Coro Del Teatro Regio Di Parma Martino Faggiani Maestro Del Coro

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Coro Del Teatro Regio Di Parma Martino Faggiani Maestro Del Coro osn.rai.it OSNrai Stagione orchestrasinfonicarai 8 - orchestraRai Auditorium Rai “Arturo Toscanini”, Torino 2 25-26/10 Giovedì 25 ottobre 2018, 20.30 Venerdì 26 ottobre 2018, 20.00 James Conlon direttore Verdi GIOVEDÌ 25 OTTOBRE 2018 ore 20.30 VENERDÌ 26 OTTOBRE 2018 2° ore 20.00 James Conlon direttore Anna Pirozzi soprano Marianna Pizzolato contralto Saimir Pirgu tenore Riccardo Zanellato basso Coro del Teatro Regio di Parma Martino Faggiani maestro del coro Giuseppe Verdi (1813-1901) Messa da Requiem per soli, coro e orchestra (1874) I. Requiem e Kyrie II. Dies irae III. Offertorio IV. Sanctus V. Agnus Dei VI. Lux aeterna VII. Libera me, Domine Durata: 84’ ca. Il concerto di giovedì 25 ottobre è trasmesso in diretta su Radio3. Giuseppe Verdi Messa da Requiem per soli, coro e orchestra 16 marzo 1874: “...quella Diavola di Messa, la quale finalmente è finita”. Dopo trent’anni e passa di dedizione pressoché totale al melodramma, Verdi completava un approdo alla musica sacra che oggi ci appare tutt’altro che casuale o privo di significato. Un approdo, certo, non un ritorno: troppo lontane nel tempo, ma soprattutto nello spazio mentale, le composizioni giovanili scritte a Busseto, prima che il teatro diventasse definitivamente la sua professione. Ma, a ben vedere, fra quei giorni ormai sbia- diti nella memoria e questo poderoso presente un filo sottile sottile di continuità forse c’è. La prima pietra l’aveva posta nel 1868, alla morte di Gioachino Rossini, lanciando l’idea di un Requiem collettivo in sua memo- ria, musicato una parte per ciascuno dai principali composi- tori italiani. Naufragata l’esecuzione, Verdi si era ritrovato nel cassetto un pezzo di musica, il “Libera me”: inutilizzabile così com’era, ma di cui non era impensabile uno sviluppo in dimen- sioni più ampie. L’occasione concreta per farlo era giunta il 22 maggio 1873, alla morte di Alessandro Manzoni, da lui venerato come un santo. Pochi giorni dopo scriveva al sindaco di Milano offrendosi di comporre una Messa da Requiem: “un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore”. Nei nove mesi successivi eccolo vivere que- sto momento creativo per lui nuovo con un entusiasmo che non trova riscontro per nessuna delle sue produzioni precedenti. “Io lavoro alla mia Messa proprio con gran piacere. Mi pare d’esser diventato un uomo serio, e di non esser più il pagliaccio del pub- blico che con un tamburrone e grossa cassa grida ‘avanti avanti, venite ecc.’. Voi capirete che ora sentirmi a parlare d’opere, la mia coscienza se ne scandalizza, e mi faccio presto il segno del- la Croce!!! Che ne dite Voi?... Non siete edificato di me?...”. Già allora sarebbe bastato leggere le parole un po’ scherzose e un po’ no, di quella lettera, o ascoltare quelle abbastanza simili che saranno sicuramente rimbalzate in qualche conversazione, per capire che le ragioni, anzi le radici di questo impegno (che almeno lì per lì, e anche questa era una cosa abbastanza inedita per lui fino a pochi anni prima, non doveva fruttargli soldi) sono ben al di là di due morti eccellenti. E una conferma viene anche da ciò che successe dopo quel 22 maggio 1874, primo anniver- sario della scomparsa di Manzoni, che vide Verdi dirigere il Re- quiem nella chiesa di San Marco a Milano. Dopo tre riprese alla Scala Verdi e la Messa cominciarono un giro trionfale per tutta Europa, compresa Vienna (che qualche mese più tardi ne diede ancora alcune repliche, dirette da altri: a una fu presente addirittura Richard Wagner, in compagnia di sua moglie Cosima Liszt che non si risparmiò commenti acida- mente sibillini), e con un culmine clamoroso a Londra, quando alla Albert Hall si raccolse un coro di 1.200 voci. E furono pro- prio le ripetute esecuzioni della Messa a presentare Verdi nella dimensione per lui nuova (anche qui però un precedente lonta- no ma forse eloquente: La creazione di Joseph Haydn diretta a ventun anni a Milano), e quanto mai moderna ed europea, del direttore d’orchestra. Da allora la Messa da Requiem è la composizione non operisti- ca italiana più eseguita in sede di concerto, capace meglio di ogni altra di rappresentare la storia musicale del nostro paese. Naturalmente ci fu anche chi ci trovò da ridire: per esempio, giusto in occasione delle esecuzioni a Vienna, il grande Hans von Bülow, che se ne prese gioco definendola “l’ultima opera di Verdi, seppure in paramenti ecclesiastici”. Rimise le cose a po- sto Johannes Brahms: “Bülow ha preso una cantonata: un lavoro simile può scriverlo soltanto un genio”. Culminata con Aida la sua carriera di operista tradizionalmente intesa, per Verdi il Requiem apriva simbolicamente una fase cre- ativa ormai affrancata dalle pastoie della professione. Forse ad- dirittura Verdi considerava conclusa la sua storia in quel campo, per il successo conseguito e per il sottile disagio di fronte a una cultura musicale internazionale che era sempre