La posizione degli Stati Uniti sul Climate

Change attraverso i discorsi dei Presidenti: da George H. W. Bush a Donald Trump Elaborato di Gabriele Turco Mat. MSI/00604 | [email protected]

Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” Corso di Storia della Politica Internazionale

Indice:

1. Introduzione ...... 2

2. I principali accordi in materia climatica dal 1992 a oggi ...... 3

3. La leadership internazionale degli USA in materia di cambiamento climatico ...... 5

4. La questione dell’equità e delle economie emergenti ...... 8

5. Da Bush Jr. a Trump: incertezza scientifica e iniquità ...... 10

6. La fine della retorica liberale ...... 13

7. L’attuale politica statunitense in materia ambientale ...... 14

8. Conclusioni ...... 16

Bibliografia ragionata ...... 17

1 di 20

1. Introduzione L’obiettivo del presente elaborato è quello di confrontare le posizioni politiche in materia di cambiamento climatico delle amministrazioni degli Stati Uniti dal 1992 a oggi, attraverso un’analisi comparata di discorsi pubblici e conferenze stampa tenute dai rispettivi presidenti. L’analisi del discorso sarà accompagnata dall’esame di alcune politiche, decisioni e fatti salienti al fine di spiegare le motivazioni che sottendono alla costruzione discorsiva (Fairclough 1989) della posizione politica americana tenuta in tali momenti. Ci si chiederà, quindi, se sia possibile individuare delle linee di continuità o discontinuità negli approcci seguiti dalle diverse amministrazioni. La tesi qui sostenuta è che, nonostante la differente appartenenza partitica delle diverse amministrazioni, sia possibile individuare delle linee di continuità sia tra amministrazioni dello stesso partito sia tra quelle di partiti diversi, in particolare per l’importanza attribuita alle istituzioni liberali, al multilateralismo in politica internazionale e al libero mercato, che si interrompono con l’amministrazione Trump.

L’analisi svolta è delimitata temporalmente dalla Conferenza di Rio del 1992, la quale apre la strada ad una cooperazione internazionale in materia di ambiente e cambiamento climatico che non ha precedenti nella storia: sebbene il primo vertice internazionale su Ambiente e Sviluppo promosso dall’ONU sia stato la Conferenza di Stoccolma del 1972, solo con la Conferenza di Rio prende il via un processo di cooperazione più stretta, grazie alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, conosciuta come UNFCCC (Bagliani e Dansero 2011). Infatti, la Convenzione, sebbene non preveda limiti vincolanti alle emissioni di gas serra, ha istituzionalizzato il coinvolgimento degli stati in periodiche Conferenze delle Parti (COP) e ha costituito la base giuridica per giungere all’approvazione di accordi come il Protocollo di Kyoto (1997) e l’Accordo di Parigi (2015).

Il presente lavoro seguirà un approccio tematico: nel paragrafo 2, per avere contezza dello sviluppo della politica internazionale in materia climatica, verranno brevemente confrontati i diversi accordi internazionali sorti nell’ambito dell’UNFCCC e il coinvolgimento in essi degli Stati Uniti; il paragrafo 3 affronterà il tema della leadership internazionale degli Stati Uniti, intesa come capacità delle amministrazioni di auto-rappresentarsi come capaci di fungere da guida per le altre nazioni; il paragrafo 4 affronterà la questione dell’equità dei costi e dei vincoli delle politiche in materia di cambiamento climatico rispetto ai paesi in via di sviluppo o economie emergenti; il paragrafo 5 sarà dedicato al confronto tra i discorsi di George W. Bush e Donald Trump, che presentano punti in comune ma anche forti differenze; il paragrafo 5 sarà volto a dimostrare come l’approccio di Trump sia in netta discontinuità rispetto a quello dei presidenti che lo hanno preceduto, prediligendo una retorica con caratteristiche realiste rispetto ad una retorica tipicamente liberale (Jackson e Sørensen 2014); nel paragrafo 7 verrà

2 di 20 inquadrata l’attuale politica americana in materia ambientale e in seguito, tenendo conto dell’analisi svolta, si trarranno le conclusioni.

Le principali fonti su cui si basa questo lavoro sono la Conferenza stampa tenuta dal Presidente George H. W. Bush dopo il summit di Rio de Janeiro (1992); i commenti del Presidente Clinton dopo la firma del Protocollo di Kyoto (1997); il discorso del Presidente George W. Bush sul cambiamento climatico (2001); i commenti del Presidente Obama sulla prima sessione della COP21, che ha portato alla firma dell’Accordo di Parigi (2015) e la dichiarazione del Presidente Trump sull’uscita dall’Accordo di Parigi (2017). Estratti di tali documenti saranno confrontati, in ciascun paragrafo, attraverso tabelle divise per temi. Per quanto concerne l’analisi delle politiche ambientali degli Stati Uniti e degli accordi internazionali si terrà conto del manuale Politiche per l’ambiente (2011) di Bagliani e Dansero e della monografia di Christopher J. Bailey US Climate Change Policy (2015). Per un’analisi della posizione politica dell’amministrazione Trump sono stati consultati gli articoli Where does US climate policy stand in 2019? di Wallach (2019) e US and international climate policy under President Trump di Jotzo, Depledge e Winkler (2018). Inoltre, per il paragrafo 2, relativo agli accordi internazionali, si terrà conto dell’articolo di Held e Roger (2018) Three Models of Global Climate Governance: From Kyoto to Paris and Beyond. Ulteriori fonti bibliografiche saranno indicate nel testo e all’interno della bibliografia ragionata presente al termine del lavoro.

Per motivi di semplicità e chiarezza, ci si riferirà al Presidente George H. W. Bush come Bush Sr. e a suo figlio George W. Bush come Bush Jr.; per necessità di sintesi, i nomi di alcuni accordi internazionali, norme, istituzioni e politiche saranno scritti per esteso la prima volta e abbreviati in sigla le volte successive.

2. I principali accordi in materia climatica dal 1992 a oggi È utile, al fine di analizzare la posizione politica degli Stati Uniti in materia di cambiamento climatico, analizzare, primariamente, gli accordi internazionali stipulati nell’ambito dell’UNFCCC e il posizionamento statunitense rispetto ad essi, così da contestualizzarla nella sfera più generale della politica climatica internazionale. Infatti, secondo Held e Roger (2018), possiamo distinguere tre distinti modelli di regime internazionale climatico, relativi al Protocollo di Kyoto (1997), all’Accordo di Copenaghen (2009) e all’Accordo di Parigi (2015) caratterizzati da una diversa natura giuridica, dalla presenza di impegni più o meno (o niente affatto) vincolanti, nonché dal coinvolgimento di diversi attori e da una diversa interazione tra di essi. Tali differenze sono sintetizzate nella Tabella 2.1.

