RASSEGNA STAMPA di lunedì 11 novembre 2019

SOMMARIO

«Non c’è una pena umana senza orizzonte: nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte»: lo ha sottolineato Papa Francesco nel discorso rivolto ai partecipanti all’incontro internazionale per i responsabili regionali e nazionali della pastorale carceraria, ricevuti in udienza venerdì 8 novembre. Ecco le sue parole: “Come ho già segnalato in altre occasioni, la situazione delle carceri continua a essere un riflesso della nostra realtà sociale e una conseguenza del nostro egoismo e indifferenza sintetizzati in una cultura dello scarto. Molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità. Così si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori invece di ricercare verame nte la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che favoriscono il compimento di azioni illecite. È più facile reprimere che educare e direi che è anche più comodo. Negare l’ingiustizia presente nella società è più facile e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini. È una forma di scarto, scarto educato, tra virgolette. Inoltre, non di rado i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere i processi di reinserimento, senza dubbio perché non dispongono di risorse sufficienti che permettano di affrontare i problemi sociali, psicologici e familiari sperimentati dalle persone detenute, e anche per il frequente sovrappopolamento delle carceri che le trasforma in veri luoghi di spersonalizzazione. Al contrario, un vero reinserimento sociale inizia garantendo opportunità di sviluppo, educazione, lavoro dignitoso, accesso alla salute, come pure generando spazi pubblici di partecipazione civica. Oggi, in modo particolare, le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, ci siamo abituati a scartare piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita. Molte volte, uscita dal carcere la persona si deve confrontare con un mondo che le è estraneo, e che inoltre non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare per ottenere un sostentamento dignitoso. Impedendo alle persone di recuperare il pieno esercizio della loro dignità, queste restano nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo , in mezzo alla violenza e all’insicurezza. Come comunità cristiane dobbiamo porci una domanda. Se questi fratelli e sorelle hanno già scontato la pena per il male commesso, perché si pone sulle loro spalle un nuovo castigo sociale con il rifiuto e l’indifferenza? In molte occasioni, questa avversione sociale è un motivo in più per esporli a ricadere negli stessi errori. Fratelli, in questo incontro avete già condiviso alcune delle numerose iniziative con cui le Chiese locali accompagnano pastoralmente i detenuti, quanti hanno concluso la detenzione e le famiglie di molti di loro. Con l’ispirazione di Dio, ogni comunità ecclesiale va assumendo un cammino proprio per rendere presente la misericordia del Padre a tutti questi fratelli e per far risuonare una ch iamata permanente affinché ogni uomo e ogni società cerchi di agire in modo fermo e deciso a favore della pace e della giustizia. Siamo certi che le opere che la Misericordia Divina ispira in ognuno di voi e nei numerosi membri della Chiesa dediti a questo servizio sono veramente efficaci. L’amore di Dio che vi sostiene e v’incoraggia nel servizio ai più deboli, rafforzi e accresca questo ministero di speranza che ogni giorno realizzate tra i detenuti. Prego per ogni persona che, dal silenzio generoso, serv e questi fratelli, riconoscendo in loro il Signore. Mi congratulo per tutte le iniziative con cui, non senza difficoltà, si assistono pastoralmente anche le famiglie dei detenuti e si accompagnano in questo periodo di grande prova, affinché il Signore bene dica tutti. Vorrei concludere con due immagini, due immagini che possono aiutare. Non si può parlare di un regolamento del debito con la società in un carcere senza finestre. Non c’è una pena umana senza orizzonte. Nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte. E tante volte siamo abituati ad accecare gli sguardi dei nostri reclusi. Portate con voi questa immagine delle finestre e dell’orizzonte, e fate sì che nei vostri paesi le prigioni, le carceri, abbiano sempre finestra e orizzonte, persino un ergastolo, che per me è discutibile, persino un ergastolo dovrebbe avere un orizzonte. La seconda immagine è un’immagine che ho visto diverse volte quando a Buenos Aires andavo in autobus a qualche parrocchia della zona di Villa Devoto e passavo davanti al Carcere. La fila della gente che andava a visitare i detenuti. Soprattutto l’immagine delle madri, le madri dei detenuti, le vedevano tutti, perché stavano in fila un’ora prima di entrare e poi erano sottoposte ai controlli di sicurezza, molto spesso umilianti. Quelle donne non avevano vergogna che tutti le vedessero. Mio figlio è lì, e per il figlio non nascondevano il loro volto. Che la Chiesa impari maternità da quelle donne e impari i gesti di maternità che dobbiamo avere verso questi fratelli e sorelle che sono detenuti. La finestra e la madre che fa la fila sono le due immagini che vi lascio. Con la testimonianza e il servizio che rendete, mantenete viva la fedeltà a Gesù Cristo. Che al termine della nostra vita possiamo ascoltare la voce di Cristo che ci chiama dicendo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Che Nostra Signore della Mercede accompagni voi, le vostre famiglie e tutti coloro che servono i detenuti” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 14 L’emozione di Burano per il saluto del Papa Dopo l’Angelus

LA NUOVA di venerdì 8 novembre 2019 Pag 23 Ingegnere e diacono. Augusto e Daniele verso il sacerdozio

3 – VITA DELLA CHIESA

LA REPUBBLICA Pag 8 Vittadini: “Le parole di Ruini sul dialogo con la Lega fanno fare alla Chiesa un passo indietro” di Paolo Rodari

AVVENIRE di domenica 10 novembre 2019 Pag 2 Dolcetto e palloncino per ripeterci che i cristiani sono quelli dell’ “et et” (lettere al direttore)

Pag 7 Bassetti: è l’ora dei laici responsabili. In politica serve una nuova presenza di Giacomo Gambassi

CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 novembre 2019 Pagg 32 – 33 “Anche qui in clausura siamo donne e poi suore. L’errore è credersi sante” di Walter Veltroni Tra le monache di Città della Pieve

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 9 novembre 2019 Non può esserci una pena senza un orizzonte Udienza ai responsabili della pastorale carceraria

IL FOGLIO di sabato 9 novembre 2019 Pag 1 Declino di una chiesa di Matteo Matzuzzi Silenziosa e divisa tra chi spera nel “partito dei cattolici” e chi rimpiange i tempi andati. La crisi della Cei

AVVENIRE di venerdì 8 novembre 2019 Pag 3 Una questione femminile (e non clericalizzata) di Maurizio Gronchi A proposito della condizione delle donne nella Chiesa. E di cultura

IL FOGLIO di venerdì 8 novembre 2019 Pag 2 Cardinali parlanti di Eugenia Roccella Il senso dell’intervento di Ruini è più profondo di una mezza frase sul futuro di Salvini

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 novembre 2019 Pag 31 Dove va l’oro dei migranti di Goffredo Buccini e Federico Fubini Boom di rimesse verso i Paesi d’origine

CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 novembre 2019 Pag 7 Crisi e crollo dei consumi, piccoli negozi in ginocchio. “Chiuse 20.500 botteghe” di Michela Nicolussi Moro Indagine Cgia: dal 2007 persi in Veneto 784 milioni di incassi

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 novembre 2019 Pag VI Solidarietà, un emporio per i bisognosi di Chiara Piazza

Pag IX San Marco, ultimatum al Mose: “Fare presto, Basilica a rischio” di Michele Fullin Il Primo Procuratore Tesserin: “Vogliamo sapere se funzionerà e quando. Non c’è più molto tempo”

Pag XVII L’emporio solidale ha aiutato 500 persone di Luisa Giantin

LA NUOVA di domenica 10 novembre 2019 Pag 29 Mira: all’emporio solidale seguiti 500 bisognosi, per metà sono italiani di A.Ab.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 novembre 2019 Pag VII L’acqua alta raggiunge quota 110 e scavalca i gradini della Basilica di Michele Fullin Campostrini (Procuratoria): “Con questa misura il nartece è allagato. Allo studio nuove soluzioni”

Pag XXXI Mensa Ca’ Letizia, a proposito di quel trasloco (lettera di Dino Lazzarotto – Mestre)

CORRIERE DEL VENETO di sabato 9 novembre 2019 Pag 11 Pubblicità sui campanili. AAA cercasi imprenditori di F.B. La svolta dalla commissione speciale. Il prefetto: soluzione per i restauri

CORRIERE DEL VENETO di venerdì 8 novembre 2019 Pag 11 L’emporio della solidarietà apre a Venezia di Giorgia Pradolin Aiuti alimentari ed educativi. Il patriarca: la città cambia, venire incontro alle nuove esigenze

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8 novembre 2019 Pag XV Marghera, sistemata la chiesetta del cimitero. “Presto più parchegg i per evitare multe”

LA NUOVA di venerdì 8 novembre 2019 Pag 23 Cannaregio, aperto l’emporio della solidarietà

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il caso Ilva racconta due Italie di Angelo Panebianco Dov’è il partito del Pil

Pagg 2 – 3 Iraq, bomba contro gli italiani. Cinque feriti, tre sono gravi di Marta Serafini, Fabrizio Caccia e Lorenzo Cremonesi Kirkuk, città contesa: gli appetiti per i pozzi e i colpi di coda dell’Isis

Pag 4 Sanchez perde la scommessa. Ora ha bisogno dei popolari di Aldo Cazzullo In Spagna socialisti primo partito ma non sfondano

LA REPUBBLICA Pag 25 Il Paese dello Ius culturae di Ilvo Diamanti

IL GAZZETTINO Pag 1 Ma non c’è un disegno dei terroristi contro l’Italia di Alessandro Orsini

Pag 23 Spagna, la grande coalizione una strada obbligata di Loris Zanatta

LA NUOVA Pag 12 Predappio nega Auschwitz, è l’eclissi della ragione di Francesco Jori

Pag 12 Le previsioni errate di ArcelorMittal e l’inaffidabilità italiana sull’Ilva di Maurizio Mistri

LA NUOVA di domenica 10 novembre 2019 Pag 11 Il dilettantismo del male e quella menzogna vigliacca di Elena Stancanelli

CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 novembre 2019 Pag 21 “Ti voglio bene, mi dai un bacio”. Registra il prete e lo fa arrestare” di Fulvio Bufi Napoli, ragazzina di 12 anni smaschera il parroco. E’ accusato di abusi sessuali

AVVENIRE di sabato 9 novembre 2019 Pag 3 Il dolore degli abusati grida al cospetto di Dio di Maurizio Patriciello Il caso di un sacerdote accusato e arrestato in Campania

LA NUOVA di sabato 9 novembre 2019 Pag 11 Risarcimento a vittima di abusi. Ma il parroco resta al suo posto di Niccolò Zancan Per la prima volta la Curia paga per evitare il p rocesso civile. Penale prescritto. Don Giorgio Carli: «Sono in pace, sto bene». E tutta la comunità lo difende

CORRIERE DELLA SERA di venerdì 8 novembre 2019 Pag 1 La forza di chi non odia di Pierluigi Battista No all’antisemitismo

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 14 L’emozione di Burano per il saluto del Papa Dopo l’Angelus

«Ringrazio tutti voi che siete venuti da Roma, dall'Italia e da tante parti del mondo. Saluto i pellegrini di Haaren (Germania), di Darwin (Australia) e gli studenti di Neuilly (Francia); come pure i fedeli della Diocesi di Piacenza-Bobbio, quelli di Bianzè e di Burano».Grande emozione per il saluto di papa Francesco, ieri dopo la recita dell'Angelus, per i fedeli arrivati da Burano e presenti in Piazza San Pietro. Papa Francesco ha ricordato che in Italia ieri si celebrava la Giornata nazionale del ringraziamento per i frutti della terra e del lavoro. «Mi associo ai vescovi nel richiamare il forte legame tra il pane e il lavoro» ha sottolineato il pontefice «auspicando coraggiose politiche occupazionali che tengano conto della dignità e della solidarietà e prevengano i rischi di corruzione. Che non si sfruttino i lavoratori, che ci sia lavoro per tutti ma lavoro vero, non lavoro da schiavi». Un tema quanto mai attuale soprattutto alla luce dell'inchiesta che ha coinvolto Fincantieri. Papa Francesco non ha mancato di ricordare due Paesi che vivono situazioni economiche, politiche e sociali particolarmente problematiche. «Un pensiero speciale al caro popolo del Sud Sudan, che io dovrò visitare» e un invito a pregare «per la situazione nell'amata Bolivia».

LA NUOVA di venerdì 8 novembre 2019 Pag 23 Ingegnere e diacono. Augusto e Daniele verso il sacerdozio

Venezia. Due studenti del Seminario Patriarcale di Venezia, Augusto Prinsen e Daniele Cagnati saranno ordinati diaconi - in vista del sacerdozio - nel pomeriggio di sabato 9 alle ore 15.30, nella basilica cattedrale di S. Marco per l'imposizione delle mani del Patriarca Francesco Moraglia che presiederà la S. Messa solenne. Augusto Prinsen ha 32 anni, è nato in Olanda a Leiden (la città di Rembrandt) da papà olandese e mamma molisana e dall'età di 8 anni ha vissuto a Varese; si è laureato in Ingegneria meccanica al Politecnico di Milano ed ha anche lavorato per brevi periodi nel settore cantieristico (una raffineria e un inceneritore) ed anche in un'azienda di elicotteri; entrato in Seminario a Venezia nel settembre 2013 ha vissuto numerose esperienze pastorali. Daniele Cagnati compirà tra non molti giorni 31 anni e arriva da Jesolo Paese (parrocchia di S. Giovanni Battista); appassionato di rugby e di canto lirico (e in entrambi i contesti se la cavava bene...) si è diplomato ragioniere e in quel settore - oltre che come cameriere durante la stagione - ha lavorato per qualche anno; in Seminario da fine settembre 2013, oltreché di pastorale vocazionale, ha fatto anche lui diverse esperienze pastorali in più parrocchie e zone della Diocesi: a Jesolo, al Lido, a Caorle e poi (per due anni) a S. Giuseppe e al Corpus Domini di Mestre per poi giungere a servizio nelle parrocchie di Favaro.

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3 – VITA DELLA CHIESA

LA REPUBBLICA Pag 8 Vittadini: “Le parole di Ruini sul dialogo con la Lega fanno fare alla Chiesa un passo indietro” di Paolo Rodari

Intervista al presidente della Fondazione per la sussidiarietà di Paolo Rodari Giorgio Vittadini, il cardinale Ruini ha chiesto alla Chiesa di dialogare con Salvini, quasi aprendo alla necessità di un appoggio al centrodestra. È d'accordo? «Il dialogo con chiunque è un elemento essenziale per la democrazia, ma tornare a quello schema è un passo indietro per tutti, Chiesa compresa. Come cristiano penso che occorra dialogare con tutti, ma per farlo bisogna chiedersi che cosa si desidera veramente, quale esperienza di fede si stia facendo, quale contributo al bene comune si stia dando. Sennò il dialogo diventa solo strategia». Quando Ruini era presidente della Cei la Chiesa appoggiò Berlusconi. Anche Comunione e liberazione di fatto seguì Ruini. Quella stagione potrebbe tornare? «Siamo in un contesto politico completamente diverso. Serve più sussidiarietà: liberare le energie che esistono nella società. A questo è dedicato il lavoro della Fondazione che presiedo. Per ciò che riguarda Cl, mi sembra che la preoccupazione di don Julián Carrón, sua guida, sia fondamentalmente educativa, affinché crescano persone dotate di umanità, di fede, di costruttività e amore agli altri». Il cardinale Bassetti dice su Avvenire che è finito il tempo dei politici eterodiretti dalla Chiesa. Non le sembra tuttavia che la mancanza di un progetto esplicito penalizzi la presenza dei cattolici in politica? «Penso che l'urgenza più grande sia che crescano comunità dove le persone riprendano coscienza dei loro bisogni e delle loro capacità e siano aiutate a dare delle risposte, personali e sociali». La Fondazione per la Sussidiarietà è tra gli organizzatori di "I Giorni del Sud", il 12 e 13 novembre, un' iniziativa che vuole far incontrare fra loro i Paesi del Mediterraneo. Crede che il Mezzogiorno e il Mediterraneo siano un'occasione per far ripartire il Paese? «Lo sviluppo dell'Italia è fondamentalmente lo sviluppo del Mezzogiorno. Questo è il momento per rilanciare la visione di un Sud come centro del Mediterraneo. A cinquecento anni dalla scoperta dell' America e dopo il raddoppio del Canale di Suez, il Mediterraneo è di nuovo al centro dei traffici mondiali. Il Sud ha moltissimo da dare sul piano culturale e può offrire formazione ai giovani nordafricane». Restando al Sud, ArcelorMittal sembra essersi tirata indietro sull'Ilva, restituendo la patata bollente allo Stato italiano. Cosa pensa? «Penso che sia urgente la scelta tra sviluppo sostenibile, fatto di lavoro, industria, infrastrutture, da una parte, e una decrescita infelice e assistenzialismo dall'altra. Se non sciogliamo questo nodo, l'Ilva può diventare la stazione di una lunga "via crucis". Un nostro recente rapporto di ricerca mostra come, insieme a gravi problemi, le risorse presenti nel tessuto produttivo meridionale siano tante». Che colpe hanno la politica e il governo in questa vicenda? «Come tanti governi della seconda Repubblica, aver privilegiato l'assistenzialismo rispetto a piani di sviluppo; l'ignoranza rispetto all'educazione e alla formazione; l'uomo solo al comando rispetto al rapporto della politica con i corpi intermedi. In una parola, non capire l'importanza della cultura sussidiaria. L'esito è evidente a tutti». I 5S alle ultime politiche fecero il pieno di voti proprio al Sud. Cosa chiedeva quell'elettorato? «Io credo che le persone responsabili, al Sud come al Nord, non abbiano bisogno di mance, ma di un'Italia che produce, che fa welfare sussidiario, che punta su educazione e istruzione. Senza questo, in poco tempo, i boom elettorali sono destinati a diventare un flop».

AVVENIRE di domenica 10 novembre 2019 Pag 2 Dolcetto e palloncino per ripeterci che i cristiani sono quelli dell’ “et et” (lettere al direttore)

Caro direttore, tra una chiacchiera e un’altra ci raccontiamo la vita con il mio amico Mario. Lui mi spiega che il giorno dei Santi fa una festa con tutti i nipotini comprando dei palloncini colorati e scrivendo su ognuno il nome di un nipotino. Una bella festa allegra tra parenti, piena di bambini con i loro genitori. Tra dolcetti e palloncini colorati i bambini si divertono, mentre i genitori e nonni raccontano in breve le storie del Santo di cui ognuno porta il nome. Questo fatto mi ha dato una idea! Il pomeriggio del 31 ottobre ho lavorato. Nel mio negozio sono entrati molti bambini mascherati per la festa di Halloween, accompagnati dai genitori quelli più piccolini, mentre quelli più grandicelli da soli o insieme a qualche amichetto. A ognuno dei bambini ho consegnato una caramella e assieme a quella anche un palloncino colorato dicendo di gonfiarlo il giorno dopo scrivendo il proprio nome sul palloncino per festeggiare il giorno dei Santi. Erano tutti contenti e stupiti dell’aggiunta di questo regalino alla ormai solita caramella. Un bambino di circa dieci anni si è rivolto al suo compagno dicendo: «Che bello! In questo negozio la festa è dop- pia. Ci hanno dato una caramella per Halloween e un palloncino per i santi. Così possiamo fare festa anche domani...». In quel momento ho sperimentato che il cristianesimo è davvero il centuplo quaggiù. Cristo non censura nulla e permette di valorizzare tutto l’umano, ogni festa e ogni occasione che ci è data. Ho imparato a chiamare per nome ciascun bambino che entrava in negozio, e loro erano contenti di essere guardati uno per uno. Non erano più volti anonimi mascherati, ma volti di bambini a cui Dio aveva pensato fin dal l’eternità e che avevano un proprio nome. Ognuno di quei piccolini ha incrociato per un attimo la mia storia che è diventata più ricca. Oggi posso pregare per Gioia, Agata, Riccardo, Mattia, Gianmarco e molti altri. I Santi che sono in paradiso e noi che stiamo percorrendo la strada verso la santità, il primo novembre, abbiamo fatto festa assieme. Cielo e terra in un’unica festa d’amore con Cristo spendente del volto del Padre nello Spirito Santo. Da Halloween ai Santi in un salto di eternità nell’umanità. Grazie al mio amico Mario e grazie a tutti quei bambini che ho conosciuto anche solo per un istante di vita. (Maria, mamma veneta lavoratrice)

Risponde il direttore Marco Tarquinio: Ricevo lettere di ogni tipo. Tante. Non tutte pubblicabili. Non tutte (per motivi di spazio) pubblicate. E non tutte da persone che vogliono vedere finire in pagina ciò che mi scrivono. Alcune di queste sono speciali, ma arrivano da persone che hanno una preoccupazione: non apparire. A volte con ragioni forti, altre solo per una ritrosia che per me non è sempre comprensibile, ma in certe occasioni e condizioni diventa accettabile. Ecco perché, ogni tanto, faccio eccezione alla regola di dare spazio e risposta soltanto a lettere firmate per esteso. La lettera che ho scelto per oggi, la domenica che chiude la prima decade di novembre, quella aperta dalla Festa di Ognissanti, merita questo trattamento di riguardo. Chi l’ha scritta non desidera firmarla, ma oltre che bella la lettera è davvero utile. Non richiede risposta, ma merita il mio ringraziamento a chi l’ha scritta (e a chi mi ha aiutato a pubblicarla con la firma che l’accompagna) e mi suggerisce una semplice sottolineatura. Ci siamo sentiti dire e ci siamo detti molte volte, anche su queste pagine, che il cristianesimo è la fede dell’«et et». Qui ne abbiamo una limpida prova, per così dire, sul campo. Tenere insieme le cose, ricucire ciò che è slabbrato, rendendo più giusto e più cristiano il nostro tempo nell’unico modo che ha senso e che, se vogliamo, è alla nostra portata: vivendolo da cristiani, facendo fiorire sorrisi sulle labbra dei piccoli e riempiendo di bene e di serenità le storie e le notti che si vorrebbe colmare solo di ombre... Questo mi conferma il dolcetto (di Halloween) e il palloncino (di Tutti i Santi) della signora Maria. Un altro amico lettore ha inviato nei giorni scorsi una lettera in cui, sconsolato, confessa di essere arrivato alla conclusione che sarebbe meglio “spostare la Festa dei Santi ad altra data” per evitare la contaminazione della ricorrenza di importazione a base di zucche, scheletri e fantasmi. No, non c’è niente da spostare e nulla da maledire. Non c’è da chiamarsi fuori e non c’è da trincerarsi in una specie di riserva protetta. C’è da usare testa e cuore, cioè la forza della fede e la fantasia della nostra umanità per ridare senso e compiutezza ai giorni nostri e dei più piccoli. I cristiani, se sono coerenti con il Vangelo della gioia, accettano la fatica di far piena la vita e non si rassegnano all’oscurità, la illuminano senza paure. Perché sanno di non essere soli. Come suggerisce la nostra saggia amica del dolcetto e del palloncino donati ai più piccoli, è un vero «salto di eternità» nel momento presente. Un momento che non ci siamo scelti, ma che è profondamente nostro. Ci è stata consegnata una lampada, e possiamo anche lasciarla spenta. Ma se l’accendiamo ci è chiesto di usarla per fare strada e andare più avanti, per camminare su questa terra, per credere e raccogliere il «centuplo quaggiù e l’eternità». Se la teniamo accesa, non possiamo ridurla a strumento per guardare e giudicare lo spettacolo del mondo, e per scappare via.