meno possibile ignorare in un’Italia ormai unita e decisa a diventare europea. Con il rarefarsi dell’attività teatrale coincide una inedita atten- zione alla musica sacra, o di argomento religioso: filone aperto proprio con il Requiem, e coltivato come campo privatissimo di esperienze fin quasi alla morte. Forse Verdi vi scorgeva, secon- do una tradizione antica, un compito più elevato e impegnativo, e al tempo stesso più prossimo a un artigianato secolare, quello stesso delle timide prove bussetane, rispetto alla composizione melodrammatica, propizio alla formazione di un “tardo stile” nel quale rifugiarsi una volta uscito dalla mischia. Ma era anche la sua risposta all’affermazione in Italia di una cultura strumentale finalmente attenta alla grande civiltà d’Oltralpe: novità contro la quale Verdi tuonava a parole, ma della quale avvertiva il signifi- cato, come comprovano il progressivo farsi avanti di un senso autenticamente strumentale nel suo linguaggio di operista e la stessa creazione del Quartetto, nel 1872. Sul piano musicale la Messa ribadisce le conclusioni di un’espe- rienza aperta a metà degli anni Cinquanta subito dopo la gran- de trilogia (Rigoletto, Trovatore e Traviata) e giunta a completa maturazione con Aida. Con questa il Requiem ha stretti vincoli di parentela nel tessuto melodico, ormai lontano dall’angolosità a pronta presa di un tempo, pur senza nulla togliere al primato della vocalità affidata ai quattro solisti, e plasmato sulla parola lungo percorsi più tortuosi e duttili: con richiami che a volte sfiorano la citazione, come il canto del tenore all’”Hostias”, co- struito sui medesimi intervalli dell’invocazione dei sacerdoti nel- la scena del Nilo. E nel trattamento dell’orchestra, che accanto ai momenti più grandiosi e spettacolari rivela un affinamento tecnico assai significativo: una strumentazione più essenziale e meno seducente, com’è logico, rispetto alle magie timbriche di Aida, ma funzionale a itinerari espressivi e rappresentativi più meditati e sfumati. Nel Requiem prosegue così la tenace ricerca di Verdi di modi d’agire più esportabili internazionalmente. Ne è indizio anche l’evidente conoscenza della Grande Messe des morts di Hector Berlioz, rivelata nell’esplosione percussiva del “Dies irae” e nella dilatazione spaziale del “Tuba mirum”, con i due gruppi di trom- be disposti in lontananza a far da eco agli squilli del Giudizio universale, come nelle scelte generali, stilistiche e di linguag- gio, dal gregoriano rivisitato all’interpretazione drammaturgica del testo sacro attraverso la plasticità del fatto sonoro, anche e anzitutto in orchestra. Ma non meno determinante di questa apertura all’Europa sem- bra essere l’aspetto opposto del Verdi di questi anni: il suo po- lemico “torniamo all’antico”, la scontrosa rivendicazione della polifonia dell’epoca d’oro, “l’arte grande e nostra”, come fonte genuina e irrinunciabile della civiltà musicale italiana; anche se le polifonie scabre del Requiem più che un richiamo sia pure storicizzato all’arte del Cinquecento suggeriscono una deriva- zione da una tradizione accademica successiva, per le vigorose architetture contrappuntistiche del fugato a due cori del “San- ctus” e di quello a quattro voci del “Libera me”, come per la dura vocalità “a cappella” del “Te decet hymnus”. Va da sé che la spiritualità tutta laica di Verdi non poteva incli- nare al misticismo o alla metafisica. Il senso del sacro anche qui occupa uno spazio ridotto rispetto al dramma dell’uomo. Il salto qualitativo compiuto da Verdi rappresentando il dramma dell’umanità anziché vicende di singoli gli consente di superare i confini del teatro allargandosi dalla contingenza delle allusioni storiche, sociali o politiche, dal caso specifico delle passioni di amanti, di padri, di figli, a una dimensione, l’eternità, vasta ed epica come quel mito in cui Wagner cercava la redenzione del dramma musicale. E a Verdi non faceva certo ostacolo il testo liturgico, che ov- viamente non gli consentiva le modifiche, i tagli o le aggiunte che era lecito ordinare a un librettista. Anzi gli forniva parole che erano cultura di tutti, anche dell’Italia contadina della sua giovinezza: e di cui la stessa epicità della lingua antichissima esaltava la dimensione “scenica” che tanto gli premeva trovare nei suoi libretti. Anche per questo il Requiem si pone come sintesi di tutta la riflessione sulla musica e sulla sua capacità rappresentativa che accompagna l’evoluzione di Verdi attraverso i capolavori della maturità. Un quadro stilistico eclettico, ma in sostanza equili- brato, combina il ricordo delle accensioni drammatiche di ieri con la capacità analitica e la responsabilità culturale delle prove ultime: e il fascino dell’identità storica del Requiem si somma con quello del suo significato artistico indicandolo come la par- titura che forse riassume meglio di qualsiasi altra che cosa siano stati Giuseppe Verdi e la musica dell’Italia unita. Daniele Spini Giuseppe Verdi Messa da Requiem per soli, coro e orchestra I.
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