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Siamo tutti Sulla stessa barca Portare la musica trap nella classe di italiano L2

In questo periodo, per ragioni inizialmente professionali diventate un po' affettive poi mi sono avvicinata alla musica trap. Quella cosa che viene ultimamente definita brutta, cattiva e deviante per i nostri figli e per i nostri giovani studenti. L'ho ascoltata, analizzata, scomposta e ricomposta, facendomi anche guidare da aveva fatto questo lavoro prima di me, e mi ha così aiutata a trovare chiavi di lettura interessanti. Ho persino partecipato a un concerto finito in temporale, nel senso proprio che scoppiato il temporale il concerto è finito lì.

Ho ascoltato i testi del tanto discusso , che è il primo cantante italiano ad essere entrato nella top 100 di Spotify, “che vi piaccia o no” come titolano i giornali, e di tutti questi controversi musicisti che sono diventati nell’ultimo periodo gli idoli di tanti ragazzi a partire dai 10 anni di età.

Poi li ho raccontati in classe, a un gruppo di studenti universitari di livello B2. Devo ammettere che all’inizio ero perplessa: mi sembrava davvero difficile trovare una chiave di lettura utile da proporre in aula in un genere musicale che davvero sa essere molto brutto, cattivo e deviante, in quell'abbinamento tra testi forti e immagini provocatoriamente al limite che propone spesso.

Non dovrebbe stupirci, dato che la trap nasce negli Stati Uniti all’inizio di questo millennio, e la parola non indica da subito un genere musicale, ma piuttosto un luogo: le trap house, case abbandonate e fatiscenti alla periferia di Atlanta in cui avviene lo spaccio di sostanze stupefacenti.1

1 L’immagine seguente è tratta dal sito https://thebalamacab.bandcamp.com/track/acid-in-the-trap-house

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E infatti i temi principali dei trapper sia nostrani che d’oltreoceano sono tre, e ricorrono costantemente sia nei testi delle canzoni che nei video, che sono parte integrante della costruzione dell’immagine del trapper e del suo mondo: il denaro, le sostanze stupefacenti, e la sessualità ostentatamente slegata da ogni sentimento.

I trapper nascono e crescono in contesti difficili, e di quei contesti parlano: “Raccontiamo la realtà che stiamo vivendo”, dice . “Ovviamente se le cose cambieranno, cambierà anche la musica. Se lui [indica Sfera] diventerà il ricco che sta sopra il palazzo, non racconterà più di chi scende in piazza. La musica è come la vita, no?”2

Così parlava Charlie Charles nel 2015, quando la trap italiana stava superando i confini di per entrare nelle case dei giovani per la prima volta in Italia. Charlie Charles è il produttore oggi non solo di Sfera Ebbasta, ma anche ad esempio della recente e popolare Calypso, che vede la partecipazione, tra gli altri, del vincitore di Saremo 2019, Mahmood. Ma è stata presto la chiave di lettura a offrirsi a me, nelle parole di Paolo Barcella e Angelo Bonfanti:

Nella rappresentazione del fenomeno migratorio e nel racconto della condizione dello “straniero” il linguaggio della trap si rivela particolarmente interessante e carico di elementi innovativi. Non a caso molti dei protagonisti della scena trap sono figli di immigrati, come ; altri sono italo-africani, come Laïoung e come Momoney, nato a Torino da padre senegalese e madre italiana; altri ancora sono immigrati in Italia da bambini: è il caso di Isi Noice, nato a Casablanca e giunto in Italia all’età di 10 anni, e di Maruego, nato in Marocco e cresciuto in Italia. La peculiare prospettiva da cui osservano l’immigrazione consente loro di decostruire alcuni stereotipi, di ridicolizzare le rappresentazioni diffuse dai media, di portarle all’esasperazione o di ribaltarle3