3 di 20

Tabella 2.1. Modelli di regime internazionale climatico Elementi del modello Kyoto 1997 Copenaghen 2009 Parigi 2015

Obiettivi Riduzione del 5% delle Limite globale di 2°C Limite globale di 1.5- emissioni globali 2°C Natura legale Vincolante Non vincolante Ibrida Logica di governo Regolatoria Volontaria Catalitica Partecipazione degli Stretta Ampia Quasi universale stati Differenziazione Forte Media Attori non statali Ruolo minore, Ruolo più ampio ma Ruolo significativo, strettamente delegato indipendente dal implicante una dall’UNFCCC processo dell’UNFCCC “orchestrazione” dell’UNFCCC Fonte: Held e Roger (2018) [traduzione mia].

Il Protocollo di Kyoto (1997) aveva al suo interno un obiettivo generale di riduzione dei gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990 durante il primo periodo di impegno 2008-2012, lasciando agli stati la facoltà di decidere con quali mezzi perseguire l’obiettivo. L’aspetto più problematico del Protocollo è che tale riduzione andava realizzata seguendo una ripartizione della quantità di emissioni da ridurre, diversa per ciascun stato, rispondente al principio “obblighi comuni, ma responsabilità e capacità differenziate” (Held e Roger 2018). Cina e India vi avevano aderito, ma non avevano alcun obbligo, mentre la Russia aveva solo un obbligo di stabilizzazione, non di riduzione. L’accordo sarebbe entrato in vigore con la ratifica di almeno 55 nazioni firmatarie, responsabili di almeno il 55% delle emissioni, condizione verificatasi solo nel 2004, con la ratifica da parte della Federazione Russa, da sola responsabile del 17,6% delle emissioni (Bagliani e Dansero 2011). Gli Stati Uniti, invece, responsabili del 36% delle emissioni planetarie (Ibid.) non hanno mai ratificato l’accordo, nonostante il Presidente Clinton lo avesse firmato e ne fosse uno dei principali promotori; questo perché nel Senato statunitense, che ha il potere di approvare la ratifica degli accordi internazionali, non c’erano i numeri per giungere all’approvazione del Protocollo (Bailey 2015). Sull’argomento si tornerà nei paragrafi successivi.

A Copenaghen, nel 2009, si è adottato un approccio totalmente differente (Held e Roger 2018). Non si trattava di un accordo vincolante, bensì di una serie di impegni volontari assunti con l’obiettivo comune di mantenere il riscaldamento globale non oltre i 2°C rispetto alle temperature preindustriali. Ciascuno stato presentava il proprio impegno a ridurre le proprie emissioni di carbonio, ciascuno fissando le proprie scadenze e determinando i limiti entro i quali operava. In questa occasione è stata incoraggiata la fissazione di limitazioni uniformi anche per i paesi in via di sviluppo ed è stato coinvolto un maggior numero di stati, compresi gli Stati Uniti e le economie emergenti. Tuttavia, si trattava di impegni non

4 di 20 vincolanti, il cui inadempimento non avrebbe portato ad alcuna conseguenza legale. Gli attori non statali come ONG e imprese, inoltre, non hanno svolto alcun ruolo nel nuovo sistema, nonostante avessero assunto un ruolo sempre più importante nella lotta al cambiamento climatico dalla firma del Protocollo di Kyoto (Bulkeley et al. 2014).

L’Accordo di Parigi (2015) rappresenta una fusione tra questi due approcci: da un lato si fissa un obiettivo vincolante, di contenere il riscaldamento “ben al di sotto” dei 2°C oltre ai livelli preindustriali, dall’altro si adottano due strumenti: i National Determined Contributions (NDCs) e un meccanismo per rimborsare perdite e danni ai soggetti colpiti da eventi climatici straordinari. Il sistema dei NDC prevede che, ogni 5 anni, gli Stati presentino i loro piani di mitigazione delle emissioni, all'interno di un quadro giuridicamente vincolante che costruisce intorno a loro una serie di obblighi procedurali. Ad esempio, ciascuna parte deve preparare, comunicare e mantenere un NDC che rifletta il suo massimo livello di ambizione (UNFCCC 2015, articolo 4). Inoltre, l'accordo prevede che le parti, quando comunicano i propri NDC, forniscano le informazioni necessarie per chiarezza, trasparenza e comprensione, e che gli impegni siano raccolti in un unico registro pubblico. Inoltre, si è deciso di coinvolgere i soggetti non statali nella realizzazione degli impegni: multinazionali, ONG e società civile, sarebbero stati invitati ad un evento internazionale, organizzato regolarmente, durante il quale ideare, organizzare e annunciare azioni collettive di contrasto al cambiamento climatico, secondo un approccio definito da Held e Roger (2018) come “catalitico”.1

L’accordo di Parigi è stato ratificato da più del 55% degli stati parte, le cui emissioni superano il 55% del totale, in soli 11 mesi, un record, se lo si compara con il Protocollo di Kyoto per il quale sono serviti 7 anni. Ad oggi, l’accordo è stato ratificato da 186 stati su 195 firmatari, raggiungendo un livello di partecipazione quasi universale (UNTC 2019). Tuttavia, nel giugno del 2017, il Presidente Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dall’accordo. Su questo tema si tornerà nel paragrafo 7.

3. La leadership internazionale degli USA in materia di cambiamento climatico La prima variabile che si propone di confrontare riguarda la leadership internazionale degli USA in materia di cambiamento climatico, che qui è intesa come la capacità dell’amministrazione americana di fungere da guida ed esempio per la comunità internazionale, così come presentata dai diversi presidenti.

Dalla Tabella 3.1 è possibile osservare come i presidenti repubblicani abbiano enfatizzato, nella loro costruzione discorsiva del ruolo americano, il concetto di leadership.

1 Traduzione mia.

5 di 20

Tabella 3.1. Differenti approcci dei Presidenti degli Stati Uniti rispetto al concetto di leadership Bush Sr. 1992 Clinton 1997 Bush Jr. 2001 Obama 2015 Trump 2017

Affermazione Abdicazione Mantenimento Rilievo posto sul Mantenimento della leadership della leadership concetto di della leadership “responsabilità” The United I cannot say America's I’ve come here I will work to States fully enough about the unwillingness to personally, as the ensure that intends to be the extraordinary embrace a flawed leader of the America remains world's pre- leadership of treaty should not world’s largest the world’s leader eminent leader Prime Minister be read by our economy and the on environmental in protecting the Hashimoto, the friends and allies as second-largest issues, but under a global people of Japan any abdication of emitter, to say that framework that is environment. should be very responsibility. To the United States fair and where the And we have proud of the spirit the contrary, my of America not burdens and been that for and the work that administration is only recognizes our responsibilities are many years. We their countries committed to a role in creating this equally shared will remain so… leaders did to leadership role on problem, we among the many make this historic the issue of climate embrace our nations all around day possible change. responsibility to the world. do something about it.

