiva di una plastica severa. Per quarant'anni e più le pagine francesi si sgolarono in questo senso, urlando all'orecchio degli scultori italiani, e chiedendosi com'era possibile che, la terra natale di Michelangelo, Donatello ed altri maestri, avesse dato simili statue; eppure non furono ascoltati. La critica italiana, da par suo, viveva malissimo le stoccate provenienti d'oltralpe e la tradizione italiana alla quale gli scultori si riallacciavano, era incanalata nel senso del bello più contenuto, meno dirompente, ed ecco perché nella sua relazione da giurato della scultura nel 4 1867, Dupré, vedendo l'Ugolino di Carpeaux, rimeditazione michelangiolesca delle forme, asseriva che lo scultore francese ne era “rimasto bruciacchiato”. Anche per chi cerca di accostarsi allo studio di un così complicato contesto, l'approccio storico- artistico muta e, da tradizionale accostamento di opere e di censimento delle sculture e nomi presenti del 1855, si passa, man mano, ad una trattazione di tipo sociale, sino a giungere al 1889, dove ormai giochi di potere e rapporti diplomatici sono, non solo alla base della partecipazione e premiazione degli scultori italiani, ma anche di gusto, che diviene, in un certo senso, più avvilente. Tale studio si pone dunque in un modo diverso, rispetto a come si è proceduto sin'ora nell'analizzare le presenze degli scultori italiani alle Esposizioni Universali sino ad oggi; si troveranno personalità sconosciute a cui è dedicato un paragrafo o parte di esso, e si toccherà appena personalità reputate fondanti nei meccanismi della scultura italiana dell'epoca. Parte tutto da una premessa piuttosto empirica: gli scultori italiani a Parigi alle esposizioni universali, non con l'idea di una medaglia vinta, che era solo rappresentativa, ma di un'esperienza che li vedeva partecipare gli uni accanto agli altri, in una sorta di Italia unita, nella città, in quel momento, capitale dell'arte. 5 Scultori italiani all’Esposizione Universale del 1855 Le infuocate critiche Se andiamo a scorrere la lista degli scultori “italiani” premiati all’Esposizione Universale del 1855, potremmo pensare che l’esito fu, tutto sommato, lusinghiero.1 Gli avvenimenti non seguirono, tuttavia, una così lineare traiettoria, tanto che le opere trionfalmente presentate a Parigi dagli italiani, dovettero essere difese strenuamente dall’unico rappresentante di questa compagine: vale a dire il giurato e incisore Luigi Calamatta.2 A mettere in luce tutte le difficoltà, e i limiti di queste opere, fu dapprima la voce caustica e lucida di Gustave Planche il quale, dalle pagine della Revue des deux mondes, non nascose le sue perplessità: “Tra gli scultori, non trovo un nome italiano. M. Benzoni. L’Amore materno, la Beneficenza, San Giovanni fanciullo, la Speranza in Dio, attestano in lui un’immaginazione graziosa; ma non c’è nulla in queste figure che riveli una vocazione ben decisa alla statuaria.

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