CON ELEGANZA, CON IRONIA, PEZZI DI STORIA REALE

Giorgio Sala Un vicentino nel Palazzo

Breve prologo, personalissimo

Sull’onda del godibile testo di Mariangela Cisco Ghi- rotti, mi si chiede una testimonianza su Mariano Rumor. E posso provarci, solo da testimone, visto che mi mancano cultura e strumenti che appartengono agli storici. E da te- stimone ho vissuto tante cose. Se, già nel ’46, io dicianno- venne lui trentenne, andavo da Mariano Rumor (non ri- cordo chi mi abbia dato il suggerimento), che mi prestava un buon pezzo del suo Fogazzaro, per una mia tesina all’e- same di maturità. Poi, nel ’47, mi offriva di lavorare alle sue Acli, sapeva che mi serviva uno stipendio per l’univer- sità, così ho imparato la partita doppia, mentre arrivava un diluvio di pacchi di zucchero, dono americano ai bravi aclisti di allora. Che tempi! Poi nel partito, la Democrazia cristiana, s’intende. Lui volava già nei cieli romani, io tranquillo provinciale. Arri- vo in Comune di , consigliere, assessore, sindaco. Mariano Rumor è leader nazionale, capo riconosciuto del raggruppamento maggioritario. Io comincio ad essere af- fascinato dal disegno politico, forse dalle filosofie di . In pochi amici ci presentavamo ai congressi provin- ciali, prendevamo buoni apprezzamenti, e qualche voto sparso. Non mi sono mai posto il dubbio su cosa even- tualmente pensasse Mariano Rumor di questa (non gros- sa) faccenda: che il sindaco della sua città non stava alla sua corte. E non ne abbiamo mai parlato. Tutto, davvero, 34 Giorgio Sala con molto rispetto, e lealtà. E quando gli chiedevo qualco- sa per la città, solo cose importanti, lui dava il massimo. Ricordi bellissimi per me, di cui devo essergli grato. Sul resto, quello che vedevo, che capivo, che ricordo, faccio la mia testimonianza. Partendo dal diario di Ma- riangela, che mi ha fatto riflettere. Vuoti ed errori solo a me imputabili.

Una serata strana

Scrittura leggera, questa, di Mariangela. Ed elegante e ironica. Nella formula di una lettera non spedita, conse- gnata agli appunti della memoria. Nell’occasione curiosa da cui tutto nasce, l’inaugurazione in casa romana Ghirot- ti di un big divany, con l’incontro di vecchi amici, e tutto il resto, impensabile, che segue. Solo un divertimento leggero di Mariangela? la prova di una ben conosciuta bravura? o qualcosa di più? Molto, molto di più. Perché, pagina dopo pagina, prende corpo una trama tutt’altro che leggera, pezzi di storia reale, dura, anche dolorosa, storia nostra, di un difficile paese. La scrit- tura elegante non può nascondere la verità che traspare fra le righe. Le pagine di Mariangela ci aiutano, anche ades- so, a capire quei tempi e quegli uomini, e, a pensarci bene, questi nostri tempi e noi stessi. C’è un curioso intreccio di piccoli e grandi eventi: i Ghirotti che progettano un invito a cena perché è arrivato il grande divano, Mariangela che allestisce alla meglio un passabile menu, mentre fuori è sciopero generale, poi l’en- trata in scena graduale dei personaggi, prima gli amici di sempre Renato (Ghiotto) e Giovanna, e alla fine “il Presi- dente”. Mariano Rumor, in persona, è la grossa novità del- la serata, immaginabili la suspense e i nervosismi. Vanno a tavola, lui è parco. Quando siedono sul famoso divano lui sorprende: niente di presidenziale, è gentile, colto, diver- tente, racconta con garbata ironia storie della vecchia Vi- Un vicentino nel Palazzo 35 cenza, tante volte ascoltate dal nonno Giacomo, forte esponente di un operoso mondo cattolico. Questo, fino a mezzanotte in punto, quando comincia “la grande confes- sione”. Mariano Rumor, a Palazzo Chigi da poco più di un mese, sta vivendo un tempo drammatico, sente il peso im- mane della carica, i rischi che corre la democrazia italiana, e sollecita gli amici, perché «deve uscire dal suo mondo», «incontrare la gente», «ascoltare idee». Gli amici che cerca non sono quelli di partito, cerca quelli veri, che stanno lì, attorno al big divany. Gli amici rispondono, sono pronti. Da quella sera partono i nuovi incontri, i progetti, anche i sogni. Fino alla nuova, finale, confessione del presidente, non più drammatica come la prima, o forse ancora di più. Di amaro realismo, di consapevole accettazione: di un paese che non sarà facile emendare, che non accetta gran- di progetti e li scambia per sogni.

Un quesito curioso

Di Mariano Rumor tanti hanno detto e scritto, della persona, della lunga partecipazione alla vita pubblica, del suo peso nella politica italiana. Si è scritto da vari versanti e con motivazioni diverse: dovere, amicizia, critica, ricerca di verità storica. Quarantacinque anni di vita politica, cinque volte presidente del Consiglio, per anni ministro in dica- steri primari, a lungo segretario della Democrazia cristiana. Un personaggio insieme semplice e complesso, con cui dover fare i conti quando si voglia esplorare e tentare di ca- pire, da qualsiasi punto di vista, la storia del nostro paese. Ha appena compiuto trent’anni, e la dura temperie del do- poguerra e un forte dovere civico lo sottraggono presto a un’autentica vocazione letteraria. Le sue ascendenze cultu- rali ben note: uno zio materno Piero Nardi scrittore, fre- quentazioni fogazzariane e zanelliane di famiglia, una tesi di laurea summa cum laude portata alla valutazione di Be- nedetto Croce, i primi segni di una docenza liceale che 36 Giorgio Sala qualcuno ancora ricorda per singolare acutezza. Un patri- monio culturale non comune che si ritroverà nel parlare brillante, nella robusta capacità di dialogo, in una eleganza formale piuttosto inconsueta nella vita pubblica italiana. È pensando a questa figura, alla sua formazione, al suo lungo percorso, e a quanto fin qui detto e scritto da storici e amici, che può valere un quesito almeno curioso: se qualcu- no sia riuscito, meglio di Mariangela e della sua prosa legge- ra, a costruire un disegno credibile, autentico, dell’uomo e del politico. Il Mariano Rumor di Mariangela è l’uomo che, nella serata romana improvvisata attorno al nuovo divano, «non ha niente di presidenziale», a tavola si mostra indaffa- rato a raccogliere ripetutamente il tovagliolo che gli sfugge, ed è «imprevedibilmente divertente», e «ironico» nel rac- conto di vecchie storie vicentine, ed è infine umanissimo quando, a mezzanotte, apre agli amici la sua drammatica confessione, e quando lascia la casa si dilegua nella notte «senza scorta». Pochi giorni dopo, altro capitolo della storia, oltre la mezzanotte, accompagna in macchina gli amici Ghi- rotti alla stazione Termini, ed è «l’insolito facchino» delle va- ligie di Mariangela, li saluta e risale «tutto solo» lungo il marciapiede della ferrovia. Lontano anni luce dalle immagi- ni del potere a cui siamo ora costretti da politici immersi nel rombo di poderose macchine e moto di scorta, come fosse in gioco, da quella corsa, la salvezza della repubblica. Se questa è l’immagine dell’uomo, altrettanto immedia- ta e penetrante è la figura del politico. Sempre dalle pagine di Mariangela. Che fa cronaca semplice e vera, e scava più di tanti che hanno fatto analisi storica. Quando, a mezza- notte del primo incontro, Mariano Rumor si apre con gli amici, mostra autentica angoscia. È un politico che ha visto e capito tutto, è sconsolato sulle istituzioni parlamentari, sul panorama dei partiti, sul proprio partito, sente un clima da arrivo dei colonnelli. Ma è un politico non rassegnato, e si impenna, sa che nella gente si può ancora avere fiducia, sente il bisogno di rapporti nuovi fuori del Palazzo, di re- spirare altra aria. Per questo è lì, quella sera, si rivolge a chi Un vicentino nel Palazzo 37 magari non gli è politicamente vicino, ma ha fiducia nel- l’intelligenza, nell’onestà, nella libertà del pensiero, gli va bene che portino idee, progetti, anche «contestatari», anche «anarchici». Mariano Rumor, da poco arrivato alle massime responsabilità di Palazzo Chigi, ha colto, più che in qual- siasi altra occasione della sua vita pubblica, la gravità di una crisi generale. Capisce che non la si risolve continuando nelle meste litanie della politica di casa. Sente che è neces- sario tanto coraggio, al limite della temerarietà. In tal senso è il suo accorato invito, un mandato, agli amici a pensare per lui, con il massimo di apertura verso i problemi reali dell’Italia, quelli che la classe dirigente sembra incapace di cogliere e affrontare. Non si esaurisce qui il politico Rumor di Mariangela. Al nuovo incontro lui è già diverso. Lottatore instancabile, ha già trattato con i sindacati, è vicino a concludere sulle pen- sioni. L’angoscia è attenuata. Ascolta le prime idee degli amici, quando gli viene proposto «un gruppo dei cervelli» per la preparazione, sempre in sede amichevole, di progetti, indica anche . Lo conosce bene, è allievo, amico e collaboratore, lo definisce «il suo esatto contrario», ma lo stima; lo capirà molto meglio, purtroppo, nel tempo. Ed è sempre politico, Mariano Rumor, quando, a conclu- sione di questa piccola storia esemplare, esamina le propo- ste degli amici, con loro in macchina correndo all’aeropor- to e, per un fortunato ritardo dell’aereo, nella saletta presi- denziale a Fiumicino. Cosa si potrà fare delle molte cose elaborate, messe in bella copia da gente che sa leggere e scri- vere? Quello che consente la storia di questa Italia. Cioè po- co, molto poco, qualcosa sulla cultura, qualcosa sui servizi sociali. Tutto inutile dunque? Non proprio. Meglio, una le- zione per tutti. Idee e progetti devono stare al di qua del so- gno, le élites intellettuali devono contribuire alla formazio- ne del pensiero politico, gli atti del governo si nutrono e crescono dentro una immensa fatica che è dialogo e media- zione. Mariano Rumor resta un politico del nostro paese, fra volontà e contraddizioni. La mente e il cuore, in consa- 38 Giorgio Sala pevole onestà di propositi, sono in casa Ghirotti, a pensare a un’Italia nuova e degna. La sua storia politica dovrà cono- scere ancora altri passaggi, sempre impervi, spesso amari.

Dalla casa al Palazzo. E viceversa

Andare e ritornare, fra partito, partiti, ministeri, con- sessi nazionali e internazionali. Riunioni, assemblee, con- gressi. E i soliti amici, i soliti avversari, e gli esponenti dei poteri economici, sindacali, finanziari, culturali. A parlar di politica, strategie, battaglie elettorali, poteri e sottopo- teri. Una vita interessante, anche gratificante, e dura. È so- lo un uomo dei palazzi romani? A capire di più aiutano i suoi primi passi. E gli ultimi. Sono qui, in casa, nella sua, nella nostra terra. Di questa terra è impastato. Per questo, in quella sera, nel clima quasi insostenibile della stagione politica romana, va dove c’è aria buona di casa. Ghirotti, Cisco, Ghiotto sono nomi delle nostre contrade, giovanis- simi stavano sulla montagna nello scontro decisivo contro la dittatura, poi ottimi giornalisti, scrittori affermati. Si ri- trovano a Roma, anni dopo, nella serata strana, c’è un con- cittadino illustre che deve respirare aria di famiglia, incon- trare facce pulite, guardarsi dentro. È il Rumor che va e torna. Parte dalla sua vecchia casa, va nei palazzi della politica, e sempre torna alla casa. A Vicenza si sa di lui, magari non molto, perché il clima soffuso, mo- derato, è anche rispetto del privato, e un pizzico di pigrizia e disinteresse. Ma Rumor è nome che parla di una lunga sto- ria. Nel cuore di Vicenza, a Ponte Pusterla, sta la tipografia storica della città, quella cattolica. Dai Rumor si stampa l’«Operaio Cattolico», settimanale di larga diffusione nelle masse, fondato dal nonno Giacomo, e vanno preti e suore per la miriade delle pubblicazioni parrocchiali. Ma i Rumor sono molto più che una pur apprezzata tipografia, sono sto- ria. Da un lato di Ponte Pusterla i Rumor, dall’altro lato del ponte una importante sede del mondo cattolico militante: Un vicentino nel Palazzo 39 fra questi cinquanta metri sono corse tante delle idee e tanti dei progetti innovativi che hanno segnato la storia del se- condo Ottocento della società vicentina. Mariano Rumor è nato qui, ascoltava il nonno e le sue storie, sentiva che la sua casa era parte viva di vicende che erano anche civili e sociali. Nessuna sorpresa che la nuova stagione della democra- zia italiana lo trovi subito in prima linea. Lui è indubbia- mente la più completa, la più brillante espressione di que- sta storia familiare. Mariano Rumor ha partecipato alla Resistenza. Fonda le Acli, è esponente di rilievo del mon- do sindacale provinciale, è eletto in consiglio comunale a Vicenza. Poi, il 2 giugno ’46, il volo verso Roma, per la Costituente. Comincia a chiarirsi il suo destino. Non gli si fa torto riconoscendo che qui, dalle parti di casa, tutto gli va stretto, anche lo stesso comune capoluo- go dove lascia, in sala Bernarda, interventi di ottimo livel- lo, ma non tracce profonde. Lascia presto il sindacato pro- vinciale, resta presidente delle Acli, e si capisce, perché non può trascurare un bacino sociale così rilevante e per- ché, lo riconoscerà più tardi, fedeli amici lo alleggerivano nella gestione della vasta associazione. Mariano Rumor guarda oltre, prende un respiro lungo, sta crescendo la sua chiamata profonda per la politica. Lui stesso userà con parsimonia la parola “vocazione”, molto impegnativa, ma nemmeno indebita pensando alla sua formazione e al pro- cesso logico che, nell’immediato dopoguerra e per anni ancora, portava i giovani cattolici, dal mondo allora inten- so delle parrocchie e delle organizzazioni culturali, agli im- pegni concreti nel partito di ispirazione cristiana e nella gestione delle pubbliche istituzioni.