Bush Sr. ripete più volte, nel corso della conferenza stampa presa in esame, che gli Stati Uniti intendono essere i leader nella protezione dell’ambiente globale, che lo sono stati per molti anni e che rimarranno tali (Bush 1992). Non è errato affermare che gli USA abbiano avuto un ruolo significativo nell’emergere del cambiamento climatico e della protezione ambientale come tematiche internazionali: già nella metà degli anni ’80, in seguito a una lettera del direttore esecutivo dell’UNEP, gli Stati Uniti decisero di mettere in campo una risposta alla minaccia del cambiamento climatico (Cass 2006). Gli USA, a partire dal 1986, prestarono supporto a un processo internazionale per studiare le cause scientifiche, le conseguenze e le implicazioni in termini di policy del cambiamento climatico, che portò, nel 1987, durante il Congresso della World Metereological Organization, alla proposta di creare l’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), che venne costituito nel novembre 1988 (Agrawala 1998, Bailey 2015, Bolin 2007). Inoltre, già nel 1988, quando era ancora in campagna elettorale, Bush Sr. dichiarò che: “Those who think we are powerless to do anything about the ‘greenhouse effect’ are forgetting about the ‘White House effect’”2 (Hecht and Tirpak 1995, 383). Ciò nonostante, l’amministrazione Bush Sr. si è sempre opposta all’imposizione di limiti obbligatori alle emissioni di gas serra, prediligendo un approccio basato su iniziative a basso costo, come il programma di incentivi “Green Lights”, per la sostituzione di lampadine obsolete con nuove luci ad alta efficienza energetica e il “National Tree Trust”, la proposta di un partenariato pubblico-privato per la

2 Trad. “Coloro che credono che non possiamo fare nulla per l’‘effetto serra’ si stanno dimenticando dell’‘effetto Casa Bianca’” (traduzione mia). N.d.A.: in italiano non è possibile tradurre il gioco di parole “greenhouse” – “White House”.

6 di 20 forestazione, basata sull’iniziativa volontaria dei privati (Bailey 2015). L’amministrazione ha dovuto, inoltre, fare i conti con l’azione di lobbying dei grandi gruppi industriali, legati all’energia e all’estrazione di idrocarburi, contrari alle politiche di contrasto al cambiamento climatico, che nel 1989 costituirono la Global Climate Coalition (GCC): un’iniziativa che ha portato al finanziamento e alla pubblicazione di numerosi studi per screditare le basi scientifiche del cambiamento climatico, nonché all’audizione nelle commissioni del Congresso USA di numerosi studiosi scettici sul tema (Keller 2009).

Anche le amministrazioni Bush Jr. e Trump sono state caratterizzate da forti legami con le forze industriali contrarie all’azione di contrasto al cambiamento climatico: nello staff di Bush vi erano personalità provenienti da aziende come Chevron, General Motors, American Automobile Manufacturers Association, con l’unica eccezione di Christine Todd, nominata amministratrice dell’Environmental Protection Agency (EPA), nota per le campagne per il miglioramento della qualità dell’aria e per la pulizia delle spiagge (Bailey 2015); nello staff di Trump, invece, anche gli amministratori dell’EPA, prima Scott Pruitt e poi Andrew Wheeler, hanno avuto un passato nel business dei combustibili fossili (Rif). Ciò nonostante, Bush Jr., nel 2001, dichiara che la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto non avrebbe intaccato in alcun modo la leadership americana in materia ambientale (Bush 2001). Persino Trump, nell’annunciare la volontà di recedere dall’Accordo di Parigi, sostiene che gli Stati Uniti sono i leader mondiali nelle questioni ambientali e che resteranno tali (Trump 2017), senza fare alcuna menzione dello scetticismo più volte sbandierato in campagna elettorale (Rif).

È importante evidenziare che dall’inizio degli anni ’90, le élite di Democratici e Repubblicani hanno iniziato ad assumere posizioni sempre più divergenti in materia di cambiamento climatico, fino al punto da farla diventare una delle questioni che definisce cosa vuol dire essere democratico o repubblicano negli USA (Nisbet 2011). La cesura netta è emersa durante la campagna elettorale del 1992, dove mentre i Democratici con Clinton criticavano l’amministrazione precedente per non aver fatto abbastanza in materia ambientale, i Repubblicani con Bush Sr. si mostravano preoccupati per i costi economici dell’azione, per il timore di un governo troppo invasivo rispetto all’economia e per la supposta incertezza scientifica del cambiamento climatico (Bailey 2015).

Eppure, mentre i Presidenti repubblicani rivendicano la leadership statunitense in materia di cambiamento climatico, quelli democratici, nelle fonti prese in esame, non ne fanno menzione: Clinton (1997), nel suo commento in seguito alla firma del Protocollo di Kyoto, riconosce al Primo Ministro giapponese Hashimoto il merito di aver reso possibile l’accordo; Obama (2015) non parla mai di

7 di 20 leadership, ma pone l’enfasi sul riconoscimento delle colpe degli USA e sulla responsabilità di “to do something about it”.3

Uno dei motivi che potrebbe aver portato le amministrazioni democratiche a non evidenziare un ruolo di leadership è l’assenza di consenso all’interno al Paese: la natura divisiva del tema del cambiamento climatico ha creato non solo una scissione tra Repubblicani e Democratici, ma anche all’interno dello stesso Partito Democratico, nel quale i senatori rappresentanti di stati produttori di idrocarburi hanno interesse a contrastare l’azione contro il cambiamento climatico (Bailey 2015). Inoltre, i successi conseguiti dai repubblicani nelle elezioni del Congresso di medio termine, hanno reso impossibile, alle amministrazioni democratiche, porre al centro dell’agenda legislativa le questioni ambientali (Ibid.) Le amministrazioni repubblicane, d’altro canto, hanno dovuto fare i conti con il consenso sempre maggiore raggiunto dalla comunità scientifica in merito all’evidenza empirica del cambiamento climatico e della sua natura antropogenica (Bagliani e Dansero 2011), nonché con le pressioni crescenti dei paesi dell’Unione Europea, meno preoccupati rispetto ai costi economici dell’azione (Bailey 2015). Inoltre, la costruzione discorsiva (Fairclough 1992) della leadership americana, come si evidenzia nel seguente paragrafo, può essere utile a giustificare in termini dicotomici la posizione americana rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo.

4. La questione dell’equità e delle economie emergenti Una problematica che ha portato gli Americani a dividersi sulla questione del cambiamento climatico è la posizione rispetto ai paesi in via di sviluppo o economie emergenti. Essi sono ritenuti tra i paesi maggiormente responsabili di emissioni di gas serra; nonostante ciò, non hanno mai accettato l’imposizione di significativi obiettivi di riduzione dell’inquinamento (Bailey 2015, Held e Roger 2018). Il fatto che l’efficacia dell’azione di un singolo Stato, per quanto importante come gli Stati Uniti, sia limitata se gli altri paesi incrementano le loro emissioni, è un ulteriore argomento problematico (Bailey 2015, 24, 83).

