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MANUEL CASTELLS Titolo originale: Networks of Outrage and Hope Copyright © Manuel Castells 2012 First published in 2012 by Polity Press This edition is published by arrangement with Polity Press Ltd., Cambridge, UK

Per l’edizione in lingua italiana

Copyright © 2012 EGEA S.p.A. Università Bocconi Editore

Traduzione: Bernardo Parrella (pp. VII-XXIX, 127-207, 235-270) Giuseppe Barile (pp. 1-126, 211-234) Impaginazione: Imagine, Trezzo sull’Adda (Mi) Progetto grafico di copertina: mStudio, Milano

Tutti i diritti sono riservati, compresi la traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e la messa a disposizione con qualsiasi mezzo e/o su qualunque supporto (ivi compresi i microfilm, i film, le fotocopie, i supporti elettronici o digitali), nonché la memorizzazione elettronica e qualsiasi sistema di immagazzinamento e recupero di informazioni. Per altre informazioni o richieste di riproduzione si veda il sito www.egeaonline.it/fotocopie.htm

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ISBN 978-88-8350-196-8

Realizzazione del formato digitale a cura di Promedia, Torino ad Alain Touraine, mio padre intellettuale, teorico dei movimenti sociali INDICE

Ringraziamenti

Mettersi in rete, creare significato, contestare il potere

Preludio alla rivoluzione. Dove tutto è cominciato Tunisia: «la rivoluzione per la libertà e la dignità» Islanda: la rivoluzione delle pentole. Dal crollo finanziario al crowdsourcing della nuova Costituzione Vento del Nord, vento del Sud: leve interculturali del cambiamento sociale

La rivoluzione egiziana Spazio di flussi e spazio di luoghi nella rivoluzione egiziana La risposta dello stato a una rivoluzione facilitata da Internet. La grande disconnessione Chi erano i manifestanti e perché manifestavano? Donne in rivoluzione La questione islamica «La rivoluzione continuerà» Comprendere la rivoluzione egiziana

Dignità, violenza, geopolitica: la rivolta araba La violenza e lo stato Una rivoluzione digitale? Una rivoluzione rizomatica: indignados in Spagna Un movimento automediato Che cosa volevano/vogliono gli indignados? Il discorso del movimento Reinventare la democrazia nella pratica: un movimento senza capi, a direzione assembleare Dal dibattito all’azione: la questione della violenza Un movimento politico contro il sistema politico Una rivoluzione rizomatica

Occupy Wall Street: raccogliere il sale della terra L’indignazione, il tuono, la scintilla La prateria in fiamme Un movimento in rete La pratica della democrazia diretta Un movimento senza richieste: «il processo è il messaggio» La violenza contro un movimento non-violento Quali le conquiste del movimento? Il sale della terra

Cambiare il mondo nella società in rete I movimenti sociali in rete: un modello emergente? Internet e la cultura dell’autonomia Movimenti sociali in rete e politica riformista: un amore impossibile?

Oltre l’indignazione, la speranza: vita e morte dei movimenti sociali in rete

Appendici

Informazioni sul libro

Circa l’autore RINGRAZIAMENTI

Il novembre 2011 è stato un mese interessante per me. Ero stato invitato a Cambridge dall’amico John Thompson, uno dei maggiori sociologi e studioso di politiche dei media, per una serie di interventi all’interno del programma CRASSH di quella Università. Ero ospitato nella magnifica ala medievale del St. John’s College, dove l’atmosfera monastica e l’interazione collegiale offrivano una serenità spazio-temporale adatta alla riflessione, dopo un intenso anno trascorso nello studio della teoria e della pratica dei movimenti sociali. Come molti altri in ogni parte del mondo, ero rimasto prima colpito e poi trascinato dalle rivolte scoppiate in Tunisia nel dicembre 2010, subito diffusesi in modo virale nell’intero mondo arabo. Negli anni precedenti avevo seguito l’emergere dei movimenti sociali alimentati dall’uso di Internet e delle reti di comunicazione wireless, a Madrid nel 2004, in Iran e in Islanda nel 2009, e in diversi altri paesi. Per gran parte dell’ultimo decennio mi ero dedicato allo studio della trasformazione delle relazioni di potere nell’interazione con la trasformazione delle modalità di comunicazione, e avevo ravvisato la nascita di un nuovo modello alla base di quei movimenti sociali, forse le nuove forme del cambiamento sociale nel XXI secolo. Un fenomeno che echeggiava la mia esperienza personale all’interno del movimento del maggio 1968 a Parigi. Provai la medesima sensazione euforica di allora: all’improvviso tutto sembrava possibile; il mondo non era necessariamente condannato al cinismo politico e all’imposizione burocratica di una vita assurda. I sintomi di una nuova era rivoluzionaria, un’epoca di rivolte tese a esplorare il senso della vita anziché a colpire lo stato, andavano materializzandosi un po’ ovunque, dall’Islanda alla Tunisia, da WikiLeaks ad , e poco dopo da Atene a Madrid a New York. La crisi del capitalismo economico globale non portava obbligatoriamente a un vicolo cieco – poteva perfino indicare un nuovo inizio basato su modelli inattesi. Nel corso del 2011 presi a raccogliere informazioni su questi nuovi movimenti sociali, discutendone la rilevanza con i miei studenti alla University of Southern e poi tenendo conferenze sulle mie indagini preliminari presso la Northwestern University, il College d’Etudes Mondiales di Parigi, l’Oxford Internet Institute, al seminario su comunicazione e società civile tenuto all’Internet Interdisciplinary Institute della Universitat Oberta de Catalunya di Barcellona, e infine alla London School of Economics. Andavo convincendomi sempre più che qualcosa di estremamente significativo stava prendendo corpo in ogni parte del mondo. Poi, due giorni prima di tornare a Barcellona da , il 19 maggio 2011, ricevetti una email da una ragazza di Madrid a me sconosciuta, con la quale mi informava che era in corso l’occupazione delle piazze di varie città spagnole: non sarebbe stato bello se mi fossi unito a loro in qualche modo, considerati i miei scritti sul tema? Il cuore prese a battermi forte. È mai possibile? Una nuova scintilla di speranza? Appena atterrato a Barcellona, mi precipitai a Plaza Catalunya. Ed eccoli lì, a centinaia, a discutere sotto il sole in modo pacifico e serio. Ero tra gli indignados. Scoprii che due miei collaboratori di ricerca di Barcellona, Joana e Amalia, facevano già parte del movimento. Ma senza alcuna intenzione di condurvi delle ricerche. Erano indignados proprio come tutti gli altri, e avevano deciso di agire. Non mi accampai in piazza: le mie vecchie ossa malandate non avrebbero gradito una notte sull’asfalto. Da allora avrei però seguito giorno dopo giorno le attività del movimento, visitando di tanto in tanto gli accampamenti a Barcellona e Madrid, intervenendo occasionalmente, su richiesta di qualcuno, ad Acampada Barcelona oppure London, e contribuendo a elaborare alcune delle proposte che andavano emergendo dal movimento stesso. Mi riconobbi spontaneamente nei valori e nello stile del movimento, per la gran parte scevro da ideologie obsolete e politiche manipolatrici. Prese così corpo il tentativo di dare sostegno a questi movimenti esplorandone al contempo il significato. Senza obiettivi specifici, e sicuramente senza intenzione di ricavarne un libro – e non comunque a breve termine. Viverlo era assai più affascinate che scriverne, soprattutto dopo aver già pubblicato venticinque titoli. Eccomi dunque a Cambridge, con l’opportunità di discutere con un fantastico gruppo di brillanti studenti che erano anche cittadini impegnati. Decisi di focalizzare la mia serie di conferenze sui «movimenti sociali nell’era di Internet», così da mettere in ordine le idee personali e nella speranza di comprendere meglio la portata di questi variegati movimenti grazie alla discussione con studenti e colleghi. Andò molto bene. Fu un’esperienza intensa, rigorosa, reale e priva di ogni pomposità accademica. Alla fine del mese, i colleghi John Thompson e Isidora Chacon insistettero perché ricavassi un libro da quelle discussioni. Un testo breve e veloce, meno accademico del solito. Breve? Veloce? Non l’avevo mai fatto. In genere mi ci vogliono oltre cinque anni per scrivere un libro e questo supera le 400 pagine. Sì, dicevano, potrai anche pubblicarne un altro fra cinque anni, ma quel che serve ora è un testo semplice che organizzi il dibattito e possa dare un contributo alla riflessione generale e alla comprensione più ampia di questi nuovi movimenti da parte delle persone. Sono riusciti a farmi sentire in colpa se non l’avessi fatto, poiché il mio unico contributo potenzialmente utile per la costruzione di un mondo migliore deriva dalla mia esperienza di una vita spesa come ricercatore in ambito sociale, in quanto autore e docente, non certo dal mio attivismo spesso confusionario. Ho ceduto alla loro richiesta, ed eccomi qui, a quattro mesi di distanza. È stato un compito veloce e impegnativo. In base ai miei standard, si tratta di un testo breve. Sulla sua rilevanza, spetta a voi giudicare. Perciò il mio primo ringraziamento va a John e Isidora, gli iniziatori di quest’avventura, i quali hanno continuato a sostenermi con le revisioni e i commenti sulle bozze dei capitoli man mano che il testo prendeva forma. Sono profondamente in debito con loro per la generosità e il contributo intellettuale. Eppure, nonostante tutto l’impulso ricevuto a Cambridge e da Cambridge, non sarei riuscito a mantenere la promessa senza l’aiuto di uno straordinario gruppo di giovani ricercatori con cui ho lavorato senza sosta a Barcellona e a Los Angeles. Non appena tornato dall’Inghilterra, mi resi conto di essere nei guai, e chiamai in soccorso amici e associati. Insieme a Joana Conill e Amalia Cardenas avevamo creato un piccolo gruppo di ricerca presso la Universitat Oberta de Catalunya a Barcellona per studiare l’emergere delle culture economiche alternative in loco. Molti dei gruppi e individui che seguivamo erano poi confluiti nel movimento degli indignados. E poiché anche Joana e Amalia ne facevano già parte, si dissero d’accordo nel darci una mano per reperire informazioni e analisi, a condizione di non essere coinvolte – per motivi personali – nella stesura finale della ricerca stessa. Amalia ha contribuito anche a raccogliere dati e riflessioni sull’Islanda e su , mentre io ho attivato la mia rete di colleghi ed ex studenti sparsi nel mondo per raccogliere informazioni, verificare fatti e ascoltare una varietà di opinioni, in particolare sui paesi arabi. Anche altri aderenti al movimento hanno avuto discussioni con me o con i miei collaboratori su alcune delle questioni e sulla storia del movimento stesso. Un ringraziamento particolare va a Javier Toret e Arnau Monterde, entrambi di Barcellona. Intanto a Los Angeles, anche Lana Swartz, mia collaboratrice e ottima dottoranda presso la Annenberg School of Communication della University of Southern California, era ben coinvolta in , e ha accettato con notevole generosità, intelligenza e rigore di aiutarmi nella raccolta di dati e analisi sul movimento Occupy negli Stati Uniti. Joan Donovan, attiva partecipante di Occupy Los Angeles e di Inter-Occupy, già presente in molte battaglie sul tema della giustizia sociale, e dottoranda presso la University of California a San Diego, mi ha fornito alcune idee chiave per il quadro generale. Dorian Bon, studente della Columbia University, mi ha raccontato la sua esperienza all’interno del movimento studentesco legato a Occupy Wall Street. L’amico e collega Sasha Costanza-Chock, docente al Massachusetts Institute of Technology, ha condiviso i dati di un suo studio inedito sul movimento Occupy in USA. Maytha Alhassen, giornalista arabo-americana e dottoranda in American Studies & Ethnicity presso la University of Southern California in Los Angeles, recatasi nei paesi arabi nel periodo delle rivolte, ha collaborato da vicino con resoconti sugli eventi chiave a cui aveva assistito in prima persona, dandomi accesso a fonti arabe e, fatto più importante, informandomi su come erano davvero andate le cose in quei frangenti. Ovviamente la responsabilità dei molti errori che è probabile siano finiti nella mia interpretazione, ricade interamente sul sottoscritto. Ma senza il suo insostituibile aiuto gli errori sarebbero stati molti di più. È grazie alla qualità del suo contributo che mi sono avventurato nell’analisi di specifiche modalità delle rivolte arabe. La mia gratitudine e il mio apprezzamento vanno dunque a questo gruppo eterogeneo ed eccezionale di individui, che hanno deciso di collaborare a questo progetto, diventato di fatto un impegno davvero collettivo, pur se il risultato finale è stato elaborato da un solo autore. Come per i miei libri precedenti, Melody Lutz, scrittrice professionista e mio editor personale, è stata il collegamento chiave tra me, l’autore, e voi, i lettori, rendendo possibile questo flusso comunicativo. Melody merita il mio sentito riconoscimento. La complessità del lavoro che ho appena delineato, e che ha poi portato alla pubblicazione di questo volume, ha richiesto capacità gestionali e organizzative fuori del comune, oltre a una grande dose di pazienza. Per questo, il mio profondo ringraziamento va a Clelia Azucena Garciasalas, la mia assistente personale presso la Annenberg School of Communication, che ha diretto l’intero progetto, coordinato ricerche e revisioni, riempito buchi, raccolto dati, corretto errori, assicurando il suo controllo di qualità sul libro che avete per le mani. Vorrei anche ringraziare Noelia Diaz Lopez, mia assistente personale alla Universitat Oberta de Catalunya, per il suo costante e straordinario sostegno in tutte le mie attività di ricerca. Infine, come per le mie precedenti ricerche e pubblicazioni, niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza il fattivo sostegno dell’ambiente familiare che mi circonda. Per questo, il mio amore e la mia gratitudine vanno a mia moglie Emma Kiselyova, a mia figlia Nuria e alla mia figliastra Lena, ai miei nipotini Clara, Gabriel e Sasha, a mia sorella Irene e a mio cognato Jose. In fondo, questo libro è nato al crocevia tra emozione e cognizione, lavoro ed esperienza, storia e speranze personali per il futuro. Per tutti voi.

Barcellona e Santa Monica, dicembre 2011-aprile 2012 METTERSI IN RETE, CREARE SIGNIFICATO, CONTESTARE IL POTERE

Nessuno se l’aspettava. In un mondo offuscato dalla crisi economica, dal cinismo politico, dal vuoto culturale e dallo sconforto individuale, qualcosa stava prendendo corpo. All’improvviso i dittatori potevano essere spodestati con le nude mani del popolo, anche se queste mani erano insanguinate dal sacrificio dei caduti. I maghi della finanza passavano da oggetto dell’invidia generale a bersaglio del disprezzo universale. I politici venivano smascherati come corrotti e bugiardi. I governi messi sotto accusa. I media sospettati. Scomparsa ogni fiducia. E la fiducia è quel che tiene insieme la società, il mercato, le istituzioni. Senza fiducia, tutto si ferma. Senza fiducia, il contratto sociale cessa di esistere e il popolo sparisce, trasformandosi in singoli individui sulla difensiva in lotta per la sopravvivenza. Eppure, ai margini di un mondo giunto ai limiti della capacità di una vita collettiva per gli esseri umani e della condivisione di tale vita con la natura, alcuni individui si erano ritrovati ancora una volta insieme alla ricerca di nuove forme per tornare a essere noi, il popolo. All’inizio erano appena un pugno, poi furono raggiunti da altre centinaia, e poi da migliaia di persone in rete, poi ancora sostenuti da milioni di individui con le loro voci e con la spinta interiore verso la speranza, per quanto confusa essa fosse, superando ideologie e clamore per congiungersi con le preoccupazioni reali di persone reali in quell’esperienza umana reale che veniva reclamata a gran voce. Tutto è partito dai social network su Internet, trattandosi di spazi di autonomia ampiamente fuori del controllo di quei governi e corporation che nel corso della storia avevano sempre monopolizzato i canali di comunicazione per affermare il proprio potere. Condividendo problemi e speranze nello spazio pubblico e libero di Internet, attivando connessioni reciproche, elaborando progetti da molteplici fonti diverse, singoli individui hanno dato vita a una varietà di network, prescindendo dalle opinioni personali o dai vincoli con qualsivoglia organizzazione. Si sono ritrovati insieme su un terreno comune. E questo loro ritrovarsi insieme li ha aiutati a superare la paura, quest’emozione paralizzante su cui fanno affidamento i poteri costituiti per prosperare e riprodursi, promuovendo intimidazione o sconforto, e quando necessario tramite la violenza pura, in modo aperto oppure imposta a livello istituzionale. Protette dal cyberspazio, persone di ogni età e condizione sociale sono poi andate a occupare gli spazi urbani, dandosi appuntamenti al buio tra loro e con il destino che si apprestavano a plasmare, mentre reclamavano il diritto a fare la storia – la propria storia – dando corpo a quell’autocoscienza che ha sempre caratterizzato i grandi movimenti sociali1. Questi movimenti si sono diffusi per contagio in un mondo collegato in rete, centrato su Internet senza fili, e contrassegnato dalla diffusione rapida, virale di immagini e idee. Sono scoppiati a sud e a nord, in Tunisia e in Islanda, e da qui la scintilla ha acceso fuochi in una varietà di scenari sociali devastati dall’avidità e dalla manipolazione in tutti gli angoli del pianeta. Non era solo la povertà o la crisi economica, oppure l’assenza di democrazia, a provocare questa ribellione multiforme. Ovviamente tutti questi profondi segni di una società ingiusta e di una politica anti- democratica erano ben presenti nelle proteste. Ma è stata soprattutto l’umiliazione provocata dal cinismo e dall’arroganza di chi era al potere, che fosse finanziario, politico o culturale, ad aver messo insieme quanti volevano trasformare la paura in indignazione, e l’indignazione in speranza per un’umanità migliore. Un’umanità che andava ricostruita da zero, rifuggendo dalle molteplici trappole ideologiche e istituzionali che più e più volte avevano portato a vicoli senza uscita, aprendo piuttosto nuovi sentieri condivisi. La scintilla è stata la ricerca della dignità nel bel mezzo della sofferenza per l’umiliazione – temi ricorrenti nella gran parte dei movimenti. Inizialmente i movimenti sociali in rete sono sorti nel mondo arabo, incontrando la violenza assassina dei dittatori locali. Il loro esito è stato diverso, dalla vittoria all’ottenere qualche concessione, da ripetuti massacri alla guerra civile. Altri movimenti sono poi emersi in opposizione all’impropria gestione della crisi finanziaria in Europa e negli Stati Uniti da parte di istituzioni che hanno appoggiato le élite economiche responsabili della crisi stessa a spese dei cittadini: in Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Italia (dove la mobilitazione delle donne ha contribuito a estinguere la buffonesca commedia dell’arte di Berlusconi), in Gran Bretagna (dove le occupazioni delle piazze hanno dato man forte alla difesa del settore pubblico da parte di sindacati e studenti uniti) e, con minore intensità ma analogo simbolismo, in buona parte degli altri paesi europei. In Israele, un movimento spontaneo dalle molte richieste è sfociato nella più grande mobilitazione di base nella sua storia, vedendosi soddisfare molte di tali richieste. Negli Stati Uniti, il movimento Occupy Wall Street, spontaneo al pari di tutti gli altri e al pari di tutti gli altri collegato nel cyberspazio e nello spazio urbano, è assurto a evento dell’anno e si è imposto in gran parte del paese, al punto che la rivista Time ha nominato «il manifestante» come persona dell’anno. E il motto del 99 per cento, il cui benessere è stato sacrificato a favore di quell’1 per cento della popolazione che controlla il 23 per cento della ricchezza dell’intero paese, è divenuto uno dei temi dominanti della vita politica americana. Il 15 ottobre 2011, il network mondiale dei movimenti Occupy, riuniti sotto lo slogan «Uniti per il cambiamento globale», ha mobilitato centinaia di migliaia di persone in 951 città di 82 paesi, reclamando giustizia sociale e democrazia reale. In tutti questi casi, i movimenti hanno ignorato i partiti politici, non si sono fidati dei media, non hanno riconosciuto alcuna leadership e hanno rifiutato ogni organizzazione formale, affidandosi a Internet e alle assemblee locali per le discussioni collettive e per il processo decisionale. Questo libro prova a far luce su tali movimenti: la loro nascita, le loro dinamiche, i valori e le prospettive di trasformazione sociale. È un’indagine sui movimenti sociali della società in rete, quei movimenti che in definitiva daranno forma alle società del XXI secolo attivando pratiche conflittuali radicate nelle contraddizioni fondamentali del nostro mondo. Pur se basata sull’osservazione di questi movimenti, l’analisi illustrata in seguito non cercherà di descriverli né potrà offrire le prove inconfutabili delle tesi sostenute nel testo stesso. Esiste già un’abbondanza di informazioni, sotto forma di articoli, libri, resoconti giornalistici e archivi di blog di facile consultazione su Internet. Ed è troppo presto per poter formulare un’interpretazione sistematica e scientifica di questi movimenti. Pertanto il mio obiettivo è più limitato, cioè quello di suggerire qualche ipotesi, basata sull’osservazione, relativamente alla natura e alle prospettive dei movimenti sociali in rete, nella speranza di identificare i nuovi modelli di trasformazione sociale della nostra epoca, e di stimolare il dibattito sulle implicazioni pratiche (e, in fondo, politiche) di queste ipotesi. Quest’analisi si fonda sulla teoria del potere documentata nel mio libro Comunicazione e Potere (2009)2, teoria che fornisce la base necessaria per comprendere i movimenti analizzati in queste pagine. Io parto dalla premessa che sono le relazioni di potere a dar forma alla società, poiché chi è al potere costruisce istituzioni sociali in base ai propri valori e interessi. Il potere è esercitato tramite gli strumenti della coercizione (il monopolio della violenza, legittima o meno, rimane sotto il controllo dello stato) e/o tramite la costruzione di significato nell’immaginario collettivo, attraverso meccanismi di manipolazione simbolica. Le relazioni di potere sono radicate nelle istituzioni della società, in modo particolare nello stato. Tuttavia, essendo le società contraddittorie e conflittuali per natura, ovunque c’è potere c’è anche contropotere, che concepisco come la capacità degli attori sociali di sfidare il potere radicato nelle istituzioni allo scopo di reclamare la rappresentanza dei propri valori e interessi. Tutti i sistemi istituzionali rispecchiano le relazioni di potere, come anche i limiti a tali relazioni così come sono stati negoziati in un infinito processo storico di conflitti e contrattazioni. La configurazione concreta dello stato e delle altre istituzioni che regolano la vita delle persone dipende da questa costante interazione tra potere e contropotere. Coercizione e intimidazione, basate sul monopolio statale della capacità di esercitare violenza, sono meccanismi essenziali per imporre la volontà di coloro che detengono il controllo istituzionale. Tuttavia, la costruzione di significato nell’immaginario collettivo è una fonte di potere più stabile e decisiva. È il modo di pensare della gente a determinare il destino delle istituzioni, delle norme e dei valori tramite cui sono organizzate le società. Sono pochi i sistemi istituzionali capaci di vivere a lungo se basati soltanto sulla coercizione. Torturare qualcuno è meno efficace che plasmare la mente delle persone. Se la maggioranza dei cittadini la pensa in modo opposto ai valori e alle norme istituzionalizzate nelle legislazioni e nelle regole imposte dallo stato, il sistema finirà per trasformarsi, pur se non necessariamente in sintonia con le speranze degli agenti del cambiamento sociale. Ecco perché la lotta fondamentale per il potere è quella per la costruzione di significato nella mente delle persone. Gli esseri umani creano significato interagendo con il proprio ambiente sociale e naturale, creando network tra le loro reti neurali e quelle naturali e sociali. Quest’attività di network viene operata dall’atto della comunicazione. La comunicazione è il processo di condivisione di significato tramite lo scambio d’informazione. Per la società in generale, la fonte primaria della produzione sociale di significato è il processo della comunicazione socializzata. Quest’ultima esiste nell’arena pubblica al di là della comunicazione personale. La continua trasformazione delle tecnologie di comunicazione nell’era digitale estende la portata dei media a tutti gli ambiti della vita sociale in un network che è al contempo globale e locale, generico e personalizzato, secondo uno schema in continuo mutamento. Il processo della costruzione di significato è caratterizzato da una vasta gamma di diversità. Esiste, tuttavia, una caratteristica comune a tutti i processi di costruzione simbolica: questi dipendono ampiamente dai messaggi e dai contesti creati, formattati e diffusi tramite le reti di comunicazione multimediali. Pur se ogni individuo costruisce un suo significato interpretando a modo proprio il materiale così comunicato, questo processo mentale viene condizionato dall’ambiente comunicativo. Pertanto la trasformazione di tale ambiente influisce in modo diretto sulle forme di costruzione del significato, e quindi sulla produzione delle relazioni di potere. In questi ultimi anni il maggior cambiamento nel mondo della comunicazione è stato la nascita di quel che ho definito autocomunicazione di massa – l’uso di Internet e delle reti senza fili come piattaforme di comunicazione digitale. Si tratta di comunicazione di massa perché elabora i messaggi da molti verso molti, con il potenziale di raggiungere una molteplicità di destinatari e di collegarsi a un’infinità di reti che trasmettono informazioni digitalizzate tanto nel quartiere come intorno al mondo. È autocomunicazione perché la produzione del messaggio è decisa in autonomia dal mittente, la designazione del destinatario è autodiretta e il recupero dei messaggi dalle reti di comunicazione è deciso in proprio. L’autocomunicazione di massa si basa su reti orizzontali di comunicazione interattiva che, per la gran parte, sono difficili da controllare da parte delle autorità o delle corporation. Inoltre, la comunicazione digitale è multimodale e consente riferimenti costanti a un ipertesto d’informazione globale i cui componenti possono essere rimescolati dagli attori coinvolti in base a specifici progetti di comunicazione. L’autocomunicazione di massa fornisce la piattaforma tecnologica necessaria alla costruzione dell’autonomia dell’attore sociale, che si tratti di un singolo o di un collettivo, vis-à-vis con le istituzioni della società. Questa la ragione per cui i governi hanno paura di Internet, e perché le corporation vi hanno una relazione di amore-odio e cercano di trarne dei profitti pur limitandone il potenziale per la libertà (per esempio, controllando le reti di file sharing o il mondo open source). Nella società odierna, che ho concettualizzato come la società in rete, il potere è multidimensionale ed è organizzato intorno a reti programmate in ciascun ambito dell’attività umana, in base agli interessi e ai valori degli attori responsabili3. Queste reti esercitano il potere influenzando la mente umana soprattutto (ma non esclusivamente) tramite network multimediali di comunicazione di massa. Ne consegue che le reti di comunicazione sono fonti cruciali per la creazione di potere. In vari ambiti dell’attività umana, i network di potere sono in rete tra loro. I network finanziari e multimediali sono intimamente interconnessi a livello globale, e questo specifico meta-network detiene un potere straordinario. Non controlla però tutto il potere, perché questo meta- network finanziario e mediatico dipende a sua volta da altre reti importanti, come la rete della politica, quella legata alla produzione culturale (che ingloba tutti i tipi di artefatti culturali, non soltanto i prodotti della comunicazione), il network militare e della sicurezza, la rete criminale mondiale e l’influente network globale della produzione e dell’applicazione di scienza, tecnologia e gestione della conoscenza. Queste reti non si integrano tra loro. Danno vita piuttosto a strategie di partnership e competizione formando reti ad hoc su progetti specifici. Tutte condividono però un interesse comune: tenere sotto controllo la capacità di definire le regole e le norme della società tramite un sistema politico che risponde in modo primario ai loro propri valori e interessi. Ecco perché il network di potere costruito intorno allo stato e al sistema politico svolge un ruolo fondamentale nella più ampia rete del potere. Ciò è dovuto, in primo luogo, alla stabilità operativa del sistema, e in ogni rete la riproduzione delle relazioni di potere dipende in definitiva dalle funzioni di coordinamento e di regolamentazione dello stato, come abbiamo potuto osservare in occasione del crollo dei mercati finanziari del 2008, quando i governi hanno dovuto correre al loro immediato soccorso. Inoltre, è tramite lo stato che le diverse forme di esercizio del potere in distinte sfere sociali si relazionano al monopolio della violenza in quanto capacità di imporre il potere come ultima risorsa. Perciò, mentre le reti di comunicazione elaborano la costruzione di significato su cui poggia il potere stesso, lo stato rappresenta il network di default per il corretto funzionamento di tutte le altre reti del potere. E dunque, in che modo le reti del potere vanno relazionandosi tra loro pur preservando una propria sfera d’azione? La mia opinione è che ciò avvenga tramite un meccanismo fondamentale di creazione del potere nella società in rete: il passaggio del potere. Si tratta della capacità di collegare tra loro due o più reti diverse durante il processo di creazione di potere per ciascuna di loro nei rispettivi campi. Ma chi detiene il potere nella società in rete? I programmatori capaci di programmare le reti più importanti da cui dipende la vita delle persone (governo, parlamento, ambito militare e di sicurezza, economia, media, istituzioni scientifiche e tecnologiche ecc.). E i gestori che curano le connessioni tra reti diverse (i magnati dei media entrati nella classe politica, le élite finanziarie che sostengono quelle politiche, le élite politiche che tirano fuori dai guai le istituzioni finanziare, le corporation mediatiche interconnesse con quelle della finanza, le istituzioni accademiche finanziate dalla grande imprenditoria ecc.). Se il potere viene esercitato dalla programmazione e dallo scambio di network, allora il contropotere, il tentativo deliberato di trasformare le relazioni di potere, trova corpo nella riprogrammazione dei network intorno a interessi e valori alternativi e/o nell’interruzione degli scambi dominanti nel passaggio tra reti di resistenza e mutamento sociale. Gli attori del cambiamento sociale sanno produrre un’influenza decisiva ricorrendo a meccanismi di creazione del potere che corrispondono alle forme e ai processi di potere della società in rete. Grazie alla produzione di messaggi nei mass media e a reti autonome di comunicazione orizzontale, i cittadini dell’età dell’informazione sono in grado di inventare nuovi programmi adatti alla loro vita, fatti con i materiali legati alla loro sofferenza, alle paure, ai sogni e alle speranze. Portano avanti i loro progetti condividendo le esperienze personali. Sovvertono la pratica della comunicazione tradizionale occupando il medium stesso e creandone il messaggio. Superano l’impotenza della loro disperazione solitaria mettendo in rete i propri desideri. Fronteggiano i poteri identificandone le reti esistenti. Il corso della storia dimostra che sono i movimenti sociali a produrre nuovi valori e obiettivi intorno a cui le istituzioni vengono poi trasformate in modo da rappresentare questi valori, creando nuove norme per l’organizzazione della vita sociale. I movimenti sociali esercitano contropotere innanzitutto autocostruendosi tramite un processo di comunicazione autonoma, libera dal controllo di quanti detengono il potere istituzionale. Dato che i mass media sono per lo più sotto il controllo dei governi e delle corporation, nella società in rete l’autonomia comunicativa gira soprattutto nelle reti di Internet e sulle piattaforme della comunicazione senza fili. I social network digitali offrono la possibilità, per lo più senza restrizioni, di deliberare e coordinare l’azione. Questa tuttavia è soltanto una delle componenti dei processi di comunicazione tramite cui i movimenti sociali si relazionano alla società nel suo complesso. Occorre anche dar vita a uno spazio pubblico creando comunità libere all’interno delle aree urbane. Poiché lo spazio pubblico istituzionale, lo spazio designato per le deliberazioni a livello costituzionale, è occupato dagli interessi delle élite dominanti e dei loro network, i movimenti sociali devono ritagliarsi un nuovo spazio pubblico che non sia limitato a Internet, ma si renda visibile nei luoghi della vita sociale. Ecco perché si occupano aree urbane ed edifici simbolici. Gli spazi occupati hanno svolto un ruolo cruciale nella storia della trasformazione sociale, come anche nella pratica contemporanea, per le seguenti tre ragioni principali. Creano comunità, e questa si fonda sullo stare insieme, che a sua volta è un meccanismo psicologico primario per superare la paura. E superare la paura è la soglia fondamentale che gli individui devono oltrepassare per potersi coinvolgere in un movimento sociale, essendo ben consapevoli del fatto che, come ultima risorsa, dovranno confrontarsi con la violenza, nel caso in cui varcassero i confini stabiliti dalle élite dominanti a tutela del loro dominio. Nella storia dei movimenti sociali, le barricate erette nelle strade avevano una minima capacità difensiva; divennero anzi facili bersagli o per l’artiglieria o per le pattuglie antisommossa, a seconda del contesto. Ma hanno sempre definito un «dentro e fuori», un «noi contro di loro», in modo che unendosi a un luogo occupato, e sfidando le norme burocratiche sull’uso dello spazio, altri cittadini potessero divenire parte del movimento senza aderire ad alcuna ideologia o entità, bastava la sola presenza per motivi personali. Gli spazi occupati non sono privi di significato: in genere acquisiscono la forza simbolica di invadere gli spazi del potere governativo o delle istituzioni economiche. O ancora, rispetto al contesto storico, evocano la memoria di sollevazioni popolari che avevano espresso la volontà dei cittadini di fronte alla chiusura di altre forme di rappresentanza. Spesso si occupano gli edifici o per il loro valore simbolico o per affermare il diritto all’uso pubblico di proprietà inutilizzate, frutto della speculazione. Occupando e tenendo in pugno lo spazio urbano, i cittadini reclamano la loro città, da dove sono stati buttati fuori per via della speculazione edilizia e della burocrazia municipale. Alcuni dei maggiori movimenti sociali della storia, quali la Comune di Parigi del 1871 o gli scioperi di Glasgow del 1915 (che diedero origine alle case popolari in Gran Bretagna), presero avvio come scioperi degli affitti contro la speculazione edilizia4. Il controllo dello spazio simboleggia il controllo sulla vita della gente. Creando una comunità libera in un luogo simbolico, i movimenti sociali danno vita a uno spazio pubblico, atto a deliberare, che alla fine diventa uno spazio politico, uno spazio per consentire alle assemblee sovrane di riconoscere e riappropriarsi dei propri diritti di rappresentanza, catturati da istituzioni politiche in gran parte fatte su misura per la convenienza degli interessi e dei valori dominanti. Nella nostra società, lo spazio pubblico dei movimenti sociali viene costruito come uno spazio ibrido tra i social network di Internet e lo spazio urbano occupato: integrare tra loro il cyberspazio e lo spazio urbano in un’interazione continua finisce per costituire, in senso tecnologico e culturale, comunità istantanee di pratica trasformativa. Il punto critico è che questo nuovo spazio pubblico, lo spazio in rete esistente tra lo spazio digitale e quello urbano, è un’area di comunicazione autonoma. L’autonomia della comunicazione è l’essenza dei movimenti sociali perché è quel che consente loro di prendere forma e di relazionarsi alla società al di là del controllo esercitato sulla comunicazione da chi detiene il potere. Qual è l’origine dei movimenti sociali? E in che modo si sviluppano? Le radici vanno cercate nella fondamentale ingiustizia presente in ogni società, in continua contrapposizione con l’aspirazione umana alla giustizia. In ogni contesto specifico, i soliti cavalieri che annunciano l’apocalisse dell’umanità avanzano insieme sotto una varietà di forme ripugnanti: lo sfruttamento economico, la povertà più disperata, l’ingiusta disuguaglianza, l’assenza di democrazia, gli Stati repressivi, la giustizia ingiusta, il razzismo e la xenofobia, la negazione culturale e la censura, la brutalità della polizia e le spinte guerrafondaie, il fanatismo religioso (spesso contro le religioni altrui), la trascuratezza ai danni del pianeta (l’unico che abbiamo), l’indifferenza per la libertà individuale e le violazioni della privacy, la gerontocrazia, il bigottismo e il sessismo, l’omofobia e altre atrocità nella lunga galleria di ritratti con i mostri che siamo diventati. E ovviamente, sempre, in ogni situazione e in ogni contesto, il netto predominio degli uomini sulle donne e sui loro figli, come pilastro portante di un (ingiusto) ordine sociale. I movimenti sociali hanno dunque una gamma di cause strutturali e di motivazioni individuali per sollevarsi contro una, o tante, delle dimensioni del predominio sociale. Eppure conoscerne le radici non risolve la questione della loro nascita. E poiché, secondo me, i movimenti sociali sono le fonti del cambiamento, e quindi della costituzione stessa della società, si tratta di una questione fondamentale. Talmente fondamentale che intere biblioteche tentano di formulare un possibile approccio verso una risposta, e di conseguenza non me ne occuperò in questa sede, dato che questo libro non vuole essere un ulteriore trattato sui movimenti sociali quanto piuttosto una piccola finestra su un mondo nascente. Mi limiterò però a dire quanto segue: i movimenti sociali, di sicuro oggi e probabilmente nel corso della storia (al di là dell’ambito di mia competenza), sono composti da singoli individui. Uso il plurale perché nella maggior parte delle analisi che ho letto su questi movimenti di qualsiasi epoca e società, ho incontrato un pugno di individui, talvolta solo l’eroe solitario, accompagnati da una massa indifferenziata, definita classe sociale o etnia o nazione o seguaci, oppure una qualsiasi delle varie denominazioni collettive che indicano i sottogruppi della diversità umana. Tuttavia, pur se raggruppare l’esperienza vissuta delle persone in comode categorie analitiche di strutture sociali è un metodo utile, le pratiche concrete che consentono ai movimenti sociali di emergere e di trasformare le istituzioni e, alla fin fine, la stessa struttura sociale, vengono messe in atto dai singoli individui: persone in carne, ossa e intelletto. E quindi il punto chiave da comprendere è quando e come e perché una o mille persone decidono, a livello individuale, di fare qualcosa nonostante vengano ripetutamente avvisate di non fare perché saranno punite. In generale, alla testa di un movimento c’è un pugno di persone, a volte solo una. Di norma i teorici sociali li definiscono people agency. Io li chiamo individui. E poi dobbiamo comprendere le motivazioni di ciascun individuo: in che modo costoro fanno rete collegandosi mentalmente con altri individui, e perché ci riescono, in un processo di comunicazione che alla fine porta all’azione collettiva; come riescono questi network a contrattare la diversità di interessi e valori presenti nella rete stessa per concentrarsi su una serie di obiettivi comuni; in che modo questi network si relazionano alla società nel suo insieme e a molti altri individui; e come e perché questa connessione funziona in un ampio numero di casi, spingendo i singoli ad ampliare la rete costruita per resistere alla dominazione e a impegnarsi in un assalto multimodale contro l’ingiusto ordine sociale. A livello individuale, i movimenti sociali sono movimenti emotivi. La ribellione non parte con un programma o una strategia politica. Questi possono comparire più avanti, quando va emergendo una leadership, dall’interno o dall’esterno del movimento, per favorire piattaforme politiche, ideologiche e individuali che possono aderire o meno alle origini e alle motivazioni di quanti fanno parte del movimento. Ma il big bang di un movimento sociale riguarda la trasformazione dell’emozione in azione. Secondo la teoria dell’intelligenza affettiva5, le emozioni più rilevanti per la mobilitazione sociale e per la condotta politica sono la paura (affezione negativa) e l’entusiasmo (affezione positiva)6. Le affezioni positive e negative sono legate a due sistemi motivazionali fondamentali dell’evoluzione umana: l’avvicinamento (o approccio) e l’evitamento. Il primo è legato a un comportamento verso un obiettivo preciso, che spinge l’individuo verso una ricompensa. I singoli trasudano entusiasmo quando devono raggiungere mete che li interessano da vicino. Ecco perché l’entusiasmo è direttamente congiunto con un’altra emozione positiva: la speranza. Quest’ultima proietta il comportamento verso il futuro. Dato che una caratteristica portante della mente umana è la capacità di immaginare il futuro, la speranza è un ingrediente fondamentale per dare sostegno a un’azione mirata a un obiettivo specifico. Tuttavia, per consentire all’entusiasmo di emergere e alla speranza di manifestarsi, le persone devono superare l’emozione negativa risultante dal sistema motivazionale di evitamento: l’ansia. L’ansia è la reazione a una minaccia esterna su cui la persona minacciata non ha alcun controllo. Così l’ansia sfocia nella paura, con un effetto paralizzante sull’azione. Nei comportamenti socio-politici il superamento dell’ansia è spesso dovuto a un’altra emozione negativa: la rabbia. La quale aumenta con la percezione di un’azione ingiusta e con l’identificazione del responsabile di tale azione. Le ricerche neurologiche rivelano che la rabbia è associata a comportanti rischiosi. Una volta che l’individuo abbia superato la paura, sono le emozioni positive a prendere il sopravvento, con l’entusiasmo che spinge all’azione e la speranza che anticipa la ricompensa per l’azione rischiosa. Tuttavia, perché un movimento sociale prenda forma, la spinta emotiva dei singoli deve legarsi a quella di altri individui. Ciò richiede un processo di comunicazione, con due requisiti di base per operare: la consonanza cognitiva tra mittenti e destinatari dei messaggi e un efficace canale di comunicazione. Il processo di comunicazione viene determinato da esperienze simili a quelle che hanno motivato l’impulso emotivo iniziale. In termini pratici, se parecchi individui si sentono umiliati, sfruttati, ignorati o incompresi, essi sono pronti a trasformare la rabbia in azione, non appena superata la paura iniziale. E ciò avviene grazie all’estrema espressione della loro rabbia, sotto forma di indignazione, quando magari vengono a sapere di un sopruso intollerabile subìto da qualcuno con cui si possono identificare. Questa identificazione viene raggiunta condividendo il proprio stato d’animo tramite qualche forma di comunanza creata nel corso del processo di comunicazione. Quindi, la seconda condizione per legare tra loro le esperienze individuali e dar vita a un movimento è l’esistenza di un processo di comunicazione in grado di propagare gli eventi e le relative emozioni. Più tale processo è veloce e interattivo, e più diventa probabile l’avvio di un processo di azione collettiva, radicato nell’indignazione, sospinto dall’entusiasmo e motivato dalla speranza. Storicamente i movimenti sociali sono stati legati all’esistenza di specifici meccanismi di comunicazione: indiscrezioni, sermoni, pamphlet e manifesti, passati da una persona all’altra, dal pulpito, dalla stampa, o da qualsiasi strumento di comunicazione fosse disponibile. Nella nostra epoca le reti digitali multimodali di comunicazione orizzontale rappresentano gli strumenti di comunicazione più veloci e autonomi, interattivi, riprogrammabili e autopropagabili della storia. Sono le caratteristiche dei processi di comunicazione usati dagli individui coinvolti nel movimento sociale a determinare le caratteristiche organizzative del movimento sociale stesso: più la comunicazione è interattiva e autoconfigurabile, minore è il livello gerarchico e maggiore la partecipazione. Ecco perché i movimenti sociali in rete dell’era digitale rappresentano un nuovo tipo di movimenti sociali7. Se l’origine dei movimenti sociali va ricercata nelle emozioni dei singoli e nella loro attività in rete sulla base dell’empatia cognitiva, qual è il ruolo delle idee, delle ideologie e delle proposte programmatiche tradizionalmente considerate la materia prima che porta al cambiamento sociale? Esse rappresentano di fatto il materiale indispensabile per il passaggio dall’azione guidata dall’emozione al momento deliberativo e alla stesura del progetto. Anche la loro integrazione nella pratica del movimento è un processo di comunicazione, ed è il modo in cui questo processo viene portato avanti a stabilire il ruolo di questi materiali ideativi rispetto al significato, all’evoluzione e all’impatto del movimento sociale stesso. Più le idee vengono generate dall’interno del movimento, sulla base dell’esperienza dei suoi partecipanti, e più il movimento sarà rappresentativo, pieno di entusiasmo e di speranza, e viceversa. Troppo spesso i movimenti diventano materiale grezzo per la sperimentazione ideologica o per la strumentalizzazione politica che finiscono per definirne obiettivi e rappresentazioni, i quali hanno poco a che fare con la loro realtà. A volte, nel corso della storia, l’esperienza umana dei movimenti tende a essere sostituita da un’immagine ricostruita per via di una qualche legittimazione dei leader politici o per rivendicare le teorie di certi intellettuali. Ne è un chiaro esempio il modo in cui venne presentata la ricostruzione ideologica della Comune di Parigi, nonostante i tentativi degli storici di riaffermarne la realtà, una rivoluzione proto-proletaria in una città che all’epoca contava pochi operai tra i suoi residenti. Il travisamento con cui venne descritta una rivoluzione municipale, scoppiata dopo uno sciopero degli affitti e in parte guidata dalle donne, è dipesa dall’inaffidabilità delle fonti di Karl Marx nelle sue analisi sulla Comune, basate soprattutto sulla corrispondenza con Elizabeth Dmitrieva, presidente del sindacato delle donne, una convinta comunarda socialista che però vide solo quel che lei e il suo mentore volevano vedere8. Il travisamento nella descrizione dei movimenti da parte degli stessi leader, ideologi o cronisti comporta notevoli conseguenze, poiché introduce sfaldamenti irreversibili tra gli attori del movimento e i progetti avviati a loro nome, spesso senza che ne siano a conoscenza e senza il loro consenso. La domanda successiva per la comprensione dei movimenti sociali concerne la valutazione dell’impatto concreto dell’azione congiunta di queste reti di individui sulle istituzioni della società, oltre che riguardo se stessi. Ciò richiederà una diversa serie di dati e strumenti analitici, poiché le caratteristiche delle istituzioni e delle reti dominanti andranno messe a confronto con le caratteristiche delle reti del cambiamento sociale. In sintesi, le reti del contropotere potranno prevalere su quelle del potere integrate nel tessuto sociale soltanto se sapranno riprogrammare la politica, l’economia, la cultura o qualsiasi dimensione intendano trasformare, introducendo nei programmi delle istituzioni, come anche nella propria vita, un’altra serie di istruzioni, compresa, in qualche versione utopica, la regola di non avere regole. Dovranno inoltre dedicarsi a integrare differenti reti di cambiamento sociale, per esempio, le reti pro-democrazia e quelle dedite alla giustizia economica, le reti per i diritti delle donne e quelle per la pace, la libertà, e così via. Comprendere in base a quali condizioni questi processi possano estrinsecarsi e quali possano essere gli esiti sociali risultanti da ogni processo specifico non è una questione di teoria formale. Richiede un legame diretto tra analisi e osservazione. Gli strumenti teorici che ho proposto qui sono semplicemente tali, degli strumenti, la cui utilità o inutilità potrà essere valutata soltanto utilizzandoli per esaminare le pratiche dei movimenti sociali in rete presi in esame in questo libro. Tuttavia, non offrirò la codifica dell’osservazione di questi movimenti sociali in termini astratti per aderire all’approccio concettuale qui illustrato. Piuttosto, la mia teoria sarà integrata in un’osservazione selettiva dei movimenti, per arrivare al termine del mio viaggio intellettuale con i risultati più salienti all’interno di una cornice analitica. Questo vuole essere il mio contributo alla comprensione dei movimenti sociali in rete in quanto forieri della trasformazione sociale nel XXI secolo. Un’ultima annotazione sulle origini e le condizioni delle riflessioni presentate in questo testo. Ho partecipato solo in modo marginale al movimento degli indignados a Barcellona, e soltanto come sostenitore e simpatizzante di analoghe iniziative in altri paesi. Ma, come è solito nel mio caso, ho tenuto la maggior distanza possibile tra le mie posizioni personali e l’analisi. Senza pretendere di raggiungere l’obiettività, ho cercato di presentare i movimenti tramite le loro stesse parole e azioni, usando qualche osservazione diretta e una considerevole dose di informazioni: in parte provenienti da interviste dirette e in parte da fonti secondarie elencate nelle note di ciascun capitolo e nelle appendici. Sono anzi pienamente d’accordo con il principio di base di questo movimento senza leader e multisfaccettato: io rappresento solo me stesso, e questa non è altro che una riflessione personale su quel che ho visto, sentito o letto. Sono un singolo individuo, impegnato a praticare quel che ho imparato a fare nella vita: analizzare i processi della trasformazione sociale, nella speranza che quest’analisi possa tornare utile all’impegno di coloro che, con gran rischio personale, stanno lottando per un mondo più vivibile per tutti.

Note

1. Per un’ottima panoramica, analitica e informativa, sui movimenti sociali nati un po’ ovunque nel 2011, si veda Paul Mason (2012), Why It’s Kicking Off Everywhere: The New Global Revolutions, Londra, Verso. 2. Comunicazione e potere (2009), Milano, Università Bocconi Editore (ed. or., Communication Power (2009), Oxford, Oxford University Press). 3. Per la caratterizzazione della società in rete, si veda il mio libro La nascita della società in rete (2008), Milano, Università Bocconi Editore (ed. or., The Rise of the Network Society (1996; 2010, 2a edizione), Oxford, Blackwell). Per una sintesi della mia teoria del potere in rete, si veda il mio articolo del 2011 «A Network Theory of Power», International Journal of Communication, 5, pp. 773-87. 4. Per l’analisi storica dei movimenti sociali urbani, si veda il mio testo The City and the Grassroots (1983), Berkeley, University of California Press, pp. 15-48. 5. W. Russell Neuman, G.E. Marcus, A.N. Crigler e M. MacKuen (a cura di) (2007), The Affect Effect: Dynamics of emotions in political thinking and behavior, Chicago, IL, University of Chicago Press. 6. Ho discusso l’influenza della teoria dell’intelligenza affettiva nello studio della mobilitazione socio-politica nel mio libro Comunicazione e Potere, cit., pp. 180-89 (ed. or., Communication Power, cit., pp. 146-55). 7. Jeff Juris offre un’analisi pioneristica sull’emergere degli attuali movimenti sociali in rete nel suo Networked Futures (2008), Durham, NC, Duke University Press. 8. Ho analizzato i dati storici della Comune di Parigi nel mio libro The City and the Grassroots (1983), pp. 15-26. PRELUDIO ALLA RIVOLUZIONE. DOVE TUTTO È COMINCIATO

Che cosa hanno in comune Tunisia e Islanda? Assolutamente nulla. Eppure, le sollevazioni che hanno trasformato le istituzioni della politica in entrambi i paesi nel 2009-2011 sono diventate il punto di riferimento per i movimenti sociali che hanno scosso l’ordine costituito nel mondo arabo e sfidato i governi in Europa e negli Stati Uniti. Nella prima manifestazione di massa in Piazza Tahrir, al Cairo, il 25 gennaio 2011, migliaia di dimostranti scandirono: «La Tunisia è la soluzione», modificando non a caso lo slogan «L’Islam è la soluzione», che aveva dominato le mobilitazioni sociali in tutto il mondo arabo negli ultimi anni. I manifestanti si riferivano al rovesciamento della dittatura di Ben Ali (il despota aveva lasciato il paese il 14 gennaio) dopo settimane di proteste popolari che avevano sconfitto la repressione sanguinosa del regime. Quando, nel maggio 2011, gli indignados spagnoli cominciarono ad accamparsi nelle principali piazze delle città in tutto il paese, il loro motto fu «L’Islanda è la soluzione». E quando i newyorkesi occuparono gli spazi pubblici intorno a Wall Street il 17 settembre 2011, chiamarono il loro primo accampamento Tahrir Square, così come fecero gli occupanti di Plaza Catalunya a Barcellona. Quale potrebbe essere il filo comune che ha unito nelle menti di tante persone le loro esperienze di rivolta nonostante i contesti culturali, economici e istituzionali profondamente diversi? In poche parole, la loro sensazione di condividere un potere e una responsabilità nuovi. Tale sensazione nasceva dal disgusto per i governi e per la classe politica, sia dittatoriali sia, nella visione dei manifestanti, pseudo- democratici. Era sostenuta dall’indignazione per la complicità percepita tra élite finanziaria ed élite politica. Era stata fatta scattare dallo sconvolgimento emotivo prodotto da un fatto intollerabile. Ed era diventata possibile con il superamento della paura attraverso modi di stare insieme costruiti nelle reti del cyberspazio e nelle comunità dello spazio urbano. Di più, sia in Tunisia sia in Islanda, in un brevissimo intervallo di tempo, erano emerse dai movimenti tangibili trasformazioni politiche e nuove culture civiche, materializzando la possibilità di soddisfare alcune delle richieste principali dei contestatori. Di conseguenza, è analiticamente significativo concentrarsi brevemente su questi due processi per identificare i semi del cambiamento sociale che sono stati diffusi dal vento della speranza; talvolta per germogliare in nuove forme e valori, talaltra per essere soffocati dalle macchine repressive messe in moto dai poteri costituiti, che erano stati prima sorpresi, poi spaventati e infine impegnati in azioni preventive in tutto il mondo. Attraverso la capacità autonoma di comunicare e di organizzare, al di là della portata dei soliti metodi di controllo economico e politico, nuove vie di cambiamento politico sono state scoperte da una giovane generazione di attivisti. E, benché ci fossero già numerosi precedenti di questo nuovo genere di movimenti sociali nell’ultimo decennio (in particolare, in Spagna nel 2004 e in Iran nel 2009), possiamo dire che il fenomeno nella sua più piena manifestazione ha preso le mosse dalla Tunisia e dall’Islanda.

