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Edizioni in Proprio 2

EiP

1 2 Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, Lorenzo Pezzoli

ISOLE E APPRODI

Percorsi psico-antropologici e formazione dell’operatore sociale

Edizioni in Proprio 2014

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EiP Edizioni in Proprio, casella postale 299 CH - 6818 Melano

Settembre 2014

4 Ai nostri studenti che sono e devono rimanere l’anima di ogni progetto formativo

“Gli antichi greci non scrivevano necrologi. Si ponevano una sola do- manda alla morte di un uomo ... Era capace di passione?” dal film “Serendipity” (Dean)

5 Scritture di Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, Lorenzo Pezzoli, Guenda Bernegger, Graziella Corti, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellan- dini.

Con il prezioso e paziente sostegno di Franca Martignoni, Mauro Arrigoni e Mosè Cometta che si sono dedicati alla rilettura, alla stesura e alla impa- ginazione di questo volume.

Un ringraziamento particolare a Ornella Manzocchi che ha curato l’editing di questo volume.

Questa pubblicazione esce grazie al contributo del Dipartimento di Eco- nomia aziendale, Sanità e Sociale (DEASS) della Scuola Universitaria Pro- fessionale della Svizzera Italiana (SUPSI), delle Edizioni Alice e del fondo costituito dal Premio Credit Suisse Award best teaching 2011 e 2012, Si- mulazione e apprendimento - Simulation-based learning ottenuto da Or- nella Manzocchi, Graziano Martignoni e Rosiney Amorin.

In copertina l’opera in bronzo Bea d’estate (2009) di Arnoldo Arrigoni e in filigrana una mappa di Lorenzo Pezzoli.

6 La mappa

Piatta come il tavolo sul quale è posata. sotto - nulla si muove, né cerca uno sbocco. sopra - il mio fiato umano non crea vortici d’aria e lascia tranquilla la sua intera superficie.

Bassopiani e vallate sono sempre verdi, altopiani e montagne sono gialli e marrone, oceani e mari - di un azzurro amico sui margini sdruciti.

Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata. Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani, accarezzare i poli senza guanti grossi, posso con un’occhiata abbracciare ogni deserto insieme al fiume che sta lì accanto.

Segnalano le selve alcuni alberelli tra i quali è ben difficile smarrirsi. a est e ovest, sopra e sotto l’equatore un assoluto silenzio sparso come semi, ma in ogni seme nero la gente vive. Fosse comuni e improvvise rovine sono assenti in questo quadro.

I confini s’intravedono appena, quasi esitanti esserci o non esserci?

Amo le mappe perché dicono bugie. Perché sbarrano il passo a verità aggressive. Perché con indulgenza e buonumore sul tavolo mi dispiegano un mondo che non è di questo mondo.

Wislawa Szymborska

7 L’ultima mia proposta è questa: se volete trovarvi, perdetevi nella foresta. Giorgio Caproni, Per le spicce

Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo Antigone, vv. 332/333

8 INDICE

Prefazione 14

1. Incipit 17 1.1. In cammino 22

2. L’operatore sociale: un’identità nomade 27 2.1. Identità, individuo e vita affettiva. Riflessioni psico-antropologiche attorno all’identità. Dalla vocazione alla professione 29 2.1.1 L’uomo in situazione 30 2.1.2 Un itinerario psico-antropologico 33 2.1.3 La Cura 36 2.1.4 La precarietà esistenziale 45 2.1.5 La fragilità 47

2.2. L’operatore sociale, un’identità nomade 52 2.2.1 Premessa 52 2.2.2. Un’identità nomade 55 2.2.3 Il carrefour identitario 62 2.2.4 L’Io multiplo 63 2.2.5 Il compagno segreto 64 2.2.6 I fantasmi di identità 68 2.2.7 Riassumendo in undici soste 76

2.3 L’operatore sociale sospeso fra orizzonte e dettaglio 81 2.3.1 Dalla vocazione alla motivazione 81 2.3.2 Sospeso fra orizzonte e dettaglio, fra paradigma psicoanalitico e dimensione fenomenologica 85

2.4 Appunti e spunti sull’operatore sociale nel fastello delle professioni di aiuto 96

2.5 A proposito di identità 100

9 3. Mappe di navigazione 103 3.1 “Individuo, identità e vita affettiva” 105 3.1.1 L’arcipelago identitario, Mappa del “Primo mondo” 105 3.1.2 Mappe di navigazione 106

3.2 “Individuo, identità e vita affettiva” 107 3.2.1 La lezione: Individuo, identità e vita affettiva 107 3.2.2 Tredici approdi 109 3.2.3 I seminari esperienziali 112

3.3 Identità e alienità 116 3.3.1 La lezione: epistemologia e clinica 117 3.3.2 I Seminari 121 3.3.3 La tragedia 122

3.4 Fenomenologia del gesto di “cura (psico)-educativa” nelle vicinanze della “follia”. Spazi di cura e gesti di ospitalità 124 3.4.1 Stazioni 126

3.5 L’origine 127 3.5.1 Incontri 130

3.6 Cura educativa e sofferenza psichica 132 3.6.1 Pratiche di intervento educativo. Incontrare il folle e la sua follia: dove, qando, come? 132

3.7 Cura di sé e cura dell’Altro: il percorso di supervisione 135 3.7.1 Premessa 135 3.7.2 Modalità della supervisione 136 3.7.3 Obiettivi della supervisione 137 3.7.4 Organizzazione e tempi della supervisione 138 3.7.5 Programma 138 3.7.6 Il setting in supervisione formativa 141 3.7.7 I coefficienti di trasformazione nella pratica discorsiva della supervisione formativa nelle professioni sociali 149 3.7.8 La costruzione condivisa della valutazione del percorso di supervisione; i coefficienti di valutazione 161 3.7.9 L’incontro con Pandora e il viaggio con Dafne. Riflessioni riguardanti il crinale fra supervisione formativa e psicoterapia psicoanalitica 173

Portfolio 203

10 4. Mappe di esplorazione 235 4.1 “La Nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo” 238 4.1.1. Cari “esploratori di terra e naviganti di mare” 239 4.1.2 Il pensiero complesso 240 4.1.3 Le mappe, i luoghi della “ragione sensibile” 240

4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto 242 4.2.1 Il volto e la maschera 242 4.2.2 Pedagogia del volto 243 4.2.3 Guardare in volto 246 4.2.4 Appunti e accenni sul trattenere e distogliere lo sguardo 250 4.2.5 Estetica della relazione di aiuto e di cura: la metafora del ritratto 259

4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona 271 4.3.1 Programma 271 4.3.2 Una notte al castello, raccontare il cammino, percorrere le storie 273 4.3.3 Le notti e le aurore delle navigazioni identitarie 276 4.3.4 La ricaduta, una “abitatrice degli incroci”, tra percorso tossicomanico e viaggio terapeutico 281 4.3.5 La caduta e l’inciampo 286 4.3.6 Sulla retta via non ci va nessuno. Riflessioni su arte, normalità, disabilità 291 4.3.7 Una notte nel castello, la notte - il momento della partenza 300

4.4 Al Cimitero di Lugano 305 4.4.1 Programma 305 4.4.2 Una violetta al camposanto 306 4.4.3 Non esistere più 308 4.4.4 Perdere la morte, stanza con vista 310

4.5 Al Teatro Sociale di Arogno 313 4.5.1 Programma 313 4.5.2 Fabula docet 314

4.6 Ai musei di Torino di antropologia criminale e di anatomia umana 342 4.6.1 Programma 342

11 4.6.2 Sguardi sull’umano e le sue metamorfosi 342 4.7 Alle grotte della Valle Imagna 350 4.7.1 Programma 350 4.7.2 Fra psiche e soma, l’esperienza della “cesura” 357 4.7.3 Nascimento ama nascondersi 359 4.7.4 Vivere sotto terra 363 4.7.5 Grotte e acque dormienti come metafore del vivere e del morire 365 4.7.6 La Terra e le sue aperture 368

5. Excipit 385 5.1 Alla scoperta della metafora dell’operatore sociale 387 5.1.1 La metafora e l’identità dell’operatore sociale 391

5.2 Per un’etica del quotidiano o dell’incontro tra la Cura e la solidarietà 397 5.2.1 La perdita del quotidiano 397 5.2.2 Stare tra i tempi, “une paix armée” 401 5.2.3 L’etica della quotidianità: per una quotidianità solidale 404

Per ricominciare 407

Per una bibliografia possibile 413 Mappe di navigazione 415 3.1 Individuo, identità e vita affettiva 415 3.3 Identità e alienità 417 3.4 Fenomenologia del gesto di “cura (psico)-educativa” nelle vicinanze della “follia” 422 3.5 L’origine 423 3.7 Cura di sé e cura dell’Altro: il percorso di supervisione 434

Mappe d’esplorazione 436 4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto 436 4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona 437 4.4 Al Cimitero di Lugano 438 4.5 Al Teatro Sociale Arogno 439 4.7 Alle grotte della Valle Imagna 441

Utilità 443

12 Al Museo Vincenzo Vela, gesso, “Le vittime del lavoro” 1882, Vincenzo Vela

Ornella Manzocchi, Lorenzo Pezzoli, Graziano Martignoni, Lorenzo Pellandini, Claudio Mustacchi

13 Prefazione Wilma Minoggio

Nei numerosi anni di esperienza quale docente, prima, e di direttrice di Dipar- timento, poi, il tema della formazione ha costituito per me un costante ambito di interesse. Ho vissuto e partecipato ad un susseguirsi di dibattiti, confronti e a volte anche di dispute, attorno alle variegate sfaccettature relative al profilo di insegnan- te. In questa breve introduzione non ho la presunzione di analizzare o sintetizzare le svariate scuole di pensiero o di entrare nella specificità dei diversi contribuiti teorici su queste problematiche, quanto piuttosto di riprendere alcuni aspetti che ritengo più significativi del dibattito attorno alla figura del docente. Ho assistito alla crescente insistenza di una certa contrapposizione tra una visione umanistica nel concepire il lavoro di docenza e quella legata ad una concezione ingegneristica e tecnicistica di tale mestiere. Inoltre, nel paradigma dell’insegna- mento, basato principalmente sulla trasmissione del sapere e sul ruolo centrale del docente, si è vieppiù inserito il paradigma dell’apprendimento, che tende invece a sottolineare l’importanza del ruolo attivo dello studente nel processo di acquisizio- ne di nuovi traguardi conoscitivi. Se per anni l’insegnamento si è centrato sulla costruzione di saperi, di conoscenze e di nozioni, oggi predomina l’orientamento verso l’acquisizione di competenze, capacità e abilità. Negli ultimi decenni, il modello classico della trasmissione del sapere si è visto confrontato anche con l’irruzione e la pervasività delle nuove tecnologie dell’infor- mazione e della comunicazione, le quali hanno contribuito in modo sostanziale a quella che oggi viene definita la società della conoscenza. uest’ultimaQ rimette profondamente in questione, grazie a strumenti e modalità di interazione sempre più rapidi, performanti e globalizzati, il modo di informarsi, di apprendere e di educare dell’uomo e del cittadino contemporaneo. All’interno di questo scenario, in costante mutamento, appare quindi chiaro che insegnare è un compito sicuramente non facile ed è altresì comprensibile un certo smarrimento da parte di chi esercita questa professione, in bilico tra, da una parte, la riproduzione di un insegnamento di tipo tradizionale che offre sicurezza e linea- rità e, dall’altra, il desiderio di intraprendere nuove vie e inedite sfide assumendosi anche le incertezze e i dubbi che ne derivano. Ho avuto l’occasione, in questi anni, di entrare nelle aule per assistere a lezioni di orientamenti disciplinari diversi e impostate mediante differenti approcci didat- tici. Alcune volte ne sono uscita un po’ sfiduciata, ma comunque sempre sorretta dalla convinzione che si potesse giungere a risultati migliori con strumenti ap- propriati e la volontà di imparare/ perfezionare il mestiere. In altre occasioni, ho avuto conferma che ci sono e vi saranno anche in futuro insegnanti “capaci” e di valore. Più volte mi sono chiesta: che cosa contribuisce a rendere un docente “capa- ce”? Non vi è in me la pretesa di proporre un profilo ideale o universale del docente, in quanto non credo neppure che ve ne sia uno. Intendo semplicemente delineare alcuni orientamenti che possano contribuire a favorire una relazione proficua tra insegnamento e apprendimento all’interno di un contesto universitario professio- nale, di cui facciamo parte. Partendo da una citazione di A. Einstein “È l’arte suprema dell’insegnante a ri- svegliare la gioia della creatività e della conoscenza”, sottolineerei innanzitutto la dimensione culturale della professione docente, che comprende senza dubbio la padronanza dei fondamentali delle discipline oggetto di insegnamento: saperi che vanno però aggiornati regolarmente, nonché tradotti e rivisti nell’ottica della loro “insegnabilità”. Sicuramente, ciò che l’insegnante veicola maggiormente con la sua persona e il suo atteggiamento è la passione verso la disciplina, l’approccio convinto e convincente alla materia, che è anche e soprattutto metodo conoscitivo fondato su problemi reali e questioni esistenziali rilevanti. “Il sapere che viene dall’esperienza, non prende forma come semplice conseguen-

14 za del partecipare ad un contesto di esperienza, ma presuppone l’intervento della ragione/riflessione” L. Mortari 20031. Questa citazione mi permette di eviden- ziare un secondo aspetto importante per chi insegna all’interno di una università orientata alla professionale. L’apprendimento esperienziale individuale e collettivo costituisce un fattore indispensabile e si esprime con il termine di “Erlebnis” che ha come radice il termine “leben” a indicare l’esperienza vissuta, connotata di stati d’animo particolarmente coinvolgenti, allo scopo di creare quelle condizioni di “sfondo” per supportare al meglio l’impegno intellettuale e di ricerca. Ma queste esperienze si traducono in patrimonio di conoscenza e di condivisione solo se alla dimensione emotiva, legata ai vissuti dei singoli, si alternano approcci cognitivi e riflessivi che consentono una messa in relazione dei concetti e delle teorie di ri- ferimento, così da tradurre l’apprendimento esperienziale in un bene culturale e sociale comune. Dal punto di vista psicopedagogico, particolare rilevanza rivestono le transazio- ni interpersonali, che costituiscono il fondamento di qualsiasi processo formativo. La capacità di coinvolgimento personale nella relazione educativa, nonché una positiva comunicazione e interazione con il gruppo e con il singolo, costituiscono elementi essenziali della professionalità docente. Si tratta di dimensioni indispen- sabili, che vanno curate con particolare attenzione se non si vuole correre il rischio che le istituzioni universitarie si riducano ad una sorta di non-luoghi, di nuovi supermercati volti all’acquisizione di crediti e di diplomi secondo una logica essen- zialmente utilitaristica e consumistica. Per evitare ciò, ci vengono in aiuto tutta una serie di metodologie didattiche e strumenti organizzativi che consentono di progettare ambienti di apprendimento in cui dare centralità alla motivazione, alla cooperazione, alla condivisione alfine di creare scenari di fiducia e di sostegno reciproco tra studenti e docenti. Infine, vorrei sottolineare la necessità, da parte del docente, a fronte di questo complesso ma altrettanto stimolante compito, di condividere e costruire una pro- gettualità istituzionale in cui egli non navighi da solo ma trovi, nel lavoro di team con i colleghi, delle opportunità di confronto, di partecipazione attiva all’interno di un percorso di coerenza e di senso per sé e per gli studenti. “Certi sogni possono diventare realtà solo se si impara a condividerli con gli altri, attraverso l’ascolto e il dialogo continuo, in un lavoro di “lenta costruzione”, D. Pavarin 20042. Il presente “Diario di viaggio e di memoria”, costruito e sperimentato sull’arco di diversi anni nel corso di laurea in lavoro sociale, declina l’approccio “psico-antropo- logico” all’interno di una narrazione che affronta aspetti fondamentali dell’identi- tà dell’operatore sociale e delle fragilità umane. Ritengo che questo racconto rappre- senti una tangibile testimonianza della possibilità di co-costruire, a più mani e a più voci, un’avventura formativa nella quale si ritrovano diversi elementi evocati in questa prefazione. Vi ritroviamo la centralità delle conoscenze e dei saperi che costituiscono la tela di fondo e orientano l’agire dell’operatore sociale, la volontà di integrare la dimensione emozionale con quella esperienziale in una costante dialettica tra teoria e pratica, tra vissuti individuali e rielaborazioni collettive. Ma alla radice di questo consistente e impegnativo lavoro ritroviamo la forte passione per l’arte di insegnare, che spero abbia sprigionato negli studenti e nelle studentesse il desiderio, la voglia e la curiosità di apprendere. Questo almeno è il mio auspicio: che i promettenti semi gettati qui, possano dare prima o poi succulenti e sostanziosi frutti nelle pratiche professionali di coloro che hanno ricevuto questi stimoli, con dei riverberi pure nei contesti più allargati della loro quotidianità esistenziale.

1 Mortari L. (2003), Apprendere dall’esperienza. Il pensiero riflessivo nella formazione, Carocci, Roma 2 Pavarin D (2004), Citazione ripresa dell’intervento alla giornata studio - Cooperative Learning. Esperienze e nuovi scenari, Torino 2004

15 16 1. Incipit

17 18 1. Incipit

Viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra. Claudio Magris “L`infinito viaggiare “ L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi M. Proust “Alla ricerca del tempo perduto”

Questo non è un libro con ambizioni di completezza, ma piut- tosto e più modestamente un diario di viaggio, una sorta di isola- rio, scritto a più mani e composto da frammenti che compongono immaginarie mappe. Un isolario per pensare all’identità nomade e meticcia dell’operatore sociale posto di fronte alle sfide della tar- da-modernità, ma anche alle antiche peripezie esistenziali a cui la vulnerabilità e la fragilità dell’uomo, ieri come oggi, espone. La scultura di Arnoldo Arrigoni proposta nell’immagine di copertina sembra raccontare proprio l’arrière-pays di questo nostro viaggio per isole in cui scoprire e condividere la forza del giunco, la vento- sa leggerezza del metallo e il necessario incontro di figure umane, che dicono il valore della solidarietà e della fratellanza. «Mappe di navigazione» e «mappe di esplorazione» dunque, che riassumono un cammino comune, in aula e fuori dall’aula in quelle iniziative che abbiamo chiamato extra moenia. Un cammino attorno agli intrecci e agli intrighi psico-antropologici posti da un importante settore del curriculum studiorum dell’operatore sociale. Mappe per pensare al senso stesso dell’azione sociale a cui è orientata una formazione accademica vicina al territorio e con forte vocazione professiona- lizzante. Tra queste pagine appaiono orizzonti da raggiungere, ma anche soste e approdi, in cui, al sopraggiungere della sera, quando ci si raccoglie attorno al fuoco, si mettono in comune le emozioni,

19 le difficoltà, ma anche le scoperte fatte durante la navigazione e si comincia ad immaginare quello che succederà l’indomani. Un gruppo di naviganti (i sottoscritti con Claudio Mustacchi, Loren- zo Pellandini, Guenda Bernegger e altri compagni di viaggio3) ha condiviso in questi anni, ognuno con le proprie particolarità, un’i- dea anti-procedurale e anti-protocollare della formazione dell’ope- ratore sociale, valorizzando, accanto alla razionalità positiva e cal- colante delle scienze sociali, altre forme della razionalità di uguale significato teorico e pratico sullo sfondo di una forte pre-occupa- zione etica. Razionalità poietica e melodica come suggerito da Ma- ria Zambrano, razionalità immaginativa (H. Corbin), razionalità sensibile (M. Maffesoli) e razionalità narrativa: forme diverse della razionalità teorico-pratica, fondanti un vero e proprio ethos del la- voro sociale. Forme della razionalità che necessitano, nella forma- zione di pensieri, di luoghi e di modi in cui fare esperienza, della propria creatività, dei propri sensi, della propria immaginazione e non da ultimo della propria capacità di accogliere l’imprevisto e l’inatteso in modo che il progetto educativo di aiuto e di cura divenga prima di ogni cosa opera. È qui che si colloca la categoria di «cura educativa», nella sua matrice antropo-fenomenologico-e- sistenziale, che ispira sullo sfondo il nostro percorso. Un percorso formativo e di crescita personale (si studia non solo per apprendere nozioni o competenze ma per divenire migliori, questo il nostro motto) capace di dipanarsi tra esperienza-vita con particolare attenzione all’emozionale e all’Er- leben o Er-lebnis ed esperienza-viaggio (Er- fahren, viaggiare).

Ma tutto ciò aveva bisogno di un contesto favorevole per nascere e crescere. Il contesto in cui sono nate queste riflessioni è stato infat- ti quello del Dipartimento di lavoro sociale e poi di Scienze aziendali e sociali (DSAS) della Scuola universitaria professionale della Sviz- zera italiana (SUPSI) nata nel 1998. Un pensiero va a tutti coloro che sono stati i veri e propri compagni di strada di questi anni (1998-2014). A coloro che hanno saputo creare un clima di lavoro in cui è stato possibile praticare la triplice arte, sensibile e preziosa,

3 Nel corso di questi anni accademici ( 1998-2014) hanno collaborato alla costruzione e allo svolgimento delle attività presentate i nostri assistenti a partire da Cinzia Campiello e Giona Morinini, poi sostituiti da Michela Nussio e Rosiney Amorim, e infine per stare all’oggi da Camilla Leoni e Elisa Milani.

20 del pensare, del sognare e del progettare. Un ringraziamento parti- colare va a Wilma Minoggio, nostra direttrice di dipartimento, che ha saputo stimolare in questi anni fondativi l’innovazione, proteg- gere le idee buone, guidare i percorsi di tutti noi. Ma vi è qualcosa di ugualmente prezioso da ricordare. La presenza e il contributo dei nostri tanti studenti, molti di loro attivi oggi come operatori sociali sul territorio, che sono stati per tutti noi un appassionato e creativo equipaggio. A tutti buon vento!

Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi, Lorenzo Pezzoli Manno, 4 luglio 2014

21 1.1. In cammino Graziano Martignoni Mi accorgo sovente di stare sulla soglia: come se ci fosse vicino al confine, un fiato, un tenue filo. Come se fossi qui in parte, in parte altrove. Simultaneo e ubiquo, plurale e singolare assieme D. Giancane, La soglia

Le pagine a più voci di questo libro raccontano di un cammino vissuto da collettivo4, del tutto informale all’interno del Corso di laurea in Lavoro sociale del Dipartimento di Scienze aziendali e so- ciali (DSAS) della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), che si è riconosciuto in due sguardi, quello di una pedagogia fenomenologico-esistenziale e quello di una lettura psico-antropologica della realtà sociale. Due modi del pensiero in cui orientare la figura dell’operatore di aiuto e di cura. Il percorso formativo è fatto di incontri, di soste, di transiti ma soprattutto di direzioni di senso. Nell’ambito del curriculum studiorum offerto dal DSAS si coagulano, - a partire dalla riflessione sui mondi sociali e psichici e sulle loro interrelazioni, proprio nel momento in cui si assume come guida il paradigma della complessità e della trans-di- sciplinarietà, che decreta la messa tra parentesi delle tradizionali separazioni disciplinari, - nuovi aggregati tematici e nuove strade. Una di queste è certamente quella che chiameremo qui psico-an- tropologica. Un asse teso a mettere in luce i legami, gli intrecci, gli intrighi ma anche le aporie del rapporto tra dimensione individua- le e dimensione socio-culturale, tra psiche e società sullo sfondo di

4 Vi hanno collaborato oltre ai curatori di questo testo Guenda Berneg- ger, Claudio Mustacchi e Lorenzo Pellandini.

22 un mondo che muta velocemente. Un mutare delle sensibilità in- dividuali e collettive dentro nuovi processi di soggettivazione e di socializzazione. Si dipanano così, lungo i tre anni di corso, i fili che tengono unite le diverse isole di questo arcipelago. Al centro del percorso l’idea di cura educativa, come orizzonte teorico, etico e in- sieme operativo. Questo documento vuole essere una sorta di car- tografia immaginaria sempre in movimento di queste nuove terre con uno sguardo attento all’uomo in situazione, che le abita. Mappe di navigazione e mappe di esplorazione fondate sul valore formati- vo della pratica teorica, che ritrova i fondamenti dei nostri Saperi mescolandoli, dei nostri Codici e delle nostre Parole, ma anche sul- la dimensione dell’apprendere attraverso l’esperienza e il vissuto. Identità, alterità, alienità, precarietà, vulnerabilità e cura indicano le tappe di un cammino attorno alla questione dell’incontro/scon- tro con l’Altro e l’Altrui, nella dialettica tra forme dell’accoglienza e del rifiuto, dell’appartenenza e dell’esclusione. Un cammino nell’orizzonte della cura educativa, in cui l’operatore sociale diviene una sorta di vero e proprio specialista della quotidia- nità, capace di accogliere la sofferenza dell’uomo che lo chiama, di accompagnarla, di sentire il vento della speranza anche quando tutto si è spento, di muoversi come brezza primaverile nella palude e di gioire quando le canzoni più belle della vita ricominciano a farsi sentire. Approdi quelli raccontati da questo libro collettaneo in cui soggiornare nell’“ordine del cuore”5 e contemporaneamente in quello di un Sapere nomade che si nutre, come suggerisce Maria Zambrano, dei frutti di un pensiero melodico6 e di un’epistemologia dell’accoglienza, perché di fronte alla vita di un uomo che soffre nel corpo, nell’anima e nel mondo, dell’uomo escluso, umiliato, di- sperso non possiamo che tendere la nostra mano, perché tu, come recitano le parole di Mario Sgalambro nella canzone “La cura” di Battiato, sei un essere speciale.

5 Il termine è suggerito dal libro di R. De Monticelli, L’ordine del cuore, Garzanti, Milano, 2003.

6 A questo proposito cfr. G. Martignoni, “Le Medical humanities, un pensiero orientale?”, in Rivista per le Medical humanities, Lugano, III, 11, pagg. 78-85, 2009. Per un riferimento all’epistemologia dell’accoglienza cfr. i lavori illuminanti di Maria Zambrano, in particolare (1977) Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano, 2004 e (1989) Delirio e destino, op.cit.

23 Itaca Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, nè nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro. Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti. Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. Costantino Kavafis

Rivelami ciò che ami veramente, ciò che cerchi e a cui aspiri con tutto il tuo desiderio quando speri di trovare la tua vera gioia e con ciò mi avrai spiegato qual è la tua vita. Quello che ami, tu lo vivi. Questo amore rivelato è appunto la vita, la radice, la sede e il centro della tua vita. Johann Gottlieb Fichte, Iniziazioni alla vita beata

Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore. Matteo 6, 21

24 25 26 2. L’operatore sociale: un’identità nomade

27 28 2. L’operatore sociale: un’identità nomade 2.1. Identità, individuo e vita affettiva. Riflessioni psico-antropologiche attorno all’identità. Dalla vocazione alla professione Graziano Martignoni

Un’antropologia non frammentata dovrebbe mostrare che l’uomo è (e non solo) corpo (soma), anima (psyché), comunità (polis), e mondo (aion), a cui dovremmo aggiungere spirito (peuma). R. Panikkar

Nella vita psichica del singolo l’Altro è regolar- mente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico e pertanto in questa accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io

Au commencement est la relation, qui est une catégorie de l’être, une disposition à l’accueil, un contenat, un monde psychique; c’est l’apriori de la relation, le Tu inné. M. Buber

L’evento è senza ragione, senza fondamento, senza fondo. Arriva e accade in un incontro. Ma se vi è incontro, vi è incontro sempre con un altro, mai con l’alterità in generale. Henri Maldiney

Solo perché tu e io -in quanto appartenenti l’uno all’altro- siamo già nel noi, io appartengo al luogo dove sei tu; sono in grado di essere là dove sei tu; può, là dove sei tu, sorgere un luogo per me. L. Binswanger

29 2.1.1 L’uomo in situazione L’uomo contemporaneo sembra abitare le profonde e veloci tra- sformazioni sociali, culturali e psicologiche in atto sottoponendo la propria interiorità e la propria identità personale al rischio di frantumazioni dolorose, di nuove forme della sofferenza. La na- vigazione tra le costellazioni del suo mondo interno e le trame della sua dimensione storico-biografica da un lato e il contesto antropologico, sociale e istituzionale dall’altro si fa avventurosa, aperta al rischio ma anche a nuove possibilità. L’operatore sociale è così testimone nelle retrovie degli sconfitti, dei perdenti, di chi vive le difficoltà dei tempi di passaggio della vita, proprio di que- sta navigazione. Nella relazione d’aiuto e di cura si orienta così la riconquista di una soggettività progettuale spesso smarrita o ferita dentro le malattie del corpo, della mente e della socialità. Lo specifico campo del lavoro sociale e la centralità in esso della relazione d’aiuto e di cura pone come filo conduttore della forma- zione la tematica fondamentale dell’incontro e dell’apertura all’Al- tro, che richiede la costante capacità di saper costruire e di “stare” dentro lo spazio dell’intersoggettività essenzialmente attraverso la categoria dell’azione, colta nel suo generarsi, nel suo costituir- si concretamente e nella sua processualità lungo l’asse del tempo. Questo “filo rosso” guida lo studio dell’“uomo in situazione” ovvero dell’uomo nel suo “stare di fronte” al bisogno, alla sofferenza e alla malattia, infine alla “mondanità” del suo “essere-nel-mondo”. Il lavoro sociale con le sue strategie relazionali e istituzionali tende ad accogliere proprio la fragilità di questo “uomo in situa- zione” e del suo mondo allo stesso tempo intimo e pubblico nella dimensione profonda e complessa della quotidianità, facendo così dell’operatore sociale uno “specialista della quotidianità”. Una quo- tidianità che si nutre delle categorie d’accoglienza, d’ospitalità e di capacità d’ascolto, di co-costruzione di un nuovo progetto di vita e di lavoro. La formazione e l’identità professionale dell’operatore so- ciale dovrà, dentro la complessità ma anche la disseminazione della realtà quotidiana, avere cura proprio di questo “esporsi”, “darsi” e “ritrarsi” continuo di fronte a chi bisognoso, ferito nell’anima e nel corpo o semplicemente smarrito, chiede allo stesso tempo presenza e professionalità e rivendica il suo diritto a dirsi ed a continuare ad essere pienamente cittadino.

30 Questa condizione esistenziale non appartiene solo alla povertà, che le generazioni passate avevano dolorosamente conosciuto, ma piuttosto alla “miseria” che attraversa molte sfere della nostra a vol- te persino gaia quotidianità. Infatti vi sono dentro la nostra quoti- dianità i segni di una condizione umana che non dipende solo da ragioni socio-economiche, che stanno oramai sotto gli occhi di tut- ti, ma da un male più profondo. Un male, che fa dell’oscuramento del futuro la gabbia del nostro presente, se così mi posso esprime- re, e che è più sotterraneo e svela la trasformazione di alcuni “in- dicatori identitari” fondamentali, che definiscono storicamente, di epoca in epoca insomma, che cosa sia un uomo. Un uomo, la cui identità è costretta a divenire sempre più fluttuante, senza territori d’appartenenza certi, senza “casa”, senza memoria per essere suffi- cientemente flessibile,“liquida” , come scrive Bauman7, disponibile alle infinite mutazioni di una vita dominata oramai sempre più dalla virtualità, dai tecno-organismi e da una sorta di tecno-imma- ginario (Balandier). Qui liquido significa senza limiti, senza refe- renti, una condizione per gli uni creativa e adatta ai viaggi virtuali, a divenire “internauti”, per gli altri condizione di smarrimento e di solitudine. È proprio attorno a queste questioni che qualcosa è an- dato mutando senza nemmeno che ce ne accorgessimo. Proviamo a pensare, ad esempio, ad alcune caratteristiche, che sempre più ci vengono richieste come qualità necessarie da spendere sul mercato del lavoro e dell’immagine di noi stessi. Ci è chiesto infatti di esse- re sempre più flessibili, veloci, intercambiabili, de-territorializzati, senza inutili nostalgie di “casa”, costantemente connessi alla rete, permanentemente raggiungibili, senza limitanti protezioni sociali, per poter pienamente partecipare o avere l’illusione di condividere almeno per un attimo, - poi domani potrai trovarti con una let- tera di licenziamento per ristrutturazione o fusione - alla grande “movida mercantil-comunicativa” dei nostri giorni. “Changez de peau quand vous voulez”, titola la rubrica di multimedia del Figa- ro. “Chi non ha mai avuto il sogno di cambiare pelle, vita identità e di potere evolvere in un universo dove tutto è possibile?” Questo il mondo dell’uomo fluido, portatore di un’identità a cui non è più richiesta profondità, basta l’orizzontalità della rete a cui rimanere

7 Su questo tema cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2003 e Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari, 2006

31 connessi, pena il suo spegnimento. E di questi drammatici spegnimenti oggi ne vediamo purtroppo molti nelle sofferenze del corpo e dell’anima, quando l’illusione di partecipare da attori e da vincitori, come si sforzavano di dir- ci i “sapienti imbonitori” del moderno management, alla grande “abbuffata” finanziario-comunicativo-tecnologica, si riduceva in lettere di licenziamento. Effetti collaterali della flessibilità? Un mio paziente, divenuto tale dopo essere stato scacciato dalle logiche della flessibilità mercantile, che ricordano l’antico detto“homo ho- mini lupus”, e dal “banchetto economico-finanziario” che lo aveva visto per un po’ protagonista, mi faceva tempo fa un’amara osser- vazione. Aveva letto sul giornale della morte per suicidio di uno di quei freddi e calcolanti “sacerdoti” della nuova economia, che lo aveva gettato via senza troppi scrupoli dopo molti anni di lavoro, divenuto vittima anche lui probabilmente di un mondo e di valori che credeva di rappresentare e di cui pensava di fare parte. La flu- idità, la velocità, l’impossibilità di assentarsi, che riduceva sovente il tempo libero o quello da passare in famiglia a tempo collaterale al lavoro e condizionato dal lavoro e ancora la produttività ad ogni costo, l’illusione di appartenere ad una nuova, effimera ed elita- ria “tecnocrazia”, si sono trasformati lentamente in veleno. Così quell’uomo, che aveva con fatica ricostruito un diverso orizzonte alla vita dopo la sconfitta, svelando la falsità di quei valori, poteva ora guardare con compassione la triste fine di colui che l’aveva messo fuori dall’oggi al domani. Ma che cosa sta alla di tutto ciò? La sola e antica avidità umana in versione post-moderna o la stupidità che crede che il mondo migliore si fonderà su di un mondo più cinico, più op- portunista o più selettivo? Il virus, che sta alla base di tutto ciò appartiene però più fondamentalmente alla patologia del tempo. Abitiamo infatti un mondo che ha profondamente e lentamente modificato l’idea stessa di tempo, che come una tela ci avvolge e ci fa scorrere tra la memoria e l’attesa. Siamo oramai nel dominio del tempo puntiforme che tutto esaurisce nell’attimo e ci consegna all’immobilità mascherata dalla frenesia con cui viviamo artificio- samente la quotidianità. Un tempo che implode in se stesso, men- tre abbiamo l’impressione, che vada velocissimo, sempre più velo- ce. Come può essere pensato, accanto alle ristrettezze economiche,

32 un progetto di vita e di lavoro, che impone comunque un’idea di futuro quando il tempo si esaurisce nel presente, unica temporalità che ha veramente valore, tanto da far affermare ad una pubblicità per un club di vacanze “Si tu dors, t’es mort”! Ma vi è una speranza possibile, quella che un tempo chiama- vamo e vivevamo come un’utopia? Una speranza legata alla voglia di resistere. Un speranza che apre lo spazio del futuro, che si co- struisce infatti nel passato e si attualizza nel presente. Le diverse temporalità della vita si compenetrano infatti attorno al nucleo del presente che è fatto di attimi, che hanno in sé la forza del movi- mento. Ma muoversi fuori di sé significa emozionarsi. Ma è ancora possibile emozionarsi quando viviamo in un tempo in cui l’emo- zione è appiattita nell’indifferenza o nel banale sentimentalismo da telenovela? Quando si ragiona sul futuro e sul possibile bisogna chiedersi sempre di che cosa si parla. Se è vero che siamo una ge- nerazione che non può più assicurare ai figli un futuro migliore del proprio, ed è la prima volta da molti decenni, è anche vero che ci nutriamo paradossalmente di una ideologia del cambiamento e del possibile. L’esito di questa contraddizione sociale è duplice. Da una par- te l’inganno, che una volta svelato fa scivolare nell’indifferenza, nell’impotenza, nella frustrazione o nella frenesia di cogliere l’atti- mo, il carpe diem, come se nulla fosse più garantito, come se stes- simo tutti sul bordo di un disastro, mentre il disastro è già dietro di noi mentre stiamo sul quel bordo. Dall’altra al contrario resta l’apertura alla speranza che ha bisogno di un uomo critico e capace di resistere alle seduzioni di un mondo, che si vende così spesso per un piatto di luccicanti lenticchie alla moda.

2.1.2 Un itinerario psico-antropologico La riflessione psico-antropologica ha come obiettivo lo studio dell’uomo e della sua soggettività (cognitiva, affettiva e simbolica) nel suo manifestarsi biologico, culturale e psicologico-psicopatolo- gico (le varie declinazioni delle discipline psicologiche individuali e sociali), sullo sfondo storicamente determinato del confronto dialettico tra normalità e non-normalità, tra biologia, psiche e sto- ria … Un curriculum formativo che si colloca a pieno titolo nell’al-

33 veo di una storia della civilizzazione, delle sue rappresentazioni e delle sue pratiche sociali. Si occupa inoltre delle perturbazioni di questo manifestarsi della esistenza umana nelle malattie del corpo, della mente e della socialità. Tuttavia lo specifico campo del lavoro sociale e la centralità in esso della relazione di aiuto, di cura e di progetto, dentro l’area istituzionale e territoriale, pone come filo conduttore dell’insegnamento la tematica fondamentale della re- lazione e dell’incontro con la presenza dell’Altro (come alterità e come alienità) e quella conseguente della intersoggettività attraver- so essenzialmente la categoria dell’azione, colta nel suo generarsi, nel suo costituirsi concretamente e nella sua processualità lungo l’asse del tempo… La categoria dell’azione incontra quella dell’uomo in situazione. Il lavoro sociale con le sue strategie relazionali e istituzionali den- tro la quotidianità tende ad accogliere l’“uomo in situazione” nella sua doppia dimensione di fragilità e di creatività. Il campo psico-antropologico si struttura così in alcune costel- lazioni interdipendenti, che attraversano le diverse materie disci- plinari : • quella di una lettura della tradizione e dello sviluppo della civilizzazione attraverso cui la soggettività umana si è manifestata; • quella dell’“uomo in situazione” nella sua dimensione emozio- nale e nell’orizzonte intenzionale della sua azione; • quello dello studio dell’uomo nella sua dimensione psicologica generale ed evolutiva; • quella delle costellazioni storiche-antropologiche (simboliche) in cui è collocata la sua esistenza individuale, familiare e sociale; • quella delle forme fondamentali con cui si manifesta l’esisten- za umana; • quella delle forme e delle classificazioni delle perturbazioni e delle malattie somatiche, psichiche e sociali (“mente-corpo-mon- do”) e quella dei modelli di interpretazione dei fenomeni psichici; • quella dell’istituzionale, che introduce nel rapporto intersog- gettivo la dimensione della gruppalità e della culturalità; • quella della dimensione etica, che non solo ogni relazione all’Altro contiene ma di cui è in se stessa fondativa; • quella di una “teoria della prassi” sull’esperienza di lavoro rac- colta durante gli stages con vertice relazionale-clinico-psicosociale;

34 • quella dei percorsi di identità dell’operatore sociale, dall’iden- tità personale, all’identità professionale a quella relazionale.

Il curriculum formativo si prefigge dunque di mettere lo studen- te nella condizione di praticare nel lavoro sociale uno “sguardo psi- co-antropologico” capace di leggere i diversi momenti della realtà antropologica, sociale e psicologica in cui l’uomo è posto e trarne da ciò l’orizzonte della sua azione professionale. Questa acquisizio- ne emozionale e conoscitiva ha al suo centro quell’esercizio critico del pensiero e della conoscenza, su cui il curriculum formativo do- vrà costantemente vigilare. Il sociale e i suoi attori formano uno spazio-corpo vivente, che implica un’idea di uomo e di organizzazione sociale, un’etica, una politica prima ancora che una pragmatica. Appare così chiaro, pa- rafrasando X. Roegier in Savoirs, capacité et compétences à l’école: une quête de sens (1999), che la formazione dell’operatore sociale deve concorrere alla costruzione di un sistema di valori, sollecitare l’uso della facoltà critica e dare strumenti per uno sviluppo armo- nico della persona chiamata poi alla relazione di aiuto e di cura, essa dunque non può limitarsi a sviluppare competenze.

Prima tesi: L’uomo è sottoposto a un determinismo psichico e bio- logico e ad una continua oscillazione tra manifesto e latente, tra dentro e fuori, tra mondi sociali e mondi psichici, tra coscienza e inconscio, che ne fanno il suo destino, ma è nello stesso tem- po aperto ad una possibile (sempre possibile) altra destinazione, secondo l’indicazione “Wo es war, muss ich werden, oder muss (soll) noch immer etwas Anders sein (werden)” (Jean Laplanche che rilegge Freud). Seconda tesi: L’uomo è relazione e in relazione, nelle diverse for- me di una relazionalità intrapsichica, interpsichica, intersoggetti- va, trans-soggettiva familiare e socio-culturale. Terza tesi: L’uomo è un soggetto storico-anamnestico. È il risul- tato del suo “giornale intimo”, della sua autobiografia e della sua biografia; è un soggettoin situazione. Quarta tesi: L’uomo è un ri-cercatore e costruttore di senso. Quinta tesi: L’uomo è un soggetto polemico che aspira all’armonia. Sesta Tesi: L’uomo è un soggetto “assiologico” (che da valore alle cose).

35 Al vertice dell’interesse della riflessione psico-antropologica vi è la categoria della Cura e della Clinica (non ovviamente intesi nel senso riduttivo medico-sanitario e terapeutico, ma come metodo di relazione alla sofferenza dell’Altro, come es-posizione all’Altro) letta nel rapporto tra mente e corpo, tra mondo psichico indivi- duale e collettivo e organizzazione socio-sulturale. La Cura (Sorge, che rinvia al Dasein heideggeriano8, alla preoc- cupazione, alla disposizione all’Altro, alla qualità della presenza e all’accoglienza empatica, ecc…) è così all’incrocio tra Logos, Pathos e Techné e implica: • un’ipotesi topologica del mondo interno (manifesto/latente; funzione del sintomo e della sua interpretazione); • un’area di esperienza di relazionalità; • una condizione di situazionalità, che fa dell’uomo un soggetto storico e storicamente determinato, un abitatore di mondo; • una tensione-apertura alla trascendentalità, che ne fa un sog- getto teleologico, capace di trasformare il destino in destinazione tramite il pro-getto.

Come allora coniugare queste categorie del lavoro sociale con la centralità della qualità della vita, del benessere più che del disagio, della resilienza, della salutogenesi, della cittadinanza, dell’integra- zione?

2.1.3 La Cura “La ‘Cura’ stava attraversando un fiume, scrive una famosissima favola della tarda latinità, che Heidegger utilizza per dire l’“Esser- ci” come Cura, nel suo Essere e Tempo9, quando scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre stava riflettendo su cosa avesse fatto, interviene Giove. La

8 Dasein, termine usato da Heidegger per indicare il modo di essere pro- prio dell’uomo. Accentuando il senso letterale della parola, Heidegger dice che il Da-sein, l’esser-ci è costitutivo dell’uomo perché egli è soltanto in quanto ha un ci, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti. In qusto senso, per Heidegger “l’essenza del Dasein consiste nella sua esistenza, cioè nel suo trascendersi rapportandosi agli enti e comprendendosi nel proprio essere”. (cfr. Enciclopedia Gar- zanti di Filosofia, Milano, 2004, p.194) 9 M.Heidegger, “Essere e Tempo“ (1926), a cura di A.Marini, Mondadori Editore, Milano, 2006

36 Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto, senza però sapere che cosa sia. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fat- to, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Giove e la Cura disputano sul nome, intervenne la Terra, recla- mando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: ‘Tu Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito, tu terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vivrà lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)’ ”.

Il concetto di cura si declina in quattro dimensioni: curare, prendersi cura, avere cura e “fare cura”.

Dimensione antropologica Culturalità

Dimensione Dimensione sociale CURA ontologica Situazionalità esistenziale

Trascendentalità Dimensione psicologica Relazionalità Intersoggettività

La Cura appartiene intrinsecamente a ciò che è più umano nell’uomo. Essa è capace di elavere le preoccupazioni e le soffe- renze della quotidianità a progetto di vita. Le voci di questo primo capitolo parlano di “malattie invisibili” che si nascondono spes- so nei nostri gesti quotidiani, tanto da divenire parte della stessa

37 quotidianità. Viviamo di nuovo in un tempo di paure, in cui il rischio da fattore residuo e accidentale della vita è tornato ad essere elemento centrale della nostra vita individuale. Paure che toccano da vicino la nostra intimità, messa in pericolo nell’ambito della sa- lute, dell’alimentazione e della sessualità, l’ambiente aggredito da una cieca idea di progresso, che tutto dovrebbe salvare e risolvere, l’identità stessa dell’uomo che sta per configurarsi diversamente da quello che era stato e si era pensato per secoli e la quotidianità in cui tutte le aggressioni diventano vita vissuta, biografia e paesaggio individuale. Ogni epoca ha avuto le proprie paure, ma più di un segnale individuale e sociale ci indica come oggi, stiano nel cuore stesso di ciò che viviamo come normalità e richiamino con forza non tanto l’idea di salute, che ci aveva accompagnato dal dician- novesimo secolo, ma quella più antica di salvezza. Ma a chi chiedere la salvezza in un “tempo di miseria”? E in questo loro stare nella normalità, nella quasi ovvietà di tutti i gior- ni divengono sempre più invisibili. Svelarle allora, sulla linea di orizzonte di questa “foresta di segni” che è la quotidianità, è come seguire indizi, sintomi attraverso le ovvietà, le banalità, insomma tutto ciò che sembra appartenere oramai allo “stato delle cose” … L’altro giorno, mentre un cortese agente di polizia mi stava dando una multa, si è scambiata qualche parola. “Poteva capitare di peg- gio”, affermo io, e lui di rimando “quando c’é la salute, il resto…”. Parole che contenevano una sorta di sotterranea intesa interperso- nale e forse anche culturale attorno al valore fondamentale che noi pensiamo, in questa parte del mondo e in questo tempo della vita, dare alla parola salute. Ma di quale salute stavamo parlando, quel- la del corpo, quella dell’anima, quella che ti fa sentire bene nella tua famiglia o verso gli anziani genitori o persino verso i nonni defunti, che in quel giorno di novembre andavo a trovare al cam- posanto, o altro ancora? Sulle illusioni, gli equivoci e i progetti che questa parola contiene credo si possa comprendere, permettemi il bisticcio di parole, lo “stato di salute” di una comunità di uomini e di un’epoca. Uno sguardo dunque che illumina non solo le vi- cende e le paure individuali ma pure le grandezze e le povertà di una civilizzazione. “Chi è malato o guarito, felice o infelice, scrive Galimberti, lo è sempre secondo una idea e le idee sono storiche e stratificate dallo spessore epocale, percui quando si parla di felicità

38 o di infelicità si parla di modi epocali e all’interno dell’epoca, di modi personali di sentirsi felici o infelici”. Attorno al concetto di salute, di guarigione, di malattia e di cura avviene dunque quella che potrebbe essere chiamata una sorta di “fabbricazione” pubblica e privata dell’uomo stesso e delle sue esperienze. È di questa “fabbricazione”, oggi in apparenza senza più regole certe, che vale la pena, dietro i problemi finanziari e politici posti al cittadino delle casse malattia e dei costi della me- dicina, di cominciare a riflettere insieme. L’uomo contemporaneo cerca infatti affannosamente e a tutti i costi, certamente più che in altre epoche, la guarigione. Una ricerca che sembra tanto più frenetica e inarrestabile, quanto paradossalmente maggiori sono gli strumenti terapeutici oggi a disposizione. Ma da che cosa vuo- le in realtà guarire o essere guarito? Quale guarigione, dunque? Un tema che appartiene nello stesso tempo all’ovvietà del lessico quotidiano e ad una delle più complesse e ambigue configurazioni antropologiche in cui la soggettività di questa fine-secolo è cattu- rata. Se la modernità aveva decostruito la morte, come ci indica un saggio di Zygmut Bauman, “in molte malattie spiacevoli ma addomesticabili”10, obbligandoci a quella sorta di “ipocondria” novecentesca in cui si deve essere ammalati per guarire e guarire per ridivenire ammalati, come se la malattia contenesse parados- salmente la sconfitta della morte, questa tarda-modernità sembra modificare profondamente l’orizzonte. Avviene infatti, al contrario, una sorta di progressiva decostru- zione dell’immortalità, attraverso cui le grandi figure della guari- gione, dalla felicità, alla sicurezza, alla salvezza, alla libertà e per- sino l’idea di eternità e dell’ “al di là” non appartengono più al sogno del futuro (e del suo progresso), ma al “qui e adesso”. Sono come miniaturizzate in tante piccole cose della quotidianità di cui potersi impossessare non nel progetto ma nella consumazione e nella manipolazione quotidiana. Stiamo tra questi due tempi, e l’inquietudine e l’incertezza è grande. Nel processo di transizione, di erosione delle categorie e di addomesticamento dell’immagi- nario collettivo e individuale in atto, la figura della guarigione si presenta allora come una figura labirintica fatta di biforcazioni,

10 Z. Bauman, “Mortality, Immortality and Other Life Strategies”. Cam- bridge, Book History of the Human .1993; 6: 117-123

39 contraddizioni tra richieste di maggiore tecnologia medico-sani- taria e domande miracolistiche e regressive, tra speranze prome- teiche e seduzioni dionisiache. Un intreccio dentro cui è più facile smarrirsi che trovare, come nel labirinto antico guidato comunque da un filo conduttore, una via di uscita. In questa labirinticità sen- za uscite l’uomo di questo fine secolo si sente sempre più frenetico e spaesato. La via della guarigione, che nel tempo antico era so- prattutto iniziazione e conoscenza, è divenuta artificio dietro cui la soggettività continua a cercare risposte che non trova. Se anche trova la guarigione del corpo, è paradossalmente l’idea di guarigio- ne (assoluta), che non può essere guarita. Gli itinerari terapeutici quotidiani mettono sempre più a con- fronto tradizioni spesso contraddittorie e concorrenziali, per bre- vità quella che appartiene all’Occidente e al mondo della tecnica e quella che ci è trasmessa dalle antiche tradizioni sapienziali, oggi rimasticate in un mix di esperienze terapeutico-religioso-psicologi- che, che si ricollegano in qualche modo al vasto orizzonte del new age. La questione della presenza e della efficacia della dimensione spirituale nella vita quotidiana e nell’equilibrio tra mente e cor- po, quindi anche nel processo di guarigione, sembra essere torna- ta fortemente di attualità. Ma come porsi nell’intreccio antico e modernissimo insieme tra malattia, spiritualità e cura? È come se l’uomo avesse fatto sua più pienamente l’affermazione del filosofo Wittgenstein qundo scrive “ho indagato il limite dell’isola, ma ciò che volevo scoprire è il confine dell’oceano”. Quel confronto tra sapienza antica da riportare alla luce e tecnica moderna deve aprir- si in un dialogo necessario, soprattutto perché rappresenta nella quotidianità il doppio volto di quella domanda di guarigione, di salute, di salvezza ecc…, che l’uomo rivolge al silenzio dei cieli o alla impotenza del mondo. La guarigione è così uno dei grandi enigmi e delle grandi inter- rogazioni di questo fine secolo, capace di grandiose realizzazioni della tecnica ma incerta di fronte ad un uomo sempre più fragile. Uno sterminato bisogno di guarigione dalla vita, dal corpo, dalla mente sta nell’uomo di questa nostra contemporaneità infatti ac- canto ad una altrettanto sterminata fragilità proprio verso la vita, il corpo e la propria mente. Si chiede oramai alla medicina quel- lo che deve forse essere chiesto alla religione o alla filosofia, che

40 era per gli antichi “medicina mentis”, ovvero “studium ad bonam mentem” e viceversa ; si chiede alla libertà del cittadino quello che appartiene ai suoi vincoli, al destino e al campo della necessità che non ha smesso di governare sotterraneamente il mondo … Che significato ridare allora alla guarigione, per combatterne le sue illusioni e i suoi inganni? Credo avesse ragione Kierkegaard quando affermava “…la nave ha il fuoco a poppa e il megafono del capitano non indica più la rotta ma ciò che mangeremo domani”. Se è pur vero che oggi e non solo metaforicamente, molti devo- no, anche nelle nostre contrade, di nuovo preoccuparsi di ciò che mangeranno domani, scambiare il cibo per la rotta sarebbe come, per dirla con Zola, “mangiare illusioni”. Preoccuparsi nuovamente della rotta non è forse già un processo di guarigione?

Il mondo cambia velocemente persino più veloce di come riu- sciamo a pensarlo e a sentirlo. Il trasloco verso un nuovo mondo già da tempo iniziato, tanto da farci vivere oramai da anni in quel- lo stato di precarietà in cui si vive, prima di una partenza quando i bagagli sono oramai pronti e ci si affanna agli ultimi controlli, sapendo di dimenticare comunque qualcosa e di dovere altresì ri- nunciare a tutto ciò che di superfluo non sta nelle nostre già vo- luminose valige. In quel trambusto, l’attesa della partenza prende il posto a volte delle necessità del quotidiano e la nostalgia di ciò che oramai alle nostre spalle comincia ad alimentare i racconti se- rali a giovani, che non hanno più molto interesse a quello che noi abbiamo vissuto. Siamo in un tempo in cui la memoria è un bene a grande e veloce deperimento e il futuro non è che un presente vissuto sul corpo e nelle emozioni forti del momento prima ancora che nel paesaggio interiore. Quante volte abbiamo ragionato pro- prio sul deperimento, sulla perdita di quel paesaggio interiore, sui segni di una quotidianità, che sembrava fare a meno, per trovare il suo centro e la sua identità, della memoria. Una soggettività im- mersa in un bagno comunicativo come mai la storia dell’uomo ha conosciuto, attraversata da un flusso di infomazioni sterminata e rinchiusa nel sempre più piccolo contenitore ma paradossalmen- te sempre più incapace di alimentare le dimensioni interiori della memoria. Una soggettività disperata tra la potenza delle proprie capacità e delle proprie conoscenze e la sterilità o l’assenza della

41 memoria, come era la disperazione dei perfetti replicanti di Blade Runner di Ridley Scott … Le domande che ho raccolto disegna- no un paesaggio, una sorta di “arabesco di fine secolo” in cui si stagliano indicatore di azioni, sentimenti, pensieri, come fossero delle domande, proprio per la loro quotidianità, chiave con cui comporre un quadro in grado di sorreggerci, di contenerci o di im- prigionarci nei prossimi anni nelle più diverse forme e figure della vita vissuta. Domande su cui il secolo, che sta alle nostre spalle, ha intrecciato nelle piccole come nelle grandi cose meravigliosi tappe- ti ma anche teribili camicie di forza o tragici sudari. Di fronte alle sfide della quotidianità vi è una parola che assume sempre più la forza di un indicatore di percorso, è la parola soli- darietà. Molti equivoci però la attraversano. Solidarietà è oramai termine tanto abusato da arrischiare di perdere progressivamente il suo significato. Bisogna essere “anime belle” per essere solidali? La scena politica e sociale di questi anni con il ritorno del fenomeno della povertà su larga scala, con le questioni degli stranieri, assieme alla realtà della solitudine e della sofferenza quotidiana di molti, non fa che richiamarne con forza la sua attualità. Ma di che cosa veramente parliamo quando parliamo di solidarietà? La solidarietà è solamente disponibilità verso l’Altro, cancellazione di Sé o è con- temporaneamente segreta realizzazione di se stessi, a volte persino delle proprie mancanze? La solidarietà non è allora idealizzazione delle “anime belle”, ma riconoscimento della ambivalenza dell’uo- mo e delle sue parti anche oscure. Le parti oscure capaci di creare luce, vera solidarietà? Un paradosso a cui è inquietante ma anche utile pensare. Qui sta la sua ambivalenza che rinvia al paradosso di ogni atto di amore, che non si abbeveri alla illusione balsamica dei “buoni sentimenti”. “Colui che ama, scrive in un bel libro sull’o- dio Nicole Jeammet, non ama innanzitutto occupandosi degli al- tri, ma realizzando l’opera per la quale si è sentito destinato in una apparente indifferenza verso chi gli sta attorno”. Occuparsi degli altri serve troppo spesso per nascondere che non ci si ama, per non riconoscere l’aggressività che ci appartiene, invelenendo e manipo- lando il dono che si offre con tanta, troppa disponibilità all’Altro. A volte si è solidali con l’Altro non per amore dell’Altro, ma per debito, per colpa, persino per odio verso se stessi. Una solidarietà autentica si fonderebbe così su una sorta di “buon uso dell’egoi-

42 smo”? Se ogni atto solidale si nutre di responsabilità, di libertà, di gratuità, di ospitalità, ad esso appartiene pure il riconoscimento della propria aggressività e della funzione che svolge chi è aiutato per acquietare le proprie mancanze. L’amore non è qui solo un dolcificante sociale ma il costante “campo di battaglia” delle ambi- valenze, che non può espellere il suo Altro (poi da salvare, da aiu- tare…). L’essenziale della solidarietà tra gli uomini non sta tanto infatti nella bontà dell’ aiutare ma nel riconoscimento che anche l’Altro, il bisognoso, colui che soffre, è nello stesso tempo colui che ti aiuta in una reciproca interdipendenza. Senza questa interdipen- denza, questo soccorrersi a vicenda, questo “amore mutuale” vis- suto profondamente e realizzato negli atti non vi è solidarietà ma altruismo “colonizzatore”. Qui sta il senso più profondo della gra- tuità. “Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la corre- lativa risposta come atteggiamento morale e sociale, come virtù è la solidarietà. Questo non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine e lontane; al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune ossia per il bene di tutti e di ciascu- no, poiché tutti siamo veramente responsabili per tutti”. Chi così scrive è Giovanni Paolo II nella sua enciclica Sollecitudo rei socialis. La solidarietà non è allora beneficienza, “buona volontà”. Le tentazioni dell’altruismo manipolatorio sono molteplici, dalla so- lidarietà tecnocratica finalizzata al puro mantenimento dell’orga- nizzazione sociale, alla solidarietà di appartenenza, che suppone una sorta vicinanza (sociale, culturale, ideologica o religiosa) di chi viene aiutato, sino alla solidarietà “pelosa”, che suppone spesso subdolamente la riconoscenza o l’ adesione più o meno esplicita alle convinzioni ideologiche o morali di chi da l’aiuto. Come fare allora perché la solidarietà non si fondi, come scrive E. Levinas nel suo libro Dal Sacro al santo, nello spazio indifferente del caffé, luogo del futile e dell’oblio dell’altro, ma nemmeno in pratiche più o meno manifestamente finalizzate alla “cattura” dell’Altro nel cir- colo della riconoscenza, della colpa e del “buon comportamento”? “Il caffé è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità facile, senza responsabilità reciproca … il caffé non è un luogo, ma un non-luogo, per una non-società, per una società senza solida- rietà…”. Un non-luogo in cui si è per l’Altro non “compagni di

43 strada”, ma semplici passanti. La solidarietà ha poi bisogno di compassione. La compassio- ne non è pura commozione ma assunzione dentro di sé del volto dell’altro sofferente, che è ritrovamento del proprio volto sofferen- te. Solo qui la solidarietà diviene “patire insieme” e nello stresso tempo intelligenza pratica della altrui sofferenza. Infatti il Sama- ritano del Vangelo di Luca (10, 27-37) si avvicina all’uomo ferito perché “si mossero le sue viscere” e non per finalità politiche o religiose. Ma perché l’Altro, lo straniero, il povero e il sofferente deve riguardarci? La risposta è radicale. L’altro è il mio compagno essenziale, cioè me stesso. Io sono popolato da una quantità di in- dividui. Questa la rivoluzione antropologica per uscire da una soli- darietà solo pragmatica e funzionale. Io sono straniero a me stesso. L’altro è lo straniero, che è me stesso. Ognuno è esposto ad una du- plice alterità, quella che viene dallo straniero e quella rappresentata dallo straniero che è in noi. È da qui che bisogna iniziare contro le tentazioni dell’altruismo e della beneficienza strumentale, di cui la storia della povertà in Occidente e delle sue pratiche sociali, è testi- mone. Quale diverso orizzonte dunque alla solidarietà? “Fare giu- stizia dell’Altro, scrive Italo Mancini, significa far passare la misura della accoglienza nella misura del dono”. Un dono dato e ricevuto nello stesso tempo poiché anche chi è bisognoso possiede proprio nella sua bisognosità, nella sua povertà un dono da offrire. Qui si fonda ciò che potremo chiamare il “circolo della solidarietà”, il senso vero della reciprocità tra gli uomini. Due pagine sublimi pur nella loro diversità di contenuto e di tempo parlano di que- sta trasformazione. Quella del Samaritano sulla via di Gerico nel Vangelo di Luca (“ma chi è il mio prossimo?”) e quella del poeta Edmond Jabés nel suo Livre de l’Hospitalité. Non vi è qui spazio per parlare di quella pagina inaugurale sul tema della solidarietà, che la parabola del Samaritano, su cui ogni azione sociale dovrebbe riflettere. Mi limito a riprendere le parole del poeta e al senso della sua ospitalità. Scrive il poeta in una sorta di programma etico per ogni pratica di solidarietà: “Ci vide subito e si diresse verso di noi per invitarci a bere una tazza di thè. Perché fece mostra di non co- noscerci? Un atteggiamento che ci parve strano e un poco ci urtò. Sbagliavamo. Evidentemente non avevamo riflettuto abbastanza su che cosa è l’ospitalità per i beduini. Fingendo di non conoscer-

44 ci, aveva fatto sì che la nostra improvvisa visita non prendesse il sapore di un ritrovarsi effimero”. È dentro queste parole il senso più profondo di una intersoggettività che fa dell’ospite un evento per noi. “Davvero ospitale - scrive Jabès - è, fino in fondo, l’attesa”. Ogni evento vuole una attesa che nasce nel riconoscimento del- la propria necessità, della propria povertà, così come del proprio desiderio “egoistico”. Che cosa è dunque l’ospitalità per i beduini, che fingendo di non conoscerci avevano permesso che la nostra improvvisa visita non prendesse il sapore di un ritrovarsi effime- ro e ripetitivo? Non l’ospitalità indifferente del “caffè”, ma forse qualche cosa che realizza e coglie nello stesso tempo l’evento, che è atto generativo sia per chi arriva sia per chi attende. Lo stare alla soglia dei malati, dei bisognosi, dei poveri senza invadere il loro spazio di vita o la loro libertà (anche di essere diversi da noi), continuando l’aiuto, questo il cuore della solidarietà. Il tema della soglia dunque, che impone il ritirarsi da parte di chi aiuta, come per il Samaritano che lasciò l’uomo ferito alla locanda con qualche soldo e se ne andò, dicendo che sarebbe passato al suo ritorno per rimborsare ciò che l’oste avrebbe pagato in più per lui e nulla più. Andarsene per ridare la libertà all’uomo ferito, per non imporgli la propria presenza, la riconoscenza o l’adesione al proprio credo. La solidarietà così diviene una sorta di “ostetrica” della libertà. In questo senso la solidarietà non ha bisogno di “anime belle”, ma di anime libere.

2.1.4 La precarietà esistenziale La precarietà e la vulnerabilità stanno al centro di una condizio- ne esistenziale e mondana che a volte si trasforma in malattia del corpo e dell’anima. Una condizione che interroga costantemente il senso dell’esistenza stessa mostrando i suoi smarrimenti, le sue ferite, le sue discrasie ma anche le sue nuove sfide. Il Modulo si articola in due movimenti. Il primo centrato sulle nuove sofferenze esistenziali nei suoi aspetti psicopatologici e socio-culturali, ovvero nelle “forme della vita”. Il secondo su di un modello di accoglienza e di cura operativa di questa stessa esistenza malata, ferita e impo- verita, come quello proposto dalla “psicoterapia istituzionale”. Il Modulo di approfondimento dunque si propone di esplorare gli

45 intrecci e gli intrighi tra i mondi-della-vita, che ci abitano e che abitiamo, “naviganti” tra il mondo esterno, il mondo interno e gli innumerevoli mondi virtuali che le nuove tecnologie ci permetto- no di attraversare. Come è mutato allora il quadro psicopatologico in questa nostra era digitale? Un itinerario indiziario attraverso le nuove malattie e sofferenze dell’anima sorti negli “spazi antropologico-comunica- tivi” (P. Lévy) o più complessivamente nei “cronotopi psico-an- tropologici” (G. Martignoni) della nostra tarda (iper-)modernità reticolare, che i nuovi mondi comunicativi esprimono e fondano. La tecnica non è più mero strumento ma a suo modo costruttrice di mondi in cui abitare, di cui vestirsi, in cui muoversi. Indizi, che a partire dal vertice dell’infosfera comunicativa e delle sue inter- facce, permettono di esplorare il “mondo-della-vita” dell’uomo tar- do-moderno, il suo “essere-in-situazione” nell’esistenza quotidiana e la sua condizione permanentemente “sismica”. È la antropo-psi- cologia della mutazione, delle sue ansie e delle sue resistenze che qui è indagata seguendone le sue tracce. Il mondo tecnico e il suo tecno-immaginario necessita oramai di un paradigma epistemico che fa della complessità il suo fulcro; un paradigma in grado di leggere questo nostro tempo di mutazione e di nuove ibridazioni, in cui per alcuni sarà realizzata la grande sfida della ipermodernità e dei suoi nuovi oggetti tecnologici, per altri si andrà consuman- do lo smarrimento fondamentale del senso stesso dell’umanità dell’uomo di questo nostro tempo. Un tempo, che, come scriveva il teologo Gogarten negli Anni Venti, “sta tra i tempi”, al crocevia di nuove alleanze e di nuovi conflitti tra individuo e collettività, di nuove ibridazioni tra uomo-macchina-natura, di nuove esigenze di rappresentanza sociale. Il mondo delle macchine, delle nuove ibridazioni tra macchina e uomo, tra natura e uomo, capaci di travolgere, mutare, ri-configu- rare, a partire dalla biologia e/o dal funzionamento cibernetico, la stessa nozione di uomo. Si vengono così prefigurando attraverso l’universo tecnico e comunicativo e il suo cyberspace nuove forme della soggettività, nuovi rapporti tra corpo e mente, tra percezione, cognizione e sensibilità, capaci di costruire ponti, iterconnessioni, zone di passaggio e di incontro, ma anche zone di disseminazione identitaria e di nuove patologie. Punto privilegiato d’osservazione

46 di questo intrigo eco-psico-antropologico nel “frame” che l’info-tec- nosfera produce è il rapporto che lega identità, cultura, tecnologia nei confronti dell’alterità e della “stranierità” che abita l’uomo. Quali dunque le nuove sofferenze psichiche, psicosociali e psi- co-corporee che accompagnano l’apparizione dell’uomo “precario” (Furtos), “flessibile” (Sennet), “liquido” (Baumann), “normalmente operatorio” (Martignoni), “banale” (Sami-Ali), “incerto” (Ehren- berg), del “cyborg” e del “cibionte” (De Rosnay)?

Mutazione sociale, antropologica e psicologica insieme dunque, che cerca un discorso etico in grado di guidarla, più che esserne guidato, in grado di accogliere le sfide del nuovo senza lasciare sul campo di battaglia oramai inerme e inerte l’anima del presunto vincitore. L’etica non come astratta dichiarazione di principi ma come espressione di un’incarnazione del conflitto e della decisione, a cui la libertà espone, dentro la soggettività dei singoli uomini, come delle collettività, e soprattutto dentro e sul loro corpo, che è oggi più che mai luogo ineludibile della stessa mutazione comuni- cativo-tecnologica e psico-antropologica in atto.

2.1.5 La fragilità 11 La fragilità abita il mondo come l’acrobata sta sul suo filo teso tra il cielo e la terra. Così sospeso vive incessantemente l’imminen- te rischio di cadere, ma anche il miracolo di rimanere in equilibrio sul quel minuscolo frammento di mondo, disegnando con i mo- vimenti incerti del suo corpo sinuose figure nel nulla. La fragilità è condizione esistenziale dell’uomo, anche lui sospeso tra naufra- gio e salvezza. A volte la fragilità può apparire prepotentemente nei rapporti con il mondo, nel corpo malato, nei gesti incerti del bambino o nel tremore della vecchiaia, così come nella parola in- certa e ostacolata, altre può nascondersi in apparente esibizione di potenza e nella falsità, altre ancora può invadere e dominare tutto il nostro mondo interiore nelle sofferenze dell’ anima, nella fatica di essere se stessi, nel senso di inutilità della esistenza, nello smar-

11 Su questo tema cfr. G. Martignoni, “Fragments d’anthropologie clini- que en action”, in Jalons pour une anthropologie clinique, N. Duruz, R. Célis, V. Dallèves (éd.), Springer Verlag, Psn 5. S1, 2007.

47 rimento di un centro a cui fare riferimento lungo la navigazione della vita. La fragilità comunque e sempre parla di una intimità a volte così lontana da non più nemmeno riconoscerla come nostra o così vicina da bruciare la nostra stessa vita. Il filo teso dell’a- crobata ci accoglie a volte, ci riscatta nel fallimento, ma non può salvarci, come se l’unica possibile salvezza mondana stesse proprio in quell’accettare di vivere sospesi, scongiurando il naufragio. L’“uomo fragile” è dunque uomo sempre “in bilico” sul bordo del mondo, che scivola sotto i suoi piedi fattisi incerti e spesso diviene nemico e persecutore, come se non riuscisse più a sentire quella “comunità di destino”, il calore della presenza umana, che tutti può unire. L’“uomo fragile” facilmente può smarrire, in una società che certo non è tenera con lui, il senso del suo segreto, di quella leggerezza del suo sguardo, che spesso viviamo come incer- tezza, paura, ritrosia, ma che è forse solo rispetto, giusta distanza, ospitalità nei confronti dell’altro, di quel suo sapere accarezzare il mondo senza dominarlo o possederlo, che da l’impressione di un incontro con le cose nel vibrare dell’aria, come il volo di un uccel- lo che gioca con il vento. Rimasto allora senza speranza l’“uomo fragile” sta sull’orlo del suo corpo ammalato, ferito, abbandona- to, estremo tradimento di qualcosa che nei momenti della forza sentiva sotto il proprio dominio e che ora, d’un tratto, lo trascina giù nel gorgo del definitivo inabissamento; sta sul confine dei suoi territori interiori, fattesi estranei, deserti di senso, paludi di noia o campi di battaglia, da cui si ode lo sferragliare delle lame e il lamento dei feriti, di cui non si ha più “cura”. La fragilità così, da condizione incerta ma ancora, come per l’acrobata, capace di dise- gnare nel cielo le figure della speranza e la felicità di quel vivere per un istante l’emozione, che si può sentire tra cielo e terra, diviene pesantezza, dolorosa presenza del corpo, della mente, di un gesto ieri abituale tanto da dimenticarsi di lui e oggi crudele presenza. La fragilità non ha tregua, non può riposare nell’oasi di una serenità conquistata, il suo destino è percorrere inesorabilmente quel “filo” sospeso di qua e di là nel vuoto che separa le figure aeree disegnate nell’aria e le impronte scalfite nella terra, sempre con l’ansia di una caduta definitiva e con la speranza di una nuova sosta. Che cosa tiene allora l’uomo “in bilico” su quel filo? Non tanto la sua forza ma la sua capacità di sottrarsi per un attimo

48 al peso del corpo senza lasciarsi sedurre dalla leggerezza dell’aria. Questa è l’ arte della fragilità. Un’arte difficile e spesso destinata alla sconfitta. Una sconfitta che giunge quando la pesantezza del corpo nella malattia, i vuoti della memoria e i deserti aridi della in- teriorità, quando la vecchiaia viene facendoti tremare anche la tua mano sino a ieri ferma, quando il mondo si allontana da te perché sei oramai divenuto inutile e superfluo, lasciandoti senza un posto ove stare. Paradossalmente il nostro tempo è un tempo della legge- rezza, leggeri devono essere i corpi, i cibi, i valori, le immagini, il lavoro, la gioventù è leggera, leggera e spensierata. Eppure proprio il nostro tempo così leggero, ci consegna alla sua più spietata pe- santezza, che espone quel fiore delicato che chiamiamo fragilità al suo inesorabile “naufragio”. La fragilità non è più in quel naufragio leggerezza. Essa è piuttosto il doloroso combinarsi per l’uomo di impotenza per il peso della sua vita, di disperazione, che merite- rebbe una forza che non ha più e di speranza, che lo obbliga ogni volta comunque a rialzarsi e riprendere quel cammino sul “filo” senza sosta sino alla fine.

L’“uomo fragile”, che il mondo non sa più accogliere, ha biso- gno oramai di una dimora, di una “casa”. Una casa “innaturale”, che si chiama per l’uomo bisognoso storicamente ospedale, ma- nicomio, foyer, ricovero, e altro ancora, luoghi di accoglienza per coloro che la fragilità ha tradito e colpito più pesantemente, ma che deve essere nello stesso tempo non un alibi o una soluzione ad una “cura”, che come comunità non possiamo più dare. Una cura che investe l’ambiente di vita, le nostre città, il nostro modo di stare insieme tra le generazioni, tra sani e malati. Come acco- gliere l’“uomo fragile”, che ci sta dinanzi dopo la caduta dal “filo” e che non può, appena chiusi gli occhi sulle illusioni di potenza e di forza, di giovinezza e di bellezza, che ci fanno illudere l’eternità degli eroi, non farci riconoscere le nostre stesse fragilità. Una acco- glienza che è esperienza della soglia, dell’attesa fragile e forte nello stesso tempo di colui che viene tremando e impaurito verso di noi. “L’attesa, scrive la Bompiani, come spazio nel quale una freccia ti- rata da qualche punto si dirige silenziosamente verso un bersaglio. Il bersaglio è nel cuore di colui che lo aspetta”. Nell’esperienza della soglia, di quello stare alla soglia dei malati o dei vecchi o dei

49 miseri, di coloro che nulla hanno più, aiutandoli a ricostruire con discrezione e rispetto il loro spazio di vita, vi è per ognuno di noi il vissuto di una vicinanza di sofferenza e di speranza, che ci può semplicemente fare sentire uomini tra gli uomini. L’“uomo fragile” ci guida anche lungo questa esperienza. Il tema della soglia dunque. Lo spazio della cura della fragilità ha proprio un suo ritmo nell’alternarsi di soglie, di dentro e di fuo- ri, di chiusure e di aperture, come condizioni e figure dell’esistenza che si dipana, si interrompe, si perde … La soglia condizione dello stupore e della possibilità che mai si esauriscono anche quando tutto sembra perduto e la morte vicina. Smarrire qualcosa dello stupore di fronte alla esperienza della singolarità dell’uomo fragile, cadere nella ripetizione, che cancella l’attesa sostituendola nel già avvenuto, significa impedirsi di condividere l’esperienza del “filo” su cui tutti in un modo o nell’altro siamo sospesi. Accogliere l’“uo- mo fragile” è arte del quotidiano. Un libro di Marie Depussé sulla sua esperienza di incontro con la malattia mentale nella clinica di La Borde, ci invita a pensare al significato del dettaglio e alla pro- fondità del quotidiano. “A La Borde sentivo che si faceva della vita quotidiana una possibilità”. Insignificanze dei giorni dove riposa abbandonato, spesso nascosto il senso delle cose, della vita. “Petits riens, trivialités du quotidien, - scrive la Depussé - insignifiances des jours, où repose abandonné le sens. Dieu gît dans les détails”. E subito la descrizione del luogo, l’atmosfera e il gusto di quella casa ove ritrarsi per un momento, per sempre forse, ove proteggersi … i luoghi sono percorsi dal senso della meraviglia e dello stupore che pervade il quotidiano e i suoi oggetti. Già il senso di un ritmo, che presto si comporrà in una melodia. Pane grigliato che viene dalla cucina, qualcosa che dà il senso della ospitalità, di un luogo come una stazione di un viaggio che si presta ad una sosta. In quel luogo allora, che non si prendeva troppo sul serio, come in una grande e tragica raffigurazione avveniva una battaglia per la vita … “c’era ancora un’altra cosa … Ad un tratto i folli mi davano riposo. Seppi che si stavano battendo in prima linea anche per me”. Loro i folli che “si battevano per me”. A testimoniare con la loro cor- poreità esposta alla fragilità, con la loro temporalità spezzata, con questo loro errare sul “filo” incerto della esistenza, un avamposto della vita stessa.

50 Questo è un racconto nelle vicinanze dell’“uomo fragile”, che evoca infine la tenerezza, “la tenerezza che abita ogni frammento dell’aria”. È infatti il sentimento della tenerezza, che lega la fragili- tà dell’uomo alla “cura” che dobbiamo disporre per lui. Un senti- mento che accarezza i luoghi e modula il tempo, che fa “indietreg- giare il terribile” di quella condizione dolorosa. La tenerezza che abita l’aria leggera e terribile insieme di quello stare “sul filo”. Una tenerezza, che è capace a volte di tenere a bada il dolore e l’ango- scia e di accogliere i corpi, la polvere dei corpi e la loro monotona desquamazione nelle difficoltà del quotidiano. È in quell’atto di “balayer doucement” la polvere di una vita fragile, che è sospesa la figura forte dell’accoglienza dell’“uomo fragile”. Un’accoglienza della fragilità, che ha trovato il suo più profondo senso etico e che ha ridato a quella condizione dell’uomo, sospesa tra la caduta e la speranza, la forza che nascondeva, che è quella di narrarci di continuo qualcosa della nostra esistenza, di impedirci di divenire smemorati, infelicemente gai, sino a quando la fragilità inascoltata si prenderà una rivincita, spezzandoci e abbandonandoci al bordo di una strada.

51 2.2. L’operatore sociale, un’identità nomade Note di discussione per un profilo dell’operatore sociale Graziano Martignoni

Attraverso il tu, l’uomo diventa io M. Buber

Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone da caso a caso, ma alla paura per un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo della sua propria esistenza. R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta

2.2.1 Premessa Nel definire il profilo dell’operatore sociale è certamente più facile dire ciò che non è, che designarne la specificità. Questa difficoltà sta nella sua genealogia, nelle mutazioni sociali, economiche e culturali in atto in questi tempi di transizione, nel suo essere un soggetto epistemico “bastardo” e “mutante” a seconda dei contesti in cui è chiamato ad operare. La sua è essenzialmente un’ identità “noma- de”, obbligata ad attraversare nel curriculum formativo come nella pratica professionale saperi e pratiche “forti” senza potervi aderire completamente, se non correndo il rischio di un suo smarrimento o di una “colonizzazione” (cfr. l’esperienza della Repubblica di Wei- mar e degli esordi del nazionalsocialismo). Questa sua conseguente “debolezza” epistemologica può divenire però una paradossale capa- cità di vivere, comprendere, interpretare e agire sulla complessità. Una forza che sta nel suo “stare” nello “spazio intermediario”, ove la società e i suoi “attori” si strutturano e si destrutturano conti- nuamente. L’operatore sociale abita un area identitaria diffusa, che

52 trae dalla sua debolezza disciplinare la capacità di sapere attraversare epistemi forti piegandoli alle esigenze della soggettività e della sin- golarità nella dimensione della quotidianità e dell’ azione (pattern d’azione). Esso si configura così di volta in volta come“giardiniere di se stesso”, “specialista della quotidianità”, “mediatore socio-culturale”, “costruttore di ragnatele simboliche-affettive tramite l’azione”, “attore della terziarietà”, “organizzatore temporale”, “Io ausiliario, ortopedico, sintetizzatore e progettuale”, “ostetrico della creatività”, ecc… L’operatore sociale abita dunque con la sua prassi un luogo - rativo, ove sintomi, indizi, segni individuali e collettivi del “nuovo” si scontrano e si articolano con l’antico. Questo accade nelle “confi- gurazioni antropologiche della soggettività” come nelle oscillazioni tra attualità del quotidiano e antichità dello psichismo umano. En- trambe partecipano a definire la metamorfosi continua del “frame” (Bateson), che contiene il suo pensare e il suo agire. La sua area d’intervento ha dunque nella profondità del quotidiano e nel “pattern d’azione” (Widlöcher) una specificità, di cui ilcurriculum studiorum deve tenere conto. Il profilo identitario dell’operatore sociale si col- loca così nello spazio affettivo, epistemologico e metodologico di una “pratica teorica” sull’intertestualità formata dai percorsi, dagli “intrecci” e dagli “intrighi” della soggettività umana, navigante tra le costellazioni del suo mondo interno e le trame della sua dimensione storico-biografica e il “frame” antropologico, sociale e istituzionale, che la determinano, costituendo le condizioni dell’intersoggettività nella relazione d’aiuto e di cura e l’orientamento delle sue pratiche. Le sue competenze s’indirizzano allo studio dell’uomo e della sua soggettività (cognitiva, affettiva e simbolica) nel suo manifestarsi biologico, culturale, psicologico e sociali, sullo sfondo storicamente determinato del confronto dialettico tra normalità e non-normalità, tra emarginazione e integrazione, tra autonomia e dipendenza, tra identico e diverso. Due aree sono così al centro del suo operare, quella della libertà e quella della cittadinanza. Aree che si collocano a pieno titolo nell’alveo di una storia della civilizzazione, delle sue rappresentazioni e delle sue pratiche di liberazione e d’oppressione, che trovano nelle perturbazioni della “Lebenswelt”, nelle malattie del corpo, della mente, della socialità e della libertà il loro punto di crisi. L’operatore sociale è così testimone partecipe della crisi, che è anche momento della decisione.