Ecco, la musica trap italiana che fa un passo in più rispetto a quella statunitense, e diventa veicolo di un nuovo modo di parlare dello straniero. Non più una narrazione in terza persona, in cui si racconta di un migrante povero, senza cultura ed emarginato come è stato per anni nella musica italiana (e purtroppo anche nelle parole delle persone comuni, e, a volte, doppio purtroppo, degli insegnanti). Ma una narrazione dall’interno, da ragazzi che vengono definiti stranieri da chi si sente italianissimo ma che in realtà ci rispondono, con un’adesione al senso di realtà che ci obbliga a fermarci e ad ascoltarli:

2 https://www.smemoranda.it/sfera-ebbasta-charlie-charles-la-strada-la-scuola-la-musica/ 3 Paolo Barcella e Angelo Bonfanti, L’immigrazione nella canzone italiana (1991-2018), in Gabriele Beltrami (a cura di), La musica e i migranti. Musica e inserimento urbano, “Studi emigrazione”, 211, 2018, pp. 245-270

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Oh eh oh, quando mi dicon': "Vai a casa" Oh eh oh, rispondo: "Sono già qua!" Oh eh oh, io T.V.B. cara Italia Oh eh oh, sei la mia dolce metà4

In classe, abbiamo osservato un dato immediato: il dato visivo. Abbiamo guardato le immagini di quattro famosi trapper italiani. Dall’alto in basso e da sinistra a destra Ghali, Maruego, Sferaebbasta e Young Signorino.

Ho chiesto ai miei studenti di dirmi cosa hanno in comune questi cantanti, e loro mi hanno risposto che sono giovani, uomini (nel senso che non ci sono donne) e hanno un aspetto che, al di là della bellezza del risultato finale che almeno in un caso è discutibile, è molto curato e basato sulla scelta di capi di abbigliamento firmato e costoso.5 Abbiamo parlato certo della trap house e del mondo al limite che vede questi ragazzi protagonisti. E poi abbiamo scoperto come la trap italiana sa essere qualcosa che così, senza tanti giri, ti colpisce come un pugno dritto in faccia perché ti racconta di chi, in una disperazione reale, ha comunque ancora sogni, e si gioca fino in fondo per darsi una possibilità di "rivalsa" (cito testuale).6

4 Ghali, Cara Italia, 2018 5 Le immagini sono tutte tratte dal web 6 Maruego, Sulla stessa barca, 2015

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Chissà, mi chiedo tra le notizie che ho letto in questi giorni, che la paura che la trap fa a tanti adulti non stia proprio in questi testi, molto più che in (o accanto a?) quelli che parlano di vita sregolata, questi testi, questi video che costringono a pensare almeno un po', in un clima generale che invita a spegnere ogni pensiero.

Abbiamo analizzato alcuni brani, ma è proprio sul percorso che abbiamo sviluppato per Sulla stessa barca che vorrei fermarmi ora.

Siamo partiti dal video ufficiale della canzone, di cui ho mostrato inizialmente gli ultimi secondi: eccone i fotogrammi:

(207.000 migranti hanno provato ad attraversare il Mediterraneo nel 2014, 3419 non sono sopravvissuti. Nei primi 4 mesi del 2015, già 1754 migranti hanno perso la vita.)

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(La traversata del Mediterraneo è ora “la strada più mortale al mondo”)

Pochi secondi di video senza audio per capire di cosa stavamo parlando. Un silenzio profondo, dopo aver letto quelle scritte, prima di proseguire con l’attività.

Un’altra immagine ha accompagnato la riflessione successiva, in cui abbiamo conosciuto i due protagonisti della canzone, Ahmed e Najat7

Ma cosa significano quelle parole? Con un esercizio di abbinamento abbiamo scoperto che Blad (o bled) = popolo/paese d’origine

7 L’immagine è un fotogramma del videoclip ufficiale

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Casquette = berretto Benz = Mercedes Flus = Kheb = donne Cash = denaro

Quindi Ahmed, figlio del suo popolo e del suo paese d’origine, si muove tra i quartieri e sogna Mercedes, vuole denaro, flûte pieni (di champagne) e un flusso di donne, vuole provare il gusto dell’avere denaro e non ha niente in tasca. Segue nel testo la descrizione dei tagli di Ahmed, quelle ferite sulla pelle che si è procurato vivendo la strada, descrizione resa vivida e immediatamente riconoscibile nelle immagini del video. Per contro, Najat, la figura femminile, che indossa capi che mescolano tradizione e modernità ed è destinata a sposare lo sconosciuto Abdel. Il video ci mostra i soprusi e le violenze che Najat subisce dal futuro marito.