Pag 7 Bassetti: è l’ora dei laici responsabili. In politica serve una nuova presenza di Giacomo Gambassi

Sulla scrivania del suo studio il cardinale Gualtiero Bassetti tiene la Bibbia aperta sul Vangelo di Matteo e, accanto, il ritaglio di una pagina di Avvenire. Il versetto su cui si sofferma il presidente della Cei è quello in cui Cristo sprona a rendere «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». E l’articolo tratto da questo quotidiano è un’intervista al sondaggista Nando Pagnoncelli in cui si spiega, all’indomani dell’esito delle elezioni europee, che più della metà dei praticanti si è orientata verso l’astensione. «Ogni volta che leggo l’ammonimento del Signore a restituire all’imperatore romano il dovuto – afferma il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve – penso che quelle parole siano un richiamo a ogni credente a restituire qualcosa alla città in cui vive. Sono un invito a curare la casa comune che è appunto la città, la provincia, la regione, il Paese intero. Sono una chiamata al cristiano a occuparsi della vita pubblica, a partire dalla politica: non soltanto con il voto, che è un diritto e un dovere al tempo stesso, ma anche con la dedizione personale, spendendosi senza riserve per il bene comune». L’analisi di Pagnoncelli, invece, mostra la distanza che c’è fra tanti cattolici e la politica. «Si avverte una sorta di divario fra le istituzioni e il cittadino – ammette il presidente della Cei –. Come cristiani abbiamo tirato i remi in barca, mi viene da dire. Ci interessiamo al sociale, magari interveniamo nel dibattito pubblico, ma non riusciamo a far sentire la nostra voce, a far entrare istanze e visioni nelle decisioni politiche. E questo produce una disaffezione e un’indifferenza che non possono non preoccupare». Dalle finestre del palazzo arcivescovile di Perugia si vede la fontana di piazza IV novembre. È il simbolo del capoluogo dell’Umbria, regione che le ultime elezioni locali hanno consegnato al centrodestra dopo il “monopolio” della sinistra e del centrosinistra. «Non sosteniamo alcuna maggioranza e non siamo all’opposizione di alcuna alleanza di governo – chiarisce il cardinale –. Come Chiesa accogliamo con fiducia iniziative o decisioni che vanno incontro alle esigenze della comunità, come siamo voce critica davanti a scelte o progetti che minano la persona e la società. Cito, ad esempio, le prese di posizioni contro ogni forma di eutanasia: qualsiasi proposta legislativa che apra al suicidio assistito creerebbe un’autentica voragine perché la vita non è un possesso ma un dono che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividere ». Questo vale anche per il migrante che si trova in condizioni disperate e affronta viaggi della speranza in mare in cerca di un domani migliore e sicuro, ribadisce il cardinale. Quindi aggiunge: «La Chiesa italiana dialoga con tutti. Non alza steccati o muri. Certo, non può tacere quando le grida di turno o i provvedimenti adottati contrastano con il Vangelo e con un’antropologia cristiana che è nell’interesse di tutti e non solo di una parte. Ciò non ci esime dall’intervenire, altrimenti peccheremmo di “omissione” ». Altro tema che tiene banco in questi giorni è quello del razzismo: prima la notizia che la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’orrore della Shoah, riceve circa duecento messaggi di odio al giorno attraverso il web e ha dovuto accettare la scorta; poi il voto al Senato sull’istituzione di una “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo” proposta dalla stessa senatrice e, purtroppo, non accolta all’unanimità. «“Un cristiano non può essere antisemita”, ha ricordato recentemente papa Francesco, come non può essere un seminatore di odio – sottolinea Bassetti –. Su internet e nelle reti sociali l’anonimato ha partorito gli hater, gli odiatori. Come cittadini, come Chiese e come vescovi, non possiamo che condannare ogni atteggiamento o intervento che semina a piene mani disprezzo, inimicizia, ostilità. Azioni e parole dettate dal rancore sono un peccato contro Dio e contro l’umanità e sono in netta antitesi con il “comandamento dell’amore” che Cristo ci consegna e che racchiude l’intero messaggio del Vangelo. Quando si sostituisce il Signore con l’idolatria dell’odio, si arriva alla follia di sterminare l’altro. Proviamo timore e dolore verso ogni forma di antisemitismo che deve essere combattuta senza esitazioni. E non possono essere consentiti i silenzi, le mancanze o le astensioni». E si torna alla questione dei cattolici a servizio del Paese. «Faccio mie – dice il presidente della Cei – le parole di papa Francesco: “È necessaria una nuova presenza di cattolici in politica. Una nuova presenza che non implica solo nuovi volti nelle campagne elettorali, ma principalmente nuovi metodi che permettano di forgiare alternative che contemporaneamente siano critiche e costruttive”». Una pausa. «L’Italia – prosegue il cardinale – ha più che mai bisogno di laici cattolici che abbiano un’identità salda e chiara, che sappiano dialogare con tutti, che non siano eterodiretti, che siano in grado di costruire reti di impegno e che si assumano la responsabilità di rispondere alle “attese della povera gente”, direbbe Giorgio La Pira». Il sindaco “santo” di Firenze è figura cara a Bassetti. «La sua vita è stata tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità. E mi piace soffermarmi sul primo aspetto: la preghiera, imprescindibile e irrinunciabile, per il cristiano che si dedica alla res publica. È la fonte di ogni sua scelta o gesto. Quando La Pira diceva che la Madonna gli chiedeva di salvare i posti di lavoro alla Pignone, non era un visionario o un ingenuo. La sua profezia era frutto della frequentazione quotidiana con Dio. Ecco perché sostengo che una rinnovata presenza dei cattolici nel panorama italiano debba partire dalla contemplazione. È la fede che dona quella forza inesauribile e quel coraggio mai domo per affrontare le sfide più audaci e, all’occhio umano, talvolta impossibili». Ma c’è da scendere dal monte, dal Tabor, e calarsi nei problemi. «La politica è una missione, non una ricerca di tornaconto, non tentazione del consenso facile – tiene a precisare il presidente della Cei –. Una tensione verso i poveri, i precari, gli sfruttati, gli emarginati, i delusi, i fragili. E oggi fra loro rientrano i giovani che non trovano lavoro e che in maniera sempre più allarmante lasciano il nostro Paese; o le famiglie toccate dalla crisi, dalle difficoltà anche intrinseche, dalla disoccupazione. Il pensiero va oggi alla situazione che si è creata intorno all’ex Ilva di Taranto. Quei lavoratori, quelle famiglie non possono essere abbandonate a se stesse. È urgente riaffermare e garantire il diritto al lavoro che si coniughi con un degno e salutare ambiente di vita». Un cattolico impegnato in politica è chiamato a ricucire, è l’idea del presidente della Cei. «In un frangente segnato dalle divisioni, dalle lacerazioni sociali e, aggiungerei, anche ecclesiali – spiega il cardinale –, occorre essere uomini e donne di comunione e di riconciliazione, intercettare le varie sensibilità e i molti bisogni, fare sintesi intorno a quell’orizzonte condiviso che è l’umanesimo cristiano. Inoltre serve dare forma e sostanza alle parole: non ci si può fermare solamente all’annuncio». Bassetti indica il Vangelo che ha sul tavolo. «La nostra società – conclude – ha un grande bisogno di persone che non scendano a patti con la mondanità, con l’individualismo esasperato, con l’arroganza diffusa e che abbiano come bussole la sobrietà e l’umiltà. Non si tratta di guardare al passato ma di costruire un futuro realmente nuovo».

CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 novembre 2019 Pagg 32 – 33 “Anche qui in clausura siamo donne e poi suore. L’errore è credersi sante” di Walter Veltroni Tra le monache di Città della Pieve

Sono andato al monastero di Santa Lucia a Città della Pieve per ascoltare la voce di donne che hanno compiuto una scelta esistenziale e religiosa molto radicale. Ho nella memoria un bellissimo documentario radiofonico di Sergio Zavoli dedicato a queste persone. Incontro la Madre Badessa Manuela Corvini e suor Fedele dopo che una sorella mi ha fatto avere, attraverso una «ruota», la chiave di una piccola sala in fondo alla quale c’è una grata. Dietro di essa siederanno a lungo, con pazienza e sorriso, due donne italiane che hanno accettato di raccontare la loro scelta e la loro vita. Quante sorelle siete qui? «Ventotto: dai 104 ai trentadue anni. La fascia media è tra i cinquanta e i sessanta». Suor Fedele, com’è una giornata qui dentro? «Inizia molto presto, alle cinque e mezza con la celebrazione delle Lodi mattutine. Poi preghiamo per tutto il giorno, tranne i pasti e le ore lavorative che vanno dalle nove alle dodici e dalle sedici alle diciotto. Dopo la cena abbiamo 45 minuti di ricreazione per stare insieme e dopo la preghiera della sera, alle nove e trenta, ci ritiriamo nelle nostre celle». Madre Manuela, cosa rende una giornata diversa dalle altre? «L’intenzione con cui la vivi, credo. Ripartire da capo ogni mattina, con il Signore e con le sorelle». Posso chiedervi come siete arrivate, ciascuna, a questa scelta così radicale? «Non è mai un’iniziativa personale, la persona non dice: “Ecco adesso entro in monastero”. È come quando si incontra una persona e ci si innamora, stesso modo. Se ragioniamo con un’ottica di fede, c’è una chiamata. È un’iniziativa di qualcuno, con la q maiuscola. Io ho lottato con il Signore prima di dire di sì a questa vocazione. L’iniziativa non è stata mia, ero proiettata verso altro nella vita. Anche se all’interno di una formazione più o meno religiosa, ho combattuto con il Signore perché gli dicevo: tutto, ma non questo. Però ad un certo punto ricevi un amore così grande che non puoi non restituirlo». A che età è entrata? «Ventisette». Come era la sua vita prima? «Studiavo. Ho fatto Lettere classiche, mi sono laureata al Raimondi a Bologna. Ero fidanzata, proiettata sul matrimonio e sull’insegnamento». E poi che successe? «È intervenuto il Signore». In che momento? Come si è manifestato? «Ad un certo punto si è interrotto il rapporto con questo ragazzo, ma non perché ci fosse un’altra persona, né da parte mia né da parte sua. Per quello che riguarda me non mi bastava più questo rapporto. Avevo tutto, avevo l’affetto di un ragazzo, dei miei, prospettive sicure per il futuro, tutto quello che si vuole. L’impegno in parrocchia, tante cose gratificanti, però avvertivo un’insoddisfazione dentro, un senso di vuoto profondo a cui, in alcuni momenti, non sapevo dare il nome. Il nome l’ho messo dopo, a posteriori». Quindi non c’è stato un momento particolare nel quale ha sentito questa chiamata? «Non sono stata buttata da cavallo come san Paolo. È stata una cosa lenta, graduale e, ripeto, ho combattuto con il Signore. Solo alla fine, quando ho detto va bene mi arrendo hai vinto tu, ho trovato la pace e una pace profonda. Come un mare: possono esserci tempeste in superficie, però le acque in basso sono calme». E perché la scelta della clausura nel monastero e non di un’altra forma di impegno? «Al Signore ho detto: “Va bene ti faccio la suora, ma non la clausura” proprio perché mi attirava, questa scelta, ma allo stesso tempo mi angosciava. Solo che qualunque altra forma non mi restituiva la radicalità che io cercavo. Io cercavo un amore radicale per il Signore, per la Chiesa, e li ho trovati solo in clausura, perché se avessi scelto la forma di vita attiva, non avrei potuto essere contemporaneamente dove avrei dovuto. Se ero in una scuola non ero in Africa, se ero in Africa non ero in parrocchia... Mentre, è un paradosso come ce ne sono tanti nella nostra fede, questo è stato l’unico modo che mi ha permesso di raggiungere tutti». Suor Fedele? «Per me invece è stata la caduta di San Paolo. L’opposto della Madre». Di dove è? «Tortona, provincia di Alessandria. Sono entrata a 24 anni, dodici anni fa, nel 2007. Dopo gli anni di catechismo, finita la Cresima, ho fatto come tanti. Ho iniziato la mia vita, la scuola superiore. Non ci pensavo proprio più, alla chiesa. Poi nel 2006, sono venuta qui perché sapevo che c’era una suora della mia città. Era la mattina di Pasqua. Sono entrata in chiesa. Noi alla messa apriamo la grata, scorre e si apre. E mi sono emozionata a vedere le suore con quel sorriso vero, non stampato. Da hostess, come direbbe Papa Francesco. E ho pensato: come fanno ad avere quel sorriso, stando rinchiuse lì dietro? Mentre loro sorridevano, io piangevo. Ed è iniziato così il travaglio interiore. Ho ripreso un cammino catechistico, avevo solo le nozioni di base. Ma mi ero innamorata di questo luogo, della loro vita e sarei entrata subito. Mi ricordo che questa sorella mi aveva detto: “Almeno impara quando si dice il Padre Nostro, nella messa”... Facevo pazzie per venire: finivo di lavorare alle sei di sera, dormivo qualche oretta, partivo verso l’una per essere qua alle Lodi». Che lavoro faceva? «Di giorno lavoravo con mia sorella che ha una ditta di riscaldamento e condizionamento. L’aiutavo, curavo in particolare l’assistenza. Stabilivo gli interventi degli operai e di sera avevamo persino un discopub. Il periodo della mia conversione è stato l’anno boom del nostro lavoro. Ero all’apice della mia carriera. Mi andava bene la vita e lì è arrivato il Signore». Si ricorda il momento in cui ha detto alla sua famiglia che aveva fatto questa scelta? «L’ho detto a mia mamma. Mi ricordo, era proprio la festa della mamma. Lo aveva già capito perché è stata una conversione radicale: ho cambiato vita, alle sei uscivo di casa per andare a messa. Mi ricordo ancora la domenica mattina in cui le ho detto: “Mamma ti devo parlare”. Lei mi ha guardato: “Ti fai suora” e io le ho detto “sì”. “Fai tutto, ma non di clausura”. Mia mamma è invalida quindi avevo tanta paura. Invece il Signore le ha dato tanta grazia e non mi ha mai ostacolato». E sua sorella come l’ha presa? «Male. Tra l’altro io avevo chiesto un segno al Signore. Mia sorella ha otto anni più di me. Voleva avere un figlio e non riusciva. Questa suora aveva citato una frase di don Bosco, quando ero in cammino di discernimento, che dice: “Quando il Signore chiama a sé una giovane in una famiglia, manda sempre un angelo al suo posto”. E io davvero su questa frase ho gettato le reti. Ho pensato: “Allora fai rimanere incinta mia sorella”. È rimasta incinta». Madre Manuela, ci sono stati momenti nei quali la sofferenza le ha fatto avere dei dubbi tanto radicali quanto la scelta compiuta? «In superficie sì, questa non è assolutamente una vita tranquilla. No, c’è la fatica, ci sono momenti di dubbio, di buio. Guai se non ci fossero veramente, sarebbe una vita falsa. Ci può essere la tempesta, nel nostro mare, però nel profondo rimane la pace. Questo rapporto con il Signore è talmente profondo, che niente lo può mettere in discussione». Suor Fedele, come filtra il mondo esterno qui dentro? «Abbiamo alcuni giornali cattolici: l’Osservatore e l’Avvenire e poi abbiamo un po’ di accesso a Internet, soprattutto la madre». Non vedete televisione? «No, solo in infermeria. Quando c’è stato il terremoto ad Amatrice tre anni fa, abbiamo visto un telegiornale per capire cosa stava succedendo. Abbiamo tanti contatti telefonici. Siamo abbastanza vive. Concretamente l’esterno entra così, poi sta a te ricordarti qual è il tuo servizio per quel mondo». Madre Manuela, quindi voi avete la percezione di quello che succede fuori? «Direi proprio di sì. Poi sono tante anche le persone che chiamano al telefono, scrivono, o vengono ad affidarci le loro intenzioni di preghiera. Il mondo entra con le loro parole». È giusto che Dio chieda delle rinunce nel rapporto di amore con lui? «Dipende cosa si intende per rinuncia». È paradossale ma la vostra può apparire all’esterno una scelta egoistica: sottrarre se stessi alle relazioni con gli altri, all’aiuto, al sostegno. C’è questo rischio? «Il rischio c’è. Il problema dell’uomo, da Adamo ed Eva, è l’individualismo. Lo puoi vivere nel matrimonio, nel lavoro, in monastero, da monaca clarissa. Non si entra e non si rimane in monastero per se stessi, mai. Certo, a occhi solo umani è una follia, o una raffinata forma di egoismo. La clausura è stato per me il “modo” concreto per raggiungere tutti. Ogni altra forma di consacrazione mi appariva limitata, circoscritta. Radicalità dell’amore per il Signore e amore per la Chiesa, per l’umanità vanno insieme. Una vita apparentemente “persa” per Lui, per potere in Lui raggiungere tutti. È un paradosso, come è un paradosso che Cristo abbia salvato l’uomo dall’alto di una croce. Il cuore di una monaca non è più solo un cuore di donna, fatto per accogliere e donare l’amore. Al di là delle debolezze umane, diventa il campo del mondo, il campo di Dio, in cui, sotto i suoi occhi, avvengono le fatiche e le lotte di tutti. Nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Quando — non importa se si vedrà solo in cielo — una piccola speranza fiorisce all’improvviso nel cuore di un fratello, dietro c’è un cuore che si è aperto per tutti. C’è mai stato un tempo in cui si sia più sentito il bisogno di questo? Oggi l’uomo cerca la vita, quella vera, ha sete di bellezza autentica, della positività del reale. La notte è giunta troppo in là». C’è una differenza tra la clausura degli uomini e quella delle donne? «Ci sono tante forme, anche le clausure delle donne non sono tutte uguali, noi per esempio abbiamo la clausola papale che è quella forse più rigida». Non c’è una regola universale? «No. Ci sono monaci che vivono in clausura, ci sono i certosini...». Ma perché le grate per le donne sì e per gli uomini no? «La grata anzitutto è un segno. Quindi un segno è sempre qualcosa di visibile e che deve parlare, deve rimandare a qualcosa d’altro. La grata rimanda a Dio. Il motivo è quello, non è né un segno di difesa, di protezione di o da non so bene cosa». La domanda è: perché un sacerdote maschio non dovrebbe accettare lo stesso segno? Se è un segno... «Ci sono anche religiose suore che non vivono in clausura. Sono forme di vita diversa. I certosini penso abbiano la forma più rigida anche della nostra. Non so se volevamo arrivare a dire che la clausura imposta alle donne...». No, volevo solo capire la ragione di questa differenza. Quanto è bello il silenzio in una società rumorosa come la nostra? Quanto è grande il silenzio? «C’è silenzio e silenzio. C’è un silenzio che è uguale al mutismo e questo è egoistico sia in monastero che fuori: mi metto le cuffie e non sento nessuno e mi faccio gli affari miei. E c’è un silenzio abitato da una presenza forte. Questo è il silenzio vero che ci riempie». Voi vi siete mai arrabbiate con Dio? «Come no». Per esempio? «Quando ti smonta, quando ti dice “non sei quella che pensi di essere ma sei quella che ho scelto io”. Noi possiamo solo accogliere. Credo che la vita per ogni cristiano cambi quando si fa accoglienza e non conquista. Un po’ come: “Signore ti servo, vado a messa la domenica, faccio questa offerta così mi fai andare bene l’esame, mi guarisci dalla malattia e magari alla fine mi dai anche il Paradiso”. Questa non è la fede, al massimo può essere religione, quindi qualcosa ancora costruita dall’uomo. Ma non si chiama fede, la fede è affidarsi a una persona, un po’ come il bambino che impara a camminare. Perché impara a camminare il bambino? Perché sa, lo ha sperimentato, che se cade ci sono le braccia del papà o della mamma che lo tirano su. La fede è questo, cioè affidarsi». Uno degli elementi essenziali della vita umana è il dubbio, nel senso che il dubbio è il viaggio, il dubbio è la ricerca dell’altro da sé. Come esiste il dubbio nella vostra scelta? «È negativo se ti porta a mettere in discussione sempre tutto: c’è anche la moda oggi del mettere in discussione tutto, non ci sono certezze. E anche questo diventa un dogma, il dogma di non avere certezze. E questo è negativo. Diventa positivo il dubbio se mi fa mettere in discussione, cioè se non pretendo di aver raggiunto la meta. Se è qualcosa che mi fa ripartire ogni giorno verso una meta ulteriore, verso un traguardo che si sposta più avanti». Madre Manuela, perché questa passione per l’Infinito di Leopardi? «Non so, è dalle medie. L’infinito è proprio questo, forse pensare a questo colle che alla fine diventa un mare, attraverso la parola attraversa il limite, la siepe, e si apre l’infinito. E poi c’è quel verbo “s’annega” che mi aveva interessato tanto e avevo trovato quella frase dello Zibaldone che dava una spiegazione: Leopardi parla della compassione e dice che la compassione è quasi una negazione che l’uomo fa di se stesso e del proprio egoismo. Mi sembrava che il “s’annega” dell’ultimo verso non fosse solo legato alla dimensione semantica dell’andare a fondo, ma del negare se stessi. Da qui poi il naufragare dell’ultimo verso». Qualcuno ha cercato di mettere in discussione l’esistenza di Dio con Auschwitz. C’è qualcosa in cui vi sembra che l’uomo abbia tradito al massimo livello Dio? «Noi tradiamo in continuazione il Signore. Ma Dio non rinuncia alla nostra libertà. Siamo noi che spesso non teniamo alla nostra libertà e andiamo dietro ai vari burattinai di turno. Noi diciamo “non ho fede” ma crediamo agli oroscopi, ai telegiornali, agli slogan pubblicitari. Finiamo per credere a tutto. Però Dio ci lascia liberi, preferisce che noi pecchiamo piuttosto che rinunciare alla nostra libertà. Non vuole dei burattini. L’uomo è libero, questo ci deve sempre interrogare e richiamare alla responsabilità». Cosa pensate del risorgente razzismo? «Aver estromesso Dio ci porta a estromettere anche l’uomo: se tolgo Dio dalla mia vita perché devo amare il fratello? Cercherò di sopraffarlo, di prendere quello che è suo, di trarre tutto per me. Cioè l’io al centro. Io, io, io». Quanta sofferenza dà, a voi che avete fatto una scelta così radicale, vedere nella chiesa comportamenti intollerabili? «Tanta sofferenza, tanto dolore. Soprattutto se pensiamo al Papa. È chiaro che lo scandalo nella chiesa fa più male ancora di quello esterno alla Chiesa. La Chiesa è santa e peccatrice. Il peccato rimane, lo spirito santo deve lavorare con il materiale che gli mettiamo a disposizione. E siamo noi uomini, peccatori. Il peccato non va mai nascosto e mi sembra che il Papa stia dando chiari segnali in questa linea». Suor Fedele, come è arrivata qui la notizia delle dimissioni del Papa? Come l’avete commentata? «Per telefono, ci ha chiamato qualcuno, siamo andate a vedere su Internet. Bocca aperta. Inaspettata. Una cosa nuova. Poi però l’abbiamo letta con tanta sapienza». Un telefono cellulare non sapete cosa sia? «Lo sappiamo». Lo avete, Madre Manuela? «Sì, abbiamo tre telefoni cellulari che usiamo per chiamare. Ci sono tanti monasteri in cui le badesse girano con il telefono. Io mi rifiuto, sono una badessa alternativa, senza cellulare. È a disposizione delle sorelle per fare chiamate». Non ricevere? «No, lo teniamo spento. Adesso abbiamo una sorella in ospedale e lo usiamo per chiamarla». Parlatorio, celle e grate sono cose che esistono in altri istituti. Che differenza c’è, Madre Manuela? «La scelta». Per voi è un punto dell’orizzonte la grata, non è una reclusione? «No, assolutamente. È la siepe». Leopardi per suor Emanuela, per lei, suor Fedele, qual è il riferimento letterario più importante? «La canzone di , “Penelope”. Quando stavo facendo il cammino, era uscita la canzone che diceva proprio: “Chiara era una ricca signorina che divenne più ricca quando ebbe la povertà”. Jovanotti è il mio poeta preferito. Mi piacerebbe venisse a trovarci». La rinuncia alla maternità, non è la rinuncia ad una parte delle possibilità umane? «La maternità non è solo quella fisica, il cuore di una donna è fatto per amare e per essere amato, quindi guai se non c’entra l’amore. Se non c’entra la fecondità che è spirituale. La madre è quella che si dona. Che dà la vita, che rinuncia a qualcosa di sé per il figlio. E questo siamo chiamate a farlo anche noi. Se non lo facciamo siamo zitelle. Ed è un peccato da confessare». La rinuncia alla sessualità è dura? Fa parte di questo scambio? «C’è un modo diverso di viverla. C’è una sessualità che non è solo genitalità ma è molto più profonda e fa parte dell’essere uomo e dell’essere donna. Io rimango donna fino in fondo: prima di essere clarissa sono donna e poi sono una donna cristiana e poi clarissa. Nel mio modo di accostare le sorelle, nel mio modo di accostare le persone che vengono, nel mio modo di comportarmi con il Signore io rimango una donna, quindi con anche la mia sessualità, la mia affettività, la mia razionalità. Tutto di me rimane. Questo vale anche per la gente fuori: l’amore non può mai essere solo genitalità. Andare dietro l’emozione del momento per soddisfare l’emozione del momento. Non è questa la vita. L’amore è qualcosa di più. Mi viene in mente l’immagine del mio babbo, scomparso due anni fa. All’improvviso è stato ricoverato e il giorno dopo è morto. Io ho sempre con me una foto fatta col cellulare da mio fratello. Il giorno prima era nel letto di ospedale con l’ossigeno e gli occhi chiusi. Questa foto riprende mia mamma che si china sul mio babbo — papà aveva 86 anni, anche mia mamma un’ottantina — e gli tocca la maschera di ossigeno, cosa che non aveva mai fatto. Un gesto di tenerezza. Questo a me ha insegnato tanto: dopo una vita intera trascorsa insieme tu ti chini sull’uomo con cui hai diviso ogni giorno e lo accarezzi, comunque...». Le è costato non andare lì? «Sono andata per il funerale. Non sono arrivata in tempo a vederlo vivo, ma sono andata per il funerale. Siamo libere di andare, per la morte dei genitori». Che impressione le ha fatto stare fuori da qui? «Noi usciamo per votare e per andare dal dottore, dal dentista, per cui è normale». Parlate di politica, tra voi? «Come no. Due domeniche fa siamo andate a votare. In questi casi ci vediamo tutte e una sorella si documenta, stampa qualcosa da Internet e discutiamo. Poi votiamo liberamente. Chi vuole dire per chi vota lo dice e chi non vuole non lo dice. Abbiamo votato anche per il sindaco. I candidati sono venuti e si sono presentati. Trenta voti. Non sono pochi». Che impressione vi ha fatto la decisione del sinodo di aprire a sacerdoti sposati? «Ho potuto dare solo una rapida occhiata al documento finale del sinodo. Il filo conduttore, come balza subito agli occhi dai titoli dei capitoli, è “conversione”. Per le enormi difficoltà di accedere ai sacramenti nel territorio dell’Amazzonia, il documento propone di “stabilire criteri e disposizioni” perché diaconi permanenti sposati possano essere ordinati sacerdoti. Quindi non il prete che si sposa, ma lo sposato che può diventare prete. Sono due realtà diverse. Piuttosto che invocare lo scisma o ipotizzare scenari apocalittici, restiamo in attesa dei pronunciamenti del Santo Padre. Con tanta pace e tanta serenità...».