53 Come agire allora nella crisi? Lo specifico campo del lavoro socia- le e la centralità in esso della relazione di aiuto e di cura oltre che dell’ istituzionale, come luogo storicamente determinato per le sue pratiche, pone come filo conduttore dell’insegnamento la tematica fondamentale dell’incontro con la presenza dell’Altro (come alterità e come alienità) e quella conseguente dell’intersoggettività attraverso essenzialmente la categoria dell’azione, colta nel suo generarsi, nel suo costituirsi concretamente e nella sua processualità lungo l’as- se del tempo. Una categoria su cui si dovrà operare un lavoro di decostruzione critica (critica delle ideologie soggiacenti, delle teorie manifeste, delle pratiche e infine di se stessi). Questo “filo rosso” guida l’attenzione del suo operare nei con- fronti dell’“uomo in situazione”, ovvero dell’uomo nel suo “stare di fronte” al bisogno, alla sofferenza e alla malattia, infine alla “monda- nità” del suo “essere-nel-mondo”. Il lavoro sociale con le sue strate- gie relazionali e istituzionali tende ad accogliere proprio la fragilità di questo “uomo in situazione” nella dimensione profonda e complessa della quotidianità. Una quotidianità che si nutre sulle categorie d’ac- coglienza, d’ospitalità e di capacità d’ascolto, di critica dello sguardo e del “fare”, costituendo una specificità identitaria del lavoro sociale, delle sue strategie e dei suoi “attori”. L’operatore sociale dovrà essere così in grado di pensare e agire criticamente : • nella lettura della tradizione e dello sviluppo della civilizzazione, attraverso cui la soggettività umana si è manifestata; • nel confronto con l’“uomo in situazione” di fronte al bisogno, alla sofferenza e alla sua “mondanità”, attraverso l’ascolto, l’aiuto e la cura (nel senso heideggeriano della “Sorge”) dell’uomo nella sua di- mensione psicologica, storico-antropologica (simboliche) in cui è col- locata la sua esistenza individuale, familiare e collettiva; • nell’azione dentro l’area del quotidiano e del significato della cate- goria del “fare”; • nella comprensione intuitiva dell’esperienza dell’intersoggettività; • nella capacità di comprendere e influenzare l’ambitoistituzionale, che introduce nel rapporto intersoggettivo la dimensione della ter- ziarietà e della culturalità; • nella capacità di fare lavorare e interagire tra loro le risorse del ter- ritorio sociale tra famiglia, mondo del lavoro, comunità e individuo;

54 • nell’attenzione partecipe alla dimensione etica, che non solo ogni relazione all’Altro contiene ma di cui è in se stessa fondativa; • nella continua crescita dei suoi percorsi d’identità oscillante dall’i- dentità personale, all’identità professionale a quella relazionale, ecc…

Il suo profilo identitario percorre dunque la fenomenologia e la ermeneutica di questo “esporsi” e “ritrarsi” alla presenza dell’Altro, svelandone i nodi, gli intrecci e i suoi perturbamenti, che prendo- no le forme storiche della sofferenza, della malattia, della emargi- nazione e del disagio sociale.

2.2.2 Un’identità nomade 12 Porsi il problema di una identità dell’operatore sociale significa pen- sare a una sorta di “teoria della pratica”, in cui le componenti affettive, politiche e tecniche del proprio specialismo trovino, nel confronto con i diversi ascolti della domanda, del desiderio e del bisogno del sog- getto, un assetto epistemologico “precariamente” coerente e leggibile. Scrive J.J. Rousseau nel suo Essai sur l’origine de la langue: “Quando si vuole studiare gli uomini bisogna guardare vicino a se stessi, ma per studiare l’uomo bisogna imparare a guardare lontano, bisogna prima osservare le differenze per scoprire le priorità”13. Discorrere di identità è certo cosa non facile, costretti ad oscillare di continuo tra ciò che di ovvio e ciò che di “straordinario” questo concetto porta con sé. L’iden- tità è infatti questione fragile sia sul piano della teoria, in cui funziona, come scrive Claude Lévi-Strauss, da carrefour in cui convergono molte discipline, quasi come fu la sessualità per Freud, sia sul piano della pra- tica. Essa come l’ombra ha bisogno di un supporto ma questo suppor- to sociale è lui stesso problematico e più che mai precario, legato come è non solo al mutamento del quadro culturale e di socializzazione, ma al difficile equilibrio tra mondo interno e mondo esterno che l’Io del soggetto cerca di raggiungere. La tendenza è quella di considerare l’identità riuscita come

12 G. Martignoni “Navigare l‘incertezza. Educare, curare, assistere o dei per- corsi di identità”, Edizioni Alice, Comano, 1988 13 J.J Rousseau “Essai sur l’origine des langues” (1755), Gallimard, Paris, 1990

55 qualcosa di unitario, come nelle teoresi di Erikson14 o di Lichtenstein15, in una sorta di concezione unificatoria dell’Io. Un’ipotesi illusoria, là dove il paradosso dell’identità non come stato ma piuttosto come processo o come lavoro, impone tutta la sua forza destabilizzante dentro il soggetto e dentro il collettivo. L’identità si è infatti sempre mossa tra unità e diversità sottoline- ando il suo carattere fondamentalmente paradossale e ambiguo. In fondo non è che effetto di riverberazione speculare, che ci impone una capacità di tollerare il suo apparire e il suo disperdersi in mille frammenti come negli eteronimi pessoiani. Scrive Pessoa in un suo poema del ’33, “Tra il sonno e il sogno / tra me e colui che in me / è colui che suppongo, / scorre un fiume interminato.” e ancora facendo parlare Alberto Caeiro nel 1914 “Si, anch’io che non vivo che dell’atto di vivere / porto al mio fianco, invisibile, le bugie de- gli uomini / davanti alle cose ... / come è difficile essere se stessi e vedere solamente il visibile!”. Pessoa ci fa incontrare un Io poroso, attraversato da impulsi e correnti diverse; i suoi eteronimi rappre- sentano altrettante tracce mnestiche, altrettanti eventi biografici e fantasmi infantili legati ai tanti lutti, separazioni, idealizzazioni, rabbie invidiose e amori appassionati di un’epoca che si pensava dimenticata. E la presenza di ciò che Grunberger chiama “la riser- va dell’altro” che qui prende forma. La grande poesia pessoniana diviene così una sorta di palcoscenico parlato di quei “visitatori dell’identità”, di quella dimensione dell’“Altro” che impone mani- festamente o meno la sua presenza attiva sulla scena del soggetto. La dimensione relazionale dell’identità ci fa scoprire un Io di- slocato, “troué, hémorragique, qui essaie de parer à ses pertes, ou de parer ses pertes, par l’érotisation de ses parties on de sa rage” di- verso dai codici-feticci che la professione nella sua fissità simulata ci permette di mettere in gioco per la nostra illusione di certezza e di centralità. Come assumersi allora l’angoscia di questa dislo- cazione? Rafforzando i propri territori, confondendo le proprie differenze oppure accettando che “l’incontro con l’Altro” iscriva la mia identità come metafora, “metaphorein”, trasporto, a metà

14 E. H. Erikson Enfance et societé (1982), Delaschaux et Niestlé, Lausanne e Adolescence et crise. La quête. 15 H. Lichtenstein, Le retour de l’identité dans la psychanalyse: perspective historique et critique, Psychanalyse à l’Université (Psychanal. Univ.), 1985, vol. 10, no 40, pp. 625-636.

56 strada tra l’oggetto visibile della domanda d’aiuto e l’invisibilità del pensiero dell’“Altro” che essa contemporaneamente contiene? Questa la posta in gioco! Rifiutarla significa continuare a credere in un’unità a tutti costi, in una sorta di narcisismo totalitario, alla ricerca di specchi che lo possano riflettere senza errore, rendendo così con il tempo morta l’identità stessa che diviene simulacro, nient’altro che identità di copia. È la dimensione dell’ombra, del duplice, che deve essere tenuta in considerazione e che certo fa ten- sione fra il fantasma di autosufficienza narcisistica e la dipendenza dal narcisismo parentale. Ne esce il significato e il luogo di quella idealità, “s’identifer à”, così determinante e allo stesso tempo così inquietante dentro la costituzione e la costruzione di ogni identità personale prima, professionale poi. Una forte referenza simbolica (come quella per esempio alla base del discorso medico e/o giuridico) certo tiene a bada quanto d’ambiguo e d’incerto il concetto d’identità contiene, senza però esaurirlo, mentre una debole referenza come quella presente nel lavoro sociale fa esplodere la contraddizione. Pensare l’identità è come mettersi nell’attitudine del viaggiatore alla scoperta di terri- tori familiari e insieme “unheimlich”. Scrive Céline, “voyager c’est bien utile, ça fait travailler l’imagination … C’est un roman, rien que une histoire fictive … et puis d’abord tout le monde peut faire autant. Il suffit de fermer les yeux. C’est de l’autre côté de la vie”. E se l’identità fosse proprio “de l’autre côté de la vie”16? Un viaggio che ricorda l’esperienza “esotica” del navigatore e dell’esplorato- re europeo del secolo scorso, come appare nelle parole di Victor Segalen e del suo concetto di esotismo. Scrive Segalen “en arriver très vite à définir, à poser la sensation de l’Exotisme: qui n’est autre que la notion du différent; la perception du Divers; la connaissan- ce que quelque chose n’est pas soi-même17” … E questa duplice dimensione di straniero e familiare, di altro e di medesimo che l’operatore sociale incontra, è con essa che scivola nella confusione, nella rigidità muta o nel pedagogismo “missionario”. L’operatore sociale è chiamato, ancora parafrasando Segalen, a sentire “l’ivresse du sujet à concevoir son objet, à se connaltre différent” e nello

16 Céline, “Voyage au bout de la nuit”, Folio, Gallimard, Paris, 1952

17 V. Segakn, Essai sur l’exotisme, Fata Morgana, Paris, 1978

57 stesso tempo a riconoscere nell’Altro se stesso. Nel 1908, leggendo Claudel, scrive “l’attitude ne pourra donc pas dans ces proses rythmées, denses, mesurées comme un son- net, ne pourra donc pas etre le je qui ressent … mais au contraire l’apostrophe du milieu au voyageur, de l’Exotique à Exote que le pénèue, l’assaille, le réveille et le trouble. C’est le tu qui domine- ra”18. L’incontro che il viaggiatore fa con lo straniero mette in crisi l’illusione di essere come soggetto comprensibile dentro un model- lo di identità unitaria e sovverte il rapporto io-altro rendendo vano ogni tentativo totalitario di definire chi possiede il sapere e chi a questo “sapere” deve adeguarsi. E qui tutta la violenza della sedu- zione. Scontrarsi con il tema dell’identità vuol dire dunque tentare di pensare a un modello di riferimento relazionale, (una sorta di psicologia a tre persone) non più biunivoco ma corrispondente a una sorta di spirale nella quale il rispecchiamento e il rinvio al medesimo divengono la linea di movimento di ogni cambiamento, ma anche il rischio di ogni immobilità confusiva e speculare. Que- sta la posta in gioco dell’incontro. Come operare con un sapere e un’identità che trova la sua capacità d’incontro e d’accoglienza proprio nel suo essere frammento che rinvia sempre ad un altrove e non ti esaurisce mai nella semplice presenza o nell’immediatezza della risposta? L’identità relazionale diviene allora il campo d’ar- ticolazione di questi bordi, su cui soggetto e oggetto trovano la “distanza critica” in cui è possibile vedere e vedersi. Si crea qui uno spazio per l’autoironia (che è il non prendersi troppo sul serio), del gioco (come Trauerspiel ma anche Lustspiel), della simulazione dentro questo gioco. Mettere in gioco la propria identità, giocarsela … (perché di ciò si tratta), come risposta dall’uso del fittizio e del falso di una identità personale e professionale “come se”; qui sta la vera portata dell’evento che ogni incontro può produrre. L’identità relazionale è allora il terreno di scontro e di risoluzione di un paradosso, quel- lo delle tensioni antagoniste nell’Io, fra l’essere copia di se stesso nella ripetizione e l’essere nel suo divenire idealità (o alterità). Vi è dunque nello stesso tempo l’assoluta somiglianza e ciò che ri- manda alla più inalienabile delle singolarità. Come “abitare” nella pratica dell’incontro con l’Altro (da curare, riparare, educare, ecc.)

18 Ibidem.

58 questo lato apparentemente insanabile? La tentazione perversa, falsificata sta lì ad offrire la sua comoda via, che cortocircuita la tensione temporale e l’incolmabilità, dell’alternarsi della presen- za e dell’assenza facendo finta di apparire finita, già conclusa nel possesso di una verità feticcio da proporre come modello o come risposta adattativa. Siamo così nella totale inconciliabilità con la capacità negativa che evocano come specifico fondamento e forse come enigma del lavoro psicosociale. La tensione temporale fra eredità storico-biografica (depositato nell’identità personale) e cul- tura della professione (come progetto di lavoro) contiene ed espri- me tutte le angosce e i travestimenti che rendono instabile e preca- ria ogni illusione d’identità relazione garantita e pre-programmata. È in quest’oscillazione che si può parlare di lavoro dell’identità in analogia al lavoro del lutto, poiché anche qui vi è un’incessante perdita nell’accettazione di un’assenza da cui partire per il progetto creativo. Qui che si differenzia l’identità come divenire, come processo da un’identità come automatismo ripetitivo, come replica. Un di- venire che sappia ritrovare nella diacronia della propria storia le tracce da coniugare dentro il più generale impianto storico-con- cettuale dell’identità professionale. Una sorta di “étayage” a più piani che permetta, come tradimento-trasferimento, di andare ol- tre, nella terza dimensione dell’identità relazionale. Come nel film di Truffaut Le dernier métro l’incontro avviene su una scena “altra” in cui attori e copione vengono continuamente modificati da voci di un “altrove” a cui siamo inconsciamente appartenenti. Una af- filiazione ad un’altra scena che il duplice decentramento svela, ga- rantendo la somiglianza e la singolarità. Una scena in cui possono allora apparire, dentro il curare, l’educare, l’assistere, il riparare, tutti i fantasmi o i visitatori dell’identità. Come scrive A. Green, il termine d’identità raccoglie diverse nozioni, come quella di man- tenimento, di permanenza, di riferimenti costanti che sfuggono al cambiamento, o ancora quella che si applica alla delimitazione, che assicura l’esistenza allo stato separato, permettendo di circo- scrivere l’unità, la coesione indispensabile al potere di distinzione. Infine, dice ancora Green, l’identità è uno dei rapporti possibili fra due elementi, nei quali è stabilita la similitudine assoluta che regna fra i due permettendo di riconoscerli uguali. Questi tre caratteri

59 vanno insieme: costanza, unità e riconoscimento dello stesso. È certo che il concetto d’inconscio scoperto da Freud ha radi- calmente messo in questione il carattere unitario della coscienza. L’Altra scena, l’inconscio, tutto ciò mette in crisi l’idea di un’unità dell’Io e per conseguenza la nozione stessa d’individuo. Dobbiamo a J. Lacan e alla sua elaborazione della “fase dello specchio” (1936) una chiarificazione fondamentale. La “fase dello specchio” diviene allora una sorta di “carrefour strutturale”, in cui si costituisce la forma dell’Io che è quella di un rapporto erotico del soggetto nei confronti di una immagine (l’Altro) che lo aliena e di un transi- tivismo identificatorio diretto sull’altrui; e nello stesso tempo il luogo in cui si definisce l’oggetto del desiderio la cui scelta si rife- risce sempre all’oggetto di desiderio dell’Altro. È in questa trama che si realizza l’incontro e la mîse en abîme delle identità. Così diviene lecito chiederci se per identità intenderemo la costanza, la permanenza oppure la presenza instabile di un’altra scena dentro l’lo. Certo è che la nozione dell’Altro è, proprio per la sua capacità d’inquietudine e di “inabissamento” del concetto e della pratica stessa d’identità, centrale nel nostro discorrere.

Le professioni socio-educative sono infatti professioni che si de- finiscono proprio per il loro rapporto costitutivo e intrinseco con l’Altro e per la preminenza dell’ordine della prassi come condizio- ne di una simbolizzazione linguistico-affettiva. Esse pur nella loro specificità condividono, riassumendo alcuni livelli comuni: a) gli effetti dell’incontro con l’Altro; b) la messa in questione del rapporto Medesimo/Differente; c) l’obiettivo come procedura di normalizzazione in funzione conservativa e protettiva; d) la presenza di un’istanza di mediazione legata alla parola e al linguaggio; e) la presenza del Terzo istituzionale; f) la scarsa efficacia di un territorio simbolico “forte”, e un con- seguente adeguamento all’ordine dei discorsi medico-giuridico; g) l’esposizione ai pericoli della seduzione e della cattura dell’AI- tro; h) l’attivazione dei fantasmi di filiazione e di appartenenza im- maginaria;

60 i) la presenza di grandi campi discrezionali, al posto di un’area prescrittiva limitata e la mobilizzazione di specifiche “angosce ge- netiche” e “generandi” (Fornari);

Come lavorano dunque gli scenari dell’identità dentro un ter- ritorio così complesso? La crisi e la disseminazione dell’identità sociale e professionale si fonda nel contesto attuale nella oramai scontata impraticabilità di una idea forza unitaria dell’esistenza. La metafora della mise en abîme come l’evento di una immagine che, incontrandosi con due specchi posti l’uno di fronte all’altro, rimbalza all’infinito e vertiginosamente in un gioco di continui rimandi (nel nostro caso tra le tre dimensioni dell’identità) descri- ve bene la questione posta. Si tratta di una dissoluzione, in altre parole di un annientamento oppure di un movimento d’erranze, rischioso ma necessario? Una sorta di nomadismo da immagine ad immagine, da identità a identità che può essere contemporanea- mente “passo falso”? Il lavoro sociale è dunque luogo “indiziario” di ciò che avviene dentro le identità collettive sospese tra errore ed erranza. Un costruttore di pensieri più che di risultati. Sul mar- gine di questi rischi s’irrigidiscono le procedure di divisione del lavoro e le tecniche a demarcazione dello specialismo (si ricordino solamente le multiformi suddivisioni del lavoro sociale) oppure sull’altro versante si tende a privilegiare un volontarismo che non “lavora” criticamente su ciò che l’incontro con l’utente implicita- mente porta con sé, che non si assume la problematica del “Ter- zo”19, e che vive nell’illusione di una “colmabilità” (la disponibilità senza limiti) della domanda. Qui l’identità dell’operatore sociale oscilla tra l’erranza della somiglianza e l’errore della diversità. Nel mezzo tutte le pretese dell’ideologia e la violenza della sopraffa- zione consensuale. Si mette in luce un movimento d’identità tra dissoluzione e rigidità la cui fenomenologia si organizza attorno e tra possibili eventi difensivi. Espropriazione dell’Altro, colonizza- zione dell’Altro, chiusura nel Medesimo, tre pseudosoluzioni alla precarietà di una pratica d’incontro sempre capace di mettere en

19 Sul concetto di “terziarietà” o di “funzione terza” cfr. il lavoro fon- damentale di A. green “L’analyste, la symbolisation et l’absence dans le cadre analytique”, in Revue Francaise de Psychanalyse, 1, 1975 e inoltre P. Fedida, L’ab- sence, Paris, Gallimard, 1978 e J. Guillaumin, Entre blessure et cicatrice, Champ Vallon, Paris, 1987.

61 abîme ogni certezza. Come leggere nella pratica del quotidiano i rischi di queste procedure difensive di un soggetto incapace di “na- vigare nell’incertezza”? Il superamento degli arroccamenti difensivi significa ridare parola e riconoscere nell’evento relazionale l’insor- genza dentro l’Io di quei fantasmi d’identità, come fossero attori che al di là del copione manifesto si mettono a recitare un testo “altro”, inatteso, contraddittorio (per esempio nella divaricazione tra obiettivi possibili, presunti, realizzabili…). Queste le condizio- ni fondamentali di possibilità del lavoro sociale, che la formazione deve porre al centro del proprio progetto, che è nello stesso tempo cognitivo, affettivo e esperenziale.

2.2.3 Il carrefour identitario Chiedere cosa sia l’identità è porre nello stesso tempo una do- manda fondamentale, sia sul piano individuale che sociale (quante oramai le sofferenze e gli atti che denotano una sua “messa in ma- lattia”, tanto da farla oggi il carrefour più significativo per com- prendere molti dei fenomeni sociali e delle angosce degli uomini) e dall’altro arrischiare banali generalizzazioni. Discorrere d’identità è dunque cosa non facile, costretti ad oscillare di continuo tra ciò che di ovvio e ciò che di “straordinario” questo concetto porta con sé, tra ciò che appartiene al “dentro” di noi e ciò che in esso rinvia ad un “fuori”, tra le “sostanze” opposte che contiene, sostanze che parlano dell’Identico e nello stesso tempo del Diverso. L’identità è infatti una terra fragile e frastagliata, abitata da presenze e voci spesso opposte e inconciliabili tra loro. Paradossalmente abitata da Stranieri. Questione fragile dunque sia sul piano teorico sia su quello dell’esperienza che noi tutti facciamo quotidianamente di lei. Questo mio breve tentativo di riflessione non potrà che essere dunque che una piccola mossa d’avvicinamento. L’identità come l’ombra ha bisogno di supporti. Essa infatti si fonda sia su quel- lo che attiene al nostro mondo interiore, che è il grande libro in cui si è scritta e si continua a scrivere (traducendola) l’esperienza vivente e vissuta della vita e della storia biografica e immaginaria di ognuno di noi, sia sulle “stelle polari” del nostro stare al mon- do, come la percezione e il sentimento che abbiamo dello spazio,

62 dell’abitare, della casa, del familiare, sia su quella della temporalità, che a partire del vissuto del presente apre le sue ali sul passato e sul futuro o ancora quella che riguarda la nostra stessa corporeità in cui ci riconosciamo come identici a noi ma di cui ben pre- sto dobbiamo accettare l’estraneità, il suo esserci dato ma anche il fatto che non ci appartiene veramente. Bastano piccole modifica- zioni, turbamenti, anche temporanei, di questi “appoggi” perché l’identità individuale (e forse anche quella di una comunità) vibri, vacilli, si smarrisca, si ammali. Vi sono tempi della vita, quelli che chiamiamo normalmente tempi di “passaggio”, come ad esempio l’adolescenza, la maternità, la vecchiaia, lo sradicamento dell’esule o anche solamente lo spaesamento del viaggiatore o la tempora- nea condizione di “follia” dell’innamorato, ecc…, in cui tutto ciò prende la velocità e l’intensità del turbine e in cui l’identità, ancora in costruzione per alcuni, messa a “testa in giù” per altri, invasa da voci straniere o persino posseduta da forze distruttive per altri ancora diverrà il vero campo di battaglia, su cui l’individuo sarà chiamato a giocare la partita della vita.

2.2.4 L’Io multiplo “Appoggi d’identità”, loro stessi mutevoli e precari, legati non solo al mutamento del quadro culturale e sociale, ma al difficile equilibrio tra mondo interno e mondo esterno che l’Io del sogget- to cerca di raggiungere nel corso di tutta una vita … L’illusione è dunque quella di considerare l’identità riuscita come qualcosa di unitario e stabile, come se l’Io (quella condizione psicologica attraverso cui possiamo dire “Io sono”, “Io faccio”) fosse una sorta di patria monolitica e chiusa. La realtà è ben diversa. L’identità è al contrario un arcipelago che si riconosce come unità nella sua diversità. È abitato dai segni di ciò che mi fa sentire identico a me stesso nello stesso tempo dalle voci più estranee e straniere a me stesso, voci che giungono dai luoghi di un’Alterità, che spesso faccio fatica a accettare. Meno queste voci sono accolte dentro di noi, meno dialoghiamo con esse in modo familiare, più la nostra stessa identità è fragile e a volte malata. Vi sono forme sociali e comportamenti individuali, che stanno, come ad esempio, quelli del fanatico, dell’uomo settario o quelli di una certa violenza gio-

63 vanile legata allo sport, proprio a testimoniare il paradosso di una identità ad una sola dimensione (ad un solo colore), sempre sulla difensiva, arroccata anche con violenza alle proprie convinzioni, ai propri manifesti segni d’identità o al proprio territorio (inteso qui in senso quasi animale) e nello stesso tempo fragilissima. Una volta un filo di ferro e un giunco si misero a discutere su chi tra loro fosse più forte e resistente alle intemperie e ai cambia- menti. Il giunco all’arrivo della tempesta sembrava sbatacchiato di qua e di là, sempre sul punto di rompersi, mentre il “fil di ferro” si erigeva con tutta la sua certezza e immobilità. Ad un certo punto però, mentre ancora il giunco sembrava soffrire e piangere sotto lo sferzare del vento che lo piegava sino a terra, si sentì un fragore violento. Era il “fil di ferro”, che spezzato, cadeva rovinosamente a terra. L’identità del giunco, flessibile, capace di adattarsi ma anche di tornare al suo centro, in grado di prendersi il rischio di essere piegata sino a rompersi, si era rivelata ben più forte dell’apparente durezza e delle certezze arroganti e del “fil di ferro”. Ecco dunque la sfida che l’identità pone a noi tutti, giovani e adulti, indistin- tamente, saper essere sempre fedele a stessa e nello stesso tempo capace di accogliere senza timori dentro la “casa” quelle diversità, quello Straniero, che forse viene da fuori, ma che null’altro è che lo Straniero, che già ci abita e ci fonda. Una sfida difficile di matu- razione personale ma anche di crescita collettiva di una cultura di comunità, che non usi la parola difesa dell’identità per nascondere la sua fragilità e la sua paura.

2.2.5 Il compagno segreto Come raffigurarci dunque i fantasmi di identità, questi viaggia- tori un po’ familiari e un po’ stranieri che sorgono dentro la nostra identità? Partiamo da un esempio letterario, ricordando la novella di Joseph Conrad Il compagno segreto del 191220. Riassuntivamente è la storia di un capitano al momento di affrontare la sua prima prova di viaggio e di comando. E al calar delle tenebre, decide di montare lui stesso la guardia, sconvolgendo la pratica (e l’identità) normale dei

20 J. Conrad, Il compagno segreto, (1920) Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984.

64 lavori a bordo e così commettendo un “errore” (si confronta e assu- me una parte dell’identità altrui, quella dei marinai). I suoi uomini sono sconcertati da questo gesto inconsueto che esce dalla tradizione (il codice formativo professionale) che s’appoggia su un terreno sim- bolico certo in cui tutti si riconoscono.

“Udii l’altro alzare la voce incredulo. - Come? Il capitano in per- sona - Mi resi conto con una certa inquietudine che io - un estraneo - stavo compiendo qualcosa di insolito, quando diedi l’ordine di far scendere sotto coperta tutti i marinai senza disporre di un servizio diporto. Proposi di rimanere io stesso sul ponte…”.

Allora i marinai si ritirano senza nemmeno completare il servi- zio e lasciarono pendere fuori dalla nave una scaletta di corda. La nave (l’identità) è per un momento incustodita. Qui avviene, grazie a questo “errore” iniziale (questa identità che si frantuma) l’incon- tro del giovane capitano incerto con Legatt, il compagno segreto. Il clandestino che il capitano trova nella sua cabina è una presenza da occultare, una sorta di visitatore inatteso e di incerta identità. “La sua imprendibilità (chi è veramente?) è l’incertezza del capitano verso se stesso; la presenza dapprima inquietante e pericolosa diviene poi familiare e capace di restituire l’identità al capitano smarrito. Come scrive Kirschner, nel “compagno segreto, un uomo da rifugio a un fuggiasco e scaccia i propri scomodi sentimenti di estraneità (alla nave, al viaggio) con rischio personale che si assume, per sim- patia istintiva…”21. E come se la forza metaforica di questo racconto ci mostra il dialogo-scontro-riconciliazione fra la parte conscia (il capitano in cerca, in bilico di identità) e le parti inconscie, “inaccet- tabili” (Legatt, il criminale) dell’Io del soggetto. È questa presenza che possiamo chiamare “fantasma di identità”. Scrive Conrad “non ero del tutto solo con la mia nave: poiché c’era quell’estraneo nella mia cabina. O meglio, non mi davo a lei interamente e con tutto me stesso. Parte di me era assente. Questa sensazione mentale di essere in due luoghi nello stesso tempo influiva su di me fsicamente come se lo spirito del mistero mi fosse penetrato fino in fondo all’anima”. Poi sopraggiunge Arcibold, un capitano sicuro di sé (della regola

21 P. Kirschner, Conrad: the Psychologist as Artist Edinburgh, Oliver and Boyd, 1968.

65 professionale, una sorta di figura superegoica professionale) e della sua verità, in cerca di Legatt accusato di un crimine. Il capitano della nave si finge allora sordo (come se volesse mettere tra parentesi le funzioni dell’Io professionale, così che la sordità del proprio “sapere” possa lasciare sentire l’Altro) per poter far sentire meglio a Legatt, il suo “doppio” oramai, ciò che sta dicendo Arcibold. Legatt è nasco- sto dietro una tenda, nelle quinte della scena manifesta guidata da una verità solo “professionale”. Alla fine della novella sarà il cappello bianco donato dal capitano a Legatt che salverà la nave dallo schian- tarsi nelle rocce, facendo virare la nave su quel punto, permettendo così di ricominciare il viaggio con più sicurezza.

Legatt ritorna nelle tenebre. Il giovane capitano acquista nella prova consapevolezza e autorità nel navigare. Sa allora di poter condurre la sua nave. Il compagno segreto è stato la sua traccia divenuta traccia della via, è l’aver riconosciuto l’altro di sé che gli permette di navigare, di comandare la propria nave, superando l’estraneità iniziale. Così Conrad la esprimeva, “a causa di alcuni avvenimenti di nessuna particolare importanza, tranne che per me, mi era stato assegnato il comando della nave solo da una quindicina di giorni. Non sapevo molto del resto dell’equipaggio. Tutti gli uomini erano insieme da diciotto mesi e la mia posizione era quella dell’unico estraneo a bordo … Ma ciò che sentivo di più era il fatto di essere estraneo alla nave e se devo dire tutta la verità ero in certo qual modo estraneo pure e me stesso”. Che cosa in fondo evoca l’immagine di Legatt? Che cosa significa per il nostro capitano? Che cosa significa per ognuno di noi quando l’incontriamo o lo sfuggiamo? Ognuno di noi può consegnarlo ad Arcibold perché lo arresti e lo porti via. Oppure divenire “sordi” per un momento perché lui possa comprendere così il dialogo tra i personaggi del nostro “gruppo interiore” e questo alla fine salvarci la nave e renderci più certi nell’incerta navigazione. Una metafora che si apre a tutto ciò che abbiamo da incontrare, con cui dobbiamo confrontarci in questa navigazione, che è il lavo- ro sociale e l’incontro con l’Altro, su cui si realizza il percorso della identità professionale e il rischio dell’identità relazionale. L’oscillazione tra dimenticanza e ricordo delle tracce dell’identità personale, questo è quello che, a mio modo di vedere, è il lavoro

66 della identità. Quando Legatt se ne va e la nave è salva, il giovane capitano non sa se esserne del tutto lieto. Un senso di nostalgia lo cattura. Qualcosa per continuare a navigare deve essere perso. L’Io di una identità “in progress” è in fondo un Io che sa attingere e abbeverarsi ai rivoli della nostalgia, una sorta di “ Io nostalgi- co” come risultato di un lavoro (“durcharbeiten”) sui fantasmi di identità. Questo a mio modo di vedere la ipotesi di fondo di quanto sto riflettendo. Lavorare sulla professionalità è allora certo necessario ma non sufficiente poiché è solo nell’ascolto della voce di Legatt, che si attua la congiunzione tra le mie voci interiori e le voci dell’Altro. Solo là l’emergenza delle voci nascoste dell’identi- tà, la sua dimensione nostalgica può opporsi alla costituzione del falso e della simulazione. Educare, curare, assistere divengono allora le “scene”, metafore infantili in cui i fantasmi dell’essere curato, dell’essere educato, dell’essere assistito tornano a parlare con voci d’amore e di rabbia, di invidia e di gratitudine, nell’assunzione piena dell’ambivalenza di fondo. Come riconoscerli, come accettarli come propri anche se sembrano venire da “fuori ”)? Incontrare l’Altro è allora per tut- ti una occasione, se ci permettiamo a momenti di divenire ciechi o sordi, come il giovane capitano, in modo così da poter reincon- trare se stessi e una parte della propria storia. In fondo “ciechi” per vedere meglio! È in questo momento che l’identità come risultato virtuale diviene trasparente ai molteplici e a volte contradditori percorsi delle identificazioni, a chi ci ha parlato nella nostra bio- grafia e a chi ci parla ora solo dentro nei tanti “dialetti” dell’in- conscio. Il lavoro sociale e l’operatore sociale non può sfuggire a questa polifonia, anche se questo può trasformarsi drammati- camente nel rumore assordante, fascinoso, incomprensibile e a volte persecutorio proveniente da una “torre di Babele” oramai intollerabile per il soggetto. È necessario dunque l’apprendimen- to di una sorta di nuova “percezione psicodinamica” dell’identità professionale, perché la polifonia rimanga possibilità trasformati- va e spinta creativa.

67 2.2.6 I fantasmi di identità Il concetto di fantasmi di identità è mutuato dalle riflessioni che Alain de Mijolla ha volto attorno al concetto di identificazio- ne e in particolar modo nel suo lavoro del 1986 Les visiteurs du moi. Scrive l’autore “les ‘fantasmes d’identifications’ représentent le stade psychique inconscient qui précède et de qui procèdent un certain nombre de symptômes, de rêves ou de comportements que nous allons tenter di mieux connaître. Ce sont eux qui mettent en ‘scène’ des visiteurs du moi…”22.

Non solo sintomi ma più estesamente variazioni d’identità, in- tesa come espressione globale del sé in interazione con il contesto socio-culturale in cui si fonda la socializzazione primaria dell’indi- viduo. Come leggerle queste ingombranti, loquaci e certo inattese presenze? Come voci per un progetto creativo, come persecutori bizzarri o ancora come irreparabili perdite con cui congiungersi melanconicamente o come soggetti che ci pervadono obbligandoci all’agito? I fantasmi di identità hanno una loro storia nel mito per- sonale e nella ideologia collettiva ed è di questa storia che bisogna farsi carico e ricostruirne la trama. Sono come liquidi di differenti densità mescolati in un recipiente. A riposo le zone non si confon- dono, sono parallele, però basta muoverle un po’ e i limiti diventa- no fragili. Se il movimento aumenta, ci può essere una emulsione stabilizzata per sempre, e un cambiamento di stato. Questo mo- vimento è determinato dalla relazione. Che cosa significano dun- que questi fantasmi che attraversano e determinano l’identità. “Je est un autre” scriveva Arthur Rimbaud per descrivere il mondo di certezze che sentiva rompersi attorno a lui e in lui; certo ma quale altro, quali altri? Tutto un mondo vive in noi dentro la no- stra certissima e impeccabile identità professionale. Tutto è pronto per l’emulsione, per mettere in bilico questa formale certezza. Si ha paura ad interrogare queste ombre assonnate come se qualcosa d’altro poi si potesse svegliare a nostra insaputa. Un cambiamento di luogo di lavoro, come per gli operatori psichiatrici che si muo- vono oramai fuori dall’ospedale, una nuova realtà scolastica come dentro l’universo della scuola media, l’incertezza di un territorio

22 A. De Mijolla, Les visiteurs du moi, Confluents psychanalytiques, Les Belles Lettres, Paris, 1986.

68 così debolmente simbolico come quello dell’educatore, produco- no sorprese, dubbio, voglia di rinsaldare le file nello specialismo o annullarne gli effetti in una polivalenza senza punti di riferimento, producono l’incapacità di fare quella integrazione o interazione tra spazio, tempo e ruolo sociale necessario, per sapere dove si è lungo la navigazione. Il non ascolto dei “visitatori dell’Io” (fantasmi di identità), la colonizzazione a cui ci sottopongono o la collusione con essi formano la triade sintomatica dell’identità professiona- le capace di costruire formazioni simulacrali e false dell’identità stessa. Forme vuote, inerti secondo le varie modulazioni della im- postura. E a questo punto che sorge importante la riflessione sul “gruppo di lavoro”, sull’équipe come analizzatore di questi “Al- tri” che ci percorrono e che si mostrano nelle mutazioni affettive, fantasmatiche e comportamentali secondo i vari livelli della cate- na economico-simbolica dei soggetti che la compongono. Ma di questi aspetti specifici parlerò in un’altra occasione. Quali figure teoriche assumono allora la capacità di coagulare l’apparizione dei fantasmi di identità nel loro attraversare silenzioso anche gli aspetti più ovvi e quotidiani del “lavoro sociale”?

Alcune di queste figure le individuo in altrettanti scenari su cui misurare, qualificare la specificità dell’incontro.

1. Il rapporto d’amore come luogo del transfert e delle vicissitudini della seduzione. 2. La trama di una identità (di un Io) nostalgica che l’Altro ravvi- va, riproponendo un vissuto di perdita e insieme di “messa al mondo”. 3. La dimensione dello sguardo e la mutazione delle cose. 4. L’amicizia come incerta nozione tra collusione/confusione e libertà. 5. La passività come dimensione fondante l’ospitalità e l’accoglienza.

Non voglio qui entrare nel dettaglio di queste “figure che meri- tano a loro volta un lavoro approfondito che esula da questa intro- duzione e che mi riservo di fare altrove, tuttavia qualche appunto generale e ancora provvisorio, per concludere.

69 1) La costituzione dell’identità, scrive Pogatschnig23 si presenta iscritta fondamentalmente in un rapporto di amore che precede il logos e stabilisce la trama delle vicissitudini identificatorie con cui il soggetto diviene tale. E proprio la dimensione dell’amore e della passione che intacca la saldezza del cogito e la sua unità “purifica- ta” (e anche la sua moderna propensione all’esattezza delle cifre), e definisce la non centralità della coscienza, di cui è stata ed è anco- ra testimone la rivoluzione freudiana. Vi è una immissione di un “altrove” che contamina continuamente l’ordine della praxis come quello del pensiero. Di fronte a questo smarrimento si può rafforzare come già dicevo il codice o racchiudersi tautologicamente nell’or- dine delle “cifre e delle curve” oppure assumersi come elementi di “precaria verità” la tensione e la rappresentazione che questo “sapere della passione”24 introduce nel reale. Questo è in fondo il senso di quel “navigare” che abbiamo assunto a metafora del nostro lavoro sull’identità. Come non pensare allora alla dimensione del “dop- pio” che la psicoanalisi ha ripreso e approfondito dalle raffigurazioni letterarie del romanticismo ottocentesco (Hoffmann, Poe, Nerval, ecc.). E attraverso la via angusta di questo sdoppiamento (doppio, sosia, ombra, altro)25 che il soggetto trova, ritrova, costituisce pa- radossalmente la sua identità. Una identità allora che rimanda co- stituzionalmente a qualcosa che lo nega, che la “inabissa”. Non c’è dunque nella relazione con l’Altro un Io che ha da svelarsi come già dato (l’Io professionale già dato) possessore di una coesione e unità a cui assimilare (violentemente) il partner, ma piuttosto, da entrambi i lati del rapporto Io-Tu, una costituzione di se stessi come identità, proprio nel momento in cui, presentificandomi mi decentro e mi ritrovo paradossalmente nell’Altro. Operazione certo a rischio poi- ché “dolce è il perdersi”, dolce lo smarrimento nell’universo di un ritrovamento illusorio quanto a volte gratificante. Ma dentro l’amo- re che costituisce legami, scambi è all’opera anche un principio di

23 M. Pogatschnig, “Le identità scambiate”, in Aut Aut, 206-207, 1985. 24 A questo proposito cfr. F. Rella, La battaglia della verità, Feltrinelli, 1986 in cui discute il significato di un “sapere della passione, di un logos come mescolanza e non più come ‘purezza’ decontaminata a fondamento di una episte- mologia che può avere il suo significato di sfondo anche per i campi di pensiero e di azione di cui stiamo qui parlando”. 25 O. Rank, Il Doppio, Sugarco, Milano, 1979.

70 seduzione, che tende alla dipendenza, all’assoggettamento dell’Altro. “Quand deux etres parlants se rencontrent, un principe de séduction est à l’oeuvres, il remplace et il appelle l’autre chose qui manque”26. L’ “autre chose” è ciò che fa il desiderio racchiuso dentro i fantasmi di identità e che siamo chiamati a riconoscere continuamente, e che ogni incontro inevitabilmente e incessantemente fa sorgere. La se- duzione (che è, a mio modo di vedere, costitutiva, inevitabile all’in- contro stesso e immediatamente la sua più mortale trappola, spesso presente nella ripetizione) è come una prima “mise en place” della dimensione inconscia. È una sorta di “levier” che fa sorgere i fanta- smi di identità, è ciò che più coscientemente determina i sentimenti che l’Altro è capace di suscitare al suo primo apparire. (Quanto la nostra disponibilità, la qualità e la quantità del nostro intervento è iscrivibile a ciò che è dell’ordine della simpatia o dell’antipatia che l’Altro è capace di provocare in noi, anche se tutto ciò passa per lo più inosservato?). “La séduction ne serait-elle donc que le contact de deux ‘inconscients’, quand deux discours enroulés l’un sur l’autre et pris dans la spirale qui les excèdes, se retrouvent a lieu commun de leur inconscience” ? E non è questo “ritrovarsi” in un luogo comune la virtualità inerente ad ogni incontro? Incontro di due soggetti, di due o più figure del desiderio? L’amore-seduzione lo rende possibile, lo fa evento. L’amore poi lo rende discorso, mentre la seduzione fa dell’Altro solo te stesso, del suo dire il tuo dire in una circolarità interminabile. Si potrebbe anche pensare che l’amore fa prendere al desiderio la forma del fantasma e lo fa attraversare i momenti della relazione che ne viene così vivificata. La seduzione all’opposto “eter- nizza” questo attraversamento, lo rende ripetizione, feticcio (le prese a carico interminabili…!).

2) L’identità nostalgica che si presenta nella vicenda del giovane capitano di Conrad è l’ingombro del soggetto a se stesso. L’Io che la relazione (non seduttiva e feticizzata) svela è un Io nostalgico, che si è lasciato qualcosa alle spalle (sul versante dell’identità per- sonale e professionale) per acquisire sull’assenza una nuova realtà, nata dentro l’incontro, dentro il desiderio dell’Altro. Ma la nostal- gia è un ritorno doloroso, che l’Altro ci rinnova, contro cui ten-

26 D. Sibony, L’amour inconscient, Grasset, Paris, 1983; sul tema della seduzione cfr. inoltre i diversi contributi apparsi sulla rivista Etudes freudiennes, 27, 1986, “De la séduction en psychanalyse”.

71 tiamo il più delle volte di proteggerci rinforzando la somiglianza (non c’è perdita) o la differenza (nel tecnicismo) che evita qualsiasi “ritorno”. Come nel racconto di Conrad la presenza minacciosa e rischiosa diviene nella fragile soglia dell’amico-nemico presenza familiare, ma anche inquietante perché ignota. L’Io dell’identità personale e professionale diviene un Io nostalgico dunque, di qual- cosa di sé che si è lasciato dietro e che si vuole “formare, curare, restaurare, riparare” … In questo cammino di un’estraneità che si fa vicina e di una vicinanza che si allontana, il comandante della nave ha percorso e ha acquisito una parte di sé, posta nella forma dell’Altro e della sua duplicazione. Così il rapporto con il clande- stino è il rapporto con l’identico ma anche con l’alterità in cui, quando qualcosa si è conquistato, nello stesso tempo si rende di nuovo. La relazione quale è allora la possibilità di vivere lo spae- samento di sé che è condizione del ritrovamento di ciò che si è perso. E l’oscillazione tra una assimilazione che annulla l’altro e un distanziamento definitivo. Come riconoscere la soglia, il solco che impedisce la fusione e lega nello stesso tempo i bordi. Qui, è utile sottolinearlo ancora, la problematica del “terzo” che fa da “spazio intermediario”27 assume un ruolo decisivo dentro l’enigma dell’in- contro e della pratica del lavoro psicosociale. È ciò che permette e proibisce, avvicina e allontana.

3) La dimensione dello sguardo. Scrive Peter Handke in Trasforma- zioni nel corso di una giornata, “il legame con le cose mi definisce e mi generalizza. Gli sguardi altrui mi categorizzano in una identità comune … Un tram mi fa passeggero, un bambino mi fa adulto, un guardiano mi fa persona non autorizzata … Per uno sguardo nel buio sono una figura dell’oscurità”28. Dal mondo mi vengono identità plurime. Sono utente e operatore, malato e infermiere, al- lievo e docente allo stesso tempo. “Mi siedo sull’erba accanto ad

27 Sul tema della “intermediarietà” cfr. Kaes, “La catégorie de l’interméd- iare chez Freud”, in L’Évolution Psychiatrique, 50, 4, 1985, 893-926, e il mio lavoro “Postilla a Note per un modello teorico. L’Antenna come spazio interme- diario” in Mutamenti generazionali e fenomeno droga. Esiste un nuovo tossicomane?, G. Martignoni (ed.), Edizioni Alice, Lugano, 1986, 201-215.

28 P. Handke, ll mondo interno dell’esterno dell’interno, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 52-54.

72 uno e sono finalmente un altro. Vi è come un processo di cattura da parte dell’Altro in cui l’impossibile pacificazione tra me e lui è in- sieme motore e tomba della relazione. Sembra di sentire le parole di Martin Buber, “non vi è un Io in sé ma solo l’Io della coppia Io-Tu” (una tesi fatta propria anche da Winnicott). L’amicizia e la passività divengono qui due modi di essere dentro la coppia Io-Tu, due figu- re virtuali in cui indagare, nella dualità che rimanda a un “Terzo” presente-assente, il processo di costituzione stesso dell’identità. Una sorta di ritorno dall’identità relazionale a quella personale divenuta allora per un momento più completa, più vicina al suo “segreto”.

4) L’amicizia. L’amicizia è un concetto inconsueto e spesso in- compreso nella pratica sociale. Richiama facilmente la collusione, la confusione, la non-professionalità. A mio modo di vedere però, rac- chiude, in un suo ripensamento concettuale, anche una dimensio- ne esistenziale nell’ordine dell’incontro che può fare salutare effetto di perturbamento sulle nostre certezze. Scrive Blanchot nell’Amitié nel 1972, “l’amicizia, questo rapporto senza dipendenza, senza epi- sodi in cui pure entra tutta la semplicità della vita, passa attraverso il riconoscimento della comune estraneità che non ci consente di parlare dei nostri amici ma solo di parlare con loro … Il movimento di un’intesa per cui parlando con noi anche nella più grande fami- liarità serbano la distanza in vista. La fondamentale separazione a partire dalla quale ciò che separo diviene rapporto”29. È in questa distanza allora così terribilmente vicina, “legame” più che semplice e immediata appartenenza a qualcuno (anche a se stessi) che si fon- da la relazione. Estraneità, separazione che fonda paradossalmente il rapporto io-tu. Il bordo dell’identità oscilla qui tra il pericolo della captazione seduttiva e il rischio dell’impossibile contatto. Il rapporto con l’Altro si stabilisce sul versante duplice della costitu- zione e dell’oblio di sé, nelle modalità dello stare “per”, dell’essere “come se”, del divenire “al posto di”. L’altro che mi istituisce è an- che l’altro che mi consente di evadere da me in un altro possibile di me (l’ideale). Questa è una linea di fuga. Nella relazione affido così all’Altro anche il compito di sostituirmi. Con l’Altro ripetiamo infinitamente il gioco del rocchetto, in cui chi appare e di nuovo

29 M. Blanchot, L’amitié, Gallimard, Paris, 1972.

73 scompare non è la madre rassicurante ma io stesso. L’identità quin- di si colloca tra evasione e istituzione di sé stessi. Come dunque rimanere presso di sé nel cambiamento? Come esserci pur nel va- gabondare del navigante? Come assumere l’esilio dell’identità senza cadere nella disperazione o nella confusione? Questa è la posta in gioco del lavoro sociale. 5) L’accoglienza come ospitalità30. Le professioni sociali sono di fronte all’oscillazione continua tra attività e passività. Anzi si po- trebbe dire quanto in esse vi sia di valorizzazione dell’una, l’attività, il fare, rispetto all’altra. Una passività vissuta come impotenza, inca- pacità più che come condizione all’ascolto e alla ricettività ospitale. Forse è proprio dentro questo tanto inabituale concetto che può iniziare una interrogazione sul senso e sul percorso del nostro “agi- re” quotidiano. Forse è necessario, partendo dalla dimensione più inquietante della passività quella che indebolisce per un momento l’identità professionale, ridare a questa esperienza il suo posto fon- dante la pratica di “accoglienza”. Un indizio in questo senso può essere ripreso dai lavori di Lévinas, a cui faccio qui solo un breve cenno e dalla sua particolare elaborazione del concetto di passività. Levinas discute l’accezione limitativa della categoria ricettività/ac- coglienza. La passività non è il contrario dell’attività. Essa chiama in causa l’intero atteggiamento soggettivo. È attraverso la passivi- tà che si attua il movimento stesso della erosione e della ricerca dell’identità. È là dove si arresta il fare (guarire, formare, restaurare) nell’educare, nell’assistere, nel curare. Là dove si ascolta, si accom- pagna, si accoglie la capacità dell’allievo, il desiderio del paziente. È uno stupore, un essere colpiti nell’incontro (betroffen sein) da qual- cosa che non era previsto. E un ritrarsi: passività è movimento di indebolimento dell’identità verso una identità patica, o forse etica come scrive Levinas, come stile, tono, disposizione verso le cose del mondo. L’identità patica viene da lontano, è accompagnata dai suoi “vi- sitatori”. La passività è dunque una condizione della ospitalità, è

30 Il riferimento è alla concettualizzazione dell’accoglienza, “l’accueil”, fatto dalla psicoterapia istituzionale francese e dalla scuola fenomenologica, in particolare cfr. J. Oury, Il, donc, 10/18, Paris, 1978, e A. Bidault, “Approche du schizophrène en milieu institutionnel” 10/18, La folie, no. 1, Paris, 1977; si veda pure il mio lavoro “Là, per i luoghi della narrazione - viaggio tra gli oggetti istitu- zionali” in Bloc Notes 11-12, Bellinzona, 1985/86.

74 qualcosa che fa funzione di “ospite” di ciò che ci viene da dentro e/o fuori da noi. Vi è un riconoscimento di una dipendenza, di una debolezza dell’Io, non di una presunta forza unitaria che dà il tono complessivo alla soggettività e all’incontro. Etica è la capacità di mantenersi all’interno di questo movimento. L’“insonnia” sempre secondo Lévinas è la grande esperienza di passività senza vigilanza. L’oscillazione veglia-risveglio diviene il passaggio da una vigilanza ad un modo della presenza. A volte bisogna dunque rinunciare ad essere per un momento vigili per divenire “presenti”. Sul concetto di passività come metafora del rapporto con l’altro scrive provo- catoriamente Levinas: “il apparait ainsi que à la base du besoin il n’y a pas une manque d’être, au contraire une plènitude. Le besoin n’est pas dirigé vers l’accomplissement totale de l’être limité vers la satisfaction mais vers la délivrance et l’évasion”31. Come garantire allora una “risposta” che non sia illusione di una completezza (a volte solo additiva) ma una possibilità aperta ad una “evasione” che ridia lo spazio di libertà e di creatività al soggetto? Come essere “mediatori”, “accompagnatori” di un processo di li- berazione? A quali “bisogni” dobbiamo oggi rispondere, a quale “soggetto” tendere l’ascolto? Forse bisogna rifondare dentro con- cetti-metafora come quelli di passività, di identità nello sguardo, di amicizia, un pensiero sulla soggettività oramai indissolubile dalla questione sull’identità. Una rifondazione che prende avvio dalla denucleazione del soggetto e dall’erosione dell’identità attraverso la passività di fronte all’Altro. Si tratta di discendere da ciò che “l’evi- denza rende chiaro verso un soggetto che piuttosto che annunciar- visi vi si spegne”, scrive Lévinas. Verso un risveglio in cui si profila una razionalità che rompe con le norme che comandano l’identità del medesimo. In questo campo di battaglia “epistemico” e antropo- logico si va a collocare anche questa riflessione ancora frammentaria su una sorta di “teoria della pratica” del lavoro sociale, assistenziale e curativo. E qui che ho tentato di pensare al “lavoro” dell’identità. Uno sguardo all’oscillazione tra la dimensione etica e quella tecnica dell’incontro che la crisi dell’esistere e le nuove forme di sofferenza

31 E. Levinas, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris, 1978; inoltre sulla ela- borazione del concetto di passività in questo autore cfr. P. A. Rovatti “L’insonnia. Passività e metafore nella fenomenologia di Lévinas”, in Aut Aut, 209-210, 1985 e S. Petrosino, La verità nomade, Jaca Book, Milano, 1979.

75 antropologiche oltre che reali, oramai impongono. Una riflessione sull’identità risulta alla fine essere possibile solo nella disillusione32, come la intendeva Winnicott, non dunque nelle illusioni perdute ma nella perdita dell’illusione onnipotente, su cui rifondare il nuo- vo. E qui che si snoda il cammino per ricercare nuove vie, nuovi as- setti, nuovi modelli, in un inesauribile, necessario e quotidiano la- voro. In fondo come le vicissitudini dell’identità, che anche quando sembrano apparentemente concluse, rimandano immediatamente, se ne vuole seguire la via, ad un altrove sconosciuto. Navigare l’in- certezza, dunque! Strategie di navigazione, capacità di essere sempre di nuovo, come operatori sociali, stupiti, sorpresi! Come scrive Jean Cocteau “les miroires feraient bien de refléchir un peu plus avant de nous renvoyer notre image”, poiché è nella deformazione/dislo- cazione di questi specchi che può essere costituita e riconosciuta un po’ della storia del soggetto.

2.2.7 Riassumendo in undici soste Quale è, per concludere il nostro percorso, l’orizzonte, tra virtù e competenze, tra conoscenze e abilità, tra vo-cazione e professione, su cui collocare la formazione di chi è chiamato alla cura e all’aiuto dell’Altro sofferente nell’anima, nel corpo, nei suoi rapporti con il mondo? Questo il quesito costantemente posto e suscitato pro- prio dalla condizione epistemologicamente e metodologicamente fluttuante del lavoro educativo e sociale in un tempo di grande mutazione antropologica. Il nostro itinerario formativo è sempre stato quello di navigare tra Scilla e Cariddi. Da una parte quello che potrebbe chiamarsi il “Sociologico” e dall’altra lo “Psicologico”. Il “Sociale”, come ci ha insegnato ad esempio la lezione fenomenologica di Alfred Schütz, non è però riducibile né all’uno né all’altro, ma è da pensare come una categoria dell’esperienza di vita, come l’intreccio e l’intrigo tra i due, tra forme dello psichismo espanso e le interazioni interumane intersoggettive e collettive ed ecologico-ambientali. Se Psicologia e Sociologia (qui richiamate, per semplicità, come due dei poli fon-

32 A questo proposito cfr. J.-F. Rabain, Le maternel et la construction psychique chez Winnicott, conf. en ligne, SPP, Paris, 2002 e inoltre D.W. Winni- cott, Jeu et réalité, Gallimard, Paris, 1975.

76 danti delle scienze umane) appartengono alla dimensione catego- riale, il Sociale appartiene all’esistenza, che si possibilizza in gesti, in parole e in emozioni. Il Sociale come luogo di una “corporeità incarnata”, segnata da tracce, da memorie individuali e collettive ma anche da vaste amnesie. È dunque la dimensione del vissuto esperenziale (Erlebnis) che sta al centro del nostro cammino for- mativo. Un’esperienza che cresce e si ampia incontrandosi con i contesti territoriali e istituzionali più vari, dalle istituzioni stazio- nari, alle istituzioni “leggere”, dalle istituzioni di cura a quelle di accoglienza, di protezione. Come ben si vede il profilo teorico e pratico della cura educativa a confronto con il Sociale, ma anche nell’educativo e nel sanitario (ovviamente con le loro specifici- tà), appartiene a quella dimensione della terziarietà, che è rivela- ta non tanto dall’ovvio lavoro interdisciplinare, quanto piuttosto da quello transdisciplinare (come nella lezione di Edgar Morin, di Stéphane Lupasco, di Basarab Nicoluscu, cfr. la Carta della transdi- sciplinarità del 1994)33. Tutto ciò implica grande attenzione a non scivolare da una parte o dall’altra, garantendo una formazione multifocale, da una par- te attenta alle relazioni intersoggettive “uno ad uno” e dall’altra a quelle collettive, gruppali e mondane. È come se gli abitanti di Scilla dovessero far posto e ospitare quelli di Cariddi e viceversa. Ogni famiglia disciplinare, con le sue categorie e i suoi linguaggi e le sue pratiche, deve così dichiarare i propri limiti sui quali i Saperi e i Metodi dell’altra possono divenire generatori di altri Saperi e di altre Pratiche. Una convinzione che potrebbe unire i diversi sguar- di, che si confrontano sul terreno del sociale, che voglio esprimere con le parole di Henri Maldiney (1961), “Si l’homme n’est pas un objet, que signifie l’objectivité des sciences humaines”? E in particolare, aggiungo io, della sociologia, della psicologia e della pedagogia soprattutto nella loro deriva meramente “ingegneristi- ca” e utilitaristica ? Un cambiamento di paradigma che certo aiuterebbe a porsi adeguatamente di fronte al problema fondamentale del senso della vita, che vediamo così spesso infranta, lesa, ferita, perduta nei no- stri utenti, pazienti, ospiti, ecc …

33 B. Nicoluscu, Transdisciplinarité. Manifeste, Edition du Rocher, 1996.

77 Tutto ciò ha però bisogno di un orizzonte etico su cui collocare il nostro progetto formativo e quindi anche la specificità del nostro Modello. L’etica a cui qui faccio riferimento non si riduce però a mere procedure, protocolli e codici deontologici, ma è costituti- va dell’esistenza stessa, è “ethos”, soggiorno e dimora dell’uomo, è appello e chiamata verso l’Altro. L’appello etico è chiamato ad “essere”, come nella lezione di Lévinas. Ecco perché il nostro itine- rario formativo vuole accompagnare gli studenti, accanto alla loro crescita professionale, in quella più personale (sempre rispettosa dei limiti del setting formativo) e infine in quella etica, dove abitano parole come dignità, responsabilità, cittadinanza … Il richiamo costante alla pratica e all’esperienza vissuta e narrata è così essenziale per ripensare alla categoria dell’azione (cfr. Gabriel Marcel), che non è un semplice saper fare o un mero protocollo convezionale e già prestabilito, ma è soprattutto capacità creativa e generatrice di nuovo. Ecco perché è necessario favorire nella for- mazione la creatività, che non è solo progetto ma vera e propria Opera. Scrive a questo proposito Jean Oury in Creazione e schizo- frenia (1989): “Una malata schizofrenica, con un delirio mistico, passava il tempo a raccattare vecchi stracci, pezzi di lana, pezzi di filo. Era molto importante, per lei, raccogliere le cianfrusaglie del mondo per costruire qualcosa. E su quei vecchi stracci comple- tamente usati passava un po’ di matita colorata … Eppure, era un’opera. Aveva attirato l’attenzione di alcuni visitatori che si sono detti: ‘Povera donna, raccoglie questi rifiuti! Facilitiamole il lavo- ro’. E le hanno comperato stoffa e filo in rocchetti già confezionati. Non ha più fatto opere…”. Un ultimo ma essenziale richiamo tocca il tema della creatività. Creatività come condizione di tutta l’azione sociale, come educa- zione al Bello e non solo come semplice tecnica. Remo Bodei nel suo testo Le forme del bello, scrive che il bello “tiene sempre in ser- bo la sua ultima arma: la sorpresa” e aggiunge che questa sorpresa è data dal continuo sorgere di forme impreviste di bellezza. Ma per parlare del bello e del suo elemento sorpresa abbiamo bisogno di un ingrediente indispensabile, che Bodei appunto segnala essere la creatività. Mutatis mutandis nella nostra formazione dovremmo permettere agli studenti di avvicinarsi sempre più alla forma del- la “bella relazione” ossia della relazione che sia foriera di felicità,

78 di possibilità di incontro, che non è solo relazione o buona co- municazione. Sempre Bodei definisce così la creatività (come non ricordare qui la lezione di Winnicott e del suo spazio potenziale), “lo sconvolgimento degli schemi e degli stili abituali, con l’appa- rire struggente - accompagnato da un ‘brivido’ analogo a quello che si prova nell’esperienza del sacro - di qualcosa di nuovo che ci sembra, tuttavia, di aver sempre conosciuto, come se fosse l’eco in chiaro dei nostri più oscuri sentimenti e dei nostri più confusi pensieri”. Questo mi porta a rilevare un punto critico della nostra formazione. Quanto spazio è lasciato alla creatività ai nostri stu- denti? I momenti creativi sono relativamente pochi, musica, pit- tura, ecc … quasi assenti. Quelle che nella Repubblica di Platone si chiamavano le arti dinamiche non stanno certamente al centro del nostro dipartimento. Si è provato qua e là, ma ho l’impressione senza troppa convinzione, come se fossero cose belle ma seconda- rie. Credo anche di intuire la ragione. Si è privilegiato, forse trop- po, quella che Gilbert Durant chiama la ragione diurna lasciando quella notturna (la ragione sensibile, di cui ho parlato) sullo sfon- do. Al centro vi è un’episteme basata in modo più o meno esplicito (lo dico riduttivamente) su di una concezione “positivistica” delle scienze sociali (ovviamente di antica e nobile memoria) ma inca- pace di dire il mistero del mondo o almeno la sua parte invisibile. Questo per dire che a mio modo di vedere bisognerebbe incremen- tare uno sguardo sul lavoro sociale e sull’identità dell’operatore, che tenga più conto di questa dimensione, diciamo per semplicità, creativo-poietica. Come ben sapete vi sono corsi di laurea in lavoro sociale nel Nord Europa in cui si insegna musica, si disegna, si fa teatro, ci si occupa di retorica, e anche della voce, insomma arte e vita, privilegiando così una ragione estetica, senza con questo per nulla confondere l’azione di aiuto e di cura nel sociale con le sole tecniche di animazione (ne sarei il primo critico). Animare infatti non vuole dire meramente “intrattenere” o solamente “socializza- re”, ma, come scriveva il poeta Keats, vuol dire “fare anima” (che è ben altra cosa!) e con gli sconfitti e i feriti della/dalla vita e del/dal mondo non è cosa comunque da poco (…). Questi assi teorici nutrono le nostre lezioni e i nostri program- mi. Un punto è però per me importante e decisivo. Nasce dal- la pratica quotidiana e vuole ritornare alla pratica quotidiana. È

79 per me (anche se nei corsi a volte parliamo di cose importanti ma apparentemente lontane) il cuore dell’architettura formativa, che deriva dalla mia concezione dell’identità dell’operatore sociale e del telos del lavoro sociale stesso. È la questione fondante e fonda- mentale della relazione all’Altro (nelle forme dell’Altrui, dell’Alterità e dell’Alienità), che mette in crisi prima di tutto se stessi, che è pra- tica dell’intersoggettività incarnata, che svela l’accadere e l’azione dell’incontro. Dunque anche una sorta, non solo di fenomenolo- gia dell’azione, ma anche di etica dell’azione. Ma, incontro con che cosa? Azione verso/per/con chi e verso/per che cosa? Inevitabilmente (da non mai scordare) con la sofferenza, il dolore, l’ingiustizia, il trauma, la ferita d’esistenza, ecc … sempre e dunque con chi è per anche solo un momento sconfitto. Il tema tragico dunque della vulnerabilità e della fragilità esistenziale, psico- logica, antropologica e socio-economica. Dalla parte degli sconfitti perché ritrovino la strada per risalire, per sperare e forse anche rende- re possibile i possibili. Da qui il senso militante di un’etica dell’incon- tro e del lavoro sociale, che vuole e deve essere sempre e comunque trasformativo della realtà individuale e collettiva. La nostra idea di Cura (la scrivo infatti con la maiuscola), è bene ri- badirlo, non ha nulla a che fare direttamente con la cura medico-psi- cologica e nemmeno con la/le terapie in senso stretto, anzi è a volte critica proprio nei confronti di questi approcci, che portano sulla strada sdrucciolevole di quei fenomeni deteriori di “medicalizzazio- ne”, “sanitarizzazione” o “psicologizzazione” di tutta una società e di conseguenza dei servizi di assistenza e di aiuto. È Cura dell’Altro (l’avere cura dell’Altro, ancor più del curare o del prendersi cura), ma anche foucaultiana “cura di sé”. Non basta infatti per divenire un “buon” operatore sociale, come mi ha detto un collega34, una vera passione per la materia di studio, da affrontare con costanza e perseveranza e non basta avere passione e amore per le persone che ci chiedono aiuto, anche se entrambe queste passioni sono essenziali e ineludibili. Bisogna anche avere una passione per la cura di sé, condizione fondamentale per fare delle nostre vulnerabilità, non un ostacolo o un pericolo, ma un vero strumento di lavoro.

34 Devo questa riflessione sulle tre passioni necessarie a divenire un buon operatore sociale e psicoeducativo a Stefano Artaria, direttore del Centro terapeu- tico per adolescenti Arco di Riva San Vitale.

80 2.3 L’operatore sociale sospeso fra orizzonte e dettaglio Ornella Manzocchi

Giobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui sino allo spuntar dell’alba Genesi, 25, 32

2.3.1 Dalla vocazione alla motivazione Incontrando gli studenti che si stanno formando per divenire operatori sociali, così come ritrovandoci fra professionisti dell’aiuto e della cura che già sono in attività, una domanda sorge spontanea: cosa vi ha spinti ad occuparvi della cura dell’Altro? La storia ci inse- gna che ci fu un tempo in cui i filosofi, ossia i costruttori di sapere, si occupavano direttamente della cura del corpo e dell’anima costruen- do un sapere relativo alla cura di Sé e dell’Altro che avesse coerenza e potesse definirsi “vero e giusto”. Tutti gli altri, il popolo, il cittadino della Polis greca, coloro che dunque non erano filosofi, come in se- guito il servo medioevale, il vulgos del rinascimento, si occupavano della cura del corpo non per conoscenza e cultura ma per vocazione.

“Vocazione” dal Dizionario Etimologico Zanichelli, significa “Chiamata rivolta dalla divinità a un uomo perché elegga la vita religiosa o compia opere volute da Dio, figurativamente inclinazione innata verso un’arte, una disciplina, una professione”. Nel corso della storia dell’umanità, con il diffondersi delle Acca- demie e delle Scuole Universitarie, la cura di Sé e dell’Altro passa via via da una dimensione vocativa ad una professionale. Figlio illustre di questa evoluzione è il pensiero scientifico positivista35 che legge l’uomo “positivamente”, ossia ricerca la causa e la possibilità della

35 Indirizzo filosofico caratterizzato dalla posizione privilegiata che in esso assumono le scienze naturali quali unica fonte legittima di conoscenza anche nel campo della psicologia e della sociologia. Invece che al Dio trascendente il positi- vismo “crede” nell’Umanità. Questo movimento divenne l’indirizzo predominan- te della seconda metà del XIX secolo.

81 sua guarigione dentro l’ordine dell’invisibile (i liquami che parlano della salute dell’uomo), dando così inizio alla medicina del viven- te. Tale medicina porta alla descrizione dell’uomo “nell’ordine della distanza”. Per conoscere l’uomo secondo l’obiettivo dell’esattezza occorre guardare l’uomo come un’entità organica che possiamo stu- diare, ma che non ha bisogno della nostra presenza, della nostra vici- nanza. È durante questo secolo che nascono le prime grandi scuole, nell’intento di strutturare ciò che prima era lasciato alla vocazione, che ricordiamo significa “qualcuno ti chiama”. La Chiesa istituisce e controlla Accademie che sappiano costruire un sapere che leghi dogmi e positivismo. In seguito il sapere, anche quello medico in senso lato, si svilupperà secondo modalità sempre più svincolate dal potere religioso, arrivando sino ai nostri giorni. Ed è così che lenta- mente si è eroso il potere trainante della vocazione sorretta da una fede incrollabile nella voce interiore che rappresentava il richiamo di Dio, lasciando spazio ad un sapere laico che richiede al curante una motivazione forte che nasce sì dall’interiorità ma che è sorretta e nutrita da un sapere che richiede a sua volta conoscenza e fiducia e che si scontra o al più non necessita della fede. Potremmo affermare che da questa contrapposizione tra vocazione e sapere laico nascono i temi forti della professionalizzazione della cura: la conoscenza, il sa- pere, l’attitudine alla relazione e all’aiuto, l’interesse per le vicissitu- dini dell’Altro sofferente, la creatività, l’etica, la conoscenza di sé, le competenze, la progettualità, ecc., ossia tutto ciò che ci si aspetta da un professionista della salute in senso lato. Stando a quanto sin qui scritto è lecito affermare che affinché un professionista della cura, nel nostro caso della cura della quotidianità, ossia della cura “della e nella” relazione, si possa definire tale, occorre sappia tenere in ten- sione una coppia di attitudini apparentemente antitetiche: la capa- cità di dare e la capacità di ricevere. Dare e ricevere nella relazione formano una coppia imprescindibile sia nella costruzione del sapere che in quella della relazione. L’esperienza insegna che lo studente nel corso della formazione, seppure interessato, colto e talentuoso, segue talvolta le lezioni sostando nella posizione passiva di colui al quale viene offerto cibo per la mente, senza troppo riflettere sui contenuti ricevuti o su ciò che desidera, che lo incuriosisce o che gli manca; infine talvolta senza darsi la pena di partecipare fattivamente alla costruzione di questo sapere. Tutto ciò lo possiamo declinare anche

82 nella relazione fra curante e curato/paziente/ospite. Capita infatti che l’ospite cada e resti imprigionato, o sia involontariamente man- tenuto tale, in uno stato di passività nei confronti di colui che si ado- pera per offrirgli una cura, non partecipando così in prima persona alla costruzione della cura di Sé.

Chiaro, direte voi, noi tutti seguiamo o abbiamo beneficiato di una formazione proprio per ricevere dai professori le loro suggestio- ni, così come quando siamo pazienti ci attendiamo che siano i nostri curanti ad occuparsi di noi, a pensare a e per noi. Ogni persona di buon senso sa però che se non siamo disposti a dare, se non abbiamo un animo umanamente e intellettualmen- te generoso, difficilmente saremo in grado di accogliere ciò che ci viene offerto. Insomma, per saper ricevere occorre saper dare. Così ciò che ritenevamo semplice (ricevere un sapere, ricevere una cura) si rivela sovente difficoltoso tanto quanto se non di più del dare e saper offrire cura. La condivisione, compartecipazione, com-passio- ne, com-prensione, ecc. all’interno di un quadro chiaro e definito di bisogni e di capacità, di responsabilità e di riconoscimento, riman- gono un punto di arrivo per ogni e per qualsiasi tipo d’incontro, a maggior ragione nell’ambito della cura dell’Altro in difficoltà, mala- to, sofferente, addolorato, ferito, “infragilito”, spaventato ecc.

Dare e ricevere non sono che due vertici alla base di un triangolo in continua tensione e mutevolezza, al vertice del quale sta la perso- na con la sua identità relazionale. Questa tensione fra poli rappre- senta la nostra capacità di funzionare mentalmente, di sentire e di pensare, di esser-ci di pro-gettare e di fare.

Esser-ci

Pro-gettare Fare

Potremmo paragonare la tensione fra questi punti all’oscilla- zione di un pendolo che si sposta dal polo del dare a quello del

83 ricevere, avendo come punto d’origine la persona. Più esso oscilla energicamente verso il polo del dare e più riceverà una spinta verso il polo del ricevere e viceversa, in un continuo ritmo oscillatorio che determina la crescita del nostro essere, del nostro sentire, del nostro pensare, del nostro sapere, del nostro fare. Una crescita che prende forma e si intesse di riconoscimento, gratitudine, stupore verso ciò che riceviamo e di riconoscimento, responsabilità, gratu- ità nei confronti di ciò che sappiamo offrire.

Identità relazionale

Ricevere Dare

Riconoscimento Riconoscimento

Gratitudine Responsabilità

Stupore Gratuità

Ricevere Dare

Per l’operatore sociale, ai fini di svolgere il proprio mandato in modo sensato, è utile tenere in considerazione tre caratteristiche dell’essere umano. In primo luogo il fatto che la mente umana sembra avere necessità di esperienze legate all’incontro con il sa- pere, il realistico e la veridicità; tanto quanto l’organismo vivente ha necessità di esperienze legate all’incontro con il cibo e la cura. In secondo luogo, l’operatore sociale dovrebbe parimenti tenere in considerazione il fatto che l’essere umano è profondamente “in- carnato” nella relazione. In terzo luogo, da ultimo ma non come ultimo, l’operatore sociale non dovrebbe scordare che l’uomo ne- cessita per così dire del sostegno dell’esperienza del credere e dello sperare, di cui è quotidianamente attraversato. In un tempo in cui all’educatore, all’operatore sociale e sanitario sono chieste vieppiù competenze teoriche, metodologiche e opera- tive complesse ci pare di grande importanza l’invito a riflettere sul

84 contributo che il pensiero psicodinamico offre a queste pratiche professionali. Queste riflessioni vogliono estendere una tenue luce che per- metta almeno parzialmente di cogliere gli intrecci, gli intrighi e gli snodi fra mondo interno e mondo esterno, nel loro darsi quo- tidiano. Questo scritto vuol dunque offrire un umile contributo rifles- sivo in merito all’identità dell’operatore sociale, così come di tut- ti coloro che nell’ambito della relazione di cura sono chiamati a stare accanto, vicino, di fronte all’Altro ferito, malato, sofferente, addolorato, infragilito, spaventato, confuso ecc. Crediamo infatti fermamente che tutte le forme del fare necessitano della presenza forte e costante da un lato della disposizione a sentire e accogliere e dall’altro del lavoro del pensiero, prima, durante e dopo l’azione.

2.3.2 Sospeso fra orizzonte e dettaglio, fra paradigma psicoanalitico e dimensione fenomenologica L’esercizio del pensiero ci pone nella condizione di chiederci in che modo il paradigma psicodinamico ci può aiutare a sentire e a pensare, ossia a curare, educare, aiutare l’Altro. Freud definì queste professioniimpossibili , pur essendo “mestie- ri” che attengono al cuore stesso dell’uomo.

Questa sottolineatura umanistica ci porta a chiederci - di che uomo stiamo parlando - che “cosa” è l’uomo di cui ci occupiamo durante la nostra pratica professionale. Al fine di fugare il rischio di una deriva “occidentalocentrica”, va premesso e non trascurato il fatto che questi pensieri altro non sono che narrazioni pretta- mente occidentali attorno al tema dell’essere umano e del prender- si cura di esso. Questo scritto non ha dunque la pretesa di coprire in modo unilaterale lo scibile del pensiero riguardante questi temi. Noi tutti siamo carichi di identità narrativa, modellata grazie ai segni incisi in noi ad opera della nostra cultura, della nostra storia, della nostra religione, come tale la nostra visione, il nostro sapere, la nostra comprensione, i nostri costrutti e modelli teorici di con- divisione e creazione di sapere, altro non sono che una parziale se pure coerente visione.

85 Questa nostra identità narrativa occidentale prende vita a parti- re da tre veri e propri luoghi originari. Una prima fondazione del nostro pensiero si origina ad Atene e da qui si espande e radica in gran parte dell’occidente. Il logos e il mytos si realizzano nella no- stra capacità, nel nostro bisogno, nel nostro desiderio di capire e comprendere il mondo. Il convivio platonico, l’Amore, la nascita di Eros trovano, nascono e prendono vita in questo alveo. La seconda fondazione del nostro pensiero si origina a Gerusalemme e da qui si espande e si radica in gran parte dell’occidente. Gerusalemme, culla della cultura ebraico-cristiana, fondazione nella quale prende vita e si sviluppa la nostra sensibilità alla colpa. Ed è proprio da questa sensibilità alla colpa che prendono avvio e spinta il pensiero e la clinica psicoanalitici. La terza fondazione della nostra identità narrativa nasce e si sviluppa a Parigi, espandendosi e prendendo saldamente piede in gran parte dell’occidente grazie all’avvento dell’illuminismo che, a ben vedere, è espressione congiunta delle prime due fondazioni. Da qui si origina il credo occidentale e laico nella forza e bontà della ragione. L’idea che noi abbiamo dell’“IO” e del “TU” è fortemente in- fluenzata da queste tre fondazioni che ci hanno trasmesso una cul- tura, una tradizione e che hanno favorito lo sviluppo di un sapere e di una comprensione, di tecniche e di attitudini utili alla costru- zione della cura di sé professionalizzata. Il diciannovesimo secolo realizza pienamente i paradigmi dell’il- luminismo, nasce infatti in questo secolo un movimento filosofico e scientifico denominato positivismo. Il positivismo legge l’uomo positivamente, la scienza medica che si sviluppa nel suo solco porta alla descrizione dell’uomo, nell’ordine della distanza. Esso inse- gna che per conoscere l’uomo, secondo l’obiettivo dell’esattezza che non è data ma sarà, occorre guardare all’uomo stesso come ad un’entità organica che possiamo studiare ma che non ha bisogno della nostra diretta e appassionata, nel senso di pathos, presenza. Durante questo secolo nascono le prime grandi Scuole nell’intento di strutturare ciò che prima era lasciato alla vocazione. Come già scritto la Chiesa istituisce Accademie nell’intento di generare un sapere che leghi dogmi e scienza. Ma nell’800 potremmo dire che “si aggira un gemello” antiteti- co del positivismo, che non è assolutamente luogo del luminoso. Si

86 tratta del romanticismo, al quale interessano le ombre fra le pieghe dell’umano, l’interdetto, la passione, gli affetti, l’oscillazione degli affetti (a tale proposito si ricordino opere quali I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe, pubblicato nel 1774; la musica di Robert Schumann che riflette la natura profondamente individualista del periodo romantico ecc.). Il romanticismo ci mo- stra, ci racconta, ci indica, che dentro l’uomo e dentro la sua ragio- ne si annida un’alienità che spesso è alterità, una presenza che non ci permette di esperire un senso di unità interiore. Il romanticismo ci parla di un uomo che contiene zone diverse fra loro, alcune visi- bili altre invisibili, alcune descrivibili, altre intuibili. Potremmo dire che la spiegazione, cuore dell’illuminismo, e l’intuizione, cuore del romanticismo, trovano un loro punto d’e- quilibrio nella comprensione che domina il ’900. È in questo clima di sapere luminoso e di intuizione oscura che Freud inizia la sua avventura clinica e teorica.