Tunisia: «la rivoluzione per la libertà e la dignità»1

È cominciato in un posto assolutamente improbabile: Sidi Bouzid, una cittadina di 40.000 abitanti di una impoverita regione centrale della Tunisia, a sud di Tunisi. Il nome di Mohamed Bouazizi, 26 anni, venditore ambulante, è ormai iscritto nella storia come colui che ha cambiato il destino del mondo arabo. L’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi, che si è dato fuoco verso le undici e mezza del mattino del 17 dicembre 2010, di fronte alla sede di un ufficio governativo, è stata il suo ultimo grido di protesta contro l’umiliazione della ripetuta confisca della sua bancarella di frutta e verdura da parte della polizia locale dopo il suo rifiuto di pagare una tangente. L’ultima confisca aveva avuto luogo proprio quel giorno, un’ora prima. Mohamed Bouazizi morirà il 3 gennaio 2011 nell’ospedale di Tunisi, dove il dittatore Ben Ali lo aveva fatto trasportare per placare la collera della folla. Ma già a poche ore di distanza dal momento in cui si era dato fuoco, centinaia di giovani, che avevano subito analoghe esperienze di umiliazione da parte delle autorità, inscenavano una protesta davanti a quello stesso edificio. Un cugino di Mohamed, Ali, effettuò una ripresa della protesta e ne diffuse il video su Internet. Si succedettero altri suicidi simbolici e tentati suicidi che alimentarono la rabbia e stimolarono il coraggio dei giovani. In pochi giorni, manifestazioni sorsero spontaneamente in tutto il paese, a partire dalle province, raggiungendo la capitale all’inizio di gennaio, nonostante la selvaggia repressione della polizia, che uccise almeno 147 persone e ne ferì diverse centinaia. Il 12 gennaio, il generale Rachid Ammar, capo di stato maggiore delle Forze armate tunisine, rifiutò di aprire il fuoco contro i dimostranti. Il generale fu immediatamente costretto alle dimissioni ma, il 14 gennaio 2011, quando fu chiaro che il governo francese – il più sicuro alleato di Ben Ali fin dalla sua ascesa al potere nel 1987 – gli aveva ritirato il suo appoggio, il dittatore e la sua famiglia lasciarono la Tunisia per trovare asilo in Arabia Saudita. Ben Ali era diventato imbarazzante per i suoi sponsor internazionali, e occorreva trovare un successore all’interno della élite politica del regime stesso. Tuttavia, i dimostranti non erano affatto placati dalla vittoria, ma al contrario si sentirono incoraggiati a premere per la rimozione di tutti i responsabili di alto livello del regime, invocando libertà politica e libertà di stampa e reclamando elezioni veramente democratiche con una nuova legge elettorale. La folla cominciò a gridare «Degage! Degage! (Smammare!)» all’indirizzo di tutti i poteri costituiti: politici corrotti, speculatori finanziari, polizia brutale, media servili. La diffusione dei video delle proteste e della violenza poliziesca su Internet fu accompagnata da appelli a scendere nelle strade e nelle piazze delle città in tutto il paese, a partire dalle province centro-occidentali fino alla stessa Tunisi. La connessione tra la libera comunicazione su , YouTube e Twitter e l’occupazione dello spazio urbano aveva creato uno spazio pubblico di libertà ibrido, che diventò un tratto essenziale della rivolta tunisina, preannunciando i movimenti che si sarebbero poi sviluppati in altri paesi. Convogli di solidarietà formati da centinaia di auto presero a convergere sulla capitale. Il 22 gennaio 2011, il Convoglio della Libertà (Qâfi lat al-hurriyya), che aveva preso le mosse da Sidi Bouzid e da Menzel Bouzaiane, raggiungeva la Kasbah della Medina di Tunisi, reclamando le dimissioni del governo provvisorio di Mohamed Ghannouchi, un’ovvia continuazione del regime precedente sia nel personale sia nelle politiche. Proclamando simbolicamente il potere al popolo, quel giorno i manifestanti occuparono la Place du Gouvernement, nel cuore della Kasbah, dove ha sede la maggior parte dei ministeri. Gli occupanti rizzarono tende e organizzarono un forum permanente i cui animati dibattiti duravano fino a notte alta. Le discussioni proseguirono in qualche caso anche per due settimane di fila. I partecipanti effettuarono riprese di se stessi e diffusero i video dei dibattiti su Internet. Ma il loro linguaggio non era solo digitale. I muri della piazza furono coperti di slogan in arabo, francese e inglese, poiché il movimento voleva comunicare al mondo esterno la rivendicazione dei propri diritti e delle proprie aspirazioni. Gli occupanti cantavano slogan ritmici e canzoni di protesta. Molto spesso intonavano il verso più popolare dell’inno nazionale: «Quando un giorno il popolo sceglie la vita, il destino dovrà rispondere» (Idhâ I-sha ‘bu yawman arâda I-hayât, fa-lâ budda an yastadjiba al-qadar). Benché non ci fossero capi, emerse comunque un’organizzazione informale che si occupava della logistica e faceva rispettare le regole nei dibattiti in piazza: le discussioni dovevano essere educate, rispettose, senza urla, ognuno aveva il diritto di esprimere un’opinione evitando le tirate senza fine, di modo che ci fosse il tempo di dare a tutti la possibilità di esercitare la libertà di parola appena conquistata. Una rete di sorveglianza molto discreta allestita dagli stessi dimostranti garantiva il rispetto delle regole. La stessa organizzazione informale proteggeva l’accampamento contro la violenza e le provocazioni, sia dall’esterno sia dall’interno. Ci furono violenze da parte della polizia e gli occupanti furono cacciati dalla piazza diverse volte, ma tornarono a rioccupare gli stessi spazi il 20 febbraio 2011 e poi ancora il 1° aprile 2011. Molti erano i temi dibattuti – l’avversione per il governo corrotto, l’esigenza di una vera democrazia, la richiesta di un nuovo sistema elettorale che garantisse i diritti delle regioni contro il centralismo – ma erano altrettanto sentiti i problemi del lavoro, poiché molti dei giovani manifestanti erano disoccupati, e di una migliore formazione scolastica. Tutti erano disgustati del controllo sia politico sia economico esercitato dal clan dei Trabelsi, la famiglia della seconda moglie di Ben Ali, i cui traffici disonesti erano stati esposti nei dispacci diplomatici rivelati da WikiLeaks. Si discuteva anche il ruolo dell’Islam come guida morale contro la corruzione e gli abusi. Tuttavia, non si poteva caratterizzare il movimento come islamico, nonostante la presenza di una forte corrente islamista tra i dimostranti, per la semplice ragione che l’influenza dell’islamismo politico è diffusa in tutta la società tunisina. Al movimento va piuttosto riconosciuta la capacità di far coesistere le componenti secolari e islamiste senza giungere mai a gravi tensioni. In realtà, in termini di comunità di riferimento, si è trattato essenzialmente di un movimento nazionale tunisino che innalzava la bandiera nazionale e cantava l’inno nazionale come segnale di raccolta, affermando la legittimità della nazione contro l’appropriazione della nazione da parte di un regime politico illegittimo, spalleggiato da ex potenze coloniali, in particolare Francia e Stati Uniti. Non è stata né una rivoluzione islamica né una rivoluzione dei gelsomini (nome poetico inventato dai media occidentali per ragioni non chiare, ma che in effetti fu la denominazione originaria del colpo di stato di Ben Ali nel 1987!). Secondo le parole degli stessi manifestanti, questa fu una «Rivoluzione per la libertà e la dignità» (Thawrat al-hurriya wa-I Karâma). La ricerca di dignità in risposta all’umiliazione avallata dalle istituzioni fu un motore emozionale essenziale della protesta. Chi erano i dimostranti? Dopo poche settimane di manifestazioni possiamo dire che nelle strade c’era un campione della società tunisina, con una forte presenza del ceto professionale. Inoltre, la grande maggioranza della popolazione condivideva la richiesta di porre fine al regime dittatoriale. Tuttavia, secondo la maggioranza degli osservatori, coloro che diedero inizio al movimento e che giocarono il ruolo più attivo nella protesta furono soprattutto giovani disoccupati con elevati livelli di istruzione. In effetti, mentre il tasso di disoccupazione in Tunisia era pari al 13,3 per cento, se riferito ai soli giovani laureati esso saliva al 21,1 per cento. Questa combinazione di elevata istruzione e mancanza di opportunità è stata un terreno di coltura per la rivolta in Tunisia come in tutti gli altri paesi arabi. È stato anche significativo che, quando il movimento ha raggiunto una massa critica, è diventata importante anche la partecipazione degli operai sindacalizzati. Benché il gruppo dirigente dell’Union Génerale des Travailleurs Tunisiens (UGTT) fosse delegittimato per la sua profonda connessione con il regime (in particolare, il suo segretario generale, Abdeslem Jrad), la base e i quadri intermedi hanno usato l’opportunità di dare voce alle loro rivendicazioni e hanno lanciato una serie di scioperi che hanno contribuito ad approfondire lo scollamento tra il paese e le autorità. Al contrario, i partiti politici di opposizione sono stati ignorati dagli attivisti e non hanno avuto alcuna presenza organizzata nella rivolta. I manifestanti generavano spontaneamente la propria leadership ad hoc a seconda dei tempi e dei luoghi specifici. La maggior parte di questi leader autodesignati era tra i venti e i trent’anni o poco più. Benché il movimento fosse intergenerazionale, la fiducia era stata creata tra i giovani. Un post su Facebook ha espresso chiaramente un modo di pensare diffuso: «La maggior parte dei politici ha i capelli bianchi e il cuore nero. Vogliamo gente che abbia i capelli neri e il cuore bianco». Perché questo movimento è riuscito così rapidamente a sovvertire una stabile dittatura con una facciata istituzionale democratica, un enorme sistema di sorveglianza dell’intera società (circa l’1 per cento dei tunisini lavorava in un modo o nell’altro per il ministero dell’Interno) e il saldo sostegno delle maggiori potenze occidentali? Dopo tutto, in precedenza, le lotte sociali e le iniziative dell’opposizione sono sempre state represse dal regime con relativa facilità. Forti lotte operaie hanno avuto luogo a Ben Guerdane (2009) e nelle miniere di fosfato di Gafsa (2010), ma sono state violentemente represse, con decine di persone uccise, ferite e arrestate, e alla fine soffocate. I dissidenti venivano torturati e imprigionati. Le manifestazioni di strada erano rare. Sappiamo che la scintilla della rivolta è venuta dal sacrificio di Mohamed Bouazizi. Ma in che modo la scintilla ha dato fuoco alla prateria e come e perché il fuoco si è diffuso? Il successo delle rivolte popolari tunisine del 2011 per un periodo di tempo prolungato fu reso possibile dalla presenza di fattori distintivi inediti. Tra questi sembra emergere soprattutto il ruolo svolto da Internet e da Al Jazeera nell’innescare, amplificare e coordinare rivolte spontanee come espressione di indignazione, soprattutto tra i giovani. Ovviamente, ogni sollevamento sociale – e la Tunisia non ha fatto eccezione – avviene come espressione della protesta contro condizioni economiche, sociali e politiche insopportabili, caratterizzate da disoccupazione, prezzi alti per i beni di prima necessità, disuguaglianza, povertà, brutalità della polizia, mancanza di democrazia, censura e la corruzione come prassi dominante a tutti i livelli dello stato. Ma da queste condizioni oggettive sono emerse emozioni e sentimenti – come l’indignazione spesso indotta dall’umiliazione – e questi sentimenti hanno suscitato proteste spontanee iniziate da singoli individui: giovani che usavano i loro network, le reti in cui vivevano ed esprimevano se stessi. Certamente, il riferimento è ai social network di Internet come pure alle reti mobili dei cellulari, ma anche ai loro social network, la rete di rapporti sociali che faceva capo a ciascuno di loro: gli amici, le famiglie e, in qualche caso, le squadre di calcio, per lo più offline. È stato nella connessione tra i social network su Internet e i social network creati dalle vite degli individui che è stata forgiata la protesta. Dunque, la precondizione delle rivolte è stata l’esistenza di una cultura di Internet, fatta di blogger, social network e cyberattivismo. Si può citare, per esempio, il giornalista blogger Zouhair Yahiaoui, che fu incarcerato nel 2001 e morì in prigione. Altri blogger critici, come Mohamed Abbou (2005) e Slim Boukdir (2008), furono arrestati e detenuti per avere denunciato le malefatte del governo. Queste voci libere, sempre più diffuse su Internet nonostante la censura e la repressione, hanno trovato un potente alleato nella televisione satellitare, al di fuori del controllo governativo, in particolare, Al Jazeera. Si è stabilita una relazione simbiotica tra i giornalisti partecipativi armati di telefonino, che caricano immagini e notizie su YouTube, e Al Jazeera che riceve le imbeccate del giornalismo partecipativo e le ritrasmette a tutta la popolazione (nei centri urbani il 40 per cento dei tunisini guarda Al Jazeera, poiché la televisione ufficiale è stata ridotta a un rozzo strumento di propaganda). Questo collegamento Al Jazeera-Internet è stato essenziale durante le settimane delle rivolte, sia in Tunisia sia in relazione al mondo arabo. Al Jazeera si è spinta così avanti da sviluppare un programma di comunicazione che consente ai telefoni mobili di collegarsi direttamente al suo satellite senza richiedere strumentazioni sofisticate. Anche Twitter ha svolto un ruolo importante nella discussione degli eventi e nel coordinamento delle azioni. Per dibattere e comunicare su Twitter i dimostranti usavano lo hashtag #sidibouzid, indicizzando in questo modo la rivoluzione tunisina. Secondo lo studio sul flusso dell’informazione nelle rivoluzioni arabe condotto da Lotan et al. (2011), «i blogger hanno avuto un ruolo importante nel far emergere o nel disseminare notizie dalla Tunisia, poiché erano in grado di impegnare la propria audience in una partecipazione attiva con una probabilità sostanzialmente più alta di qualsiasi altro attore» (p. 1389). Dato il ruolo di Internet nella diffusione e nel coordinamento della rivolta, è significativo sottolineare che la Tunisia ha uno dei più alti tassi di penetrazione di Internet e di telefonia mobile del mondo arabo. Nel novembre 2010, il 67 per cento della popolazione urbana aveva accesso a un telefono cellulare e il 37 per cento era connesso a Internet. All’inizio del 2011, il 20 per cento degli utenti di Internet era su Face-book: una percentuale doppia rispetto al Marocco, tripla rispetto all’Egitto, cinque volte più grande che in Algeria o in Libia e venti volte maggiore che in Yemen. Inoltre, il rapporto tra utenti di Internet e la popolazione urbana, specialmente tra i giovani, era molto più alto. Poiché esiste una connessione diretta tra giovane età, istruzione superiore e uso di Internet, i laureati disoccupati che sono stati i principali attori della rivoluzione erano anche utilizzatori frequenti di Internet, talvolta utilizzatori sofisticati in grado di sfruttare il potenziale comunicativo di Internet per costruire ed espandere il loro movimento. L’autonomia comunicativa offerta da Internet ha reso possibile la diffusione virale di video, messaggi e canti che eccitavano la collera e infondevano speranza. Per esempio, la canzone «Rais Lebled» di un famoso rapper di Sfax, El General, che denunciava la dittatura, è diventata un successo sui social network. Ovviamente, El General è stato arrestato, ma ciò ha ulteriormente infiammato gli animi dei manifestanti e rafforzato la loro determinazione nella lotta per una «completa transizione», come essi stessi dicevano. Dunque, a quanto pare, troviamo in Tunisia una significativa convergenza di tre distinte caratteristiche:

1. l’esistenza di un gruppo attivo di giovani laureati disoccupati, che hanno guidato la rivolta, escludendo qualsiasi leadership formale tradizionale. 2. La presenza di una robusta cultura del cyberattivismo che si era impegnata in un’aperta critica al regime per oltre un decennio. 3. Un tasso di diffusione dell’uso di Internet relativamente alto, se si includono connessioni domestiche, scuole e cybercafé. La combinazione di questi tre elementi, che si sono alimentati a vicenda, fornisce una traccia per comprendere perché la Tunisia ha fatto da battistrada di una nuova forma di movimento sociale reticolare nel mondo arabo. Il movimento di protesta tunisino ha continuato a ribadire le sue richieste di piena democratizzazione per tutto il 2011 nonostante l’incessante repressione poliziesca e la persistenza di politici del vecchio regime nel governo provvisorio e nei livelli superiori dell’amministrazione. L’esercito, tuttavia, è stato generalmente favorevole al processo di democratizzazione, cercando di ottenere una nuova legittimazione dal suo rifiuto di impegnarsi in un’ulteriore sanguinosa repressione durante la rivoluzione. Con l’appoggio di media di fresca indipendenza, in particolare nel campo della carta stampata, il movimento democratico ha aperto un nuovo spazio politico e raggiunto la pietra miliare delle elezioni corrette e aperte del 23 ottobre 2011. Ennahad, una coalizione islamista moderata, è diventata la forza politica più importante del paese, ricevendo il 40 per cento dei voti e ottenendo 89 seggi sui 217 dell’Assemblea Costituzionale. Il suo leader, il veterano intellettuale e politico islamista Rached Gannouchi, è diventato primo ministro. Gannouchi rappresenta un genere di islamismo che sarebbe andato al potere attraverso libere elezioni nella maggior parte dei paesi arabi, se la volontà del popolo fosse stata rispettata: non rappresenta un ritorno alla tradizione o all’imposizione della Sharia. In un’intervista spesso citata, rilasciata al tempo del suo esilio a Londra nel 1990, esponeva la sua visione politica dell’islamismo in termini semplici: «La sola via per accedere alla modernità è la nostra via, che è stata tracciata per noi dalla nostra religione, dalla nostra storia e dalla nostra civiltà» (Jeune Afrique, luglio 1990). Dunque, non vi è un rifiuto della modernità, ma una difesa di un progetto di una modernità autodeterminata. Il suo più esplicito riferimento contemporaneo è il Partito della Libertà e dello Sviluppo guidato da Erdogan in Turchia, ma ciò è coerente con la sua posizione nel corso degli anni. Non vi è alcuna indicazione che il risultato della rivoluzione tunisina sarà un regime fondamentalista islamico. Il presidente, Moncef Marzuki, è una personalità laica, e la bozza della nuova Costituzione non fa più affidamento sulla volontà di Dio di quanto lo faccia la Costituzione degli Stati Uniti. A dire il vero, l’entrata in scena di un moderno partito islamista in una posizione eminente nel sistema politico ha marginalizzato, pur senza escluderle, le forze islamiche radicali. Tuttavia, questa situazione può cambiare se i nuovi governi democratici non sono in grado di affrontare i problemi drammatici della disoccupazione di massa, della povertà estrema, della corruzione diffusa e dell’arroganza burocratica che non sono stati dissolti dall’atmosfera di libertà. Nei prossimi anni la Tunisia dovrà affrontare sfide importanti. Ma lo farà con una forma di governo ragionevolmente democratica e, cosa ancora più importante, con una società civile consapevole e attiva, che occupa ancora il cyberspazio ed è pronta a tornare indietro nello spazio urbano se e quando necessario. Quale che sia il futuro, la speranza di una società tunisina umana e democratica sarà il diretto risultato del sacrificio di Mohamed Bouazizi e della lotta per la dignità che egli ha difeso per sé e che è stata riconquistata dai suoi compatrioti.

Islanda: la rivoluzione delle pentole. Dal crollo finanziario al crowdsourcing della nuova Costituzione2

Le scene di apertura di quello che è forse il migliore film documentario sulla crisi globale del 2008, Inside Job di Charles Ferguson, hanno per protagonista l’Islanda. In effetti, l’ascesa e la caduta dell’economia islandese esemplificano perfettamente l’ingannevole modello di creazione della ricchezza mediante la speculazione che ha caratterizzato il capitalismo finanziario nell’ultimo decennio. Nel 2007, il reddito medio dell’Islanda era il quinto più alto del mondo. I guadagni degli islandesi superavano del 160 per cento quelli degli americani. L’economia dell’isola era storicamente fondata sull’industria della pesca, che oggi rappresenta il 10 per cento del PIL e il 40 per cento delle esportazioni. Ma, anche aggiungendo turismo, software e alluminio, tutte attività economiche dinamiche, e profittevoli quanto lo era stata la pesca, non si arriva a spiegare l’improvvisa ricchezza islandese, le cui fonti restano altrove. Essa è stata il risultato della rapida crescita del settore finanziario sulla scia dell’espansione globale del capitalismo finanziario speculativo. La rapida integrazione dell’Islanda nella finanza internazionale fu guidata da tre banche islandesi: Kaupthing, Landsbanki e Glitnir, che passarono da banche commerciali locali, quali erano alla fine degli anni Ottanta del Novecento, a importanti istituzioni finanziarie verso la metà del primo decennio del secolo successivo. Le tre banche incrementarono il valore dei loro attivi dal 100 per cento del PIL islandese nel 2000 a quasi l’800 per cento del PIL nel 2007. La strategia che seguivano per crescere in modo così strabiliante era simile a quella di molte imprese finanziarie degli Stati Uniti e del Regno Unito. Usavano le proprie azioni come collaterale per contrarre grossi prestiti l’una dall’altra, poi usavano questi debiti per finanziare l’acquisto di altre azioni delle tre banche, facendo salire in questo modo il prezzo delle loro azioni e gonfiando i rispettivi bilanci. Inoltre, tramavano insieme per estendere l’ampiezza delle loro operazioni speculative su scala globale. I loro piani fraudolenti erano occultati attraverso una rete di società co-partecipate che avevano sede in piazze finanziarie offshore, come l’Isola di Man, le Virgin Islands, Cuba e Lussemburgo. I clienti delle banche erano persuasi ad aumentare il loro indebitamento convertendolo in franchi svizzeri o yen a tassi di interesse inferiori. Il credito illimitato permetteva alle persone di darsi a consumi illimitati, stimolando artificialmente la domanda interna e alimentando la crescita economica. Per coprire meglio le proprie operazioni, le banche concessero sia prestiti a condizioni di favore ad alcuni politici selezionati, sia generosi contributi finanziari ai partiti per le loro campagne elettorali. Nel febbraio 2006, l’agenzia Fitch rivedeva il rating islandese annunciando un outlook negativo e innescando quella che sarebbe stata chiamata «mini crisi». Per impedire una perdita di fiducia nell’affidabilità delle principali banche del paese, la Banca centrale si indebitò pesantemente per incrementare le loro riserve di valuta estera. La Camera di Commercio, dominata da rappresentanti delle grandi banche, si assicurò la consulenza di due eminenti accademici, Frederic Mishkin, della Columbia Business School, e Richards Portes, della London Business School, che certificarono entrambi la solvibilità delle banche islandesi. Tuttavia, nel 2007, il governo non poté più a lungo ignorare i bilanci sospetti delle banche e comprese che, se una delle tre banche maggiori avesse fatto fallimento, l’intero sistema finanziario l’avrebbe seguita. Fu istituita una commissione speciale per valutare la dimensione del problema. La commissione non fece granché e non considerò nemmeno la necessità di una regolazione del sistema bancario. Subito dopo, le tre banche, Landsbanki, Kaupthing e Glitnir, dovettero affrontare la scadenza pressante del rimborso del loro debito a breve, resa problematica dal fatto che i loro attivi erano fittizi e a lungo termine. Avendo più immaginazione che scrupoli, le banche elaborarono nuovi piani per allontanare il rischio di insolvenza. Landsbanki creò un servizio finanziario basato su Internet, denominato Icesave, che offriva alti rendimenti su depositi a breve termine. Il servizio era offerto attraverso nuove filiali nel Regno Unito e nei Paesi Bassi e fu un successo: nei conti Icesave furono depositati milioni di sterline. Nel solo Regno Unito vennero aperti 300.000 conti Icesave. I depositi sembravano sicuri in quanto l’Islanda era membro dell’EEA (European Economic Area) e perciò era coperta dai sistemi di assicurazione dei depositi dell’EEA, in base ai quali erano garantiti dallo stato islandese, così come dagli stati in cui le filiali estere avevano sede. Una seconda strategia messa in campo dalle tre grandi banche per raccogliere in fretta e furia denaro per pagare il loro debito a breve fu quella che prese poi il nome di «lettere d’amore». Le banche si scambiavano tra loro titoli di debito allo scopo di usare il debito delle altre come collaterale per ottenere prestiti dalla Banca centrale d’Islanda. Inoltre, la Banca centrale del Lussemburgo prestò alle tre banche 2,5 miliardi di euro, accettando collaterale in gran parte in forma di «lettere d’amore». Intanto, il sostegno del governo alle banche continuava, nonostante la loro ormai conclamata insolvenza. Nell’aprile 2008, Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) inviò un memorandum confidenziale al governo Haarde con l’invito a porre sotto controllo le banche e l’offerta di aiuto, ma senza alcun risultato. La sola reazione del governo fu impartire alla Banca centrale istruzioni perché assumesse nuovi prestiti in valute di riserva. Il 29 settembre, la banca Glitnir chiese al Governatore della Banca centrale un aiuto immediato, poiché non era in grado di onorare i suoi impegni finanziari. In risposta, la Banca centrale acquistò il 75 per cento delle azioni Glitnir. Tuttavia, questa azione ebbe un effetto opposto a quello desiderato: invece di rassicurare i mercati finanziari, la mossa provocò la caduta libera del rating creditizio dell’Islanda. In pochi giorni, il mercato azionario, le obbligazioni bancarie e i prezzi degli immobili precipitarono. Le tre banche crollarono, lasciando 25 miliardi di dollari di debiti. La crisi finanziaria causò perdite, in Islanda e all’estero, equivalenti a sette volte il PIL del paese. In proporzione alla dimensione dell’economia, fu la più grande distruzione di valore finanziario della storia. Il reddito personale degli islandesi ne uscì sostanzialmente decurtato e i loro attivi furono drasticamente svalutati. Il PIL dell’Islanda cadde del 6,8 per cento nel 2009, e di un ulteriore 3,4 per cento nel 2010. Quando il castello di carte finanziario crollò, la crisi economica del paese divenne il catalizzatore della Rivoluzione delle pentole. Ogni rivoluzione ha la sua data di nascita e il suo eroe ribelle. L’11 ottobre 2008, il cantante Hordur Torfason sedette di fronte all’edificio dell’Althing (il Parlamento islandese) a Reykjavik con la sua chitarra e cantò la sua rabbia contro i «banksters» e i loro manutengoli della politica. Poche persone si unirono a lui. Poi qualcuno registrò la scena e la caricò su Internet. Nel giro di pochi giorni, centinaia e poi migliaia di persone mettevano in scena la loro protesta nella storica piazza Austurvollur. Un gruppo noto come i Raddir fólksins giurò di rinnovare la protesta ogni sabato per ottenere le dimissioni del governo. La protesta si intensificò in gennaio, sia su Internet sia in piazza, sfidando l’inverno islandese. Secondo gli osservatori, in questo processo di mobilitazione sociale, il ruolo di Internet e dei social network fu assolutamente decisivo, in parte perché il 94 per cento degli islandesi è connesso a Internet e due terzi di loro sono utenti di Facebook. Il 20 gennaio 2009, il giorno in cui il Parlamento si riunì per la prima volta dopo una pausa festiva durata un mese, migliaia di persone di tutte le età e condizioni sociali si riunirono di fronte all’edificio per denunciare i guasti prodotti dal governo nell’economia e la sua incapacità ad affrontare la crisi. I manifestanti percuotevano tamburi, pentole e casseruole, meritandosi così il nome di «rivoluzione delle pentole». I manifestanti invitavano il governo a dimettersi e a indire nuove elezioni. Inoltre, premevano per una rifondazione della repubblica, che era stata corrotta, secondo loro, dalla subordinazione di uomini di governo e partiti politici all’élite finanziaria. Di conseguenza, chiedevano la stesura di una nuova Costituzione in sostituzione di quella «provvisoria» del 1944, una carta temporanea risalente al tempo della dichiarazione di indipendenza dalla Danimarca occupata, che era stata conservata perché favoriva gli interessi della classe politica (attribuendo un peso sproporzionato alle province rurali di impronta conservatrice). I socialdemocratici e i verdi risposero positivamente a questa richiesta, mentre la coalizione conservatrice guidata dal Partito dell’indipendenza la respinse. Quando la pressione dei social network e della piazza si intensificò, il 23 gennaio 2009 furono annunciate le elezioni politiche anticipate e il primo ministro conservatore Geir Haarde dichiarò che, per ragioni di salute, non avrebbe corso per la rielezione. Il verdetto elettorale fu una sonora sconfitta dei due principali partiti (entrambi conservatori) che, soli o in coalizione, avevano governato l’Islanda dal 1927. Il 1° febbraio 2009 giunse al potere una nuova coalizione, formata dai socialdemocratici e dai «rosso-verdi». La guidava la leader socialdemocratica Johanna Sigurdardottir, il primo capo del governo apertamente gay. Metà dei membri del gabinetto erano donne. Il nuovo governo si mosse su tre fronti: 1) mettere ordine nell’imbroglio finanziario e accertare le responsabilità della gestione fraudolenta dell’economia; 2) tornare alla crescita economica, adottando un nuovo modello di sviluppo comprendente una rigorosa regolamentazione del sistema finanziario e un rafforzamento delle istituzioni di vigilanza; 3) rispondere a un’esigenza diffusa nel popolo islandese impegnandosi in un processo di riforma costituzionale con la piena partecipazione dei cittadini. Le tre maggiori banche furono nazionalizzate e due di esse restituite al settore privato attraverso la loro cessione a un pool di creditori esteri delle banche, con la partecipazione dello stato. Gli islandesi furono compensati dallo stato per la perdita dei loro risparmi. Ma, per iniziativa del Presidente della Repubblica, Olafur Grimson, fu indetto un referendum per decidere sui rimborsi dovuti dalle banche estinte ai depositanti britannici e olandesi e ai loro governi che erano intervenuti inizialmente a garanzia dei depositi di questi ultimi. Il 93 per cento degli islandesi votarono contro il pagamento di 5,9 miliardi di dollari di debiti nei confronti del Regno Unito e dell’Olanda. Ovviamente, ne seguì una serie di azioni legali sulle quali i tribunali non si sono ancora pronunciati e che pongono l’Islanda davanti alla prospettiva di una lunga battaglia legale sul pagamento del debito estero. Le banche cercarono di evitare controversie legali offrendosi di pagare mediante la vendita dei propri attivi, ma il negoziato al momento in cui scriviamo non è ancora concluso. Il nuovo governo intentò azioni legali contro i responsabili della crisi. Parlando alla Convenzione del partito socialdemocratico il 30 maggio 2011, il primo ministro Johanna Sigurdardottir dichiarò, nel modo più esplicito possibile, che: Non bisogna permettere che la combriccola strapagata, i «banksters», e l’élite dei grandi proprietari divorino la crescita economica in arrivo… Il loro festino senza regole è stato accompagnato dalla fanfara neoconservatrice del Partito dell’Indipendenza. La qualità della vita che gli islandesi avranno in futuro, d’altra parte, sarà costruita sull’uguaglianza.

Successivamente, alcune figure di spicco del mondo bancario furono arrestate a Reykjavik e a Londra con l’accusa di avere condotto pratiche finanziarie illegali. E l’ex primo ministro Haarde fu processato con l’accusa di negligenza nella gestione di fondi pubblici e di arrendevolezza nei confronti dell’influenza di gruppi di pressione. Com’era da immaginarsi, gli esperti economici ammonirono contro le catastrofiche conseguenze che sarebbero derivate dalla nazionalizzazione delle banche, dal controllo dei flussi di capitale e dal rifiuto di pagare il debito estero. Tuttavia, dopo l’inversione di marcia delle politiche economiche e l’affermazione del controllo da parte dello stato, l’economia islandese ha registrato un rimbarzo positivo nel 2011 e nel 2012, superando la maggior parte delle economie dell’Unione Europea. Dopo avere sperimentato una crescita negativa nel 2009 e nel 2020, il PIL è aumentato del 2,6 per cento nel 2011 mentre per il 2012 la crescita è stimata nella misura del 4 per cento. La disoccupazione è scesa dal 10 per cento nel 2009 al 5,9 per cento nel 2012, l’inflazione si è ridotta dal 18 per cento al 4 per cento e la reputazione finanziaria dell’Islanda è migliorata in termini di valore dei CDS da 1.000 a 200 punti. Sebbene l’economia dell’isola sia ancora soggetta alla possibilità di crisi future, come per altro l’intera economia europea, il suo outlook (la prospettiva di rating) è stato migliorato da Standard & Poor’s verso la fine del 2011 da negativo a stabile. Le emissioni di titoli di stato nel 2011 sono state sottoscritte in eccesso rispetto alle disponibilità dagli investitori internazionali. In effetti, secondo Bloomberg (2011), costa meno assicurare il debito islandese che il debito sovrano dell’eurozona. Che cosa ha fatto il nuovo governo democratico per riscattare il paese da un enorme disastro economico in un tempo così breve? In primo luogo, non ha imposto quel tipo di drastiche misure di austerità che è stato applicato in altri paesi europei. L’Islanda ha firmato un patto di «stabilità sociale» per proteggere i cittadini dagli effetti della crisi. Così il pubblico impiego non è stato significativamente ridotto e la spesa pubblica ha mantenuto la domanda interna a un livello ragionevole. Il governo aveva sufficienti entrate per continuare a spendere e per riacquistare attività finanziarie interne, dato che non doveva pagare il debito estero delle banche secondo il mandato del referendum. Inoltre, nel risarcire i clienti delle banche per le loro perdite, la priorità veniva data ai detentori di depositi piuttosto che ai detentori di obbligazioni. Ciò ha contribuito a mantenere liquidità nell’economia, facilitando la ripresa. In secondo luogo, la svalutazione della Króna, che cadde del 40 per cento, ebbe un impatto molto positivo sulle vendite di pesce, sulle esportazioni di alluminio e sul turismo. Inoltre, poiché le importazioni diventavano più care, le industrie locali hanno recepito una parte della domanda del consumatore, facilitando la creazione di un numero senza precedenti di imprese start-up, le quali hanno più che compensato la sparizione di imprese nei settori dei servizi finanziari, delle costruzioni e immobiliare. In terzo luogo, il governo ha istituito un controllo sui flussi di capitali e la valuta estera, impedendo la fuga di capitali dal paese. Tuttavia, la rivoluzione islandese, benché provocata dalla crisi economica, non ha riguardato soltanto la ripresa dell’economia. Essa è stata principalmente una trasformazione radicale del sistema politico che era stato criticato per la sua incapacità a gestire la crisi e per la sua subalternità nei confronti delle banche. Questo nonostante, o forse proprio in ragione del fatto che l’Islanda è una delle più vecchie democrazie del mondo. L’Althing (l’assemblea parlamentare, esistente ancor oggi benché in forma diversa) fu istituita prima dell’anno 1000. E tuttavia, dopo avere sperimentato il nepotismo e l’autoreferenzialità della classe politica, l’Islanda è sprofondata nella stessa crisi di legittimità in cui versa la maggior parte dei paesi del mondo. Solo l’11 per cento dei cittadini ha dichiarato di avere fiducia nel Parlamento, e ovviamente solo il 6 per cento ha dichiarato di avere fiducia nelle banche. Cercando di recuperare la fiducia popolare, il governo ha indetto elezioni che si sono tenute a furor di popolo, mantenendo la promessa di impegnarsi in una riforma costituzionale con la partecipazione popolare più ampia possibile. È stato posto in essere e attuato concretamente un originale processo costituzionale. Il Parlamento ha designato una commissione costituzionale che ha convocato un’assemblea nazionale di mille cittadini scelti in modo casuale. Dopo due giorni di deliberazione, l’assemblea ha concluso che sarebbe stata redatta una nuova Costituzione e ha suggerito alcuni principi che dovrebbero essere a fondamento del testo costituzionale. Passando all’azione, nonostante le critiche dei partiti conservatori all’opposizione, il Parlamento ha poi organizzato un’elezione popolare per designare un’assemblea costituente di 25 membri. Tutti i cittadini avevano i requisiti per candidarsi, e in 522 si sono contesi i 25 seggi. L’elezione è stata tenuta nel novembre 2010 con la partecipazione del 37 per cento dell’elettorato. Tuttavia, la Corte Suprema ha annullato l’elezione per ragioni tecnico-legali. Per aggirare l’ostacolo, il Parlamento ha esercitato il suo diritto di designare come membri dell’assemblea costituente incaricata di redigere la nuova Costituzione i 25 cittadini eletti in questo processo. L’assemblea costituente ha cercato di ottenere la partecipazione di tutti i cittadini via Internet. Facebook è stata la più importante piattaforma di dibattito. Twitter è stato il canale per informare sui lavori in corso e per rispondere alle domande dei cittadini. YouTube e Flickr sono stati usati per stabilire una comunicazione diretta tra cittadini e membri dell’assemblea, come pure per partecipare ai dibattiti che hanno avuto luogo in tutta l’Islanda. L’assemblea costituente ha ricevuto online e offline 16.000 suggerimenti e commenti che sono stati discussi sui social network. Per prendere in considerazione i risultati di questo diffuso processo di riflessione, è giunta a redigere 15 differenti versioni del testo. Di conseguenza, la proposta costituzionale finale è stata letteralmente prodotta attraverso una forma di crowdsourcing (collaborazione di massa). Alcuni osservatori l’hanno battezzata wikicostituzione (www.wired.co.uk./news/archive/2011- 08/01/iceland-constitution). Dopo mesi di discussione on line e tra i suoi membri, l’assemblea ha approvato una bozza di Costituzione all’unanimità (25 a 0). Il 29 luglio 2011, l’assemblea costituente ha consegnato al Parlamento un testo contenente 114 articoli raggruppati in 9 capitoli. Benché il dibattito in Parlamento si fosse concentrato su punti di minore importanza e su modifiche del linguaggio del testo, la maggioranza di sinistra ha ignorato le obiezioni dell’opposizione conservatrice e il testo è stato solo lievemente emendato. Il governo ha deciso che esso avrebbe dovuto essere sottoposto al voto di tutti i cittadini e si è impegnato a rispettare la volontà popolare nella approvazione finale che è prerogativa del Parlamento. Il voto sul progetto di Costituzione è stato programmato per il 20 ottobre 2012. Se fosse approvata, la nuova Costituzione islandese racchiuderebbe principi filosofici, valori sociali e forme politiche di rappresentanza che sono predominanti nelle richieste e nella visione dei movimenti sociali sorti in tutto il mondo nel 2011. Vale la pena di evidenziare alcuni aspetti di questo testo (per una traduzione inglese di una bozza della Costituzione, si può visitare www.politics.ie/forum/political-reform/173176-proposed-new- icelandic-constitution.html [per una accurata traduzione italiana on line si veda: www.domir.it/files/traduzione_Costituzione_islandese.pdf]). Il preambolo della Costituzione proclama il principio fondamentale di uguaglianza:

Noi, popolo di Islanda, vogliamo creare una società giusta con uguali opportunità per tutti.

Il principio della rappresentanza politica «una persona, un voto» è fortemente sottolineato e questa è la chiave, in Islanda come in molti altri paesi, per evitare la confisca della volontà popolare da parte dell’ingegneria politica. Il testo afferma che:

I voti degli elettori di tutto il paese hanno lo stesso peso.

Per spezzare il monopolio dei partiti politici, si stabilisce che gli elettori saranno liberi di votare per partiti o per candidati individuali di liste differenti. È fortemente affermato il principio del libero accesso all’informazione:

L’accesso pubblico a tutti i documenti raccolti o custoditi dagli enti pubblici è garantito dalla legge.

Questo principio effettivamente metterebbe fine al segreto di stato e renderebbe più difficile occultare intrighi politici, poiché tutte le riunioni del governo e del Parlamento sarebbero registrate e le registrazioni sarebbero accessibili per chiunque. Inoltre: Chiunque è libero di raccogliere e diffondere informazioni.

Vi è un limite al numero dei mandati che i politici e in particolare il presidente possono ricoprire. È riconosciuto il diritto dei cittadini all’iniziativa legislativa e a indire referendum su questioni specifiche.

In Islanda le risorse naturali non sono di proprietà privata ma sono proprietà comune e perpetua della nazione… L’utilizzo delle risorse è orientato ad uno sviluppo sostenibile e nell’interesse pubblico.

E il rispetto per la natura è fondamentale:

La natura dell’Islanda è il fondamento della vita del paese… Le risorse naturali sono gestite in modo da ridurre al minimo il loro esaurimento a lungo termine, rispettando i diritti della natura e delle generazioni future.

La possibilità che la Costituzione di un paese rifletta esplicitamente principi che, nel contesto del capitalismo globale, sono rivoluzionari mostra il collegamento diretto tra un processo di crowdsourcing autenticamente popolare e il contenuto risultante da un tale processo di partecipazione. Non si dovrebbe dimenticare che consultazione ed elaborazione hanno avuto luogo in quattro mesi, come richiesto dal Parlamento, smentendo l’idea dell’inefficacia della democrazia partecipativa. È vero che l’Islanda ha solo 320.000 abitanti. Ma i fautori dell’esperienza sostengono che con Internet, con una diffusa conoscenza dei rudimenti dell’uso della rete e un accesso illimitato, il modello di partecipazione politica e di crowdsourcing del processo legislativo è riproducibile su più vasta scala. Se ciò è vero, le basi culturali e tecnologiche per un approfondimento della democrazia rappresentativa sarebbero state poste in un piccolo paese fatto di ghiaccio e di fuoco su un’isola dell’Atlantico settentrionale. Che la rivoluzione islandese sia diventata il punto di riferimento per i movimenti sociali europei che lottano contro le conseguenze di una devastante crisi finanziaria si spiega con la sua diretta connessione con i principali temi che hanno suscitato le proteste. Gli islandesi si sono ribellati, come hanno fatto i popoli di tutti gli altri paesi, contro un tipo di capitalismo finanziario speculativo che ha distrutto i mezzi di sostentamento delle persone. Ma la loro indignazione viene dalla comprensione che le istituzioni democratiche non rappresentavano gli interessi dei cittadini perché la classe politica è diventata una casta capace di autoriprodursi, intenzionata a salvaguardare gli interessi dell’élite finanziaria e a preservare il proprio monopolio sullo stato. Questa è la ragione per cui l’obiettivo primario del movimento è stato il governo in carica, e la classe politica nel suo insieme, anche se al nuovo governo è stata offerta una chance di legittimare la propria azione seguendo la volontà popolare, così com’era espressa nello spazio pubblico fornito da Internet. Il governo ha reagito adottando politiche efficaci che hanno portato a una ripresa economica in netto contrasto con molte economie europee appesantite da politiche di austerità intempestive che hanno aggravato la recessione del continente. Il principale fattore di differenziazione tra l’Islanda e il resto dell’Europa è che il governo islandese ha fatto pagare i costi della crisi ai banchieri, cercando di alleviare il più possibile le difficoltà dei cittadini. Questa è in effetti una delle più importanti richieste avanzate dai movimenti di protesta di tutta l’Europa. I risultati di questo approccio sono stati positivi sia in termini economici sia in termini di stabilità sociale e politica. Inoltre, i cittadini islandesi hanno pienamente compreso il progetto di trasformazione del sistema politico elaborando una nuova Costituzione i cui principi, se attuati, assicurerebbero la pratica della vera democrazia e la salvaguardia di valori umani fondamentali. In questo senso particolare, si è trattato di un vero esperimento rivoluzionario il cui esempio, con tutti i suoi limiti, ha ispirato una nuova generazione di idealisti pragmatici all’avanguardia dei movimenti sociali contro la crisi. In realtà, in alcune riflessioni postate su Internet sull’esperienza costituzionale islandese, si fa riferimento alla Costituzione corsa del 1755 che è considerata una delle fonti di ispirazione per la Costituzione degli Stati Uniti (www.nakedcapitalism.com/2011/10). La prima bozza della Costituzione della Corsica fu scritta da Jean- Jacques Rousseau, su richiesta dei fondatori della breve repubblica. Cercando di stabilire i principi sui quali la Costituzione avrebbe dovuto essere basata, il filosofo scriveva: Il potere che deriva dalla popolazione è più reale di quello che deriva dalla finanza, ed è più certo nei suoi effetti. Poiché l’uso del lavoro umano non si può essere nascosto, esso raggiunge sempre la sua destinazione pubblica; non è così per l’uso del denaro, che scorre e si perde in destinazioni particolari; lo si accumula per un fine, lo si spende per un altro; il popolo paga per avere protezione, e ciò che esso dà è usato per opprimerlo. Ecco perché uno stato ricco di denaro è sempre debole e uno stato ricco di uomini è sempre forte (Rousseau, J.-J., «Constitutional Project for Corsica», drafted 1765, Edinburgh, Thomas Nelson and Sons, retrieved from Liberty Library, www.constitution.org/jjr/corsica.htm; per una traduzione italiana cfr. Progetto di costituzione per la Corsica, in Scritti politici, Bari, Laterza, 1971).

L’eco di questa contrapposizione tra la miseria della finanza e la ricchezza del popolo attraversa la storia per giungere nelle molte piazze in cui i cittadini immaginano nuovi progetti costituzionali. In questo senso la costruzione della nuova Costituzione islandese potrebbe ben svolgere per la democrazia del XXI secolo il ruolo ispiratore che la Corsica ha avuto per la proclamazione della libertà negli Stati Uniti.

Vento del Nord, vento del Sud: leve interculturali del cambiamento sociale

I precursori dei movimenti sociali che usano la rete presentano, se esaminati da vicino, impressionanti somiglianze, nonostante la netta diversità dei contesti culturali e istituzionali. Entrambe le rivolte erano dirette contro le conseguenze di una drammatica crisi economica, benché in Tunisia questa fosse dovuta non tanto a un collasso finanziario quanto al saccheggio dell’economia del paese da parte di una cricca radicata nello stato predatorio. Inoltre, le persone si sono sentite senza potere a causa dell’ovvio intreccio degli oligarchi economici e della classe politica, sia essa democraticamente eletta o imposta in modo dittatoriale. Chiaramente non sto paragonando la democrazia islandese, pienamente rispettosa delle libertà e dei diritti civili, e la dittatura torturatrice di Ben Ali e dei suoi sgherri. Ma dal punto di vista dei cittadini di entrambe le comunità, i governi in carica, e i politici in generale, non rappresentavano la loro volontà perché hanno fatto causa comune con gli interessi dell’élite finanziaria e hanno posto i propri interessi al di sopra di quelli del popolo. Il deficit democratico, benché di proporzioni grandemente differenti, era presente in entrambi i paesi ed è stato una forte fonte del malcontento alla radice della protesta. La crisi di legittimazione politica si è combinata con la crisi del capitalismo speculativo. In questi due paesi c’è anche un interessante tratto comune. Sono entrambi fortemente omogenei dal punto di vista etnico e religioso. In effetti, l’Islanda, a causa del suo isolamento storico, è usata dai genetisti come un laboratorio alla ricerca di un’eredità genetica omogenea. Quanto alla Tunisia, è il paese etnicamente più omogeneo del mondo arabo, e i musulmani sunniti rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. Quindi, sarà significativo valutare l’impatto dell’eterogeneità culturale ed etnica in altri paesi sulle caratteristiche dei movimenti sociali, confrontandoli con la base di riferimento rappresentata da questi due paesi. Le somiglianze si estendono alle pratiche dei movimenti stessi. Entrambi sono stati innescati da un evento drammatico (crack finanziario in Islanda, autoimmolazione di Mohamed Bouazizi in Tunisia). In entrambi i casi, i telefoni mobili e i social network su Internet hanno svolto un ruolo importante nella diffusione di immagini e messaggi che hanno mobilitato le persone fornendo una piattaforma per il dibattito, incitando all’azione, coordinando e organizzando le proteste e diffondendo l’informazione e il dibattito nella popolazione in generale. Anche la televisione ha avuto un ruolo, ma ha sempre usato Internet e i telefoni cellulari per alimentare con immagini e informazioni i suoi notiziari. In entrambi i casi, il movimento è andato dal cyberspazio allo spazio urbano, con l’occupazione di simboliche piazze pubbliche come supporto materiale sia dei dibattiti sia delle proteste, per scandire slogan come a Tunisi o per sbattere pentole e barattoli come a Reykjavik. Uno spazio pubblico ibrido, fatto di social network digitali e di comunità urbane di nuova creazione, è diventato il cuore del movimento, sia come strumento di autoriflessione sia come affermazione del potere del popolo. L’assenza di ogni potere è stata trasformata in empowerment. Da questo empowerment proviene la più forte somiglianza tra i movimenti in Tunisia e Islanda: il loro significativo successo nell’ottenere cambiamenti istituzionali. In Tunisia è stata istituita la democrazia. In Islanda si è giunti a un nuovo ordinamento costituzionale che allarga i confini della democrazia rappresentativa ed è stato inaugurato un nuovo pacchetto di politiche economiche. Il processo di mobilitazione che ha condotto a un cambiamento politico ha trasformato la coscienza civica dei popoli e ha reso difficile ogni futuro tentativo di tornare alla manipolazione politica come regola di vita. Questa è la ragione per cui i due movimenti sono diventati modelli di ruolo per i movimenti sociali che, ispirati da loro, sono emersi successivamente nel panorama di un mondo in crisi alla ricerca di nuove forme di umana convivenza. Lo scopo del libro è indagare la misura in cui i fattori chiave identificati in questi due movimenti sono anche presenti come fattori critici in movimenti sorti in altri contesti sociali. Se lo fossero, potremmo trovarci a osservare la nascita di nuove forme di trasformazione sociale. E se essi fossero modificati nella loro pratica a causa di differenze nel contesto, potremmo formulare alcune ipotesi sull’interazione tra cultura, istituzioni e movimenti, la questione fondamentale per una teoria del cambiamento sociale. E per la sua pratica.

Note

1. La migliore analisi a me nota della rivoluzione tunisina è quella di Choukri Hmed (2011). Alcuni elementi importanti della mia stessa analisi vengono da lì. Per una ricostruzione dettagliata si può vedere Viviane Bettaieb (2011). Sul ruolo dei social network di Internet, della televisione e dei telefoni mobili nelle proteste tunisine, vedi Wagner (2011) e Lotan et al. (2011). 2. Un’analisi penetrante e ben documentata della rivoluzione islandese si può trovare in Gylfason et al. (2010) e in Gunnarson (2009). Sull’importanza del ruolo dei social network su Internet nella dinamica dei movimenti sociali, vedi Bennett (2011) e Garcia Lamarca (2011). Sulla crisi finanziaria e le politiche economiche in Islanda, si vedano i riferimenti bibliografici.

Fonti e riferimenti bibliografici

Sulla rivoluzione tunisina

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Sulla rivoluzione islandese

Risorse nel Web

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Sulla crisi finanziaria islandese

Articoli di riviste

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Relazioni ufficiali

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Sitografia Barley R. (2011), «Investors reward Iceland’s steady progress», The Wall Street Journal, [online] 10 giugno. Disponibile all’indirizzo Internet: http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304259304576375340039763606.html [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Central Intelligence Agency (2011), The World Fact Book: Iceland, [online]. Disponibile all’indirizzo Internet: www.cia.gov/library/publications/theworld-factbook/geos/ic.html [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. IceNews (2011), «Spain adopts Iceland’s Kitchenware Revolution idea», IceNews, [online] 21 maggio. Disponibile all’indirizzo Internet: www.icenews.is/index.php/2011/05/21/spain-adopts- icelands-kitchenware-revolution-idea [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Jiménez D. (2011), «Islandia se mueve ante la crisis», Noticias Positivas, [online] 21 March. Disponibile all’indirizzo Internet: www.noticiaspositivas.net/2011/03/21/islandia-se-mueve- antela-crisis [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Lamant L. (2011), «A gentle cure for the crisis», Presseurop.eu, [online] 8 aprile. Disponibile all’indirizzo Internet: www.presseurop.eu/en/content/article/590821-gentle-cure-crisis [Accesso effettuato il 9 gennaio]. Neate R. (2011), «Iceland’s former premier denies criminal negligence over banking crisis», The Guardian, [online] 7 giugno. Disponibile all’indirizzo Internet: www.guardian.co.uk/business/2011/jun/07/iceland-former-premier-trial-bankingcrisis [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Roos J. (2011), «Democracy 2.0: Iceland crowdsources new constitution», Roarmag.org, [online]. Disponibile all’indirizzo Internet: http://roarmag.org/2011/06/iceland-crowdsources- constitutioninvestors-spain-greece [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Sibert A. (2010), «Love letters from Iceland: Accountability of the Eurosystem», [online]. Disponibile all’indirizzo Internet: http://voxeu.org/index.php?q=node/5059 [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Valdimarsson O.R. (2011), «Icelanders reject foreign depositor claims, forcing year-long court battle», Bloomberg, [online], 11 aprile. Disponibile all’indirizzo Internet: www.bloomberg.com/news/2011-04-07/icelanders-may-rejecticesave-accord-inapril-9- referendum.html [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. Wienberg C., Valdimarsson O.R. (2011), «Iceland president defends pre-crisis tours promoting bank model», Bloomberg, [online], 14 aprile. Disponibile all’indirizzo Internet: www.bloomberg.com/news/2011-04-14/iceland-pre- sident-defends-pre-crisis-tours-promoting- bank-model.html [Accesso effettuato il 9 gennaio 2012]. LA RIVOLUZIONE EGIZIANA

La rivoluzione del 25 gennaio (Thawrat 25 Yanayir), che in diciotto giorni ha detronizzato l’ultimo Faraone, è sorta da un abisso di oppressione, ingiustizia, povertà, disoccupazione, sessismo, di parodia della democrazia e di brutalità poliziesca1. Era stata preceduta da proteste politiche (dopo le elezioni manipolate del 2005 e del 2010), lotte per i diritti delle donne (duramente represse come nel Mercoledì Nero del 2005) e lotte operaie come lo sciopero nelle fabbriche tessili di Mahal- la-al-Kubra il 6 aprile 2008, seguito da disordini e dall’occupazione della città in risposta alla sanguinosa repressione contro gli operai in sciopero. Da quella lotta era nato il movimento giovanile del 6 aprile2, che aveva creato un gruppo su Facebook seguito da 70.000 followers. Waleed Rashed, Asmaa Mahfouz, Ahmed Maher, Mohammed Adel3 e molti altri attivisti di questo movimento hanno avuto un ruolo significativo nelle manifestazioni che hanno condotto all’occupazione di Piazza Tahrir il 25 gennaio. Hanno agito insieme con molti altri gruppi che si erano formati clandestinamente pur cercando di comunicare su Internet. La più notevole di queste iniziative fu la rete creata su Facebook intorno al gruppo «Siamo tutti Khaled Said», così chiamato in memoria del giovane attivista picchiato a morte dalla polizia nel giugno 2010 in un cybercafé di Alessandria dopo aver distribuito un video che denunciava la corruzione delle forze dell’ordine4. Il gruppo, creato da Wael Ghonim, un giovane dirigente di Google, e Abdul Rahman Mansour, raccolse le adesioni di decine di migliaia di persone in Egitto e in tutto il mondo (Ghonim 2012). Questo ed altri gruppi fecero appello ai loro sostenitori su Facebook perché manifestassero davanti al ministero dell’Interno per protestare contro la brutalità della polizia, che aveva terrorizzato gli egiziani per tre decenni. La scelta era caduta sul 25 gennaio perché era la festa nazionale della polizia. Tuttavia, la vera scintilla che fece esplodere la rivoluzione egiziana, dando alla protesta una dimensione senza precedenti, venne dalla rivoluzione tunisina, che all’indignazione contro un’insopportabile brutalità aggiunse la speranza del cambiamento. La rivoluzione egiziana fu innescata, nella scia dell’esempio tunisino, da una serie di autoimmolazioni (sei in totale) per protestare contro gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari, che avevano ridotto molte persone alla fame. E fu comunicata ai giovani egiziani da una fondatrice del Movimento dei giovani del 6 aprile, Asmaa Mahfouz, 26 anni, studentessa di economia aziendale all’Università del Cairo. Il 18 gennaio Asmaa postò sulla sua pagina di Facebook un video in cui compariva con il velo sul capo, si presentava con il suo nome e dichiarava:

Quattro egiziani si sono dati fuoco… Gente, dovreste vergognarvi! Io, una ragazza, ho postato che andrò in Piazza Tahrir, starò lì da sola a tenere lo striscione… Sto facendo questo video per rivolgere a voi un semplice messaggio: andiamo il piazza Tahrir il 25 gennaio… Se restate a casa, meritate tutto quello che vi stanno facendo e sarete colpevoli davanti alla vostra nazione e al vostro popolo. Scendete in strada, mandate SMS, postateli sulla rete, fate in modo che la gente sappia.

Qualcuno caricò il video su YouTube, e ciò diede il via alla sua diffusione virale da parte di migliaia di internauti. Il video divenne celebre in tutto il Medio Oriente come «il vlog che ha contribuito ad accendere la Rivoluzione» (Wall, El Zahed 2011). Dalle reti di Internet, l’appello all’azione si diffuse attraverso i social network di amici, delle famiglie e di associazioni di ogni tipo. Le reti connettevano non solo gli individui, ma anche le reti cui apparteneva ogni individuo. Particolarmente importanti furono le reti delle tifoserie delle squadre di calcio, soprattutto al-Ahly e la sua rivale Zamolek Sporting, che avevano una lunga storia di scontri con la polizia5. Così, il 25 gennaio decine di migliaia di persone si diressero verso la simbolica piazza centrale del Cairo, chiamata Tahrir (Liberazione) e, resistendo agli attacchi della polizia, occuparono la piazza e la trasformarono nello spazio pubblico visibile della rivoluzione. Nei giorni seguenti, centinaia di migliaia di persone di ogni condizione, compresi poveri urbani, minoranze religiose (i cristiani copti erano molto presenti nel movimento, fianco a fianco con islamisti e laici) e una forte componente di donne, comprese alcune madri con bambini, usarono lo spazio sicuro della piazza liberata per inscenare le loro manifestazioni, invocando le dimissioni di Mubarak e la fine del regime. Si stima che, in momenti differenti, in Piazza Tahrir abbiano manifestato oltre due milioni di persone6. Venerdì 28 gennaio, giorno che poi divenne noto come il Venerdì della Collera, un violento intervento delle forze antisommossa per reprimere le manifestazioni fu affrontato con determinazione dai dimostranti che assunsero il controllo di alcune aree della città e occuparono sedi governative e stazioni di polizia, al prezzo di centinaia di vite umane e di migliaia di feriti. Eventi analoghi ebbero luogo in tutto l’Egitto, quando molte altre città, in particolare Alessandria, si unirono alla protesta. Il venerdì, questo e molti altri, ha un significato speciale nella rivoluzione egiziana, come pure in altre sollevazioni nel resto del mondo arabo, perché è il giorno della preghiera collettiva (nota anche come Jummah), è un giorno di festa e le persone si incontrano e stazionano all’interno o all’esterno delle moschee. Ciò non significa necessariamente che le manifestazioni fossero opera di movimenti religiosi ispirati ai sermoni del venerdì. In Egitto, in particolare, non è stato così, ma si è trattato comunque di una situazione spazio-temporale appropriata per incontrare altre persone, percepire la forza e il coraggio di stare insieme, e così i venerdì sono diventati il momento della settimana per rinvigorire la rivoluzione. Per tutto un anno di lotta incessante contro i successori di Mubarak, i nuovi capi del Consiglio supremo delle Forze armate (SCAF), i venerdì con i loro appellativi simbolici divennero i momenti luminosi della protesta di massa, solitamente seguiti dalla violenta repressione della polizia militare: Venerdì della Collera (28 gennaio), Venerdì della Pulizia (8 aprile), Secondo Venerdì della Collera (27 marzo), Venerdì della Retribuzione (1° luglio), Venerdì della Determinazione (7 luglio), la marcia di centinaia di migliaia di persone contro lo SCAF (15 luglio) ecc. Così, le reti di Internet, le reti mobili, le reti di rapporti sociali preesistenti, i cortei di strada, le occupazioni delle piazze pubbliche e le riunioni del venerdì intorno alle moschee, tutto ha contribuito alla formazione di reti spontanee, in larga misura senza leader, multimodali che hanno avuto il ruolo di protagoniste della rivoluzione egiziana. Come osservano Allagui e Kuebler: «se abbiamo appreso la leadership politica e la formazione di coalizioni dalla Rivoluzione Russa e l’iniziativa popolare dalla Rivoluzione Francese, le Rivoluzioni Arabe della Tunisia e dell’Egitto hanno dimostrato la potenza dei network» (2011, p. 1435).

Spazio di flussi e spazio di luoghi nella rivoluzione egiziana

Non vi è dubbio che gli spazi originari di resistenza si siano formati su Internet, mentre le forme di protesta tradizionali venivano trattate con la massima ferocia da una polizia che aveva sempre torturato impunemente (talvolta in subappalto per la CIA in operazioni antiterroristiche). È anche chiaro che gli appelli a manifestare il 25 gennaio e poi alle date successive erano inviati via Facebook, per essere ricevuti da un seguito di utenti attivi costituito da giovani che vedevano nei social network e nei telefoni cellulari aspetti centrali del loro stile di vita. Alla fine del 2010, secondo una stima della società di ricerche Ovum, l’80 per cento degli egiziani possedeva un telefono cellulare. Circa un quarto delle famiglie aveva accesso a Internet, secondo i dati di International Telecommunications Union relativi al 2009, ma la percentuale era molto più alta nel gruppo demografico tra 20 e 35 anni di età del Cairo, di Alessandria e degli altri centri maggiori, che in maggioranza, da casa, da scuola o dai cybercafé, erano in grado di entrare in Internet. Nel febbraio 2011, a meno di due anni dal lancio della versione araba di Facebook, avvenuto nel 2009, il numero degli utenti aveva raggiunto i 5 milioni, di cui 600.000 si erano aggregati proprio in gennaio e febbraio, i mesi che precedono l’inizio della rivoluzione. Un messaggio inviato su Internet raggiungeva un vasto gruppo di giovani egiziani attivi e tecnologicamente esperti, dopodiché le reti dei telefoni mobili potevano estendere il messaggio a più ampi segmenti della popolazione. Così, i social network mediatici hanno avuto un ruolo importante nella rivoluzione egiziana. I dimostranti hanno registrato eventi con i loro cellulari e condiviso i loro video con altre persone nel paese e in tutto il mondo tramite YouTube e Facebook, spesso con live streaming. Prendevano decisioni su Facebook, si coordinavano attraverso Twitter e usavano largamente i blog per comunicare le loro idee e partecipare ai dibattiti. Un’analisi dei trend di Google in Egitto durante i giorni della rivoluzione mostra la crescente intensità delle ricerche collegate a eventi, giunta al suo culmine il giorno della prima manifestazione, il 25 gennaio, e nei giorni seguenti. Aouragh e Alexander sottolineano la rilevanza degli spazi di Internet come sfere di dissidenza, accanto ad altre sfere di dissidenza come quelle che si sono formate nei «nuovi quartieri» dei poveri urbani. Noha Atef, un attivista intervistato durante la rivoluzione, sottolinea il ruolo specifico della mobilitazione che ha la sua base online:

Avere uno spazio, uno spazio online, per scrivere e parlare alla gente, per dare loro messaggi che accresceranno la loro rabbia, questo è l’attivismo online che preferisco… Quando chiedi alle persone di andare a manifestare contro la polizia, esse sono già pronte perché tu avevi già fornito loro i materiali che hanno scatenato la loro rabbia (Aouragh, Alexander 2011, p. 1348).

L’analisi di un grande insieme di dati relativi a tweet pubblici in Piazza Tahrir durante il periodo dal 24 al 29 gennaio mostra l’intensità del traffico di Twitter e fornisce la prova che furono gli individui, compresi gli attivisti e i giornalisti, e non le organizzazioni presenti sulla scena, i più influenti generatori di tweet. In altre parole, Twitter ha fornito la piattaforma tecnologica perché una molteplicità di individui assurgesse alla posizione di trendsetter nel movimento. Sulla base delle loro osservazioni, Lotan et al. concludono che «le rivoluzioni sono state veramente twittate» (2011, p. 1401). Gli attivisti, si è detto, pianificavano le azioni di protesta su Facebook, le coordinavano tramite Twitter, le diffondevano per mezzo di SMS e le trasmettevano attraverso il Web in tutto il mondo caricandole su YouTube. I video che mostravano le forze di sicurezza accanirsi brutalmente contro i dimostranti sono stati condivisi via Internet, smascherando la violenza del regime in una forma inedita. La natura virale di questi video insieme con la frequenza e la velocità con cui le notizie degli eventi egiziani diventavano disponibili al più vasto pubblico del paese e nel mondo sono state la chiave del processo di mobilitazione contro Mubarak. Anche il ruolo dei social network offline preesistenti è stato importante, poiché essi hanno contribuito a facilitare le discussioni degli opuscoli di propaganda negli slums esclusi dalle reti digitali e le forme tradizionali di riunioni nelle moschee dopo le preghiere del venerdì. È stata questa multimodalità di comunicazione autonoma che ha spezzato le barriere di isolamento e ha reso possibile vincere la paura con l’atto di unirsi e condividere. Tuttavia, la forma sociale fondamentale del movimento è stata l’occupazione dello spazio pubblico. Tutti gli altri processi di formazione di reti non erano che modi di convergere verso la liberazione di un dato territorio che veniva sottratto all’autorità dello stato e che sperimentava forme di autogestione e solidarietà. Questa è la ragione per cui Piazza Tahrir è stata ripetutamente attaccata per sgomberare gli occupanti ed è stata ogni volta rioccupata, a costo di lotte all’ultimo sangue con le forze di sicurezza, ogni volta che il movimento ha sentito la necessità di intensificare la pressione prima contro la dittatura, e poi contro la giunta militare, che è apparsa determinata a restare al potere tutto il tempo necessario a proteggere i propri interessi economici. Questa solidarietà collettiva creata in Piazza Tahrir è diventata un modello di ruolo per i movimenti Occupy che sarebbero sorti nel mondo nei mesi successivi. Questa solidarietà ha trovato espressione in una pluralità di pratiche sociali, dall’autogestione della logistica della vita di tutti i giorni durante l’occupazione (servizi igienici, fornitura di cibo e acqua, assistenza medica, assistenza legale, comunicazione) a gesti come la protezione della piazza da parte dei cristiani copti durante l’assedio del 21 novembre, mentre i musulmani erano impegnati nelle loro preghiere del venerdì. Inoltre, la creazione di uno spazio pubblico dove il movimento potesse esistere apertamente nella sua variegata realtà, consentì ai media tradizionali di fare una cronaca della protesta, di dare un volto ai suoi protagonisti e di comunicare al mondo com’era fatta la rivoluzione. Come in tutte le rivolte arabe, Al Jazeera ha avuto un ruolo di primo piano nel comunicare in arabo alla popolazione egiziana e ai pubblici arabi in generale che l’impensabile stava realmente accadendo. L’emittente ha contribuito a un poderoso effetto dimostrativo che ha alimentato l’estendersi delle rivolte nei paesi arabi. Mentre i media tradizionali occidentali perdevano interesse per le notizie giornaliere sull’Egitto dopo la destituzione di Mubarak, Al Jazeera ha continuato a connettere il movimento di protesta egiziano all’opinione pubblica egiziana e araba. La qualità dei servizi di informazione di Al Jazeera, condotti con grave rischio dai suoi giornalisti, è stata garantita anche dall’apertura della stazione televisiva al giornalismo partecipativo dei cittadini (citizen journalism). Molti degli spunti e delle informazioni trasmesse da Al Jazeera venivano da attivisti sul terreno e da comuni cittadini che avevano registrato con i loro cellulari il cammino della storia. Con trasmissioni in diretta e mantenendo l’attenzione fissa in permanenza sugli sviluppi nello spazio pubblico, i media tradizionali professionali hanno creato una specie di mantello di protezione del movimento contro la violenza repressiva, poiché i sostenitori internazionali di Mubarak prima, e dello SCAF dopo, hanno cercato di evitare di dover affrontare l’imbarazzo davanti all’opinione pubblica mondiale di azioni repressive ingiustificate da parte dei loro protégés. La connessione tra i media sociali di Internet, le reti sociali tra le persone e i media tradizionali è stata resa possibile dall’esistenza di un territorio occupato che ancorava il nuovo spazio pubblico all’interazione dinamica tra cyberspazio e spazio urbano. Difatti, gli attivisti hanno creato a Piazza Tahrir un «campo mediatico» per riunire video e foto prodotte dai manifestanti. In un caso, hanno raccolto in poche ore 75 gigabytes di immagini prodotte dalla gente nelle strade. La centralità di questo spazio pubblico ibrido non è limitata alla sola Piazza Tahrir, ma si è riproposta in tutti i maggiori centri urbani dove centinaia di migliaia di dimostranti si sono mobilitati in momenti diversi nel corso dell’anno: Alessandria, Mansoura, Suez, Ismailia, Tanta, Beni Suez, Dairut, Shebinel-Kan, Luxor, Minya, Zagagig e persino la penisola del Sinai dove, secondo quanto viene riportato, i beduini si sono scontrati con la polizia per settimane e poi hanno provveduto essi stessi a garantire la sicurezza dei confini nazionali. La rivoluzione di Internet non nega il carattere territoriale delle rivoluzioni come si è manifestato storicamente. Al contrario, lo estende dallo spazio dei luoghi allo spazio dei flussi.