La scuola della Costituente

I vicentini lo vedono crescere rapidamente: già dalla se- conda metà del ’46 il suo passo si misura su orizzonti na- zionali. 40 Giorgio Sala

La scuola della Costituente è decisiva. Lì si incontrano i mostri sacri, nobili bandiere dell’Italia prefascista, e le nuove leve venute dalle asperità della Resistenza, dalle uni- versità, dai centri culturali, dai luoghi del lavoro. Nel mondo cattolico romano, nella stessa Democrazia cristia- na, il nome Rumor è tutt’altro che sconosciuto. Ma non sono mondi disposti a doni graziosi, nemmeno a chi sia dotato di ascendenze familiari onorevoli. Bisogna fare i conti con una classe dirigente che, in ogni partito, non si presenta digiuna di cultura, volontà, ambizioni. Gli atti dell’assemblea costituente meriterebbero, so- prattutto adesso, di essere letti, studiati, per capire il livello, la dignità, spesso la grandezza di dibattiti che hanno segna- to obiettivi e decisioni fondamentali per il nostro paese. Mariano Rumor deve imparare a confrontarsi con queste realtà. La storia familiare può al massimo non svantaggiar- lo. È sua l’intelligenza pronta, la tenacia del provinciale, la disponibilità al dialogo e alla collaborazione, la capacità oratoria non comune. Entra nella stima di , è con lui e con in uno dei passaggi cruciali nella storia della Democrazia cristiana, quando le nuove leve, in una vera mutazione generazionale, assumono la guida del par- tito e ne costituiranno lungamente la spina dorsale. Entra nella positiva considerazione di . Sarà Mariano Rumor a salire alla casa di Castelgandolfo dove l’ex presidente del Consiglio, malfermo in salute, dopo l’uscita dolorosa dal governo, si era ritirato. Per convincer- lo a venire in parlamento, per sostenere, con la sua autore- volezza, il tentativo, seppur vano, del governo Fanfani, so- prattutto per ridare fiducia ad un partito «smarrito e avvi- lito». Così parla Rumor al maestro. E De Gasperi verrà, darà l’onesto consenso a Fanfani, e pronuncerà parole ter- ribilmente premonitrici: che «avrebbe preferito dimentica- re nel silenzio lo spettacolo di questa miseria parlamentare che segue a distanza di pochi anni le luminose speranze nate nella prima assemblea della repubblica». Rumor con- Un vicentino nel Palazzo 41 fesserà, nel tempo, che l’ampio gesto di De Gasperi, quel giorno, in parlamento gli «fece correre un brivido per la schiena». Era il 29 gennaio 1954. La carriera politica di Mariano Rumor corre veloce, durerà ai massimi livelli più di vent’anni. Nel partito dove toccherà il vertice, in ministeri di grande portata politica, fino alla presidenza del Consiglio.

I vicentini e il leader

In casa vicentina si muovono, intorno alla politica e ai partiti e, inevitabilmente, intorno a Mariano Rumor, le di- verse anime di una società piccola e variegata. Nel clima durissimo della guerra fredda, le scelte atlantica ed euro- peista, la politica economica e sociale, le crisi del mondo del lavoro hanno aperto solchi profondi fra i partiti e nel- la gente. Ne viene influenzato, fatalmente, il giudizio sul- l’esponente più significativo del mondo politico vicentino. Nella stessa Democrazia cristiana non mancheranno valu- tazioni critiche di parti minoritarie accanto ai pieni con- sensi della grande maggioranza del partito. Di certo, non sarà ostacolata la sua ascesa. In Vicenza, città e provincia, la Democrazia cristiana è per lunghi anni maggioritaria, e nel partito è maggioritaria la linea moderata: dati non sor- prendenti, considerando storia, tendenze evolutive, cultu- ra diffusa della società. Mariano Rumor ha un riconosciuto ruolo nazionale. Ma ha bisogno di un grande bacino elettorale. Non è so- lo il suo partito a garantirglielo. I poteri economici, socia- li, istituzionali sono orientati a sostenerlo. Lui ne ha i ti- toli, conquistati con merito, potrà essere efficace portato- re, nelle sedi che contano, di diversi qualificati interessi vicentini. Più complesso, più sfumato, il meccanismo di acquisi- zione del consenso, rispetto a un elettorato vasto, piutto- sto disancorato da legami di partito. In provincia il sistema 42 Giorgio Sala di informazione non è ostile né alla Democrazia cristiana, né al suo leader. Ma nulla di paragonabile, certamente, al bombardamento mediatico, consueto a questi tempi, ca- pace, oltre che di nascondere, anche di amplificare la realtà. Oggi, intorno a un Mariano Rumor, l’informazione accenderebbe, a piena luce, riflettori e interesse, scuotendo un’opinione pubblica magari curiosa ma sostanzialmente pigra. Supplivano, allora, in misura oggi sconosciuta, alcu- ne centrali di indirizzo dell’opinione pubblica, dalle par- rocchie ai numerosi organismi, cattolici e laici, operanti nel mondo sociale, del lavoro, dell’economia. Con una buona capacità di influenza che, in misura rilevante, anda- va a premiare la linea e l’esperienza politica di Mariano Rumor e del suo partito. Una convergenza di cultura e in- teressi che avrebbe garantito per lunghi anni un patto reci- proco di fiducia e consenso.

Provincia amica nemica

Nel partito provinciale la sua leadership appare inattac- cabile. Fedeli collaboratori gli garantiscono pieno appog- gio. Nel clima anche rissoso della provincia lui preferireb- be evitare sgradevoli coinvolgimenti, non ama la crudezza delle posizioni che taluno gli suggerisce, è per la mediazio- ne felpata, per il rispetto delle diverse opzioni. Ma nella politica, e ancora di più nel vivo delle battaglie e batta- gliette locali, ogni distacco dalla realtà comporta rischi no- tevoli. Che Mariano Rumor trova sul suo percorso, anzi in un passaggio delicatissimo della sua vicenda. È candidato alla segreteria nazionale del partito, quan- do, da casa, arriva un brutto colpo. La sinistra ha vinto, a sorpresa, il congresso provinciale del partito. A Roma cor- re la notizia, ovviamente dilatata dai non amici di Maria- no. Che non perderà la grande occasione, la carica alla quale veramente aspirava, e sarà segretario nazionale della Democrazia cristiana nel gennaio ’64. Ma dovrà meditare Un vicentino nel Palazzo 43 sul fatto, che attribuirà a un suo qualche distacco dalla ba- se. Era un segnale non piccolo, di una insoddisfazione dif- fusa che, forse, riguardava, più che la stessa persona di Ma- riano Rumor e il suo ruolo nazionale, alcuni dei suoi stret- ti collaboratori. Compito difficile, questo, di un leader na- zionale, bisognoso del sostegno fedele di una grande area nella sua piccola patria, costretto a dotarsi di apparati or- ganizzativi e di valide collaborazioni: dai rappresentanti portati in parlamento o nei governi locali, fino ai più sem- plici e preziosi portatori d’acqua. Scelte rischiose, soprat- tutto quando la ricerca della fedeltà fa aggio sulla qualità delle persone. Non ne poteva essere esente Mariano Rumor. Che ha frequentemente pagato prezzi. Lo riconoscerà, più tardi nelle sue memorie, quando, dieci anni dopo la provvisoria sconfitta al congresso provinciale del suo partito, dovrà re- gistrare, nella spaccatura della sua maggioranza in provin- cia, e proprio per opera di Antonio Bisaglia sua creatura e collaboratore e amico, un fatto davvero definitivo.

Leadership e classe dirigente locale

Di un certo interesse anche il ruolo di Mariano Rumor rispetto al quadro politico provinciale. La condizione larga- mente maggioritaria della Democrazia cristiana non agevo- lava i rapporti con le altre forze politiche. Il clima della guerra fredda pesava in periferia, tendeva a dividere, ad al- lontanare. Qualche indubbia tentazione alla gestione, in esclusiva, del potere portava argomenti a incomprensioni e divaricazioni fra le forze politiche. La svolta si realizzava, negli anni Sessanta in sostanziale coincidenza con gli even- ti nazionali, nel comune capoluogo dove il centrosinistra muoveva i primi passi. Immaginabili i dubbi e le non po- che contrarietà di un mondo locale che, in diverse sue com- ponenti, sentiva il valore strategico della scelta e invitava al- la prudenza. La Democrazia cristiana, nei suoi massimi or- 44 Giorgio Sala gani provinciali, dava un pieno assenso che, certo, riflette- va il pensiero di Mariano Rumor e la sua chiara scelta nella politica nazionale. Sempre difficile, dolente, la ricerca degli assetti nelle cariche istituzionali. Che, solo a partire dalla novità del centrosinistra, cominciano ad aprirsi a diversi partiti. Pri- mi i socialisti, in Vicenza, a rompere, nella ripartizione de- gli incarichi pubblici, il quasi monopolio della Dc. Qui, nel maggiore partito, nulla è semplice in materia di candi- dature e nomine. Si tenta di rispettare, complessivamente, l’articolazione delle forze interne al partito. Alcuni dei più stretti amici e collaboratori del leader entrano in parla- mento, qualcuno raggiunge la nomina a sottosegretario. Nessuno ottiene la più ambita chiamata a dirigere un mi- nistero. Salvo il Bisaglia, non vicentino. Difficile dire co- me e quanto Mariano Rumor abbia pesato sulle scelte e sulle non scelte. Certo, non gli possono essere sfuggiti i passaggi più rilevanti, le nomine di più forte valore politi- co. Giocano, nella storia dei leader, anche su questi aspet- ti, fattori personalissimi, di ordine psicologico, e regole e dure prassi della politica. Mariano Rumor conosceva bene i metri di giudizio dei palazzi romani e quanto di forza gli era indispensabile esi- bire nei rapporti che si instauravano fra leader e gruppi. Una necessità che non gli consentiva disattenzioni o disin- canti. E tuttavia si deve riconoscere che è stato fondamen- talmente fedele a uno stile personale, di rispetto degli uo- mini, di correttezza istituzionale. Ne è prova, nelle istitu- zioni locali provinciali, il mondo variegato e pluralistico degli amministratori, spesso espressioni di realtà meno po- liticizzate, quindi meno catalogabili in termini di partiti o di gruppi di potere interni ai partiti. Era una vasta area po- litico-amministrativa che, particolarmente in alcuni gran- di comuni della provincia, esprimeva uomini spesso inte- ressanti, non cresciuti necessariamente nelle faticose batta- glie di partito. Uomini che venivano dalla scuola, dal mondo del lavoro e delle professioni. Che consideravano, Un vicentino nel Palazzo 45 giustamente, Mariano Rumor leader di riferimento, a cui chiedere, per la soluzione dei principali problemi ammini- strativi e finanziari, interventi e rispetto. Questo rapporto reciproco di fiducia e rispetto ha con- sentito per lunghi anni di far crescere nelle istituzioni lo- cali una classe dirigente che si riconosceva, senza suddi- tanze, sulla linea politica generale, ma sentiva la responsa- bilità di interpretare e servire un’articolata società comu- nale. Un clima positivo al quale Mariano Rumor ha effica- cemente contribuito. Nello stesso comune capoluogo, amministrato da al- leanze di partiti, si era realizzato, con Mariano Rumor, un costruttivo rapporto collaborativo, nel rispetto dell’auto- nomia personale e istituzionale dei civici amministratori. Lui, segretario politico o ministro o presidente del Consi- glio, consapevole di una tale delicata condizione, parteci- pava con apporti significativi alle più rilevanti iniziative della città, confermava il suo senso delle istituzioni.

Vicenza in festa

Toccò a Vicenza e al suo comune il privilegio di acco- gliere, festanti, il neopresidente del Consiglio la sera della vigilia di Natale del 1968. Racconterà nelle sue memorie Mariano Rumor la sorpresa nel vedere una città normal- mente «scettica e contegnosa» che «si entusiasmava», riem- piva le strade del centro cittadino, applaudiva con calore. Mentre in Sala Bernarda lo aspettavano, con le autorità, i sindaci con fascia tricolore e labari comunali. Il sindaco di Vicenza parlava a nome di tutti e gli consegnava la meda- glia d’oro a ricordo dell’evento. Mariano Rumor risponde- va emozionato, contava sulla vicinanza e l’amicizia dei vi- centini, e nella solenne occasione lasciava il messaggio no- bile e insolito, che proprio loro, i vicentini, gli amici di sempre, non dovevano aspettarsi «privilegi» dal concittadi- no chiamato a una così pesante responsabilità. Il presiden- 46 Giorgio Sala te racconterà che, a piedi, da Palazzo Trissino a Ponte Pu- sterla, la gente gli sorrideva, lo salutava, lo incoraggiava. Premessa e promessa di un nuovo più stretto, più caloroso rapporto fra i vicentini e un leader riconosciuto? Mariano Rumor non poteva che rimanere sé stesso. Mai paludato nella divisa presidenziale, semplice nel trat- to, sempre vicino all’amata famiglia, alla sua casa di Ponte Pusterla. Fedele, ogniqualvolta gli era possibile, alla fre- quentazione della chiesa della sua giovinezza, alla tranquil- la passeggiata in corso Palladio. Le ore libere dai gravosi impegni le dedicava alle attività che gli erano più conge- niali, le presidenze dell’Accademia olimpica, dell’Istituto per le ricerche religiose e sociali, della prediletta Scuola di cultura cattolica. Qui trovava amici e collaboratori, la po- litica di partito non si affacciava, erano zone franche, l’in- contro di uomini di diverse culture e fedi politiche con- sentiva a Mariano Rumor boccate di ossigeno salutari.