Così la psicoanalisi si profila da un lato quale sapere che origina un modello teorico di riferimento e dall’altro quale comprensione che origina una pratica clinica. La tensione di questo nuovo ap- proccio è volta alla comprensione dell’essere umano sofferente a causa delle proprie vicissitudini esistenziali. Vengono così elevati a tema di studio e attenzione per quanto attiene al comprendere l’Altro, aspetti quali: la giusta vicinanza nella relazione di cura, l’interiorità, l’alterità e l’alienità, la soggettività, l’individualità, la relazionalità, ecc. Nel contempo vengono pure elevati a tema di studio e attenzione, per quanto attiene al sapere teorico, aspetti quali: il valore epistemologico di un modello di riferimento, la costruzione della diagnosi, la prevedibilità, la generalità, l’attendi- bilità, la coerenza. Il ’900 ed in particolare la psicoanalisi, impone una rottura epi- stemologica. Freud mette in luce alcuni aspetti della nostra vita di cui tutti siamo oggi testimoni. In primo luogo il fatto che inte- riormente non siamo un’unità monolitica, ma siamo “composti di varie parti”, di varie modalità di essere. In secondo luogo che que- ste nostre parti interiori o, meglio detto, modalità di essere, sono fra loro in conflitto. In terzo luogo il fatto che il mondo interno composto da parti in conflitto fra loro è il teatro in cui si mettono

87 in scena le figure importanti della nostra vita (il nostro romanzo familiare). In quarto luogo la comunicazione e la relazione non si manifestano solo su un piano evidente ma soprattutto su un piano per così dire nascosto, celato, velato, opacizzato e sfuggente. La psicoanalisi si occupa proprio del piano rimasto in ombra nelle comunicazioni e nelle relazioni umane. In quinto ed ultimo luogo Freud, attraverso la psicoanalisi, evidenzia la forza e la capacità della cura attraverso l’uso della parola. Il paradigma psicoanalitico che implica dunque un modello di comprensione dell’uomo, nasce e ha il suo cuore nella relazione a due, fra chi cura e chi è curato. Questo paradigma interroga tre luoghi o tre livelli di indagine: l’intra-psichico, l’inter-psichico, l’inter-personale o inter-soggettivo. La psicoanalisi ci insegna che nessuna relazione è mai veramente solo a due: qualcosa d’altro si insinua sempre fra noi.

Tornando all’operatore sociale e all’ospite di cui è chiamato a prendersi cura, al di là delle diversità biografiche e soggettive, essi vivono, condividono e compartecipano una dimensione esisten- ziale che si origina, si sviluppa e si manifesta all’interno di cinque dimensioni esistenziali che sono: il tempo, lo spazio, il corpo, la relazione, il mondo. Gli esseri umani hanno in comune il fatto di vivere, percepire, riflettere, pensare, condividere, differenziare, andare alla ricerca del senso del proprio esistere, tentare di rispondere ai propri bisogni, sognare e adoperarsi affinché i desideri sognati si trasformino in possibilità concrete, costruire il proprio senso di integrità, unici- tà e serenità grazie alla tensione verso due luoghi vitali che sono da un lato la capacità di impegnarsi con buona soddisfazione in un progetto e dall’altro quella di coinvolgersi provando benessere nelle relazioni (lavoro e amore). Tutto ciò avviene e si manifesta at- traverso, dentro e grazie ai cinque assi esistenziali sopra scritti, che vengono percepiti e declinati a partire dalle proprie caratteristiche genetiche, dal proprio ambiente, prima familiare poi sociale ed infine ultimo ma non da meno, dal proprio ambiente naturale. In una parola attraverso la propria storia e la propria biografia. Quando operatore sociale e ospite si incontrano in un percorso di cura, le risonanze e le differenze del modo di sentire, percepire,

88 pensare, condividere, differenziare la quotidianità declinata secon- do questi assi esistenziali, danno vita ad una specifica relazione che parla delle due persone in gioco e che permette loro di compren- dersi, riconoscersi, differenziarsi, aiutarsi, colludere, fraintendere. La capacità di mantenere uno sguardo fenomenologico funge da garanzia contro la propensione a imprigionarsi in preconcetti ba- sati su saperi presunti forti, che in luogo di funzione vettoriale e ordinatrice del pensiero, possono impercettibilmente trasformarsi in gabbie cognitive entro le quali irretire e mortificare, appiattendo e omologando la specificità dell’umana presenza.

Detto ciò ipotizziamo che si possano profilare due vie maestre che l’operatore sociale nel suo procedere professionale quotidia- no percorre, secondo una temporalità precisa che non può essere invertita, pena la “morte” della relazione autentica e della sua di- mensione di cura. La prima via da percorrere è quella della com- prensione fenomenologica, che ci aiuta a dare vita alla relazione di aiuto a partire dalla vicinanza, dalla condivisione, dalla consonan- za, dalla “comprensione dal di dentro”. Una vicinanza grazie alla quale l’altro viene colto e sentito nel suo essere uomo in tutto e per tutto simile a me malgrado la sofferenza, il disturbo o la ferita di cui è portatore. Questa è la via del gesto e dello sguardo che generano e tengono in vita la fondamentale dimensione dell’acco- glienza dell’Altro che attraverso il suo darsi nella relazione, evoca in noi alterità e alienità del tutto soggettive che fanno di noi la persona che siamo. Alterità e alienità che abitano ogni uomo e che in questo caso sono evocate in noi a partire dall’Altro e dal suo specifico modo di esporsi alla relazione. Queste dimensioni indiscutibilmente ci abitano, talvolta spaventandoci, altre volte in- terrogandoci. Questa vicinanza nella quale ci riconosciamo come esseri umani ci permetterà in seconda battuta di avviarci lungo la seconda via dell’aiuto e della cura, quella offerta dalla dimensione del sapere, cuore della psicologia dinamica. Un sapere che ci aiuta a prendere distanza e attivare uno sguardo il più possibile “ogget- tivo” facendo capo alle mappe, al modello di comprensione di cui è portatore; una sorta di scacchiera che produce ordine fra tut- ti i sentiti e percepiti raccolti durante il viaggio fenomenologico. Questo secondo modo di procedere ci dovrebbe sorreggere in una

89 triplice tensione. Da un lato ci dovrebbe permettere di riconoscere l’Altro per come si manifesta e non per come noi immaginiamo, desideriamo, temiamo, percepiamo, riferendoci soprattutto alla nostra biografia. In secondo luogo dovrebbe sorreggerci anche nel portare la comprensione dal piano del singolo uomo a quello della moltitudine. In terzo luogo, ultimo ma non da meno dei prece- denti, questo sapere ci dovrebbe sorreggere nello spostamento dal piano della casualità a quello della prevedibilità e ripetitività. Que- sta è la via del pensiero, della consapevolezza e della criticità, carat- teristiche che immerse nella fondamentale dimensione dell’acco- glienza dell’Altro nella sua alterità e/o alienità garantiscono il suo autentico riconoscimento, allontanando le derive collusive fondate su facili moti empatici e comprensioni entro le quali tendono a dominare le modalità proiettive.

In buona sostanza potremmo affermare che per accompagna- re nella sua quotidianità un ospite, l’operatore sociale necessita di quattro caratteristiche. La prima riguarda la vocazione alla cura, la seconda riguarda il talento relazionale e narrativo, la terza riguarda il possedere in buona misura uno sguardo analitico e un pensiero sintetico. Infine, ultima ma non da meno, la quarta caratteristica corrisponde al possedere uno sguardo bifocale che permette da un lato di cogliere l’incontro nel suo darsi fenomenologico che acco- muna, avvicina, mette in campo la similitudine; dall’altro questo sguardo bifocale dovrebbe favorire una comprensione della relazio- ne da un punto di vista psicologico-dinamico che coglie ed eviden- zia le differenze, le specificità, e che aiuta a circoscrivere “il come e il cosa” accade durante l’incontro di aiuto e cura.

Detto altrimenti l’operatore sociale a cui pensiamo e che ci au- guriamo di incontrare, si muove fra tre polarità. La prima è quella che riguarda la costruzione e comprensione di un senso della vita propria e dell’Altro. Costruzione che avviene solo nella vicinanza sia con sé stessi che con l’Altro di cui siamo chiamati a prenderci cura. Questa polarità è garantita da una buona consapevolezza e conoscenza di sé stesso e dalla vocazione alla cura ben coltivata e educata. La seconda polarità è legata ai saperi forti quali la feno- menologia e la psicologia dinamica che permettono di costruire

90 una spiegazione, di cogliere un senso dentro l’accadere relazionale dedicato alla cura dell’Altro, grazie alla vicinanza e alla presa di distanza, alla riflessione, al confronto garantiti dalla conoscenza della semiologia, della nosografia, dell’epidemiologia, ecc. La ter- za polarità riguarda la trasformazione che talvolta può essere resa vitale e rafforzata grazie alla capacità di stare con/accanto all’Altro nel suo dolore, nella sua sofferenza, nel suo disagio e talvolta pure nel suo spavento di vivere, offrendosi come esempio di capacità di stare, comprendere, trasformare quando possibile, il dolore, la sofferenza, la difficoltà, lo spavento in una nuova e diversa possi- bilità di vita.

L’operatore sociale che si occupa della quotidianità della vita dell’ospite deve dunque essere un navigatore che veleggia fra le acque dello spirito e quelle della natura. Nelle acque dello spirito incontra e comprende la quotidianità grazie alle scienze umanisti- che che privilegiano la lettura coincidente fra soggetto e oggetto e indagano i nessi relazionali e le modalità di connessione fra di essi. Nelle acque della natura incontra e comprende la quotidianità grazie alle scienze naturali che privilegiano la differenziazione fra soggetto e oggetto mentre i nessi che le scienze naturali ricercano sono quelli fra causa ed effetto. Va da sé che lo sguardo maestro rimane quello della vicinanza, della comunanza, uno sguardo che si sviluppa e si sostanzia dal di dentro. È solo riconoscendo in noi il modo di vivere e la sofferenza che l’Altro ci porta che avremo la possibilità di rimanergli accan- to affinché questa sua difficoltà di vivere divenga sopportabile, o tollerabile o trasformabile e forse anche in alcuni casi fortunati, le cause stesse che provocano questo dolore possano essere debellate o contenute.

Questa vicinanza con l’ospite implica da parte dell’operatore so- ciale l’impegno a sviluppare e coltivare alcune capacità. La prima capacità è quella di guardare, accogliere e ascoltare l’Altro come un soggetto che può e sa prendere posizione, sa contestualizzare, sa pensare e sa parlare del proprio modo di vivere. Ossia saper dare ascolto a come l’ospite racconta, come vive ciò che vive, come si sente, cosa gli è successo, se ha già vissuto ciò che sta vivendo ora

91 e in che misura, come immagina il proprio futuro, come desidera se lo desidera il proprio futuro, ecc. La seconda capacità è quella di accogliere l’altro con interesse nei confronti della sua storia di vita riconoscendogli la statura dell’uomo-biografico che racconta con autorevolezza e autenticità da dove viene, cosa desidera, cosa ha fatto. La terza capacità riguarda il saper tenere in considerazio- ne quello che Stanghellini e Rossi Monti definiscono il principio della vulnerabilità strutturale dell’esistenza umana36, ossia il poter accogliere l’Altro con empatia grazie alla consapevolezza che il suo oscillare da salute a sofferenza-malattia-dolore-disturbo-spavento, non è un fatto meramente privato e casuale, un fatto che riguarda solo lui perché sfortunato, o incapace, o fragile. L’oscillazione da salute a sofferenza-malattia-dolore-disturbo-spavento e viceversa, riguarda la condizione umana stessa, che strutturalmente è fragile e limitata. La quarta capacità consiste nel saper dare valore a tutte le parole dette e non dette, con la consapevolezza del fatto che ci muoviamo dentro un pensiero che fa capo alle scienze umane, le quali hanno come oggetto di attenzione, di conoscenza, di com- prensione e di spiegazione proprio questi scambi linguistici. La quinta capacità consiste nel saper dare valore a tutti i segni di varia natura che ci scambiamo in ogni relazione, con la consapevolez- za che ci muoviamo dentro un pensiero che fa capo alle scienze umane, le quali hanno come oggetto di attenzione, di conoscenza, di comprensione e di spiegazione anche questi scambi. Ed infine la sesta capacità riguarda il saper esplorare il territorio esistenziale dell’Altro con l’Altro, senza la fretta e la presunzione di trasformar- si in “sonda” psicoanalitica di bioniana memoria37, o di piantare cartelli segnaletici o montare una trivella per esplorare le profondi- tà dalle quali avrebbe origine il fenomeno del disturbo, del dolore, o della malattia, o dello spavento, secondo una bella immagine di Stanghellini e Rossi Monti38.

36 G. Stanghellini, M. Rossi Monti, Psicologia del patologico, Raffaello Cortina editore, Milano, 2009, pag XVI.

37 Wilfred Bion, Attenzione e interpretazione, Armando editore, Roma, 1973, pag 100.

38 G. Stanghellini, M. Rossi Monti, op. cit., pag XIII.

92 Affinché ciò sia possibile l’operatore sociale deve sapersi muovere lungo l’asse temporale della relazione con l’ospite, senza fretta e senza capovolgimenti, lasciando che la propria fluttuante attenzio- ne si snodi lungo una direzione che sia catturata in ordine sequen- ziale da tre diversi momenti. Il primo momento sarà impregnato dalle suggestioni e dalle emozioni e percezioni suscitate dal “come avviene ciò che avviene nell’incontro”. Ciò significa che l’ospite e l’operatore sociale saranno calati dentro la fascinazione operata dal tema del come vivono ciò che stanno vivendo, come si raccontano e si ascoltano, come si muovono, come si immaginano. Il secondo momento che subentrerà solo quando la dimensione del “come” avrà pienamente saturato di sé la mente e l’anima dei due soggetti in relazione, sarà polarizzato dalla dimensione del “cosa avviene nell’incontro”. La dimensione del “cosa” permette di portare or- dine in queste sensazioni e percezioni che saranno per così dire differenziate e catalogate grazie ad una sorta di griglia, di scac- chiera teorico-clinica che aiuta l’operatore sociale a differenziare e evidenziare i singoli segni, gesti, fenomeni, sintomi. Per finire il terzo momento prenderà sostanza, quando possi- bile, grazie al sorgere della domanda riguardante il “perché avvie- ne ciò che avviene in quell’incontro”, ecc. Solo a questo punto, sempre grazie ai modelli psicodinamici, l’operatore sociale potrà formulare, quando possibile, le prime ipotesi sui “perché” in quella particolare relazione avviene ciò che avviene, abbozzare una dia- gnosi e confrontarla con quella di altri specialisti in rete per av- vicinarsi ad una diagnosi il più verosimile possibile e soprattutto utile. Importante e imprescindibile è la capacità di tener conto nel proprio operare quotidiano delle conoscenze e delle consapevo- lezze acquisite in merito a questo ospite, verificare sia il procedere della relazione di cura che il proprio stato di benessere attraverso gli incontri di équipe, le supervisioni, il lavoro su di sé, la cura nei confronti del proprio vivere.

A questo punto della riflessione si impone un’ulteriore sottoli- neatura riguardante una caratteristica che risulta essere un prezioso alleato per l’operatore sociale il quale deve poter contare in buona misura sulla “capacità negativa”, quella che il poeta John Keats così magistralmente descriveva ai suoi fratelli in una lettera datata

93 1817, “ … La Capacità Negativa, cioè quando un uomo sia capace di rimanere in incertezze, misteri, dubbi, senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni”39. Infatti la quotidianità pro- fessionale e personale dell’operatore sociale si impone attraverso le molte domande a monte della riflessione attorno all’arcipelago delle sofferenze psichiche, che richiedono una buona capacità di riflessione, prima di “agitarsi” e passare alla progettazione e attiva- zione di possibili percorsi di cura. Elenchiamo di seguito alcune delle possibili domande che do- vrebbero abitare l’intimità quotidiana dell’operatore sociale e che necessitano, per essere convenientemente affrontate, di una sua buona “capacità negativa”. Prima domanda: con quale termine designare le persone a cui ci riferiamo in ambito professionale so- cio-sanitario? Le possibilità sono molteplici, ognuna di esse veicola un senso che andrebbe conosciuto e condiviso. Sul fronte della cura utilizziamo termini quali medico, terapeuta, educatore, ope- ratore sociale, psichiatra, psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista; sul fronte della sofferenza designiamo l’Altro con termini quali paziente, ospite, utente, cliente. Che significato veicolano questi modi di definire? Seconda domanda che si impone all’attenzio- ne dell’operatore sociale in situazione: di che cosa ci occupiamo quando parliamo di cura? Dolore, malattia, sofferenza, distur- bo, normalità, patologia? Terzo interrogativo: quale spazio dare nell’ambito della cura sociale a temi quali la verità, la menzogna, il mito, la narrazione? Quarta questione interrogante: cosa inten- diamo quando parliamo di empatia? Un sentimento di vicinanza che ci permette di sentire ciò che sente l’Altro, senza per questo rapinarlo del suo stato d’animo o senza cancellarlo dentro un ec- cesso di nostra presenza? Oppure la disposizione a spogliarci del nostro mantello di saperi e pre-giudizi permettendo all’Altro di venirci vicino per quanto gli è possibile e gradevole40? La propen- sione a metterci noi nei panni dell’Altro? Quinto interrogativo: cosa distingue il costruire dal colludere in una relazione di cura? Come perdere e ritrovare costantemente l’equilibrio fra vicinanza

39 J. Keats, Lettere sulla poesia, N. Fusini (ed.), Feltrinelli, Milano, 1984. 40 L. Boella, A. Buttarelli, Per amore di altro, l’empatia a partire da Edith Stein, Raffaello Cortina, Milano, 2000.

94 e lontananza, comprensione e confusione, desiderio e bisogno, sa- pere e com-passione? Sesta domanda di fondo, ultima ma non da meno, riguarda il senso del prendersi cura: ci occupiamo dell’Altro ferito, disturbato, sofferente, spaventato, affinché possa finalmente tornare felice? Affinché sia in grado di soffrire meglio? Affinché sia in grado di debellare le cause della sua sofferenza? Affinché possa espandere e rafforzare il proprio senso di libertà, di indipendenza e di responsabilità? Affinché sia in grado di mantenere viva la spe- ranza? Affinché sia capace di stare in una condizione di solitudine sentendosi accompagnato da sé stesso e dalle esperienze della pro- pria vita41? Affinché sia in grado di vivere creativamente42?

Questi minuti sparsi pensieri riguardanti la costruzione che riteniamo sia sempre in fieri, dell’identità dell’operatore sociale, hanno avuto la presunzione di segnalare una possibile via di rifles- sione e di azione ai naviganti del mondo della cura nella e della quotidianità. Naviganti che congiuntamente, chi dal versante del sentito bisogno di aiuto e chi da quello delle presunte capacità di accoglienza, ascolto, cura, scelgono di imbarcarsi sul vascello che da un arcipelago all’altro mostrerà loro quanto la possibilità di non essere soli, né alienati a sé stessi né agli altri, sia di fondo la necessità ultima, suprema e cardine della nostra vita. Saper stare soli con sé stessi quale condizione imprescindibile per una vita cre- ativa e degna di essere denominata tale che si espanda all’incontro e contaminazione con l’altro in noi e fuori di noi: questa la posta in gioco per ognuno di noi, indipendentemente dal nostro statuto esistenziale.

41 D. Winnicott, La capacité d’être seul, Payot, Paris, 2012.

42 D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 1993.

95 2.4 Appunti e spunti sull’operatore sociale nel fastello delle professioni di aiuto Lorenzo Pezzoli

Mobilis in Mobili J. Verne, Ventimila leghe sotto i mari

Di fronte alla molteplicità delle declinazioni professionali, alla frantumazione progressiva della psicologia e al prezzo alto che si paga alle specializzazioni, a mio modo di vedere la figura dell’ope- ratore sociale, nella sua ancora benefica unitarietà, ci permette di riflettere sull’importanza di questo professionista nella rete sociale. Questo anche perché i rimandi che arrivano da molti fronti insi- stono su alcuni punti che hanno certo un valore in sé, ma che cor- rono il rischio dello svuotamento di senso o della perdita di senso da parte di chi li veicola o se ne fa poi portatore; un rischio eleva- to questo, un rischio sul quale è necessario prestare un’attenzione particolare. L’insistenza che ci raggiunge è pur sempre quella che si declina nelle solite parole chiave: la bravura, l’eccellenza, la per- fetta applicazione della tecnica, l’evidenza … Visioni del mondo, queste, che ci seducono e vorrebbero suggerirci che la perfezione: di condotta, di esecuzione, di conoscenza e quant’altro, possano esaurire il nostro gesto, magari anche quello di cura, finirlo nel rag- giungimento della perfezione appunto. La nostra cultura predilige la settorialità, il sapere fatto a fettine, scomposto, che da origine e vita (forse “vita” ma più spesso una gelatinosa esistenza) ad una pluralità di specialisti che, se ben coordinati, avrebbero la pretesa di restituire al mondo un’immagine perfetta e magari pure rico- stituirne l’unitarietà. In un contesto come questo ogni specialista si vanta di sapere solo quello che è di sua competenza. Una sorta di sentimento onnipotente personale, “so tutto tranne quello che esula dalle mie competenze!”, che si riflette in quello collettivo: tanti specialisti messi insieme restituiscono salute, serenità, pace

96 del cuore (chissà se c’è qualcuno ancora che se ne occupa…), pro- fessionalità, competenza umana … Gian Piero Quaglino insiste nei suoi scritti e nelle sue parole su questi temi sottolineando giu- stamente che in questa prospettiva il singolo uomo con le sue cu- riosità, con il suo bisogno di fare esperienza, viene completamente dimenticato. Dimenticato l’uomo cosa resta dell’operatore sociale? Ha ragione Carl Gustav Jung, nella sua riflessione complessa sulle dimensioni che fanno l’uomo, ha ragione Jung e io con lui sotto- scrivo: “La vita, per compiersi, ha bisogno non della perfezione, ma della completezza”. Le seduzioni della perfezione sono dietro l’an- golo mentre le prospettive della completezza sono più difficili da assumere perché implicano invece un coinvolgimento più profon- do e significativo; coltivare la completezza significa saper accogliere e dialogare anche con le parti in ombra (le parti in ombra di sé in primis) parola che viene dall’arabo e vuol dire l’inseguitore. Dun- que l’operatore sociale lo intendo come colui che coltiva questo dialogo con i propri “inseguitori”, tutto ciò che fatica ad accogliere di sé, tutto ciò che ancora si muove in maniera poco differenziata, tutto ciò che mette da parte perché non considerato luminoso. Ed è questo dialogo che gli offrirà poi la possibilità di dialogare con le parti in ombra altrui, che gli consentirà di farlo senza restarne preda o diventarne complice. Capace di ascoltare diversi linguaggi come nella fiaba antica della raccolta dei GrimmI tre linguaggi che proprio evoca la necessità, per diventare padri e cioè capaci di generatività, di apprendere linguaggi diversi e di saper prestare attenzione a voci non familiari, anche molto distanti dalla propria. L’operatore sociale è anche colui che si mostra capace di aspettare, coltivando la speranza, come il principe de La bella addormentata, o meglio della fiabaRosaspina : attento ai segnali della realtà ma anche a quelli che provengono da dentro di sé; con l’evocazione di questa fiaba intendo sottolineare una figura di operatore sociale non come portatore di eroismi attinenti alla sfera del meraviglioso e dello straordinario, eroismi forse vicini ad una visione dell’ec- cezionale e dell’insolito che gratificano l’immaginario narcisisti- co (e quindi le seduzioni di una pretesa perfezione a sfavore della completezza), ma vorrei intravvedere un operatore sociale che è testimone dell’eroismo della quotidianità: un eroismo umile, si- lenzioso e poco altisonante nella sua espressione, tuttavia potente

97 e motore di grandi trasformazioni. L’operatore sociale può essere portatore dell’eroismo del principe de La bella addormentata nel bosco, quello della favolistica antica, se ne accetta le condizioni: un eroe che non ha nulla a che fare con l’ammazzadraghi o con l’estir- patore di roveti, con il condottiero che arriva dinnanzi alle spine che avvolgono il regno dove riposa la principessa ed estratta la sua spada, affronta a colpi di fendente l’oscuro incantesimo che avvol- ge il castello e imprigiona la bella dama. Il principe di Rosaspina è colui che arriva al momento giusto perché sa aspettare, che legge i segni e ascolta le indicazioni che la realtà e le persone gli offrono, e quindi si dispone all’incontro attendendo la disponibilità dell’al- tro, una sua apertura, magari il suo cenno. Non è un caso, credo, che la fiaba racconti, con una moltiplicazione degna della più clas- sica ripetizione onirica di un medesimo personaggio, che prima del cavaliere “giusto” ci siano molti altri cavalieri che perdono la vita davanti al roveto: uno dopo l’altro periscono e cadono nella speranza e nel tentativo di raggiungere la bella principessa. Mille cavalieri per dire che l’ultimo che arriva è, in fondo, il medesimo che c’è stato prima di lui, e che questo è a sua volta lo stesso di quello prima e così via fino al primo della lista. Ovvero, e in altre parole, che il cavaliere sia uno e che la sua moltiplicazione non rap- presenti altro che una disposizione interiore che io ritengo quella che deve accompagnare l’operatore delle relazioni d’aiuto. Quella di colui che è capace di “morire” mille volte, tante quanti sono i cavalieri, o di “morire” per cento anni, che è il tempo di durata dell’incantesimo, pur di potervi essere al momento giusto: quello in cui il roveto da solo si aprirà e lascerà a un varco attraverso cui passar e raggiungere il cuore del regno dove dorme la principessa. Ora, tornando alla provocazione che ho espresso all’inizio di questa breve riflessione, e cioè che l’operatore delle relazioni d’aiu- to dovrebbe essere in grado di coltivare la completezza e non di se- guire una presunta e impossibile perfezione che viene poi declinata “coi” e “nei” vocabolari professionali, piuttosto che imbrigliata in pratiche codificate la cui semplice esecuzione dovrebbe garantire il risultato (e se poi il risultato non c’è ci si protegge dicendo che è per un problema che riguarda il paziente sollevando chi ha attuato alla lettera quanto doveva da ogni messa in discussione), tornando alla provocazione iniziale direi che solo la ricerca della completezza

98 consente di svolgere il compito del cavaliere di Rosaspina, solo la completezza consente di “morire” e aspettare, di rilanciare la spe- ranza, di incontrare le ombre altrui. Direi che la coltivazione e la ricerca della completezza, che è per sua natura un’opera che dura una vita e che non si conclude con attestati o diplomi, è ciò che permette anche di acquisire delle tecniche senza restarne prigio- nieri o, peggio, vittime o senza fare a propria volta con queste pri- gionieri o proseliti. Il motto che porrei nell’araldica dell’operatore sociale e, più in generale, nell’araldica delle professioni di aiuto è quello stampato nella cabina del capitano Nemo del romanzo di Verne: Mobilis in mobili. Cioè capace di muoversi, di stare in movimento, di essere vivo in un ambiente a sua volta mobile e cangiante, mutevole e vario. La fissità che presuppone la perfezio- ne è attinente alla pietra, al granito, e la pietra nel mare non ha altro destino che affondare. L’operatore sociale è un viaggiatore, mobilis in un universo mobile e cangiante, come il Marco Polo di Italo Calvino, quello delle Città invisibili, in grado di spostarsi fino ai confini del regno e osservare, di raccontare e condividere, ma anche capace di attraversare le città infernali, quelle del disagio, della solitudine, dello stare assieme con quello che gli uomini a volte costruiscono, o nei quali si imbattono. Un uomo capace di trovare nell’inferno, come scrive ancora Calvino, ciò che Inferno non è e dargli spazio e tempo affinché si possa sviluppare. È come, nell’universo tolkiano, chi attraversa le terre di mezzo per portare a termine il proprio compito, capace di camminare nonostante l’esito incerto della missione. Forse l’identità di operatore sociale è l’identità che sta alla base di ogni professione di aiuto, quella sulla quale poi si possono sviluppare le altre declinazioni delle identità professionali: mobilis in mobili.

99 2.5 A proposito di identità Lorenzo Pellandini

Non posso fare a meno di immaginare l’operatore che vorrei non incontrare Mi era già capitato A proposito d’identità non posso fare a meno di avere delle idee Avere un sogno Non vorrei incontrare L’annoiato Il giudicante Il certo L’arrogante Il presuntuoso Il codardo A proposito di identità non posso fare a meno di sognare La meraviglia Il pensiero pensante Il dubbio La modestia L’incertezza L’audacia

Ah! che meraviglia se un giorno, anche lontano, incontrassi colei o colui che ancora avranno l’audacia di scoprire la modestia del dubbio, come se fosse un vestito, e di avere nel pensiero pensante la forza e il desiderio di stupirsi ancora, anche dei piccoli gesti. Anche se sarà in un tempo lontano, ah! che meraviglia se potessi incontrare, colei o colui che sapranno ascoltare sussurri e sospiri che non sono urlati ma sono solo accennati, in punta di tacco. Ci vogliono mani di seta per abbracciare una lacrima, ci vuo- le delicatezza per stare con l’altro, si ascolta con garbo e si parla con-tatto. Ah! che meraviglia poter sognare anche solo un istante d’incon-

100 trare colei o colui che avranno speso la loro esistenza nell’accoglie- re, raccogliere racconti, e con tenacia e coraggio avranno provato e riprovato a trasformare in straordinario l’ordinario. Sarebbero potuti essere cercatori d’oro saranno stati cercatori di “l-oro”, saranno stati trovatori di narrazioni, esploratori di esi- stenze. Ah! che meraviglia.

101 102 3. Mappe di navigazione

103 104 3. Mappe di navigazione 3.1 “Individuo, identità e vita affettiva” 3.1.1 L’arcipelago identitario, Mappa del “Primo mondo”

Memorie Cura di Sé Simbolico Riti di passaggio

Cura dell’Altro

Cyborg

Ident ità ontologico-esistenziale

Ident ità Ecologico-climatica Riti funebri

Sessualità

Nuovi Eroi

Reale Immaginario

Graziano Martignoni

Per approfondire la Mappa del “Primo Mondo” consultare il pieghevole presen- te alla fine del volume.

105 3.1.2 Mappe di navigazione

Lo Sviluppo nei cicli di vita Cicli di vita Relazionarsi con P. Lavizzari, O. Manzocchi, Strumenti della C.Marazzi, A. Spagnoli gli adolescenti relazione psicoeducativa Intervento con Pratiche di intervento Identità utenze specifiche educativo nell’infanzia e Identità P. Lavizzari nell’adolescenza e Fenomenologia P. Lavizzari alterità e del gesto di L’origine alienità Cura educativa Individuo e cura Prima infanzia e identità personale Sofferenze e Spazi di cura Nido disagio psichiche e psichico gesti di ospitalità Pratiche di intervento educativo

G. Martignoni C. Mustacchi L. Pellandini G. Martignoni G. Martignoni L. Pezzoli O. Manzocchi L. Pellandini O. Manzocchi G. Martignoni 1 Sem. 2 Sem. 2-4 Sem. 2-4 Sem. 5 Sem. Educatori

Supervisione O. Manzocchi, G. Martignoni

2 sem.-4 sem.: individuale 5 sem-6 sem.: in gruppo

Per approfondire le Mappe di Navigazione consultare il pieghevole presente alla fine del volume.

106 3.2 “Individuo, identità e vita affettiva” Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli

3.2.1 La lezione: Individuo, identità e vita affettiva Graziano Martignoni

Quaestio mihi factus sum S. Agostino L’evento è senza ragione, senza fondamento, senza fondo. Arriva e accade in un incontro. Ma se vi è incontro, vi è incontro sempre con un altro, mai con l’alterità in generale. Henri Maldiney

In sintesi si potrebbe dire che la lezione: Rifletterà sullacomplessità dei saperi, sulle diverse epistemologie, sul rapporto tra soggetto e vita affettiva e sui percorsi delle identità e i loro margini di confronto piegandoli progressivamente verso la dimensione professionale. Sarà un percorso che dovrà essere comunque da considerare intro- duttivo e dunque orientato a preparare i successivi gradini formativi. Dovrà così presentare le grammatiche delle varie strategie discorsive tese alla costruzione personale e sociale del Sé dotandosi di una compe- tenza linguistica, concettuale e bibliografica adeguata. Dovrà navigare in una sorta di Niemandsland, ove nessuno può considerarsi veramente un esperto di identità né personale né pro- fessionale. Non vi sono dunque specialisti d’identità. L’identità non è infatti una disciplina ma un carrefour, un’interrogazione abitata da più esperienze e da più Saperi. Saperi tutti legittimi e tutti parziali, ma mai neutri rispetto all’idea che ognuno di noi si fa dell’uomo

107 e della società. L’identità personale e professionale è infatti parlata da più voci, e allora come divenire capaci di ascoltarle, interpretarle, dare loro cittadinanza nel nostro operare quotidiano di fronte alle pratiche di aiuto, di cura e di progetto, che il lavoro sociale contiene? L’identità professionale si costituisce su una sorta di “carta epistemo- logico-affettiva” che sostiene una domanda preliminare “che cosa è per me l’operatore sociale, che diverrò”? Un discorso sull’identità personale e soprattutto professionale ne- cessita un atto di testimonianza. È a partire da questo essere testimo- ni in prima persona nel sentire, nel pensare e nel fare nei confronti dell’Altro e dell’Alterità (versus Alienità) che possiamo veicolare la ne- cessaria passione identitaria. Ognuno di noi è portatore di un Sapere, di un’esperienza di vita e di un’esperienza professionale, di uno stile. È a partire da questi punti che ognuno di noi fonda la propria de-cisione identitaria. Il passaggio dalla vocazione al ruolo è percorso soprattutto intimo e privato. Non potremo solo mostrare degli indicatori e degli analizza- tori di percorso più per evitare le illusioni, le idealizzazioni eccessive, le trappole ideologiche che per risolvere una questione che va ben oltre le competenze del Modulo. Prende senso così per me l’articolazione in tre momenti. Una pri- ma parte che riflette sull’identità come peripezia del sub-jectum on- tologico-esistenziale, biologico, psicologico, antropologico e trascen- dentale. Una seconda parte che si centra sull’identità come Erlebnis scegliendo tra i possibili alcune aree esperenziali come il corpo, la me- moria, l’immaginazione, la fantasia e l’emozione. Una terza sull’iden- tità come rappresentazione (all’incontro/scontro tra discorsi ed espe- rienza) nelle sue fasi di decostruzione delle rappresentazioni ingenue, riconoscimento genealogico-ideologico delle rappresentazioni, nuove costellazioni rappresentative, ecc. L’identità si appoggia sulla coscienza intenzionale, nelle quattro dimensioni ontologica, biologica, psicologica e antropologica. Da qui nasce l’asse dell’azione. Una coscienza sempre “affettata” e inquietata dalla presenza dei tanti “dialetti” parlati dall’inconscio. Un’azione che ha come asse paradigmatico della pratica educativa la dimensione della Cura.

Il modulo avrà come vertice il tema delle manifestazioni fondamenta-

108 li dell’esistenza (“existentialia”) e si orienterà nel senso di un discorso sulla natura e sulla forma delle “passioni” dell’anima esposte all’enig- ma dell’intersoggettività, e dunque alla fondazione e costruzione dell’i- dentità (l’operatore sociale come “giardiniere di se stesso”, come “specia- lista della quotidianità”, come “mediatore socioculturale”, “costruttore di ragnatele simboliche-affettive tramite l’azione” ecc…), secondo i quat- tro assi di riferimento delle: • figure della esteriorità (temporalità, spazialità, corporeità, mon- danità); • figure della intersoggetività, (sguardo, ascolto, volto, commozione, simpatia, amicizia, ecc.); • figure ermeneutiche (le forme della donazione di senso); • figure della interiorità (silenzio, solitudine, attesa, speranza, gioia, dolore, senso della morte, ecc.).

In particolare svilupperà una riflessione soprattutto nei seminari sulla scrittura e la memoria, cercando di tenere lontano ogni teorizza- zione categoriale e lavorando molto sulle rappresentazioni soggettive, sul significato di alcune esperienze umane come il silenzio, la solitu- dine, l’attesa, la speranza, la gioia, la felicità, l’apertura, la nostalgia, lo sguardo, la commozione, il dolore, il senso della morte e altre oscil- lazioni fondamentali dell’esistere tra aperto/chiuso, vicino/lontano, pulito/sporco, veloce/lento, medesimo/altro, ecc.

3.2.2 Tredici approdi

TEMI

Incipit “Quaestio mihi factus sum” (S. Agostino) Identità e temporalità Mappe nell’arcipelago dell’identità Prepararsi al viaggio: bibliografia, mappe di navigazione, approdi e soste di una pedagogia esistenziale-fenomenologica; arcipelago identitario; le tesi psico-antropologiche.

109 Primo approdo Le domande guida: Chi sono io? Che cosa sono io? Per che cosa e per chi sono io? Piccolo lessico di bordo, i triangoli identitari, isolario, ontogenesi e filogenesi identitaria, riconoscimento e individuazione.

Secondo approdo Le isole del mito Le città fondatrici, da Gerusalemme, ad Atene, a Roma, a Firenze, a Parigi, a Los Angeles, a Shanghai; i miti fondatori, il giardino dell’Eden, il viaggio di Ulisse e di Abramo.

Terzo approdo L’isola antropologica L’identità antropologica, lo straniero, i riti di passaggio (Van Gennep), la dimensione del simbolico, il “mytomoteur”, la dimensione del corpo simbolico (Le Breton). L’appartenenza e l’esclusione. Amico-nemico. I segni identitari di appartenenza. I percorsi di riconoscimento.

Quarto approdo Le isole storiche e sociologiche Io, soggetto, individuo, persona. Gli spazi psico-antropologici: premodernità, modernità e postmodernità.

Quinto approdo L’isola di Psyché L’Io e la cittadella interiore (S. Agostino), la nascita dell’Io, tra interiorità ed esteriorità, le soglie identitarie, il corpo immaginario. Accoglienza e ospitalità: La Cura. La nascita del dolore. “La torre di Babele” e il vaso di Pandora. L’incontro; l’Altro, lo straniero. Chi è il mio prossimo? Le forme dell’amore, la nascita di Eros.

110 Sesto approdo Lectio extra muros Rappresentazioni d’identità. Visita al Museo Vela a Ligornetto: il tema del Volto.

Settimo approdo L’isola bio-genetica: “L’anatomia è il mio destino” L’uomo neuronale (J-D.Vincent), “Il cervello bagnato” Il “nucleo centrale fluttuante”, la dinamica dei fluidi tra cervello, psiche e mondo, il “Sé sinaptico”, Genoma e “connectoma”.

Ottavo approdo L’isola ontologico-esistenziale “Vattene!” Viaggio, esilio ed esodo; Gilgamèsh, Abramo, Odisseo, dall’Ulisse dantesco sino all’Ulisse di Joyce. L’itinerario ontologico-esistenziale: “L’uomo in situazione”, “dall’esodo, al racconto, alla storia”. L’uomo tra destino e destinazione, il progetto.

Nono approdo L’isola dei morti Arnold Böcklin, 1879. Il tema dell’angoscia esistenziale, identità e dimensione tanatologica.

Decimo approdo L’isola del racconto Narrazione, identità narrativa con Guenda Bernegger.

111 Undicesimo approdo Lectio extra muros Il Castello; il tema della notte, della caduta, dell’inciampo e dell’aurora.

Dodicesimo approdo L’isola della Cura Identità, affettività e cura Necessità ontologica della Cura, la Cura come asse paradigmatico della pratica educativa. L’affettività come struttura fondamentale dell’avere-cura.

Tredicesimo Approdo e fine del viaggio “Mise en scène” del percorso del modulo.

3.2.3 Seminari esperenziali

a. atelier fenomenologico b. autobiografia c. corpo e teatro d. fiabe e. atelier antropologico

Testi di approfondimento

- Boella, L., Sentire l’altro, Raffaello Cortina, Milano, 2006. - Demetrio, D., Raccontarsi, Raffaello Cortina, Milano, 1996. - Douglas, M., Purezza e pericolo. Il Mulino, Bologna, 1996. - Demetrio, D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina, Milano, 2005. - Bettelheim, B., Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1993.

112 I Seminari esperienziali

Atelier fenomenologico Perché la scrittura? Come scrivere le proprie emozioni, come raccontare i propri paesaggi emozionali, non basterebbe viverli? Scrivere vuol dire tradurre, anche quando ci si immagina di creare dal nulla la parola che appare sulla pagina di un foglio bianco. L`operatore sociale è costantemente chiamato a questa opera di traduzione del pensiero e degli affetti nel flusso intersoggettivo, che l`incontrare suscita, un flusso da Se stessi all`Altro e viceversa. Il seminario propone un viaggio partecipativo in forma di labora- torio attraverso alcune aree della vita affettiva a partire dalle quali si costruiranno alcune “figurazioni rappresentative”, un pensiero emozionante ed emozionato. Rimane la domanda perché scrivere, non basterebbe fare?

Atelier di narrazione e scrittura autobiografica. Nello svolgersi del tempo, nei mutamenti del corpo, nei cam- biamenti dei pensieri e degli umori, nell’avvicendarsi gioioso o drammatico degli eventi qualcosa resta irriducibilmente uguale a se stesso, immutabile nel mutabile. A quel “qualcosa” viene dato anche il nome di identità. Inafferrabile all’oggettivazione, si mo- stra con evidenza in un fenomeno quotidiano e umile: il ricordo. Il laboratorio approfondirà le implicazioni esistenziali e forma- tive del racconto della propria vita attraverso la sperimentazione in prima persona delle tecniche che sostengono la narrazione orale e scritta. Un incontro con il ricordo come luogo di costruzione di sé, come strumento di ricerca, come pratica educativa, come stimolo creativo per lo sviluppo di esperienze formative a misura dell’essere umano.

Testo di riferimento: Demetrio, D., Raccontarsi: L’autobiografia come cura di sé, Milano: Cortina, 1996.

Atelier d’esperienza corporeo-espressiva In questo seminario si tratterà di incontrare, con la mediazione

113 dello spazio scenico teatrale, emozioni e situazioni affettive come la gioia, il dolore, la tristezza, ecc. Saranno momenti privilegiati dove affrontare l’imbarazzo legato allo sguardo dell’altro e alla paura di sbagliare. D’altro canto però sarà data l’opportunità di lavorare sulle proprie risorse attraverso “la ricerca e l’osservazione dei dettagli”. Il seminario offre quindi l’occasione per riconoscersi e rappresentarsi agli altri, mettersi in relazione con il gruppo e con se stessi, interrogarsi sulle proprie attitudini. Lo studente attraverso l’utilizzo della gestualità, della voce e del corpo riconosce e identifica alcuni aspetti caratterizzanti del proprio essere, della propria storia di vita che li rappresenta mediante una breve messa in scena collettiva. Incontro, quindi, con “ lo strumento corpo - voce “ per una riflessione sull’identità dove dare spazio anche alla creatività.

Testo di riferimento: Mustacchi, C., Ogni uomo è un artista. Roma: Meltemi, 1999.

Atelier fiabe Le fiabe, i miti e le leggende, non sono proprietà esclusiva di qualche mente particolarmente creativa ma si riferiscono ad un modello che è comune all’umanità intera. Tutti possono trasfor- marsi ed immedesimarsi nel protagonista sincronicamente alla let- tura di una fiaba, proprio perché l’autore e il protagonista, ovvero l’archetipo, ha caratteri di universalità. La fiaba rappresenta uno strumento di conoscenza di sé, del proprio mondo interno, delle dinamiche della psiche che prendono la forma dei personaggi. Per questo la fiaba si presta, con particolare plasticità, all’attività di gruppo, ed è proprio il gruppo che si trasforma in amplificatore dei contenuti della fiaba. L’utilizzo di fiabe per la formazione aiuta il soggetto che ne entra in contatto, a familiarizzare con il proprio mondo interno, a “codificarlo” e a comprenderne le dinamiche. Le fiabe rappresentano uno strumento prezioso per i momenti di passaggio e di criticità della vita, ma anche per momenti di rifles- sione identitaria e professionale soprattutto per chi è impegnato nell’universo delle relazioni di aiuto, e la condivisione nel gruppo diventa un ulteriore fattore di facilitazione all’accesso e all’appro-

114 fondimento dei contenuti proposti.

Nel gruppo fiabe il partecipante si rende conto di questa “at- tualità” dei temi proposti dalla fiaba sia nell’auto-osservazione che nella partecipazione e nell’osservazione del gruppo e delle sue dina- miche. La fiaba anima la dimensione personale e quella collettiva.

Atelier antropologico Il seminario approfondirà tre sfaccettature dell’identità dal pun- to di vista antropologico. Partendo dagli oggetti si incontrerà in un primo momento l’identità personale e corporea. Si esploreranno diversi modi di osservare il corpo, i segni corporei, gli accessori e gli abiti. In un secondo tempo, sempre grazie al medium dell’og- getto, si analizzeranno l’identità di genere e le costruzioni sociali delle differenze tra i generi. In conclusione, si cercherà di analizza- re l’identità personale e sociale a partire dai concetti di “non-luo- go” e di “luogo antropologico” di Marc Augé. Questo percorso esplorerà queste tematiche grazie alla scrittura, ad oggetti del quotidiano, ai testi di narrativa e scientifici e ad itinerari nei luoghi.

115 3.3 Identità e alienità Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi

Dedicatio (cerimonia attraverso la quale una cosa veniva proclamata sacra)

A loro, ai folli, a chi vive incatenato ai bordi dell’abisso, a chi per un sogno arrischia di perdere la vita, a chi per un’illusione o per una più vera verità smarrisce la vita, a chi è spaventato dall’oscurità. a chi teme la luce, a chi vagabonda nelle terre desolate, a chi soffre l’assordante rumore della battaglia, a chi, posseduto dal furore, brucia nel proprio fuoco, a chi non ricorda, a chi non può smettere di ricordare, a chi si porta dentro un deserto di pietra, a chi sosta sulla frontiera senza trovare casa, a chi vola nel vento e contro il vento sino alle cime delle più alte montagne come fosse un uccello per poi cadere, a tutti coloro a cui nessuno rivolge più la parola perché li considera nessuno, a tutti coloro che soffrono il dolore di un’anima ferita, a tutti coloro su cui il destino ha giocato la sua crudele partita a dadi, a tutti colori che ci aiuteranno a trovare noi stessi, a tutte queste donne e a tutti questi uomini, che cercando la nostra mano e la nostra ospitalità diverranno senza saperlo i nostri veri “maestri”, A tutti loro è dedicato questo nostro Modulo. A loro, ai folli…

Graziano Martignoni

116 3.3.1 La lezione: epistemologia e clinica Graziano Martignoni

La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive? I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore. Mario Tobino, 1953

Il fatto è che la psicopatologia è parte delle scienze umane e come tale è interessata non ad una sistematica della malattia mentale, bensì all’individuazione di dispositivi antropologi, di modelli di funzionamento della psiche umana, i quali forse attraversano la salute e la malattia, e certamente non sono confinati in singole forme morbose ed hanno per scopo di articolare la congerie delle esperienze interne di una persona delineandole in un mondo. Gli organizzatori psicopatologici sono cioè categorie generatrici di senso, il cui scopo potrebbe essere d’iniziare, avvicinare, stabilire un rapporto con un mondo estraneo. Ballerini, Stanghellini, 1991

Premessa La psico-pato-logia come discorso sulla sofferenza e sulle passio- ni dell’uomo è evento storico-culturale, biologico, clinico-relazio- nale. È scienza culturale, che necessita di modelli epistemologici ed ermeneutici. È l’ascolto di voci che vengono da quelle regioni dell’uomo, che chiamiamo mondi psichici. Non è dunque mera psicologia patologica ma soprattutto psicologia del patologico in cui l’uomo esprime e soffre la sua mondanità e la sua trascendenza. In questa sua molteplice determinazione e interconnessione ap- partiene alle questioni che legano simultaneamente mondo inter- no e mondo esterno, cervello e mente, corpo e psiche, individuo e società. L’evento psicopatologico non è dunque pensabile al di fuori dal suo ineludibile rapporto con il processo di civilizzazio- ne e le sue procedure di disciplinamento della soggettività a cui anche il lavoro sociale appartiene. L’evento psicopatologico non è nemmeno pensabile al di fuori della sua intrinseca condizione di relazionalità e di intersoggettività a partire da cui il mondo interno

117 del soggetto si forma e si fonda. L’evento psicopatologico non è neppure pensabile al di fuori dalla dimensione clinica, dove abita la Cura. L’evento psicopatologico non è infine pensabile al di fuori dai luoghi del suo apparire sociale e dal suo frame eco-sistemico.

TEMI LETTURE Prima/Seconda stazione:

1. L’uomo malato: l’incontro con la sofferenza e la dimensione della cura dell’esistenza malata. Incipit: La categoria di humanitas e di officium al cuore della Cura; dall’alte- Bianchi, E. - Cacciari, M., Ama il tuo rità all’alienità; la crisi e la catastrofe prossimo, Il Mulino, dell’identità; le sette premesse; Bologna, 2001. Lavoro sociale e follia, quale ruolo e quale obiettivo? Foucault, M., Malattia mentale e psi- Sofferenza, dolore, malattia; i modelli cologia, Cortina Milano, 1997, 87- della malattia; 97. L’etica della cura. 2. L’uomo è abitato e abita molti mondi! 3. La follia: Che cosa vuol dire essere sofferente nell’anima? Terza/Quarta stazione:

1. “Il cannocchiale epistemologico”, per un’“epistemologia ospitale” Una questione di metodo; Mappa psicopatologica: tra mappa e territorio, tra verità e rappresentazione; Che cosa è la psico-pato-logia? Il chia- Ionescu, S., 14 approches de la psycho- sma psicopato-logico; pathologie, Armand Colin, Paris, Le dimensioni psicopatologiche: clini- 2011. co-relazionale; biologica, semiolo- gica, antropologica, sociale, storica, Jaspers, K., Scritti psicopatologici. fenomenologica, spirituale; Esplorazione, individuazione e cura Comprendere, spiegare e intuire; dei disturbi mentali, Alfredo Guida Epistemologia ospitale (differenza tra Editori, Napoli, 2004. epistemologia positivistica e fenome- nologica) Scharfetter, C., Psicopatologia genera- le. Una introduzione, Fioriti Editore, 2. Le ermeneutiche: sintomo, strut- Roma, 2004. tura, sistema, situema, fenomeno. Il modello psicodinamico (struttura, difesa, angoscia, inconscio); Il modello antropo-fenomenologico (Dasein, esistenza) Il modello antropologico-etno-psicopa- tologico e altri …

118

Quinta/Sesta stazione:

La dimensione storica: Non vi è psicopatologia se non sto- Bergeret, J., La personalità normale e rica! patologica. Le strutture mentali, i ca- ratteri, i sintomi, Raffaello Cortina La psicopatologia non è neutra! Editore, Milano, 1996, 14-30. Chi e che cosa è normale o patologico, malato, abnorme? Civita, A., Introduzione alla storia Follia, malattia e processo di civiliz- e all’epistemologia della psichiatria, zazione; Guerini, Milano, 1996, Cap. 2, 55- 192. L’Occidente e l’idea di normalità e patologia (la dimensione sociologica, Foucault, M., Storia della follia nell’e- antropologica, statistica, psichica del- poca classica, Rizzoli, Milano, 1998. la categoria della normalità) L’asse della nominazione: follia, ma- Martignoni, G., L’archivio della follia. lattia mentale e mental disorder; fol- DOS/OSC, 1997, 1-17. lia-possessione e pre-modernità, ma- lattia mentale e modernità, mental disorder e post-modernità; L’asse dei luoghi: l’“Asilo”, l’ambulato- rio, il servizio, il territorio, la strada, la casa.

Settima/Ottava stazione:

La dimensione biologica Ionescu, S., 14 approches de la psycho- Cervello, psiche, mente e anima: che pathologie, Armand Colin, Paris, cosa significa psichico? Psyché, Erleb- 2011. nis, e storia e mondo; Il “cervello bagnato”; Jaspers, K., Scritti psicopatologici. Topografia e anatomo-fisiologia del- Esplorazione, individuazione e cura la vita affettiva: il cervello, il “nucleo dei disturbi mentali, Alfredo Guida centrale fluttuante”: la dinamica dei Editori, Napoli, 2004. fluidi tra cervello, psiche e mondo; Il Sé sinaptico; Scharfetter, C., Psicopatologia genera- Dall’emozione alla lesione: la psicofi- le. Una introduzione, Fioriti Editore, siologia delle emozioni. Roma, 2004.

Nona stazione: Sechehaye, M., Diario di una schizo- Film Diario di una schizofrenica, Nelo frenica, Giunti, Firenze, 2000. Risi (Italia, 1968) e discussione

119 Decima/Undicesima stazione

La psicopatologia non è, se non cli- nica! Jaspers, K., Scritti psicopatologici. L’intersoggettività e l’incontro; Esplorazione, individuazione e cura Gli existentialia: mondanità, tempo- dei disturbi mentali, Alfredo Guida ralità, corporeità, spazialità; Editori, 2004. Campi fenomenici: l’acuto, il reattivo, il conflittuale, il periodico, il parossi- stico, lo stabile-cronico; Le morfologie: conflitto, trauma, usu- ra, carenza, mancanza; I temperamenti: ciclotimico, schizoi- de, parossistico;

Dodicesima stazione:

1. Come costruire una diagnosi: diagnosi psichiatrica, diagnosi psi- co-antropologica; Sims, A., Introduzione alla psicopa- tologia descrittiva, Raffaello Cortina, Le terapie e le “arti dinamiche” Milano, 2009, Cap. 23.

Tredicesima stazione

Mise en scène Passioni e follia. L’incontro con la tra- gedia (Sofocle, Euripide, Eschilo ecc.).

120 3.3.2 Seminari

TEMI LETTURE (consigliate) Seminario: le psicosi Bergeret, J., La personalità normale e patologica. Le strutture mentali, i ca- ratteri, i sintomi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, cap. 2 e 3.

Martignoni, G. (ed.), Il mondo psico- tico, SUPSI - DSAS, 2013/14. Pewzner, E., Introduzione alla psico- patologia dell’adulto, Einaudi, Torino, 2002, cap. 4.

Tatossian, A., La Phénoménologie des psychoses, L’Art du comprendre, Paris, 1997.

Seminario: le nevrosi Bergeret, J., La personalità normale e patologica. Le strutture mentali, i ca- ratteri, i sintomi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, cap. 2 e 3.

Manzocchi, O. (a cura di), Le nevrosi, SUPSI - DSAS, 2013/14.

Pewzner, E., Introduzione alla psico- patologia dell’adulto, Einaudi, Torino, 2002, cap. 5 e 6.

Seminario: Bergeret, J., La personalità normale e le organizzazioni limite patologica. Le strutture mentali, i ca- ratteri, i sintomi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, cap. 1 e 4. Caviglia, G. - Iuliano, C. - Perrella, R., Il disturbo borderline di persona- lità, Carocci (Le Bussole), Roma, 2005.

Milani E. (ed.), Le organizzazioni li- mite, SUPSI - DSAS, 2013/14.

121 3.3.3 La tragedia

Programma

8.30 - 8.50 Prologo A cosa serve leggere la tragedia? Graziano Martignoni

9.00 - 9.30 Rappresentazione gruppo I Tragedia Edipo Re, Sofocle 430 a.C.

9.40 - 10.10 Rappresentazione gruppo II Tragedia Le Baccanti, Euripide 403 a.C.

10.20 - 10.50 Rappresentazione gruppo III Tragedia Le Troiane, Euripide 415 a.C.

11.00 - 11.30 Rappresentazione gruppo IV Tragedia Medea, Euripide 431 a.C.

11.40 - 12.10 Rappresentazione gruppo V Tragedia Aiace, Sofocle 445 a.C.

12.20 Epilogo Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi

12.35 Aperitivo

122 Quale miglior modo per concludere un Modulo incentrato sulle sofferenze psichiche, se non quello di evocarle attraverso la potenza e la profondità della tragedia greca? Leggere e mettere in scena la tragedia ci permette di compren- dere una dimensione della follia che non può essere appresa soltan- to attraverso lo studio di teorie e di testi scientifici. La follia, che sta al cuore non solo della malattia, ma soprattutto dell’esistenza umana, ci offre una chiave di lettura dell’umano che abita ogni uomo, come un fondale oscuro, un fiume carsico dall’antichità ad oggi. L’adulterio, l’infanticidio, il tradimento, il cannibalismo, il suicidio, l’incesto, la nascita, la morte ecc. richiedevano allora come oggi un “luogo” e una “parola” entro i quali essere avvicinati e vissuti in una “giusta distanza”, che permettesse di vivere in pri- ma persona la tragedia umana, senza per questo esserne travolti. Questa era ed è la funzione catartica della tragedia, già individuata da Aristotele e che ancora ai nostri giorni ci cattura e seduce.

Ornella Manzocchi e Graziano Martignoni

123 3.4 Fenomenologia del gesto di “cura (psico)-educativa” nelle vicinanze della “follia”. Spazi di cura e gesti di ospitalità Graziano Martignoni e Lorenzo Pellandini

La follia, che sta al cuore dell’uomo, non solo come malattia, ma soprattutto come cifra dell’esistenza umana stessa, ci offre una chiave di lettura privilegiata di ciò che è umano nell’uomo. Essa è come un fondale oscuro, un fiume carsico che ci interroga sin dall’antichità. La psicosi ne è il suo teatro più radicale. Mette in scena con il suo corteo di sintomi l’appartenenza ad altri “mon- di”, che abitano tragicamente l’esistenza dell’uomo. Mondi che parlano della loro radicale alterità, dell’abisso di immobilità e di dismisura, che da sempre hanno evocato il divino e il demoniaco, come forma del destino ma anche della possibilità di rigenerazio- ne. I folli, e per chiamarli così bisogna amarli, hanno accesso, nella nudità con cui si espongono al mondo-della-vita, ad una sorta di “passaporto delle ombre”. Negare e cancellare le loro voci, le parole di questi altri “mondi”, senza potervi dialogare e comprendere la “prodigiosa riserva di senso”, come scrive Foucault, che conten- gono, è condannare il malato ad una doppia solitudine e ad una doppia alienazione. Una condizione, quella del folle, che inter- roga costantemente il senso dell’esistenza stessa mostrando i suoi smarrimenti, le sue ferite, le sue angosce, ma anche le sue sfide. Un dialogo, che ha bisogno di luoghi, di gesti, di parole e di una sensibilità insieme forte e tenera, capace di coglierne nell’“ordine del cuore” (De Monticelli) il ritmo, le atmosfere, i paesaggi e i frammenti di una parola interrotta, estranea, spesso irruente, vio- lenta e bizzarra. Il Modulo cerca le parole di questo incontro, che necessita di una ragione sensibile, come quella che abita la “cura educativa”. Il Modulo si focalizza così attorno alla ricerca di una vera e propria “fragile” fenomenologia del gesto di cura all’interno

124 di un modello di accoglienza e di cura della follia e della sua esi- stenza sofferente, malata, ferita e impoverita, che è quello proposto dalla “psicoterapia istituzionale francese”, che ha influenzato anche la cultura psichiatrica del nostro paese e delle sue istituzioni di cura, per esplorarne gli intrecci e gli intrighi tra i mondi-della-vita, che ci abitano e che abitiamo anche come curanti. Curanti, ope- ratori di aiuto e di cura come “psiconauti” tra il mondo esterno e il mondo interno e gli innumerevoli “altri mondi”, che la psicosi evoca imprigionandoci, ma che anche a volte permette di attraver- sare facendoci “compagnia”.

125 3.4.1 Stazioni

Fenomenologia del gesto di cura all’incontro della “follia”

Il modello della psicoterapia istituzionale e comunitaria Prima parte: aspetti storici

Il modello della psicoterapia istituzionale e comunitaria Seconda parte; aspetti teorici e operativi: La comunità, i luoghi e gli spazi

Parole-chiave per una fenomenologia del gesto di cura : Atmosfera Accoglienza e ospitalità Predisporsi (être-déjà-là; être-là; être-encore-là)

Sostare

L’eterogeneità La singolarità

Postura educativa in ambito psichiatrico: “orizzontalizzarsi” e “passività accogliente”

Costellazioni

Il club; strumento o concetto?

La patoplastia istituzionale; la doppia alienazione

Gli oggetti mediatori, come trovarli nella quotidianità? Possono essere attraversati dalla passione?

L’istituzione come “organismo vivente”. Note di psicologia istituzionale

Trasversalità, terziarità, transizionalità

L’opera e il progetto

Per una fenomenologia della cura educativa: costruzione di una mappa per la navigazione

126 3.5 L’origine Dalla nascita alla scoperta di sé e dell’Altro Ornella Manzocchi

Dì tutta la verità ma dilla obliqua - il successo è nel cerchio - sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia la superba sorpresa del vero - Come il lampo è accettato dal bambino se con dolci parole lo si attenua - così la verità può gradualmente illuminare - altrimenti ci accieca - Emily Dickinson, 1129

- Questo non lo posso credere, - disse Alice. - No? - disse la Regina in tono di compatimento - Provatici. Fa un respiro lungo, e poi chiudi gli occhi. Alice si mise a ridere. - È inutile che mi ci provi, - ella disse - non si può credere alle cose impossibili. - Forse non hai la pratica necessaria, - disse la Re- gina. - Quando io avevo la tua età, m’esercitavo per mezz’ora al giorno. Ebbene, a volte credevo nientemeno che a sei cose impossibili prima della colazione … Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, 1871

Cuore di questo modulo, denominato nel curriculum formativo Prima infanzia e Nido, è l’intreccio saldo fra contenuto e metodo, che permette agli studenti di vivere costantemente la tensione fra i poli del fare

conoscere sentire sapere comprendere

127 Questi tre vertici intrecciandosi costantemente caratterizzano la trama e l’ordito grazie ai quali prende forma il contenuto del modulo. Un contenuto che si sostanzia grazie ad attività che per- mettono allo studente: a. di riflettere sulla relazione fra identità personale e identità professionale; b. di sviluppare la capacità di immaginare, pro-gettare, attuare e riflettere sul piano della prassi; c. di prendersi cura da una lato della passione e dall’altro della capacità di studio sul piano squisitamente teorico.

La tensione fra questi tre poli prende forma grazie ad attività che si configurano come:

1. laboratorio esperienziale sullo sviluppo della conoscenza e consapevolezza del proprio personale stile cognitivo, relazio- nale e esperienziale affrontato grazie ad un percorso personale che si articola fra tre piani dell’esistere: biografico, relazionale, creativo; 2. lavoro sul campo affrontato come: a. esperienza diretta di una relazione con un bambino. Una relazione che si snoda incontro dopo incontro con particolare attenzione ai dettagli del prima, del durante, del dopo i singoli incontri e con un occhio attento a tutta l’esperienza nella sua globalità; b. esperienza tesa a permettere ai soggetti di rimanere in relazione con un buon grado di soddisfacimento reciproco; c. possibilità di immaginare, pensare, pro-gettare, svolgere, ri-pensare, condividere e narrare sotto forma di scrittura un percorso relazionale; d. esperienza che favorisce la presa di consapevolezza delle proprie capacità e delle proprie fragilità nel sapere mantenere in vita una relazione con un bambino. Un’esperienza che vuol favorire la capacità critica dello studente nei confronti della dinamica relazionale che man mano si va sviluppando. 3. la teoria della prassi avvicinata e approfondita grazie a mo menti diversificati nel corso dei quali verranno affrontati: a. la messa in comune delle proprie esperienze sul campo nei

128 momenti settimanali di confronto in gruppo, seguendo la modalità di una supervisione in gruppo; b. la visita assistita presso nidi d’infanzia, arricchita dalle riflessioni e discussioni animate dalle esponsabilir delle strutture; c. l’incontro e le riflessioni con operatori sociali o studiosi e ricercatori impegnati direttamente sul campo della prima infanzia o nello studio di aspetti esistenziali che riguardano la prima infanzia; d. l’elaborazione di un protocollo che raccoglie la narrazione del percorso relazionale svolto con un bambino, affrontato sia dal punto di vista della prassi che da quello della teoria; e. due giornate esperienziali dedicate al tema dell’origine della vita e del nascere, svolte in una regione montana che permetterà di affrontare sia da un punto di vista strettamente corporeo che da uno squisitamente mentale e infine intellettivo una dimensione regressiva, di nascita, di cesura, meditativa, di condivisione sul piano esperienziale e su quello simbolico-rappresentativo e riflessivo; f. l’approfondimento teorico riguardante lo sviluppo psico-affettivo della prima infanzia attraverso le lezioni e le presentazioni-discussioni di letture.

129 3.5.1 Incontri

Incontri Contenuti 1 Percorso personale. Riflessione teorica: dalla scissione all’integrazione, attraverso la ricerca e la costruzione del primo rapporto oggettuale (Freud A., Klein, Winnicott). Video Umberto Galimberti, Le mappe emotive. Presentazione modulo.

2 Percorso personale. Riflessione teorica: teorie delle origini, a) lo sviluppo dell’ap- parato mentale fra costruzione di significato e ricerca di senso, b) il codice affettivo (Bion, Klein, Fornari, l’oscillazione da PS a D e viceversa, la relazione contenitore contenuto, il codice affettivo). Prima supervisione in gruppo. Come “abitare” la biblioteca DSAS.

3 Un contributo di Angela Paulon responsabile del Nido per l’in- fanzia di Germignaga: accogliersi, separarsi, ricongiungersi fra Nido e Famiglia.

4 Alla biblioteca cantonale di Lugano un contributo di Luca Sal- tini, Dott. PhD, Storico Collaboratore scientifico, Responsabi- le dell’attività culturale della Biblioteca cantonale di Lugano in Viale Carlo Cattaneo 6: Storia ticinese del Novecento, Sanità e infanzia nel Ticino del Novecento.

5 Un contributo di Susanna Mantovani, Pro-rettore e professore ordinario di pedagogia generale e sociale all’Università di Mi- lano Bicocca, Dipartimento di scienze umane per la formazio- ne “Riccardo Massa”: Una riflessione critica attorno al tema dell’accoglienza, alla luce dei cambiamenti sociali.

6 Visita al Nido per l’infanzia della Supsi, con un contributo della responsabile Elena Giambini: la costruzione della giornata tipo, il progetto educativo e le attività proposte in relazione allo svi- luppo psichico del bambino. Percorso personale. Seconda supervisione in gruppo.

7 Un contributo di Claudio Mustacchi docente ricercatore SUPSI-DSAS: L’architettura per l’infanzia a partire dal punto di vista di alcune figure pedagogiche importanti. Percorso personale. Terza supervisione in gruppo.

130 8 Un contributo di Camilla Leoni licenziata in antropologia, as- sistente SUPSI-DSAS: L’infanzia dall’antichità ai nostri giorni, i bambini nella storia. Percorso personale. Presentazione testo: Pedagogia al Nido, dal primo al settimo capitolo. Quarta supervisione in gruppo.

9 Un contributo di Elisa Milani licenziata in psicologia, assistente SUPSI-DSAS: La vita del bambino prima della nascita e la psi- copatologia materna nel periodo perinatale. Percorso personale. Presentazione testo: A piccoli passi, cap. II, IX, X, XII, XIII, XIV, XV, XIX. Quinta supervisione in gruppo.

10 Visita al Nido Il Trenino in Via Ronchetto 16A, Lugano, con un contributo della Responsabile Chiara Martignoni: come nasce un Nido e come si costruisce la propria identità profes- sionale.

11 Presentazione delle giornate alle Grotte con Lorenzo Pezzoli. Percorso personale. Riflessione teorica: Il primo anno di vita dall’oggetto transi- zionale ai fenomeni transizionali in una espansione da gioco a cultura (Winnicott). Presentazione testo: Persone da zero a tre anni, dal primo al settimo capitolo. Sesta supervisione in gruppo.

12 Percorso personale. Riflessione teorica: aver cura attraverso la comprensione del funzionamento mentale caratterizzato da proiezioni, identifi- cazione proiettiva, rêverie, empatia (Klein, Bion, Boella, Spe- ziale-Bagliacca). Presentazione testo : Persone da zero a tre anni, dall’ottavo al quindicesimo cap. Settima supervisione in gruppo.

13 Percorso personale. Riflessione teorica: le linee di sviluppo del bambino (A. Freud). Presentazione testo: Attaccamento e inserimento, dal primo al quinto capitolo. Ottava supervisione in gruppo.

14 Giornate alle Grotte Europa e Caverna Buco del Corno. Tema : L’origine, la nascita, la condizione del nascere.

131 3.6 Cura educativa e sofferenza psichica 3.6.1 Pratiche di intervento educativo Incontrare il folle e la sua follia: dove, quando, come? Graziano Martignoni e Lorenzo Pezzoli

“J’appelle formations et processus intermédiaires les formations et des processus psychiques de liaison, de passage d’un élément à un autre, soit dans l’espace intrapsychique (formation de com promis, pensée de liaison, moi, métaphore ...), soit dans l’espace interpsychique (médiateurs, représentants, délégués, objets transitionnels porte-parole ...), soit dans l’articulation entre ces deux espaces”. (R. Kaës, Le groupe et le sujet du groupe, 1993, p. 231)

Obiettivi : L’uomo folle abita ed è abitato da un doppio spazio, quello de- terminato dal suo mondo interiore e quello dal mondo sociale de- terminato storicamente. Questo suo doppio abitare determina la fenomenologia del suo disagio psichico ed esistenziale e le strategie relazionali e di cura che si sono di volta in volta costruite attor- no a lui. Abita nello stesso modo una sempre diversa temporali- tà che dall’acuto, attraverso il periodico e il parossistico giunge sino alla cronicità. Le nominazioni del suo esistere come malato sono mutate nel percorso per ridargli una cittadinanza perduta, ma nello stesso tempo a volte per cancellare la verità che la sua follia contiene. Tutto ciò riverbera nel quadro legislativo che de- termina gli assi portanti di questa costruzione e rappresentazione sociale. È in questa condizione di frontiera che vengono a deter- minarsi le diverse strategie relazionali. Incontrare la follia con uno sguardo orientato alla cura psico-educativa (C.Palmieri, L. Mortari, E.Borgna) vuol dire incontrare da una parte la singolarità di ogni condizione esistenziale soggettiva e psicopatologica insieme (mai

132 del tutto omologabile ai codici di classificazione), ma anche fare i conti con il territorio che ne determina il quadro concreto e le sue scelte legislative e organizzative. Il Modulo vuole esplorare le modalità operative delle pratiche di cura educativa nei confronti della sofferenza e del disagio psichico e psicosociale. Il vertice oscilla tra le categorie dell’intersoggettività e quelle dell’istituzionale, come del territorio. Luoghi di pensieri, parole e gesti in cui realizzare sul campo il progetto di cura educa- tiva e quindi la funzione e il ruolo specifico dell’operatore sociale nell’ambito delle équipes pluridisciplinari. L’uomo folle abita uno spazio nel mondo psichico e nel mondo sociale determinato stori- camente. Questo suo abitare determina la fenomenologia del suo disagio psichico ed esistenziale e le strategie relazionali e di cura che si sono di volta in volta costruite attorno a lui e alla sua follia. Abita nello stesso modo una sempre diversa temporalità che dall’a- cuto, attraverso il periodico e il parossistico giunge sino alla cro- nicità. Le nominazioni del suo esistere come malato sono mutate nel percorso per ridargli una cittadinanza perduta ma nello stesso tempo a volte per cancellare la verità che la sua follia contiene. Tutto ciò riverbera nel quadro legislativo che determina gli assi portanti di questa costruzione e rappresentazione sociale. È di que- sto molto concreto disegno che il Modulo vuole parlare con uno sguardo particolarmente orientato al nostro territorio e alle nostre scelte legislative e organizzative. Un secondo livello di riflessione verterà sugli elementi di specificità della cura educativa in ambito psichiatrico e psicosociale costruendo una sorta di microfenomeno- logia dell’agire educativo.

133 Itinerario in dieci soste :

Prima sosta: L’esistenza in bilico, “Non tutte le relazioni sono un incontro” 1. Che cosa significa educare di fronte alla follia? 2. Come incontrare la follia? Le forme della razionalità 3. Il pensiero melodico (M. Zambrano) 4. Dove incontrarla? Gli spazi di vita e di cura; 5. Che cosa incontrare? La malattia, il disagio, la sofferenza, l’alienità, la diversità, l’anormalità, l’estraneità, la stranierità; 6. Quando incontrarla? I tempi dell’incontro: l’acuto, il cronico, il periodico, il parossistico, lo stabile …

Seconda sosta : Vivere l’“avec” schizofrenico

Terza sosta: Abitare l’“entre” (il “fra”; l’intermediario, l’interstiziale)

Quarta sosta: Il dilemma dello sguardo

Quinta sosta: Corpo a corpo

Sesta sosta: L’“armonia mundi” tra caos e cosmo, il tema del ritmo

Settima sosta: Il “contatto”, con-tatto , “Takt”

Ottava sosta: L’evento e la storia

Nona sosta: L’ atmosferico

Decima sosta: Ogni relazione è una relazione etica. Etica e gesto di cura.

134 3.7 Cura di sé e cura dell’Altro: il percorso di supervisione Ornella Manzocchi e Graziano Martignoni

Introduzione Il testo che segue corrisponde al regolamento interno al nostro dipartimento, per quanto attiene al percorso di supervisione for- mativa. Il testo presentato nei capitoli che vanno da 3.6.1 a 3.6.5 viene consegnato sia agli studenti e che ai supervisori per orientarsi rispetto a questo tema e alle regole interne al nostro dipartimento, per la supervisione formativa. Il testo presentato nei capitoli che vanno da 3.6.6 a 3.6.8 riguarda un’estensione dei concetti pre- sentati succintamente nel regolamento interno della supervisione formativa. Infine il testo presentato nell’ultimo di questi capito- li (3.6.9) dedicati alla supervisione formativa, è la testimonianza dello svolgimento di due percorsi di supervisione formativa svolti con due nostre studentesse secondo il pensiero che sostiene questo nostro percorso di supervisione formativa della SUPSI.

3.7.1 Premessa La supervisione formativa è un elemento importante del processo di formazione dell’operatore sociale. Da essa si dipana il filo rosso che nella formazione lega tra loro la dimensione dell’essere di fron- te all’Altro e quella dell’azione e del progetto. La supervisione guida il candidato nella relazione, riproducendo “en miroir” (tra supervisore e candidato) l’esperienza relazionale tra operatore e utente. La supervisione è inoltre exemplum di una modalità di lavoro in cui, nella pratica dell’incontro intersoggetti- vo e collettivo, la dimensione affettivo-simbolica si affianca e com- pleta quella pratico-cognitiva.

135 “Una centralità che appartiene sia alla specificità del lavoro so- ciale di aiuto e di cura come esperienza di ‘presenza’, di esposizione e di progettualità nei confronti all’Altro, sia a quella che lo vede ‘mediatore sociale’, capace di negoziazione nei confronti delle mol- teplici agenzie sociali e coordinatore della progettualità individuale nell’ambito del mondo produttivo e culturale”.

La supervisione si occupa degli affetti, delle emozioni e delle fantasie che si sviluppano nella relazione (amore, odio, aggressivi- tà, invidia, seduzione, noia, indifferenza, ecc.), così come dei sen- timenti di onnipotenza, di impotenza e di colpa, che la relazione con l’Altro mette in scena. Essa si interessa ai vissuti che nascono nel lavoro di gruppo (confronto con l’autorità, rivalità fraterna, conflitti tra fedeltà e trasgressione) e alle esperienze identitarie le- gate all’essere operatore sociale in azione.

3.7.2 Modalità della supervisione La supervisione è di regola centrata sull’analisi del “caso” e/o del “frame” sociale, culturale famigliare e istituzionale in cui la relazio- ne prende forma e contenuto. La supervisione orienta il suo sguar- do verso le dinamiche relazionali intersoggettive, gruppali e istitu- zionali, che la relazione di aiuto, di cura o di progetto suscita e da cui è influenzata. Le vicissitudini personali evocate dal candidato sono sempre piegate nel contesto della relazione con l’utente o con il gruppo. La supervisione formativa non affronta direttamente le problematiche psichiche individuali del candidato.

Per gli studenti del curricolo a tempo pieno il percorso di su- pervisione formativa nella sua specificità esperenziale e introspettiva avrà momenti individuali e in gruppo. Per gli studenti del currico- lo parallelo all’attività professionale (PAP) essa avviene unicamente nella formula individuale. In entrambi i casi essa avrà quale oriz- zonte la crescita identitaria del candidato nelle diverse dimensioni personali, etiche e relazionali. Il supervisore occupa così un ruolo specifico e discreto nel triangolo formativo costituito dal supervi- sore, dal docente di laboratorio di pratica professionale e dal re- sponsabile pratico interno alle varie istituzioni di lavoro.

136 La supervisione dovrà perlopiù guidare il candidato nell’espe- rienza relazionale, di cui è attore durante lo stage per quanto attie- ne agli studenti del tempo pieno. Per il PAP essa si realizzerà lungo l’intero percorso formativo e avrà una stretta attinenza con la realtà professionale in cui lo studente lavora. Compito della supervisione è di offrire ai candidati un’esperien- za di conoscenza di Sé tramite e attraverso l’incontro con l’Altro (chiamato di volta in volta utente, paziente, ospite, residente e persino cliente). Nell’esperienza di supervisione formativa in grup- po questo Altro diviene anche il partecipante e i partecipanti del gruppo stesso con funzione di confronto, di delimitazione identi- taria e di rispecchiamento.

3.7.3 Obiettivi della supervisione • Prendere confidenza con gli affetti, le emozioni e le fantasie suscitate dalla relazione con l’utente, sapendo distinguere il pro- prio dall’altrui; • sviluppare le capacità di empatia e di identificazione; • riconoscere le controattitudini e gli “agiti” che il processo re- lazionale provoca; • aprirsi alla molteplicità dei “punti di vista” sul “caso” o sulla situazione; • comprendere i propri limiti e le risorse dell’utente e del grup- po, così come le possibilità e i limiti invalicabili della relazione stessa; • individuare gli ostacoli relazionali alla realizzazione di un pro- getto di lavoro sociale e apprenderne le modalità di risoluzione nell’ambito intersoggettivo e collettivo; • riconoscere e fare esperienza delle dinamiche gruppali, dei loro conflitti e riconoscere le potenzialità e gli impedimenti che il grup- po suscita e svela nell’individuo e nell’azione; • riconoscere e fare esperienza delle risorse del gruppo come organizzatore del pensiero e come generatore di un possibile pro- getto condiviso; • vivere il gruppo come spazio del confronto etico.

137 3.7.4 Organizzazione e tempi della supervisione Per gli studenti a tempo pieno, la supervisione formativa pre- vede, nel corso dei tre anni, una supervisione individuale e una supervisione in gruppo. La supervisione individuale intende centrarsi soprattutto sul pia- no della maturazione identitaria personale rispetto alla scelta pro- fessionale e alle prime esperienze di pratica professionale. La supervisione in gruppo si focalizza in particolare sull’identità professionale nelle sue dimensioni personali, istituzionali e rela- zionali. Essa avviene in concomitanza con l’iscrizione all’opzione edu- catore, rispettivamente assistente sociale. Si realizza mediante 7 incontri di 2 ore per seduta. Per gli studenti del curricolo PAP la supervisione è a carattere solo individuale e si svolge a partire dal III semestre. Essa compor- ta per ciascun studente 20 sedute di 1 ora cadauna da concludersi entro la fine dell’ultimo semestre.

3.7.5 Programma Secondo semestre: Due pomeriggi di formazione in vista dell’inizio della prima esperienza di supervisione che si svolgerà in forma individuale. I due pomeriggi corrispondono a due lezioni frontali tenute dai re- sponsabili di modulo. Vengono trattati in questa sede i rudimen- ti della supervisione, ossia, una breve parte storica; il senso della pratica discorsiva, narratologica che si snoda fra supervisionando e supervisore con al cuore i temi riguardanti l’identità professionale dell’operatore sociale; il processo, il setting, le trasformazioni, che la supervisione mette in campo. Per gli studenti a tempo pieno la supervisione si comporrà di 10 incontri e avrà luogo durante il corso del primo stage. Per gli stu- denti del cours en emploi la supervisione si comporrà di 20 incontri e avrà luogo durante il corso dell’intera formazione. Per gli studen- ti a tempo flessibile la supervisione si comporrà di 14 incontri e avrà luogo durante il corso degli stages.

138 Quarto semestre: Due pomeriggi di formazione a seguito dell’esperienza di super- visione individuale, nel corso dei quali gli studenti condivideranno con i colleghi di corso e i responsabili di supervisione, l’esperienza di cui hanno fatto tesoro durante i dieci incontri di supervisione individuale. Prendendo spunto dalle loro particolari e variegate esperienze verranno ripercorsi i temi al cuore della supervisione. In particolare: le modalità di analisi del caso o del frame sociale, cul- turale, famigliare e istituzionale in cui la relazione ha preso forma; l’esperienza “en miroir” che nel corso degli incontri di supervisione ha preso forma; la possibilità di usufruire di una relazione pro- fessionale privilegiata che ha funto da exemplum di una possibile modalità di lavoro; la messa in gioco della propria persona (bio- grafia e auto-biografia) nell’incontro di supervisione che dovrebbe rappresentare la congiunzione fra saggezza, sapienza e competenza.

Quinto semestre: Un pomeriggio di formazione tenuto da un relatore esterno su di un tema particolare legato all’esperienza della pratica di supervi- sione che nel corso del sesto semestre verrà ampliata permettendo agli studenti di sperimentare una forma di riflessione professionale ampiamente diffusa nelle istituzioni: la supervisione in gruppo. Temi di fondo quali il nesso fra sapienza, saggezza e competenze; la relazione fra pratica biografica, auto-biografica e riflessione og- gettivante, senso e pratica della supervisione in ambito sociale ecc. saranno affrontati di anno in anno. Per gli studenti a tempo pieno la supervisione in gruppo si com- porrà di 7 incontri e avrà luogo durante il corso del secondo stage. Gli altri studenti del cours en emploi e del tempo flessibile svolge- ranno la supervisione solo in forma individuale.