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 9 novembre 2019 Non può esserci una pena senza un orizzonte Udienza ai responsabili della pastorale carceraria

«Non c’è una pena umana senza orizzonte: nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte». Lo ha sottolineato Papa Francesco nel discorso rivolto ai partecipanti all’incontro internazionale per i responsabili regionali e nazionali della pastorale carceraria, ricevuti in udienza nella mattina di venerdì 8 novembre, nella Sala Clementina. Pubblichiamo di seguito una traduzione dallo spagnolo delle parole pronunciate dal Pontefice.

Stimato signor Cardinale, cari fratelli e sorelle, Vi saluto cordialmente tutti voi che partecipate a questo Incontro sullo Sviluppo Umano Integrale e la Pastorale Penitenziaria Cattolica. Quando ho incaricato il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrare di rendere manifesta la preoccupazione della Chiesa per le persone in particolari situazioni di sofferenza, ho voluto che si tenesse conto della realtà di tanti fratelli e sorelle detenuti. Non è però un compito assegnato solo al Dicastero, ma è tutta la Chiesa in fedeltà alla missione ricevuta da Cristo a essere chiamata a operare permanentemente la misericordia di Dio a favore dei più vulnerabili e indifesi nei quali è presente Gesù stesso (cfr. Mt 25, 40). Saremo giudicati su questo. Come ho già segnalato in altre occasioni, la situazione delle carceri continua a essere un riflesso della nostra realtà sociale e una conseguenza del nostro egoismo e indifferenza sintetizzati in una cultura dello scarto (cfr. Discorso nella visita al centro di Riabilitazione Sociale di Ciudad Juárez, 17 febbraio 2016). Molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità. Così si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che favoriscono il compimento di azioni illecite. È più facile reprimere che educare e direi che è anche più comodo. Negare l’ingiustizia presente nella società è più facile e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini. È una forma di scarto, scarto educato, tra virgolette. Inoltre, non di rado i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere i processi di reinserimento, senza dubbio perché non dispongono di risorse sufficienti che permettano di affrontare i problemi sociali, psicologici e familiari sperimentati dalle persone detenute, e anche per il frequente sovrappopolamento delle carceri che le trasforma in veri luoghi di spersonalizzazione. Al contrario, un vero reinserimento sociale inizia garantendo opportunità di sviluppo, educazione, lavoro dignitoso, accesso alla salute, come pure generando spazi pubblici di partecipazione civica. Oggi, in modo particolare, le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, ci siamo abituati a scartare piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita. Molte volte, uscita dal carcere la persona si deve confrontare con un mondo che le è estraneo, e che inoltre non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare per ottenere un sostentamento dignitoso. Impedendo alle persone di recuperare il pieno esercizio della loro dignità, queste restano nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo, in mezzo alla violenza e all’insicurezza. Come comunità cristiane dobbiamo porci una domanda. Se questi fratelli e sorelle hanno già scontato la pena per il male commesso, perché si pone sulle loro spalle un nuovo castigo sociale con il rifiuto e l’indifferenza? In molte occasioni, questa avversione sociale è un motivo in più per esporli a ricadere negli stessi errori. Fratelli, in questo incontro avete già condiviso alcune delle numerose iniziative con cui le Chiese locali accompagnano pastoralmente i detenuti, quanti hanno concluso la detenzione e le famiglie di molti di loro. Con l’ispirazione di Dio, ogni comunità ecclesiale va assumendo un cammino proprio per rendere presente la misericordia del Padre a tutti questi fratelli e per far risuonare una chiamata permanente affinché ogni uomo e ogni società cerchi di agire in modo fermo e deciso a favore della pace e della giustizia. Siamo certi che le opere che la Misericordia Divina ispira in ognuno di voi e nei numerosi membri della Chiesa dediti a questo servizio sono veramente efficaci. L’amore di Dio che vi sostiene e v’incoraggia nel servizio ai più deboli, rafforzi e accresca questo ministero di speranza che ogni giorno realizzate tra i detenuti. Prego per ogni persona che, dal silenzio generoso, serve questi fratelli, riconoscendo in loro il Signore. Mi congratulo per tutte le iniziative con cui, non senza difficoltà, si assistono pastoralmente anche le famiglie dei detenuti e si accompagnano in questo periodo di grande prova, affinché il Signore benedica tutti. Vorrei concludere con due immagini, due immagini che possono aiutare. Non si può parlare di un regolamento del debito con la società in un carcere senza finestre. Non c’è una pena umana senza orizzonte. Nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte. E tante volte siamo abituati ad accecare gli sguardi dei nostri reclusi. Portate con voi questa immagine delle finestre e dell’orizzonte, e fate sì che nei vostri paesi le prigioni, le carceri, abbiano sempre finestra e orizzonte, persino un ergastolo, che per me è discutibile, persino un ergastolo dovrebbe avere un orizzonte. La seconda immagine è un’immagine che ho visto diverse volte quando a Buenos Aires andavo in autobus a qualche parrocchia della zona di Villa Devoto e passavo davanti al Carcere. La fila della gente che andava a visitare i detenuti. Soprattutto l’immagine delle madri, le madri dei detenuti, le vedevano tutti, perché stavano in fila un’ora prima di entrare e poi erano sottoposte ai controlli di sicurezza, molto spesso umilianti. Quelle donne non avevano vergogna che tutti le vedessero. Mio figlio è lì, e per il figlio non nascondevamo il loro volto. Che la Chiesa impari maternità da quelle donne e impari i gesti di maternità che dobbiamo avere verso questi fratelli e sorelle che sono detenuti. La finestra e la madre che fa la fila sono le due immagini che vi lascio. Con la testimonianza e il servizio che rendete, mantenete viva la fedeltà a Gesù Cristo. Che al termine della nostra vita possiamo ascoltare la voce di Cristo che ci chiama dicendo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 34.40). Che Nostra Signore della Mercede accompagni voi, le vostre famiglie e tutti coloro che servono i detenuti.

IL FOGLIO di sabato 9 novembre 2019 Pag 1 Declino di una chiesa di Matteo Matzuzzi Silenziosa e divisa tra chi spera nel “partito dei cattolici” e chi rimpiange i tempi andati. La crisi della Cei

Non sono passati poi troppi anni da quando s'attendeva l'oracolo della Conferenza episcopale italiana per capire come sarebbe andato un referendum, dato il peso politico e culturale che essa aveva. Merito (o colpa, dipende dai punti di vista) della svolta di Loreto del 1985 e di tutto quello che ne conseguì, con il mandato pieno e chiaro di Giovanni Paolo II a evangelizzare in senso forte e pieno. Camillo Ruini, che divenne prima segretario della Cei nel 1986 e poi presidente per sedici anni (1991- 2007), avrebbe messo in pratica quel progetto. Fu proprio Ruini a svelarne i contorni poco meno d'un decennio fa, parlando alla Libera Università Maria Assunta di Roma: Wojtyla si è occupato più intensamente della chiesa italiana negli anni precedenti il convegno di Loreto. Man mano che aumentava la sua conoscenza della situazione dell'Italia e della chiesa italiana, il Pontefice poteva scoprire la presenza di un convincimento diffuso: la convinzione, cioè, che il processo di secolarizzazione fosse irreversibile e che l'unica strategia pastorale, e anche culturale e politica, che avesse speranza di ottenere risultati non effimeri fosse quella di non contrastare tale processo, bensì di accompagnarlo e, per così dire, di evangelizzarlo, evitando che esso degenerasse in un secolarismo ostile alla fede cristiana. Ne derivò la stagione dell'in - fluenza politica che accompagnò e poi seguì il disfarsi della Democrazia cristiana, auspicando favorendo e benedicendo la presenza dei cattolici in tutti i poli; si potrebbe dire per usare una massima ratzingeriana delle minoranze creative in grado di marcare una propria presenza. La stagione del collateralismo, diranno altri ultimo è stato mons. Nunzio Galantino, per qualche tempo segretario generale della Cei prima di essere spostato a gestire gli immobili vaticani che ha garantito ampi spazi sui giornali e vuoti ben visibili nelle chiese, per non parlare di un laicato messo sotto sedazione. Oggi Ruini, che della Cei non è più presidente da dodici anni, torna a ribadire che non è tempo di partiti unici di cattolici, che gli esperimenti in atto sono tutti di corto respiro e per di più provenienti dal cattolicesimo democratico, in concreto il cattolicesimo politico di sinistra che ha sempre meno rilevanza e che è visibile il declino di autorevolezza della chiesa. Finita l'epoca della evangelizzazione in senso forte e pieno oggi domina, anche nella Cei, il profilo basso. S'interviene poco e solo quando è proprio necessario, si ammicca a esperimenti politici da mandare in campo contro le ruspe salviniane, ci si richiama ai grandi padri che hanno lasciato un segno, da La Pira in giù. Basterà per rianimare il laicato e per risvegliare un po' le coscienze? Al momento non si direbbe, considerata la situazione letargica nella quale si trova la grande famiglia dei vescovi italiani. Il problema è capire se in questa fase storica si potesse fare altrimenti. Ha scritto il cardinale Angelo Scola nel libro (Solferino, 2018) che "se c'è una discontinuità molto evidente tra l'èra Ruini e la fase attuale della chiesa italiana questa, a mio avviso, è dovuta a due motivi fondamentali. Il primo è che gli strumenti con i quali la chiesa italiana aveva scelto di intervenire nella vita pubblica per salvaguardare i valori irrinunciabili della persona non sono più utilizzabili allo stesso modo. Quel che si è rivelato molto efficace quindici o dieci anni fa oggi rischia di essere un'arma spuntata. Il processo di secolarizzazione è andato avanti in modo impetuoso e la capacità del credente di testimoniare la valenza sociale della fede si è purtroppo indebolita". E poi, aggiungeva Scola, "oltre a questo motivo di carattere sociologico e culturale c'è poi un altro decisivo fattore di discontinuità nell'azione della chiesa ed è indubbiamente il pontificato di Francesco. Mi sembra che Papa Francesco rispetto ai suoi predecessori abbia scelto un' altra strada, non sul piano della sostanza, ma Ho scommesso sulla libertà del modo di proporla". Sergio Belardinelli, ordinario di Sociologia dei processi culturali all'Università di Bologna e autore insieme ad Angelo Panebianco del recente (il Mulino, 2019), dice che "sul declino di autorevolezza politica da parte della chiesa italiana non credo che ci siano molti dubbi. D'altra parte si tratta di un declino che viene da lontano, al quale proprio il cardinale Ruini cercò a suo tempo di porre rimedio inventandosi il famoso 'Progetto culturale'. Piuttosto sarebbe da domandare se oggi questo declino non sia molto di più che semplicemente politico. Dopo la crisi della Democrazia Cristiana, il progetto culturale mirava come è noto soprattutto a evangelizzare la cultura, puntando su un ideale antropologico, con la speranza che col tempo questo potesse avere efficacia anche sulla dimensione politica. Un lavoro meticoloso durato quasi due decenni, culminato nei tre 'Rapporti-proposta' pubblicati dal Comitato per il progetto culturale della Cei negli anni 2009-2013, dedicati rispettivamente all'educazione, alla demografia e al lavoro: un esempio eloquente di cultura da tradurre in progetto politico, forse l'unico vero progetto per l'Italia elaborato in questi ultimi anni. Ma la storia, lo sappiamo, finì in una sorta di rimozione generale. Così, liquidato il progetto culturale come espressione del famigerato 'ruinismo', ci ritroviamo con una chiesa politicamente e culturalmente sempre più irrilevante, che balbetta sui problemi spesso con il linguaggio degli altri". Luca Diotallevi, ordinario in Sociologia presso l'Università di Roma Tre, la vede in un'altra maniera: "Da credente ho condiviso alcune delle scelte che Ruini assunse negli anni in cui era presidente della Cei e vicario per Roma. Nello stesso tempo non feci mistero del non condividere la matrice culturale che ispirò quel servizio. Ruini si trovò a fronteggiare un 'sinistrismo cattolico' subalterno ai miti del tempo, primo tra tutti quello della laicità. Questo sinistrismo minava alla radice l'eredità conciliare e montiniana. Un esempio di quel sinistrismo: la laicità era spacciata per opzione conciliare e invece era stata condannata dal Vaticano II in nome della libertà religiosa. Alla radice della 'linea' di Ruini vi era, però, e sempre esplicito, un giudizio pieno di riserve sulla modernità (ad esempio una di un mondo nuovo All'alba certa, per me discutibile, lettura di Kant) e una certa lettura del Vaticano II e del pontificato montiniano (per me riduttiva). Il suo progetto, sin dal primo discorso al Consiglio permanente della Cei era quello di ridare centralità ecclesiale al clero e primato alla pastorale, facendo dei laici innanzitutto 'operatori pastorali' e dunque comprimendo di molto il respiro dell' apostolato dei laici. Questo progetto - sostituire le pastorali all'associazionismo laicale - è fallito. Ha dato luogo a un neoclericalismo debole e patinato e ha dato nuove chance al sinistrismo cattolico che voleva combattere". Il professor Pietro De Marco, emerito di Sociologia delle religioni all' Università di Firenze, cerca di fare un po' di chiarezza: "Se le espressioni 'incidere sempre meno', 'adeguarsi alle situazioni del momento', e 'chiesa silenziosa', riguardano la capacità e l'azione di indirizzo dei comportamenti elettorali da parte della Cei, tale declino (commisurato, però, sull' influenza della Cei nell'età di Ruini) esiste in primo luogo perché l'azione di indirizzo politico-elettorale è condotta con linguaggi elitari ed emozionali che trovano riscontro, scontato, solo in minoranze cattoliche. Si noti, vanno a rafforzare le convinzioni di ampie aree di non-credenti 'etici' che, invece, accolgono la leadership della chiesa di Bergoglio. In secondo luogo, tale azione di indirizzo è condotta da una gerarchia e da un clero che hanno 'abbandonato' a se stessi i numerosi christifideles che, per lo più intuitivamente, immunizzano la ordinaria pratica di fede e sacramenti dall' utopia politica e dalla dogmatica umanitaria. Il 'fine vita' diviene un impegno facoltativo di cui, nelle condizioni presenti della chiesa, va comunque reso atto ai vescovi d'essersi ricordati". S'accennava prima al presunto "fattore-Bergoglio" come possibile causa dell'atteggiamento mutato della Conferenza episcopale. Dopotutto fu il Papa, un paio di mesi dopo l'elezione, a chiarire che non vi sarebbero più stati "cappelli" calati dall'alto sull'azione dei vescovi. "E' compito vostro", disse più volte. Concetto ribadito in forma più estesa nel 2015, durante il Convegno ecclesiale di Firenze che si riproponeva di archiviare Loreto 85 e di inaugurare una nuova stagione. In quel discorso, Francesco chiariva di volere "una chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza". E' ora, aggiungeva Bergoglio, di farla finita con "l'ossessione di preservare la propria gloria, dignità, influenza". A quattro anni di distanza, quelle direttive sono state archiviate in qualche teca, tornano sovente in qualche citazione qua e là, ma insomma, sono rimaste lettera morta. Una paralisi talmente evidente - inizialmente si parlava di disorientamento, ma dall'avvento bergogliano sono passati più di sei anni - che riemersa perfino l'antica proposta di padre Bartolomeo Sorge S.I. di organizzare un grande Sinodo per l' Italia che dia nuovi indirizzi e indichi nuovi orizzonti. E dietro Sorge vi sono vari vescovi, pronti a cogliere l'occasione per favorire la svolta. Più freddi i vertici della Cei: per mesi hanno ricordato che il tema non è all'ordine del giorno, salvo poi sentire dalla voce del Papa, durante l' assemblea di maggio, che la questione in agenda eccome se c'è. Ma quanto ha pesato il fattore- Bergoglio? "Poco", dice Diotallevi. "Io vedo grande continuità tra il wojtilismo, il ratzingerismo e il bergoglismo. Apparenze diverse, simpatie a volte opposte, ma grande indulgenza verso la frammentazione intraecclesiale, tanti dubbi sul moderno e poco spazio all'apostolato dei laici. Sono invece proprio i laici che stanno poco nelle chiese e molto per le strade, quelli che nella chiesa hanno più da dire, almeno così insegnava il Concilio. Altro che operatori pastorali, leader religiosi e Papa boys". Non concorda Belardinelli: "Premesso che Papa Bergoglio è anche il mio Papa e che ammiro molto la sua predilezione per gli ultimi e la sua volontà di rinnovare la chiesa, ho l'impressione che la sua denuncia sacrosanta dei mali del mondo, primi fra tutti la guerra, la fame, i disperati che cercano di sfuggirvi, l'inquinamento ambientale, sia troppo 'umana' e quindi esposta al rischio della strumentalizzazione ideologica. Additando il mercato e il liberismo come i principali responsabili (imputazioni peraltro opinabili), è come se venisse edulcorata la tragica serietà del male che viene denunciato. Con la conseguenza che lo slancio profetico della denuncia si indebolisce proprio per il fatto di apparire troppo legato alle logiche del mondo, al limite troppo politico e troppo poco escatologico. In questo modo la chiesa viene come sollecitata a mettersi d'accordo su temi che, pur rilevanti, ammettono tuttavia diverse letture politiche, tendono a dividere gli stessi cattolici e certamente non sono il cuore della sua missione. Naturale dunque una certa 'crisi d'identità', specialmente quando tutt'intorno sembra indebolirsi la fede". Un "fattore" che per De Marco "ha contato e conta in maniera decisiva con il suo pesante, inconfessabile, effetto di disorientamento perché ha rinforzato la scelta laico-ecologico- umanitaria di minoranze cattoliche attive che la Cei non può che inseguire e compiacere. E poi perché ha ghettizzato (non si può dire meno efficacemente) le maggioranze cattoliche dissenzienti, cui i vescovi, in maggioranza, non possono rivolgersi che con censura o grave imbarazzo, pena la disapprovazione di Roma. Infine, perché ha messo tra parentesi, se non declassata, quella fondazione del credente nella perenne fede della chiesa che anzitutto, per non dire esclusivamente, conferisce identità alla gerarchia e alla chiesa tutta. Una chiesa (istituzionale) mimetica, illuministicamente eteroflessa, attratta dalle 'falsificazioni del Bene' ovvero da insidiose ideologie pseudo-cristiane, non può avere identità storica. E ciò vale, anzitutto, a definire il fattore-Bergoglio in sé e nei suoi effetti". In ogni caso, nessuno spazio per partiti e partitini cattolici o di cattolici. "Non è un tema che mi scaldi più di tanto", ammette Belardinelli. "Ieri (leggi: ai tempi di Todi) se ne parlava soprattutto perché un certo mondo cattolico, largamente minoritario e prevalentemente di sinistra, non riusciva ad accettare l'ingombrante figura di Berlusconi; oggi mi pare che se ne parli perché quello stesso mondo, magari con qualche ragione in più, non riesce ad accettare la presenza di Salvini. Come motivazione per fondare un partito non mi sembra proprio il massimo del realismo. A maggior ragione se penso che il preoccupante successo che raccoglie oggi la Lega è in gran parte dovuto proprio alla leggerezza con la quale il mondo cattolico e la sinistra italiana hanno trattato il tema dell' immigrazione. A ogni modo, se son rose fioriranno. Di certo non vedo in giro tanta gente, nemmeno tra i cattolici, disposta a votare un partito perché si dice cattolico o cristiano. L'antidoto alla crisi che attraversa la politica italiana sta nella serietà e nel realismo delle proposte che un partito è in grado di fare e nella capacità culturale - mi verrebbe da dire il coraggio - di radicarvisi con coerenza e determinazione". Esperimento, quello di rifare un tal partito, "dal respiro cortissimo", aggiunge Diotallevi. E questo "non solo perché i cattolici oggi sono di meno e culturalmente più poveri. Del resto, per guidare un processo non bisogna necessariamente essere in tanti, soprattutto all'inizio. Il 'partito cattolico' non ha storia e infatti non è mai esistito. I paradigmi sono solo due: o Gentiloni (il Patto del 1913) o Sturzo. Se scegli Gentiloni hai sì il 'voto cattolico', ma solo come pedina di scambio tra istanze ecclesiastiche e potentati di turno. E poi - aggiunge Diotallevi - per l'ennesima volta il Patto di Todi a sostegno dell' operazione Monti-Napolitano ha dimostrato che il paradigma non funziona, non fa crescere la democrazia, neppure quando è declinato 'a sinistra'). Se scegli il paradigma Sturzo hai rilevanza (si pensi alla stagione di De Gasperi), ma a fondamento hai un programma cioè una sintesi opinabile, niente di identitario. Tertium non datur, insomma: o Gentiloni, o Sturzo. Il partito dei cattolici è un' operazione che può produrre solo qualche seggio per 'indipendenti di' (destra o sinistra o centro, poco cambia". Insuccesso abbastanza certo anche per De Marco: "Perché non vi è una 'diaspora politica' dei cattolici. I partiti cattolici furono una grande creazione congiunturale; non vi erano cattolici dispersi prima della loro creazione (né ove non sono mai esistiti), non vi sono dopo la loro fine. Fuori dalle coordinate storiche di Otto-Novecento e dalle chance di governo fondate su quelle maggioranze, quale la base elettiva di un 'partito cattolico'? Inoltre, gli elettorati (che fanno oggi i partiti), specialmente quelli con forte presenza di fedeli (cattolici) hanno già scelto le loro rappresentanze politiche. Infine, élite che ipotizzino nuovi partiti cattolici 'democratici' sono ideologicamente costrette a ignorare gli elettori cattolici conservatori, per rivolgersi ad aree di credenti (di sinistra-centro) che non aspirano, da tempo, ad alcuna formazione politica che si dichiari 'cattolica'. Essi si situano da tempo senza difficoltà nelle culture di sinistra, laiche e postcomuniste. Insomma, nessuno, né a sinistra né a destra, si sente in diaspora, bisognoso di un ritorno alla Terra delle origini. Aggiungo che sinistra e destra sono - per la gran parte - già il Centro. Non deve infatti fuorviare il fatto che non esista un grande Centro come partito. I cinque stelle, in quanto si vogliono Centro, sono aggregato instabile, attratto ora a destra ora a sinistra, per questo volatile e già in dissoluzione. Gli elettori chiedono, da quasi trent'anni, all'eventuale Centro una decisione più che una mediazione. A maggior ragione, quindi, l'ipotesi che manchi un Centro "Il progetto ruiniano ha favorito un neoclericalismo patinato, concedendochancealsinistrismoche voleva combattere" (Diotallevi) "E' naturale una certa crisi d'identità, se lo slancio profetico della denuncia di ogni male è troppo legato alle logiche mondane" (Belardinelli) "Nella politica italiana non contano più né il 'cattolico democratico' di sinistra né il 'cattolico sociale' più recente" (De Marco) Nel letargo prende forza chi propone una svolta totale, rispolverando addirittura l'antica proposta di un Sinodo per l'Italia e che ciò dia spazio a 'partiti cattolici' in gestazione, pare infondata". E perché il cattolico non conta più, o conta così poco, nella politica italiana? Secondo De Marco "non contano più nella politica italiana il cattolico 'democratico' della tradizione democristiana di sinistra, e democratica post Dc, perché si è assimilato nella lunga battaglia contro Berlusconi alle diverse opposizioni laiche e/o postcomuniste. Queste hanno assorbito il singolo cattolico (fosse un Dossetti) nel fronte comune, senza oneri. Non conta più neanche il 'cattolicosociale' recente (per lo più impolitico, alla maniera dei cinque stelle) perché assimilato, sul modello del Papa, alle culture laiche umanitario-ecologiche, quindi indistinguibile. Conta sicuramente, invece, nella politica italiana, con tutto il suo realismo, almeno l'elettorato cattolico che vota per la Lega". Questa sul ruolo del cattolico in politica è "la domanda cruciale" secondo Luca Diotallevi. "Perché meno che in passato i cattolici pensano la propria fede - in barba alle richieste del Vaticano II - e la vivono meno, sempre più spesso relegandola ad alcuni angoletti innocui del privato o del 'sociale'. Per dirla con san Paolo, oggi la fede vissuta ha perso un po' in larghezza, un po' in altezza, un po' in lunghezza, un po' in profondità. Pensiamo agli scherzi del destino: la 'scelta religiosa' dell'Azione cattolica, tanto contestata, proprio questo significava invece: dare alla fede tutto il respiro della libertà e della responsabilità, anche di quella per il bene comune". Belardinelli ha invece più di un dubbio: "Almeno in linea di principio non credo che i cattolici non contino più nulla nella politica italiana. Certo non siamo più al tempo in cui una parola della chiesa obbligava comunque la politica a tenerne conto. Meglio contestati che irrilevanti, ripeteva spesso il cardinale Ruini. Tuttavia non mi sembra che oggi un cattolico conti meno degli altri. Il pluralismo genera partiti politici sempre più trasversali dove i cattolici possono contare eccome. Non è necessario essere riuniti sotto uno stesso partito per seminare i germi di ciò in cui si crede. Piuttosto la domanda da porre sarebbe forse un'altra: chi oggi conta veramente nella politica italiana, dilaniata da moralismi, servilismi e populismi che non fanno sperare niente di buono? Ma il problema ci porterebbe troppo lontano".