Il malpasso

La sua cerchia di amici non era foltissima. Al primo anello quelli di sempre, cresciuti insieme a Santo Stefano, si capivano senza tante parole: pochissimi, non più delle dita di una mano. Un po’ più in là, altri, che la politica aveva cementati, vicini, fedeli, non molti. Ancora più in là, tanti, incontrati nella politica, fedeli, ma solo fino ai giorni della prova, poi disponibili o rassegnati all’abban- dono del leader, davanti alla crescita esondante, impietosa, dell’allievo. Che, lo sapeva bene Mariano Rumor, era «il suo esatto contrario», come aveva confessato agli amici. Sapeva che era lontano anni luce da quel messaggio «non chiedetemi privilegi» che, in definitiva, segnava una cultu- ra personale, un’etica, forse, sopra ogni altra cosa, il suo senso dello stato. Dell’allievo ammirava l’operatività, l’a- cuta baldanza, la padronanza dei sistemi di potere. Non sapeva immaginare che quella forza non avrebbe trovato Un vicentino nel Palazzo 47 remore nemmeno in una antica amicizia e in un quasi ele- mentare dovere di gratitudine. La vita politica, non solo nel nostro paese, sembra con- sentire spazi molto ristretti ai sentimenti. Non avere capi- to questo, da parte di un politico sperimentato come Ru- mor, gli dà la patente dell’ingenuo sognatore di un mondo diverso? O gli garantisce, secondo un criterio meno cinico, più riflessivo, una valutazione ben più positiva? Mariano Rumor che cercava, lo dice lui stesso, «inter- locutori» più ancora che semplici «collaboratori», non è riuscito a sfuggire alle insidie di un mondo che conosce le regole e, spesso, si compiace di disattenderle. Nelle sue memorie sembra attribuire, fondamentalmente, a una sua comprensibile disattenzione nei confronti delle realtà loca- li, provinciale e del collegio elettorale, «il malpasso» dolo- roso che deve vivere a partire dal ’74. Vede, anche in casa propria, un partito lontano dai principi ispiratori e dalle buone prassi amministrative. Sono già i tempi del suo de- clino, fra congressi e campagne elettorali sempre meno amichevoli. Vuole un chiarimento, ma è ormai inevitabile la spaccatura del suo raggruppamento, vistosa e ammoni- trice nella sua provincia, con l’abbandono della gran parte dei suoi. Gli resteranno i fedelissimi. Sarà ancora eletto e rielet- to parlamentare nazionale, deputato europeo, riconosciu- to in cariche di prestigio nei consessi internazionali. E for- se riverito in ambienti romani, dove, almeno a quei tempi, il buonviso non si negava ai padri. Ma la parabola discen- dente è segnata, e nell’ambito che lui aveva sempre privile- giato, quel mondo della politica a cui aveva dato tutto se stesso, quel mondo che, nella sua visione, era un prius lo- gico e cronologico rispetto alle istituzioni, nel senso che dalle idee, dai progetti, e dalla forza dei partiti doveva ve- nire la linfa vitale al governo del paese. Era questa la ragio- ne profonda, e certamente lucida al suo intelletto, che gli faceva preferire le cariche di partito alle funzioni di gover- no. Ed è credibile quanto andava dicendo, anche nei gior- 48 Giorgio Sala ni della sua chiamata alla presidenza del Consiglio, che non era quello il punto più alto delle sue attese.

Un politico a tutto tondo

Ciò non può far pensare a un politico a dimensione ri- dotta, come, da talune parti, si è cercato di rappresentarlo, quasi marginale rispetto ai passaggi cruciali della storia ita- liana. Mariano Rumor era cresciuto, a partire dalla Costituen- te, accanto a uomini di straordinaria statura. Alcide De Ga- speri aveva condotto le nuove leve a capire e condividere le dimensioni storiche in cui collocare e far crescere la demo- crazia italiana: all’interno, l’apertura ad alleanze democrati- che fra i partiti di centro; all’esterno, l’adesione a scelte de- stinate a segnare la sicura collocazione dell’Italia nel mon- do, il patto atlantico e l’Europa. Amintore Fanfani indica- va i traguardi di un migliore riequilibrio economico e so- ciale. Aldo Moro disegnava scenari politici capaci di coin- volgere strati ancora marginali ma essenziali della società italiana. Di De Gasperi, suo maestro riconosciuto, è parso a molti che Rumor potesse essere il delfino, per la conce- zione di un partito autonomo dagli integralismi che una porzione, pur minoritaria ma tenace, del mondo cattolico coltivava, per la sentita esigenza di evitare gli scontri pura- mente ideologici e, certo, per la condivisione delle grandi aperture internazionali delle quali Rumor, con il suo ormai vincente raggruppamento interno alla Democrazia cristia- na, è stato indispensabile sostegno nel dibattito e nelle dif- ficili decisioni del parlamento e nel paese. Con Fanfani e Moro il rapporto di Mariano Rumor non poteva che essere complesso, appartenevano insieme alla generazione postfascista, con personalità nettamente differenziate, sospinte a collaborare, non di rado divise da visioni diverse, da questioni di stile, di cultura. Mariano Rumor portava una dote non secondaria, una Un vicentino nel Palazzo 49 duttilità, una capacità di mediazione che gli consentiva di entrare in passaggi politici delicatissimi, per trovare e ga- rantire soluzioni vincenti. La linea di centrosinistra, frutto di un lungo durissimo travaglio nella cultura e nelle istituzioni del paese, sfociata infine nel governo Moro, aveva in Mariano Rumor, segre- tario del partito, il sostenitore convinto e decisivo. A quel- la parte del mondo cattolico che mostrava inquietudine per una scelta che spostava verso sinistra l’asse politico italiano, il cattolico Mariano Rumor offriva indubbie garanzie. Più tiepida, molto dubbiosa la posizione di Rumor sul- la nuova tappa che Aldo Moro stava elaborando. La «stra- tegia dell’attenzione» verso i comunisti chiedeva una rifles- sione corale e profonda che a Rumor appariva intempesti- va, rischiosa, dolorosa. Era un passaggio che sentiva come il più arduo, al limite delle possibilità, nella sua storia per- sonale, alla prova della sua spiccata cultura religiosa e di una delicata coscienza, mai spenta nel travaglio della poli- tica. E gli appariva impossibile pensando alla sua terra, la sua Vicenza, la storia di un così permeato di un cattolicesimo moderato. È certo che Mariano Rumor deve avere vissuto come un dramma di forza inesprimibile la grande tragedia di Moro. Nel ’78 lui era già uscito da ogni incarico di gover- no, restava presidente dell’Unione mondiale democratico- cristiana. Gli scenari politici del paese non lo vedranno più fra gli attori primari. Ma i suoi trent’anni di piene respon- sabilità politiche e di governo stanno a testimoniare un li- vello alto a cui annodare un meditato giudizio sulla sua statura di statista. Mariano Rumor, il leader di partito che non ostentava ma nemmeno nascondeva la sua fede religiosa e la fedeltà alla Chiesa, sa lucidamente collocarsi sulla linea degaspe- riana, che rifiuta ogni concezione integralista della politica e persegue una sostanziale autonomia del partito, pur de- finito di ispirazione cristiana. Mariano Rumor, uomo di governo, deve affrontare la durissima stagione delle conte- 50 Giorgio Sala stazioni sociali, le stragi, e i primi capitoli del terrorismo, e lo fa con gli strumenti della democrazia, solo preoccupato di garantire la stabilità delle istituzioni repubblicane. Ed è Mariano Rumor l’uomo di governo che ha la forza di va- rare un atto di grande portata politica ed economica come lo Statuto dei lavoratori, conquista difficile di una società che cerca migliori equilibri fra le classi sociali. La figura di Mariano Rumor, uomo politico semplice e complesso, di partito e di governo, attende un giudizio se- reno, riflessivo. Che spetterà alla storia.

Nostalgia e verità

Partiva da Ponte Pusterla e vi ritornava il più possibile. La vecchia casa era rimasta così, con il salotto buono, le antiche cose, i libri. Compreso lo studio su Zanella che Mariano aveva bene avviato prima della grande avventura della sua vita. E stava per riprenderlo in mano quel dossier, il giorno che Dossetti, lungo la via Appia, gli parlava del suo addio alla politica, del suo rientro agli studi, e Rumor replicava: «E allora lascio anch’io, riprendo il mio Zanel- la», e Dossetti chiudeva: «Tu resterai qua, Zanella aspetterà ancora». Mariano sorrideva, e un po’ soffriva, quando gli raccon- tavano le mirabolanti invenzioni che correvano sulle nuove ricchezze che avrebbe accumulate. Voci promosse e agitate da anime oscure. Di lui si può essere certi che ha attraver- sato, in assoluta probità personale, gli spazi infidi della po- litica italiana. E, per coerenza e solidarietà di partito, ha an- che ritenuto di pagare, in momenti dolorosi e indimentica- bili, prezzi pesanti davanti all’opinione pubblica. Nessuno, alla fine, ha potuto mettere in discussione il suo personale completo disinteresse. Ha potuto, fino al- l’ultimo, guardare in faccia la propria storia: non aveva tra- dito i principi che aveva posto a base della sua vita. Giuseppe Pupillo Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore»

Le parole «Carissima, lettera per te», con cui inizia il manoscritto di Mariangela Cisco, steso su un quadernetto scolastico, e il nome Susy annotato su un margine, rendo- no esplicita l’originaria intenzione della scrittrice-giornali- sta vicentina di raccontare a Susetta Bonnet, alla quale si era legata di forte amicizia negli anni trascorsi a Torino, il sorprendente – e per lei inaspettato – avvenimento di una cena in casa propria con Mariano Rumor, da un mese e mezzo eletto presidente del Consiglio. Susetta Bonnet è la destinataria naturale della lettera. Oltre ad essere una carissima amica, le era capitato, nei primissimi giorni di quel febbraio ’69 in cui era stata a Ro- ma ed aveva incontrato i Ghirotti, di stabilire due legami con l’ancora impensabile racconto di Mariangela. Insieme a lei, lunedì 3 febbraio, aveva ammirato in un negozio quel big divany che Mariangela comperò il giorno dopo e, d’ac- cordo con il marito, volle inaugurare il mercoledì successi- vo invitando a cena gli amici Ghiotto. Un bel divano de- stinato, come ogni altro, a conversazioni salottiere, ma sul quale, e proprio il giorno del suo battesimo, si sedette per alcuni quarti d’ora la politica, incarnata nell’uomo politi- co in quel momento di maggiore spicco e potere. Di più, conversando con Mariangela, la Bonnet le aveva espresso i suoi timori per le sorti della democrazia italiana, tema cru- ciale della prima conversazione di Rumor con i suoi amici vicentini in casa Ghirotti. Tuttavia Mariangela fin dalle prime righe avverte la 52 Giuseppe Pupillo

Bonnet che per il momento non le spedirà la lettera. L’in- tuibilissima ragione è che la prima cena col presidente ave- va messo in gestazione fervidi proponimenti e sorprenden- ti sviluppi: valeva la pena attenderli e narrare tutto insieme. Il racconto di Mariangela, invece, non abbandonò le pagine del quadernetto in cui aveva steso la divertita e coinvolgente cronaca delle tre cene “politiche”. Una ragio- ne può essere che nulla ancora la induceva, sebbene nel dar conto della terza mostri già scetticismo, ad escludere che vi potessero essere, nella sua casa o in quella di Ghiotto, altri appuntamenti. Una attesa inutile: il refolo della “grande politica” che in modo così irrituale si era introdotto nella sua casa si spense improvvisamente. Non si può però escludere che abbia ragione Bandini quando, nel testo preparato per questo libro, sospetta che sia stata l’eco dell’invito che Neri Pozza – convinto che «diari e autobiografie costituiscono i più importanti e uti- li generi letterari» – rivolgeva ai suoi amici, a indurla a mettere sulla carta, senza più dare loro una amicale desti- nazione epistolare, i ricordi e le impressioni di un avveni- mento tanto inusuale quanto significativo. Uno sciopero fa da sfondo alla prima cena. Un avveni- mento non ancora frequente in quella stagione che prelu- deva all’“autunno caldo” del ’69, ma si trattò, quel giorno, di uno sciopero generale, il terzo che le organizzazioni sin- dacali organizzarono nel volgere di pochi mesi per ottene- re dal governo, dopo ripetute promesse e molteplici nego- ziati, la riforma delle pensioni. Il giorno era il 5 febbraio. E quello sciopero, se pur ovviamente in gradi smisurata- mente diversi, coinvolgeva la padrona di casa e l’ospite il- lustre. Alla Cisco dava il momentaneo affanno di dover prov- vedere in qualche modo, non potendo ricorrere ai negozi – chiusi anch’essi per solidarietà, o per paura, con il mon- do del lavoro – a rimpolpare un cena sino al tardo pome- riggio predisposta solo per gli amici Giovanna e Renato Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 53