Sesto semestre: Due pomeriggi di formazione durante i rientri del secondo e ultimo stage che aprono alla riflessione congiunta fra tutti gli studenti sia educatori che assistenti sociali. Nel corso di questi incontri la presentazione di casi problematici affrontati durante la pratica di stage permetterà di arricchirsi e “contaminarsi” reci- procamente così che il cuore pulsante dell’educatore, tanto vicino

139 alla quotidianità dell’ospite possa nutrirsi della pratica sia organiz- zativa che riflessiva dell’assistente sociale e viceversa. I pomeriggi saranno condotti dai responsabili di modulo con la partecipazione attiva di un supervisore, di un docente di laboratorio educatori e di un docente di laboratorio assistenti sociali. Questo permetterà agli studenti di correlare e differenziare i contributi che in forma diver- sificata concorrono alla formazione della loro identità professio- nale, potendo leggere, comprendere e trasformare una situazione valutandola dal punto di vista della riflessione sul proprio modo di sentire, pensare, agire (supervisione), sulle pratiche adottate (labo- ratorio di pratica professionale) sui modelli di riferimento (lezioni teoriche) ed infine sulle azioni intraprese (responsabile pratico).

La cura Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare. E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te. Vagavo per i campi del Tennessee (come vi ero arrivato, chissà). Non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare. Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza. I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi, la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi. Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto. Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare. Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te … io sì, che avrò cura di te.

F. Battiato

140 3.7.6 Il setting in supervisione formativa Ornella Manzocchi

La supervisione formativa è quella particolare esperienza di con- divisione che prende forma attraverso il lavoro di conciliazione fra atto e parola. In supervisione formativa lavoriamo infatti grazie ad un me- dium, la parola. La supervisione formativa potrebbe dunque essere correttamente definita un atto di parola, una pratica discorsiva. In supervisione formativa non ci occupiamo dunque di eviden- ziare o di certificare una verità, bensì di fare tesoro della capacità di riconoscere l’errore, nel senso dell’erranza nella pratica profes- sionale. Nella supervisione formativa facciamo pratica discorsiva e siamo “lontani” fisicamente e temporalmente dalla pratica quoti- diana della professione. Ciò di cui ci occupiamo è la parola, come racconto della pratica quotidiana e dei vissuti ad essa correlati. La cura e il trattamento, che in supervisione formativa dovremmo e possiamo garantire a questo racconto va nell’ordine dell’”inter- pretazione”, sia da parte di chi narra (il supervisionando “sceglie”, consapevolmente o inconsapevolmente, cosa e come narrare ciò che narra, guidato dalle proprie emozioni, dal proprio sapere, dalla propria storia ecc.) sia da parte di chi accoglie, ascolta e parteci- pa alla costruzione di una nuova visione (l’ascolto del supervisore formativo è sempre filtrato dalla sua sensibilità, dal suo modello teorico di riferimento, dalle sue emozioni ecc.). Risulta dunque piuttosto chiaro che la supervisione formativa appartiene all’area del pensiero debole, del pensiero della verosimiglianza e non della verità. La supervisione formativa si svolge e si sviluppa dentro l’ordine del giorno, quello in cui noi ci confrontiamo principalmente con lo spazio esterno, quello che ci permette di mettere in scena un copione che riguarda ad esempio lo spazio pubblico entro il quale si dispiega il mandato istituzionale dell’operatore sociale. Ma la supervisione formativa, pur svolgendosi e sviluppandosi dentro l’ordine del giorno, grazie al suo specifico setting che favo- risce la regressione pur contenendola e limitandola, ci permette di avventurarci e confrontarci con il nostro spazio mentale interno, con la nostra affettività, con i nostri vissuti passati e futuri, ecc. Lo

141 specifico setting della supervisione formativa favorisce nella coppia supervisore-supervisionando l’assunzione chiara di ruoli asimme- trici, garantendo la possibilità di esplorare luoghi non solo esterni pertinenti all’ordine del giorno, ma pure luoghi interni pertinenti all’ordine dell’interiorità. La supervisione formativa non si prende cura del disagio di vive- re che l’interiorità del candidato mette in scena, ma del suo disagio nell’incontrare l’alterità nel mondo del giorno, quando questa ri- manda subitaneamente e lo riporta imprescindibilmente alla pro- pria personale e intima alterità. Il supervisore grazie alla cura del setting dovrebbe mantenere la dimensione regressiva della supervisione formativa in un costante clima di speranza che la avvicina molto alla funzione del conte- nimento materno, alla relazione materna. Il supervisore, come la madre, avverte l’urgenza e la necessità che il candidato esprime narrando le proprie esperienze professionali le quali trasformano subitaneamente quell’incontro in una condizione di condivisione irripetibile e personalizzata. La risposta al bisogno così espresso si configura attraverso l’at- tenzione a un setting denso di rigore e nel contempo di flessibilità. Condizioni queste che garantiscono l’integrità del supervisionan- do e del supervisore, indipendentemente dalle modalità e dai con- tenuti del gioco di narrazione che fra i due si va via via intessendo. Il setting o quadro è quella qualità della relazione di supervi- sione formativa che se perturbata richiede subito una donazione di senso essendo questa un’esperienza con alto tasso di significato. Non sono in sé e per sé la perturbazione o l’errore nel setting che creano problema, quanto la loro mancata investitura di pensiero e parole, il loro abbandono nel non detto, nel non senso condiviso. La regola in supervisione formativa non ha importanza in sé, ma in quanto esperienza di condivisione; la regola infatti non si discute, ma eventualmente la si contraddice aprendo il discorso al senso di questo perturbamento o errore. Riferendoci in modo particolare all’esperienza della perturba- zione del setting, sia esso agito dal supervisionando o dal supervi- sore, va tenuto conto del fatto che oggi, più che di perturbamento o attacco al setting varrebbe la pena di parlare, con Simona Ar- gentieri, di sfilacciamento o di erosione del setting, in un quadro

142 culturale che vede i riti, soprattutto quelli basilari di passaggio, decadere progressivamente. Il rito o setting sono quella particolare struttura che risponde al nostro bisogno di identità, di apparte- nenza, di comunità. Oggi questi bisogni vengono meno o sono meno riconosciuti, ne consegue dunque l’indebolimento, lo scio- glimento, il rimescolamento delle strutture di pensiero e di azione che si ponevano a guardia e garanzia di risposte adeguate e facili- tanti il passaggio ad un più raffinato e strutturato senso di identità e di appartenenza. Con la supervisione formativa ci troviamo nell’ordine di una relazione fra domanda e risposta. In un percorso di psicoterapia la parola è declinata nel mondo interno. In un percorso di consulen- za la parola è declinata nel mondo esterno. In un percorso di su- pervisione formativa la parola è declinata nel mondo intermedio, quello che lambisce tanto il giorno quanto la notte, è intessuta di Imago e Fantasmi oltre che di Immaginazione e Pensieri, veicola e mostra i sottesi meccanismi difensivi. La parola condivisa in supervisione formativa attiva un pro- cesso a partire dalla scintilla dell’emozione. Il supervisore usa la parola nell’ordine del cognitivo che rinvia ad un pattern d’azione che mette in campo una trasformazione la quale a sua volta mette in campo nuovi pattern d’azione. Lo psicoanalista usa la parola nell’ordine del fantasmatico. Più la parola agisce tonificando l’e- mozione, più entriamo nell’ordine dei sentimenti. La supervisio- ne formativa si misura proprio su questo terreno, come un vaso comunicante che permette il mescolamento delle emozioni e dei vissuti fra ospite, supervisionando e supervisore. Si tratta in defini- tiva di una vera e propria messa in malattia affinché avvenga una trasformazione nell’ordine del professionale. La supervisione formativa permette al candidato di narrare e di mettere in scena ciò che avviene nel suo mondo interiore a seguito dell’impatto professionale, aiutandolo ad evitare il passaggio all’at- to fatto di fantasmi e imago vissuti come pericolosi e dolorosi, gra- zie alla simbolizzazione. La trama simbolico-narrativa diviene dun- que la garante della capacità di non passare all’atto. L’esperienza di supervisione formativa permette dunque al candidato di affrontare le emozioni legate alla vita professionale con il corollario di difese psichiche che queste suscitano: idealizzazione, banalizzazione, de-

143 vitalizzazione, negazione e proiezione ecc. Lo spazio strutturato e regolato della supervisione formativa, grazie alla cura del setting, permette al candidato di avvicinarsi a queste dimensioni psichiche mirando, con l’aiuto del supervisore, all’integrazione fra pratica e teoria, affinché quella particolare situazione relazionale che noi chiamiamo supervisione formativa, si svolga in una condizione il più possibile favorevole allo sviluppo di una relazione declinata secondo criteri costruttivi occorre predisporre un contenitore, un quadro o un setting che favorisca questo stato di cose. Il setting sta alla costruzione di un sapere condiviso come l’or- dito e la trama stanno al tessuto. Dunque il nostro setting è un dispositivo che crea ordine (trama e ordito) là dove apparentemen- te regna il caos (matassa di fili). Il setting è il garante della possi- bile riuscita anche e soprattutto là dove le difficoltà rischiano di sabotare il lavoro. Il setting è dunque una specifica modalità di contenimento della parola detta ed ascoltata. Alcune modalità di contenimento messe in gioco nel setting di supervisione formativa sono in particolare: la disposizione mentale, lo spazio, il tempo, le regole, la capacità di essere pazienti, la capacità di stare in uno stato di sospensione, la capacità di meravigliarsi e lasciarisi sorprendere, la capacità di andare alla ricerca di un fatto scelto che offra senso al discorso (coerenza, nesso logico, comprensione), il desiderio di ascoltare, il desiderio di narrare, il rigore, la flessibilità, la costanza. La supervisione formativa è dunque un’esperienza di rimessa in forma della parola. Attraverso un rapporto “pensoso” con le parole narrate e ascoltate, il candidato si confronta in modo costruttivo con l’inadeguatezza delle parole rispetto al senso dell’esperienza che vuol narrare, condivide con il supervisore l’esperienza di dolo- re mentale che questa inadeguatezza comporta, costruendo incon- tro dopo incontro la propria identità professionale e rafforzando quella personale. Potremmo dire che la supervisione formativa permette al candidato di costruire e imparare ad utilizzare in modo corretto la propria bussola interiore professionale. Il setting è quel dispositivo mentale e spazio-temporale che ci sostiene permettendo al nostro lavoro di proseguire anche quando le condizioni si fanno difficoltose a causa di interferenze dovute al desiderio di evitare il dolore mentale causato dal confronto e dalla condivisione. Quando la condivisione ci getta in uno sta-

144 to di sconforto poiché ci sentiamo perseguitati dalla depressione o depressi dalla persecuzione e minacciati nella nostra identità, dobbiamo mantenere la capacità di diventare nello stesso tempo sufficientemente nomadi e sufficientemente disidentici rispetto a noi stessi e al nostro sapere senza smarrirci confusamente nei me- andri dei sentimenti depressivi o paranoici. In queste condizioni tempestose il setting, se predisposto con autenticità e umiltà, viene in nostro soccorso offrendoci appunto un quadro, e come tale dei limiti entro i quali fluttuare da un granitico senso di identità ad un inquietante senso di disidenticità, senza smarrirci e senza andare a pezzi, operando quella che i biologi chiamano osmosi e che noi chiameremmo elaborazione, integrazione delle parti in gioco. Il setting è dunque uno spazio mentale e fisico entro il quale è possibile svolgere un incontro di supervisione formativa. Entro questo prezioso spazio, entro i confini che esso traccia con chiarez- za, ci è relativamente gradevole evidenziare una peculiarità del no- stro agire. Questa particolare pratica discorsiva è costituita in larga misura dal “lavoro del pensiero” che possiamo immaginare come una bussola che guida la nostra attenzione e la nostra sensibilità verso il “qui e ora” con constante tensione rivolta al “come” più che al “cosa” andiamo ascoltando, pensando, desiderando, proget- tando, facendo. Il nostro viaggio in supervisione formativa trova dunque la sua guida, la sua bussola nella nostra capacità di riferirci al qui e ora illuminandolo con il faro della nostra attenzione rivol- to al “come accade ciò che accade”. Un accadere fatto di parole, sguardi, agiti, racconti, silenzii, rimembranze e altro ancora. L’attività che il supervisionando condivide con il supervisore è soprattutto “il pensare”. Va dunque tenuto in seria considerazio- ne l’uso che il supervisionando fa della sua capacità di pensare in situazione di supervisione formativa. Il supervisionando svolge la sua attività di costruzione di un sapere condiviso rivolgendosi al supervisore, pensando silenziosamente, rendendo subitaneamente partecipe il supervisore per mezzo della parola, comunicando con gli sguardi, informando con gli agiti secondo l’uso che lui stesso può e ne vuole fare. Detto ciò risulta chiaro che l’importanza del contenuto delle comunicazioni del candidato va compreso e valu- tato in base all’uso che costui ne fa. Come insegna Wilfred Bion, uno degli aspetti sempre in gioco nella relazione è il modo in cui i

145 soggetti usano la loro attività di pensiero. Questo non è certamen- te l’unico elemento in gioco in una relazione, ma sicuramente è il più continuativamente significativo, ed è quindi degno di essere seguito con attenzione, di essere isolato e di essere messo in rilievo. L’evoluzione del pensiero circa il nostro rapporto con la realtà esterna e anche con quella interiore prende corpo secondo una modalità a prima vista senza regole, poiché non risponde ad alcun ordine temporale o spaziale. Lo sviluppo delle nostre capacità di rapportarci in modo adeguato con il mondo, altrimenti detto lo sviluppo del nostro apparato per pensare e lo sviluppo stesso dei nostri pensieri, procede a strappi e bocconi secondo una geometria che rinvia più a categorie topologiche che euclidee. Questo dato di fatto ci “getta” nella scomoda posizione di colui che deve allenarsi a tollerare l’ansia generata dalla frustrazione del non sapere, per quel tanto di tempo che basta affinché un senso prenda forma. Poincaré scriveva nel 1909 in et Methode “Un nuovo risultato, per avere qualche valore, deve unire tra loro elementi noti da tempo ma fino a quel momento slegati ed apparentemente estranei l’uno all’altro ed introdurre improvvisamente l’ordine là dove regna l’apparenza del disordine. Ecco allora che ad un tratto ci accorgiamo del posto che ogni singolo elemento occupa nell’insieme. Come i nostri sensi, così la nostra mente è talmente fragile che si perderebbe nei complicati meandri del mondo se non vi fosse armonia in tale complessità; come nella miopia, essa vedrebbe i dettagli più prossimi dimenticandoli non appena si ac- cingesse ad osservare quelli più lontani. I soli fatti degni d’attenzione sono perciò quelli che apportano ordine in questa complessità, renden- dola in tal modo accessibile.”. Potremmo dunque affermare che l’esperienza di supervisione formativa condotta da parte del supervisore con cura e attenzione al setting, permette al supervisionando di confrontarsi con la pro- pria e altrui disposizione all’ascolto, all’accoglimento ed infine al riconoscimento di un “fatto scelto” (Wilfred Bion) che permetta di scorgere un ordine a noi compiutamente comprensibile là dove prima pareva regnare il caos di una comunicazione priva di senso. Questo “fatto scelto” ci permette dunque di legare fra loro gli ele- menti della comunicazione. Elementi che sino ad ora ci erano ap- parsi privi di nesso logico, poiché apparentemente slegati fra loro, trovano una forza coagulante che permette loro di disporsi in un

146 nuovo ordine meno opalescente e dunque meglio comprensibile alla nostra lettura. Interessante a questo punto mi pare lo sforzo di individuare al- cune asperità che potrebbero generare fraintendimenti ed intral- ciare in supervisione formativa la condivisione e la costruzione di un sapere congiunto. Quali possono essere alcune possibili lacera- zioni nel contenitore mentale, nel setting che garantisce la conti- nutià della pratica di supervisione formativa? Riprendendo il sentiero a volte tortuoso che ci invita alla rifles- sione, mi pare di poter affermare che il supervisore, nell’alveo degli incontri di supervisione formativa, si rende garante della “cura di sé”. Intendiamo con cura di sé quella capacità di accogliere, di comprendere ed infine di generare trasformazioni che vanno a toc- care i rapporti con l’alterità, dentro e fuori da noi. La supervisione formativa sembra corrispondere ad un’esperienza del tutto simile a quella a cui sono sottoposti i liquidi versati e contenuti in vasi comunicanti. In questo caso si tratta naturalmente di vasi-comuni- canti-mentali che danno luogo all’auto-trasformazione dei soggetti in gioco (supervisore e supervisionando). Da incontro ad incontro sia il supervisore che il supervisionan- do si trasformano, sfuggono a sé stessi, come dice Pier Aldo Rovatti nel suo saggio “La fiolosfia può curare?”. Infatti nel momento stes- so in cui ci sentiamo padroni del nostro esercizio di supervisore ed esercizio di supervisionando, in quello stesso momento, parados- salmente non siamo più padroni di noi stessi poiché siamo riusciti a cedere un poco del nostro spazio all’Altro e a prendere un poco di tempo su di noi. In questo movimento che si snoda da incon- tro a incontro dentro una pratica di gioco regolato dall’esercizio condiviso e sottoposto a regole, quelle del setting di supervisione formativa, l’alterazione di sé offre un guadagno di spazio mentale, identitario e operativo. Ma il giocare è quella particolare esperienza di vita di cui non si può dare insegnamento, lettura, teoria e in questo senso la nostra pratica discorsiva potrebbe essere definita “il gioco della supervisione formativa”. Il gioco è una pratica, bi- sogna giocarlo e in questo caso occorre giocare alla supervisione formativa non prima o dopo ma durante la pratica professionale. La supervisione formativa è un gioco regolato dalle regole del set- ting e permette ai due soggetti di riconoscersi e di ampliare il loro

147 spazio mentale, identitario, relazionale e operativo, traendo via via piacere da questa esposizione di sé stessi a sé medesimi prima an- cora che all’altro. Il gioco di supervisione formativa corrisponde, come abbiamo già avuto modo di dire, ad una pratica discorsiva. Pier Aldo Rovatti viene ancora una volta in nostro soccorso ricor- dandoci che grazie al gioco noi allarghiamo lo spazio e il tempo svincolandoci così dalla strettoia in cui ci troviamo, creando pause e pieghe soprattutto grazie al racconto, ci poniamo nella condizio- ne di far ripartire il pensiero mediante la pensosità. La supervisio- ne formativa deve essere proprio questo saper fare, saper giocare, questo saper vivere l’opportunità e non l’affanno di un “deficit di senso” che potrebbe da incontro a incontro permettere la tessitura di una nuova apertura alla vita, alla professionalità, alla pensosità ecc. fatta di trama e ordito attraversati da tagli alla Lucio Fontana. La pratica di supervisione, come il gioco, da un lato dovrebbe permettere di provare una serena condizione di benessere e dall’al- tro dovrebbe permettere di esercitarsi al rischio insito in ogni nuo- va apertura. Apertura come già detto all’alterità dentro e fuori da noi. Non va dimenticato che questa pratica, per essere veramente tale, deve prendere corpo nel “qui e ora” che si traduce nella ca- pacità di aprire i nostri sensi, ossia nella capacità di lasciarci sor- prendere dalle modalità, dagli umori, dalla qualità della relazione che va via via intessendosi fra supervisore e supervisionando, e dai contenuti più o meno latenti del discorso. A tale proposito ricor- diamo quanto già detto poc’anzi: l’importanza del contenuto delle comunicazioni che intercorrono fra supervisore e supervisionando va compreso e valutato in base all’uso che entrambi ne fanno. In una relazione uno degli aspetti sempre in gioco è il modo in cui i soggetti usano la loro attività di pensiero. Nell’incontro di gioco o pratica discorsiva di cui ci occupiamo, il supervisore si rende dunque garante dello spazio e del tempo dei pensieri. Pensieri forse ancora tremuli che prendono forma grazie alla capacità del supervisore di mantenersi in una condizione di marginalità rispetto alla centralità del lavoro del pensiero che il candidato è chiamato in prima persona a mettere in scena. Un lavoro del pensiero che come già detto apre e avvicina all’alterità. Il supervisore dovrebbe dunque fare in modo che il supervisio- nando possa compiere per conto proprio l’esercizio di cura di sé

148 nell’apertura sull’alterità. Per dirla con Pier Aldo Rovatti qualcosa si muove quando i due piani, quello dell’identità e quello dell’al- terità si sovrappongono, scivolano l’uno sull’altro, l’uno dentro e fuori dall’altro, si incontrano, o forse meglio dire: vicendevolmen- te si attraversano, senza per questo confondersi in una sorta di abbraccio confusivo o in uno scontro collusivo. Nello svolgimento della pratica di supervisione formativa il su- pervisore stesso ed il supervisionando fanno esperienza di cura di sé stessi nel senso che si esercitano ad applicare alla propria esisten- za l’apertura all’altro, sia dentro di sé che fuori da sé, insomma si esercitano entrambi a governarsi secondo un orientamento critico.

3.7.7 I coefficienti di trasformazione nella pratica discorsiva della supervisione formativa nelle professioni sociali Ornella Manzocchi

Innanzitutto vorremmo ricordare che la supervisione formativa della quale ci occupiamo si svolge secondo una circolarità prati- co-discorsiva che tocca tre poli del sapere, ossia

Sapere intuitivo

Sapere pratico Sapere teorico

Ci preme qui sottolineare come siano fondamentali le motiva- zioni che stanno alla base della scelta di formazione in ambito di aiuto e cura . Questa scelta professionale nasce da un bisogno precocissimo che potremmo definire un “non-evento”, una mancanza che ha lasciato una traccia indelebile nella nostra personalità ancora tutta in formazione, traccia della quale siamo spesso inconsapevoli, ma che come ormai sappiamo, lavora silenziosamente dentro di noi. Un non evento per dirla con Aldo Carotenuto, che ha lasciato

149 dentro di noi una feritoia, un minuscolo varco che ci permette di essere in contatto con il nostro mondo interiore. Grazie a questa feritoia siamo nella condizione di rappresentarci il nostro mondo in una dimensione temporale (passato, presente, futuro). Ma la temporalità mette in scena quello spazio opaco che è lo scarto fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Questa è la geografia entro la quale si sviluppa la nostra erranza, intendiamo in questo senso l’esperienza del viaggio, della peregri- nazione, del nomadismo, della navigazione formativa e professio- nale. Non va dimenticato che nell’esperienza di supervisione forma- tiva fra supervisore e candidato, noi riproduciamo “en miroir” ciò che avviene nel corso dell’esperienza professionale fra operatore e ospite. Nel corso della supervisione formativa il candidato vive nella pratica discorsiva un’esperienza multipla di terziarietà che può toc- care più modalità relazionali, ossia quella di incontro, di scontro, di confronto, di conflitto, di condivisione, ecc. in un continuo gioco di rimandi riflessivi, esperienziali, ipotetici.

Contesto Supervisore

Tempo Attori Candidato Ospite

Istituzione Leader

Candidato Ospite Gregario Critico

Vorremmo ricordare come il primo protocollo di supervisione for- mativa di cui disponiamo riporta la fantasia attraverso la quale molti pazienti guardano il loro curante. Mi riferisco allo scritto del 1908 di

150 in Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans). Un giorno Freud incontrò il piccolo Hans accompagnato dal suo papà, con il quale in quell’occasione scambia un paio di battute in seguito alle quali Freud stesso ci dice “Ma mentre guardavo i due seduti davanti a me e ascoltavo la descrizione dei cavalli che incutevano paura, mi venne improvvisamente in mente un altro pezzo della soluzione, tale, come capii, da sfuggire proprio al padre. Chiesi ad Hans in tono scherzoso se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no; poi se il suo papà portasse gli occhiali, e anche questa volta egli negò, nonostante fosse evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca” non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma. Credeva che perciò il babbo fosse arrabiato con lui, ma non era vero, il babbo gli voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare tutto senza paura. Già tanto tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un piccolo Hans che avrebbe voluto così bene alla sua mamma da aver paura, per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al suo papà (…) Ritornando a casa Hans chiese al padre: - Com’è che il professore sapeva già tutto prima? Forse parla col buon Dio? - Sarei straordinariamente fiero di questo riconoscimento per bocca di un bambino, se non l’avessi provocato io stesso con la mia scherzosa vanteria”. Questa fantasia (il professore parla con Dio) non è comune solo ai pazienti in analisi, in questo novero possiamo considerare pure noi supervisori che da trattanti raccontiamo i nostri trattamenti ai candi- dati. Così come non dobbiamo sottovalutare la tentazione alla quale a loro volta sono esposti i candidati che stanno per raggiungere pro- prio questa anelata posizione di trattanti! Solo scoprendo nell’ombra questa tentazione potremo e soprattutto potranno i nostri candidati evitare di cadere nella trappola di doversi assumere il carico davvero insopportabile quanto non costruttivo, di mettersi al posto di Dio, di sentirsi in dovere di sapere tutto. Che cosa sa e che cosa trasmette dunque il supervisore al candidato e dunque quale esperienza di pratica discorsiva è veramente formativa? Il supervisore è una cerniera fra il sapere e il saper-fare e si nutre di una particolare attitudine che è intessuta della capacità di non in- gombrare il campo del lavoro comune con ciò che già sa, favorendo la rielaborazione del candidato. Per dirla con Bion e con il poeta Joan

151 Keats, il supervisore si nutre della capacità negativa, è il portatore di un talento negativo. Questa disposizione a stare quanto necessario nel- la nebbia, nell’attesa che dalla trama del racconto prendano corpo una forma, un senso, corrisponde pure a quella pietra miliare che ci aiuterà anche nel momento della costruzione della valutazione del candidato. Potremmo dire che lo scopo ultimo della supervisione formativa è quello di permettere al candidato di ri-orientare il proprio pensare e il proprio agire. Nella tensione che ci accompagna in questa direzione siamo per così dire guidati dalla ferma determinazione a rimanere al nostro posto senza prendere quello del candidato, garanti di uno spa- zio di gioco, come avrebbe detto Winnicott, in grado di sostenere il pensare i pensieri più a fondo possibile. Il supervisore non è colui che sa meglio, ma colui che sa diversamente.

La lezione bioniana ci insegna che la capacità di pensare i pensieri sino in fondo e di generare pensieri, nasce dalla duplice e congiunta esperienza di “mancanza” da un lato, e “qualità della presenza” dall’al- tro. Adottare uno o entrambi questi stili comunicativi in supervisione formativa porta sia il candidato che il supervisore medesimo a cimen- tarsi con l’esperienza dolorosa di una mancanza oppure con l’idea gra- tificante di una sostituzione che diminuisce lo stato d’ansia (ambiente facilitante winnicottiano).

Pensiero

pensare i pensieri sino in fondo Mancanza Presenza Tutto ciò dovrebbe portare il candidato ad uscire dall’esperien- za di supervisione formativa non come vi è entrato: la supervisione formativa assume dunque le connotazioni di una pratica di trasfor- mazione. Potremmo paragonare il supervisore ad un ostetrico (dal latino stare davanti), ad una levatrice del pensiero, non in quanto già ne conosce il contenuto, ma in quanto lo mette in forma. Il supervisore dovrebbe quindi farsi collaboratore, garante della conversazione (dal

152 latino frequentare qualcuno, aggirarsi, andare verso, trovarsi insie- me) a partire da quanto è in grado di portare e elaborare il candida- to, raccogliendo e rilanciando i suoi pensieri. Questa riflessione ci permette di offrirvi il pensiero di Marianella Sclavi che nel suo testo Arte di ascoltare e mondi possibili , come si esce dalle cornici di cui siamo parte, ci regala un elenco di sette regole dell’arte di ascoltare, alle quali aggiungeremmo, quale definizione dell’universo entro il quale inserire queste sette regole, la massima di Platone che recita “Il pensiero nasce dallo stupore”. Siamo così chia- mati a confrontarci con quella che a prima vista sembra essere una condizione paradossale “esercitare la propria capacità negativa grazie all’erranza nell’universo ignoto con la disposizione mentale allo stu- pore, e questo anche grazie al sostegno di alcune regole”.

Il pensiero nasce dallo stupore

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. 2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista. 3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva. 4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico. 5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze. 6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione, affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. 7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.

153 E allora, quali supervisori non possiamo non chiederci in quale modo favoriamo e permettiamo lo svolgersi degli incontri con il can- didato in supervisione formativa. Dentro questo contenitore il candi- dato ha la capacità e l’opportunità di mettersi in discussione? Come affrontiamo queste occasioni di crisi? Mettiamo in atto un ascolto passivo o un ascolto attivo? Marianella Sclavi nel suo libro ci offre a piene mani esempi e occasioni di ripensamento. “Quando un bambi- no impara la propria lingua materna, gioca e gli adulti giocano con lui. Questo rapporto giocoso non è qualcosa di superfluo, di aggiuntivo, è un tratto vitale delle dinamiche emozionali/cognitive (…). Se il bambino indica gli occhiali e dice “mela”, la madre di solito gli dirà “sbagli”, “sei uno stupido”, più facilmente si comporterà come se pensasse: “Ma guarda come è intelligente questo bambino che ha associato la forma rotonda della mela alla forma rotonda delle lenti!”e trasformerà questo “errore” in un gioco dentro il quale il bambino impara a chiamare “occhiali” gli occhiali, ma anche che lei ha imparato qualcosa di nuovo, ha “giocato” con ciò che prima dava per scontato”. Gli esempi di questo tipo potrebbero moltiplicarsi, l’invito è a pen- sarsi dentro un incontro di supervisione formativa con il candidato, ma quando il candidato eravate voi stessi! Questa capacità di “ascolto attivo”, come la definisce Marianella Sclavi, nella psicologia del pro- fondo viene definitarêverie (Bion), termine che deriva da sogno, e sta alla base della generazione e dello sviluppo dell’apparato per pensare i pensieri. Una scelta linguistica che illumina questa particolare impre- sa umana in tutta la sua profonda dimensione affettiva. Ma veniamo a noi e al cuore di questo nostro breve scritto, ossia i coefficienti di trasformazione in supervisione formativa. La defini- zione di coefficiente rinvia a ciascuna delle cause o fattori valutabili che concorrono a un determinato effetto o risultato; in matematica e fisica è una grandezza costante o dipendente da variabili … che me- diante moltiplicazione permette di ottenere dalla misura data di una certa grandezza la misura corrispondente di un’altra grandezza; nello sport, elemento collegato alla particolare difficoltà della prova esegui- ta che concorre alla determinazione e assegnazione di un punteggio. Tornando alla supervisione formativa potremmo affermare che i coefficienti di trasformazione sono l’espressione dell’idoneità del candidato, ma di quale idoneità stiamo parlando? Non ci riferiamo alla sua capacità complessiva di divenire un buon operatore sociale,

154 neppure ci riferiamo alla totalità della sua persona, ci riferiamo molto limitatamente alle sue capacità di misurarsi e avvicinare gli obiettivi della supervisione formativa. Per quale ragione scegliamo di definire queste capacità attraverso dei coefficienti di trasformazione? I coefficienti sono elementi che intervengono nella relazione tra supervisore e candidato e hanno fun- zione di risposta agli obiettivi di una supervisione formativa dinamica e trasformativa. I coefficienti di trasformazione sono sempre vissuti nell’ordi- ne dell’ambivalenza. Ci spieghiamo: osservando il funzionamento dell’apparato mentale e quello dell’apparato digerente possiamo scor- gere delle forti analogie fra i due. Ad esempio un sintomo somatico quale la stipsi si accompagna generalmente a una simile propensione anche sul piano del funzionamento mentale, accompagnando dun- que la nevrosi ossessiva. Sostituiamo al cibo per il corpo (alimenti) il cibo per la mente (pensieri) e la similitudine parla da sé: alla soffe- renza da stipsi corrisponde la sofferenza da pensieri ripetuti ossessiva- mente (“avere un chiodo fisso in testa”). Tornando ai nostri coefficienti di trasformazione e al loro funzio- namento ambivalente la similitudine è data una volta ancora dal con- fronto fra funzionamento mentale (coefficienti di trasformazione) e funzionamento metabolico secondo due modalità, quella catabolica e quella anabolica. Grazie al catabolismo, l’organismo disintegra le sostanze alimentari scindendo le molecole complesse in molecole semplici con conseguente acquisizione di energia e eliminazione dei prodotti di rifiuto. Il processo anabolico per contro è caratterizzato dalla sintesi di sostanze complesse che vengono in parte a costituire la sostanza vivente dell’organismo che le elabora.

Coefficienti di trasformazione

Metabolismo ambivalente

Processo anabolico Processo catabolico Sintesi Analisi La supervisione formativa funziona dunque secondo lo schema

155 A x B = C (dove il x sta per coefficiente di trasformazione), ponen- do fra loro in relazione due sostanze (mentali) ne produciamo una terza che non è la somma o la sottrazione delle due, bensì un’ope- razione tra di esse. Parlare dunque di coefficienti di trasformazione ci permette di definire la supervisione formativa come un processo dinamico, intersoggettivo, di trasformazione. I coefficienti di trasformazione possono essere classificati dentro Aree, e precisamente

Area cognitiva

Area affettiva Area della prassi

Queste aree ci danno conto dei tre poli entro i quali si esplica tutto il lavoro di cura e aiuto, che corrispondono a

Gesto - Importante distinguere Azione/Atto o Agito -

Parola Affetto, emozione

Il cuore di ogni esperienza di supervisione formativa è il lin- guaggio, con questo intendiamo una pratica linguistica che non necessariamente è di tipo verbale. Il discorso che si sviluppa in supervisione formativa è sempre dislocato rispetto all’evento, ciò fa si che l’oggetto del quale ci oc- cupiamo in supervisione formativa non è l’azione, l’evento stesso, bensì la capacità del candidato di rappresentarsi e rappresentarci quell’evento, quell’esperienza. La supervisione formativa è come un palcoscenico sul quale il candidato, accompagnato dal supervisore, mette in scena un even- to attraverso una narrazione che apre a mondi possibili.

156 Narrazione

Evento

Menzogna Lutto della Verità presunta o impostura e della realtà

La menzogna è parte imprescindibile, anzi, diremmo vitale della pratica linguistica in supervisione formativa, ove il candidato porta l’inevitabile distorsione linguistica di ciò che già per natura è di- storto. Dentro l’unico spazio possibile, quello dell’hic et nunc del- la supervisione formativa, il candidato ci offre una traduzione in linguaggio della sua esperienza della Verità presunta e della Realtà. Affinché supervisore e candidato possano svolgere un progressi- vo lavoro di elaborazione del lutto sia della Realtà che della Verità presunta e a questo punto pure della loro Identità professionale occorre sviluppare la capacità di mettersi in “crisis”, ossia in ma- lattia nelle tre aree precedentemente indicate, cognitiva, affettiva, prasseologica. Sapersi dotare della capacità di stare in supervisione formativa, di stare nella formazione, di stare nella professione, in sintesi potremmo dire di stare nella vita, in condizione di fragilità e di debolezza è dunque necessario affinché si dia una relazione di cura e/o di aiuto. L’ordine della crisi ci rinvia necessariamente all’ordine dell’inatteso e questi sono fattori di perturbamento e spaesamento identitario. Vediamo dunque di passare in rassegna alcuni dei criteri che potrebbero esserci d’aiuto nella definizione dei coefficienti di tra- sformazione in supervisione formativa. 1. La qualità della porosità Del candidato in supervisione andiamo via via conoscendo le modalità di funzionamento mentale secondo la triade cognitivo/ affettivo/pratico. Possiamo dunque avere un’attenzione particolare alla qualità della porosità che percepiamo grazie alla parola che egli porta in scena. La teoresi di Franco Fornari ci aiuta nell’individua- zione e comprensione del pattern d’azione dell’operatore sociale, che può appunto essere letto secondo quattro stili, ossia: • lo stile fallocentico: teso alla lotta, il male è da sconfiggere, che

157 conta è l’asse vincere/perdere • lo stile onfalocentrico, che si esplica attraverso l’attitudine al contenere, confondere, sostenere, e rinvia al codice materno • lo stile obiettivo, che si sviluppa sull’asse che congiunge inte- grazione/assimilazione/trasformazione • lo stile generativo che riassume in sé i primi tre stili modulan- doli di volta in volta a seconda della condizione sia interiore che esteriore del candidato Potremmo dire che questi stili corrispondono alle quattro feno- menologie che declinano il triangolo gesto/parola/affetto.

2. La qualità della flessibilità Valutata sempre secondo le tre aree cognitiva/affettiva/della prassi. Questa qualità ci illustra compiutamente come il candidato si confronta con il contesto. Ossia come egli sa rispettare e riconosce- re le condizioni entro le quali avviene la sua esperienza: • il quadro o setting di supervisione formativa, • le differenze fra l’intervento del supervisore, quello del responsabile pratico e quello del docente. 1. Il docente dà la formazione teorica, l’esperienza che il can- didato vive si sviluppa nel territorio della teoria, della prassi e della pratica teorica. 2. Il responsabile pratico lavora nel qui e ora dell’incontro fra l’ospite e lo studente, ha responsabilità diretta di ciò che accade e detiene gli strumenti della professione sociale. 3. Il supervisore ha il compito di lavorare sulla pratica lingui stica, ossia sulla pratica della rappresentazione. Questa pratica si limita forzatamente sempre in una condizione di insoddisfa- zione. Tende verso la trasformazione ma esclusivamente dentro la pratica di rappresentazione che trova le sue proprie radici nelle dimensioni cognitiva-affettiva-pratica.

3. La qualità della plasticità Il triangolo, supervisore-candidato-utente ci parla della qualità del nostro candidato, riferita al suo sapersi mutare, diremmo come un foglio di gomma in geometria topologica, o come un blocco di marmo nelle mani sensibili di uno scultore che procede “per le-

158 vare” sino a dare forma, oppure ancora ad un grumo di argilla che sinuosamente prende vita. Un mutamento armonioso ma tangibi- le in funzione dell’incontro con l’alterità. Qualità valutata sempre secondo le tre aree cognitiva/affettiva/della prassi.

4. Lo spessore del funzionamento mentale Ossia la capacità di fantasticare, di perdere il filo del pensiero e del discorso senza essere colto dall’ansia, di creare delle associa- zioni, di costruire delle rappresentazioni, di costruire dei legami fra passato-presente-futuro, di collegare impressioni, emozioni, sentimenti, traducendoli in parole condivisibili e generatirici di mondi possibili, di muoversi mentalmente fra le due dimensioni periscopio/volo d’uccello. Un esempio di rappresentazione della prassi: se muovo “questo” così allora immagino che succeda “questo” e/o che non succeda quello”. In questo contesto ci troviamo sui nostri tre livelli: quello della prassi con la molteplice capacità di rappresentazione della stessa, quello degli affetti grazie alla capacità di dare parola, di rap- presentare i sentimenti provati, quello cognitivo con la rappresen- tazione delle possibili consonanze teoriche.

5. La vitalità Entro la quale tocchiamo con mano l’apatia, la devitalizzazione, sempre nelle tre aree cognitiva/affettiva/della prassi. La dimensio- ne temporale illumina la qualità di questa dimensione del candi- dato che deve sapersi confrontare con il tempo riconoscendone il carattere processuale all’interno della supervisione formativa, la quale si sviluppa per fasi: 1. Presa di contatto 2. Elaborazione 3. Fase di separazione Questo processo tripartito si vede pure dentro il singolo incon- tro di supervisione formativa. La capacità del candidato di “darsi il tempo” ci parla della sua dimensione affettiva. L’esercizio al quale il candidato si sottopone gli permette di fare esperienza del ritmo che il tempo contiene, ritmo che permette la trasformazione del “movimento della forma” in una “forma”. Questo passaggio da movimento della forma a

159 forma rappresenta la capacità di sintesi del candidato. A sua volta il tempo diviene generativo.

6. I limiti In che modo il candidato si sa affacciare alla propria interiori- tà confrontandosi autenticamente con le fragilità alle quali le tre aree esperienziali lo “costringono”. Nel caso in cui il candidato non aderisce autenticamente alla propria posizione, facilmente si produrranno delle interferenze di natura difensiva che si manife- steranno sotto forma sintomatologica secondo alcune forme pro- tettive che possono oscillare dall’indifferenza all’iper-attività, alla passività ecc. Questo aspetto ci rinvia alla quarta triangolazione (gregario, leader, critico).

7. La capacità di spostamento di piano Secondo il modello dei cerchi concentrici che partendo dal centro (Sé) e andando verso la periferia implica la capacità di at- traversare in entrambe le direzioni, con le adeguate traduzioni, i confini che separano ma allo stesso tempo congiungono le varie fasce dell’esistere. Questi confini non sono mai fortemente im- permeabili, offrono sia l’occasione di possibili contaminazioni che l’opportunità di generare nuove forme di sapere e di relazione. Il candidato deve naturalmente essere in grado di mantenere salda la bussola e il profondimetro esistenziali che lo aiutano, sia a non ol- trepassare i livelli di propria competenza che, a non avventurarsi in voragini vertiginose entro le quali correrebbe il rischio di essere in- ghiottito (penso ai turbamenti ed alle opacità della vita inconscia). Il modello dei cerchi concentrici contiene, andando dal nucleo all’esterno: il Sé, l’Individuo o Io, la coppia, il gruppo, l’Istituzio- ne, il territorio, la società, l’universo, la trascendenza.

In conclusione questi sette criteri dovrebbero aiutaci a capire: 1. in che modo il candidato entra in malattia, in crisis, 2. in che modo viene attraversato dalla crisi di identità profes- sionale, 3. in che modo si espone all’inatteso. L’alleanza di lavoro che dovrebbe sostenere la pratica di supervi- sione formativa permette al supervisore di misurare:

160 1. la capacità del candidato di oscillare con regolarità dal lin- guaggio naturale al metalinguaggio, evidenziando nel caso alcuni possibili rischi, quali: a) l’ingenuità eccessiva (forma difensiva), b) l’intellettualismo, c) l’ingenuità da salotto; 2. la capacità del candidato di riconoscere il carattere indeter- minato della sovradeterminazione data dallo sguardo in sé teorico; 3. la capacità di mettersi in rapporto con il supervisore; 4. la capacità di iniziativa mentale del candidato a confronto con i propri limiti (rabbia, indifferenza, ecc.); 5. la capacità di sintesi al termine di ogni incontro di super- visione formativa; 6. la capacità di tradurre il proprio vissuto esperienziale in pensiero e il pensiero in vissuto; 7. la capacità di riconoscere le proprie risorse come condizione per riconoscere quelle dell’ospite.

3.7.8 La costruzione condivisa della valutazione del percorso di supervisione; i coefficienti di valutazione Ornella Manzocchi

Premessa In questo breve scritto ci occupiamo della costruzione di un giu- dizio critico riguardante il cammino di supervisione svolto dallo studente nel corso degli incontri di supervisione formativa. Una costruzione che ancora una volta si vuole condivisa e non potreb- be che essere così poiché ogni nostro sapere si sviluppa nell’alveo dell’esperienza che fonda la nostra datità: la relazione. A nostro avviso la costruzione condivisa di un giudizio critico riguardante il cammino svolto in supervisione formativa dovrebbe esser parte integrante e fondamentale del percorso medesimo. E ci spieghia- mo: da incontro ad incontro, supervisore e candidato dovrebbero maturare una consapevolezza comune del valore dell’esperienza che stanno congiuntamente vivendo, avere entrambi una comune visione del percorso che stanno affrontando, sentirsi entrambi par-

161 te attiva di questo peregrinare fra i territori del pensabile. Un pen- sabile che come abbiamo già avuto modo di sottolineare più volte si fa pratica-discorsiva condivisa. Questo assetto deve permettere, sia al supervisore che al candidato, di maturare un senso critico nei confronti di svariate capacità che il candidato dovrebbe sviluppare nel corso della pratica formativa. Le capacità di cui parliamo e che il candidato dovrebbe enucleare ed affinare nel corso della su- pervisione formativa, potrebbero essere così riassunte: la capacità di pensare, di fare, di riflettere, di raccontare, di condividere, di trasformare, di giudicare. Riassumendo: oggetto della valutazione critica, sottolineiamo nuovamente maturata sia dal supervisore che dal candidato, dovrebbe dunque essere la capacità del candidato medesimo di esser-ci in modo autentico. Questo giudizio fa parte integrante della crescita del percorso di supervisione formativa: se il candidato non matura un senso critico e autenticamente veritie- ro nei confronti delle sue proprie capacità di esser-ci in un contesto professionale, a nostro modo di vedere la supervisione manca uno dei suoi principali obiettivi. Questa capacità di prendere posizione in modo autentico e veritiero nei confronti del proprio esser-ci va naturalmente inserita nel contesto della condivisione con il super- visore. Torniamo a ricordare quanto sia fondamentale per il candi- dato maturare la capacità di sostenere un confronto leale e aperto fra le parti in gioco, in questo caso lui ed il supervisore. Va ricordato quanto la pratica di supervisione sia soprattutto una pratica-discorsiva piegata sul “caso”, una pratica dislocata ri- spetto all’evento stesso, una pratica che ci porta a prestare atten- zione alla capacità del candidato di rappresentarsi e rappresentarci quell’evento. In questa esperienza la dimensione dinamica che si offre al candidato genera la possibilità sia di riprodurre come “en miroir” ciò che avviene fra lui e l’ospite sia di vivere un’esperienza multipla di terziarietà che si sviluppa secondo modalità che vanno dall’incontro allo scontro passando per il confronto, il conflitto e la condivisione. Segnaliamo pure l’importanza svolta dalla motivazione alla scel- ta della professione sociale che anche in supervisione svolge un ruolo importante, favorendo o sfavorendo nel candidato una di- sposizione giocosa e serena alla pratica di trasformazione. Va altresì ricordato il delicato ruolo del supervisore che deve

162 porsi come garante di uno spazio di condivisione all’interno del quale una delle sue principali funzioni è quella di “mettere in for- ma” il pensiero del candidato, di offrirsi come colui che sa diversa- mente e non come colui che sa meglio e di più. Infine non vanno scordati i coefficienti di trasformazione del pensiero e dell’azione. I coefficienti di trasformazione che ci pos- sono aiutare nel compito valutativo del percorso di supervisione formativa svolto dal candidato sono riferibili al suo funzionamen- to mentale e sono i seguenti: la porosità, la flessibilità, la plasticità, lo spessore, la vitalità, i limiti, la mobilità. Questi coefficienti di trasformazione permettono di evidenziare in che modo il candida- to entra in crisis, in che modo ne viene attraversato, in che modo si espone all’inatteso e in che modo apprende da queste esperienze di spaesamento. Potremmo dire che questi “luoghi mentali” ci sottopongono allo sforzo di puntare per così dire l’attenzione al micro, al particolare, alla cosa incontrata lungo il cammino, e precisamente la qualità del- la “mobilità” mentale dello studente, la qualità della porosità del suo funzionamento mentale e via dicendo. Il rischio è quello di trascura- re di prestare attenzione al cammino in sé, al percorso stesso della su- pervisione formativa in virtù dell’attenzione dedicata ai coefficienti di trasformazione che, ricordiamo, non possono mai essere disgiunti da un’attenzione costante alle modalità d’uso degli stessi. In questo scritto, abbiamo approfittato del fatto di avere già per così dire “visitato” molti dei luoghi importanti del mondo della supervisione. Liberi dall’urgenza di ricevere una risposta puntuale ed appagante, liberi dall’impellenza del desiderio di visitare ogni singolo luogo legato alla supervisione formativa, vi chiediamo di peregrinare con noi lungo le vie del pensabile, un pensabile che riguarda evidentemente la costruzione della valutazione in super- visione, prestando attenzione al percorso più che ai luoghi, al pe- regrinare più che alla meta. Il nostro “percorso del pensabile con- diviso” si attarda entro alcune importanti aree di riflessione che abbiamo scelto di affrontare secondo quest’ordine: 1. l’area che riguarda la capacità di pensiero sino alla determinazione della fe- deltà al fenomeno pensabile, 2. l’area che riguarda la fedeltà sino alla ricerca della verità, 3. l’area che riguarda la ricerca della verità sino alla costruzione del giudizio sull’esperienza. Ci siamo sforzati

163 di ordinare queste riflessioni per quanto le nostre capacità ce lo hanno permesso, evidenziando sia il punto di vista del superviso- re che quello del candidato. Troverete dunque sovente una breve presentazione del pensiero pensabile, seguita dalla puntualizzazio- ne di ciò che esso comporta per il supervisore e per il candidato medesimi.

1. Dalla cura del pensiero alla capacità di mantenersi fedeli al fenomeno pensabile Forzatamente la pratica discorsiva svolta nel corso della super- visione si disvela attorno all’uso del linguaggio, e noi sappiamo che pensiero e parola si anticipano, si aiutano o si intralciano vi- cendevolmente. Come ben segnala Luigina Mortari nel suo testo Aver cura della mente, “imparare ad aver cura della vita della mente significa allora anche imparare ad aver cura delle parole”. Cosa significa questo per un supervisore? Diremmo che princi- palmente significa sostare in una posizione diascolto nei confronti del candidato che tenta di esprimere e condividere con lui un fe- nomeno, quello del suo incontro con l’ospite. Le parole del su- pervisore dovranno quindi veicolare la sua disposizione all’ascolto. Le parole che il candidato usa dovranno essere scelte con cura tanto da offrire la possibilità di essere abitate dal senso forte della sua esperienza professionale. Ma affinché si dia la possibilità di ascolto e quella di espressione del senso forte di un’esperienza, occorre desiderare. Il supervisore deve essere sostenuto fortemente dal desiderio di trovare un senso nella sua attività di ascoltatore di un’esperienza tradotta in parole più o meno balbettanti. Il desiderio è uno slan- cio verso ciò che sta oltre la mera quotidianità, la facile ovvietà. E allora potremmo dire che il compito del supervisore è duplice. Da un lato il supervisore deve cercare per sé stesso quelle parole che aiutano la nascita, che custodiscono, che proteggono e che metto- no in forma il suo proprio desiderio di essere soprattutto un buon ascoltatore; d’altro lato deve essere in grado di sostenere il candi- dato nella cura del proprio personale desiderio di operatore sociale. Il candidato a sua volta, sostenuto dalla capacità di ascolto del proprio supervisore, dovrebbe pian piano, anche grazie all’uso del- le parole condivise in supervisione, svelare sia al supervisore che a

164 sé stesso la forma del proprio desiderio, proteggerla e renderla via via sempre più solida e matura. Il desiderio del candidato dovrebbe essere quello di prendersi cura sia di sé stesso che degli ospiti di cui si occupa. Il discorso che si dipana fra ascolto, ricerca di senso, nascita e messa in forma di desiderio, genera nuovi orizzonti di senso, amplia le aree di pensabilità. Abitare con senso la propria vita, riconoscersi nel tremulo e ancora fragile germoglio di un personale desiderio, passa indiscutibilmente attraverso un rapporto pensoso con le parole. Coltivare un rapporto pensoso con le parole implica la capacità di saper attendere, di saper scegliere, di saper rinuncia- re. Come uno scultore che opera per levare e non per aggiungere, così l’operatore sociale dovrebbe operare per spoliazione del di- scorso. Poche, semplici, puntuali parole che tendono ad avvicinarsi sempre più al cuore del cuore di ciò di cui si intende parlare. Un rapporto pensoso con le parole ci permette di prendere distanza dalla quotidianità e dalla sua ovvietà, per stagliarci pian piano nella nostra singolarità con coraggiosa umiltà e determinazione.

Il supervisore sostenuto dal rapporto pensoso con le parole, sia le proprie che quelle ricevute dal candidato, si dispone ad ascoltare e a restituire. La restituzione di quanto accolto dovrebbe avvenire senza fretta; il supervisore si deve dare il tempo della trasformazio- ne di quanto ricevuto. Una trasformazione che mira a rendere la parola ricevuta in una forma un poco meno tremula ed impreci- sa dell’originale, per quanto possibile più chiara e comprensibile. Quella del supervisore non sarà una parola cristallina, ma opale- scente, una sorta di rimessa in forma che aiuta il candidato ad anda- re oltre. Una parola sempre un poco mancante che incoraggia chi la riceve, il candidato appunto, a renderla ancor più perfettamente sferica, ancora più aderente e coesa al fenomeno che vorrebbe rap- presentare. Una parola opalescente, quella del supervisore, che ac- compagna il candidato in una tensione costante, infatti la parola in sé per quanto sferica e perfetta possa essere ci imporrà sempre un piccolo resto di indecifrabilità, si rivelerà pur sempre irriducibile al senso dell’esperienza. È fra le pieghe di questo scarto che il deside- rio si insinua, cresce e ci sostiene nel costante impulso ad ampliare le aree di pensabilità, a dare un nome, a mettere ordine mediante

165 la parola, là dove prima regnava il caos di un’esperienza fortemente in balia delle emozioni. Ma affinché vi sia spazio, scarto, in modo tale che si formino delle pieghe entro le quali possa prendere forma e consistenza il desiderio del candidato, le parole del supervisore dovrebbero essere per così dire “trattenute” nella loro eccedenza. Avere cura della propria mente per il supervisore significa dun- que sapere trattenere le parole, pronunciarle solo quando sono una necessaria e rispettosa rimessa in forma di quelle ricevute dal can- didato. Chiacchiere, silenzi indifferenti, parole seduttive, parole precostituite, sono alcuni degli ostacoli alla crescita di una sana pensosità del pensiero. Il supervisore deve dunque essere in grado di non cercare affannosamente una parola che imbrigli un pensie- ro ancora tremulo. Il piacere del supervisore dovrebbe esprimersi appieno nel suo sostare in attesa, un’attesa che permetta alla parola adeguata di affacciarsi sulla scena della supervisione, con lui spet- tatore serenamente ma autenticamente in ascolto. Riassumendo, il supervisore è colui che sa stare nel contempo con la mente aperta sia a ricevere le parole del candidato sia a scegliere le parole adegua- te alla restituzione sbarazzandosi di tutte quelle che ingombrano e incalzano disordinatamente la scena mentale. Il candidato in grado di vivere un rapporto pensoso con le pa- role si troverà vieppiù confrontato con l’inadeguatezza delle stesse rispetto al senso dell’esperienza che sente di avere vissuto e che desidera veicolare. Il suo discorso, nel gioco di pacato, accogliente e rispettoso scambio con il supervisore dovrebbe esporsi in tutta la sua indicibilità, inducendolo ad avere sempre più cura delle pa- role stesse cui affida il proprio dire. Come scrive Luigina Mortari “La pratica dell’imparare a pensare è, quindi, tutt’uno col prestare attenzione al pronunciare parole tali che si costituiscano come matrici generative di senso”. Da incontro a incontro il candidato dovrebbe maturare la consapevolezza di essere alle prese con un compito che non si realizzerà mai compiutamente: quello della nominazione del senso dell’esperienza. Questa consapevolezza dovrebbe natural- mente essere la garante e non l’affossatrice del desiderio del candi- dato. Ma sappiamo quanto sia fragile l’essere umano confrontato con i limiti, con le difficoltà, con le fragilità, con le manchevolezze, con l’inadeguatezza, con la finitudine, proprio per questo il ruolo del supervisore quale garante della tenuta in vita del desiderio è di

166 vitale importanza. La capacità di attesa che abbiamo visto essere assai preziosa, anzi di capitale importanza per il supervisore, do- vrebbe dunque divenire vieppiù strumento prezioso del bagaglio professionale del candidato. Più ci addentriamo nella nostra riflessione più ci rendiamo con- to di come le parole, anche quelle espresse in supervisione, non sia- no riducibili in modo perfettamente aderente al senso della nostra esperienza. Questo ci espone ad uno stato di sofferenza mentale: ci troviamo quotidianamente in bilico, quotidianamente a rischio di smarrimento, quotidianamente in attesa. Come sostenerci ed aiutarci in un contesto nel quale prende forma vieppiù la consape- volezza della fragilità del discorso? Sia per il supervisore che per il candidato la sofferenza della fra- gilità del discorso può essere non solo tollerabile, ma pure foriera del desiderio di andare oltre il già noto, pur nella consapevolezza di non trovare nulla di definitivo, se e solo se essa è contenuta entro un quadro di riferimento forte e stabile. Ci riferiamo all’impor- tanza della costruzione di un sapere condiviso che prende forma entro una cornice garante di questa alleanza di lavoro costruttiva fra supervisore e candidato. Va sicuramente ricordato che tutto il lavorìo linguistico del su- pervisore, teso alla ricerca delle parole per ascoltare e per restituire il senso accolto e tutto il lavorìo linguistico del candidato, teso alla ricerca delle parole per dire e per narrare il proprio vissuto, dovreb- be sostenere e sospingere entrambi i soggetti in gioco verso una costruzione della propria identità, sia personale che professionale, sempre più complessa ed equilibrata nella sua sfaccettazione. Ma se la parola è così fragile, manchevole, legata allo spazio e al tempo, quale bussola può sostenere il supervisore lungo la via dell’ascolto? E quale bussola può aiutare il candidato nell’esercizio di messa in forma della propria esperienza? Martin Heidegger in Essere e Tempo ci suggerisce di “lasciar ve- dere da sé stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé stesso” nel senso di prendere la decisione per un attivo consenso all’auto- manifestarsi delle cose. Il principio che sostiene questa afferma- zione, propria del metodo fenomenologico, presuppone un’intima connessione tra ciò che è e ciò che appare. Destinati a vivere in un mondo che appare, non ci è data altra scelta che assumere questo

167 apparire come lo stesso essere. L’apparire delle cose non è acciden- tale, bensì manifestazione dell’essere. Ma il mondo non ci appare pienamente, non è tutto in luce, la vita è misteriosa, lo abbiamo sottolineato poc’anzi evidenziando l’impossibilità di trovare le pa- role che contengano interamente le esperienze, o altrimenti detto di vivere delle esperienze interamente dicibili. In ciò che vediamo e dunque in ciò che accogliamo e in ciò che ascoltiamo c’è sempre un lato nascosto. La nostra bussola funziona dunque secondo due regole che seguono due principi, quello di evidenza e quello di trascendenza. La prima regola assume che vi è una stretta connes- sione fra essere e apparire, e la seconda assume che non tutto ciò che è appare. Questa bussola ci aiuta dunque anche nello scorgere ciò che non appare, il suo profilo è infatti accennato, evocato, anticipato o suggerito dal profilo di ciò che invece appare. Il supervisore dovrebbe quindi nutrire una posizione fiducio- sa riguardo alla propria capacità di ascolto, di accoglimento e di comprensione riguardo a tutto ciò che appare del candidato in supervisione. Le parole di quest’ultimo, i suoi gesti, i suoi sguardi, i suoi silenzi, le sue assenze, parlano di lui, in essi si manifesta il suo modo di essere, meglio detto il suo essere. Ma il supervisore deve pure rimanere vigile e attento sapendo bene che il candidato in supervisione non si manifesta pienamente in tutto il suo esse- re, non tutto della sua, e pure della nostra vita emerge alla scena dell’incontro, della relazione. Il supervisore dispone dunque di una bussola che lo guida at- traverso i meandri degli incontri che si delineano nel quadro di supervisione. Ma in quale modo deve usare questa bussola che in- dica due soli punti cardinali, quello dell’apparire e quello del non apparire? Prima importante regola da seguire per l’uso della busso- la è quella di utilizzarla, di leggerla, di interpretare i dati che ci se- gnala in modo sufficientemente sensibile nei confronti dell’alterità che non si mostra. Il supervisore-esploratore, guidato dalla propria bussola, conserva, nel proprio cuore memoria dell’esistenza di ciò che pur tuttavia non si svela. Questa sensibilità verso le cose che non si svelano completamente, che mantengono comunque e sem- pre un alone di mistero è la modalità d’uso della bussola. Umiltà, rispetto e sensibilità nei confronti del mistero sono le regole del buon

168 uso della bussola. Potremmo dunque concludere questo primo passo riflessivo, affermando che come supervisori dovremmo essere in grado di prestare un’attenzione sufficientemente umile, rispettosa, sensibi- le, fluttuante e prolungata,sospesi nell’attesa di una parola che offra forma e senso all’esperienza che stiamo vivendo con il candidato. Mentre il nostro pensare diviene vieppiù simile ad un ascoltare che attende il divenire delle cose, sospeso nel mistero di un senso com- piuto che solo in parte si rivelerà, esso si discosta sempre più dal guardare che richiama invece un movimento attivo verso ciò che si cerca, carico di desiderio e volontà di imporre a priori una forma, un senso. Il supervisore non dovrebbe caricare l’incontro di uno sguardo e di un udito indagatori poiché questa attitudine ad “an- dare verso” non mette il candidato nella condizione di accoglienza di cui necessita per svelarsi, seppure parzialmente. Lo sguardo in- dagatore, l’udito perquisitore e la parola inquirente lo respingono lontano. Il buon supervisore è colui che sa sostare per ascoltare. Dunque il domandare e il cercare con lo sguardo, che spesso usia- mo come antidoto al silenzio, o come ordinatore del caos, do- vrebbero essere attraversati dalla disposizione profonda all’ascolto, all’accoglimento. Affinché ciò sia possibile la nostra mente di su- pervisori dovrebbe farsi sgombra, divenire un contenitore ben de- finito pronto ad accogliere e mettere in forma possibili contenuti. Il pensiero socratico ci viene in soccorso offrendoci l’opportunità di ridefinire la funzione del supervisore come l’esercizio non di colui che sa, ma di colui che pone questioni di spessore che inco- raggiano il candidato a pensare a fondo i pensieri, esponendosi a continue aperture verso nuovi mondi, prendendo le distanze dalle proprie convinzioni.

2. Dall’imperativo alla fedeltà alla tensione verso la verità dell’esperienza Ragionando attorno al tema dell’imperativo alla fedeltà abbiamo appreso che questa fedeltà avviene entro un campo saldamente delimitato, il quadro o setting in supervisione formativa. Questo quadro si rende garante nei confronti dello spaesamento che pro- duce l’esperienza di essere di fronte all’apparenza dell’essere che in parte si cela e celandosi lascia intuire ai più sensibili, rispettosi e

169 umili fra noi, il valore dell’altro. Ora si tratta di ragionare attorno al valore di verità che il nostro pensare l’alterità può o meno assumere, se siamo fedeli e abbiamo cura della nostra capacità di pensare i pensieri sino in fondo non possiamo che muoverci in direzione del raggiungimento della ve- rità. Sottolineiamo il valore del muoverci in direzione della verità e non tanto del raggiungerla. Di questo abbiamo già avuto modo di riflettere, si tratta di vivere questa tensione verso e non di essere affannati e affranti dalla brama di conquistare la verità. Seguendo l’insegnamento socratico potremmo affermare che il dire la verità equivale al vivere in una condizione di verità, ossia stare in una relazione veritiera con la vita. Per Socrate si dice il vero quando non c’è discrepanza fra ciò che si dice e ciò che si fa, egli parla di “perfetta sintonia e corrispondenza che esiste fra chi parla e ciò che viene detto”. Stare dentro un orizzonte di verità significa dunque dire ciò che pensiamo sforzandoci di essere noi stessi sino in fondo. Il supervisore è dunque chiamato a dire la verità in modo assai sintonico con sé stesso, animato e guidato dalla passione per la cura della mente, dei pensieri, delle parole, della pensabilità. Il supervisore diviene un testimone di un modo autentico e rispet- toso di stare nel mondo, nella tensione verso la ricerca della verità dell’accadere umano. Ma come può il supervisore essere autentico stando dentro un orizzonte di verità sostenuto dal desiderio di cu- rare la pensabilità del pensiero, evitando al contempo le strettoie del giudizio mortificante? Crediamo che ciò sia possibile nella mi- sura in cui il pensare sia un pensare costruttivo che si declina for- temente nel verbo materno dell’accoglienza, della comprensione, della benevolenza. Un pensare e un dire la verità che aprono spazi e tempi su nuovi mondi pensabili, un vivere nella verità che sostiene costantemente in vita la speranza di una possibilità futura prestan- do nel contempo attenzione a ciò che è stato e a ciò che è. Ecco, la verità della quale dovrebbe essere intessuto il buon supervisore ha le caratteristiche di una messa in vita del senso di possibilità attraverso le maglie della speranza. Il buon supervisore dovrebbe dunque aver cura di vivere lui stesso e poi seminare lungo il per- corso di supervisione la capacità di prendersi cura del futuro senza per questo scordare il passato e distrarsi dal presente, anzi trovando

170 una possibile misura per abitare in modo sufficientemente buono e veritiero il presente.

Da parte sua il candidato si troverà nella condizione, incontro dopo incontro, di pensare e narrare nuove pensabilità, nuovi mondi, nuovi orizzonti. Come se ad ogni incontro fosse possibi- le esercitarsi a cambiare punto d’osservazione dal quale accoglie- re e ascoltare l’accadere delle proprie esperienze professionali. La vicinanza al suo vissuto da parte del supervisore, l’autenticità di quest’ultimo nel vivere e comunicare ciò che coglie con sensibilità e rispetto, saranno il nutrimento al senso di speranza e possibilità dello studente, incoraggiandolo a sua volta ad addentrarsi lungo la via della fragilità e della finitudine umana. Riprendendo le paro- le di Luigina Mortari, in questo caso potremmo affermare che la supervisione corrisponde ad una “comunità di pratiche di pensiero” entro la quale si possono “costruire mondi con le parole”.

3. Dalla tensione verso la verità al giudizio sull’esperienza Il supervisore al termine degli incontri con il candidato deve es- sere in grado di redigere una valutazione del percorso svolto, deve dunque giudicare l’esperienza avvenuta mettendo al centro della sua attenzione l’evoluzione del candidato. In questo momento de- cisionale è solo con sé stesso, così come in ogni atto di creazione tutti noi lo siamo, sebbene in quanto esseri relazionali potremmo dire che siamo in una solitudine accompagnata. Sebbene intessuti di relazione e nati nel linguaggio, vi sono momenti della vita in cui non possiamo esimerci dall’assumere in solitudine, nel silenzio dei nostri pensieri e del nostro cuore, le nostre decisioni. Anche in questo caso la tensione verso la verità delle cose dovrebbe soste- nerci nell’impegno a pensare da noi stessi cercando quelle vie di comprensione che meglio ci permettono di essere fedeli all’even- to da valutare. Evento che in questo caso si compone di parecchi incontri di supervisione, ragione per la quale come già segnalato, oggetto privilegiato di valutazione, ma non per questo il solo, sarà la disposizione che il candidato ha mostrato alla trasformazione, all’apertura. Esercitare a fondo la propria facoltà di giudizio significa anche e soprattutto confrontarsi con la parzialità e la finitudine della no-

171 stra esperienza, pensiamo ai due punti cardinali che hanno guidato la nostra navigazione in supervisione fra apparire e non apparire nel mare dell’essere. Evidentemente nel momento in cui il super- visore si assume la responsabilità di un giudizio si espone all’altro, al candidato, alla scuola, a sé stesso. Risulta allora chiaro come la capacità di giudicare sia in stretta correlazione con la capacità di vivere la propria libertà di pensare, indipendentemente da ciò che gli altri pensano. Se poc’anzi abbiamo sottolineato come un importante nutrimento per il candidato in supervisione sia la speranza, ora è giunto il mo- mento di dire di cosa si nutre in particolare il supervisore, soprat- tutto nei momenti in cui è preso dallo scoramento della solitudine nella quale l’esercizio del giudizio lo “getta”. La passione di capire nutre il buon supervisore. Ma si tratta di una passione di capire che riporta alla capacità di condividere, di confrontarsi, di allontanarsi da sé, di navigare in acque sconosciute rimanendo fedele al proprio intento. Per questo la costruzione di un giudizio non dovrebbe av- venire nascostamente e subitaneamente, ma svilupparsi lentamen- te, incontro dopo incontro, nella disposizione all’attesa e all’ascolto. Il giudizio così costruito sebbene prenda forma in solitudine, sarà intessuto del pensare intrecciato fra candidato e supervisore. Anche il supervisore, tanto quanto il candidato, è alle prese con la disposizione a pensare partendo da più punti di vista, ad allargare il proprio orizzonte di pensabilità, a esercitare un pensiero critico ponendosi anche dal punto di vista dell’altro, che non significa guardare come l’altro, comunque impossibile. Giudicare necessita forzatamente porsi delle questioni importanti e fondanti dal punto di vista etico, delle questioni generali che travalicano la contingenza del giudizio da emettere. Il supervisore in questo particolare frangente si trova suo malgrado interrogato da questioni che vanno nell’ordine generale del “che cosa è giusto, che cosa è bene, che cosa è male, …”. Il pensare eticamente impegnato è la cornice di tutte le cornici, potremmo dire che il pensare eticamente è il setting universale entro il quale vengono a formarsi altri spazi particolari, altri set- ting definiti in funzioni particolari. Questa cornice universale è la garante della nostra possibilità di mettere in dubbio, di fragilizzare le nostre stesse particolari cornici di riferimento attraverso l’uso e

172 l’esercizio di un pensare critico e riflessivo che si lascia muovere dall’amore per il bene, sia nella sua funzione critico-negativa che in quella critico-positiva.

3.7.9 L’incontro con Pandora e il viaggio con Dafne Riflessioni riguardanti il crinale fra supervisione formativa e psicoterapia psicoanalitica Ornella Manzocchi

Tutte le cose terrificanti non sono forse altro che cose senza soccorso, che aspettano che noi le soccorriamo. Rainer Maria Rilke Quindi, perché le persone si capiscano a vicenda, occorre che camminino o giacciano a fianco. Marina Cvetaeva

Questo scritto è la testimonianza di un’esperienza in primo luo- go umana, ma anche professionale che ho avuto modo di vivere as- sieme a due studentesse che alcuni anni or sono frequentavano La Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), presso l’allora Dipartimento di Lavoro sociale (DLS), divenuto in seguito Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS) e oggi Dipartimento di Economia Aziendale, Sanità e Sociale (DEASS). Lo scritto si compone di due parti, la prima riguardante il per- corso di supervisione formativa svolto con Pandora e la seconda riguardante quello svolto con Dafne43. Questa narrazione è accompagnata dal desiderio di proteggere le vicende qui esposte, per questa ragione in essa sono presenti for-

43 Pandora e Dafne erano allora studentesse confrontate con la pratica professionale, mentre la scrivente era il loro supervisore formativo. Nel presente scritto non vengono mai riportate in modo completo e esaustivo le conversazioni o gli accadimenti riguardanti i percorsi qui presentati, ma unicamente quegli aspetti che a nostro modo di vedere possono essere indicativi del processo attivato e delle riflessioni scaturite. In quegli anni la Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana prevedeva per gli studenti in Lavoro sociale, un percorso di supervisione formativa della durata di 24 incontri individuali, suddivisi in due blocchi che si svolgevano durante i periodi di pratica professionale situati al terzo e al sesto semestre della formazione triennale.

173 ti elementi di distorsione, nell’intento di preservare il più possibile l’anonimato delle due studentesse in supervisione formativa.

Sicché la tua scelta è proprio tua; nasce da un tuo bisogno, antico, precocissimo. Non un’offesa o una violenza, ma qualcosa che ti è stato negato - che agli albori della vita è la violenza più devastante; una lacuna, un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale nella tua dieta affettiva - ... insomma un non-evento della tua personale preistoria, che però ha lasciato una traccia indelebile nella tua personalità allora in formazione. ... dal training si esce “sanati ma non troppo”, si affronta la professione con una qualche ferita non perfettamente rimarginata - che poi è la ragione per cui non si cambia mestiere -

Aldo Carotenuto

L’incontro con Pandora Al nostro primo incontro Pandora suona il campanello e ir- rompe nello studio dove mi trovo con un paziente44. La invito ad aspettare in sala d’attesa sino al termine della seduta in corso. Quando poi le chiedo di entrare nello studio, Pandora è visibil- mente agitata, si mantiene quasi sospesa dentro la poltrona che la accoglie e che pare essere per lei un letto di fachiro; al contempo il suo sguardo perlustra la stanza senza sosta, come una farfalla che si posa di fiore in fiore, instancabile, frettolosa. Per contro ascolta con disinvoltura il mio invito, in futuro, a non entrare direttamen- te in studio, attendendo che io vada ad accoglierla in sala d’aspetto. L’irrequieta e paurosa farfalla si è tramutata in un placido rinoce- ronte, nulla lo impensierisce. Come ad ogni primo incontro di supervisione formativa con uno studente a me sconosciuto, la invito a presentarsi. Irretita non sa bene da che parte iniziare, cosa narrarmi. Di nuo- vo fragile farfalla i suoi grandi occhi si posano qua e là, indugiano

44 In quanto psicoterapeuta, la mia giornata in studio si scandisce fra sedute di psicoterapia psicoanalitica con i pazienti e supervisioni formative.

174 timorosi su di me, le spalle si stringono a formare una muraglia protettrice. La ascolto e quando di tanto in tanto, quasi furtiva- mente, i nostri sguardi si incrociano, le sorrido. Lei è l’ultima di una fratria alla quale appartiene anche una so- rella maggiore infragilita da una schizofrenia cronica. Ha alle spalle una precedente formazione professionale che le ha permesso di essere indipendente economicamente e di entrare direttamente in contatto con le persone, anche se, come precisa si trattava di “un contatto che non poteva essere che superficiale”. Questa nuova for- mazione invece le darà la possibilità di stare a contatto con gli altri in modo più profondo e veritiero. Il suo racconto di presentazione prosegue affrontando il tema del romanzo familiare: alle soglie della sua adolescenza i genitori si sono separati e di conseguenza loro, i figli, hanno vissuto con la madre. Da quel momento la sorella, già provata dalla malattia psichiatrica, non è più stata autosufficiente, tanto da dover ricor- rere al suo internamento in un Istituto. Per lei, Pandora, ciò ha significato sentirsi sempre più in colpa verso questa sorella tanto sfortunata quanto buona. Da piccine questa sorella, malgrado le sue fragilità, si è occupata di lei sino a quando ha potuto. Con il trascorrere del tempo lei inesorabilmente cresceva e diveniva via via sempre più indipendente, tanto da rovesciare la situazione di cura e di accudimento: ad un certo punto infatti fu lei ad occuparsi della sorella schizofrenica e non viceversa. Giunto dunque il tempo in cui lei, divenuta ormai grandicella, avrebbe potuto aiutare que- sta sorella sfortunata e buona, ecco che come una tempesta nella tempesta, la separazione dei genitori e contemporaneamente la sua crescita (adolescente piuttosto scapestrata e indipendente) hanno gettato nello sconforto totale la sorella, sino al punto di doverla allontanare da casa. Pandora si rimprovera di non avere capito il disappunto della sorella che la vedeva crescere e divenire indipen- dente e di averla trattata spesso poco amorevolmente, di non averla saputa accogliere così com’era. In quella situazione, con i genitori che divorziavano e il padre che se ne andò, Pandora cresceva inte- ramente occupata da sé stessa, “mia sorella non ha potuto far altro che peggiorare, non ha certo potuto scegliere”. Tutto questo, spie- ga, le fa ancora oggi “montare dentro una grande rabbia”. Silenzio. Le sorrido, aspetto e penso: ha aperto il vaso, cosa ancora si river-

175 serà all’esterno? Rimarrà sul fondo un briciolo di speranza? Certo queste sono riflessioni che mi pongo da una prospettiva che non è quella della supervisione formativa, bensì della cura psicoterapeu- tica. Sin da queste prime battute dunque mi rendo conto che la folata che mi ha investita porta con sé tutte le sventure del mondo di questa giovane donna. Da qui la mia decisione di chiamarla in questo breve scritto, Pandora. In grado comunque di riprendere il filo del percorso che l’ha portata a questo incontro, Pandora passa alla narrazione riguar- dante la formazione professionale. Mi spiega che ha iniziato uno stage e che si trova in un mare di problemi. Cambia postura, come un fiero felino raddrizza collo e schiena, la testa alta, gli occhi in- dagatori che paiono non perdonare, mi scrutano, chiede il mio pa- rere rispetto alla situazione di pratica professionale che mi illustra. Vengo così a conoscenza del suo stage, nel corso del quale si trova a contatto con dei bimbi piccini. Le operatrici che si occupano abitualmente di loro le hanno spiegato che i bambini non pos- sono scegliere e che per questa ragione deve astenersi dall’entrare direttamente in contatto con loro; il suo unico compito, durante le prime settimane è quello di osservare, non deve mai imporre la propria presenza ai bambini. Mentre la ascolto e la osservo con interesse, dentro la mia mente i pensieri si affollano e si dispongono in nuove congiunzioni di senso: queste educatrici che “si permettono” di dire che i bambini non sanno scegliere, le inducono molta rabbia proprio come mam- ma e papà le hanno fatto provare molta rabbia quando hanno per così dire intrappolato lei e la sorella nella condizione di non poter scegliere. Loro e loro soltanto hanno deciso di divorziare e questo ha comportato per la sorella un crollo e per lei un ingombro insop- portabile, un nodo di rabbia e di sensi di colpa. Mi limito a sottolineare come, sia nel caso dei suoi genitori che in quest’ultimo delle educatrici, il suo stato di impotenza, quello provato da sua sorella e infine quello che lei ipotizza vivano i bimbi al nido, le suscitano molta rabbia. Le chiedo se pensa vi sia un le- game tra la sua attuale scelta professionale e i sensi di colpa che ha accumulato nei confronti della sorella che l’aveva accudita amore- volmente nella sua infanzia e alla quale durante la sua adolescenza ha poi mostrato poca comprensione e gratitudine.

176 Pandora ascolta attentamente: crede vi sia un legame fra la sua vita familiare e questa scelta professionale, ma non sa bene di che tipo. Non è però soddisfatta della mia riflessione, la ritiene troppo generica, vuole sapere con precisione se “teoricamente” sia possibi- le affermare che un bambino non sa scegliere. Aggiunge di essere d’accordo con me, ritiene di essere sempre stata molto ribelle, an- che arrogante, si è sempre comportata in modo estremo, nel bene e nel male; dunque chi si frappone fra lei e questo suo modo di essere la fa arrabbiare. Conclude rispondendo da sé alla propria domanda, afferma che non è vero che non si può scegliere, anche da piccoli si può. Sento che ci stiamo muovendo nella tormenta dei mali del mon- do, un passo falso e saremo travolte da folate nefaste che rischiano di lasciare dietro di sé non uno stato di crisi, foriero di possibili tra- sformazioni nell’ordine del funzionamento mentale, ma uno stato di catastrofe, portatore di disperazione e morte o di mutamento della struttura mentale45. Pandora sembra dirmi “Guarda che io ci sono e so scegliere”, infatti è entrata piuttosto energicamente, di prepotenza nello studio e malgrado io le parli dandole del Lei, continua a rivolgersi a me dandomi del Tu. Per avvalorare la sua tesi Pandora ora mi racconta di un prece- dente stage, nel corso del quale non ha avuto l’imposizione di do- ver stare a osservare per settimane senza partecipare direttamente e da subito alla vita dell’Istituto. Anzi, veniva trattata con parità rispetto agli altri educatori che lavoravano, non c’era riunione alla quale non partecipasse. Non solo, ma il fatto di essere nuova, senza esperienza, la autorizzava ad esprimere tutto ciò che si sentiva di dover dire, addirittura la invitavano a farlo e la ascoltavano con at- tenzione, le concedevano insomma una certa “autorità”. Era con- siderata a tutti gli effetti “una di loro”. Pongo nuovamente in luce il tema del limite, che questa volta prende spessore attraverso l’esperienza di una pratica professionale durante la quale era “troppo dentro” mentre nella pratica profes- sionale attuale pare essere “troppo fuori”.

45 Di questa riflessione siamo debitori nei confronti del pensiero dell’e- pistemologo francese Edgard Morin (1921), secondo il quale la catastrofe porta mutamenti nell’ordine strutturale mentre la crisi porta mutamenti nell’ordine funzionale. Riteniamo che catastrofe o crisi dell’esistenza investono sempre l’or- dine della paticità, anche nel caso di esperienze di supervisione formativa.