La risposta dello stato a una rivoluzione facilitata da Internet. La grande disconnessione

Nessuna sfida all’autorità dello stato resta senza risposta. Così, nel caso delle rivoluzioni arabe, e in particolare in Egitto, troviamo la repressione vera e propria, la censura sui media e il blocco di Internet. La repressione contro un movimento di massa sostenuto dai network della comunicazione sotto l’attenzione dei media globali è insostenibile a meno che il governo sia fortemente coeso e possa operare con la collaborazione di influenti potenze straniere. Poiché in Egitto queste condizioni non erano soddisfatte, il regime ha tentato sia la repressione violenta sia la messa fuori gioco di Internet. Per fare ciò, ha tentato ciò che nessun regime aveva osato prima, la grande disconnessione, chiudendo l’accesso a Internet in tutto il paese e disattivando anche le reti dei cellulari7. A causa del significato di questo evento per il futuro dei movimenti basati su Internet e poiché esso trova un’eco nei desideri impliciti o espliciti della maggior parte dei governi del mondo, mi soffermerò con qualche dettaglio su ciò che è accaduto, come è accaduto e, cosa ancora più importante, perché si è concluso con un fallimento. Fin dal primo giorno delle proteste, il governo egiziano censurò i media in Egitto e adottò misure per oscurare i siti web dei social media, che avevano contribuito a suscitare la protesta e a diffondere notizie sugli eventi di piazza. Il 27 gennaio bloccò i servizi di messaggistica dei cellulari e dei BlackBerry. Nelle notti del 27 e del 28 gennaio il governo egiziano chiuse quasi completamente l’accesso a Internet. Non c’era nessun interruttore centrale da azionare. Il governo usò una tecnologia molto più vecchia e più efficiente: una telefonata a ognuno dei quattro maggiori service provider di Internet – Link Egypt, Vodafone/Raya, Telecom Egypt e Etisalat Misr – con l’ordine di interrompere le connessioni. Il personale degli Internet Service Provider (ISP) entrò in ognuno dei router dell’ISP, che contenevano le liste di tutti gli indirizzi IP connessi attraverso quel provider, e li cancellò in gran parte o completamente, scollegando chiunque volesse accedere a loro dall’interno o dall’esterno del paese. Gli ISP non dovettero nemmeno spegnere fisicamente i computer; semplicemente bastò cambiare la combinazione. Furono ritirate circa 3.500 singole routes BGP8. Per due giorni, Noor Data Networks, che connetteva la borsa del Cairo, rimase ancora in funzione. Quando andò offline, il 93 per cento del traffico Internet per l’Egitto o dall’Egitto era stato eliminato. La chiusura non fu totale perché qualche piccolo ISP, in particolare nelle istituzioni universitarie, continuava a lavorare. Anche le connessioni Web usate dal governo e dalle Forze armate continuavano a funzionare usando propri ISP. Pochi utenti egiziani erano ancora in grado di accedere a Internet attraverso le vecchie connessioni in dial-up (attraverso modem). Le routes euro-asiatiche in fibra ottica che attraversano il paese erano attive, ma era impossibile accedervi dall’Egitto. Tuttavia, il più importante ostacolo che i governi devono affrontare quando cercano di sopprimere Internet proviene dalla vigilanza della comunità internettiana globale, che comprende hackers, «maghi» dell’elettronica e dell’informatica, imprese specializzate, difensori delle libertà civili, reti di attivisti come Anonymous e persone di tutto il mondo per le quali Internet è diventato un diritto fondamentale e uno stile di vita. Questa comunità si è mossa in soccorso dell’Egitto come fece con la Tunisia nel 2010 e con l’Iran nel 2009. A ciò si aggiunse l’ingegnosità dei dimostranti, che rese possibile la riconnessione all’interno del movimento e tra il movimento, da una parte, e l’Egitto e il mondo dall’altra. In effetti, la rivoluzione non giunse mai all’incomunicabilità perché le sue piattaforme di comunicazione erano multimodali. Al Jazeera fu cruciale nel continuare a fornire la cronaca della rivolta contro il regime. Il movimento fu tenuto informato con le immagini e le notizie ottenute da Al Jazeera, alimentata a sua volta dai resoconti che le giungevano per telefono dal terreno di scontro. Quando il governo chiuse la sua connessione satellitare, altre reti televisive satellitari arabe offrirono ad Al Jazeera l’uso delle loro frequenze. Inoltre, altri tradizionali canali di comunicazione come fax, radio amatoriali e modem analogici contribuirono a compensare l’oscuramento di Internet. I manifestanti distribuirono indicazioni sui modi di sfuggire ai controlli delle comunicazioni. Gli attivisti fornirono istruzioni per l’uso di modem analogici e radio amatoriali. Alcuni ISP in Francia, Svezia, Spagna, Stati Uniti e altri paesi misero a disposizione pool di modem che accettavano chiamate internazionali per convogliare informazione da e verso i manifestanti. Alcune compagnie azzerarono le tariffe per consentire alle persone di connettersi gratuitamente. Il blog Manalaa dava consigli agli egiziani in rivolta sul modo di connettersi in dial-up usando un telefono mobile, Bluetooth e un laptop. Il consiglio fu postato in molti blog e diffuso viralmente. Il modo più importante per eludere il blackout fu l’uso di linee telefoniche di terra. Queste non erano state tagliate perché nessun paese oggi può funzionare senza servizi telefonici di qualche tipo. Usando le linee di terra, gli attivisti in Egitto raggiungevano numeri telefonici all’estero che inoltravano automaticamente i messaggi a reti di computer fornite da volontari, come quelle di TOR (The Onion Router), che rispedivano indietro i messaggi in Egitto usando una varietà di mezzi. Grazie a network come HotSpot Shield, gli internauti egiziani potevano accedere a proxy (indirizzi Internet alternativi al di fuori del controllo governativo). Società come la francese NDF offrirono la connessione gratuita a Internet attraverso la chiamata di un numero telefonico di Parigi. Ingegneri di Google e Twitter inventarono un programma «speak-to-tweet» che convertiva automaticamente in un tweet un messaggio vocale registrato in una segreteria raggiunta con una linea di terra. Il messaggio veniva poi diffuso come un tweet con l’hashtag dello stato da dove proveniva la chiamata. Poiché gli account di Twitter in Egitto erano bloccati, Twitter creò un nuovo account – @twitterglobalpr – riservato al sistema «speak-to-tweet» in Egitto. Un’organizzazione internazionale di hacker, Telecomix, sviluppò un programma che recuperava automaticamente messaggi telefonici dall’Egitto e li inviava a tutti i dispositivi fax del paese. Molti fax erano in dotazione alle università che erano spesso usate come centro di comunicazione. Dai fax delle università i messaggi erano distribuiti ai siti occupati. Telecomix si occupava di ricevere e decodificare i messaggi dei radioamatori, trasmessi su frequenze raccomandate dal gruppo di attivisti. Così una tecnologia antiquata diventava fondamentale per avere la meglio sulla censura del governo. Nell’insieme, questi mezzi disparati contribuirono alla formazione di una fitta rete di comunicazione multimodale che ha mantenuto il movimento connesso con l’Egitto e con il resto del mondo. Fu pubblicato a cura di alcuni attivisti un manuale di istruzioni su come comunicare per mezzo di differenti canali, e ogni informazione inoltrata da uno qualsiasi dei molti canali ancora disponibili veniva diffusa con volantini stampati e distribuiti da persone reclutate nelle piazze occupate e durante le manifestazioni. Il 1° febbraio, l’accesso a Internet in Egitto fu ripristinato. Gli ISP egiziani riconfigurarono i loro principali router, lasciando che i provider upstream e altre reti ristabilissero le loro pathways di dati. La velocità con la quale i network furono riconnessi (in circa mezz’ora, Internet in Egitto era attiva e in funzione) indica che i provider egiziani, piuttosto che collegare fisicamente dei cavi, si limitarono a far sapere ai router degli altri network la loro disponibilità a usare il BGP. Dunque, né la disconnessione né la riconnessione furono fisiche. Una volta che il governo ebbe autorizzato gli ISP a operare di nuovo, si trattò semplicemente di riscrivere il codice per i router. Ma perché il governo ripristinò Internet mentre il movimento era ancora in pieno svolgimento? La prima ragione fu contribuire, sotto la pressione degli Stati Uniti, al «ritorno alla normalità», in seguito all’annuncio di Mubarak che non avrebbe corso per la riconferma nelle elezioni di settembre. Un portavoce dei militari fece la sua comparsa in televisione per chiedere ai manifestanti di tornare alle loro case e di contribuire a «riportare la stabilità nel paese». Ci furono anche delle ragioni economiche. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), i cinque giorni di blocco dell’accesso a Internet provocarono una perdita di circa 90 milioni di dollari USA di ricavi in seguito all’arresto delle telecomunicazioni e dei servizi di Internet, pari a circa US$18 milioni al giorno e al 3-4 per cento del PIL annuo egiziano. Ma questa stima non include le perdite di fatturato in altri settori colpiti dal blocco come l’e- commerce, il turismo e i servizi dei call center. In realtà, i ricavi delle imprese di outsourcing nel settore dell’Information Technology in Egitto, ammontavano a 3 milioni di dollari al giorno e questa attività dovette essere interrotta durante la disconnessione di Internet. Il turismo, un settore fondamentale dell’economia egiziana, risentì pesantemente della chiusura. Inoltre, gli investitori diretti esteri non sarebbero stati in grado di operare in un paese che avesse disattivato Internet per un periodo prolungato. Insomma, Internet è la linfa vitale dell’economia globale interconnessa e per questo la sua disconnessione può essere solo eccezionale e per un periodo di tempo limitato. Ma la ragione fondamentale per il ripristino di Internet fu che la sua chiusura era stata inefficace rispetto all’obiettivo di fermare il movimento. Da una parte, come abbiamo visto, il blackout è stato eluso in molti modi con l’aiuto della comunità internettiana globale. Dall’altra, il blackout è arrivato troppo tardi per avere un effetto paralizzante sul movimento di protesta. Reti urbane erano subentrate nel ruolo che le reti di Internet avevano svolto alle origini della protesta. La gente era nelle strade, i media ne parlavano, e il mondo intero era ormai consapevole che una rivoluzione era in corso. In realtà, il potenziale rivoluzionario di Internet può essere piegato solo attraverso un controllo e una sorveglianza permanenti, come tenta di fare la Cina. Una volta che un movimento sociale abbia raggiunto una certa soglia nell’estensione e nell’impatto, chiudere Internet non è possibile e in ogni caso non è efficace. Nell’era di Internet, i tiranni dovranno fare i conti con l’autonoma capacità di comunicazione dei popoli. A meno che Internet non sia costantemente bloccata o vi siano meccanismi ad hoc pronti a intervenire, come in Cina, una volta che il movimento abbia esteso il suo raggio d’azione dallo spazio dei flussi allo spazio dei luoghi, è troppo tardi per fermarlo, poiché a quel punto molte altre reti di comunicazione sono messe in campo in forma multimediale.

Chi erano i manifestanti e perché manifestavano?

Pane, libertà e giustizia sociale sono stati i principali temi della rivoluzione, secondo le parole dei dimostranti che hanno invaso le strade nel gennaio 2011. Essi volevano abbattere Mubarak e il suo regime, reclamavano elezioni democratiche e chiedevano giustizia e redistribuzione della ricchezza. La maggior parte dei manifestanti era costituita da giovani e molti erano gli studenti universitari. Ma questa non è una rappresentazione distorta della popolazione urbana, poiché due terzi degli egiziani hanno meno di trent’anni e il tasso di disoccupazione tra i laureati è dieci volte più alto che tra i meno istruiti. In realtà, la maggior parte della forza lavoro prende parte ad attività informali come mezzo di sopravvivenza, in quanto essere veramente disoccupati è un lusso che pochi possono permettersi. I poveri, che rappresentano almeno il 40 per cento della popolazione, devono partecipare a qualche attività generatrice di reddito, per quanto modesto questo possa essere, perché l’alternativa è morire di fame. Ma, benché il movimento fosse in gran parte costituito da elementi della classe media impoverita, che rivendicavano libertà e rispetto dei diritti umani, ad essi si sono uniti segmenti più poveri della popolazione urbana, spinti alla disperazione dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari. E gli operai dell’industria, con o senza il sostegno dei sindacati, hanno attuato numerosi, potenti scioperi, particolarmente intensi a Suez, dove sono culminati con l’occupazione della città, durata alcuni giorni. Alcune ricostruzioni indicano che il timore che il movimento si estendesse alla forza lavoro industriale sia stato un fattore che ha spinto i generali, preoccupati per i propri interessi economici, a sacrificare il dittatore sull’altare del profitto. Le cosiddette masse filo-Mubarak, rappresentate dalla pittoresca e brutale carica a dorso di cammello contro gli occupanti di Piazza Tahrir il 1° febbraio, erano nella maggior parte dei casi collegate con le balgatiya (bande di teppisti prezzolati dalla polizia) (Elmeshad, Sarant 2011). Il vero sostegno del regime andava trovato tra le centinaia di migliaia di burocrati, agenti dei servizi di sicurezza, poliziotti, informatori, picchiatori su commissione e piccoli delinquenti il cui sostentamento dipendeva dalle reti clientelari che facevano capo al dittatore, ai suoi figli e ai loro compari. Però, tutta questa bella gente doveva condividere il potere con l’esercito egiziano, che deteneva ancora un certo prestigio tra la popolazione, in quanto incarnazione del movimento nazionalista che aveva fondato l’Egitto moderno e guidato il mondo arabo nelle guerre contro Israele. È stata proprio la lotta di potere economico tra l’esercito e gli accoliti di Gamal (gli uomini di affari protetti dal figlio di Mubarak e suo presunto erede) a creare le condizioni per una decisiva rottura all’interno delle classi dirigenti e favorito la caduta di Mubarak, della sua famiglia e della loro cricca. L’esercito è al centro di un vasto impero economico cui sono ancorati la ricchezza e il potenziale di crescita del vecchio capitale nazionale egiziano. L’internazionalizzazione dell’economia, promossa da Gamal Mubarak a partire dal 2000, con il pieno sostegno dei leader politici americani, britannici e francesi, minacciava direttamente il suo controllo sull’economia. Così, quando è venuto il momento decisivo, i militari non erano pronti a sacrificare la loro legittimazione nazionale e i loro affari redditizi per sostenere un vecchio dittatore e un successore potenzialmente pericoloso. Per questo hanno rifiutato di aprire il fuoco sui dimostranti e, a tempo debito, hanno arrestato i Mubarak e i loro complici. Assunti i pieni poteri, il Consiglio supremo delle Forze armate (SCAF) ha cercato di ammorbidire e depotenziare il movimento rivoluzionario, drappeggiandosi nella bandiera della rivoluzione nell’intento di assicurarsi che, cambiando tutto, ogni cosa restasse com’era. Tuttavia, questa rivoluzione non è stata un putsch militare. Essa scaturiva da una genuina rivolta popolare, per cui, quanto più lo SCAF cercava di ridurre le sue riforme a cambiamenti di facciata, tanto più il movimento esercitava la sua pressione sulle nuove autorità, reclamando la punizione e la condanna dei responsabili dei massacri dei dimostranti e di coloro che avevano depredato la ricchezza nazionale, e alzava il tiro delle sue richieste di libertà politica, elezioni democratiche e nuova Costituzione. Per tutto il 2011 si è potuto assistere a un confronto continuo tra lo SCAF e il movimento, mentre i partiti politici vecchi e nuovi si posizionavano per le elezioni. L’elezione per l’Assemblea costituente ebbe finalmente luogo, a partire dal 28 novembre e prolungandosi per diverse settimane. Ma fu accettata dallo SCAF solo dopo una serie di sanguinosi scontri tra movimento ed esercito lungo tutto l’anno, con un bilancio di 12.000 civili processati dai tribunali militari, circa 1000 dimostranti uccisi e decine di migliaia di feriti. Ma anche durante e dopo il voto, la repressione è continuata, molte persone sono state imprigionate, i media indipendenti sono stati attaccati, i dissidenti sono stati processati e condannati dai tribunali militari, le ONG egiziane e di altri paesi sono state perseguitate o messe al bando e decine di dimostranti sono stati uccisi in Piazza Tahrir e altrove. E tuttavia, il movimento non è arretrato di un passo dalla sua determinazione di ottenere la piena democratizzazione del paese. La difesa dell’occupazione di Piazza Tahrir, della libera comunicazione su Internet e dell’indipendenza dei media ha continuato a essere il baluardo per la conquista della libertà in un paese afflitto da drammatici problemi economici e sociali. Il futuro della democrazia non è chiaro, poiché la vittoria degli islamisti moderati della Fratellanza Musulmana (ribattezzata Partito della Libertà e della Giustizia, con il 45 per cento dei voti), insieme con il 25 per cento dei voti ottenuti dalla coalizione di Nour9, di più stretta osservanza islamica, ha suscitato dubbi tra le potenze occidentali sul sostegno da dare a una democrazia che potrebbe sfuggire al loro controllo. Con l’esercito egiziano che riceve annualmente 1,3 miliardi di dollari di reddito disponibile dagli Stati Uniti, la rivoluzione egiziana potrebbe dover affrontare una controrivoluzione militare se il movimento dovesse oltrepassare i limiti geopolitici che gli sono stati prescritti. Tuttavia, le vie della rivoluzione sono sempre sorprendenti e alcune delle lotte più importanti che hanno avuto luogo nell’Egitto del dopo- Mubarak hanno a che fare, più che con strategie geopolitiche e di classe, con la trasformazione culturale della società, a partire dalla conquista di una nuova autonomia delle donne.

Donne in rivoluzione

Le donne hanno avuto un ruolo importante nella rivoluzione egiziana. I video (quattro in tutto) postati da Asmaa Mahfouz su Facebook in gennaio e in febbraio 2011 ebbero una grande influenza nell’innescare il movimento e furono significativi per quanto riguarda contenuto e stile. Asmaa era una giovane donna che si rivolgeva con il proprio nome e la propria faccia al popolo egiziano e, in particolare, agli uomini. Chiedendo agli uomini di seguire lei – una ragazza! – giocava con abile ironia la carta della cultura patriarcale:

Chi sostiene che le donne non dovrebbero andare a protestare perché saranno picchiate trovi un po’ di onore e coraggio e venga con me il 25 gennaio… se hai l’onore e la dignità di uomo, vieni a proteggere me e le altre ragazze che partecipano alla protesta.

In breve, non sei un uomo se non ti comporti come si presume debbano comportarsi gli uomini, cioè se non sei coraggioso, protettivo e disposto ad affrontare le forze di sicurezza per difendere la libertà, la dignità e l’onore. Perché:

… sto andando in Piazza Tahrir e sarò sola ad alzare lo striscione… Ho persino scritto il mio numero così forse qualcuno verrà con me. Non è venuto nessuno eccetto tre ragazzi! Tre persone, tre autoblindo della polizia antisommossa e dieci teppisti delle balgatiya… sto realizando questo video per comunicarti un semplice messaggio: andiamo a Tahrir il 25 gennaio. Le gente alla fine arrivò. E il 26 gennaio Asmaa postò un nuovo vlog:

La gente vuole abbattere il regime!… La cosa più bella [della protesta] è che quelli che l’hanno fatta non erano dei politicanti. Eravamo noi, tutti gli egiziani.

Più tardi Asmaa invocò Dio, per musulmani e cristiani, e citò il capitolo 13, verso 11 (Surat Ar-Ra’d) del Corano: Dio dice che «non cambierà la condizione di un popolo finché esso non cambi nel suo intimo». Con la sua influenza e la sua autorità morale ha precorso ciò che molte donne blogger avrebbero fatto durante la rivoluzione e ciò che molte donne avrebbero patito durante le dimostrazioni e gli attacchi a Piazza Tahrir. La blogger Nawara Nagu il 21 gennaio postò un video di una giovane attivista, dicendo: «Vedi questa ragazza? Sta andando alla manifestazione», e così aveva fatto insieme a migliaia di altre. Molte donne, giovani e vecchie, molte con il velo e altre in abiti di foggia occidentale, furono presenti in Piazza Tahrir e in altri spazi occupati, alcune con i propri figli. In molti casi furono loro a guidare le manifestazioni. Partecipavano ai comitati di sicurezza e dirigevano gli ospedali da campo. L’8 marzo, giornata internazionale della donna, attiviste per i diritti della donna sfilarono in Piazza Tahrir, chiedendo la fine della discriminazione da parte dello stato e la fine delle violenze contro le donne (Elwakil 2011). Alcune di queste manifestanti furono aggredite da un grosso gruppo di uomini. Le donne partecipavano inoltre attivamente ai dibattiti pubblici e numerose erano le donne blogger che riferivano su Internet la loro cronaca degli avvenimenti. Ciò non passò ovviamente inosservato dal regime militare. Leil Zahura Mortada, una blogger che pubblicava le sue cronache da Piazza Tahrir, fu violentata a causa delle sue denunce. Il 14 agosto, Asmaa Mahfouz, arrestata e costretta a comparire davanti a un tribunale militare, fu poi rilasciata solo in seguito alle proteste di massa contro la sua incriminazione. Durante le dimostrazioni e gli assalti contro Piazza Tahrir occupata, le donne erano prese di mira, picchiate e spesso uccise. Sally Zahran fu picchiata a morte nel corso di una delle proteste. Tra gennaio e febbraio, furono assassinate almeno 15 donne. Molte donne arrestate in piazza furono sottoposte a test di verginità, pratica che i membri del governo militare riconobbero apertamente e giustificarono in un’intervista alla CNN, sulla base della presunzione che quelle donne fossero prostitute. Samira Ibrahim, 25 anni, intentò un’azione legale contro i militari e ottenne un’ordinanza del tribunale che equiparava i test di verginità all’abuso sessuale10. Il 19 dicembre 2011, durante un nuovo attacco contro gli occupanti di Piazza Tahrir, una giovane fu picchiata, spogliata e abbandonata in stato di incoscienza con indosso solo un reggiseno azzurro. Le donne che cercavano di aiutarla furono aggredite dalla polizia. Il video di questo atto barbarico di violenza sessista fu diffuso in tutto il mondo e suscitò un’universale indignazione, soprattutto tra le donne, e divenne noto come il video della «ragazza col reggiseno azzurro». Il giorno seguente, decine di migliaia di donne manifestarono in Piazza Tahrir, ad Alessandria e intorno ai campus universitari egiziani contro le violazioni dei diritti delle donne da parte dei militari. Dai balconi, gli impiegati applaudivano e lanciavano grida di incoraggiamento. Fu portato uno striscione che, riferendosi al capo dello SCAF, diceva: «Tantawi è il comandante supremo delle molestie sessuali e della violazione dell’onore». Dopo questa marcia, lo SCAF fu costretto a rilasciare un’ipocrita dichiarazione di «scuse alle donne di Egitto». Il risveglio delle donne egiziane durante la rivoluzione è una delle principali paure di una società profondamente patriarcale e sta scatenando un’ondata di violenza contro le donne che potrebbe aumentare con il passare del tempo. Inoltre, benché le donne abbiano preso parte alla rivoluzione a fianco degli uomini, persino chiedendo la loro protezione, molti dei manifestanti maschi hanno vissuto con disagio l’intromissione delle donne, e non hanno contribuito a difenderle dalla sadica violenza mirata della polizia militare. In realtà, nonostante il loro ruolo di primo piano nella rivoluzione, a tutto il 2011 le donne sono state del tutto escluse dagli incarichi di governo e sono state confinate nelle ultime posizioni nelle candidature dei partiti politici, per cui tra i 498 membri eletti del nuovo parlamento ci sono state solo otto donne11. Il programma della principale forza politica uscita dalle elezioni, il Partito della Libertà e della Giustizia, esclude le donne dall’elezione alla presidenza egiziana12. Non stupisce che un rapporto del Centro egiziano per i diritti delle donne potesse scrivere alla fine del 2011: «Piazza El-Tharir resterà sinonimo di ‘libertà, giustizia e uguaglianza’?! Oppure la rivoluzione divorerà/sacrificherà i suoi figli, a cominciare dalle donne?!» (Komsan 2011, p. 2)13. Si direbbe che nella sollevazione egiziana stia fermentando una rivoluzione nella rivoluzione, poiché una generazione di donne con un elevato grado di istruzione (rappresentano la maggioranza dei laureati) si scontra con i limiti ancestrali della definizione maschile di che cosa dovrebbe essere una rivoluzione.

La questione islamica

Le elezioni parlamentari del 2011 hanno confermato la saldezza delle forze politiche islamiche in Egitto. La vecchia Fratellanza Musulmana è sopravvissuta a decenni di regimi militari nazionalisti e, ribattezzata Partito della Libertà e della Giustizia, ha ottenuto la maggioranza dei seggi in Parlamento. Ha saputo trarre vantaggio da una forte organizzazione, dall’esperienza politica e da una certa aura di resistenza contro il regime presso vasti settore della popolazione. La coalizione più rigidamente islamista di Nour, dominata dai Salafiti, si è assicurata il 25 per cento dei voti. Questa è una chiara indicazione della simpatia diffusa di cui gode l’islamismo presso la popolazione egiziana nel suo complesso. In realtà, praticamente in tutti i paesi arabi vi è una maggioranza politica potenziale islamica, che è stata tenuta in scacco con la forza da leader nazionalisti autoritari, spalleggiati dall’esercito e dalle potenze occidentali. Il nazionalismo arabo, che si richiamava allo stato nazione anticoloniale, anche in contrasto con i riferimenti alla retorica religiosa quando se ne vedeva la necessità, e gli islamisti, che si richiamavano alla ummah (comunità universale dei credenti al di là della nazione) e alla Sharia (legge ispirata da Dio, e non dallo stato), sono stati bloccati in un confronto testa a testa che, nella mente delle persone, si è evoluto verso la sconfitta del nazionalismo quando questo è diventato subalterno alle potenze straniere e quando la corruzione e la brutalità sono diventati i tratti distintivi dei regimi che ad esso si ispiravano. L’islamismo è stato visto spesso da molti in Egitto e altrove come una forza di rigenerazione della politica, di speranza in una giustizia sociale e di restaurazione dei valori morali. Il sostegno incondizionato delle potenze straniere ai regimi militari arabi è stato precisamente basato sul loro timore per l’islamismo, visto come una minaccia per le forniture di petrolio e per la sicurezza di Israele. Così, secondo le attese, il processo di democratizzazione del mondo arabo solitamente si è tradotto nell’egemonia dell’islamismo nel sistema politico, poiché le forze progressiste hanno una capacità di attrazione limitata al di là degli esigui segmenti delle élite occidentalizzate. Tuttavia, gli islamisti, per andare al potere con il consenso dell’esercito e senza l’opposizione dei segmenti laici del movimento rivoluzionario, dovevano moderare il rigore dei loro principi religiosi. Ed è quello che hanno fatto. Il programma del Partito della Libertà e della Giustizia, e le dichiarazioni pubbliche dei suoi leader, accettano il principio democratico e si concentrano sulle soluzioni da dare agli immensi problemi sociali ed economici del paese. Non respingono la nozione di stato laico. Nello stesso tempo, è un obiettivo dichiarato del partito governare, ovunque ottenga il potere, secondo la legge della Sharia, ma secondo i suoi portavoce il significato di questo orientamento è frainteso in Occidente. Esso non significa, secondo il Partito della Libertà e della Giustizia, imporre una teocrazia, e il modello iraniano è esplicitamente respinto (Adib and Waziri 2011)14. Significa soltanto che gli islamisti troveranno nel Corano ispirazione per le loro politiche esattamente come, secondo loro, i democratici cristiani europei si propongono di seguire i principi cristiani nella conduzione degli affari pubblici. Questo aspetto ha serie implicazioni per le donne e i copti, dato che il Partito della Libertà e della Giustizia non accetterà né le une né gli altri come candidati alla presidenza del paese. Tuttavia, finora sembrano accettare donne e copti nel governo, una scelta che si allontana non poco dalla rigida ortodossia musulmana15. Inoltre, in politica estera, i Fratelli Musulmani hanno dichiarato il loro impegno a rispettare i trattati esistenti tra Egitto e Israele, una condizione essenziale dal punto di vista degli Stati Uniti, che mantengono un potere di sorveglianza sul paese, attraverso l’esercito egiziano che hanno a libro paga (Adib and Waziri 2011)16. In conclusione, per i Fratelli Musulmani, islam e democrazia sono pienamente compatibili, come dimostrato dall’esempio della Turchia, salvo concedere che il contesto è differente e loro non si identificano con Erdogan. Benché i Fratelli Musulmani siano stati accusati di opportunismo, in realtà non avevano altra scelta. Né l’esercito né i suoi sponsor occidentali accetterebbero uno stato islamico radicale in Egitto. Dunque, qualsiasi consolidamento del regime democratico implicherà un governo islamico moderato alla barra del timone. Una questione diversa è la significativa ondata di popolarità dei Salafiti, la cui affermazione senza compromessi del primato della Sharia sul potere civile potrebbe evolvere in uno scontro a tutto campo sia con l’esercito sia con l’ala laica del movimento rivoluzionario. Se la situazione economica continuasse a deteriorarsi, la via di uscita religiosa fondamentalista da un regime occidentalizzato potrebbe aprire un nuovo capitolo del processo di cambiamento politico in Egitto. Tuttavia, se si cerca di capire la rivoluzione egiziana, si dovrebbe aver chiaro che né nelle origini né nel processo di trasformazione della rivoluzione del 2011 è rintracciabile una predominanza dell’islamismo o di temi islamici. Ovviamente, islamisti di ogni tendenza, e in particolare giovani islamisti, hanno partecipato attivamente alle manifestazioni, all’occupazione di Piazza Tahrir e di altre piazze pubbliche e alle decisioni su Internet. Ma non si è verificato nessuno scontro religioso diretto (l’attacco ai copti fu una provocazione della polizia), mentre si è affermata una leale condivisione degli obiettivi e delle pratiche della rivoluzione. Durante i 18 giorni che lanciarono la rivoluzione, i Fratelli Musulmani chiesero l’uscita di scena di Mubarak, ma fecero sempre riferimento al movimento come fonte di legittimazione della protesta. Era ovviamente una tattica intelligente, poiché la rivendicazione di elezioni democratiche parlamentari poteva favorire i Fratelli Musulmani nell’accesso al potere, sulla base del loro forte sostegno popolare. Resta il fatto che né i Fratelli Musulmani né i Salafiti sono riusciti a controllare o a dirigere il movimento. Erano una parte del movimento, ma non erano il movimento. La rivoluzione egiziana non è stata e non è una rivoluzione islamica, anche se può aver creato le condizioni per una via democratica verso un sistema politico a prevalenza islamica. Le reti formate intorno all’islamismo si sono connesse con le reti costituite intorno agli obiettivi di libertà e giustizia sociale, per convergere verso la lotta per la democrazia, prima contro Mubarak e poi contro lo SCAF, la cui sanguinosa repressione del movimento non ha potuto soffocare una rivoluzione a molte voci. «La rivoluzione continuerà»

Il Consiglio supremo delle Forze armate ha tentato di appropriarsi della rivoluzione a proprio esclusivo beneficio ricorrendo a una repressione anche più dura di quella del regime di Mubarak, una volta chiarito che il movimento che aveva rovesciato la dittatura, con la sua composizione sfaccettata, non avrebbe accettato un avvicendamento di un autocrate con un altro senza un cambiamento delle regole. I militari hanno persino cercato di imporre un documento (noto come documento Selmi, dal nome del vice- premier) come falsariga della Costituzione che il nuovo Parlamento avrebbe dovuto elaborare nel 2012, prima ancora che il Parlamento venisse eletto. Il documento sostanzialmente dava il pieno controllo dello stato e un’autonomia senza limiti alle Forze armate. La reazione negativa suscitata da questo scoperto attacco alle istituzioni democratiche del futuro ha unificato tutte le componenti del movimento nella loro opposizione, compresa la Fratellanza Musulmana, che per la prima volta ha rotto apertamente con i generali. Il 18 novembre, in Piazza Tahrir ha avuto luogo una protesta di massa contro lo SCAF. Il 19 novembre, le forze della Sicurezza Centrale, l’élite di quella che era stata la polizia di Mubarak, hanno attaccato la piazza, presidiata solo da un piccolo gruppo di persone. Media e Internet hanno invocato soccorso e migliaia di dimostranti si sono precipitati a difendere lo spazio pubblico liberato. Ne sono seguiti cinque giorni di aspra battaglia nelle strade del Cairo, che hanno lasciato sul terreno 42 morti e 3000 feriti. Il primo ministro si è dimesso, ma è stato sostituito da un ex ministro di Mubarak. Era chiaro che il consiglio militare incarnava una nuova forma di dittatura, e il movimento è così passato dal vecchio slogan unificante «Abbasso Mubarak» a «Abbasso il governo militare». Le donne hanno sfilato sotto uno striscione che proclamava: «Non ci farai paura». La paura era stata vinta per sempre. Le reti dell’indignazione si sono moltiplicate con la selvaggia repressione contro ogni forma di critica dei nuovi poteri: nei media, nelle strade e nei tribunali militari, con l’obiettivo di colpire soprattutto le donne. Il 20 gennaio 2012, Joda Elsadda, del Centro Media delle Donne, scriveva:

Lo slogan attuale è «la rivoluzione continuerà» perché il lavoro non è finito. Possiamo aver deposto Mubarak, ma il regime, guidato dallo SCAF, è ancora intatto. Nei primi giorni della rivoluzione, i militari sembravano al fianco del popolo; oggi il popolo è contro lo SCAF e il governo militare. Perché? La risposta è che lo SCAF sta cercando di restaurate il vecchio regime e il popolo non crede più nella sua capacità di guidare l’Egitto nella transizione verso un futuro democratico (2012, p. 1).

Benché l’esercito sia di gran lunga un avversario molto più formidabile dello stesso Mubarak, la forza del movimento era molto maggiore di un anno prima, perché ora esistevano ed erano attivi network di solidarietà e di mobilitazione su Internet, nelle piazze, nelle strade, in un’attiva società civile e in una diversa, e vitale, nuova sfera politica con una pluralità di partiti. Un anno di inganni e di repressione non ha indebolito la determinazione di un movimento che aveva cominciato a prefigurare una rivoluzione capace di aprire la via verso una vera democrazia.

Comprendere la rivoluzione egiziana

La rivoluzione egiziana del 2011 ha modificato i rapporti di potere all’interno del paese, abbattendo la dittatura di Mubarak, e ha continuato a combattere con determinazione la reincarnazione dell’oppressione nella forma di un regime militare. Per capire come ciò sia potuto accadere dopo decenni di brutale dominio e di ripetuto annientamento della resistenza che si era manifestata in molti modi, dobbiamo tornare alla teoria del potere e del contropotere presentata all’inizio di questo libro. Il potere è esercitato da una combinazione di coercizione e intimidazione, da un lato, e di persuasione e costruzione del consenso dall’altro. Il monopolio della violenza è una condizione necessaria per il mantenimento del potere, ma nel lungo andare insufficiente. Richiede la costruzione della legittimazione o dell’accettazione e della rassegnazione nelle menti delle persone. Nell’Egitto moderno, il potere dello stato si è basato originariamente sulla legittimazione selettiva e sulla repressione mirata. Il sorgere del nasserismo, come battistrada del nazionalismo arabo, ha fornito un manto di legittimità a un regime populista e a un esercito tenuto in piedi per la battaglia decisiva contro il sionismo. Tuttavia, nello stesso tempo, il nazionalismo era determinato a sopprimere la principale fonte alternativa di legittimità: l’influenza islamica rappresentata nella sfera politica dalla Fratellanza Musulmana e da influenti intellettuali islamici, alcuni dei quali, come Sayyid Qtub, furono giustiziati. Essi erano il nemico e furono perseguitati senza pietà, mentre alcuni capi religiosi ufficiali furono cooptati nel regime. La repressione ha funzionato fintanto che è stata concentrata su un particolare segmento della società. Ma la legittimità fu erosa dal fallimento militare e dalla morte di Nasser, e cosa ancora più importante dall’incapacità di un’economia statalista di adattarsi al nuovo ambiente della globalizzazione economica. Per di più, qualsiasi sviluppo fosse stato generato, esso veniva appropriato dai capitalisti clientelari del regime, dagli alti gradi delle Forze armate e dagli alti burocrati dello stato. La povertà diffusa e il deterioramento del tenore di vita di una classe media sempre più istruita hanno spinto molti giovani a rivolgersi all’islamismo nelle sue versioni sia moderate sia radicali. Le elezioni sono state introdotte come un trucco per costruire un’immagine gradita ai nuovi alleati occidentali, ma ogni volta che candidati indipendenti (islamici o laici) ottenevano un’affermazione, venivano messi da parte o espropriati del diritto di far sentire la propria voce e di esercitare il proprio voto. Nel primo decennio del XXI secolo, il monopolio della violenza e l’uso effettivo di essa nella totale impunità sono diventati i principali pilastri di sostegno del regime. Ma c’è qualcosa di più complesso da spiegare. Il potere è multidimensionale. Ognuna di queste dimensioni (economica, politica, militare, ideologica, culturale) è gestita attraverso specifiche reti di potere. Tuttavia, perché il potere sia sostenibile, è essenziale che diverse reti principali si interconnettano in un’unica rete, con l’aiuto di switcher per stabilire la connessione. Nel caso dell’Egitto, i militari erano sempre la principale rete del potere, ma si mantenevano autonomi pur detenendo un potere decisivo nello stato. Mubarak era il capo della prestigiosa Forza aerea, e come tale divenne lo switcher tra lo stato e le Forze armate, e prese il controllo della burocrazia e del partito ufficiale, il Partito Nazionale Democratico. Lo stato generava la propria rete di burocrazie (compresa la polizia) attraverso le quali il potere era esercitato sulla società. Il potere economico era nelle mani di un’élite imprenditoriale tradizionalmente dipendente dallo stato e dalle Forze armate, benché nell’ultimo decennio imprese globalizzate, anche straniere, avessero creato le proprie connessioni con il regime, ottenendo autonomia in ragione della loro presenza internazionale. Il potere religioso era integrato e/o represso a seconda del suo grado di sottomissione allo stato. I media erano controllati e sottoposti a censura benché canali televisivi satellitari privati fornissero un’apertura che sarebbe diventata decisiva nella crisi del regime. L’altra fondamentale rete alla quale lo stato doveva connettersi era quella geopolitica. Dopo la morte di Nasser e l’assassinio di Sadat, l’influenza dell’Unione Sovietica si dissolse completamente. Mubarak aggiunse alle sue capacità di switching una connessione privilegiata con gli Stati Uniti. Questa fu una fondamentale fonte di stabilità per la dittatura sia in termini di (false) credenziali democratiche sia per la sua capacità di reggere alle difficoltà economiche e alle sfide interne. Questa complessa rete di reti di potere è ciò che le proteste sociali e gli oppositori politici hanno dovuto affrontare nel 2005, nel 2008 e nel 2010, venendone ogni volta sottomesse con la forza. Ogni sembianza di legittimità o di consenso era sparita per la grande maggioranza degli egiziani. Ma la paura era stata instillata nelle loro menti e nelle menti dei pochi oppositori che osavano fare uso delle aperture istituzionali per contrastare il dittatore. Nessuna opposizione organizzata poteva confrontarsi con la formidabile macchina repressiva interconnessa con tutte le fonti interne e internazionali di potere in un labirinto di interessi economici, geopolitici, politici e personali intrecciati. Poi, la rivoluzione avvenne, senza avvertimento né strategia, poiché i primi annunci di manifestazioni non erano diversi da quelli delle manifestazioni che avevano avuto luogo negli anni precedenti, solo per essere facilmente disperse dalle bande di teppisti e dalla polizia. Perché? Perché la paura era stata vinta dai grandi numeri. Come? E perché proprio adesso? Le persone superano la paura stando insieme. Ed esse partecipavano ai social network di Internet e alle reti urbane formate nelle piazze. Ma per unirsi in grandi folle le persone hanno bisogno di una motivazione forte, una forza mobilitatrice. L’indignazione induce a correre dei rischi senza paura, e l’indignazione era al massimo contro le violenze della polizia, contro la fame che cresceva nel paese e contro la disperazione che conduceva le persone a immolare se stesse. Tuttavia, l’indignazione era maturata da molto tempo. La differenza fondamentale era data dalla presenza di un’altra potente emozione, questa volta positiva: la speranza. L’importanza della speranza nel cambiamento è ben esemplificata dalla Tunisia. L’esperienza tunisina ha mostrato che è possibile rovesciare un regime solidamente stabilito se tutti si mettono insieme e si battono senza compromessi, fino alla fine, senza preoccuparsi dei rischi. Internet ha fornito lo spazio sicuro dove le reti dell’indignazione e quelle della speranza hanno potuto connettersi. Le reti formate nel cyberspazio si sono estese allo spazio urbano, e la comunità rivoluzionaria formata nelle piazze questa volta ha resistito con successo alla repressione della polizia e si è connessa attraverso reti multimediali con il popolo egiziano e con il mondo. Piazza Tahrir è stata lo switcher che ha collegato tra loro le molteplici reti del contropotere nonostante la loro diversità. Sotto la pressione della resistenza popolare e dell’opinione pubblica internazionale, gli switch che connettono i network del potere sono stati chiusi, uno dopo l’altro, dal connettore centrale, il dittatore e la sua cricca al vertice dello stato. Ma, soprattutto, l’esercito si è ripreso la sua autonomia cercando di preservare ciò che restava della sua legittimazione e di recuperare il controllo del paese disconnettendo il dittatore e la polizia dalla rete delle Forze armate. L’élite economica si è divisa in due schieramenti contrapponendo i gruppi nazionali, allineati all’esercito, esso stesso una vasta concentrazione di interessi economici, alla crescente minaccia delle imprese globalizzate guidate dagli uomini di Gamal. Mentre i media di stato rimanevano fino all’ultimo minuto nelle mani dei censori, segmenti dei media, in particolare, canali televisivi, canali satellitari globali e imprese operanti su Internet si sono disconnessi dalle reti di media che fungevano da appendici del potere statale. Le reti politiche dello stato (e in particolare il partito ufficiale), rimaste senza sostegno, hanno perso ogni capacità di influenzare il popolo e quindi sono rimaste nello stato, ma isolate dalle fonti principali del potere economico, militare o culturale. Infine, il network geopolitico dominato dagli Stati Uniti ha chiuso la sua connessione privilegiata con il network militare. Il discorso di Obama che, al Cairo, aveva invitato i paesi arabi ad abbracciare i principi democratici, e il discorso di Hillary Clinton nel gennaio 2010 a sostegno del ruolo democratizzante di Internet nel mondo, non potevano essere apertamente contraddetti con la conferma del sostegno a un dittatore traballante. Così, l’ultima decisiva «disattivazione», quella dal network geopolitico, ha lasciato lo stato di Mubarak disconnesso da qualsiasi significativa fonte di potere diversa dalle sue forze di Sicurezza Centrale e dalle sue brigate cammellate delle balgatiya. Connettendo i network del contropotere, i manifestanti sono diventati abbastanza potenti da indurre la disconnessione tra importanti reti del potere, indebolendo il sistema di dominazione e rendendo la violenza uno strumento sempre più inefficace per tenere il paese sotto controllo. Questa è la ragione per cui il network dei militari e il connesso network geopolitico hanno cercato di riguadagnare legittimità apparentemente accettando la sfida delle elezioni democratiche, legalizzando le forze politiche islamiche, promettendo una nuova costituzione e perseguendo penalmente il dittatore e alcuni elementi della sua cricca più ristretta. Tuttavia, i militari si sono mossi prontamente per disattivare tutti i network del potere, compreso il nuovo network della politica parlamentare, per quanto riguarda le sue capacità di comando e di controllo, svuotando in pratica la promessa di democrazia. Poiché i network del contropotere rimanevano pienamente attivi, anzi avevano ampliato le loro connessioni sia internazionali sia nazionali, i militari sono tornati alla più dura repressione come forma di vita politica. Difatti, il 2011 è stato un anno molto più cruento e repressivo di tutti gli anni precedenti sotto Mubarak. Di conseguenza, i militari hanno perso tutto ciò che restava della loro legittimità e creato le condizioni per una lunga, protratta battaglia tra le reti del potere e del contropotere che si sono formate nel processo della rivoluzione egiziana.

Note

1. Per una ricostruzione dettagliata degli eventi della rivoluzione del gennaio del 2011 in Egitto e del loro contesto vedi Mona El-Ghobashy, «The praxis of the Egyptian Revolution», in MER258, Middle East Research and Information Project, 2011 (www.merip.org/mer/mer258/praxisegyptian- revolution). 2. Sito web ufficiale del Movimento 6 Aprile (in arabo): http://6april.org. Esraa Abdel Fattah Ahmed Rashid è stato uno dei cofondatori del movimento che più tardi si è separato dal gruppo. Per ulteriori dettagli vedi Inside April 6th Movement, documentario del programma Frontline della rete televisiva PBS: www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/revolution-in-cairo/insideapril6-movement. 3. Nell’estate del 2009, Adel è andato in Serbia per studiare le strategie rivoluzionarie non- violente. Vedi «What Egypt learned from the students who overthrew Milosevic» di Tina Roseberg per Foreign Policy (www.foreignpolicy.com/articles/2011/02/16/revolution_u?page=full) e la pagina del profilo di Frontline della PBS sul Movimento del 6 aprile dal documentario Revolution in Cairo www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/revolution-in-cairo/insideapril6-movement. 4. Sulla « Rivoluzione silenziosa» immaginata dai membri del gruppo «Siamo tutti Khaled Said» vedi «Reclaiming Silence in Egypt» di Adel Iskandar, Egypt Independent, 22 luglio 2010, www.egyptindependent.com/node/58021. 5. Il ruolo significativo avuto dai tifosi dell’al-Ahly Football Club nella protesta anti Mubarak non fu dimenticato dai vertici dei servizi di sicurezza. Il 1° febbraio 2012, in una partita a Port Said tra la squadra locale e al-Ahly, centinaia di teppisti armati, fingendo di essere tifosi del Port Said, attaccarono la squadra e i tifosi di al-Ahly senza alcun intervento da parte della polizia presente nello stadio. Settantatré persone furono uccise e centinaia ferite. Lo sdegno per l’ovvia complicità della vecchia polizia di Mubarak e per l’indulgenza del regime militare nei confronti dell’aggressione ha condotto il 2 e il 3 febbraio a violente manifestazioni al Cairo, con migliaia di persone che hanno cercato di espugnare sedi della polizia brandendo la bandiera di al-Ahly. Negli scontri, diverse persone furono uccise e centinaia ferite. 6. Durante l’occupazione di Piazza Tahrir, si manifestarono alcune tensioni tra copti e gruppi radicali islamici. Ma la condivisione di rischi e obiettivi nel movimento creò un’atmosfera di tolleranza e cooperazione tra musulmani, copti e laici. Per esempio, il 6 febbraio 2011, fu celebrata in piazza una messa multireligiosa, alla presenza di migliaia di fedeli. Un grave caso di violenza contro i copti avvenne il 9 ottobre, durante una manifestazione di copti di fronte alla sede della televisione di stato per protestare contro la manipolazione dell’informazione da parte dei media e per chiedere le dimissioni di Tantawi, capo del consiglio supremo delle Forze armate, con il risultato di 25 dimostranti uccisi e 200 feriti. I media cercarono di presentare l’aggressione come guidata dagli islamisti, ma fonti affidabili indicarono la responsabilità della polizia nella pianificazione dell’attacco allo scopo di eccitare la violenza settaria. Il 21 novembre, mentre i musulmani di Piazza Tahrir erano impegnati con le preghiere del venerdì, i copti si assunsero il compito della vigilanza per sventare potenziali attacchi, dando un chiaro segno di solidarietà interreligiosa. 7. La grande disconnessione dell’Egitto fu qualcosa di interamente differente dalla limitata manipolazione di Internet che aveva avuto luogo in Tunisia, dove erano state bloccate solo specifiche routes, o in Iran, dove Internet è rimasta in una forma di traffico limitato concepita per rendere la connettività Internet estremamente bassa. Disconnettere Internet in Egitto è stato relativamente facile, se paragonato a ciò che occorrerebbe fare nei paesi democratici. In Egitto esistevano solo quattro grandi ISP, ognuno dei quali disponeva di relativamente pochi router per i collegamenti con il mondo esterno. Una chiusura di Internet negli Stati Uniti avrebbe richiesto un confronto con molte società differenti. E mentre l’Egitto può legalmente disattivare le società di telecomunicazione per decreto, la normativa statunitense limita il potere di intervento del governo federale sui canali di comunicazione. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti hanno proposto la messa a punto di un «kill switch», un dispositivo di spegnimento in grado di chiudere Internet premendo un solo bottone in caso di un’emergenza nella cybersicurezza. 8. BGP (Border Gateway Protocol) è il protocollo al centro del meccanismo di routing di Internet, ed è usato dai router per condividere le informazioni sui path (percorsi) che il traffico dati utilizza per «saltare» da una rete all’altra mentre si muove da una sorgente verso la sua destinazione. 9. Sito Web ufficiale del partito Al-Nour, «FAQ» (www.alnourparty.org/page/answer) e «Who we are» (www.alnourparty.org/about). 10. Flock, E. (2011), «Samira Ibrahim is the woman behind Egypt’s ban of virginity tests», The Washington Post, www.washingtonpost.com/blogs/blogpost/post/samira-ibrahim-is-the-woman- behind-egypts-ban-of-virginity-tests/2011/12/27/ gIQACKNgKP_blog.html. 11. Moore, H. 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Fonti e riferimenti

Nota: I titoli dei testi scritti originariamente in arabo e usati come fonti sono stati tradotti per comodità dei lettori. I testi cui si fa riferimento sono in arabo.

Sul contesto e sugli eventi della rivoluzione egiziana

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Sulla relazione tra nazionalismo arabo e Islam politico

Si veda la mia analisi della questione, che fornisce lo sfondo dell’interpretazione qui presentata: Castells, M. (2010), The Power of Identity, Oxford, Blackwell, pp. 13-23 (ed. it., Il potere delle identità, Milano, Università Bocconi Editore, 2008, pp. 13-24). Vedi anche: Carré, O. (2004), Le nationalisme arabe, Parigi, Payot. Keppel, G. (2008), Beyond Terror and Martyrdom: the Future of the Middle East, Cambridge, Harvard University Press. Roy, O. (2007), Secularism Confronts Islam, New York, Columbia University Press. DIGNITÀ, VIOLENZA, GEOPOLITICA: LA RIVOLTA ARABA1

Il mondo arabo sta assistendo oggi alla nascita di un nuovo mondo, che tiranni e governanti iniqui si sforzano di ostacolare. Ma alla fine questo mondo nuovo emergerà inevitabilmente… Il nostro popolo oppresso si è ribellato, proclamando il sorgere di una nuova aurora in cui la sovranità del popolo e la sua volontà insopprimibile prevarranno. Il popolo ha deciso di spezzare i ceppi e di mettersi in cammino sulle orme dei popoli liberi e civili del mondo. Tawakkol Karman, dichiarazione in occasione della consegna del Premio Nobel per la Pace 2011, assegnatole per la sua opera di pace e giustizia nello Yemen e tra le donne arabe in generale2

Nella scia delle rivoluzioni tunisina ed egiziana, in tutto il mondo arabo nel 2011 si sono susseguiti i Giorni della Collera (Youm al-Ghadab): 7 gennaio in Algeria, 12 gennaio in Libano, 14 gennaio in Giordania, 17 gennaio in Mauritania, Sudan, Oman, 27 gennaio in Yemen, 14 febbraio in Bahrein, 17 febbraio in Libia, 18 febbraio in Kuwait, 20 febbraio in Marocco, 26 febbraio nel Sahara Occidentale, 11 marzo in Arabia Saudita, 8 marzo in Siria. In alcuni casi (Arabia Saudita, Libano, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, dove in realtà non è accaduto nulla di significativo), la protesta si è esaurita rapidamente per una varietà di cause3. In altri casi, le sommosse sono state sedate con una combinazione di repressione e concessioni da parte dei regimi esistenti (Marocco, Giordania, Algeria, Oman), anche se le ceneri dei movimenti sono ancora calde e possono riaccendersi in qualsiasi momento. In Bahrein, una selvaggia repressione compiuta con l’appoggio dell’Arabia Saudita ha schiacciato nel sangue un pacifico movimento di massa, espressione in larga misura della popolazione sciita nel «Giovedì di Sangue» del 17 febbraio. In Yemen, Libia e Siria, movimenti inizialmente pacifici sono stati affrontati con la più brutale violenza dalle dittature al potere, degenerando in guerre civili che hanno trasformato questi paesi in campi di battaglia dove contendenti geopolitici si battono per affermare la propria influenza. Difatti, l’intervento militare diretto estero è stato decisivo in Libia e l’influenza geopolitica estera è diventata un fattore essenziale nell’evoluzione della rivolta siriana. Questi movimenti sono emersi da cause specifiche di ogni paese e si sono evoluti ognuno in modo diverso a seconda delle condizioni di contesto e delle idiosincrasie di ogni rivolta. Tuttavia, essi sono stati tutti sollevazioni spontanee, stimolate dalla speranza ispirata dal successo delle rivoluzioni tunisina ed egiziana, così come è stato appreso da immagini e messaggi trasmessi da Internet e dalle reti televisive satellitari arabe. Indubbiamente, è stata la scintilla di indignazione e speranza nata in Tunisia e che ha abbattuto il regime di Mubarak, producendo una Tunisia democratica e un Egitto proto-democratico, a propagarsi rapidamente ad altri paesi arabi, seguendo lo stesso modello: appelli su Internet, connessioni in rete nel cyberspazio e inviti a occupare lo spazio urbano per costringere il governo a dimettersi e aprire un processo di democratizzazione, dalla Piazza delle Perle in Bahrein alla «Piazza del Cambiamento» a Saana, o alle piazze di Casablanca e Amman. Gli stati del mondo arabo hanno reagito in modi differenti, da qualche blanda liberalizzazione alla sanguinosa repressione, dettata dalla paura di perdere il potere. L’interazione tra i movimenti di protesta e i regimi si è configurata diversamente a seconda delle condizioni interne e geopolitiche. Ovviamente, vi erano rancori profondamente radicati in una popolazione che era stata sottoposta alla repressione politica e tenuta per decenni in terribili condizioni economiche, senza la possibilità di reclamare i propri diritti, sotto la minaccia della violenza arbitraria dello stato4. Inoltre, la maggior parte della popolazione di questi paesi era composta di persone sotto i trent’anni, molte delle quali relativamente istruite e per lo più disoccupate o sottoccupate. Questi giovani avevano una certa familiarità con l’uso delle reti di comunicazione digitali, dato che la penetrazione dei telefoni mobili superava il 100 per cento in metà dei paesi arabi, e nella maggior parte degli altri superava il 50 per cento, e molti individui nei centri urbani avevano qualche forma di accesso ai social media (Howard 2011). Inoltre, provavano nella loro vita quotidiana un profondo senso di umiliazione, un’assenza di opportunità nella società, un vuoto di partecipazione nel sistema politico. Essi erano pronti a insorgere per la propria dignità, una motivazione più potente di ogni altra. Alcuni l’avevano fatto nell’ultimo decennio, solo per andare incontro alla violenza della repressione, al carcere e spesso alla morte. Questa volta, la scintilla dell’indignazione e la luce della speranza sono venute a loro simultaneamente. La speranza veniva da altri giovani arabi, simili a loro, che si erano ribellati nei loro paesi, in particolare in Egitto, noto nell’immaginazione culturale araba come um al-dunya («madre del mondo»). In ogni paese, la scintilla è stata il risultato di eventi specifici: autoimmolazioni e martirî simbolici come forme di protesta, immagini di torture e pestaggi di pacifici dimostranti da parte della polizia, assassinî di difensori dei diritti umani e di blogger. Questi non erano né islamisti né militanti della sinistra rivoluzionaria, poiché alla fine chiunque avesse un progetto di cambiamento della società ha preso parte al movimento. Inizialmente appartenevano all’ambiente della classe media5, anche se generalmente una classe media impoverita, e molte erano le donne. Più tardi si sono uniti a loro strati più poveri della popolazione, colpiti dall’inflazione e privi dei mezzi necessari per acquistare ogni giorno il necessario per la propria alimentazione, a causa delle politiche economiche di liberalizzazione e dell’assoggettamento dei loro paesi agli aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari sui mercati mondiali. Dignità e pane sono stati le rivendicazioni originarie di gran parte dei movimenti, insieme con la domanda di case in Algeria. Ma chiedere pane significava in realtà rovesciare le politiche economiche e mettere fine alla corruzione come stile di governo. L’affermazione della dignità è diventato un grido per la democrazia. Così tutte le agitazioni sociali sono diventate movimenti politici, con obiettivi di riforma democratica. L’evoluzione di ciascun movimento è dipesa in larga misura dalla reazione dello stato. Quando i governi hanno mostrato qualche sembianza di disponibilità nei confronti delle loro rivendicazioni e hanno accennato a una liberalizzazione politica, i movimenti sono stati incanalati in un processo di democratizzazione dello stato nei limiti determinati dal mantenimento dell’essenza del dominio dell’élite. Così re Abdullah II in Giordania ha destituito il primo ministro e sciolto il suo gabinetto (il bersaglio della protesta contro le politiche economiche), istituendo meccanismi di consultazione con i cittadini, in particolare con i rappresentanti delle tribù beduine. Re Mohammed VI del Marocco ha proposto alcuni emendamenti in senso democratico della Costituzione, compreso il trasferimento di alcune prerogative dal sovrano al primo ministro. Gli emendamenti sono stati approvati con referendum nel luglio 2011 con il 98,5 per cento dei voti a favore. Il re ha inoltre liberato decine di prigionieri politici e tenuto nuove elezioni (il 25 novembre 2011) che hanno decretato la vittoria dei candidati islamisti (per lo più moderati), come in tutte le altre elezioni libere tenute nel mondo arabo negli anni recenti. Quando, invece, i regimi hanno resistito alla richiesta di riforme politiche e hanno fatto ricorso alla pura repressione, i movimenti sono passati dalla riforma alla rivoluzione e si sono impegnati in un processo di rovesciamento delle dittature. In questo processo, l’interazione tra le lotte interne di fazione e le influenze geopolitiche ha condotto a sanguinose guerre civili i cui diversi esiti stanno ridefinendo la politica del mondo arabo degli anni a venire.