Ghiotto, chiamati ad inaugurare l’appena acquistato big divany. A Rumor e al suo neonato governo poneva in termini stringenti un problema di prima grandezza che da un lato, se non risolto, avrebbe compromesso i rapporti sia con i sindacati che coi socialisti e socialdemocratici allora unifi- cati nel Psu, e dall’altro avrebbe comportato in prospettiva un pesante onere per le finanze statali. Problema che costi- tuiva una delle ingrate eredità lasciate dal governo presie- duto da Moro, il quale aveva pensato di dargli, come an- che in altri campi dell’azione governativa faceva sovente, una prima soluzione con una delle tante leggine rinviando a indefiniti “tempi migliori” i nodi sostanziali della rifor- ma pensionistica, sui quali peraltro i sindacati, consci del- la nuova forza acquisita dalla primavera del ’68, non erano disposti a transigere. Problema, insomma, che da mesi era piombato sulla scena politica, addebitando il Psu al presi- dente Moro e al ministro del Tesoro Colombo, proprio per non aver voluto fare la riforma pensionistica trincerandosi sul suo elevato costo, la responsabilità primaria del gravis- simo smacco subìto nelle elezioni del 19 maggio 1968. Perciò Rumor si trovava dinanzi non solo gli alleati socia- listi e i tre sindacati col viso dell’armi, ma avvertiva che la vicenda offriva un insidioso spazio di manovra a molti ca- pi della Dc i quali, logoratosi il dominio esercitato per quasi dieci anni dalla grande corrente dorotea, stavano conducendo manovre a fini di battaglia interna. Ma non è una ragione in qualche modo apparentata o prossima alla politica che spinge la Cisco a resocontare le tre cene. Difatti riporta in modo quanto mai stringato quanto, dopo la mezzanotte, Rumor venne raccontando agli sbalorditi ospiti e ai Ghiotto. Non era certo indiffe- rente – anzi! – a quanto sente dal presidente del Consiglio, ma altro l’attrae maggiormente: l’irrompere nel salotto, suo e dei Ghiotto, dei propositi e degli affanni di chi go- verna, il cangiare delle atmosfere e degli umori, lo sgorga- re da una ormai lontana comune giovinezza vicentina di 54 Giuseppe Pupillo sbalorditive confidenze e di impensabili richieste di colla- borazione, il ritrarre nei volti dei convitati l’alternarsi di sconforto e sicurezza, di fervore e delusione, e di affabilità e cinismo. L’attrae la genesi degli impulsi che spingono il marito Gigi e Renato Ghiotto, e coinvolgono in qualche misura lei e Giovanna, a elaborare idee, a strutturare tec- niche comunicative e persino piani programmatici per aiutare Rumor. L’attrae, insomma, nell’arco delle tre cene, il passaggio dall’inattesa iniziazione catecumenale alla “grande politica” (dapprima come uditores e poi, in rapi- dissima successione, elevati a competentes) al ritrovarsi, un mese dopo, nuovamente fuori dalla porta della comunità poco permeabile dei suoi addetti. In questo “altro” lei trova modo di esercitare il suo va- riegato talento espressivo e un’ironia di cui governa con sa- pienza la scala armonica e quella cromatica. Epperò, per quanto essa riporti in modo laconico le questioni propriamente politiche, oggetto delle conversa- zioni tra Rumor e gli amici vicentini, è davvero raro – e questa è la ragione per cui un testo così inusuale viene pubblicato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della provincia di Vicenza – che attraverso tre cene si possa cogliere un momento così complesso e importante della vicenda politica italiana, a cavallo tra la crisi in via di maturazione del Psu e della grande corrente dorotea e lo svilupparsi nel paese di un impetuoso movi- mento partecipativo e contestativo (il cosiddetto “sessan- totto”) non solo degli studenti o degli operai ma anche di strati importanti di ceti medi urbani, che reclama sostan- ziali cambiamenti, politici, sociali e comportamentali. La Cisco ce lo fa cogliere assai bene, e non tanto attraverso le poche parole di Rumor riportate, quanto ritraendo del presidente, come si è detto, umori, espressioni facciali, ge- stualità. Durante la prima cena con poche pennellate ci comunica che Rumor, «lontano dagli schemi che ci erava- mo abituati a costruirgli intorno», «ha bisogno di uscire dal suo mondo» (la Dc) e che «pare che da anni non si sfo- Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 55 ghi, tanto è vivace, irrefrenabile il suo discorso»; nella se- conda, nove giorni dopo, che «il presidente non è più quello dell’altra volta. Un piglio più sicuro, una gentilezza più rude e sbrigativa, una sicurezza [...] una cera rosea e perfino riposata». La ragione del mutamento viene da lei accennata, ma non spiegata e la mia nota è unicamente volta a ricordarne brevemente il contesto, ovvero il groviglio delle vicende politiche tra il novembre del ’68 e quel febbraio ’69 entro cui le tre cene si collocano.

Su Moro, cose terribili

«L’incredibile discorso»: così la mette la Cisco con le cose dette da Rumor; e ne sembra più sbalordita che im- pressionata. Si può tralasciare l’esordio in cui Rumor «fa una critica violenta alla Dc, sulla corruzione, sulla sete di potere, sul- l’assenteismo dei deputati, sulla insufficienza, arretratezza delle leggi». Non è una novità, e non solo da parte di Ru- mor, che nell’esordio, nel gennaio ’64, da segretario nazio- nale dello scudo crociato aveva manifestato il proposito, attraverso lo scioglimento delle correnti interne, di intro- durre nel partito cospicue novità, ma aveva dovuto presto rinunciarvi. La critica alla Dc, fatta dagli stessi suoi espo- nenti di primo piano, era abbastanza rituale, come lo era il vagheggiare disegni di riforma interna del partito sia per meglio adattarlo ai mutamenti sociali che per eliminare il crescente allignamento di carrierismo, sete di potere, as- senteismo; senonché tra i tanti nodi da sciogliere parecchi erano, per questa o quella ragione, insolubili. Due, tra le cose dette da Rumor, interessano invece in modo particolare. Il giudizio, pesante, su Moro. E la con- siderazione che l’Italia può trovarsi «alla vigilia dei colon- nelli» e che, ove il suo governo cadesse, si avrebbe «una grave stretta verso l’autoritarismo e il governo forte». 56 Giuseppe Pupillo

Scrive Mariangela: «Parla di Moro, cose terribili». Può essere, tenendo conto dell’ammirazione costantemente provata da Rumor verso Moro, una epitome troppo dra- stica, ma trova corrispondenza in ciò che, riguardo a quel periodo, ha scritto Rumor nelle Memorie pubblicate po- stume da Neri Pozza nel 1991. Il contrasto tra i due uomini politici fu in quei mesi profondo e proiettò ombre di incomprensione e diffidenza anche nei rapporti personali, saldi sino a pochi mesi prima. Per tentare una ricostruzione sintetica di quel dissenso, è necessario tornare all’esito delle elezioni politiche svolte il 19 maggio 1968, dopo un quadriennio di governi presie- duti da Moro. Il risultato sancì un restringimento dell’area di consenso alla politica del centrosinistra, nonostante il leggero incremento, rispetto alle precedenti consultazioni del ’63, della Dc (+0,8%) e del Pri (+0,6%). Aumentò il Pci (+1,6%) e il Psiup conseguì un soddisfacente 4,5%. Grande sconfitto il Psu, il partito dell’unificazione sociali- sta, il partito che nelle intenzioni e nelle ambizioni avrebbe dovuto costituire all’interno dell’alleanza di centrosinistra un contrappeso riformista alla Dc e nell’ambito della sini- stra una forza capace di sottrarre consensi al Pci. Lo scacco, oltre che imprevisto, fu assai pesante: perse un quarto dei voti ottenuti separatamente nel ’63 dal Psi e dal Psdi. Il Psu, come si è già accennato, identificò nell’immobi- lismo del governo Moro e nel suo continuo rinvio delle riforme, in primo luogo quella delle pensioni, la causa maggiore dell’insuccesso. La partecipazione socialista ai governi Moro in realtà rappresentò, per dirla sinteticamente con Ginsborg, un «fiasco solenne», sicché all’indomani delle elezioni il Psu dichiarò che non intendeva partecipare a governi ancora presieduti da Moro. Una ripresa del centrosinistra avrebbe semmai potuto aversi dopo il suo congresso previsto per l’autunno, con un presidente, un programma, una capa- cità realizzativa diversi. Nel frattempo la Dc non ebbe al- tra strada che varare un governo-ponte, guidato da Gio- Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 57 vanni Leone, del quale venne predeterminata la scadenza proprio alla conclusione del congresso del Psu. Su Moro c’era dunque l’ostracismo del Psu. La Dc, go- vernata dalla corrente dorotea a cui Moro apparteneva ma della quale era un ramo spurio, lo accettò senza fiatare. Anzi i leader di Impegno democratico (la grande corrente dorotea) pensarono, e non pochi con soddisfazione, che Moro fosse stato messo definitivamente fuori gioco, sepol- to dalle macerie del terremoto elettorale che nell’area so- cialista aveva avuto il suo epicentro. Di fare il capro espiatorio Moro non aveva alcuna in- tenzione, persuaso che senza di lui la Dc non fosse in gra- do di avere una strategia all’altezza dei problemi posti dal- l’impetuosa spinta alla modernizzazione dei costumi e de- gli assetti sociali che soffiava su tutto l’Occidente e che po- chi mesi prima aveva investito anche un paese del campo socialista, con la “primavera praghese” repressa dai carri ar- mati sovietici. Quel vento innovatore costituì per Moro l’occasione per spiazzare gli altri capi della Democrazia cristiana. Conside- rando la statura intellettuale dell’uomo, non è per nulla pa- radossale che fossero proprio i grandi sommovimenti ideali e sociali che scuotevano le società occidentali (e in quei me- si, accanto alle nuove generazioni, si animarono sia il mon- do del lavoro che settori di ceti urbani e delle professioni, maggiormente sensibili ai problemi della modernizzazione e dell’estensione delle libertà e dei diritti) a costituire il pro- pellente di cui si servì per ricollocarsi almeno al centro della riflessione e del dibattito politici. Come ha scritto Franco De Felice, Moro fu la personalità che colse «con grande lu- cidità, forse la maggiore tra tutti i dirigenti politici del tem- po, la portata delle novità incorporate nei movimenti collet- tivi e la profondità dei cambiamenti necessari per continua- re a esercitare un ruolo di rappresentazione e di direzione politica». Né dissimile è il giudizio di Baget Bozzo secondo cui «nessun uomo politico, nemmeno all’interno della sini- stra storica, sentì così profondamente il ’68». 58 Giuseppe Pupillo

In breve, la convinzione di Moro era che una Dc, la quale non avesse saputo interpretare e rappresentare il sen- so di quel rivolgimento culturale e sociale, ovvero il «mo- do nuovo di essere della condizione umana [...] l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia», e recuperare «lo spessore morale della dimensione politica», sarebbe stata destinata a perdere vi- talità e consenso, o, in termini di ruolo nel sistema politi- co, la centralità; con la conseguenza di rendere più fragile la democrazia italiana. La Dc, governata dai dorotei, era per lui isterilita dalla volontà di conservare il potere per il potere. Tale convinzione espresse con forza e chiarezza nell’in- tervento al consiglio nazionale della Dc tenuto nella terza decade di novembre. Ribadita la necessità storica dell’al- leanza coi socialisti, sottolineò come le spinte al cambia- mento e le stesse consultazioni elettorali chiedessero alla Dc «di accelerare il cammino, se possibile di bruciare le tappe; di essere, in una seria autocritica, forza di opposi- zione noi stessi», e contemporaneamente forza di governo in grado di canalizzare e soddisfare all’interno del gioco democratico le nuove richieste del corpo sociale e dei mo- vimenti di contestazione e partecipazione. Non si tornerà, disse ancora, al dominio eccessivo della società politica sulla società civile. Le domande scaturite soprattutto dal mondo del lavoro per una democrazia sociale diretta rap- presentavano «un fatto nuovo e irreversibile». Discorso di notevolissimo acume, tutto costruito sull’a- nalisi del nuovo e sui problemi che esso poneva al sistema politico e in particolare alla sua forza centrale. Senonché la «seria autocritica» che propose alla Dc avrebbe avuto biso- gno di sostanziarsi con altrettanta lucidità, come ha osser- vato Aniello Coppola, in una parallela analisi dei «sintomi di segno opposto che già affiorano e si faranno via via più corposi: la crescente corporativizzazione della realtà sociale, il cristallizzarsi di interessi settoriali, il moltiplicarsi» delle Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 59 forme di dominio del partito sullo Stato, tutte cose che in- vece costituivano parte cospicua del modo di far politica e gestire la cosa pubblica da parte dei dorotei. In questo discorso di contrapposizione ai dorotei, an- nunciò conseguentemente la sua uscita dalla corrente di Impegno democratico e la formazione di un suo gruppo autonomo. Moro affermò in quella occasione di averne preannunziato da tempo l’intenzione a Rumor, ma questi, nelle sue Memorie, dà una versione ben diversa: «ad un cer- to punto, inaspettatamente, con un grande tornante dia- lettico – che io ritengo sofisticamente appiccicato all’ulti- mo momento egli dichiarava [...] di staccarsi dalla corren- te dorotea e presumibilmente di formarne una propria. Non credevo alle mie orecchie». Insomma Rumor si sentì abbandonato, “tradito”, dall’uomo di maggior caratura in- tellettuale della Dc ai cui governi, dal dicembre del ’63 si- no al giugno ’68, aveva assicurato da segretario del partito un costante appoggio. E mentre Moro, collocatosi a sinistra nella Dc, andava disegnando nuovi orizzonti strategici per lo scudo crocia- to, il politico vicentino doveva prosaicamente fare i conti col permanere sul tavolo del governo – che ottenne la fi- ducia alla Camera il 23 dicembre – di «tutti i grossi pro- blemi irrisolti nella precedente legislatura». Quanto scrive a tal proposito nelle Memorie è assolutamente identico a quanto disse in casa Ghirotti sugli «annosi problemi che la precedente amministrazione gli aveva caricati addosso del tutto». Nello stesso comporre il suo primo governo Rumor eb- be qualche contrasto con Moro, ma il dissenso perfezionò i connotati politici allorché il primo propose quale nuovo segretario nazionale della Dc , ovvero l’uomo che più incarnava quel “doroteismo” che il politi- co barese contestava. Rumor ricorda nelle Memorie che quando gli preannunciò questa candidatura Moro fece «un’accoglienza negativa, quasi risentita come io volessi fargli un dispetto». 60 Giuseppe Pupillo