177 Pandora è sorpresa, sorride imbarazzata. Già, ma allora, dice, du- rante nessuna delle due pratiche professionali sono riconosciuta. Sospiro, sorrido. Certo questo è un tema centrale per ogni per- sona e in particolar modo in questa occasione per lei: essere ri- conosciuta e riconoscersi. Tema che si impone sia nella sua vita privata che nella sua formazione professionale, tanto che fra lei e le educatrici, dalle quali dipende per questo stage si sono già creati e accumulati una serie di fraintendimenti. Fissiamo un prossimo incontro e Pandora se ne va, dopo essersi informata sulla mia professione e sul mio modo di operare in psi- coterapia psicoanalitica. Seguono altri incontri di supervisione formativa nel corso dei quali Pandora ancora irrompe nello studio, si rivolge a me dando- mi del tu, arriva in ritardo, apre il suo vaso e una folata di malanni personali saturano l’aria: da fobie a difficoltà somato-psicologiche a tentativi di cura attraverso terapie di gruppo, terapie alternative, eccetera. Mi sento caricata di una responsabilità che non sono autorizzata a condividere con la SUPSI. Infatti fatte salve situazioni di gravità tale da dover mettere in forse il proseguimento della pratica pro- fessionale, il supervisore formativo non intrattiene alcun contatto con gli altri enti coinvolti nella formazione dello studente. La su- pervisione formativa presso la SUPSI è per contratto un momento eminentemente privato, intimo, ciò che avviene durante quel per- corso rimane vincolato strettamente al supervisore formativo e al supervisionando. La supervisione formativa si caratterizza anche grazie a questo suo rimanere ai margini, nell’ombra, pur essendo elemento di valutazione centrale per la formazione dello studen- te. Infatti esso non può presentarsi all’esame di laurea se non ha concluso positivamente, il suo percorso di supervisione formativa. Questo modo di procedere avvicina fortemente il momento di supervisione formativa a quello della cura psicoterapeutica, etica- mente e deontologicamente legato al segreto professionale, fatte salve situazioni eccezionali. La possibilità per il supervisore formativo di prendere contatto con la SUPSI, nel caso in cui il percorso con il supervisionando mostri elementi di gravità, è sicuramente una scelta che garantisce il buon funzionamento di una supervisione formativa obbligatoria

178 ed economicamente a carico della Istituzione di formazione. Que- sta possibilità risulta meno importante nel caso in cui uno studen- te si dimostrasse persona equilibrata, serena, con una buona voca- zione alla cura e buone conoscenze teorico-pratiche. Nell’infelice caso in cui uno studente mostrasse, ad esempio, un uso dominante della modalità relazionale proiettiva, sia sulla scena della supervi- sione formativa che su quella del luogo di pratica professionale, la questione diverrebbe cruciale. In questa eventualità la possibilità di prendere contatto con la SUPSI, rompendo la dimensione di intimità e protezione tipica del percorso di supervisione formativa, aprendosi al confronto con l’Istituzione garante della formazione, si mostrerebbe in tutta la sua dimensione formativa. Non va sottovalutato il fatto che ogni persona professionalmen- te impegnata in campo sociale, ha alle spalle esperienze di vita più o meno intensamente dolorose che l’hanno messa nella condi- zione di doversi confrontare in modo specifico con la frustrazio- ne, e dunque con il dolore mentale, affettivo, cognitivo, fisico e quant’altro. Non ci sarebbe altrimenti ragione per volersi occupare di questi temi46. Dunque non è il passato difficoltoso che Pandora ha vissuto e vive tuttora a impensierire. Occorre però riconoscere e distinguere con chiarezza il bisogno di operare in campo sociale nell’illusione di sanare le proprie ferite attraverso la cura di chi pare condurre la propria esistenza ancora peggio di noi, dalla reale capacità di stare accanto a chi soffre offrendosi quale contenito- re in grado di accogliere, contenere e restituire il dolore mentale, dopo averlo reso sufficientemente tollerabile, grazie al buon fun- zionamento della capacità di rêverie47, solidamente radicata in una buona conoscenza del proprio mondo interiore. Con Pandora sento di muovermi su di un crinale che funge da spartiacque fra psicoterapia psicoanalitica e supervisione formativa, non posso dunque esimermi dal pormi alcune fondamentali que- stioni: dove sta se c’è, soluzione di continuità fra queste due speci- fiche e differenti esperienze? Vi sono più risposte possibili, ognuna

46 Aldo Carotenuto, Lettera aperta a un apprendista stregone, Bompiani, Milano, 1998

47 Wilfred Bion, Learning from experience, Heinemann, London, 1962, Tr. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972, pag. 73; ed. USA, Aron- son, New York, 1983.

179 delle quali parimenti valida e ognuna delle quali apre a nuovi oriz- zonti di riflessione e trasformazione. Una prima possibile risposta è la seguente: per la supervisione formativa l’obiettivo è quello di porre in luce per quanto possibile, passo dopo passo nel corso dei 24 incontri, la collusione fra mondo interno e mondo esterno. Ciò po- trebbe fungere da stimolo per Pandora ad iniziare un vero e proprio lavoro di psicoterapia psicoanalitica. Una seconda possibile risposta riguarda la possibilità di piegare rigorosamente le suggestioni che Pandora porta in supervisione formativa, riguardanti il suo rapporto con i bimbi con i quali sta svolgendo la pratica professionale, così da sospingerla a spostare e mantenere l’attenzione sul suo modo di interagire con loro. Terza possibile risposta è quella riguardante la possibilità di privilegiare soprattutto il tema legato alla dinamica che si è creata fra lei e le educatrici, nel tentativo di dipanare qualche nodo confusivo e collusivo con l’équipe. E per finire altre due questioni si impongono alla nostra atten- zione, proprio perché Pandora ha scelto volutamente di rivolgersi ad una psicoterapeuta psicoanalitica per svolgere la supervisione formativa, a fronte di altre possibili figure professionali che non la interessavano. La prima domanda è la seguente: durante gli incontri di supervi- sione formativa, quanto del suo mondo interno questa studentessa ha riversato nella narrazione dell’esperienza di pratica professio- nale e quanto invece è stata particolarmente vicina all’esperienza professionale vera e propria? O altrimenti detto: di quale grado di contaminazione fra mondo interno e mondo esterno è stata testi- mone la narrazione in supervisione formativa? La seconda domanda riguarda il mio modo di pormi come per- sona e il mio essere professionalmente profilata quale psicotera- peuta psicoanalitica. Quanto questi aspetti la hanno in un certo qual senso indotta, invitata, autorizzata a portare sulla scena della supervisione formativa i suoi vissuti personali, piegandoli talvolta poco, talaltra puntualmente, sul singolo caso o sull’intera esperien- za professionale che stava svolgendo? Ringrazio Pandora poiché mi ha permesso, durante questi no- stri incontri di vegliare con attenzione ma anche con complicità, affinché la supervisione formativa non si perdesse nei “meandri dell’osceno”. Quei meandri che riguardano la vita personale e in

180 particolare la paticità di Pandora. Intendiamo con questo tutto ciò che si trova fuori dalla scena della vita esteriore, raccolto e protetto dall’oscurità e dalle pieghe del nostro mondo personale, “dietro le quinte” e dunque fuori dalla scena, o-sceno appunto; esperienze che appartengono all’inconscio o al più al pre-conscio. In questi incontri ho cercato di mantenere in vita la mia atten- zione fluttuante senza imbrigliarla in un Falso Sé teorico, così da garantire il più possibile il mio “sentire”, nella speranza di non spo- gliare, impoverire e banalizzare una narrazione carica di sofferenza mentale e a volte fisica.

A questo punto pare profilarsi più distintamente un imprescin- dibile buon obiettivo per questa nostra supervisione formativa: il riconoscimento da parte di Pandora di un bisogno, e la conseguen- te richiesta di aiuto psicoterapeutico. Come il marmista può cadere vittima della silicosi, così l’opera- tore sociale può facilmente ammalarsi di una malattia psicologica. Il marmista ha cura dei propri polmoni proteggendoli grazie ad un filtro e sottoponendosi regolarmente a specifici controlli medici. L’operatore sociale, nel nostro caso Pandora, come può proteggersi garantendosi primariamente una buona salute psicofisica e di con- seguenza la capacità di operare il più possibile in funzione del bene di sé stesso e dei propri ospiti? Per noi non vi sono dubbi, senz’altro grazie alla buona conoscenza del proprio mondo interiore, alla buo- na qualità delle conoscenze di teoria della prassi del lavoro sociale, al talento personale nelle relazioni di aiuto e di cura. Garante centrale di tutto ciò non può essere che un serio lavoro su di sé. Il quesito si pone dunque in questi termini: come aiutare Pan- dora affinché la voce del bisogno, che nella sua economia pulsio- nale la sospinge senza sosta nei pantani del fraintendimento e nella scarica psicosomatica, possa trovare la via adeguata per farsi sentire e riconoscere? Una possibilità ci pare essere quella di insinuare, con lievità, un dubbio dentro questo suo mondo così rigidamente scisso in “con me o contro di me”. Solo attraverso questa feritoia48 potrà allora spirare una nuova brezza, permettendo che parte dei mali della

48 Aldo Carotenuto, Lettera aperta a un apprendista stregone, Bompiani, Milano, 1998

181 cittadella interiore che la ingombrano e la addolorano, lascino spa- zio affinché la luce di una nuova aurora le permetta una diversa prospettiva per la vita.

Il viaggio con Dafne Anche per il viaggio con D.49 il tema centrale della riflessione riguarda la differenza che intercorre fra l’esperienza e la trasforma- zione messi in essere grazie al percorso di supervisione formativa e l’esperienza e la trasformazione messi in essere grazie ad un per- corso di psicoterapia. La supervisione formativa è un’esperienza bizzarra, un poco provocatoriamente potremmo affermare che il suo unico obiettivo è che il supervisionando vi “esca non come ci è entrato”. Questo significa che la supervisione formativa è essenzialmente una pratica di trasformazione riguardante l’identità professionale del supervisionando, ma come ben possiamo intuire, ogni cam- biamento nell’ordine dell’identità professionale ha delle ricadute dirette anche per quanto attiene all’identità personale, e natural- mente questo vale anche in senso contrario, ogni cambiamento nel solco dell’identità personale, apportato grazie ad un percorso di psicoterapia, non può che avere delle ricadute dirette sull’identità strettamente professionale. La supervisione formativa funge dunque da “messa in moto” nella dinamica relazionale dei soggetti che vi partecipano, potrem- mo dire un “riscaldamento” della mente in vista dei futuri incontri con la realtà professionale. D.: Con il supervisore ho riflettuto su me stessa e sulla rela- zione che instauravo con l’ospite o con il supervisore stesso. In tale modo ho potuto considerare aspetti nuovi riguardanti il mio modo di fare e di essere. Questo mi ha inoltre permesso di meglio evidenziare e comprendere i vari punti di vista dell’altro (ospite o supervisore). La supervisione formativa ha consentito e favorito un sensibile cambiamento che mi ha aiutata a modificare la prospet-

49 Abbreviamo i nomi delle due persone coinvolte con la lettera iniziale: D. per Dafne e O. per Ornella. In questo modo trascriviamo sia le suggestioni, o gli avvenimenti attinenti a Dafne, nonché le restituzioni della scrivente, che allora era il suo supervisore formativo. Queste annotazioni non riguardano naturalmen- te mai un incontro completo di supervisione formativa, ma unicamente degli stralci che a nostro modo di vedere possono essere indicativi del processo attivato.

182 tiva dalla quale riflettevo sia sul lavoro che sulla mia vita privata. Per finire mi ha permesso di conoscermi meglio sia dal punto di vista lavorativo che personale, di comprendere meglio i miei limiti e le mie capacità. Il travaglio che qualifica le relazioni di aiuto e di cura è somma- riamente definibile in questa semplice quanto complessa regola: permettere all’Altro di esserci per quanto gli sia possibile. Detto altrimenti si tratta di favorire il nascere e lo svilupparsi del deside- rio di coinvolgersi in una relazionale costruttiva. Questo scritto è testimone delle riflessioni scaturite durante i primi quindici incontri di supervisione formativa. D. sin da prin- cipio ha sollecitato i miei organi di senso soprattutto grazie al suo particolare modo di “entrare-stare-uscire” dal mondo delle relazio- ni, e in particolare da questa nostra relazione legata alla supervi- sione formativa. Sintetizzo in due battute ciò che dal mio punto di vista potrebbe dire D. per caratterizzarsi: “Sono tanto insicura, è meglio che mi si noti il meno possibile, ma più la mia attenzione è volta alla prudenza più incappo nella goffaggine di un giullare!”. O ancora: “Mi sento sempre come se camminassi sulle uova, più ci sto attenta più rischio di muovermi come un elefantino che combina una frittata!” Questa impressione è circoscritta ai pochi incontri avuti e dun- que a ciò che nel - qui e ora - delle quindici supervisioni è avvenu- to, grazie alle comunicazioni che ci hanno permesso un incontro denso di intrecci narrativi, fattuali, cognitivi, emozionali. Al primo incontro D. arriva con anticipo ma non trova lo studio, malgrado sia ben segnalato ed io le abbia spiegato l’ubicazione. Rin- traccia però la mia abitazione privata, della quale peraltro non le avevo parlato, suona il campanello di casa e rimane alcuni infruttuosi minuti in attesa. Poi si aggira lungo i vialetti del parco e seguendo le mie indicazioni trova lo studio! Con un filo di voce e stretta di mano incerta mi saluta mettendomi prontamente al corrente di quello che definisce un suo sbaglio, riferendosi alla ricerca dello studio e alla con- fusione con la mia abitazione privata. Si presenta senza troppe difficoltà e tiene a farmi presente che è una persona sensibile e assai indecisa. Mi informa che in precedenza ha lavorato per parecchi anni in nidi per l’infanzia, senza alcuna forma- zione e senza supervisione. Poi ha deciso di intraprendere la scuola per

183 avere più strumenti. Con i bambini non si è trovata bene poiché non era in grado di dar loro dei limiti e ciò a volte le “faceva paura”. Nel corso del precedente stage si è trovata a suo agio con persone portatrici di gravi disabilità poiché le consegne erano chiare, si trattava di svol- gere con persone adulte e poco indipendenti dei “lavoretti manuali”. Si sentiva invece insicura in foyer dove aveva il compito di occuparsi di loro per ciò che attiene alla vita quotidiana: imboccarli, lavarli, cam- biare loro il pannolino, aiutarli a coricarsi ecc. Per questa ragione era riconoscente alla responsabile dell’Istituto che ha accolto la sua peraltro sinceramente motivata richiesta di spostamento in un laboratorio. Si informa in merito ai criteri di valutazione della supervisione formativa. Da parte mia raccolgo questa sua richiesta sottolineando la prema- turità di tale preoccupazione. La informo comunque sul mio modo di intendere il processo di valutazione e auto-valutazione come un mo- mento che trova la propria naturale specificità inserendosi nei modi, negli spazi e nei tempi dei singoli incontri di supervisione formativa grazie alla nostra verbalizzazione condivisa nel qui e ora. La specificità della comunicazione che attiene alla supervisione formativa risiede ap- punto anche nel sapersi decentrare sia per narrare gli accadimenti sia per comprendere e valutare le nostre risposte e le trasformazioni che queste generano in noi e nell’ospite. Sarà indicativo anche il nostro senso di benessere o viceversa malessere, provato nel corso degli incontri. Chiedo se è al corrente del significato della supervisione formativa, delle regole, ecc. D. dimostra di avere le idee piuttosto chiare in merito [tanto che mi permetto di anticipare sin d’ora, non avremo assolu- tamente problemi in tal senso durante l’intero svolgimento di questi primi quindici incontri, che procederanno con regolarità, centrati su singoli casi, sullo scambio con l’équipe, sui suoi vissuti inerenti tali esperienze, su ciò che avviene nel qui e ora delle supervisioni stesse]. Data la mia formazione professionale il mio “orecchio musicale” dovrebbe essere soprattutto in grado di cogliere alcune sonorità che dalle profondità inconsce sono attirate alla superficie della co- scienza e viceversa, dando vita a nuove melodie emozionali, co- gnitive, fattuali. In questo sta senz’altro l’intensità, ma anche la riduttività del mio sguardo-ascolto-gesto. D.: Al secondo giorno di stage vedo una paziente sul balcone che mi saluta a grandi gesti e io rispondo con molto entusiasmo perché

184 sono felice di essere riconosciuta e attesa. Ma repentinamente lei volta le spalle e se ne va. Incredula la raggiungo e la risaluto assai caloro- samente e le chiedo spiegazione del suo strano ritirarsi. Lei mi tratta male e io rimango ammutolita, non so cosa sia successo. O.: Come si sentiva avvicinandosi a questo luogo di stage? D.: Sicuramente un poco incerta, fumavo una sigaretta per tenere a bada l’ansia. Quando ho visto e udito quel gran saluto diretto a me ho tratto un sospiro di sollievo, come se fossi stata riconosciuta e accettata. Ma poi quel brusco voltafaccia: ho pensato subito che dovevo capire, chiedere perché. Sono praticamente corsa da quella signora. O.: La sua ansia la pre-occupava? [spiego il significato di pre-oc- cupazione]. D.: Si parecchio. E dopo quel brusco darmi di spalle lo ero a mag- gior ragione. Poi ho chiesto spiegazione al mio RP50 che mi ha detto che questa signora fatica molto nell’accettare nuove persone e per que- sto assume comportamenti così imprevedibili: o troppo confidenziali o troppo scontrosi. O.: Ciò che mi ha appena raccontato pensa possa anche avere a che fare con i suoi stessi atteggiamenti? D.: In fondo anch’io non ho avuto una giusta misura con lei, sono forse inizialmente stata troppo calorosa, quasi invadente e poi eccessi- vamente distante. Lì per lì non ho pensato che io ero un’estranea e che arrivando potevo creare scompiglio, erano loro gli estranei per me...... D.: Quel signore mi metteva in imbarazzo ripetendomi di continuo che in un prossimo futuro avrebbe partecipato ad una festa religiosa, non solo, ma mi si avvicinava molto fisicamente. Non sapevo come fare. Se gli davo ascolto non ripeteva che quella frase stereotipata, io comunque non osavo ingiungergli di “smetterla”. Penso sempre che dare un limite equivalga a far star male l’altro. Invece poi il Respon- sabile pratico mi ha consigliato di dargli un limite, ossia: della festa ne parliamo una volta al giorno. Così effettivamente la questione si è un poco distesa. Al rientro in Istituto dopo il fine settimana trascorso a casa, durante il quale si è svolta la famosa festa, io eccitata subito gli chiedo come è stata. Lui risponde imbronciato che non ci è andato. Io

50 Responsabile pratico, ossia un operatore sociale esperto che nell’isti- tuzione lavora fianco a fianco dello studente in stage ed ha nei suoi confronti la responsabilità formativa legata all’azione della pratica sociale.

185 rimango impietrita, inizio a parlare d’altro e a proporgli un’attività che lo distragga da ciò che immagino sia per lui un dolore. O.: Cosa le fa pensare che parlare della mancata partecipazione alla festa corrisponda a procurare un dolore aggiuntivo, mentre occu- parsi subito d’altro, nel tentativo di ignorare quanto è avvenuto sia di sollievo? D.: Forse l’abitudine che in generale abbiamo di non parlare di ciò che fa male. Lui aspettava con molto entusiasmo quella festa, chissà che delusione deve aver provato. O.: Lei può sapere che delusione ha provato, come si sentiva quella domenica, o nel momento in cui gliene stava parlando? D.: In modo chiaro no perché non abbiamo più toccato l’argomento. O.: Come si sentiva mentre gli parlava d’altro e proponeva qualche lavoretto “sostitutivo”. D.: Non bene, come se non fossi capace di aiutarlo. O.: Qui con me lei cosa sta facendo? D.: Parlo principalmente delle mie difficoltà. O.: E io? D.: Mi ascolta, mi incoraggia a spiegarmi sempre meglio, mi fa parlare. O.: Possiamo affermare che la incoraggio a condividere con me il peso delle sue preoccupazioni, dei suoi dubbi ecc.? Oppure dobbiamo dirci che infierisco contro di lei obbligandola in certo qual senso a stare dentro una situazione che le fa male? D.: Mi incoraggia certo, non mi sento sola di fronte alle difficoltà e per finire comprendo meglio le situazioni e capisco che sono forse meno difficoltose di ciò che da sola avevo percepito. O.: E questo come la fa sentire? D.: Capita, aiutata, non giudicata, non lasciata sola. O.: Non pensa che questo potrebbe valere anche per il signore della festa mancata? D.: Credo proprio di si, ma io ci sono rimasta così male che ho pen- sato di ignorare questa situazione che ormai era passata. ... Man mano gli incontri di supervisione formativa si susseguiva- no, D. ha avuto sempre più e sempre meglio la capacità di calarsi in una relazione chiara e definita nella sua parte strutturante, ri- spettando tutti gli elementi di asimmetria e intercambiabilità che ciò comporta. Per quanto riguarda il mio ruolo, D. non ha avuto

186 difficoltà nel riconoscere nel nostro rapporto la cifra di un “pen- siero basato sul potere della capacità al servizio della crescita dell’i- dentità professionale”. Da parte sua D. ha messo le sue risorse, sia affettive che cognitive, al servizio del desiderio di “far nascere Sé stessa, la propria identità sia professionale che personale” nello scambio timido ma sincero che si è vieppiù permessa con me. D.: Ho chiesto a quel signore perché usava solo il giallo per dipin- gere, gli ho mostrato tutti i colori della tavolozza. Ma lui non mi ha risposto, ho avuto l’impressione che si fosse arrabbiato. O.: Cosa le ha fatto credere che quel signore fosse arrabbiato? D.: Il fatto che non mi ha risposto e ha smesso di dipingere. O.: Allora di fronte alla sua richiesta di spiegazione, che nelle sue intenzioni era volta ad aprire nuove possibilità, nuove pensabilità, nuovi sensi, il “pittore del giallo” si è bruscamente chiuso in sé inter- rompendo sia la sua attività pittorica che la vostra conversazione. D.: Già, è andata così. Ma non so come avrei potuto fare diversa- mente, io volevo solo incoraggiarlo ad usare anche altri colori. O.: Secondo lei il giallo è un colore che al “pittore del giallo” piace? Ne usa una sola tonalità? Ha problemi di vista, forse non riconosce altri colori? Usa questo colore solo per dipingere o lo predilige anche nei cibi, nelle bevande, negli indumenti, ecc. D.: Non lo so. Non ho pensato che avrei potuto avvicinarlo in que- sto modo. Come fa lei qui con me! O.: Abbiamo l’abitudine di chiedere o chiederci immediatamente il perché delle cose, senza darci il tempo di sostare nella nebbia, là dove ancora non capisco, ma guardo, annuso, ascolto, accarezzo, gusto. Agendo così frettolosamente, restituiamo al mittente il suo messaggio, il suo dono che ci consegna poiché per lui è probabilmente eccessiva- mente ingombrante e “in-significante”. Questa comunicazione corri- sponde alla sua richiesta di aiuto, di comprensione. La restituzione immediata, paro-paro, attraverso una domanda che vuole colpire al cuore dell’esperienza (perché sceglie sempre il giallo?) al di là delle pa- role pronunciate, conferma che non lo capiamo, che deve pensarci lui a meglio comprendersi e anche a fare in modo che noi lo possiamo capire subitaneamente e inconfutabilmente, insomma deve essere chiaro e si- curo con sé stesso e con noi! Come si potrebbe fare per restituirgli invece un pensiero parzialmente elaborato, tanto da non lasciarlo di nuovo solo o viceversa sommerso da una prematura saturazione di senso che

187 non gli appartiene? D.: Come lei sta facendo con me, a volte riformula ciò che le dico, a volte mi stimola a proseguire nel racconto, a volte mi sorprende, a volte mi aiuta anche mostrandomi alcuni agganci alla teoria che nel corso delle lezioni scolastiche ho avuto modo di apprendere, oppure mi sorprende chiedendomi di “guardare” di essere attenta a ciò che sta avvenendo qui in supervisione con lei ora, congiuntamente a ciò che le sto narrando rispetto ad un avvenimento accaduto in Istituto, e a come si sta svolgendo il nostro incontro. In questo modo mi aiuta a scorgere dei legami tra quello che lei chiama il - qui e ora - e il mio racconto e il mio stato d’animo. Ad esempio ora comprendo “nei fatti” e non solo a parole, cosa significa - la restituzione - che durante le lezioni di tecnica del colloquio il professore ci illustra. Già, io sono sempre così insicura che saturo le situazioni chiedendo subito alla persona “Perché hai fatto così?”. È anche vero che in questo modo la lascio “sola” di fronte alla indefinita vastità del suo mondo. O.: Quando io la sorprendo? D.: Quando mi “fa vivere” con una battuta come sia possibile in- terrompere un evento ripetitivo, circolare, che appare sempre più in- comprensibile e inarrestabile. Oppure, sempre grazie alla battuta di spirito, quando mi permette di poter parlare di una situazione, senza il peso dell’angoscia generata da ciò che si sottrae alla comprensio- ne, provando direttamente il benessere generato da questa possibilità. Potrei accogliere nel locale pittura quel signore con un “Ben venuto al nostro pittore del giallo” oppure potrei ironicamente battergli una mano su di una spalla dicendogli che “Se continua di questo passo non avremo più giallo. Dovrò pensare di rifornirmene presto!” O.: Certamente, anche se qui si apre un nuovo capitolo che riguar- da la sensibilità rispetto alla giusta vicinanza. Non sempre è possibile avvicinare l’ignoto, che in quanto sconosciuto è sempre vissuto con apprensione se non terrore, attraverso la battuta di spirito...... Ho dunque avuto modo grazie alla partecipazione attenta e di- sponibile di D., e anche alla sua capacità di accogliere e elaborare le suggestioni, di calare come fosse una sonda lo strumento della supervisione formativa, dentro quel suo strato di porosità che se- para il topos arcaico e sommerso dell’inconscio o del pre-conscio da quello più aereo e prossimo alla “fattuità” condivisibile del con-

188 scio, grazie in particolare alla donazione di senso che ogni buona nominazione può garantire. Sin dall’inizio ho comunque avvertito questo suo “tenue esserci” che tanto richiamava, almeno in me, una sua velata ma ricono- sciuta richiesta di relazione di aiuto per sé stessa più che una di supervisione formativa. Di questo ho avuto conferma non solo grazie alle narrazioni di casi di supervisione che ogni volta mi ha consegnato con trepidità, quasi come quando ci si passa da un grembo all’altro un bimbo appena nato, ma anche dalla chiara richiesta di un consiglio nella ricerca di uno psicoterapeuta al quale rivolgersi per un aiuto ri- guardante una miglior conoscenza di sé. Queste sono le ragioni che mi hanno portata alla decisione di chiamarla con il nome naturalmente non veritiero, di Dafne. Nella sua etimologia greca questo nome significa - alloro, la pianta amata dal dio -. Dafne, figlia del fiume Ladone e della Terra supplica il padre di trasformarla in questa pianta, affinché non sia raggiun- ta da Apollo, di lei innamorato. Mentre la variante laconica della leggenda la vede alle prese con un altro innamorato, Leucippo, e termina con “lo stare di entrambi nel mondo ma al prezzo di non esserci”: Dafne trasformata in alloro e Leucippo reso invisibile. Non possiamo non sottolineare il rischio che il nostro incontro poteva correre, o forse ha addirittura corso: ci riferiamo al rischio di confondere due richieste, due diversi modi di stare in relazione, due obiettivi forzatamente differenti, che necessitano di attenzio- ni e risposte differenti. Ci riferiamo da un lato alla supervisione formativa e dall’altro alla psicoterapia. Questo rischio è bene illu- strato dallo psicoanalista Wilfred Bion, nel suo scritto intitolato Seminari clinici51 al capitolo Arrangiarsi alla meno peggio. Egli sot- tolinea come, quando due individui si incontrano, si crea sempre una tempesta emotiva. Non è detto che da questa turbolenza sca- turisca necessariamente qualcosa di buono rispetto alla situazione precedente questo incontro. Ciò che si può fare è decidere di “ar- rangiarsi alla meno peggio”. Non si sa immediatamente quale sia la natura di questa tempesta emotiva, resta il problema di come trar- ne comunque il meglio. Tornando a noi, il supervisionando non

51 Wilferd Bion, Clinical seminars and four papers, Feetwood, Abing- don, 1987, Tr. it. Seminari clinici, Brasilia e San Paolo, Cortina, Milano, 1989.

189 è tenuto a fare ciò, può non essere disposto o non esserne capace. Il supervisore deve invece possedere quello “strumentario” di base che gli permette di navigare verso l’universo ignoto affrontando le tempeste e le bonacce che ogni navigazione comporta.

Le cinque qualità del supervisore Da questo punto di vista al supervisore risultano indispensabili cinque qualità: • una salda preparazione professionale; • una buona conoscenza di sé stesso; • la capacità di “stare nella nebbia” (quella capacità che il poeta John Keats definisce - Negative Capability52-); • una sostanziosa esperienza sia professionale che di supervisio- nando; • la capacità di avere un’attenzione fluttuante. Sono queste qualità che il supervisore deve possedere in buona misura, affinché la coppia supervisore-supervisionando sia al riparo dai rischi di fondo che insidiano questa pratica di trasformazione. Per quanto riguarda la prima di queste cinque qualità, ossia una salda preparazione professionale, mi permetto di far tesoro del pensiero di Grinberg che ci segnala quattro rischi di fondo che hanno a che vedere con la preparazione professionale del super- visore: • Guardare solo la dimensione emozionale ponendo grandemente l’accento sulla dimensione transfero-contro-transferale della relazio- ne. Il rischio in questo caso è quello di modificare l’assetto della supervisione avvicinandolo troppo al setting psicoterapeutico; • Centrare lo sguardo unicamente sul supervisionando e non sulla relazione tra il supervisionando e il suo ospite, tanto da av- vicinare vertiginosamente la supervisione ad una prova di esame; • Centrare la pratica della supervisione troppo sulla figura dell’ospite tanto da porre in campo il rischio di un apprendimento per imitazione; • Trasferire un’ideologia nella supervisione, tanto che la supervi- sione stessa divenga un atto pedagogico.

52 John Keats, Letters, a cura di M. B. Forman, Oxford U. P., London, 1952, Tr. it., Lettere sulla poesia, (a cura di) Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano, 1984

190 D.: Oggi sono stata in un nuovo laboratorio e una signora mi si è avvicinata dicendomi che mi avrebbe strappato gli occhi per met- terli all’orsetto che stava cucendo e che poi mi avrebbe anche preso le mani ecc. Io le ho subito chiesto perché, le ho anche spiegato che così mi avrebbe fatto male e le ho mostrato tutto il materiale che aveva a disposizione per la costruzione del suo orsetto. O.: E questa signora cosa le ha risposto? D.: Che lo faceva perché ne aveva voglia, che andavano meglio i miei occhi e le mie mani. Ero preoccupata. Mi ha detto che tanto io non ero mai lì e poteva prendersi i miei occhi. O.: La sua entrata nel nuovo laboratorio era stata annunciata? D.: Si certo, l’educatore mi aveva anche detto che quella signora faceva particolarmente fatica ad accettare le persone nuove. O.: E quando si fa fatica ad accettare una persona nuova, un estra- neo, secondo lei cosa si può fare? D.: Se non sono troppo preoccupata lo accolgo “bene”, se mi preoc- cupa cerco di tenerlo alla larga. O.: E quella signora cosa ha fatto con lei? D.: Mi ha fatto paura, mi ha fatto stare alla larga. ... Adesso ca- pisco che io, come sempre di fronte alla paura, cerco di razionalizzare e le ho detto che andavano meglio gli occhi di vetro per il suo orsetto, piuttosto che i miei che servivano a me. Già, ma in fondo lei lo sapeva molto bene, fa sempre quel lavoro in laboratorio. Forse potevo chie- derle se le dava fastidio che ci fossi lì io invece della solita educatrice, oppure avrei potuto sedermi accanto a lei e mentre si lavorava farmi conoscere, raccontarmi. ... Dal processo che i nostri incontri di supervisione formativa hanno attivato posso ritenere di non essere particolarmente incor- sa nei rischi soprascritti. Questa convinzione si radica innanzitutto nelle trasformazioni che da incontro a incontro ho avuto modo di - sentire, percepire, comprendere - in D.: • sviluppo delle sue capacità di auto-comprensione; • messa in moto delle sue capacità di approfondimento e di con- cettualizzazione rispetto a ciò che avviene nella relazione con gli ospiti. Nulla di tutto ciò ha a che vedere con l’intellettualizzazione. Evidentemente ciò implica un lavoro psichico non indifferente che dovrebbe favorire lo sviluppo della capacità di essere al contempo osservatore e partecipante;

191 • grazie al lavoro di sintesi finale avvenuto quasi ad ogni incontro, D. ha preso coscienza del carattere processuale della supervisione; • al termine di questi primi 15 incontri di supervisione è in gra- do di cambiare le prospettive di comprensione degli eventi, dando vita così a un effetto di “sopra-determinazione” dell’accadere. È così sempre più in grado di immaginare la molteplicità delle signi- ficazioni dell’accadere dentro la relazione con l’ospite, con l’équipe e con l’Istituzione. D.: Oggi purtroppo è morta una delle ragazze che da anni frequen- tavano l’Istituto. Ero molto provata e preoccupata. Sono rimasta assai meravigliata e tranquillizzata da come gli educatori hanno informato gli altri ragazzi, dando largo spazio all’espressione verbale di ognuno di loro, alla gestualità, ai tempi e desideri di ognuno. In seguito verso fine giornata anche per gli educatori, me compresa, si è ritagliato uno spazio di tempo per condividere i pensieri, il dolore. Non avrei immaginato. Per i ragazzi abbiamo preparato in un locale una grande ciotola con- tenente una rosa per ognuno di loro, attorno alla grande ciotola delle ciotoline con una candelina accesa. Ogni ragazzo era seduto sul suo tap- petino, assieme agli altri, in cerchio. L’educatore ha dato loro la notizia: ognuno ha potuto raccontare qualcosa e poi ognuno ha scritto un suo pensiero, alcuni hanno dovuto essere aiutati. È stato commovente. Alla fine erano tristi ma molto uniti e non troppo angosciati. Ognuno con la sua ciotolina contenente la candelina, la rosa e il biglietto con un pensiero, siamo andati al laboratorio e abbiamo ripreso l’attività di ogni giorno, con la consapevolezza di aver perso una compagna. Ogni tanto qualcuno piangeva e io lo consolavo, gli chiedevo se conosceva questa ra- gazza da molto tempo, a cosa stava pensando in quel momento, se aveva già vissuto l’esperienza di una persona vicina che muore ecc. Ad un certo punto però non ho saputo bene come fare e ho subito razionalizzato. Un ragazzo si è arrabbiato con un altro che è cieco e gli ha detto di piantarla di rompere che tanto lui era cieco e non aveva mai visto neppure sua madre, non solo la compagna morta. Io sono subito in- tervenuta difendendo il ragazzo cieco spiegando in primo luogo che lui sua mamma l’aveva potuta vedere perché la vista l’aveva persa dopo la nascita, in secondo luogo sebbene non avesse mai visto con i suoi occhi la compagna morta, la conosceva anche lui e per questo ne soffriva quanto tutti loro. Poi ho proposto alcune attività che mettevano in gioco altri organi di senso, così da ristabilire un certo equilibrio di capacità fra loro,

192 come dire che il cieco vale quanto gli altri. Mi sentivo troppo maestra. Era un pomeriggio particolare, era morta una ragazza. O.: Quel ragazzo che ha aggredito verbalmente il compagno cieco come stava quel pomeriggio in laboratorio? D.: Era triste, abbiamo dovuto lasciarlo più volte solo in un locale a piangere perché agitava troppo gli altri, quando è così, non solo nel caso della morte di questa loro compagna, lo si accompagna in un locale tranquillo e lo si lascia lì sino a quando si calma, può tornare con gli altri quando vuole, quando se la sente lui. Non è per punirlo, è per of- frirgli uno spazio tutto suo, protetto. Lui lo apprezza. Conosceva molto bene quella ragazza. O.: Dunque lei ha pensato subito di soccorrere fra i due colui che le pareva essere stato ingiustamente ferito. D.: Si certo, ma ho calcato un po’ troppo la mano sui giochi tattili, uditivi ecc. ho sentito che avevo paura e razionalizzavo. O.: Ma questo ha portato sollievo al ragazzo cieco e ai compagni? D.: Si, certo ma ... O.: E all’”aggressore” che piangeva la compagna morta? D.: Non partecipava ai giochi sensoriali. Poi io gli ho detto che capivo che era triste perché piangeva, ma non avrebbe dovuto attaccare così questo compagno che in fondo già è menomato perché non ci vede. O.: Come i morti! (D. stupita mi guarda). D.: Non ci avevo pensato. O.: Oltretutto lui che non ci vede è pure vivo e l’amica che ci vedeva, come i vivi, invece è morta. D.: Già, chissà quanto dolore e quanta rabbia doveva avere dentro di sé. O.: Infatti l’ha scaricata sul compagno. D.: Ho pensato soprattutto a quello che mi sembrava ferito e non a lui che aggrediva. O.: Come avrebbe potuto pensare anche a lui? D.: Forse dicendogli che capivo il dolore fortissimo che provava in quel momento e che lo rendeva tanto arrabbiato. Occupandomi un poco di lui anche senza dire nulla in particolare, ma senza allestire una “le- zione” sui nostri cinque sensi. ... A conclusione di questa prima parte di momenti di supervisione formativa, credo di poter affermare che nel corso della ritmicità dei nostri incontri si è potuto sviluppare un processo di valutazione e

193 auto-valutazione sia in D. che in me. Per quanto riguarda sia il processo di auto-valutazione che quello di valutazione D. ne ha dato prova e ne darà prossimamente, in quattro distinte occasioni: • principalmente nel qui e ora degli incontri di supervisione; • attraverso la stesura del protocollo inerente la relazione con un singolo ospite, da consegnare ai professori che si occupano del La- boratorio di pratica professionale presso il Dipartimento di Lavoro sociale. Un protocollo di una trentina di pagine riguardante la pra- tica professionale svolta; • sviluppando un breve lavoro scritto con alcuni compagni riguar- dante la messa in luce delle singole peculiarità e degli intrecci tra supervisione - sostegno del Responsabile Pratico - agganci alla teoria studiata alla SUPSI; • e da ultimo lasciandosi sorprendere dalla capacità di narrarsi attraverso una metafora che illustra il suo essere operatrice sociale. Da parte mia il processo di auto-valutazione mi ha vista impe- gnata: • nel favorire le trasformazioni di cui sopra, da una supervisione formativa all’altra, attenta ai rimandi che D. stessa mi restituiva e al mio senso di benessere o meno, di soddisfazione e adeguatezza, riferiti alla situazione presentata e a quella generata nel qui e ora; • durante le riflessioni accolte e quelle donate durante le lezioni del corso di formazione alla supervisione, dei laboratori e delle gior- nate di studio; • e per concludere grazie allo sforzo di analisi e soprattutto di sintesi che la stesura di questo breve scritto dell’esperienza che ho intitolato “In viaggio con D.” mi ha stimolato. Al termine di questi primi quindici incontri D. pare tuttora in- certa nella capacità di prendere in esame, con la dovuta tempestività e direttamente sul luogo di lavoro, aspetti attitudinali e contro-atti- tudinali. Per contro è in grado di prenderli in esame durante la su- pervisione formativa, seppure con qualche difficoltà che si manifesta nella scelta di descrivere più che di riflettere, e dunque in una sorta di selezione mentale e di conseguente comunicazione che ha a che vedere più con la dimensione cognitiva che con quella emozionale. La supervisione sin qui svolta le ha permesso l’oscillazione tra due poli, quello della costruzione dell’immagine dei propri ospiti e quel-

194 lo del recupero dell’immagine di sé stessa, in un continuo va e vieni. Per quanto riguarda me stessa presumo di avere avuto la capacità di trasmettere a D. la seguente ed importante effettività: il superviso- re non è colui che possiede il sapere o che sa meglio ma, è colui che sa altrimenti come anche Hermann Hesse ci ricorda. La seconda qualità del supervisore: una buona conoscenza di sé stesso, mette al riparo di facili proiezioni e moti difensivi eccessivi, che potrebbero scaturire dall’incontro con il supervisionando. Affin- ché ciò sia possibile occorre naturalmente che il supervisore affronti un percorso personale di psicoterapia psicoanalitica o di psicoanalisi. La terza qualità del supervisore, definita “capacità negativa”, risul- ta anch’essa indispensabile. Da un lato per saper navigare dentro la tempesta emotiva che scoppia nell’incontro tra due persone, come già sopra scritto, dall’altro per saper oscillare tra il polo del sapere e quello del non sapere; così come tra il polo del sapere e quello del com-prendere. Tutto ciò ancora non basta. Per essere in grado di navigare l’in- certezza il supervisore deve possedere una quarta qualità: l’espe- rienza. Caratteristica questa che ci rinvia ad un tema tanto caro a Bion e che appare come titolo ad un suo scritto del 1962, Ap- prendere dall’esperienza53. Ciò significa che il processo che avviene in supervisione formativa corrisponde ad una messa in comune dell’esperienza. Da questo punto di vista potremmo affermare che la coppia supervisore-supervisionando si incontra anche su di un piano che non è della totale asimmetria. Un elemento inevitabile e particolarmente delicato sta nel fatto che la supervisione induce dei processi psichici che decentrano, “desecurizzano”, mettono in malattia parziale e costruttiva le posi- zioni di partenza del supervisionando. Fa dunque parte integran- te del processo di supervisione il riaffiorare della triangolazione e delle sue dinamiche, quale cuore della nevrosi esistenziale, ma non necessariamente patologica della nostra cultura occidentale. Per i supervisori degli studenti in formazione presso la SUPSI, questo è un elemento centrale. Questi giovani, futuri operatori sociali, han- no generalmente sin qui maturato una relativa scarsa conoscenza

53 Wilfred Bion, Learning from experience, Heinemann, London, 1962, Tr. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972; ed. USA, Aronson, New York, 1983.

195 di sé e della propria interiorità. Paradossalmente però si trovano confrontati con esperienze professionali durante le pratiche di sta- ge che mettono in campo la dimensione relazionale triangolare della “parentalizzazione”. Dunque in un periodo della loro vita in cui ancora non ne sono fuori loro medesimi si trovano a dover rappresentare l’Io-ausiliario per l’ospite di cui si occupano, con- dividendo questa funzione con i colleghi, l’équipe, l’Istituzione, e ultimo, ma non da meno, ritrovandosi in una dimensione di terziarietà anche in supervisione dove le tre polarità in tensione costante e costruttiva sono appunto: il candidato, il supervisore e l’ospite, oppure l’équipe, oppure l’Istituzione. La supervisione deve dunque affrontare il tema della terziarietà, che avvicina ineso- rabilmente all’esperienza terapeutica: il supervisore diviene infatti attrattore pulsionale nei confronti del candidato e questa è una condizione delicatissima seppur necessaria. Il campo di lavoro nel quale la coppia supervisore-supervisio- nando si incontrano è strettamente connesso al linguaggio dei sentimenti, della realtà e della teoria. Il supervisore deve dunque possedere una sua capacità non ostruttiva. Di nuovo emerge una delle caratteristiche principali della supervisione formativa che è quella di oscillare da una pratica che molto si avvicina alla psicote- rapia per quanto attiene alla capacità del supervisore di accogliere, contenere e restituire, a una pratica che comunque si astiene rigo- rosamente dall’interpretazione e dall’analisi privilegiando la sintesi in un movimento di continuo ripiegamento sul caso e sul qui e ora dell’incontro di supervisione formativa. Questa osservazione ci permette di evidenziare la quinta qualità del supervisore, ossia la sua capacità di avere e di mantenere un’at- tenzione fluttuante. Tenendo conto di quanto scritto sopra vien da chiedersi a cosa mai debba prestare la sua attenzione fluttuante il supervisore di un giovanissimo candidato, nel bel mezzo della tempesta emoti- va scoppiata al loro incontro. Va allora ricordato come la “nudità dell’anima” si mostra sempre attraverso i sintomi. Ciò significa che per forza di cose il supervisore deve permettere al supervisionando di mettere in scena un retroscena di cui non si può non prende- re atto. Naturalmente il supervisore deve poter contare su di un solido modello di riferimento (fatto non solo di teoria ma pure

196 di pratica su di sé), tanto solido da poterlo “dimenticare”, pro- prio come quando si è automobilisti esperti e ci si permette di chiacchierare, pensare ad altro, ascoltare i Vesperali di Mozart ecc. giungendo comunque a destinazione senza incidenti. Non solo, il supervisore deve conoscere con chiarezza i propri limiti, non scor- darsi insomma che i piloti di formula uno hanno una preparazione che differisce enormemente da quella dell’automobilista comune. Dunque quando il sintomo si mostra in tutta la sua evidenza di sintomo clinico54 il supervisore “sufficientemente buono”, para- frasando Donald Winnicott55, è colui che con autorevolezza of- fre al candidato, se questo è disposto a coglierli, gli strumenti per comprendere e di conseguenza agire, decidendo di intraprendere un lavoro su di sé. A tale proposito, per rispetto e riservatezza, mi astengo volutamente dal riportare in questo breve scritto elementi che avvalorano il percorso che in tale direzione D. ha praticato nel corso dei nostri primi quindici incontri di supervisione formativa. Da quanto scritto si desume che le supervisioni formative nell’ambito della SUPSI e del Dipartimento di Lavoro sociale, possono sortire tre diversi effetti: • Non succede nulla; • Le difese del supervisionando, ossia i suoi stili di azione, ven- gono messi in crisi e si modificano passando da un parziale crollo o dalla loro completa caduta; • Le difese del candidato aumentano evidenziando una rigidità del suo pattern di azione. La supervisione formativa deve dunque aiutare il candidato a costruire delle diverse possibilità di comprensione e di azione, si tratta di un lavoro di sintesi sia sul piano affettivo che su quello cognitivo. Gli incontri di supervisione formativa sin qui affrontati ci han- no permesso di sfiorare le seguenti esperienze: • un livello di mentalizzazione grazie al quale la supervisione formativa ha permesso di controbilanciare le spinte pulsionali, nel senso che a volte si può porre quale anestetico, altre volte quale

54 Sigmund Freud, Tecnica della Psicoanalisi, 1912, Vol. VI, Boringhieri, Torino, 1975

55 Donald Winnicott, Gioco e realtà, 1971, Armando, Roma, 1974

197 eccitante, a seconda della situazione; • la supervisione formativa non è rimasta cieca ma ha teso a incoraggiare la capacità di D. nello stabilire dei legami, delle con- nessioni che abbiano il valore della comprensione. A tale proposito ricordiamo la lezione bioniana56 secondo la quale il terrore rima- ne tale sin quando è senza nome, innominabile e innominato. La nominazione dà inizio ad un processo di contenimento indispen- sabile alla crescita conoscitiva. In una parola il supervisore deve essere il garante dell’area della parlabilità, ossia della capacità di nominare. La supervisione formativa risistema dunque nell’ordine della sintesi e non dell’analisi; • la supervisione formativa ha permesso di iniziare a sfiorare un livello di riorganizzazione dello spazio mentale delle pulsioni lungo l’asse adulto-bambino, passivo-attivo ecc.; in una parola ha permesso un legame equilibrato fra un Io collaborativo ed un Su- per-Io non persecutorio; • la supervisione formativa ci ha dato la possibilità di cogliere la qualità della presenza di D. nello spazio della quotidianità. Tale qualità è data dalla capacità di ascolto della domanda dell’ospite e dalla altrettanta capacità di de-costruzione di tale domanda tanto da poterla narrare al supervisore sotto forma della inevitabile men- zogna, quale distorsione di ciò che per natura è già distorto. Vorremmo suggellare questa riflessione con un pensiero di Fa- brizia Ramondino: “La capacità di viaggiare è inversamente proporzionale alla quan- tità di bagaglio; se il bagaglio mentale, una valigia stipata di luoghi comuni, ha la stessa mole e quantità di quello materiale, è come se non si viaggiasse affatto. Impermeabili, calze di nylon, gambaletti, scarpe da trekking, ... Tutto questo ha il suo corrispondente nel bagaglio mentale. È bene invece portare un talismano, consacrato da noi stessi se non ci con- vincono le consacrazioni altrui. Affinché, proprio mentre siamo più disponibili a uscire da noi stessi, come dovrebbe accadere in viaggio, esso ci avvicini, non affettuosamente come un pupazzo di peluche, ma fatalmente al noi stesso più irriducibile e segreto, quello che ci consente

56 Wilfred Bion, 1966, Catastrophic change, “Bull. Br. Psycho-Anal. Soc.”, 5, Tr. it. Il cambiamento catastrofico, inIl cambiamento catastrofico. La Griglia. Caesura. Seminari brasiliani. Intervista, Loescher, Torino, 1981

198 di dire “io” anche se è “un altro” - non specchio ma cornice vuota, non limpida superficie d’acqua ma pozzo senza fondo dove non arriva a rispecchiarsi nemmeno la luna, non seme celato dalla polpa del frutto, ma fiore del desiderio o soffione, prima però di soffiarci sopra e verifi- care, a seconda che tutte le infiorescenze siano volate via o qualcuna ne sia rimasta, se il desiderio espresso celatamente potrà realizzarsi. ... E non potrebbe proprio essere il soffione un emblema di tutto il nostro bagaglio di viaggiatori? Ché, quando in un soffio sia esso del caso o di un ladro, siamo stati spogliati del nostro bagaglio, essi ci hanno aiutati a realizzare il più segreto dei desideri: essere sempre più spogli, perché solo a questa condizione potremo rivestirci di nuovo. Un desiderio così segreto a noi stessi, così ineffabile, che mai riusciremo a formularlo.” 57 Questi non sono che brevi spunti di riflessione riguardanti due esperienze di supervisione formativa condotte da me e condivise con Pandora prima e Dafne poi. Pandora e Dafne che ringrazio con gratitudine per ciò che nel corso dei nostri incontri mi hanno incoraggiata a scoprire, perdere e diversamente ritrovare. Oggi che ci accingiamo a pubblicare queste esperienze, Dafne ha terminato la formazione e si è dedicata alla sua vita privata, coronando un grande sogno: divenire mamma e occuparsi piena- mente della sua piccola creatura, demandando a anni futuri l’inse- rimento nel mondo del lavoro. La formazione professionale dentro la quale si inserisce anche il percorso di supervisione formativa, e il percorso di psicoterapia intrapreso, hanno comunque permesso a Dafne di immaginare che la sua futura scelta professionale sarà in un ambito vicino al mondo del sociale, ma non a diretto contatto con gli ospiti degli Istituti di aiuto e di cura. Pandora ha terminato la formazione, si è cimentata con la pro- fessione di operatore sociale sin quando la convinzione riguardante la sua scelta professionale ha iniziato a vacillare. Ha dunque deciso di impegnarsi in una professione vicina al mondo dell’aiuto so- ciale, ma non a diretto contatto con gli ospiti. Ha intrapreso un percorso personale di psicoterapia psicoanalitica, impegno che ha maturato, scelto, chiesto, e ottenuto al prezzo di un non indiffe- rente carico di angoscia, complici le brecce che pian piano si sono insinuate lungo il muro di cinta della fortezza nella quale si era

57 Fabrizia Ramondino, In viaggio, Einaudi, Torino, 1995

199 barricata. Dunque un briciolo di speranza è rimasto miracolosa- mente integro, sul fondo del suo vaso.

… ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità del- la spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cer- cavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un’altra persona. David Grossman

200 201 202 Portfolio

203 204 Le immagini scattate nel corso delle attività svolte al Museo Vin- cenzo Vela di Ligornetto, al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona, al Teatro Sociale di Argono, ai Musei Lombroso e di Anatomia di Torino, alle grotte della Valle Imagna, rappresentano scampoli di emozioni, pensieri, e vibrazioni che hanno contraddistinto il lavo- ro svolto sia dagli studenti che da noi stessi. Quando si selezionano le immagini ci si chiede sempre perché tra le tante, tantissime, che abbiamo catalogato, proprio queste hanno avuto il merito di essere presentate per accompagnare il testo. Non sappiamo se queste siano le fotografie migliori, ma sono quel- le capaci, nello sfogliarle, di richiamare la nostra attenzione e con- quistarsi uno spazio. Seguendo la lezione di Roland Barthes potremmo anche affer- mare di aver scelto queste fotografie, poiché esse hanno esercitato una fascinosa seduzione su di noi. Una fascinazione ovviamente soggettiva grazie ad un particolare che ci ha catturati, il punctum dell’immagine, testimone della nostra storia, in questo caso intes- suta fra identità personale e identità professionale. Questa scelta corrisponde inoltre a un nostro comune sentire, quello che Barthes definisce lostudium di un’immagine. Ci auguriamo che questa no- stra fascinazione offra anche al lettore la possibilità, oltre che di scegliere o essere scelto dal suo proprio punctum, di riconoscersi in uno sguardo condivisibile, lo studium, una sorta di inconscio col- lettivo che testimonia dei particolari dell’immagine che uniscono gli sguardi in una comprensione emotivo-cognitiva, rendendoci coralmente partecipi della situazione evocata dall’immagine. Lo scatto fotografico, una volta eseguito non appartiene più al fotografo, prende una sua strada, corta o lunga che sia, e sono gli occhi di chi lo guarda a risvegliarlo, a partire dal catalogo dei propri ricordi. Così per le immagini scelte: che siano prese dal lettore come quei frammenti dell’esperienza che sono stati capaci di sedurre ancora lo sguardo di chi, quell’esperienza, l’ha vissuta.

205 La nostra studentessa incontra la Contessa Maria Isimbardi d’Adda nei suoi ultimi e estremi momenti di vita (1851/1853). La giovane Contessa, nel quieto e doloroso raccoglimento della sua stanza pare intessere un silenzioso, intenso e lieve colloquio con sé stessa e con la trascendenza. Accanto a lei la studentessa, colta da un richia- mo empatico nei confronti di questa donna e dal fascino sacro che questo incontro emana, pare ascoltare il non detto, cogliere le rimembranze, i saluti e l’estremo di- stacco che la Contessa irradia nel suo composto silenzio. Lei, la giovane studentessa si “annida” a terra, in una sorta di rispettoso gesto di condivisione discreta e pur tuttavia intensa e commovente.

206 Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2013

207 Queste donne, L’Italia riconoscente alla Francia, 1861-1862, La libertà, monu- mento funerario a Giacomo e Filippo Ciani, 1869-1872 e La Dea della Scienza, Minerva, 1858, sembrano richiamare l’eco di un profondo bisogno dell’umanità. Ci riferiamo al bisogno di solidarietà, di pensosità, di riconoscenza, di gratitudine e di decisionalità che possano indicare la via da seguire nella quotidianità, una via che si snoda fra le pieghe formatesi nell’incontro fra luce e ombra. Di queste pieghe paiono occuparsi con impegno e trasporto le nostre studentesse, anch’esse prese dal bisogno di essere l’un l’altra solidali nei fatti e nei pensieri che quell’atmosfera emana. Ognuna accanto ad una statua, ma tutte raccolte in quella stanza.

208 Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2013

209 “Le tue mani Cristo al limite dell’universo / Perché i confini dell’universo / sono il tuo amore / che genera eternità / in ogni direzione / Sei tu col tuo sguardo / a dilatare la beatitudine e la materia” (Arnoldo Mosca Mondadori).

Il Cristo-uomo sembra dirti in questa immagine: vieni! Sembra invitarti a porgergli la tua mano in quelle sue mani di dolore a dargli il tuo sguardo in quel suo sguardo di accoglienza, perché incontro sia.

210 Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012

211 La preghiera del mattino di Vincenzo Vela 1846: la testa china, non abbassata, come per raccogliere un pensiero, come per formulare un’immagine interna pri- ma che il giorno cominci. Il giovane e la statua dialogano nella postura, lei con il quaderno già poggiato sul ventre, lui con i fogli tra le mani ancora ad occupare gli occhi, prima che le braccia, pure loro, si abbassino per lasciare spazio all’infinito.

212 Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012

213 Le anime, dopo essere fuggite dai corpi, sembrano nascondersi nell’immobilità delle statue. È come se, prima di ritrovare la parola, tutto già avvenisse nell’attesa paziente e tranquilla, nell’ascolto del silenzio.

“Ma a volte, il silenzio cambia il gioco e forma una parola nell’abisso. Allora la parola diventa un altro gioco in noi” (Roberto Juarroz).

214 Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012

215 Come le statue immobili del Vela, così nella fotografia anche le persone presenti diventato loro malgrado e a loro modo statue: fermate come loro in un gesto, in un atteggiamento, in una posa. È come se la fotografia ponesse un parallelismo tra chi è vivo e si muove nello spazio e chi, le statue appunto, sono ferme nella posa scelta dallo scultore. Fermi nel tempo nel teatro di Vincenzo Vela, in dialogo silenzioso e perenne con i suoi protagonisti esposti allo sguardo del visitatore.

216 Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012

217 Come abbandonati al crepuscolo del mattino, ancora con una parte di sé nella not- te e nel cuore l’attesa per l’alba, si fa partecipe il corpo, lo si muove e lo si colloca in uno spazio che è spazio condiviso; ci si abbandona per un attimo lasciandolo pesante, al suolo, estremamente denso prima del levarsi, che cambia la propria posizione e con essa la prospettiva e la visuale aprendo orizzonti nuovi e muovendo lo sguardo verso altrovi sconosciuti. È il tempo dell’attesa dove dal tempo lunare della notte si passa a quello solare del giorno, un tempo fragile come fragili sono le terre e i tempi di mezzo. Interstizi del vivere aperti al mistero.

218 Al Castello Sasso Corbaro, fra notte e aurora identitaria, inverno 2012

219 Abitare l’aria, nella danza, di fronte alla vertigine dell’estasi … abitare la terra in quell’abbraccio che sembra proteggere dalla vita stessa. Due polarità dell’esistenza di cui la tragedia greca (“Le Baccanti” di Euripide) qui rappresentata parla. Imma- gini di corpi, acrobati della vita, sospesi gli uni nella frenesia del movimento e gli altri nell’immobilità del dolore sempre a rischio tra l’altrove e l’abisso del dolore, corpi che dimorano pienamente nel tragico dell’esistenza.

220 Al Teatro Sociale, fra passione e follia, la messa in scena delle Baccanti di Euripide, primavera 2014

221 Il dolore di Medea, la tragedia della sua lacerazione fra amore materno e ferita narcisistica non possono che evocare tutte le Medee e i Medei dei nostri giorni, feriti, traditi, abbandonati, disperati, persi nella follia di una vita che li ha travolti e uccisi nell’animo. Tutto ciò pare essersi incarnato nei corpi e nelle espressioni delle nostre studentesse. Da esse emana una sorta di gesto estremo, di forza inter- pretativa che è segno della loro capacità di cogliere, patire e interpretare l’intensità della sofferenza. Al contempo l’immagine non permette equivoci, ma evidenzia il contesto entro il quale questa interpretazione patica avviene. Sia l’operatore sociale che l’attore, si avvicinano all’Altro, ospite o personaggio che sia, tanto da sentire il fuoco del suo patimento, lo strazio della sua vicenda esistenziale. Poi entrambi, operatore sociale e attore, lasciano per così dire la scena e tornano a vestire i panni della loro quotidiana esistenza. In questo continuo va e vieni fra giusta vicinanza e giusta distanza, sta il cuore della buona interpretazione per l’attore e della corretta accoglienza e cura per l’operatore sociale. Non solo, in questo oscillare fra giusta vicinanza e giusta distanza è racchiusa anche la cura di sé, l’attenzione alla propria identità personale e professionale, sia per l’attore che per l’operatore sociale.

222 Al Teatro Sociale, fra passione e follia, la messa in scena della Medea di Euripide, primavera 2014

223 Il cadavere di cera parla di quel Körper che diventa oggetto e non è più Leib, corpo vissuto che palpita nella vita, spera, soffre, gioisce e freme, che incontra e intenziona il suo muoversi nel mondo. Ma quei tratti, quegli occhi, la scelta di una pettinatura raffinata, la pelle liscia che sembra morbida, quei tratti che stridono con l’apertura delle interiora, con l’esposizione impietosa delle viscere ci ricordano la persona che abita il corpo; ci ammonisce, nella percezione di questo stridore, che la cura del corpo è cura alla persona e ammonisce chi si accinge a prendersi cura della corporeità a non dimenticare gli sguardi, le emozioni, le angosce e le paure della persona di cui ci si occupa. E davanti a questa moderna venere che impudica ci svela le sue interiora organiche, ci si ferma attoniti, silenziosi, rispettosi, come se quella cera, cera non fosse; ci si dispone a semicerchio, come a creare un collettivo contenitore ideale a quelle emozioni che fluiscono forti dalla giovane rappresentata.

224 Al Museo di Anatomia, gli sguardi sull’umano e le sue metamorfosi, primavera 2014

225 “Se non veniamo a patti con i morti, scrive Sonu Shamdasani in un dialogo con James Hillman sul Libro rosso di Jung, semplicemente non possiamo vivere. ... la nostra vita dipende dalle risposte che diamo alle loro domande rimaste senza risposta”. L’immagine della ragazza che dialoga con i teschi, che la guardano come se fossero in attesa di una sua parola, sembra cogliere l’attimo di quel loro segreto e intimo dialogo che è quasi irriverente disturbare. Delicato e quasi sospeso nel tempo quel loro guardarsi, quel loro parlarsi senza parole, sommessamente, quasi potessero fermarlo.

226 Al Museo Lombroso, gli sguardi sull’umano e le sue metamorfosi, primavera 2014

227 Ha ragione Bachelard che il dimorare nella grotta permette l’inizio di una medi- tazione terrestre, così è avvenuto sotto l’antro del Buco del Corno, dopo le esplo- razioni sotterranee. Qui abbiamo condiviso emozioni e pensieri, testi e citazioni, ciascuno con il proprio libro di riferimento, che fosse romanzo, raccolta di raccon- ti, che si trattasse di un saggio o di poesie. Ogni pensiero e ogni commento è stato depositato in questo utero tellurico facendolo partecipare così alla vita della terra.

228 Alla Caverna Buco del Corno, fra sottosuolo, origine e cesura, primavera 2014

229 Ogni atto creativo necessita della fatica del corpo e della mente, una fatica tutta intessuta di una solitudine, non terrificante e alienante, ma accompagnata; una solitudine che si vive e si percepisce grazie all’accoglienza, in questo caso della terra madre. Nel caso della nascita di un bambino la si percepisce dal corpo materno, che lo ha accolto e nutrito sino a quel momento e che continuerà a sostenerlo nel corso della vita. Il sentire diviene finalmente percezione ed emozione, dentro quella di- mensione di fatica che dal mondo di dentro ci accompagna sino al mondo di fuori. Come Bion insegna, è la cesura che richiede maggior attenzione e cura, evocata dal cunicolo che ci porta dal dentro al fuori.

230 Alla Grotta Europa, fra sottosuolo, origine e cesura, primavera 2013

231 Nella notte, proprio prima del grande buio, quando le pareti della grotta si rendo- no accoglienti al fuggitivo gioco delle ombre, quando la battaglia tra luce e oscurità si fa più intensa, s’odono parole come fossero voci giunte dal profondo. Le stesse ombre sembrano per un attimo fermarsi ad ascoltare e si aprono davanti a quell’ul- tima luce.

232 Alla Caverna Buco del Corno, fra sottosuolo, origine e cesura, primavera 2013

233 234 4. Mappe di esplorazione

235 236 4. Mappe di esplorazione

La definizione di esplorazione è

esplorazione 1 l’esplorare; viaggio, spedizione intrapresa allo sco- po di esplorare: andare in esplorazione; esplorazioni geografiche, spaziali 2 ricognizione volta ad accertare consistenza e dislocazione delle forze nemiche: esplorazione tattica, strategica 3 esame a scopo diagnostico di una parte del corpo di un ammalato, o di un organo interno, di una lesione ecc.: esplorazione della regione addominale; esplorazione di una ferita.

237 4.1 “La Nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”58 Esplorazioni ed esperienze attorno alla “ragione sensibile” Graziano Martignoni

La vie n’est pas un problème à résoudre mais une réalité à expérimenter Guillaume d’Orange Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone da caso a caso, ma alla paura per un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo della sua propria esistenza. R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta Si può ritenere che la meraviglia della vita sia sempre a disposizione di ognuno in tutta la sua pienezza, anche se essa rimane nascosta, profonda, invisibile, decisamente lontana. Tuttavia c’è, e non è né ostile né ribelle. Se la si chiama con la parola giusta, con il suo giusto nome, essa arriva. Questa è l’essenza dell’incantesimo, che non crea, bensì chiama. F. Kafka, Diari, 1921

58 G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1968, 17.

238 4.1.1. Cari “esploratori di terra e naviganti di mare” mirando il volo notturno della hegeliana “nottola di Minerva” ci accorgiamo, che la conoscenza dell’uomo e del suo “mondo-del- la-vita” (quello che traduciamo riduttivamente con la parola “so- ciale”) non si esaurisce nella misurazione, nella pesatura o nella classificazione del visibile, ma spinge oltre la linea di orizzonte, nel richiamo dell’Altrove, come per l’Ulisse dantesco alle porte delle colonne d’Ercole. Guida di questo viaggio è il nostro “cuore”, la forza delle nostre emozioni, l’ardore del nostro desiderio e delle nostre passioni. Il “cuore” dunque, ciò che pulsa, respira, palpita di desiderio. Senza questo “organo” la nostra anima si ammala e si immiserisce. Nel pensiero fisiologico antico è insiemekardia, organo centrale del corpo, stethos, petto e thymos, ardore. Aristotele parla di pneuma come soffio, per dire la forza vitale. Nel cuore abi- ta la conoscenza sensibile, l’immaginazione. Educhiamoci allora alle pulsazioni del cuore e apriamo le porte dell’invisibile, che ci abita e che abita il mondo.

È sullo sfondo di questi pensieri che si è pensato di accompa- gnare l’abituale itinerario studiorum che avviene all’interno dell’au- la con sei “stazioni” extra moenia, presentate in queste mappe di esplorazione. “Stazioni”, esplorazioni trasversali ai diversi Moduli soprattutto del primo anno di studio e centrati sull’asse del trian- golo identità-alterità-alienità, tese a sollecitare appunto l’esperien- za e il pensiero sensibile del “cuore”, che diviene così strumento di conoscenza, oltre che indice per l’operatore sociale della qualità della sua presenza all’Altro e al mondo. Il quadro è allora quello di una sorta di “pedagogia fenomenologico-esistenziale”, che con- verge, a mio modo di vedere, fluidamente nell’“anima” del profilo identitario intellettuale e professionale, che andiamo costruendo. L’operatore sociale sarà così attore non solo di inter-disciplinarietà, ma di una vera e propria trans-disciplinarietà, generatrice di nuovi oggetti di studio, di nuove realtà e di nuove possibilità di trasfor- mazione.

239 4.1.2 Il pensiero complesso “L’intelligence - scrive Morin nel suo La Methode 359 - est Une/ Plurielle. C’est une metis (Détienne, Vernant), mêlant en elle des qualités très diverses, dont certaines semblent répulsives l’une à l’autre, mais dont l’association lui est indispensable. Elle est ouverte et polymorphe, constructive et destructive (critique), combinatoi- re (articulant ensemble les qualités intelligentes) et éventuellement rotative (sachant faire se succéder ces qualités selon les événements et les modifications de situation). L’art de l’intelligence, c’est aussi de savoir choisir intelligemment les moyens intelligents propres à traiter spécifiquement une situation donnée”.

È sulla scia di questo necessario “cambiamento di scena” e di “punto di vista” (“per conoscere il proprio punto di vista bisogna forzatamente cambiare punto di vista”), che, trasversalmente ai diversi Moduli d’insegnamento dell’itinerario psico-antropologi- co, descritto nel dossier di presentazione “Mappe di navigazione 2013-14”, si è scelto di sostare lungo il percorso in alcuni luoghi significativi a forte evocazione immaginativa, per farvi opera di esperienza vissuta in prima persona e di scrittura nel quadro di quel paradigma narrativo e fenomenologico-esistenziale, che orienta i nostri insegnamenti. Luoghi che evocano l’attesa, l’immobilità, la perdita, la partenza, la nostalgia, la lontananza e la paura. Sembra- no a prima vista luoghi muti, testimoni di chi non c’è più, di chi è già partito, di chi ha lasciato solo qualche vaga traccia.

4.1.3 Le mappe, i luoghi della “ragione sensibile” Il Museo ove interrogare e farsi interrogare dalle statue per farle ri- vivere di nuovo nella scrittura, ove confrontarsi con il tema del Volto che rivela e della maschera, che copre senza smettere di raccontare ciò che è invisibile, il Cimitero come luogo monumento/documento delle infinite storie che fondano la memoria collettiva, ilCastello per attendere che la notte cada e torni il giorno, metafora della caduta/ ricaduta, dell’inciampo e della risalita, con cui tante volte l’operare sociale deve confrontarsi e poi la Grotta per vivere l’esperienza dell’o- scurità, dello stretto pertugio in cui la paura dell’essere inghiottiti si

59 E. Morin, Il Metodo, vol. 3, Feltrinelli, Milano, 1989.

240 alterna con la gioia della rinascita e infine la scena teatrale, il palco- scenico con la messa in scena di frammenti della tragedia greca. Luoghi dunque ed esperienze che mettono in gioco quella che ancora Edgard Morin chiama, parlando del paradigma della com- plessità, la “double pensée”, Logos e Pathos, le due ali dell’angelo della conoscenza che prepara l’azione. Da una parte ciò che appartiene all’ordine del calcolo, della misura del concetto che separa e distin- gue, la “raison raisonnante” e dall’altra ciò che appartiene ai senti- menti, alla ragione sensibile (Michel Maffesoli)60, alla ragione melo- dica (Maria Zambrano)61, a quel movimento dell’anima che unisce, che trova corrispondenze. Scrive Maffesoli, “rompant avec l’idéal de raison abstraite héritée du siècle des Lumières, par la proximité que devrait avoir l’observateur avec les événements décrits: c’est juste- ment la Raison sensible. L’Eloge de la Raison sensible est un vérit- able déchiffrement du monde contemporain qui, aux raisons de la Raison raisonnante, oppose les intuitions et les fulgurances de la Raison sensible. Une manière d’approcher le réel dans sa complexité fluide, de dresser une topographie de l’aléa et de l’incertain, de suivre les lignes de fusion et d’effervescence du social, et de percevoir la rumeur assourdie des redistributions de la vie collective”. A queste variazioni della Ragione, a queste diverse razionalità ag- giungerei nel percorso, che queste “stazioni” extra moenia, offrono quella immaginativa descritta da James Hillman62.

Credo che l’epistemologia fluttuante e meticcia dell’operatore so- ciale necessiti in lui la costante attenzione a quell’oscillare tra pen- siero diurno e notturno, tra progetto e opera, tra le diverse forme della ragione in una sorta di “prova d’orchestra”, in grado di cogliere nell’individuo come nel collettivo la loro più autentica melodia. Questo in sintesi lo sfondo epistemologico di queste esperienze fuori campo, che insieme al lavoro modulare in aula costruiscono per noi un vero e proprio dispositivo formativo63.

60 M. Maffesoli, Eloge de la raison sensible, Grasset, Paris, 1996.

61 M. Zambrano, Note di un metodo, Filema, Napoli, 2003. Cfr. su questo tema L. Mortari, Un metodo a-metodico, Liguori editore, Napoli, 2006. 62 J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 2009. 63 Sul concetto di dispositivo cfr. G. Agamben, Che cosa è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006.

241 4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto 4.2.1 Il volto e la maschera64 Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli

Programma 8.30 appuntamento al Museo 8.45 inizio della lezione, introduzione del Prof. Martignoni 9.15 - 10.30 incontro con la statua 10.30 - 11.00 presentazione da parte degli studenti 11.00 - 12.00 noterelle teoriche dei docenti 12.00 sintesi finale rof.P Martignoni 12.30 Fine della lezione

64 Questa esplorazione appartiene al Modulo “Individuo e Identità per- sonale”, che si svolge nel corso del primo semestre. L’esplorazione si sviluppa anche grazie alla collaborazione della Dr. Phil. Ornella Manzocchi e della colla- boratrice scientifica dell’Osservatorio per leMedical Humanities SUPSI, Guenda Bernegger.

242 4.2.2 Pedagogia del volto Un’esperienza propedeutica di educazione alla comprensione presso il Museo Vela Claudio Mustacchi

Va bene. Ho capito. Anch’io so tacere. Ecco. Taccio. Una roccia. Una sfinge. Nemmeno tu a proposito hai un gran bell’aspetto negli ultimi tempi; io, però, sto perdendo completamente la ragione, questo si, non è difficile da vedere. David Grossman, Caduto fuori dal tempo

Nel suo testo pubblicato nell’ormai lontano 1999 sotto l’egida della Nazioni Unite, il sociologo e filosofo Edgard Morin annove- rava fra i sette saperi necessari all’educazione del futuro la “com- prensione”65. Concordiamo con Morin che insegnare la compren- sione è cosa ben diversa dall’insegnare la comunicazione: nessuna tecnica di comunicazione apporta comprensione. La comprensio- ne comporta una conoscenza da soggetto a soggetto, che non è im- plicita nella semplice vicinanza all’oggetto: “Se vedo un bambino in lacrime, mi accingo a comprenderlo, non misurando il grado di salinità delle sue lacrime, ma ritrovando in me i miei sconforti infantili”66. L’invito pedagogico lanciato al mondo da Morin, è da sempre al cuore delle nostre preoccupazioni d’insegnanti delle professioni sociali. Un impegno che affrontiamo con umiltà, asintoticamente, senza illuderci di giungere a una soluzione ultima e compiuta. Ci accompagna nell’esperienza proposta agli studenti la condi- visione di saperi fenomenologici e psicodinamici che convergono nel fenomeno esistenziale e psichico del volto, unità gestaltica an- tropologica che abbiamo eletto a tema portante della giornata. Volto, inteso come manifestazione dell’esistenza altrui, irriduci- bile e, per certi versi, mai pienamente comprensibile. Scrive Sartre:

65 E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cor- tina, Milano, 2001, 97 e ss.

66 E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, 99.

243 “In primo luogo, l’apparizione di un altro nella mia esperienza si manifesta con la presenza di forme organizzate quali la mimica e l’espressione, gli atti ed i comportamenti. Queste forme organizza- te rimandano ad una unità organizzatrice situata, per principio, al di fuori della nostra esperienza”67. Esperienza oggettiva, concreta, quotidiana, ma che attraverso lo sguardo dell’altro su di me mi rivela che “altro è per principio ciò che non può essere oggetto”68. Fra me e l’altro esiste una distanza di natura particolare che parla del nostro essere nel mondo. Continua Sartre: “Altro mi guarda non in quanto sta ‘in mezzo’ al mio mondo, ma in quanto viene verso il mio mondo e verso di me con tutta la sua trascendenza”69. In quanto volto, in quanto sguardo, l’altro non si presenta come oggetto, “L’obiettivazione d’altri, come vedremo, è una difesa del mio essere che mi libera proprio dal mio essere per altri”70. Passi che sono entrati nella storia delle scienze umane e sociali, con con- seguenze rivoluzionare nelle pratiche dell’educazione e della cura. La distanza infinta fra me e ’altrol raccontata da Sartre è fon- te di profonde riflessioni etiche in Levinas, “Il volto si sottrae al possesso, al mio potere [...] mi invita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche di godi- mento o conoscenza”71. Dalla sua realtà, una realtà che “fa a pezzi il sensibile” scaturisce l’imperativo “non uccidere”, è il volto ciò che veramente viene ucciso. “Uccidere non è dominare, ma annientare rinunziare assolutamente alla comprensione. L’omicidio esercita un potere su ciò che sfugge al potere [...] Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza - la resistenza etica”72. Il volto ci parla anche del nostro desiderio di essere riconosciuti, del nostro desiderio di essere oggetti di uno sguardo, del nostro de- siderio di esistere nel desiderio altrui, che è costitutivo della nostra 67 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, Il Sag- giatore, Milano, 1984, 290.

68 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, 340.

69 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, 341.

70 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, 339.

71 E. Levinas, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1977, 203. 72 E. Levinas, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, 204.

244 personalità. Sono i temi sviluppati dalla psicanalisi, e con partico- lare approfondimento da Lacan. Il volto della madre, e più in generale lo sguardo del genitore, è oggetto di intenso investimento amoroso da parte del bambino, amore che ritorna su di sé consentendo l’unificazione delle sensa- zioni che da origine all’Io e che da luogo al narcisismo primario indagato da Freud nel suo saggio Introduzione al Narcisismo, del 1914. Il bambino immagina l’immagine che la madre ha di fronte - cioè se stesso - e ottiene così una forma totale “grazie a cui pre- corre come in un miraggio la maturazione della propria potenza”73, forma immaginaria che darà forza strutturante all’Io, da cui si svi- lupperà l’identità personale. Famosa è la rilettura che Lacan fa, a questo proposito, dello studio condotto da Wallon74 sul bambino di fronte alla propria immagine allo specchio. Il volto mostra la sua persistenza e appare nelle forme antropo- morfe e totemiche. È il fenomeno che da luogo alla maschera, al travestimento rituale, alla scultura e in fondo a tutta l’arte visiva, anche a quella dove sembra non apparire nessun volto, ma dove il volto è sempre cercato. È questo un aspetto del volto che certamen- te s’intreccia con gli altri, più sopra accennati, ma che amplia lo sguardo coinvolgendo il legame che unisce fra loro gli essere umani e li costituisce in società. “È un fatto che presso tutta l’umanità si porti o si sia portata la maschera. Questo accessorio enigmatico e privo di uno scopo utile è più diffuso della leva, dell’arpione, dell’arco, dell’aratro [...]. Non vi è utensile, invenzione, credenza, costume o istituzione in grado di unire l’umanità, o almeno di ren- dere così manifesta e compiuta tale unità”75. Questo, forse, perché il volto rituale conserva l’eco delle generazioni che ci hanno prece- dute, evoca la domanda del nostro ruolo nel mondo e nell’infinita catena del tempo, ci consegna all’enigma del reale e del sacro. Sguardo, maschera, oggetto di etica, di desiderio, di rito, d’arte: la fenomenologia del volto consente di avvicinare gli elementi pro-

73 J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, 89.

74 H. Wallon, L’origine del carattere nel bambino, Editori Riuniti, Roma, 1974, 210 e ss.

75 R. Callois, L’occhio di Medusa: L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina, Milano, 1998, 108.

245 fondi implicati nella comprensione dell’altro e di sé, in un cammi- no propedeutico per le posture delle professioni che formiamo. La giornata presso il Museo Vela vuole essere un’occasione didattica e educativa in tale direzione.

4.2.3 Guardare in volto Graziano Martignoni

Prima parte: “Il Volto e il mistero” “Guardare in volto” vuole dire affacciarsi all’infinito. In un Vol- to posso naufragare come nell’esperienza degli innamorati, per- dermi, smarrendo la mia identità; da esso posso essere incantato o terribilmente impaurito, attraverso di lui posso però anche trovare la via che mi conduce fuori da me stesso, verso il senso della mia esistenza. Difficile dire che cosa sia veramente un Volto. Esso è nello stesso tempo sguardo, “occhi che vedono e sono visti” nella luminosità, in cui l’incontro con l’Altro possa prodursi, e parola con le sua incapacità di dire pienamente ciò che vuole esprimere. In esso qualcosa ci sembra dato, definito, confermato eppure qual- cosa ci rinvia sempre ad altro, alla sua incompletezza. Possiamo guardare il Volto alle persone più care e conosciute, troppo spesso con il tempo ridotte a visi, che si ripetono sullo sfondo del quoti- diano fattosi banale, e trovare sempre qualcosa che ci era sfuggito, che ci viene incontro per la prima volta, che ci parla per la prima volta. Il Volto dell’Altro è la misura delle infinite possibilità con cui una umanità può essere donata. Viviamo in un epoca in cui tutti si guardano, un cui il viso degli uomini ci appare in ogni attimo della nostra giornata così da cancellare in una luminosità spesso accecante ogni penombra, così da fare del nascosto un impossibile piacere o un pericolo. Eppure sempre più abbiamo la percezione, nel commercio idolatrico dei visi reali, pubblicitari o televisivi, che qualcosa ci stia sfuggendo, spingendoci nella banalità e nella indif- ferenza. Ciò che ci è negato, ciò che è sempre più difficile guardare è infatti il Volto dell’uomo. Scrive Antonin Artaud “da mille e mille anni infatti/ da che il volto umano parla / e respira/ si ha ancora come l’impressione /che non abbia ancora cominciato / a dire ciò che è e ciò che fa…”. Il Volto ci apre all’identità di chi si fa

246 incontro e nello stesso tempo nasconde, cela un mistero irraggiun- gibile al confine tra visibile e invisibile. Il Volto con il suo sorriso parla della felicità, con le sue rughe del tempo che passa, con il suo sguardo del desiderio tra gli uomini, con le sue smorfie del dolore e della sofferenza. Disegna una carta del mondo, come scrive Bru- no Chenu, che è nello stesso tempo una “geografia dell’anima”. Parla a volte del destino degli uomini, delle loro speranze e delle loro delusioni, ci racconta la loro ricchezza interiore ma anche i deserti che li abitano. Dice la verità di ognuno di noi ma anche la nostra menzogna nella collezione di maschere che sa portare. Se il viso ci rivela la nostra presenza materiale nel mondo, il Volto ci chiama. Eppure tra ciò che mostra e ciò che nasconde, ci fa sentire una tensione verso qualcosa che va al di là della nostra percezione immediata. Apre al mistero della trascendenza che abita in ognuno di noi. “Guardare in volto” è come esporsi all’esperienza misteriosa e seducente del mistero che ogni altro uomo contiene; il mistero della singolarità e della irriducibile differenza di ogni uomo. I visi possono essere classificati, numerati, contati dalle scienze umane (dalla sociologia, dalla psicologia, dalla medicina, che ci hanno fatto conoscere la dimensione storica del viso), il Volto mai. Una singolarità, che rinvia immediatamente alla nostra unicità, invi- tandoci ad arredare la nostra interiorità e ad abitare il mondo che ci sta dinnanzi. “Come era bello il mondo - scrive il poeta francese René Char - quando non aveva che la larghezza di un volto”. È dunque ancora possibile, nella foresta invadente e ingombrante dei visi senza ombra, “guardare in volto”?

