Da Un Articolo Di Lucio Musolino, Apparso Su Il Fatto Quotidiano

Da Un Articolo Di Lucio Musolino, Apparso Su Il Fatto Quotidiano

Inquietanti connubi I BOSS MAFIOSI E LA POESIA. SCRIVERE UN VERSO PER EDUCARNE CENTO? Quello che apparentemente può sembrare un fenomeno marginale, folcloristico, vede oggi, comunque, coinvolti significativi esponenti della criminalità organizzata che si cimentano con orgoglio nella scrittura di poesie e di canzoni. Qualcosa che rivela o suggerisce spiegazioni e motivazioni antropologico-sociali ben più ampie della mera curiosità cronachistica. Perché attesta che l’azione criminale si afferma al presente non soltanto col sangue, ma anche con i versi dei padrini (da Cutolo a Lubrano, fino a Papalia e Bellocco), adoperati per fare proseliti e usati come un meccanismo simil- filosofico che fa da collante tra la realtà quotidiana del potere violento e l’ordine nuovo delle cosche che si vuole imporre. ________________________________________________________________________________ di Domenico Donatone «Il freddo degli uomini è più terribile del freddo della notte. | Te ne sei già accorto, Amico mio, e le persone più caritatevoli in definitiva | sono ancora quelle che riposano nel cimitero | perché almeno non fanno male a nessuno. ||» (R. Cutolo) *** La poesia non è unilaterale come la giustizia, parola dei boss! Da un articolo di Lucio Musolino, apparso su Il Fatto Quotidiano (mercoledì 28 luglio 2010), si legge: «Stroncata la cosca di Bellocco, il boss che ama scrivere canzoni». Il tema affrontato nell’articolo da Musolino, oltre che da Savianoi, il quale già nel 2005 commentava questa buffa e, al contempo, degenerata attività dei criminali di cimentarsi nella scrittura di canzoni e, in molti casi, anche di poesie, mostra un lato inquietante per quella che è la parte criminale, ma un lato altrettanto sofisticato, forse addirittura intellegibile, per quanto concerne la dimensione misterica della poesia. Quello che dobbiamo domandarci, però, non è perché i boss scrivono poesie o canzoni, in quanto la risposta sarebbe fin troppo semplice, (pensano di scrivere delle canzoni, e magari lo sono nella sostanza ma non nella validità esplicita delle stesse), ma piuttosto perché anche i criminali, i boss della ’ndrangheta o della camorra, si sentano attratti dalla poesia. Motivo che non si può, per ovvie ragioni, evidenziare come il naturale successo della forza delle parole e della specificità dei sentimenti che in esse sono veicolati. Perché si è poeti in quanto si crede nelle parole, mentre si è criminali in quanto si crede nella forza della violenza che stabilisce il “successo” di queste persone. Ragion per cui tutto può essere un criminale, eccetto che un poeta, uno scrittore. Il tema, così posto in maniera giornalistica da Musolino, eludendo il sentimento di appartenenza alla letteratura che un critico comunque conserva, rispetto a mondi che si pongono per necessità in maniera antagonistica a quello della cultura, riappare, oggi, in un tempo segnato, a quanto pare, irrimediabilmente del potere delle mafie, come il nerbo dentro il quale agiscono forze contrastanti e in qualche modo proprie di questo mondo, di una strategia antropologica snervante. La criminalità, niente affatto estinta, si conferma essere, a livello antropologico, l’alternanza pericolosa di necessità esistenziali, prima ancora che di danaro e di potere, volte alla sopravvivenza. Andando anche al di là di quelle che sono le posizioni personali, i propri convincimenti, in ogni modo bisogna fare degli sforzi doverosi per riconoscere le cause, ataviche, di un male che, non estirpato a tempo, si è reso inventore di un vero e proprio sistema di affiliazione a cui c’è la possibilità, oggi, di appartenere o di non appartenere con senso quasi democratico. Perché le mafie rappresentano non più delle organizzazioni limitrofe e settarie, fatte di coppole e lupare (quel tipo di mafia è finita), bensì rappresentano un modo d’essere, di stare nel mondo, aggiungendo ad esso la possibilità di potersi anche arricchire, quindi di avere quello che dallo Stato non si ottiene se si è onesti. L’evoluzione delle mafie non risiede solo nel male, nel crimine, nel modo di ammazzare e di fare affari, ma risiede in un mutamento culturale che rivela quello del crimine un modo di interagire col mondo esterno senza la possibilità di dover avvertire comunque la condanna da parte dell’opinione pubblica e, diremmo, dello Stato. Lo svela il fatto che i nuovi boss, i nuovi padrini, sono oggi architetti, ingegneri, studenti di medicina oppure appassionati di storia, quindi gente che studia e che non è vissuta in mezzo alla miseria come Riina o Provenzano. Non ci sono caciotte in vista, ma computers, rete, informatica. Un dato fenomenologico molto più pericoloso e inquietante rispetto alla vecchia mafia, una mafia romantica e letteraria, che rivela il volto delle criminalità organizzate, le quali sono una forma di Stato sì capovolto, ma al contempo così retto nell’ordine interno da essere il vero Stato in molte regioni d’Italia, senza che a questo ci si possa più opporre. Chiusa questa parentesi di natura esclusivamente culturale e di