Nel consiglio nazionale della Dc del 18 e 19 gennaio 1969 per l’elezione del segretario nazionale, Moro denun- ciò il fatto che si volesse formare una maggioranza nella Dc «del tutto arbitraria» affidata a uomini «la cui gestione del partito è stata tutt’altro che esemplare per discrezione, equità e rigore morale». In realtà in quel consiglio non si formò una maggioranza, Piccoli ne uscì come segretario di minoranza eletto con ottantacinque voti favorevoli, ottan- tasette schede bianche e cinque nulle. Una «sopraffazione» disse Moro, e nel suo intervento, a marcare la distanza po- litica, esplicitò la necessità, sebbene continuasse a esclu- derne la partecipazione al governo, di un’attenzione, di un confronto impegnativo col Pci nel quale non solo vedeva il punto di riferimento di molte delle spinte sociali che ca- ratterizzavano quei mesi di grande rivolgimento, ma del quale apprezzava l’intendimento di canalizzarle in un al- veo sicuramente democratico. Avvertendo la fragilità della democrazia italiana e del suo quadro politico, cercò di indicare una soluzione ad en- trambi i problemi in una prospettiva di “democrazia inte- grale” che aveva per maggiori protagonisti non il governo e neppure lo Stato, ma il sistema dei partiti. Non fu que- sto, a dire il vero, un discorso propriamente nuovo. Co- spicue tracce di analoghe preoccupazioni erano presenti in discorsi pronunciati agli inizi degli anni Sessanta da segre- tario del partito e poi da presidente del Consiglio, ma al- lora aveva una doppia convinzione: che, persuasa la Dc a svoltare unitariamente verso il centrosinistra, essa avrebbe, non solo per il peso elettorale ma per la forza della propo- sta, mantenuto la centralità nel sistema politico assicuran- dogli effettiva stabilità; e che, acquisita la partecipazione socialista al governo nel dicembre ’63, avviata l’unificazio- ne tra Psi e Psdi nel ’66, il riformismo socialista avrebbe ef- fettivamente conteso al Pci l’egemonia a sinistra, riducen- done man mano la rappresentatività sociale. A partire dal ’68 tali convincimenti vennero smentiti dalla realtà. La Dc non poteva ritrovare centralità senza Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 61 una nuova proposta politica (e per questo parve a Moro necessario mettere in crisi quello che in un noto saggio Craveri ha chiamato il «condominio doroteo»); il Psu ven- ne bocciato dall’elettorato e ciò fece emergere le debolezze dell’unificazione. Entrambi questi convincimenti morotei trovarono con- ferma pochi mesi dopo. Nell’XI congresso della Dc, la cor- rente dorotea perse la maggioranza, anzi ottenne un mode- sto 38%, e qualche mese dopo fu lo stesso Rumor a deci- dere lo scioglimento di Impegno democratico. Nel giugno del ’69 avvenne la scissione socialista: socialisti e socialde- mocratici riacquistarono la loro autonomia, in un clima di reciproche polemiche. Le immediate dimissioni dei tre mi- nistri di provenienza socialdemocratica che lasciarono il Psi determinarono la caduta del primo governo. Risulta evidente, da quanto ne scrive la Cisco, quale fosse nei discorsi del politico vicentino in casa Ghirotti la preoccupazione per la nuova dislocazione di Moro, ma se quest’ultimo, nelle sue pagine, è il solo indicato nominati- vamente come bersaglio delle annotazioni critiche di Ru- mor, di sicuro altri ambigui movimenti interni alla Dc preoccupavano il neopresidente del Consiglio, scricchiolii che già s’avvertivano nella futura tenuta di Impegno de- mocratico, avvisaglie di ripicca di chi si sentiva destinato a occupare nel nuovo organigramma della Dc nazionale po- sizioni di più alta responsabilità, spostamenti strumentali a sinistra nella diffusa convinzione che, dovendo la Dc sempre adattarsi alle situazioni, occorresse, di fronte al montare della contestazione sociale, prodigarsi in conces- sioni anche a rischio di appesantire il bilancio statale. E proprio il giorno della prima cena, il paese venne bloccato da un nuovo sciopero generale per la riforma pensionistica, questione lasciata a mezz’aria dal governo Moro e dal “decretone” del ministro del Tesoro Colombo durante il governo Leone, nella convinzione che lo stato non avesse le risorse per soddisfare le richieste sindacali. Ma al di là del fatto che quella riforma costituiva uno dei 62 Giuseppe Pupillo punti essenziali, e sine qua non, dell’accordo governativo coi socialisti, anche molti che mesi prima si erano ad essa fieramente opposti ora si prodigavano per trovare i mezzi per finanziarla (in parte con l’aumento della benzina, con- trariamente al convinto consiglio di Ghiotto) nonostante avesse, soprattutto in prospettiva, un notevole costo. In verità, senza nulla togliere alla forte pressione sinda- cale, nel mutato atteggiamento della Dc e del governo ver- so la riforma pensionistica influì non poco la pesante criti- ca che in quell’autunno del ’68 gli Usa rivolgevano alla po- litica monetaria italiana (la lira era allora una “moneta for- te”), accusata di creare difficoltà al sistema monetario inter- nazionale con l’accumulare una grande quantità di riserve valutarie e col porre troppi freni alla spesa pubblica.

Alla «vigilia dei colonnelli»?

Moro c’entra anche con le parole preoccupate di Ru- mor su un’Italia «alla vigilia dei colonnelli» e sull’esile filo della democrazia, il cui destino vede legato alla sua perso- na, ovvero alla sua personale capacità di assicurare al paese una soluzione governativa stabile; con ciò confinando ai margini proponimenti eversivi persistenti sottotraccia i quali, ove la governabilità traballasse o inclinasse a media- zioni coi comunisti, avrebbero avuto il destro per puntare a un regime autoritario, sulla falsariga di quanto avvenuto l’anno prima in Grecia ad opera delle forze armate. Quanto alla fragilità della nostra democrazia, sembre- rebbe, a stare alla Cisco, che Rumor fosse non meno allar- mato di Moro. Era una preoccupazione ben fondata: di- fatti la strage di piazza Fontana, alla fine di quel ’69 carat- terizzato da un autunno di imponenti lotte sindacali e so- ciali, e l’anno dopo il colpo di stato promosso da Junio Va- lerio Borghese (che le forze al potere tentarono in tutti i modi, contro l’effettiva realtà, di minimizzare) inaugura- rono la strategia della tensione con la manovalanza di Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 63 gruppi eversivi di estrema destra e la regia di forze annida- te in apparati delicati dello stato. Il problema dei comportamenti «deviati rispetto ai compiti istituzionali» (come allora, eufemisticamente, si disse), in particolare di taluni vertici militari e dei servizi di sicurezza, era venuto in luce nei primi mesi del ’67 per merito di Scalfari e Jannuzzi che rivelarono sulle pagine dell’«Espresso» l’approntamento nel luglio del ’64 – ovve- ro nei giorni in cui c’era una situazione di stallo nelle dif- ficili trattative per la formazione del secondo governo Mo- ro – da parte del generale comandante dell’Arma dei cara- binieri, Giovanni De Lorenzo, di un tentativo di colpo di stato. Allora ci fu un immediato coro di smentite, volte poi in accuse ai due giornalisti, a cui partecipò Rumor, al- l’epoca segretario nazionale della Dc. In quei mesi lui e Moro si mossero di conserva. Un an- no dopo le rispettive posizioni si divaricarono, non nella sostanza, ma per la necessità del presidente incaricato di dare una qualche soddisfazione ai socialisti che, nelle trat- tative per la formazione del governo, ponevano tra le ri- chieste fondamentali l’istituzione di una commissione parlamentare di indagine, negata nella precedente legisla- tura da Moro e tanto più ostinatamente quanto più emer- geva la gravità della vicenda. Nell’autunno del ’67 Scalfari e Jannuzzi vennero pro- cessati per diffamazione a un pubblico ufficiale (De Lo- renzo) nell’esercizio delle sue funzioni, e condannati in prima istanza (saranno poi assolti nel 1970), nonostante che nel corso del dibattimento fossero emerse dalle pagine rese note dei rapporti delle commissioni di inchiesta affi- date ai generali Manes, Beolchini e Lombardi, e da alcune deposizioni come quella del generale Zinza, le prove di manovre condotte non solo nel ’64 ma già anni prima – sempre protagonista De Lorenzo – col fine di condiziona- re pesantemente la politica italiana. Tra queste, già nel 1959 e ’60, con De Lorenzo a capo del Sifar, la schedatu- ra di centocinquantasettemila persone, con trentaquattro- 64 Giuseppe Pupillo mila dossier, del tutto illegittimi, dedicati a politici, sinda- calisti, industriali, giornalisti e persino prelati. La questione cruciale che si sarebbe dovuto accertare era se De Lorenzo avesse preso, tra la fine degli anni Cin- quanta e il luglio ’65, iniziative autonome (adottando quindi un comportamento “deviato”), oppure in collega- mento con i servizi di sicurezza americani, preoccupati della svolta che si profilava nella politica italiana con le aperture ai socialisti, e dunque nell’ambito di accordi in- ternazionali sottratti a ogni controllo parlamentare e de- mocratico. Un accertamento in tal senso avrebbe permes- so di verificare quali erano gli spazi reali entro cui poteva muoversi la politica italiana rispetto ai vincoli, sia cono- sciuti che secretati, posti dall’appartenenza a un sistema di alleanze contrapposto al blocco sovietico, ovvero l’esisten- za di fatto nel governo dello stato italiano di una “doppia fedeltà”, da una lato alla Costituzione, dall’altro all’atlan- tismo, contrassegnata da non poche stridenti contraddi- zioni. Moro si oppose strenuamente all’istituzione di una commissione di indagine parlamentare, ventilando all’ini- zio del ’68, nel caso i socialisti avessero puntato i piedi per ottenerla, le elezioni anticipate. Ma già in precedenza il suo governo aveva consegnato alla IV Sezione del Tribuna- le di Roma, chiamata a giudicare Scalfari e Jannuzzi, solo parte degli allegati del rapporto del generale Manes con molti omissis, la cui apposizione venne giustificata, anche quando non ce n’era motivo, col segreto di Stato; e non aveva trasmesso, come avrebbe dovuto fare non appena ri- cevutele, quelle parti del rapporto Beolchini in cui erano chiaramente configurate ipotesi di reato comune a carico di De Lorenzo. Senza entrare nel merito di una vicenda così comples- sa, nella quale gravarono sospetti anche sul presidente del- la Repubblica Segni, si può convenire con Lanaro quando nella sua Storia dell’Italia repubblicana scrive: «ciò che di più allarmante rivelano le trame del 1964 è l’esistenza di Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 65 un “doppio stato” – perché di questo in fin dei conti si tratta –, la fragilità della democrazia, l’inclinazione alla fel- lonia di vari apparati dell’esercito [...], la visione corpora- tiva della dipendenza gerarchica da parte di alcuni ufficia- li [...], la scarsa capacità del “potere” visibile di sventare complotti e congiure [...]. I partiti di centro, e segnata- mente la Dc, appaiono meno attrezzati degli altri al pro- sciugamento della falda inquinata: garanti fin dal 1949 dell’incondizionata fedeltà dell’Italia alla Nato, sono per ciò stesso i più esposti al ricatto “atlantico” dei tessitori di intrighi, che appunto nell’atlantismo e nell’anticomuni- smo militante [...] ammantano la loro attività di contrap- peso clandestino all’ordinamento costituzionale». La richiesta di far luce sui fatti del luglio ’64 e sulle “de- viazioni” dei servizi di sicurezza con l’istituzione di una apposita commissione di indagine parlamentare tornò, co- me si è detto, su iniziativa del Psi, nei negoziati che dove- vano dar vita al primo governo Rumor. Leone s’era dimesso, come convenuto, dopo il congres- so del Psu (che nell’occasione riassunse il nome di Psi) di fine ottobre. L’assise nazionale socialista, conclusasi senza troppo concludere e con divisioni interne (con ben cinque correnti a contendersi i voti nelle assemblee sezionali), aveva comunque affermato la disponibilità ad aprire una muova fase del centrosinistra. In realtà i socialisti non ave- vano alternativa. Una scelta diversa, col rischio di subire nuovamente l’egemonia del Pci, avrebbe segnato la scon- fessione di una politica perseguita fin dal 1956 mentre, co- me osserva Simona Colarizi, la partecipazione al governo avrebbe consentito «comunque ai socialisti di gestire una fetta di potere non trascurabile, di ancorare il sistema ad un equilibrio politico che non penalizza la sinistra e di ga- rantire la difesa della democrazia che proprio in questi an- ni è minacciata dalle trame nere della destra eversiva». Nei giorni delle trattative fu forte la disparità di opi- nioni tra Rumor e Moro. Quest’ultimo restò fermamente ostile alla commissione parlamentare, sino ad «evocare la 66 Giuseppe Pupillo possibilità di ricorrere ad anticipate elezioni politiche, se su questo punto non fosse stato possibile convincere gli al- leati a non farne niente» (così Rumor nelle Memorie). La ragione di fondo dell’atteggiamento di Moro non era tanto nel timore delle reazioni di corpi militari per la prima volta sottoposti a un’indagine parlamentare, quanto per la convinzione che ove si fosse accertato che la Dc, per gli impegni di “fedeltà atlantica”, aveva assunto comporta- menti non trasparenti e concesso di fatto una sorta di de- lega ai vertici militari e ai capi dei servizi segreti su que- stioni attinenti alla cosiddetta sicurezza (fatta spesso coin- cidere strettamente con la lotta al comunismo) sottratte al controllo parlamentare e democratico, tutto ciò ne avreb- be minato quel ruolo di perno del sistema politico (e di ga- rante rispetto agli alleati occidentali) che per Moro era fondamentale per non mettere a rischio la claudicante de- mocrazia italiana e per tenere aperta la prospettiva di un possibile sviluppo. Nel cosidetto “Memoriale”, trovato do- po la sua morte in un appartamento di via Monte Nevoso a Milano, Moro accenna a interferenze della Cia nella vita politica italiana e quanto al tentativo di colpo di stato del luglio ’64 dice che «ebbe certo le caratteristiche di un in- tervento militare, secondo una determinata pianificazione propria dell’Arma dei carabinieri, ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza volta a bloccare o al- meno fortemente dimensionare la politica di centrosini- stra, ai primi momenti del suo svolgimento». Se quella, ancora nell’autunno del ’68, era la posizione di Moro, dal canto suo Rumor aveva il concretissimo pro- blema, dirimente per la ricostituzione del centrosinistra, di soddisfare in qualche modo la richiesta socialista sulla commissione parlamentare. Problema dunque spinoso – con i militari, e non solo, che davano chiari segnali di mal- contento – infine risolto dalla proposta di Cossiga di cir- coscrivere l’indagine parlamentare sostanzialmente ai soli fatti del luglio ’64. Era, come voleva la Dc, una commis- Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 67 sione depotenziata, ma il Psu poteva egualmente sostenere di aver ottenuto che il parlamento si occupasse delle que- stioni emerse con le rivelazioni dell’«Espresso». In realtà, come scrive Rumor nelle Memorie, «l’intransigenza mia e della Dc di non andare oltre e, d’altra parte la soddisfazio- ne [degli altri partner della coalizione] che il programma [di governo] prevedesse comunque un’indagine, come che fosse, sul Sifar, ottenne il risultato di far nascere dalla montagna un topolino». Lo scoglio quindi, quando Rumor andò a cena dai Ghirotti, era sostanzialmente superato, o meglio aggirato. Ma è comprensibile che egli esternasse la convinzione di essere, anche in virtù del suo forte rapporto personale con il vicepresidente del Consiglio che gli garantiva l’appoggio socialista, l’uomo politico demo- cristiano in grado, nonostante la scossa delle elezioni e il manifestarsi di una inedita e impetuosa eruzione sociale, di assicurare un governo efficiente, consenziente a talune riforme, disposto a prendere in considerazione parte delle richieste che venivano dalle organizzazioni e dai movi- menti sociali e nel contempo intransigente sugli impegni internazionali, sull’ordine pubblico e sulla chiusura nei confronti dei comunisti, tranquillizzando quindi gli allea- ti occidentali. Anzi, l’aver impostato così il suo esordio go- vernativo gli consentì pochi giorni dopo, durante la visita di Nixon alla quale il testo della Cisco fa solo un breve cenno, di avere un colloquio col presidente americano do- ve, a stare alle Memorie, mosse alcuni rilievi pertinenti alla politica degli Usa. Insomma egli si sentiva – tra Moro che delineava un nuovo sistema di relazioni tra i partiti politici, le destre in- terne alla Dc attestate sul rigido anticomunismo e quelle esterne inclini a soluzioni autoritarie; tra il fenomeno del- la contestazione politica e sociale alimentato all’opposizio- ne della guerra americana nel Vietnam, i vincoli dell’atlan- tismo e le preoccupazioni (e interferenze) degli Usa – l’uo- mo degli equilibri, delle garanzie ad ampio raggio, delle 68 Giuseppe Pupillo mediazioni positive, dei dosati contrappesi, che, a suo giu- dizio, ove fossero venuti meno, avrebbero dato ampio spa- zio a quanti da anni si erano dati (o avevano avuto) il com- pito, trovando legittimazione nella fedeltà atlantica, di condizionare in senso nettamente conservatore, ed even- tualmente tout court autoritario, la politica italiana. Del resto, che l’autorappresentarsi di Rumor nel salot- to dei Ghirotti come l’uomo cui era legato «l’esile filo del- la democrazia» non fosse una sopravvalutazione di se stes- so o un épater, magari solo per momentaneo sconforto, gli ospiti vicentini, intellettuali borghesi, lo dimostrò l’aprirsi a fine ’69 – resisi evidenti l’instabilità politica, la crescita di consensi nei riguardi del Pci, l’allargarsi dei temi e dei mo- di della contestazione sociale – della lunghissima stagione della “strategia della tensione” e dei terrorismi, orchestrata da parte degli apparati dello stato. Ma quella cruenta stagione fu possibile perché né coi governi Moro, né con quello di Rumor si procedette alla indispensabile opera di bonifica di ciò che era emerso sul- l’operato del Sifar, sul tentato colpo di stato del ’64, sul comportamento di parte dei vertici militari, sull’esistenza di strutture parallele che avevano l’inconfessabile missione di impedire con ogni mezzo l’eventualità dell’accesso al governo delle sinistre. In sostanza, la strategia fu quella di tenere a freno o moderare le intemperanze del “doppio sta- to”, per non mettere in causa una linea politica dettata in larga parte alla Dc dalla guerra fredda (senza trascurare la tentazione di mantenere il “potere per il potere”).