Infatti, come si può evincere dalla Tabella 4.1, Trump (2017) costruisce discorsivamente una contrapposizione tra Stati Uniti, definiti come “world’s leader in environmental protection”4 e i “world’s leading polluters”5, ossia la Cina e l’India, giustificando così l’intenzione di recedere dall’Accordo di Parigi, ritenuto iniquo. È bene sottolineare che tale affermazione non corrisponde a realtà, in quanto gli Stati Uniti, in

3 Trad. “fare qualcosa al riguardo” (traduzione mia). 4 Trad. “paese leader nella protezione ambientale” (traduzione mia). 5 Trad. “leader mondiali dell’inquinamento” (traduzione mia).

8 di 20 base alle rilevazioni più recenti, sono la seconda fonte di gas serra al mondo (EDGAR 2017, Saporiti 2019).

Tabella 4.1. Differenti approcci dei Presidenti degli Stati Uniti rispetto all’equità e alle economie emergenti Bush Sr. 1992 Clinton 1997 Bush Jr. 2001 Obama 2015 Trump 2017

Accento sul Prospettiva Accento sull’iniquità del Iniquità dell’ ruolo del libero ottimistica Protocollo di Kyoto Accordo di Parigi mercato I happen to there are still We recognize the [Nessuna a deal that punishes believe that a hard challenges responsibility to reduce menzione dei the United States - successful ahead, especially our emissions. We also paesi in via di which is what it conclusion to the in the area of recognize the other part sviluppo] does - the world’s GATT round, the involvement with of the story -- that the leader in Uruguay Round the developing rest of the world emits environmental […] will do more nations. It's 80 percent of all protection, while , than any foreign essential that they greenhouse gases. And imposing no aid program of participate in a many of those emissions meaningful any country to meaningful way if come from developing obligations on the help the third we are to truly countries. […] Yet, world’s leading world. Because I tackle this China was entirely polluters. [China problem, but to exempted from the and India] […] the believe their products will be joint requirements of the Paris Accord is implementation Kyoto Protocol. […] very unfair, at the able to flow more freely, and they provisions of the India was also exempt highest level, to the will be able to agreement open from Kyoto. […] our United States. prosper by the the way to that approach must be based markets result. on global participation, including that of developing countries […].

Prima di Trump, già Bush Jr. (2001) utilizzò l’argomento dell’iniquità degli obiettivi di limitazione di gas serra, rispetto alle economie emergenti cinese e indiana, per giustificare la volontà di non partecipare a un accordo internazionale. Allora, si trattava del Protocollo di Kyoto, firmato nel ’97 dalla precedente amministrazione Clinton, mai sottoposto al Senato per la ratifica, già a maggioranza repubblicana prima dell’Elezione di Bush Jr. Tuttavia, Bush, a differenza di Trump, riconosce le responsabilità americane e la necessità di impegnarsi nel contrasto al cambiamento climatico. Egli, tramite il discorso pronunciato nel 2001, propone di perseguire un approccio basato sulla partecipazione globale, che coinvolga anche e soprattutto i paesi in via di sviluppo, responsabili di buona parte delle emissioni (Bush 2001). Vi sono, tuttavia, significative differenze tra la retorica di Bush Jr. e quella di Trump, che saranno approfondite nel successivo paragrafo.

La stessa argomentazione è alla base della Risoluzione Byrd-Hagel, votata all’unanimità dal Senato il 25 luglio 1997. Secondo il testo, gli Stati Uniti, a Kyoto, non avrebbero dovuto firmare alcun protocollo

9 di 20 per la limitazione delle emissioni di gas serra a meno che i paesi in via di sviluppo non si fossero impegnati a ridurre le proprie. Le conseguenze legali della Risoluzione furono minime: la Costituzione degli Stati Uniti attribuisce al Presidente il potere di negoziare e firmare accordi internazionali, il Senato non può impedirlo. Tuttavia, ogni accordo internazionale firmato dal Presidente deve essere ratificato dal Senato; pertanto, si trattò di un chiaro messaggio politico rivolto a Clinton circa la disponibilità del Senato a ratificare l’accordo (Bailey 2015). D’altro canto, i paesi in via di sviluppo continuavano a sostenere che ogni limitazione alle loro emissioni avrebbe gravemente danneggiato le loro economie (Cass 2006).

Il costo delle politiche ambientali, per i paesi in via di sviluppo, era un elemento di preoccupazione già all’inizio degli anni ’90. Durante la conferenza stampa di Bush Sr. (1992) sul Summit della Terra, il Presidente venne incalzato dalla domanda di un giornalista che gli chiedeva di rispondere alle accuse di chi sosteneva che i paesi in via di sviluppo non avrebbero potuto implementare politiche ambientali a causa della loro condizione di povertà e sottosviluppo. La risposta, di cui un estratto è riportato nella Tabella 4.1, è una ricetta che vede come soluzione al problema l’utilizzo degli strumenti del libero mercato: i prodotti dei paesi in via di sviluppo sono stati penalizzati dalle restrizioni al commercio internazionale; solo le istituzioni liberali e accordi come il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) potranno favorire lo sviluppo, la ricchezza e quindi la partecipazione alle politiche ambientali di questi paesi (Ibid.). Occorre evidenziare che l’accordo raggiunto a Rio non prevedeva alcun limite obbligatorio alle emissioni USA, ma solo obiettivi di natura politica e programmatica.

L’argomento dell’iniquità degli obiettivi di emissione e delle responsabilità dei paesi in via di sviluppo emerge, quindi, come una delle strategie ricorrenti nella retorica dei Repubblicani, sin dal momento in cui sono cominciati i dibattiti sugli accordi internazionali in materia. Essa può collegarsi alla costante preoccupazione dei gruppi di interesse più conservatori per il costo economico delle azioni di mitigazione del cambiamento climatico (Rahm 2009, Jacques et al. 2008, Layzer 2007, Gelbspan 2004, 1997, McCright e Dunlap 2003, 2000). Diversamente avviene per le élite democratiche: l’approccio di Clinton (1997) al problema è ottimistico: riconosce il sussistere di sfide nel coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo, considerato che il Protocollo di Kyoto prevede la totale esenzione, per tali paesi, dagli obblighi previsti per i paesi sviluppati. Tuttavia, ritiene che il Protocollo sia il primo passo da percorrere sulla strada della partecipazione collettiva. Nel commento di Obama all’Accordo di Parigi, invece, non viene fatta alcuna menzione dei paesi in via di sviluppo.