La violenza e lo stato

Quando gli stati sono contestati nel loro potere, siano essi democratici, dittatoriali, o una combinazione delle due tipologie precedenti, la loro risposta segue regole istituzionali. Quando non riescono a integrare le richieste o i progetti dei loro contestatori senza sconvolgere gli aspetti fondamentali dei rapporti di potere che essi incarnano, ricorrono alla loro ultima essenza: il monopolio della violenza nella loro sfera di azione. La loro inclinazione a fare uso della violenza estrema dipende dalla misura della loro legittimità, dall’intensità della sfida che devono fronteggiare e dalla loro capacità operativa e sociale di usare la violenza. Quando i movimenti sono determinati a mantenere una pressione inflessibile sullo stato, quale che sia la violenza loro inflitta, e lo stato ricorre alla violenza estrema (carri armati contro dimostranti inermi), il risultato del conflitto dipende dall’interazione tra gli interessi politici nel paese e gli interessi geopolitici relativi al paese. Nello Yemen, uno stato frammentato, in una nazione scarsamente unificata, si è diviso sotto l’assalto di un variegato movimento di massa e una parte dell’esercito si è schierata con i dimostranti nella richiesta di dimissioni del dittatore Ali Abdullah Saleh. La natura tribale dello Yemen e i movimenti secessionisti nel Nord e nel Sud del paese hanno condotto a una situazione di stallo tra Saleh, sostenuto dall’Arabia Saudita, e il movimento democratico che chiede una nuova Costituzione e una vera democrazia. Il sospetto di una presenza di Al-Qaida con un’intensità maggiore che in ogni altro paese ha indotto gli Stati Uniti a un’estrema cautela, per cui la diplomazia americana, nonostante la retorica del sostegno al movimento, ha lasciato ai sauditi il compito di pilotare una transizione politica controllata. Nel febbraio 2012, in seguito a un accordo raggiunto attraverso una mediazione, Saleh è uscito di scena dopo trent’anni al potere, e il suo vice-presidente, Abd Rabbuh Mansur al-Hadi, si è presentato alle elezioni, che ha vinto con il 99,8 per cento dei voti… In Libia, lo stato nazione, mentre incarnava il progetto messianico pan- africano del suo carismatico fondatore, esprimeva in realtà il dominio delle tribù occidentali sulle tribù orientali. La brutale liquidazione di ogni tentativo delle élite di Bengasi o delle tribù assoggettate di rivendicare la loro quota dei benefici del petrolio e del gas, estratto principalmente nel deserto orientale, ha portato alla concentrazione del potere nelle mani della famiglia di Gheddafi, dei suoi sostenitori tribali e della piccola cerchia delle élite delle aree occidentali del paese. Il potere era esercitato attraverso il controllo di una guardia di pretoriani bene equipaggiati e bene addestrati, spalleggiati all’occorrenza da mercenari di altri paesi. Di conseguenza, mancava un vero esercito nazionale che potesse dare corpo alle istituzioni della nazione indipendentemente dai piani del dittatore e della sua cricca. Lo stato libico era in larga misura uno stato patrimoniale. Ciò significa che, da un lato, ampi segmenti della popolazione, soprattutto nel settore orientale, erano esclusi dalla spartizione dei ricchi proventi dei prodotti energetici. Dall’altro lato, le reti clientelari organizzate intorno al leader erano estese e trattate con generosità. Il regime aveva una certa base sociale, solcata da divisioni, timori e animosità tribali che il leader ha usato abilmente le une contro le altre a proprio vantaggio. I giovani libici erano per lo più politicamente disillusi nei confronti del regime, ma a Tripoli avevano comunque maggiori opportunità economiche dei loro coetanei egiziani. In queste condizioni, le manifestazioni che iniziarono il 17 febbraio a Bengasi, in risposta ad appelli circolati nei social media e attraverso le reti dei telefoni mobili, ebbero solo limitate ripercussioni a Tripoli, ed esprimevano sia aspirazioni democratiche sia una ribellione regionale e tribale contro lo stato autoritario patrimoniale. Per queste ragioni, le manifestazioni furono sostenute da un segmento delle Forze armate con legami nelle regioni orientali e furono protette da queste unità armate quando Gheddafi cercò di sbarazzarsi del movimento con la forza. Di qui la rapida escalation da ribellione a guerra civile: il 20 febbraio, solo tre giorni dopo l’inizio del movimento, i ribelli avevano occupato Bengasi e altre città dell’Est, e il 23 febbraio avevano preso Misurata, a metà strada nella direzione di Tripoli. Il movimento improvvisò un’amministrazione civile a Bengasi con la cooperazione della maggior parte dei burocrati locali, mentre milizie entusiastiche ma raccogliticce, montate su pickup armati frettolosamente e senza nessuna esperienza di combattimento, marciavano verso Tripoli, solo per essere annientate nell’impari confronto con un esercito privato ben addestrato e con una superiore potenza di fuoco, al comando dei figli di Gheddafi. Qualche ora prima che Gheddafi potesse attuare la sua intenzione annunciata di occupare Bengasi e stanare e uccidere tutti i ribelli casa per casa, venti bombardieri francesi fermarono l’attacco e internazionalizzarono il conflitto libico, ammantando l’intervento della NATO sotto la bandiera delle Nazioni Unite. La geopolitica aveva prevalso. La profonda riluttanza di Obama a impegnarsi in qualsiasi forma di azione militare fu parzialmente vinta dall’insistenza di Hillary Clinton, Susan Rice e di alcuni membri del team presidenziale come Samantha Power, per proteggere i ribelli dal massacro, forse memori delle terribili conseguenze dell’inazione del presidente Clinton in Ruanda. Più decisivo fu il ruolo svolto nell’intervento da Francia, Regno Unito e Italia allo scopo di assicurarsi il controllo del petrolio e del gas libici, vitali per i rifornimenti dell’Europa occidentale. Russia e Cina si videro prese di sorpresa e messe fuori gioco dalla NATO: una lezione che sarà difficile da dimenticare. Poiché il mio principale oggetto di interesse qui non sono i giochi di guerra, ma la sorte dei movimenti sociali, ciò che appare chiaramente è che, una volta impegnato a contrastare la violenza militare con un’analoga violenza, il movimento perde il suo carattere democratico per diventare un contendente talvolta altrettanto brutale dei suoi oppressori in una sanguinosa guerra civile. E una guerra civile può diventare un’opportunità ricercata da attori geopolitici, quale che ne sia il mantello ideologico, allo scopo di estendere la loro area di influenza, se non altro per evitare che i loro competitor siano tentati di trarre vantaggio dal vuoto di potere creato in seguito al crollo di un regime. In un certo senso, le guerre civili non uccidono solo le persone, ma anche i movimenti sociali e i loro ideali di pace, democrazia e giustizia. L’aperta contraddizione tra movimenti sociali e violenza è stata anche acutamente presente nella rivolta siriana, uno dei più potenti e determinati movimenti sociali che abbiano scosso il mondo arabo. Anch’essa è stata innescata dall’esplosiva coincidenza di speranza e indignazione. La speranza: l’esempio dell’Egitto, storicamente un punto di riferimento per i siriani. L’indignazione: il 27 febbraio 2011, nella città di Daraa, nel Sud del paese, 15 bambini tra i 9 e i 14 anni vengono arrestati. Il loro crimine? Ispirati dalle immagini provenienti da altri paesi, hanno scritto sui muri della città «As-shaab yureed askot an-nizam» («Il popolo vuole rovesciare il regime»). I bambini vengono incarcerati e torturati. Quando i loro genitori protestano nelle strade, la polizia spara e alcuni restano uccisi. Durante i funerali delle vittime, anche contro i parenti in lutto vengono esplosi colpi di armi da fuoco e molti restano uccisi. Bashar Al-Assad pensava di poter seguire semplicemente la lezione di suo padre, che aveva schiacciato la rivolta della Fratellanza Musulmana nella città di Hama nel 1982, bombardando l’intera città e provocando oltre 20.000 morti. Ma i tempi erano diversi. Gli individui avevano creato dei network tra loro e con il mondo. A Damasco, quattro donne, tre legali che si occupano di diritti umani e una blogger, hanno indetto attraverso Internet una «Veglia delle famiglie per i detenuti», di fronte al ministero dell’Interno, il 16 marzo. Solo 150 persone si sono presentate e sono state percosse e arrestate. Ma appelli a manifestare di nuovo contro la brutalità del regime sono poi arrivati da Daraa, Homs, Hama, Damasco, Baniyas e molte altre città e il 18 marzo decine di migliaia di persone sono sfilate in corteo in tutto il paese, affrontando con le mani nude e la loro ferma volontà la polizia e le bande di teppisti che sparavano su di loro. Nessuno è corso a salvarli. D’altra parte, loro non l’hanno chiesto, perché rifiutavano l’idea di un intervento straniero. Ma volevano che il mondo sapesse. Le loro richieste originarie riguardavano il controllo dei prezzi dei generi alimentari, la cessazione delle brutalità poliziesche, la fine della corruzione politica. I dimostranti chiedevano riforme politiche. Assad aveva risposto con vaghe promesse di riforma costituzionale in Parlamento, e con alcune concessioni tra le quali la destituzione del governatore di Daraa, lo scioglimento del suo gabinetto, la revoca della proibizione del niqab per gli insegnanti, la chiusura dell’unico casinò del paese, il riconoscimento della cittadinanza siriana ai curdi. Tuttavia, nella percezione popolare, questi gesti limitati non cancellavano l’estrema violenza scatenata dal regime in una escalation che aveva visto truppe in assetto da combattimento e carri armati usati contro manifestanti inermi. Il movimento divenne intransigente: il popolo voleva rovesciare il regime; Assad doveva andarsene. Poi, dopo sei mesi, 5.000 morti e decine di migliaia di feriti e di arrestati, il movimento si è evoluto verso una combinazione di dimostrazioni, occupazioni di spazi urbani e forme limitate di resistenza armata. La gente ha cominciato ad armarsi, alcune unità militari hanno disertato e formato un misterioso Libero Esercito Siriano, le cui origini e affiliazione restavano sconosciute, ed è cominciata la guerra civile. Questa volta, tuttavia, non è andata come in Libia. Il dittatore godeva di speciali appoggi presso l’élite economica di Damasco e Aleppo, e in seno alla minoranza alauita, che costituiva la base etnica del partito Baath e dei vertici dello stato. Alcuni gruppi sociali erano influenzati dalla propaganda di Assad ed erano spaventati dalla possibilità che la presa del potere da parte degli islamisti potesse limitare la loro libertà religiosa, un timore che Assad ha instillato e provocato, fino a inscenare attacchi con autobombe per darne la colpa agli islamisti. Inoltre, il nucleo centrale della dittatura è il partito Baath, che controlla un esercito potente e moderno che prende ordini solo dai capi del partito, guidati dalla famiglia Assad. Di conseguenza, la frattura nella società non si è trasmessa allo stato che, almeno nel primo anno del movimento, è rimasto unito intorno al partito. Tuttavia, il fattore decisivo per il destino della rivoluzione siriana è stato il suo contesto geopolitico, poiché la Siria occupa una posizione chiave negli intricati giochi di potere del Medio Oriente. Russia e Cina hanno sostenuto senza riserve la dittatura e non erano disposte ad accettare una ripetizione dello scenario libico. Di conseguenza hanno bloccato qualsiasi azione militare da parte delle Nazioni Unite e diffidato la NATO e gli Stati Uniti dall’intervenire, pur favorendo i negoziati. La Russia ha una sola base militare al di fuori dei suoi confini a Tartus, una base navale siriana, e vende un considerevole quantitativo di armi ad Assad, che è rimasto il suo unico alleato nel mondo arabo. La Cina è alleata all’Iran, il suo principale fornitore di petrolio, e l’Iran è il protettore di Assad. D’altra parte, l’Arabia Saudita, insieme con il Qatar e la Giordania, è impegnata in una grande battaglia con l’Iran sciita che ha per posta la Siria, con il duplice obiettivo di favorire il passaggio del potere in Siria alla maggioranza sunnita e per scalzare una posizione fondamentale usata dal suo rivale storico Iran per esercitare la sua influenza nella regione. Circoli informati ritengono che, nel 2012, il Libero Esercito Siriano sia di fatto finanziato e addestrato dai sauditi, che hanno apertamente invocato un intervento nell’ambito della Lega Araba. Nel momento in cui questo libro è stato scritto, Kofi Annan guidava una missione delle Nazioni Unite per avviare negoziati politici in Siria e il movimento continuava a occupare le strade e le piazze, nonostante i bombardamenti, mentre procedeva l’impari combattimento tra l’esercito e le forze armate ribelli. Tuttavia, ancora una volta, al di là del risultato di questo processo in termini politici, uno dei più straordinari movimenti democratici della rivolta araba rischia di restare invischiato nelle manovre di un’opposizione politica frammentata, nei riallineamenti di potere nei corridoi del palazzo e nella rete di strategie geopolitiche, perdendo il contatto con la promessa di democrazia che la gente ha difeso con la propria vita. Tuttavia, libertà e decisioni autonome continuano a essere al centro delle piazze occupate e delle reti digitali dove il movimento è nato. Non è più possibile tornare indietro per il popolo siriano, che non si è arreso al settarismo e non ha accettato la dittatura, quale che sia il suo nome, nella sua determinazione a scegliere il proprio diritto di essere.

Una rivoluzione digitale? Come in Tunisia e in Egitto, la maggior parte delle rivolte arabe è nata dalle forme organizzative, le discussioni e gli appelli alla ribellione circolati su Internet, ed è proseguita assumendo più precise connotazioni nello spazio urbano. Le reti di Internet hanno fornito uno spazio di autonomia dal quale i movimenti sono emersi sotto forme differenti e con differenti risultati a seconda del contesto sociale. Come per tutti gli altri casi di movimento sociale studiati in questo volume, si è sviluppato un acceso dibattito sui media e nel mondo accademico sul preciso ruolo avuto dalle reti digitali in questi movimenti. Fortunatamente, nel caso delle rivolte arabe, possiamo contare su una rigorosa valutazione del loro ruolo sulla base della ricerca condotta nell’ambito delle scienze sociali svolta da Philip Howard, Muhammad Hussain e i loro collaboratori. Riassumerò qui le loro principali conclusioni poiché penso che essi abbiano posto fine a un dibattito senza senso sul ruolo causale dei social media sui movimenti sociali. Ovviamente, la tecnologia non determina i movimenti sociali, così come non determina alcun comportamento sociale. Ma Internet e le reti dei telefoni cellulari non sono semplici strumenti, bensì forme organizzative, espressioni culturali e piattaforme specifiche di autonomia politica. Osserviamo l’evidenza raccolta e teorizzata da Howard, Hussain e dal loro team. Prima di tutto, nel suo libro The Digital Origins of Dictatorship and Democracy: Information Technology and Political Islam (2011), scritto prima delle rivolte arabe, Philip Howard, sulla base di un’analisi comparata di 75 paesi, sia musulmani sia con una significativa componente di popolazione musulmana, rileva che, tenendo conto dell’influsso di una grande quantità di fattori contestuali, la diffusione e l’uso delle ICT favoriscono la democratizzazione, rafforzano la democrazia e accrescono il coinvolgimento dei cittadini e l’autonomia della società civile, aprendo la strada alla democratizzazione dello stato e anche alle contestazioni alle dittature. Anche il coinvolgimento civico di giovani musulmani è stato favorito dall’uso di Internet. Howard scriveva: «I paesi nei quali la società civile e il giornalismo fanno un uso attivo delle nuove tecnologie dell’informazione sperimentano successivamente una transizione democratica radicale o un significativo consolidamento delle loro istituzioni democratiche» (2011, p. 200). Particolarmente significativa, prima della Primavera araba, è stata la trasformazione dell’impegno sociale in Egitto e nel Bahrein con l’aiuto della diffusione delle ICT. In diverse ricerche condotte nel 2011 e nel 2012 dopo le rivolte arabe, Howard e Hussain, usando una serie di indicatori quantitativi e qualitativi, hanno analizzato un modello statistico multi-causale dei processi e degli esiti delle rivolte arabe basato sulla logica fuzzy (Hussain, Howard 2012). È risultato che l’uso diffuso di network digitali da parte di una popolazione prevalentemente giovane impegnata in un movimento di protesta ha avuto un effetto significativo sull’intensità e la forza di questi movimenti, a partire da un dibattito molto attivo su questioni sociali e politiche nei social media prima dell’inizio delle manifestazioni. Nelle loro parole:

I media digitali hanno avuto un ruolo causale nella Primavera araba in quanto hanno fornito l’infrastruttura fondamentale di un movimento sociale diverso da quelli che sono emersi negli ultimi anni in quei paesi. Nelle prime settimane della protesta in ogni paese, le persone che hanno invaso le strade – e i loro capi – erano chiaramente non interessati ai tre principali modelli dell’islam politico… Al contrario, queste generazioni prevalentemente cosmopolite e più giovani di mobilitatori si sentivano ripudiate dai loro sistemi politici, vedevano i guasti del malgoverno delle economie nazionali e dello sviluppo e, cosa ancora più importante, un racconto coerente e largamente condiviso di comuni ragioni di risentimento – un racconto che avevano appreso l’uno dall’altro e iscritto insieme negli spazi digitali dedicati ai commenti politici e agli sfoghi su blog, nei video condivisi su Facebook e Twitter, nelle discussioni sui comment board di siti di notiziari internazionali come Al Jazeera e BBC. La Primavera araba è storicamente unica poiché è la prima serie di sollevazioni politiche in cui tutte queste cose [senso di estraneità nei confronti dello stato, consenso tra la popolazione sulla protesta, difesa del movimento da parte dell’opinione pubblica internazionale] erano mediate digitalmente… È vero che Facebook e Twitter non sono le cause delle rivoluzioni, ma è assurdo ignorare il fatto che l’uso intelligente e strategico dei media digitali per connettere pubblici regionali, insieme con network di sostegno internazionali, hanno conferito agli attivisti nuove potenzialità che hanno condotto ad alcune delle maggiori proteste di questo decennio in Iran, all’abolizione temporanea del blocco della striscia di Gaza da parte dell’Egitto, ai movimenti popolari che hanno posto fine alle ultra-decennali dittature di Mubarak e di Ben Ali. I media digitali hanno avuto un ruolo causale nella Primavera araba nel senso che hanno fornito l’infrastruttura che è servita a gruppi di attivisti per creare profondi legami comunicativi e capacità organizzativa prima che le grandi proteste avessero luogo e mentre le manifestazioni di strada stavano per essere formalizzate. In realtà, si deve a quelle reti digitali ben sviluppate se i gruppi di iniziativa cittadini hanno avuto tanto successo nel suscitare la protesta di masse così grandi. In ogni singolo caso, gli incidenti all’origine della Primavera araba sono stati mediati digitalmente in un modo o nell’altro. L’infrastruttura informativa, nella forma di telefoni mobili, personal computer e social media, ha fatto parte della concatenazione causale che dobbiamo mettere in evidenza parlando della Primavera araba. Gli individui erano spinti a protestare per ragioni disparate e sempre personali. Le tecnologie dell’informazione hanno mediato queste spinte, in modo tale che le rivoluzioni si sono susseguite l’una all’altra in poche settimane, presentando modelli notevolmente simili. Indubbiamente, gli esiti politici sono stati differenti, ma ciò non diminuisce il ruolo importante dei media digitali nella Primavera araba. Ma, soprattutto, questa indagine ha mostrato che nei paesi privi di una società civile equipaggiata con un’impalcatura digitale, la probabilità di sperimentare movimenti popolari per la democrazia è molto più bassa – un’osservazione che siamo in grado di fare solo tenendo conto della costellazione di variabili causali che esistevano prima che cominciasse la protesta di strada, e non semplicemente gli usi a breve termine delle tecnologie digitali durante il breve periodo della sollevazione politica.

Per dirla con parole mie, le rivolte arabe sono state processi spontanei di mobilitazione che sono scaturiti da appelli su Internet e reti di comunicazioni wireless sulla base di reti sociali preesistenti sia digitali sia faccia a faccia. In generale, esse non sono state mediate dalle organizzazioni politiche formali, che erano state decimate dalla repressione e non avevano la fiducia della maggior parte dei partecipanti più giovani e attivi che hanno costituito la punta di lancia del movimento. Le reti digitali e l’occupazione dello spazio urbano, in stretta interazione, hanno fornito la piattaforma per costruire processi di organizzazione e deliberazione autonomi su cui le rivolte si sono basate e hanno creato la flessibilità necessaria per resistere ai feroci attacchi della violenza statale fino al momento in cui, in alcuni casi almeno, per istinto di autodifesa, sono diventati un contro-stato. C’è un altro effetto significativo della presenza del movimento sulle reti di Internet, che mi è stato segnalato da Maytha Alhassen, ed è la creatività artistico-politica. I movimenti, in particolare in Siria, sono stati sostenuti da una grafica innovativa che si esprimeva in immagini per avatar, mini- documentari, serie web su YouTube (come la fiction satirica Beeshu), vlog, montaggi fotografici e simili. Il potere delle immagini e le emozioni attivate da narrazioni di fantasia, sia mobilitanti sia rasserenanti, creano un ambiente virtuale di arte e di significatività su cui gli attivisti del movimento possono far leva per connettersi con la popolazione giovanile in generale, trasformando in tal modo la cultura in un mezzo per trasformare la politica. I blog politici, prima delle rivolte, sono stati essenziali in molti paesi per creare una cultura politica del dibattito e dell’attivismo che ha contribuito alla formazione del pensiero critico e degli atteggiamenti di ribellione di una generazione che era pronta a scendere in rivolta nelle strade. Le rivolte arabe sono nate all’inizio dell’era digitale nel mondo arabo, anche se con differenti livelli di diffusione di queste tecnologie della comunicazione nei vari paesi. Anche in paesi con bassi livelli di accesso a Internet, il nucleo di attivisti che, come una rete, ha connesso i segmenti del movimento e poi il movimento con la nazione e il mondo, è stato organizzato e deliberato nei siti dei network sociali. A partire da questo spazio protetto, i telefoni mobili hanno esteso la rete a tutta la società. E poiché la società era pronta a ricevere determinati messaggi riguardanti il pane e la dignità, la gente si è sentita coinvolta e – alla fine – è diventata un movimento.

Note

1. Questo capitolo si basa ampiamente sul contributo di informazione, raccolta di dati e consulenza della giornalista e studiosa Maytha Alhassen. Per la sua analisi delle rivolte arabe, vedi Alhassen M., Shihab-Eldin, A. (a cura di) (2012), Demanding Dignity: Young Voices from the Arab Revolutions, White Cloud Press, Ashland, OR. 2. www.democracynow.org/2011/12/13/the_arab_people_have_woken_up. 3. Il contesto di ciascun paese spiega in parte i casi in cui il movimento di protesta ha avuto uno sviluppo limitato nel 2011 (il futuro è ancora tutto da vedere). Così, in Libano e in Algeria, la memoria di atroci guerre civili ha avuto un effetto paralizzante, benché in Algeria le manifestazioni non siano mancate e si siano ripetute anche nel gennaio 2012. In Irak, un doloroso periodo di guerra, occupazione, guerra civile e terrorismo (che ancora persiste) ha lasciato la popolazione esausta e desiderosa di pace. In Arabia Saudita, la limitata protesta che ha avuto luogo l’11 marzo è stata in larga misura confinata nella minoranza sciita nella parte orientale del paese: per questo, il movimento è rimasto isolato dalla maggioranza sunnita e facilmente represso da un efficiente apparato di sicurezza. Il più significativo movimento sociale in Arabia Saudita è stata la campagna delle donne per il diritto di guidare l’automobile, un movimento ancora in pieno svolgimento, con il potenziale di estendersi ad altri diritti delle donne. Negli Emirati Arabi Uniti, il fatto che la maggior parte dei residenti sia costituita da non-cittadini e che la maggioranza dei cittadini goda di lauti sussidi crea un contesto in cui la mancanza di libertà non appare necessariamente un problema per i cittadini ed è un fattore di intimidazione per gli immigrati. 4. Per una discussione sulla dittatura araba, vedi Marzouki (2004); Schlumber- ger (2007). 5. Per il contesto sociale degli attivisti siriani, come pure per un resoconto di prima mano della rivolta, vedi l’eccellenre analisi di Mohja Kahf: www.jadaliyya.com/pages/index/4274/the-syrian- revolution-on-four-packs-a-day. 6. Per l’impatto dell’aumento dei prezzi mondiali dei generi alimentari sulla situazione sociale dei paesi arabi (che importano più prodotti alimentari di qualsiasi altra regione del mondo) vedi: www.economist.com/node/21550328?fsrc=scn/tw/ te/ar/letthemeatbaklava.

Fonti e riferimenti bibliografici

Council of Foreign Affairs (2011), The New Arab Revolts: What Happened, What it Means, and What Comes Next, New York, Council of Foreign Affairs. Howard P. (2011), The Digital Origins of Dictatorship and Democracy. Information Technology and Political Islam, Oxford, Oxford University Press. Hussain M.M., Howard P. (2012), Democracy’s Fourth Wave? Information Technology and the Fuzzy Causes of the Arab Spring, testo inedito, presentato all’incontro dell’International Studies Association, San Diego, aprile, pp. 1-4. Marzouki M. (2004), Le mal arabe. Entre dictatures et integrisme: la democratie interdite, Parigi, L’Harmattan. Noland M. (2011), The Arab Economies in a Changing World, Washington, DC, Peter G. Peterson Institute for International Economics. Schlumberger O. (2007), Debating Arab Authoritarianism: Dynamics and Durability in Nondemocratic Regimes, Stanford, CA., Stanford University Press. UNA RIVOLUZIONE RIZOMATICA: INDIGNADOS1 IN SPAGNA2

Febbraio 2011. La crisi dell’euro in Spagna è in pieno svolgimento. La disoccupazione raggiunge il 22 per cento, ma la disoccupazione giovanile in particolare tocca il 47 per cento. Dopo aver ignorato la severità della crisi per molto tempo, sotto la pressione della Germania e del FMI, il governo socialista, rinnegando le promesse elettorali del 2008, si è impegnato ad apportare tagli sempre più pesanti alla spesa pubblica per la sanità, la scuola e i servizi sociali. La priorità è attribuita alla ricapitalizzazione delle banche e alla riduzione di un debito pubblico sempre più alto al solo scopo di preservare l’appartenenza della Spagna all’eurozona. I sindacati sono allo sbando mentre politici e partiti sono diventati oggetto di insofferenza per una ampia maggioranza di cittadini. Un piccolo network di volonterosi a Madrid, Barcellona, Jerez e altre città crea un gruppo Facebook con il nome «Piattaforma di coordinamento dei gruppi per una mobilitazione cittadina». Alcuni di loro sono stati in prima fila nella campagna per difendere la libertà di Internet contro la legge Sinde approvata dal governo per imporre il controllo e la censura sugli Internet Service Provider (ISP) e gli utenti Internet. Reti come x.net, Anonymous e Nolesvotes erano tra i promotori. Altri erano veterani dei movimenti per la giustizia globale. Altri ancora, come Estado del Malestar, Juventud Sin Futuro, Juventud en Accion, Plataforma de Afectados por la Hipoteca ecc. erano ispirati alle lotte diffuse in tutta l’Europa contro le conseguenze sociali della dilagante crisi finanziaria, benché in Spagna la principale critica si appuntasse sulla cattiva gestione della crisi da parte di un sistema politico disfunzionale e irresponsabile. Un incoraggiamento veniva loro dall’esempio dell’Islanda, che aveva dimostrato la possibilità di affrontare con successo la collusione tra banchieri e politici attraverso la mobilitazione di base. Questa piattaforma si è trasformata rapidamente in un gruppo Facebook di dibattito e azione sotto il nome di «Democracia Real Ya» (Democrazia reale ora!), che ha creato un forum, un blog e una email list3. Tuttavia, come ha dichiarato uno dei promotori di DRY, Javier Toret:

La campagna è stata anonima, Democracia Real Ya non era niente. Era un agglomerato di blog, gruppi disparati, persone che venivano da Ley Sinde o Nolesvotes. Democracia Real era un nome che non aveva dietro nessuno, non c’era gente che lo seguisse4.

Il gruppo era basato su una rete decentrata con nodi autonomi in diverse città. In alcuni casi, come a Barcellona, le persone si incontravano ogni domenica mattina. Le adesioni al gruppo Facebook arrivarono a centinaia, e alcuni dei nuovi arrivati partecipavano alle riunioni. Essi denunciavano le carenze della democrazia rappresentativa nella sua forma attuale in Spagna. Secondo loro, i principali partiti politici erano al servizio dei banchieri e non si curavano degli interessi dei cittadini. Seguendo l’esempio delle rivoluzioni arabe, decisero di fare appello alle manifestazioni di piazza. Cogliendo l’occasione delle elezioni amministrative, convocate in tutto il paese il 22 maggio 2011, il 2 marzo invitarono i cittadini a scendere nelle strade domenica 15 maggio per manifestare la loro protesta con lo slogan «Democrazia reale, ora! Conquistate le strade! Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri», e pubblicarono un manifesto:

Siamo persone normali. Siamo come te: gente che si alza al mattino per studiare, andare a lavorare o cercare lavoro, gente che ha famiglia e amici. Gente che lavora duro tutti i giorni per vivere e assicurare un futuro migliore a coloro che ci circondano… Eppure, in questo paese la maggior parte della classe politica non ci ascolta neppure. La loro funzione dovrebbe essere portare la nostra voce alle istituzioni, facilitando la partecipazione politica dei cittadini attraverso canali diretti e procurando il massimo beneficio per la maggior parte della società, non arricchirsi alle nostre spalle obbedendo solo agli ordini dei poteri forti dell’economia e mantenendo una dittatura partitocratica… Siamo persone, non merci. Io non sono solo ciò che compro, perché lo compro e per chi lo compro. Per tutte queste ragioni, sono indignato. Io credo di poter cambiare tutto ciò. Credo di poter dare un contributo. So che insieme possiamo farcela. Vieni con noi. È tuo diritto.

L’appello non era sostenuto da nessun partito politico, sindacato o associazione della società civile, ed è stato ignorato dai media. È stato diffuso principalmente sui social network di Internet: Facebook, Twitter, tuenti ecc. Il 15 maggio, senza nessuna leadership formale ma con un’accurata preparazione che è andata avanti per settimane, decine di migliaia di persone hanno manifestato a Madrid (50.000), Barcellona (20.000), Valencia (10.000) e in altre 50 città, pacificamente, senza nessun incidente di rilievo. Alla fine della manifestazione di Madrid, poche decine di dimostranti si recarono alla Puerta del Sol, la più simbolica delle piazze cittadine, e, grazie anche al clima mite, trascorsero la notte a discutere sul significato di «democrazia reale». A quel punto decisero che non se ne sarebbero andati da Puerta del Sol finché non fossero arrivati a un consenso sul significato dell’espressione: un processo che si rivelò piuttosto lungo. La sera seguente, 16 maggio, molte persone si riunirono in Plaza Catalunya, a Barcellona. In entrambi i luoghi si deliberò di occupare la piazza per dibattere le questioni che non erano state discusse nelle insignificanti campagne elettorali dei candidati alle elezioni municipali che si sarebbero tenute entro pochi giorni. Ognuno dei presenti twittò ai propri amici. Si presentarono centinaia di persone, che poi twittarono a loro volta, con l’effetto che ne arrivarono altre migliaia. In molti portarono i sacchi a pelo, per passare la notte nello spazio occupato. Erano nate le acampadas (accampamenti). Un numero molto maggiore di persone arrivò durante il giorno per partecipare a dibattiti, attività e manifestazioni. Sorsero spontaneamente commissioni di ogni genere. Qualcuno si prese cura degli aspetti logistici, inclusi i servizi igienici, i rifornimenti di acqua e di cibo. Altri pensarono ai collegamenti web, allestendo reti Wi-Fi e connettendosi agli altri spazi occupati in tutta la Spagna e nel mondo. Molti altri organizzarono dibattiti, su qualsiasi tema venisse proposto e per il quale ci fosse l’interesse di qualcuno. Non vi era nessun capo riconosciuto: ognuno/a rappresentava solo se stesso/a e le decisioni erano lasciate all’Assemblea Generale, che si riuniva alla fine di ogni giorno, e alle commissioni che venivano istituite sulle questioni che qualcuno riteneva tali da richiedere un’azione. Oltre 100 città spagnole seguirono l’esempio, scatenando un movimento di occupazioni di massa che si diffuse in pochi giorni a quasi 800 città intorno al mondo, benché meriti di essere segnalato come l’impatto del movimento negli Stati Uniti restasse fino a quel momento limitato. I media nazionali e internazionali parlarono del movimento, anche se rappresentandolo solitamente in modo falsato. La polizia cercò due volte, senza successo, di sloggiare gli occupanti. Il tribunale elettorale dichiarò le occupazioni illegali in quanto interferivano con il «giorno di riflessione» che, secondo la legge, precede il voto. Tuttavia, nelle due occasioni in cui fu minacciato un intervento contro gli spazi occupati, migliaia di persone giunsero a dar manforte agli «accampati», bloccando l’azione della polizia. I partiti politici si preoccuparono delle conseguenze negative per le loro prospettive elettorali se si fossero schierati a oltranza a favore delle operazioni di polizia, e così le occupazioni continuarono, per decisione delle assemblee, anche dopo il giorno delle votazioni. Il movimento aveva ormai vita propria. In un primo tempo fu chiamato 15-M, un nome derivante dalla data della prima manifestazione, ma presto i media resero popolare l’etichetta «indignados», che alcuni nel movimento avevano adottato, forse ispirandosi al titolo del pamphlet (Indignez-vous!) pubblicato pochi mesi prima dal filosofo ed ex diplomatico francese novantatreenne Stephane Hessel, che aveva colpito l’immaginazione dei giovani spagnoli (più dei francesi)5. In realtà, nel paese si era creato un clima generale di indignazione (come nella maggior parte del mondo) contro i politici che pensavano solo a se stessi, e contro le banche che avevano distrutto l’economia con le loro manovre speculative, solo per essere salvate con fondi pubblici, e continuavano a pagare ai loro dirigenti sontuosi bonus, mentre i cittadini normali soffrivano duramente per le conseguenze della crisi in termini di posti di lavoro, salari, servizi, impossibilità di ottenere mutui ipotecari. Il movimento è proseguito sotto forme differenti per diversi mesi, benché la maggior parte delle occupazioni di spazi pubblici si concludesse all’inizio di luglio. Durante il mese di luglio, diverse marce partirono da diversi centri spagnoli per convergere su Madrid il 22. I marciatori attraversarono a piedi città e villaggi, spiegando le ragioni della loro protesta, e durante il tragitto molti altri marciatori si aggiunsero. Quando arrivarono a Madrid, dopo centinaia di chilometri a piedi, furono accolti da folle entusiaste che si aggregarono al corteo nel tratto finale. Il 23 luglio, alla Puerta del Sol, una manifestazione di 250.000 persone riaffermò la determinazione del movimento a continuare la lotta per la democrazia e contro l’iniqua gestione della crisi economica. Le azioni di protesta continuarono durante agosto, compresi alcuni tentativi di rioccupare Puerta del Sol, al punto che centinaia di agenti di polizia dovettero presidiare a loro volta la piazza per diversi giorni per prevenire una nuova occupazione da parte degli indignados. Alla fine di agosto, il governo socialista e il Partido Popular (conservatore), che era all’opposizione, si piegarono all’ultimatum della premier tedesca Merkel, che imponeva di emendare la Costituzione spagnola introducendovi l’obbligo del pareggio del bilancio dello stato allo scopo di rassicurare i mercati finanziari che speculavano contro il debito spagnolo (espediente che in realtà non funzionò). Il paese era in vacanza e il voto ebbe luogo quasi clandestinamente. Gli indignados e le indignadas protestarono davanti al Parlamento, chiedendo un referendum e inscenarono manifestazioni in molte città, ricevendo qualche adesione dai sindacati e dal partito di estrema sinistra che si era anche opposto all’emendamento della Costituzione imposto forzatamente dalla Germania. Gli indignados sfilarono con uno striscione che diceva: «Sindacati, grazie di essere venuti». È stato stimato che abbiano partecipato alle proteste almeno 2,2 milioni di persone con un continuo crescendo tra maggio e ottobre (Blanco 2011). Il 15 ottobre 2011 una manifestazione globale, convocata su Internet per iniziativa di un network di attivisti che si erano incontrati a Barcellona all’inizio di settembre, riunì centinaia di migliaia di manifestanti in 951 città e in 82 paesi in tutto il mondo sotto lo slogan «Uniti per un cambiamento globale». A Madrid i dimostranti furono quasi 500.000 e circa 400.000 a Barcellona. Chi erano questi dimostranti così risoluti? Benché all’origine del movimento vi fossero molti studenti universitari e laureati disoccupati nel gruppo di età 20-35 (come nelle rivoluzioni arabe), a loro si unirono persone di tutti gli ambienti sociali e di tutte le età, con un’attiva partecipazione degli anziani, direttamente minacciati di un peggioramento delle loro condizioni di vita. Inoltre, il movimento raccolse per tutto il 2011 il sostegno della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, dato che, secondo differenti indagini di opinione, almeno tre quarti degli intervistati dichiaravano di essere d’accordo con le critiche e le affermazioni del movimento. Alcune fonti pongono il grado di identificazione con il movimento all’88 per cento (vedi Tabella 1). Tuttavia, all’inizio del 2012 tra coloro che ammonivano «Preoccupiamoci del nostro futuro, perché è quello il posto in cui passeremo il resto delle nostre vite», come recitava uno striscione nella piazza occupata, è comparsa l’incertezza sulla strada da prendere. Questa è la ragione per cui la ricerca e le discussioni sono continuate sui social network di Internet, lo spazio sicuro in cui il movimento è stato immaginato e nuovi progetti sono stati e saranno concepiti.

Tabella 1 L’opinione pubblica nei confronti delle mobilitazioni 15-M in Spagna

Un movimento automediato

Benché l’occupazione dello spazio pubblico urbano sia essenziale per rendere il movimento visibile e per fornire un sostegno alla forma organizzativa fondamentale del movimento – le assemblee locali –, l’origine del movimento e la sua spina dorsale per tutto il corso della protesta non possono essere rintracciati che negli spazi di libertà offerti da Internet. Questa è la ricostruzione di Javier Toret, psicologo e studioso di tecno-politica, che è stato uno dei primi membri del network che ha creato Democracia Real Ya:

Ciò che 15-M ha mostrato è che il popolo può prevalere sul blocco dei media. La capacità di autocomunicazione e autorganizzazione online ha permesso alla gente di prevalere sul blocco dei media. A Barcellona c’era solo un media outlet che presenziava alle conferenze stampa che organizzavamo intorno alle manifestazioni di 15-M, BTV (Barcelona TV). Tutte le fonti di informazione mediatiche sapevano che stavano per avere luogo le manifestazioni del movimento 15-M. Noi le avevamo informate per iscritto, ogni cosa era stata annunciata via Twitter, Facebook, email list… ma non appariva nulla. Le stazioni televisive ci ignoravano completamente, anche i giornali ci ignoravano. C’erano singoli giornalisti che accompagnavano il movimento, per esempio Lali Sandiumenge, che ha un blog in La Vanguardia [http://blogs.lavanguardia.com/guerreros-del-teclado]… Ma generalmente, i principali media o ignoravano o bloccavano la nostra proposta… Ciò che si mostra qui è un tipo di movimento che è post- mediatico. È post-mediatico perché vi è una riappropriazione tecno- politica di strumenti, tecnologie e mezzi di partecipazione e comunicazione che esistono oggi. Questo è il punto a cui si è arrivati oggi. C’è molta gente in questi media. È una campagna virale che è sufficientemente aperta perché chiunque si senta coinvolto e partecipi… Perché qualcosa sia virale online, perché sia mimetico, gli slogan devono avere una loro risonanza. Per esempio, «non siamo merce nelle mani delle banche». Questo slogan ha una risonanza e ha circolato. Era qualcosa a cui chiunque poteva rapportarsi. Con questi slogan la gente ha creato video e ogni genere di segni. Gli slogan iniziali hanno avuto ampia circolazione perché erano anonimi e perché erano di senso comune. Gli slogan non venivano da un partito di sinistra che ha determinate ideologie. [Lo slogan citato] aveva effettivamente una capacità virale, che era mimetica, e ciò lo metteva in grado di usufruire degli strumenti del web 2.0. Ciò ha fatto sì che ognuno diventasse il suo proprio media. Ha fatto sì che migliaia di persone diventassero i distributori mediatici di se stesse. Questa è la ragione per cui si può parlare di movimento post- media. Il movimento ha la capacità di prevalere sui media e creare un evento, e comunicare questo evento… Alcune fonti di informazione hanno attinto ai tweets o a ciò che veniva detto nella pagina Facebook di Acampadasol o DRY per informare il pubblico. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che, con un movimento che è connesso in rete, che non ha capi, è difficile per i media riuscire a raccontare ciò che sta accadendo. I media inizialmente hanno ignorato il movimento, ma quando tutte le piazze di Spagna sono state piene di gente, non hanno avuto altra scelta se non quella di spiegare che cosa stesse accadendo… Sono stati creati molti spazi che funzionavano come fonti di informazione: per esempio, sono comparsi parecchi blog personali che hanno avuto una buona copertura del movimento. Siamo diventati un collettivo che ha avuto la capacità di parlare ognuno per sé senza il filtro dei media. Le fonti di informazione hanno amplificato ciò che abbiamo fatto, nel bene e nel male. C’è stata molta autonomia per cui ognuno ha detto ciò che pensava e sentiva. Il movimento 15-M si è posizionato contro gli intermediari, siano essi politici, mediatici e culturali. Costituisce un attacco diretto all’idea che qualcuno debba fare delle cose al mio posto. Questo è un cambiamento di paradigma della relazione tra cittadini e governi, sindacati, fonti di informazione… Se questo è un movimento che è stato creato in modo paritario da migliaia di persone, quando parla una sola persona sorge una contraddizione. C’è stato un dibattito interno sull’opportunità di avere dei portavoce. L’idea del movimento è che ognuno parla per sé. Non è una persona che decide qualcosa. Ciò rende difficile per le fonti di informazione coprire ciò che sta accadendo. Nel 2001, quando abbiamo cominciato con Indymedia, avevamo un motto: «Non odiare i media, diventa un media». Questo è quanto 15-M ha mostrato. Quando le persone si uniscono diventano più potenti di qualsiasi altra fonte di informazione. Per esempio, il 27 maggio, quando ci hanno caricato in Plaza Catalunya, il movimento ha avuto un’incredibile capacità di comunicare ciò che stava accadendo… Ognuno è diventato un reporter, anche solo per pochi istanti. Ognuno è stato a un certo punto la fonte principale delle notizie. Quando hai molte persone che riportano le notizie, hai un racconto collettivo di ciò che sta accadendo. Si può seguire ciò che sta accadendo via streaming, online, in televisione, in diretta. Chi era là twittava «Venite ad aiutarci», e la gente arrivava. Ciò ha permesso alla gente di captare cose da un medium digitale, sia a casa sia attraverso un telefono cellulare, e di essere in grado di muoversi in città6.

Tuttavia, anche un nuovo medium, per quanto potente e partecipativo, come i social network di Internet sanno essere, non è il messaggio. Il messaggio costruisce il mezzo. Come sostiene Toret, il messaggio è diventato virale perché entrava in risonanza con l’esperienza personale degli individui. E il messaggio più importante era il rifiuto dell’intero complesso di istituzioni politiche ed economiche che determinano la vita delle persone. Perché, come diceva uno striscione a Madrid, «Questa non è una crisi, è che non ti amo più». Ma come è stato trovato il nuovo amore?

Che cosa volevano/vogliono gli indignados?

Il movimento non ha avuto un programma. La principale ragione è che non è mai esistita un’organizzazione formale nota come «il movimento». Ma nelle assemblee che si sono svolte nel corso di molte occupazioni sono state votate numerose petizioni. All’interno del movimento sono state presentate richieste, critiche e proposte di ogni tipo. È stato certamente un movimento contro le banche e gli speculatori, e contro coloro che volevano fare pagare le conseguenze di una crisi finanziaria a coloro che non ne erano responsabili. Nella popolazione nel suo insieme cresceva un acuto senso di ingiustizia che ha trovato espressione nel movimento. Tra il popolo del movimento era diffusa la convinzione che le banche in difficoltà non dovessero essere salvate ma nazionalizzate, come era avvenuto in Islanda, riferimento costante del movimento. Gli indignados pensavano che i dirigenti disonesti dovessero rispondere penalmente del loro operato. Erano unanimemente contrari ai tagli della spesa pubblica decisi dal governo e invocavano invece la tassazione dei ricchi e delle società. Da ogni parte del movimento si denunciava la disoccupazione di milioni di giovani che non avevano prospettive di trovare un lavoro decente. Il 7 aprile 2011, migliaia di giovani hanno dimostrato a Madrid rispondendo all’appello di «Gioventù senza un futuro», una campagna basata su Internet per la difesa dei diritti dei giovani all’istruzione, al lavoro e alla casa. C’è stata anche una protesta contro la crisi degli alloggi in generale e contro la scarsità di abitazioni a condizioni accessibili per i giovani in particolare. Un contingente importante del movimento 15-M era costituito dai giovani coinvolti nella campagna «V de Vivienda» (V per Casa, gioco di parole sul calco di V per vendetta), nei mesi che avevano preceduto il movimento. Ci sono state proteste particolarmente accese contro i pignoramenti e gli sfratti di anziani e di famiglie bisognose, intrappolati dalle banche in mutui subprime che avrebbero dovuto pagare per tutto il resto della loro vita, anche dopo aver perso la casa. C’è stata una chiara critica del capitalismo, espressa nello slogan: «Questa non è una crisi, è il sistema». Ma non è stata sostenuta nessuna specifica proposta per superare il capitalismo o ripristinare la crescita economica. La ragione è che nel movimento molti si opponevano alla nozione di crescita fine a se stessa. Le preoccupazioni ambientaliste erano considerate prioritarie. L’opposizione a una società guidata dai consumi era ben radicata. Per cui, benché la critica del capitalismo in generale, e del tipo di capitalismo finanziario che aveva condotto alla crisi in particolare, fosse condivisa quasi unanimemente, non c’era consenso su quale tipo di economia avrebbe fornito posti di lavoro, abitazioni e decorose condizioni di vita a tutti nel rispetto della sostenibilità ambientale e dell’equità. Ciò non significa che il movimento fosse incapace di generare proposte politiche molto specifiche e altamente sofisticate. In realtà ci fu una grande abbondanza di tali proposte che furono elaborate e discusse in assemblee e commissioni. Tuttavia, poiché il movimento non era organizzato per trovare un accordo su un qualsiasi programma particolareggiato, le proposte, provenienti da persone e località differenti, sono rimaste diversificate tra loro quanto era eterogenea la composizione del movimento. Comunque, nonostante la grande ricchezza di critiche e di rivendicazioni su temi economici e sociali, sulla base delle mie dirette osservazioni ho maturato la profonda convinzione che il movimento sia stato essenzialmente politico. È stato un movimento per la trasformazione della pseudo-democrazia in democrazia reale. Nonostante che l’originaria domanda di Democrazia Reale Ora! sia stata successivamente diluita in un oceano di richieste e di sogni presenti nel movimento, e che Democrazia Reale Ora! sia stato l’innesco, ma non il movimento stesso, il suo manifesto originario è rimasto esplicitamente o implicitamente il nucleo comune del movimento degli indignados. È vero che la crisi è stata espressione del sistema capitalistico e che le banche sono state i grandi accusati. Ma i politici di ogni affiliazione, i partiti, i parlamenti e i governi sono stati complici delle banche, i cui interessi hanno difeso al di sopra di quelli dei cittadini che rappresentavano. Era generale nel movimento la convinzione che i politici vivessero nel loro mondo chiuso e privilegiato, indifferenti ai bisogni del popolo, manipolando le elezioni e la legge elettorale per perpetuare il loro potere come classe politica. «Non ci rappresentano» è probabilmente lo slogan più popolare, ma è certamente quello che esprime l’anima più profonda del movimento. Poiché, se non c’è reale rappresentanza, non c’è neanche democrazia, le istituzioni devono essere ricostruite dalle fondamenta, come in Islanda. A cominciare dal potere giudiziario, completamente politicizzato e parte del sistema di reciproco supporto tra banchieri, politici e alti livelli della magistratura. Questo rifiuto dell’attuale forma di democrazia ha profonde conseguenze per il progetto del movimento poiché implica l’inutilità e l’irrilevanza di elezioni e partiti per difendere gli interessi e i valori dei cittadini. Di conseguenza, il movimento ha assunto un atteggiamento di indifferenza rispetto alla partecipazione elettorale fino a quando non fosse stata attuata una profonda riforma del sistema, a cominciare dalla riforma della legge elettorale che era stata confezionata su misura sulla convenienza dei maggiori partiti attraverso un sistema di rappresentanza non proporzionale che favorisce chi ottiene la maggioranza dei voti (il metodo D’Hondt). In termini positivi, il movimento si è mosso concordemente verso una pluralità di modelli di democrazia partecipativa, a partire dalla democrazia deliberativa che, su Internet, assicura una partecipazione pienamente conscia dei cittadini al consultive decision making, processo decisionale mediante consultazioni, in cui il parere di tutti gli interessati è ricercato e tenuto in considerazione. Le forme di dibattito e decisione all’interno del movimento, che esaminerò più oltre, tendono esplicitamente a prefigurare ciò che la democrazia politica dovrebbe essere nell’intera società. Pienamente consapevole della difficoltà di influenzare la dialettica politica e la prassi di governo nei limiti delle istituzioni esistenti, il movimento, nella sua grande maggioranza, si è posizionato in una prospettiva di lungo periodo. Non si è trattato di creare un programma da presentare per le prossime elezioni, poiché il movimento non ha riconosciuto nessun partito politico come proprio interlocutore. Nella sua ottica, si deve intraprendere una lunga marcia dalla negazione del sistema alla ricostruzione di istituzioni che esprimano la volontà del popolo attraverso un processo di innalzamento della consapevolezza e di deliberazione partecipativa. Questa è la ragione per cui il progetto (o la pluralità di progetti) del movimento si può cogliere meglio nei discorsi dei suoi attori, piuttosto che in petizioni specifiche, indicative più che altro della posizione momentaneamente predominate nelle assemblee locali che le hanno votate.

Il discorso del movimento

Il movimento degli indignados esprime simultaneamente una grande molteplicità e una grande ricchezza di discorsi. Slogan pieni di immaginazione, termini incisivi e densi di significato, espressioni poetiche hanno costituito un ecosistema linguistico espressivo di nuove soggettività. Benché non si possa parlare di un discorso unico, numerosi termini, che connotano modi di pensare, sono apparsi regolarmente negli slogan e nei dibattiti che hanno avuto luogo sia negli accampamenti sia su Internet. Eduardo Serrano (2011) ha costruito, sulla base delle sue osservazioni, una lista dei termini chiave più presenti nel discorso del movimento, caratterizzando ogni termine sia con le sue implicazioni sia con le sue cancellazioni. L’analisi di tali termini, nella mia traduzione, è presentata nella Tabella 2, che fornisce un profilo del movimento attraverso gli orientamenti prevalenti, così come sono rivelati dal suo discorso. Ciò che questa analisi evidenzia è la profondità della trasformazione culturale incarnata nel movimento degli indignados. Benché parzialmente scaturito dalle esistenze precarie di milioni di giovani (il 54 per cento delle persone nel gruppo di età tra i 18 e i 34 anni stava vivendo con i genitori a causa della mancanza di casa e di lavoro), il discorso del movimento esprime la nascita di una nuova cultura economica e politica: una cultura economica alternativa, che il nostro team di ricerca ha studiato a Barcellona nel periodo 2009-2012. Tale cultura si manifesta in pratiche di vita quotidiana che sottolineano il valore d’uso della vita al di sopra del valore commerciale e si impegnano in forme di autoproduzione, cooperativismo, reti di baratto, moneta sociale, banca etica e reti di solidarietà reciproca. La crisi economica ha contribuito ad estendere l’interesse per questa cultura economica alternativa a una parte significativa della popolazione di Barcellona. Queste pratiche erano già da tempo presenti nelle vite di migliaia di persone nello stesso gruppo di età della maggioranza degli indignados (20-35). È la ricerca del significato della vita che spiega perché la maggioranza della popolazione di Barcellona avrebbe preferito lavorare meno, anche se ciò avesse significato essere pagati proporzionalmente di meno (Conill et al. 2012a, 2012b). Il movimento ha esteso i valori presenti in questo progetto economico alternativo alla formazione di un progetto politico alternativo. In entrambi i casi, la costruzione dell’autonomia degli individui e la connessione in rete di questi individui per creare nuove, condivise, forme di vita sono le motivazioni più importanti.

Tabella 2 Implicazioni e cancellazioni di significato nei termini condivisi del discorso del movimento degli indignados

Termine Implica Cancella Comune Autogestione della Proprietà ristretta, comunità, spazio condiviso dicotomia pubblico/privato, detenzione del potere da parte di pochi Consenso Le decisioni risultano Opposizione assembleare dall’interazione tra consenso/dissenso, proposte differenti, rispetto proposizioni di tutte le idee, processo mediatrici, processo decisionale non lineare, non decisionale lineare, voto ma sintesi, risultato risultato inferiore qualitativamente superiore alla qualità delle del processo decisionale proposte originarie dibattute Chiunque Singolarità, cittadini Ognuno, totalità anonimi Senza futuro Adesso, subito Adempimento ritardato, separazione tra mezzi e fini Niente capi Autoregolazione, rete Assegnazione di distribuita, pieno rigidi ruoli sociali, coinvolgimento di tutti predefinizione dei (come nell’interazione soggetti, comando e Internet), anonimato, sottomissione rotazione delle responsabilità Non- Partecipazione, democrazia Delega rappresentazione diretta, politica dell’espressione Non-violenza Legittimità, esemplarità, Efficacia della vera autodifesa, campo di violenza, tirannia forza intangibile derivante del testosterone dalla delegittimazione della violenza degli altri Rispetto Reciprocità, dignità, Sicurezza, nemico autolimitazione, vera cittadinanza Senza denaro La ricchezza è non- Economia della monetaria, disconnessione scarsità, tirannia dal sistema finanziario, finanziaria, austerità monete locali inevitabile, giochi a somma zero Senza paura Insieme possiamo, non Fatalità, paralisi siete soli, la crisi può essere battuta (come in Islanda), creatività Lentezza Co-evoluzione, processi di «Vita all’insegna maturazione graduale della velocità», subordinazione della vita all’accelerazione del capitale Fonte: Eduardo Serrano, 2011. El poder de las palabras: glosario de términos del 15M, [online] Disponibile all’indirizzo Internet: http://madrilonia.org/2011/06/el-poder-de-las-palabras-glosario-de- terminos-del-15m [Accesso effettuato l'8 febbraio 2012]. Traduzione dell’autore.

Un campione di slogan popolari esprime questo sogno di libertà e democrazia nelle parole del movimento: «Un’altra politica è possibile», «Il popolo unito funziona senza partiti», «La rivoluzione era nei nostri cuori e ora vola nelle strade», «Portiamo un nuovo mondo nei nostri cuori», «Io non sono contro il sistema, il sistema è contro di me». Com’è possibile compiere questa trasformazione politica? È possibile restando insieme, pensando insieme, continuando la lotta, invitando la maggioranza a unirsi al movimento: «L’amore per il mondo è ciò che muove i rivoluzionari. Unisciti a noi!». Ci saranno delle difficoltà, ma ne vale la pena: «La barricata chiude la strada ma apre la via», «Scusate il disagio, stiamo cambiando il mondo». E un ammonimento ai poteri costituiti: «Se ci rubate i nostri sogni, non vi lasceremo dormire». Tuttavia, il tema più critico per il movimento è stato come applicare nella propria pratica i principi di democrazia proposti per la società nel suo insieme. Reinventare la democrazia nella pratica: un movimento senza capi, a direzione assembleare

Non c’è stata alcuna decisione formale, ma in pratica tutti sono stati d’accordo, fin dall’inizio del movimento. Non ci sarebbero stati capi né locali né nazionali. Nemmeno dei portavoce accreditati. Ognuno rappresentava se stesso e nessun altro. Questo aspetto ha fatto impazzire i media perché nella tecnica di narrazione dei media in ogni azione collettiva i singoli volti sono ingredienti necessari. La fonte di questo antico principio anarchico, che nella storia è stato solitamente tradito, nel caso del movimento degli indignados non è stata ideologica, benché esso sia divenuto un principio fondamentale attuato dalla grande maggioranza degli attori del movimento. Il principio era presente nell’esperienza delle reti di Internet, in cui l’orizzontalità è la norma e la leadership serve a poco perché la funzione di coordinamento può essere esercitata dalla rete stessa attraverso l’interazione con i suoi nodi. La nuova soggettività è emersa nella rete: la rete è diventata il soggetto. Il rifiuto dei capi è stato anche la conseguenza delle esperienze negative che alcuni degli attivisti più anziani avevano subito nel movimento per la giustizia globale e nelle varie organizzazioni radicali di estrema sinistra. Ma nasceva anche dalla profonda sfiducia in qualsiasi leadership politica organizzata, fondata sull’osservazione della corruzione e del cinismo che hanno caratterizzato i governi e i partiti tradizionali. Questa ricerca di autenticità da parte di una generazione che è giunta alla politica rifiutando la realpolitik definisce una caratteristica fondamentale del movimento, anche se talvolta criticata dall’interno del movimento stesso, da parte di militanti di vecchio stampo, come «buonismo». Tuttavia, la pretesa di legittimità nella costruzione di una nuova forma di politica poteva essere credibile solo se praticata nell’attività quotidiana del movimento. La concretizzazione organizzativa di questo principio è consistita nell’attribuire ogni potere di decisione in questioni che avrebbero coinvolto l’intero collettivo all’Assemblea Generale, che avrebbe rappresentato le persone accampate in una data località, come pure chiunque si fosse unito all’accampamento al momento dell’assemblea. Le assemblee avrebbero dovuto riunirsi giornalmente, a parte le riunioni di emergenza. Il numero dei partecipanti variava con la dimensione dell’accampamento, ma a Madrid e a Barcellona poteva andare da alcune centinaia a due o tre mila persone in momenti particolari. Le decisioni dell’assemblea avevano un potere soltanto simbolico, poiché ogni persona era sempre libera di decidere per proprio conto. Ma la principale questione era come pervenire a una decisione. In molti accampamenti, il movimento cercava di raggiungere una decisione mediante consenso, parlando e discutendo finché, dopo aver soppesato educatamente e rispettosamente (per ore) gli argomenti pro e contro, tutti fossero d’accordo. Per evitare il rumore eccessivo e le interruzioni, si è fatto ricorso a un linguaggio dei gesti (adattato dal linguaggio dei sordi) per segnalare approvazione o disapprovazione, o per chiedere all’oratore di stringere. Le assemblee erano moderate da volontari che si avvicendavano regolarmente in questi ruoli, non tanto per impedire l’ascesa di leader quanto per evitare l’eccessivo affaticamento che deriva dal compito. Benché i dibattiti non avessero l’acrimonia spesso riscontrata nelle discussioni dei movimenti sociali, nella maggior parte dei casi osservati dal nostro team si avvertiva una pressione collettiva esercitata dai partecipanti contro ogni tentativo di ideologi o di aspiranti leader di usare l’assemblea per la loro propaganda. Dopo molti giorni di esperienza, nel movimento si è cominciato a dibattere sulla necessità di raggiungere una decisione collettiva su specifiche proposte con un voto a maggioranza semplice, dopo aver integrato quanti più contributi differenti fosse possibile. In effetti, il principio dell’unanimità consentiva a gruppi minoritari di bloccare ogni decisione attraverso il ricorso a manovre ostruzionistiche per imporre una posizione prestabilita. Il movimento riapprese vecchie lezioni della storia, come l’importanza di riconoscere i diritti delle minoranze senza sottostare ai loro ricatti. La contraddizione tra dibattito ed efficiente implementazione fu affrontata creando molte commissioni con il compito di tradurre gli orientamenti generali ricavati dall’assemblea in iniziative specifiche. In realtà, le commissioni erano completamente autonome e anch’esse dovevano vagliare differenti proposte per raggiungere un accordo su che cosa dovesse essere fatto. Inoltre, chiunque poteva proporre la creazione di una commissione su un argomento specifico, dalle iniziative agro- ecologiche alla assistenza all’infanzia e alla riforma della legge elettorale. Alcune commissioni erano funzionali alle esigenze correnti del movimento, facendosi carico di provvedere a servizi igienici, sicurezza, comunicazioni ecc. Altre si concentravano sull’elaborazione di proposte sulla varie questioni da sottoporre all’assemblea. Altre ancora organizzavano l’azione volta a mettere in pratica alcune di quelle proposte, come per esempio la commissione per il blocco degli sfratti. Le commissioni restavano attive finché qualcuno continuava a occuparsene, per cui apparivano e scomparivano a seconda dell’evoluzione del movimento. Nel caso di Barcellona, hanno avuto vita più lunga quelle che riflettevano sulle forme del movimento, elaborando strategie su come implementare i principi della democrazia partecipativa nella pratica quotidiana. La possibilità che il movimento organizzasse questo nuovo sistema di rapporti politici dipendeva materialmente dall’occupazione di spazio pubblico: dall’esistenza di accampamenti che, sebbene fossero occupati nottetempo solo da una piccola minoranza, formavano l’ambiente alla contro-società che materializzava i sogni di democrazia reale. Tuttavia, era chiaramente impossibile mantenere questa occupazione indefinitamente. E ciò a causa non solo dei problemi logistici e dell’assillo della polizia, ma anche per il processo di degradazione della vita negli accampamenti. Nelle città spagnole, come in tutto il mondo, un realtà drammatica è costituita dai senzatetto, le persone che non hanno più una casa. Solo una parte di essi è affetta da gravi problemi psichiatrici, ma è una parte altamente visibile e molti di loro finivano negli accampamenti degli indignados, dove si sentivano protetti. Ciò ha creato un grosso problema per il movimento, in Spagna come in quasi tutte le occupazioni che ho conosciuto in altri paesi. Da una parte, l’immagine che la presenza di senzatetto nell’accampamento proietta sul 99 per cento degli occupanti (che sono un referente del movimento) rende impossibile per il complesso della popolazione identificarsi con gli accampamenti degli indignados. D’altra parte, sono molto pochi gli occupanti che sarebbero disposti a vietare la presenza di chicchessia nell’accampamento, perché questo sarebbe in contraddizione con i principi inclusivi del movimento. Ma il problema più importante che il movimento ha dovuto affrontare proseguendo l’occupazione di spazio pubblico è che, con il passare del tempo, solo attivisti a tempo pieno potrebbero partecipare alle assemblee e gestire i compiti quotidiani del movimento. Solitamente si trattava di giovani senza responsabilità di famiglia, senza occupazione e dediti quasi esclusivamente al movimento. Quanto più si prolungano le occupazioni, tanto più il movimento finisce con l’identificarsi con una piccola minoranza di attivisti, che è lungi dall’essere rappresentativa dei cittadini che vorrebbe mobilitare. Questa è la ragione per cui, dopo sei o otto settimane, in media, la maggior parte delle assemblee ha votato per porre fine agli accampamenti e continuare il movimento in altre forme. Pochi hanno optato per restare nelle piazze, ma sono diventati un facile bersaglio della polizia, che alla fine, verso la metà di agosto, ha rimosso tutte le occupazioni. In molte città, il movimento ha deciso di decentrare la sua attività a livello di quartiere e di organizzare assemblee a livello locale, rappresentando gli interessi dei residenti secondo lo stesso modello di dibattito e decisione democratica. Le commissioni hanno continuato a formarsi spontaneamente per condurre campagne o semplicemente per elaborare proposte che venivano poi diffuse su Internet e dibattute in forme e sedi differenti. Tuttavia, i principi organizzativi fondamentali – rifiuto di leader eletti, sovranità delle assemblee, spontaneità e autogestione delle commissioni – hanno continuato a operare ovunque. Lo stesso si può dire dei problemi di funzionalità e di efficienza che hanno afflitto il movimento, imponendo una profonda riflessione sul significato di efficienza e di risultato in una pratica collettiva mirante a cambiare le vite, oltre che a soddisfare esigenze o difendere diritti.