Seconda parte : “Il Volto e l’ospitalità” Il Volto ci pone dinnanzi al dono della ospitalità. Ma che cosa ospitare dell’uomo in quell’umanissimo “guardarsi in volto” di cui si dovrebbe nutrire la nostra quotidianità? Che cosa ospitare dell’uomo se non la sua lacerante interrogazione. L’uomo di tutti gli esseri che sono nel mondo è l’unico che pone domande sino alle estreme frontiere della vita, sino al crepuscolo della mente. “Egli è l’interrogante originario, che abbraccia col suo domandare non solo l’essere di tutte le cose, ma anche il suo stesso essere, fin nelle radici più profonde”. Ciò di cui è fatta la sua domanda è l’incompiutezza della vita e del tempo. Senza esperienza continua del dolore e del

247 limite, senza la frustrazione dello scarto fra compimento e attesa, verosimilmente l’uomo non si porrebbe domande. La malattia è il sintomo di questo “essere gettato” dell’uomo nella esistenza della vita, come una bottiglia sul bagnasciuga, che attende che qualcuno ne sveli il messaggio che porta con sé. Noi tutti infatti apparte- niamo al mondo, ma non siamo del tutto del mondo. Viviamo una lacerazione, una differenza dal mondo, che chiamiamo a volte sofferenza, altre dolore, altre malattia. È di questo comune destino, che il Volto ci parla. “Fare giustizia dell’Altro - scrive Italo Mancini - significa rapportarci all’intero volume della sua nudità non solo quella del volto o del pudore, ma anche quella di nutrire il corpo, risolvere la questione del freddo e del riposo, del cibo e della casa. Fare giustizia al volto […] significa far passare la misura della acco- glienza nella misura del dono”. Un giorno, ero un giovane medico di un reparto psichiatrico, gli infermieri mi chiamarono perché un giovane malato in presa ad una gravissima agitazione brandiva minaccioso un oggetto acu- minato. Bisognava fare qualcosa subito. L’unica cosa che mi venne spontanea nella mia “innocenza” professionale fu quella di guardalo in faccia e di offrirmi alla sua aggressività con la mia (la sua) paura. Non per consapevolezza ma per chissà quale accadimento dentro di me gli offersi il braccio in segno di vicinanza. Quel gesto inatteso e paradossale modificò ad un tratto il movimento contro il mondo che questo giovane stava vivendo per sentire di esistere e poi per es- serne come sempre scacciato e rinviato alla sua non esistenza. Que- sto piccolo evento personale mi rinvia ad un libro di una infermiera svizzera degli anni ’30, Gertrude Holler-Swing. Il libro si chiama Un cammino verso l’anima dei malati mentali. In esso si racconta che cosa significhi “guardare in volto” ai malati, leggere nel volto il peso del mondo, cogliere la presenza dell’Altro nei dettagli sempli- ci della quotidianità accolti come segni, tracce della sua esistenza, frammenti da cui partire per dare senso alla esistenza stessa, anche quella più disperata. Tante piccole storie, incontri, come quello in cui è raccontato di una malata grave, a cui l’autrice si avvicina senza fare nulla; non c’è nulla da fare a volte, basta solo aprirsi al mistero che l’Altro vive, guardare silenziosamente. Poi senza fare pesare una presenza che sarebbe stata intollerabile per la malata, le dice “posso riassettarti i capelli?”. Una parola del tutto paradossale, inusueta,

248 inabituale di fronte all’agitazione di quella malata, un gesto inatte- so, che parla al Volto e trasforma la presenza “faccia a faccia” in un dono. La malata si abbandona in un pianto e si lascia prendere nelle braccia dell’infermiera. Non è un miracolo, ma solo pratica di un “guardarsi in volto”, che è apertura gratuita all’infinito dell’Altro. Si realizza così un atto di riconoscimento della singolarità del Volto che sottrae alla indifferenza di un viso che avrebbe consegnato la malata solamente ad una malattia? “Guardare in volto” fonda così un’etica della vicinanza all’Altro nella cura, nell’aiuto, ma anche nell’amore, nella vita. Un’etica dell’essere-con. Ma che cosa vuol dire star di fronte al Volto dell’Altro? Come fare della mia sogget- tività, una soggettività accogliente e ospitale, esposta all’incontro in cui l’altro uomo si presenta come esigente, indigente e sempre radicalmente altro da Sé? Come rispondere a questo triplice miste- ro, che parla del senso della vita e della morte per ognuno di noi, che si appartiene e contemporaneamente è esiliato da se stesso, in un continuo flusso di appartenenza e riconoscimento, di testimo- nianza di Sé e presenza all’Alterità, che il Volto di un altro uomo induce. “Stare di fronte” significa allora assumere dentro la nostra responsabilità quella comune “indigenza” fondamentale, che tra- sforma l’“accoglienza nella misura del dono”. Come fare perché il “guardare in volto” come condizione della accoglienza non si fondi, come scrive E. Levinas nel suo libro Dal Sacro al santo, nello spazio indifferente del “caffè”, luogo del futile e della violenza ? “Il caffé è la casa aperta, al livello della strada, luogo della so- cialità facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza neces- sità. Ci si siede senza stanchezza, si beve senza sete. Il caffé non è un luogo, ma un non-luogo, per una non-società, per una società senza solidarietà”. Un non-luogo in cui si è per l’altro non “amici” ma semplici passanti. Contro questi luoghi, contro la pratica in- differente del “caffé” nella vita quotidiana di ognuno di noi, deve vigilare un’etica del Volto. “Guardare in volto” obbliga a trasforma- re in compassione la sin troppo facile commozione di un attimo. Poniamoci un’ultima domanda: perché mai il Volto, di chi ci viene incontro, deve riguardarci? La risposta è semplice. “Il Volto dell’Al- tro è prima di ogni cosa il mio compagno originari, cioè me stesso”.

249 4.2.4 Appunti e accenni sul trattenere e distogliere lo sguardo Lorenzo Pezzoli

Il volto è l’anima del corpo. Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, 1934/37

Preambolo Dinnanzi ai volti delle statue del Vela, al viso fiero del vecchio Garibaldi, al volto corrucciato di Spartaco, ai baffi e alle barbe spioventi di quei profili dagli occhi incavati che trasportano il compagno caduto sul lavoro, emergenti dal memoriale della gal- leria del San Gottardo, dinnanzi a questi volti come a quello del Napoleone morente che ancora sprigiona quel guizzo di potenza e fierezza dell’uomo che ha dominato un mondo,dinnanzi a que- sti volti siamo accompagnati a pensare ai volti, agli sguardi, agli incontri del nostro quotidiano. Del quotidiano personale ma an- che di quello professionale: quanto guardiamo il volto di chi in- contriamo, quanto ci soffermiamo sullo sguardo, sugli occhi, sulle sfumature mimiche di chi attraversa il nostro incedere. Il volto è quella porzione di corpo nudo che ancora l’uomo del terzo millen- nio può vedere, più spesso guarda distrattamente, a volte attraversa senza soffermarsi perché ciò che emotivamente ci chiede attenzio- ne non sempre ci trova disponibili all’incontro. Bergman faceva dire nel suo Il settimo sigillo che uno scheletro attira di più di una donna nuda, lo faceva dire al pittore di danze macabre intento alla sua opera. E il volto è scheletro e nudità al tempo stesso, attira e inquieta, rappresenta il tempo che transita e scorre ma anche le emozioni che lo scorrere del tempo ha lasciato nella loro ricorrenza mimica sulla persona che quel volto porta. Un volto è più nudo di un corpo senza vestiti, a volte più imbarazzante di quest’ultimo. Come scriveva e così ricordava Gisèle Freund, la novantunenne fo- tografa tedesca scomparsa nel 2000, il viso è la sola parte del corpo, la sola lo sottolineo, ad essere esposta tutta nuda al primo venuto.

Su questa linea dove l’incontrare lo sguardo nel volto dell’altro è un po’ come fare l’esperienza del perturbante evocato da Freud nell’omonimo testo del 1919 (Sigmund Freud, Il perturbante,

250 1919), in cui scriveva appunto che “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, ritengo che l’antico parallelismo tra anima e volto o il suo elemento più significativo che sono gli occhi, sia da rivalutare e riconsiderare magari senza arrivare alla considerazione di Wittgenstein per il quale il volto è l’anima del corpo, che è un modo un po’ diverso per definire lospeculum animae riferito al volto evocato da Cicerone: non speculum ma proprio anima, un bel salto.

Proprio partendo da questi aspetti vorrei soffermarmi sulla funzione principe del volto che è quella del dirigere lo sguardo, e quindi del vedere, ma anche del suo contrario, del non vedere, del distoglierlo. Le mani sul volto sono segno di disperazione, di chiusura a ciò che è troppo evidente per essere sopportato, un raf- forzamento alla chiusura delle palpebre è qualcosa di più a livello di comunicazione e messaggio. La mani sul volto rafforzano il non vedere (il non voler/poter vedere) ma anche il non far vedere lo stravolgimento del dolore che segna il volto, una sorta di pudica cortina sull’incontenibile manifestazione delle emozioni. Il vedere dunque come prima polarità e il non vedere o il non voler far vedere o, ancora, non essere visti dall’altra. Sono queste due sugge- stioni che attraverso due immagini e due storie vorrei suggerire alla riflessione. Da un lato la Prudenza di Tiziano con non uno ma tre sguardi o, meglio, tre orientamenti dello sguardo e dall’altro il non vedere e i danni del vedere nelle vicende travagliate di Orfeo che come associa con ironia e al tempo stesso acuzia Maurizio Bettini in un suo saggio, “…per un punto perse la cappa” come il prover- biale Martin. Il punto, nel caso dell’eroe del mito, è uno sguardo o, se vogliamo, l’incapacità di trattenerlo.

La capacità di tenere lo sguardo La prima immagine che mi piace ricordare come guida per il tema del volto, è quella dipinta dall’oramai vecchio Tiziano che raffigura tre teste in sequenza, due di profilo e una di fronte, ac- compagnate da tre animali e da una scritta. Tre volti che richiama- no tre tempi dell’uomo, ma anche tre possibili sguardi sul mondo: sul mondo dentro di sé, come pure sul mondo fuori da sé. Tiziano

251 ha rappresentato sé stesso nella parte del vecchio su un lato, con un profilo e una pittura che si fa vaga, quasi sfumata ed evanescente, come a volte lo è il passato, il ricordo, la memoria; in centro ha posto il volto del figlio nella sua presente e leonina forza dell’uomo maturo ed infine, al lato opposto del vecchio, il nipote: un profilo di giovane, uno guardo nel senso opposto a dove si orienta l’anzia- no. Il volto, lo “sguardo” del volto, è verso altrovi spesso spaesanti: guardare uno sguardo è guardare ad altrove che non sempre ci ap- partengono o che ci appartengono così tanto che ci inquietano e da qui il citato perturbante freudiano. Il tema esplicito del dipinto di Tiziano è la prudenza, con quel motto latino che si intravvede sopra le teste, richiamato dai volti umani e, sotto ad essi, dai profili degli animali: Ex praeterito praesens prudenter agit ni futura actione deturpet che dovrebbe significare grosso modo: “Dalla [esperienza del] passato, il presente agisce prudentemente per non compro- mettere l’azione futura”. Un monito, un invito, una raccomanda- zione, che tuttavia pur parlando di tempo esce dal tempo e si fa attuale ad ogni età a prescindere da una collocazione temporale dei volti e finendo per rappresentare i possibili sguardi del soggetto: verso il prima, sull’ora e sul domani. Una extensio animae agosti- niana capace di muoversi sui tre registri temporali. Una capacità di movimento che testimonia salute e vigore. Il vecchio ha fame di ricordi e di vita, come il lupo che lo richiama, o che richiama questa disposizione psichica, l’uomo nel pieno della sua forza è un leone che domina sul qui ed ora, mentre il giovane cerca la sua strada come il segugio: guarda in avanti, è proteso nella ricerca e nella scoperta. Da qui il cane da caccia. La suggestione che voglio richiamare con l’evocazione di questo dipinto riguarda la capacità di “tenere lo sguardo”, di mantenere la tensione su queste tre aree temporali della psiche, di muoversi al loro interno, che cambiano nel tempo a seconda dell’età del soggetto e mutano importanza a seconda del suo animo. Ognuno acuisce uno dei tre sguardi legan- do questo sviluppo di potenzialità al momento, allo stato d’animo, al vissuto, agli incontri e alle emozioni che lo attraversano. Ci sono momenti in cui è lo sguardo del vecchio (anche se il soggetto è giovane anagraficamente) che domina, quando la tensione verso il futuro, verso la creatività e la progettazione vengono meno, quan- do la delusione verso il presente compromette anche lo slancio e la

252 ricerca di altrovi futuri ancora da scovare. È lo sguardo per ciò che è stato che prevale. O per consolazione, o per una sorta di compen- sazione, o più semplicemente perché unico panorama possibile re- stato alla persona per potersi orientare. Forse è superfluo ricordare gli stati depressivi, l’involvere del soggetto e la sua incapacità, im- possibilità a proiettarsi anche solo nel presente. Altre volte ciò che conta è il futuro, ciò che sarà, ciò che non ci appartiene ancora se non come tensione verso, attesa, aspirazione. È lo sguardo del cane da caccia, del segugio che cerca la preda per sfamarsi, è il volto che ci attraversa perché non ci vede ma guarda verso un altrove dove noi solo facciamo da membrana. La provocazione, chissà se voluta ma mi piace intenderla così, di Tiziano che ottantenne dipinge la Prudenza è che questi volti non si riferiscono a volti di tre persone, da queste certo prendono spunto, ma rappresentano gli sguardi possibili che ciascuno di noi può avere su di sé e sulla realtà. Sguar- di dinamici, non necessariamente sempre uguali o predeterminati. Segno che occorre saper porre lo sguardo nelle tre dimensioni che sono primariamente luoghi dell’anima prima ancora che luoghi fisici. Mi piace leggere il messaggio di Tiziano, che per altro era un pittore, uno per cui la vista era un elemento importante, come un invito e un incoraggiamento a vedere e a farlo in qualunque dire- zione. Il vedere ha la potenzialità di far esistere, di dare vita. Infatti se lo sguardo interiore non si posasse sui ricordi del vissuto questi non esisterebbero, come S. Agostino ben ricordava del tempo pas- sato che c’è nel momento in cui viene pensato o, come suggerisce Tiziano, visto. Perdere lo sguardo sul passato lo fa scomparire por- tando il soggetto ad una carenza che influirà sul suo presente e sul suo futuro. Allo stesso modo la perdita dello sguardo su una delle altre dimensioni la fa scomparire. Se non vista non c’è e se non c’è il soggetto patisce la carenza esprimendo questo patimento, non necessariamente cosciente, nei “volti” delle sofferenze dell’anima: dalla citata depressione, alla poliedrica mania e via via nel catalogo delle psicografie che le biografie spesso raccontano.

La capacità di levare lo sguardo o di trattenerlo dal posarsi Tanta enfasi nella storia e nei pensieri degli uomini, anche in quel- li che attraversano la pratica della cura dell’altro, sull’importanza del guardare, del vedere, dell’osservare, del “posare lo sguardo”,

253 rischia forse di spostare troppo l’attenzione su questo atteggiamen- to, certo fondamentale e davvero importante, e di farci peccare di unilateralità dimenticando che, ugualmente all’enfasi posta sull’importanza del “posare lo sguardo”, vi è un monito antico su cosa e come può prodursi da uno sguardo fisso; uno sguardo che non è capace di distogliersi e di staccarsi dall’oggetto di interesse e attenzione. Si pensi a quanta influenza, e che potente monito, è stato nel tempo veicolato con l’immagine orrorifica della Gorgone: uno sguardo fisso e, poiché fisso, immobilizzante e paralizzante. Fisso e, per questo, capace di bloccare e fermare l’interlocutore. Un vedere che annienta con la sua fissità e insistenza la cosa vista. Ma più della Gorgone, a mio parere, c’è una storia, un mito, che racconta dei pericoli dell’incapacità di distogliere lo sguardo, di trattenerlo, di comprendere nel vedere anche il non vedere. La sto- ria è quella di Orfeo ed Euridice, Orfeo il grande musico, colui che con le sue note incanta, ammansisce, appassiona. Orfeo che perde l’amata Euridice che, in fuga da un pretendente indesiderato, vie- ne morsa da un serpente da lei calpestato; un serpente che col suo veleno la uccide. Animale crudele ma forse anche pietoso, che im- pedisce l’oltraggio carnale, che ostacola la vergogna e l’offesa della violenza facendo a suo modo rifugiare Euridice nella nera morte e nell’oscuro regno di Ade. Già qui incontriamo il tema del “vedere/ non vedere”, del guardare ed essere sottratti allo sguardo, del vivere come tempo e luogo della vista e il morire come tempo e luogo del non essere visti, ma anche del non vedere più. Interpreto in questo senso il portare le mani al volto che citavo nel mio incipit. Un sottrarsi allo sguardo dell’altro perché inguardabili. Orfeo perde la sua Euridice, il suo sguardo non la trova; ad Orfeo è rimasta solo la sua arte, la tecnica musicale, e su questa capacità si gioca tutto. Ci prova, entra anche lui nel luogo del non vedere o del non essere visti. Qui Orfeo si fa visibile facendosi sentire, e con le melodie che produce si apre la strada fino dal re dell’Aldilà, dell’altrove, dell’oscurità. Ade e Persefone si commuovono, e alcune tradizioni riferiscono che è Persefone a convincere Ade a restituire l’amata. Il re dell’Oltretomba pone una condizione che è talmente banale e di facile esecuzione che non può che sollevare interrogativi che forse hanno qualche soluzione nel momento in cui tale “regola” viene disattesa. Mentre accompagna Euridice al di fuori dal luogo dove

254 si perde lo sguardo, Orfeo non deve guardare l’amata, non deve voltarsi. Questa la consegna, la “prova” da superare, per ottenere ciò che si vuole. Per poter tornare a vedere bisogna accettare di non vedere. Ecco l’imposizione di Ade. Un parallelismo abbastanza evi- dente lo si ritrova nella conversione di San Paolo che, colto sulla via di Damasco cade e non vede più fino a quando, dopo congruo tempo di cecità, può tornare a rivedere e il suo sguardo sarà diver- so, cambiato, nuovo perché ha attraversato l’oscurità. Una evoca- zione densa di significato, che ci rimanda a molte piste di riflessio- ne sia nelle dinamiche relazionali in senso ampio che in quelle di aiuto in senso più puntuale e specifico. Tornando alla storia: quella del non voltarsi (e quindi non vedere) è una consegna in sé sem- plice, troppo semplice per non essere rispettata. Il fatto che il mito racconti una incapacità di ossequio a questa regola “facile” ci porta a riflettere sul fatto che forse, la facilità, è solo apparente e riguar- da altro: qualcosa di più profondo di quanto viene evocato nella storia e di cui la storia, così, si fa tramite. Il fallimento di Orfeo è sorprendente perché apparentemente banale il compito. Orfeo si mostra incapace di trattenere lo sguardo, di attendere dal vedere, di aspettare il momento giusto. Un po’ paradossale ma Euridice scompare perché vista, guardata. È vista e guardata quando invece necessitava solo di essere percepita e attesa. Lo sguardo di Orfeo, rispetto allo sguardo che dà vita, che richiamavo parlando di Tizia- no, è uno sguardo che annienta, uno sguardo non certo costruttivo ma distruttivo come lo ha definito Marxiano Melotti. Una pista da percorrere sarebbe quella della tempistica dello sguardo, togliendo il peso dall’atto in sé (vedere/non vedere) sul momento in cui si svolge l’atto (vedere al momento giusto/non vedere perché non è il momento). Di percorsi riflessivi, anche nel campo relazionale ce ne sarebbero parecchi e molti gli spunti come il fatto che porta a considerare che “se Euridice è vista tra i morti significa che è morta” come sempre suggerisce Melotti e così inserire un ulteriore elemento: oltre il “momento giusto” anche il “luogo giusto” conta affinché lo sguardo posato non sia uno sguardo che annienta. Sono stimoli al lavoro nella relazione di aiuto dove il quando, il dove la persona in difficoltà si vede conta, e conta anche molto dove si rivolge lo sguardo quando si affianca una persona che deve uscire dal suo Averno, se sulla persona nell’Averno o se verso l’uscita da

255 esso. Tanti stimoli dicevo e che voglio qui lasciare come tali ricor- dando che anche nei rapporti d’amore il troppo amore, il vedere solo, il non togliersi gli occhi di dosso può portare alla distruzione dell’oggetto amato come se non si sapesse tollerare e comprendere l’importanza della separazione nella relazione.

Conclusione provvisoria: l’uomo invisibile Porre lo sguardo togliere lo sguardo sono i due punti sui quali, senza troppe pretese e con lo scopo di suggerire delle piste di ri- flessione e suggestioni da coltivare, ho voluto attirare l’attenzione ricordando che, così come è importante riflettere sulla preziosità dell’osservare, del vedere, del guardare nel senso più ampio, è utile anche accostarsi alle tematiche del non vedere e della sospensione dello sguardo. Ma per concludere, certo in modo provvisorio, vor- rei permettermi un’ultima evocazione. L’Uomo Invisibile è il titolo di un fortunato racconto di H. G. Wells scritto nel 1881 e pubblicato quattro anni dopo nel 1885. In italiano la traduzione arrivò negli anni trenta e poi la Mursia si occupò di una sua nuova edizione nel 1966. Un’opera datata ma, seppur nella sua brevità, attualissima, che ha il pregio della sinteti- cità e dell’essenzialità come pure dell’andamento narrativo con uno stile vivace, da cronaca dei fatti, che lascia molto al lettore e alla sua riflessione. Racconta di un uomo, Griffin, promettente fisico, che tuttavia non riesce ad emergere nel suo ambiente, quello com- petitivo degli scienziati e dei ricercatori; un uomo il cui obiettivo esistenziale diventa quello di dover fare una scoperta sensazionale che gli dia fama e ricchezza; che gli permetta di ricevere rispetto dai colleghi che per troppo tempo lo hanno ignorato e ricavare così un posto nella società. È la storia di un uomo invisibile, invisibile prima di diventarlo realmente (questa sarà la sua sensazionale sco- perta), un soggetto non visto, ignorato e lasciato ai margini. Il non essere visto coincide, a livello profondo, con il non esistere, è un retaggio arcaico e complesso della nostra psiche che sa bene quan- to sia pericoloso non essere considerati, quanta sofferenza porti l’indifferenza. Il bambino non visto dalla madre è un bambino a rischio. Ci sono diversi modi per essere ignorati, per essere fatti scomparire. Si può non essere visti quando vengono elusi i bisogni fondamentali da parte della figura di accudimento (trascuratezza e

256 disinteresse sono gli elementi principali di queste situazioni). Non si è visti quando si viene osservati con gli occhiali del bisogno al- trui, quando il bambino non è guardato per quello che è ma per quello che si vorrebbe (o piacerebbe) che fosse. Allo stesso modo l’individuo non è visto quando è guardato con la lente delle pau- re di chi se ne prende cura, paure che finiscono per bloccarne lo slancio vitale e lo sviluppo. Questi sono bambini non visti, bam- bini che scompaiono e si scolorano progressivamente, adulti che si porteranno dietro questo fardello che cercheranno di compensare in vari modi. Ma non si è nemmeno visti quando si è guardati troppo, gli estremi (e gli eccessi) in questo frangente si toccano; non guardare o guardare troppo sono due tecniche per annullare l’altro o l’oggetto di attenzione. Lo sanno bene i pubblicitari che dosano con perizia i messaggi che trasmettono consapevoli del loro decadimento a livello di incisività allorquando sono troppo pre- senti e quindi, percettivamente, scompaiono. Infine non si è visti quando si è guardati solo per quello che si fa, per le cose prodotte, per i risultati raggiunti o falliti e non per quello che si è. Laddove si spinge troppo e con troppa enfasi (più o meno direttamente e spes- so involontariamente) a identificarsi con il compito, il risultato o il lavoro, prima o poi, nell’incontrare gli inevitabili fallimenti o dif- ficoltà, ad andare in crisi è tutto il soggetto che finisce per sparire o, a livello di sensazione soggettiva, di fallire. Non è più la singola attività che va male ma è il soggetto intero che si sente crollare perché l’impresa non riesce. Il protagonista del racconto, e con lui molte persone, è proprio nella situazione nella quale ciò che fa (il suo lavoro, i successi in esso) divengono una necessità irrinuncia- bile in quanto ha finito per farli coincidere con ciò che garantisce la propria stessa sopravvivenza. Il lavoro e il compito non sono più qualcosa che da piacere per sé, il risultato da raggiungere non appare più come una possibilità conseguente che aggiunge valore e soddisfazione a quanto si fa, ma diventa un’urgenza imprescindi- bile e necessaria senza la quale quanto si compie perde senso. Così, nella vicenda, Griffin riesce a fare una grande scoperta, trova la ricetta dell’invisibilità in un paradosso letterario che ci dice molto di lui e concretizza il suo stato di “scomparso” e di “inguardabile”. Il protagonista sperimenta su di sé questo composto chimico che rende i tessuti organici invisibili. Griffin che teme di sparire di

257 fianco ai suoi colleghi scienziati riesce a emergere inventando la formula dell’invisibilità. Da quel momento, per rendersi visibile, dovrà mascherarsi e vestirsi. Altrimenti nessuno lo vede. Griffin concretizza il destino di molti invisibili: per apparire devono met- tere un abito che li renda riconoscibili, un abito visibile agli occhi degli altri che guardano al successo, al ruolo, all’apparenza. Griffin scompare per comparire: curioso ma illuminante escamotage.

Prima di recuperare il nostro protagonista e vedere la sua evo- luzione nel romanzo di Wells dobbiamo considerare come oggi lo sguardo dell’altro abbia assunto un’importanza decisiva, vitaliz- zante. Siamo nella società della comunicazione per immagini, una società che ha valorizzato ed estremizzato il valore del comparire come elemento valoriale condiviso. L’altro che “deve vedere” a li- vello infantile altrimenti non ci da vita o con la sua “distrazione” ci riduce all’annientamento, diventa gli altri, gli altri che si affac- ciano sui davanzali degli schermi di televisioni e computer e che enfatizzano la necessità di esserci e di farsi vedere, di emergere da un anonimato che è sinonimo di annientamento. Il bisogno indi- viduale può sposarsi e coniugarsi con gli attuali imperativi sociali. Quando vediamo lo sguardo e l’espressione della modella di turno che viene eletta reginetta del tal concorso, che ha lottato in tutti i modi per arrivare lì, che ha sacrificato tante cose per raggiungere quell’obiettivo, che si è sostenuta con sostanze per reggere i ritmi e gestire le situazioni di stress, quando ne osserviamo il volto segnato dalle lacrime e dal riso più che la gioia o il piacere, intravvediamo la mimica del sollievo come di chi è scampato a un gran pericolo: quello di scomparire inghiottita dall’anonimato e dal nulla come le altre concorrenti che velocemente scompaiono con lo spegnersi dei riflettori di scena. Torniamo al protagonista della nostra storia … è peccato svelare l’epilogo di questa triste storia ma vale la pena segnalare che l’unica cosa che di lui può essere vista sarà il san- gue, quando verrà ferito, come se, in questi soggetti, a restituire la loro identità che spesso è fatta di dolore ed emarginazione, è la sofferenza che hanno dentro e che si manifesta in molti modi, che chiama l’interlocutore su quanto il soggetto ha nel suo profondo, che gli chiede più o meno direttamente attenzione per quello che è, anche se non sempre bello e vincente: per quello che è, e non

258 per quello che fa o appare. Un richiamo a dare attenzione a queste parti, a guardare l’altro per chi è e non per come lo vorremmo, esclusivamente per quello che fa o per il ruolo che ricopre. Un invito a svelarci per l’umanità che abbiamo e non solo per le parti che la società ci impone di mostrare e ostentare altrimenti il rischio è quello di scomparire, prima che agli occhi degli altri, ai nostri come successe al povero Griffin.

Un bel viso è il più bello di tutti gli spettacoli. Jean de La Bruyère, I caratteri

4.2.5 Estetica della relazione di aiuto e di cura: la metafora del ritratto Guenda Bernegger

Di fronte a un’opera d’arte, meravigliosa, gioiosa, o tragica, vi- viamo un’esperienza estetica: un senso di commozione, di gioia, o viceversa di sconforto, di adesione o di repulsione, di fascinazione o di paura. Qualcosa di analogo avviene attraverso la lettura di un romanzo o la visione di un film o di una pièce teatrale: ne usciamo - ammesso che si tratti di opere forti, giuste, che risuonano in noi in quel momento della nostra vita - turbati, toccati, determinati forse a cambiare qualcosa. È per l’appunto l’effetto dell’esperienza estetica. Vorrei chinarmi qui sul rapporto tra l’estetica - in particolare, l’arte del ritratto - e la pratica professionale dell’aiuto e della cura. Qual è mai la relazione tra pratica dell’aiuto e della cura ed estetica - dove con estetica si intende quanto attiene all’ambito della bellez- za e dell’arte, ma anche ciò che è legato alla percezione sensibile (il termine «estetica» derivando da aisthetis, che significa sensazione)? Se i mestieri dell’aiuto e della cura possono trarre vantaggio dal dialogo con l’arte, è perché anch’essi sono in una certa misura delle arti, fanno leva su elementi di ordine estetico. In particolare, come nelle arti, i contenuti, le verità, il cosa, non sono indifferenti alla forma, al come. Forma che condiziona fortemente il modo in cui i contenuti, le verità, sono non solo costruiti e trasmessi ma, soprat- tutto, ricevuti. A tutti i livelli, la forma «informa», cioè definisce la cornice

259 dell’esperienza, i diversi quadri, o ambienti, che evocano, sugge- riscono, favoriscono, aprono determinate esperienze della realtà (e non altre): per esempio, che invitano a specifiche modalità di relazione con l’utente; che fanno risaltare - come un liquido di contrasto - la patologia del paziente o, viceversa, le sue risorse di guarigione; o ancora, che dispiegano o al contrario atrofizzano il «poter-essere» del soggetto malato (per usare un’espressione di Viktor von Weizsäcker76).

La cura educativa e l’arte del ritratto Se la cura educativa è anche un’arte, può essere fecondo prova- re a leggere la relazione operatore-utente attraverso l’analogia tra l’operatore e l’artista e, in particolare, il ritrattista. Un’analogia che può portare alla luce alcuni aspetti, certo ben conosciuti, ma che talvolta si trovano messi nell’ombra, poiché i riflettori sono pun- tati su altro. Che cosa ci suggerisce questo parallelismo? In primo luogo, che, analogamente all’artista, anche l’operatore dell’aiuto e della cura, attraverso le varie fasi della relazione educativa e terapeuti- ca, opera una messa in forma, una (co-)costruzione dell’immagine dell’utente e della sua storia, non limitandosi mai a descriverlo in termini oggettivi, che lo rispecchiano semplicemente, bensì dando attivamente forma ai contenuti dell’esperienza della persona, in un’operazione analoga per certi versi alla creazione artistica. Quando la sofferenza, la malattia (psichiatrica o somatica) ir- rompono nella vita degli individui, fratturando il quadro fami- liare di senso, la domanda di cura si accompagna spesso con una domanda di (ri)costruzione della propria storia - come nel titolo dell’articolo di Howard Brody «La mia storia è rotta, può aiutarmi a metterla a posto?»77. Con, cioè, la richiesta da parte del malato di essere aiutato a dare una nuova forma coerente alla sua vita: una forma che sia cioè capace di unire, di tenere assieme gli elementi sparsi della sua esistenza - ciò che la sofferenza ha reso frammen-

76 Cfr. Warum wird man krank?, Suhrkamp, Frankfurt a/M, 2008.

77 «My Story Is Broken; Can You Help Me Fix It?», Literature and Medici- ne, vol. 13, n. 1, 1994.

260 tario, confuso, privo di senso -, garantendo un quadro unitario in cui leggerli. In ultima istanza, è la domanda di un ritratto che offra una forma riconoscibile alla sua identità spezzata. Nel contesto della relazione di aiuto e di cura, questa messa in forma si offre (anche se non solo) attraverso l’articolazione del passato, del presente e del futuro del paziente o utente in forma di storia di vita, di anamnesi, di diagnosi, di prospettiva di guarigione o evoluzione o cambiamento, di progetto terapeutico o educativo. Così, anche tra l’educatore e il suo utente, come tra un artista e il suo modello, viene realizzato un ritratto dell’individuo - sempre, in buona parte, negoziato e co-costruito. Tale processo si realizza per eccellenza attraverso la narrazione. («La narrazione è una forma in cui l’esperienza viene rappresentata e raccontata, in cui le attività e gli eventi sono presentati in un ordine significativo e coerente», secondo la definizione che ne dà Byron J. Good in Narrare la malattia78). Narrazione che - dal rac- conto di sé dell’utente, nel primo incontro, alle riformulazioni che gli operatori ne fanno nella loro «cartella», ai racconti co-costruiti nel corso della relazione educativa o sanitaria - ha precisamente il potere, come ci insegna Paul Ricoeur, di operare una sintesi de- gli elementi discordanti dell’esistenza (la sintesi dell’eterogeneo), in un’operazione di configurazione che tende a trasformare il contin- gente in necessario, il caso in destino, e a conferire un’unità e un senso alla storia e al suo protagonista79. Il racconto del sé - il racconto che l’individuo fa di sé, sempre di fronte all’altro, per l’altro, con l’altro ineludibile - non si limi- ta mai a descrivere gli eventi, a rappresentare il soggetto, ma ha sempre invece anche un ruolo costruttivo e creativo: dando forma alla propria storia, organizzando gli eventi della propria vita in un tutto che ha senso, la narrazione dà forma all’identità del soggetto, che in questo racconto si riconosce. Ora, le qualità di un raccon- to - coerenza, unità, bellezza o, viceversa, discordanza … - sono delle qualità estetiche, che hanno un impatto estetico sul soggetto, contribuendo alla ricostruzione, costruzione, trasformazione della sua identità. Questo risulta in modo ancora più marcato quando

78 Edizioni di Comunità, Torino, 1994.

79 Cfr. Temps et récit, Seuil, Paris, 1983-85.

261 il racconto di sé è mediato dall’altro: artista, ritrattista, educatore o curante. Sappiamo bene infatti che anche nelle relazioni di aiuto e di cura, come nell’arte, la realtà viene sempre rappresentata (e costru- ita) attraverso processi di composizione e scomposizione, distor- sione, riduzione, completamento, strutturazione, organizzazione... Riprendo, non a caso, queste categorie da Vedere e costruire il mon- do80 del filosofo americano Nelson Goodman (autore che ha forte- mente riabilitato la funzione dell’arte), il quale le riferisce ai modi in cui costruiamo il mondo. O meglio, ai modi in cui rappresen- tiamo il mondo (e, con esso, il soggetto!) e, rappresentandolo, lo costruiamo. Una messa in forma dei fatti dell’esistenza è in realtà sempre, al contempo, una costruzione del soggetto, un ritratto dell’utente o paziente. Ma è sempre anche una messa in forma in mezzo ad altre possibili; un ritratto che non dice la verità, bensì una verità sulla storia, sul soggetto; un ritratto inevitabilmente diverso dal model- lo; una narrazione irriducibilmente altra rispetto alla storia vissuta, che non risponde tanto (o non solo) al criterio del «vero», quanto a quello del «verosimile». Un esempio toccante a questo proposito è dato dalla richiesta formulata da Elisabeth M. Merrill in una lettera ad Auguste Ro- din: «Tengo soprattutto a che quello che farete di me non assomi- gli a come sono ora. Non desidero che i miei figli conservino di me il ricordo di ciò che sono diventata attraverso la devastazione del dolore e del tempo»81.

Ma la prospettiva estetica non si limita a ricordarci il caratte- re costruito e dunque almeno in parte arbitrario e fragile di ogni rappresentazione. In realtà, ci suggerisce che è proprio in virtù del- la differenza tra il ritratto (artistico) e una riproduzione 1:1 della realtà, come in uno specchio, proprio grazie alla differenza tra una narrazione e una mera descrizione, che la nuova Gestalt (in funzio- ne della sua qualità, del come e non solo del cosa è rappresentato)

80 Laterza, Roma-Bari, [1978] 1988.

81 Così si può leggere accanto a una scultura del 1908-10 che la ritrae, conservata presso il Musée Rodin di Parigi; la traduzione è mia.

262 può esercitare (nel bene o nel male) il suo impatto estetico su chi la riceve (il modello o l’utente stesso, primi spettatori del ritratto). Un impatto estetico che potrà essere caratterizzato da attrazione o rifiuto, identificazione, accettazione, adesione, repulsione, sorpre- sa, curiosità, perplessità, fascinazione, entusiasmo, paura, catarsis, soddisfazione, scoperta, rivelazione... È infatti proprio grazie a questa impossibilità del mero rispec- chiamento, che si gioca nell’arte - e nell’arte della cura - l’oppor- tunità (accompagnata dai relativi rischi) di fare leva (anche) su un altro tipo di verità e di rappresentazione: un tipo di verità che siamo abituati a relegare nell’ambito dell’arte, ma che pure, di fat- to, attraversa le discipline sociali (così come quelle sanitarie). Mi riferisco a un’idea di verità per l’appunto artistica, narrativa, me- taforica, analogica, evocativa, produttiva, che deve essere portata a dialogare con la verità che si vuole descrittiva, oggettiva, riprodut- tiva, propria delle scienze e delle discipline più «dure». È precisamente in virtù della capacità propria della rappresen- tazione artistica (e del racconto letterario) di disvelare possibili- tà pretracciate nel reale, ma non ancora attuali, che il ritratto (il racconto) (anche quello che l’operatore, analogamente all’artista, offre all’utente) rivela - apre, dischiude, o viceversa chiude - possi- bilità d’essere del soggetto, suggerisce e invita a possibili evoluzio- ni, possibili trasformazioni. Ciò è testimoniato in modo paradigmatico da Paola Carola, confrontata alla scultura, opera di Alberto Giacometti, che la ri- trae: «[…] a casa mi accade di essere sorpresa dalla presenza del mio busto e di meravigliarmi di come mi appare. Perché ciò in cui mi riconosco è il mio corpo più che la mia testa. Sono il collo, la rotondità delle spalle, la curva del dorso, il portamento, tutto ciò di cui [Giacometti] non parlava mai. La testa, il volto, li vedo come se incontrassi un’estranea. Ma non sempre. A volte quando dai miei balconi guardo il mare al tramonto e mi sento davanti all’ignoto, penso allo sguardo lontano della scultura e mi ci rico- nosco»82.

82 P. Carola, Monsieur Giacometti, vorrei ordinarle il mio busto, Abscon- dita, Milano, 2011, p. 39.

263 L’operatore dell’aiuto e della cura versus l’artista Il confronto tra operatore dell’aiuto e della cura e artista può dun- que essere istruttivo, al di là delle differenze. O forse proprio anche in ragione delle differenze. Mi limito a evocarne una, centrale per il nostro discorso: la diversa attenzione portata al come. L’artista non cessa infatti di dover mettere in gioco il proprio linguaggio (espressi- vo, artistico) e le forme che usa; viceversa, il professionista del sociale e del sanitario acquisisce una tale familiarità con il proprio linguag- gio settoriale - con le forme e le immagini che «conferiscono una certa coerenza agli eventi», secondo un «genere» e uno stile narrativo ed estetico condiviso a livello della sua comunità disciplinare - al punto da essere portato a dimenticare che si tratta di costruzioni, di configurazioni dal potenziale impatto estetico. Se egli riconfigura infatti i dati portati dall’utente o dal paziente secondo il proprio codice della ritrattistica, secondo le «narrazio- ni-tipo della sofferenza» dominanti nella sua disciplina (ad esempio, in termini diagnostici, secondo la vulgata dominante), tali messe in forma diventano per lui così scontate - a causa dell’assidua frequen- tazione - da diventare inerti, da perdere cioè, ai suoi occhi, la loro forza estetica. Tuttavia la stessa forma, la stessa narrazione che per il professionista è esteticamente «inerte», per la persona che soffre spesso è esteticamente «attiva», efficace (in un modo o nell’altro). Propongo dunque di considerare più da vicino, più nei dettagli come le qualità estetiche del «ritratto», del racconto (siano esse vo- lute o meno), possono favorire o inficiare (accanto, beninteso, ad altri elementi) l’adesione al progetto educativo e, in ultima istanza, il suo successo.

Come la prospettiva estetica e la metafora del ritratto invitano a inter- pretare possibili difficoltà nell’adesione al progetto educativo? Seguendo la prospettiva narrativa ed estetica, si possono inter- pretare le resistenze rispetto alla compliance, all’adesione al proget- to di cura (educativa o sanitaria), nei termini della difficoltà che l’utente avrebbe nell’aderire al ritratto, alla narrazione su se stesso (sul proprio presente e sul proprio futuro) che gli viene proposta. Dietro alla mancata o limitata adesione al progetto educativo o terapeutico (ad esempio, al rifiuto di assumere farmaci) ci sarebbe dunque il rifiuto della storia che il professionista racconta su di lui.

264 O meglio: il rifiuto delmodo in cui (del come) la propria storia di disagio, di sofferenza e di possibile evoluzione è narrata. (Mi pre- me insistere sul fatto che non si tratta necessariamente, o non solo, del rifiuto della situazione in se stessa, dei fatti, bensì delmodo in cui - del come - i fatti sono narrati, messi in forma nella storia, dello stile del ritratto). a) Un ritratto troppo poco attrattivo Più precisamente, una limitata adesione alla proposta educativa o terapeutica può essere, in primo luogo, interpretata nei termini della limitata attrattività del ritratto, della storia di sofferenza e di guarigione, della proposta di trasformazione, restituita dal profes- sionista all’utente. L’attrattività, che è un concetto estetico per eccellenza, gioca infatti un ruolo fondamentale: è una delle condizioni dell’adesione al - e dunque del successo del - progetto educativo o terapeutico. Talvolta, tuttavia, la «“storia della guarigione” possibile» - per usare un’espressione di Lucia Zannini83, - o la «storia di cambiamento, di trasformazione possibile» può, come detto, mancare nella sua at- trattività, non riuscire a presentarsi con persuasività all’utente, non avere presa emozionale, non generare una motivazione sufficiente e non essere in grado, in ultima istanza, di generare l’auspicata adesione al progetto educativo o terapeutico. Ciò può avere per causa lo scarto tra lo stile narrativo dell’utente e quello dell’ope- ratore, l’estraneità dei loro rispettivi «giochi di linguaggio» (per dirla con Wittgenstein), cioè la distanza tra i loro diversi mondi di riferimento, non sufficientemente condivisi. Scrive a questo proposito Cheryl Mattingly84: «Gli operatori e i pazienti devono arrivare a condividere una storia sul processo terapeutico, devono arrivare a vedere se stessi “nella stessa storia”. Questa è una sorta di storia del futuro, una storia di ciò che non è ancora accaduto, o che è solo parzialmente accaduto, una storia da costruire. […] Condividere questa idea [un’idea sul perché ha senso fare determinate cose] richiede sia al terapeuta, che al pazien- te, la capacità di vedere come tali cose siano in grado di portare il

83 Cfr. Medical humanities e medicina narrativa, Cortina, Milano, 2008. 84 Healing Dramas and Clinical Plots: The Narrative Structure of Experien- ce, Cambridge University Press, Cambridge, 1998.

265 paziente a una situazione futura desiderabile. Questa idea non è riconducibile a una prognosi, o a una visione condivisa del piano terapeutico». Dietro alla mancata attrattività della storia si può riconoscere l’estraneità tra le rispettive estetiche dell’esistenza: ad esempio, non è attribuito lo stesso valore, da parte dell’operatore e dell’utente, agli elementi che determinano la bellezza e il senso dell’esistenza, a ciò che rende la vita «una vita bella» e non solo «una vita buona», nel senso etico del termine. b) Un ritratto troppo poco individualizzato, troppo poco somigliante Le qualità estetiche della narrazione, del ritratto, non sono però sempre sufficienti a generare l’adesione al progetto educativo, alla «storia di cambiamento possibile»: anche una «buona/bella storia», una storia attrattiva, può mancare lo scopo di generare l’adesione dell’utente. Infatti, un altro requisito è necessario per ottenere tale adesione: è anche indispensabile che l’utente possa riconoscersi in questo ritratto, in questa narrazione proposta dal professionista; che riesca cioè a riferire questa «storia di cambiamento possibile» a se stesso. In che senso? Nel senso che occorre che tale storia non sia solo bella in senso generico, bensì appropriata, adeguata a lui, aderente a lui, individualizzata, in sintonia, per l’appunto, con il suo mondo di riferimento, con la sua estetica dell’esistenza. In merito è illuminante l’analogia utilizzata da Paolo Cattorini: «[...] Le cose vanno come se dovessimo scrivere il nuovo capitolo di un libro, o aggiungere un’altra pennellata al quadro che abbia- mo abbozzato, o inventare un finale convincente per un film che manchi ancora di coesione. [...] L’azione morale doverosa [e que- sto vale più che mai per le scelte educative], quella cioè che si ha il dovere di porre nel contesto di una vicenda umana, assomiglia al capitolo giusto per quel libro e non per un altro, all’intervento ideoneo per quel quadro o per quel film»85. Sandro Spinsanti invita a passare da un’«etica prêt-à-porter» (un’«etica a taglia unica») a un’«etica sartoriale» (su misura): lo stes- so può valere per l’estetica. Questo vuol dire ad esempio che se la storia è mal cucita, se il ritratto è solo abbozzato (ad esempio,

85 Bioetica e cinema, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 15.

266 perché basato su un’anamnesi sommaria), se si tiene un discorso impersonale, un discorso generico (come quello che si tende a for- mulare attorno ai farmaci), che non si riferisce alla persona che si ha di fronte tenendo conto della sua singolarità, questa farà fatica a riconoscersi - a riconoscere se stessa - come referente del discorso. E senza tale effetto di identificazione, e dunque senza la relativa adesione nei confronti di quell’immagine, l’effetto di quella rap- presentazione sul soggetto sarà dunque debole. Viceversa, l’effetto di attrattività della proposta educativa, così come della terapia far- macologica, e l’adesione nei suoi confronti è più forte se la persona può riconoscersi nel taglio, nello stile del vestito: anche questo è messo bene in luce dalla prospettiva narrativista. Possiamo evocare a tale proposito la commozione di Ulisse quando, in incognito presso la corte dei Feaci, ode la propria sto- ria narrata da un poeta cieco e, sentendosi narrare, piange, per la prima volta. «De te fabula narratur» (Orazio): la storia parla di te, ti riguarda, ne va di te. Riconoscersi come il soggetto della narra- zione, del ritratto, ha un impatto importante sul soggetto. Non va dunque dimenticato come tale riconoscimento sia necessario affinché la relazione di aiuto e di cura possa suscitare emozione e adesione e aprire le porte alla trasformazione. c) Un ritratto troppo realistico Così, il racconto, il ritratto che viene restituito ha sempre un effetto potenzialmente trasformativo. Al contempo, infatti, ripro- duce e produce; al contempo è vero e verosimile - «vero» essendo un criterio scientifico, «verosimile» essendo un criterio estetico. Tuttavia, la ricerca estetica dimostra che per favorire l’identifica- zione e aprire le porte alla trasformazione non basta che il ritratto sia somigliante. Anzi, un eccesso di realismo può ostacolare l’ade- sione. «Tutti i fotografi, anche eccellenti - scriveva Baudelaire alla madre nel 1865 - hanno delle manie ridicole: considerano una buona immagine un’immagine in cui tutte le verruche, tutte le rughe, tutti i difetti, tutte le imperfezioni del viso sono resi ben visibili, ben marcati; più l’immagine è dura, più sono contenti». Per favorire l’adesione e invitare alla trasformazione, un ritratto, un racconto deve allora essere più verosimile che vero: infatti, para- dossalmente, è più difficile riconoscere se stessi in una verità nuda

267 e cruda (ad esempio, nella «verità» di una definizione diagnostica), che in una rappresentazione verosimile, possibile, di sé, in un ri- tratto più o meno somigliante, capace di rivelare le potenzialità del soggetto ritratto, di rivelargli non solo chi è ma anche chi potrebbe essere.

Alcune considerazioni conclusive In conclusione, vorrei sottolineare alcune delle ragioni per cui ritengo che il dialogo con la prospettiva estetica sia indispensabile per portare avanti una cura educativa che sia davvero cura huma- nis, «cura dell’uomo» - e mi limiterò qui ad alcune ragioni di ordi- ne epistemologico e quindi etico. Dico «quindi», perché scegliere di considerare la relazione di cura educativa da una prospettiva estetica (piuttosto che da un’altra) rappresenta in ultima istanza - come ogni presa di posizione epistemologica - anche una presa di posizione etica. Questo perché, nello scegliere tale prospettiva, scegliamo di mettere in primo piano alcuni valori, alcuni aspetti (piuttosto che altri). Quali? Vediamoli. Dire che nella relazione di cura educativa si gioca qualcosa che assomiglia di più alla costruzione di un ritratto che a un neutro rispecchiamento enfatizza infatti la centralità del soggetto e la ne- cessità di portare un’attenzione incessantemente rinnovata per il valore della singolarità, della sua unicità e della sua irriducibile e inesauribile essenza umana. Infatti, se è vero che, come afferma Jean-Luc Nancy, «Lo specchio mostra un oggetto […]. Il quadro mostra un soggetto», il ritratto ci obbliga allora a confrontarci con il problema dell’individuo «nella sua essenza autenticamente uma- na»86. E, potremmo aggiungere, acuisce la nostra consapevolezza dell’impossibilità di ridurre il volto (del modello, dell’utente) al ritratto, il soggetto alla sua (o alle sue) rappresentazione/i, rendendo- ci in tal modo più resistenti contro le tentazioni del riduzionismo: non bastano infatti infiniti ritratti per estinguere l’essenza autenti- camente umana del soggetto. Ricordandoci questa umanità inesauribile, il volto (del modello, dell’utente, del paziente), non manca altresì di richiamarci (purché lo si guardi) all’inaggirabile responsabilità che abbiamo nei suoi

86 Le Regard du portrait, Galilée, Paris, 2000; la traduzione è mia.

268 confronti - secondo l’insegnamento di Emmanuel Levinas. Ed è proprio la responsabilità l’ultimo elemento che la prospetti- va adottata ci porta a mettere in primo piano, fornendoci strumen- ti originali per farvi fronte: la responsabilità del professionista della cura educativa nel favorire, o meno, il rivelarsi e il dispiegarsi delle possibilità d’essere dell’utente, il quale, a causa della sua condizione di sofferenza, non riesce più a vederle come aperte. In questo senso, l’operatore è chiamato a svolgere il ruolo - po- tremmo dire - di «testimone» del fatto che il ritratto di sé in cui l’altro si identifica, il racconto sulla propria esistenza che l’utente presenta, è solo uno tra i molti ritratti e racconti possibili. Questo vuol dire, che la sua identità non si limita mai a tale ritratto, a tale racconto. Se la sofferenza, la malattia (e la malattia mentale più che mai) colpiscono, riducono, il «poter-essere» della persona - come ci insegna l’antropologia fenomenologica - allora l’operatore è in un certo senso chiamato a testimoniare che, in ogni momento, un altro ritratto è possibile, un altro racconto è possibile, poiché ogni ri- tratto, ogni racconto, è sempre contingente. L’«identità narrativa», che si dà nel racconto di sé (e, per analogia, nella rappresentazione) può cioè sempre trasformarsi, prendere altre forme, poiché dietro a ogni identità narrata c’è sempre anche - come ci insegna Adriana Cavarero87 - un’«identità narrabile», sempre eccedente rispetto al racconto, in cui sono pretracciate altre narrazioni possibili, altri possibili ritratti del soggetto. Se la relazione di cura educativa mira a restaurare proprio quel «poter-essere» del soggetto che la sofferenza tende a inibire, non deve dunque sorprendere più di tanto che l’arte ci possa essere di aiuto: l’arte (e l’arte del ritratto ancora di più), grazie precisamente alla sua capacità di rivelare ciò che il soggetto rappresentato può essere, le sue possibilità più proprie. O meglio: di rivelare ciò che egli già è (potenzialmente, in forma latente), ma che non divente- rebbe davvero visibile, riconoscibile e attuale, senza l’abile lavoro di messa in forma e di rivelazione da parte dell’artista. E, rispetti- vamente, da parte dell’operatore di una cura educativa, che sappia aiutare a far emergere queste possibilità nascoste ma già presenti nel soggetto.

87 Cfr. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997.

269 Concludo con l’aneddoto che al meglio mette in scena la portata trasformativa della rappresentazione artistica. Riguarda il ritratto di Gertrude Stein realizzato da Picasso (nel 1905-1906). Quando qualcuno criticò a Picasso che la Stein non assomigliava alla donna ritratta sulla tela, Picasso rispose: «Non importa, le assomiglierà».

270

4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona Quando la notte si fa alba88… Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli e Ornella Manzocchi

4.3.1 Programma

4.45 Gli studenti si ritrovano con l’assistente ai piedi del Castello Sasso Corbaro. Nel silenzio, attraverso il bosco i docenti li accom- pagnano lungo la salita, mentre dagli spalti del castello si diffonde una musica emessa da un flauto e una chitarra. 5.10 Lettura di Io la Notte, accompagnamento degli studenti all’in- terno del cortile e quindi nelle sale del castello. Ascolto di La regina della notte dal Flauto Magico di Mozart. Gli studenti, sempre ac- compagnati, si collocano nella sala del gruppo d’attività alla quale sono stati assegnati. Inizio del lavoro. 5.30 Attività in gruppi separati Gruppo 1: Biancaneve Gruppo 2: Autobiografia 7.15 Colazione in comune preparata dagli studenti, annunciata dal suono del flauto e della chitarra 7.45 Ritrovo e ascolto del brano dal Flauto Magico Schnelle Füsse. Intervento breve dei docenti sul tema della caduta e del cadere. Consegna per il lavoro individuale e per la composizione del fram-

88 Questa esplorazione appartiene al Modulo “Individuo e Identità perso- nale”, che si svolge nel corso del primo semestre.

271 mento scritto da portare al gruppo al momento del ritrovo. Viene risuonato il brano del Flauto Magico e si congedano gli studenti al lavoro individuale. 9.00 Si suona per il castello l’ultimo brano mozartiano: Papageno e Papagena. Gli studenti sono invitati a esprimere quanto hanno scritto e appuntato: la frase o la parola. Relazione conclusiva. I musicisti ripropongono in sequenza tutti e tre i brani preparati. 9.45 Suono del motivo del carillon magico e saluto.

Piccoli annunci CHIUNQUE sappia dove sia finita la compassione (immaginazione del cuore) - si faccia avanti! Si faccia avanti! Lo canti a voce spiegata e danzi come un folle gioendo sotto l’esile betulla, sempre pronta al pianto. INSEGNO il silenzio in tutte le lingue mediante l’osservazione del cielo stellato, delle mandibole del Sinanthropus, del salto della cavalletta, delle unghie del neonato, del plancton, d’un fiocco di neve. RIPRISTINO l’amore. Attenzione! Offerta speciale! Siete distesi sull’erba del giugno scorso immersi nel sole mentre il vento danza (quello che in giugno guidava il ballo dei vostri capelli). Scrivere a: Sogno.

SI CERCA persona qualificata per piangere i vecchi che muoiono negli ospizi. Si prega di candidarsi senza certificati e offerte scritte. I documenti saranno stracciati senza darne ricevuta.

272 DELLE PROMESSE del mio sposo, che vi ha ingannato con i colori del mondo popoloso, il suo brusio, il canto alla finestra, il cane fuori: che mai resterete soli nel buio e nel silenzio tutt’intorno - non posso rispondere io. La Notte, vedova del Giorno. Wislawa Szymborska

4.3.2 Una notte al castello, raccontare il cammino, percorrere le storie Lorenzo Pezzoli

L’occhio vede le cose in maniera più chiara nei sogni di quanto non riesca a vederle nella veglia. Leonardo da Vinci

Affrontare il tema delle cadute, dimensione inscindibile del viaggio dell’uomo alle prese con inciampi e capitomboli esistenzia- li, ma anche con la fatica e la difficoltà di riprendere il cammino dopo essersi rialzato, è un nodo importante del processo formati- vo per le persone che andranno ad occuparsi della sofferenza, di quella fisica come di quella psichica nel senso più ampio. Cadere e inciampare sono intimamente legate alla biografia, e cadute e inciampi diventano spesso i punti di incontro tra “curante” e “cu- rato” nella relazione di aiuto: quei temi che, in senso generale, accomunano chi aiuta e chi è aiutato nella umanità terenziana evo- cata dal “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.

Da San Paolo a Icaro, da Fetonte a Lucifero si fa memoria di come il cadere appartenga all’uomo (e non solo) e possa evolvere in catastrofe o diventare opportunità rappresentando l’occasione, un modo nuovo, di vedere il mondo e anche di viverlo. Inquadrando i significati psicologici del cadere (non solo quello fisico per inten- derci) si incontra la grande immagine caravaggesca della conver- sione di Saulo, una conversione descritta per ben tre volte negli Atti degli apostoli e in ciascuna delle volte senza la presenza del cavallo che invece domina immaginario, modi di dire ed espres- sioni artistiche sul tema. Paolo nella realtà non cade da cavallo ma

273 viene definita e rappresentata così questa conversione o, meglio, si utilizza il tema del cadere per approcciare il cambiamento e la tra- sformazione. La caduta costringe dunque a una posizione diversa dalla quale si cambia la prospettiva di visione delle cosa, da sopra il cavallo al terreno non fa che accentuare lo iato che separa l’uomo che precede la caduta dall’uomo che la segue. Il secondo elemento, a partire sempre dal quadro caravaggesco, è la cecità susseguente la caduta e il periodo di riposo e cure che segue l’evento. Un momen- to di buio, di notte, dove il soggetto pian piano recupera la vista con una nuova visione del mondo. Dunque inserire nel percorso didattico queste tematiche signifi- ca accompagnare chi è intento alla costruzione della propria iden- tità professionale ad occuparsi di un registro formativo che non è quello performativo legato alle tecniche (di intervento, di ascolto, di comunicazione), né tanto meno a quello di una pedagogia con- formativa orientata alla promozione di modelli di comportamento uniformi, quanto piuttosto significa consentire l’apertura di uno spazio a quella che ha preso il nome di terza formazione e cioè una proposta formativa che si rivolge alla capacità dei soggetti di guar- darsi dentro89. L’aiuto e l’accompagnamento a guardarsi dentro di- venta un elemento che permette, a chi si accinge a questo percorso e a questa proposta formativa, di restituire un’anima alle tecniche apprese e a valorizzarne il valore e l’efficacia. Per l’accompagnamento all’incontro con il tema della caduta si sono individuati due filoni: quello temporale e quello spaziale. Da un lato la notte per il registro temporale: immagine evocativa del cadere e delle cadute, luogo antropologicamente caricato di si- gnificati in sintonia con lo scuro; dall’altro, per il registro spaziale, si è lavorato sul tema del cammino, come è spesso rappresentata la vita, unitamente al tema del raggiungimento di un luogo che protegge e contiene, come può essere un castello arroccato su un dosso. Questo, concretamente, si è concretizzato nel Castello Sasso Corbaro, a Bellinzona, chiamato, neanche a dirlo, Castello di cima. Ciò che accompagna la riflessione e la tematizzazione è un’attività fisica e di animazione che completa, proprio a partire dall’espe- rienza fisica ed emozionale, quanto è stato tematizzato e verrà svi-

89 G. P. Quaglino, La scuola della vita. Manifesto della terza formazione, Raffaello Cortina, Milano, 2011.

274 luppato a parole e nell’incontro all’interno della rocca: l’esperienza si concreta quindi con il salire e rappresentare l’ascesa faticosa al luogo di protezione e accoglienza nel tempo della notte, con le sue evocazioni e vibrazioni, in attesa dell’alba. Nella dimensione temporale, la meta da raggiungere (e in questo caso da attendere) è il sorgere del sole, nella dimensione spaziale la dimensione “meta” è rappresentata invece dalla rocca e dalle sale accoglienti che, con musicisti e animatori, accolgono a partire dal portone di ingresso chi con fatica raggiunge la sommità. Questo percorso viene calato in un contesto narrativo dove si è presa l’immagine della “caduta della notte”, nei suoi diversi aspetti da quelli astronomici, diciamo così, a quelli antropologici e simbolici passando da quelli letterari e poetici, e si è sviluppata accompagnando i partecipanti all’incon- tro con il tema del cadere nelle sue declinazioni relative al lavoro sociale e alle relazioni di aiuto. Il percorso si articola all’interno della narrazione come strumento di didattica e insegnamento, ma anche come strumento di scoperta dell’identità e di racconto delle emozioni. Il programma didattico prevede dunque una partenza prima dell’alba, alle 4.45 del mattino, d’inverno. Con i docenti e gli assi- stenti si è costruito un contesto “teatrale” con richiami sonori dalle mura e dagli spalti del castello attraverso strumenti musicali, uni- tamente all’esecuzione di brani del Flauto Magico di Mozart, vero tema guida di tutta l’attività per le dimensioni che l’opera contiene sintoniche con quanto si voleva sviluppare. Il cammino del gruppo di studenti si dipana nel bosco addormentato di un dicembre ti- cinese raggiungendo le mura fino all’ingresso al castello. Anche in questo caso il tempo dell’inverno diventa un tempo dell’anima, uno stato psichico che anche lui, come la notte, richiama alle tematiche sviluppate. Da qui, dopo la partecipazione a brani evocativi recitati dai docenti, ascolto di frammenti musicali, dopo la messa in scena di gestualità dal forte richiamo come l’accompagnamento degli stu- denti, ad uno ad uno, fino all’ingresso della murata, si penetra nel cuore della fortificazione con il contemporaneo ascolto eseguito da musicisti professionisti del brano della Regina della notte. Una volta all’interno del castello comincia l’attività di ascolto nei gruppi di lavoro centrati su corporeità, narrazione ed emozioni che si intrec- ciano sulle tematiche della caduta e, naturalmente del rialzarsi.

275 4.3.3 Le notti e le aurore delle navigazioni identitarie Graziano Martignoni

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricopriva no l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno Genesi 1, 1-5 Il giorno è la luce di Dio che ci copre Platone

Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente Corano 24:35 Io Mentre il tordo canta, notte e giorno, Sono con la mia bella sotto i fiori, fino a quando la nostra sentinella dalla torre grida: “Amanti, alzatevi! ché io vedo chiaramente l’alba e il giorno” Trovatore anonimo Voi, collinette e spiagge, Caduto lo splendor che all’occidente Inargentava della notte il velo, Orfane ancor gran tempo Non resterete; che dall’altra parte. Tosto vedrete il cielo Imbiancar novamente, e sorger l’alba: Alla qual poscia seguitando il sole, E folgorando intorno Con sue fiamme possenti, iD lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi. Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna Nel suo docile manto e nell’aureola, Dal seno, fuggitiva, Deridendo, e pare inviti, Un fiore di pallida brace Si toglie e getta, la nubile notte. È l’ora che disgiunge il primo chiaro Dall’ultimo tremore. Del cielo all’orlo, il gorgo lividi apre. Con dita smeraldine Ambigui moti tessono Un lino. E d’oro le ombre, tacitando alacri Inconsapevoli sospiri, I solchi mutano in labili rivi. Giuseppe Ungaretti, La nascita d’aurora

276 Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora, poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza consente a ritornare a me che la chiamo e l’imploro, poiché questa felicità consente ad esser mia, facciamola finita coi pensieri funesti, basta con i cattivi sogni, ah! soprattutto basta con l’ironia e le labbra strette e parole in cui uno spirito senz’anima trionfava. E basta con quei pugni serrati e la collera per i malvagi e gli sciocchi che s’incontrano; basta con l’abominevole rancore! basta con l’oblìo ricercato in esecrate bevande! Perché io voglio, ora che un Essere di luce nella mia notte fonda ha portato il chiarore di un amore immortale che è anche il primo per la grazia, il sorriso e la bontà, io voglio, da voi guidato, begli occhi dalle dolci fiamme, da voi condotto, o mano nella quale tremerà la mia, camminare diritto, sia per sentieri di muschio sia che ciottoli e pietre ingombrino il cammino; sì, voglio incedere dritto e calmo nella Vita verso la meta a cui mi spingerà il destino, senza violenza, né rimorsi, né invidia: sarà questo il felice dovere in gaie lotte. E poiché, per cullare le lentezze della via, canterò arie ingenue, io mi dico che lei certo mi ascolterà senza fastidio; e non chiedo, davvero, altro Paradiso. Poichè l’alba si accende… Paul Verlaine, Poiché l’alba si accende Quando l’alba si avvicina…

L’identità individuale e collettiva non è “terra ferma”, visibile e misurabile, come fosse una geografia da ricopiare su di una map- pa, ma è soprattutto una sorta di arcipelago fatto da isole, alcune vicine, altre più lontane, alcune parlanti lingue comprensibili, altre straniere e barbare, attraverso cui navigare e a volte sostare. L’i- dentità e l’esistenza hanno questo in comune, la navigazione. La navigazione diviene viaggio (homo viator) per tornare alla propria Itaca sotto la spinta della nostalgia come l’Odisseo omerico, per conoscere come l’Ulisse dantesco, che cerca il nuovo e l’ignoto

277 senza alcun desiderio di ritorno, ma anche per confondersi tra la pulsione ad andare e quella dell’immobilità come l’Ulisse novecen- tesco raccontato da Joyce, che “comprende tanto il viaggatore che non trova una propria stabilità quanto l’eroe del ritorno”90. Alla navigazione di Ulisse si contrappone però, a fondamento dell’Oc- cidente, un’altro viaggio, quello di Abramo. “La contrapposizio- ne tra Ulisse e Abramo per Lévinas a quella tra una filosofia del ritorno a sé e del Medesimo ed una filosofia della ‘fuoriuscita’ e della precedenza dell’Altro sul Medesimo”91. “Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza”92. Navigare tra le isole identitarie significa incontrare queste figure fondanti, in ognuno di noi vi è infatti sempre un po’ dell’Ulisse omerico, un altro poco di quello dantesco e così via.

Il viaggio della vita è fatto di albe e tramonti, di luce e di buio, di incontri con albe e tramonti, con le luci del mattino e le oscurità della notte, con le cadute, le ricadute e le rinascite. Per questo il mestiere dell’operatore della cura e dell’aiuto può divenire, a par- tire proprio dalla sua personale chiamata, dalla sua vocazione-che deve precedere ogni pro-fessione, nello stesso tempo un compagno e un fratello delle notti dell’esistenza e un guardiano, un protettore delle luci dell’alba. Tra le guglie e il cortile del Castello Corbaro, che ci ospita in questo primo giovedì di dicembre e che ci ha visti giungere silen- ziosi nella notte per sentirne il respiro del tempo, sorge ora l’alba. Buona luce a tutti!

L’alba e la notte dunque come metafore delle tante isole iden- titarie, delle loro spiagge solatie e ospitali, ma anche delle loro misteriose foreste, che ospitano il buio. Spiagge ove attraccare e foreste ove smarrirsi. È ora il momento della luce, della rinascita

90 P. Boitani, 2000. 91 C. Resta, “Atlantici o mediterranei?”, in Mesogea, 0, 2002, 53-63. 92 E. Levinas, “La traccia dell’altro”, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina, Milano 1998, 219.

278 della luce. Il giorno ci viene incontro con la sua nuova Aurora, dopo le tenebre della notte. Tenebre che ognuno di noi ha dovuto attraversare quotidianamente dentro e fuori di sé, di fronte alla precarietà e alla fragilità dell’esistenza. Aurora che ora invita la luce a farsi strada nel mondo e a volte anche nell’ anima. La luce che sembrava sospesa, a volte interrotta, altre persino ferita definitiva- mente, può rinascere alla vita. L’aurora, scrive Maria Zambrano in uno splendido libro dedicato proprio a quel momento nascente della luce, “avanza ad ogni apparire delle sue luci molteplici, si riversa e piange, si raccoglie e torna - vuole tornare - a se stessa, a quel “se stessa”, che non possiede … rinasce e si fa cenere; se si spegne, torna ad accendersi”93. Si chiede all’Aurora di annunciare e di accogliere la luce. In essa la vita che sembrava assopita o lontana, perduta in altri sognanti mondi, e a volte nei mondi più cupi della malattia o della perdita della speranza, torna. “Si chiede all’Auro- ra, anche senza saperlo, questo seguitare a nascere”. È il miracolo della luce, a cui ognuno di noi, solo aprisse gli occhi, può assistere. È l’annuncio, che la rinascita dopo la caduta è possibile, che la “casa” che pensavamo di aver smarrito è sempre là ad attenderci, che qualcuna ci viene incontro sul nostro sdrucciolevole cammino. Una “casa” che qui si riveste dei colori del mondo e si rianima delle voci degli uomini, che fanno da involucro sonoro all’esistenza e indicano il battito vitale della vita. Ci accolgono, appena poniamo l’orecchio e lo sguardo lieve e innocente su di loro, al ritorno dal nostro esilio, dal dolore di una malattia, dalla disperazione di un esistenza sbagliata e messa fuori strada, dall’angoscia e dall’incer- tezza di un mondo a cui non si riusciva più a dare senso. Ad ogni risveglio è come se fosse una nostra personale e laica pasqua, la luce è tornata! Che si creda o no al suo significato religioso, è il giorno, che fa parlare il cuore pulsante e segreto dell’esistenza, sospesa, per l’uomo, tra destino e libertà; un cuore che contiene il luogo più misterioso dell’umanità stessa dell’uomo, in cui l’inevitabilità della morte e la possibilità della rinascita, si ricongiungono giorno dopo giorno sin dall’inizio dei tempi.

Nella luce, la speranza…

93 M. Zambrano, Dell’Aurora, 1986.

279 Nella luce che torna abita la rivelazione della speranza. Ma che cosa è allora la speranza, che la luce dell’Aurora annuncia? La spe- ranza non è l’illusione ingannatrice dei tanti miraggi della real- tà, non è un dolcificante artificiale della vita amara da richiamare quando passivamente aspettiamo, che altri risolvano per noi gli intrighi e gli ingorghi dolorosi della vita. La speranza è prima di tutto un evento, un incontro, uno sguardo, un suono, un colore, una voce, qualcosa che accade nella nostra vita quotidiana e di cui dobbiamo divenire ospitali. La speranza è attesa e nello stesso tem- po progetto di vita. Ma questo non basta. La speranza, che la luce aurorale della nostra quotidiana “pasqua” ridona all’uomo mendi- cante su questa “terra desolata”, come cantata dal poema di T.S. Eliot (1922), ha bisogno di un atto di fede, di credere che la realtà non è sempre solo ciò che è, ma al contrario, a volte persino contro la realtà stessa, è qualcosa che potrebbe essere e che è già e non ancora. Apre così alla dimensione delle possibilità. La speranza è irrequieta abitatrice del presente, della nostra stessa quotidianità e non, come a prima vista potrebbe sembrare, una questione solo del futuro. La quotidianità è il suo orizzonte. La speranza non è allora solo un balsamo necessario per vivere, ma è costantemente esposta alla delusione, all’incredulità e all’incertezza, così come alla fatica per mantenere in vita quella luce, che tramonta sempre, per poi torna- re nella sua nuova aurora. Solo l’uomo può sperare e disperare, solo l’uomo può cogliere la meraviglia dell’Aurora, che la luce annun- cia. Solo l’uomo infatti è capace di questo atto di fede. Questo è un dono che si deve conquistare ogni giorno, perché a volte veramen- te inospitale è il mondo che ci circonda e altre veramente desertico o crudele è il nostro mondo interno che chiuso su di sé è divenuto incapace di ogni possibile incontro, e non crede più alla possibilità che quell’incontro possa far nascere “ciò che non è ancora”. Dolci sono i suoni e i colori dell’Aurora, ma sempre incerto è il loro appa- rire. L’uomo, che li incontra là dove è capace di attenderli, in quel “già e nel non ancora”, è chiamato a coniugare l’esperienza della ragione e della responsabilità, della gioia e del dolore a quell’aura di miracolo, “un miracolo con piena responsabilità”, senza cui il mondo e lui stesso non potrebbero mai divenire diverso da ciò che è. È infatti l’esperienza della spoliazione del mondo e di se stessi, che i nostri tanti venerdì contengono con la loro dose di dolorosa

280 oscurità e di buio, quando la vita quotidiana sembra abbandonata ad un deserto di senso e di desolazione e gli dei sembrano ritirarsi lontano, che apre alla luminosità dell’Aurora. Tuttavia “solo la luce - scrive ancora la Zambrano - che sopraggiunge, prima di esten- dersi, quando ancora non accenna a diffondersi, in questo istante puro del suo avvento, quando ferisce, fa sentire l’impenetrabilità di qualcosa che non può dirsi semplicemente oscurità”. Quel suo avvento è il luogo della meraviglia e dello stupore, che da luce ai nostri occhi spesso stanchi dall’oscurità e che fa nascere i pensieri. “Nessuna tenebra, infatti, per quanto fitta, fa disperare che una qualche luce, o qualcosa della luce, possa penetrare in essa”. Qui sta il paradosso della Speranza che nasce sempre dalla disperazio- ne, per farsi annuncio. Buona luce! Noi siamo modestamente co- loro chiamati a pronunciare, certo balbettando, questo annuncio. Il fremito quotidiano dell’alba, la visione aurorale della luce, che la nostra pasqua annuncia e che, come ci dice il grande filosofo persiano del XII secolo Sohravardî, fa apparire il nostro Oriente, non è un luogo della geografia, del calendario, non è rinchiusa in un protocollo o in un formulario statistico, ma un’esperienza spiri- tuale, una cognitio matutina, attraverso cui è possibile ogni giorno rinascere. Buona luce a tutti!

4.3.4 La ricaduta, una “abitatrice degli incroci”, tra percorso tossicomanico e viaggio terapeutico94 Graziano Martignoni

È difficile enderer conto in breve della complessità e della va- rietà dei contributi del Colloquio, che l’Associazione e l’Antenna Alice hanno dedicato al tema della “ricaduta”. È stata un’occasione di riflessione e di confronto privilegiata tra esperienze diverse per approccio, scelte strategiche, provenienza geografica. Una riflessio- ne su di un tema urgente e necessario per capire il senso dell’espe- rienza tossicomanica dal di dentro e nello stesso tempo per inter- rogare le scelte di aiuto e di cura delle strutture e degli operatori

94 G. Martignoni, “La ricaduta, una ‘abitatrice degli incroci’ tra percorso tossicomanico e viaggio terapeutico”, in L. Romeo (ed.), La ricaduta, Edizioni Alice, Comano/Lugano, 1995.

281 chiamati ad “accompagnare”, a volte in modo trasformativo, altre solo protettivo o palliativo (penso alle esigenze igienico-sanitarie e sociali in merito alla qualità della vita e alla “minimizzazione dei rischi”), le oscillazioni irregolari e burrascose, gli sbandamenti e le schiavitù di una esistenza dentro la droga. Accompagnare come presenza viva e come continua risorsa, accettando di elaborare den- tro di sé il senso di rabbia, di delusione e di aggressività che ogni nuova ricaduta può suscitare e nello stesso tempo evitando che il sentimento di fallimento e di colpa che il tossicodipendente può vivere divenga la conferma di un destino ineluttabile. Un lavoro sulla ricaduta che diviene così, al di là del significato e delle cause psicologiche, biologiche e sociali individuali spesso introvabili, un paradigma fondamentale per leggere come la stessa relazione tera- peutica e le stesse attitudini dei curanti partecipino direttamente alle rotture, alle interruzioni, a quei “ritorni” all’indietro, ma anche alle possibilità di “rinascita” e di ripresa del viaggio trasformativo. Ecco allora tra le relazioni del colloquio la coraggiosa messa in di- scussione di alcuni modelli comunitari, la disamina delle reazioni contro-attitudinali delle équipe curanti e delle loro ambivalenze, così come il riconoscimento della “necessità” della ricaduta, del suo aspetto spesso di “messaggio nella bottiglia”, che arriva a volte confuso e contraddittorio ma anche del suo significato paradossale di “rigenerazione” alla rovescia, solitaria e per parafrasare una ca- tegoria usata dall’antropologo medico Ilario Rossi, fuori da ogni “reciprocità relazionale”. Su questo orizzonte la ricaduta assume un carattere di cono- scenza e di guida alla cura forte, che fa di lei una sorta di “abitatri- ce degli incroci” tra scena tossicomanica e scena terapeutica. Essa sta infatti tra viaggio terapeutico e percorso tossicodipendente, ne ritma i tempi, le pause e le rotture, modula la qualità della nostra presenza e della nostra ospitalità e della stessa presenza a sé e al mondo del tossicodipendente. Ma altre sono pure le sue funzioni.

1. La ricaduta ci immerge nella clinica dei fluidi, delle turbolen- ze, dell’imprevedibile che è la clinica della tossicodipendenza. Essa non è solo un cattivo esito di una terapia, o l’effetto di una mala- sorte ma appartiene al nucleo fondamentale della esperienza tossi- comanica e ai suoi assi costitutivi. È essenzialmente la conseguenza

282 di una perturbazione nei vettori di vita di cui il tossicodipendente è più vulnerabile, che sono dell’ordine della intensità degli affetti, della velocità del correre del tempo, della atmosfera relazionale con i suoi lutti e le sue separazioni, della delusione e anche del caso. Una sorta di quadro sintomatico dunque che oscilla tra libertà, caso e necessità, là dove l’azione terapeutica tenta di piegare il caso e la necessità, dentro la spesso dolorosa dimensione della libertà e della responsabilità.

2. La ricaduta appartiene alla temporalità dell’esistenza umana. È come se rappresentasse una sorta di lato oscuro di un viaggio den- tro la vita, che si vuole illusoriamente senza arresti. Il suo percorso invece non è mai una via diretta, ma è fatto di pause, di intervalli, di ritorni, come se la vita dell’uomo fosse un continuo rispecchiarsi nella sua origine, in quel “puit de mon enfance” di cui parla il poeta Edmond Jabès, individuale o collettiva. In questo l’esperienza tossi- comanica non è che la metafora estrema di una condizione di esilio, che è dell’uomo stesso. La ricaduta, il ritorno, la nostalgia dell’origi- ne segnano la via tra passato e futuro di quella condizione estrema di intollerabile esilio. Un esilio che l’esperienza della droga nella sua funzione auto-terapeutica combatte e nello stesso momento ripro- duce e mette in scena, come se il confronto fosse incessantemente tra destino e suo (im-)possibile oltre-passamento.

3. La ricaduta mantiene un suo legame antico con il male, l’er- rore, il peccato. Come rappresentano questa “pesantezza” antro- pologica e semantica i frastagliati percorsi di vita del tossicodipen- dente? Che cosa significa infatti ricadere? Ricaduta e ripetizione di un trauma antico, ricaduta e coazione a ripetere, ricaduta come bisogno di ritrovare un godimento perduto, ricaduta come necessi- tà di un corpo che parla oramai da solo come una macchina folle? Come dunque liberare la ricaduta dalla sua pesantezza catastrofica e darle l’esperienza il senso di un evento pur rischioso dentro l’e- sperienza della vita, capace di produrre un “nuovo inizio”, nuove possibilità di senso? E ancora, che cosa conduce alla ricaduta? Trat- ti di personalità, la scoperta di nuove sostanze, una concezione ristretta della guarigione, la mancata percezione di segnali premo- nitori o banali accadimenti di vita? Una ricaduta non è né segno

283 di sconfitta, né prova di debolezza, può non cancellare la crescita che si era realizzata nella relazione terapeutica tra tossicodipen- dente e terapeuta, spesso però la mette alla prova. Può divenire così “occasione” e non semplicemente e drammaticamente cieca ripetizione. Come prevenirla dunque, come accompagnarla, come darle questo carattere di “occasione”. Questa la sfida che ci viene rivolta quotidianamente.