5. Da Bush Jr. a Trump: incertezza scientifica e iniquità Nel paragrafo precedente si è messa in rilievo la continuità argomentativa tra Donald Trump e Bush Jr., rispettivamente, circa la contrarietà all’Accordo di Parigi e al Protocollo di Kyoto, basata sull’iniquità degli

10 di 20 accordi in relazione al trattamento di favore riservato alle economie emergenti come quella cinese e indiana. Nel presente paragrafo, invece, si cercherà di mettere in luce le differenze tra i due approcci, con l’ausilio degli estratti riportati nella Tabella 5.1.

Tabella 5.1. Posizione di Bush Jr. e Trump, rispettivamente, circa il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi Bush Jr. 2001 Trump 2017

Accordo antiscientifico Accordo iniquo I've just met with senior members of my China will be able to increase these emissions by administration who are working to develop an a staggering number of years — 13. […] Not us. effective and science-based approach to India makes its participation contingent on addressing the important issues of global climate receiving billions and billions and billions of change. […] Yet, the Academy's report tells us that we dollars in foreign aid from developed countries. […] do not know how much effect natural fluctuations in Even if the Paris Agreement were implemented in climate may have had on warming […] or even how full, with total compliance from all nations, it is some of our actions could impact it. […] our useful estimated it would only produce a two-tenths of efforts to reduce sulfur emissions may have one […] Celsius reduction in global temperature actually increased warming, because sulfate by the year 2100. Tiny, tiny amount. In fact, 14 days particles reflect sunlight, bouncing it back into space. of carbon emissions from China alone would […] Kyoto is, in many ways, unrealistic. Many wipe out the gains from […] America’s expected countries cannot meet their Kyoto targets. The reductions in the year 2030 targets themselves were arbitrary and not based upon science.

Bush (2001) ha giustificato la mancata ratifica del protocollo di Kyoto aggrappandosi a motivazioni scientifiche: secondo l’amministrazione, i target di emissione stabiliti a Kyoto erano irrealistici e ascientifici, scelti in maniera del tutto arbitraria; a ciò si aggiunge che gli sforzi degli americani nel ridurre le emissioni di zolfo potrebbero addirittura aver aggravato il riscaldamento globale, poiché lo zolfo atmosferico, ridotto, rifletteva la luce del sole e raffreddava la superfice terrestre. L’intenzione degli USA, pertanto, era quella di sviluppare un approccio che sia basato sull’evidenza scientifica. Questo è ancora comprensibile se consideriamo un contesto come quello del 2001, in cui la comunità scientifica, nonostante gli studi già pubblicati dall’IPCC, non era ancora unanime nel riconoscere le responsabilità umane nel cambiamento climatico e c’era un buon grado di incertezza su quali fossero i limiti e quali fossero le conseguenze dell’impatto umano sull’ambiente (Bagliani e Dansero 2011, Bailey 2015). Nonostante ciò, sembra esserci da parte di Bush l’intenzione di lavorare sul tema, impegnando e finanziando team di ricercatori. Tutto ciò veniva detto nel giugno 2001. Nel settembre dello stesso anno, l’attacco alle torri gemelle segnerà la scomparsa delle tematiche ambientali dall’agenda internazionale per molti anni a venire, sostituita dalla “guerra al terrore” (Bagliani e Dansero 2011). Le argomentazioni di Bush Jr. sono comprensibili secondo l’ottica degli autori che hanno provato a spiegare l’approccio delle amministrazioni americane attraverso variabili culturali, come la fede nello sviluppo tecnologico quale

11 di 20 strumento per superare i problemi (Lee et al., 2001). Inoltre, Cass (2006) suggerisce che la riluttanza degli Stati Uniti ad accogliere un approccio “precauzionale”6 possa spiegarsi con il bisogno degli statunitensi, al fine di intraprendere di una qualsiasi azione, di avere una prova scientifica del danno piuttosto che il mero rischio di subire un danno. Come già esposto al P. 3, tuttavia, occorre sottolineare che, oltre alle spiegazioni culturali, il comportamento dell’amministrazione Bush Jr. è stato condizionato dai forti legami con le industrie automobilistiche ed energetiche, legate alla produzione e al consumo di idrocarburi. Non è un caso che l’amministrazione abbia cercato di oscurare i risultati della ricerca scientifica sul cambiamento climatico ogni qualvolta essi entrassero in contrasto con la posizione ufficiale del governo sul cambiamento climatico (Mooney 2006, Bowen 2009, Bradley 2011). Nel settembre 2002, l’amministrazione rimosse un’intera sezione sul cambiamento climatico dal report dell’EPA sulla qualità dell’aria, e nove mesi dopo cercò di forzare l’EPA a rimuovere i dati sul cambiamento climatico dal report sull’ambiente (Revkin 2002, Revkin e Seelye 2003). Un’inchiesta della Union of Concerned Scientists (UCS) ha svelato che quasi la metà degli intervistati ha subito pressioni affinché fossero rimosse espressioni come “cambiamento climatico” e “riscaldamento globale” dai documenti prodotti, e un simile numero di intervistati crede che siano state apportate modifiche inappropriate ai loro lavori (Mooney 2006). Gli scandali in merito all’interferenza dell’amministrazione nel lavoro degli scienziati climatici ha condotto alle dimissioni del capo dello personale del Council on Environmental Quality della Casa Bianca, Philip Cooney, il quale, subito dopo, ha accettato un lavoro presso ExxonMobil (Kolbert 2006).

Trump (2017), invece, adotta una retorica completamente diversa, sostenendo che, a fronte delle emissioni prodotte da paesi come la Cina, gli sforzi statunitensi nella riduzione del riscaldamento globale siano del tutto vani; considera uno spreco di denaro gli aiuti economici verso i paesi in via di sviluppo come l’India. Anche qui occorre considerare, contemporaneamente, una spiegazione legata agli interessi economici degli esponenti di questa amministrazione, di cui si è già detto al paragrafo 3, e spiegazioni culturali. Secondo Maniates e Meyer (2010), le policy che hanno al proprio centro la nozione di “sacrificio”, come quelle di riduzione delle emissioni, si scontrano con i valori dominanti negli USA, i quali si fondano su di una cultura consumista7 e sul ruolo della crescita economica. Infine, la differenza

6 N.d.A. Qui ci si riferisce al principio di precauzione, esplicato all’articolo 15 della Dichiarazione di Rio (1992): «Al fine di proteggere l'ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale». 7 N.d.A. Qui gli autori utilizzano il termine “materialism” la cui accezione, tuttavia, è diversa dall’equivalente italiano “materialismo”. Nella tradizione culturale italiana, il materialismo si contrappone allo spiritualismo; quest’ultimo è un atteggiamento di distacco dalle cose terrene (Bartolini 2012). Il materialismo, nell’accezione italiana, non è necessariamente legato ad attività consumistiche o strumentali alla crescita economica; pertanto, come suggerisce anche Stefano Bartolini (2012), si ritiene più adatta l’espressione “cultura consumista”.