In quattro a rifare l’Italia

Perché due intellettuali laici, allevati nel dopoguerra nel grembo del Partito d’Azione (e della lezione giurioliana) si disposero immediatamente dopo la prima cena, travolgen- do l’iniziale scetticismo delle consorti, a darsi così tanto da fare, sfornare idee, abbozzare piani per aiutare Rumor? Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 69

Se, laconica e icastica, Mariangela Cisco scrive: «riavu- tici dallo sbalordimento ci siamo messi in quattro a rifare l’Italia», non c’è nel carattere dei quattro nulla che possa far supporre qualsivoglia protagonismo o cedimento alla vanità di sfruttare una impensata occasione. Se così fosse stato, il manoscritto della Cisco avrebbe dato spazio alle proposte elaborate dal marito e da Ghiotto, ma alla scrit- trice vicentina, come si è detto, interessa ricreare col tratto garbato dell’ironia le atmosfere in cui si mischiano fami- liarità e politica, gli scarti dell’imprevedibile, l’avventurar- si sul terreno sconosciuto della politica; interessa incidere con tratti semplici, quasi a puntasecca, il ritratto dei suoi convitati (e quello di Rumor è davvero notevole); interes- sa dipanare i fili predisposti per una tessitura che, esposta ai venti della politica reale e agli umori dei politici, si rivelò di lì a poco fragile come una ragnatela. Non è da escludere, in Ghirotti, quel sentimento di af- fetto che un biografo non raramente prova per il suo bio- grafato, tanto più che, nel caso specifico, il racconto che stava preparando su Rumor è anche una narrazione vibra- tile della propria città, della propria giovinezza: una ricer- ca, come altri hanno detto, di un tempo perduto. Le ragioni erano politiche. Ghirotti, ma c’è da pensare anche Ghiotto, aveva guardato con grande favore all’ingres- so dei socialisti nel governo, all’elezione di Saragat a presi- dente della Repubblica, all’unificazione tra socialisti e so- cialdemocratici che aveva potenzialmente la possibilità (ove alla dote di circa il 20% di suffragi ottenuti nel ’63 avesse aggiunto i voti provenienti sia dai ceti urbani in espansione, in buona parte desiderosi di un paese più moderno, che da strati popolari) di costituire, pur nella collaborazione al go- verno, un robusto contrappeso alla Dc e contemporanea- mente di far prevalere nella sinistra una linea politica rifor- mista. Insomma la tanto agognata “terza forza”. Nonostante lo scemare delle illusioni, Ghiotto e Ghi- rotti erano uomini di robuste convinzioni e speranze. E si può anche azzardare – nonostante una grigia routine aves- 70 Giuseppe Pupillo se marchiato dal ’64 al ’68 il centrosinistra governante – che essi la pensassero in modo non troppo dissimile da Pasolini (che a quella formula politica era però avverso), per il quale l’incontro tra democristiani e socialisti aveva comunque «fatto rotolare un granellino di democrazia per la china di un Paese che non aveva mai conosciuto la democrazia», granellino che aveva fatto prendere cono- scenza a molti dei propri diritti democratici e s’era man mano ingrossato fino a diventare, quasi per una eteroge- nesi dei fini, una delle componenti della contestazione che, dapprima studentesca, dall’inizio del ’68 aveva por- tato una impetuosa, liberatoria effervescenza anche nel nostro paese. Ma più ancora che questo, vi era in loro la convinzione che il problema di fondo della democrazia italiana fosse la distanza tra governanti e governati, e che quindi priorita- rio fosse rimuovere nei primi le autoreferenzialità arcaiche, i linguaggi cifrati, le chiusure burocratiche, gli atteggia- menti paternalistici, per ristabilire canali di schietta comu- nicazione, e magari di interazione, con la società. Non a caso Ghiotto insisteva su una tecnica comunica- tiva priva di orpelli, concreta e amicale, e Ghirotti su quei problemi che, ignorati dalla politica, erano di grande af- fanno per gli strati più deboli. Entrambi erano convinti che l’impegno civile potesse costituire una grande risorsa e per un paese che s’avviava tra molteplici contraddizioni verso la modernizzazione e per la stessa politica. Una valanga di idee, scrive Mariangela, senza peraltro entrare nel merito. Ma gli scarni accenni al dire di Gigi e Renato sulle situazioni e sacche di miseria che permaneva- no nel paese avviato verso il benessere, sulla necessità di spezzare la sfiducia tra cittadini e istituzioni di governo, sul valore, al contempo morale ed economico, di sostenere l’associazionismo a favore dei malati o dei beni culturali da salvare e valorizzare, ci dicono molto sia sulle propensioni comuni dei due che sulle loro differenze di interessi, aven- do per esempio il primo, come ci è noto dalla sua attività Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 71 giornalistica, una sofferta e sincera attenzione ai problemi delle forze deboli della società, ai bambini, agli anziani, ai malati, ai dimenticati. Dal suo canto, il desiderio di Rumor di confrontarsi con persone estranee ai milieux della politica era reale. Al- trettale, la sua attenzione a nicchie di sofferenza che nelle agende politiche non trovavano posto. Non a caso ciò di cui particolarmente si compiacque della riforma delle pen- sioni – e se ne vantò come merito personale – fu l’avervi compreso un assegno sociale (di dodicimila lire per tredici mensilità) a favore degli anziani privi di copertura pensio- nistica per mancanza di contributi versati. Non è dato sapere, dallo scritto della Cisco, cosa lo convincesse delle proposte dei due vicentini. Ma la sua at- tenzione fu tutt’altro che una pura manifestazione di cor- tesia del biografato verso il biografo e verso una persona come Ghiotto che, validissimo giornalista, esperto di tec- niche della comunicazione che proprio allora iniziavano a sofisticarsi, era da poco entrato, con buona accoglienza di critica e di pubblico, nel mondo delle lettere col romanzo Scacco alla regina. Rumor era solito ascoltare, come disse ai quattro amici vicentini e ripeté in tante altre occasioni, i consigli della sorella Teresa, estranea alla politica ma im- mersa nel volontariato sociale, e in quei mesi non c’è dub- bio che andasse cercando, anche fuori dal mondo politico, spunti programmatici che potessero consentire al nuovo governo di centrosinistra di porre mano non solo, come scrive la Cisco, «agli annosi problemi che la precedente amministrazione gli aveva caricato addosso del tutto», ma di aggiungervi qualcosa che cogliesse un po’ del nuovo che emergeva dalla domanda sociale. Non aveva l’ampiezza di vedute di Moro, ma non era di certo insensibile ai proble- mi sociali, soprattutto di quanti non avevano alle spalle ro- busti organismi di tutela. A mio avviso, non è neppure da considerarsi rilevante nella dispersione in rivoli senza sbocco dei propositi dei due vicentini, il mutamento dell’umore di Rumor dalla 72 Giuseppe Pupillo prima alla seconda cena, da un Rumor preoccupato a un Rumor rasserenato e assai fiducioso. In realtà, come intuisce la Cisco, quale che fosse l’in- tenzione positiva di Rumor, ciò che i quattro proponeva- no era controcorrente, o meglio estraneo ai canali, grandi e piccoli, a cielo aperto o interrati, tradizionali o costituiti ex novo dai nuovi movimenti sociali di massa, entro cui scorreva la domanda politica. E dunque, nonostante gli ulteriori appuntamenti, non se ne fece nulla. Non c’era lo spazio. Non c’era perché pro- poste e negoziazioni erano strettamente monopolizzate dai partiti di governo, influenzate di frequente dai “poteri for- ti” e talora condizionate da quelli occulti. Rumor, poi, come aveva superato gli scogli nella fase delle trattative per la formazione del governo, così in quel mese di febbraio, pur con parecchi grattacapi, stava pian piano portando la navigazione, attraverso i canali tradizio- nali, verso acque più tranquille. Non per molto tempo, co- me sappiamo, ma ciò che avvenne dal giugno ’69 in poi, tra una contestazione sociale montante e come lui scrive «lo stato di divaricazione in cui si trovavano i partiti che appoggiavano» il governo, non è oggetto di questa nota. La seconda parte del mese di febbraio fu positiva per Rumor, soprattutto sul piano governativo, meno su quello del partito dove la nomina di Piccoli a segretario naziona- le della Dc (pur senza avere la maggioranza) costituiva, do- po la dissociazione di Moro, il secondo inequivoco segna- le di sfaldamento della corrente di Impegno democratico. Afferma Rumor nelle Memorie: «al termine del secon- do mese effettivo [e quindi a fine febbraio] potevo guarda- re con soddisfazione al lavoro fatto». E tracciando il bilan- cio finale di quel suo primo governo aggiunge: «ho la con- vinzione che io avevo dato il più solido corpo alla collabo- razione di centrosinistra che, dopo il primo quinquennio e la sconfitta socialista del ’68, era entrata in una crisi che appariva difficilmente ricomponibile». La riforma delle pensioni, l’approntamento della riforma universitaria, l’i- Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 73 stituzione delle regioni, lo Statuto dei lavoratori (e anche l’accordo sull’istituzione del referendum, indispensabile per la Dc per acquietare le gerarchie ecclesiastiche che pensavano di poter abrogare la legge, ormai alle viste, del divorzio mediante, appunto, una consultazione referenda- ria) rappresentavano di certo un buon bilancio. Di sicuro buona parte del merito fu sua. Ma, meno pa- radossalmente di quanto possa sembrare, l’incipiente in- stabilità del sistema politico e la stessa crescita di influenza dei comunisti, se per un verso gli furono d’ostacolo (e di certo ne pagò il prezzo), per un altro gli giovarono. E di- fatti, se allarghiamo per un attimo lo sguardo al quadrien- nio ’69-72, contrassegnato proprio dall’instabilità politica, è facile constatare come l’attività parlamentare sia stata nel complesso notevole. Notevole la stessa produzione legisla- tiva. Ciò nonostante la crisi degli assetti politici delle for- mazioni (Dc e Psi-Psdi) protagoniste del centrosinistra, anzi, in buona parte, in virtù di essa. In realtà il disegno di Moro di ristrutturare il sistema politico-partitico come perno fondamentale della demo- crazia del paese venne convertito in una serie di relazioni pragmatiche tra i partiti di maggioranza e il principale par- tito di opposizione che segnarono l’inizio di ciò che venne poi chiamato “consociativismo”. Nei rapporti parlamenta- ri con l’opposizione gran maestro di tessiture si rivelò il nuovo capogruppo alla Camera della Dc, Giulio Andreot- ti, che in tal modo iniziò il percorso che lo condusse a di- ventare il presidente dei governi di unità nazionali. Il Rumor che i quattro incontrarono nella seconda ce- na era dunque un uomo che si sentiva ormai saldamente in sella, ma che comunque appariva ancora interessato ad approfondire le proposte dei due vicentini, tanto da assi- curarli che, la domenica successiva, le avrebbe vagliate con attenzione. Ci furono poi altri appuntamenti e venne persino orga- nizzata una terza cena alla quale però Rumor non prese par- te. Non c’è da stupirsene, visto che era stata organizzata per 74 Giuseppe Pupillo il 28 febbraio, secondo giorno della visita di Nixon, partito poi dall’aeroporto di Ciampino il primo pomeriggio. Una cena in cui comparve verso la mezzanotte Bisaglia, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, incari- cato da Rumor di formare un piccolo gruppo di lavoro (con Cresci, Palmisano e altri) per vagliare le proposte Ghiotto-Ghirotti. E Bisaglia, par di capire dalle parole del- la Cisco, aveva più l’aria di uno che volesse tirar tardi; do- veva accondiscendere a un desiderio del suo presidente, ma è più che lecito supporre che considerasse il discutere coi vicentini una pura perdita di tempo. Proprio su Bisaglia si chiude il manoscritto della Cisco. Lei avrebbe voluto adeguarsi al giudizio positivo che ne dava Ghiotto (non il marito), ma proprio non le riusciva (così come all’amico “Pecos”, il giornalista Giorgio Pecori- ni) di mandar giù quel suo darsi «importanzetta», sentirsi al di sopra di tutti e comportarsi da padrone, trinciare giu- dizi, appassionarsi solo ai problemi del proprio collegio elettorale. Ne fa, nel manoscritto, un ritratto pungente, e si può dire che, con intuito femminile, abbia presentito, valutando le differenze di carattere tra Rumor e Bisaglia, quella che qualche tempo dopo sarà la definitiva rottura tra i due uomini politici. Il battesimo politico di un «divano tutto pelle e splendore» 75