4. La ricaduta è figura della crisi e appare spesso come un para- dossale tentativo anti-catastrofe. È spesso qualcosa della stessa so- pravvivenza che è in gioco. Un tentativo che può divenire, è bene ricordarlo, evento o disastro. Quali le condizioni di questo difficile equilibrio tra terapia e tentazione del ritorno. Come proteggere il tossicodipendente che ha interrotto l’uso di droga di fronte alla nudità di una esperienza interiore, come la chiamava Bataille, che gli viene da un ascolto più ravvicinato (senza la protezione della droga) delle sue emozioni quotidiane e dei suoi pensieri sull’amore e sulla morte, di cui non è pronto ad assumere la complessità la bellezza ma anche il dolore? “Un non più giovane tossicodipendente in sostituzione metado- nica da molti anni mi disse un giorno che doveva ogni tanto bu- carsi per ritrovare il centro e da li potersi ri-sentire…”. La ricaduta è segno qui di una necessità di ristabilire un “centro” di sé e non immediatamente quello di una frammentazione psichica o sociale che poi inesorabilmente segue. Un centro da cui emana non più un senso o una ragione della vita, ma una sensazione e un brivido della vita. Necessità di ristabilire a proprio modo una funzione comunicativa con la propria cripta tossica che deve essere parados- salmente nutrita, una funzione di autoregolazione psico-corporea verso il mondo degli affetti disperanti ma anche troppo eccitanti e positivi, verso il senso di colpa o di vergogna, verso le angosce di morte e infine una funzione ortopedica verso la realizzazione di bisogni di appartenenza o di intimità … là dove l’equilibrio psi- cosociale si trova in stato di turbamento. È di queste cose dunque che bisogna farsi carico perché la ricaduta divenga un’occasione e non un ulteriore inganno.

5. La ricaduta è dunque una strategia anti-dolore per chi vive la

284 sofferenza del soggetto disintossicato, come la chiama Olivenstein (“è solo il tossicodipendente guarito che si suicida”, scrive provoca- toriamente l’autore francese). Il soggetto senza buco vive un corpo scorticato, esposto, vulnerabile, e un mondo psichico disarmato di fronte alle angosce di morte che hanno spesso il sapore e la forza della sua antichità e che divengono in lui immediatezza totalizzan- te sino alla ricerca di una “overdose”. La ricaduta è così il segno di una vulnerabilità e della sua riposta regressiva, come della funzione degli “eventi di vita” (life-events) e della debolezza di assunzione e di elaborazione (coping) dello stress psicosomatico e psicosociale.

6. La ricaduta è interrogazione sulla cura, sulla onnipotenza dei terapeuti, sulla loro pazienza, sulla qualità della loro accoglienza. Essa è chiasma critico del processo terapeutico e nello stesso tem- po fa parte della esperienza tossicomanica iscritta nella figura del ritorno (attraverso il buco del corpo). La ricaduta è dunque divaricazione, rottura o “new beginning” di quell’intersecarsi del viaggio terapeutico e del percorso esisten- ziale tossicomanico di cui è fatto il lavoro quotidiano. È incrocio che fa oscillare trasformazione, apertura verso il mondo e ripetizio- ne, rinvio al medesimo, auto-consumazione di sé.

7. La ricaduta è un modo per ritmare il tempo altrimenti, per sospenderlo provvisoriamente, per ricominciare il tempo. Ecco perché ricaduta e disintossicazione somatica rappresentano una so- glia necessaria e gemellare della esperienza tossicomanica e dunque momento fondamentale ad ogni entrata nel viaggio terapeutico. Sono tempi terapeutici e di vita privilegiati nella percezione di co- esistenza tra mondo, psiche e corpo, una percezione instabile, pre- caria e dolorosa, là dove alla ricerca di una totalità mai raggiunta ma intravvista il tossicodipendente rischia la sua definitiva disarti- colazione, come il gioco di un mosaico che ogni volta ricominciato si trova a dover fare i conti con i pezzi smarriti…

Finalmente la ricaduta è un modo per ricominciare un gioco tragico ma anche eccitante attorno alla propria identità. Come allora esserci come curanti in questa ricomposizione-decomposi- zione di un mosaico della vita e della esistenza quotidiana in esilio

285 di se stessi e del mondo, ammagliata dai profumi della antichità, ogni volta che il mosaico ri-incontra il caos? Come fare che una ricaduta sia solamente un “reculer pour mieux sauter”, una espe- rienza di senso e di rinascita e non un agito disperante? Come fare della ospitalità continuamente un “crocevia di cammini” anche di fronte al fallimento, alla protesta, alla rottura, alla disperazione? Queste alcune della questioni al centro di quel colloquio ma ine- sorabilmente al centro del nostro ascolto e della nostra presenza quotidiana nel loro “cammino”.

4.3.5 La caduta e l’inciampo Lorenzo Pellandini

La caduta, desidero parlarvi, anche, di ciò che precede la caduta, ossia l’inciampo. La caduta del podista oppure quella del marato- neta; questa potrebbe essere la metafora. Il podista, si sa, e il maratoneta sono in cammino, sono in mar- cia, verso un obiettivo, loro però preferiscono parlare di traguardo, il traguardo rappresentato dallo striscione con scritto arrivo, che già lascia intravvedere quello prossimo con scritto partenza. La paura della caduta Preceduta dall’inciampo La paura del dopo Accompagnata dalla paura dello sguardo Si può inciampare su un sasso, su un gradino troppo alto, su un gradino troppo “altro”, oppure perché distratti dal volo, in un battito d’ali, di una farfalla colorata, oppure perché incapaci di ascoltare l’affanno del nostro respiro e di quanto il corpo vuole comunicare alla mente, oppure la mente incapace di fermare il corpo nel renderlo attento sulla possibile e necessaria sosta, oppure si può inciampare perché il passo si è fatto pesante, passo diventato insostenibile, troppo pesante per essere trasportato, troppo pesante per condurre il nostro corpo, oppure…

Inciampare; può significare, incespicare urtare col piede un ostacolo, incappare imbattersi trovarsi di fronte a una persona in- desiderata o un imprevisto e ancora, incespicare procedere a stento

286 nel parlare o nello scrivere. In questa notte di racconti95 io mi sono dovuto misurare con la mia paura dell’inciampo e della successiva ipotetica caduta, ho fatto le prove, quelle teatrali per intenderci, ho ripetuto la mia parte. Allo specchio più volte fino a credere di es- sere pronto per sostenere il vostro ascolto, il vostro sguardo. E ora che sono qui con voi, temo di incespicare in una virgola inoppor- tuna, di balbettare su un punto sospeso, perdermi in un contenuto oscuro alla ricerca del predicato e del soggetto. Ho paura di perdere il tempo, quello coniugato per intenderci. Quello che protegge il senso di quanto si vuol comunicare. Ho paura di essere troppo “altro”, può sembrare un paradosso, ossia impegnato nella ricerca di un’improbabile presenza perfetta, tentativo esasperato di proporre una narrazione senza inciampo. Allora ecco che all’orizzonte si profilano i contorni di un altro me, privo del suo vero singolare, infatti il nostro singolare non può che essere abitato anche dalle nostre imperfezioni, dalle nostre ombre, ma la forza delle nostre ombre risiede nella possibilità di apparire solo, e solo se, in presenza di luce. Ho paura di inciampare perché ho paura del vostro giudizio, come il maratoneta o il podista che quando inciampano a prescindere dalla successiva caduta, perché sappiamo che non necessariamente ad un inciampo segue la caduta, ebbene ancora in piedi, eretti sui loro arti, o sdraiati mentre ancora si rialzano, si guardano attorno alla ricerca di un possibile sguardo, di un possibile giudizio.

L’inciampo, la caduta, l’accaduto; chi frequenta il mio semina- rio sa che navigo in un oceano che, non è quello atlantico e nem- meno quello pacifico; navigo nelle acque a volte burrascose di un mare che è stato chiamato follia96. Un giorno alla settimana97 mi reco verso il mio approdo a far cambusa, direbbe Graziano Marti- gnoni, mi incammino verso scuola, verso di voi. Negli altri giorni navigo, sotto costa o in mare aperto e mi capi-

95 Attività di narrazione realizzata durante il seminario “La caduta del- la notte” proposta nell’ambito del modulo “Identità personale” del DSAS della SUPSI a.a. 2012-2013.

96 L’autore lavora presso l’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC).

97 Un giorno alla settimana l’autore lavora presso il DSAS della SUPSI.

287 ta con una certa regolarità d’incontrare velieri e altri marinai con- frontati con uragani, marinai che si misurano con i loro naufragi, le loro cadute e ancora cadute, cadute e altre ripetute cadute. Tant’è che in questo oceano si parla di ri-cadute, e in tutta one- stà mi pare che con questo termine ci distanziamo, ci allontania- mo dall’accaduto, quasi a proteggerci, nell’intento di disegnare un confine tra noi, me, e altro, l’interlocutore ac-caduto. Come se le ripetute cadute non abbiamo nulla da raccontare, non ci sia più nulla da comprendere, è caduto e basta e chi se ne frega dell’in- ciampo, cosa ci importa della possibile storia. È storia già ascoltata non vi è nulla di nuovo, non è più sorpresa è solo disincanto, non ci può essere amore, è solo noia, tristemente noia che congela la nostra, le loro esistenze.

Invece no a noi, non è data la “noia”. Quella descritta saggia- mente da Eugenio Borgna, quella che annulla le storie personali e le metamorfosi, quella che ci pietrifica nell’anonimato impossibili- tati nel dare senso alla vita.

“La noia è un’espressione emozionale, una Stimmung, che sta ai confini della tristezza: anche se non si identifica con questa in ordine alla diversa costituzione temporale (…) dell’una e dell’altra. Nella noia si vive nell’orizzonte infinito e immobile del presente che non ha passato, e non ha futuro: congelato, e rappreso, in questa sua sola dimensione temporale. In ogni esperienza di noia (noia psicologica e noia psicopatologica ma anche noia esistenziale e noia metafisica: noia pasca liana nella sua ardente dissolvenza di ogni speranza e di ogni interesse, di ogni illusione mondana e di ogni affannosa ricerca di un senso) si sprofonda, così, in un tempo indifferenziato e in una infinitudine di esperienze anonime. La noia come stato d’animo senza più storia personale: senza più metamorfosi”98.

D’altro canto la noia è parte dell’argilla con la quale noi co- struiamo le nostre opere educative, infatti i marinai che incontria- mo, si confrontano, con sfumature diverse, con la loro percezione

98 E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001, 21.

288 d’impossibilità di metamorfosi, con il loro sentimento di anoni- mato nel vortice del non senso. Ebbene, allora, proprio incontrando le loro storie, proprio ri- partendo dalle loro narrazioni, mi piace pensare che nessuna meta sia irraggiungibile, e qui non si tratta di generare illusioni monda- ne, anzi si tratta concretamente di dare e ridare senso alle storie, perché queste possano essere il presente capace di riconoscere il passato, perché queste possano avere un futuro.

“Futuro e passato non esistono, e che impropriamente si dice: ‘Tre sono i tempi: il passato, il presente e il futuro’. Più esatto sarebbe dire ‘Tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro’. Queste ultime tre forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa”99.

Non perdiamo l’occasione che ci è donata dalla caduta, e qui mi permetto ancora di citare Eugenio Borgna, di incontrare

“I linguaggi dell’anima, i linguaggi del corpo, la inquietudine, la memoria, gli stati d’animo, le parabole agoniche del dolore, le ragioni del cuore nelle lacerazioni, e nelle distorsioni, a cui vanno incontro nella follia”100.

Non perdiamo l’occasione, quindi, di scoprire il senso delle sto- rie, la meraviglia dell’accaduto. Impegnarci nell’essere esploratori di narrazioni che non temono nuove scoperte, che non temono lo stupore, quello dato dall’in- contro, quello che ti porta a pensare “e ora cosa accade?”, questio- ne che genera e rigenera la voglia di nuove scoperte, che alimenta la nostra capacità d’incuriosirci. “Pour en revenir à l’étonnement, c’est une façon d’être prêt à la rencontre sans s’y préparer, sans s’y croire préparé par ce qu’on

99 Sant’agostino, (capitolo XX, libro undicesimo), cit. in: D. Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, 1999, 210.

100 E. Borgna, Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano, 2012, 17.

289 a lu, appris. Bien sûr, il vaut mieux avoir travaillé, avoir sa boîte à outils, comme les tailleurs de pierre, mais il faut marcher, et ne pas se raconter qu’on écoute. On devrait faire subir aux psychiatres l’épreuve des gangsters, celle du regard périphérique. Un postulant doit marcher dans une rue bordée de bijouteries en regardant droit devant lui et, à l’arrivée, décrire en détail”101.

Curiosi alla vita, curiosi nella vita per dare rilievo ai dettagli, a quelle sfumature che disegnano le differenze. Per comprendere il cosa accade ora, bisogna sapere esplorare anche che cosa è accaduto, bisogna saper assumersi la fatica di in- contrare anche gli eventi drammatici, dolorosi, di sofferenza che l’altro porta con sé. E poi cosa accadrà? Questa domanda ci progetta nel futuro, nel- le sue incertezze, ma dal momento che la formuliamo rende il dub- bio meno dubbio, il cosa accadrà non è più solo futuro ma inaugu- ra un presente condiviso, presente capace di vivere con equilibrio pure nell’incertezza…

Infine. Ricercare il senso, significa predisporsi all’ascolto, significa dare senso anche all’inciampo, significa porre attenzione ai piccoli det- tagli, a quel sasso non visto, quel pensiero non espresso, al volo della farfalla, al corpo in affanno e il suo soffio vitale, alla mente distratta, significa trovare oggetti e emozioni, porre ordine nel di- sordine, riporre disordine nell’ordine. Significa essere audaci. Ricercare il senso vuol dire autorizzarsi alla sosta, sostare nell’ac- cadimento, banalmente poi potremo anche scoprire che non ci è data sosta se non c’è percorso, e non ci è data caduta se non c’è cammino. E ancora. Senso. Vuol dire potere essere nella storia del maratoneta, essere pre- senti e non lontani, essere vicini e non distanti, vicini nel cam- mino, spalla a spalla nel sentiero, nelle salite e nelle discese. Vuol

101 J. Oury - M. Depusse, À quelle heure passe le train … Conversations sur la folie, Calmann-Lévy, Paris, 2003, 43.

290 dire ritrovare insieme il traguardo che già lascia immaginare una possibile nuova partenza. Perché il possibile possa ancora accadere e stupirci, perché il ma- ratoneta possa avere ancora passi leggeri, ritrovare i suoi passi di seta.

4.3.6 Sulla retta via non ci va nessuno. Riflessioni su arte, normalità, disabilità102 Claudio Mustacchi

L’attenzione verso le problematiche della disabilità, focalizzata inizialmente sul piano etico, con le azioni caritatevoli, e su quello scientifico, si è rivolta, in una fase più recente, in direzione dell’e- stetica. In tale senso, si è orientata verso il riconoscimento del di- ritto di cittadinanza artistica e culturale alla disabilità sostenuto da logiche di azione sociale che favoriscono l’emancipazione e l’auto- nomia. In che modo i cambiamenti nel mondo dell’arte nel corso dell’ultimo secolo sono rivelatori di questa trasformazione? In che forma vi hanno contribuito? Per quale motivo l’espressione artistica trova una vasta applicazione nel contesto del lavoro con l’handicap? A questa domanda si potrebbe controbattere: «Per quale moti- vo l’arte non dovrebbe trovare vasta applicazione nel lavoro con l’handicap?». Accanto alla scienza e all’etica, l’arte è una delle più profonde manifestazioni dello spirito umano. Laddove gli essere umani desiderano coltivare le loro migliori qualità incontriamo la ricerca della conoscenza, della giustizia e, inevitabilmente, l’ar- te, nelle sue infinite manifestazioni. Senza alcun dubbio quando pensiamo al mondo dell’handicap - ai soggetti, alle famiglie, agli operatori che lo compongono - pensiamo a un mondo che si sforza di coltivare le proprie e altrui qualità. Bisogna comunque riconoscere che la diffusione di pratiche ar- tistiche nei contesti del lavoro con l’handicap - come in molti altri luoghi del lavoro sociale e di cura - è un fenomeno attuale con

102 Questo articolo è già apparso nella rivista per le Medical Humanities, rMH 20 Ottobre-Dicembre 2011.

291 elementi evidenti di novità. È - a mio parere - l’espressione della maturità raggiunta dal set- tore. I primi interventi organizzati e strutturati nei confronti del mondo dell’handicap sono stati mossi dall’etica, dalle sensibilità filantropiche e caritatevoli; si è poi aggiunto il contributo della scienza che ha consentito straordinari progressi sia metodologici che culturali. L’apparire dell’arte è il segno di un’ulteriore evolu- zione attualmente in corso. Alle esistenze che si confrontano con l’handicap viene sempre più riconosciuto pieno diritto di citta- dinanza culturale, che è qualcosa di più del semplice diritto di esistenza: vuol dire accedere a tutte le manifestazioni del pensiero umano. Sto però parlando di un processo in atto, che come ab- biamo detto rappresenta una novità, tanto che - legittimamente - ci interroghiamo a questo proposito. Ciò significa che c’è ancora parecchio lavoro da fare. In termini molto generali, per comprendere i motivi per cui esperienze di teatro, atelier di pittura, attività musicali, laboratori di narrazione e tutta una vasta serie di iniziative artistiche e cul- turali stanno sempre più caratterizzando il lavoro con l’handicap, dobbiamo prendere atto quantomeno dei cambiamenti che sono avvenuti - e stanno continuamente avvenendo - nel lavoro socioe- ducativo e nel mondo artistico. Per quanto riguarda i cambiamenti nel lavoro socioeducativo non ritengo necessario entrare troppo nel merito in questa sede. Tali mutamenti possono essere riassunti in un concetto: l’operato- re sociale è oggi colui che è in grado di guardare alle possibilità dei soggetti che a lui si rivolgono, laddove le altre persone - e a volte i soggetti stessi - vedono solo problemi. Da una logica prevalente- mente assistenziale siamo passati a una visione pedagogica, attenta a favorire l’autonomia e l’emancipazione. L’intervento sociale oggi si costruisce insieme ai soggetti, all’interno di una complessa rete di relazioni sociali e istituzionali che sostiene e valorizza le per- sone. L’utente che un tempo veniva inteso come un portatore di un bisogno è oggi considerato come portatore di dignità sociale e di possibilità educative a cui vanno offerte tutte le risorse che società e cultura possono mettere a disposizione. In questo quadro il lavoro sociale diventa sempre più complesso; l’operatore sociale non è più un mero esecutore di provvedimenti o di procedure d’in-

292 tervento, ma deve continuamente alimentare la propria creatività e quella dei soggetti e delle famiglie con cui opera per costruire nuove strategie e soluzioni. Sono certo però che questi temi non siano nuovi per i lettori. Meno conosciuti possono invece essere quei cambiamenti avvenuti nel mondo dell’arte, che fanno sì che molte pratiche artistiche si diffondano nei contesti del lavoro sociale e di cura. Per cercare di capire cosa è accaduto all’arte del secolo prece- dente io spesso mostro ai miei studenti due disegni uno accanto all’altro. Il primo proviene da un atelier di pittura di un centro psi- chiatrico ed è stato realizzato da un paziente affetto da una grave psicosi, il secondo è un disegno espressionista di un noto pittore del Novecento. Chi non ha una discreta conoscenza estetica, non riesce a dire con certezza quale lavoro sia da attribuire all’uno e quale all’altro autore. Se riflettiamo bene è un fatto disarmante. Nessuno avrebbe dubbi, in una situazione similare, nell’attribuire un quadro del rinascimento o dell’impressionismo, ma l’arte del Novecento rende possibile questa ambiguità. Di fronte a questo fatto potremmo essere tentati di dare ragione a chi nella Germania nazista organizzò la mostra dell’Arte Degenerata e mostrò opere provenienti dai manicomi accanto a opere degli espressionisti e di altri movimenti contemporanei, per dimostrare che artisti come Klee e Kandinsky erano dei pazzi, perversi e degenerati. Per fortu- na il nazismo è tramontato e le opere di quei geni sono presenti nei più importanti musei del mondo. La mostra dell’Arte Degenerata aveva però colto un elemento reale: il legame fra le opere degli artisti contemporanei e i luoghi della sofferenza o dell’emargina- zione. In effetti pittori del calibro di Klee, Mirò, Picasso e molti altri - sempre più critici verso l’arte imitativa e celebrativa e in cer- ca di ispirazioni per inventare nuovi modi di espressione e nuovi linguaggi, hanno rivolto le loro attenzioni alle immagini prodotte al di fuori dei luoghi tradizionali dell’arte; osservavano i disegni dei «debili mentali», come si diceva allora, ma anche degli auto-didat- ti - pensiamo al Doganiere Rousseau - dei bambini, degli uomini primitivi, delle culture non industrializzate. Questi artisti si ponevano all’ascolto dei linguaggi dei più deboli e degli emarginati, nello stesso periodo in cui altri uomini, teoriz- zando la purezza del sangue e della razza, praticavano lo sterminio

293 che è partito proprio dall’eliminazione di malati e disabili. Stanco di un’arte che aveva perso il contatto con la realtà, questo gruppo di artisti cercava di inventare un’arte che fosse un vero nu- trimento per tutti gli uomini. La cultura intesa come lusso o svago non era di loro interesse. Antonin Artaud - poeta e rinnovatore del teatro - diceva di cercare un’arte che fosse un vero nutrimen- to per l’uomo, che avesse «la forza della fame». Gli artisti si sono avvicinati alla sofferenza, all’infanzia, all’emarginazione e ai loro linguaggi, perché in quei contesti esistono bisogni di comunicazio- ne, necessità vitali di espressione, che hanno appunto la forza della fame. I nuovi linguaggi dell’arte inventati dagli espressionisti o dai surrealisti e dai loro discendenti non hanno più lo scopo di imitare la visione della natura o di celebrare il potente di turno, ma offro- no infinite nuove possibilità di comunicazione, fra cui non ultime quelle di esprimere le profondità dell’animo umano, le sue emo- zioni, le sue inquietudini. I linguaggi dell’arte contemporanea - lo stesso vale per il teatro e ogni altra forma d’arte - possono diventare ciò che il filosofo francese Foucault chiamava «tecnologie del sé», strumenti attraverso i quali è possibile rappresentare e comunicare se stessi e dare vita a processi di formazione e trasformazione indi- viduale e sociale. Se oggi - come abbiamo detto - l’operatore sociale vuole mostra- re che ognuno, oltre alla storia delle proprie difficoltà, porta con sé una storia ricca di vita e di potenzialità, capiamo che i linguaggi dell’arte possono giocare un ruolo prezioso. Il dialogo fra strumen- ti dell’intervento sociale e strumenti dell’arte è ormai aperto e si sta diffondendo in Ticino come in tutta Europa; presso la SUPSI ci stiamo attrezzando per sostenere adeguatamente le azioni for- mative in questa direzione con un corso rivolto alla creatività nel lavoro sociale. Come si può interpretare nell’ambito dell’handicap la frase di Jose- Beuys: «Ogni uomo è un artista»? Beuys è uno degli artisti più originali e interessanti del No- vecento. Si dice che non abbia voluto creare nessun metodo ma abbia dedicato l’intera sua arte e la sua vita per migliorare tutti i metodi dell’uomo. Per lui l’origine dell’arte risiede nell’energia vitale di cui ogni uomo - in qualsiasi condizione di esistenza - è portatore. Beuys si esprime proprio in termini energetici termodi-

294 namici e insiste sulle relazioni che ogni essere instaura con gli altri esseri dell’universo. Ogni forma vivente che appare su questa terra provoca un’alterazione dell’universo, anche se microscopica, quan- to meno un piccolo cambiamento di temperatura. L’uomo è una delle forme di vita più evolute che è in grado di prendere coscienza dell’alterazione provocata dalla sua nascita e può indirizzare le sue energie in senso positivo per il miglioramento di tutti gli esseri. L’arte è intesa in senso letterale di «artificio», lavoro umano che trasforma le cose. In questo senso: ogni lavoro umano è un’arte, ogni uomo è un artista, ognuno può contribuire al miglioramento del mondo. L’arte di Beuys muove dal rispetto delle diverse forme di vita sulla terra (un paradiso se paragonato con gli altri pianeti), dal riconoscimento delle reciproche relazioni, e ci invita a coltivare le potenzialità presenti in ogni essere. Da questo punto di vista non ci sono gerarchie, non c’è chi ha più capacità e chi meno: ogni filo d’erba, ogni fiume, ogni insetto, e così ogni persona, possiede una propria energia vitale, che si intreccia con gli altri nelle relazioni che instaura con i vari esseri. I limiti non appartengono alle perso- ne ma alle relazioni. Ci sono alcuni esseri viventi - gli umani - che possono prendere maggiormente coscienza dello stato delle cose del mondo e possono contribuire al miglioramento. Quelli che ci appaiono come i limiti altrui sono in realtà i nostri limiti, perché appartengono alle nostre relazioni. Poiché ne abbiamo consapevo- lezza, abbiamo anche più responsabilità e possiamo indirizzare al meglio la nostra energia per il miglioramento degli esseri viventi. Se non facciamo niente, una trasformazione avviene lo stesso, in maniera caotica, quasi mai positiva. L’arte visionaria di Beuys ci in- vita ad accogliere ogni persona al di là delle diversità e a valorizzare le relazioni che legano tutti gli esseri dell’universo; un’immagine affascinante. Possiamo in questo modo aiutare ogni essere umano a essere un artista, cioè a utilizzare al meglio la propria energia vitale, che Beuys chiama anche «creatività». Beuys è annoverato fra gli scultori, perché operava con gli og- getti, ma ha sempre sostenuto di essere uno scultore della mate- ria sociale. Le sue opere sono spesso sorprendenti. In una famosa azione creativa, piantò con i suoi studenti migliaia di querce nella città tedesca di Kassel. Piantare una quercia... L’artista non vedrà

295 il risultato del suo lavoro, è un messaggio straordinario lanciato verso il futuro. In un altro intervento, visse in una stanza per al- cuni giorni con un coyote, per mostrare le profonde relazioni che esistono fra l’animale e l’uomo. La sua ricerca estetica si rivolge a tutti i sensi, non solo alla vista e all’udito. L’idea di Arte Totale perseguita da questo artista mette in discus- sione il concetto di opera d’arte. Egli ci invita a guardare alle opere, anche a quelle dei grandi geni, come a «relitti»: sono ciò che ci re- sta della grande energia creativa di quegli uomini, ed è quell’ener- gia che dobbiamo rievocare quando godiamo di quei capolavori. Chi lavora con l’handicap sa quanta emozione può scaturire da una stretta di mano, da uno sguardo, dalla vicinanza di un corpo, da un segno sulla carta, un piccolo oggetto, una parola... Per chi le prova, queste percezioni sono commoventi come opere d’arte. Lasciamo ai critici il difficile compito di stabilire cosa attualmente valga la pena di essere comprato dai collezionisti d’arte - non è una preoccupazione che ci riguarda. Grazie a Beuys e a molti altri arti- sti, sappiamo che in un piccolo gesto quotidiano sono racchiusi i grandi temi e i grandi enigmi della vita: coglierli è un’arte che vale la pena di essere coltivata. Che legame c’è tra norma e arte? E come interviene il concetto di normalità? Una premessa sul concetto di norma. Di fronte all’annosa que- stione se la normalità esista oppure no, mi piace fare appello alla metafora della barca a vela. Per dirigere la barca, il navigatore traccia una linea retta che indica il tragitto dal punto di partenza all’approdo: la rotta. Il navigatore sa bene che la linea è immagi- naria, non si metterà mai a scrutare il mare cercando quella riga, non imporrà nemmeno alla sua barca di seguirla; questa, mossa dal vento e dalle onde, oscilla e scivola senza sosta. A cosa serve quel- la linea? Serve a orientarsi in una realtà in continuo movimento. Ogni tanto il navigatore farà «il punto» per misurare quanto la bar- ca è prossima o lontana dalla rotta. In caso di grandi spostamenti, causati da forti venti, correnti o imprevisti di mare, sarà opportuno tracciare una nuova rotta. La normalità è un concetto molto simile. Una costruzione im- maginaria che non esiste nella realtà, ma che serve per orientarci, per non perderci nei continui mutamenti. In breve: uno strumen-

296 to di orientamento. Sulla «retta via» non può stare nessuno; tutti zigzaghiamo spostati dagli eventi, dalle emozioni, dalle difficoltà, dai bisogni. L’espressione «persona normale» non ha nessun signi- ficato concreto, nessuno è costitutivamente normale. Quell’espres- sione indica soltanto che tale persona non è troppo lontana dalla linea immaginaria che abbiamo tracciato. Il tracciato della «normalità» è una costruzione sociale. Ogni cultura traccia la rotta che deve essere seguita dalla propria co- munità. Inevitabilmente ogni tanto la società deve cambiare rotta, con grandi resistenze di quelli che erano attenti a non allontanarsi troppo dal tracciato - magari facilitati da barche solide o semplici da manovrare. La società è aiutata nel cambiamento da quei navi- gatori coraggiosi che si sono spinti a esplorare nuove vie. Fra questi navigatori ci sono certo anche gli artisti, che con le loro opere e le loro vite contribuiscono alla riflessione della società su se stessa, sui propri codici, linguaggi, comportamenti, desideri, e spostano la linea della norma. In una recente comunicazione, ho parlato di due artisti, un pit- tore e un musicista, che hanno contribuito al rinnovamento delle loro arti, ma anche allo sguardo della società verso se stessa. Ho parlato di due disabili: Paul Klee e Woody Guthrie, due stra- ordinari personaggi accomunati dal destino di essere stati colpiti nel finire della loro vita da una patologia debilitante. Dire di Klee che era un disabile sembra un’espressione molto forte, perché in- vidiamo le sue doti, il sue estro, le sue «abilità». Ma è la realtà. Egli fu colpito dalla sclerodermia, una malattia cronica e evolutiva che provoca l’indurimento della cute e rende doloroso e difficile il movimento (per maggiori informazioni: www.sclerodermia.net). Guthrie era invece affetto dalla Corea di Huntington, una patolo- gia ereditaria caratterizzata da disturbi del movimento e dell’umo- re (per maggiori informazioni: www.aichmilano.it). L’imbarazzo che proviamo di fronte alla definizione di Klee o Guthrie come «disabili» è legato al fatto che noi usiamo quel ter- mine per attribuire un’identità alla persona, e non riusciamo a com- prendere che un essere umano è qualcosa di molto ricco e complesso che non può essere ridotto a una definizione o a un evento. Con questa riflessione ho olutov sottolineare che il tema dell’handicap attraversa la vita delle persone, è qualcosa che ci ap-

297 partiene, un tratto costitutivo della società, non qualcosa di estra- neo. Noi viviamo sempre con un senso di onnipotenza e facilmen- te scordiamo che per una buona parte della nostra vita abbiamo bisogno di cure: nell’infanzia, nella malattia, nella vecchiaia. Solo per un periodo della nostra vita noi siamo «normali». Se la società comprende questo concetto, semplice e complesso al tempo stesso, nel tracciare le rotte della sua norma tiene conto delle diverse parti che la costituiscono, con grande beneficio per tutti. Un esempio banale: un quartiere dove può muoversi tranquillamente una sedia a rotelle è un luogo anche per le mamme con il passeggino, le per- sone con i carrelli della spesa, i giovani con i pattini, il movimen- to dell’anziano; e magari porta giovamento anche all’impiegata e all’impiegato frettolosi e sotto stress. Lo sguardo dell’arte ci può aiutare a riconciliarci con la realtà, che è composta da molteplici elementi; ci offre nuovi sguardi per avvicinarci a ciò che viviamo come estraneo e lontano e invece ci appartiene. Questo uno dei compiti che Klee affidava all’arte. Egli si rite- neva uno scienziato che indaga e costruisce relazioni fra le cose a partire dalla propria sensibilità. L’arte, diceva Klee, «rende visibi- le l’invisibile». Le sue opere ci mostrano quanto ci sia di magico e di misterioso nel mondo. Una spiritualità cosmica traspare dai suoi lavori che creano e sviluppano continuamente nuove forme: alberi, oggetti, ritmi, silenzi, nascita, morte, comicità, dolore, con- tinuamente si intrecciano fra loro, frammenti di un unico univer- so. Attratto dai disegni infantili, Klee ne sviluppa il linguaggio. Si avvicina all’arte infantile per mostrare la forza pulsionale del simbolo, di cui non abbiamo più coscienza, ma che continua ad agire dentro di noi. Non disegna come un bambino, ma rivela che i segni primordiali, anticonformisti, fantasiosi dell’infanzia attin- gono alla fonte creativa della vita; là dove hanno origine l’uomo e il bambino, la sofferenza e la gioia, la linea retta e quella deforme, il sogno e la realtà. Grazie al nuovo linguaggio pittorico capace di entrare in sinto- nia con ciò che si muove nell’anima, nell’ultima fase della sua vita continuerà a disegnare, con grande fervore e con risultati straordi- nari, nonostante le difficoltà. Woody Guthrie è il menestrello dei diseredati, il cantore degli

298 esclusi. Offre la propria arte agli ultimi, ai poveri della Grande Depressione americana. Scrive canzoni che parlano della vita del- la gente, dei lavoratori, delle loro lotte, degli scioperi, della fatica quotidiana per la sopravvivenza. Canta le cose che vede, le cose che ha visto e le cose che spera di vedere. Parla alla gente direttamente, racconta delle gioie e delle scalogne, tocca le emozioni di tutti, mostra con orgoglio la nobiltà di chi soffre e fatica nelle contrad- dizioni della società. Con lui nasce la canzone impegnata d’autore; senza di lui non ci sarebbero stati i Bob Dylan, le Joan Baez, i Bruce Springsteen, i Fabrizio De André, per citare solo alcuni dei musicisti che riconoscono il debito verso il maestro. Nell’avvicinarsi al mondo dell’infanzia e al mondo dell’emar- ginazione, Klee e Guthrie non sono mossi da un semplice spirito caritatevole, ma da uno spirito culturale che vuole andare oltre le barriere che la società ha creato fra adulti e bambini, fra ricchi e poveri. Klee e Guthrie ci ricordano che, nonostante le apparenze, noi siamo tutti parte dello stesso mondo e condividiamo la stessa essenza, adulti e bambini, privilegiati e emarginati. Essi sono «disabili» anche nel senso che non sono capaci di ac- cettare le regole correnti della società, e con il loro sguardo colto le mettono in discussione. Attraverso i linguaggi dell’arte hanno comunicato la loro in- soddisfazione verso lo stato del mondo, e ci hanno offerto nuovi alfabeti, nuovi linguaggi, nuovi occhi. Uno sguardo che anche gli operatori sociali e sanitari sono te- nuti sempre più ad assumere. Per questo sempre più si occupano di teatro, di pittura, di musica; per comunicare che - come canta Woody Guthrie - «nessuno su questa terra è nato per perdere, per- ché questa terra è stata creata per te e per me».

299 4.3.7 Una notte nel castello, la notte - il momento della partenza Lorenzo Pezzoli

Si parte quando è ancora notte, nelle escursioni impegnative così come negli inciampi della vita, si cade ed è di notte, in quel tempo della psiche ancora segnato da un orizzonte determinato dalla caduta, che ci si deve rialzare. Rialzarsi è determinato dalla speranza dell’arrivo della luce perché la luce non c’è ancora, rialzar- si è facilitato da qualcuno che da la speranza che la luce arriverà e da in piedi la si può vedere prima e meglio. Si parte di notte perché la notte richiama l’immagine della psiche che si concentra su sé stessa per elaborare la caduta e il buio che avvolge la salita richiama la perdita di visibilità di ciò che sta fuori per concentrarsi su ciò che sta dentro. La notte è da sempre il luogo reale e simbolico del mistero, forse perché abbandonato dalla luce del sole che permette all’uomo, essere diurno, di orientarsi e difendersi, forse perché luo- go del sonno che, come nella tradizione greca, è fratello della mor- te ed entrambi sono figli della notte. Thanatos e Hypnos sono i figli suoi ed è difficile distinguere e separare questi due esseri tanto che da sempre la morte è rappresentata come un sonno e il sonno è immagine e segno dell’abbandono della/nella morte. Fino all’il- lustre William Shakespeare il quale faceva ben porre la questione ad Amleto se “essere o non essere” evocando “i colpi di balestra” di una fortuna oltraggiosa e chiedendosi se “morire o dormire” e nel sonno “por fine ad ogni affanno”. Morire, dormire, Sonno e Morte come abitatori della notte, come figli suoi così bene evocati nel mito antico. Il pittore ottocentesco William-Adolphe Bouguereau la dipinge con animali notturni che le svolazzano attorno e un drappo nero che in parte l’avvolge e la copre. La notte rappresenta dunque un punto di partenza dove dal buio che richiama l’indi- stinto possono nascere molte cose, il buio della notte, o la sua luce particolare è un buio e una luce primigenia di travaglio e sviluppo. Partire di notte è immagine e richiamo al travaglio delle partenze è, come i luoghi di imprevisto e incontro tali sono il bosco, il mare, i deserti, una terra di mezzo che va attraversata per raggiungere e godere della luce del giorno. La notte chiede di essere attraversata fino in fondo, fino al crepuscolo perché i suoi doni siano schiusi

300 come i labirinti medievali che vanno percorsi fino al loro termi- ne. La notte, dei labirinti, contiene il loro duplice senso di dedali e, appunto, labirinti. Perché se è vero che nel labirinto non ci si perde in quanto il tragitto è dato e l’abilità, la bravura se si prefe- risce, sta nel percorrerlo tutto come a Chartres, nel dedalo invece il perdersi è uno dei rischi maggiori come a Cnosso, e solo un filo donato da una pietosa Arianna consentirebbe non tanto di uscire ma di ritornare da dove si è partiti, questo sì. La notte è dedalo e labirinto, può scoraggiare l’attraversarla per intero come pure ci si può perdere. Come evoca Anna Luisa Zazzo nel suo ispirato testo “Io la Notte” dove impersona e fa raccontare in prima persona alla Notte la sua straordinaria vicenda esistenziale, Nyx è il grande uccello dalle ali nere che nel Caos primordiale amò il vento e da loro nacque Eros. Dalla notte o, meglio, dalla Notte origina la vita. Partire di notte è immagine del rischio che ogni partenza ha con sé: è di notte che si parte nel lavoro e nella relazione d’aiuto, è nella notte dell’altro che si inizia a camminare con lui, al suo fianco. Come nel salire con fatica e con poca luce al castello la- sciando alle spalle la città che dorme, indifferente forse a questo salire, come spesso indifferenza e incuranza segnano i percorsi di disagio ed esclusione di molte persone che sentono, sperimentano e patiscono la solitudine dell’abbandono. L’abbandono da parte di chi dorme nel momento della prova dell’altro come nell’orto evangelico dove l’Uomo patisce l’attesa e il travaglio mentre i suoi si addormentano. Chi attraversa la notte diventa capace di accompagnare nella notte. Si parte e si sale con pile e luci, in silenzio, perché la notte va rispettata e non profanata. Si dà agli studenti un approccio diver- so, davvero trasgressivo alla notte. La notte fa paura ed è per quello che di notte molti fanno chiasso. Si sale in silenzio ascoltando il proprio respiro che diventa via via affannoso perché la salita, ogni salita, ci fa sentire il fiato corto. E il fiato corto va ascoltato. Il cam- minare è un po’ una piccola metafora della vita: si cammina come si vive e si vive come si cammina. Quando di notte e con il fiatone si arriva alla porta che sale per un passaggio tra le mura sbucando nel mezzo del cortile del castello sui primi spalti, quando si entra nel cuore della fortezza ci si sente accolti, compresi, protetti. Si è pronti per ascoltare.

301 Dagli spalti del castello, all’interno delle mura che proteggono, si ode il grido della notte. Ci sono dei musicisti che lo eseguono e questa musica accompagna le parole della scrittrice Zazzo, che dà voce alla Notte stessa, si comincia a riflettere sul tema del cadere ma in nuce c’è anche il rialzarsi, il sorgere…

“Il giorno sorge, nasce, inizia. La Notte, di consueto, cade. Mi sono chiesta spesso perché gli esseri umani mi esprimano come una caduta: come la ca- duta, la fine del giorno. Quasi io, la Notte, non fossi una realtà autonoma, una presenza, ma soltanto un’assenza, la temporanea assenza del giorno. Perché non dire allora che il giorno è assenza della Notte? Io amo i paradossi, è vero, perché nelle mie tenebre i paradossi si incasto- nano come stelle folgoranti; e non vi è dubbio che il giorno finisca nella Notte. Il sole tramonta, e lentamente il giorno muore - cade - nelle braccia della Notte. Ma è dunque il giorno a cadere. E non sono forse le braccia della Notte, le mie braccia, a ridargli ogni volta la vita? E il mondo della Notte, la vita che anima la Notte (e vi è vita, vi è in me una vita ricchissima e molteplice), non sono forse riflesso del mondo e della vita del giorno? Ri- flesso oscuro, magico, a volte tenebroso? Forse. E tuttavia, riflesso lucente, illuminato dalla materna luce della Luna. Io e la Luna siamo espressione di una stessa realtà: realtà segreta, profonda- mente materna. E msteriosamente rivelatrice. Le stelle, la Luna, il magico intrico delle costellazioni, le nebulose, gli astri roteanti: nessuno potrebbe scorgerne la realtà se non nel grembo accogliente della Notte. E come tante realtà del cielo, degli astri, dei pianeti si rivelano soltanto alla luce oscura della Notte, così nella Notte, nel silenzio che avvolge lo spirito degli abitanti della terra quando giacciono nel suo grembo, possono rivelarsi, come in una folgorazione, verità inattese. Forse per questo non sempre sono stata amata; e il sentimento che ispiro all’umanità è più spesso un senso di timore, di arcano spavento. Gli esseri umani temono i pericoli, le sorprese che nelle mie tenebre possono trovare rifugio; ma forse temono ancora di più la discesa in loro stessi a cui invitano, a cui a volte costringo- no, quelle tenebre e quel silenzio. (…) Ora sarò io a parlare, a ricordare quello che di me è stato detto e a cercarne una spiegazione. Sarò io a parlare, a dire di me quasi mi rivolgessi a uno sconosciuto interlocutore; o a narrare antiche storie e convinzioni e leggende come venivano narrate le fiabe, nel momento in cui il sole lasciava il più lontano orizzonte, e, come dicono gli uomini, cadeva la Notte.”

Anna Luisa Zazo, Io, la Notte - incontri e situazioni, Tascabili Bompiani, 2006.

È a questo brano, di mirabile lucidità e di forte lirismo che si affianca l’ascolto del brano forse più famoso deIl Flauto Magico di Mozart: Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, abbreviata comunemente Der Hölle Rache spesso chiamata l’aria della Regina

302 della Notte103. Si ascolta il grande grido della notte contro il Sole (Sarastro) così come presentato nell’opera mozartiana, il tentativo titanico di dominare con le tenebre la luce. Un’impresa che fallisce grazie all’impegno di Tamino e Papageno, ma che comunque lascia un pensiero non solo sul trionfo del sole quanto anche su, come scrive bene Pietro Citati, “la luce della notte”. Ed è questo esercizio di riflessione e di disposizione all’ampliamento della visione uni- voca che consente la scoperta anche nella dimensione apparente- mente e univocamente negativa della notte di scoprire quella luce che mai si sopisce. La notte cade come d’altro canto cadono molte altre regine della notte. Ed è proprio su una di queste regine che incespicano e, grazie a questo cadere, lasciano spazio ed aprono ad una possibilità di successione, si sviluppa parte dell’attività di riflessione passando attraverso la fiaba di Biancaneve dei fratelli Grimm. Qui, come nel Flauto magico, troviamo una Regina della notte impersonata dalla Matrigna, anche qui c’è caduta, tenebre che raggiungono il loro culmine con la discesa di Biancaneve nel sonno mortale a causa della mela avvelenata, ma qui saranno gli studenti che con le loro associazioni lavoreranno in gruppo e col gruppo liberamente sulle tematiche e sulle evocazioni. La fiaba di Biancaneve porta con sé filoni molto interessanti sul tema della crescita, sul confronto male e bene, sul tema dell’accettazione di sé e sull’annullamento di sé, sulla caduta, che poi è il filone argomen- tativo principale. Ma anche, ed è qui il punto importante sia per la dimensione personale che per quella professionale, della rinascita, del riprendersi dopo la caduta, del riuscire ad alzarsi o, meglio, della possibilità di vedere, da dove si è caduti, il mondo da una prospettiva differente che arricchisce il soggetto e lo rilancia nel mondo. La fine di Biancaneve, il suo cadere nel sonno della morte, il suo cessare come “serva” dei nani, come “elemento di compe- tizione” per la matrigna, come oggetto di confronto (matrigna) e uso (i nani che se ne servono per attendere alle faccende della loro casa, ma si sa, i nani sono mezzi uomini e quindi soggetti che interpretano lo stare con una donna come una relazione d’uso), il

103 La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore,/morte e disperazione ardono in me!/Se tramite te Sarastro non troverà la morte/Non sarai mai più mia figlia. Disconosciuta, per sempre,/Abbandonata per sempre,/Distrutti siano per sempre/ Tutti i legami della Natura/Se tu non farai diventare pallido Sarastro!/ Ascoltate, dei della Vendetta, /ascoltate il giuramento di una madre!

303 suo divenire notte aprirà alla possibilità, come accade per la Notte, di cadere (come descrive nel primo capitolo di “Io la Notte” la scrittrice Zazzo) per lasciar spazio al giorno, o, meglio, ad un esser- ci differente. L’immagine è quella di Frank Bernard Dicksee tito- lata The Mirror. Questo autore, cresciuto in una famiglia di artisti (padre e fratello entrambi pittori) è conosciuto per i filoni mitolo- gico-storico frequentati nelle sue opere. Viene spesso considerato parte della Confraternita dei Preraffaelliti pur non facendone par- te. Il titolo e il soggetto (nonché il protagonista) di quest’opera è lo specchio, protagonista anche della fiaba di Biancaneve e oggetto utilizzato nel corso dell’esperienza del gruppo per un “gioco” di rispecchiamento dove lo studente sarà invitato a esprimersi guar- dandosi allo specchio. Tema importante (e punto cruciale della “caduta” della matrigna) sarà proprio lo specchio. Dunque la Notte, la Regina della notte del Flauto magico, l’atti- vità di risonanza delle tematiche evocate dalla fiaba di Biancaneve. Il sole, a questo punto, è sorto, la sala del torrione che con le sue finestre aperte sulla piana è invasa oramai dalla luce del sole. Ci si concede un momento conviviale di colazione. A questo punto la colazione, non prima, sentendo magari il vuoto dello stomaco delle prime ore del mattino, un vuoto che aumenta la presenza e la trepidazione dell’attesa del giorno, delle tematiche della caduta e della notte, dell’assenza e del vuoto. Gli studenti hanno preparato caffè, thermos, dolci. Una pausa al sorgere del sole (e al cadere della Notte) che riprende con la condivisione delle suggestioni di quan- to vissuto e condiviso.

304

4.4 Al Cimitero di Lugano Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli, Ornella Manzocchi con la collaborazione del prof. Adriano Martignoni, storico, iconologo104

4.4.1 Programma

Raccolta delle informazioni 8.30 Ritrovo entrata principale del Cimitero di Lugano 8.30-9.30 Visita individuale al cimitero e raccolta di informazioni 9.40-10.00 Rientro in aula

Laboratorio 10.00-11.00 Introduzione storica e dimensione antropologica 11.00-12.30 Analisi e discussione plenaria dei dati raccolti Analisi delle pre-conoscenze Messa in comune dei risultati raccolti

104 Questa esplorazione appartiene al Modulo “Individuo e Identità perso- nale”, che si svolge nel corso del primo semestre.

305 Il giorno dopo - senza di noi La mattinata si preannuncia fredda e nebbiosa. In arrivo da ovest nuvole cariche di pioggia. Prevista scarsa visibilità. Fondo stradale scivoloso. Gradualmente, durante la giornata, per effetto di un carico d’alta pressione da nord sono possibili schiarite locali. Tuttavia con vento forte e d’intensità variabile potranno verificarsi temporali. Nel corso della notte rasserenamento su quasi tutto il paese, solo a sud-est non sono escluse precipitazioni. Temperatura in notevole diminuzione, pressione atmosferica in aumento. La giornata seguente si preannuncia soleggiata, anche se a quelli che sono ancora vivi continuerà a essere utile l’ombrello. Wislawa Szymborska

4.4.2 Una violetta al camposanto105 Graziano Martignoni

Come sovente mi accade sono andato a far visita ai miei mor- ti. A visitare nello stesso tempo tutti i morti, perché in quell’ol- tremondo misterioso, di cui il camposanto o il cimitero è solo la soglia, credo che la parola miei o tuoi prenda un altro significato. Una visita che faccio ovviamente dove sono sepolti i miei cari, ma a cui non rinuncio nelle città che incontro, anche perché si viene spesso a sapere su quella stessa città e sulla sua gente più cose, pas- seggiando in quel luogo, che non attraverso le parole e le immagini di una guida turistica. Mi è sempre sembrato troppo formale e persino a volte inautentica quella sosta obbligata nella prima set- timana di novembre a cui ci hanno da sempre abituati, come se i nostri morti potessero vivere solo quei giorni. Ho sempre guardato con una certa perplessità i cosiddetti giorni della memoria, come se così si avesse una sorta di autorizzazione a non ricordare per

105 Giornale del Popolo, rubrica “Educando” del 26.9.2011.

306 il resto dell’anno. Visito i defunti non tanto per tenerli in vita, a questo pensano certamente già loro, non solo per nutrire l’inte- resse culturale e professionale, di chi accoglie ogni giorno donne e uomini, che soffrono proprio della vita, che si sentono così spesso soffocati, feriti, abbandonati dalla vita - mi ricordo di quella gio- vane donna che un giorno mi disse “non è vero che soffro della malattia che lei mi ha evocato, non è la malattia ma la vita stessa che mi sta uccidendo piano piano” - li visito per fare in modo che la vita, la mia vita non mi faccia troppo male e mi permetta sempre di respirare. È quasi scontato ricordare come uno degli indicatori di civiltà stia proprio nella cura dei morti. Da tempo immemora- bile l’uomo ha cura dei propri morti. È forse questa la caratteristica che più di altre testimonia della sua umanità. L’uomo che cura i propri morti ha cura della vita. La voce dei nostri morti fa respirare il presente e forse ci rende meno soli. La loro presenza può rendere alla vita la vita stessa. Ma come sentire e ascoltare la voce chi non c’è più? I versi del poeta senegalese Birago Diop (1906-1989) mi accompagnano. Scrive in una sua intesa composizione Souffles del 1947: “Ascolta più spesso le cose più che le persone/ La voce del fuoco si intende; ascolta la voce dell’acqua. Ascolta nel vento il ce- spuglio in singhiozzi: È il respiro degli Antenati”. Nella vorace e spesso feroce condizione della nostra esistenza quotidiana quanto è difficile soffermarsi all’ascolto di quelle voci, a guardare cose, che apparentemente non servono a nulla, nemmeno ad accrescere le nostre conoscenze, se non a nutrire la nostra anima così spesso affamata e assetata da manifestarsi in malattia. Ascoltare le cose minute e accorgersi, come mi è capitato qualche giorno fa, della presenza di una gracile violetta, che si è fatta strada con tutta la for- za della vita tra il marmo e la ghiaia della tomba dei miei genitori, come se volessero attraverso di lei mandarmi un saluto, è sovente aprire il cuore del mondo. Quella violetta è per un attimo tutto il mondo. Un’esperienza certo minuscola, che sarà capitata a molti, e che può passare inosservata, ma che può anche divenire raccon- to. Ed è proprio in quel suo divenire racconto per se stessi e per gli altri, che riesce a volte a redimere e a salvarci dalla vita “per la vita”. Perché, come ancora scrive il poeta, loro forse non sono mai andati via. “Quelli che sono morti non sono mai andati via. Essi sono qui nell’ombra che si dirada e nell’ombra che si ispessisce. I

307 morti non sono sottoterra, essi sono nell’albero che stormisce, nel bosco che geme, essi sono nell’acqua che scorre, sono nell’acqua che dorme”. Potersi concentrare per un attimo su quella violet- ta, coraggiosa come un fiore invernale, che ha la forza misteriosa di farti ritrovare un centro, dimenticando tutto l’inautentico e la chiacchiera che ci attraversa e di cui noi stessi siamo attore e vitti- ma, ha il sapore della meraviglia. “Quelli che sono morti non sono andati via, essi sono nel cuore della donna, essi sono nel bambino che vagisce e nel tizzone che brucia. I morti non sono sottoterra: essi sono nel fuoco che muore, essi sono nelle rocce che gemono, essi sono nelle foreste, sono nella casa, i morti non sono morti”. Ecco di che cosa mi ha parlato a voce bassa quell’esile violetta in quel pomeriggio di settembre assolato, come se l’estate non volesse abbandonarsi al suo tramonto.

4.4.3 Non esistere più106 Graziano Martignoni

Un giorno un amico che aveva visto la morte da vicino mi ha detto, “io non temo il morire e tantomeno la morte”, che è come un orizzonte, un misterioso territorio, verso cui veleggerò con l’ul- tima mia nave in partenza per quelle terre, ma “temo il non esistere più”. Ma allora, mi sono chiesto, vi è differenza tra la Morte e il non esistere più? Infatti l’uomo di ogni luogo ha da sempre eretto in nome di quel continuare ad esistere quella che chiamiamo ge- nericamente cultura e tutte le sue meraviglie. Chi toglie o limita le possibilità, anche economiche, al generarsi e rigenerarsi della cultura è come un cieco che si avventura senza bastone lungo le affollate vie dell’autostrada. Oggi ci accontentiamo di illuderci di rinviare il termine che ci è stato assegnato in quanto viaggiato- ri della vita e scordiamo così sovente drammaticamente di curare quelle memorie, che non possono essere che tracce simboliche del nostro passaggio insieme individuale e collettivo nella vita. Memo- rie divenute così sovente suppellettili, ornamenti, giorni di mera retorica della memoria, tempi e oggetti spesso senz’anima. Ma che

106 Giornale del Popolo, rubrica “Educando” del 25.5.2013.

308 cosa vuol dire allora non esistere più? Forse vuol dire semplicemen- te temere di sparire nel cuore e dal cuore di chi ci ha amato e di chi abbiamo amato a volte con gioia altre con disperazione; forse vuol dire veder sparire nelle nebbie del tempo finale i nostri stessi gesti, sparire dai nostri pensieri, dalle nostre emozioni, come se abbandonassimo un abito familiare e a cui ci eravamo affezionati; forse vuol dire vivere la cancellazione della nostra presenza dai luo- ghi, che hanno visto manifestarsi l’aura della nostra umanità; forse ancora vuol dire dimenticare ed essere dimenticati dai corpi che abbiamo accarezzato e toccato, corpi che hanno generato incontri, scontri, violente passioni o tristi abbandoni, dimenticare il corpo di chi abbiamo amato o quello dei nostri figli, che accompagna- vamo nel loro andare a volte con passo leggero, altre con timore o dolore nella vita. Di tutto ciò la Morte non sa nulla, nella sua infinità sapienza dell’Oltre, nulla sa della vita. Le è sottratta l’espe- rienza dolorosa ma anche esaltante della vita. Non esistere più è come abbandonare una camera dove si è da sempre e scivolare via come polvere dal palmo della mano che non può più racchiuderci. È il destino dei nostri antenati che la dimenticanza, generazione dopo generazione, offusca sino a cancellarne le tracce sulla linea di un orizzonte sempre più invisibile. L’esistere è marcato sin dall’i- nizio dalla sua fine. Questo è il tremendo che, quando si mostra, ci atterrisce. Un tremendo dell’uomo in cui l’invisibilità e l’abis- so profondissimo si riflette dentro le solitudini dello sparire dalla vita. È il tempo in cui la fame di amore, di solidarietà, di presenza e di testimonianza da parte dell’altro uomo diviene segno della vita, traccia di una memoria che non si spegne disumanamente nel nulla. È possibile dunque pensare la vita a partire dalla vertigine di quel “non esistere più”? Se la morte non è pensabile né prima, né dopo, né durante, la vita che si spegne è il grande libro di tut- ta un’esistenza. L’occasione deve essere colta, come nelle parole di Padre Turoldo quando scrive “posso rinunciare a tutto, all’incanto dell’alba e alle luci del tramonto, ma non alla coscienza…” e an- cora “se Dio acconsentirà al perdurare della coscienza e della me- moria”, allora il poeta può esclamare, “l’accordo è fatto … venga pure la morte…”. Pensare la vita allora per ospitare e rappresentare la morte, con le sue figure, il suo passare e ripassare come l’onda sull’orlo del mare. È qui che si ingaggia inesorabilmente la sfida

309 ultima sul significato di un’esistenza. Una esistenza allora senza testimoni, senza quel racconto che potrebbe dare senso all’insen- sato morire e riscattare la morte all’umano, evitando che invece divenga sgomento, insopportabile punto di orrore. Per questo è la vita, in questo declinante movimento che fa della morte un mero morire, a perdere progressivamente il suo senso più alto, a essere incapace di preparare il suo memento mori, che ha bisogno invece di narrazioni, di rappresentazioni e di riti collettivi. Nel vagabon- dare inquieto, nell’errare a volte disperato dentro questa povertà di immagini simboliche, nella seduzione effimera dei molti idoli del moderno, l’uomo di questo crepuscolo della modernità, l’uomo della “sopravvivenza” cerca un modo di (s-)fuggire da un futuro che lo cancellerà senza testimoni. Forse allora nel “non esistere più” sta l’angoscia di perdere per sempre la possibilità di appar- tenere ad una storia comune e di testimoniare anche nei gesti più semplici e quotidiani il mistero stesso della vita, incapaci, come siamo divenuti, di raccontare il mistero dell’al di là.

4.4.4 Perdere la morte, stanza con vista Graziano Martignoni

Il tema della memoria è naturalmente centrale nel travaglio del lutto a breve e anche a lunga distanza. Una memoria cancellata produce non nostalgia, dolce anche se triste ricordo di chi è morto, ma rancore, aggressività, senso di colpa, sentimento di un “vuoto” nel proprio “albero genealogico” e nella propria trasmissione gene- razionale … Chi non può iscriversi in quella trasmissione rimane un uomo destinato ad una identità bucata o ad una sorta di fanta- sia di autogenerazione senza passato e spesso senza futuro … un at- tualismo e una sorta di privilegio del presente che la nostra società fa propria in modo esemplare in molti suoi fenomeni. Si pensi alla “solarizzazione” della morte (la sensazione televisiva di poter essere presente contemporaneamente alle scene della morte in ogni parte del mondo), alla morte “in diretta”, che fa illusoriamente sentire partecipe e informati, mentre nello stesso tempo produce estrema passività e impotenza; si viene così a creare una sorta di intimi- tà con la morte, che è solamente però una intimità senza contat-

310 to, senza dolore (la commozione è subito cancellata dal prossimo “spot” pubblicitario), una intimità irreale. Da qui il bisogno di una sorta di illusione di indistruttibilità e di eternità della vita, di falsità della morte, garantita dal fatto che tutto è oramai riproducibile, artificiale e dunque in fondo non mai veramente e definitivamen- te avvenuto … Anche la morte allora, estremo e radicale destino dell’uomo, può divenire immagine tra le immagini duplicabile, trasformabile, al fine inesistente o almeno controllabile nella fre- nesia del telecomando. Come è oramai rappresentata la morte nel gran “teatro del mondo”, privo di magia e di meraviglia? Domande essenziali e certo non solo di ricorrenza. Vi è nell’attraversamento disuguale del novecento un melanconico e allo stesso tempo tragico senso di smarrimento, di sottrazione progressiva della percezione collettiva della morte in quella, che potremo chiamare con Robert Lifton, una vera e propria “perdita della morte”. Le figure della morte infatti, addomesticate in apparenza dentro il mondo della “tecnica” e i processi di “secolarizzazione” e di “disincanto”, che ha impoverito i “cieli” e ha reso apparentemente inutile la dimensione sacrale della vita, sono come sottratte alla comunità. Una comuni- tà affascinata e sedotta in varie forme da un suo crescente fantasma di eternità, di invulnerabilità e di immortalità (basti pensare alla domanda sociale verso la medicina e la sua tecnologia) e spaven- tata contemporaneamente dalla precarietà e dalla insicurezza, che lo stesso tempo della tecnica ha paradossalmente alimentato, per consegnare l’uomo al terrore della sua solitudine di fronte soprat- tutto alla morte … Una solitudine di dolore e di disperazione che l’uomo della modernità al declino sembra patire nell’incertezza di un morire “verso qualcosa” che lo trascende e a cui non crede più e di uno sparire nel “nulla”. Ma allora come comprendere ancora in questo processo silenzioso di impoverimento, la funzione del rito funebre, che fu sino dall’antichità luogo privilegiato di dia- logo con la morte e di “messa in scena” simbolica e collettiva del rapporto tra chi muore e chi sopravvive, tra la terra e il cielo, tra le immagini e le parole della memoria, tra la colpa e l’espiazione nel processo doloroso del lutto? Luogo per eccellenza di una narrazio- ne e di una tradizione, su cui costruire il futuro, come nelle chiese romane, edificate sulle reliquie di un santo. Al contrario la morte senza rappresentazione e senza rito simbolico non può che divenire

311 tragico e abbandonato morire dentro quei luoghi della morte, che sono le moderne “fabbriche” ospedaliere. Una invisibilità dunque, che si nutre e si accompagna paradossalmente con le forme a volte estreme della sua spettacolarizzazione massmediale, con le nega- zioni e le anestesie che essa produce oppure con la sua riduzione medicalizzata dentro il reale di un corpo che finisce di funziona- re…? Il rito senza la sua anima “religiosa” (nel senso del suo lega- me e vincolo con qualcosa che ci oltrepassa), spossessato dai suoi significati, ridotto a consuetudine, ad abitudine formale come può evitare di divenire simulacro, impostura di se stesso? Come può ancora svolgere sul piano individuale quella antica funzione di pre- parazione al lavoro del lutto, di elaborazione collettiva della colpa per chi è sopravvissuto, di travaglio attorno al seno di una perdita, e infine di narrazione di una vita trascorsa? Rimangono gli affetti individuali, la loro angoscia, il loro dolore, il sentimento di una disperazione a volte senza ristoro, rimane tutto ciò, nel rito ridotto a forma sterile, nella solitudine di un uomo e della sua famiglia, rimasti soli di fronte al mistero del nulla … uomo di una comunità distratta, assente e spaventata. Come fare rinascere la forza di un rito necessario? Questa la questione collettiva disattesa, forse para- frasando Blanchot, nella ricostituzione di una presenza verso chi si allontana nella morte, attraverso cui prendere su di sé la morte di un altro, come la sola morte che ci concerne.

La cerimonia funebre, come ci viene raccontato dalla tradizio- ne o dalle esperienze delle società lontane, contiene alcuni impor- tanti fenomeni oggi perlopiù dispersi. Senza rito, senza credibilità simbolica, il dolore, la disperazione e la colpa rimangono vaganti, senza più contenitori collettivi, divenendo così spesso catastrofe individuale o indifferenza sociale…

312 4.5 Al Teatro Sociale di Arogno Passioni e follia Una mise en scène: Fabula docet Una giornata attorno ai testi della tragedia greca Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi107

4.5.1 Programma Quale miglior modo per concludere un Modulo incentrato sulle sofferenze psichiche, se non quello di evocarle attraverso la potenza e la profondità della tragedia greca? Leggere e mettere in scena la tragedia ci permette di comprendere una dimensione della follia che non può essere appresa soltanto attraverso lo studio di teorie e di testi scientifici. La follia, che sta al cuore non solo della malattia, ma soprattutto dell’esistenza umana, ci offre una chiave di lettura dell’umano che abita ogni uomo, come un fondale oscuro, un fiu- me carsico dall’antichità ad oggi. L’adulterio, l’infanticidio, il tra- dimento, il cannibalismo, il suicidio, l’incesto, la nascita, la morte ecc. richiedevano allora come oggi un “luogo” e una “parola” entro i quali essere avvicinati e vissuti in una “giusta distanza”, che per- mettesse di vivere in prima persona la tragedia umana, senza per questo esserne travolti. Questa era ed è la funzione catartica della tragedia, già individuata da Aristotele e che ancora ai nostri giorni ci cattura e ci seduce.

8.30-9.00 Prologo: A cosa serve leggere la tragedia? G. Martignoni 9.10-9.40 Rappresentazione gruppo I

107 Questa esplorazione appartiene al Modulo “Sofferenze psichiche”, che si svolge nel corso del secondo semestre.

313 9.50-10.20 Rappresentazione gruppo II 10.30-11.00 Rappresentazione gruppo III 11.10-11.40 Rappresentazione gruppo IV 11.50-12.20 Rappresentazione gruppo V 12.30-14.00 Epilogo: G. Martignoni, O. Manzocchi, Aperitivo di chiusura

4.5.2 Fabula docet Una giornata attorno ai testi della tragedia greca Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni

1. PREMESSA Introduzione L’esperienza formativa che qui andiamo presentando trae la sua originalità dal fatto di far vivere in prima persona agli studenti del corso “Sofferenze psichiche” un rapporto con le parole, i gesti e i vissuti della follia; questo attraverso una messa in scena teatrale di alcune tragedie dell’antica Grecia, nella quale confluiscono e si manifestano gli assi portanti del modulo, che andremo precisando nel testo. Questa nostra esperienza di messa in scena non è un laboratorio teatrale in senso stretto, né un setting di giochi di ruolo, ma una pratica e una condivisione narrativa che vede attorno a un testo antico, sorgere parole, gesti, affetti e comprensione nei confronti della alienità-follia, che rimangono di grande attualità. Questo tipo di esperienza permette agli studenti di poter avvi- cinare la dimensione umana e creativa della alienità-follia, prima ancora che quella della positivizzazione patologica, sviluppando così una capacità di comprensione empatica, fondamentale nella loro futura professione di operatore sociale. La denominazione del Modulo “Sofferenze psichiche”, ci invita a tener presente che quando si ha a che fare con la follia, che è alienità radicale, le parole pesano come pietre e non devono essere

314 usate in modo ordinario108. Definire questo Modulo con il nome “Sofferenze psichiche” e non disagio psichico, o malattia psichica o più tradizionalmente psicopatologia, non è affatto la stessa cosa. Significa, infatti, porre al vertice del percorso di studio non tanto la categoria della malat- tia psichica, di cui tradizionalmente la psicopatologia parla, e nem- meno quella del disagio, di cui ci informa lo sguardo sociologico. Con il termine “Sofferenze psichiche” si pone al vertice della riflessione formativa la dimensione del vissuto109, l’Erlebnis, sia di chi vive in prima persona le contraddizioni della propria alienità e ne è drammaticamente abitato, sia di chi vi si avvicina, come operatore sociale e psico-sociale, nel quotidiano gesto di aiuto e di cura. Il vertice epistemico a partire dal quale noi trattiamo la soffe- renza psichica, fa riferimento al paradigma narrativo110, declina- to in momenti formativi a volte di ricezione passiva del Discorso sull’alienità-follia (quelli che chiamiamo momenti “grammaticali” e “sintattici” del percorso) a volte di partecipazione attiva attorno a ciò che significa incontrare il discorso dell’altro attraverso la lettura di testi letterari, centrati sull’asse malattia-anima sofferente-cura, e quella della tragedia greca, nonché attraverso la sua mise en scène di alcuni suoi frammenti. Abbiamo, infatti, scelto di usare sostan- zialmente questi due strumenti, poiché i nostri studenti del primo anno di formazione non hanno ancora fatto pratica clinica. Sebbene il vertice di questa nostra esperienza formativa sia la mise en scène, desideriamo molto sottolineare che questa si inseri- sce in un’architettura formativa dalla quale non possiamo esimerci dal fare riferimento. Ecco perché il testo che segue, pur mante- nendo il vertice sulla mise en scène, conterrà anche molti altri im- portanti informazioni e riflessioni di contesto. Questo perché la rappresentazione da sola non avrebbe molto senso. Non era nostra

108 Si fa riferimento qui al tema della “razionalità narrativa” proposta dai lavori di Fisher De Walter R. (1984,1989) ripresa da Brown (1987) e da Bruner (1987, 1991) da distinguere da una “ razionalità paradigmatica ” . 109 Lungo il testo i concetti guida saranno segnalati in grassetto 110 A questo proposito cfr. Fisher Walter R. “Récit en tant que paradigme humain de communication: le cas de l’argument moral public”, in Monographies 51 De Communication, 1984.

315 intenzione fare un atelier teatrale, non di nostra competenza, ma realizzare un momento rappresentativo come parte di un percor- so di apprendimento attraverso la narrazione. Il teatro è dunque stato uno dei momenti di esperienza narrativa che ha coinvolto gli studenti. Questa nostra scelta di campo invita, accanto all’insegnamento disciplinare, a pensare a esperienze di apprendimento più centrate su quella che con Maffesoli111 possiamo chiamare ragione sensibile. È in questa luce che da alcui anni accademici (2010/2011, 2011/2012, 2012/2013 e 2013/2014), all’interno del Modulo “Sofferenze psichiche”, di cui daremo l’articolazione nel capitolo Descrizione del lavoro, proponiamo un’esperienza di mise en scène di frammenti della tragedia greca nel ricordo delle Grandi Dionisie, che come ben si sa, radunavano a primavera in una competizione pubblica, i tragediografi dell’Atene periclea. Così è nata l’esperien- za dal nome “Passione e follia”, che qui documentiamo. Con questo progetto è nostra ferma intenzione guidare gli stu- denti verso un sentire e un concepire la fragilità e la tragicità uma- na sempre soprattutto in una dimensione di comprensione, acco- glimento, empatia, dove il senso di vitalità e possibilità permei di sé sia la dimensione destinale che quella di cura. Il nostro progetto vuol dunque essere un percorso formativo che permetta agli studenti: 1. di avere chiara consapevolezza di tre distinti e fondamentali momenti dell’agire dell’operatore sociale: il sentire, il pensiero e l’azione (pathos-logos-axio); 2. di incontrare la follia con uno sguardo orientato alla cura psico-educativa; 3. di evitare che la trasmissione di questo sapere cada in una sterile positivizzazione delle aporie dell’umano.

Nella parola passione, dal greco pathos che dice del provare, sof- frire, subire, risentire, sopportare, è contenuta, come scrive Henri Maldiney , l’épreuve de l’existence e nello stesso tempo il poter-essere dell’uomo. Mettendo al centro della riflessione sulla sofferenza psichica il

111 Maffesoli M., Eloge de la raison sensible, La table Ronde, Paris , 2005

316 tema della paticità, si vuole sottolineare il doppio orizzonte della stessa, da una parte la destinalità ineluttabile, la dimensione del pa- tire, e dall’altra quella della passione che è apertura alla costruzione delle tante possibilità dell’uomo, che è dimensione del creare. Fra questi due vertici si muovono il sentire, il pensiero e l’azione (pathos-logos-axio) dell’operare nel campo sociale a confronto con la sofferenza psichica. Nell’esperienza attraverso la mise en scène che convoglia sulla scena emozioni, parole, gesti, corpi, trova sottolineatura, sul piano epistemologico, proprio la differenza tra sentire e percepire, tra patico e gnosico. Se la percezione offre all’esperienza di chi la vive degli oggetti di conoscenza, la sensazione (aisthesis), l’ordine del sentire112, è di fatto in-oggettiva, non ci fa conoscere nulla sul piano cognitivo, ma ci fa sperimentare frammenti, tracce di esistenza, del nostro stesso esistere, del rapporto dell’uomo con il mondo. È proprio questa sensazione di esistenza, lo strumento fondamen- tale e quotidiano dell’operatore sociale a contatto con la sofferenza propria e altrui. Operatore sociale che non è specificamente un pro- fessionista dei mondi interni o della realtà sociale, ma soprattutto, come lo definiamo noi, unospecialista della quotidianità113. Di questo diverso approccio nei confronti dell’oggetto del sa- pere e del soggetto dell’azione, gli studenti, pur nella brevità dell’esperienza, sembrano aver raggiunto, come testimoniano la loro partecipazione all’esperienza, i loro scritti e le loro parole, una chiara consapevolezza di questa particolare declinazione del loro ruolo. La mise en scène teatrale di alcune tragedie dell’anti- ca Grecia ha certamente, anche se modestamente, favorito questo percorso formativo, che non si ferma a questo Modulo, come te- stimonia il documento programmatico del nostro gruppo di lavo- ro, dal titolo “Percorso psico-antropologico, In cammino” che viene consegnato agli studenti dal responsabile del Modulo all’inizio del primo semestre.

112 De Monticelli R., L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano, 2003

113 Martignoni G., Dalla vocazione al ruolo. Itinerari attorno all’identità, DSAS, Manno, 2012/2013

317 2. DESCRIZIONE DEL LAVORO, OSSIA: ACCOMPAGNARE GLI STUDENTI NEL REGNO DELLE OMBRE Contestualizzazione del progetto all’interno del percorso formativo Il primo semestre del Corso di laurea in Lavoro sociale ha visto, tra le proposte formative, un Modulo sull’”Identità”, orientato al rapporto tra l’identità personale, nelle sue dimensioni biologiche, sociali, psico-antropologiche e ontologiche, e l’alterità che la abita. Il Secondo semestre si confronta, sempre sotto la guida dello stesso docente responsabile del Modulo sull’”Identità”, con il tema dell’alienità, attraverso un Modulo chiamato “Sofferenze psichiche”. Il primo anno di formazione si caratterizza così senza soluzione di continuità, in una modalità trans-modulare, come una proposta formativa lungo l’asse identità-alterità/identità-alienità, attraverso un percorso che solo formalmente è diviso fra due semestri e due Moduli: “Identità” e “Sofferenze psichiche”.

Scelte di fondo relative al percorso A. Il Modulo “Sofferenze psichiche” che fa da cornice al nostro progetto di mise en scène si radica in una duplice scelta di fondo che permette da un lato di avvicinare e comprendere la psico-pato-logia secondo tre vertici: 1. come discorso sulla sofferenza e sulle passioni dell’uomo, che è evento storico-culturale, biologico, clinico-relazionale; 2. come scienza culturale, che necessita di modelli epistemici ed ermeneutici; 3. come l’ascolto di voci che vengono da quelle regioni dell’uo- mo, che chiamiamo mondi interni. 4. Il nostro oggetto di esperienza, studio, approfondimento, non è dunque mera psicologia patologica ma soprattutto psicologia del patologico114 nella quale l’uomo esprime e soffre la sua monda- nità e la sua trascendenza. B. La seconda scelta di fondo che caratterizza il nostro progetto, riguarda direttamente il percorso di preparazione e di messa in scena della tragedia durante il quale gli studenti si sono confrontati con più dimensioni: 1. quella del gruppo;

114 Minkowski E. (1966), Traité de psychopatologie, Les empêcheurs de penser en rond, Le Pleissis-Roninson, 1999

318 2. del mandato da realizzare; 3. del corpo; 4. del pubblico; 5. della scena, del confronto con la tragedia. C. La terza scelta di fondo che caratterizza il nostro progetto, si avvicina alle tecniche di apprendimento tramite la simulazione, pur differenziandosi dai giochi di ruolo e da altre tecniche di simu- lazione normalmente praticati nella formazione in quanto: 1. il teatro offre un’immedesimazione mediata attraverso la cul- tura; 2. la mise en scène ha ed ha avuto largo riconoscimento all’in- terno del mondo socio-sanitario che si occupa di psichiatria.

L’“architettonia”115 del Modulo “Sofferenze psichiche” è artico- lata in sei momenti: 1. Momento che chiameremo “sintattico” di cui si occupa in modo particolare la lezione frontale che ha come scopo la presen- tazione e la costruzione delle relazioni tra le parti costituenti il di- scorso generale sulla follia-alienità: storico, semiologico, biologico, psicologico, antropologico e sociale; dal quale dipartono le varie epistemologie ed ermeneutiche in gioco; 2. Momento che chiameremo “grammaticale” che consiste in tre seminari dedicati alla clinica grazie ai quali vengono affrontate le dimensioni semiologiche e strutturali delle tre grandi famiglie psicopatologiche: la famiglia nevrotica, quella limite e quella psi- cotica. In questo momento è posta grande attenzione agli aspetti diagnostici (con una particolare sottolineatura alla diagnosi dell’o- peratore sociale che si distingue da quella medica o psicologica), terapeutici e sociali; 3. Momento che chiameremo “scritturale” in cui lo studente

115 L’uso della parola “architettonia” o “dimensione architettonica”, non è casuale perché vuole distinguersi da un approccio più ingegneristico del percorso formativo. È un approccio attento nel processo formativo più che alla misurazio- ne e all’organizzazione temporo-spaziale dei contenuti (obiettivi e contenuti) alle Gestaltungen tra i contenuti della formazione, l’esperienza personale, l’attivazione della razionalità sensibile e i tempi e modi della rappresentazione. “Il paradigma narrativo, scrive Storti nel suo “Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale” (1994), “produce temi o collezioni piuttosto che categorie o concetti. L’insieme e gli elementi si determinano reciprocamente. Ciò significa che la narrazione richiede una gestalt, cosa che il pensiero formale non richiede.”

319 presenta un lavoro individuale sulla tragedia del proprio gruppo; 4. Momento che chiameremo “scenico-drammaturgico” che porta alla rappresentazione delle tragedie greche; 5. Momento che chiameremo di “lettura e approfondimento individuale”, che avviene grazie ad una vasta bibliografia che spa- zia da testi classici alla letteratura contemporanea, tutti organizzati secondo un paradigma narrativo avente come vertice la malattia, la cura, la sofferenza dell’anima ecc.116 (ogni studente ha un testo diverso, vedasi allegato); 6. Momento che chiameremo di “studio” in preparazione alla certificazione finale del Modulo, che avviene attraverso un esame scritto117.

La psicologia del patologico, nella concezione minkowskiana, è psi- cologia che si rapporta al fatto psicopatologico attraverso tre pas- saggi metodologico-conoscitivi di base: 1. l’approfondimento “[della] natura e [delle] modalità di esi- stenza che esso [il fatto psicopatologico] ci rivela”; 2. il prolungamento di queste [modalità di esistenza] “non tanto verso il “normale” quanto verso la vita”, verso l’esistenza; 3. lo svelamento dei principali loci di vulnerabilità o dispositi- vi patogenetici che rendono l’Uomo “strutturalmente sospeso tra salute e malattia”.