12 di 20 con l’approccio dell’amministrazione Bush Jr. lo si spiegare con il consenso scientifico ormai raggiunto sulla natura antropogenica del cambiamento climatico e sui rischi che esso arreca all’ambiente umano (Bagliani e Dansero 2011) che, sebbene sia stato messo più volte in discussione da Trump in numerose dichiarazioni pubbliche (De Pryck e Gemenne 2017) è difficilmente sostenibile in un discorso ufficiale. Il discorso sulla scienza, quindi, è sostituito dalla rivendicazione, per gli Stati Uniti, del diritto a mettere al primo posto la propria crescita economica (Trump 2017).

6. La fine della retorica liberale Proprio sulla rivendicazione primaria dell’interesse economico, appena discussa, caratterizzato come interesse nazionale che è possibile porre l’approccio dell’Amministrazione Trump in linea di completa discontinuità rispetto alle amministrazioni precedenti. Nel presente paragrafo si fa riferimento alle due più grandi correnti di pensiero delle Relazioni Internazionali: Realismo e Liberalismo (Jackson e Sørensen 2014).8 Come si evidenzia nella Tabella 6.1, il presidente Trump adotta una retorica realista, mentre gli altri presidenti impiegano una retorica di stampo liberale.

Tabella 6.1. Differente stile retorico rispetto alle teorie delle Relazioni Internazionali dei Presidenti USA Bush Sr. 1992 Clinton 1997 Bush Jr. 2001 Obama 2015 Trump 2017

Liberalismo Liberalismo Liberalismo Liberalismo Realismo We've asked others I'm particularly The Kyoto Our progress As the Wall to join us in pleased that the Protocol was should give us Street Journal presenting action agreement strongly fatally flawed in hope during these wrote this plans for the reflects the fundamental ways. two weeks - hope morning: “The implementation of he commitment of the But the process that is rooted in reality is that climate convention United States to use used to bring collective action. withdrawing is in […] [US proposals] the tools of the nations together […] Here in Paris, America’s on the importance of free market to to discuss our let’s agree to a economic economic tackle this problem. joint response to strong system of interest and instruments and free […] I think we can climate change is transparency that won’t matter markets were got what we an important one. gives each of us the much to the included in this wanted, which is […] we all know confidence that all climate.” […] I mammoth Agenda joint the United States of us are meeting promised I 21 document and the implementation cannot solve this our commitments. would exit or Rio declaration. emissions trading, a global problem renegotiate any market oriented alone. […] our deal which fails

approach. approach must be to serve based on global America’s participation interests.

8 Per motivi di semplicità e considerando che il presente elaborato è di tipo storico, non prettamente politologico, si preferisce fare riferimento alle macro-correnti di Realismo e Liberalismo, piuttosto che alle numerose ramificazioni teoriche di queste ultime, come il Liberalismo Istituzionale e il Liberalismo dell’Interdipendenza, oppure Realismo Strutturale e Realismo Neo- Classico (Jackson e Sørensen 2014).

13 di 20

Nella retorica di Trump appare evidente una visione realista di tipo hobbesiano delle relazioni internazionali, a somma 0, che mette al primo posto gli interessi nazionali e la crescita economica. Le altre nazioni sono viste come nemiche dell’interesse nazionale e presentate come una minaccia (vedi paragrafo 4). Non viene manifestata la volontà di continuare un percorso multilaterale per la promozione delle politiche ambientali, se questo non sposa l’interesse degli Stati Uniti (Trump 2017)

Dalle amministrazioni precedenti invece viene dato grande rilievo alle istituzioni internazionali di stampo liberale. In particolare, Bush Sr. (1992) e Clinton (1997) danno un grande rilievo al ruolo del libero mercato; Bush per il ruolo che ha nella crescita dei paesi in via di sviluppo, mentre Clinton parla di “emissions trading” ossia del mercato delle emissioni, uno strumento giuridico con il quale stati e aziende possono comperare il diritto di generare emissioni di gas serra, dunque inquinare, entro dati limiti. Bailey (2015) segnala che questa idea, prima nata in ambiente repubblicano, è stata successivamente raccolta dai programmi politici democratici e, nel crescente divario sulla posizione politica in tema di ambiente dei due grandi partiti americani, è stato escluso da quelli repubblicani. L’amministrazione Obama ha provato ad implementare, negli USA, il mercato delle emissioni attraverso l’American Clean Energy and Security (ACES) Act, che, approvato dalla Camera dei Rappresentanti, non ha passato l’esame del Senato. Le speranze dell’approvazione della legge sono definitivamente scomparse nel 2010, quando i democratici sono stati sconfitti nelle elezioni di medio termine (Ibid.).

Anche Bush Jr. (2001) non disconosce e, anzi, sottolinea l’importanza del processo cooperativo e multilaterale che ha portato alla conclusione dell’UNFCCC nel ’92 e del Protocollo di Kyoto nel ’97, secondo il Presidente quella è la strada verso la cui bisogna continuare, una strada fondata sulla cooperazione internazionale.

Infine, Obama (2015) pone l’accento sulle responsabilità collettive e sulla necessità di azioni collettive, per dare vita ad un sistema di trasparenza che possa rafforzare il senso di fiducia e la sicurezza che ciascuno degli attori rispetti i propri impegni, richiamando concetti su cui si fondano le teorie liberali delle relazioni internazionali (Jackson e Sørensen 2015).

7. L’attuale politica statunitense in materia ambientale Il presente paragrafo è dedicato ad analizzare la politica dell’Amministrazione Trump in materia ambientale e climatica, la quale risulta essere coerente rispetto alla scelta di uscire dall’Accordo di Parigi. Di seguito, a titolo esemplificativo, verranno mostrate alcune decisioni e ci si interrogherà sulle future conseguenze di queste.

14 di 20

Philip Wallach, in uno studio pubblicato da Brookings (2019) segnala la sostituzione del Corporate Average Fuel Economy (CAFE), il programma che stabilisce lo standard in termini di risparmio di carburante per le automobili, con una norma molto meno stringente: il Safer Affordable and Fuel-Efficient Rule (SAFE). Il programma CAFE, esistente fin dal 1975, venne utilizzato dall’Amministrazione Obama come strumento per limitare le emissioni di carbonio da parte delle automobili. Lo standard veniva stabilito dal Dipartimento dei Trasporti di concerto con l’EPA. L’Amministrazione Trump ha provato a capovolgere la decisione di Obama con il programma SAFE, ma ha scatenato una serie di azioni legali da parte di alcuni stati, come la California, che hanno perso il diritto a determinare i propri standard in maniera autonoma. Inoltre, sono in corso i lavori per la sostituzione del Clean Power Plan, un piano voluto da Obama che ha cercato di regolamentare il settore energetico, facendo in modo che le centrali a combustibile fossile finanziassero con i loro introiti le fonti rinnovabili.