NOTA

Le citazioni sono tratte da: Gianni Baget Bozzo, Tesi sulla DC, Cappelli, Bologna 1980; Aniello Coppola, Moro, Feltrinelli, Mila- no 1976; Simona Colarizi, Biografia della Prima Repubblica, Later- za, Roma-Bari 1996; Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, UTET, Torino 1995; Franco De Felice, Nazione e crisi: le li- nee di frattura, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Einaudi, Torino 1995; Paolo Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989; Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblica- na, Marsilio, Venezia 1992; Pier Paolo Pasolini, Il caos, Editori Riuniti, Roma 1979; Mariano Rumor, Memorie, Neri Pozza, Vi- cenza 1991; Nicola Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla cri- si del centrismo al “compromesso storico”, in Storia dell’Italia repub- blicana, vol. V, Einaudi, Torino 2000.

Giorgio Pecorini Vivacità e verità in una cronista di razza

Le lettere-diario di Mariangela «con la loro freschezza vi riporteranno indietro e vi faranno divertire» prevedeva sua nipote Cari inviandone una fotocopia a me e a mia moglie Brunella. Previsione esatta e incompleta. Proprio per la freschezza e la vivacità e la verità della loro scrittura, quelle lettere-diario ci hanno sì riportato indietro di un quarto di secolo abbondante, ma al divertimento delle no- tazioni puntuali, delle sottolineature ironiche, dei com- menti arguti hanno accompagnato, in alcuni momenti ad- dirittura sovrapposto, malinconia, rabbia, rimorso. La malinconia di rivedere, nella prospettiva migliore e con la conseguente maggiore consapevolezza dell’oggi, tensioni e speranze di quel tempo. La rabbia di non aver- ne avuto allora tutti quanti percezione intera. Il rimorso di non essere stati capaci di ribellarsi, per insufficienza di for- za e/o di voglia. È come se soltanto ora riuscissimo a ren- dercene conto, grazie al racconto di Mariangela. Con quel suo puntiglio fotografico da grande cronista, Mariangela ci fa il ritratto di quattro persone: lei stessa, suo marito Gigi, Renato Ghiotto e la moglie Giovanna, forti soltanto della loro carica di utopia, di entusiasmo, di generosità, di ingenuità, di simpatia umana. Quattro per- sone confrontate con un uomo investito, neppure lui sa bene come e perché, d’un potere di cui, non conoscendo la misura, non sa come far uso; e circondato da cialtron- celli arrivisti maleducati e cinici. Tener d’occhio le date per collocare al loro posto giusto gli avvenimenti minuti, mi- 78 Giorgio Pecorini nori, privati, all’apparenza insignificanti; e coglierne inve- ce la rilevanza pubblica.

* * *

«10 febbraio ’69 - lunedì» è la prima data che troviamo, e la notizia che dà è del mercoledì precedente, il 5, il gior- no in cui nel salotto di piazza Adriana arriva il nuovo son- tuoso divano di pelle; per inaugurarlo degnamente Gigi invita a cena prima gli amici Ghiotto e poi – ma dimenti- cando di avvertirne Mariangela – anche Mariano Rumor, da sei settimane presidente del Consiglio. L’idea di quest’ultimo invito gli è venuta andando «a palazzo Chigi per raccogliere informazioni sulla biografia del Mariano», informa Mariangela. La biografia gliel’ha commissionata l’amico e collega Giovanni Grazzini, diret- tore della collana di Longanesi “Gente famosa”. Il volume, che uscirà giusto di lì a un anno, s’apre con una scheda di dati biografici. Ecco quelli più utili a meglio capire e gu- stare le lettere-diario:

19 novembre 1968 preincarico per la formazione del governo; 12-16-23 dicembre 1968 formazione del primo governo Ru- mor, discorso programmatico e fiducia del Senato e della Ca- mera; 27 febbraio 1969 Nixon a Roma.

Sono i giorni di rodaggio del nuovo presidente del Consiglio, il cui esordio viene così vissuto dai concittadi- ni, secondo la ricostruzione fatta da Ghirotti nella prima pagina della biografia:

La sera del 24 dicembre 1968 i vicentini se ne tornavano lieti a casa scambiandosi da un marciapiede all’altro vaghi fumetti di vapore, ricolmi d’auguri natalizi, allorché li raggiunse la notizia che l’onorevole Mariano Rumor poche ore dopo aver ricevuto la fiducia dal parlamento era in volo su Vicenza. Vivacità e verità in una cronista di razza 79

Per natura, i concittadini del neopresidente sono tipi conte- gnosi: il perbenismo li logora fin dall’età tenerissima, e li lascia poi per tutta la vita in uno stato di perenne autocontrollo, de- precatissimo da attori, attrici e oratori politici che se ne vanno dichiarando Vicenza città ottusa affatto a ogni moto dello spi- rito. Ma quella sera, tradizioni della vigilia e inibizioni del co- stume pubblico caddero insieme. Dietrofront, i vicentini allun- gano il passo per tornare in centro. Si raccolgono attorno al Municipio: cittadini, consiglieri, assessori, sindaci dei paesi in- torno, molti anche con bandiere, gonfaloni e valletti, e quando vedono l’onorevole Mariano, ecco la Vicentinità che si sconge- la. Il nuovo presidente, tra i battimano, entra in sala Bernarda, la sede del consiglio comunale dove ha esercitato ventidue anni prima. È il primo uomo politico veneto salito tanto in alto, fat- ta eccezione per il solo , veneziano, presidente del consiglio nel 1910. Gli si consegna perciò una medaglia d’oro. Il presidente ringrazia, e di bel principio mette in chiaro quale sarà il suo programma di governo per i concittadini: «Non chie- detemi privilegi, non chiedetemi favori. Quel ch’è giusto, se posso, di tutto cuore. Di più, nulla. Vi tratterò come ho il do- vere di trattare gli italiani di tutte le altre regioni. Questo solo è ciò che vi posso promettere». Il discorso fu esattamente questo e in questi crudi termini il re- soconto giunse nelle case dei vicentini a edificarli e ricongelarli a dovere. Quelle accoglienze furono turbate da un episodio che passò inosservato, sebbene non del tutto. Un uovo si staccò da una finestra palladiana e all’apparire della vettura presidenziale andò a schiacciarsi sull’asfalto, un metro avanti il neo-eletto. Il presidente dette una guardatina in su: scrollò le spalle e tirò avanti per la sua strada. «È difficile centrare un bersaglio in mo- vimento», esclamò, ricordandosi d’essere stato ufficiale d’arti- glieria contraerea.

Il pranzo di rodaggio del big divany ghirottiano cade dunque a un mese e dieci giorni dall’insediamento a Palaz- zo Chigi e dalla consegna della medaglia in sala Bernarda. Mariano Rumor compirà 54 anni a giugno, ha alle 80 Giorgio Pecorini spalle una lunga e fortunata carriera politica, ma tutta co- struita e percorsa all’interno di una Dc incapsulata nel cat- tolicesimo vicentino con le sue connotazioni e i suoi con- dizionamenti particolari. Dal guscio della sua città è usci- to tante volte, per incarichi sempre più prestigiosi ma sem- pre interni a quel partito. Sotto le cui insegne è già arriva- to prima in parlamento, fin dal 1948, e poi al governo: sottosegretario dal ’51, ministro dal ’59. Ma fare il primo ministro è un’altra cosa: servono prospettive più larghe, strumenti più complessi. Se ne rende conto subito, e dopo le scaloppine e il cavolfiore con annesso inseguimento del tovagliolo, dopo la rievocazione affettuosa e ironica di me- morie familiari e di storie vicentine, a mezzanotte, sprofondato nel divano, lo dichiara con pudico candore ai quattro amici sbigottiti.

È venuto da noi stasera – annota Mariangela – perché ha biso- gno di uscire dal suo mondo, deve parlare, sentire la voce degli altri. È nato, cresciuto, vissuto nella Dc, ne è dentro fino a qua – e con la piccola mano tocca la base dei capelli. Ha bisogno di critiche, di idee, di incontrare gente. «Contestatori?» chiede Gigi. «Certo». «Anarchici?» «Anche anarchici, sicuro». Fa una violenta critica alla Dc, sulla corruzione, sulla sete di po- tere, sull’assenteismo dei deputati, sulla insufficienza, arretra- tezza delle leggi. [...] Siamo alla vigilia dei colonnelli – dice. Il potere non lo interessa, non voleva per niente esser fatto presi- dente – e si può anche credergli, in questo momento – era di- sperato la notte prima della decisione. [...] Pare che da anni non si sfoghi, tanto è vivace, irrefrenabile il suo discorso. Neppure la presenza delle due donne (sbalordite) lo frena. Non le guar- da mai e non si rivolge mai a noi. Dice che è travolto dalla rou- tine e chiede critiche, critiche e suggerimenti. «Pensate per me, ho bisogno di sapere che qualcuno pensa mentre io mi dibatto tra sindacati, telefoni, beghe; che pensa liberamente, senza nes- Vivacità e verità in una cronista di razza 81

sun preconcetto, liberi voi di dire tutto, di suggerire tutto, libe- ro io di fare quello che posso».