Dal dibattito all’azione: la questione della violenza

Un popolare slogan degli hacker dice: «Non proporre, fallo!». Questo è quanto il movimento si è proposto di mettere in atto. Ha cominciato gridando la sua indignazione nelle manifestazioni di strada, la più vetusta forma di azione collettiva. Successivamente, occupando spazi pubblici in molte città in tutto il paese, ha affermato la sua determinazione ad affrontare l’arroganza del potere che aveva risposto alla protesta con una combinazione di disprezzo e operazioni di polizia. Si è posta immediatamente la questione dei modi e dei mezzi da usare per raggiungere gli obiettivi del movimento. Poiché vi era una totale sfiducia nel sistema politico, il movimento non ha fornito alcuna indicazione su cosa fare alle elezioni, neanche quella di astenersi o votare scheda bianca. Ognuno era libero di seguire le proprie valutazioni sulle tattiche di voto. Data l’assenza della politica istituzionale dagli orizzonti del movimento, questo ha dovuto ricorrere ad altre forme di azione. Si sono svolte innumerevoli manifestazioni di piazza e cortei che hanno attraversato in ogni direzione la Spagna e l’Europa. Sono state condotte numerose azioni contro le ingiustizie: blocchi fisici degli sfratti dalle case pignorate per il mancato pagamento delle rate del mutuo; protezione di immigranti dalle persecuzioni della polizia; rifiuto di pagare la metropolitana per protestare contro gli eccessivi aumenti delle tariffe; varie forme di disobbedienza civile e manifestazioni davanti agli edifici governativi, agli uffici della Commissione Europea, alle sedi centrali delle banche, ai servizi delle agenzie di rating e simili. Tuttavia, sin dalle prime fasi del movimento, è stato chiaro che la principale azione concerneva un innalzamento del livello di consapevolezza tra i suoi partecipanti e nella popolazione. Le assemblee e le commissioni non si riunivano per preparare azioni rivoluzionarie: esse non erano mezzi ma un fine in sé. Riunirsi per comprendere le iniquità del sistema, osare affrontarlo grazie alla sicurezza offerta da uno spazio condiviso, su Internet e nelle piazze, è stata la forma di azione più significativa del movimento. Se doveva essere intrapresa una lunga marcia, era importante condividere emozioni e conoscenze tra i manifestanti e la popolazione. Le prime assemblee sono state commoventi: le persone erano capaci di esprimersi liberamente, di suscitare attenzione e rispetto. Ho personalmente sentito una donna anziana che telefonava a casa da una panchina nei pressi dell’assemblea di Plaza Catalunya a Barcellona: raccontava quasi in lacrime che aveva veramente parlato nella riunione e che l’avevano ascoltata. E aveva aggiunto: «Non mi era mai successo in tutta la vita, questa era la prima volta che parlavo in pubblico». Solo dire ad alta voce e collettivamente ciò che ognuno aveva tenuto dentro per tanti anni era un gesto liberatorio che rendeva il movimento, almeno a breve termine, più espressivo che strumentale. Poiché sappiamo che le emozioni sono i motori dell’azione collettiva, questa potrebbe essere una chiave del futuro cambiamento sociale, un tema importante che affronterò più oltre. Per andare più in là nell’azione non istituzionale, impegnandosi pienamente nella disobbedienza civile, il movimento avrebbe dovuto osare affrontare le possibili conseguenze dello scontro: la possibilità della violenza. Occupando lo spazio pubblico, i manifestanti si sono esposti alla repressione poliziesca. Gli episodi di violenza da parte della polizia sono stati numerosi in diverse città. Un episodio particolarmente grave ha avuto luogo a Barcellona il 27 maggio. Un’operazione combinata tra la polizia del governo catalano (agli ordini del ministro degli Interni Felip Puig, del partito nazionalista) e la polizia della municipalità (agli ordini della socialista Assumpta Escarp, ex vice-sindaco con delega alla sicurezza) ha attaccato all’alba l’accampamento di Plaza Catalunya con il pretesto di ripulire la piazza. Gli occupanti si sono seduti pacificamente, rifiutando di andarsene, e sono stati caricati ripetutamente per sei ore, con il risultato di 147 feriti, molti dei quali gravi. La scena, in cui persone che non opponevano resistenza venivano spietatamente manganellate a sangue, è stata visibile in streaming su Internet e poi trasmessa dalla TV, suscitando una nuova ondata di indignazione. Nel pomeriggio oltre 20.000 persone hanno manifestato solidarietà per le vittime e rioccupato la piazza mentre la polizia si ritirava. Sentendosi forti di una tale dimostrazione di sostegno, alcuni componenti del movimento di Barcellona hanno deciso di alzare il tiro dell’offensiva bloccando l’entrata del Parlamento catalano il 15 giugno, il giorno in cui i parlamentari dovevano votare i tagli della spesa pubblica. Diverse centinaia di dimostranti hanno cercato di bloccare l’entrata, insultato, spintonato e imbrattato di vernice alcuni parlamentari. La polizia aveva infiltrato nella folla agenti camuffati da manifestanti, e alcuni osservatori considerano il fatto una provocazione. Ne è seguita una violenta repressione poliziesca, conclusa con nuovi feriti, arresti e incriminazioni. Questi incidenti sono stati distorti e ampiamente riportati dai media, accreditando l’immagine di un movimento radicale e violento. Molti hanno pensato che fosse giunta la fine del movimento. In realtà, queste tattiche degradanti hanno avuto l’effetto opposto a quello sperato. Pochi giorni dopo, il 19 giugno, il movimento ha proclamato una manifestazione di protesta contro la violenza della polizia e di rilancio delle proprie richieste che ha fatto scendere nelle strade di Barcellona 200.000 persone. Il movimento è sopravvissuto alla prova del fuoco della sua popolarità. Tuttavia, nel movimento è cominciato un dibattito sul ruolo dell’autodifesa, compresa la difesa fisica, come forma di azione. Dopotutto, qualcuno ha sostenuto, la violenza è nel sistema: è nella sistematica brutalità della polizia contro i giovani; è nella tortura che, com’è attestato da alcune sentenze passate in giudicato, viene praticata sporadicamente dalla polizia; è nella negazione di posti di lavoro decenti e di case a prezzi accessibili per i giovani; ed è nella mancata risposta di governo e Parlamento alla profonda insoddisfazione dei cittadini. E tuttavia, veniva riaffermato come un assioma del movimento che la nonviolenza era essenziale. In primo luogo, perché la violenza, amplificata dai media, anche quando non è provocata dai manifestanti, alienerebbe il sostegno della popolazione. Ma, più fondamentalmente, opporsi alla violenza, sotto tutte le sue forme e indipendentemente dalla sua origine, è un principio basilare della nuova cultura di pace e di democrazia che il movimento vuole propagare. Di conseguenza, la disobbedienza civile, anche in forme audaci, come bloccare edifici mediante sit in davanti alle entrate o incatenarsi a cancelli, è considerata appropriata. Ma non è mai corretto impegnarsi in forme di violenza attiva e neanche reagire alle aggressioni violente da parte della polizia. La questione della violenza è stata discussa nelle assemblee e ha ricevuto sempre la stessa risposta dalla grande maggioranza del movimento. Praticare la violenza, anche se giustificato, contraddice la stessa ragion d’essere del movimento e significa tornare indietro alle vecchie tattiche delle azioni rivoluzionarie, che rinunciavano all’integrità etica pur di dare libera espressione alla collera ma finivano per produrre un male uguale a quello che volevano combattere7. Quello degli indignados era ed è un movimento pacifico il cui coraggio ha permesso la delegittimazione della repressione violenta, ottenendo così una prima importante vittoria nel cuore dei cittadini.

Un movimento politico contro il sistema politico

Se dovessimo identificare un obiettivo unificante del movimento, potremmo ravvisarlo nella trasformazione del processo politico democratico. Sono state concepite molte differenti versioni della democrazia e dei modi per realizzarla. Uno dei temi più popolari è stato la riforma della legge elettorale, allo scopo di renderla proporzionale e di ottenere un’adeguata rappresentanza delle minoranze politiche. Ma sono state formulate anche proposte di referendum obbligatori, di meccanismi di consultazione e di partecipazione nel processo decisionale sia a livello locale sia su Internet. Nelle assemblee e in commissione sono stati proposti e discussi temi quali la lotta contro la corruzione, la limitazione del numero dei mandati per le cariche elettive, i tetti per gli stipendi, l’eliminazione dei privilegi (compresa l’eliminazione dell’immunità giudiziaria per i membri del Parlamento) e una miriade di misure per fare pulizia nel sistema politico e aprirlo ai cittadini. L’idea era che senza istituzioni politiche veramente democratiche, nessuna politica o decisione progressista adottata sarebbe mai stata attuata, poiché i politici non avrebbero dovuto rispondere del loro operato ai cittadini e avrebbero continuato a servire il potere costituito. Dunque, si è trattato di un movimento politico, ma di un movimento politico non di parte, senza affiliazione o simpatia nei confronti di alcun partito. È stato ideologicamente e politicamente plurale, anche se nei suoi ranghi militavano individui di molte ideologie, come pure una maggioranza di giovani con scarse esperienze politiche precedenti e una totale sfiducia nella politica organizzata. Tuttavia, se il movimento è stato politico, il suo intento non è stato operare attraverso il sistema istituzionale, poiché nella grande maggioranza riteneva che le regole istituzionali della rappresentanza fossero state manipolate. Di conseguenza, anche se sono state proposte alcune riforme, si è trattato più di un esercizio pedagogico per connettersi alla popolazione nel suo complesso che una reale speranza di cambiare il sistema politico. Creare un partito, o dei partiti, per esprimere le aspirazioni del movimento è un’ipotesi che non è mai stata presa in considerazione. Sì, altre politiche sarebbero possibili, ma non adesso e non attraverso i canali stabiliti da coloro che vogliono limitare entro stretti confini il processo della rappresentanza democratica. I partiti politici non hanno saputo confrontarsi con il movimento. In pratica sono stati ostili e hanno usato la repressione poliziesca, con gradi diversi di violenza, contro l’occupazione dello spazio pubblico. Sono stati particolarmente esasperati dai tentativi di bloccare il Parlamento, giungendo fino a denunciare queste azioni come un attacco fascista alla democrazia. Nello stesso tempo, ai partiti (in particolare i Socialisti e la Sinistra Unita, cioè gli ex comunisti), le mobilitazioni di massa sono sembrate un’opportunità per incrementare i loro magri effettivi, dopo che le giovani generazioni avevano rinunciato a ogni speranza di farsi rappresentare dai partiti tradizionali. I socialisti, il partito al governo nella fase iniziale del movimento, durante la campagna elettorale hanno espresso un sostegno a parole, e in termini piuttosto ambigui, ad alcune delle rivendicazioni del movimento, che però si sono rimangiati dopo la schiacciante sconfitta elettorale del novembre 2011. Il partito conservatore, dopo aver assunto un atteggiamento cauto durante il periodo elettorale, in modo da non alienarsi alcuna fetta di elettorato, appena insediatosi al potere, ha insultato gli indignados chiamandoli «un miscuglio di rivoluzionari radicali, di anarchici violenti e ingenui gregari». La Sinistra Unita ha espresso una certa simpatia per gli indignados e questo atteggiamento benevolo le è valso un incremento dei voti, ma la sua scelta è apparsa puramente tattica alla maggior parte del movimento, consapevole della sfiducia di fondo con cui la tradizione comunista può guardare a un movimento senza capi né programmi, la cui natura libertaria è stata storicamente inconciliabile con il ruolo di avanguardia del partito. In conclusione, vi è stata una quasi totale reciproca estraneità tra il movimento e il sistema politico, sia sul piano organizzativo sia su quello ideologico. Tuttavia, anche se il movimento ha ignorato il processo elettorale (salvo intervenire nei dibattiti per alzare il livello di consapevolezza dei cittadini) e ha considerato i risultati delle votazioni irrilevanti per il futuro della democrazia, esso sembra avere avuto un impatto sulle elezioni. In Spagna nel 2011 si sono svolte due tornate elettorali: le elezioni amministrative del 22 maggio – precisamente le elezioni che sono state usate dal movimento nascente per scatenare la sua critica della democrazia – e le elezioni politiche del 20 novembre. Al momento in cui questo libro veniva scritto gli studi rigorosi sull’impatto elettorale del movimento erano piuttosto pochi. Tuttavia, esistono numerose osservazioni che sono rilevanti per la nostra analisi. Lo studio di Jimenez Sanchez (2011) sulle elezioni amministrative rileva il più forte aumento delle schede bianche e nulle dal 1987, con un incremento del 37 e del 48 per cento rispettivamente sulle precedenti elezioni amministrative del 2007. Vi è stato anche un incremento dei voti per Sinistra Unita. Questi trend erano correlati con le città in cui il movimento aveva avuto una presenza più forte. Anche i conservatori, i nazionalisti moderati catalani e i candidati per l’indipendenza basca hanno accresciuto i suffragi. L’impatto combinato di questi voti è stato risentito negativamente dal Partito Socialista, che ha perso il 19 per cento dei voti rispetto al 2007, subendo la più grave sconfitta nelle elezioni amministrative della sua storia (tra l’altro, ha perso la municipalità di Barcellona che governava da trent’anni). Le elezioni parlamentari del 20 novembre hanno segnato una vittoria clamorosa per il Partito Popolare (PP), che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Ciò è stato considerato dai conservatori, come pure dai media da loro influenzati, come un rifiuto dei valori del movimento da parte di una maggioranza silenziosa di elettori. In realtà, uno sguardo più ravvicinato ai risultati elettorali suggerisce un’interpretazione differente (Molinas 2011). Il fattore fondamentale nelle elezioni è stato il collasso del Partito Socialista, che ha perso 4.300.000 voti rispetto alle precedenti elezioni del 2008, mentre il Partito Popolare ha ottenuto solo 560.000 voti in più rispetto al 2008. I restanti sono andati a partiti minori che, con un’unica eccezione, hanno aumentato in misura sostanziale i loro suffragi. In realtà, con i voti ottenuti nel 2011, il Partito Popolare avrebbe perso le elezioni del 2004 e del 2008. È stata quindi la sconfitta dei socialisti, non la vittoria dei conservatori, a dare al Partito Popolare il controllo del Parlamento a causa dell’effetto distorsivo della legge elettorale che favorisce marcatamente chi ottiene la maggioranza dei voti. Dunque, benché questa analisi debba essere confermata da futuri studi, sembra che il principale impatto del movimento sul sistema politico sia stato infliggere un danno grave e durevole al PSOE, il partito che, nella maggior parte delle elezioni, ha dominato la politica spagnola dal 1982. Non si è trattato di una strategia deliberata da parte del movimento. È stata piuttosto la conseguenza di una spontanea reazione di distacco dell’elettorato giovanile, che aveva reso possibile la vittoria socialista nel 2004, nella scia del movimento contro la guerra in Irak e contro le manipolazioni dell’informazione sugli attacchi terroristici operate dal primo ministro conservatore Aznar (Castells 2009, pp. 349-361). Il voto conservatore non è stato influenzato dal movimento a causa della fedeltà degli elettori conservatori al loro partito e della generale diffidenza ideologica verso le proteste popolari. In realtà, i partiti socialisti che hanno basato la loro legittimazione storica sulla pretesa di rappresentare i lavoratori e la società civile piuttosto che le imprese e le élite sociali, stanno in piedi finché la loro base elettorale è convinta di poter ancora contare su di loro. Poiché è diventato chiaro, grazie alle proteste del movimento, che il governo socialista era più interessato a salvare le banche e a seguire le prescrizioni del cancelliere tedesco Angela Merkel che ad aiutare i giovani e a salvaguardare il welfare state, la disaffezione politica contro il sistema si è concentrata sui socialisti. Questi hanno perso gran parte delle posizioni di potere istituzionale che detenevano in tutto il paese e, secondo la maggioranza degli osservatori, nell’ipotesi più ottimistica, occorrerà molto tempo perché si riprendano da questa schiacciante disfatta. La Sinistra Unita (ex comunisti) ha migliorato considerevolmente i suoi risultati elettorali, più che triplicando i propri seggi. Tuttavia, questa prova impressionante della capacità di ripresa dei comunisti si è tradotta in pratica in 11 seggi in parlamento su 350. In realtà, ciò che il voto ha mostrato è che la nuova politica presente nel movimento e la vecchia politica presente nelle istituzioni sono disconnesse nella mente dei cittadini, che alla fine dovranno decidere se osare riconciliare i propri sentimenti con il voto.

Una rivoluzione rizomatica8

Dopo mesi di intensa attività, dopo una mobilitazione che ha portato centinaia di migliaia di persone a manifestare nelle strade, dopo gli accampamenti che hanno radunato migliaia di persone e connessioni in rete con movimenti analoghi in tutto il mondo, l’impatto misurabile degli indignados in Spagna è sembrato modesto: poche delle loro proposte sono diventate pratica politica concreta, il loro principale impatto è stato contribuire alla quasi distruzione del Partito Socialista, e i loro sogni sono rimasti sogni. Numerose azioni contro gli sfratti o di denuncia degli abusi istituzionali hanno incontrato la simpatia dell’opinione pubblica, ma non sono state sufficienti a cambiare l’avidità dei proprietari di case, la fredda determinazione dei creditori nel far rispettare i loro contratti o la burocratica applicazione delle leggi sull’ordine pubblico da parte delle autorità. Sì, ci sono state, e ci sono, centinaia di assemblee autonome che si sono riunite con periodicità variabile nelle città e nei quartieri in tutto il paese. Si propaga su Internet un incessante brusio – dibattiti, idee, progetti – pur senza coordinamento tra le differenti voci del movimento. Ma tra i più attivi componenti del movimento si è diffuso un certo disagio. Il 19 dicembre 2011, la Commissione per l’estensione internazionale dell’accampamento Puerta del Sol di Madrid ha preso una decisione simbolica: i suoi membri si sono astenuti dall’attività, dichiarandosi «in sciopero» e in una situazione di «riflessione attiva a tempo indeterminato». La ragione:

Il 15-M sta perdendo adesioni, lo vediamo nelle manifestazioni, nelle assemblee, nei quartieri, nelle attività, su Internet… è venuto il tempo di fermarci e rivolgere a noi stessi alcune domande cruciali… Abbiamo dimenticato di ascoltarci l’un l’altro? Stiamo riproducendo le forme del vecchio tatticismo che si sono dimostrate inutili perché escludono tanta parte della popolazione?… Il successo del movimento dipende dall’essere di nuovo il 99%… Viviamo in un momento storico unico, in cui possiamo cambiare il mondo, e non possiamo lasciarcelo sfuggire… La nostra speranza è quella di essere capaci di uscire dalle nostre assemblee, di stare insieme di nuovo fuori degli ambiti ristretti delle commissioni e dei gruppi di lavoro, a respirare di nuovo aria fresca e a costruire un percorso comune. Un percorso che ci consenta di recuperare le forze che abbiamo avuto e di scrollarci di dosso chi sta sopra (www.actasmadrid.tomalaplaza. net/?p=2518).

Questa è stata una chiara manifestazione del carattere autoriflessivo di un movimento che ha reinventato la politica e non vorrebbe arrendersi alla tentazione di diventare un’altra forza politica, rifiutando al tempo stesso di accettare il ruolo di voce critica senza influenza sul complesso della società. La domanda per molti è stata: e adesso che cosa si fa? Hanno cominciato a circolare proposte, tra cui quella di fare del 12 maggio 2012 una giornata di azione globale coordinata per riprendere la lotta contro un ordine sociale ingiusto. Ma vi era una questione prioritaria da considerare: che cosa ha realizzato finora il movimento, la più vasta mobilitazione autonoma avvenuta in Spagna in molti anni? La risposta più diretta è che la vera trasformazione stava avvenendo nelle menti delle persone. Se le persone pensano in modo diverso, se mettono in comune la propria indignazione e custodiscono la speranza di cambiare, la società alla fine cambierà secondo i loro desideri. Ma come facciamo a sapere che questo cambiamento culturale sta veramente accadendo? Un’approssimazione molto grossolana si può ricavare dai sondaggi di opinione che misurano l’atteggiamento della popolazione spagnola verso il movimento (Zoom Politico 2011; Metroscopia, diverse indagini, 2011; Simple Lógica 2011). Dalla prima indagine risalente al maggio 2011 all’ultima al momento in cui scriviamo, condotta nel novembre 2011 (accesso, 18 gennaio 2012), si ricava concordemente che circa tre quarti degli spagnoli nutrivano simpatia nei confronti del movimento e condividevano la sue idee principali riguardanti la critica del sistema politico, la responsabilità delle banche nella crisi e numerosi altri temi. Il 75 per cento degli intervistati considerava il movimento una fonte di rigenerazione della democrazia. Tuttavia, il 53,2 per cento dei rispondenti non riteneva che il movimento avesse contribuito a cambiare la situazione: la crisi continuava e nella politica corrente non era cambiato nulla (www.simplelogica.com/iop/iop11002.asp). In effetti, questa era una valutazione corretta della situazione. Insomma, il movimento dà chiaramente voce alle emozioni e alle opinioni della gente in generale. Non rappresenta una protesta marginale e rifiuta di essere rinchiuso in un ghetto ideologico radicale. Le sue idee si sono diffuse e sono accolte dalla maggioranza delle persone perché la gente si identifica con il senso di frustrazione di cui parla il movimento. Ma i modi per collegare queste emozioni a un’azione che conduca al cambiamento materiale delle condizioni di vita delle persone e delle istituzioni sociali devono ancora essere esplorati. Perché la nuova politica è esattamente questo. La sincera ricerca intrapresa dalla maggior parte del movimento è ancora un work in progress. Tuttavia, in alcuni dei circoli del movimento è anche in corso un dibattito significativo, ed è la critica di quella che molti chiamano una «visione produttivistica dell’azione sociale»: se non si è realizzato niente di concreto, è stato un fallimento. La tesi è che in tal modo si riproduce la logica capitalistica nella valutazione del movimento. Interiorizzando l’imperativo della produttività, in realtà ci si muoverebbe in una prospettiva autolesionista in relazione agli obiettivi originari di profonda trasformazione sociale. Poiché, se deve essere ottenuto un preciso risultato, allora non c’è scappatoia rispetto all’esigenza di un programma, una strategia, un’organizzazione e un piano di azione che vada da A a B. Queste sono tutte cose che indignadas e indignados hanno rifiutato perché sanno per esperienza o sentono intuitivamente dove conducono: a una nuova forma di democrazia delegata e alla rinuncia al significato della vita in nome della razionalità economica. Così, un sentimento sereno di pazienza si è fatto strada in molti attivisti. Ricostruiamo noi stessi dall’interno, dicono, senza aspettare che il mondo cambi per trovare la gioia di vivere nella nostra pratica quotidiana. Adesso è inverno, la primavera verrà. La primavera è la stagione della vita e della rivoluzione. Noi ci saremo. Verranno momenti di crisi e momenti di lotta, momenti di sofferenza e momenti di eroismo. E momenti esaltanti quando nuove strade si aprono e milioni si uniscono a noi perché intimamente lo desiderano, non perché hanno alienato la loro libertà a una qualunque bandiera innalzata per loro conto. Per una profonda corrente autoriflessiva del movimento, ciò che importa, più che il prodotto, è il processo. Anzi, il processo è il prodotto. Non che il prodotto finale (una società nuova) sia irrilevante. Ma questa nuova società emergerà dal processo, non da un progetto predefinito di ciò che dovrebbe essere. Questa è la vera trasformazione rivoluzionaria: la produzione materiale di cambiamento sociale a partire non da obiettivi programmatici, ma dalle esperienze messe in rete degli attori del movimento. Questa è la ragione per cui le assemblee «inefficienti» sono importanti: perché sono le curve di apprendimento della nuova democrazia. Questa è la ragione per cui le commissioni esistono e muoiono a seconda non della loro efficacia, ma dell’impegno delle persone che contribuiscono con il loro tempo e le loro idee. Questa è la ragione per cui la non-violenza è una pratica fondamentale: perché un mondo nonviolento non può essere generato dalla violenza, e tanto meno dalla violenza rivoluzionaria. Poiché ritengono che questa logica non-produttivista sia la più importante trasformazione mentale realizzata nel movimento, gli indignados accettano la lentezza del processo e pongono se stessi in una prospettiva di lungo periodo, perché la lentezza è una virtù: essa consente l’autoriflessione, rende possibile correggere gli errori e offre spazio e tempo per godere il processo attraverso il quale avviene il cambiamento del mondo come un preludio alla celebrazione del nuovo mondo nel suo farsi. «Siamo lenti perché andiamo lontano» è stato uno degli slogan più popolari del movimento. In questo lungo viaggio, i tempi si alternano, talvolta accelerando e poi, in altri momenti, rallentando. Ma il processo non si ferma mai, anche se per un tratto può restare inosservato. Le radici della nuova vita si spargono ovunque, senza un piano centralizzato, ma muovendosi e interconnettendosi, mantenendo l’energia fluida, aspettando la primavera. Perché questi nodi sono sempre connessi. Ci sono i nodi delle reti di Internet a livello locale e globale, e ci sono reti personali, che vibrano con la pulsazione di un nuovo tipo di rivoluzione, il cui atto più rivoluzionario è l’invenzione di se stessa.

Note

1. Nel movimento spagnolo si è sviluppata una discussione sulla sua denominazione. La maggior parte dei suoi aderenti lo chiama semplicemente «il movimento». Un nome spesso usato è «15-M», un termine neutro che designa la data della prima grande manifestazione che inaugurò la protesta in tutto il paese il 15 maggio 2011. Ho scelto il nome «indignados/as» perché questo è il termine più spesso usato dalla gente in Spagna e nel mondo per designare il movimento spagnolo, dopo che il nome inizialmente circolante su Internet – #spanishrevolution – ha cessato di essere usato. Indignados è un termine largamente usato dai media perché più orecchiabile e suggestivo. Alcuni attivisti non lo amano perché si riferisce solo all’indignazione e non alla dimensione positiva, propositiva del movimento, ma questo doppio carattere è chiaro nel testo della mia analisi. Secondo quanto ho osservato direttamente, la maggior parte dei simpatizzanti del movimento fa riferimento al termine indignados, perché essi vi colgono un’eco dei loro stessi sentimenti. Infine, ho usato sistematicamente il termine al femminile (indignadas) per seguire la consuetudine del movimento di rovesciare la connotazione a dominanza maschile del linguaggio. [Nella traduzione italiana, conformemente all’uso corrente sia nei media tradizionali sia su Internet, è stato usato prevalentemente il termine indignados. N.d.T.] 2. Lo studio presentato in questo capitolo si basa in larga misura su ricerche sul campo, osservazione partecipante e interviste curate dal nostro team di ricerca sulle culture alternative presso la Universitat Oberta de Catalunya di Barcellona, una squadra formata da Amalia Cardenas, Joana Conill e da me. Amalia e Joana hanno effettuato la maggior parte del lavoro sul campo e le interviste. Abbiamo anche seguito il movimento attraverso servizi giornalistici e resoconti su Internet. Due interviste, condotte da Amalia Cardenas e Joana Conill nel febbraio 2012, sono state essenziali per la mia comprensione del movimento: una con Javier Toret e un’altra con Arnau Monterde, entrambi attivisti autoriflessivi del movimento, che hanno avuto un ruolo significativo nelle origini di Democracia Real Ya. Anche le mie precedenti conversazioni con Javier e Arnau sono state fonti importanti di idee e analisi. Altre fonti di informazione, sia a stampa sia in rete, sono citate nei riferimenti bibliografici, senza che ad esse si possano attribuire affermazioni specifiche, perché si sono mescolate con la mia narrazione. 3. Sulle origini di Democracia Real Ya e il successivo sviluppo del movimento, mi sono basato sull’eccellente analisi di Monterde (2010-2011). 4. Intervista e traduzione di Amalia Cardenas, Barcellona, febbraio 2012. 5. Il pamphlet di Hessel (2010) è stato tradotto in spagnolo e molto letto in Spagna nei mesi che hanno preceduto l’inizio del movimento. Ha venduto più di tre milioni di copie in tutto il mondo. La maggior parte degli attivisti non riconosce una sua diretta influenza, attribuendo questa tesi all’ossessione dei media per scoprire fonti di ispirazione del movimento esterne al movimento stesso. Tuttavia, ho trovato nella maggior parte dei casi profondo rispetto e apprezzamento per la ferma denuncia del sistema da parte di un esponente di una generazione molto più anziana, anche se i suoi riferimenti ai valori della resistenza francese e alla Seconda Guerra Mondiale non avevano una reale connessione con il movimento. In realtà, Hessel insisteva sulla necessità di una leadership come condizione di successo del movimento di rivolta, in netta dissonanza con la filosofia del movimento spagnolo. Tuttavia, vi era simpatia per quest’uomo di grande dignità che si appellava alla difesa di principi che erano stati infangati dai governi europei. Il suo principale contributo è stato probabilmente avere trovato una parola carica di risonanze. 6. Javier Toret, Barcellona, febbraio 2012, intervista e traduzione di Amalia Cardenas. 7. Nel 2012, numerose dimostrazioni, in particolare a Barcellona, sono state seguite da violenti scontri tra polizia e piccoli gruppi di giovani che bruciavano i contenitori di rifiuti e frantumavano le vetrine delle banche e dei negozi. Benché l’origine di queste azioni rimanga poco chiara, vi è certamente tra certi giovani stanchi delle loro precarie condizioni di vita, di fronte all’assenza di risposte positive alle loro richieste, una propensione a scegliere la via della violenza. Questi episodi di violenza sono stati ingigantiti dai media e usati dalle autorità per delegittimare il movimento, spingendosi fino a denunciare la comparsa di forme di guerriglia urbana, un’ovvia esagerazione se consideriamo l’esperienza internazionale di ciò che la guerriglia urbana è veramente. Tuttavia, benché questo movimento sia prevalentemente non-violento, storicamente vi è un’ambiguità tra gli attori del cambiamento sociale, a proposito della questione della violenza, compreso Karl Marx che ha scritto: «La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una forza economica», Il Capitale, citato in Bruce Lawrence, Aisha Karim (a cura di), On Violence: A Reader, Durham, NC, Duke University Press, 2007, p. 17. Il volume è un eccellente compendio nei dibattiti sulla violenza nei processi di cambiamento sociale. 8. Il concetto di rivoluzione rizomatica mi è stato suggerito da Isidora Chacon. Secondo Wikipedia, un rizoma è «un fusto con decorso generalmente orizzontale e sotterraneo di una pianta, spesso in grado di emettere radici e gemme dai suoi nodi… Se un rizoma è fatto a pezzi, ogni pezzo può dar luogo a una nuova pianta».

Riferimenti bibliografici e sitografia

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Sulla leadership

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Fonti generali

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L’indignazione, il tuono, la scintilla

L’indignazione si respirava nell’aria. Prima, tutt’un tratto, ecco il tonfo del mercato immobiliare statunitense. Centinaia di migliaia di persone erano rimaste senza casa, e altri milioni persero parte del valore di quegli immobili su cui avevano scommesso la propria vita. Poi anche il sistema finanziario arrivò sull’orlo del collasso, come conseguenza della speculazione e dell’ingordigia dei suoi manager. Che vennero salvati in extremis, e con i soldi dei contribuenti. Senza però dimenticare di intascare laute indennità, a ricompensa delle loro maldestre operazioni. Le grandi società d’investimento rimaste in piedi tagliarono i prestiti, chiudendo così migliaia di agenzie, licenziando milioni di impiegati e riducendo drasticamente gli stipendi. Non ci furono responsabili. Entrambi i partiti politici imposero come priorità il salvataggio del sistema finanziario. Obama si vide travolto dall’ampiezza della crisi e rapidamente mise da parte parecchie delle promesse fatte durante la campagna elettorale – una campagna che aveva risvegliato le speranze delle nuove generazioni, tornate a occuparsi di politica per rivitalizzare la democrazia americana. Il periodo più duro fu l’autunno. La gente cominciò a provare rabbia e frustrazione. Qualcuno decise di quantificare quella rabbia. La quota del reddito USA appartenente all’uno per cento della popolazione, gli americani più ricchi, era salita dal 9 al 23,5 per cento dal 1976 al 2007. E se tra il 1998 e il 2008 la crescita produttiva cumulativa aveva toccato circa il 30 per cento, gli aumenti di stipendio avevano toccato appena il 2 per cento durante lo stesso decennio. Il settore finanziario tenne per sé la maggior parte degli introiti produttivi, con un aumento dei ricavi passato dal 10 per cento negli anni 1980 al 40 per cento nel 2007, e con l’incremento del valore azionario dal 6 al 23 per cento, pur impiegando appena il 5 per cento della forza lavoro complessiva. Anzi, l’uno per cento della popolazione si era appropriato del 58 per cento dell’intera crescita economica di quel periodo. Nel decennio precedente la crisi, il salario orario era aumentato del 2 per cento, rispetto a un incremento del 42 per cento delle entrate per il 5 per cento più ricco della popolazione. Nel 1980 lo stipendio di un CEO era 50 volte superiore di quello di un lavoratore medio, proporzione salita a 350 volte nel 2010. E non si trattava certo di cifre astratte. C’erano anche dei volti: Madoff, Wagoner, Nardelli, Pandit, Lewis, Sullivan – inframezzati a quelli di politici e autorità governative (Bush, Paulsen, Summers, Bernanke, Geithner e, sì, Obama) che provavano a razionalizzare i timori diffusi e sostenevano la necessità di salvare il mondo della finanza per salvare la vita della gente. In aggiunta, il Partito Repubblicano lanciò una pesante offensiva per far cadere un presidente popolare, arrivato al potere sostenendo il ruolo attivo del governo nel migliorare il benessere della società. Il successo elettorale di questa strategia suicida consentì al Congresso, dominato dai repubblicani, di bloccare gran parte delle iniziative di riforma, aggravando così la crisi e facendone lievitare i costi sociali. La prima espressione dell’indignazione popolare fu l’emergere del Tea Party, un misto tra populismo e libertarianismo che offriva un canale di mobilitazione a una varietà di oppositori indignati contro il governo in generale e contro Obama in particolare. Eppure, quando divenne chiaro che a finanziarlo c’erano la Koch Industries e analoghe corporation, e che la destra repubblicana se ne stava impadronendo come fanti da immolare nell’ultima fase del processo elettorale, il movimento perse interesse per molti dei suoi partecipanti. I più convinti aderenti al Tea Party divennero militanti di una causa manipolata: disfare il governo, in modo da liberare le mani delle grandi corporation. Un senso di disperazione serpeggiava all’orizzonte. Ma poi arrivò il tuono. Veniva da Piazza Tahrir; un’ironia della storia se consideriamo che, per la maggior parte degli americani, quel che conta davvero in Medio Oriente è soltanto il petrolio e Israele. Eppure, immagini e suoni della determinazione generale di porre fine alle dittature, pur contro ogni previsione, a qualsiasi costo, rinnovavano la fede nel potere del popolo, almeno negli ambienti degli attivisti. L’eco delle rivolte arabe era amplificato dalle notizie in arrivo dall’Europa, e in particolare dalla Spagna, di nuove forme di mobilitazione e organizzazione, basate sulla pratica della democrazia diretta come modello per spingere le richieste di democrazia reale. In un mondo costantemente connesso via Internet, i cittadini impegnati vengono subito a sapere di quelle lotte e progetti con cui finiscono per indentificarsi. La campagna elettorale di Obama aveva lasciato un’impronta su migliaia di persone che avevano creduto alla possibilità del cambiamento reale, e avevano abbracciato una nuova forma di mobilitazione politica in cui le reti via Internet diventavano elemento cruciale, in quanto connettevano gente che, nelle strade e nei salotti di casa, stava dando vita a un movimento politico di rivolta. Nel mio libro Comunicazione e Potere (2009) ho documentato il potere di questa forma di politica davvero innovativa, ispirata dalla speranza e centrata su Internet1. Molti sostenitori iniziali di Obama, in aggiunta a migliaia di persone che da tempo lottavano in prima linea contro le ingiustizie sociali, inclusi i sindacati del settore pubblico impegnati nella campagna avviata in Wisconsin per i contratti di categoria, si sono mostrati ricettivi al clamore che circondava la #spanishrevolution e le manifestazioni contro la crisi in Grecia. Alcuni di loro decisero di recarsi in Europa. Videro gli accampamenti, presero parte alle assemblee generali e sperimentarono nuove forme del processo decisionale e deliberativo, riannodando anzi la tradizione storica dei movimenti assembleari su entrambe le sponde dell’Atlantico. Parteciparono a riunioni in cui fu discusso e deciso di tenere una manifestazione mondiale per il 15 ottobre 2011, sotto lo slogan «Uniti per il cambiamento globale». In tal modo, nell’estate del 2011 le reti globali della speranza facevano il loro deciso ingresso anche negli Stati Uniti. Poi scoppiò la scintilla. Il 13 luglio 2011 Adbusters, rivista di critica culturale con sede a Vancouver, Canada, pubblicò sul suo blog il seguente appello: #occupywallstreet Siamo pronti per replicare Tahrir? Il 17 settembre, ritroviamoci tutti a Manhattan, mettiamo su tende, cucine da campo, barricate pacifiche e occupiamo Wall Street.

Per poi continuare così:

È attualmente in corso una trasformazione mondiale nella tattica rivoluzionaria che promette assai bene per il futuro. [Si respira] lo spirito di una strategia fresca, la fusione di Tahrir con gli acampadas spagnoli. La bellezza di questa nuova formula… sta nella sua pragmatica semplicità: discutiamo tra noi in varie riunioni fisiche e assemblee popolari virtuali. Ci confrontiamo al meglio su quale debba essere l’unica richiesta, una richiesta capace di risvegliare l’immaginazione e, se conquistata, di spingerci verso la democrazia radicale di domani… e poi andiamo a occupare una piazza di particolare significato simbolico e ci sediamo lì per terra. È giunta l’ora di applicare questo stratagemma emergente contro il maggior artefice della corruzione nella nostra democrazia: Wall Street, la Gomorra finanziaria d’America. Il 17 settembre, vogliamo vedere 20.000 persone invadere Manhattan, mettere su tende, cucine da campo, barricate pacifiche e occupare Wall Street per qualche mese. Una volta lì, continueremo a ripetere incessantemente un’unica richiesta tramite una pluralità di voci… In base a questo modello, qual è la nostra richiesta più semplice?… [È quella che] mette a nudo il motivo per cui al momento è impossibile definire democrazia il mondo politico americano: vogliamo che Barack Obama istituisca una Commissione presidenziale incaricata di porre fine all’influenza del potere economico sui nostri rappresentanti a Washington. È arrivata l’ora della DEMOCRAZIA NON DELLA «CORPORATOCRAZIA», altrimenti non c’è speranza. Questa richiesta sembra catturare l’attuale sentimento nazionale, perché ripulire Washington dalla corruzione è qualcosa che tutti gli americani appoggiano e condividono, a destra come a sinistra… Ciò potrebbe segnare l’avvio di dinamiche sociali completamente nuove in America, un passo oltre il movimento del Tea Party, dove, anziché sentirsi stritolati dalle attuali strutture del potere, il popolo inizia a prendersi quello che vuole, che si tratti della chiusura di metà delle mille basi USA sparse nel mondo oppure dell’imposizione della legge Glass-Steagall, «tre sbagli e sei finito», ai dirigenti colpevoli. A partire da quella semplice richiesta – una Commissione presidenziale per tenere lontano il denaro dalla politica – possiamo impostare l’agenda per un’America di tipo nuovo. Aggiungete i vostri commenti e vediamo di capire bene quale debba essere questa richiesta. E poi armiamoci di coraggio, prendiamo le tende e il 17 settembre marciamo su Wall Street per vendicarci. For the wild, Culture Jammers HQ.

La data prescelta aveva un valore simbolico: il 17 settembre è l’anniversario della firma della Costituzione statunitense, pur se pochi ne sono al corrente. E così l’appello iniziale per l’occupazione puntava a restaurare la democrazia rendendo il sistema politico indipendente dal potere economico. Per chiarezza, altre reti e gruppi facevano parte del nucleo iniziale del movimento occupy, e qualcuno al suo interno si è risentito per l’attribuzione di questo primo appello al giro di Adbusters. Per esempio, AmpedStatus, una rete di attivisti organizzata intorno a un sito web, da tempo andava diffondendo analisi e informazioni sullo sfacelo dell’economia statunitense. Il 15 febbraio 2010, David DeGraw pubblicava la prima di una serie di sei parti dedicata alla crisi economica statunitense che apriva così: «È giunto il momento per il 99% degli americani di mobilitarsi e spingere aggressivamente verso riforme politiche di senso comune»2. Il sito web di AmpedStatus subì ripetuti attacchi da parte di fonti misteriose. Grazie all’intervento del gruppo Anonymous, il sito web e l’annessa rete di persone riuscirono a sopravvivere e ad avviare il movimento del 99%, pianificando una «Empire State Rebellion» e lanciando l’appello per l’occupazione di Wall Street. Un sottogruppo all’interno di Anonymous confluì in AmpedStatus per dar vita alla piattaforma A99, poi presentata nel social network di AmpedStatus. Il 23 marzo 2011, Anonymous invitò a una Giornata di rabbia, sull’onda di similari iniziative lanciate nel mondo arabo. Il 14 giugno anche la coalizione A99 lanciò un appello, rimasto inascoltato, per l’occupazione di Liberty Park (poi rinominato ), a due isolati da Wall Street. Questi attivisti si unirono a un altro gruppo di attivisti di New York che protestavano contro i tagli alla spesa pubblica e che avevano creato un piccolo accampamento chiamato Bloom-bergville. Queste reti di attivisti formarono l’assemblea generale della città di New York, dando voce alla protesta grazie alla mobilitazione di base e all’organizzazione partecipata. È in questo contesto di rampante attivismo nel cuore di New York che Adbusters diffuse infine l’appello all’occupazione del 17 settembre. Ogni rete preesistente non ebbe alcun problema a unirsi all’appello e preparare congiuntamente l’occupazione. Un test di paternità sarebbe stato estraneo allo spirito del movimento, collaborativo e decentrato, e così tutti invitarono la gente a «ribellarsi in modo non-violento contro il sistema della tirannia economica», per convergere su Wall Street sabato 17 settembre. Si presentarono un migliaio di persone, per protestare contro Wall Street e occupare Zuccotti Park. La scintilla aveva acceso un fuoco.

La prateria in fiamme

La manifestazione del 17 settembre a Wall Street, con la conseguente occupazione di Zuccotti Park, fu seguita da eventi analoghi in altre zone di New York, nonostante le centinaia di persone arrestate dalla polizia con una serie di scuse. Più la polizia alzava il livello di repressione, e più le immagini di questi interventi diffuse su YouTube motivavano altri a scendere in piazza. Molti residenti esprimevano solidarietà con gli occupanti. Anonymous rivelò il nome del poliziotto che, senza alcun motivo, aveva usato gas lacrimogeno contro un gruppo di ragazze in corteo. Il 27 settembre, l’assemblea generale dell’accampamento occupato raccolse 2000 presenze, tra cui l’assessore cittadino Charles Barron – con interventi di Cornel West e di altri intellettuali, come aveva fatto Michael Moore due giorni prima. La sezione locale del sindacato dei trasporti nazionale approvò una mozione a sostegno del movimento e si unì alle manifestazioni. Lo stesso fece il sindacato dei lavoratori industriali, invitando gli aderenti a scendere in piazza. Il 1° ottobre, 5000 persone occuparono il ponte di Brooklyn, dove la polizia tese loro una trappola arrestandone oltre 700. Come risposta, il 5 ottobre un appello all’azione lanciato da Occupy Wall Street e dai sindacati dei lavoratori portò 15.000 persone a manifestare da Foley Square a Zuccotti Park. L’occupazione andava consolidandosi. Mentre le immagini e le notizie prendevano a diffondersi su Internet, nei primi giorni di ottobre occupazioni spontanee nacquero in altre città: Chicago, Boston, Washington DC, San Francisco, Oakland, Los Angeles, Atlanta, Fort Lauderdale, Tampa, Houston, Austin, Philadelphia, New Orleans, Cleveland, Las Vegas, Jersey City, Hartford, Salt Lake City, Cincinnati, Seattle e perfino davanti alla Casa Bianca, oltre a innumerevoli quartieri e cittadine in tutto il paese. Le Mappe 1 e 2 illustrano la rapidità e l’ampiezza del movimento occupy. Da notare inoltre che i dati riportati sono incompleti, poiché non esiste un database univoco e affidabile sulle occupazioni, pur se gli attivisti del sito web occupy.net stanno facendo buoni progressi in tal senso. È comunque realistico stimare a oltre 600 il numero delle manifestazioni svoltesi in tutti gli Stati Uniti. Per esempio, secondo una ricerca condotta sotto la direzione di Christopher Chase-Dunn presso la University of California di Riverside, 143 città californiane su 482 avevano un gruppo Occupy su Facebook, a riflettere l’esistenza di uno spazio fisico occupato3. Non tutte le occupazioni avevano carattere permanente; parecchie si limitavano a riunioni quotidiane suddivise tra assemblee e gruppi di lavoro. Tra queste, gli aderenti a Occupy Youngstown, in Ohio, tenevano regolari riunioni settimanali per discutere i temi caldi, aggiornavano la pagina Facebook e poi andavano a casa per la notte. In altri termini, esisteva una notevole diversità nelle forme della protesta e nelle tipologie delle occupazioni. Era però evidente la rapida diffusione del movimento sull’intero territorio statunitense: la cittadina più piccola ad avere un’occupazione sembra fosse Mosier, in Oregon, con una popolazione di 430 abitanti, e ogni stato contava almeno un spazio fisico occupato – perfino in North Dakota, l’ultimo dove venne creato un accampamento. Mappa 1 Diffusione delle occupazioni negli Stati Uniti, 17 settembre - 9 ottobre 2011

Mappa 2 Distribuzione geografica del movimento Occupy negli Stati Uniti La rapida propagazione del fuoco di Occupy nelle praterie americane racchiude molteplici significati. Dimostra l’ampiezza e la spontaneità della protesta, radicata nell’indignazione provata dalla maggioranza della popolazione in ogni parte del paese e nella società in generale. Rivela inoltre l’impegno di molti nel cogliere l’opportunità dando voce ai propri timori e discutendone le alternative nel mezzo di una generalizzata crisi di sfiducia nell’economia e nella politica. Non si trattava certo di qualche rivolta in un campus universitario oppure di una controcultura cosmopolita. Era incarnata da tante voci e accenti quanti ne esistono in una società altamente diversificata e multiculturale. Chi erano, allora, questi occupanti? In realtà esisteva una vasta gamma di diversità politica e sociale fra i partecipanti. Parimenti ampio era il livello di coinvolgimento nel movimento, dalla presenza a tempo pieno negli accampamenti alla semplice partecipazione alle assemblee oppure a manifestazioni o azioni di protesta. Al momento di scrivere queste note, non sono ancora disponibili dati precisi in tal senso. Ho comunque potuto estrapolare alcune cifre preliminari da quella che sembra essere una fonte affidabile: il sondaggio online coordinato da Sasha Costanza-Chock del MIT e dall’Occupy Research Network4. Ho inoltre confrontato questi dati con un campione non rappresentativo di visitatori al sito OccupyWallSt.org5, elaborati da Hector Cordero-Guzman del Baruch College. Sulla base di questi dati, in aggiunta a testimonianze dirette fornite dai partecipanti stessi, sembra che la maggioranza delle persone totalmente coinvolte nella gran parte degli accampamenti fossero studenti e giovani professionisti compresi tra i 20 e i 40 anni, con una percentuale leggermente più alta di donne rispetto agli uomini. Circa metà di loro aveva un lavoro a tempo pieno, oltre a un significativo numero di disoccupati, sotto-occupati, occupati a tempo determinato o a metà tempo. Il salario della maggioranza sembrava assestarsi sul livello di stipendio di un americano medio. Si trattava di persone con un discreto grado di istruzione: la metà era diplomata al college e molti di più lo avevano frequentato parzialmente. In modo simile a movimenti analoghi in altri paesi, i partecipanti a Occupy sono persone relativamente giovani e istruite, le cui aspettative professionali risultano limitate nell’attuale contesto economico. Sono per lo più bianchi, pur con la presenza di alcune minoranze, particolarmente tra gli afro-americani, che non di rado hanno organizzato dei propri gruppi all’interno del movimento. Tuttavia, appena un quinto di loro ha dormito effettivamente negli accampamenti. La maggioranza ha preso parte alle attività quotidiane, e circa tre quarti alle manifestazioni di piazza. Così, per afferrare la diversità del movimento dobbiamo considerare parecchi altri soggetti variamente coinvolti, in particolare persone di mezza età aderenti ai sindacati, lavoratori sulla cinquantina, alcuni disoccupati e sotto l’evidente peso della recessione. Negli accampamenti e in prima linea nelle manifestazioni non mancavano poi i veterani di guerra, mentre con l’estendersi dell’occupazione tanti di quei luoghi presero ad attrarre i senzatetto, che potevano trovarvi cibo, riparo e protezione. A scanso di equivoci, la loro presenza era di fatto limitata, pur a fronte dell’alta visibilità sociale. E anche se non sono mancate tensioni tra gli occupanti su come gestirne la presenza, era ideologicamente impossibile riprodurre nei confronti dei senzatetto gli stessi pregiudizi che permeano la società in generale. Ancora maggiore appariva la diversità tra gli occupanti in termini di preferenze politiche e ideologiche: gli anarchici erano i più riconoscibili, ma c’erano anche aderenti al libertarianesimo (alcuni di loro repubblicani) come anche attivisti delusi fuoriusciti dal Tea Party e alcune frange della sinistra. Ma nella stragrande maggioranza il movimento era composto persone che votavano democratico e politicamente indipendenti alla ricerca di nuove forme per cambiare il mondo e/o per difendersi dalla minaccia diretta della crisi. Forse la caratteristica più significativa riguardava il fatto che il movimento non era sorto dal nulla, pur essendo spontaneo e senza leader. I risultati preliminari del sondaggio condotto dall’Occupy Research Network indicano che la grande maggioranza di quelli più attivi avevano preso parte ad altri movimenti sociali e collaborato con organizzazioni non-governative e campagne politiche. Erano inoltre coinvolti in reti di attivismo su Internet, impegnati a diffondere video e a discutere in animati forum politici. Convergendo su Occupy Wall Street da molteplici filoni di resistenza e di pratiche politiche alternative, costoro davano forma a un ampio fiume di protesta e di progetti che riuscirono a inondare le pianure, a scalare le montagne e a insediarsi nelle cittadine di tutto il paese. La rapida distribuzione geografica del movimento si rifletteva nella diffusione virale su Internet. Era qui che il movimento aveva visto i natali e manteneva una sua presenza, con i siti web di gran parte delle occupazioni, vari gruppi specifici e altri social network. Eppure, al contempo, la forma concreta dell’esistenza del movimento rimaneva l’occupazione dello spazio pubblico. Uno spazio dove i manifestanti potevano riunirsi e creare una comunità al di là delle loro differenze. Uno spazio di convivialità. Uno spazio di dibattito, per passare dalla contestazione di un sistema ingiusto alla ricostruzione della società dal basso. In breve, uno spazio di autonomia. Perché soltanto rimanendo autonomi potevano sperare di superare le molteplici forme di controllo ideologico e politico per dar forma a nuovi modi di vita, a livello individuale e collettivo. Quel che il movimento Occupy aveva così realizzato era uno spazio di tipo nuovo, uno spazio misto fatto di luoghi, in un determinato territorio, e di flussi, su Internet. L’uno non poteva operare senza l’altro: è questo spazio ibrido che caratterizzava l’intero movimento. I luoghi fisici rendevano possibile interagire faccia a faccia, condividere le esperienze, il pericolo e le difficoltà, oltre che fronteggiare uniti la polizia e la pioggia, il freddo, la mancanza di comfort nel loro impegno quotidiano. Ma era grazie ai social network su Internet che quell’esperienza veniva comunicata e amplificata, portando il mondo all’interno del movimento e attivando forum di discussione permanente per la solidarietà, il dibattito e la pianificazione strategica. Gli spazi occupati creavano inoltre una nuova forma temporale, che qualcuno negli accampamenti caratterizzava come un «per sempre». Interrotta la routine della loro vita quotidiana, si era aperta una parentesi con un tempo indefinito all’orizzonte. Tanti pensavano che l’occupazione potesse durare fin quando le istituzioni si fossero dimostrate insensibili alle loro critiche e richieste. Considerando l’incertezza del se e del quando degli sgomberi forzati, le occupazioni procedevano giorno dopo giorno, senz’alcuna scadenza, liberando così i partecipanti dalle costrizioni temporali e radicandoli nelle esperienze quotidiane. Tutto ciò rese il tempo senza tempo dell’occupazione un’esperienza al contempo estenuante ed entusiasmante, perché, citando una occupante di Washington, DC:

Siamo stanchi, fradici e abbiamo freddo. Usare i bagni chimici, camminare 13 isolati per farsi una doccia al CWA, lavarsi i denti e sputare in un bicchiere da caffè di carta, alla fine diventa pesante… Ma ci ritroviamo tutti [all’assemblea generale] e ascoltiamo chiunque abbia delle proposte oppure delle opinioni, e alla fine raggiungiamo il consenso generale… Mentre me ne stavo seduta a guardare gli occupanti più impegnati, ne rimasi ancora più impressionata. È così che dovrebbero funzionare le cose. C’è tanta strada da fare, eppure ogni tanto un brivido lungo la schiena mi dice che questa è l’incarnazione della speranza6.

Una speranza che nasceva dalla concreta possibilità di un altro tipo di vita all’interno della variegata comunità che andava emergendo dalla protesta. Nelle occupazioni di ampie dimensioni, come quelle di New York, Los Angeles o Oakland, la giornata quotidiana era organizzata con molta attenzione. Prima venivano installate le tende, poi i bagni, le cucine, gli asili-nido e gli spazi per i bambini, l’orto comunitario, la biblioteca popolare, l’Università Occupata per tenere interventi e relazioni pubbliche e i centri d’informazione, dove a volte l’energia elettrica veniva fornita tramite biciclette. L’assistenza medica era garantita da personale medico volontario, insieme a quella di esperti legali. Mentre si mettevano a punto reti Wi-Fi e il relativo sito web, altri si occupavano della sicurezza generale e della mediazione dei conflitti, e un gruppo di benvenuto faceva perfino da guida a visitatori e curiosi, magari interessati a coinvolgersi nel movimento. C’era poi la spinosa questione di come gestire le donazioni. I soldi servivano alle necessità di centinaia di persone, ma anche per pagare le cauzioni di quanti venivano arrestati e per sostenere le attività del movimento. A dire il vero, Occupy riceveva centinaia di migliaia di dollari in donazioni. Il punto divenne la loro corretta gestione, poiché non esistevano entità legali a nome di cui aprire un conto bancario. In alcuni casi, i responsabili del comitato per le donazioni li versarono semplicemente sui propri conti bancari. Ma ovviamente ciò provocò dei problemi sulle relative tasse da pagare, come anche su potenziali appropriazioni indebite dei fondi stessi. È sorprendente notare come si siano registrate pochissime situazioni del genere, mentre in molti casi gli accampamenti stessi sono poi divenuti le entità legali responsabili per la gestione economica. La questione riguardò poi il pagamento delle tasse sul denaro depositato in questi conti bancari, passo a cui l’ala libertaria del movimento si opponeva risolutamente. Comunque sia, questi percorsi decisionali costituivano il processo di sperimentazione al cuore del movimento stesso. Pur nell’importanza dell’organizzazione concreta, era il processo di comunicazione a garantire al movimento la necessaria coesione interna e il sostegno esterno. Le reti di comunicazione rappresentavano la linfa vitale del movimento Occupy.

Un movimento in rete

È il digitale ad aver dato i natali a Occupy Wall Street. Il grido di sdegno e l’appello all’occupazione sono partiti da vari blog (Adbusters, AmpedStatus e Anonymous, fra gli altri), poi pubblicati su Facebook e diffusi via Twitter. L’hashtag #occupywallstreet è stato lanciato il 9 giugno 2011 da Adbusters e incluso nel suo primo appello sul blog a scendere in piazza, poi linkato all’omonimo gruppo Facebook il 13 luglio. Gruppi e reti di attivisti su Internet hanno fatto proprio e ridistribuito l’appello, manifestando sostegno all’iniziativa. Una buona fetta della prima ondata dei tweet di luglio proveniva dalla Spagna, dove il movimento degli indignados andava trovando nuova linfa nel confronto diretto con il cuore stesso del capitalismo finanziario. Mentre il movimento s’ingrandiva, Twitter divenne uno strumento essenziale sia per la comunicazione interna negli accampamenti, sia per tenersi in contatto con le altre occupazioni e per pianificare interventi specifici. Uno studio inedito curato da Kevin Driscoll e François Bar presso l’Innovation Lab della University of Southern California di Annenberg ha raccolto i tweet diffusi da Occupy ininterrottamente a partire dal 12 ottobre 2011, per poi confrontarli con una serie di circa 289 parole e frasi chiave analoghe. Nel corso del mese di novembre, notarono circa 120.000 tweet relativi a Occupy in una giornata media, con un picco di oltre 500.000 durante lo sgombero forzato di Zuccotti Park il 15 novembre. Le analisi visuali condotte da Gilad Lotan sul traffico di Twitter riguardante il movimento rivelano che i picchi sono associati con i momenti cruciali della sua evoluzione, come il primo tentativo di sgombero di Zuccotti Park del 13 ottobre7. Quasi ogni volta che si manifestava la minaccia dell’intervento della polizia contro gli occupanti, la Twitter-sfera ha messo in allerta migliaia di persone, la cui immediata mobilitazione di solidarietà ha poi giocato a favore della protezione degli occupanti. Usando Twitter tramite i telefoni cellulari, i manifestanti sono riusciti a distribuire in maniera costante informazioni, foto, video e commenti, dando così vita a una rete di comunicazione in tempo reale sovrapposta a quella degli spazi occupati. Lo slogan «Siamo il 99%» divenne popolare grazie per lo più all’omonima pagina su Tumblr, lanciata a metà agosto in previsione della manifestazione del 17 settembre da Chris (che non volle usare il cognome) e da Priscilla Grim, professionisti dell’informazione a New York e coinvolti nell’attivismo sociale. Anzi, inizialmente entrambi decisero di rimanere anonimi, scrivendo di «un’iniziativa di coloro che daranno vita a Occupy Wall Street». Tumblr, un social network lanciato nel 2007, è stato descritto da Rebecca Rosen sulla rivista The Atlantic come un «confessionale collaborativo» che, nel caso dei movimenti sociali, può essere usato per creare «storie auto-prodotte» e dimostra come «il potere della narrativa individuale, che sia alla radio, in un libro, su You- Tube o su Tumblr, riesca a superare il rumore e il cinismo degli pseudo-esperti per dar forma e spessore alla nostra storia nazionale» (Rosen 2011). Diversamente dai lunghi testi di un blog tradizionale, su Tumblr basta una battuta, una foto, un video o anche un link per creare un post. Molti blog consistono soltanto di una serie di foto e altre modalità espressive su un qualche tema specifico, spesso ironici e divertenti. Gli utenti «seguono» altri blog Tumblr e possono vedere l’aggregazione di tutti i post seguiti, consentendo così di sviluppare blog di gruppo prodotti in maniera collaborativa. Gli utenti possono replicare i post altrui nel proprio blog Tumblr e condividerli con i loro «follower». Ed è facile implementare un formato che consente la pubblicazione di testi anonimi. Aspetto quest’ultimo cruciale per la diffusione del gruppo «Siamo il 99%», dove Tumblr ha fornito una piattaforma per la narrativa individuale in modo anonimo: in un video autoprodotto, la gente si nascondeva il volto riuscendo però a raccontare i loro drammi personali in questa società ingiusta. Nell’ottobre 2011, il blog del gruppo riceveva circa 100 post al giorno, mentre al febbraio 2012 contava 225 pagine di post. Sottolineando il ruolo di Tumblr come elemento peculiare del movimento Occupy Wall Street, Graham-Felsen (2011) scriveva: Perché mai Tumblr è diventata la piattaforma più seguita in questo momento? Come abbiamo visto in Iran, Twitter può essere un potente strumento per diffondere resoconti minuto per minuto di eventi dell’ultim’ora e per amplificare messaggi precisi («Basta con Ahmedinejad»). E in Egitto, Facebook è stato cruciale per raccogliere i manifestanti e organizzare le proteste in Piazza Tahrir. Ma Tumblr non è servito a nessuno di questi scopi per Occupy Wall Street, un movimento sparso e privo di leader con obiettivi deliberatamente indefiniti. Tumblr è riuscito invece a rendere umano il movimento. Tumblr è un potente strumento narrativo, e questo movimento è fatto di storie – su come le direttive economiche nazionali hanno reso troppo costosa l’istruzione, ingigantito il debito pubblico, esteso indefinitamente l’età pensionabile, e distrutto le famiglie. «Siamo il 99 per cento» è la cosa più vicina possibile all’operato della Farm Security Administration – che pagava i fotogiornalisti per documentare il dramma dei contadini durante la Grande Depressione – e potrebbe davvero rappresentare la storia sociale di questa recessione. In un passaggio significativo, Ezra Klein ha scritto su The Washington Post: «Non sono stati gli arresti a convincermi che “Occupy Wall Street” meritava di essere seguita seriamente. Né la loro strategia d’informazione, basata per lo più sui tweet mandati ai giornalisti per piccole manifestazioni dove non si capiva bene cosa si sperava di ottenere. È stato un Tumblr intitolato “Siamo il 99 per cento”» (2011).