Ulteriore esempio è la nomina di Scott Pruitt a capo dell’EPA, il quale, dopo aver rassegnato le dimissioni in seguito ad uno scandalo sull’utilizzo illecito di fondi pubblici, è stato sostituito da Andrew Wheeler, il suo vice. Entrambi sono scettici rispetto al cambiamento climatico e con un passato di stretti rapporti con i grandi business del petrolio e dei combustibili fossili (Davenport 2018).

Nell’annunciare il ritiro dall'accordo di Parigi, inoltre, Trump ha anche chiarito che tutti i contributi finanziari al Green Climate Fund (GCF) si sarebbero fermati (Jotzo et al. 2018). Prima di lasciare l'incarico, l’Amministrazione Obama effettuò il versamento di un miliardo di dollari al GCF, ma i rimanenti due miliardi dell'impegno degli Stati Uniti sono stati eliminati. Per Urpelainen e Van de Graaf (2018), il finanziamento delle politiche ambientali è una vulnerabilità chiave per la futura cooperazione sul clima: con gli Stati Uniti che si ritirano dai loro impegni, l'azione per il clima nei paesi in via di sviluppo, finanziata dal GCF, potrebbe risultare danneggiata e la fiducia nel sistema delle Nazioni Unite potrebbe essere erosa.

È opportuno chiedersi quali siano i possibili esiti di tale scelte nel medio termine. Per Wallach (2018) se Trump venisse rieletto nel 2020, non potremmo che aspettarci un periodo di lunga stagnazione delle politiche ambientali americane. Se invece Trump venisse sostituito da un leader democratico, questo potrebbe intraprendere un approccio a due vie: innanzitutto un approccio governativo, realizzando azioni attraverso le agenzie del potere esecutivo americano, come l’EPA o il Dipartimento dei trasporti che potrebbero ricominciare da dove Obama ha lasciato. Poi, con il consenso del Congresso, si potrebbero adottare strumenti di legislazione federale. Inoltre, i termini stabiliti Parigi hanno reso complessa l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo. L'articolo 28 dell'Accordo di Parigi specifica che un paese non può avviare un ritiro fino al terzo anno successivo all'entrata in vigore, vale a dire, per gli Stati Uniti, il 4 novembre

15 di 20

2019. Tale decisione entrerà in vigore un altro anno dopo, nel 2020, dopo le nuove elezioni presidenziali USA, che se sancissero l’elezione di un leader democratico gli permetterebbero di rigettare le scelte di Trump e di rientrare facilmente nell’accordo.

8. Conclusioni Dall’analisi comparata dei discorsi dei Presidenti degli Stati Uniti, intrecciata con le politiche adottate dalle rispettive amministrazioni, emergono chiare linee di continuità in ciascuna di esse. Il ruolo del mercato, degli strumenti e degli interessi economici è spesso sottolineato. Tuttavia, se per le amministrazioni democratiche e per l’amministrazione repubblicana di Bush Sr. il mercato e l’economia sono uno strumento per perseguire le politiche ambientali, ad esempio tramite accordi di libero scambio e il commercio delle quote di emissioni di gas serra; per le altre amministrazioni repubblicane gli interessi economici vengono contrapposti a quelli ambientali e vengono usati, discorsivamente, per giustificare il rifiuto di politiche in grado di contrastare il cambiamento climatico. Il concetto di leadership è stato fatto proprio dai Presidenti repubblicani per giustificare la propria posizione e mantenere la propria credibilità. I Presidenti democratici, invece, non hanno fatto ricorso a tale concetto. È possibile che uno dei motivi sia il dissenso interno al paese durante i periodi di amministrazione democratica, concretizzatosi in una differente maggioranza in seno al Congresso, che non permetteva loro di avere la legittimità per esercitare una posizione guida sul piano internazionale. È significativa, comunque, l’enfasi data dall’Amministrazione Obama al concetto di responsabilità e alla necessità di intraprendere azioni di contrasto al cambiamento climatico. Un altro strumento retorico utilizzato dalle amministrazioni repubblicane di Bush Jr. e Trump, per giustificare l’inazione in materia climatica, è stato quello dell’iniquità rispetto alle responsabilità e gli obblighi dei paesi in via di sviluppo e delle economie emergenti; tale questione, invece, era percepita come sfida da raccogliere dalle amministrazioni di Bush Sr. e Clinton. In particolare, l’argomento dell’iniquità è stato utilizzato dal Presidente Trump per rappresentare le economie emergenti cinese e indiana come nemiche, contrapposte all’economia americana; l’amministrazione di Bush Jr., pur avendo utilizzato lo stesso argomento, ha manifestato la volontà di proseguire sulla strada della cooperazione e, per giustificare l’inazione, ha dato maggior rilievo all’incertezza scientifica esistente all’epoca. Trump si è posto in linea di netta discontinuità in materia di politica ambientale rispetto alle amministrazioni precedenti, manifestando una forte chiusura rispetto alla all’assunzione di responsabilità e di impegni internazionali, nonché rappresentando la cooperazione internazionale come una minaccia per l’economia americana. La posizione espressa da Trump si è concretizzata in una serie di scelte politiche volte a indebolire il sistema di protezione ambientale presente negli Stati Uniti. Se nelle elezioni previste per il 2020 Trump venisse riconfermato, è prevedibile un periodo di stagnazione politica e legislativa in materia ambientale, ma se venisse eletto un presidente

16 di 20 democratico, le scelte di Trump potrebbero essere facilmente capovolte. Un nuovo Presidente, comunque, si troverebbe, probabilmente, ad affrontare lo stesso clima di scetticismo e dissenso che ha ostacolato l’azione delle amministrazioni di Clinton e Obama. La sfida per il contrasto al cambiamento, in ogni caso, non sarà da affrontare.

Bibliografia ragionata Documenti ufficiali:

Bush, George Herbert Walker. 1992. “Press Conference with President George Bush at Rio de Janeiro”. https://www.c-span.org/video/?26576-1/rio-earth-summit (consultato il 10 agosto 2019).

Bush, George Walker. 2001. “President Bush discusses Global Climate Change”. https://georgewbush- whitehouse.archives.gov/news/releases/2001/06/20010611-2.html (consultato il 10 agosto 2019).

Clinton, William Jefferson. 1997. “President Clinton's Remarks on Kyoto Protocol on Climate Change”. https://www.youtube.com/watch?v=Ibl63YlTtI4 (consultato il 10 agosto 2019).

Obama, Barack Hussein. “Remarks by President Obama at the First Session of COP21”. https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2015/11/30/remarks-president- obama-first-session-cop2 (consultato il 10 agosto 2019).