AVVENIRE di venerdì 8 novembre 2019 Pag 3 Una questione femminile (e non clericalizzata) di Maurizio Gronchi A proposito della condizione delle donne nella Chiesa. E di cultura

Oggi, da più parti si leva la voce delle donne nella Chiesa. S’invoca maggior responsabilità negli spazi in cui si prendono decisioni, dal momento che la partecipazione attiva di religiose, consacrate e laiche, specialmente in territori di missione, è di grande rilievo. Non solo: nella vita ordinaria delle parrocchie, le donne sono ancora la maggioranza. Senza poi considerare la cura della trasmissione della fede all’interno delle famiglie. Insomma, le donne nella Chiesa hanno un ruolo di fatto, ma non altrettanto di diritto, specie quando si tratta delle cosiddette funzioni 'ministeriali', almeno intese in modo formale e istituito. Al di là delle rivendicazioni ideologiche della parità di ruolo, che sconfinano nella tentazione di clericalizzare la condizione femminile, la questione riveste un’indubbia attualità e urgenza. Più che occupare spazi, si tratta di iniziare processi – come suggerisce papa Francesco. Di uno di questi processi vogliamo occuparci, seppur brevemente. Cominciamo dalle religiose, che sono quelle più istituzionalizzate, per così dire, in quanto consacrate in modo specifico e totale al servizio del Vangelo. Il loro peso effettivo è evidente per chiunque abbia frequentato un asilo, una scuola, un ospedale, come a chi sia stato in terre di missione, nelle parti più povere e sperdute del pianeta. La cura dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei più vulnerabili è nel cuore e nelle mani di schiere di donne umili, generose e sorridenti, che nulla chiedono e tutto donano, spendendo la vita senza clamore. Ma qui non vogliamo parlare di queste donne straordinarie, che nel servizio del Vangelo hanno trovato la pienezza di vita. Pensiamo invece a tutte quelle che vivono con frustrazione la condizione vita che hanno scelto, e non danno a vedere il proprio disagio a motivo dell’obbedienza e dello spirito di sacrificio che le anima, ma che non sempre basta a sostenerle. Di solito, una giovane entra in convento con la piena disponibilità a servire il Signore senza condizioni, affidandosi a formatrici e superiore che hanno il compito di discernere per quale servizio la ragazza sarà più adatta. Molto spesso, però, capita che prevalgano le esigenze della casa, della comunità religiosa, dei vuoti da colmare per carenza di suore, di attività già strutturate che hanno bisogno di ricambio. Più di rado avviene che si proceda, nel discernimento, dalla valorizzazione dei doni che quella giovane ha coltivato in precedenza, e porta con sé nella vita religiosa, tali da arricchire e rinnovare la comunità stessa. Anche se la postulante o novizia non chiede nulla, perché disposta a lasciare tutto, di fatto avviene un salto tra il prima e il dopo, che non può essere soltanto motivato con l’obbedienza e la nuova vita, ma che in realtà corrisponde alle esigenze concrete della comunità. Tanto più che nella professione religiosa, un domani, verrà richiamata la originaria vocazione battesimale, sulla quale fruttifica la vita consacrata. Come allora concepire continuità (con la vita dal battesimo in poi) e novità (della vita religiosa)? Quale armonia stabilire tra la verità del cammino fatto in precedenza e la radicalità della risposta a questa chiamata? Infatti, può capitare che una ragazza laureata e già avviata professionalmente si trovi a svolgere mansioni molto diverse, senza dubbio utili a lei e alla comunità. Ma come evitare l’intima frustrazione di veder inutilizzati doni che potrebbero portare frutto a vantaggio di tutte le sorelle? Questo è solo un esempio, che però apre la strada a una riflessione di carattere pratico, oltre che di visione generale sulla vita consacrata. Si tratta della formazione culturale delle religiose. Per quale ragione, anche negli istituti a vocazione sanitaria, generalmente le suore studiano da infermiere e non da medico? Perché, quando si tratta di frequentare un’università pontificia, ci si limita a un piano di studi ridotto o a conseguire una licenza in materie non troppo impegnative? Sono solo domande che partono dalla considerazione dei fatti. Si potrà ovviamente rispondere che non è sempre così, certo. Ma, se oltre ad apprezzare il cuore e a impiegare le braccia delle religiose, non si comincia anche a valorizzare la loro mente e il loro pensiero, sarà difficile ascoltare la voce delle donne nella Chiesa. Proprio a partire da quelle che hanno scelto di donare tutto, ma che sembra una parte di loro faccia paura proprio a chi le accoglie. E, almeno in questo caso, non si tratta di uomini.

IL FOGLIO di venerdì 8 novembre 2019 Pag 2 Cardinali parlanti di Eugenia Roccella Il senso dell’intervento di Ruini è più profondo di una mezza frase sul futuro di Salvini l direttore - Passano i giorni ma l'eco dell'intervista del cardinale Ruini al Corriere non si spegne. Ancora martedì scorso, da Floris, Elsa Fornero ha commentato incredula, con una certa acidità, la moderatissima apertura di credito a Salvini da parte del cardinale come un vero e proprio scandalo. Da Alberto Melloni in giù, la linea seguita dai cattolici progressisti, e dai progressisti non cattolici, è stata questa: Salvini è il male assoluto, il cinico sventolatore di rosari, il disumano spregiatore di migranti, la chiesa può dialogare con chiunque ma non con lui. Se Ruini voleva tener fede al suo famoso "meglio contestati che irrilevanti", come sempre è riuscito nell'intento: irrilevante non è mai. Le reazioni all'intervista si sono concentrate sugli scarni (ma significativi) riferimenti alla politica italiana, ma il cuore dell'intervento del cardinale non è quello, e non è quello il motivo per cui, dopo tanto silenzio, si è esposto e ha parlato. I suoi ultimi libri (Intervista su Dio e C'è un dopo? La morte e la speranza) sono dedicati a temi che oggi godono di scarsa attenzione, non vanno sui giornali e non suscitano dibattiti: l'aldilà, l'esistenza di Dio, la vita eterna, la resurrezione. E' la forza del messaggio cristiano che a Ruini interessa, e soprattutto l'unità della chiesa come bene fondamentale. Traspare chiaramente, nell' intervista, la sua ansia profonda per una chiesa che perde peso e autorevolezza, in un mondo sempre più scristianizzato. Nel momento in cui la maggioranza del recente Sinodo vorrebbe aprire un varco al matrimonio dei sacerdoti, Ruini esprime le sue ragioni contro il cedimento allo spirito dei tempi, e lo fa con evidente amore per la chiesa e con assoluto rispetto nei confronti del Pontefice. La risposta alla crisi delle vocazioni, e al forte calo di fedeli praticanti, è "essere più vicini a Dio nella nostra vita, e domandare tutto questo a Dio nella preghiera. Senza stancarci". Sorprende, leggendo queste frasi, che figure di rilievo, esperte di cose che riguardano la dottrina e la storia della chiesa, abbiano aperto il fuoco sulle frasi a proposito di Salvini. Il dubbio è che sia stata una scelta mirata e consapevole, una manovra diversiva, o meglio, una risposta laterale e indiretta alle parole del cardinale sul Sinodo e sulla questione del celibato. Nessuno ha commentato l'altra parte dell'intervista, e colpisce la coltre di imbarazzato silenzio che ha coperto la posizione di Ruini e le sue argomentazioni. L'irritazione suscitata dalle parole del cardinale è stata incanalata su un versante più facile, cercando probabilmente di far dimenticare la preghiera perché il Papa non confermi l’orientamento del Sinodo.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 novembre 2019 Pag 31 Dove va l’oro dei migranti di Goffredo Buccini e Federico Fubini Boom di rimesse verso i Paesi d’origine

Mezzogiorno di metà settimana. L’incrocio tra via Gioberti e via Giolitti, di fronte alla stazione Termini, a quest’ora è strategico. Sul marciapiede invaso dal mercatino delle scarpe a cinque euro, loro aspettano il turno. «Invio danaro Ghana, invio dinero Colombia»: i cartelli del Ria Money Trasfer assicurano velocità, discrezione. Come quelli della Western Union, alla bottega accanto. O di MoneyGram. I soldi partono da posti così, da casse quasi continue in fondo a empori zeppi di magneti, cd, occhiali, cellulari, in un angolo di Roma dove il kebab ha da tempo sopravanzato la pizza. E da altri 35 mila sportelli delle tre multinazionali sparsi in tutta Italia. Per usare questa rete basta un documento, non necessariamente quello giusto. «Chiamatemi Buba, Buba e basta», sorride il ragazzo con la felpa rossa e tre banconote da cinquanta in pugno. Quasi tutti, anche quelli con le carte in regola, ci danno nomi fasulli, sono timorosi. E così il grande giro di rimesse verso l’estero racconta molto di loro - gli immigrati - ma anche molto della nostra economia, della nostra politica, di noi. Nemmeno queste rimesse potevano scampare alla Grande recessione. Gli stranieri spedivano nei Paesi d’origine 7,4 miliardi di euro nel 2011 (quando erano poco meno di quattro milioni) e ancora 6,8 miliardi l’anno dopo, con l’inizio del declino e la crisi del debito: 1.686 euro a testa in un anno; somme che, mandate alle famiglie, rendevano del tutto razionale l’idea di pagare migliaia di euro in un colpo solo a una banda di trafficanti pur arrivare qui. Da allora però le cifre calano. Alla fine del 2017, antivigilia del primo governo dichiaratamente ostile all’immigrazione, gli stranieri residenti salgono a cinque milioni, ma mandano a casa solo cinque miliardi di euro. Mille a testa l’anno, un terzo in meno rispetto ai tempi del governo Monti. In parte perché si sono integrati e spendono i loro redditi più per l’istruzione dei figli in Italia e meno per i cugini ancora al villaggio. In parte perché la crisi morde. Poi, la sorpresa: emerge da un’analisi del Corriere su dati appena aggiornati dalla Banca d’Italia. La rotta si inverte con l’arrivo del governo Cinque Stelle-Lega, all’aprirsi della stagione dei porti asseritamente chiusi, delle quotidiane sortite contro i migranti, della xenofobia in aumento registrata anche dalle denunce nella seconda metà del 2018. È allora che le rimesse dall’Italia tornano a esplodere. Nella seconda metà del 2018, primo semestre del primo governo Conte, l’aumento è del 17% rispetto allo stesso periodo del 2017. È come se crescesse il risparmio precauzionale mandato al sicuro, all’estero. A fine 2018, un anno stagnante per l’economia, il numero degli stranieri è più o meno stabile, ma aumentano di quasi 800 milioni le loro rimesse rispetto al 2017. E la prima metà del 2019 segna un altro più 2%, malgrado la crescita zero in Italia. In parte è tenacia. In parte paura. Non si fidano più, come Buba. Buba avrebbe di che essere orgoglioso della sua vera identità. Ventidue anni, aspirante geometra: con la paga da aiuto cuoco non solo mantiene agli studi in Gambia i quattro fratelli, ma sostiene anche gli ospiti del Villaggio Sos Bambini di Bakoteh, piccoli che, come lui, «hanno perso i genitori troppo presto». Così Buba è diventato una specie di arcipadre per i suoi fratelli e anche per i bimbi di Bakoteh: «Il mio sogno è costruire una scuola dove imparino a leggere e scrivere in inglese e in italiano». A questa doppia famiglia ha appena spedito 150 euro (ne manda fino a 200 al mese tramite Western Union, per sé tiene quasi gli spiccioli). Ma le rimesse non sono solo altruismo e trasparenza. Quelle verso la Cina per esempio crollano dagli 83 milioni a trimestre di inizio 2016 a soli 2,6 milioni a trimestre dell’inizio di quest’anno: poiché il numero dei cinesi in Italia resta più o meno stabile, circa 12 mila, la scomparsa delle rimesse lascia pensare a economia sommersa e reti clandestine. Non alla crisi. Lo stesso andamento erratico delle spedizioni di denaro in Nigeria (3,2 milioni nel primo trimestre 2017, sette volte di più nel secondo semestre 2019) fa ipotizzare riciclaggio ed economia illegale, anche sulla scorta delle indagini della Finanza. Michael, nigeriano, 50 anni, ha in tasca un foglio di espulsione contro cui ha fatto ricorso. Ora aspetta, rannicchiato nelle pieghe dell’accoglienza cattolica (la sola che ha retto davvero). Lavora in nero, ma manda almeno 50 euro al mese al figlio di 12 anni in collegio a Lagos. «Devo farlo, in Nigeria se ti ammali paghi». Un bambino fortunato il suo Tony, si direbbe, non fosse che il padre s’è fatto cinque anni a Rebibbia per traffico di droga. Parla a fatica della galera Michael, dice di essere laureato in economia e forse per questo il giudice ha pensato che tenesse i conti della banda. «Ma io sono innocente e non ci sono bande». Nemmeno i culti della vostra mafia? «La mafia nigeriana è un’invenzione dei giornalisti» (Michael parla a tratti come i mafiosi siciliani che negavano l’esistenza di Cosa Nostra). «Dovessi cambiare una cosa della vita? Non sarei venuto in Italia. Poi penso che potrà venire qui mio figlio e allora resisto». Resistono in tanti, abbiano o meno la legge dalla loro. Un’occhiata alle rimesse verso i sedici Paesi d’origine dei maggiori flussi di sbarchi fra il 2015 e il 2017 - tra cui la stessa Nigeria, il Pakistan, il Ghana, la Siria - apre uno squarcio su «mondo di sotto» della società italiana. Per questi immigrati, decollano le rimesse per abitante fra la prima metà del 2017 e la prima metà del 2019. Come se l’Italia fosse una tigre asiatica, non un Paese con poco lavoro e alti costi della vita. Eppure la Banca d’Italia è chiara. In due anni le rimesse pro-capite degli afghani crescono del 34%, quelle dei bengalesi del 2%, (ma valgono 4.400 euro l’anno a testa, un record), quelle dei nigeriani salgono del 190% e dei pachistani del 42%. È probabile che il boom delle rimesse verso i Paesi di origine dei rifugiati arrivati con i barconi si spieghi perché ad esso partecipano di nascosto anche gli «invisibili»: gli irregolari con richiesta d’asilo negata che però restano qui in nero, sommersi, ma a loro modo integrati. Per capirci: il numero reale degli afgani in Italia dev’essere salito circa del 20% se si contano anche gli irregolari, quello dei nigeriani del 170% e anche i pakistani sono molti di più, fuori dai dati Istat su chi ha un permesso. Tanti di questi «clandestini» sbarcati dal 2015 sono tali per la burocrazia e per la politica: ma non per chi li mette al lavoro, spesso sfruttandoli. Non pochi pensano di rientrare in patria, domani, per cambiarla: il «piano Marshall per l’Africa», di cui spesso straparliamo, se lo stanno facendo da soli, stringendo i denti. Issa ha 23 anni, sta per diventare biologo, fa il mediatore culturale in uno Sprar a Benevento. Gambiano come Buba, ma più consapevole di un ruolo che va conquistandosi nella nostra università: «Io tornerò a casa a lavorare per la mia gente». Intanto lavora per la famiglia, quattro fratelli piccoli gli costano mille euro l’anno di rimesse. Quando è andato a trovarli dopo cinque anni da noi, il più piccolo l’aveva visto solo su Skype: «Era un uomo! Camminava! Beh, cosa dovevo fare? Mi sono messo a piangere...».

CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 novembre 2019 Pag 7 Crisi e crollo dei consumi, piccoli negozi in ginocchio. “Chiuse 20.500 botteghe” di Michela Nicolussi Moro Indagine Cgia: dal 2007 persi in Veneto 784 milioni di incassi

Venezia. La crisi economica ha lasciato il segno anche sul potere d’acquisto delle famiglie venete, che dal 2007 a oggi hanno tagliato 784,3 milioni di euro in consumi, mettendo in ginocchio i negozi al dettaglio e le botteghe artigiane. Lo rivela uno studio della Cgia di Mestre, che dal 2009 al 2019 registra la chiusura di 17.797 botteghe artigiane (-12,4%) e di 2680 piccoli negozi (-5,6%: sono minimercati, ambulanti, alimentari, tabacchi, distributori, rivendite di apparecchiature informatiche, articoli culturali e ricreativi, abbigliamento, pelletteria e calzature, fiori, animali domestici, gioielli e merce di seconda mano), per un totale di 20.477 attività sparite. Insomma, nella nostra regione si sono persi 378 euro al mese a famiglia: peggio ha fatto solo l’Umbria, con un importo di 443. «In Veneto tra il 2018 e il 2017, in particolare, la spesa media per famiglia è scesa di 52 euro mensili, pari ad una contrazione dell’1,9%», recita il dossier. «I piccoli negozi e le botteghe artigiane faticano a lasciarsi alle spalle la crisi - commenta Renato Mason, segretario della Cgia - vivono quasi esclusivamente dei consumi delle famiglie, che hanno ridotto e modificato profondamente le modalità di spesa. Preferiscono comprare nei centri commerciali e con tanti negozi vuoti ci sono meno posti di lavoro ma anche più degrado, abbandono e insicurezza». Severa pure la lettura prettamente economica: «Il peso del Fisco continua essere troppo elevato, è diventato sempre più difficile fare impresa. Anche perché il peso della burocrazia e la difficoltà di accesso al credito hanno costretto molti piccoli imprenditori a gettare definitivamente la spugna». «E’ successo esattamente ciò che avevamo annunciato nel 2008, quando il decreto Monti ha liberalizzato giorni e orari di apertura - dichiara Massimo Zanon, presidente di Confcommercio -. Allora non ci diede retta nessuno quando dicemmo che un simile provvedimento avrebbe svuotato di vetrine i centri storici a vantaggio della grande distribuzione. Ora i nodi vengono al pettine, ma è tardi: aver lasciato il mercato in balìa della totale libera concorrenza ha aggiunto alla crisi il problema di un eccesso di offerta proprio quando scendeva la capacità di spesa della gente. E questa realtà - insiste Zanon à ha gelato gli entusiasmi anche dei fautori del sempre tutto aperto, consumatori inclusi. Può essere una comodità nel breve termine, ma nel lungo periodo il risultato è la scomparsa dei negozi al dettaglio. Soffocati pure dal peso fiscale e da una burocrazia che non consentono di mettere da parte una lira». E poi c’è la concorrenza dell’e- commerce, che comincia a rosicchiare una buona fetta di incassi al settore della tecnologia e del turismo. «E’ vero che ci sono state migliaia di chiusure, ma nel Veneto i negozi al dettaglio restano 50mila - precisa Maurizio Francescon, presidente del Cescot, l’Osservatorio economico di Confesercenti -. Esiste infatti un turn-over continuo, ormai il 70% delle nuove attività non riesce a stare aperto più di 3-5 anni, però viene quasi sempre rimpiazzato. Da altre botteghe, da punti vendita delle grandi catene, ed è il motivo per cui scende il numero dei proprietari, o da negozi in mano ad extracomunitari. Soprattutto cinesi e nordafricani, a capo del 14% delle imprese di settore. Si chiude per il proliferare della grande distribuzione registrato fino al 2013 e poi per l’avvento dell’e- commerce - aggiunge Francescon -. Ora la nuova minaccia sono i local, esercizi di piccola o media superficie gestiti però da grandi imprese, come Despar o Pam». Altra componente decisiva il cambio di modalità d’acquisto. Se prima la precedenza andava a cibo, vestiti e casa, ora si spende soprattutto per tempo libero, benessere, vacanza, viaggi e tecnologia. «Non dimentichiamo infine il risicato margine di vantaggio dei piccoli negozi, costretti a versare al Fisco il 64% degli utili e alla burocrazia un altro 2%-3%», chiude il presidente del Cescot.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 novembre 2019 Pag VI Solidarietà, un emporio per i bisognosi di Chiara Piazza

Venezia. Inaugurato a Venezia il primo Emporio della solidarietà, ospitato nei locali un tempo adibiti ad uso portineria, ex ospedale Umberto I, su iniziativa dell'associazione Corte del Forner. Alla cerimonia erano presenti il patriarca Francesco Moraglia,l'assessore Simone Venturini, l'assessore Manuela Lanzarin e Anna Brondino presidente dell'associazione. Prodotti alimentari e di prima necessità, dalla pasta allo scatolame di vario genere ai prodotti di igiene della persona e per la pulizia della casa, tutti allineati sugli scaffali, con i prezzi regolarmente esposti, a vederlo così potrebbe sembrare un classico negozio di alimentari se non fosse che una volta arrivati alla cassa la spesa si paga a punti e questo tramite un'apposita card, si parte infatti da un base di 500 punti a tessera e con possibilità di rinnovo semestrale. L'Emporio della solidarietà si propone di essere non solo un servizio innovativo di supporto alle persone in difficoltà, ma anche un punto di ascolto, centro di aggregazione, dove poter maturare insieme esperienze educative, partecipando a veri e propri percorsi di inclusione. «Oggi mi sento emozionata ha detto Anna Brondino - perché vedo finalmente realizzarsi un progetto in cui ho creduto per anni e che mi vede coinvolta in prima linea. Nella nostra regione sono attivi 24 empori della solidarietà e nello scorso anno hanno raggiungo oltre 30 mila persone e distribuito circa 70 mila tonnellate di alimenti. I numeri parlano da soli». «Un modo - ha detto il patriarca - per far si che la povertà non sia pretesto di isolamento ed esclusione, ma occasione di dialogo e confronto. L'occasione per preservare la dignità delle persone specie le più bisognose in una sinergia costante di interazione pubblico e privato. L'emporio della solidarietà sarà aperto tutti i giovedì dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19. Info: [email protected].

Pag IX San Marco, ultimatum al Mose: “Fare presto, Basilica a rischio” di Michele Fullin Il Primo Procuratore Tesserin: “Vogliamo sapere se funzionerà e quando. Non c’è più molto tempo”

Venezia. Dev'essere dura fare tutto il possibile per tenere il più lontano possibile la Basilica di San Marco dall'acqua e constatarne la precarietà ogni volta che la marea supera gli 89 centimetri. È quello che accade ormai da tempo al Primo Procuratore di San Marco, Carlo Alberto Tesserin, guardando i marmi e i mosaici del nartece, attaccati dalla salsedine che arriva e non se ne va. Ieri è stato il secondo giorno di una settimana acqua alta sostenuta e la domanda è sempre quella: quando si capirà se il Mose funziona oppure no? «Diciamo che sabato - commenta Tesserin - l'acqua è stata più clemente di ieri. Lo sapevamo perfettamente che il nartece si sarebbe inondato, ma sappiamo che, grazie agli interventi fatti, invece che 180 volte l'anno esso andrà sotto 10-20 volte l'anno. Se il nostro compito è tutelare la Basilica, in questo momento siamo nella condizione di avere la certezza che non siamo in grado di farlo. E vorrei che questa consapevolezza fosse fatta propria da tutte le istituzioni». Per Tesserin, il punto fondamentale è proprio il Mose, di cui si sa sempre troppo poco e spesso solo dai giornali. CI SERVONO CERTEZZE - «La problematica che registriamo - continua - è che noi tutti viviamo l'acqua alta come un fatto naturale e non siamo portati a pensare domani cosa potrebbe succedere. Eppure, ce lo hanno spiegato dal Centro maree che la previsione si muove in un ambito di incertezza. Il disastro potrebbe essere domani perché nessuno può sapere quando ci saranno le condizioni ideali. Proprio per questo, a distanza di oltre 50 anni non possiamo trovarci di nuovo a dire, dopo che sarà accaduto, e adesso cosa facciamo?». La preoccupazione di Tesserin riguarda il Mose. «Ho letto di queste vibrazioni negli impianti durante le prove - prosegue - spero che sia una situazione facilmente superabile. Ma noi siamo sempre nella condizione di non sapere niente. Vorrei che a fronte di una prova non realizzata venissero comunicati alle istituzioni deputate condizioni e tempi per superare l'anomalia, di che entità è stata eccetera. Ci sarà un momento in cui ci diranno tra un anno entra in funzione. E invece no. Dopo 5 anni non ci dicono ancora se funzionerà oppure no». Per il Primo Procuratore, le soluzioni finora adottate per tenere all'asciutto la Basilica sono abbastanza efficaci, ma non lo saranno in futuro. NON ABBIAMO TEMPO - «Per arrivare al momento ci abbiamo messo 50 anni, e se non va ne aspettiamo altri 50? Ormai è un dato acquisito che nel 2050, cioè domani, il mediomare potrebbe crescere di 35 centimetri. Ringraziamo tutti quelli che ci hanno aiutato a realizzare l'impermeabilizzazione del nartece. Ma non è questa la soluzione. Le condizioni che abbiamo riscontrato sui marmi del nartece che abbiamo restaurato e che mostreremo presto, apriranno gli occhi a molti. Noi cittadini - conclude - abbiamo bisogno di vedere questo Mose in funzione, con le paratoie tutte su. Poi possiamo anche attendere. Ma per un periodo determinato, non altri 50 anni».

Pag XVII L’emporio solidale ha aiutato 500 persone di Luisa Giantin

L'emporio solidale San Martino di Mira Porte compie un anno: ha aiutato 155 famiglie e 500 persone. Ad un anno di distanza dall'inaugurazione della struttura, ricavata nei locali del patronato della parrocchia di San Marco Evangelista, è tempo di bilanci per coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione: Comune di Mira, Caritas Vicariale e l'associazione Ponte Solidale guidata da Fabio Schirru. Tra le 498 persone che accedono all'Emporio per ricevere cibo (prevalentemente latte, tonno, pasta, passata pomodoro e riso ma anche prodotti per l'igiene della persona e della casa) e abbigliamento) il 49% è composto da italiani ed il resto da stranieri; il 57% sono disoccupati, il 35% dipendenti (autonomi o cassa integrazione). Il 62% dispone di un reddito con Isee zero, il 33% ha un Isee sotto i 6 mila euro, il 5% tra i 6 mila e i 9360 euro. «L'Emporio si regge sull'impegno di una trentina di volontari impegnati nell'apertura, nella gestione della struttura e nel punto d'ascolto, spiega Schirru. Gli stessi volontari sono presenti anche ai tavoli di lavoro con assistenti sociali per monitorare alcune situazioni». Il centro gode di un finanziamento dalla Regione, del sostegno delle Parrocchie del Vicariato che hanno anche finanziato il restauro dei locali e partecipano alle attività di volontariato mentre il Comune di Mira eroga un contributo annuo. Attraverso il Ria (Reddito inclusione attiva) ci sono 4 persone inserite nell'attività. RETE SOLIDALE - «Siamo felici di sostenere questo progetto - afferma l'assessore alle Politiche sociali Chiara Poppi - sia come servizio per aiutare le persone e famiglie in difficoltà (più di 70 sono nuclei famigliari con figli minori) sia per la rete di sensibilità che si sta creando, che vede, oltre che il nostro contributo economico e tecnico, anche la presenza delle parrocchie, dei volontari, degli esercenti e di privati. Una vera e propria rete di solidarietà. Un sostegno all'Emporio arriva anche dal commercio locale. «Su impulso del Tavolo di partenariato del Distretto del commercio Mira in progress - sottolinea l'assessore alle Attività produttive Vanna Baldan - è stato avviato un percorso di cessione delle eccedenze alimentari da parte di operatori commerciali e della ristorazione a cittadini bisognosi tramite appunto il San Martino». Il centro è aperto il lunedì dalle 15 alle 17 per la raccolta abbigliamento e il centro di ascolto, e il venerdì, sempre dalle 15 alle 17, anche per la parte alimentare.

LA NUOVA di domenica 10 novembre 2019 Pag 29 Mira: all’emporio solidale seguiti 500 bisognosi, per metà sono italiani di A.Ab.

Mira. Domani l'emporio solidale di San Martino compie un anno ed i risultati in termini di aiuti ai bisognosi del territorio mirese sono importanti. Le famiglie in difficoltà che si sono rivolte all'emporio sono state 155, per un totale di 498 assistiti. Il 49% degli utenti è composto da italiani, il 51% da stranieri. Per il 48% sono maschi e per il 52% femmine. Quanto all'Isee, il 62% dispone di un reddito: il 33% con Isee fino a 6.000 euro, il 5% tra i 6.000 e i 9.360, il resto (1%) inferiore a 9.360. Gli aiuti sono dati per il 57% a disoccupati, per il 35% a dipendenti (autonomi o cassa integrazione). Tra i maggiori prodotti presi ci sono latte, tonno, pasta, passata di pomodoro, riso, prodotti per l'igiene della persona e della casa. Tra i maggiori articoli donati dalle parrocchie ci sono il tonno, l'olio e il caffè. I prodotti dai ai bisognosi arrivano per il 30% da Agea (l'Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), il 26% dalle parrocchie miresi, il 23% da acquisti, il 5% dall'associazione Amici della Solidarietà-Montebelluna, il 16% da donazioni di privati, l'1% da eccedenze.«A distanza di un anno», spiega l'assessore alle Politiche sociali Chiara Poppi, «siamo molto felici di sostenere questo progetto, sia come servizio per aiutare persone e famiglie in difficoltà, tenuto conto che più di 70 sono nuclei familiari con figli minori, sia per la rete sensibile che si sta creando, che vede oltre che il nostro contributo economico e tecnico con il tavolo degli assistenti sociali, anche la presenza delle parrocchie, dei volontari, degli esercenti di Mira e dei privati. Siamo felici che si siano potute inserire anche persone in difficoltà per aiutare nelle pulizie e nella sistemazione dell'emporio. Un mutuo aiuto reciproco che permette anche di creare relazioni. Il frutto di un lavoro congiunto tra l'assessorato alle Politiche sociali, quello alle Attività produttive e all'Ambiente». L'emporio solidale, nei locali del patronato di San Marco Evangelista a Mira Porte, è un progetto promosso dal Comune in collaborazione con la Caritas vicariale e l'Associazione Ponte Solidale guidata da Fabio Schirru. Una trentina i volontari coinvolti nell'apertura e nella gestione dell'emporio e del punto di ascolto. Il Centro San Martino è aperto il lunedì dalle 15 alle 17 per la raccolta abbigliamento e il centro di ascolto, e il venerdì (stesso orario) anche per la parte alimentare. Informazioni su centrosanmartinomira.it.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 novembre 2019 Pag VII L’acqua alta raggiunge quota 110 e scavalca i gradini della Basilica di Michele Fullin Campostrini (Procuratoria): “Con questa misura il nartece è allagato. Allo studio nuove soluzioni”

Venezia. Alla fine l'acqua ha raggiunto i 110 centimetri. Nulla di particolarmente fuori dal normale per una città che ha visto ben altro e con una certa frequenza. Tuttavia, un'altezza del genere ha portato all'allagamento dell'intero nartece della Basilica di San Marco, che per tutta l'estate era stato tenuto all'asciutto con il sistema di valvole e pompe messo a punto dalla Procuratoria e realizzato dal Consorzio Venezia Nuova e dal Provveditorato alle Opere pubbliche. Dopo gli 89 centimetri, tuttavia, l'acqua comincia ad entrare dai gradini trasformando il nartece in una piscina di acqua salata. IL NARTECE SOTT'ACQUA - «Per la basilica - spiega il procuratore di San Marco e direttore del Corila, Pierpaolo Campostrini - è una bella botta lo stesso. Nel senso che è già grave una misura come 110 poiché l'acqua salata anche se va via, crea un danno che non si vede, ma c'è e alla lunga crea grandi problemi, come quelli ai basamenti e alle colonne del nartece che quest'estate siamo riusciti a restaurare grazie al sistema che ha tenuto sempre all'asciutto il luogo». Fortunatamente, ci vuole ben altro per coinvolgere la Basilica il cui pavimento si trova oltre quota 150 e arriva anche a 160. «Dietro - continua Campostrini - si allagano alcuni magazzini, abbiamo fatto il progetto per impermeabilizzare anche quella zona dal rio de la Canonica con valvole sui cunicoli e chiusure stagne. Certo, bisognerebbe cercare di tenere completamente fuori la Basilica di San Marco dall'acqua e al proposito abbiamo qualche idea». Poi, non bisogna dimenticare infine che il Mose, se entrerà in funzione, farà la sua parte. Il fatto è che se tutto andrà bene sarà questione di altri due anni di attese e allagamenti, che potranno essere smorzati facendo coincidere le prove di sollevamento con i picchi di acqua alta. L'evento di ieri era stato previsto dal Centro maree già da sabato scorso. Si parlava di 105 centimetri con possibilità di 110 da quattro giorni, e questa è stata comunicata con mezzo milione di email, 170mila sms e avvisi anche con il nuovo canale Telegram, che in poche ore ha raggiunto diverse centinaia di iscrizioni e che dovrebbe diventare uno degli strumenti principali. SOLO PER UN MINUTO - La punta di marea di marea ha raggiunto un massimo di 110 cm alle 9.10 per un solo minuto, mentre è stata abbastanza stabile sui 106-108. La marea ha prolungato la propria permanenza oltre gli orari astronomici per il non previsto e temporaneo orientarsi della provenienza dei venti dai quadranti sud-orientali (Scirocco). Ovviamente, le sirene non hanno suonato perché si parte con una previsione di 110 centimetri, che è stata raggiunta solo per un minuto. Per questa mattina c'è una previsione a 110 alle 8.50 e di 105 per domani alle 9.10 circa. «La marea - affermano dal Centro maree - potrà mantenersi su valori elevati per tutta la durata della prossima settimana. Da lunedì l'arrivo di un nuovo e profondo fronte atlantico potrebbe causare un ulteriore aumento del livello marino in corrispondenza con i massimi astronomici». UNA SETTIMANA DA STIVALI - Questo significa che ci saranno punte oltre il metro praticamente ogni giorno, con i disagi che ne deriveranno soprattutto sulla mobilità, dalle passerelle ai motoscafi delle linee esterne divise in due tronconi o con passaggio per il canal Grande. Tra mercoledì e venerdì si potrebbero superare anche i 120 centimetri, ma molto dipende dall'evoluzione della situazione meteo e dalla perturbazione che interesserà l'Adriatico la prossima settimana. A chi vive e lavora in città non resterà che tenere sotto mano gli stivali.

Pag XXXI Mensa Ca’ Letizia, a proposito di quel trasloco (lettera di Dino Lazzarotto – Mestre)

Seguo con attenzione il dibattito di queste settimane, pubblicato dal suo giornale, sul trasferimento e possibile soluzione logistica della mensa dei poveri di Ca' Letizia. Secondo don Armando Trevisiol e non solo, il possibile trasferimento alla Cipressina, rischia di isolare ed escludere dalla citta' i tanti poveri che usufruiscono di questo servizio. Sull'argomento credo che don Armando abbia motivate ragioni, avendo sperimentato le difficoltà riscontrate con il ristorante dei poveri, aperto e poi chiuso, presso il don Vecchi di Via Don Sturzo. Difficolta' dovute alla lontananza dal centro, in zona periferica e anche dei costi di trasporto. Credo che gli Enti competenti ci abbiano gia' pensato, ma se così non fosse, mi sentirei di proporre l'utilizzo di uno o piu' padiglioni non abbattuti del vecchio ospedale di Mestre. Se questi non sono rientrati nella recente vendita del sito, sarebbero facilmente raggiungibili dal centro di Mestre, non ci sarebbero abitazioni da creare le difficolta' denunciate in via Querini e probabilmente in futuro un parcheggio gratuito per i volontari una volta realizzato il nuovo centro commerciale previsto in quell'area.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 9 novembre 2019 Pag 11 Pubblicità sui campanili. AAA cercasi imprenditori di F.B. La svolta dalla commissione speciale. Il prefetto: soluzione per i restauri

Venezia. Sponsor e banner sui campanili per poterli restaurare. Perché i problemi non ci sono solo nelle chiese con infiltrazioni, crolli e usura, tanto che il prefetto nei mesi scorsi ha istituito la «commissione campanili», allargando così lo sguardo a quattordici strutture, trovandone quattro in grave stato di conservazione. Per questo, e solo per la messa in sicurezza, i costi preventivati vanno dagli 800 mila euro per San Geremia a più del doppio per Santo Stefano. Il problema però è sempre economico, lo sa bene la Curia (che non può farsi carico di pagare tutti gli interventi) ma anche la Sovrintendenza. «La situazione è critica, ma una via di uscita va trovata per favorire i restauri - spiega il prefetto di Venezia Vittorio Zappalorto - quella individuata mi sembra la migliore, oltre che unica» La Diocesi infatti ha comunicato che, pur essendo disponibile a promuovere un’azione di monitoraggio e verifica della sicurezza e manutenzione del patrimonio ecclesiastico, non dispone e così le singole parrocchie (proprietarie dei cespiti) di adeguate risorse economiche per realizzare un’efficace azione a fronte di un così gran numero di edifici che presentano effettive situazioni di criticità. Vale per i campanili ma naturalmente anche per le chiese. Per questo ieri la commissione ha deciso di «aprire» alla pubblicità in cambio di finanziamenti. L’obiettivo è di realizzare schede precise - che contengano le condizioni statiche, il tipo di interventi previsti e la quantificazione delle risorse necessarie per il restauro - da poter poi sottoporre agli investitori che hanno voglia di «aiutare Venezia». Adesso gli sponsor sono vietati, c’è bisogno della deroga dell’amministrazione comunale e della Sovrintendenza che però si farà promotrice nei confronti del ministero dei Beni culturali. Anche perché c’è sempre l’art bonus che può incentivare gli imprenditori a puntare sul centro storico. Gli ultimi esempi sono stati quelli del ponte di Rialto (frutto di un accordo tra mister Diesel e l’amministrazione con tanto di pubblicità tra le arcate) e quello dell’Accademia, dove Luxottica ha rifiutato qualsiasi banner. I campanili oggetto di sopralluogo sono stati quelli di Santo Stefano, San Geremia, San Zaccaria, San Pietro di Castello, San Francesco della Vigna, Gesuiti, Greci, Madonna dell’Orto, San Stae, Sant’Aponal, Santa Caterina di Mazzorbo, Santa Maria e Donato di Murano, San Martino di Burano. La Commissione non ha concluso i lavori, che necessitano di studi molto più approfonditi e specialistici, ha però verificato lo stato di grave conservazione per tutti e lo stato di criticità su Santo Stefano, San Geremia e Murano. Nei prossimi mesi saranno compilate le varie schede da «offrire» poi agli imprenditori. Un aiuto potrebbe arrivare nelle prossime settimane dal Comune di Venezia che sta predisponendo una delibera per derogare al divieto di sponsor lungo in Canal Grande e in Bacino, e per scontare (o esentare totalmente) gli interventi di restauro sulle chiese e sui campanili la tassa delle installazioni.

CORRIERE DEL VENETO di venerdì 8 novembre 2019 Pag 11 L’emporio della solidarietà apre a Venezia di Giorgia Pradolin Aiuti alimentari ed educativi. Il patriarca: la città cambia, venire incontro alle nuove esigenze

Venezia. Era l’accettazione dell’Ex Umberto I a Venezia ma da ieri, con pasta, olio e sughi allineati sugli scaffali, ha aperto come emporio della solidarietà. Alcuni locali del vecchio ospedale pediatrico di Sant’Alvise riprendono così la missione di assistenza alla persona, se pure sotto altra forma. L’iniziativa è dell’associazione «Corte del Forner» realizzata grazie ai fondi regionali e alla concessione dello spazio da parte del Comune. L’obiettivo è aiutare le famiglie in difficoltà, cinque per ora, individuate grazie alle parrocchie e ai servizi sociali, che potranno fare la spesa gratis con una scheda a punti, ritirando alimenti di prima necessità, raccolti attraverso donazioni. L’inaugurazione ieri si è tenuta con la benedizione del patriarca Francesco Moraglia che in alcuni passaggi sembrava voler rispondere alle polemiche sul trasferimento delle mense di Ca’ Letizia e Betania. «La città evolve, cambia - ha detto - ma la carità, la solidarietà, una visione di città, rimane. Molte volte dovremo cambiare il posto delle strutture, dovremo investire in altri modi per venire incontro a realtà ed esigenze nuove, però l’animus è lo stesso». Il patriarca ha anche parlato delle esigenze di una città che «cambiano nei decenni, richiedono riposizionamenti che non sono nascondere nulla a nessuno, ma sono l’essere efficienti laddove si può dare di più e meglio, anche ripensando il passato al quale rimaniamo fedeli ma guardando al futuro». L’assessore alla Coesione Sociale Simone Venturini ha annunciato un contributo di almeno 5 mila euro. «Nel prossimo bilancio saremo un contributo per l’emporio di Venezia e per quello di Mestre, che quest’anno ha già assistito 150 famiglie», ha detto. Per la presidente dell’associazione, Anna Brondino «è un sogno che si realizza, possibile grazie alle donazioni e ai volontari. Sarà un servizio innovativo, che non vuol essere solo distribuzione di cibo, ma luogo di costruzione di relazioni, aggregazione ed esperienze educative». L’emporio di Venezia è il 16esimo nel Veneto, come ricordato dall’assessore regionale ai Servizi sociali, Manuela Lanzarin. «E’ una progettualità che non crea degli aiuti fini a se stessi ma inserita in un percorso di valorizzazione della persona e di “sgancio”, formazione e accompagnamento». L’emporio sarà aperto ogni giovedì dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8 novembre 2019 Pag XV Marghera, sistemata la chiesetta del cimitero. “Presto più parcheggi per evitare multe”

Marghera. Finita la ristrutturazione, la chiesa del cimitero di Marghera è tornata agibile. In questi giorni sono stati conclusi gli interventi di restauro sia dell'edificio di culto che del campanile, con un investimento che ha sfiorato i duecentomila euro da parte del Comune. E, dopo le polemiche sulla raffica di multe date ai parenti che hanno fatto visita ai loro cari nella giornata dei defunti, l'assessore Simone Venturini annuncia un piano parcheggi per evitare altre contravvenzioni in futuro. L'intervento alla chiesetta ha riguardato l'impermeabilizzazione delle coperture e il ripristino di pilastri e pareti. I serramenti sono stati completamente sostituiti e, sulle facciate ovest ed est della chiesa, ridipinta, le vecchie lastre fuori norma hanno lasciato spazio a nuove vetrate antisfondamento. «Grazie a questi interventi la chiesa, che può ora contare su impianti di illuminazione e audio potenziati, già nei giorni scorsi è tornata a essere pienamente accessibile - commenta il sindaco Luigi Brugnaro -. Avevamo promesso che saremmo intervenuti e l'abbiamo fatto senza perdere tempo». «Da tanti anni - aggiunge l'assessore ai Lavori pubblici, Francesca Zaccariotto - la chiesa del cimitero di Marghera attendeva questo intervento dopo un lungo periodo di trascuratezza che ne ha reso impossibile l'utilizzo, con grande dispiacere della comunità. Nel 2018, dopo un sopralluogo effettuato dal sindaco Brugnaro, la Giunta ha stanziato i 199mila euro necessari per la sua sistemazione. Un intervento che si aggiunge a quanto già concretizzato nel 2017, quando vennero sistemati i loculi dell'area del monoblocco, risolvendo evidenti problemi di degrado».Parole condivise dall'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini: «Ho ricevuto numerosi ringraziamenti da parte dei residenti per la conclusione dei lavori, in particolare durante la scorsa Giornata di commemorazione dei defunti - sottolinea Venturini -. Il 2 novembre si sono riscontrati alcuni problemi di parcheggio, per questo motivo è stato dato incarico agli uffici comunali di predisporre un piano straordinario per gestire diversamente la viabilità nelle prossime occasioni, minimizzando così i disagi per i residenti e il rischio di contravvenzioni per sosta vietata».