I social network su Internet hanno alimentato il sostegno, motivando la gente a scendere in piazza e occupare lo spazio pubblico, includendo l’elemento territoriale nella loro protesta. Una volta organizzati gli accampamenti, la loro presenza venne estesa anche con occupazioni specifiche su Internet. La stragrande maggioranza degli accampamenti aprì un proprio sito web oppure un gruppo su Facebook, o entrambi. I membri della commissione web attivarono degli hot spot Wi-Fi negli accampamenti, e la gente usava il segnale dei cellulari per andare online con i portatili. La diversità del movimento occupy trovava pieno rilancio nella sua presenza sul web, dove a volte spiccavano pagine assai complesse in termini di contenuti e grafica. Le occupazioni di dimensioni più ampie o più attive curavano un proprio sito web, utilizzati per le questioni organizzative ma anche per ampliarne la presenza pubblica. La maggior parte dei siti web presentava diverse sezioni: contatti (per comunicare con i responsabili dell’ufficio stampa, ecc.), come partecipare (l’elenco delle commissioni, luogo e orario delle assemblee generali), richieste per donazioni e risorse utili (una serie di documenti che illustravano come fare un’occupazione, i protocolli dell’assemblea generale, come gestire i rapporti con la polizia, ecc.), il calendario degli eventi e gli annunci, e spazi per la messaggeria (alcuni aperti, altri protetti da password). La maggioranza di questi siti web offriva inoltre un forum di discussione dove chiunque poteva aprirsi un account. Sul web venivano pubblicati anche i resoconti delle riunioni, le proposte e i documenti ratificati (compresi gli elenchi delle richieste), in genere con la possibilità di lasciare dei commenti – pratica cruciale per assicurare la trasparenza all’interno del movimento stesso. Gran parte delle occupazioni gestiva anche i relativi gruppi Facebook. Questi venivano usati a complemento dei siti web per le occupazioni più ampie e come luoghi primari d’organizzazione per le occupazioni di dimensioni ridotte o meno avanzate tecnologicamente. Erano utili anche perché contenevano gli elenchi degli aderenti, aiutandoli così a tenersi in contatto tra loro, inviarsi messaggi privati o pubblicare qualcosa sul «muro» altrui. Servivano anche a scopo organizzativo: per far circolare annunci, segnalare eventi in programma e inviare messaggi a tutti i membri del gruppo. Nonostante la sua utilità, Facebook è stato criticato dagli stessi occupanti in quanto piattaforma proprietaria e quindi in conflitto con lo spirito di apertura alla base del movimento stesso. Inoltre, il nuovo software di riconoscimento facciale di Facebook può automaticamente mettere un «tag» a chiunque sia presente in una fotografia, suscitando critiche diffuse, considerata la sfiducia nella tutela della privacy da parte di Facebook di fronte alle richieste delle autorità. Perciò qualche occupante più esperto decise di usare piattaforme alternative, quali N-1, Ning oppure Diaspora. Altri diedero vita a una sorta di «Occupy Facebook» chiamato Global Square, ampiamente pubblicizzato da WikiLeaks. Un prototipo funzionante era previsto per il 2012. Ecco cosa scrivevano i suoi sviluppatori:

L’obiettivo della piattaforma non dovrebbe essere quello di sostituire le assemblee di piazza quanto piuttosto quello di rafforzarle fornendo gli strumenti online per l’organizzazione e la collaborazione in ambito locale e (trans)nazionale. L’ideale è quello di stimolare la partecipazione individuale e di strutturare l’azione collettiva. Global Square sarà il nostro spazio pubblico dove gruppi diversi potranno ritrovarsi per organizzare le loro piazze e assemblee locali8.

Nel complesso, comunque, il movimento ricorse in larga parte a piattaforme commerciali già pronte all’uso. In tal modo, gli attivisti rimasero vulnerabili alle eventuali richieste delle autorità sui dati personali, in violazione della privacy degli utenti stessi e dalle conseguenze potenzialmente gravi9. Un’altra importante tecnologia per il movimento è stato il livestreaming, una serie di strumenti per trasmettere contenuti video in tempo reale via Internet. Pur se dal taglio effimero, sono essenziali quando scatta la repressione della polizia. Durante questi raid, spesso i mainstream media sono rimasti in silenzio, contrariamente a chi diffondeva le riprese video dal vivo. Per esempio, nella notte dell’11 ottobre 2011, si trovò a fronteggiare un’ondata di violenza e arresti da parte della polizia. Alle tre di notte c’erano oltre 8000 persone a seguirne il livestreaming. Quando quest’ultimo si bloccava, era il segno evidente che l’evento era stato effettivamente interrotto, cosa che poteva spingere alla mobilitazione quanti seguivano da casa. Quest’ampio ricorso al livestreaming non ha però mancato di sollevare alcune controversie. Poiché i cine-autori mostravano l’occupazione dal proprio punto di vista, narrando gli eventi per come li vedevano, molti di loro hanno raggiunto un certo grado di notorietà all’interno del movimento e ne sono stati identificati come i portavoce dalle fonti esterne. Ciò ha portato alla critica per cui qualcuno stesse traendo vantaggi personali dal movimento stesso, comprese le sponsorizzazioni dalle aziende che offrivano servizi di livestreaming. La maggior parte del tempo, le occupazioni procedevano in modo piuttosto noioso, tra la relativa assenza di repressioni, violenze e altre «attività». Quanti producevano le riprese video dal vivo sono stati criticati per un certo sensazionalismo e per aver alterato l’esperienza concreta dei tanti presenti alle occupazioni. Oltre che per esser diventati, nella definizione di uno di loro, «spioni indiretti», avendo cioè inconsapevolmente fornito alla polizia le prove sugli effettivi partecipanti all’occupazione10. Comunque sia, i vari luoghi occupati divennero nodi di reti di comunicazione verso il mondo e all’interno dell’occupazione stessa. Queste reti erano un ibrido tra varie forme di comunicazione, sia digitali sia faccia a faccia, basate sull’esperienza comunitaria, sull’interazione interpersonale, sull’attività dei social network e dei rilanci continui su Internet. Così gli SMS divennero importanti soprattutto per coordinare le attività sul campo e rimanere in contatto, come anche le mailing list per diffondere informazioni. Usando Mumble e altre tecnologie VOIP, le chiamate collettive consentivano di prendere decisioni tra luoghi geograficamente lontani. Anche la stampa s’impose come strumento significativo, con pubblicazioni quali Occupied WJS, Occupy! N+1 e Tidal, oltre a una varietà di bollettini locali. Le deliberazioni e il processo decisionale negli accampamenti erano basati sull’interazione umana, come le alzate di mano durante le assemblee generali e l’ampio ricorso al «People’s Mic», il microfono del popolo, dove le frasi di chi interviene vengono ripetute ad alta voce dai presenti in modo che tutti possano sentirle senza bisogno di alcun sistema di amplificazione. Al di là del suo impiego pratico, il «People’s Mic» simboleggia l’esperienza di appartenenza a una comunità, riproducendo forme di comunicazione usate in precedenti movimenti di disobbedienza civile. Dopo l’abbandono dei luoghi occupati sotto la pressione della polizia e dell’inverno alle porte, il movimento non si è affatto dileguato: è proseguito in varie forme su Internet, sempre brulicante di proclamazioni e idee, e sempre pronto a riaffacciarsi con forza dallo spazio dei flussi virtuali a quello dei luoghi fisici. Non a caso Occupy Wall Street è un movimento in rete ibrido, capace di legare tra loro il cyberspazio e lo spazio urbano tramite molteplici forme di comunicazione. Inoltre, per rimanere autonomo nel fronteggiare i media tradizionali senza accettare l’isolamento del 99%, il movimento poggia sull’autogestione mediatica, sia su Internet sia nei suoi spazi pubblici indipendenti, mescolando messaggi di rivendicazione e di speranza. Infatti i vari gesti manuali compiuti durante le assemblee generali sono coordinati in modo da facilitarne la diffusione virale su Internet. Gran parte delle attività negli accampamenti e nelle manifestazioni viene organizzata per avere risonanza nei social media, così da raggiungere la società più in generale. Esiste una pratica costante di proposte narrative nel movimento, dove sono un po’ tutti impegnati a scattare foto e fare video, per poi caricarli su YouTube e altri siti di social network. È la prima volta che un movimento racconta ogni giorno la propria storia tramite le sue molteplici voci secondo modalità che trascendono il tempo e lo spazio, autoproiettandosi nella storia e raggiungendo le voci e le visioni globali del nostro mondo. In termini più precisi, il movimento decise di occupare Wall Street, il nodo vitale delle reti globali del dominio economico del mondo, occupandone i territori circostanti e creando comunità libere. Gli occupanti hanno usato lo spazio autonomo dei flussi di rete su Internet per impossessarsi dei luoghi simbolici da cui potevano sfidare, tramite la loro presenza e i loro messaggi, lo spazio dei flussi economici da dove le potenze globali dominavano la vita umana.

La pratica della democrazia diretta

Fin dalla sua nascita, il movimento Occupy ha sperimentato nuove forme di organizzazione, deliberazione e procedure decisionali come modalità per imparare facendo che cos’è la democrazia reale. Questa è la caratteristica fondamentale cruciale del movimento. Quel che contava era l’autenticità, non la strumentalità. Gli occupanti non volevano riprodurre il tipo di democrazia formale e di leadership personalizzata a cui andavano opponendosi. Perciò man mano inventarono un nuovo modello organizzativo che, pur con le sue varianti, era presente nella stragrande maggioranza delle occupazioni. Inizialmente questo modello derivò dalle esperienze di Egitto e Spagna, per poi co-evolversi tra i molti luoghi occupati tramite fecondazioni incrociate, consultazioni reciproche e scambi vari. Visto che quasi tutte le occupazioni avevano un proprio sito web, tutte le linee guida organizzative e le esperienze del processo decisionale collaborativo venivano pubblicate e comunicate attraverso l’intera rete delle occupazioni. Ciò consentì l’emergere di un modello organizzativo ampiamente condiviso. La sua caratteristica più importante era la deliberata assenza di una leadership formale. Il movimento non aveva alcun leader, né a livello locale né nazionale o globale. Si trattava di un principio fondamentale imposto con la massima determinazione dalla moltitudine degli occupanti ogni volta che qualcuno cercava di assumere un ruolo preminente. Era un vero e proprio esperimento nell’organizzazione dei movimenti sociali che puntava a smentire assodate ipotesi per cui nessun processo socio-politico possa funzionare senza un qualche tipo di guida strategica e di autorità verticale. Il movimento Occupy non aveva alcun tipo di leadership, tradizionale, razionale o carismatica che fosse – e tantomeno personalizzata. Le necessarie funzioni di leadership erano esercitate a livello locale durante le periodiche assemblee generali negli spazi occupati. Mentre le funzioni di coordinamento che contribuivano a dar forma alle decisioni collettive venivano assunte dalle reti di consultazioni continue via Internet. Per assicurare comunque qualche forma di iniziativa compatibile con il principio delle assemblee sovrane e senza delega, emersero anche forme organizzative più complesse. Trattandosi di una delle innovazioni sociali fondamentali del movimento, è il caso di analizzarla in dettaglio. Va intanto sottolineato come la diversità delle esperienze organizzative non possa essere ricondotta a un modello univoco. Comunque qui di seguito cercherò di delinearne le caratteristiche chiave, spesso replicate nelle occupazioni di dimensioni più ampie, in modo da considerare l’esistenza di un schema implicito di democrazia diretta emergente dalla pratica del movimento stesso. Per mettere a punto questo modello ideale di organizzazione Occupy, insieme al mio gruppo di lavoro, ci siamo basati sui siti web delle occupazioni che più spesso pubblicavano informazioni su come partecipare e come organizzarsi. La descrizione che segue poggia su citazioni dirette da queste fonti. Dato che questi documenti sono circolati liberamente all’interno del movimento e tra le occupazioni, molti includono testi e immagini simili tra loro. Questo è un altro esempio dell’importanza di Internet nella pratica del movimento. Il potere decisionale per un determinato luogo occupato resta esclusivamente nelle mani dell’assemblea generale, che è una «riunione orizzontale, senza leader, basata sul consenso e aperta a tutti» (questa descrizione si trova su quasi ogni sito web delle occupazioni e relative guide sull’assemblea generale). Chiunque sia presente all’assemblea generale può fare proposte o intervenire sulle proposte altrui. A eccezione di quanti scelgano di astenersi o di osservare soltanto, ci si aspetta che tutti i presenti prendano parte al processo decisionale tramite i segnali gestuali della mano. Pur in assenza di leader, l’assemblea generale viene facilitata o moderata da qualcuno della commissione facilitazione, generalmente a rotazione. Gran parte delle occupazioni seguono identiche norme complessive, pur se in alcuni casi si applicano minime varianti: «Nell’assemblea generale non esiste alcun leader né organo direttivo – la voce di ogni partecipante ha lo stesso valore. Tutti sono liberi di proporre un’idea o di esprimere un’opinione in quanto parte dell’assemblea generale». Idealmente, soltanto le decisioni che concernono l’intero gruppo vengono sottoposte all’attenzione dell’assemblea generale. Azioni minori che avvengono al di fuori dell’occupazione vengono pianificate in piccoli gruppi senza l’approvazione dell’assemblea generale. Gruppi di lavoro e di affinità possono prendere decisioni al loro interno, ma devono poi sottoporre le questioni riguardanti l’intera occupazione all’approvazione dell’assemblea generale. Ogni proposta segue l’identico formato di base: un partecipante descrive la proposta, ne illustra le motivazioni e le procedure operative. Altri presenti esprimono sostegno, pongono domande o reagiscono alla proposta. Dopo una discussione sufficientemente ampia, e quando sembra che il gruppo sia vicino al consenso, il facilitatore propone all’intera assemblea generale di esprimersi, tramite una serie di gesti manuali, su ogni proposta (Figura 1). Se il consenso è positivo, la proposta viene accettata e si passa all’azione diretta. Figura 1 Flusso del consenso e gesti manuali nel movimento Occupy

Fonte: .

Se invece non si raggiunge il consenso, all’interessato viene chiesto di rivedere e ripresentare la proposta finché l’assemblea generale non raggiunge il consenso – che in alcune assemblee doveva essere totale, mentre in altre veniva modificato o ridotto, tipo al 90 per cento. Questa è stata una questione controversa in svariate occupazioni. Vista la difficoltà di raggiungere un consenso davvero uniforme, i partecipanti esprimono il loro disaccordo in due modi diversi: mettendosi da parte – per motivi quali non- sostegno, riserve e conflitti personali – e con il blocco. In teoria, il blocco del consenso è qualcosa a cui si doveva ricorrere soltanto in situazioni estreme. In pratica, veniva usato con una certa frequenza. Vengono poi formati vari comitati per implementare le decisioni dell’assemblea generale, per organizzare l’accampamento e sviluppare altre pratiche. La maggioranza delle occupazioni include i seguenti comitati, pur se a volte con nomi o categorie leggermente diversi: facilitazione, media, diffusione, cibo, azione diretta, sicurezza e quiete interna, igiene/sostenibilità, finanze/risorse, legale, medico, social media, programmazione, persone di colore, relazioni stampa, ecc. Per essere riconosciuti ufficialmente, i comitati vanno concordati nell’assemblea generale, contrariamente ai gruppi meno formali, chiamati gruppi di affinità. I comitati si occupano di questioni specifiche, sottopongono proposte al consenso dell’assemblea generale, identificano e comunicano informazioni che tutti devono prendere in considerazione. La partecipazione ai gruppi di lavoro è aperta a tutti, ma la gestione è affidata a quanti si presentano regolarmente, assumono delle responsabilità e danno seguito agli impegni. Alla fine questi ruoli vengono associati a specifici individui che diventano il punto di riferimento del comitato stesso. Per consentire una maggiore operatività senza tradire il principio della mancanza di leadership, svariate occupazioni hanno adottato il modello del consiglio dei rappresentanti («Spokes Council»), nel tentativo di migliorare la comunicazione tra gruppi di lavoro e comitati, creare maggior responsabilità e limitare le capacità dei visitatori nell’ostacolare il processo del consenso. I portavoce sono individui designati dai comitati e dai gruppi di affinità a rappresentarne le posizioni11. Questi i maggiori compiti del consiglio: migliorare il coordinamento tra vari gruppi ed entità; prendere decisioni di tesoreria; consentire all’assemblea generale di affrontare discussioni di ampia portata, anziché essere costretta a occuparsi di lunghi processi decisionali sull’implementazione degli orientamenti generali. In parecchi casi, la creazione di quest’organo ha suscitato controversie, e molte occupazioni non lo riconoscono. Come ha spiegato un occupante alla rivista The Village Voice: «Credo che tramite il consiglio dei rappresentanti, i gruppi di lavori tendono a diventare organizzazioni e partiti. Perché mai dovremmo automarginalizzarci?»12. Comunque il consiglio può essere adottato soltanto con l’approvazione dell’assemblea generale ed è pensato per facilitare il processo decisionale in modo produttivo e spedito tra quanti operano attivamente per conto del movimento. È aperto a tutti come osservatori, ma la partecipazione è limitata a chi è già attivo in un gruppo di lavoro e in quelli autodeterminati («Caucus»). Sono state tuttavia prese delle misure per assicurarsi che tutte le decisioni del consiglio dei rappresentanti rimangano aperte e trasparenti: le riunioni avvengono in luoghi al coperto, ben pubblicizzati e con impianto di amplificazione, in modo che tutti possano ascoltare; sono trasmesse online via livestreaming; tutti i resoconti, comprese le decisioni di bilancio e altri dettagli, devono essere completamente trasparenti e vengono pubblicati sul sito web dell’occupazione. Il consiglio dei rappresentanti include gruppi di diverso tipo: a. gruppi di lavoro, impegnati nella gestione di questioni logistiche per conto dell’occupazione. In alcuni casi sono divisi in gruppi operativi, che curano l’organizzazione pratica e finanziaria su base quotidiana, e gruppi di movimento, dediti agli interventi e alle campagne del movimento, spesso finalizzati a progetti specifici. b. Gruppi autodeterminati, centrati su esperienze condivise di marginalizzazione nella società in base a etnia, genere, sessualità, capacità fisiche, senza tetto o altre categorie. I gruppi di lavoro e autodeterminati vengono poi raggruppati in insiemi («Clusters») dotati degli stessi poteri, inclusa la possibilità di bloccare le proposte che possono avere conseguenze nettamente avverse per gli stessi promotori. c. Un rappresentante viene assegnato anche a coloro che sono nell’accampamento a tempo pieno senza però far parte di nessun gruppo di lavoro o autodeterminato.

A livello procedurale, prima di ogni consiglio dei rappresentanti ogni gruppo di lavoro e autodeterminato decide di quale «cluster» far parte e questi si riuniscono per mettere a punto le proposte, con una persona che funge da «spoke». I portavoce si siedono in cerchio, con gli altri partecipanti direttamente dietro di loro. Nel caso di persone coinvolte in più gruppi, sono liberi di scegliere a quale gruppo prendere parte. Soltanto i rappresentati possono prendere la parola in queste riunioni, ma devono conferire e riportare accuratamente con i membri del proprio «cluster» prima di esprimersi a loro nome – pena la ricusazione nel caso di inadempienze. I rappresentati presentano al consiglio le proposte stilate dai vari «cluster», poi questi ultimi discutono la proposta tra loro e infine i rappresentati sintetizzano queste discussioni davanti all’intero gruppo. Dopo una discussione sufficientemente ampia, gli «spoke» chiedono il consenso ridotto sulla proposta. Questo modello rende assai più difficile per i singoli bloccare una proposta senza il preventivo consenso del rispettivo «cluster». La complessità di questo modello organizzativo rivela la tensione esistente tra il principio della democrazia integrale, basato sull’assenza di deleghe per il processo decisionale, e la necessità strumentale di raggiungere un consenso che porti all’azione. Pur se di fatto parecchi casi deviano dal flusso di decisioni interattive e multi-strati delineate in questa panoramica sintetica delle assemblee e dei comitati attivi, ciò illustra l’impegno costante nella ricerca di nuove forme politiche all’interno del movimento capaci di prefigurare nuove forme di democrazia nella società in generale. In tal modo, il movimento Occupy mette alla prova l’attuale pratica delle istituzioni politiche statunitensi, ispirandosi al contempo ai principi portanti della democrazia partecipata che è stata una della maggiori spinte della Rivoluzione Americana.

Un movimento senza richieste: «il processo è il messaggio»13

Il movimento è emerso come un’espressione, in gran parte spontanea, di indignazione, eppure pregno di speranza per un mondo migliore, che prese a materializzarsi nella vita quotidiana degli accampamenti, nel dialogo e nella collaborazione dei social network, e nelle coraggiose manifestazioni di piazza dove quei legami trovavano concretezza. Ma con quali obiettivi? Per molti osservatori, la difficoltà di quantificare il movimento Occupy Wall Street stava nella mancanza di precise richieste che potevano essere ottenute o negoziate. Nell’appello iniziale a scendere in strada c’era una richiesta concreta: l’istituzione di una Commissione presidenziale per imporre l’indipendenza delle istituzioni nei confronti di Wall Street. In realtà, ex dirigenti di Wall Street avevano occupato posti chiave nelle precedenti amministrazioni di tutti i presidenti USA, compresa quella Obama. Una ricerca del Fondo Monetario Internazionale riportava significativi legami statistici tra il denaro speso dai lobbysti del settore finanziario nel periodo 2000-06 e i voti in Congresso a favore di tale settore su 51 importanti disegni di legge14. Se l’indignazione era diretta contro Wall Street, sembrava logico che la richiesta di tenere separati denaro e politica fosse l’obiettivo unificante dell’intero movimento. Ma le cose non stavano così. Il movimento chiedeva tutto e niente allo stesso momento. Considerandone anzi il variegato carattere, ogni occupazione aveva una propria specificità locale e regionale: ogni partecipante manifestò le sue lamentele e definì i suoi obiettivi. Circolavano molte proposte di varia natura, poi votate nelle assemblee generali, ma con scarso interesse a tradurle in campagne che andassero oltre l’opposizione agli effetti dei pignoramenti ipotecari o degli abusi economici ai danni di debitori e consumatori. L’elenco delle richieste menzionate e discusse più spesso nelle varie occupazioni rivela la straordinaria diversità degli obiettivi del movimento: tenere sotto controllo le speculazioni finanziarie, soprattutto gli scambi azionari di alto livello; chiedere la revisione dei conti per la Federal Reserve; affrontare la crisi del mercato immobiliare; regolamentare le spese sullo scoperto di conto; controllare la manipolazione della moneta; opporsi all’outsourcing occupazionale; tutelare la contrattazione collettiva e i diritti dei sindacati; riformare la normativa fiscale; riformare il finanziamento alle campagne elettorali; opporsi alla sentenza della Corte Suprema a favore di contributi illimitati alle campagne elettorali da parte delle corporation; imporre il divieto dei salvataggi governativi delle imprese; ridurre l’industria militare; migliorare l’assistenza ai veterani di guerra; limitare la durata del mandato per i politici in carica; difendere la libertà di Internet; assicurare la privacy su Internet e nel mondo dei media; combattere lo sfruttamento economico; riformare il sistema penitenziario; riformare l’assistenza sanitaria; combattere razzismo, sessismo e xenofobia; migliorare la situazione dei prestiti agli studenti; opporsi alla costruzione dell’oleodotto Keystone e altri progetti distruttivi dell’ambiente; emanare direttive contro il surriscaldamento globale; multare e monitorare la BP e altre multinazionali che inquinano; tutelare i diritti degli animali; sostenere fonti di energia alternativa; mettere in discussione la leadership personale e l’autorità verticale, a cominciare da una nuova cultura democratica negli accampamenti; stare attenti a non essere cooptati dal sistema (come successo con il Tea Party). Citando Sydney Tarrow: «Tutto ciò è lungi da una piattaforma programmatica. Ma questo nuovo tipo di movimento non è interessato alle piattaforme programmatiche» (2011: 1). Alcune occupazioni, come quelle di Fort Lauderdale, in Florida, e di New York, hanno approvato elaborati documenti che dettagliavano le motivazioni di una lunga serie di richieste. Il documento che ha ricevuto maggior diffusione nell’intero movimento è stato la Dichiarazione dell’occupazione di New York City (si veda in appendice), approvata dall’assemblea generale di New York City il 29 settembre 2011 e tradotto in 26 lingue. C’erano però più lamentele che richieste, e queste ultime avevano un carattere generico. Altri documenti, come la «Dichiarazione del 99%» di New York, o le bozze propositive di Chicago, Washington DC e molte altre città, non raggiunsero il consenso necessario e non sono quindi rappresentative del movimento in quanto tale. Anzi, molti venivano attratti dal movimento precisamente perché rimaneva aperto a proposte di ogni tipo e non proponeva specifiche posizioni programmatiche che avrebbero suscitato sostegno ma anche opposizione al suo interno, come dimostrato dalle divisioni emerse nella maggioranza delle occupazioni ogni volta che un comitato diffondeva specifici programmi di riforma. Per molti partecipanti, e per quasi tutti gli osservatori esterni, soprattutto gli intellettuali di sinistra sempre alla ricerca della politica dei loro sogni, la mancanza di richieste specifiche era una lacuna fondamentale. Ovviamente in una situazione sociale ed economica così terribile c’è urgente bisogno di cambiamento, e ciò può essere raggiunto soltanto convogliando l’energia liberata dal movimento in una serie di obiettivi raggiungibili, di breve termine che, a loro volta, non farebbero che rafforzare il movimento stesso. Il problema, tuttavia, è che «il movimento» non è un’entità univoca bensì risulta composto da molteplici flussi che confluiscono in un contesto diversificato che lancia la sfida all’ordine costituito. Inoltre, un sentimento assai forte e diffuso è che qualsiasi approccio pragmatico per ottenere quanto richiesto dovrebbe passare per la mediazione del sistema politico, e ciò sarebbe in contraddizione con la generalizzata sfiducia riguardo la rappresentatività delle istituzioni politiche statunitensi nella loro attuale forma. Credo che questa dichiarazione, ripresa dal dibattito svoltosi nel comitato richieste dell’assemblea generale di New York, esprima un sentimento assai diffuso nel movimento:

Vorrei proporvi un diverso approccio su questo punto. Il movimento non ha bisogno di avanzare alcuna richiesta, perché questo movimento è un processo affermativo. Questo movimento ha la forza per influenzare il cambiamento. Non ha bisogno di chiederlo. Occupy Wall Street non pone richieste. Asseriremo semplicemente la nostra forza per ottenere quel che ci preme. Quanti più saremo a sostenere la causa, tanto più forti saremo. Non chiediamo ad altri di risolvere questi problemi. Affermiamo noi stessi15.

Pur trattandosi di una posizione controversa, e considerata suicida dalla vecchia sinistra politica al di fuori del movimento, riflette due tendenze fondamentali: (a) la maggioranza della gente non ha alcuna fiducia nell’attuale processo politico, perciò bisogna contare solo su se stessi; (b) il movimento è ampio e forte perché unisce sogni e indignazione ignorando la politica tradizionale. Questa è la sua forza e la sua debolezza. Ma il movimento è fatto così, non è certo un surrogato per la vecchia sinistra alla continua ricerca di sostegno fresco per la sua irrisolta visione del mondo. Nessuna richiesta e ogni richiesta; non un pezzo di questa società, bensì la totalità di una società diversa.

La violenza contro un movimento non-violento

Il movimento Occupy ha pienamente abbracciato la non-violenza, sia come filosofia sia come pratica. Decisione però conflittuale, perché la tattica di occupare degli spazi fisici per costruire autonomia, e di manifestare nelle strade contro i nodi funzionali del sistema, era destinata a confrontarsi con l’intervento della polizia – una situazione prevista dai partecipanti. Sfidare il sistema al di fuori dei canali istituzionalizzati per il dissenso significava rischiare la repressione della polizia. Esiste però sempre una zona grigia di legalità e di calcolo politico che il movimento ha cercato di usare a proprio vantaggio. Come esempio, l’occupazione di Zuccotti Park per un certo periodo rimase protetta, in modo paradossale, perché ne era proprietaria un’azienda privata che impiegò del tempo per l’analisi costi/benefici prima di chiamare la polizia per sgomberarlo. Una città dopo l’altra, le autorità locali responsabili dovettero valutare le potenziali ricadute sul loro futuro politico rispetto alle diverse decisioni che avrebbero preso nei confronti del movimento. Per esempio, a Los Angeles il sindaco Antonio Villaraigosa aveva ambizioni politiche per un incarico più importante e diffuse un comunicato, sottoscritto dalla maggioranza del consiglio cittadino, che sosteneva gli obiettivi del movimento, ma non l’occupazione a lungo termine del prato davanti al Municipio (viene usato spesso al posto di quello di Washington DC nei film di Hollywood, per cui il Comune avrebbe perso soldi se lo avesse concesso troppo a lungo per un semplice esercizio di democrazia). Los Angeles è stata l’ultima grande occupazione a essere sgomberata, con uno spiegamento di forze in pieno stile Hollywood (centinaia di poliziotti in piena tenuta antisommossa comparsi tutt’un tratto fuori dell’edificio), senza però incidenti di rilievo. Sul fronte opposto, la città di Oakland ha visto invece le feroci cariche della polizia, ben nota in zona e nel paese per numerosi casi di omicidi e arresti ingiustificati, e per le cariche violente contro i manifestanti. A Oakland si sono avuti parecchi scontri violenti nei ripetuti tentativi di sgomberare la piazza occupata, con decine di feriti, centinaia di arresti e due veterani di guerra feriti in modo grave e portati in ospedale. Il comportamento della polizia ha radicalizzato il movimento di Oakland, al punto che il 3 novembre i manifestanti sono riusciti a chiudere il porto della città, il secondo più grande sulla costa statunitense del Pacifico, al prezzo di scontri campali con la polizia. New York ha oscillato tra l’iniziale tolleranza e diverse occasioni di pesante repressione. Anche molti campus universitari vennero occupati, inclusi quelli elitari di Yale, Berkeley e Harvard. A un certo punto, il personale di sicurezza consentiva l’ingresso nel cortile occupato di Harvard soltanto a chi ne possedeva il documento identificativo. La posizione delle autorità accademiche è apparsa alquanto differenziata. In un caso, presso la University of California di Davis, la polizia del campus ha usato spray al peperoncino, senz’alcuna giustificazione, contro alcuni occupanti pacificamente seduti sul prato, suscitando indignazione in tutto il mondo e portando alla sospensione disciplinare degli agenti in questione. In termini generali, il movimento si è dimostrato calmo ma determinato, mentre un po’ ovunque la polizia locale era pronta a picchiare e arrestare alla minima occasione di farlo legalmente, pur se alcuni poliziotti hanno affermato in privato di trovarsi d’accordo con gli obiettivi del movimento. La violenza che spesso ne è scaturita ha avuto due effetti diversi: da una parte, ha fatto lievitare la solidarietà con gli occupanti oggetto della violenza, ampliando la mobilitazione ben oltre i luoghi dove avveniva la repressione. Dall’altra parte, ogni immagine violenta trasmessa in televisione creava una frattura tra il movimento e il 99% che aspirava a rappresentare. Un elemento decisivo nel proteggere gli occupanti dalla violenza è stato la massiccia pratica di effettuare riprese video con i cellulari da parte di centinaia di persone presenti a ogni manifestazione. Le testate mainstream riportavano soltanto quel che volevano i direttori, mentre il movimento ha trasmesso di tutto, rilanciando su Internet quanto andava accadendo in ogni scontro con la polizia. In alcuni casi, le immagini della brutalità dei poliziotti portavano nuova linfa ai manifestanti e inducevano alla simpatia popolare spazzando via i pregiudizi contro il movimento, che alcuni media dipingevano come violento. Nelle manifestazioni c’era qualche gruppo radicale organizzato (in particolare i Black Bloc), come anche dei «soggetti autonomi», che si sono scagliati contro la polizia, danneggiando anche edifici pubblici, banche e negozi. Sono riusciti a creare violenza soltanto in quelle situazioni dove la polizia aveva già innescato un’atmosfera violenta. È stato in particolare il caso di Oakland, dove il 28 gennaio 2012 i manifestanti hanno invaso il municipio e dato fuoco a una bandiera americana. Tuttavia la questione della violenza è stata discussa spesso nelle assemblee generali, generando una sistematica opposizione, delineando diverse strategie per ridurre la violenza della polizia e le provocazioni delle frange radicali, inclusi i provocatori esterni al movimento stesso. Nella stragrande maggioranza dei casi, queste strategie hanno avuto successo. Eppure negli spazi occupati e nelle manifestazioni in strada si poteva sentire costantemente la presenza della polizia, cosa che ha portato sia a una maggiore radicalizzazione del movimento sia alla separazione tra le sue azioni e la percezione della maggioranza delle persone, la cui vita è dominata dalla paura. Intorno alla metà del novembre 2011, si svolse una riunione telefonica tra 18 sindaci di città con occupazioni attive per discutere come gestire il movimento. In quello che a molti parve un intervento coordinato, nelle settimane successive si ebbero sgomberi in tutti gli Stati Uniti. Il pretesto usato per gli interventi forzati fu lo stesso ovunque: i timori per l’igiene pubblica, nonostante gli sforzi per tenere pulito compiuti ogni giorno nella maggior parte dei luoghi occupati. Nel giro di poche settimane le forze di polizia riuscirono a far sgomberare gli occupanti, generalmente con il minimo ricorso alla violenza, poiché nella maggior parte dei casi le persone rimaste avevano deciso di traslocare altrove, per ri-organizzarsi e preparare l’offensiva primaverile tramite nuove forme di protesta. Il seguito alla prossima puntata.

Quali le conquiste del movimento?

Poiché il movimento non si è mobilitato a sostegno di richieste specifiche, non si sono avuti cambiamenti sostanziali a seguito delle sue azioni. Tuttavia diverse campagne degli occupanti hanno portato a parziali trasformazioni in un certo numero di pratiche poco corrette. È stato in particolare il caso delle campagne sulla situazione del mercato immobiliare, questione importante per il movimento. Il 6 dicembre 2011 diversi gruppi «occuparono» parecchie abitazioni sotto pignoramento in molte zone del paese, con l’obiettivo di far pressione sui proprietari affinché apportassero sostanziali riduzioni del mutuo. In alcuni casi ebbero successo, ottenendo perfino il ripristino di mutui già cancellati. Gli occupanti si concentrarono soprattutto su pignoramenti assurdi come quelli ai danni di persone anziane o di veterani di guerra invalidi, mettendo a nudo l’ingiustizia del sistema. Ci furono anche diffusi tentativi di far pressione sui grandi istituti bancari tramite iniziative dirette agli stessi clienti, quali il «Bank Transfer Day», riprendendo precedenti campagne che incoraggiavano individui e istituzioni a trasferire i propri risparmi dalle maggiori banche nazionali di Wall Street su conti presso piccole banche locali e cooperative di credito non-profit. Tra queste vanno annoverate la campagna di Arianna Huffington «Move Your Money» del 2009 e quella del movimento della Festa di San Valentino del 2010, denominata «Break up with your Bank». Poi nel settembre 2011, dopo l’annuncio della sull’introduzione di una tassa di cinque dollari al mese su carte di debito e conti personali, si sollevò un’ondata di proteste e molti clienti chiusero i propri conti bancari. La reazione negativa portò la Bank of America a fare marcia indietro, ma altre tassazioni sembrano imminenti. Al 15 ottobre 2011, la pagina Facebook dedicata all’iniziativa aveva raccolto oltre 54.900 «mi piace». Il 5 novembre venne dichiarato «Bank Transfer Day», invitando la gente a trasferire fondi e risparmi da istituti bancari commerciali verso banche locali e cooperative di credito non-profit. Secondo la Credit Union National Association (CUNA), il sito web dedicato all’iniziativa vide un raddoppio del traffico nelle richieste di informazioni e quasi 650.000 clienti aprirono nuovi conti presso le loro filiali tra settembre e il 5 novembre16. In altri casi, qualche movimento Occupy decise di aprire la propria cooperativa di credito: è il caso di Occupy Orange County, nella California meridionale, oltre ad analoghe cooperative di credito comunitarie segnalate a San Francisco, Boston e nello stato di Washington. Tuttavia, pur trattandosi di iniziative esemplari nel carattere, non erano che mere gocce d’acqua nell’oceano dell’ingiustizia che il movimento si trovava davanti. La speranza era che simili iniziative potessero infondere il coraggio per resistere e allertare i cittadini in generale rispetto a situazioni socialmente insostenibili. In tal senso, l’analisi pare dar credito alla caratterizzazione proposta da George Lakoff secondo cui Occupy Wall Street è un movimento morale che punta a influenzare il discorso pubblico (2011). Nonostante le sue limitazioni, i sondaggi dell’opinione pubblica sembrano infatti indicare un significativo mutamento culturale come conseguenza delle azioni e dei proclami del movimento. Secondo un sondaggio curato il 9 novembre 2011 da The New York Times, quasi il 50 per cento del pubblico statunitense riteneva che i sentimenti alla radice del movimento in generale riflettevano le opinioni degli americani17. Un’indagine del Pew Institute sulla posizione riguardo a Occupy Wall Street di un campione nazionale di 1521 adulti, diffuso il 15 dicembre 201118, rivelava che il 44 per cento era a favore del movimento, con un 39 per cento di contrari (si veda in Appendice). Ancora, il 48 per cento concordava sulle preoccupazioni espresse da Occupy Wall Street mentre il 30 per cento era in disaccordo. Tuttavia, rispetto alle tattiche impiegate (riferendosi a occupazioni e manifestazioni), il 49 per cento era contrario e soltanto il 29 per cento le appoggiava. Sembra che schierarsi a favore di attività non istituzionali rappresenti ancora una barriera per la maggioranza dei cittadini, pur essendo d’accordo sulle cause della protesta. Ovviamente la posizione sul movimento varia a seconda del livello di reddito, istruzione, età e ideologia politica: i cittadini più anziani, conservatori, più agiati e meno educati erano contrari al movimento, il quale riceveva invece ampio sostegno da parte di altre fasce demografiche. Tuttavia, il punto cruciale è che un movimento che si pone chiaramente al di fuori della politica istituzionale e sfida frontalmente il cuore del capitalismo globale, cioè Wall Street, ha ricevuto il significativo sostegno dell’America mainstream. Comunque, l’elemento davvero decisivo per stabilire l’effetto politico di un movimento sociale concerne l’impatto sulla consapevolezza della gente, come ho sostenuto in questo libro, e più dettagliatamente in altre opere precedenti (Castells 2003; 2009). Come conseguenza del movimento, e del dibattito che ha generato su Internet e sulle testate tradizionali, la questione della disuguaglianza sociale, simboleggiati dall’opposizione tra il 99% e l’1%, è diventata di primo piano nel discorso pubblico. Politici (compreso il presidente Obama), analisti e comici hanno fatto proprio quel termine, sostenendo di rappresentare il 99%. A prescindere dal cinismo di una simile dichiarazione da parte di una classe politica che in genere difende gli interessi delle élite economiche e corporative come prerequisito per il proprio futuro politico, il semplice fatto di accettare questa dicotomia ha conseguenze profonde rispetto alla fiducia nella correttezza del sistema. Se dobbiamo credere ai risultati di un sondaggio curato dal Pew Institute nel dicembre 2011, illustrato nelle Figure 2-4, appare ormai infranto il vecchio sogno americano sulla parità delle opportunità basate sull’impegno individuale. In aggiunta, il 61 per cento ritiene che il sistema economico del paese «favorisce ingiustamente i più ricchi», e il 77 per cento si dice d’accordo con la dichiarazione che «c’è troppo potere nelle mani di un pugno di super-ricchi e di grandi corporation», compreso il 53 per cento di repubblicani.

Figura 2 Ridotto sostegno all’idea che «lavorare sodo porta al successo» Fonte: Pew Research Center, 2011.

Figura 3 Percezione dei conflitti sociali nella società

Percentuale di persone che sostengono l’esistenza di conflitti “forti” o “molto forti” tra… 2009 2011 ricchi e poveri 47 66 immigranti e locali 55 62 neri e bianchi 39 38 giovani e vecchi 25 34

Fonte: Pew Research Center, 2011.

Eppure, quel che è relativamente nuovo e significativo sono i segnali per cui Occupy Wall Street sembra aver influito sulla consapevolezza degli americani rispetto alla realtà di quella che mi azzarderei a definire una lotta di classe. Non a caso, secondo un sondaggio del Pew Institute su un campione nazionale di adulti compreso tra i 18 e i 34 anni, diffuso l’ 11 gennaio 2012, il 66 per cento ritiene che esistano conflitti «forti» o «molto forti» tra ricchi e poveri: un aumento di 19 punti percentuali dal 2009. Non soltanto la percezione dei conflitti di classe è diventata prevalente, ma lo stesso vale per la convinzione che questi confronti si sono fatti acuti: il 30 per cento sostiene che esistono «conflitti molti forti» tra ricchi e poveri, raddoppiando la proporzione di un analogo sondaggio del luglio 2009, ed è la più ampia percentuale che ha espresso questa opinione da quando la domanda venne posta per la prima volta nel 1987. Oggi il conflitto tra ricchi e poveri supera altre tre fonti potenziali di tensioni sociali: tra immigranti e locali, bianchi e neri, giovani e anziani. In tutti i maggiori gruppi demografici il conflitto di classe viene percepito in maniera assai più significativa rispetto a due anni addietro. Tuttavia, il sondaggio ha rilevato altresì che è più probabile che giovani, donne, democratici e afro-americani sostengano l’esistenza di forti tensioni tra ricchi e poveri, contrariamente a quanto ritengano invece anziani, uomini, repubblicani, bianchi o ispanici.

Figura 4 Favorevoli e contrari a Occupy Wall Street, ai timori sollevati dai manifestanti e alle modalità della protesta Fonte: Pew Research Center, 7-11 dicembre 2011 e 8-11 dicembre 2011. Le cifre totali superano il 100% per via dell’arrotondamento.

Il maggior incremento nella percezione dei conflitti di classe si è avuto tra l’ala liberal e gli americani che dicono di non essere affiliati con nessuno dei due maggiori partiti. In ciascun gruppo, la proporzione che sostiene l’esistenza di forti disaccordi tra americani ricchi e poveri è cresciuta di oltre 20 punti percentuali dal 2009. Citando il rapporto:

Questi cambiamenti di attitudine in un periodo relativamente breve di tempo possono riflettere il messaggio della disuguaglianza, in termini di guadagno e di ricchezza, trasmesso nel paese dagli attivisti di Occupy Wall Street che sul finire del 2011 portò al picco dell’attenzione sul tema. I cambiamenti potrebbero però anche rivelare la crescente consapevolezza nell’opinione publica riguardo le velate trasformazioni nella distribuzione della ricchezza nella società americana19.

Occorre tuttavia notare che la percezione di socialismo e capitalismo è cambiata poco dal 2010. Infatti la maggioranza dei sostenitori del movimento Occupy non è apertamente critica del capitalismo, rispetto al quale le opinioni negative e positive si equivalgono. La critica si concentra sul capitalismo economico e sui suoi effetti sulle istituzioni, non sul capitalismo in quanto tale. Il movimento non abbraccia le ideologie del passato, bensì punta a eradicare la negatività del presente mentre reinventa la comunità del futuro. La sua conquista fondamentale è stata quella di riaccendere la speranza che un’altra vita è possibile.

Il sale della terra20

Come fare per ottenere cambiamenti importanti quando non ci si fida delle istituzioni politiche e ci si rifiuta di rovesciarle in modo violento? Quando i meccanismi della rappresentazione non funzionano in modo appropriato, quando sono i poteri inaffidabili, come le istituzioni finanziarie e le corporation dei media, a definire i termini e gli esiti del processo deliberativo e decisionale all’interno di una serie limitata di opzioni, e quando deviazioni importanti dalle norme distorte del gioco sono soggette all’intimidazione da parte delle forze di sicurezza e di un sistema giudiziario imposto dai politici? Questo il dilemma che hanno dovuto affrontare quanti decisero di non voler subire la rassegnazione e la passività, quanti preferirono rischiare per avventurarsi nell’esplorazione di nuovi percorsi di resistenza politica e di trasformazione sociale quando si videro costretti ad accollarsi le difficoltà di una crisi finanziaria ingiustamente imposta loro. Dopo le deliberazioni su Internet, con l’aiuto di occasionali incontri faccia a faccia per ritrovarsi e praticare la convivenza, fecero ricorso alla più vecchia tattica del potere quando non si può resistere alla tentazione di essere come il nemico per poterlo sopraffare: misero in atto la disobbedienza civile. Presero di mira il bene più essenziale che plasmava la loro vita e la vita di tutti: il denaro virtuale. Il valore che non esiste a livello materiale eppure riesce a permeare ogni cosa. Il valore che è riuscito a rifugiarsi nelle reti informatiche dei mercati finanziari globali ma che vive comunque al di fuori dei nodi territoriali che gestiscono e controllano lo spazio del flusso economico dai loro luoghi di residenza. Sfidando l’inviolabilità del potere economico assoluto sulle spiagge dell’oceano del capitale globale, materializzarono la resistenza, dando un volto alla fonte dell’oppressione che stava asfissiando la vita delle persone e imponendo il suo dominio sugli stessi dominatori. Hanno messo in piedi una comunità conviviale in quei luoghi dove prima c’erano soltanto le sedi del potere e dell’avarizia. Hanno trasformato le provocazioni in esperienza. Hanno autogestito la connessione mediatica con il mondo e le connessioni tra di loro. Si sono opposti alla minaccia della violenza con grinta pacifica. Hanno creduto nel loro diritto a credere. Si sono uniti tra loro per poi raggiungere gli altri. La convivialità ha dato loro senso. Non hanno raccolto denaro, né hanno pagato i loro debiti. Hanno raccolto se stessi. Hanno raccolto il sale della terra. E hanno raggiunto la libertà.

Note

1. Nel concludere l’analisi della campagna di Obama, una volta vinte le elezione, scrivevo:

Le possibili deviazioni [di Obama] dalle sue idee iniziali per via delle aspre realtà economiche e geopolitiche rimangono questione di studio per il futuro. Eppure, mentre scrivo queste parole e voi le leggete in un altro contesto spazio-temporale, la lezione fondamentale da tenere a mente è come l’emergente politica della speranza abbia conquistato il palcoscenico della scena politica mondiale nel momento critico di una disperazione diffusa. Rimarrà pur sempre Berlino. Oppure, per quel che conta, Grant Park (2009, p. 412).

Così, dopo la disperazione è arrivata la speranza, quantomeno sufficiente per spingere la gente a eleggere presidente un afro-americano, contro la macchina di Clinton e contro quella repubblicana. Poi, in modo piuttosto rapido e perfino tra i suoi sostenitori più entusiasti, si è nuovamente diffusa la disperazione nel paese. Eppure i semi della speranza piantati nel cuore dei tantissimi che accolsero festosi Obama a Berlino e a Grant Park, non furono spazzati via dalla crisi del sistema di gestione della crisi. Produssero invece nuova speranza, sotto forme diverse, quando venne nuovamente il momento di andare oltre l’indignazione. Ci sono anzi segnali di un trasferimento di energia da quanti erano rimasti delusi da Obama verso il movimento Occupy. Secondo un sondaggio condotto nell’ottobre 2011 dal docente di scienze politiche Costas Panagopoulos della Fordham University, il 60 per cento degli occupanti nel 2008 aveva votato per Obama ma il 73 per cento di loro ne disapprovava l’operato da presidente. Un cartello piazzato in Occupy Wall Street a New York City diceva: «Il Barack Obama che abbiamo eletto sarebbe qui con noi». Su un altro si leggeva: «Impegnamoci per il cambiamento che abbiamo votato», riferendosi allo slogan della campagna di Obama del 2008. «Proprio quanti sostennero Obama sono tra gli organizzatori di Occupy. Quella stessa energia si è trasferita dall’arena elettorale alle strade», spiegava David Goodner, volontario di Occupy Des Moines, al Los Angeles Times nel dicembre 2011. Shepherd Fairey, autore del noto e influente poster di Obama con lo slogan «Hope» [speranza] del 2008, ne realizzò un altro nello stesso stile con l’immagine di Guy Fawkes (in rappresentanza di Anonymous) dove si leggeva: «Signor presidente, speriamo che tu sia dalla nostra parte», e un piccolo riquadro che diceva, «Noi siamo il 99%». L’artista aggiunse poi sul suo sito web: Considero ancora Obama la cosa più vicina a «qualcuno dall’interno del sistema» che abbiamo al momento. Ovviamente, non basta limitarsi a votare per lui. Dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione per poter raggiungere gli obiettivi e gli ideali che ci siamo preposti. Credo però che l’idealismo e il realismo debbano andare mano nella mano. Il cambiamento non riguarda un’elezione, una manifestazione, un leader, bensì richiede la costante dedizione al progresso e la spinta continua nella giusta direzione.

Occorre comunque notare che, secondo alcuni sondaggi sugli occupanti, la stragrande maggioranza prevedeva di votare nelle elezioni presidenziali del 2012 e circa la metà propendeva verso i democratici, con una piccola percentuale a favore del candidato repubblicano, mentre quasi il 40 per cento era ancora indeciso. In alcuni casi, qualche membro attivo nel movimento ha deciso di presentarsi alle elezioni in sostegno delle richieste del movimento. Per esempio, Nate Kleinman, 29enne attivista di , è candidato al Congresso nel 13.mo distretto della Pennsylvania contro il parlamentare uscente, il democratico Allyson Schwartz. Tuttavia il movimento in quanto tale non ne sostiene la candidatura. In altri termini, la maggioranza degli occupanti sono interessati alla politica e per lo più di tendenze progressiste. Semplicemente non credono che i loro obiettivi possano essere raggiunti da qualsivoglia risultati elettorali senza una precedente trasformazione dell’opinione pubblica in generale. 2. DeGraw, D. (2010), L’elite economica ha organizzato uno straordinario colpo di stato, minacciando l’esistenza stessa della classe media, AmpedStatus/Alternet. Si veda: www.alternet.org/economy/145667/?page=entire. 3. Chase-Dunn, C. e Curran-Strange, M. (2011), Diffusione del movimento Occupy in California, IROWS Working Paper # 74. Si veda: http://irows. ucr.edu/ papers/irows74/irows74.h. 4. Occupy Research Network (2012), Sondaggio sulle fasce demografiche e sulla partecipazione politica. Si veda: http://occupyresearch.net. 5. Cordero-Guzman, H. (2011), Sostegno diffuso per un movimento mainstream: il movimento del 99% viene da e assomiglia al 99%, Profilo del traffico sul web ripreso da occupywallst.org. Si veda: http://occupywallst.org/media/pdf/OWS-profile1-10-18-11-sent-v2-HRCG.pdf. 6. Zevon, C. 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La richiesta era spiegata in modo confuso, come se il procuratore distrettuale non conoscesse l’esatto funzionamento di Twitter, dato che non esiste alcun legame diretto tra l’account degli utenti e gli hashtag, e come se richiedessero i dati di tutti gli utenti che usavano quegli hashtag, che sarebbero stati centinaia di migliaia. Inoltre, l’account @occupyboston è inattivo e non ha nulla a che vedere con il movimento. La policy di Twitter prevede l’inoltro di tali ingiunzioni agli utenti interessati per consentire loro di intraprendere i necessari passi legali, a meno che all’azienda non venga specificamente imposto di non farne menzione con chicchessia. Sembra che uno di questi utenti ricevette l’ingiunzione da Twitter e la pubblicò online. La mozione presentata dall’ACLU (American Civil Liberties Union) per annullare l’ingiunzione del procuratore distrettuale venne respinta dal giudice Carol Ball, che anzi promulgò un’ulteriore ordinanza imponendo il silenzio a entrambe le parti sulla vicenda, misura straordinaria generalmente limitata a casi di sicurezza pubblica, investigazioni in atto, intimidazioni di testimoni o possibilità di fuga di un sospetto. In un altro caso del gennaio 2012, un tribunale penale di New York richiese «tutti i dati relativi all’utente» dell’account Twitter @destructuremal dal 15 settembre al 31 dicembre 2001, che appartiene a Malcolm Harris, attivista di Occupy già arrestato, insieme ad altri 700, sul ponte di Brooklyn il 5 ottobre 2011. 10. Dupay, T. (2012), L’ascesa del livestream: raccontare la verità su Occupy in tempo reale, AlterNet. Si veda: www.alternet.org/occupywallst/154272/rise_of_the_livestreamer_telling_the_truth_about_occupy_in _re al_time?page=1. 11. Il termine inglese «Spokes Council» si riferisce sia a «spokespeople», portavoci che parlano a nome del rispettivo gruppo, e in modo metaforico agli «spokes», i raggi di una ruota di bicicletta, quando i membri siedono in cerchio e il portavoce ruota a ogni riunione. 12. Gray, R. (2011), «Occupy Wall Street lancia il nuovo Spokes Council», The Village Voice. Si veda: http://blogs.villagevoice.com/runninscared/2011/11/occupy_ wall_str_25.php. 13. L’occupante Meghann Sheridan scrisse il testo «Il processo è il messaggio» sulla pagina Facebook di Occupy Boston, poi citato da Hoffman, M. (2011) in «Gli occupanti discutono se e quali richieste porre», The New York Times. Si veda: www.nytimes.com/2011/10/17/nyregion/occupy-wall- street-trying-to-settle-on-demands.html. 14. Citato da Lawson-Remer, T. (2011), #OccupyDemocracy, Futuri possibili: un progetto del consiglio di sociologia. Si veda: www.possible-futures.org/2011/12/08/occupydemocracy. 15. Commento inserito online sul «Gruppo di lavoro sulle richieste». Si veda: http://occupywallst.org/article/so-called-demands-working-group/#comment-175161. 16. Rapport, M. (2011), Bank Transfer Day: secondo CUNA, finora 650.000 persone hanno trasferito i propri conti bancari, Credit Union Times. Si veda: www.cutimes.com/2011/11/03/bank- transfer-day-cuna-says-650000-have-so-far. 17. The New York Times (2011), Il movimento Occupy e l’opinione pubblica. Si veda: www.nytimes.com/interactive/2011/11/09/us/ows-grid.html. 18. The Pew Research Center for the People and the Press (2011), La frustrazione con il Congresso può danneggiare i repubblicani uscenti. Si veda: www.people-press.org/2011/12/15/frustration-with- congress-could-hurt-republican-incumbents. 19. The Pew Research Center for the People and the Press (2011), Un test di retorica politica: è cambiata poca l’opinione del pubblico su Capitalismo e Socialismo. Si veda: www.people- press.org/files/legacy-pdf/12-28-11%20Words%20release.pdf. 20. «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Matteo 5, pp. 3-16). «Il sale della terra: una persona o un gruppo di persone considerati i migliori nel loro genere» (Dizionario Inglese Collins). L’ovvia analogia storica riguarda la marcia di Gandhi verso l’oceano per raccogliere sale, che sfidando il divieto del governo coloniale britannico in India gettò le basi per la caduta dell’impero. Ringrazio Terra Lawson-Remer per questo suggerimento.

Riferimenti

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Selezione di altre fonti usate in questo capitolo

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Sulle campagne e le attività del movimento

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Sulle relazioni tra il movimento e la politica

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Sul rapporto tra opinione pubblica e movimento

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Fonti generali

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Abbiamo buttato giù il muro della paura Voi ci avete distrutto i muri di casa Andremo a ricostruire la nostra casa Ma voi non potrete mai ricostruire il muro della paura Tweet di @souriastrong (Rawia Alhoussaini)

Lungo il corso della storia, i movimenti sociali sono stati, e continuano a essere, le leve portanti di trasformazioni sociali in senso ampio1. Generalmente tali movimenti emergono da una crisi delle condizioni generali che rende la vita quotidiana insopportabile per la maggior parte delle persone e sono dovuti alla profonda sfiducia nelle istituzioni politiche che governano la società. La combinazione tra il degrado delle condizioni materiali di vita e la crisi di legittimità dei governanti nella gestione della res publica induce la gente a prendere in mano la situazione, impegnandosi in azioni collettive al di fuori dei canali istituzionali convenzionali a difesa delle proprie richieste, ed eventualmente per cambiare sia i governanti sia le norme che condizionano la loro vita. Si tratta tuttavia di un comportamento rischioso, poiché il mantenimento dell’ordine sociale e la stabilità delle istituzioni politiche esprimono relazioni di potere che vengono imposte, se necessario, tramite l’intimidazione e, come ultima risorsa, il ricorso alla violenza. Quindi, in quanto esperienza storica, oltre che nell’osservazione dei movimenti analizzati in questo volume, piuttosto spesso i movimenti sociali trovano la propria spinta nelle emozioni derivanti da qualche evento significativo che ha aiutato gli attivisti a superare la paura e a sfidare il potere nonostante i pericoli insiti nella loro azione. Non a caso alla base del cambiamento sociale troviamo un evento, individuale o collettivo, che ha origine a livello emotivo, trattandosi comunque di comportamenti umani, secondo recenti ricerche nell’ambito delle neuroscienze sociali (Damasio 2009). Nel contesto delle sei emozioni fondamentali identificate dai neuro- psicologi (paura, disgusto, sorpresa, tristezza, gioia, rabbia; Ekman 1973), la teoria dell’intelligenza affettiva nella comunicazione politica (Neuman et al. 2007) sostiene che la scintilla proviene dalla rabbia, mentre la repressione dalla paura. La rabbia aumenta con la percezione di un’azione ingiusta e con l’identificazione del responsabile di tale azione. La paura a sua volta innesca ansia, associata alla volontà di evitare il pericolo, e viene superata condividendo e identificando con gli altri un processo di azione comunicativa. Poi è la rabbia a prendere il controllo, portando a comportamenti rischiosi. Quando il processo dell’azione comunicativa induce all’azione collettiva e si arriva al cambiamento, tende a prevalere la più forte emozione positiva: l’entusiasmo, motore della mobilitazione sociale propositiva. Una volta superata la paura, individui entusiasti collegati tra loro si trasformano in un attore collettivo e consapevole. Quindi il cambiamento sociale deriva da un’azione comunicativa che prevede un legame tra le reti dei neuroni cerebrali stimolati dai segnali provenienti da un ambiente di comunicazione tramite le relative reti. Sono la tecnologia e la morfologia di queste reti di comunicazione a dar poi forma alla mobilitazione, e quindi al cambiamento sociale, sia come processo sia come esito finale. Negli ultimi anni, la comunicazione su larga scala ha subìto profonde trasformazioni tecnologiche e strutturali, con l’emergere di quel che ho definito autocomunicazione di massa, basata su reti orizzontali di comunicazione multi-direzionale e interattiva tramite Internet e, ancor più, grazie alle reti wireless, la piattaforma di comunicazione oggi prevalente pressoché ovunque (Castells 2009; Castells et al. 2006; Hussain e Howard 2012; Shirky 2008). È questo il nuovo contesto intorno a cui ruota la società in rete in quanto nuova struttura sociale, dove vanno prendendo forma i movimenti sociali del XXI secolo. I movimenti analizzati in questo libro, e altri analoghi sorti in varie parti del mondo, hanno tratto origine da una crisi economica strutturale e da una crescente crisi di legittimità (si veda l’Appendice a questo capitolo). La crisi economica che ha scosso le radici del capitalismo globale a partire dal 2008 ha messo in questione la prosperità dell’Europa e degli Stati Uniti, ha trascinato governi, paesi e grandi corporation sull’orlo del disastro finanziario, e ha portato alla sostanziale riduzione dello stato di benessere su cui si era fondata per decenni la stabilità sociale (Castells et al. 2012; Engelen et al. 2011). Nei paesi arabi, la crisi alimentare globale ha minacciato la sopravvivenza di molti cittadini, con il prezzo degli alimenti di base, in particolare il pane, che ha raggiunto livelli insostenibili per una popolazione che spende gran parte del magro stipendio per nutrirsi. La crescente disuguaglianza sociale, diffusa un po’ ovunque, è diventata altresì intollerabile agli occhi dei tanti che soffrono per via della crisi, avendo perso ogni speranza e ogni fiducia. Il calderone dell’indignazione sociale ha raggiunto il punto di bollitura. Eppure i movimenti sociali non sorgono soltanto dalla povertà o dalla disperazione politica. Richiedono una mobilitazione emotiva innescata dall’oltraggio per le palesi ingiustizie e dalla speranza di un possibile cambiamento sulla scia del successo delle rivolte emerse in altre parti del mondo, dove ogni sollevazione ha ispirato la successiva grazie alle immagini e ai messaggi in rete condivisi via Internet. Inoltre, nonostante le nette differenze tra i vari contesti in cui sono emersi questi movimenti, esistono alcune caratteristiche comuni che sembrano costituire un modello condiviso: la forma dei movimenti sociali nell’era di Internet.