cronaca, il tema posto da Lucio Musolino vuole indicare il senso divagante di questa rottura con un sistema arcaico di mafia, e porre la questione su una effettiva evoluzione, il fatto stesso che i boss si sentano delle star, degli artisti, dei poeti. Ovviamente è vero il contrario. È vero che essi non lo sono. Infatti, il tema non è dire che anche i capi mafia sono o possono essere dal punto di vista letterario dei poeti o degli scrittori, bensì dire ed evidenziare l’evoluzione di un fenomeno che vuole confermare il fascino e l’adesione verso forme di espressione artistica che raramente sono degne di esemplarità di successo o di veridicità poetiche nel mondo del crimine. La poesia e la religione, ovvero l’attenzione verso queste due forme di espressione dell’uomo, sia detto impropriamente per la religione che va ben oltre una mera forma d’arte, stabiliscono un confine che appare assai sottile e il cui limite valicabile sembra confermare che la natura risieda anche nell’osservanza di aspetti che fanno da contorno ad attività criminali tali da renderle, non diremo fascinose, perché sarebbe un errore culturale definirle così, ma espressione di un carisma per cui ci si convince che c’è gente che nasce per fare il criminale, per essere un criminale, per partorire nel segno del male, come avrebbe parafrasato Baudelaire, quel senso di esemplarità tale da amalgamare alla fedina penale un fondo nero di sincerità poetica e di velleità letteraria. Si pensi al discusso film di Michele Placido proiettato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia sulla figura di Renato Vallanzasca. Un eroe criminale o un criminale eroe? La discussione non è stabilire se quello che questo Bellocco ha scritto sia effettivamente valido oppure no, ma sollevare un telo pesante sotto il quale si nasconde un’adesione ad una visione del mondo che anche quando emerge sotto forma di testi poetici non contraddice la sua sostanza maligna, il flusso nefasto ed imbarazzante di caratteri che ritraducono quello che della poesia o della religione possono aver capito. Un Provenzano che sottolinea la Bibbia, che ne impara a memoria i passi, rendendola sussidiario all’esistenza, non certo induce qualcuno a ritenere che Provenzano per questo sia stato un vero credente, tutt’altro, ma nell’insistenza del gesto, nella sottolineatura maniacale, quanto metafisica, del libro sacro, si nasconde quel torbido carattere psico-criminoso che fa incappare i critici, più degli psicologi criminali, nel dubbio che sovrasta l’ammirazione del genio, della bravura, diametralmente opposta alla sua esistenza infernale, maledetta. Dubbio che sovrasta l’identità pura di un fenomeno artistico con l’obiettivo, spropositato, di indurre l’uomo o il critico all’interrogazione capitale. La grandezza artistica di Caravaggio capace di dipingere come Dio, di sentirsi ispirato nell’azione dal sentimento più veritiero, si contrappone all’esistenza criminale di un uomo che ha ucciso delle persone. Per necessità, per barbarie del tempo, per istinto e per indole indomita o per eccesso di difesa, Caravaggio si è comportato nella vita come un criminale, ha vissuto nell’ombra per tornare alla luce grazie alla magnificenza della sua opera. Bene e male convivono in questo grande artista del passato, ma così attuale per forma e temperamento. E altrettanto si può dire di scrittori e poeti che hanno vissuto ai margini, costretti a delinquere per non cadere nella vera delinquenza, cosa che può dirsi di Caravaggio quanto di Verlaine e di altri. Ma se il vero artista è prima di tutto un artista, quale Caravaggio, e solo in seconda battuta, per necessità, un criminale, un vero criminale è prima di tutto un boss, un padrino, reggente di una provincia o di un mandamento e solo per scialba necessità di stabilire uno stile che altrimenti non avrebbe, decide di scrivere canzoni o delle poesie per comunicare al mondo che possiede una sensibilità con cui farsi scudo. Per cui se i boss scrivono poesie lo fanno non solo per elargire lezioni di vita ai propri adepti o agli affiliati, ma anche per dare senso alle loro azioni, alla forza della loro potenza, per dimostrare che nel mondo del crimine è insita una parte rilevante di “successo”, di “purezza”, di “strategia” che cavalca l’indignazione generale a favore della fermezza antropologica del fenomeno. Un boss poeta è un boss superiore ad un boss che non lo è: è qualcuno che dimostra di saper essere anche altro, addirittura poeta, qualcuno che sa di avere un’anima, e che anche laddove c’è orrore, di fatto, c’è la verità di una vita affrontata con una strategia che non è solo criminale. Il tutto diventa un epifenomeno che non aggiunge nulla alla realtà della questione, che non smacchia l’orrore del crimine e non aggiunge qualità alla poesia. Semmai un boss che scrive poesie vuol comunicare qualcosa che è più filosofico e non didattico, ovvero che l’onestà intellettuale non è qualità solo della giustizia o delle persone per bene, e confermare che l’estetica, l’arte, la poesia, non sono come la giustizia, ma possono essere l’esatto contrario di quell’univocità a cui il diritto ci sprona.

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