LA NUOVA di venerdì 8 novembre 2019 Pag 23 Cannaregio, aperto l’emporio della solidarietà

Venezia. Ha aperto ieri i battenti il primo "Emporio della solidarietà". La nuova struttura a Cannaregio è stata inaugurata nel pomeriggio nei locali che ospitavano la portineria dell'ex ospedale Umberto I, a Sant' Alvise, alla presenza, tra gli altri, dell'assessore comunale alla Coesione sociale, Simone Venturini, dell'assessore regionale ai Servizi sociali, Manuela Lanzarin, del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, e della presidente dell'associazione Corte del Forner che ha curato il progetto di solidarietà, Anna Brondino. Un servizio innovativo, pensato per venire in aiuto a chi è in difficoltà, - ha esordito la presidente Anna Brondino - che «non vuol essere solo distribuzione di cibo, ma luogo di costruzione di relazioni, di aggregazione e di esperienze educative. Per me oggi si realizza un sogno - ha aggiunto - che voglio condividere con tutti. Questa città ha dimostrato nei fatti di avere un cuore grande».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il caso Ilva racconta due Italie di Angelo Panebianco Dov’è il partito del Pil

Quanto vale elettoralmente il partito del Pil, il partito della crescita economica? A quanto gli scommettitori valutano le sue possibilità di successo? Dopo qualche decennio in cui il ciclo ha visto alternarsi solo bassa crescita, stagnazione e recessione, c’è una parte assai ampia del Paese che sembra ormai abituata a questa situazione anzi, sembra pronta a difendere con le unghie e coi denti gli equilibri sociali che l’economia stagnante ha generato. Altrimenti non sarebbero spiegabili certi eventi. Il passaggio dal Conte 1 (governo gialloverde) al Conte 2 (governo giallorosso), fatte tutte le debite proporzioni, richiama certi aspetti del passato, ci ricorda che ci sono tratti del «carattere nazionale» che restano costanti. Rammentate la retorica antifascista di un tempo, quella secondo cui la Repubblica democratica nata dalla Resistenza nulla, ma proprio nulla, aveva più a che fare con il ventennio fascista? Ebbene, mai una volta si percepì, dietro quella retorica, anche solo un po’ di imbarazzo per le tante norme e le tante istituzioni lasciate in eredità alla suddetta Repubblica dal fascismo: l’Iri, ad esempio (per citare solo il caso più clamoroso), era una creatura di Mussolini ma i suddetti antifascisti tutti d’un pezzo se ne sbarazzarono solo nel 2002. Salvo poi in seguito darsi da fare per ricostituirla sotto altro nome. A nche nelle (più piccole) vicende italiane di oggi riconosciamo il carattere nazionale. Il Conte 2 è nato (grazie agli errori di Salvini) contro Salvini. C’è stata discontinuità nel rapporto con l’Europa ed è naturalmente un punto decisivo. Ma è anche l’unico. Per il resto, si sono registrate solo continuità. Non solo il reddito di cittadinanza ma anche l’altra brillante misura anti-crescita del Conte 1, ossia quota cento, è stata confermata dal Conte 2, nonostante si trattasse di un provvedimento targato Lega. C’è anche un altro elemento di continuità, ma questa volta con attori diversi: con il Pd che ha sostituito la Lega nella difesa delle infrastrutture da realizzare e nelle dichiarazioni (in entrambi i casi ci sono più parole che atti) a favore delle imprese, della crescita economica, eccetera. Ma sia col Conte 1 che col Conte 2, il carniere del partito del Pil è rimasto pressoché vuoto. La vicenda Ilva segnala che i 5 Stelle, gruppo parlamentare di maggioranza relativa col governo di prima e con quello di ora, possono anche perdere qualche battaglia qua e là ma stanno comunque vincendo la guerra combattuta in nome dell’ideale della «decrescita felice», e forse la vinceranno a meno di colpi di scena. La vicenda Ilva suggerisce che il partito della decrescita è più forte di quello della crescita, dispone di più consensi diffusi e di più alleati nelle istituzioni rappresentative, amministrative, giudiziarie. Sarebbe in un certo senso rassicurante pensare che le due Italie, quella favorevole alla crescita e quella contraria, siano facilmente distinguibili e separabili. Sarebbe rassicurante nel senso che, per lo meno, si potrebbe fare chiarezza sulle divisioni sociali che attraversano il Paese nonché sul modo in cui la politica le rappresenta, le manipola e, eventualmente, le esaspera. Purtroppo, questa facile distinguibilità non c’è. Entrambi gli schieramenti, sia quello che sostiene il Conte 2 sia quello che l’avversa, contengono nel loro seno tutte e due le suddette Italie. Il partito del Pil è sparpagliato e diviso, sta in parte con la destra, in parte con la sinistra. Non è facile stabilire se la sua debolezza dipenda da questa divisione oppure se, più banalmente, esso conti poco nel Paese. Comunque finisca la vicenda Ilva - nuovo accordo con ArcelorMittal, statalizzazione o chiusura - c’è comunque un messaggio che è già stato mandato a tutti i potenziali investitori esteri: non fate la sciocchezza di venire in Italia, questo è un ambiente ostile. È facile, per gli osservatori, scambiare per «follia», «irrazionalità», le mosse di chi punta alla deindustrializzazione del Paese, a una accelerazione del suo declino economico. Ma se vuoi sconfiggere qualcuno devi sforzarti di capirlo: non c’è follia né irrazionalità. Un’ideologia anti-industriale, sempre esistita, e diffusa in varie aree geografiche e sociali, ha favorito una stagnazione economica decennale e, a sua volta, quella stagnazione ha rafforzato la suddetta ideologia. Si aggiunga l’importanza che riveste il declino demografico, l’invecchiamento del Paese. Anch’esso lavora contro la crescita economica. Una società in crescita è una società dinamica, che favorisce il movimento delle persone orizzontalmente (attraverso il territorio) e verticalmente (attraverso le gerarchie sociali). Tutto ciò si confà di più a un mondo di giovani che guardano al futuro, nonché di anziani preoccupati per la sorte dei propri figli e pertanto interessati a mettere le proprie competenze e la propria esperienza al servizio di quel futuro. Ma, nelle condizioni attuali, molti finiscono per preferire la quiete al movimento, la staticità al dinamismo, una (magari piccola) rendita sicura al rischio e alla scommessa su possibili - e probabili, quanto più forte è la crescita economica generale - vantaggi futuri. Ed è interessante, ancorché preoccupante (ma anche comprensibile), il fatto che una quota non piccola di giovani si sia rassegnata all’immobilità, a ricavarsi un modesto giaciglio (la pensione del nonno, il reddito di cittadinanza) all’interno della società della decrescita. Sfortunatamente, tutto ciò non è irrazionale, per lo meno nel breve termine. L’irrazionalità (ma esito a definirla così), semmai, riguarda il medio-lungo termine. Dall’Argentina in varie fasi della sua storia al Venezuela di oggi, sappiamo quali conseguenze sociali e politiche si portino dietro stagnazione e declino. Ma chi sfrutta il diffuso favore per l’economia stagnante cerca voti qui e ora, il medio-lungo termine non lo riguarda. Non c’è allora speranza? Tanto vale buttare via subito la spugna? No, la speranza c’è. Esiste pur sempre la seconda Italia. Il partito del Pil potrebbe anche essere - sorprendendo tutti - elettoralmente più forte di quanto i suoi nemici immaginino.

Pagg 2 – 3 Iraq, bomba contro gli italiani. Cinque feriti, tre sono gravi di Marta Serafini, Fabrizio Caccia e Lorenzo Cremonesi Kirkuk, città contesa: gli appetiti per i pozzi e i colpi di coda dell’Isis

Uno scoppio. Poi il fumo, le urla, le grida. E il dolore. Sono le 11.16 (le 9.16 in Italia) quando uno Ied, un ordigno artigianale, esplode. Più di novanta chilometri a Sud-Est di Kirkuk, la zona contesa tra curdi e iracheni, 170 chilometri a nord di Bagdad. Il convoglio della Task force 44 - un gruppo di forze speciali simile a quello attivo in Afghanistan - e composto da una ventina di uomini è di ritorno da una missione. Attività di mentoring e training (supporto e addestramento) alle forze locali, impegnate nella lotta contro l’Isis, viene chiamata in gergo. I mezzi sono blindati. Ma - la dinamica è ancora da chiarire - la deflagrazione investe cinque incursori italiani, due parà del nono reggimento d’assalto Col Moschin dell’Esercito e tre del Goi, il gruppo operativo incursori della Marina. Uomini addestrati, il meglio delle forze armate italiane. Mancano poche ore dall’anniversario della strage di Nassiriya che nel 2003 vide cadere 19 militari italiani. E sono settimane che nell’area la tensione resta alta. Al mattino sono stati condotti raid contro l’Isis. Le forze di sicurezza irachene hanno avviato un’operazione al confine tra il governatorato di Kirkuk e quello di Salahaddin sempre in funzione anti jihadista. Inoltre la regione è piena di mine e ordigni. Anti carro, anti uomo, resti mortali di guerre passate e presenti. Dopo l’esplosione, interviene il personale medico del reggimento incursori. Nell’aerea atterrano gli elicotteri statunitensi. I feriti vengono evacuati all’ospedale militare di Bagdad. «Nessuno è in pericolo di vita», battono le prime agenzie. Ma il bilancio è drammatico: 5 feriti, tre sono gravi. Uno di loro subisce l’amputazione della gamba, il secondo quella parziale del piede e riporta una frattura grave alla gamba, al terzo vengono ricuciti gli intestini. L’ambasciatore italiano a Bagdad Bruno Antonio Pasquino si attiva immediatamente. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini messo al corrente dal capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, informa il presidente Sergio Mattarella e il premier Giuseppe Conte. Ore di angoscia. A Bagdad i feriti aspettano. Di aprire gli occhi, di sapere, di capire. Di riabbracciare i loro cari. In serata l’Adnkronos diffonde i nomi: Marco Pisani, Paolo Piseddu, Andrea Quarto, Emanuele Valenza, Michele Tedesco. «Singolare: stiamo parlando di uomini delle forze speciali la cui identità dovrebbe rimanere segreta», si sfoga qualche collega. Poi, iniziano a partire i messaggi di solidarietà ai militari e alle loro famiglie. «La lotta all’Isis non si ferma», dichiara Guerini ai microfoni del Tg1. L’ombra del terrorismo aleggia ancora. Nella zona di Kirkuk, ricca di petrolio e di dolore, non lontano da dove è avvenuto l’attacco, negli ultimi giorni i raid sono stati almeno 30. E non solo. A casa, nonostante la morte del leader dell’Isis Abu Bakr Al Baghdadi, ucciso più di due settimane fa, la paura resta.

«Non credo purtroppo si tratti di un’azione isolata, anzi ho il timore che dietro l’ordigno che è esploso ci sia una regia: potrebbe essere iniziata una nuova fase, con l’Isis che piano piano si riorganizza, anche se una risposta certa potranno darcela solo i nostri analisti già al lavoro nella zona di Kirkuk...». Il generale in congedo Marco Bertolini, 66 anni, figlio di un reduce della Battaglia di El Alamein, ha diretto dal 2004 al 2008 il «Comando interforze per le operazioni delle forze speciali», è stato molto tempo laggiù e conosce due dei cinque militari rimasti feriti ieri nel nord Iraq. Sono i «due ragazzi», così li chiama lui affettuosamente, del 9° reggimento d’assalto paracadutisti «Col Moschin», di cui pure Bertolini è stato il comandante nella sua lunga e gloriosa carriera. Dunque, generale, lei pensa che l’Isis si stia riorganizzando e quello di Kirkuk potrebbe essere un segnale? «Di sicuro, da quando Trump ha annunciato il ritiro degli americani dall’est dell’Eufrate, si stanno rimescolando le alleanze in tutta la grande area del Kurdistan, area sempre più instabile. Ricordo che l’Isis nel 2014 nacque proprio nel nord dell’Iraq e a Mosul addirittura batteva moneta. Ora è molto più debole certo, ma non vorrei che l’esplosione che ha coinvolto i nostri militari fosse l’azione di qualcuno che voglia accreditarsi, mettersi in luce, ritagliarsi nuovo spazio». Per i 600 militari italiani della missione «Prima Parthica», perciò, il rischio aumenta? «Non sappiamo ancora se fossero proprio loro i bersagli, in quanto militari italiani. Comunque gli incursori del Comsubin e i ragazzi del Col Moschin sono davvero le nostre forze speciali. Non è un gioco di parole, sono professionisti addestrati e devono superare selezioni durissime, fisiche e psicologiche. Eppoi l’addestramento dei peshmerga non si fa mica al chiuso di un’aula o di una caserma, si fa per strada. Dove non si vanno a raccogliere funghi: così uno Ied, un ordigno improvvisato, può anche non essere visto in tempo, perché si può azionare a pressione, a strappo, con un radiocomando, una cellula fotoelettrica. La guerra è così: è sempre uno scontro di coraggi e di intelligenze». Ma i nostri soldati hanno mezzi adeguati per difendersi? «Sì. Da quando sono arrivati i Lince siamo più sicuri. Appena due mesi fa un altro Ied è esploso a Mogadiscio al passaggio di un nostro convoglio. Gli equipaggi a bordo dei due mezzi blindati sono rimasti illesi».

Kirkuk è una città difficile, contesa, cuore di ambizioni contrastanti e tensioni irrisolte. Non è affatto strano che proprio qui le truppe italiane - parte del contingente internazionale di sostegno e addestramento sia ai Peshmerga curdi che all’esercito nazionale iracheno dispiegato nella regione con modalità e obbiettivi diversi nel tempo da dopo la guerra del 2003 - siano prese di mira. In attesa dei risultati dell’inchiesta, la prima pista che viene in mente per individuare i responsabili è quella dell’Isis, o almeno di ciò che resta delle sue cellule combattenti dopo le sconfitte subite negli ultimi tre anni nelle sue roccaforti tra Iraq e Siria e l’uccisione dello stesso Califfo Al Bagdadi il 26 ottobre. Se ne era già parlato tre giorni fa, quando 17 razzi Katiuscia avevano colpito una base nei pressi di Mosul dove sono acquartierati alcuni contingenti delle forze speciali irachene assieme agli addestratori americani. Sembra che i tiri partissero dalla zona urbana di Mosul: non hanno provocato vittime. Eppure, si è trattato dell’azione più seria dalla disfatta dell’Isis a Mosul, e in effetti dalla sua ritirata generale dall’Iraq, nell’estate del 2017. La spiegazione? «Con lo scoppio delle rivolte popolari in tutto il Paese contro il governo del premier Adel Abdul Mahdi, le forze di sicurezza irachene sono costrette ad abbandonare la sorveglianza anti-Isis per controllare le piazze. Ovvio che le cellule del Califfato hanno così spazio e opportunità per rialzare la testa», notavano già la sera del 8 novembre i commentatori locali ripresi dai media americani. Il ragionamento appare sensato. Da oltre un mese l’Iraq è gravemente destabilizzato. I rivoltosi chiedono pane, lavoro, ma soprattutto denunciano la corruzione endemica negli apparati dello Stato e vorrebbero la sostituzione della classe politica. Un movimento che ha assonanze con le attuali sommosse in Libano. Però i bilanci di sangue in Iraq sono molto più pesanti. Mahdi inizialmente ha reagito col pugno di ferro. Poi si è aperto a trattare offrendo riforme. Ma la piazza chiede la sua testa. La polizia ha quindi ripreso a sparare sule persone. I morti superano quota 300, migliaia i feriti. Le grandi città, specie del centro-sud, sono paralizzate. Non è strano che le cellule dell’Isis possano agire con maggior facilità nel caos, approfittando comunque del malcontento sunnita contro gli apparati dello Stato dominati dalla maggioranza sciita sin dalla caduta di Saddam. Gli attentati sono così in crescita. Lo scenario di Mosul appare molto simile a quello di Kirkuk. Due poli petroliferi centrali dell’Iraq settentrionale, contesi sin dal tempo delle mire coloniali inglesi, francesi e della nuova Turchia ricavata dalle ceneri dell’Impero Ottomano dopo la fine della Grande Guerra. Non a caso oggi il presidente Erdogan si fa paladino della minoranza turcomanna per riguadagnare influenza sulla regione. Ma, in particolare, fu Saddam Hussein negli anni Ottanta e Novanta a fare la guerra ai curdi a suon di trasferimenti forzati di centinaia di migliaia di arabi sunniti a Kirkuk, allontanando i curdi a nord del governatorato. Dopo i conflitti del 1991 e soprattutto del 2003 i curdi ripresero però il controllo di Kirkuk e dei pozzi. Vantaggio che rafforzarono dopo il loro intervento, garantito dagli americani, contro l’Isis vittorioso a Mosul nel giugno 2014. Ma la scelta curda di indire un referendum per la totale indipendenza da Bagdad il 15 settembre 2017 fu il classico passo più lungo della gamba. L’esercito iracheno reagì con durezza, riprese Kirkuk con le armi, i curdi si divisero tra loro e vennero internazionalmente criticati anche dagli alleati più fedeli, tra cui l’Italia. La regione curda ne risultò gravemente indebolita, isolata. Oggi la città conta circa 900 mila abitanti (curdi, arabi-sunniti) l’esercito iracheno sta nel centro, nelle periferie, controlla i poli petroliferi. E nei villaggi tutto attorno sono nascosti numerosi jihadisti pronti a colpire.

Fino a ieri erano soldati «senza nome né volto». Perché questa è la regola che vige all’interno del 9° reggimento d’assalto paracadutisti «Col Moschin» e del Gruppo operativo incursori (Goi) della Marina Militare. Perché sono loro gli attori dello «straordinario quotidiano», cioè le missioni più pericolose e qualche volta segrete. E infatti i parà del «Col Moschin», legittimi eredi degli Arditi della Grande Guerra, non lo raccontano neppure agli amici al bar, dove andranno e cosa faranno, quando finito l’addestramento escono dalla caserma «Vannucci» di Livorno. E così lo stesso per quelli del Goi - i discendenti degli uomini della Regia Marina e delle loro imprese con i siluri a lenta corsa nella Prima Guerra Mondiale - quando lasciano la Fortezza di Varignano a Portovenere (la Spezia), la sede del Comsubin. Ma ora purtroppo i nomi di 5 di loro si sanno: sono i due parà Marco Pisani di Firenze e Paolo Piseddu di Milano che vive a Siena. Eppoi i tre incursori della Marina: Andrea Quarto, Emanuele Valenza e Michele Tedesco. Ma non è un caso che per il 4 novembre, giorno dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, nel filmato celebrativo si vedessero proprio loro, quelli del «Col Moschin» e del Goi, lanciarsi senza paura da elicotteri e sommergibili. La loro missione, in ogni caso, continuerà.