Trump, Donald John. “Statement by President Trump on the Paris Climate Accord”. https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/statement-president-trump-paris-climate- accord/ (consultato il 10 agosto 2019).

UNFCCC. 1997. “Kyoto Protocol to the United Nation Framework Convention on Climate Change”. https://unfccc.int/sites/default/files/resource/docs/cop3/07a01.pdf (consultato il 10 agosto 2019).

UNFCCC. 2009. “Copenhagen Accord”. https://unfccc.int/sites/default/files/resource/docs/2009/cop15/eng/11a01.pdf (consultato il 10 agosto 2019).

UNFCCC. 2015. “Adoption of the Paris Agreement”. https://unfccc.int/sites/default/files/resource/docs/2015/cop21/eng/10a01.pdf (consultato il 10 agosto 2019).

17 di 20

Manuali:

Bagliani, Marco e Egidio Dansero. 2011. Politiche per l’ambiente. Torino: UTET.

Sørensen, Georg, e Robert Jackson. 2014. Relazioni Internazionali. Milano: EGEA.

Monografie:

Bailey, Cristpher J. 2015. US Climate Policy. New York: Routledge.

Bowen, Mark. 2009. Censoring Science. New York: Dutton.

Bradley, Raymond S. 2011. Global Warming and Political Intimidation. Amherst: University of Massachusetts Press.

Bulkeley, Harriet, Liliana B. Andonova, Michele M. Betsill, Daniel Compagnon, Thomas Hale, Matthew J. Hoffman, Peter Newell, Matthew Paterson, Charles Roger, e Stacy D. Vandeveer. 2014. Transnational Climate Change Governance. Cambridge: Cambridge University Press.

Cass, Loren C. 2006. The Failures of American and European Climate Policy. Albany, NY: SUNY Press.

Fairclough, Norman. 1989. Language and Power. Edinburgh: Pearson.

Gelbspan, Ross. 1997. The Heat is On. Reading: Addison-Wesley.

Gelbspan, Ross. 2004. Boiling Point. New York: Basic Books.

Kolbert, Elizabeth. 2006. Field Notes from a Catastrophe. London: Bloomsbury.

Maniates, Michael and John M. Meyer (a cura di). 2010. The Environmental Politics of Sacrifice. Cambridge: MIT Press.

Mooney, Christopher. 2006. The Republican War on Science. New York: Basic Books.

Rahm, Dianne. 2009. Climate Change Policy in the United States. Jefferson, NC: McFarland & Company.

Saggi:

Layzer, Judith A. 2007. “Deep Freeze: How Business Has Shaped the Global Warming Debate in Congress” in Business and Environmental Policy a cura di Miachel E. Kraft e Sheldon Kamieniecki. Cambridge: MIT Press.

18 di 20

Articoli:

De Pryck, Kari e Gemenne, François. 2017. “The Denier-in-Chief: Climate Change, Science and the Election of Donald J. Trump.” Law and Critique, 28(2): 119-126.

Held, David e Charles Roger. 2018. “Three Models of Global Climate Governance: From Kyoto to Paris and Beyond.” Global Policy, 9: 527-537.

Jacques, Peter J, Riley E. Dunlap, e Mark Freeman. 2008. “The Organisation of Denial: Conservative Think Tanks and Environmental Scepticism.” Environmental Politics, 17: 349–85.

Jotzo, Frank, Joanna Depledge e Harald Winkler. 2018. “US and international climate policy under President Trump” Climate Policy, 18(7): 813-817.

Lee, Henry, Vicki Arroyo Cochron, e Manik Roy. 2001. “US Domestic Climate Change Policy,” Climate Policy, 1: 381–95.

McCright, Aaron e Riley E. Dunlap (2000) “Challenging Global Warming as a Social Problem: An Analysis of the Conservative Movement’s CounterClaims,” Social Problems, 47: 499–522.

McCright, Aaron e Riley E. Dunlap. 2003. “Defeating Kyoto: The Conservative Movement’s Impact on U.S. Climate Change Policy,” Social Problems, 50: 348–73.

McCright, Aaron e Riley E. Dunlap. 2010. “Anti-Reflexivity: The American Conservative Movement’s Success in Undermining Climate Science and Policy,” Theory, Culture, and Society, 27(2): 1–34.

McCright, Aaron e Riley E. Dunlap. 2011. “The Politicization of Climate Change and Polarization in the American Public’s Views of Global Warming, 2001–2010,” The Sociological Quarterly, 52: 155– 94.

Pubblicistica:

Revkin, Andrew C. 2002a. “US Sees Problems in Climate Change,” The New York Times, 3 giugno.

Revkin, Andrew C. 2002b. “With White House Approval, EPA Pollution Report Omits Global Warming Section,” The New York Times, 15 settembre.

Revkin, Andrew C. 2005. “Editor of Climate Reports Resigns,” The New York Times, 10 giugno.

Revkin, Andrew C. e Katharine Q. Seelye. 2003. “Report by EPA Leaves Out Data on Climate Change,” The New York Times, 19 giugno.

19 di 20

Sitografia:

Davenport, Coral. 2018. “How Andrew Wheeler, the New Acting E.P.A. Chief, Differs From Scott Pruitt”. The New York Times Online: https://www.nytimes.com/2018/07/05/climate/wheeler-epa-pruitt.html (consultato il 10 settembre 2019).

EDGAR. 2017. “Fossil CO2 & GHG emissions of all world countries, 2017”. https://edgar.jrc.ec.europa.eu/overview.php?v=CO2andGHG1970- 2016&dst=CO2emi&sort=des9 (consultato il 10 agosto 2019).

Gelbspan, Ross. 2005.“Hurricane Katrina’s Real Name,” New York Times Online: https://www.nytimes.com/2005/08/31/opinion/hurricane-katrinas-real-name.html (consultato il 10 agosto 2019).

Saporiti, Riccardo. 2019. “Oggi si sciopera per il clima. Ma le emissioni di CO2 continuano a crescere”. Il Sole 24 Ore Online: https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/03/15/oggi-si-sciopera- clima-le-emissioni-co2-continuano-crescere/?refresh_ce=1 (consultato il 10 agosto 2019).

UNTC. 2019. “Status of Treaties”. https://treaties.un.org/pages/ViewDetails.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=XXVII-7- d&chapter=27&clang=_en (consultato il 10 agosto 2019).

Wallach, Philip A. 2018. “Where does US climate policy stand in 2019?”. Brookings: https://www.brookings.edu/2019/03/22/where-does-u-s-climate-policy-stand-in-2019/ (consultato il 10 settembre 2019).

Fonti non pubblicate:

Migliaccio, Simona, Iris Bakerman, Pietro Alessandro Crisalide, Valeria Iannale e Giulia Trombetti. 2019. “Paris Climate Agreement: An analysis of Obama’s and Trump’s positions”

20 di 20