Dopo aver incontrato i protagonisti, ci siamo soffermati quindi sulla domanda: “perché Ahmed e Najat lasciano il Marocco?”.

Ci sono poi due versi, nella canzone, potenti e commoventi. Parlando di Ahmed, Maruego racconta che Qui si salpa all’alba/Lui è solo con la giacca. Il riferimento a Najat ricorda che La libertà è soltanto tua e di nessun’altra. La fuga, la solitudine, la necessità di ripartire da sé.

A questo punto, la domanda che ha dato il via a tutta la riflessione: che immagine ci dà questa canzone del migrante? E la risposta è arrivata presto: il migrante muove da una situazione difficile, spesso di disperazione, ma questo non fa di lui un povero (poveretto) quanto piuttosto una persona che vuole darsi un’occasione per migliorare la sua condizione. Un’immagine, lo ribadisco, molto più reale della pietistica e fastidiosa – eppure diffusa – idea dello straniero come emarginato e sofferente, che va aiutato (ma non ascoltato)

Spagna, Francia, Olanda, Italia In cerca di un Paese, in cerca di rivalsa Storie di immigrati in cerca di speranza Najat e Ahmed sono sulla stessa barca

La canzone ha un finale aperto, perché per entrambi i suoi protagonisti si chiede e ci chiede, un momento prima di mostrarci quei terribili fotogrammi finali che mostrano tutta la portata della vera emergenza migranti, cioè il numero di morti che ci stiamo lasciando alle spalle in un clima di generale indifferenza (è più un’emergenza residenti, a voler ben guardare):

E Ahmed chissà se ce l’ha fatta / Najat chissà se ce l’ha fatta

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Ricordandoci, sempre per entrambi i protagonisti:

E Ahmed ora è solo senza papà e mamma / E Najat ora è sola senza papà e mamma

Il papà, la mamma, la patria, e di nuovo la solitudine. Il tutto in una ripetizione frequente e marcata dei nomi dei due protagonisti (anche questo si può far notare ai nostri studenti). Maruego sa, e rende chiaro, che i migranti non sono un’entità astratta, un gruppo informe di creature in viaggio, ma sono persone, e hanno un nome. Dare un nome è peraltro la prima e più potente operazione che possiamo compiere per avvicinare e avvicinarci. Se di un migrante posso aver timore perché non so bene cosa sia, di Ahmed ne avrò meno, perché il nome mi ricorda che è, a prescindere da ogni altra considerazione, un essere umano esattamente come me.

Questo viaggio nella musica trap è stato prezioso per me anzitutto, perché mi ha obbligata a fare due passaggi: il primo è stato documentarmi, per oltre un mese, tra testi di canzoni e articoli, saggi, interviste e il concerto che menzionavo in apertura. Poi, perché mi ha costretta a chiedermi, ancora, quale immagine do io dello straniero agli stranieri con cui lavoro: nei miei gesti, nelle mie parole, nei miei sguardi, trasmetto un messaggio che suona come “povero te che tanto soffri”? Credo di no, ma è utile ripetersi la domanda di quando in quando.

È stato anche prezioso nel dialogo con i miei studenti: sono entrata io nel loro mondo giovane, conoscendone un aspetto che di solito è oggetto di sola condanna da parte del mondo adulto. Un’operazione così avvicina, apre le porte al dialogo e abbatte un po’ di quel muro tra generazioni che si considera parte del gioco ma non per forza lo è.

Commuovendoci insieme davanti alle parole e alle immagini che raccontano la storia di Ahmed e Najat, in questo momento storico dove commuoversi è diventato se possibile ancora più vietato che pensare, abbiamo scoperto che anche noi siamo Sulla stessa barca di Ahmed e Najat.

Nadia Fiamenghi

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