Pag 4 Sanchez perde la scommessa. Ora ha bisogno dei popolari di Aldo Cazzullo In Spagna socialisti primo partito ma non sfondano

Pedro Sánchez perde tre seggi e una scommessa. Il premier non ha più una maggioranza di sinistra, assiste al boom dell’estrema destra, ha bisogno del Pp. L’unica soluzione è l’accordo tra i due grandi partiti. C’è più gente in fila per visitare il tempio egizio di Debod, regalato da Nasser, rimontato nel parco davanti alla sede del partito socialista e illuminato nella notte madrilena, che sotto il balcone da cui deve parlare il premier Pedro Sánchez. Il silenzio è impressionante. Il suicidio è un tema classico della letteratura e del cinema spagnoli. Pedro Almódovar ha raccontato il suicidio manchego, la sua terra, zitta e solitaria: il campesino stanco di vivere si getta nel pozzo, senza un grido, senza dire una parola. Il suicidio socialista è stato convocare il voto anticipato, nella convinzione di crescere molto rispetto al 28 aprile. Invece il segno è negativo. Soprattutto, la situazione si è molto complicata. Podemos perde sette seggi: una soddisfazione personale per Sánchez, che non ama Pablo Iglesias con il suo codone da tanguero; ma anche una possibilità in meno per Sánchez, uno schema di gioco che diventa impossibile, un forno che si chiude. Nel Parlamento uscente esisteva una teorica maggioranza di sinistra; in quello nuovo, no; a meno di non mettere insieme un terrificante puzzle di indipendentisti catalani, autonomisti baschi, nazionalisti navarrini. Anche questa non è una buona notizia per il premier, che si è offerto all’elettorato come il centro del sistema politico; stasera però prevalgono le forze centrifughe. Il potere di interdizione dei separatisti cresce ancora. In Catalogna il primo partito è la Sinistra repubblicana, il cui leader Oriol Junqueras è in galera; risalgono gli indipendentisti duri di Junts per Catalunya; entrano alle Cortes gli estremisti della Cup, che finora non partecipavano alle elezioni nazionali per non dare l’impressione di riconoscere lo Stato spagnolo. Con gli autonomisti delle Canarie, delle Baleari, della Cantabria, si affacciano in Parlamento pure il Blocco galiziano e la lista che ricorda: «Teruel existe!». Il boom di Vox, che raccolgono oltre il doppio dei seggi, rappresenta uno choc emotivo per la sinistra spagnola. Ad aprile Sánchez era riuscito a mobilitare il suo elettorato, e a convincere moderati e incerti che Santiago Abascal e la sua destra neofranchista e antisistema rappresentavano un rischio per la democrazia. Stavolta non è andata così. Vox quasi raggiunge i socialisti a Madrid. È il primo partito a Murcia. Conquista l’unico seggio di Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, dove l’immigrazione è l’emergenza quotidiana. E si consolida in tutto il Paese. «Abbiamo restituito voce a un pezzo di Spagna che non l’aveva - grida nella notte Abascal -. Ora aspettiamo anche quelli che votavano socialista». Il Partido popular, invece, si è presentato a queste elezioni con una linea di centro. La svolta è cominciata proprio nella notte del 28 aprile, quando il giovane leader Pablo Casado disse testualmente: «Ho appena telefonato al presidente Sánchez. Il Psoe ha vinto le elezioni. Il Partido socialista obrero español è un grande partito, che ha fatto la storia del nostro Paese». Stavolta il Pp ha venti seggi in più, e il portavoce esce a dire: «Sánchez deve cominciare a pensare di dimettersi, e rinunciare a candidarsi come presidente del governo». Certo, la lista del premier resta quella più votata. Ma ad aprile aveva più del doppio dei seggi rispetto al Pp. Ora la distanza si è ridotta. E l’unica soluzione possibile è un accordo tra i due grandi partiti, coerente con la tendenza al ritorno del bipolarismo. L’obiettivo di Sánchez era sconfiggere nettamente il Pp e indurlo ad astenersi, senza nessuna condizione che non fosse la linea dura con i separatisti catalani. L’obiettivo è fallito. I popolari imporranno un prezzo: la rinuncia di Sánchez alla Moncloa, la sede del primo ministro. Non è detto che finisca così. È solo la prima mossa di una partita a scacchi che si annuncia lunga; ma con Vox tanto forte, Casado dovrà ottenere qualcosa, prima di dare il via libera a un governo socialista. Difficilmente ci sarà una grande coalizione alla tedesca; più facile un patto per non tornare subito alle urne, ed evitare un nuovo regalo ad Abascal. Alla lunga, la nascita di un partito estremista può essere un problema grave anche per i popolari, come è stata per la destra repubblicana francese Marine Le Pen, svelta a congratularsi con «l’amico Santiago». La prima vittima è Albert Rivera, il fondatore di Ciudadanos: un movimento centrista che due anni fa era il primo nei sondaggi, e ora crolla al 6%. Presto Rivera potrebbe annunciare le dimissioni a favore di Inés Arrimada, la capolista in Catalogna che ha salvato l’onore del partito. Anche quello di Rivera è stato un suicidio: se avesse appoggiato il governo Sánchez, avrebbe evitato il voto anticipato e una punizione così severa. Pure Podemos, stasera ridimensionata, ha un numero 2 donna. È Irene Montero, la compagna del capo. La coppia arriva nella sede del partito con i due gemellini Leo e Manuel e la piccola Aitana, tre mesi, in braccio al padre. Per Iglesias un governo nato da un accordo tra socialisti e popolari sarebbe l’ipotesi migliore, visto che gli aprirebbe un grande spazio a sinistra. Esordisce salutando i «compagni fotografi», chiude «tendendo la mano ai compagni socialisti». Ma sono lontani i tempi in cui festeggiava i risultati cantando a pugno chiuso «El pueblo unido jamás será vencido» nella piazza sotto il museo Reina Sofia, che custodisce Guernica di Picasso, la massima testimonianza degli orrori della guerra civile. Di Franco si è parlato molto, in campagna elettorale. C’è un passato che non passa: basta sovrapporre la mappa della Spagna del 1936 a quella di ieri. Là dove l’alzamiento di Franco è riuscito, dalla Galizia alla Castiglia - esclusa Madrid - si vota in maggioranza a destra. Là dove è fallito, dall’Andalusia al Paese basco alla Catalogna, la destra è più debole o quasi non esiste. Ma la Spagna è ora percorsa da nuove linee di frattura. E gli indipendentisti catalani si faranno sentire già oggi, con proteste che ormai sfuggono al controllo del governo locale: anche a Barcellona le elezioni anticipate sono più vicine. La notte della democrazia iberica non è ancora finita.

LA REPUBBLICA Pag 25 Il Paese dello Ius culturae di Ilvo Diamanti

È difficile parlare di immigrati. In Italia - e non solo. Perché il tema suscita inquietudine, diffidenza. Tensione. Tuttavia, questo ri-sentimento è, in larga misura, alimentato dal dibattito politico. Amplificato dai media. L'atteggiamento dei cittadini risulta meno scontato. Meno ostile. Lo suggeriscono i sondaggi, che, sicuramente, spesso sbagliano. Ma servono a dare indicazioni sul clima d'opinione. Il sondaggio condotto da Demos per Repubblica, infatti, sottolinea un elevato grado di consenso verso lo Ius culturae. Un progetto di "integrazione" che ha ripreso il suo faticoso percorso parlamentare, dopo l'estate. Ma la sindrome dell'invasione continua a pervadere il discorso pubblico. E non coinvolge solo coloro che tentano di sbarcare in Italia. In ogni modo, ad ogni costo. Spesso: la vita. Si estende a tutti gli "stranieri", soprattutto di origine africana. Il ri- sentimento investe anche i (più) giovani, nati e cresciuti in Italia. Come segnalano alcuni episodi successi negli ultimi giorni. In particolare, il caso della "Tam Tam Basket" di Castel Volturno, raccontato su queste pagine da Vladimiro Polchi, nei giorni scorsi. Quest' anno ha vinto il campionato under 15 regionale, guadagnandosi l'accesso nell'Eccellenza. A livello nazionale. Ma la Federazione e il Tar del Lazio hanno bloccato la promozione. Hanno "bocciato" i giocatori, "promossi" sul campo, perché sono tutti figli di immigrati. Anche se minorenni, tranne uno. Tutti nati in Italia. Ma da genitori d'origine africana. E, quindi, "stranieri". Certo la legge è la legge. Ma le leggi si possono ri- formare. Tanto più se non contrastano con il senso comune e con l'Opinione Pubblica. Per questo assume importanza particolare lo Ius culturae. Prevede il riconoscimento della cittadinanza a tutti i ragazzi, figli di genitori stranieri, nati in Italia - o arrivati prima di aver compiuto 12 anni. A differenza dello Ius soli, la condizione necessaria non è il luogo di nascita, ma aver completato un ciclo di studi di 5 anni o seguito percorsi di istruzione e formazione professionale. L'aspetto determinante è, dunque, l'integrazione "culturale", più del territorio dove si è nati. Non è facile calcolare quanti sarebbero a beneficiare di questa riforma. Secondo stime attendibili, intorno a 200 mila. Dunque, una componente rilevante, ma non debordante. Anche se può preoccupare, in un Paese in declino demografico. Dove i giovani sono una razza in via d'estinzione. E i pochi che "restano", appena possono, se ne vanno. Altrove. Magari tornano. Ogni tanto. A rassicurare i genitori. I loro vecchi. I giovani e i giovanissimi, che hanno genitori stranieri, per questo, costituiscono un investimento sul futuro. Per un Paese che invecchia. D'altra parte, senza i figli di immigrati, sarebbe difficile tenere in piedi il nostro sistema scolastico. Alle elementari, alle medie: i figli di stranieri, in molte aree del Paese, sono la maggioranza. Allora, per attuare "l'integrazione", è necessario "integrare" l'educazione con la cittadinanza. Come prevede lo Ius culturae. È una prospettiva condivisa da una larga maggioranza dei cittadini italiani, compresi nel campione rappresentativo intervistato da Demos. Oltre due terzi. Ma 7 su 10 fra i più giovani e gli anziani. È un progetto sostenuto soprattutto a sinistra. Fra gli elettori del Pd e Italia Viva. Ma non solo. Anche presso la base di FI (81%) e del M5S (71%). Molto meno fra gli elettori della Lega (comunque, quasi metà: 46%) e, soprattutto, dei FdI. Ci sarebbero, dunque, le premesse per approvare la riforma. Ma non è detto che ciò avvenga davvero. Basta pensare alla sorte dello Ius soli. Una riforma che disponeva, a sua volta, di un consenso maggioritario, fra gli elettori. Ma venne ritirato dal Pd, nell' ottobre 2017, prima che fosse discusso alla Camera. Per timore di venire penalizzato alle elezioni politiche (allora) prossime. Senza grande fortuna, come si è visto. Al contrario: pagò doppiamente. Perché apparve un partito in fuga. Dalle proprie responsabilità. Un rischio che si si ripropone anche oggi. Perché la maggioranza dei cittadini si dice d'accordo con lo Ius culturae. Ma se i principali sostenitori del progetto ritirassero, nuovamente, il loro sostegno, allora la "paura del mondo" ri-monterebbe. Insieme alla sfiducia e alla paura nei confronti degli "altri". Gli stranieri. Che lavorano nelle nostre fabbriche, in posti necessari, ma poco ambiti dagli "italiani". Mentre le (badanti) "straniere" garantiscono sostegno alle nostre famiglie. Dove gli anziani, anzi, i vecchi, non riescono ad essere "assistiti" da noi. Che siamo sempre più vecchi Per questo bisogna affrontare la riforma dello Ius culturae senza nascondersi. Il consenso nei confronti del progetto, come si è detto, è largo, ma solo se si chiarisce di che si tratta. La stessa formula latina è una scorciatoia. Rischia di essere controproducente. Come nel caso dello Ius soli. Meglio essere chiari. Espliciti. Senza finzioni. Spiegare in italiano, non con una sigla latina, di che si tratta. Ius culturae: il riconoscimento dei diritti a coloro che già vivono e hanno studiato da noi. Da molti anni. E che, in larga maggioranza, sono nati in Italia. Meglio affrontarlo. Per "interesse" (anche) nostro, più che per "bontà". Altrimenti, restiamocene tra noi. Italiani veri. Noi, sempre più vecchi. Incazzati e rassegnati. Meglio riproporre lo Ius soli. Traducendolo in modo scorretto, ma, forse, più adeguato. Il diritto a essere sempre più SOLI.

IL GAZZETTINO Pag 1 Ma non c’è un disegno dei terroristi contro l’Italia di Alessandro Orsini

Cinque soldati italiani in Iraq sono rimasti gravemente feriti a causa di una mina e uno di loro ha purtroppo subito l'amputazione di una gamba. All'analisi dei fatti vogliamo far precedere il nostro cordoglio. Per quanto i dati presenti sul sito del ministero della Difesa siano in aperta contraddizione in un grafico i soldati italiani in Iraq e in Kuwait sono 868 e in un altro 1.497 l'Italia risulta essere impegnata in 37 missioni, di cui 35 internazionali, in 22 Paesi, che impegnano 12,900 unità. Un dispiegamento così ampio di forze espone inevitabilmente a pericoli mortali, che purtroppo si manifestano oggi, a pochi giorni dall'anniversario della strage di Nassiriya, sempre in Iraq, il 12 novembre 2003. Passando all'analisi dei fatti, la domanda che tutti si pongono è se siamo in presenza di un attentato mirato oppure di un evento accidentale. Gli elementi a nostra disposizione inducono a ritenere che, né i capi di al Qaeda, né quelli dell'Isis, abbiano elaborato una strategia d'attacco contro i soldati italiani. Per valutare i pericoli che corrono i soldati italiani in Iraq, occorre sapere che cosa sia la gerarchia dell'odio delle organizzazioni jihadiste: uno strumento concettuale da noi elaborato per entrare nella mente dei terroristi e prevedere le loro mosse. Nella mente dei terroristi dell'Isis, i Paesi dell'Europa occidentale non sono tutti odiati allo stesso modo e, di conseguenza, non tutti sono esposti agli stessi pericoli. I vertici dell'Isis hanno sviluppato una gerarchia dell'odio che pone i Paesi europei su un podio a cinque scalini. I piu odiati sono quelli che hanno bombardato le roccaforti dell'Isis in Siria e in Iraq ovvero Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda e Danimarca. Sul secondo gradino, ma in realta a pari merito con i primi, si trovano gli Stati che hanno inviato i propri soldati a ingaggiare il corpo a corpo con i militanti dello Stato Islamico ovvero Turchia, Iran e milizie di Hezbollah. Sul terzo gradino siedono i Paesi che, come la Germania, hanno inviato soldati, aerei e navi da guerra in attività di supporto alla Francia, ma senza un ruolo combattente. Sul quarto gradino ci sono quelli che si limitano a inviare i propri soldati a presidiare strutture di pubblica utilità e ad addestrare i soldati iracheni al combattimento contro l'Isis. Sul quinto gradino, vi sono gli Stati europei che, pur appartenendo alla coalizione anti-Isis, in realta non fanno niente. L'Italia si trova al quarto posto perche non ha mai voluto sparare contro i jihadisti, nonostante gli inviti ripetuti della Casa Bianca, limitandosi alle attività di addestramento e protezione di infrastrutture, come la diga di Mosul. Ne consegue che e molto meno odiata della Francia, ma comunque esposta a pericoli. Tuttavia, tali pericoli sono quelli a cui chiunque sarebbe esposto in un teatro di guerra, come imbattersi in una mina. Siccome l'Italia non è stata mai bersagliata dai jihadisti quando la lotta sul campo contro lo Stato islamico era più intensa, vale a dire nel periodo 2015-2017, è difficile immaginare che il successore di al Baghdadi scelga di accanirsi contro l'Italia, che ha un ruolo così marginale nella lotta frontale contro il terrorismo, come strategia per imporre un'immagine vincente di sé. Non risulta inoltre - scandagliate tutte le analisi che i servizi segreti hanno presentato al Parlamento - che i capi dell'Isis abbiano mai cercato di organizzare un attentato in Italia. È possibile che, nelle prossime ore, l'Isis cerchi di intestarsi questo atto di guerra con un comunicato, ma non significherebbe necessariamente che l'Isis abbia voluto colpire i soldati italiani intenzionalmente. Una cosa è organizzare un attentato; altro è sfruttare mediaticamente il suo accadimento per dare un'immagine vincente di sé. Detto più semplicemente, i vertici dell'Isis hanno rivendicato non pochi attentati, che però non avevano organizzato. Quasi certamente continueranno a farlo anche dopo al Baghdadi. Per comprendere le mosse punitive dell'Isis, occorre sapere che i suoi capi attribuiscono la massima importanza alla politica estera dei Paesi nemici. Al momento, non risulta che Luigi Di Maio abbia modificato la linea strategica dell'Italia nella lotta contro le organizzazioni jihadiste.

Pag 23 Spagna, la grande coalizione una strada obbligata di Loris Zanatta

Alle elezioni spagnole è grosso modo andata com'era previsto che andasse: male. Così indicano le prime proiezioni. Male perché se l'obiettivo del voto era di schiarire il cielo facendo emergere una nitida maggioranza parlamentare, il flop era annunciato ed è arrivato puntuale. I socialisti di Sánchez hanno vinto come vinceva Pirro; speravano di far la voce grossa, saranno più eunuchi di prima: le oscillazioni di questi mesi non hanno pagato. I popolari sono risorti: era nell'aria, ma rimangono in terapia intensiva; da soli non vanno da nessuna parte. L'estrema di Podemos vivacchia a metà classifica: difficile aspettarsi maggior flessibilità. Vola invece a vele spiegate l'estrema opposta, Vox: capitalizza il rigurgito di nazionalismo spagnolo contro gli indipendentisti catalani; i quali capitalizzeranno l'ascesa di Vox: al peggio non c'è fine. I socialisti l'hanno agitata come spauracchio, Ciudadanos ha cercato di rubarle voti inseguendola sul suo terreno: hanno preso entrambi una brutta sberla. E poi nazionalisti per ogni gusto: navarri, canari, baschi; un'insalata russa fatta con la maionese impazzita. Urge uno scatto di sensatezza, perché la Spagna rimane dov'era: chi s'alleerà con chi? Ad occhio, ci sono poche alternative a una grande coalizione tra i due maggiori partiti. Ma avranno i nervi saldi per farla? E lo spirito di sacrificio? Va da sé che la Spagna siamo anche noi, nessuno si senta escluso, men che meno assolto. C'è miglior fotografia dei dilemmi delle nostre democrazie delle quattro elezioni spagnole in quattro anni? Corruzione, indipendentismo, immigrazione, disuguaglianze crescenti, disoccupazione giovanile: gli spagnoli hanno, come tutti, buoni motivi per lamentarsi. Perciò votano infuriati, in cerca del più puro, il più uguale a loro, il redentore più credibile. Cresce così la frammentazione, lo scontro tra identità inconciliabili, la frustrazione perché nulla cambia in fretta come vorrebbero. Investiti di tali aspettative, i partiti temono gli effetti di eventuali intese: quelli radicali di perdere la verginità politica, la loro grande forza; quelli costituzionali di apparire omologati, di offrire il fianco all'infamante accusa d'essere l'establishment. Guai! S'erode così l'arte del compromesso, il sale della politica democratica: ognuno coltiva il suo orto e bombarda quello altrui, nessun vuol cedere un centimetro per non perdere l'affezionata clientela, quand'anche non basti a formare alcun governo. Soluzione? La classe politica cui l'elettorato ha dato mandato di risolvere la crisi si rivolge agli elettori chiedendo loro di essere più chiari. Ma perché dovrebbero avere cambiato idea? Eccoli così rigettare la palla nel campo dei politici che presto gliela rimanderanno indietro, in un gioco autolesionista a somma negativa, dove tutti perdono e nessuno vince: salvo i più radicali e identitari, che dal discredito generale traggono la linfa che li alimenta. Se avessero più senso storico e non fossero - come oggi tutti siamo - risucchiati da un presente che non pare aver passato né futuro, gli spagnoli sarebbero forse più prudenti e meno schizzinosi; se oltre a lamentare, com'è giusto che lamentino, tutto quel che non va si soffermassero un istante a guardare la strada straordinaria percorsa, ci andrebbero coi piedi di piombo; farebbero molta più attenzione a non farsi del male da sé, a non buttare il bambino insieme all'acqua sporca. In fondo la Spagna s'è ripresa assai meglio dell'Italia dal tracollo del decennio scorso e i segnali incoraggianti sono più di quelli deprimenti. Si dice che le nostre democrazie sono in crisi perché è in crisi la rappresentanza, la mediazione istituzionale, il patto sociale. Tutto vero. Ma lo sono ancor più perché prive di senso storico. Colpa dei padri: era nostro dovere trasmetterlo alle nuove generazioni. Forse siamo ancora in tempo.

LA NUOVA Pag 12 Predappio nega Auschwitz, è l’eclissi della ragione di Francesco Jori

Come perdere tre cose in un colpo solo: un treno, la testa, la faccia. Basta e avanza, come performance, per regalare qualche ora di deteriore visibilità a Roberto Canali, il sindaco di Predappio che rifiuta di contribuire al viaggio di uno studente ad Auschwitz perché lo ritiene di parte: scelta tale da dare ragione a Leo Longanesi, quando faceva notare che essere intelligenti non è un obbligo. Ma sarebbe sbagliato liquidarla come l'uscita episodica di un Carneade di periferia: è invece il frutto di un inquinamento climatico del vivere collettivo non meno esiziale di quello dell'ambiente. E che facendo leva sulla violenza del linguaggio e dei gesti, avvelena la convivenza civile e provoca l'eclissi della ragione. La responsabilità primaria di questa nauseabonda cloaca riguarda la politica: che non da oggi, anziché guidare i processi sociali, non solo li rincorre ma li amplifica, in un gioco perverso di tutti contro tutti. Ogni singola dichiarazione di tanti suoi protagonisti, dai grandi problemi alle questioni spicciole, è dettata dalla ricerca ossessiva di un consenso peraltro effimero: dove le urla si sostituiscono alle parole, gli insulti al confronto, la mistificazione ai fatti. Dando vita a un assordante frastuono in cui troppi inquilini delle istituzioni si riducono a patetici accattoni dell'applauso, pronti a colonizzare la ribalta mediatica come i lavavetri ai semafori, pur di racimolare spiccioli di notorietà. E se i leader nazionali si accaparrano le postazioni più redditizie, i loro accoliti sparsi nel territorio occupano gli spazi periferici, scimmiottandone le sparate e le sciocchezze: l'importante è esagerare. Con il risultato di ridurre il confronto politico al bipolarismo bonsai tra Lilliput e Blefuscu magistralmente descritto da Jonathan Swift. Salvo un'unica ma fondamentale differenza: qui non c'è nessun Gulliver. Dovrebbe esserci pur sempre un limite anche alla più squallida delle rappresentazioni. Invece no. Non va liquidata come una semplice sciocchezza, quella di Predappio: utilizzare una delle più grandi tragedie della storia per piegarla ad una squallida contabilità delle vittime piegata a una logica di parte. No, non è una delle tante cialtronerie vomitate quotidianamente: è un intollerabile oltraggio. Ai morti di Auschwitz, prima di tutto: a partire dai 230mila bambini e ragazzi "i cui corpi sono stati trasformati in volute di fumo sotto un cielo muto", come ha scritto Eli Wiesel. Ma anche ai vivi: a chi crede che quella barbarie vada non solo condannata senza se e senza ma, ma anche continuare a essere combattuta. La collera per ciò che è successo, l'impegno perché non debba mai più ripetersi. Ecco perché i treni per Auschwitz vanno sempre riempiti. "Auschwitz rimane nell'aria. La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia", ha ammonito Primo Levi, una delle grandi vittime sfuggite al campo di sterminio ma non alle sue piaghe postume. Tutti assieme, liberiamoci dagli untori.

Pag 12 Le previsioni errate di ArcelorMittal e l’inaffidabilità italiana sull’Ilva di Maurizio Mistri

La vicenda dell'Ilva è frutto di errori di previsione e comportamentali degli attori in gioco. I primi hanno portato, in una fase iniziale, ArcelorMittal a tentare di risanare una azienda dalle molte criticità. Un risanamento che non poteva essere solo organizzativo e finanziario poiché era gravato dal correlativo impegno a por mano ad un complesso e costoso risanamento ambientale. Mi sembra che ArcelorMittal non abbia valutato con sufficiente attenzione le dinamiche che hanno investito il settore dell'acciaio a livello mondiale. In sintesi tali dinamiche si concretizzano nel graduale passaggio della produzione di acciaio dai paesi tradizionalmente industriali (Usa, Europa e Giappone) a paesi come la Cina, Corea del Sud, India, Brasile. L'attuale produzione mondiale di acciaio, oscillante attorno ad un miliardo e 600 milioni di tonnellate annue, avviene per circa il 70 per cento in Asia. Da sola la Cina copre il 50 per cento della produzione mondiale di acciaio. Oggi l'offerta di acciaio supera di circa il 30 per cento la domanda mondiale di tale prodotto. Di conseguenza si esercita una forte pressione sui prezzi, tendenzialmente calanti, dell'acciaio a cui si unisce un graduale aumento dei costi di estrazione del minerale. Il declino dell'industria siderurgica europea, declino che per ora non tocca la Germania, comporta che il costo di tale mutamento strutturale del settore sia prevalentemente sostenuto dalle imprese europee e statunitensi. Da ciò è facile comprendere il senso della polemica di Trump nei confronti della Cina la quale in molti casi sostiene con fondi pubblici non poche imprese cinesi che altrimenti lavorerebbero in perdita. Si può essere d'accordo nel ritenere che la strategia della imposizione di dazi sull'acciaio cinese non sia quella ottimale; tuttavia, almeno nel breve periodo, è una strategia "difensiva". Ma è anche vero che la Cina attua una politica ispirata ad una sorta di dumping finanziato dallo Stato. In sintesi gli errori di previsione di ArcelorMittal sono innegabili; si tratta di errori che, soprattutto dal M5S, sono chiamati errori nel piano industriale. Accanto agli errori previsionali del colosso franco-indiano stanno errori comportamentali di natura politica che hanno fornito ad ArcelorMittal materiale sufficiente per rifiutare di impegnarsi in una impresa che appare superiore alle sue forze. Mi riferisco alla insensata "manfrina" sullo scudo penale, dapprima promesso e poi tolto mostrando che l'Italia non è un paese affidabile, dato che le norme di legge cambiano di volta in volta. Se anche il nostro governo sostiene che ArcelorMittal debba soddisfare gli impegni a suo tempo presi, va da sé che nessun imprenditore o manager può essere messo nella condizione di pagare sul piano penale per reati commessi da chi lo ha preceduto. Se la soluzione del problema Ilva sarà la nazionalizzazione sarà difficile trovare manager di elevato livello disposti ad assumere la carica di Presidente e/o di Amministratore delegato se non ci sarà un serio scudo penale. Allora, il problema diventa politico.