I movimenti sociali in rete: un modello emergente?

I movimenti sociali analizzati in questo libro, insieme ad altri emersi altrove nel mondo durante gli ultimi anni2, presentano una serie di caratteristiche comuni. Operano in rete sotto una molteplicità di forme. L’uso di Internet e delle reti di comunicazione mobile è essenziale, ma questo formato è multi- modale. Include i social network online e offline, così come quelli preesistenti, insieme a ogni altro network formatosi nel corso delle attività del movimento stesso. Queste reti interne sono poi «in rete» con i movimenti di ogni parte del mondo, con la blogosfera, con i media e con la società nel suo complesso. Le tecnologie di rete sono cruciali perché offrono le piattaforme necessarie per questa pratica di rete, continua ed estesa, che va evolvendosi di pari passo alla forma cangiante del movimento. Pur se in genere i movimenti sono radicati nello spazio urbano tramite occupazioni e manifestazioni di piazza, la loro continua esistenza si manifesta nello spazio libero di Internet. Essendo una rete di reti, possono permettersi di non avere un centro identificabile e assicurare al contempo le funzioni di coordinamento e il processo deliberativo grazie all’interazione fra una molteplicità di nodi. Ecco perché non necessitano di una leadership formale, di un centro di comando o di controllo, né di un’organizzazione verticale per distribuire informazioni o istruzioni. Questa struttura decentrata massimizza la possibilità di partecipazione, trattandosi di reti aperte senza confini definiti, in continua riconfigurazione a seconda del livello di coinvolgimento della popolazione. Ciò riduce inoltre la vulnerabilità del movimento rispetto a possibili repressioni, poiché sono ben pochi i bersagli specifici da colpire, con l’eccezione dei luoghi fisici occupati, e la rete può ricompattarsi in ogni momento, fintanto che c’è un numero sufficiente di partecipanti, liberamente uniti da obiettivi comuni e valori condivisi. L’attività di networking come modo di vita del movimento lo protegge sia contro gli avversari esterni sia contro i pericoli interni di burocratizzazione e manipolazione. Pur se nati inizialmente sui social network di Internet, questi movimenti diventano tali occupando gli spazi urbani, che si tratti dell’occupazione di piazze pubbliche o della persistenza di manifestazioni in strada. Lo spazio del movimento è sempre costituito dall’interazione tra lo spazio dei flussi via Internet e reti di comunicazione wireless, e lo spazio dei luoghi occupati e degli edifici simbolici che sono bersaglio delle azioni di protesta. Questo ibrido tra cyberspazio e luoghi urbani rappresenta un terzo spazio che definisco lo spazio dell’autonomia. Nel senso che l’autonomia può essere garantita soltanto dalla capacità di organizzarsi nello spazio libero delle reti di comunicazione, ma al contempo può essere esercitata come forza trasformatrice solo sfidando l’ordine istituzionale disciplinato reclamando lo spazio urbano per i cittadini. Autonomia senza ribellione diventa arretramento, ribellione senza una base permanente per l’autonomia nello spazio dei flussi equivale a un attivismo saltuario. Lo spazio dell’autonomia è la nuova forma spaziale dei movimenti sociali in rete. I movimenti sono al contempo locali e globali. Nascono in contesti specifici, per ragioni proprie, costruiscono reti autonome e creano il loro spazio pubblico occupando spazi urbani e attivando reti su Internet. Ma sono anche globali perché vanno collegandosi al mondo intero, imparano dalle esperienze altrui e vengono anzi da queste ispirati a impegnarsi nella mobilitazione in proprio. Danno inoltre vita a un dibattito continuo e globale su Internet, e a volte lanciano manifestazioni congiunte, diffuse e contemporanee all’interno della rete di spazi locali. Esprimono notevole consapevolezza dell’interdipendenza delle questioni e dei problemi in ballo per l’umanità in generale, e rivelano una chiara cultura cosmopolita pur essendo radicati nella propria identità specifica. In un certo senso, prefigurano il superamento dell’attuale dicotomia tra l’identità locale comune e il networking individuale a livello globale. Come molti altri movimenti sociali nella storia, hanno generato una propria forma temporale: un tempo senza tempo, una forma temporale trans- storica, integrando questi due tipi di esperienze. Da una parte, negli accampamenti occupati, vivono giorno per giorno, senza sapere quando potrà arrivare lo sgombero, organizzando la vita come se si trovassero nella società alternativa che vanno sognando, senza limiti all’orizzonte e libera dalle costrizioni cronologiche delle loro vite precedenti e disciplinate. Dall’altra parte, i vari dibattiti e progetti fanno riferimento all’illimitata possibilità di nuove forme di vita e di comunità che vanno emergendo dalla pratica del movimento. Vivono nel momento riguardo alla loro esperienza, e proiettano quest’ultima nel futuro storico rispetto alle loro aspettative. Nel mezzo di queste due pratiche temporali, rifiutano il tempo asservito all’orologio imposto dai cronometri dell’esistenza. Poiché il tempo umano esiste soltanto nella nostra pratica, questa duplicità del tempo senza tempo non è meno reale del tempo misurato della catena di lavoro in fabbrica o di quello inarrestabile del mondo finanziario. È un tempo emergente e alternativo, un ibrido tra l’adesso e il domani illimitato. Riguardo alla loro genesi, questi movimenti rivelano origini in gran parte spontanee e generalmente dovute a una scintilla di indignazione per un evento particolare oppure per un picco di disgusto per l’operato dei governanti. In tutti casi trovano origine da un appello all’azione diffuso dallo spazio dei flussi che punta a creare una comunità istantanea di pratiche ribelli nello spazio dei luoghi fisici. La fonte dell’appello ha minore rilevanza dell’impatto del messaggio sui molti destinatari generici, le cui emozioni trovano rispondenza nel contenuto e nella forma del messaggio stesso. È fondamentale puntare sulla forza delle immagini. È probabile che nello stadio iniziale del movimento sia stato YouTube uno dei maggiori strumenti di mobilitazione. Particolarmente significative sono le immagini di violenta repressione da parte della polizia o di teppisti. I movimenti sono virali, seguendo la logica delle reti su Internet. Ciò non è dovuto soltanto al carattere virale della diffusione del messaggio, in particolare per le immagini tese alla mobilitazione, ma anche per l’effetto dimostrativo dei movimenti che vanno emergendo ovunque. Questo fenomeno virale è stato osservato da un paese all’altro, da una città all’altra, da un’istituzione all’altra. Guardare e ascoltare le manifestazioni di protesta in atto da qualche parte, perfino in contesti lontani e culture differenti, ispira la mobilitazione perché fa scattare la speranza del possibile cambiamento. La transizione dall’ indignazione alla speranza viene raggiunta tramite la deliberazione nello spazio dell’autonomia. Normalmente il processo decisionale avviene nelle assemblee e nei comitati da queste designati. Si tratta anzi per lo più di movimenti senza leader. Non certo per la mancanza di possibili leader, bensì per via della profonda, spontanea sfiducia della maggioranza dei partecipanti verso ogni forma di delega del potere. Questa caratteristica essenziale dei movimenti analizzati scaturisce direttamente da una delle motivazioni alla base dei movimenti stessi: il rifiuto della rappresentanza politica da parte dei rappresentati, dopo essere stati traditi e manipolati nell’esperienza della politica tradizionale. Sono numerosi i casi in cui alcuni partecipanti sono più attivi o più influenti di altri, magari soltanto perché impegnati a tempo pieno nel movimento. Ma questi attivisti vengono accettati soltanto in veste di tale ruolo e fintanto che non prendono da soli decisioni importanti. Perciò, pur in presenza di ovvie tensioni nella pratica quotidiana, la regola ampiamente accettata e implicita è l’autogestione del movimento da parte di quanti ne fanno parte. Si tratta al contempo di una procedura organizzativa e di un obiettivo politico: imposta le fondamenta di una futura democrazia reale praticandola nel movimento. Le reti orizzontali e multimodali, sia su Internet sia negli spazi urbani, creano unità – punto chiave per il movimento, perché è tramite la compartecipazione che si supera la paura e si scopre la speranza. Non si tratta di comunità, perché quest’ultima implica una serie di valori condivisi, e questo è piuttosto un impegno continuo del movimento, perché molti vi entrano spinti da motivazioni e obiettivi personali, decisi a scoprire le potenziali comunanze nella pratica quotidiana. Perciò la comunità è una meta da raggiungere, mentre l’unità è un punto di partenza e fonte di potere: «Juntas podemos» («Uniti possiamo»). L’orizzontalità delle reti dà sostegno alla cooperazione e alla solidarietà, rendendo inutile il bisogno di leadership formali. Pertanto, quel che appare una forma inefficace per il processo deliberativo e decisionale, è di fatto il pilastro necessario per generare fiducia, senza la quale è impossibile intraprendere alcuna attività comune nel contesto di una cultura politica caratterizzata dalla competizione e dal cinismo. Il movimento crea così il proprio antidoto contro la diffusa presenza dei valori sociali a cui va opponendosi. Questo è il principio che emerge costantemente dai dibattiti di tutti i movimenti: non soltanto il fine non giustifica i mezzi, ma anzi i mezzi danno corpo al fine della trasformazione. Questi movimenti praticano al meglio l’autoriflessione. Si interrogano continuamente, sia come movimenti sia in quanto individui, su chi sono e cosa vogliono, su quale tipo di democrazia e di società perseguono, e su come evitare le trappole e le lacune di così tanti movimenti il cui fallimento è dovuto al fatto di aver riprodotto al loro interno quei meccanismi del sistema che volevano cambiare, particolarmente in termini di delega politica di autonomia e sovranità. Questa pratica di autoriflessione si manifesta nel processo deliberativo dell’assemblea come anche in molti forum su Internet, in una miriade di blog e gruppi di discussione sui social network. Uno dei temi chiave nel dibattito rimane la questione della violenza che i movimenti finiscono per incontrare un po’ ovunque. Come principio abbracciano la non-violenza, dando vita inizialmente ad azioni pacifiche di disobbedienza civile. S’impegnano però a occupare degli spazi pubblici e a condurre tattiche di disturbo per far pressione su autorità politiche ed entità imprenditoriali, non riconoscendo la fattibilità di una partecipazione equa all’interno dei canali istituzionali. Così la repressione diventa un’esperienza ricorrente lungo il processo dell’azione collettiva, pur se a diversi livelli di violenza a seconda del contesto istituzionale e dell’intensità della sfida lanciata dal movimento. Poiché tutti i movimenti hanno come obiettivo quello di parlare a nome dell’intera società, punto critico è sostenerne la legittimità, contrapponendone il carattere pacifico con la violenza del sistema. Infatti, in ogni situazione, le immagini della violenza della polizia hanno fatto crescere la simpatia dei cittadini a favore del movimento, contribuendo così a rilanciarlo. D’altra parte è difficile, sia a livello individuale sia collettivo, trattenersi dall’esercitare l’istinto fondamentale all’autodifesa. Ciò acquista particolare rilevanza nel caso delle rivolte arabe, quando, di fronte ai ripetuti massacri causati dalla feroce violenza militare, qualche movimento democratico alla fine si è fatto coinvolgere in una sanguinosa guerra civile. Ovviamente la situazione è diversa nelle democrazie liberali, ma in tanti casi l’arbitrarietà e l’impunità della violenza della polizia aprono la strada all’intervento di gruppi piccoli e determinati, decisi a opporsi al sistema in modo violento proprio per poterne esporre il carattere violento. La violenza offre ai media materiale spettacolare e selettivo, e gioca a favore di politici e opinionisti il cui obiettivo è quello di sopprimere nel modo più rapido possibile le critiche esposte dal movimento. La controversa questione della violenza non è soltanto una faccenda di strategie, bensì una questione cruciale per la vita e la morte dei movimenti, poiché questi hanno un’unica possibilità di imporre il cambiamento sociale, qualora la loro pratica e il loro punto di vista riescano a generare il consenso necessario nella società (il 99%) (Lawrence e Karim 2007). Raramente si tratta di movimenti programmatici, eccetto quando si concentrano su un’unica questione specifica: basta con la dittatura. Avanzano comunque una serie di richieste: la maggior parte delle volte, tutte le richieste possibili avanzate da cittadini assai entusiasti di poter decidere le proprie condizioni di vita. Trattandosi però di richieste molteplici e di motivazioni illimitate, diventa impossibile formalizzare una qualsiasi organizzazione o leadership perché il consenso e l’unità interni dipendono da deliberazioni e proteste ad hoc, non relative al completamento di un programma predisposto intorno a obiettivi specifici: questa è la loro forza (attirare l’attenzione generale) e la loro debolezza (com’è possibile ottenere qualcosa quando gli obiettivi sono così vaghi?). Analogamente, non possono concentrarsi su un unico compito o progetto, pur se d’altra parte neppure possono essere canalizzati in un’azione politica strettamente strumentale. Di conseguenza, è impossibile essere cooptati dai partiti politici (a cui nessuno dà più fiducia), anche se questi possono trarre vantaggio dalle diverse prospettive imposte dal movimento nei riguardi della pubblica opinione. Si tratta dunque di movimenti sociali mirati a trasformare i valori della società, ma possono anche diventare movimenti di pubblica opinione con risultati a livello elettorale. Puntano a trasformare lo stato senza però impadronirsene. Esprimono sentimenti e rinfocolano il dibattito ma non creano partiti né appoggiano governi, pur potendo diventare un obiettivo del marketing politico. Tuttavia, hanno un carattere decisamente politico in senso stretto, in particolare quando propongono e praticano la democrazia diretta e deliberativa basata sulla democrazia in rete. Proiettano una nuova utopia di democrazia in rete fondata sulle comunità locali e su quelle virtuali in interazione. Le utopie però non sono semplici fantasie: è da esse che hanno tratto origine la maggior parte delle moderne ideologie politiche alla radice dei sistemi politici (liberalismo, socialismo, comunismo). Perché le utopie diventano una forza materiale quando s’incardinano nella mente delle persone, ispirandone i sogni, guidandone le azioni e inducendone le reazioni. Quel che propone la pratica di questi movimenti sociali in rete è una nuova utopia al cuore della cultura della società in rete: l’utopia dell’autonomia del soggetto vis-à-vis con le istituzioni della società. Quando infatti queste ultime sono incapaci di gestire la crisi strutturale delle istituzioni esistenti, il cambiamento può avvenire soltanto al di fuori del sistema tramite una trasformazione delle relazioni di potere che inizia nella mente delle persone e cresce nelle reti costruite dai progetti di nuovi attori che vanno imponendosi come i soggetti della nuova storia in divenire. E come tutte le tecnologie, Internet incarna la cultura materiale e diventa la piattaforma privilegiata per la costruzione sociale dell’autonomia. Internet e la cultura dell’autonomia

Internet e le comunicazioni wireless svolgono un ruolo cruciale all’interno degli attuali movimenti sociali in rete, come illustrato in questo libro. Eppure la loro comprensione è stata oscurata da un’insignificante discussione, svoltasi nel mondo dell’informazione e nei circoli accademici, tesa a negare che le tecnologie di comunicazione sono alla radice dei movimenti sociali. Questo è ovvio. Né Internet, né alcun’altra tecnologia, può essere di per sé fonte di contrasto sociale. I movimenti sociali sorgono dalle contraddizioni e dai conflitti di specifiche società, per esprimere la ribellione e la progettualità delle persone derivanti dalla loro esperienza multidimensionale. Al contempo è tuttavia essenziale sottolineare il ruolo primario svolto dalla comunicazione nella formazione e nella pratica dei movimenti sociali, oggi e nel corso della storia3. Il punto è che i cittadini possono sfidare i governanti soltanto collegandosi tra loro, condividendo l’indignazione, sentendosi uniti, e costruendo progetti alternativi per se stessi e per la società nel suo insieme. La loro capacità di tenersi in collegamento dipende dalle reti di comunicazione interattiva. E nella nostra società la forma primaria di comunicazione su larga scala e orizzontale è basata su Internet e sulle reti wireless. È inoltre tramite queste reti di comunicazione digitale che i movimenti prosperano e agiscono, pur se certamente in interazione con la comunicazione faccia a faccia e con l’occupazione di spazi urbani. Le reti di comunicazione digitale restano però una componente indispensabile nella pratica e nell’organizzazione di questi movimenti. Nella nostra epoca, i movimenti sociali in rete sono ampiamente centrati su Internet, come elemento necessario pur se non sufficiente della loro azione collettiva. Le reti sociali digitali basate su Internet e sulle piattaforme wireless sono strumenti decisivi per la mobilitazione, l’organizzazione, il coordinamento, il processo deliberativo e decisionale. Eppure il ruolo di Internet va oltre quello puramente strumentale: crea le condizioni per una forma di pratica condivisa che consente a un movimento senza leader di sopravvivere, decidere, coordinarsi ed espandersi. Protegge il movimento contro la repressione degli spazi fisici liberati mantenendo aperta la comunicazione tra quanti operano all’interno del movimento e la società intera nella lunga marcia del cambiamento sociale necessario per superare la dominazione istituzionalizzata (Juris 2008). Esiste inoltre un legame sostanziale e più profondo tra Internet e i movimenti sociali in rete: condividono una cultura specifica, la cultura dell’autonomia, la matrice culturale fondamentale delle società contemporanee. Pur emergendo dalla sofferenza delle persone, i movimenti sociali sono distinti dai movimenti di protesta. Si tratta essenzialmente di movimenti culturali che integrano le richieste di oggi con i progetti per il domani. E i movimenti di cui ci occupiamo incarnano il progetto fondamentale di trasformare le persone in soggetti fautori della propria vita affermandone l’autonomia nei confronti delle istituzioni sociali. Ecco perché, mentre chiedono misure per rimediare alle attuali miserie di un ampio segmento della popolazione, in quanti attori collettivi i movimenti non hanno fiducia nelle istituzioni in carica e s’impegnano nell’incerto percorso di creare nuove forme di convivenza tramite un nuovo contratto sociale. Nel sottofondo di questo processo di cambiamento sociale si muove la trasformazione culturale delle nostre società. Ho cercato di documentare in altri lavori come le caratteristiche primarie di questa trasformazione culturale riguardino l’emergere di una nuova serie di valori definiti come individuazione e autonomia, derivati dai movimenti sociali degli anni Settanta del secolo scorso e penetrati con crescente intensità nel tessuto sociale nel corso dei decenni successivi (Castells 2009, pp. 116-36). L’individuazione è la tendenza culturale che pone l’enfasi sui progetti di un individuo come il principio cardine che orienta il comportamento di tale individuo (Giddens 1991; Beck 1992). Individuazione non è individualismo, perché il progetto personale mira all’azione collettiva e a degli ideali condivisi, quali la tutela dell’ambiente e la creazione di comunità, mentre l’individualismo punta al benessere dell’individuo stesso come meta finale del progetto personale. Il concetto di autonomia è anche più ampio, dato che può riferirsi sia ad attori singoli sia collettivi. L’autonomia indica la capacità di un attore sociale di diventare un soggetto definendo l’azione intorno a progetti realizzati in modo indipendente dalle istituzioni sociali, basati sui valori e sugli interessi dell’attore sociale. La transizione dall’individuazione all’autonomia avviene tramite l’attività di networking, consentendo agli attori individuali di costruire la loro autonomia con persone dagli interessi analoghi tramite le reti che preferiscono. Io sostengo che Internet fornisce la piattaforma di comunicazione organizzativa adatta a tradurre la cultura della libertà nella pratica dell’autonomia. Ciò perché la tecnologia di Internet incarna la cultura della libertà, come dimostrano le fasi storiche del suo sviluppo (Castells 2001). È stata deliberatamente progettata da ricercatori e hacker come una rete di computer decentrata per resistere a qualsiasi centro di comando. È emersa dalla cultura della libertà prevalente nei campus universitari degli anni Settanta (Markoff 2006). È basata su protocolli open source fin dai suoi albori, con i protocolli TCP/IP sviluppati da Vint Cerf e Robert Kahn. Si è rapidamente diffusa su larga scala grazie al World Wide Web, altro programma open source ideato da Tim Berners-Lee. In continuità con l’impegno nella costruzione di autonomia, la trasformazione sociale più profonda di Internet è giunta nel primo decennio del XXI secolo con il passaggio da interazioni individuali e imprenditoriali (l’uso della posta elettronica, per esempio) alla creazione indipendente di social network controllati e gestiti dagli stessi utenti. Ciò fu dovuto ai miglioramenti portati dalla banda larga, dal software sociale e dalla nascita di un’ampia gamma di sistemi di distribuzione che alimentavano le reti su Internet. Inoltre, la comunicazione wireless collega tra loro apparecchi, dati, persone, organizzazioni, tutto, con la nuvola che va emergendo come l’enorme magazzino di una vasta rete sociale, come un web di comunicazione che include tutti e tutto. Non a caso oggi l’attività più importante su Internet passa attraverso i siti di social network, i quali sono diventati piattaforme per attività di ogni tipo, non soltanto per le amicizie personali o per il chat, bensì per il marketing, il commercio elettronico, l’istruzione, la creatività culturale, la distribuzione di media e di intrattenimento, le applicazioni per la salute e, certo, l’attivismo socio- politico. I social network sono spazi viventi che collegano tra loro ogni dimensione della vita odierna (Naughton 2012). È una tendenza significativa per la società nel suo complesso: trasforma la cultura inducendo la cultura della condivisione. Gli utenti dei social network trascendono il tempo e lo spazio, eppure producono contenuti, propongono link e integrano pratiche diverse. Oggi esiste un mondo costantemente in rete in ogni dimensione dell’esperienza umana. Le persone coinvolte in un network co-evolvo-no tramite interazioni permanenti e molteplici, ma sono loro a scegliere i termini di tale co-evoluzione. I social network vengono costruiti dagli stessi utenti facendo ricorso a specifici criteri di gruppi e ad ampie reti di amicizia, create su misura dalle persone, basandosi sulle piattaforme fornite dagli imprenditori della comunicazione libera, con diversi livelli di profilatura e di privacy. La chiave per il successo di un social network non sta nell’anonimato, bensì, al contrario, nell’autopresentazione di una persona reale che sviluppa rapporti con altre persone reali. Si creano reti per stare con gli altri, e con altri che vogliamo avere vicini, avendo come criterio quello di includere persone che già si conoscono o che vorremmo conoscere (Castells 2010). Si tratta perciò di una società in rete autocostruita basata sulla connessione perpetua. Eppure non ha nulla a che fare con una società puramente virtuale. Esiste uno stretto legame tra le reti virtuali e le reti della vita reale. Il mondo reale della nostra epoca è qualcosa di ibrido, non un mondo virtuale o segregato, intenzionato a separare l’interazione online da quella offline (Wellman e Rainie 2012). Ed è in questo mondo che i movimenti sociali in rete sono nati come transizione naturale per molti, così da condividere socialità e indignazione, speranze e difficoltà. Sono state perciò la cultura della libertà, a livello sociale, e la cultura dell’individuazione e dell’autonomia, a livello degli attori sociali, a spingere contemporaneamente le reti su Internet e i movimenti sociali in rete. Esiste infatti un effetto sinergico tra questi due sviluppi. Proverò a illustrare quest’analisi tramite i risultati del sondaggio che ho condotto nel 2002-07 con Tubella e altri su un campione rappresentativo della popolazione della Catalogna (Castells, Tubella et al. 2005; 2007). Abbiamo suddiviso in modo empirico la popolazione in sei grandi progetti di autonomia, statisticamente indipendenti tra loro: personale, professionale, imprenditoriale, comunicativo, fisico e socio-politico. Abbiamo scoperto che più la gente era indipendente in ciascuna delle sei dimensioni dell’autonomia, e più frequentemente e intensamente finiva per usare Internet. E lungo un certo periodo, più facevano uso di Internet e più cresceva il loro grado di autonomia. C’è infatti un circolo virtuoso tra le tecnologie della libertà e la lotta per liberare la mente dalle catene della dominazione. Questi risultati sono in accordo cognitivo con un’indagine condotta nel 2010 in Gran Bretagna dal sociologo Michael Willmott sulla base dei dati globali di un sondaggio curato dall’Università del Michigan. Dopo aver analizzato 35.000 risposte individuali tra il 2005 e il 2007, lo studio rivelava che grazie all’uso di Internet la gente sentiva di avere maggior sicurezza, libertà e influenza personale: tutte sensazioni che producono un effetto positivo sul benessere individuale. L’effetto è risultato particolarmente positivo per persone con basso reddito e scarse qualifiche professionali, per chi vive nel mondo in via di sviluppo e per le donne4. Maggior confidenza, autonomia e socialità sembrano essere strettamente legati alla frequente pratica di «fare rete» su Internet. Analogamente a tutti i movimenti sociali della storia, anche quelli in rete portano il marchio della società in cui operano. Sono composti per lo più da individui a proprio agio con le tecnologie digitali nel mondo ibrido della virtualità reale. I loro valori, obiettivi e stile organizzativo rimandano direttamente alla cultura dell’autonomia che caratterizza le giovani generazioni di un secolo giovane. Non potrebbero esistere senza Internet, ma il loro significato è ben più profondo. Sono adatti al loro ruolo in quanto agenti di cambiamento nella società in rete, in netto contrasto con le obsolete istituzioni politiche ereditate da una struttura sociale storicamente superata.

Movimenti sociali in rete e politica riformista: un amore impossibile?

Sembra esserci consenso sul fatto che, alla fin fine, i sogni di trasformazione sociale dovranno essere diluiti e canalizzati attraverso le istituzioni politiche, che si tratti di riforme o di rivoluzione. Anche in quest’ultimo caso, gli ideali rivoluzionari dovranno essere interpretati (traditi?) dalle nuove strutture al potere e dal loro nuovo ordine costituzionale. Ciò pone un dilemma importante, sia pratico sia analitico, quando si tratta di valutare la produttività politica di un movimento che per lo più non ha fiducia nelle attuali istituzioni politiche e rifiuta di credere nella fattibilità della sua partecipazione nei canali predeterminati della rappresentanza politica. È vero che l’esperienza paradigmatica dell’Islanda rivela la possibilità di un approccio nuovo sia nelle istituzioni della governance sia nell’organizzazione dell’economia, senza dover passare per un processo di trasformazione a volte traumatico. Eppure, nella maggioranza dei movimenti qui analizzati, e in analoghi movimenti di altre parti del mondo, il passaggio critico dalla speranza all’implementazione del cambiamento dipende dalla permeabilità delle istituzioni politiche alle richieste del movimento, nonché dalla volontà di quest’ultimo di impegnarsi in un processo di trattative. Quando entrambe queste condizioni emergono in termini positivi, un certo numero di richieste possono essere soddisfatte e la riforma politica può concretizzarsi, con gradi diversi di cambiamento. È stato questo il caso di Israele (Nahon 2012). Tuttavia, poiché la sfida di fondo lanciata dal movimento riguarda la negazione della legittimità della classe politica, e la denuncia della loro sottomissione alle élite della finanza, rimane ben poco spazio per l’accettazione di questi valori da parte di gran parte dei governi. Infatti, l’attenta analisi degli studi empirici sulle conseguenze politiche dei movimenti sociali, centrati soprattutto sugli Stati Uniti, rivela, da una parte, il peso politico esercitato dai maggiori movimenti sociali del passato a diversi livelli, in modo particolare nel contributo alla definizione dell’agenda politica. D’altra parte, «perché un movimento possa avere qualche influenza, occorre che gli attori statali arrivino a considerarlo come fattore potenziale capace di facilitare o contrastare i loro obiettivi – incrementando o consolidando le nuove coalizioni elettorali, conquistando spazi nell’opinione pubblica, aumentando il sostegno alle missioni degli uffici governativi» (Amenta et al. 2010, p. 298). In altri termini, il peso dei movimenti sociali sulla politica e sulle policy dipende in larga misura dal loro potenziale contributo ai programmi già stabiliti dagli attori politici. Ciò è in netto contrasto con la maggior critica avanzata dai movimenti sociali in rete che ho analizzato, focalizzata sull’assenza di rappresentatività da parte della classe politica, visto che le elezioni sono condizionate dal potere del denaro e dei media, e vincolate da norme elettorali faziose progettate dalla classe politica a proprio vantaggio. Eppure la tipica risposta ai movimenti di protesta da parte dell’élite politica è il richiamo alla volontà popolare espressa nelle ultime elezioni, e all’opportunità o meno di cambiare politica in previsione dei risultati delle prossime elezioni. È precisamente questo che viene messo sotto accusa dalla maggioranza dei movimenti, in accordo con un’ampia proporzione di cittadini di ogni parte del mondo, come illustrato in appendice. I movimenti non si oppongono al principio della democrazia rappresentativa, ma denunciano la pratica di tale democrazia così come viene applicata oggi, e non ne riconoscono la legittimità. In base a queste condizioni, esistono scarse possibilità per un’interazione diretta e positiva tra i movimenti e la classe politica verso una riforma politica, ovvero una riforma delle istituzioni della governance capace di ampliare i canali della partecipazione politica e di limitare il peso delle lobby e dei gruppi di pressione sul sistema politico, essendo queste le obiezioni fondamentali mosse da gran parte dei movimenti sociali. Il maggior elemento d’influenza positiva del movimento sulla politica potrebbe rivelarsi indirettamente tramite l’assunzione, da parte di alcuni partiti o leader politici, di temi e richieste specifiche, soprattutto quando questi ultimi divengono popolari in ampi settori della cittadinanza. È quanto accaduto, per esempio, negli Stati Uniti, dove il riferimento allo sfaldamento sociale tra il 99% e l’1% è arrivato a simboleggiare l’estensione della disuguaglianza. Eppure, i leader prudenti, tra cui Obama, pur quando sostengono di rappresentare le aspirazioni espresse dal movimento, si guardano bene dal sostenerne l’attivismo per timore di essere considerati a favore di pratiche radicali. Poiché la strada per il rinnovo delle policy operative passa per il cambiamento politico, e quest’ultimo è sottoposto agli interessi dei politici in carica, l’influenza del movimento su tali policy rimane generalmente limitata, quantomeno nel breve periodo, vista l’assenza di una crisi importante che imponga la revisione dell’intero sistema, come accaduto in Islanda. Esistono tuttavia legami profondi tra i movimenti sociali e la riforma politica in grado di attivare una trasformazione sociale: qualcosa che avviene nella testa delle persone. Il vero obiettivo di questi movimenti è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica in generale, di responsabilizzare i cittadini tramite la partecipazione nel movimento e in un ampio processo deliberativo rispetto alla propria vita e al proprio paese, e di affidarsi alla loro capacità di prendere decisioni in piena autonomia nei confronti della classe politica. L’influenza del movimento sulla popolazione penetra tramite le modalità più insospettabili5. Se il peso culturale e sociale del movimento dovesse estendersi, particolarmente tra le generazioni più giovani e più attive, i politici attenti ne prenderanno in considerazione valori e timori, nella speranza di ricavarne qualche guadagno politico. Lo faranno comunque all’interno dei limiti del loro patto con chi li finanzia. Ma più il movimento sarà capace di trasmettere il suo messaggio sulle reti di comunicazione, più i cittadini ne saranno sensibilizzati e più la sfera pubblica della comunicazione diverrà territorio di contesa, e minore sarà la capacità dei politici di integrare richieste e reclami con semplici ritocchi di facciata. La battaglia finale per il cambiamento sociale verrà decisa nella testa delle persone, e in questo senso i movimenti sociali hanno compiuto ottimi progressi a livello internazionale. Come illustrato nell’appendice a questo capitolo, un sondaggio condotto nel novembre 2011 in 23 paesi rivela, con l’eccezione del Giappone, che la maggioranza dei cittadini sostiene Occupy e analoghi movimenti nel loro contesto e ne approva la posizione critica nei confronti di governi, politici e istituzioni economiche. Ciò risulta particolarmente importante trattandosi di movimenti che si auto- posizionano al di fuori del sistema istituzionale e praticano la disobbedienza civile. È vero che, alla domanda sulle tattiche messe in atto negli Stati Uniti, soltanto una minoranza si schiera a sostegno del movimento, ma anche qui il fatto che circa il 25-30 per cento ne approva le azioni di disturbo sta a indicare un’ampia ondata di sostegno a chi decide di sfidare quelle istituzioni che hanno perso la fiducia dei cittadini. L’incertezza di un processo inedito per il cambiamento politico sembra costituire il maggior ostacolo da superare per quei movimenti che hanno già messo in luce l’illegittimità delle attuali strutture di potere. Non pare tuttavia impossibile che possa sbocciare l’amore tra l’attivismo sociale e il riformismo politico: è soltanto nascosto dalla percezione pubblica mentre le riflessioni dei cittadini oscillano tra desiderio e rassegnazione.

Note 1. La mia prospettiva teorica sulle analisi dei movimenti sociali si fonda sulla teoria di Alain Touraine (1978). La formulazione più completa delle mie analisi è stata pubblicata in Castells (1983) e applicata in Castells (1983; 2003). Si veda anche Johnston (2011); Snow et al. (2004); Tilly (2004); Staggenborg (2008); Chesters e Welsh (2000); Diani e McAdam (2003) e Hardt e Negri (2004). 2. Oltre ai casi presentati in questo volume, nel periodo 2008-12 altri influenti movimenti sociali in rete sono emersi in varie parti del mondo con obiettivi, origini e orientamenti diversi: è il caso in particolare di Iran, Grecia, Portogallo, Italia, Israele, Cile e Russia. Inoltre, un po’ in tutta Europa e anche in alcuni Paesi dell’America Latina si sono avute occupazioni simboliche di spazi pubblici, pur senza mai raggiungere il livello di movimenti sociali veri e propri. Si veda Shirky (2008); Scafuro (2011); Mason (2012) e Cardoso e Jacobetti (2012). 3. Sul ruolo della comunicazione nello sviluppo dei movimenti sociali, sia a livello storico sia nelle società contemporanee, si veda, oltre ai miei lavori (2003; 2009); Thompson (2000); Downing (2000); Couldry e Curran (2003); Oberschall (1996); Neveu (1996); Curran (2011); Juris (2008) e Cardoso e Jacobetti (2012). 4. Rapporto del BCS Institute sull’information technology, in uno studio condotto da Trajectory Partnership, think tank britannico: www.time.com/time/health/article/0,8599,1989244,00.html. 5. Per esempio, secondo un post pubblicato il 23 marzo 2012 da Kristen Gwynne su AlterNet:

Lo sciopero del sesso viene usato come forma di attivismo contro le banche. Secondo RT News, le escort di alto rango di Madrid stanno protestando contro il mondo della finanza rifiutandosi di offrire a esso un bene di consumo assai ambito: il sesso. Scrive RT: la maggiore associazione per i servizi di escort di lusso nella capitale spagnola ha intrapreso uno sciopero generale e illimitato sulle prestazioni sessuali per i bancari finché questi non riattiveranno la fornitura di prestiti a famiglie e piccole e medie aziende spagnole. Tutto è cominciato quando una delle escort ha costretto uno dei suoi clienti a garantire una linea di credito e un prestito semplicemente rifiutandosi di fornirgli servizi sessuali finché egli non «avesse adempiuto alle sue responsabilità con la società». La portavoce dell’associazione ha ribadito il successo dell’iniziativa, sottolineando come in precedenza il Banco de España e il governo avessero omesso di regolare il flusso dei crediti. «Siamo le uniche a poter fare pressione concreta sul settore», ha dichiarato. «Siamo in sciopero da tre giorni e non credo i nostri clienti possano resistere molto di più». La donna ha aggiunto che i bancari hanno disperatamente bisogno di servizi sessuali, sono in uno stato talmente penoso che cercano invano di far finta di avere altre professioni, e hanno perfino richiesto l’aiuto del governo. Il ministro dell’Economia e della Finanza Luis de Guindos ha dichiarato al sito web messicano SDPnoticias.com, che per primo ha diffuso la notizia, che la mancanza di regolamentazioni per il settore delle escort rende difficile ogni intervento governativo. «In realtà non c’è stata neppure una dichiarazione formale dello sciopero – le escort stanno esercitando il loro diritto all’ammissione o al diniego dell’ingresso… be’, sapete com’è. Per cui nessuno può avviare delle trattative», ha spiegato a SDPnoticias.com, chiarendo come il sesso sia uno strumento importante e il fatto di rifiutarlo comunica un messaggio molto forte e chiaro. www.alternet.org/newsandviews/866354/sex_strike%21_madrid%5C%27s_escorts_launch_coordinated_attack_against_banks%2C_withhold_sex_services_from_desperate_banke rs

Fonti e riferimenti

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Questa non è una crisi, è che non ti amo più. Striscione nella Plaza del Sol occupata, Madrid, maggio 2011

I movimenti sociali in rete, le cui esperienze abbiamo condiviso in questo volume, continueranno a lottare, discutere ed evolvere, per poi man mano dissiparsi nell’attuale forma, come accaduto a tutti i movimenti sociali nel corso della storia. Anche nell’improbabile caso che possano trasformarsi in un attore politico, in un partito o in una qualche agenzia di tipo nuovo, proprio per questo cesseranno di esistere. Perché l’unica questione rilevante per stabilire il significato di un movimento sociale sta nella produttività sociale e storica della sua pratica e nell’effetto sui suoi partecipanti in quanto individui e sulla società che ha cercato di trasformare. In tal senso, è troppo presto per cercare di valutare l’esito finale di questi movimenti, pur se possiamo già dire che i regimi sono cambiati, che le istituzioni sono state messe duramente alla prova e che per la maggior parte della gente la fiducia nel trionfo del capitalismo economico globale ha ricevuto un forte scossone, forse irreversibile. In ultima analisi, l’eredità di un movimento sociale riguarda il cambiamento culturale che è riuscito a produrre tramite le sue attività. Quando arriviamo a considerare in maniera diversa certe dimensioni primarie della nostra vita personale e sociale, a un certo punto le istituzioni dovranno cedere. Niente è immutabile, nonostante il cambiamento storico non segua un percorso predeterminato perché il supposto senso della storia a volte non ha alcun senso. Sotto quest’aspetto, quale potrebbe essere l’eventuale eredità dei movimenti sociali in rete tutt’ora in divenire? La democrazia – una democrazia di tipo nuovo. Una vecchia aspirazione dell’umanità, mai soddisfatta. In ogni movimento sociale esistono molteplici espressioni di necessità e desideri. Quando tutti scaricano le proprie frustrazioni e aprono la scatola magica dei sogni si dà avvio a momenti di liberazione. Perciò nelle tematiche e nelle azioni di questi movimenti possiamo trovare ogni possibile proiezione umana: più in particolare, la severa critica di un sistema economico impietoso che alimenta l’automazione computerizzata della finanza speculativa con la sofferenza quotidiana di uomini e donne. Eppure, se esiste un tema dominante, un richiamo pressante, un sogno rivoluzionario, è l’appello per nuove forme del processo deliberativo, rappresentativo e decisionale a livello politico. Ciò perché una governance efficace e democratica è il prerequisito per il soddisfacimento di ogni richiesta e ogni progetto. Il punto è che se i cittadini non hanno a disposizione modi e mezzi per l’autogoverno, le policy migliori, le strategie più sofisticate, i programmi più promettenti possono risultare inefficaci o distorti una volta implementati. Soltanto una politica democratica può assicurare un’economia capace di funzionare tenendo conto delle necessità delle persone, e una società al servizio dei valori umani e del perseguimento della felicità personale. Più e più volte, i movimenti sociali in rete di ogni parte del mondo hanno fatto appello a una democrazia di tipo nuovo, non necessariamente identificandone le procedure ma esplorandone i principi nella loro stessa pratica. I movimenti, e l’opinione pubblica in generale, concordano nel denunciare la farsa degli ideali democratici in gran parte del mondo (si veda l’Appendice). Poiché qui non si tratta soltanto della soggettività degli attori politici, che spesso sono sinceri e onesti nel proprio contesto mentale, dev’esserci qualcosa che non va con «il sistema», quest’oscura entità che nessuno ha mai incontrato personalmente, ma i cui effetti sono pervasivi nella vita di ciascuno di noi. E così, dalla disperazione più profonda, un po’ ovunque, sono emersi un sogno e un progetto: reinventare la democrazia, trovare dei modi per consentire agli esseri umani di gestire collettivamente la propria vita in base a principi ampiamente condivisi tra loro ma generalmente ignorati nell’esperienza quotidiana. Questi movimenti sociali in rete sono forme nuove di movimenti democratici – movimenti impegnati a ricostruire la sfera pubblica nello spazio dell’autonomia realizzato intorno all’interazione tra ambiti locali e reti su Internet, a sperimentare con processi decisionali basati sulle assemblee e a rivalutare la fiducia come pilastro dell’interazione umana. Riconoscono i principi che hanno portato alla rivoluzione della libertà dell’Illuminismo, pur tenendo a mente il continuo tradimento di quegli stessi principi, a partire dall’iniziale negazione della piena cittadinanza per le donne, le minoranze e le persone colonizzate. Questi movimenti sottolineano la contraddizione esistente tra la democrazia dei cittadini e una città in vendita al miglior offerente. Affermano il proprio diritto a ricominciare tutto daccapo. Per ripartire da un nuovo inizio, dopo aver raggiunto la soglia dell’autodistruzione voluta dalle istituzioni odierne. O almeno, in questo credono gli attori di questi movimenti, le cui parole ho appena preso in prestito. L’eredità dei movimenti sociali in rete sarà stata quella di aver fatto emergere la possibilità di apprendere di nuovo come vivere insieme. Nella democrazia reale. APPENDICI APPENDICE A «LA RIVOLUZIONE EGIZIANA»

Cronistoria della rivoluzione egiziana: giugno 2010-dicembre 2011

Fonte: Informazioni raccolte ed elaborate da Maytha Alhassen

6 giugno 2010 Il blogger Khaled Said viene picchiato a morte da agenti di polizia in un cybercafé di Alessandria. Su Facebook compare il gruppo «siamo tutti Khaled Said», creato dall’egiziano Wael Ghonim, dirigente di Google per il Medio Oriente con sede in Dubai.

1° gennaio 2011 Attentato contro la chiesa copta di Al-Qiddissin ad Alessandria mentre è in corso la messa per l’anno nuovo; 21 morti.

25 gennaio 2011 «Giorno di Rivolta»: manifestazioni organizzate in tutto il paese per protestare contro il regime di Mubarak (in coincidenza con la festa nazionale della polizia). Primo giorno di occupazione di Piazza Tahrir.

26 gennaio 2011 Le autorità egiziane bloccano Twitter e Facebook.

28 gennaio 2011 «Venerdì della Collera», un giorno importante della rivolta che ha contribuito alla caduta di Mubarak. Mohammed El Baradei, capo dell’opposizione ed ex direttore dell’International Atomic Energy Agency (IAEA), giunge al Cairo per partecipare alle proteste. I fornitori di servizi Internet e gli operatori di telefonia mobile (Link Egypt, Vodafone/Raya, Telecom Egypt e Etisalat Misr) ricevono dalle autorità egiziane l’ordine di chiudere. Ghonim sparisce misteriosamente. Più tardi si verrà a sapere che era stato arrestato da funzionari della sicurezza. 31 gennaio 2011 «La marcia dei milioni»: si stimano da 200.000 a due milioni i manifestanti in Piazza Tahrir.

1° febbraio 2011 In un annuncio televisivo Mubarak promette riforme politiche e dichiara che non si candiderà per le prossime elezioni presidenziali.

2 febbraio 2011 «Battaglia dei Cammelli»: un punto di svolta significativo: picchiatori prezzolati filo-Mubarak in sella a cammelli e cavalli penetrano in Piazza Tahrir aggredendo i manifestanti. La battaglia dura tutto il giorno. I servizi Internet vengono ripristinati.

6 febbraio 2011 La messa domenicale celebrata dagli egiziani copti in Piazza Tahrir si svolge con la protezione di attivisti musulmani che si schierano tutt’intorno formando un anello.

7 febbraio 2011 Ghonim è rilasciato e compare subito dopo su Dream TV con un’emozionante intervista concessa alla stazione televisiva.

10 febbraio 2011 Mubarak si rivolge formalmente alla nazione (i manifestanti avevano diffuso la notizia delle sue dimissioni) e annuncia un passaggio di poteri al vice presidente Omar Suleiman. Dopo l’annuncio le manifestazioni aumentano di intensità.

11 febbraio 2011 «Venerdì della Partenza»: alle ore 18, il vice presidente Omar Suleiman annuncia le dimissioni di Mubarak e il passaggio di poteri al Consiglio supremo delle Forze armate (SCAF, nella sigla inglese).

12 febbraio 2011 Il movimento sgombera Piazza Tahrir nella prospettiva di un nuovo Egitto, il cui futuro è ora nelle sue mani.

13 febbraio 2011 Lo SCAF scioglie il Parlamento e sospende la Costituzione pur cercando di tranquillizzare la società civile egiziana con l’assicurazione che manterrà il potere per sei mesi o fino allo svolgimento di nuove elezioni.

19 marzo 2011 Si svolge il referendum costituzionale che viene approvato.

23 marzo 2011 Il Consiglio dei ministri egiziano propone una legge che criminalizza le manifestazioni e gli scioperi. In base alle nuove misure, chiunque organizzasse o annunciasse una manifestazione di protesta sarebbe passibile di condanna detentiva e/o di multa.

1° aprile 2011 Migliaia di persone protestano nella giornata indetta per «Salvare la Rivoluzione», chiedendo allo SCAF di rimuovere al più presto gli esponenti del vecchio regime dalle posizioni di potere che ancora ricoprono.

8 aprile 2011 Nel «Venerdì della Pulizia» decine di migliaia di manifestanti tornano in Piazza Tahrir per chiedere allo SCAF di mantenere le promesse fatte alla rivoluzione (dimissioni dei residui esponenti del vecchio regime e rimozione del procuratore generale dello stato).

24 maggio 2011 Si annuncia che Mubarak e i suoi figli Alaa e Gamal saranno processati per l’uccisione di dimostranti antigovernativi.

27 maggio 2011 «Secondo Venerdì della Collera»: vengono organizzate proteste in tutto il paese. Sono le più vaste dopo quelle che hanno provocato la cacciata di Mubarak.

28 maggio 2011 Mubarak viene condannato a una multa di 34 milioni di dollari per avere interrotto le comunicazioni durante la rivoluzione. Viene allentato il blocco di Gaza e al valico egiziano di Rafah.

28 giugno 2011 Scontri tra forze di sicurezza e manifestanti in Piazza Tahrir.

1° luglio 2011 Manifestazioni in tutto il paese (Suez, Alessandria e il Cairo) per il «Venerdì di Retribuzione» danno voce al malcontento per la lentezza dei cambiamenti realizzati dallo SCAF in cinque mesi.

8 luglio 2011 Il venerdì seguente aumenta la partecipazione dei manifestanti, questa volta nel «Giorno della Determinazione» per reclamare immediate riforme e il rapido processo a carico degli ex funzionari del regime di Mubarak.

3 agosto 2011 Iniziano le trasmissioni televisive delle sedute del processo a Hosni Mubarak, ai figli Gamal e Alaa, all’ex ministro dell’Interno e ad altri membri del precedente governo.

14 agosto 2011 Asmaa Mahfouz è arrestata per aver criticato lo SCAF in un tweet e per essersi opposta all’uso dei tribunali militari per giudicare dei civili. Grazie alla pressione pubblica, viene rilasciata dopo quattro giorni.

9 settembre 2011 I manifestanti invadono l’ambasciata di Israele. In risposta, l’ambasciatore israeliano lascia l’Egitto. Lo SCAF ripristina lo «stato di emergenza». Le forze di sicurezza dello SCAF compiono un raid negli uffici del canale Mubashir Misr (di Al Jazeera), che interrompe le trasmissioni.

9 ottobre 2011 «Massacro Maspero»: una manifestazione di protesta costituita prevalentemente da cristiani copti marcia verso la sede della televisione di stato (palazzo Maspero). I manifestanti chiedono uguaglianza e un’azione dello SCAF contro gli attacchi alle chiese. Il corteo viene caricato dai militari. Si stima che da 24 a 31 persone, in prevalenza cristiani, siano morti negli scontri.

19 novembre 2011 I manifestanti occupano di nuovo Piazza Tahrir e lo SCAF usa gas lacrimogeni contro i manifestanti.

20 novembre 2011 Incursioni della polizia mirano a mantenere la piazza sgombra, ma i manifestanti ritornano due volte più numerosi. Seguono scontri violentissimi: la polizia carica con i manganelli, usa gas lacrimogeni e spara sulla folla.

28 novembre 2011 Iniziano le elezioni parlamentari che si articolano in tre fasi (la conclusione è prevista in gennaio). Il Partito della Libertà e della Giustizia dei Fratelli Musulmani ha una forte affermazione.

14 dicembre 2011 Ha luogo il secondo turno delle elezioni.

17 dicembre 2011 L’«incidente della ragazza con il reggiseno azzurro»: funzionari della sicurezza picchiano, spogliano (esponendo il suo reggiseno azzurro) e trascinano una donna in Piazza Tahrir. L’aggressione viene fotografata e l’immagine suscita sdegno nel mondo.

20 dicembre 2011 Grandi manifestazioni di donne avvengono in tutto il paese in risposta all’«incidente del reggiseno azzurro». Disapprovazione diffusa per lo SCAF.

27 dicembre 2011 La venticinquenne Samira Ibrahim, una delle sette donne costrette a subire un «test di verginità» il 9 marzo, vince la causa contro il governo militare. La pratica è equiparata per decreto alle molestie sessuali e resa illegale nelle prigioni egiziane.

29 dicembre 2011 La forze di sicurezza irrompono negli uffici di sei organizzazioni non governative. APPENDICE A «DIGNITÀ, VIOLENZA, GEOPOLITICA: LE RIVOLTE ARABE»

Cronistoria delle rivolte arabe: dicembre 2010-dicembre 2011

Fonte: Timeline elaborato da Maytha Alhassen sulla base di dati raccolti dal timeline di The Guardian, a cura di Garry Blight, Sheila Pulham e Paul Torpey

17 dicembre 2010 Tunisia: Mohamed Bouazizi si dà fuoco.

14 gennaio 2011 Tunisia: caduta di Ben Ali.

23 gennaio 2011 Yemen: nuove proteste contro il presidente Saleh.

25 gennaio 2011 Egitto: prima grande manifestazione in risposta agli eventi tunisini.

2 febbraio 2011 Yemen: Saleh annuncia che si ritirerà nel 2013. Continuano le proteste di massa.

11 febbraio 2011 Egitto: Mubarak si dimette e cede il potere al Consiglio supremo delle Forze armate.

14 febbraio 2011 Bahrein: prime grandi manifestazioni contro il regime e primo manifestante ucciso.

17 febbraio 2011 Libia: scoppiano le proteste contro Gheddafi.

20 febbraio 2011 Libia: i ribelli conquistano Bengasi e altre città della parte orientale del paese. Si parla di 230 morti. Migliaia di persone protestano in 12 città, connettendosi attraverso Internet.

23 febbraio 2011 Libia: i ribelli conquistano Misurata.

27 febbraio 2011 Tunisia: Beji Caid Essebsi diventa il nuovo primo ministro.

2 marzo 2011

Libia: fuga di massa dalle zone dei combattimenti. I rifugiati in Egitto e in Tunisia sono circa un milione. 9 marzo 2011

Tunisia: scioglimento del partito di Ben Ali, RCD (Raggruppamento Costituzionale Democratico). Yemen: i militati aggrediscono studenti nell’Università di Sana’a. Decine di feriti. Marocco: re Mohammed VI annuncia una riforma costituzionale che limiterà il suo potere.

14 marzo 2011

Bahrein: l’Arabia Saudita invia truppe in aiuto della monarchia sunnita.

16 marzo 2011 Libia: Gheddafi riprende terreno e punta su Bengasi. Bahrein: le manifestazioni in Piazza delle Perle sono vietate e disperse con la forza.

18 marzo 2011 Bahrein: distrutto il monumento di Piazza delle Perle, simbolo del movimento di protesta. Libia: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizza l’uso della forza per proteggere i civili. Siria: le proteste esplodono a Daraa (sud) e nel resto del paese.

19 marzo 2011 Libia: la NATO inizia la campagna di bombardamenti aerei e ferma l’avanzata di Gheddafi. Egitto: referendum costituzionale.

20 marzo 2011 Marocco: inizia un secondo ciclo di proteste.

30 marzo 2011 Libia: Moussa Koussa, ministro degli Esteri, si aggiunge all’elenco delle personalità del regime libico che hanno abbandonato Gheddafi. Siria: Assad in un discorso denuncia una congiura straniera.

8 aprile 2011 Yemen: Saleh respinge il piano del Consiglio di Cooperazione del Golfo per il trasferimento dei poteri.

3 aprile 2011 Egitto: Mubarak e i suoi figli sono arrestati per corruzione e omicidio. 19 aprile 2011 Siria: abrogata la legge di emergenza; era in vigore dal 1963.

24 aprile 2011 Bahrein: quattro attivisti condannati a morte.

25 aprile 2011 Siria: carri armati nelle strade.

4 maggio 2011 Libia: il Tribunale Penale Internazionale accusa il regime di Gheddafi di crimini contro l’umanità.

8 maggio 2011 Egitto: attacchi contro la minoranza copta.

9 maggio 2011 Siria: l’Unione Europea impone sanzioni e un embargo sulle armi.

10 maggio 2011 Libia: i ribelli spezzano l’assedio di Gheddafi a Misurata.

11 maggio 2011 Bahrein: la società Bahrein National Oil licenzia 300 dipendenti perché hanno partecipato alle manifestazioni.

12 maggio 2011 Siria: reparti delle Forze armate attaccano la città di Homs.

24 maggio 2011 Libia: gli aerei della NATO attaccano il quartier generale di Gheddafi a Tripoli.

27 maggio 2011 Tunisia: aiuti dal G8; si tratta di 20 milioni di dollari a favore di Tunisia ed Egitto.

3 giugno 2011 Yemen: Saleh, ferito in un attacco al palazzo presidenziale di Sana’a, si rifugia in Arabia Saudita.

10 giugno 2011 Siria: l’esercito lancia operazioni nel nord del paese dopo l’uccisione di agenti di polizia.

14 giugno 2011 Tunisia: le elezioni sono rinviate dal 24 giugno al 23 ottobre.

20 giugno 2011 Tunisia: Ben Ali e sua moglie sono condannati a 25 anni di prigione per corruzione.

29 giugno 2011 Egitto: migliaia di feriti nelle manifestazioni di protesta seguite al rinvio del processo del ministro dell’Interno di Mubarak. 1° luglio 2011 Marocco: con un referendum, i marocchini approvano la riforma costituzionale.

3 agosto 2011 Egitto: comincia il processo a Mubarak.

7 agosto 2011 Yemen: Saleh viene dimesso dall’ospedale, ma resta a Riad.

22 agosto 2011 Libia: i ribelli assumono il controllo di Tripoli.

7 settembre 2011 Bahrein: più di 100 attivisti incarcerati iniziano uno sciopero della fame.

23 settembre 2011 Yemen: Saleh rientra a Sana’a.

25 settembre 2011 Yemen: Saleh annuncia elezioni. Centinaia di morti nelle manifestazioni degli ultimi quattro giorni.

26 settembre 2011 Siria: l’esercito in azione nella città di Hama.

29 settembre 2011 Bahrein: un tribunale militare condanna a pesanti pene detentive 20 medici perché hanno prestato soccorso a manifestanti feriti.

7 ottobre 2011 Yemen: il leader dell’opposizione Tawakkul Karman riceve il premio Nobel per la pace.

9 ottobre 2011 Egitto: attaccata una manifestazione di cristiani copti. Decine di morti.

20 ottobre 2011 Libia: cattura e assassinio di Gheddafi a Sirte.

23 ottobre 2011 Tunisia: vince le elezioni il partito dell’islamista moderato Ennahda. Libia: il Consiglio per la Transizione Nazionale annuncia la liberazione del paese. Bahrein: in seguito alle negative reazioni internazionali, si inaugura un nuovo processo ai medici.

18 e 28 novembre 2011 Egitto: proteste in Piazza Tahrir contro la giunta militare.

19 novembre 2011 Libia: catturato Seif al-Islam, l’ultimo figlio di Gheddafi ancora in fuga.

21 novembre 2011 Bahrein: il governo ammette di esercitare un «uso eccessivo della forza» contro i manifestanti. Seguono nuove proteste.

22 novembre 2011 Siria: il premier turco Erdogan tronca definitivamente i legami con Assad e lo paragona a Hitler o a Mussolini.

23 novembre 2011 Yemen: Saleh accetta di lasciare le sue cariche in cambio dell’immunità.

25 novembre 2011 Marocco: vittoria islamista nelle elezioni legislative.

27 novembre 2011 Siria: sanzioni della Lega Araba.

28 novembre 2011 Egitto: primo round delle elezioni legislative. Il partito islamista ottiene il 65 per cento dei voti.

30 novembre 2011 Marocco: Mohammed VI designa primo ministro il leader islamista Abdelilah Benkirane.

10 dicembre 2011 Tunisia: Costituzione provvisoria.

13 dicembre 2011 Tunisia: Moncef Marzouki diventa il nuovo presidente. Siria: le Nazioni Unite stimano il bilancio delle vittime in 5.000 morti.

14 dicembre 2011 Egitto: secondo round delle elezioni. APPENDICE A «UNA RIVOLUZIONE RIZOMATICA: INDIGNADOS IN SPAGNA»

Cronistoria del movimento: maggio 2011-maggio 2012

Fonte: Informazioni raccolte ed elaborate da Amalia Cardenas e Joana Conill

15 maggio 2011 Giornata di protesta indetta da Democracia Real Ya (DRY). Le manifestazioni più vaste sono quelle di Madrid, Barcellona, Murcia, Granada, Siviglia, Malaga, Alicante e Valencia. Si stima che complessivamente vi abbiano partecipato circa 130.000 persone.

16 maggio 2011 150-200 persone decidono di accamparsi presso Puerta del Sol, a Madrid, dopo le manifestazioni della sera di domenica 15 maggio. All’alba, la polizia tenta di allontanare gli occupanti ma senza successo. Comincia l’accampamento. Seguendo l’esempio di Madrid, circa 150 persone si riuniscono in Plaza Catalunya a Barcellona. Iniziative analoghe vengono prese a Malaga, Granada, Siviglia, Bilbao e Saragozza.

17 maggio 2011 Manifestazioni in diverse città spagnole. Particolarmente notevoli quelle che hanno luogo nella Plaza del Sol, a Madrid, dove inizia un secondo accampamento. Questa volta le manifestazioni non sono convocate da Democracia Real Ya. A questo punto, in 30 città spagnole sono in corso accampamenti.