Conoscendo Mariangela e sapendo come la pensasse, questa notazione sulle donne mai guardate, buttata lì senza particolare sottolineatura, va letta e intesa alla luce di quel- l’altra fatta poco più avanti nel resoconto del secondo pran- zo, la sera di venerdì 14, questa volta a casa dei Ghirotti:

La regia di Renato prevedeva che le signore restassero in salotto, e loro uomini con serietà si ritraessero attorno a un tavolo. Umil- mente ci eravamo adeguate. Ma al momento di far alzare il pre- sidente dalla comoda poltrona il piano fece la sua prima cilecca. Il presidente non si mosse e disse che la poltrona gli andava assai meglio della sedia col tavolo. Le signore dissero che si sarebbero ritirate loro. «Perché» chiese l’affabile presidente, «è una riunio- ne per uomini soli? Capisco che loro magari si annoiano, ma...» Disse che il parere delle donne – per esempio di sua sorella Te- resa che di politica non capisce proprio ma proprio niente – gli era sempre di molta utilità perché pieno di buon senso e di con- creto realismo. Noi, contentine, ci mettemmo sedute comode, chiamando a raccolta il nostro disperso buon senso e sperando di eguagliare il realismo della Teresa.

Non una sberla, che non è nello stile suo, ma un bel calcetto negli stinchi (vedi la gomitata che due righe dopo dà a Gigi) Mariangela glielo tira al neopresidente, femmi- nista-antifemminista a intermittenza: le donne restino, ba- sta non guardarle; le donne parlino, preferibilmente di quel che non capiscono.

* * *

A questo punto, per godere fino in fondo le lettere-dia- rio di Mariangela conviene integrarne-alternarne la lettura a quella della biografia di Gigi, per due motivi. Il primo è che in essa come in tutti i suoi libri e articoli è sempre dif- 82 Giorgio Pecorini

ficile, spesso impossibile distinguere chi dei due ha scritto o almeno pensato che cosa1. Il secondo motivo è che i due testi, così diversi per struttura e destinazione ma contemporanei nell’elabora- zione se non nella stesura, sono pieni di collegamenti e ri- chiami reciprocamente illuminanti. Letti insieme ci fan capire meglio due cose, egualmente connesse e intrecciate: lo specifico ambientale e culturale di un territorio e il suo destino, le cui linee di sviluppo azzardato già si delineano. Mariano Rumor, che in quel territorio c’è nato e ci s’è for- mato, le vede subito con chiarezza ma non sa o non può o non vuole almeno tentare quei rimedi che pur ha capito essere necessari. Leggere, con ancor maggiore attenzione alle date, il suo intervento-sfogo in Consiglio dei ministri al rientro da Milano, dov’era dovuto accorrere, pieno di febbre e di in- fluenza, per la strage di piazza Fontana, la sera del 12 di- cembre 1969. Dal pranzo del 5 febbraio sono passati dieci mesi scarsi, ma l’Italia è tutta cambiata. A cominciare dal governo, che non è più il primo Rumor, tripartito di cen- trosinistra (Dc + socialisti da poco e per poco riunificati + repubblicani) scosso già in primavera dai tumulti (due morti a Battipaglia) e travolto nell’estate dalla nuova scis- sione socialista e dalle faide democristiane: è il secondo Rumor, monocolore Dc d’agosto. Il presidente è sempre lui ma neppure lui è più lo stesso. Ecco il suo discorso, co- me ce lo trascrive Gigi nell’ultima pagina della biografia:

Qui dentro, diciamocelo francamente, abbiamo tutti l’impres- sione di trovarci a una riunione del nostro partito. Un mono- colore è come un uomo con un piede per terra e l’altro sospeso in aria. Per quanto grande sia la nostra buona volontà, non po- tremmo uscire da questo vicolo cieco. Bisogna fare di nuovo il centrosinistra. Gettiamo via i nostri dissidii, i nostri sospetti. Mettiamoci al lavoro tutti insieme: democristiani, socialisti, so- cialdemocratici, repubblicani. Le città scoppiano, i servizi pub- blici e sociali sono sempre più insufficienti. Da una parte si ac- Vivacità e verità in una cronista di razza 83

centua la congestione dei centri urbani, dall’altra paesi muoio- no per l’esodo degli abitanti. Bisogna organizzare una politica del territorio. Dove devono sorgere le nuove industrie? Dove le nuove città? Come devono essere servite e collegate? Il momen- to è serio. Il 1970 potrebbe essere l’anno della vigorosa ripresa della politica di programmazione. Le linee tecniche sono già abbozzate, ma per portarla avanti è necessaria una maggioranza organica.

Ci vorrebbe insomma un governo in grado di governa- re e un presidente del Consiglio capace di presiederlo. Gigi non lo dice esplicito come possiamo dirlo noi, col senno di trentacinque anni dopo e senza la remora della consuetudi- ne amicale. Ma è una doppia constatazione sconsolata che attraversa implicita tutte le duecento pagine della biografia; e che erompe invece con la forza del getto di un geyser dal- le facciate del manoscritto di Mariangela:

Stupisco nel vedere in un paese fino a poco tempo fa abbando- nato da dio e dagli uomini, negozi di mobili che neanche a To- rino si son mai visti. Commenti: la signora Traverso ci racconta come il paese si sia trasformato in questi ultimi anni. È il regno di Freato (segretario di Moro), il quale partito come piccolo av- vocato è diventato misteriosamente ricchissimo. Ci fa vedere due grosse fabbricone nuove (sono sue, dice) e una infinità di cose nuove sorte in questi anni. Ci racconta la storia di cinquanta mi- lioni capitati in dono al parroco di Camisano, per la chiesa che non ne aveva alcun bisogno e perciò subito incamerati dal vesco- vo di Vicenza. Racconta ancora del grande magazzino di alimen- tari che richiama clientela da tutta la provincia (anche i nostri parenti, li avevo sentiti spesso parlare di questo favoloso bengodi sottoprezzo) sempre di Freato. Aggiunge che in paese si dice fan- no tante insinuazioni su di lui, ma che comunque ha portato il benessere. Peggio per chi sta fuori dal carrozzone.

Pochissime pennellate le son bastate per dare concre- tezza, non sai se più sbigottita o sgomenta, al quadro-pre- 84 Giorgio Pecorini dica astratto del presidente ai suoi nuovi ministri. Pochis- sime altre le basteranno a far impietosamente crollare il mirabolante castello presidenziale di disponibilità, o me- glio di invocazione all’aiuto. È la storia edificante del terzo pranzo, da capo in casa Ghirotti, di venerdì, 28 febbraio. Il presidente voleva rac- cogliere le idee, le proposte, i consigli tanto ansiosamente sollecitati agli amici. Che per elaborarli e confezionarli nel modo migliore non ci avevano dormito la notte, sconcer- tati dall’immane inattesa responsabilità, lusingati da tanta insperata fiducia, affascinati dalla speranza di rivivere quel sogno di un’Italia nuova e diversa per il quale avevano scel- to la Resistenza. Ma all’ultimo momento il presidente non arriva: peggio, manda alcuni collaboratori, ministri, sotto- segretari e portaborse, che nulla sanno dell’ordine del gior- no e cui nulla interessa, se non di gustare le sogliole, spet- tegolare ed esibirsi. A quel non-pranzo mi ci sono trovato anch’io, per ca- so, e nulla ho da aggiungere al resoconto di Mariangela, tanto preciso da avermi fatto rivivere il senso di fastidio, di allarme, di disgusto. Soltanto ora scopro che Mariangela se ne è accorta, nonostante il mio scrupolo di non dichiarar- glielo. E vedo con soddisfazione che gli oggetti del suo maggior sdegno erano gli stessi miei: Bisaglia e Cresci. Al primo dei quali, proprio nell’ultima riga, gira senza disso- ciarsene il lapidario giudizio del portiere: «cialtrone». Ultima storia, ultimo regalo di Mariangela: è la sintesi dell’ultimo incontro, il 3 marzo, tra i due frastornati e fru- strati amici-consiglieri e l’amico-presidente, in una saletta dell’aeroporto attendendo l’arrivo della sorella Teresa, quella che nulla ma proprio nulla capisce di politica e che per questo tanto è utile consigliera, ma questa volta ecce- zionalmente convocata soltanto per dare mano a un tra- sloco. La montagna di proposte avanzate al non-pranzo di tre giorni prima, ammonticchiate da Gigi e da Renato Ghiotto in stretta quanto clandestina collaborazione con le rispettive e ben più pragmatiche consorti, partorisce il Vivacità e verità in una cronista di razza 85 topolino di un’incontro con Italia Nostra più la promessa di assistenza ai minorati e invalidi: quanto a tutto il resto, «pare che ben poco si possa fare senza sollevar grane a de- stra o a sinistra o in mezzo». Amen.

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Era il 1969: Mariangela buttava giù le sue lettere-diario tra febbraio e marzo, Gigi ha lavorato tutto l’anno al suo libro-biografia, che sarà finito di stampare nel febbraio dell’anno seguente. Ognuno dei due, ciascuno a suo modo, ci ha dato la propria istantanea di quel loro habitat: il mitico nordest del nostro nuovo grande miracolo economico, «questo fa- voloso bengodi» appunto in cui di mese in mese sorgono e si allargano come funghi le nuove fabbrichette dell’im- prenditoria fantasiosa a conduzione familiare, ognuna con accanto la villetta del padrone e il magazzino e il negozio- spaccio, senza soluzione di continuità, in una frenesia imi- tatrice, con una furia distruttrice del territorio e del pae- saggio, delle loro vocazioni e tradizioni contadine, della loro antica cultura. Perché non c’è tempo da perdere con ubbie urbanistiche, i piani regolatori servono a niente, i re- golamenti edilizi sono lacci e laccioli buoni soltanto a giu- stificare e mantenere burocrati pigri e lazzaroni, specie quelli immigrati dal Sud. Ricordo le due, tre volte l’anno in cui, dopo la morte di Gigi e fin quando Mariangela è stata in condizione di muoversi, s’andava, mia moglie Brunella e io, a trovarla a Vicenza. E lei ogni volta ci trascinava in macchina nei pae- si attorno, alla scoperta delle nuove meraviglie, entusiasta di consentirci, quasi di imporci, buoni affari nel giro degli spacci: maglioncini e giacche e scarpe e borse eccetera in tutto e per tutto eguali a quelli delle grandi marche made in perché fatte negli stessi laboratori sugli stessi dise- gni con gli stessi materiali, soltanto senza l’etichetta e quindi a un terzo, un quarto, la metà del prezzo, che poi 86 Giorgio Pecorini scendeva ancora della metà o della metà della metà se c’e- ra qualche difetto ma invisibile o se i colori erano quelli al- la moda due anni prima. Spedizioni estenuanti. L’entusiasmo di Mariangela si scontrava, sosta dopo sosta, con l’intransigenza di Brunella, che tuttavia ogni tanto si piegava ad acquistare qualcosa. Finché al ritorno a casa, stravaccati esausti sul divano presi- denziale del ’69 (dopo tanti anni e traslochi aveva perso un po’ dell’originario sussiego e guadagnato parecchio in co- modità) Brunella faceva il conto di quanto s’era speso e Mariangela l’inventario delle occasioni perdute. Poi, rian- dando mentalmente all’itinerario appena percorso e con- frontandolo con quelli percorsi anni prima sugli stessi luo- ghi, magari sempre con la guida dei Ghirotti, tutti e tre ci si ritrovava d’accordo nel constatare i guasti irrimediabili recati dall’ubriacatura consumistica: uno scempio di cui ognuno rischiava di diventare complice involontario e ad- dirittura inconsapevole. Si denunciava l’illusione di uno sviluppo infinito e incontrollato. E ci si riprometteva di non cascarci più. Fino alla prossima volta. Un miracolo, fin quando durerà, questo del nordest (le prime crepe già si cominciano ad aprire) costruito su una generazione intera e un’altra mezza di evasori scolastici. Di ragazze e ragazzi che, usciti in qualche modo dagli otto an- ni della scuola dell’obbligo, non erano più entrati in nes- sun’altra. Un po’ perché non ne avevano trovato allora al- cuna che proponesse loro qualcosa di veramente utile o soltanto interessante, un po’ perché “dovevano” mettersi subito a lavorare per guadagnare subito (meglio se in nero, così si evadono anche contributi e tasse) tutti i soldi neces- sari a comprarsi l’ultimo modello di qualsiasi oggetto di moda proponesse il mercato, il motorino preferibilmente truccato e, appena compiuti i diciott’anni, la prima auto sportiva da andarci il venerdì e il sabato sera in discoteca coi vestiti firmati dell’ultima tendenza. E senza che l’isti- tuzione scuola, in quanto tale e nel suo complesso, fatte salve le rare sparse iniziative personali di singoli insegnan- Vivacità e verità in una cronista di razza 87 ti e presidi di buona volontà in sempiterna lotta con circo- lari, ispezioni, rapporti e via controllando, minacciando, logorando, si fosse (e si sia) mai posta il problema di come attirarli e recuperarli, quei giovani. Ma questa, del miracolo del nordest, mitico e no, col suo paesaggio, il suo sviluppo, i suoi giovani e le loro scuo- le, è un’altra storia, con protagonisti diversi. Qui non si può neppur tentare di raccontarla. Qui si può soltanto giocare a immaginarsi come ce la saprebbero raccontare, Gigi in un libro sugli eredi (leghisti o berlusconiani?) di Rumor e della Dc, e la Mariangela in lettere-diario ai figli dei suoi nipoti. Con la certezza che ci aiuterebbero a ca- pirla meglio. Che riuscirebbero a farci di nuovo insieme arrabbiare e divertire. 88 Giorgio Pecorini

NOTA

1. L’ho già spiegato nella prefazione alla raccolta degli articoli di Gigi sulla Sardegna (Ricognizione della solitudine, Iniziative Cul- turali, Sassari 2002): «Gigi ha al proprio fianco Mariangela Cisco, una compagna di scuola cresciuta con lui, che ha fatto con lui la Resistenza, che è ora sua moglie, e senza la quale tutto gli divente- rebbe più difficile e scomodo: dall’intendere avvenimenti e com- portamenti, al trovare l’aggettivo giusto, a prenotare col necessario anticipo la telefonata ai giornali».