LA NUOVA di domenica 10 novembre 2019 Pag 11 Il dilettantismo del male e quella menzogna vigliacca di Elena Stancanelli

Uccidere tre uomini per viltà. Se Giovanni Vincenti avesse parlato prima, se avesse avvertito che nella cascina aveva nascosto altre cinque bombole dalle quali stava continuando a uscire gas, i tre vigili del fuoco non sarebbero morti. Non ci sono dubbi, non è ipotetico: semplicemente non sarebbero morti, perché non sarebbero entrati sicuri e impreparati in quella che sarebbe diventata la loro tomba.Perché non ha parlato? Cosa è successo nella testa di Giovanni Vincenti in quella mezz'ora che avrebbe potuto cambiare tre destini, quattro col suo, cinque con quello della moglie che è accusata di complicità?Quello che è successo dopo lo sappiamo. Giovanni Vincenti ha pianto, si è disperato, ha accusato chiunque. Siamo una famiglia riservata, i vicini non ci amano, abbiamo già subito altre intimidazioni, diceva. Sono distrutto dal dolore, non me ne faccio una ragione, diceva. Fin quando qualcuno ha trovato, poggiate sul comodino di camera sua, le istruzioni per attivare il timer. Solo in quel momento, di fronte all'evidenza delle prove e quando era ormai troppo tardi per salvare se stesso, e soprattutto i tre vigili del fuoco, Giovanni Vincenti ha confessato. Come in un film di Dino Risi, come un personaggio tragico di Alberto Sordi, gli si sarà sciolta la faccia e dopo aver guardato il suo avvocato, o forse la moglie, sarà crollato nelle sue mani aperte a conca poggiate sulle ginocchia. Liberato dal peso della sua imperdonabile menzogna. La banalità del male, peggio ancora, il dilettantismo del male, il male come effetto collaterale della vigliaccheria. Avrebbe voluto soltanto bruciare la cascina di Quargnento, Giovanni Vincenti, soltanto quello. E questa probabilmente sarà la sua difesa, saranno questo le parole che avrà pronunciato per giustificarsi, che forse pronuncerà il suo avvocato.Come se dar fuoco alla propria casa per intascare i soldi dell'assicurazione fosse accettabile, facesse parte di quei comportamenti deplorevoli ma ormai tollerati per via della "condizione di emergenza". C'è la crisi, ho i debiti, che sarà mai se do fuoco alla mia casa? Le assicurazioni sono cattive, come la politica, come gli amministratori delegati, i vigili urbani che ti multano se parcheggi in doppia fila per portare il figlio a scuola. Il povero cittadino reagisce. Si fa giustizia da solo se lo rapinano, dà fuoco all'uomo che dorme sotto casa sua perché «non ne può più», dà fuoco ai cassonetti che non vengono svuotati, dà fuoco ai condomini dove vivono i migranti, dà fuoco alla sua cascina perché ha troppi debiti. La gente è esasperata, si dice, lo Stato non dà più risposte, si dice. In questo vuoto, in questa zona nella quale l'indignazione diventa la scusa per le mille piccole, e gigantesche, azioni delinquenziali, la banalizzazione del male prospera, e anche l'incapacità criminale. Probabilmente non ha parlato perché non aveva la certezza che le altre cinque bombole sarebbero esplose, pensava di farla franca, pensava che il destino lo avrebbe graziato. Può succedere, perché no? Il destino a volte ci mette una toppa, e quello che avrebbe potuto diventare tragico si trasforma in grottesco. Questa è la cifra dell'italianità, di quell'essere professionisti del vittimismo, dell'astuzietta, del piccolo reato? No, certo. Non siamo così, non tutti, ovvio. Ma è un vizio in agguato, una debolezza dalla quale dobbiamo stare in guardia, un pericolo che corriamo. Pensare che le nostre azioni possano non condurre al punto spaventoso verso il quale le spingiamo. La codardia che riconosciamo con evidenza nel comportamento di Giovanni Vincenti, immobile di fronte al dispiegarsi della catastrofe, non la vediamo in noi quando chiudiamo gli occhi di fronte all'inerzia della politica, quando premiamo qualsiasi provvedimento salvaguardi il nostro interesse a discapito della vita degli altri. Beato il paese che non ha bisogno di eroi, ma dannato quello nel quale i mostri, sempre citando Dino Risi - immenso interprete del carattere di questa nazione - vengono giustificati. Se non fosse morto nessuno, se il caso avesse evitato che le cinque bombole ancora nascoste scoppiassero facendo strage, siamo sicuri che non ci sarebbe stato qualcuno pronto a dire che Giovanni Vincenti aveva agitato mosso da disperazione, che la colpa non era sua ma di chi lo aveva costretto ad agire in maniera sconsiderata? Dei debiti, delle tasse, della crisi? Della politica, degli amministratori delegati, dei vigili urbani?

CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 novembre 2019 Pag 21 “Ti voglio bene, mi dai un bacio”. Registra il prete e lo fa arrestare” di Fulvio Bufi Napoli, ragazzina di 12 anni smaschera il parroco. E’ accusato di abusi sessuali

Napoli. È stato arrestato ieri mattina l’ex parroco di Trentola Ducenta (un centro della provincia di Caserta) Michele Mottola, accusato di molestie e abusi sessuali nei confronti di una dodicenne che frequentava la sua parrocchia. È stata proprio la bambina a fornire agli inquirenti le prove delle avances ricevute dal sacerdote, registrando ripetutamente i colloqui che avvenivano prevalentemente in canonica, e fornendo poi i file audio agli uomini del commissariato di polizia di Aversa che hanno condotto le indagini coordinate dalla Procura di Napoli Nord. Il sacerdote - 59 anni, originario della provincia di Napoli - era stato sospeso alcuni mesi fa dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, immediatamente dopo che erano emerse le accuse rivolte nei suoi confronti dalla bambina. La diocesi ha anche collaborato con i magistrati, ma la vera protagonista, oltre che ovviamente vittima, di questa vicenda è lei. Una bambina che avrebbe cominciato a subire attenzioni morbose dall’ex parroco quando aveva poco più di dieci anni e che non sarebbe riuscita subito a confidarsi con la mamma e il papà, né con altri adulti. Del resto quel prete era per lei una figura familiare. Conosceva bene i suoi genitori, anch’essi abituali frequentatori della parrocchia di San Giorgio Martire a Trentola, che spesso lo invitavano anche a pranzo o a cena, e lui accettava volentieri, e non era raro che si presentasse con un regalo per la bambina. Decisamente in quella famiglia godeva della fiducia di tutti, come si fidava di don Mottola l’intera comunità del piccolo centro casertano, ed è vero che molti in paese hanno faticato a lungo prima di credere che la bambina non stesse raccontando bugie. Forse è stato anche per questo motivo che lei, dimostrando maturità, coraggio e spirito di iniziativa, si è organizzata per raccogliere le prove che quel prete così affettuoso nei suoi confronti non era spinto da amore cristiano ma da ben altro. E dalle registrazioni finite nell’ordinanza di custodia cautelare con la quale il gip ha disposto l’arresto dell’ex parroco, è chiaro che la bambina ha vissuto momenti terribili. Nei file si sente la sua voce che urla a don Michele di lasciarla stare («Non mi devi più toccare») ma si sente benissimo anche la voce dell’uomo e si colgono le sue insistenze. Mascherate da rassicurazioni e premure: «È solo un gioco, non facciamo niente di male», le dice per convincerla a non ribellarsi. E poi: «Lo sai che ti voglio bene. Lo vuoi un bacino?». «Io ti terrei dalla mattina alla sera qui, se tua mamma fosse più consenziente», insiste lui in un’ulteriore registrazione. Ma ce ne sono anche altre in cui prevale la voce della bambina. Come quella in cui la si sente impaurita ripetere due volte «Basta». Un urlo inquietante, come è inquietante ascoltare don Mottola quando, rivolto alla bambina, dice: «Prendi questa per asciugarti». Con quel materiale raccolto all’insaputa del sacerdote, e accompagnati anche da altri parrocchiani, i genitori della dodicenne si sono presentati dal vescovo. Che non ha fatto nulla per tentare che le cose venissero messe a tacere. Anzi, è intervenuto rimuovendo il parroco e si è dato da fare affinché venisse avviato a suo carico il processo canonico (attualmente ancora in corso). Di pari passo procedeva il lavoro investigativo del dirigente del commissariato di Aversa Vincenzo Gallozzi e dei suoi poliziotti, in strettissimo contatto con il procuratore di Napoli Nord Francesco Greco e alcuni sostituti. Una indagine delicatissima dove non è mancato anche un confronto (ovviamente protetto) tra accusatrice e accusato. Don Mottola si è difeso sostenendo che la bambina farneticasse. Però non è stato creduto.

AVVENIRE di sabato 9 novembre 2019 Pag 3 Il dolore degli abusati grida al cospetto di Dio di Maurizio Patriciello Il caso di un sacerdote accusato e arrestato in Campania

Ci sono giorni in cui ti senti come svuotato dentro. Raccogli le idee, studi, rifletti, preghi, ma quel senso di gelo e di angoscia che ti accompagna, rimane. Venerdì mattina, nel Casertano, viene arrestato don Michele Mottola, un sacerdote sessantenne del clero di Aversa, la diocesi che ci è madre e maestra, indagato per presunti atti di pedofilia. Solo pochi giorni prima il noto porgramma 'Le Iene' aveva raccontato la triste storia di una bambina che sarebbe stata da lui molestata e mandato in onda una sua intervista. Nel giro di poche ore i giornali si scatenano, il web impazzisce, i commenti si fanno feroci, pericolosi. La gente è scandalizzata, e questo è un grande bene. I bambini non si toccano, i bambini vanno tutelati e difesi, i bambini sono sacri. I bambini vanno amati. Come tutti, anche don Michele è da considerare innocente fino a condanna certa. I casi di pedofilia, o di presunta pedofilia nel clero, alla Chiesa stanno facendo più male di una spietata guerra di persecuzione. E, purtroppo, arrivano a minare la fiducia anche nei suoi ministri più limpidi, che sono la grande maggioranza, e persino in quelli che per i diritti e la difesa dei bambini stanno consumando la loro vita. Un danno incalcolabile, il sospetto che si abbatte su tutti. Una ferita aperta nel cuore della Chiesa e della gente. Il Papa, in questi anni, è corso ai ripari con decisione. Sta facendo di tutto perché questa zizzania velenosa venga estirpata. Per il bene dei bambini, innanzitutto. Occorre guardare a loro, al loro equilibrio, al loro futuro. Alla loro vita. Alla loro fede. Il male derivante dalla ferita inferta da un nemico è niente se paragonato alla lacerazione immensa che deriva dalle ferite che ti vengono da una persona cara. I bambini al centro. Dobbiamo mettere i bambini al centro delle nostre case, delle nostre chiese, delle nostre scuole, della nostra società. Gesù ce lo disse a chiare lettere: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli». Ai bambini, innanzitutto a loro, vogliamo chiedere perdono, poi alle loro famiglie, infine, ma non ultimo, alla santa madre Chiesa. Chiesa, sposa di Cristo, popolo di Dio, «colonna a fondamento della verità ». Quanto male abbiamo arrecato a lei e allo stupendo e incommensurabile messaggio che deve trasmettere. Chiesa di Dio, chiamata a perdonare tutti i tuoi figli, perdona oggi coloro che al riparo della talare, della stola, dell’Altare hanno tradito. Preti pedofili, preti attratti dai bambini, preti pericolosi per i bambini. Bambini da salvaguardare, tutelare da chi avrebbe dovuto dare la vita per la loro salvezza. Terribile dover difendere i bambini da chi ha sclceto di servirli e di amarli. Che peccato. Che vergogna per l’intero presbiterio di una diocesi, di una regione, di una nazione, della Chiesa tutta. No, a nessun prete è dato il diritto di dire: io non c’ entro. Non c’entro, è vero, da un punto di vista penale, sociologico. Ma da un punto di vista squisitamente teologico, ecclesiale, c’entriamo tutti, eccome. Perché? Perché siamo un corpo solo, il corpo di Cristo. Un corpo che soffre quando un membro soffre e gioisce quando un membro gioisce. Un corpo che risente del peccato e della santità dei suoi membri. Per questo motivo, pur sapendo che sarebbe più comodo fingere di non sapere e aspettare che il tempo, in qualche modo, lenisca lo scandalo e il dolore, vogliamo invece farci avanti e assumerci le nostre responsabilità davanti alla nostra coscienza, alla Chiesa, al mondo. Ognuno, a cominciare da chi sta scrivendo, deve avere il coraggio di mettere a nudo la sua coscienza davanti a Dio e chiedersi se ha fatto tutto, ma proprio tutto quello che avrebbe potuto fare, perché quel bambino quella bambina non finisse nella trappola. La salvezza anche di un solo bambino vale bene qualche piccolo problema. Occhi negli occhi, fratelli. «Con la coscienza non si scherza», ammoniva il grande don Primo Mazzolari. Nemmeno con i bambini si scherza. I bambini abusati muoiono dentro. Muoiono lentamente. Muoiono atrocemente. Il dolore dei bambini abusati grida vendetta al cospetto di Dio. Occorre osare di più. Per amore dei bambini. Per amore della Chiesa. Per amore dell’umanità.

LA NUOVA di sabato 9 novembre 2019 Pag 11 Risarcimento a vittima di abusi. Ma il parroco resta al suo posto di Niccolò Zancan Per la prima volta la Curia paga per evitare il processo civile. Penale prescritto. Don Giorgio Carli: «Sono in pace, sto bene». E tutta la comunità lo difende

Vipiteno (Bolzano). Don Giorgio Carli è al suo posto. Come se nulla fosse mai accaduto. «Non ho niente da dire e sono in pace, sto benissimo così», dice soltanto. Nella penultima chiesa prima del confine austriaco, l'oratorio Maria Schutz, il prete condannato per pedofilia e poi prosciolto «per avvenuta prescrizione» fa catechismo ai bambini e distribuisce cibo ai bisognosi. Nuvoloni neri gravano sulla strada in salita. Quattro persone sono in attesa di essere ricevute. E il signor Ferri, imprenditore e volontario da 40 anni in parrocchia, sta sulla porta come un guardiano: «Se pensate di venire a rimestare nel torbido avete sbagliato indirizzo. Don Giorgio ha tutta la mia stima e l'affetto della comunità. Sono state dette solo cose false su di lui. È una persona squisita, a cui vogliamo un gran bene».Se questa storia iniziata nel 1989 e chiusa solo nel 2015 con il pagamento di un risarcimento alla vittima è oggi di attualità, è perché quel risarcimento costituisce un caso unico in Italia. L'unica volta in cui la Chiesa ha riconosciuto i danni biologici a una vittima di pedofilia con un accordo extragiudiziale. E infatti quell'unico precedente viene citato da altre cinque presunte vittime di pedofilia, che hanno chiesto alla diocesi di Savona un totale di 4 milioni e 700 mila euro. La cosa importante è che la curia di Bolzano pagò in solido con il suo prete. Cioè: se ne assunse la responsabilità. Il che potrebbe diventare un precedente per sostenere che il vescovo è sempre garante dell'operato dei suoi sacerdoti. Fino a qui, in teoria. Perché poi in pratica è più complicato.il patto di riservatezzaInfatti a Bolzano la Curia pagò e fece firmare un patto di riservatezza alla vittima non perché intendesse riconoscere l'esito finale di tre sentenze: assoluzione in primo grado, condanna a 7 anni e mezzo in appello, Cassazione che prescrive e conferma l'impianto accusatorio. Al contrario. «La Curia di Bolzano pagò per chiudere la vicenda ed evitare il processo civile, ma ha sempre creduto nell'innocenza di don Giorgio Carli», dice adesso l'avvocato Gianni Lanzinger che difese la vittima. Non ci fu ammissione di responsabilità. Don Giorgio Carli non si è mai ritirato dal sacerdozio. Per due anni non ha più assunto incarichi pastorali. Poi è tornato. «Qui a Vipiteno nessuno ha dubbi sul suo conto», dice il signor Franz. Eppure i reati sono stati accertati. «Questo lo dite voi», interviene il signor Ferri. Lo dice un giudice. «Accertati un cavolo!», ribattono entrambi prima di chiudere il cancello.È vero che un reato prescritto non macchia il certificato penale. Ma è altrettanto vero che per i giudici don Giorgio Carli ha abusato di un'adolescente dal 1989 al 1994. Ed è talmente vero che persino la Curia di Savona con gli avvocati con cui sta organizzando la sua difesa scrive negli atti: «L'unico precedente che ha visto la condanna di una Diocesi al risarcimento dei danni subiti dalla vittima di abusi sessuali perpetrati da un prete attiene ad un caso nel quale tali fatti erano stati accertati in sede penale, con valenza di giudicato». Fatti accertati. La curia di Savona sostiene, quindi, che a Bolzano sia stato commesso un reato. Mentre lì, dalle sue parti, nella vicenda che riguarda l'ex parroco di Spotorno don Nello Giraudo, non c'è una sentenza definitiva che dia ragione alle cinque persone che si dichiarano vittime. Tutti i reati sono prescritti. Eppure, altra complicazione: don Giraudo a Savona ha firmato la riduzione allo stato laicale. Mentre don Carli è «in pace» al suo posto. tutti con don carliTutta Vipiteno lo difende. Il vicario generale della diocesi Eugen Runggaldier dice: «Non abbiamo nulla da dire. Le cose sono chiare». Lo hanno sempre considerato innocente, continuano a considerarlo tale anche dopo avere risarcito la vittima. La cifra di partenza era 760 mila euro. Ma non è possibile sapere con precisione quanto è stato versato. «Le parti hanno firmato un vincolo di riservatezza», dice l'avvocato. È proprio questo genere di «riservatezza» che ha sempre caratterizzato la vicenda. Il procuratore capo di allora oggi è giudice all'Aja, si chiama Cuno Tarfusser e ricorda bene quell'indagine: «A Bolzano ci trovammo di fronte a un muro. La chiusura della Curia fu totale. Fu difficile persino l'accesso agli atti. Ricordo interrogatori pieni di reticenza».La vittima si è sposata e ora sta meglio. Era riuscita a far riemergere le violenze anche grazie a 350 sedute di psicoanalisi. La sua testimonianza è stata ritenuta dai giudici «una deposizione estremamente lunga e al contempo lucida, lineare e coerente, assolutamente immune da vizi logici». Don Carli vive al secondo piano dell'oratorio Maria Schutz di Vipiteno, oggi ha 56 anni. Accanto al suo nome, sul citofono c'è scritto: «Sala giovani». Di lui dicono: «Nessuno può permettersi di parlarne male». Viene buio e torna silenzio. Lo stesso silenzio che accomuna tutte queste storie.

CORRIERE DELLA SERA di venerdì 8 novembre 2019 Pag 1 La forza di chi non odia di Pierluigi Battista No all’antisemitismo

È impossibile dominare lo sgomento, il senso di scoramento e anche di disgusto, di fronte alla notizia che Liliana Segre, scampata alla Shoah, sia costretta a girare con la scorta per difendersi dalle minacce di un gruppo di mascalzoni antisemiti. A Milano l’hanno accolta con striscioni ostili. Sui social la insultano, nascondendosi dietro profili falsi perché gli antisemiti, oltre a essere dei cialtroni, sono anche vigliacchi. Liliana Segre è una donna determinata e forte. Nonostante le angherie subite, nonostante il dolore e il lutto atroce che i nazisti le hanno inflitto durante lo sterminio del popolo ebraico, lei non ha mai pronunciato parole violente verso chi minimizza o nega le gesta degli aguzzini, come pure sarebbe comprensibile. La minacciano e la insultano, e addirittura le augurano la morte, proprio per questa sua forza. Non è solo una testimone degli orrori del passato, è una donna che sa spiegare i motivi che hanno portato alla tragedia dell’Olocausto, illustrare i pericoli che la società moderna corre ignorando il passato, o dimenticandolo, o giustificandolo, o ridimensionandolo. I sopravvissuti stanno scomparendo, uno a uno. La crudeltà dell’anagrafe cancella la testimonianza di chi ha vissuto come vittima quel vortice di orrore, di chi, come Primo Levi, è tra i pochi che sono usciti vivi dai campi, mentre il resto delle loro famiglie veniva sterminato. Liliana Segre, con la calma dei forti, racconta ciò che è avvenuto perché non se ne perda traccia. È questa calma, questa forza, questa determinazione a far impazzire di rabbia gli intolleranti e i fanatici, chi ha in corpo il veleno dell’antisemitismo. Un antisemitismo che non muore mai, e che in Europa ha preso forme nuove e ancora più pericolose, dove con l’antico odio antiebraico di matrice nazista si mescola e si salda un’avversione assoluta per la presenza storica degli ebrei, a cominciare dalla voglia di annientamento di Israele, lo Stato degli ebrei. Qualche mese fa, a Parigi, un manipolo di gilet gialli stava per linciare il filosofo Alain Finkielkraut apostrofandolo con urla che dicevano «sporco ebreo» e «sionista». «Sionista» usato come arma contundente dai nuovi antisemiti. Recentemente a Roma, un gruppo di fanatici ha auspicato che il Caffè Greco, uno storico ed elegante caffè della Capitale, non finisse nelle mani dei «sionisti», che poi sarebbero gli amministratori dell’Ospedale Israelitico, proprietario del locale. Anche qui: «sionisti» come sinonimo di «ebrei». Ecco come si alimenta l’odio per Liliana Segre e per ciò che lei rappresenta. L’Italia deve difendere in modo compatto e unito Liliana Segre. Non è solo la scorta che deve difenderla. Gli esponenti della destra italiana che in Parlamento non si sono alzati in piedi come omaggio collettivo alla figura della senatrice a vita dovrebbero chiedere loro alla presidenza di riconvocare il Senato per applaudire Liliana Segre. Non è in discussione la legittima contrarietà alla Commissione parlamentare proposta dalla Segre e da lei presieduta. È in discussione la mancanza di rispetto verso una donna scampata alla Shoah, è in discussione la devastante prova di debolezza messa in mostra da chi non considera l’elementare solidarietà con una sopravvissuta all’orrore dello sterminio come un dovere primario, al di là di ogni dissenso, sempre possibile in una democrazia, ci mancherebbe. Oggi invece non dobbiamo esigere soltanto che Liliana Segre possa girare tranquilla per strada e non essere minacciata da chicchessia. Ma dobbiamo esigere che la battaglia contro l’antisemitismo sia un valore non negoziabile e che il conflitto politico anche duro, necessario in una democrazia liberale che non ha paura della diversità radicale delle opinioni e delle idee, si fermi di fronte al rispetto che è dovuto a una figura come Liliana Segre. Associare, come ha fatto Matteo Salvini (che poi in qualche modo ha cercato di recuperare), l’orrore per le minacce di morte a Liliana Segre alle parole d’odio che subisce il leader della Lega, significa non capire che non tutto è uguale ed equiparabile, che la Shoah non è un qualunque delitto politico, che Liliana Segre non è il bersaglio dei mascalzoni per ciò che dice o predica, ma per ciò che è: perché è ebrea, e gli ebrei sono ancora, nell’Italia del 2019, l’obiettivo di un odio incommensurabile e tenace. Ed è una vergogna infinita che Liliana Segre sia costretta a muoversi protetta da una scorta.

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