18 maggio 2011 A Madrid gli occupanti piantano un tendone e aprono uno stand di cibo con prodotti alimentari donati dai commercianti. Viene installata anche una webcam. A Valencia, Tenerife, Las Palmas e Granada la polizia ordina lo sgombero. Gli occupanti deliberano di tenere assemblee quotidiane. Il Comitato elettorale di Madrid annuncia che le manifestazioni di piazza sono vietate. I dimostranti svolgono un grande rotolo di carta in segno di protezione pacifica contro la polizia. I manifestanti madrileni elaborano un elenco provvisorio di proposte. Gli accampamenti sorgono ormai in 52 città spagnole. 19 maggio 2011 La Corte Costituzionale dichiara legali le manifestazioni. Più tardi nello stesso giorno il consiglio elettorale centrale rilascia un comunicato che dichiara le manifestazioni illegali. Nonostante questi annunci contraddittori, vengono indette dimostrazioni in diverse città. Gli accampamenti salgono a 66 nelle città spagnole e 15 all’estero.

20 maggio 2011 Il comitato giuridico di Puerta del Sol di Madrid informa i media che nessuna protesta sarà indetta per sabato 21 maggio giorno nazionale di riflessione preelettorale. Tuttavia, alcune manifestazioni sono annunciate per venerdì 20 maggio. Nella mattinata del 20 le città con accampamenti sono 166, verso sera diventano 357 e alla fine della notte ce ne sono 480. Plaza Catalunya a Barcellona è divisa in tre zone chiamate Tahrir, Islanda e Palestina. In serata a Barcellona e Madrid viene osservato un minuto di silenzio in risposta al giorno di riflessione preelettorale.

21 maggio 2011 Nonostante il divieto di riunione nelle piazze, migliaia di persone riempiono la Puerta del Sol a Madrid e le aree adiacenti per tutto il giorno. In serata a Barcellona si svolgono «caceroladas» (rumorose manifestazioni di protesta condotte percuotendo casseruole, pentole, coperchi ecc.) che coinvolgono 5000 persone.

22 maggio 2011 Si svolgono in Spagna le elezioni municipali. L’Acampada Sol decide di continuare l’accampamento per non meno di una settimana. Il Partito Popolare (PP), di orientamento conservatore, vince con una maggioranza schiacciante.

23 maggio 2011 La Confederazione del commercio specializzato di Madrid reclama misure per impedire il declino delle vendite dei negozi che si trovano nelle vicinanze degli accampamenti.

24 maggio 2011 L’Acampada Sol comincia a portare le assemblee in diversi quartieri di Madrid.

25 maggio 2011 A Malaga, il ministro della Difesa decide di cambiare la sede di diversi eventi programmati per venerdì 27 maggio, in occasione del Giorno delle Forze armate.

26 maggio 2011 L’assemblea dell’Acampada Sol, in risposta alla sollecitazione a formulare chiare richieste, raggiunge un consenso su quattro punti. Le quattro idee discusse sono: riforma elettorale, misure contro la corruzione, separazione effettiva dei poteri dello stato e creazione di meccanismi che favoriscano un maggior controllo da parte dei cittadini.

27 maggio 2011 Alle 7 del mattino la municipalità di Barcellona invia agenti della polizia catalana e 100 funzionari della polizia locale per espellere gli occupanti di Plaza Catalunya. La polizia giustifica lo sgombero con ragioni igieniche e dichiara che la piazza deve essere pulita prima delle celebrazioni della finale della Champions League cui partecipa il FC Barcelona. Lo sgombero finisce con 121 feriti. La stessa situazione si ripete a Lerida e a Sabadell. Dopo lo sgombero, circa 3000 persone ritornano in Plaza Catalunya. Nelle principali città spagnole avvengono manifestazioni di protesta in segno di solidarietà con gli occupanti sgomberati con la forza a Barcellona. Sui fatti di Plaza Catalunya viene avviata un’inchiesta.

28 maggio 2011 Il FCB vince la Champions League. In Plaza Catalunya, i dimostranti organizzano catene umane per evitare scontri con i fan del FCB. La notte finisce senza alcuno scontro. Cominciano a essere sviluppate proposte per non far perdere slancio al movimento in vista di possibili sgomberi. L’Acampada Sol viene decentrata. Vengono indette assemblee locali in 90 municipalità e 41 distretti.

29 maggio 2011 Manifestazioni a Siviglia (23.000 persone) e Valencia (7000 persone). Gli occupanti di Madrid e Barcellona decidono di continuare l’accampamento indefinitamente.

30 maggio 2011 Democracia Real Ya annuncia un giorno di protesta su scala mondiale per il 15 ottobre 2011.

5 giugno 2011 Persone provenienti da diverse città della Spagna si incontrano a Puerta del Sol, Madrid, per analizzare l’evoluzione del movimento 15-M e discutere l’azione futura. Si discute la possibilità di una marcia nazionale verso Puerta del Sol. Si decide la Marcia Popolare degli Indignados. Sono anche indette manifestazioni per l’11 e il 19 giugno.

6 giugno 2011 I dimostranti di Plaza Catalunya decidono di porre fine al campo permanente e invece di mantenere attività durante il giorno.

7 giugno 2011 I dimostranti dell’Acampada Sol decidono di porre fine all’accampamento il 12 luglio 2011. Una minoranza rifiuta di abbandonare l’accampamento.

8 giugno 2011 A Madrid, 1500-2000 persone si radunano davanti al Parlamento per protestare contro la legge di riforma del lavoro.

9 giugno 2011 A Valencia, la polizia nazionale usa la mano pesante contro la folla radunata intorno al Parlamento. Diciotto feriti. Di sera, 2000 persone si radunano davanti alla Camera dei Rappresentanti per esprimere solidarietà alle vittime delle cariche. A Salamanca, la polizia interviene duramente contro i dimostranti del 15-M. Cinque feriti.

11 giugno 2011 Dimostrazione del 15-M di fronte alle sedi dei consigli municipali in tutta la Spagna.

12 giugno 2011 L’Acampada Sol viene smontata dai manifestanti quattro settimane dopo il suo inizio. Alcune città decidono di seguire l’esempio di Madrid; altre scelgono di proseguire fino al fine settimana. A Valencia si decide di mantenere l’accampamento indefinitamente.

14 giugno 2011 Più di 2000 persone si radunano davanti al Parlamento catalano. Decidono di passare la notte sul posto allo scopo di bloccare i tagli alla spesa che devono essere approvati il giorno successivo.

15 giugno 2011 A Barcellona, i dimostranti cercano di impedire ai membri del Parlamento di entrare nell’edificio. Alcuni parlamentari arrivano in elicottero. Altri cercano di entrare dall’ingresso principale, ma sono respinti. Trentasei dimostranti sono feriti nelle cariche della polizia e sette sono arrestati. Democracia Real Ya prende le distanze da chi ricorre alla violenza e assicura che la grande maggioranza del movimento di protesta pratica la non-violenza.

16 giugno 2011 Cinquecento persone si radunano davanti al Parlamento per protestare contro i politici corrotti. Il parlamento è riunito per discutere la messa in stato di accusa di Francisco Camps, all’epoca presidente della regione di Valencia. Camps è implicato in uno scandalo noto come il «Caso Gürtel».

17 giugno 2011 Manifestazioni di protesta a Santander, durante l’assemblea degli azionisti del Banco di Santander. Il 15-M aderisce ad altre iniziative come la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH), che ha lo scopo di aiutare le famiglie che sono state colpite dalla crisi dei mutui subprime in Spagna. I dimostranti del 15-M cominciano a concentrare parte delle loro attività sul blocco degli sfratti. Questa forma di disobbedienza civile ha successo e riesce a fermare gli sfratti.

18 giugno 2011 Manifestazioni di protesta si svolgono in tutta la Spagna contro il Patto Euro-Plus, con il quale gli stati membri dell’Unione Europea si impegnano ad attuare una serie di riforme politiche volte a migliorare la sostenibilità delle finanze pubbliche e la competitività di ogni paese.

20 giugno 2011 Cominciano le Marce Popolari Indignate. Seguiranno otto percorsi principali.

21 giugno 2011 Un gruppo di attivisti del 15-M annuncia l’intenzione di promuovere un referendum popolare per il 15 ottobre.

22 giugno 2011 Duecento persone si radunano di fronte al Parlamento per chiedere il rilascio di tutti i membri del 15- M detenuti e il ritiro di tutte le accuse. I presenti si riuniscono in assemblea e approvano la proclamazione di uno sciopero generale il 15 ottobre contro la riforma del lavoro.

27 giugno 2011 Democracia Real Ya rilascia una dichiarazione contraria alla proposta di tenere un referendum il 15 ottobre.

9-30 giugno 2011 A Puerta del Sol ha luogo un dibattito sullo stato della nazione, che mira a creare uno spazio di riflessione sui temi più sentiti dai cittadini. L’evento viene chiamato «Dibattito del Popolo».

30 giugno 2011 All’alba, la polizia autonoma di Catalogna e la polizia municipale di Barcellona effettuano lo sgombero degli occupanti di Plaza Catalunya. Non incontrano alcuna resistenza. Il comune stima che siano stati provocati danni alla piazza per 240.000 euro.

1° luglio 2011 A Barcellona hanno luogo manifestazione contro i tagli alla sanità.

3 luglio 2011 La polizia nazionale smantella gli accampamenti di Cáceres, Badajoz, Las Palmas, Palma di Maiorca, Castellón e Ciudad Real. Tutti gli sgomberi avvengono pacificamente.

8 luglio 2011 Una dozzina di persone da Lerida, Huesca e Saragozza parte dalle Cortes di Aragona per Madrid allo scopo di chiedere più democrazia partecipativa.

11 luglio 2011 Nelle Assemblee generali dell’Andalusia, i partecipanti del 15-M aderiscono a un’iniziativa popolare per una legge regionale sulle consultazioni popolari. Secondo i promotori, favorirebbe una democrazia più diretta.

13 luglio 2011 Più di 4500 persone dimostrano a Terrassa (Catalogna) contro i tagli alla sanità.

15 luglio 2011 5000 persone protestano a Malaga contro i patti stipulati tra governo e leader sindacali.

21 luglio 2011 A Barcellona, 200 persone si radunano di fronte all’Hospital del Mar per protestare contro i tagli alla sanità.

23 luglio 2011 Le Marce Popolari Indignate arrivano a Madrid.

24 luglio 2011 Manifestazione a Madrid: i dimostranti intonano: «Non è la crisi, è il sistema».

25 luglio 2011 Indignados da diverse parti della Spagna e da varie città europee partecipano al primo Social Forum del 15-M.

26 luglio 2011 Un gruppo di partecipanti del 15-M parte da Madrid e inizia una marcia verso Bruxelles. L’obiettivo è congiungersi con altri gruppi provenienti da diversi paesi europei e raggiungere a piedi Bruxelles una settimana prima del 15 ottobre. Il loro fine è raccogliere proposte da far giungere al Parlamento europeo.

27 luglio 2011 Alcuni membri del 15-M riescono a passare inosservati davanti alle forze di sicurezza e penetrano nel Parlamento dove consegnano un elenco delle questioni sociali più pressanti, compilato durante le Marce Popolari Indignate. 2 agosto 2011 Alle sei del mattino la polizia nazionale sgombera i manifestanti rimasti a Puerta del Sol, a Madrid. Gli agenti distruggono il centro di informazione. Viene organizzato un corteo intorno a Puerta del Sol per protestare contro lo sgombero. Il corteo si trasforma in una protesta di massa che invade via Atocha. Le stazioni del metrò e le vie adiacenti restano chiuse per 14 ore.

3 agosto 2011 Dopo 24 ore di tensione tra dimostranti e polizia, la circolazione è ripristinata a Puerta del Sol. Alle otto un nuovo corteo si muove intorno alla Puerta del Sol.

4 agosto 2011 Brutalità della polizia a Madrid.

5 agosto 2011 La gente torna in Puerta del Sol. Si tiene un’assemblea di più di 3000 persone. Manifestazioni di solidarietà avvengono in differenti città spagnole.

6 agosto 2011 Gli ultimi manifestanti arrestati in relazione ai fatti del 4 agosto sono rilasciati.

7 agosto 2011 Assemblea generale in Puerta de Sol. Vengono pianificate le azioni per protestare contro la visita di Papa Benedetto XVI, prevista per il 18 agosto.

8 agosto 2011 Si apprende che la municipalità di Madrid ha disabilitato l’accesso a qualsiasi sito Web con un contenuto collegato a 15-M.

17 agosto 2011 Dopo più di una settimana di accampamento a Malaga, i dimostranti riescono a ottenere il rilascio di un cittadino algerino che era detenuto nel Centro detenzione immigranti della città.

23 agosto 2011 Duecento persone inscenano una protesta improvvisata contro il progetto del governo di riformare la Costituzione per inserirvi un limite al disavanzo nei conti pubblici.

28 agosto 2011 Democracia Real Ya e Juventud Sin Futuro invitano a protestare contro la decisione del governo. La riforma della Costituzione procede con insolita rapidità. Nuove manifestazioni.

30 agosto 2011 «Cacerolada» di fronte al Parlamento per protestare contro l’approvazione della riforma costituzionale.

16-17 settembre 2011 A Barcellona si tiene l’Hub meeting internazionale con l’obiettivo di preparare le manifestazioni internazionali di protesta del 15 ottobre.

15 ottobre 2011 Il movimento 15-M partecipa all’evento “Uniti per il cambiamento globale” che ottiene adesioni in 950 città di 85 paesi. In Spagna, gli attivisti invitano i partecipanti a passare dall’indignazione all’azione.

16 ottobre 2011 Un gruppo di Indignados decide di occupare il vecchio Hotel Madrid, nei pressi di Puerta del Sol. L’edificio abbandonato viene trasformato in un centro sociale.

Gennaio 2012 Per tutto il mese si svolgono assemblee virtuali per preparare l’evento mondiale del 12 maggio 2012.

4 febbraio 2012 Un’assemblea generale si svolge nella stazione RENFE di Plaza Catalunya a Barcellona.

11 febbraio 2012 Scoppiano proteste contro le leggi di riforma del lavoro in Spagna. In alcuni workshop si avvia una riflessione sul movimento 15-M.

13 febbraio 2012 Vengono indette manifestazioni di protesta davanti alle sedi diplomatiche greche in segno di solidarietà contro le misure di austerità adottate in Grecia.

18 febbraio 2012 È indetta una Giornata internazionale di mobilitazione in solidarietà con il popolo greco. Su Mumble si svolgono riunioni virtuali per discutere la preparazione dell’evento mondiale del 12 maggio 2012.

15-25 febbraio 2012 Inizia la Primavera di Valencia. Studenti e insegnanti scendono in strada per manifestare contro i gravi tagli della spesa pubblica per l’istruzione. Il governo di Valencia ha un debito di oltre 27 miliardi di dollari che, rapportato alle dimensioni regionali, è il debito più alto delle comunità autonome spagnole. La brutalità degli interventi della polizia contro gli studenti suscita indignazione.

29 febbraio 2012 In molte città spagnole si svolgono scioperi degli studenti e manifestazioni.

12 maggio 2012 In tutto il mondo si svolgono le manifestazioni da tempo programmate per questo giorno.

Riferimenti AcampadaBcn (2011), Documents. Disponibile all’indirizzo Internet: http://acampadabcn.wordpress.com/documents [Accesso effettuato il 28 febbraio 2012]. AcampadaSol (2011), Actas. Disponibile all’indirizzo Internet: http://actasmadrid.tomalaplaza.net [Accesso effettuato il 28 febbraio 2012]. Fonti personali di Joana Conill. Wikipedia (2011), Protestas en España de 2011-2012. Disponibile all’indirizzo Internet: http://es.wikipedia.org/wiki/15M [Accesso effettuato il 28 febbraio 2012]. In italiano si può consultare l’URL: http://it.wikipedia.org/wiki/Proteste_in_Spagna_del_2011 APPENDICE A «OCCUPY WALL STREET»

Cronistoria del movimento Occupy: febbraio 2011-marzo 2012

Fonte: informazioni raccolte ed elaborate da Lana Swartz e Amalia Cardenas

2 febbraio 2011 Adbusters, rivista con sede a Vancouver, pubblica un editoriale in cui Kono Matsu invita a tenere manifestazioni di proteste simili a quelle del mondo arabo: «Se vogliamo lanciare una rivolta popolare in occidente – tipo una marcia di un milione di persone su Wall Street – allora diamoci da fare per organizzarla, prepariamone la strategia, pensiamoci seriamente su».

9 giugno 2011 Adbusters registra il nome del dominio occupywallstreet.org.

13 luglio 2011 Adbusters pubblica un post in cui compare per la prima volta l’hashtag #occupywallstreet e indice una manifestazione per il 17 settembre, dove «20.000 persone confluiranno su Manhattan, piazzeranno tende, cucine da campo, barricate pacifiche e occuperanno Wall Street per qualche mese», chiedendo «democrazia non corporatocrazia» e sostenendo che a partire da «una semplice richiesta, quella di una Commissione presidenziale per tenere separati il denaro dalla politica», si potrà «iniziare a impostare l’agenda per un’America di tipo nuovo».

24 luglio 2011 Gli indignados spagnoli discutono nel Parque del Retiro a Madrid il loro sostegno al movimento Occupy Wall Street: «Partire da Madrid il 25 luglio, arrivare a Vitoria il 9 agosto e a Parigi il 17 settembre per appoggiare l’iniziativa su Wall Street».

26 luglio 2011 Lancio del sito web di Occupy Wall Street, con ampio ricorso a Twitter e Facebook per promuovere la manifestazione del 17 settembre.

2 agosto 2011 Con l’approssimarsi della scadenza per alzare il tetto del debito pubblico, la mezzanotte del 2 agosto, i «cittadini di New York contro i tagli di bilancio» insieme a «Bloombergville» e al gruppo #occupywallstreet danno vita a una manifestazione e tengono un’assemblea generale davanti alla statua del Toro nel Bowling Green Park di Manhattan. Bloombergville è un accampamento piazzato da due settimane nel distretto finanziario di New York, nei pressi di Wall Street, per protestare contro i tagli dell’austerità proposti dal sindaco Michael Bloomberg. Riprendendo un’analoga iniziativa cittadina degli anni 1930, le Hooverville create dai senzatetto durante la Grande Depressione in riferimento al presidente Herbert Hoover, la Bloombergville si ispirava anche agli accampamenti (denominati Walkerville) del febbraio e marzo 2011 a Madison, Wisconsin, dove migliaia di attivisti occuparono e dormirono nel municipio per protestare contro il tentativo del governatore Scott Walker di negare ai dipendenti pubblici il diritto al contratto di lavoro collettivo. Altro motivo d’ispirazione sono state le recenti proteste della Cuomoville contro l’attuale governatore di New York Andrew Cuomo, accusato di non aver fatto abbastanza per rafforzare le normative sugli affitti. Infine, gli organizzatori di Bloombergville si richiamavano direttamente ad analoghe iniziative in corso in altre parti del mondo: da Madrid ai paesi arabi, dalla Grecia alla Gran Bretagna.

16 agosto 2011 Il gruppo di lavoro sull’economia di Acampada Sol conferma il sostegno all’iniziativa di Occupy Wall Street e lancia un appello per una manifestazione davanti alla Borsa di Madrid. L’appello viene diffuso tramite l’hashtag #TOMALABOLSA e il gruppo Facebook «Toma la Bolsa #17S». Adbusters rilancia sul suo blog l’invito a occupare i distretti finanziari nelle città di altri paesi il 17 settembre.

23 agosto 2011 Il gruppo di «hacktivisti» Anonymous dichiara il proprio sostegno al movimento Occupy Wall Street per il 17 settembre e crea un video di 57 secondi invitando a tenere manifestazioni pacifiche nel nome della libertà: «L’abuso e la corruzione di corporation, banche e governi finisce qui».

9 settembre 2011 Gli attivisti del movimento Occupy Wall Street iniziano a pubblicare sulla pagina Tumblr «We are the 99 Percent» foto e racconti personali sulla disoccupazione e sui loro problemi quotidiani. Il blog consente di integrare emozioni e volti nel movimento, mettendo in luce le questioni di maggiore importanza per i cittadini.

17 settembre 2011 Tra le 1000 e le 5000 persone, molte meno delle 20.000 auspicate da Adbusters, si ritrovano nel cuore di Manhattan e camminano su e giù per Wall Street prima di insediarsi a Zuccotti Park, due isolati a nord della Borsa. Qualcuno viene arrestato per vagabondaggio.

20 settembre 2011 Mentre cresce l’attenzione dei media, la polizia cittadina arresta i manifestanti in base a una norma del 1854 che vieta i raduni di persone che indossano delle maschere. La legge venne promulgata nel tentativo di sopprimere le rivolte dei contadini affittuari che si travestivano da nativi americani con abiti tradizionali e maschere di pelle per poi attaccare gli agenti di polizia.

21 settembre 2011 Keith Olbermann, della testata Current TV, è il primo giornalista importante a seguire le proteste. Olbermann critica il silenzio dei media e spiega che dopo cinque giorni di manifestazioni in Nord America l’informazione sul movimento Occupy Wall Street si è limitata a una veloce menzione su un quotidiano minore di Manhattan e a un articolo sul giornale canadese Toronto Star. 22 settembre 2011 Un corteo di protesta per l’esecuzione di Troy Davis, condannato a morte per l’uccisione di un poliziotto nel 1989 ma da molti ritenuto innocente, si trasforma in un’enorme marcia improvvisata su Wall Street. Quanti manifestano nella «giornata dell’indignazione» vengono salutati con gioia dagli attivisti di Wall Street. Quattro le persone arrestate.

23 settembre 2011 A Chicago i manifestanti occupano la sede della Federal Reserve Bank.

24 settembre 2011 La polizia di New York arresta almeno 80 persone quando queste iniziano a marciare verso il centro cittadino, portando alla chiusura di diverse strade. Gli attivisti sottolineano l’uso eccessivo della forza, in particolare quando alcuni poliziotti usano spray urticante direttamente sul volto di cinque manifestanti. Tra questi, la venticinquenne Chelsea Elliott riesce a girare un breve video in cui si vede il vice-ispettore Anthony Bologna che usa lo spray urticante, suscitando ampia indignazione una volta diffuso su Internet.

25 settembre 2011 YouTube informa che Anonymous ha caricato un video di minacce nei riguardi della polizia di New York: «Se nelle prossime 36 ore verranno segnalati episodi di brutalità, oscureremo il vostro sito online così come voi avete zittito le voci dei manifestanti». Invitano poi i poliziotti a «informarsi su cosa è successo alla polizia in Egitto dopo aver disatteso i diritti umani. La loro fine è stata l’inizio della rivolta popolare».

26 settembre 2011 Anonymous diffonde informazioni personali su Anthony Bologna, il poliziotto che ha usato lo spray urticante contro Chelsea Elliott: indirizzi, numeri di telefono, nominativi dei familiari e altri dati personali.

27 settembre 2011 Occupy Wall Street organizza una manifestazione durante la protesta degli impiegati postali contro la settimana corta di cinque giorni. Il consigliere cittadino Charles Barron visita Zuccotti Park e dichiara il pubblico sostegno ai manifestanti. Cornel West interviene davanti a una folla di 2000 persone, aprendo i lavori dell’assemblea generale giornaliera.

28 settembre 2011 Oltre 700 piloti di Continental e United Airlines si uniscono alle manifestazioni di Occupy Wall Street, mentre il sindacato nazionale degli autotrasportatori vota una mozione a suo sostegno. Il Commissario Kelly dichiara pubblicamente che la polizia non può intervenire contro i manifestanti di Zuccotti Park perché trattasi di proprietà privata e la piazza deve rimanere aperta 24 ore su 24.

29 settembre 2011 Il sindacato nazionale degli autotrasportatori usa Twitter per invitare gli aderenti a partecipare alla «grande manifestazione» prevista per il 5 ottobre. A San Francisco gli attivisti cercano di occupare le sedi delle banche Citibank e Chase, oltre che di penetrare in quella dell’istituto finanziario Charles Schwab.

30 settembre 2011 Oltre 1000 manifestanti, inclusi i rappresentanti dei sindacati, marciano verso il quartier generale della polizia per protestare contro le pesanti repressioni della settimana precedente. L’occupazione inizia anche a Boston.

1° ottobre 2011 Oltre 5000 persone si dirigono verso il ponte di Brooklyn, dove poi centinaia camminano sia nelle aree pedonali sia nelle carreggiate per gli autoveicoli, occupando così una parte del ponte. La polizia blocca il traffico verso Brooklyn per due ore. Oltre 700 gli arrestati, compreso un giornalista del New York Times. I video degli arresti si propagano online. Partono occupazioni anche in California, Maine, Kansas e altre parti degli Stati Uniti.

3 ottobre 2011 In varie città statunitensi si tengono manifestazioni dove la gente si traveste da «dirigenti-zombie».

5 ottobre 2011 Le presenze alle manifestazioni crescono con l’arrivo degli aderenti ai sindacati, in particolare quello dei lavoratori industriali. Si stima che la folla del corteo da Foley Square a Zuccotti Park raggiunga le 10.000 unità.

6 ottobre 2011 Parte l’occupazione in molte altre città, tra cui San Francisco, Tampa, Houston, Austin, Dallas, Philadelphia, New Orleans, Cleveland, Las Vegas, Jersey City, Hartford e Salt Lake City. Obama commenta: «Credo che ciò sia espressione della frustrazione che provano gli americani, di fronte alla più grande crisi finanziaria dall’epoca della Grande Depressione, con enormi danni collaterali evidenti nell’intero paese… eppure dobbiamo ancora confrontarci con il comportamento irresponsabile di quegli stessi dirigenti che cercano di opporsi ai tentativi di bloccare gli abusi che ci hanno condotto a questo punto».

8 ottobre 2011 L’occupazione si estende a Washington DC, e gli attivisti vengono colpiti con spray urticante mentre cercano di entrare nel Museo dell’aviazione per protestare contro l’uso di droni militari automatici. Si segnalano arresti a Seattle (Washington State) e Redding (California).

10 ottobre 2011 Il sindaco di New York Bloomberg dichiara: «Il punto è che la gente vuole esprimersi, e fintanto che rispetteranno la legge, consentiremo loro di farlo». 140 persone di Occupy Boston vengono arrestate dopo aver ignorato l’avviso di abbandonare un’area dove erano accampate da oltre una settimana.

11 ottobre 2011 Il corteo Occupy Wall Street Millionaires attraversa le strade dell’Upper East Side di New York, dove risiedono molte delle figure politiche e imprenditoriali più benestanti.

13 ottobre 2011 Il sindaco Bloomberg annuncia che Brookfield Properties, agenzia proprietaria di Zuccotti Park, ha deciso di sgomberare il parco per pulirlo, e che gli attivisti potranno rioccuparlo una volta concluse le operazioni di pulizia. Molti sono dubbiosi sui motivi dell’azione, citando simili tattiche usate per sgomberare i manifestanti del movimento spagnolo.

14 ottobre 2011 Brookfield Properties rimanda la pulizia di Zuccotti Park e spiega di voler trovare un accordo con gli occupanti per assicurare le condizioni igieniche del parco e fare in modo che resti comunque disponibile anche per il pubblico, oltre che per gli occupanti. I manifestanti formano gruppi di intervento per assicurarne le buone condizioni igieniche. Sgombero forzato e 21 arresti per Occupy Denver.

15 ottobre 2011 Giornata di mobilitazione internazionale. Occupazioni o cortei vengono segnalati in 951 città per 82 paesi. 175 persone arrestate a . Arrestato Cornel West sulla scalinata della Corte Suprema a Washington DC. Il sergente della Marina militare USA Shamar Thomas difende i manifestanti di Occupy Wall Street contro l’intervento dei poliziotti, e il relativo video diventa virale: viene visto oltre due milioni di volte. Come gesto di solidarietà, un gruppo lancia #OccupyMarines e promette funzioni organizzative, logistiche e di leadership.

16 ottobre 2011 La Casa Bianca rilascia una dichiarazione in cui si legge che Obama «sta lavorando a tutela dell’interesse del 99%».

17 ottobre 2011 Nella ricorrenza del primo mese di vita, Occupy Wall Street informa di aver ricevuto contributi pari a 300.000 dollari in contanti. Il denaro viene depositato presso la Amalgamated Bank, l’unica banca USA al 100 per cento di proprietà dei sindacati. Adbusters propone una «#RobinHood Global March» per il 29 ottobre e il sostegno a una richiesta universale: «Il 29 ottobre, alla vigilia del Summit dei leader del G20 in Francia, invitiamo i cittadini di ogni parte del mondo a richiedere ai leader del G20 l’immediata imposizione di una tassa dell’1 per cento (#ROBINHOOD tax) su tutte le transazioni finanziarie e sugli scambi di valuta».

17 e 20 ottobre 2011 Licenziati due giornalisti di un’emittente affiliata alla National Public Radio perché coinvolti nel movimento Occupy.

21 ottobre 2011 Arresti a Occupy Tampa e Occupy Orlando.

23 ottobre 2011 Arresti a Occupy Chicago, Occupy Philadelphia e Occupy Cincinnati. Si segnalano occupazioni anche a Hong Kong, Tel Aviv e in Iran.

24 ottobre 2011 Il Procuratore distrettuale di New York offre di derubricare le accuse per 340 delle 750 persone denunciate per disturbo dell’ordine pubblico per i fatti del ponte di Brooklyn. MTV annuncia la trasmissione per il 5 novembre di un episodio di un reality show dal titolo: «Vita vissuta: sto occupando Wall Street».

25 ottobre 2011 La polizia di Oakland interviene con armi non letali per disperdere gli occupanti di Occupy Oakland. Seriamente ferito un veterano della guerra in Iraq, Scott Olsen, ricoverato in ospedale per fratture al cranio. Occupy Oakland propone uno sciopero generale per il 2 novembre. L’intervento della polizia di Oakland è il più violento registratosi finora contro il movimento. Gli attivisti egiziani diffondono un comunicato di solidarietà con gli occupanti.

26 ottobre 2011 Centinaia di partecipanti a Occupy Wall Street organizzano un corteo nei pressi di Union Square a sostegno di Olsen e di Occupy Oakland.

29 ottobre 2011 Arresti a Occupy Denver.

30 ottobre 2011 Arresti tra i partecipanti di per non aver sgomberato il parco all’orario di chiusura di mezzanotte. 38 persone arrestate a dopo essersi rifiutate di rimuovere i tavoli per mangiare alle ore 22.

2 novembre 2011 Occupy Oakland promuove lo sciopero generale in città, il primo in 65 anni, in risposta all’attacco della polizia contro Scott Olsen. Le manifestazioni portano alla chiusura del porto di Oakland, il quinto per traffico quotidiano a livello nazionale. Le proteste sono per la gran parte pacifiche, ma un piccolo gruppo di individui, coperti con sciarpe nere per non farsi riconoscere, vandalizza alcune banche: pratica condannata dal movimento stesso. Un uomo viene arrestato nell’accampamento di New York per violenza sessuale e stupro.

3 novembre 2011 Lanciando gas lacrimogeni e granate antisommossa, la polizia di Oakland carica i manifestanti di Occupy Oakland che avevano fatto un falò in strada e si rifiutavano di sgomberare. Oltre cento le persone arrestate, compreso un altro veterano della guerra in Iraq seriamente ferito.

4 novembre 2011 Manifestazione «Occupy Koch Brothers» a ridosso di un evento di gruppi conservatori a Washington DC.

5 novembre 2011 Guy Fawkes Day e Bank Transfer Day. Proteste davanti all’ingresso delle maggiori banche e istituti finanziari del paese. Nel mese precedente, oltre 600.000 persone avevano chiuso i conti correnti che tenevano in queste banche per aprirli presso cooperative di credito locali.

7 novembre 2011 Due attivisti si sposano nell’accampamento di Occupy Philadelphia.

9 novembre 2011 La giornata di mobilitazione per l’istruzione pubblica viene guidata da , movimento degli studenti californiani creato contro l’aumento delle tasse universitarie e il taglio dei bilanci. Vengono montate alcune tende e si tiene la prima assemblea generale. La polizia sgombera l’accampamento e picchia diversi manifestanti pacifici.

10 novembre 2011 Gli attivisti di Occupy interrompono un intervento pubblico di Michele Bachmann, deputata repubblicana. L’evento è uno dei tanti «Mic Check» (prova microfono) in cui i manifestanti si rivolgono al governo per esplicitare le proprie rimostranze. Un uomo che sembra vivesse a Occupy Oakland viene trovato morto per un colpo di arma da fuoco nei pressi dell’accampamento.

11 novembre 2011 Sgomberata Occupy Burlington Vermont dopo che un occupante si suicida in una tenda.

12 novembre 2011 Trovato morto un uomo nell’accampamento di Salt Lake City. Arrestate sedici persone che si rifiutavano di andar via.

13 novembre 2011 Sgomberata Occupy Portland dopo una notte di scontri.

14 novembre 2011 Sgomberata Occupy Oakland, venti persone arrestate. Secondo il sindaco Jean Quan, questa era l’unica risposta possibile alla «tremenda pressione» esercitata dall’accampamento sulle risorse cittadine. Per protesta il consigliere legale del sindaco rassegna le dimissioni.

15 novembre 2011 Occupy Wall Street: verso l’una di notte, la polizia inizia lo sgombero di Zuccotti Park, con la motivazione di ripristinarne le condizioni igieniche e la sicurezza. Agli organi d’informazione, inclusi gli elicotteri della CBS, viene impedito di trasmettere gli eventi in diretta. Il consigliere comunale Ydanis Rodriguez viene arrestato durante le operazioni di sgombero, insieme ad altre 70 persone. Confiscati 5554 volumi della biblioteca del popolo. Un giudice stabilisce che, pur non avendo il diritto ad accamparsi nel parco in base al Primo Emendamento alla Costituzione, i manifestanti possono tornarvi senza tende e attrezzature. Si organizzano assemblee generali e riunioni improvvisate. Occupy DC tiene un sit-in davanti all’ufficio di Washington di Brookfield Properties, proprietari di Zuccotti Park. Occupy UC Davis organizza un corteo nel campus universitario a cui partecipano almeno 2000 persone, e circa 400 occupano poi l’edificio amministrativo e vi tengono un’assemblea generale. tiene cortei in centro città: scontri tra polizia e manifestanti, con uso di spray urticante e sei arresti.

16 novembre 2011 Gli attivisti di New York si raggruppano nuovamente dopo lo sgombero per pianificare la giornata di mobilitazione globale. Si prevede di bloccare l’ingresso alla Borsa e alla metropolitana, oltre a occupare Foley Square e il ponte di Brooklyn. Arresti a Portland, Berkeley, San Francisco (95 quella sera stessa), St. Louis e Los Angeles.

17 novembre 2011 La giornata di mobilitazione globale segna l’inizio del secondo mese del movimento, con oltre 30.000 persone in corteo nelle strade di New York. La gente si riunisce nei dintorni di Zuccotti Park, Union Square, Foley Square, il ponte di Brooklyn e altre località in tutta la città. A Occupy Boston, l’ordinanza di un giudice impedisce alla polizia di procedere con lo sgombero. A Occupy Cal, gli studenti di UC Berkeley mantengono attivo l’accampamento. Sgombero e 18 arresti a Occupy Dallas. Prosegue l’occupazione dell’edificio amministrativo con altre tende piantate nel centro del campus a Occupy UC Davis. A Los Angeles, almeno 30 gli arresti nell’occupazione della piazza dove ha sede la Bank of America. I partecipanti a Occupy Milwaukee bloccano il ponte della North Avenue. A Portland la polizia usa spray urticante e arresta almeno 25 persone. Gli attivisti di Occupy Seattle marciano sul ponte dell’università bloccandone il traffico automobilistico. Un permesso ad hoc consente a Occupy Spokane di allestire l’accampamento. Circa mille persone manifestano a Occupy St. Louis in corteo da Kiener Plaza Occupy al ponte di Martin Luther King, dove 14 di loro vengono arrestate per aver bloccato le rampe d’ingresso, mentre nel pomeriggio un gruppo occupa temporaneamente il vecchio tribunale municipale adiacente all’attuale municipio e dispiega grandi striscioni con la scritta «Occupy Everything».

18 novembre 2011 Il capitano della polizia di Philadelphia in pensione Ray Lewis viene arrestato per disturbo dell’ordine pubblico, violando le norme locali e rifiutandosi di circolare. La polizia pianifica lo sgombero per Occupy Cal alle due di notte, mentre Occupy Davis viene sgomberata al mattino, con l’uso di spray urticante ai danni di parecchi studenti.

19 novembre 2011 Newt Gingrich, ex presidente della Camera, suggerisce agli attivisti di Occupy Wall Street di «andare a lavorare, non prima di essersi fatti un bel bagno». La polizia dell’Università di California a Davis usa spray urticante contro manifestanti che ostruiscono pacificamente un passaggio pubblico. Il video dell’incidente diventa virale, spingendo le autorità universitarie a sospendere i poliziotti e a ordinare un’indagine.

20 novembre 2011 Si pianifica un sit-in di 24 ore con percussioni davanti all’abitazione del sindaco Michael Bloomberg, ma i manifestanti vengono bloccati a ogni angolo da poliziotti e barricate. Circa 300 persone continuano a manifestare usando pentole e padelle.

22 novembre 2011 Il presidente Obama viene brevemente interrotto dagli attivisti di Occupy Wall Street, che ricorrono alla tecnica del «Mic Check» per mandare un messaggio al presidente. Gli viene poi consegnata una nota in cui si legge: «Signor presidente: sono stati arrestati oltre 4000 manifestanti pacifici, mentre le banche continuano a distruggere l’economia americana. Lei deve bloccare l’assalto in corso contro il nostro diritto al Primo Emendamento alla Costituzione. Il suo silenzio fa trapelare il messaggio che occorre accettare la brutalità della polizia. Le banche sono state salvate, noi veniamo svenduti».

30 novembre 2011 Due giorni dopo la consegna dell’ordinanza di sgombero, la polizia procede contro Occupy Los Angeles e arresta oltre 200 persone.

1° dicembre 2011 Scoppia la violenza a quando la polizia piazza delle barricate tutt’intorno all’accampamento. Un poliziotto risulta leggermente ferito, mentre agli occupanti viene offerto di spostarsi in un’altra località.

6 dicembre 2011 Lancio nazionale di una nuova iniziativa del movimento: , l’occupazione di abitazioni vuote di proprietà delle banche per i senzacasa.

9 dicembre 2011 Sgombero di prima mattina per Occupy Boston, con 46 arresti. Qualcuno lamenta che i poliziotti non sono facilmente riconoscibili e che i giornalisti vengono tenuti a distanza mentre si procede agli arresti. Le squadre della pulizia caricano e portano via rapidamente tutto quello che rimane nell’accampamento.

10 dicembre 2011 Secondo fonti del governo e della polizia, poliziotti in borghese si sono infiltrati nell’accampamento di Occupy Los Angeles un mese prima per verificare le voci di stoccaggio organizzato di escrementi e armi per resistere allo sgombero.

12 dicembre 2011 I tentativi coordinati di chiudere i porti sulla costa occidentale USA provocano problemi ma non raggiungono l’obiettivo. Ne risultano alcuni scontri con la polizia, mentre è ambigua la reazione dei sindacati.

14 dicembre 2011 L’intervento di Newt Gingrich all’Università dello Iowa viene interrotto da un gruppo di aderenti a Occupy.

16 dicembre 2011 Per affermare i diritti degli elettori a Washington DC, Keith Ellison, deputato democratico del Minnesota, tiene un digiuno di 24 ore in solidarietà con quattro attivisti di Occupy DC già in sciopero della fame dall’8 dicembre.

17 dicembre 2011 Nella ricorrenza del terzo mese del movimento, a New York si cerca di «rioccupare» Zuccotti Park, danneggiando una staccionata. Migliaia di persone occupano invece la vicina Piazza Duarte, con annesso corteo nelle strade di Manhattan: 50 arresti.

18 dicembre 2011 Aderenti a Occupy sfilano in solidarietà con gli immigranti e i rifugiati durante le celebrazioni della Giornata internazionale dei migranti.

1° gennaio 2012 La polizia di New York arresta 68 persone che cercano di accamparsi nuovamente a Zuccotti Park.

2 gennaio 2012 Aderenti a Occupy interrompono l’intervento pubblico di Mitt Romney a Des Moines.

3 gennaio 2012 Alla stazione centrale di New York si tiene una flashmob per protestare contro la firma di Obama sulla nuova legge per la difesa nazionale. Tre gli arrestati per disturbo dell’ordine pubblico.

10 gennaio 2012 La polizia rimuove le barricate intorno a Zuccotti Park in base alle nuove disposizioni dei proprietari che vietano di stendersi per terra o di dormire nel parco. Centinaia di persone possono così rientrarvi.

15 gennaio 2012 Il movimento Occupy partecipa a varie manifestazioni nel mondo in memoria del Rev. Martin Luther King Jr.

17 gennaio 2012 In occasione del quarto mese del movimento, circa 2000 persone si ritrovano sul prato nei pressi del palazzo del Congresso in un evento chiamato Occupy Congress, subendo diversi arresti. Si tengono incontri con i deputati, vari sitin e viene bloccato l’ingresso dei tre edifici parlamentari. Un corteo serale sfila sulle scalinate della Corte Suprema, dove la polizia non si aspetta un numero così ampio di dimostranti che raggiunge (illegalmente) la cima della scalinata e poi punta sulla Casa Bianca.

20 gennaio 2012 Occupy Wall Street tiene una giornata di mobilitazione nazionale contro Citizens United su un caso del 2010 relativo al Primo Emendamento della Costituzione, nella speranza di spingere la Corte Suprema a rivedere la propria decisione.

25 gennaio 2012 Ricordando le proteste alla Convention democratica del 1968 a Chicago, Adbusters pubblica un appello per l’occupazione in massa del Summit del G8 previsto a maggio nella stessa città.

28 gennaio 2012 Individui affiliati a Occupy Oakland irrompono nel municipio e bruciano una bandiera americana. La polizia lancia gas lacrimogeni e arresta 300 persone. Le autorità sottolineano l’aumento della violenza e suggeriscono sia dovuta a un piccolo gruppo di manifestanti.

4 febbraio 2012 Sgomberata Occupy K Street a Washington DC. A New York, aderenti a Occupy protestano in corteo contro la brutalità della polizia nel Bronx.

11 febbraio 2012 Manifestazione insieme a vari sindacati di fronte alla Conservative Political Action Conference a Washington DC. Occupy San Francisco tiene una manifestazione contro la repressione della polizia.

14 febbraio 2012 Ad Atlanta Occupy AT&T protesta contro i licenziamenti dell’azienda telefonica. In occasione della festa di San Valentino, la campagna «Break up with Your Bank» incoraggia la gente a spostare i propri fondi presso cooperative di credito e banche comunitarie.

16 febbraio 2012 Occupy Homes organizza eventi a Los Angeles, Denver e nel Queens, a New York, per bloccare i pignoramenti di alcune abitazioni.

17 febbraio 2012 In molte città sparse sull’intero territorio nazionale, i gruppi Occupy partecipano alla Giornata internazionale di mobilitazione in solidarietà con i cittadini greci che stanno protestando contro le misure dell’austerità.

18 febbraio 2012 Gli aderenti a Occupy Chicago, insieme a genitori, insegnanti e studenti, occupano la scuola pubblica di specializzazione Brian Piccolo a rischio di chiusura per i tagli di bilancio.

19 febbraio 2012 Come parte della Giornata nazionale di mobilitazione a sostegno dei diritti dei carcerati, si tengono manifestazioni presso i penitenziari di San Quentin in California e in altre città, tra cui Austin, Baltimore, Boston, Chicago, Columbus, Denver, Durham, Fresno, New York, Philadelphia, Portland, San Francisco e Washington DC.

27 febbraio 2012 Giornata globale di mobilitazione di Occupy Food Supply per protestare contro l’industrializzazione diffusa dell’agricoltura. Davanti alla Borsa di New York si organizza uno scambio dei semi, oltre a eventi in altre città.

29 febbraio 2012 Approfittando del giorno in più dell’anno bisestile, si organizzano varie manifestazioni sotto l’hashtag #F29: ne vengono segnalate oltre 80 in ogni parte del mondo. L’ennesimo tentativo di rioccupare Zuccotti Park porta a nuovi arresti.

1° marzo 2012 Nella Giornata di mobilitazione per l’istruzione si svolgono eventi a New York, Chicago, Washington DC, Los Angeles, Boston, Miami e Philadelphia.

8 marzo 2012 In occasione delle Giornata internazionale della donna, gli occupanti tengono manifestazioni insieme a Code Pink, movimento di base per la pace e la giustizia sociale lanciato dalle donne per porre fine a guerre e occupazioni USA nel mondo.

17 marzo 2012 Per celebrare la ricorrenza del sesto mese dall’occupazione di Wall Street, gli attivisti provano a riprendersi Zuccotti Park. Centinaia gli arresti in quella che molti considerano una recrudescenza della repressione della polizia. @OccupyWallStNYC scrive su Twitter: «Nei primi 6 mesi abbiamo cambiato la conversazione nazionale. Nei prossimi 6 cambieremo il mondo». Opinione publica e movimento Occupy negli Stati Uniti Fonte: informazioni raccolte ed elaborate da Lana Swartz

Familiarità

Siete al corrente delle proteste in corso a New York City e altre località del paese note come Occupy Wall Street? Le conosco bene 17% Ne so qualcosa 33% Non ne so molto/L’ho sentito dire 32% Non ne ho mai sentito parlare 17% Non so/Rifiuta 1% 6-10 ottobre 2011/Fonte: Ipsos/Reuters Poll

Quanto sapete o avete letto riguardo alle proteste e alle manifestazioni in corso a New York City e altre località del paese note come Occupy Wall Street? Molto 34% Poco 36% Non molto 14% Nulla 15% Non so 1% 19-24 ottobre 2011/Fonte: CBS/New York Times Poll

Pubblica opinione in generale

Vi considerate favorevole, contrario o neutrale nei confronti del movimento Occupy Wall Street? Ottobre 2011 Novembre 2011 Favorevole 26% 24% Contrario 19% 19% Neutrale 52% 53% Nessuna opinione 4% 3% Fonte: Gallup

Quale opinione avete del movimento Occupy Wall Street? Fonte: Gallup

Vi considerate un sostenitore del movimento?

Fonte: NBC News/Wall Street Journal Poll

Avete un’opinione favorevole, contraria o neutrale sul movimento Occupy Wall Street, oppure non ne sapete abbastanza per farvene un’opinione? Ottobre 2011 Gennaio 2012 Favorevole 25% 21% Contraria 20% 28% Neutrale 17% 23% Non so 36% 27% Nessuna risposta 2% 1% Fonte: CBS/New York Times Poll

Obiettivi e punti di vista

Siete favorevoli o contrari agli obiettivi del movimento Occupy Wall Street, oppure non ne sapete abbastanza per poter decidere? Ottobre 2011 Novembre 2011 Favorevoli 22% 25% Contrari 15% 16% Non so/Nessuna risposta 63% 60% Fonte: Gallup

Da quanto avete letto o sentito, in generale siete favorevoli o contrari ai punti di vista del movimento Occupy Wall Street? Favorevoli 43% Contrari 27% Non so/Nessuna risposta 30% Ottobre 2011/Fonte: CBS/New York Times Poll Fino a che punto vi identificate personalmente con gli ideali del movimento Occupy Wall Street o del 99%? Molto 28% Poco 23% Per nulla 42% Non so/Nessuna risposta 6% Ottobre 2011/Fonte: Reuters/Ipsos Public Affairs Poll

Ritenete che il movimento Occupy Wall Street sia anticapitalista oppure no? Sì, lo è 37% No, non lo è 46% Non so 17% Ottobre 2011/Fonte: Fox News Poll

La strategia del movimento

Siete favorevoli o contrari alle modalità con cui vengono portate avanti le proteste di Occupy Wall Street? Ottobre 2011 Novembre 2011 Favorevoli 25% 20% Contrari 20% 31% Non so 55% 49% Fonte: Gallup

Attitudine rispetto all’impatto politico

Ritenete che il movimento Occupy Wall Street sia stato positivo o negativo per il sistema politico americano, oppure che non abbia prodotto alcuna differenza? Positivo 25% Negativo 16% Nessuna differenza 49% Non so/Un po’ di entrambi 10% Ottobre 2011/Fonte: NBC News/Wall Street Journal Poll

Quale gruppo ritenete possa avere maggior influenza su chi vincerà le Presidenziali del 2012? Tea Party 50% Occupy Wall Street 33% Non so/Nessuno dei due 16%

Quale gruppo è più vicino alle vostre preferenze? Tea Party 40% Occupy Wall Street 40% Non so/Nessuno dei due 19% Novembre 2011/Fonte: McClatchy/Marist College Institute for Public Opinion

Pubblica opinione divisa per settori demografici

Favorevoli ad alcuni aspetti di Occupy Wall Street in base ai partiti di appartenenza

Posizione nei confronti del movimento*

Obiettivi del movimento

Modalità delle proteste

Novembre 2011/Fonte: Gallup

Attitudine rispetto al movimento Occupy Wall Street Dicembre 2011/Fonte: Pew Research

Attitudine verso questioni annesse alle attività del movimento

Lo stato dell’economia

Complessivamente ritenete che questo periodo difficile faccia parte del normale andamento delle cose oppure sia l’inizio di un declino di lungo termine dove gli USA finiranno per perdere la loro la posizione leader nel mondo? Solo un periodo duro 40% Inizio di declino a lungo termine 54% Un po’ entrambi 4% Nessuno/Non so 2%

Riguardo la recessione economica del paese, ritenete che il peggio sia passato oppure debba ancora arrivare? Il peggio è passato 49% Il peggio deve arrivare 44% Siamo a metà 2% Non so 5% Novembre 2011/Fonte: NBC/Washington Post Poll

Quale tra i seguenti è stato l’evento più deludente dell’anno passato (2011) a livello personale? L’1% sempre più ricco e il declino della classe media 31% L’assenza della ripresa economica 29% L’incapacità del Congresso di raggiungere un compromesso sul deficit del bilancio 27% Il proseguimento della guerra in Afghanistan 6% Scandali come quelli di Penn State e Syracuse 3% Altro/Nessuno/Non so 4% Dicembre 2011/Fonte: NBC News/Wall Street Journal Poll

Come giudicate la condizione dell’economia nazionale oggi? Molto positiva 1% Positiva 20% Negativa 47% Molto negativa 32% Gennaio 2012/Fonte: CBS/New York Times Poll

Disuguaglianza economica

Ritenete equo o iniquo l’attuale sistema economico interno a livello personale? Equo 54% Iniquo 44% Non so 2% Ottobre 2011/Fonte: Gallup

Ritenete equa la distribuzione del denaro e della ricchezza nel paese, oppure pensate sia necessaria una ripartizione più equilibrata tra un maggior numero di persone? Equa 26% Dovrebbe essere più equilibrata 66% Non so 8% Ottobre 2011/Fonte: CBS/New York Times Poll

L’attuale struttura economica del paese è squilibrata e favorisce una piccola fetta di ricchi rispetto al resto della popolazione. Va ridotto il potere delle grandi banche e corporation per chiedere invece loro maggior responsabilità e trasparenza. Il governo non dovrebbe fornire assistenza finanziaria alle corporation né sgravi fiscali ai più ricchi. Assolutamente d’accordo 60% Parzialmente d’accordo 16% Neutrale 9% Parzialmente in disaccordo 6% Assolutamente in disaccordo 6% Non so 3% Novembre 2011/Fonte: NBC/Washington Post Poll

Percezione pubblica del conflitto tra ricchi e poveri

Percentuale di persone che sostengono l’esistenza di un conflitto «forte» o «molto forte» tra ricchi e poveri. 2009 2011 Totale 47% 66% Razza Bianchi 43% 65% Neri 66% 74% Ispanici 55% 61% Età 18-34 54% 71% 35-49 48% 64% 50-64 45% 67% 65+ 36% 55% Reddito annuale Meno di 20.000 dollari 47% 64% 20-40.000 dollari 46% 66% 40-75.000 dollari 47% 71% Oltre 75.000 dollari 49% 67% Istruzione Diploma di college 48% 66% College, parziale 50% 70% Scuola media 44% 64% Appartenenza di partito Repubblicani 38% 55% Democratici 55% 73% Indipendenti 45% 68% Ideologia Conservatori 40% 55% Moderati 50% 68% Liberal 55% 79% Fonte: Pew Research Center, 2011

Responsabilità per la crisi economica

Dovendo scegliere, chi ritenete abbia maggiori responsabilità per i problemi economici degli Stati Uniti: le istituzioni finanziarie di Wall Street o il governo federale di Washington? Istituzioni finanziarie 30% Governo federale 64% Nessuna opinione 5%

Riguardo gli attuali problemi economici degli Stati Uniti, quale ritenete sia il livello di responsabilità del governo federale? Molto 56% Abbastanza 31% Non molto 9% Per nulla 2% Nessuna opinione 2%

Riguardo gli attuali problemi economici degli Stati Uniti, quale ritenete sia il livello di responsabilità delle istituzioni finanziarie? Molto 45% Abbastanza 33% Non molto 13% Per nulla 6% Nessuna opinione 3% Ottobre 2011/Fonte: Gallup

Chi ha le maggiori responsabilità per gli attuali problemi economici del paese? Wall Street 36% George W. Bush 34% Barack Obama 21% Non so 9%

Riguardo al controllo di Wall Street e delle banche, ritenete che l’amministrazione Obama sia stata all’altezza delle aspettative oppure che non abbia fatto abbastanza? All’altezza delle aspettative 18% Non ha fatto abbastanza 74% Entrambi/Non so 8%

Riguardo agli interventi del presidente Obama sulla situazione economica, ritenete che le sue policy abbiano migliorato o peggiorato tale situazione o non hanno fatto alcuna differenza? Migliorato 22% Peggiorato 30% Nessuna differenza 47% Non so 1% Novembre 2011/Fonte: NBC/Washington Post Poll

Quale ritenete sia stata la causa primaria della crisi finanziaria iniziata nel 2007? Pratiche rischiose degli imprenditori 7% Pratiche rischiose dei consumatori 5% Scarse norme di controllo per Wall Street 19% Banche che offrivano mutui a chi non poteva permetterseli 42% Banche che offrivano mutui a condizioni ambigue e predatorie 13% Fattori economici impossibili da prevedere 4% Non so 11% Gennaio 2012/Fonte: AARP Consumer Financial Protection Survey Campione di adulti sopra i 50 anni

Politica economica

Riguardo alla fascia dell’1% dei più ricchi in America, quale percentuale delle loro entrate ritenete vada tassata a livello federale ogni anno? 0-10% 21% 11-20% 14% 21-30% 18% 31-40% 11% Oltre il 40% 7% Non so 28% Ottobre 2011/Fonte: Gallup

Ritenete che in generale il governo debba esercitare un livello maggiore, minore o come l’attuale di controllo sul settore finanziario, cioè banche di Wall Street, agenzie di mutui o prestiti, società di carte di credito? Maggior controllo 46% Minor controllo 25% Come l’attuale 20% Non so 9%

Quanto ritenete sia importante garantire la tutela contro le pratiche predatorie delle società di prestiti, come alte tariffe e penalità, su prodotti quali mutui e carte di credito? Molto importante 86% Piuttosto importante 9% Poco importante 1% Inutile 1% Non so 3%

Quanto ritenete sia importante che i promotori finanziari che praticano marketing ingannevole siano ritenuti responsabili? Molto importante 94% Piuttosto importante 4% Poco importante >0.5% Inutile 1% Non so 3% Gennaio 2012/Fonte: AARP Consumer Financial Protection Survey Campione di adulti sopra i 50 anni APPENDICE A «CAMBIARE IL MONDO NELLA SOCIETÀ IN RETE»

L’opinione pubblica in alcuni paesi rispetto a Occupy e movimenti analoghi

Fonte: Dati elaborati da Lana Swartz sulla base di quelli raccolti dalle fonti citate per ogni grafico

Figura A1 Attitudine sulle proteste di «Occupy Wall Street»

Domanda: Siete favorevoli o contrari alle proteste di «Occupy Wall Street»?

Fonte: Sondaggio condotto da Ipsos Global Advisor per conto di Reuters News. Novembre 2011. Attitudine dei cittadini nei confronti di governi, istituzioni politiche e finanziarie statunitensi, Unione Europea e il mondo in generale

Fonte: Dati elaborati da Lana Swartz sulla base di quelli raccolti dalle fonti citate per ogni grafico

Figura A2 Fiducia nelle istituzioni finanziarie europee

Domanda: Nel vostro paese, avete fiducia o meno in ognuna delle seguenti istituzioni finanziarie e politiche?

Fonte: Gallup. Giugno 2011. Figura A3 Fiducia nelle istituzioni politiche europee

Domanda: Quale livello di fiducia avete nelle persone che gestiscono banche e istituzioni finanziarie?

Fonte: Sondaggio condotto dal National Opinion Research Center, Università di Chicago. Figura A4 Fiducia nelle istituzioni finanziarie statunitensi

Domanda: Avete fiducia o meno nell’Unione Europea, nel Parlamento e nel governo nazionali?

Fonte: Eurobarometer. Figura A5 Fiducia nelle istituzioni finanziarie statunitensi

Domanda: Quale livello di fiducia avete nelle banche e nelle grandi imprese?

Fonte: Gallup.

Figura A6 Fiducia nel ramo esecutivo del governo federale statunitense

Domanda: Quale livello di fiducia avete nelle persone che gestiscono queste istituzioni? I ramo esecutivo del governo federale statunitense. Fonte: Sondaggio condotto dal National Opinion Research Center, Università di Chicago.

Figura A7 Fiducia nel Congresso statunitense

Domanda: Quale livello di fiducia avete nelle persone che gestiscono il Congresso statunitense?

Fonte: Sondaggio condotto dal National Opinion Research Center, Università di Chicago. Figura A8 Fiducia nei politici statunitensi

Domanda: Quale livello di fiducia avete nelle persone che rivestono funzioni pubbliche in questo paese?

Fonte: Gallup. Figura A9 Fiducia nelle istituzioni politiche statunitensi

Domanda: Quale livello di fiducia avete nelle seguenti istituzioni statunitensi: la Corte Suprema, il Congresso, la Presidenza?

Fonte: Gallup.

Figura A10 Fiducia nel governo sulla gestione della crisi economica Domanda: Quale livello di fiducia avete nel vostro governo riguardo la gestione della crisi economica (votando su una scala da 1 a 10, dove 1 indica nessuna fiducia e 10 fiducia totale)?

Fonte: ICM.

Figura A11 Corruzione diffusa nel settore imprenditoriale

Domanda: Ritenete esista una corruzione diffusa nel settore imprenditoriale del vostro paese?

Fonte: Gallup World View. Figura A12 Fiducia nel governo nazionale

Domanda: Nel vostro paese, avete fiducia o meno nel governo nazionale?

Fonte: Gallup World Voice. Figura A13 Corruzione diffusa nel oerno

Domanda: Ritenete esista o no una corruzione diffusa nel governo del vostro paese?

Fonte: Gallup World Voice. Figura A14 Fiducia nella correttezza del sistema elettorale

Domanda: Nel vostro paese, avete fiducia o meno nella correttezza del sistema elettorale?

Fonte: Gallup World View. Informazioni sul libro Un’esplorazione delle nuove forme dei movimenti sociali e di protesta: dalle rivolte del mondo arabo al movimento degli indignados in Spagna e a Occupy Wall Street negli Stati Uniti. Mentre questi e altri simili movimenti differiscono per molti aspetti importanti, c’è una cosa che hanno in comune: sono tutti inestricabilmente legati alla creazione di reti di comunicazione autonome, supportate da Internet e da trasmissioni wireless. In questo libro Manuel Castells – il maggior studioso della società in rete – esamina le radici sociali, culturali e politiche dei nuovi movimenti; ne studia le forme innovative di auto-organizzazione; valuta criticamente il particolare e decisivo ruolo che la tecnologia ha giocato nelle dinamiche dei movimenti; suggerisce e indaga le ragioni del sostegno che essi hanno trovato in larghi strati della società e sonda la loro capacità di provocare cambiamenti politici attraverso l’influenza esercitata sul modo di pensare delle persone. Circa l’autore MANUEL CASTELLS è professore di Sociologia e direttore dell’Internet Interdisciplinary Institute della Universidad Oberta de Catalunya, a Barcellona. È inoltre docente di Sociologia e titolare della cattedra Wallis Annenberg di Tecnologia della comunicazione e società alla University of Southern California, Los Angeles. È professore emerito di City and Regional Planning alla University of California, Berkeley. È autore di ventisei libri, fra i quali la trilogia L’età dell’informazione: Economia, Società, Cultura (La nascita della società in rete, Il potere delle identità, Volgere di millennio), tradotta in ventidue lingue; e Comunicazione e Potere, pubblicati in Italia da EGEA per i tipi Università Bocconi Editore.