A questa sua variegata determinazione e apertura appartengono le questioni che legano simultaneamente mondo interno e mondo esterno, cervello e mente, corpo e psiche, individuo e società. L’evento psico-pato-logico non è dunque pensabile al di fuori del suo ineludibile rapporto con il processo di civilizzazione e le pro- cedure di disciplinamento della soggettività a cui anche il lavoro

116 Vedasi in allegato la bibliografia del Modulo “Sofferenze psichiche” in Programma del Modulo

117 In preparazione dell’esame scritto sono state distribuite, un mese pri- ma dell’esame, trenta tesi su cui gli studenti dovevano prepararsi. Le domande d’esame corrispondevano ad alcune di queste tesi. Questo ha favorito un impor- tante lavoro individuale e soprattutto gruppale, autonomo, di approfondimento e di sintesi finale dei contenuti del percorso del Modulo. Tra le domande d’esame inoltre era posta anche una domanda inerente al testo narrativo scelto per la let- tura

320 sociale arrischia di appartenere. L’evento psico-pato-logico non è nemmeno pensabile al di fuori della sua intrinseca condizione di relazionalità e di intersoggetti- vità a partire da cui il mondo interno del soggetto si forma e si fonda118. L’evento psico-pato-logico non è neppure pensabile al di fuori dalla dimensione clinica, dove abita la Cura. L’evento psico-pato-logico non è infine pensabile al di fuori dei luoghi del suo apparire sociale e del suo frame eco-sistemico. La follia, che sta al cuore dell’uomo, non solo come malattia, ma soprattutto come cifra dell’esistenza umana stessa, ci offre una chiave di lettura privilegiata di ciò che è umano nell’uomo. Essa è come un fondale oscuro, un fiume carsico che ci interroga sin dall’antichità. Mette in scena con il suo corteo di sintomi l’ap- partenenza ad altri mondi, che abitano tragicamente l’esistenza dell’uomo. Mondi che parlano della loro radicale alterità, dell’a- bisso di immobilità e di dismisura, che da sempre hanno evocato il divino e il demoniaco, come forma del destino ma anche come possibilità di rigenerazione. I folli, e per chiamarli così bisogna amarli, hanno accesso, nella nudità con cui si espongono al mondo-della-vita, a una sorta di passaporto delle ombre. Negare e cancellare le loro voci, le parole di questi altri mondi, senza potervi dialogare e comprendere la pro- digiosa riserva di senso che contengono, come scrive Foucault119, è condannare il malato a una doppia solitudine e a una doppia alienazione. Una condizione, quella del folle, che interroga costan- temente il senso dell’esistenza stessa mostrando i suoi smarrimenti, le sue ferite, le sue angosce, ma anche le sue sfide. Un dialogo che ha bisogno di luoghi, di gesti, di parole e di una sensibilità insieme forte e tenera, capace di coglierne nell’ordine del cuore120 il ritmo, le atmosfere, i paesaggi e i frammenti di una parola interrotta, estra-

118 Vedi Moduli “Cicli di vita”, “Adolescenza” e “Infanzia” tenuti dai pro- fessori Paolo Lavizzari e Ornella Manzocchi

119 Foucault M., La folie, l’absence d’œuvre, in La table ronde, no. 196, Paris, 1964

120 De Monticelli R., op. cit.

321 nea, spesso irruente, violenta e bizzarra121. L’uomo folle abita uno spazio nel mondo psichico e nel mondo sociale determinato storicamente. Questo suo abitare determina la fenomenologia del suo disagio psichico ed esistenziale e le strategie relazionali e di cura che si sono di volta in volta costruite attorno a lui e alla sua follia. L’uomo folle abita nello stesso modo una sempre diversa tempo- ralità che dall’acuto, attraverso il periodico e il parossistico giunge sino alla cronicità. Le nominazioni del suo esistere come malato sono mutate nel percorso storico per ridargli una cittadinanza per- duta ma nello stesso tempo a volte per cancellare la verità che la sua follia contiene. Tutto ciò riverbera nel quadro legislativo che determina gli assi portanti di questa costruzione e rappresentazione sociale. Tuttavia, la tragedia greca, ci mostra come al di là delle trasfor- mazioni storico-sociali, e persino al di là dei loro effetti sulle co- stellazioni psicologiche, esiste una continuità che riguarda proprio la tragicità dell’esistenza umana. È in questa condizione di frontiera che vengono a determinarsi le diverse strategie relazionali. Incontrare la follia con uno sguardo orientato alla cura psico-educativa122 vuol dire incontrare da una parte la singolarità di ogni condizione esistenziale soggettiva e psi- copatologica insieme (mai del tutto omologabile ai codici di classi- ficazione), ma anche fare i conti con il territorio che ne determina il quadro concreto e le sue scelte legislative e organizzative. Tuttavia vi è anche qualche cosa in più. Permettere ai nostri studenti di accedere in prima persona, an- che se breviter, a questa dimensione, è, crediamo, compito dell’in- segnamento, per evitare che questo cada in una sterile positivizza- zione delle aporie dell’umano.

121 A questo proposito cfr. il DVD I Graffiti della mente, 2002 ; allegato al catalogo intitolato, Nannetti, Infolio, collection de l’art brut, Lausanne, 2011

122 Sul tema della cura educativa si segnalano i seguenti testi che fungono da guida anche durante il Modulo: Iori V., Quando i sentimenti interrogano l’e- sistenza, Guerini Studio, Milano, 2006; Mortari L., Aver cura si sè, Mondadori, Milano, 2009; Mortari L., Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Mila- no, 2002; Palmieri C., La cura educativa, Franco Angeli, Milano, 2000; Catello Parmentola, Prendersi cura, Giuffrè editore, Milano, 2003; Borgna E., Le emozio- ni ferite, Feltrinelli, Milano, 2009

322 Fasi/Tappe principali del percorso: dalla consegna alla mise en scène Le tappe del percorso che portano alla mise en scène si articolano in questo modo: 1. la presentazione del progetto all’interno del Modulo; 2. la scelta da parte dei gruppi, che erano per altro già attivi du- rante il primo semestre, di un capo-gruppo; 3. la consegna della tragedia su cui lavorare; 4. gli incontri regolari dei docenti con i capi-gruppo; 5. il lavoro dei singoli gruppi per la preparazione della mise en scène123; 6. la preparazione di un breve scritto individuale, a partire dalla tragedia, che ogni studente consegna a fine Modulo in cui si chiede di sviluppare una riflessione che contempli i seguenti punti: a. Qual è il nucleo di “follia”contenuto nella tragedia? b. In che modo la tragedia che ha letto, può contenere degli indicatori esistenziali della nostra vita quotidiana? c. In che modo l’eroe greco risolve la tragedia? d. Quali dilemmi etici contiene il testo? e. In che modo il confronto con la tragedia può contribuire alla crescita della sua identità professionale? 7. le prove svolte sia in spazi concessi dal nostro Dipartimento SUPSI che direttamente in teatro; 8. la partecipazione all’organizzazione del setting teatrale in cui sarebbe poi avvenuta la rappresentazione;124 9. la rappresentazione con la votazione da parte di tutti i parteci- panti (studenti e docenti) per la scelta del gruppo vincitore; 10. la premiazione con corona di alloro per il capo-gruppo e un piccolo dono per tutti i membri del gruppo; 11. il banchetto degli addii, interamente preparato dagli studenti; 12. il riordino del setting teatrale.

123 Lettura della tragedia da parte dei singoli studenti; discussione in gruppo sulla tragedia letta; scelta dei passi da narrare e di quelli da rappresentare, scelta dei ruoli e degli interpreti; preparazione dei costumi, dello scenario, delle musiche, prove della messa in scena, ecc.

124 Il Teatro Sociale di Arogno

323 L’apprendimento, o meglio, il percorso formativo, deve per noi essere sempre relazionale. Una relazione che non è banal- mente interazione, connessione, comunicazione, ma è soprat- tutto incontro. Senza l’esperienza psichica e corporea dell’in- contro con l’Altro, capace di suscitare stupore, meraviglia, curiosità, ma anche angoscia, nessuna azione di cura e aiuto salverà la singolarità del proprio paziente-utente, dalle forze dell’omologazione e della riduzione seriale. Ricordiamoci l’an- tico monito agostiniano Si duo faciunt non est unum. Faccia- mo dunque riferimento a un lungo percorso di riflessione che si snoda da Aristotele passando per Sant’Agostino, e giungere ai nostri tempi a Martin Buber125 e allo psicoanalista Wilfred Bion126, per affermare la centralità dell’identità relazionale di cui si è lungamente parlato proprio durante il Modulo “Identi- tà” del primo semestre, che come già scritto, ha avuto la funzio- ne di approccio preliminare e preparatorio alla tematica di cui qui diamo testimonianza. Abbiamo così deciso di far sperimentare ai nostri studenti, a fianco delle lezioni frontali, dei lavori seminariali, delle letture e delle scritture individuali, anche una particolare e inabituale dimensione di lavoro in gruppo. La lezione bioniana mostra come il gruppo non sia la somma degli individui che lo compongono, bensì un fenomeno a sé, funzionale, una sorta di organismo vivente finalizzato alla sua conservazione, mosso da due tendenze opposte e conflittuali: la realizzazione di un compito comune e l’opposizione a questo scopo attraverso la regressione127. Questa tensione gli studenti l’hanno potuta verificare fatti- vamente sulla loro persona, nel percorso della mise en scène, la cui preparazione che si è svolta al di fuori dei tempi regola- mentari del Modulo, sotto la guida di uno studente avente la funzione di capo-gruppo, e che aveva diretta relazione con i do- centi del Modulo. Questo percorso è durato l’intero semestre,

125 Buber M., Io e tu (1923), in Il principio dialogico, Comunità, Mila- no, 1958

126 Bion W., Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma, 1988

127 Bion W. Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 1971

324 culminando nella giornata “festiva” di rappresentazione del 30 maggio 2012 presso il Teatro Sociale di Arogno128. I nostri studenti hanno così vissuto lungo l’arco dell’intero se- mestre momenti di difficoltà, di rifiuto, di conflittualità, ecc. fino a giungere alle loro testimonianze finali che parlano della riuscita di questo obiettivo e quasi stupiti della loro piena sod- disfazione personale.

Hanno inoltre vissuto in prima persona una dimensione dell’esistere che il poeta Joan Keats definisceattesa 129 e che con- traddistingue così puntualmente il lento e paziente procedere del lavoro della cura e dell’aiuto nel campo del sociale e in particolare in ambito psico-pato-logico, un procedere che con

128 La scelta di questo luogo per la nostra mise en scène non è casuale. Que- sto luogo, infatti, racchiude in sé una forte valenza simbolica in quanto possibilità d’incontro per la comunità non solo comunale ma anche regionale. È, infatti, il teatro della comunità, dai piccoli agli anziani, dai locali ai foresti, luogo di eser- cizio e apprendimento per coloro che si cimentano con gli strumenti musicali, ma nel contempo luogo di svago, riflessione, trasmissione della tradizione e della cultura. Inoltre la sua storia e architettura ci trasmettono quel pathos che solo i luoghi dove la comunità si esprime nella sua dimensione comunitaria ed esisten- ziale, possiedono. Possiamo affermare di aver scelto Il Teatro Sociale di Arogno poiché luogo di espressione dell’anima, e, infatti, la prima cosa che colpisce colui che vi giunge, è la semplicità della facciata e il perfetto inserimento architettonico dell’immobile nel nucleo del paese. Ma non appena varcata la porta d’entrata lo stupore si impadronisce dell’ospite che si trova catapultato dentro un piccolo gioiello: un esemplare di teatro all’italiana, con due loggioni laterali e un palco “reale”. Un teatro unico in tutta la regione e sicuramente uno dei pochi esistenti in tutto il Cantone Ticino. In origine fu abitazione della famiglia Colomba, come indicano alcuni affreschi con stemma di famiglia. Successivamente appartenne a un arognese, Giacomo Cometta, che divenuto benestante al rientro dall’Argenti- na trasformò la costruzione in Teatro. Le prime tracce del Teatro si trovano in un manoscritto di Massimo Cometta, forse l’ultimo dei Maestri comacini, nel quale egli scrive che nel 1835 fu formata una compagnia teatrale per recitare in un sa- lone del paese. Nel 1899 la proprietà fu trapassata alla Società del Teatro ed oggi appartiene alla Società Filarmonica del villaggio. A tutt’oggi è un luogo come già scritto, di vita, la comunità vi si riunisce in occasione di varie festività, di eventi culturali ecc.

129 Fusini N. (a cura di ), John Keats lettere sulla poesia, Feltrinelli, Mila- no, 1984, p. 75: “Non ebbi con Dilke una disputa, ma una discussione su diversi argomenti: molte cose mi si agitavano nella mente e ad un punto fui colpito dall’idea di quale dovesse essere, soprattutto in Letteratura, la qualità essenziale dell’Uomo dell’Effettività, qualità che Shakespeare possedeva in modo così eminente. Mi riferisco alla Capacità Negativa, cioè quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni”.

325 lo psicoanalista Wilfred Bion definiamocapacità negativa130, sollecitata dall’incontro con il nuovo, lo sconosciuto, il diverso. Dimensioni queste che obbligano a sospendere ogni giudizio e a darsi il tempo di comprendere prima di giudicare, decidere e fare. Ricordiamo che questa esperienza primaverile era già stata pre- ceduta nel corso del primo semestre, quando gli stessi gruppi di studenti avevano preparato una rappresentazione multimediale come esito dei seminari esperienziali interni al Modulo sull’”Iden- tità” (scrittura delle emozioni, auto-biografia, corpo e teatro, fiabe, appartenenza culturale)131. Nel gruppo gli studenti hanno sperimentato e resi “osservabi- li” fenomeni mentali, squisitamente affettivi, quali la dipendenza, l’oppositività, l’attacco, la fuga, la negazione, l’idealizzazione, ecc. in una commistione continua fra interno ed esterno, sé e non-sé, mentale e corporeo, proprio e altrui. Un continuo va e vieni fra interiorità ed esteriorità, individualità e gruppalità. Concetti ed esperienze che raccontano in modo preciso la specificità dell’ope- ratore sociale nella dimensione del lavoro d’équipe e della vita in équipe di aiuto e cura. Nel percorso di preparazione e di messa in scena gli studenti si sono confrontati con più dimensioni, ossia: quella del gruppo, del mandato da realizzare, del corpo, del pubblico, della scena, del confronto con la tragedia. Ognuno di questi elementi contiene sostanza teorica e sostanza patica132.

130 Uno dei temi chiave del lavoro bioniano è la capacità negativa (nega- tive capability), ossia il potere di tollerare l’attesa, che si intreccia profondamente con il tema del dolore della conoscenza. Bion ha modo di far suo questo tema grazie all’amore per la lettura di poeti quali Milton, Virgilio, Shakespeare, Shelly e John Keats, che per primo definì questa caratteristica della vita: capacità negativa.

131 Questo Modulo è stato tenuto dai professori: Graziano Martignoni (responsabile) , Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli e dall’as- sistente Michela Nussio.

132 Nel primo semestre hanno messo in scena la loro personale e individuale espe- rienza maturata nei seminari esperienziali, mentre in questo caso hanno dovuto mettere in scena le emozioni che ogni uomo sente facendo i conti con un testo fra il proprio e l’altrui. Proprio come avviene in ogni dimensione di cura e di aiuto in cui ci si deve confrontare ma non confondere con la storia personale del paziente-utente, la quale entra facilmente in ri- sonanza (partecipazione, collusione, confusione, costruzione, empatia, ecc.) con la propria storia personale. In questo senso noi consideriamo il lavoro sociale, in particolare quello con la sofferenza psichica, come una condivisa pratica narrativa inter-testuale (cfr. Fisher De Walter R.); a questo proposito cfr. A. Smorti, Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, Firenze, 1994.

326 Pensando agli assopimenti dei sensi, ai tumulti delle anime, all’ansia provocata dall’universo ignoto rappresentato in quest’oc- casione dal compito di mettere in scena una rappresentazione te- atrale, e domani suscitato dal mandato professionale di occuparsi del male di vivere dell’altro, abbiamo scelto nel ricco materiale della tragedia greca le seguenti rappresentazioni: 1. Prometeo incatenato, Eschilo, 460 a.C. - per la rappresen- tazione del dolore, della condizione umana tra libertà e destino, dell’ascensione attraverso la sofferenza; 2. Aiace, Sofocle, 445 a.C. - per la rappresentazione del ricono- scimento e del furore; 3. Edipo Re, Sofocle, 430 a.C., - per la rappresentazione della colpa, dell’incesto e del destino voluto dagli dei, dell’inconsapevo- lezza dell’uomo; 4. Medea, Euripide, 431 a.C. - per la rappresentazione del tra- dimento, della perdita, del furore, dell’infanticidio; 5. Le Baccanti, Euripide, 403 a.C. - per la rappresentazione del- la conoscenza attraverso la trasgressione, dell’illusione, del rappor- to tra conoscenza e potere.

Presentazione di alcune attività significative del percorso: perché il teatro e la tragedia greca? 1. Perché scegliere la rappresentazione teatrale all’interno di un Modulo di formazione? Poiché la rappresentazione teatrale offre la possibilità di mettere in scena, dunque in una dimensione di “giusta distanza”, ciò che è alieno nell’Altro e in noi stessi. 2. Perché prediligere il teatro dell’antica Grecia? Poiché senza ombra di dubbio ancora oggi la tragedia dell’anti- ca Grecia ci mette di fronte alle passioni più radicali dell’uomo, esplorandone le manifestazioni estreme e inquietanti.

Per i Greci la follia fu un mezzo per esplorare i confini dell’a- nima133, ma la nozione di follia andava oltre la dimensione della patologia. Possiamo dunque affermare, come scrive Alberti, che nel mon-

133 Guidorizzi G., Ai confini dell’anima, I Greci e la follia, Raffaello Corti- na, Milano, 2010

327 do greco la follia assumeva un duplice volto: da un lato malattia della mente, dall’altro potenziamento della personalità. In epoca encefaloiatrica, come dice Borgna134, la dimensione più creativa della sofferenza psichica è andata viepiù oscurandosi. Le attività di animazione che si sono sviluppate nelle pratiche di cura, dal teatro al mimo, ai laboratori di scrittura, di arteterapia ecc. tentano di salvare questa dimensione, impedendo che la sofferenza psichica diventi solo disabilità, deficit, a-normalità, mental-desor- der. Mettere i nostri studenti di fronte ad una sperimentazione tea- trale di questa natura ha altresì la forza di stimolare la loro curiosità nei confronti di pratiche narrativo-animative, che hanno spesso grandi valenze terapeutiche, da non confondere con pratiche di intrattenimento o di esercitazioni adattative, che non solo ne im- poverirebbero il senso, ma che anche accentuerebbero la mera di- mensione funzionale. “In veste più pratica, nel momento dell’allestimento della messa in scena e della discussione, mi ha sicuramente portato altri esempi di collaborazione e di lavoro d’équipe, di confronto, di apertura alle idee altrui, di tempistica e di dettagli in quanto, lavorando in un gruppo, emergono facilmente questi aspetti che si possono trovare ai giorni no- stri. Inoltre la sofferenza di Aiace mi ha portato a fare delle riflessioni su come tutto è mutabile: ciò che sei il giorno prima non è necessaria- mente ciò che sarai il giorno dopo. Ogni avvenimento ti porta a dei mutamenti. Anche se a volte ci si sente onnipotenti, questa tragedia mi ha messo di fronte anche al fatto che non sempre esistono delle soluzio- ni alle sofferenze, ma che bisogna riuscire a vivere con esse. Questa ri- flessione, traslata a un futuro lavorativo, mi porta a pensare che quella che noi crediamo essere routine, in realtà non lo è, anche perché un solo gesto può creare delle sofferenze o dei cambiamenti nella persona. Ogni giorno è nuovo e quindi bisogna avere la stessa attenzione per la cura della relazione e per la storia dell’utente, come il primo giorno.”135 Come già detto, la rappresentazione teatrale offre la possibilità di mettere in scena, dunque in una dimensione di “giusta distan-

134 Borgna E., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano, 1995

135 Brano tratto dall’elaborato della studentessa Marta Ballardin, a partire dalla tragedia Prometeo Incatenato

328 za”, ciò che è alieno nell’altro e in noi stessi. Inoltre, come già scritto, possiamo senza ombra di dubbio sot- tolineare come ancora oggi la tragedia dell’antica Grecia ci mette di fronte alle passioni più radicali dell’uomo, esplorandone le ma- nifestazioni estreme e inquietanti.

Tutto ciò che di insondabile e oscuro si agita nell’anima di un essere umano è, infatti, tra i temi centrali della tragedia greca, tra cui i drammi di Eracle o di Medea che uccidono i figli pur aman- doli, la violenza autodistruttiva di Aiace, i fantasmi di Oreste, di Edipo e di altri personaggi, e così via136. Nella tragedia greca, in modo diverso da Sofocle a Euripide a Eschilo, vi è rappresentato il confronto fondamentale e a-temporale (e chi può evitare ancora oggi di porsi queste domande?) tra destino e libertà. Vi sono testi che raccontano l’inesorabile destino che per volere divino guida gli uomini e vi sono testi che parlano della rassegnazione, ma vi sono anche testi che parlano del desiderio dell’uomo greco, così come di quello contemporaneo, (gli dei oggi si chiamano geni, neuro-tra- smettitori, condizioni sociali ecc.) di lotta, resistenza, emancipa- zione. L’operatore che sta accanto a chi soffre non può dimenticare né l’una né l’altra di queste due derive dell’esistenza, le quali gli permettono a volte di contenere il desiderio di vincere un destino crudele, altre la sua impotenza a farlo, altre ancora la saggezza di chi è capace, come un acrobata, di stare alla frontiera, di stare sul filo in cui anche di fronte alle cose peggiori, persino di fronte al morire, tutto è ancora possibile. L’operatore dunque come attore delle tante possibilizzazioni dell’uomo137.

Quale miglior modo avremmo potuto scegliere per concludere questo Modulo incentrato sulle sofferenze psichiche, se non quel- lo di fare ricorso alla forza, alla profondità e alla evocazione delle Grandi Dionisie (che si svolgevano ad Atene tra il 9 e il 14 circa, del mese di elafebolione del calendario attico, corrispondente ai mesi di marzo e aprile del calendario giuliano), feste che la polis dell’antica Grecia organizzava annualmente. 136 Rustin M. e Rustin M., Passioni in scena, Mondadori, Milano, 2005

137 Maldinay H., Penser l’homme et la folie, Millon, Grenoble, 1991

329 Queste feste e rituali avevano in sé l’obiettivo di educare cata- lizzando l’attenzione dei singoli cittadini sulle tragedie della vita, sulle regole, sui limiti e sulle fragilità dell’esistenza. La nostra piccola esperienza teatrale, volutamente senza nessu- na particolare e specifica ambizione drammaturgica, poiché non era assolutamente nostra intenzione riprodurre una pseudo scuola di teatro, collega idealmente i momenti del Modulo a carattere “gnosico” con una dimensione di “liberazione mediata” e con una forte dimensione creativa. La dimensione creativa è generatrice di piacere, sia in chi interpreta sia in chi fruisce dello spettacolo, il che corrisponde anche alla dimensione di piacevolezza e svago che potevano avere i cittadini di Atene quando all’arrivo della prima- vera affollavano i teatri della città e sceglievano i loro tragediografi preferiti. Si racconta che Pericle spendesse più soldi per il teatro e per le arti che per la flotta. Vero o falso che sia, un’indicazione che ancora oggi sarebbe utile ricordare! Le tragedie messe in scena dai nostri studenti rappresentano tut- to ciò. Come a significare che la cifra dell’umano è rimasta tale, dall’antichità a oggi. L’adulterio, l’infanticidio, il tradimento, la violenza, il suicidio, l’incesto, la nascita, la morte ecc. richiedevano allora come oggi un “luogo” entro il quale essere avvicinati e vissuti in una “giusta distanza” che permettesse di vivere in prima persona la tragedia umana, le passioni più radicali, senza per questo esserne distrutti. Questa era ed è la funzione catartica della tragedia, già individuata da Aristotele e che ancora ai nostri giorni ci cattura e seduce. “La follia ci appartiene, o meglio ci è donata: nel pacchetto del tradimento del proprio compagno, insieme alle lacrime, alla rabbia, ci è consegnata anche la follia, che ci spinge a gesti insensati; o meglio, essa è lì annidata in un angolo oscuro di noi stessi, al quale voltiamo sempre le spalle della nostra ragione e che cerchiamo di evitare, ma in alcuni momenti la sua voce è troppo forte per essere ignorata.”138 Questa esperienza permette di dare corpo al concetto min- kowskiano di psicologia del patologico, accennato sia nella premes- sa che nelle scelte di fondo del percorso, che fa della patologia,

138 Brano tratto dall’elaborato della studentessa Laura Pizzino Piffaretti, a partire dalla tragedia Medea

330 non solo un difetto, un’a-nomalia, un’a-normalità, ma un diverso modo di vivere, un diverso modo di abitare il mondo, in cui noi operatori, più che “gendarmi” della normalità, dobbiamo impara- re a divenire degli “ospiti” o dei possibili compagni di strada dei nostri pazienti-utenti. Mettere in scena il male oscuro, come Giuseppe Berto era solito definire il dolore dell’esistere139, ha inoltre avuto largo riconosci- mento all’interno del mondo socio-sanitario che si occupa di psi- chiatria. Pensiamo a Moreno con il suo sociodramma attraverso il quale la spontaneità creativa, soffocata dal ruolo sociale, veniva recuperata per mezzo della drammatizzazione scenica; pensiamo a Didier Anzieu e a Serge Lébovici che hanno dato origine allo psi- codramma e ultimo ma non da meno, pensiamo a tutta l’attività della psicoterapia istituzionale con riferimento a Jean Oury140. A questo punto una domanda cruciale si impone: che cosa di- stingue la nostra attività dai giochi di ruolo normalmente praticati nella formazione? La differenza con giochi di ruolo e simulazione di caso si situa attraverso due aperture che la mise en scène permette: 1. il teatro è narrazione che implica parola e corpo, non è finzio- ne, non è “come se”, ma per un attimo tu-interprete sei immerso nell’alienità e nella passione; 2. con la mise en scène gli studenti non sono estrapolati dalla cultura in termini quasi naturalistici, diversamente dai giochi di ruolo e di simulazione. Nella tragedia messa in scena lo studente interpreta duemila anni di storia. Dunque la nostra iniziativa si differenzia dai giochi di ruolo e da altre tecniche di simulazione poiché il teatro offre un’immede- simazione mediata attraverso la cultura. Da Sofocle in poi il teatro ha, infatti, messo in scena con puntualità e forza le problematiche interne inconsce della famiglia, dei rapporti di genere, dei rapporti fra generazioni, dei rapporti inconsci del singolo con se stesso e con le sue più profonde e radicali passioni. “La prima cosa che appare dalla tragedia è la dimostrazione di ciò

139 Berto G., Il male oscuro, Mondadori, Milano, 1964

140 Che trova uno specifico momento di studio nelcurriculum studiorum dei nostri studenti, in un diverso Modulo del secondo e quarto semestre (Grazia- no Martignoni e Lorenzo Pellandini)

331 che può provare l’uomo dinanzi alla negazione di un riconoscimento. Non parlo di un riconoscimento materiale, bensì del riconoscimento come essere umano, con una storia personale che lasci un’impronta nel mondo, una traccia della propria esistenza. Questo punto mi ha col- pito molto. Ritengo sia un aspetto importante sul quale lavorare anche come operatore sociale. Troppo spesso ho visto che la persona che abita in istituto è riconosciuta non con la sua storia, ma con il suo gruppo target. L’uomo è quindi riconosciuto come “ Pinco Pallo epilettico e con una spasticità grave che lo porta a una totale dipendenza, attività occupazionale pittura” non come “ Pinco Pallo di Ascona figlio di ... ottimo giardiniere, amante della bici e tifoso della Roma”.141

3. BILANCIO E RIFLESSIONI SULL’ESPERIENZA Molte osservazioni riguardanti l’esperienza svolta sono già state espresse in precedenza, ma riprendendo le osservazioni sugli obiet- tivi e sulle scelte di fondo di questo progetto, riassuntivamente possiamo qui ricordare il percorso che ha portato gli studenti a maturare una nuova consapevolezza e una migliore capacità rifles- siva per quanto riguarda: 1. i tre distinti e fondamentali momenti dell’agire dell’operatore sociale: il sentire, il pensiero e l’azione (pathos-logos-axio); 2. l’incontro con l’alienità-follia attraverso uno sguardo orienta- to alla cura psico-educativa; 3. l’evitamento di un sapere sterile e positivizzato delle aporie dell’umano; 4. il significato della scelta drammaturgica; 5. l’opzione sul teatro greco; 6. l’opzione gruppalità; 7. la dimensione creativa; 8. il sentire e il concepire la fragilità e la tragicità umana, sem- pre soprattutto in una dimensione di comprensione, accogli- mento, empatia, dove il senso di vitalità e possibilità permei di sé sia la dimensione destinale che quella di cura.

A questi aspetti di crescita identitario-professionale vanno ag- giunte le due dimensioni di trasferibilità che questo progetto per-

141 Brano tratto dall’elaborato della studentessa Nicole Maniero, a partire dalla tragedia Aiace

332 mette, ha permesso e permetterà: 1. la trasferibilità di una simile breve esperienza nell’ambito del- le pratiche educative e psico-educative che i nostri studenti espe- rimenteranno negli stages nella dimensione animativa e narrativa, che è in questo contesto il nostro vertice; 2. la trasferibilità di una simile breve esperienza nell’ambito del- le pratiche educative e psico-educative che i nostri studenti esperi- menteranno nelle pratiche professionali future. Riassuntivamente possiamo dire che il confronto e la mise en scène con le tragedie e i miti dell’antica Grecia, hanno permesso agli studenti di fare esperienza della sofferenza umana come cifra dell’esistere, prima ancora che di confrontarsi con la sua dimensio- ne patologia. Gli studenti hanno dunque potuto dare corpo e vissuto, ai rac- conti, alle parole, alle narrazioni e alle teorie presentate durante le lezioni e i seminari (bisogna ricordare che la maggioranza degli studenti non ha mai incontrato professionalmente la sofferenza psichica). La narrazione tragica e la sua messa in scena offrono una sorta di sfondo simbolico sul quale si staglia l’uomo nella sua tragicità. Le narrazioni delle opere tragiche dell’antica Grecia offrono uno spaccato delle storie cliniche delle anime ferite, divenute alienità rispetto al gruppo sociale di appartenenza e rispetto a se stesse, offrendoci una lettura in chiave creativa, ossia simbolica, della psi- cosi, della melanconia, della depressione, della paranoia, dell’ango- scia e degli attacchi di panico, dell’anoressia, delle forme ossessive e fobiche, di quelle istericoformi e via di seguito, in un susseguirsi di racconti che ci fanno vivere e ri-vivere in seconda o terza persona la tragicità umana, rimasta tale da allora a oggi142. “Il mio sguardo verso la follia è cambiato: leggendo la tragedia mi è stato impossibile non provare una profonda empatia nei confronti della protagonista; alla fine della lettura una forza divina sembrava avermi posseduta, proprio come la donna sembra sentirsi, invincibile. Medea è dentro di noi, inutile negarlo, siamo tutti follemente pos- seduti, soltanto non abbiamo l’occasione di sguinzagliarla, lasciarla andare a parlare per noi. La sofferenza di Medea stillata in piccole

142 Manciocchi M., Antigone e le trame della psiche, Edizioni Magi, Roma, 2012

333 gocce ha fatto parte di me e fortunatamente ho saputo gestirla, ma una sofferenza come quella provata dall’eroina, così devastante, è ingesti- bile; è un attimo perdere il controllo di sé e la sofferenza e l’ira sono sorelle della follia”143. La narrazione e la messa in scena teatrale dell’orizzonte tragico quale cifra dell’esistenza umana, hanno in sé la dimensione cre- ativa che conduce a esperire l’incontro con il destino impietoso in una forma resa comunque vitale dalla dimensione creativa che permea di sé la narrazione e la sua messa in scena.

“Penso che ascoltare l’altro sia fondamentale, a prescindere da chi si ha davanti. Leggendo la tragedia ho avuto l’impressione che -Io soffriva di una gran solitudine, ripudiata, allontanata da tutti, era completamente sola. Le sue disgrazie e le sue angosce non erano mai state condivise. Lasciar che una persona si narri le consente di “buttare fuori”, di realizzare, di sfogarsi, e magari di portare quell’enorme ma- cigno con qualcun altro. Penso che l’ascolto crei la possibilità di sentirsi capito, di sentirsi parte di qualcosa.”144 Una dimensione vitale che l’approccio meramente teorico e clinico rischia di impoverire e occultare, con il rischio di svilup- pare negli studenti una visione parziale e menzognera in cui que- sta dimensione umana intrisa di impossibilità, povertà, alienità, mortificazione, viene sentita e compresa unicamente nel suo essere annichilente e mortificante. Questa visione e comprensione della psico-pato-logia porterebbe alla formazione di futuri operatori so- ciali svuotati nella loro dimensione creativa e vitale del prendersi cura dell’Altro, operatori sociali che nella follia altro non leggo- no se non l’aspetto di perdita e alienità, scordando la lezione di brentaniana memoria che sottolinea come la follia sia la sorella sfortunata della poesia145. È nostra ferma intenzione guidare gli studenti verso un sentire e un concepire la fragilità e la tragicità umana sempre soprattutto in una dimensione di comprensione,

143 Brano tratto dall’elaborato della studentessa Laura Pizzino Piffaretti, a partire dalla tragedia Medea

144 Brano tratto dall’elaborato dello studente Fabrizio Sirica, a partire dalla tragedia Prometeo Incatenato

145 Borgna E., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano, 2007

334 accoglimento, empatia, dove il senso di vitalità e possibilità permei di sé sia la dimensione destinale che quella di cura146. “Personalmente trovo anche molto importante il tema del destino che emerge fortemente in questa tragedia nelle sue varie forme. Edi- po, infatti, dopo aver ascoltato la profezia, cerca di sottrarsi al suo destino, allontanandosi da quelli che crede essere i suoi genitori. Per questo stesso motivo i suoi genitori naturali, Laio e Giocasta, l’aveva- no abbandonato. Edipo poi inconsapevolmente si trova intrappolato in una serie di eventi che determinano la sua vita; sono stati altri ad agire per lui. Dapprima i suoi genitori abbandonandolo, poi il servo risparmiandogli la vita, in seguito Polibo adottandolo,... In tutto ciò però è come se il suo tremendo destino rimanesse comunque segnato. Nella mia breve esperienza in campo sociale mi è capitato di incontra- re operatori fortemente ingabbiati in logiche di questo genere. (…) Io penso però che la nostra professione non avrebbe senso di esistere se tutti pensassero che le persone non possono cambiare la loro condizione e le cose non possono migliorare in qualche modo. Nell’incontro con l’uten- te dobbiamo sempre lasciarci sorprendere da quello che può succedere senza fare profezie su quella che sarà la sua sorte”.147 La creatività è per noi una dimensione fondante per riconosce- re, accogliere, compartecipare e se possibile trasformare il dolore psichico. La messa in scena dell’opera teatrale dell’antica Grecia stimola la creatività degli studenti148. La curiosità è per noi una forma di amore nei confronti della sofferenza psichica, che tentiamo di animare nei nostri studenti chiedendo loro di leggere una tragedia dell’antica Grecia, metterla in scena, e inoltre stendere un breve scritto, personale e individua- le, nel quale emergano le proprie riflessioni riguardanti la psico-pa- to-logia, la vita contemporanea e la tragedia letta. Possiamo infine riassumere in tre semplici parole i valori fonda- mentali che gli studenti e i docenti hanno potuto apprendere da

146 Winnicott D., Gioco e realtà, Armando editore, Roma, 1974

147 Brano tratto dall’elaborato dalla studentessa Serena Papa, a partire dalla tragedia Edipo Re 148 Non possiamo a questo punto esimerci dal fare riferimento a Bruno Munari, che della fantasia e della creatività ha fatto il suo cavallo di battaglia per la comprensione del mondo, rinviando al suo testo intitolato Arte come mestiere, Laterza, Bari-Roma, 2006

335 questa esperienza: 1. passione per l’altro nella partecipazione alla sua sofferenza; 2. curiosità come amore per l’altro, nei confronti di se stessi e dell’altro con i suoi misteri; 3. creatività come esperienza del sorgere del nuovo che apre ai tanti possibili della vita, nella costante lotta, nell’Atene del V seco- lo come nel mondo della nostra contemporaneità, tra l’ineludibile del destino e la forza del cambiamento che ci è data dalla nostra libertà.

Durante quest’anno di formazione Bachelor che ha visto in due Moduli interrogare l’asse identità-alterità e l’asse identità-al- ienità, si è andata disegnando una sorte di mappa per la naviga- zione dell’operatore sociale, che è figura professionale “meticcia”, “errante” tra le discipline, “debole” per quanto riguarda le sue tec- niche ma “forte” per quanto riguarda la sua capacità di incontrare, accompagnare, riconoscere, trasformare l’umano imbrigliato nei suoi vincoli, liberandolo verso sempre nuovi orizzonti.

4. CONCLUSIONE Concludendo questo nostro breve rapporto sull’esperienza 2010/2011 e 2011/2012149 potremmo riflettere sul termine Atto- re. Scrive infatti Serena Guariento che “Il teatro non è dunque solo un testo in quanto si propone preventivamente in forma scritta, ma è tale perché “presenta l’azione” e “possiede un intreccio”. Sulla scia di queste sollecitazioni, ricordo qui che il termine Attore, presente in quasi tutte le lingue europee, ha la radice etimologica nel verbo latino ago, che solo in linea derivata significa “agire”: il primo significato è infatti “condurre”. L’attore perciò è qui fabulam agit: colui che porta avanti la storia. Questo agire, diversamente dal testo letterario, com- porta un’azione fisica, ma il punto centrale è sempre la fabula”.150 L’attore con il suo agire attraverso la fabula è una metafora dell’operatore sociale che, nella sua pratica di relazione quotidiana, dà voce ai gesti e dà contenuto e senso alle parole dell’Altro. 149 Gli allegati e i testi di riferimento sono quelli attestanti l’esperienza 2011/2012

150 Guariento S., Il teatro come pratica narrativa per l’orientamento formativo: una ricerca sul campo, Tesi di dottorato, Università degli Studi, Padova, 2009, p. 40,

336 Dunqne l’esperienza della mise en scène si è sviluppata attorno ad alcuni vertici che, per le loro caratteristiche e importanza, si riverberano facilmente nella pratica quotidiana dell’operatore so- ciale: 1. il gruppo; 2. la gratuità; 3. l’alterità e il rendersi conto dell’altro151: com-prensione, com-mozione, com-passione, distanza-vicinanza critica; 4. la condivisione e il piacere di fare assieme; 5. l’apprendimento attraverso l’ordine del cuore152, per via creativa; 6. la trasferibilità.

1. Il gruppo Sollecitato a costruire una rappresentazione che avesse una sua coerenza, ogni gruppo è stato invitato a scegliere le modalità e le forme della propria rappresentazione: decidere se presentare tutta la tragedia o solo le parti che reputavano più significative, decidere se mettere in scena il testo originale o se adattarlo ai nostri giorni, e via di seguito.

Una componente fondamentale appartenente alla dimensione del lavoro di gruppo è quella della responsabilità individuale. Ogni singolo componente del gruppo è stato chiamato ad assumere una responsabilità senza la quale la rappresentazione collettiva non avrebbe potuto aver luogo. Una responsabilità che si articola su quattro livelli, da non intendere in termini sequenziali ma nella forma di un vero e proprio emboîtement, in cui avviene un conti- nuo rimando da un livello all’altro: 1. la responsabilità del singolo nei confronti del gruppo - come esercizio del rispetto, dell’ascolto e della cooperazione, come eser- cizio per la relazione, per l’esserci nell’équipe; 2. la responsabilità individuale e collettiva nei confronti della tragedia e del suo testo - come esercizio di attenzione verso la tra- dizione nella sua dimensione storica e narrativa;

151 Stein E., Zum Problem der Einfuhlung, Halle 1917; trd. Italiana, Il problema dell’empatia, a cura di E. Costantini, ed. Studium, Roma 1985

152 De Monticelli R., op. cit.

337 3. la responsabilità verso il dolore dell’Altro evocato dalle tra- gedie - come esercizio dell’esser-ci con l’Altro, con l’utente, con il paziente, ecc. Non dimentichiamo che quando si ha a che fare con la sofferenza psichica si è spesso chiamati ad assumersi la “respon- sabilità della responsabilità dell’altro” (Lévinas). 4. La responsabilità di sé, delle proprie emozioni, dei propri gesti; stiamo parlando della cura di sé, elemento fondamentale per la crescita dell’identià professionale.

2. La gratuità Un altro vertice è certamente stato quello della gratuità. La mes- sa in scena non influenza il voto finale del Modulo, non è come si usa dire oggi banalmente “immediatamente spendibile”. Se all’ini- zio alcuni studenti si erano lamentati di questo aspetto, l’incontro con la tragedia, le prove per la sua messa in scena e soprattut- to l’emozionante momento della rappresentazione finale, hanno cancellato questa iniziale reticenza. Potrebbe sembrare strano, ma alcuni studenti che non si sono presentati all’esame finale per la certificazione del Modulo, si sono però assunti la responsabilità del lavoro di gruppo, partecipando attivamente fino alla messa in scena finale. Questo esercizio di gratuità deve essere qui inteso come l’espe- rienza dell’asse generosità-disponibilità verso una meta ideale che soprattutto nelle prime fasi del lavoro rimaneva incerta ma che aveva la capacità, e gli studenti lo hanno poi testimoniato, di muo- vere il desiderio, in altri termini di mettere in gioco la dimensione della passione. Tutte queste parole che possono appartenere a registri concet- tuali anche diversi, tendono secondo noi, a costruire una vera e propria mappa concettuale e affettiva, dell’agire sociale, e a essere premessa perché il lavoro sociale rimanga capace, al di là degli esiti più immediati e concreti, di essere generatore di vita, soprattutto nei confronti di persone che la vita l’hanno perduta, dispersa, lace- rata, o fuggita in altri oscuri territori della mente.

3. L’alterità e il rendersi conto dell’altro: com-prensione, com-mozio- ne, com-passione, distanza-vicinanza critica Un ulteriore punto è stato quello di rendersi conto del raccon-

338 to dell’Altro, senza per questo diventare l’Altro. L’attore-interpre- te dunque come metafora di chi, come l’operatore della relazione d’aiuto, può vivere pienamente la storia dell’altro, sapendo allon- tanarsene e sottrarsi appena la scena si chiude. Un allontanamento che però non è fredda distanza, ma nutrimento per una crescita interiore necessaria ai diversi tempi dell’incontro e della relazione con chi chiede aiuto e cura.

4. La condivisione e il piacere del “fare assieme” La giornata teatrale si è conclusa con un festivo banchetto di saluto, di amichevole commiato, totalmente organizzato dagli studenti. Questo, non solo ha modestamente imitato ciò che già avveniva nell’antichità proprio a seguito delle Grandi Dionisie di cui abbiamo parlato, ma ha anche mostrato come sia sempre ne- cessario nell’apprendimento, l’incontro tra rigore e passione, tra impegno e piacere. Una mistura per noi essenziale, in quella idea di comunità educativa e formativa, che molto corrisponde allo sti- le formativo proposto all’interno del nostro Dipartimento. La condivisione nella fatica dello studio, nel rigore scientifico necessario, nell’attenzione al valore della tradizione, deve potersi incontrare sempre e comunque con la dimensione creativa, con il piacere di stare insieme per fare delle cose insieme.

5. L’apprendimento attraverso l’ordine del cuore, per via creativa Un ulteriore vertice della nostra esperienza, proiettata nel futu- ro, è certamente quella di un legame stretto, nel processo formati- vo, tra momenti teoretici e momenti creativi. Apprendere dunque attraverso l’esperienza creativa, che non è solo divertimento, gioco, e non è neppure simulazione, ma vera espe- rienza di vita. Non chiediamo ai nostri studenti di avere solo la distanza della ragione, ma chiediamo loro di praticare una vera immersione at- traverso lo strumento della tragedia. Un’immersione che poi loro sperimenteranno dal vivo quando, dopo il primo anno, si affacce- ranno agli stages di pratica professionale. Questa convinzione ci spinge a porre, a tutto il nostro corso di laurea, la riflessione su come poter ampliare proprio questa via creativa, che è la forza fluida e flessibile dellaragione sensibile, che

339 in tutta questa esperienza abbiamo voluto al centro del nostro pa- radigma formativo.

6. La trasferibilità Nell’ordine della trasferibilità del progetto, come già scritto, va ricordato che la mise en scène ha ed ha avuto largo riconoscimento all’interno del mondo socio-sanitario che si occupa di psichiatria. Questo naturalmente potrà facilitare i nostri studenti sia durante i loro stages che nel corso della loro vera e propria futura pratica professionale. Inoltre la trasferibilità di questa esperienza è da leggere anche in termini indiretti. L’operatore sociale vive nella scena della vita, che è teatro della vita. Siamo profondamente convinti che “È proprio nel teatro e attraverso il teatro che può farsi trasparente il mondo delle passioni che emerge dalla sfera della prassi come esperienza opaca, se operano modelli di rappresentazione capaci di dare senso e ordine alle complesse vicissitudini dell’umano, muovendo da un coinvolgimento altamente partecipato per giungere a quella concretezza della forma capace di accogliere le tensioni dell’esistere e di rendere la vita traspa- rente a se stessa.”153 Ribadiamo come la nostra scelta progettuale si fondi sulla convin- zione che la tragedia greca, al di là delle trasformazioni storico-sociali e dei loro effetti sulle costellazioni psicologiche, permette di cogliere la continuità che riguarda la tragicità dell’esistenza umana.

La tragedia classica da Sofocle a Beckett ha proprio la capacità di rappresentare la scena della vita nei suoi aspetti più fondamentali. Il confronto che i nostri studenti hanno fatto con questi testi (si è scelto per coerenza quest’anno solo la tragedia greca) può assu- mere, per usare una metafora generativa, la funzione di “ostetrico” nei confronti della passione comprensiva, accogliente e se possibile trasformativa, nei confronti dell’alienità-follia e soprattutto di chi vi è abitato. Come non condividere a questo punto le parole di Serena Gua- riento quando scrive: “Il teatro dunque può rimettere in questione

153 Dalla Palma S., Momenti e modelli della transizione teatrale, in A. Cascetta, L. Peja, Elementi di drammaturgia, ISU Università Cattolica, Milano 2002, p. 373

340 la propria ragion d’essere e recuperare la sua vocazione originaria di: “azione ‘come se’, agita da un corpo in carne e ossa di fronte ad un’altra corporeità”. Il come se che definisce il teatro richiama la necessità di un patto comunicativo tra emittente e destinatario, nella consapevolezza che l’attore agisce ‘come se’ facesse sul serio, operando in una sfera non quo- tidiana, ma inscritta nella dimensione dell’immaginario, dove tutto è possibile. Attore e spettatore sono l’uno in relazione all’altro, in un incontro vivo e reale. Teatro dunque prima di tutto come luogo di relazione. Una ‘Relazione’ intesa in prospettiva fenomenologica come dimensione costitutiva dell’uomo, legata ai concetti di ‘Persona’ (Ricoeur), ‘Vol- to’ (Levinas), ‘Alterità’ (Buber): se il proprium dell’uomo è l’apertura all’altro (‘essere-con’), questa ‘relazione’ implica partecipazione affetti- va e reciprocità di presenza. Relazione a teatro è quindi dialettica, “comunicazione calda ed au- tentica che si celebra nell’incontro personale tra le coscienze e che risie- de nelle origini gestuali, tribali della comunicazione nell’ambito della comunità di villaggio”.154

154 Guariento S., Il teatro come pratica narrativa per l’orientamento formativo: una ricerca sul campo, Tesi di dottorato, Università degli Studi, Padova, 2009, p. 26

341 4.6 Ai musei di Torino di antropologia criminale e di anatomia umana Tra forma e sostanza dal corpo all’anima Graziano Martignoni, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli e Ornella Manzocchi155

4.6.1 Programma

9.50 Ritrovo in Via Pietro Giuria all’ingresso del Museo Lombroso

10.00 - 11.00 Visita guidata al Museo Lombroso 11.00 - 12.00 Trasferimento al Museo di anatomia umana L. Rolando 12.00 - 12.30 Breve breafing 12.30 - 14.00 Pausa pranzo 14.00 Ritrovo nell’aula magna degli istituti anatomici 14.00 - 16.00 Introduzione con letture tratte dagli scritti di Lombroso e di letteratura

4.6.2 Sguardi sull’umano e le sue metamorfosi Dalla follia alla corporeità Lorenzo Pezzoli

Sono passati più di centoquarant’anni dall’indagine sul cervello del povero Vilella: quel cranio, col suo contenuto e le sue forme,

155 Questa esplorazione appartiene al Modulo “Spazi di cura e gesti di ospitalità”, che si svolge nel corso del secondo e quarto semestre.

342 che il 4 gennaio del 1871 capitò nel piccolo laboratorio di Pavia e dove Lombroso vi notò un’anomalia morfologica, la famosa fos- setta occipitale mediana rispetto alla quale costruì l’ipotesi dell’a- tavismo in quanto questa fossetta riavvicinava l’uomo ai primati. Villella, un uomo di quasi settant’anni definito da Lombroso “tri- stissimo” e, continua l’autore: “...condannato tre volte per furto e in ultimo per incendio di un mulino; ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, il Villella camminava sghembo, e aveva il torcicollo non so bene se a destra o a sinistra.”. Sono passati anni ma, ancora, quel ‘conte- nuto’ indagato in modo rudimentale dal Lombroso ha molte cose da raccontarci che, a suo modo e con molti limiti, forse Lombroso aveva intuito. Come scrisse nel suo discorso funebre Guglielmo Ferrero (In memoria di Cesare Lombroso, 1910), forse é arriva- to il momento di rileggere Lombroso: “Tra cinquant’anni, tra un secolo, la riscoperta e la consacrazione definitiva della grandezza dell’opera e della vita del Maestro sarà matura nella coscienza ad- dormentata del mondo (...).”. Occuparsi della storia delle persone come il “tristissimo Villella” che siano delinquenti, folli, scellerati, vittime o semplicemente e genericamente persone sofferenti, è un punto importante perché quella storia, che comunemente si definisce biografia, rappresenta l’universo della soggettività così come si è declinata nel corso di un’esistenza. Il soggetto con biografia non è più solo la psicopa- tologia che evoca, e che con i suoi sintomi rappresenta metten- dola in scena nel teatro del mondo, ma qualcosa che la significa e la arricchisce rendendola unica. Lo ricordava von Gebsattel in Imago Hominis del 1964 quando scriveva che “la malattia non si identifica con il patologico. Ciò che non interessa alle scienze della natura è l’uomo nella modalità esistenziale del suo essere malato. Ma è proprio questo che costituisce per il malato la dimensione autentica della sua malattia.”156. L’incredibile collezione di resti di umanità sofferente, disagiata, segnata da povertà e limiti, impulsi irrefrenabili e passioni malate di cui si è attorniato Cesare Lom- broso è nata, come ricorda la figlia Gina dal fatto che il padre fosse un “raccoglitore nato”157, un uomo mosso dall’esigenza di catalo-

156 V. E. von Gebsattel, Imago hominis, 1964, p. 62. 157 Gina Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso, p. 335

343 gare, misurare, ordinare. Non a caso era chiamato il medico della stadera. E lo faceva “mentre camminava, mentre parlava, mentre discorreva; in città, in campagna, nei tribunali, in carcere, in viag- gio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva.”158 In questo vedere quello che nessuno vedeva Lombroso credo si sia preso degli abbagli ma anche abbia precorso e colto delle questioni importanti e delicate si pensi ad esempio il tributo dato a Lom- broso da Enrico Morselli quando fece riferimento all’intuizione del regresso e del ritorno all’arcaico, al primitivo. Delia Frigessi159 in un capitolo del libro dedicato a “Lombroso cento anni dopo”, ricorda come sia Freud che Jung si siano interessati ad alcuni aspet- ti dell’opera lombrosiana ed in particolare all’ipotesi atavistica e al fatto che nell’uomo alberga ancora il primitivo e il selvaggio; “l’inconscio dell’uomo civilizzato descritto da Freud non differisce dall’uomo primitivo di Lombroso, dal suo “delinquente atavico”. Anche l’idea della creazione geniale, di una creatività in cui predo- mina l’incosciente, ha suscitato una lettura prefreudiana dell’opera lombrosiana.”160 Non si può che osservare come l’attenzione, direi a volte osti- nata ed esasperata, per recuperare le soggettività delle persone che studiava, rappresenta con Lombroso un punto interessante e pre- zioso. Un cranio, un tatuaggio, un graffito sul muro di uno dei tanti istituti carcerari da lui considerati, diventava frammento di una soggettività che si dispiegava nel tempo e componeva una bio- grafia che, notoriamente, non può che essere complementare (e da integrare) alla biologia. Percorrere l’itinerario bio-logico sen- za tenere in conto di quello bio-grafico è come tornare al 1845 e leggere il Lehrbuch der Pathologie und Therapie der psychischen Krankheiten e ripercorrere con il suo autore, Wilhelm Griesinger, il postulato che vorrebbe che ogni malattia mentale sia una malattia del cervello. In fondo, in Italia, con la chiamata di Moleschot alla Regia Università di Torino alla cattedra di fisiologia sperimentale si percorreva la stessa strada. Quel Moleschot che scriveva che il

158 Ibidem 159 Friessi Delia in Montaldo S., Tappero P., Cesare Lombroso cento anni dopo, Torino, Utet, 2009

160 Ibidem, pag.14

344 pensiero sta al cervello così come l’orina sta ai reni e che fu salutato da Lombroso con entusiastica soddisfazione. L’intelletto umano come prodotto della natura diviene così, se vogliamo forzare un po’ lo scenario culturale voluto da De Sanctis in Italia nel nuovo regno d’Italia161, il concetto di riferimento per la cultura medica del tempo come ben scriveva Salvatore Tommasi ne “Le dottrine mediche e la clinica”: “siamo condannati ad essere materialisti, in quanto siam medici. Noi rispettiamo il cielo della filosofia; anche noi serbiam fede al progresso delle scienze morali; ma in quanto siam medici, negheremo noi stessi se non fossimo materialisti.”162 Sollevare Cesare Lombroso da questo contesto significa snaturarne il pensiero e il percorso. Rileggere oggi Lombroso, pur con le inevitabili resistenze che può suscitare e le inevitabili perplessità, lo ritengo un’operazione importante anche per comprendere come si è sviluppato il pensie- ro scientifico e la ricerca sull’umano che ha occupato psichiatria e psicologia con particolare dinamismo proprio negli anni di lavoro e impegno del fondatore dell’Antropologia criminale italiana. E le riletture sono sempre dense di quello che è trascorso nel frattem- po e che riorienta gli sguardi. Credo che il valore di alcune delle considerazioni di Lombroso nella pubblicazione del 1856 su “L’in- fluenza della civiltà sulla pazzia e della pazzia sulla civiltà” uscito sulla Gazzetta medica lombarda, siano ancora da tenere in conto, in particolare quando scrive di come la pazzia si modelli sull’im- magine della civiltà nella quale si esprime e manifesta (“in mezzo alla quale imperversa”)163. Il contesto sociale, culturale, l’ambiente in cui il patire prende forma e si esprime, ha una sua importanza nel dispiegarsi dello stesso e nelle modalità con le quali, attraverso il sintomo, si rende visibile e leggibile. Dunque la visita al Museo Lombroso, che ha trovato colloca- zione nello stabile più idoneo e cioè nell’edificio degli istituti ana- tomici di Torino in via Pietro Giuria, è l’occasione di un percorso

161 Proprio De Sanctis aveva brigato per la chiamata di Molescott in Italia. 162 Salvatore Tommasi, Le dottrine mediche e la clinica, prolusione (1865), in ID., Il naturalismo moderno, a cura di Antonino Anile, Laterza, Bari 1913, pp.89.90. 163 Lombroso C., Influenza della civiltà sulla pazzia e della pazzia sulla civiltà, Giornale di scienza mediche, Milano 1956.

345 storico nella ricerca e nelle vicissitudini di chi, Lombroso appunto, lo ha con pazienza e costanza composto. Ma è anche un tragitto attraverso lo sviluppo della psicologia, dell’antropologia e psichia- tria italiane, come pure un approccio all’universo dei marginali dell’Ottocento, un avvicinamento alle malattie della povertà a par- tire dalla Pellagra con le sue tre “D”, dermatosi, diarrea e demenza a cui si aggiunge nei paesi di lingua inglese una quarta “D” che sta per death, morte. Un percorso tra la follia e la sua rappresenta- zione e le sue manifestazioni, il delitto e i suoi esecutori ma anche il tentativo della società di rispondere a queste realtà in un’Italia appena nata come nazione ma ancora eterogenea e frammentaria nel tessuto sociale, culturale e politico. Si entra, entrando nelle sale che accolgono i reperti umani, anatomici e antropologici in una che definirei la naturale prosecuzione in chiave positivista della Wunderkammer, la camera delle meraviglie, che recentemente a Milano è stata oggetto di una bella retrospettiva al Museo Poldi Pezzoli164. L’unione di scienza, natura ed arte nelle Wunderkam- mer cerca di riunire questi vertici del pensiero rinascimentale. La collezione di cose meravigliose che accomunò i Farnese, piuttosto che imperatori e re (da Rodolfo II d’Asburgo a Praga a di Cristiano IV di Danimarca o a Ferdinando II, nel Tirolo) ha il suo punto di particolare implementazione nel Cinquecento per svilupparsi nei secoli a venire. Il Museo Lombroso pare la derivazione ottocentesca impregnata dalla cultura di quel “materialismo inquieto”165 che ha segnato la cultura medica e non solo nell’età del positivismo. Vi è dunque un sottile filo rosso che passa dal Museo di Ferrante Impe- rato a Napoli (1599), dal Theatrum Anatomicum di Leida (1610) fino ai diorami e alle composizioni del medico Fredrik Ruysch di Amsterdam nel primo Settecento, celebre per i progressi compiuti nella conservazione dei cadaveri che volentieri veniva rappresenta- to alle prese con la dissezione di corpi alla presenza degli allievi, da pittori come Adriaen Baker o Jan van Neck.

164 Wunderkammer. Arte, natura, meraviglia ieri e oggi. Museo Poldi Pez- zoli. Curatori:Lavinia Galli, Martina Mazzotta. 15 Novembre 2013 al 02 Marzo 2014.

165 Faccio riferimento a un concetto espresso da Girolamo de Liguori nel suo libro Materialismo inquieto edito da Laterza, Roma-Bari, 1988.

346 Cesare Lombroso è partito occupandosi della corporeità, misu- randola, osservandola, comparandola, cercandone le bizzarrie e le deformità e rapportandole alle deformità e alle bizzarrie psichiche piuttosto che alle degenerazioni. L’accostamento del Museo Lom- broso al Museo di Anatomia umana L. Rolando nello stesso com- plesso degli Istituti Anatomici ci riconduce al comune denomina- tore della corporeità dei soggetti e alla necessità di non dimenticare né trascurare questa corporeità nell’incontro.

I due musei rappresentano la tensione tutta ottocentesca tra le malattie del corpo nelle due sfaccettature dell’organico e dello psi- chico. Due musei che accompagnano attraverso la visione della malattia della psiche, la follia e la malattia del corpo, esposizioni adiacenti che si parlano e che portano l’attenzione sulla dimensio- ne della follia da un lato ma anche delle modificazioni anatomiche che la malattia produce e genera e che hanno certo impatto sulla psiche. Due esposizioni che costringono ad uno sguardo all’in- terno: della psiche da un lato, e del corpo dall’altro, poli legati dal tentativo di trovare nel secondo, il corpo, la spiegazione delle modifiche della prima e cioè la psiche. Un tentativo che animerà molta della cultura ottocentesca che lo stesso Freud incontrerà e interpreterà nel suo Progetto di una psicologia (1892-1899). Ma entrambi i musei ampliano la loro stimolazione sulla tematica del guardare dentro: che sia il corpo o che sia la psiche, come attitudi- ne esplorativa dell’altro e dell’altrui. Guardare dentro è un atteggiamento che appartiene all’universo dell’inconsueto, guardare dentro costringe all’inevitabilità di vedere in modo diverso ciò che sta fuori all’interno esplorato. In que- sto senso credo che l’immagine costodita nel Museo di Anatomia umana « Luigi Rolando » di Torino, tra l’altro vicino a quello di antropologia criminale di Cesare Lombroso, con il quale i richiami non sono pochi, luogo citato come esempio di museo scientifico di fine Ottocento, ha un che di sconvolgente. Racchiude il tenta- tivo di dare grazia al corpo aperto, letteralmente spalancato, della giovane ragazza, accentuando in questo modo il contrasto tra l’evi- scerazione didattica e la grazia del volto e dello sguardo. Elementi che possono aiutare a riflettere su ogni « viaggio all’interno » e su ogni ingresso nel profondo, in qualunque interiorità, in questo

347 caso corporea, incontro che colpisce e a volte sconvolge, dando a chi vede elementi differenti nell’osservazione e nella considera- zione dell’esterno. Non si può dimenticare come, in questo senso, il poeta Iginio Ugo Tarchetti, nella sua poesia Memento andava in questa direzione. Quando bacio il tuo labbro profumato, / cara fanciulla, non posso obbliare / che un bianco teschio vi è sotto celato. / Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, / obbliar non poss’io, cara fanciulla, / che vi è sotto uno scheletro nascoso. / E nell’orrenda visione assorto, / dovunque o tocchi, o baci, o la man posi, / sento sporger le fredde ossa di un morto. Tarchetti é stato uno dei rappresentanti della Scapigliatura milanese lettore di Poe e Hoffman che, forse, hanno aiutato il suo orientamento e gusto per universi macabri, patologici o segnati da abnormità. Nella poesia citata si sente, a mio avviso, lo straniamento di una alterità percepita e immaginata, un’alterità che finisce per influire sul soggetto riorientando il suo sguardo verso l’oggetto d’amore e d’attrazione. Che sia il corpo anatomico dipinto dal seicentesco Rembrandt che porterà i medici aspiranti, raffigurati nella tela, a guardare le sinuosità corporee, da quel momento in poi, come superficie di complessi grovigli interni, o che sia l’“anatomia psicoanalitica” di Sigmund Freud che proporrà uno sguardo su sogni, lapsus, atti mancati e, più in generale, sull’universo del tangibile e cosciente, come manifestazione di profondità complesse e articolate, profon- dità che mettono in scacco l’Io che da sempre è stato creduto illu- soriamente il padrone di casa. Infine anche la ricerca scientifica che scandaglia con sempre maggiore dovizia e capacità le profondità della materia, e che ci re- stituisce una visione della superficie non più uguale a quella che si aveva prima, ogni sguardo dell’interno, del profondo, di ciò che sta dentro e non si vede, consente non solo una comprensione nuova di quanto si vede esteriormente ma cambia, a partire dallo sguardo, anche colui che osserva. Non è più solo l’oggetto a essere diverso: l’averne conosciute le interiorità o le profondità, come pure i mec- canismi e le componenti interne, trasforma la percezione certo, ma anche chi percepisce si sente differente.

Casa Lombroso era nota all’epoca del grande antropologo crimina- le; molti poveracci ricevevano cure gratuite dal proprietario che così

348 aveva occasione di scoprire e misurare “nuovi” tipi umani appartenenti alla cerchia dei marginali, luogo conosciuto tanto che su un numero de L’illustrazione italiana del 1906, a pochi anni dalla morte, lo stesso Lombroso scriveva: “Ripasso qui in rivista [...] quei poveri trofei rac- colti [...] prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino.”. Lombroso ebbe vari meriti, e anche molti demeriti. Su questo non ci sono dubbi. Due questioni lo rendono particolarmente interessante. La prima è legata al campo dei suoi interessi e dal fatto di orientare la ricerca, l’attenzione scientifica, il dibattito culturale, su segmenti della società e della popolazione che non suscitavano né interesse né simpa- tia, e che erano considerati solo e semplicemente per i problemi che suscitavano. I poveri, i folli, i marginali, gli anarchici, le prostitute e via via in un campionario umano da “miserabili” alla Victor Hugo erano il cuore della ricerca e dello studio lombrosiano ai quali, in linea con l’epoca, egli applicava rigore e metodo scientifico. Il secondo fattore era il fatto che egli, il Lombroso intendo, si sentiva ne più ne meno al pari di chi studiava. Democratico fino all’osso, socialista attivo politicamente in quella Torino capitale del nuovo Regno d’Italia, decise di lasciare, post mor- tem, il suo corpo allo studio dei suoi seguaci alla stregua di quanto aveva fatto coi corpi, i cervelli, le ossa e i manufatti dei disperati a cui si era dedicato e per i quali si era prodigato. E il suo corpo, o quello che resta, è ben ordinato nel museo a lui dedicato: appeso in una teca di vetro lo scheletro, la pelle del viso sotto formalina o soluzione alcolica che sia, e via via in una moderna scomposizione stile “vasi canopi” di egizia me- moria. Democratico perché si sentiva lui, come i suoi folli, criminali, donne e ladre di malaffare e quant’altro, al pari come uomo e come potenziale e/o reale oggetto di studio. Come ben scriveva Daniele Velo Dalbrenta in “Tesi e malintesi de L’uomo delinquente”: “Lombroso stesso ha voluto rendere testimonianza in prima persona e, se così si può dire, da par suo. (...)egli donò, per disposizione testamentaria, il proprio corpo alla scienza: ritenendo di poter rispondere così, post mortem, alle critiche rivoltegli.”. Il referto dell’esame autoptico che fu eseguito subito dopo il decesso dal prof. Tovo dimostrò una cosa che sconcertò: “il cervello di Lombroso sembra sia risultato ricco di pieghe di passaggio, ossia di una delle tipiche “stimate” delinquenziali...”.

349 4.7 Alle grotte della Valle Imagna Attraverso il buio lasciar accadere la luce; Del nascere e del rinascere Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, e Lorenzo Pezzoli166

Con la partecipazione e collaborazione di Maria Grazia Canepa, medico e presidente SUMSI (società ultrasonografica della Svizze- ra italiana), di Gianni Castagnola, medico ginecologo e membro del soccorso alpino e speleologico del CAI, di Bruno Pizzi lettore dantesco e di Pierangelo Cattaneo, Davide Franchini e Giovanni Gritti, del Gruppo speleologico Valle Imagna. Con un contributo di Graziella Corti, antropologa.

4.7.1 Programma Giunti in Valle Imagna, la prima parte della nostra esperienza prende avvio alle 16:00 e termina alle 22:00 entro le mura dell’al- bergo che ci offre ospitalità. Gli incontri di riflessione, condivisione e approfondimento sa- ranno intercalati dal momento conviviale della cena e si conclude- ranno con il riposo notturno. Daranno vita a questa prima parte riflessiva: La docente Ornella Manzocchi - L’origine la nascita: da teorie, a gesti emozioni, pensieri Il docente Lorenzo Pezzoli - La terra e le sue aperture La dottoressa Mariagrazia Canepa - Eco … in grotta Il medico Dr. Gianni Castagnola, ginecologo e membro del soccorso alpino e speleologico del CAI, l’impatto con la luce e il primo respiro, l’evento nascita dal punto di vista medico. Il Prof. Graziano Martignoni - Esporsi al mondo

166 Questa esplorazione appartiene al Modulo “Prima infanzia e Nido”, che si svolge nel corso del secondo semestre.

350 Dopo un momento conviviale dedicato alla cena ci si reca nel bosco e si prende posto silenziosamente dentro la Caverna Buca del Corno per l’ascolto della narrazione dalla Divina Commedia, canto XXVI dell’Inferno, interpretato dal narratore Bruno Pizzi. Rientro all’albergo e lettura personale di una poesia di Fernando Pessoa per una notte serena e di riposo

Ode alla Notte Vieni, Notte antichissima e identica, Notte Regina nata detronizzata, Notte internamente uguale al silenzio, Notte con le stelle, lustrini rapidi sul tuo vestito frangiato di Infinito. Vieni vagamente, vieni lievemente, vieni sola, solenne, con le mani cadute lungo i fianchi, vieni e porta i lontani monti a ridosso degli alberi vicini, fondi in un campo tuo tutti i campi che vedo, fai della montagna un solo blocco del tuo corpo, cancella in essa tutte le differenze che vedo da lontano di giorno, tutte le strade che la salgono, tutti i vari alberi che la fanno verde scuro in lontananza, tutte le case bianche che fumano fra gli alberi e lascia solo una luce, un’altra luce e un’altra ancora, nella distanza imprecisa e vagamente perturbatrice, nella distanza subitamente impossibile da percorrere. Nostra Signora delle cose impossibili che cerchiamo invano, dei sogni che ci visitano al crepuscolo, alla finestra, dei propositi che ci accarezzano sulle ampie terrazze degli alberghi cosmopoliti sul mare, al suono europeo delle musiche e delle voci lontane e vicine, e che ci dolgono perché sappiamo che mai li realizzeremo. Vieni e cullaci, vieni e consolaci, baciaci silenziosamente sulla fronte, cosi lievemente sulla fronte che non ci accorgiamo d’essere baciati se non per una differenza nell’anima e un vago singulto che parte misericordiosamente dall’antichissimo di noi

351 laddove hanno radici quegli alberi di meraviglia i cui frutti sono i sogni che culliamo e amiamo, perché li sappiamo senza relazione con ciò che ci può essere nella vita. Vieni solennissima, solennissima e colma di una nascosta voglia di singhiozzare, forse perché grande è l’anima e piccola è la vita, e non tutti i gesti possono uscire dal nostro corpo, e arriviamo solo fin dove arriva il nostro braccio e vediamo solo fin dove vede il nostro sguardo. Vieni, dolorosa, Mater Dolorosa delle Angosce dei Timidi, Turris Eburnea delle Tristezze dei Disprezzati, fresca mano sulla fronte-febbricitante degli Umili, sapore d’acqua di fonte sulle labbra riarse degli Stanchi. Vieni, dal fondo dell’orizzonte livido, vieni e strappami dal suolo dell’angustia in cui io vegeto, dal suolo di inquietudine e vita-di-troppo e false sensazioni dal quale naturalmente sono spuntato. Coglimi dal mio suolo, margherita trascurata, e fra erbe alte margherita ombreggiata, petalo per petalo leggi in me non so quale destino e sfogliami per il tuo piacere, per il tuo piacere silenzioso e fresco. Un petalo di me lancialo verso il Nord, dove sorgono le città di 0ggi il cui rumore ho amato come un corpo. Un altro petalo di me lancialo verso il Sud dove sono i mari e le avventure che si sognano. Un altro petalo verso Occidente, dove brucia incandescente tutto ciò che forse è il futuro, e ci sono rumori di grandi macchine e grandi deserti rocciosi dove le anime inselvatichiscono e la morale non arriva. E l’altro, gli altri, tutti gli altri petali - oh occulto rintocco di campane a martello nella mia anima! - affidali all’Oriente, l’Oriente da cui viene tutto, il giorno e la fede, l’Oriente pomposo e fanatico e caldo, l’Oriente eccessivo che io non vedrò mai,

352 l’Oriente buddhista, bramanico, scintoista, l’Oriente che è tutto quanto noi non abbiamo, tutto quanto noi non siamo, l’Oriente dove - chissà - forse ancor oggi vive Cristo, dove forse Dio esiste corporalmente imperando su tutto.. Vieni sopra i mari, sopra i mari maggiori, sopra il mare dagli orizzonti incerti, vieni e passa la mano sul suo dorso ferino, e calmalo misteriosamente, o domatrice ipnotica delle cose brulicanti! Vieni, premurosa, vieni, materna, in punta di piedi, infermiera antichissima che ti sedesti al capezzale degli dei delle fedi ormai perdute, e che vedesti nascere Geova e Giove, e sorridesti perché per te tutto è falso, salvo la tenebra e il silenzio, e il grande Spazio Misterioso al di la di essi.. Vieni, Notte silenziosa ed estatica, avvolgi nel tuo mantello leggero il mio cuore... Serenamente, come una brezza nella sera lenta, tranquillamente, come un gesto materno che rassicura, con le stelle che brillano (o Travestita dell’Oltre!), polvere di oro sui tuoi capelli neri, e la luna calante, maschera misteriosa sul tuo volto. Tutti i suoni suonano in un altro modo quando tu giungi Quando tu entri ogni voce si abbassa Nessuno ti vede entrare Nessuno si accorge di quando sei entrata, se non all’improvviso, nel vedere che tutto si raccoglie, che tutto perde i contorni e i colori, e che nel cielo alto, ancora chiaramente azzurro e bianco all’orizzonte, già falce nitida, o circolo giallastro, o mero diffuso biancore, la luna comincia il suo giorno. La prima giornata è terminata, tra emozioni, ascolti, silenzi, poesia e colori. Ora è il momento del riposo, del fermare l’attività per lasciare che la notte abbia il sopravvento e il corpo riposi con la mente.

353 La seconda parte si svolge il giorno seguente fra boschi e grotte e si compone di due momenti. Il primo mette in campo l’esperienza esistenziale del passaggio da un fuori a un dentro e da dentro a fuori (si sviluppa nella Grotta Europa). Il secondo momento silvestre ci “getta” nell’esperienza esisten- ziale di “stare” alle soglie della vita (si svolge nel grande antro della caverna del Buco del Corno). Questi due momenti ci permettono di transitare dalle atmosfere primordiali intrise di dimensioni naturali a quelle successive intrise di culturalità.

Le atmosfere primordiali che incontriamo nel percorso attraver- so il pertugio e il cunicolo verso la grotta Europa permettono allo studente di regredire, ossia transitare dal noto all’ignoto, striscian- do nel ventre della terra madre. Entrare in grotta, in particolare in un cunicolo che porta ad una grande sala-ventre richiama i viaggi nel profondo, la Nekyia cara a C. G. Jung, lo scendere nella terra delle madri, l’accettare la cecità degli occhi per consentire la vista dell’anima. Come scriveva C. G. Jung la Nekyia “è l’introversione della mente cosciente negli strati più profondi della psiche inco- sciente”. Per Jung “La Nekyia non è una caduta nell’abisso distrut- tiva e priva di scopo, ma una significativa Catabasi, il cui obiettivo è il ripristino dell’intero uomo”. Così si scende nel profondo per dare senso alla superficie, per ritornare, come i tanti viaggiatori del profondo, da Odisseo ad Enea, da Orfeo a Giulio Verne con il suo apparentemente banale e infantile Viaggio al centro della Terra; le catabasi mitiche e letterarie sono tante e tutte tese a raccontare l’in- contro con il profondo che è incontro con quella parte misteriosa di sé che, se accolta, dà vita a un nuovo sguardo sul mondo. In secondo luogo l’entrare in grotta permette allo studente di giungere nell’involucro-grotta e transitare dalla fatica del passaggio dal noto all’ignoto alla dimensione che porta dal sentirsi al sentire, dal percepirsi al percepire, dal guardarsi al guardare, dall’ascoltarsi all’ascoltare in un susseguirsi di momenti esperienziali così orga- nizzati: ascoltare l’intimità: auscultare i propri battiti cardiaci; sentire l’intimità con l’universo attraverso l’ascolto della musi- ca/suoni;

354 perdere la luce e trovare il sentire, l’ascolto, l’emozione: stare al buio; le parole che parlano della vita intra-uterina; le parole che parlano della trasformazione da pre a post-natale; ritrovare un senso: le parole che narrano la cosmogonia della terra madre; In un terzo momento lo studente lascia l’involucro e ritrova la luce, affrontando la fatica del cambiamento. Infine lo studente vive in prima persona l’esperienza del veni- re alla luce accolti dalla musica e da chi ci accompagna silenzio- samente all’incontro con la matericità della natura della vita: nel silenzio ognuno si dirige verso la caverna Buco del Corno dove darà vita a concretizzazioni materiche che parlano dell’esperien- za vissuta immaginando-entrando-stando-uscendo-ricordando quanto vissuto nella grotta Europa, metafora del nascere. Sempre in silenzio quando tutte le concretizzazioni hanno trovato vita e sono deposte qua e là negli anfratti della caverna Buco del Cor- no, ognuno si incammina nel bosco meditando, per poi tornare al Buco del Corno al richiamo sonoro del flauto.

Le atmosfere culturali che ci attendono sono le seguenti: Pranzo e riposo; condivisione delle concretizzazioni deposte nella caverna Buco del Corno; ascolto esecuzione brani musicali per flauto traverso eseguiti dall’operatrice sociale Sara Petrocchi-Cavenago; scrittura versi o narrazioni passeggiando mentalmente e fisica- mente fra nascita e nuovi confini; condivisione delle scritture; la nascita e il sacro, la sacralità dei momenti di passaggio; discorso di chiusura tenuto dal prof. Martignoni; saluto con concerto di chiusura; percorso verso le grotte dei santuari mariani; ritorno all’inizio del cammino: saluti, foto, abbracci, rientro.

355 Omissis

Grotta Sulle pareti nulla e solo l’umidità cola. Qui è buio e fa freddo. Ma è buio e fa freddo dopo un fuoco spento. Nulla - ma un nulla dopo un bisonte dipinto con l’ocra. Nulla - ma un nulla avanzato dopo una lunga resistenza d’una testa d’animale chinata. E dunque un Nulla Bello. Degno della maiuscola. Un’eresia di fronte al comune niente non convertita e fiera della differenza. Nulla - ma dopo di noi, che qui siamo stati e i nostri cuori abbiamo mangiato e il nostro sangue abbiamo bevuto. Nulla, ossia la nostra danza incompiuta. Le tue prime cosce, mani, nuche, facce accanto al fuoco. I miei primi sacri ventri con minuscoli pascal. Silenzio - ma dopo voci. Non del genere dei silenzi pigri. Un silenzio che un tempo aveva le sue gole, pifferi e tamburelli. Lo innestava qui come un albero selvatico il mugolio, il riso. Silenzio, ma nelle tenebre esaltate dalle palpebre. Tenebre - ma nel freddo nella pelle e le ossa. Freddo - ma della morte. Sulla terra che è forse una nel cielo? Che è forse il settimo? Sei emerso con la testa dal vuoto e vuoi tanto sapere. Wislawa Szymborska

356 4.7.2 Fra psiche e soma, l’esperienza della “cesura” Ornella Manzocchi Nessuna cosa nasce né perisce, ma da cose esistenti ogni cosa si compone e si separa. Anassagora, Frammenti, V sec. a.C.

Le nostre giornate alle grotte, dedicate all’origine e al nascere, prendono spunto anche dal saggio Caesura (1975) e dai seminari clinici pubblicati nel 1987, nei quali Wilfred Ruprech Bion ri- formula l’affermazione di Freud che si trova nel saggio del 1926 Inibizione, sintomo e angoscia, secondo cui “tra la vita intrauterina e la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere l’impressionante cesura dell’atto della nascita”. Bion scrive: “Non so se sto interpretando male questa citazione, ma penso che non sia inappropriato che Freud dica ‘non ci lasci credere l’im- pressionante cesura’, come se fosse la cesura che governa i nostri pensieri. Il diaframma, la cesura, è la cosa importante; è la fonte del pensare. Picasso dipinse un quadro su un pezzo di vetro in maniera che potesse essere visto da entrambi i lati. Suggerisco che si possa dire la stessa cosa della cesura: dipende dalla direzione da cui la si guarda, dalla direzione in cui si sta viaggiando. Disordini psicosomatici, o somapsicotici - scegliete voi: il quadro dovrebbe essere riconoscibilmente lo stesso, che lo si guardi dalla posizione psicosomatica o da quella somapsicotica”. La nostra intenzione, desiderio, progetto, obiettivo riguardano dunque la possibilità di offrire ai nostri studenti del modulo Prima infanzia e Nido, l’opportunità di rivivere in prima persona l’espe- rienza della cesura, così centrale, fondamentale, onnipresente nella vita sia intra-psichica che inter-soggettiva di ognuno di noi. L’esperienza dell’origine e del nascere alle grotte si sviluppa lun- go due dimensioni che sono quella esperienziale e quella riflessiva grazie alla possibilità di vivere in prima persona:

1. un’esperienza fisico-psichica in una tensione continua fra cor- po e mente nella duplice dimensione - dal fuori al dentro e dal dentro al fuori; 2. un’esperienza riflessiva squisitamente mentale-relazionale che permette di rendere questo vissuto più consapevole, più condivisi- bile, più pensato e più pensabile.

357 L’esperienza delle grotte ci permetterà dunque di rivivere e pren- derci cura del decisivo passaggio fra ciò che accade nella mente di una persona quando è sola con sé stessa e ciò che avviene quando la stessa persona entra in relazione con gli altri. Il pertugio ed il lungo cunicolo che collega il bosco alla grotta Europa ci permettono la preziosa e unica esperienza dell’immagina- re, dell’entrare, dello stare, dell’uscire, e infine dell’essere accolti da qualcuno che ci attende, come metafora della relazione intra-psichi- ca che si affaccia al mondo delle relazioni inter-soggettive. Il bosco, con la sua luce, la sua vita micro e macro-cosmica, la grande caverna Il Buco del Corno ci permettono di fare esperienza del passaggio lento e complesso da una dimensione intra-psichica ad una inter-soggettiva. Il bosco e la grande grotta divengono così metafora del mondo nel quale siamo chiamati a nascere e a vive- re. Un mondo significativamente ordinato da un telos che parla di condivisione, di compartecipazione, di necessità, di desideri, di fra- gilità, di limiti, di frustrazioni e di gratificazioni; in una parola della possibilità di sentirci e di essere persone libere, ossia creative. Nel bosco e nel grande antro della caverna Il Buco del Corno prenderà avvio l’esperienza della condivisione delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri vissuti nel cunicolo che ci separava dall’Altro e che ci rimandava inesorabilmente all’Altro dentro di noi. Venuti alla luce del bosco, grazie all’accoglienza, alla comprensione, alla gratuità del gesto di ospitalità e cura, daremo avvio alla condivisione della scrit- tura, della costruzione di immagini, della meditazione, della lettura. I passaggi, le cesure, il crinale sono le esperienze che più ci interro- gano, come Bion ricordava non è al dentro o al fuori che dobbiamo porre la nostra attenzione, ma a ciò che avviene sulla barriera di con- tatto, sul confine, nella zona di passaggio, la dove cura e ospitalità prendono forma concreta. Sono dunque le trasformazioni che avvengono sui crinali quelle che maggiormente ci interessano e ci permettono di mettere in cam- po trasformazioni sia sul piano del pensiero che su quello dell’azione.

Un racconto iniziato Alla nascita d’un bimbo il mondo non è mai pronto. Le nostre navi ancora non son tornate dalla Vinlandia. Ci attende ancora il valico del Gottardo.

358 Dobbiamo eludere le guardie nel deserto di Thor, aprirci la strada per le fogne fino al centro di Varsavia, trovare il modo di arrivare al re Harald Cote, e aspettare che cada il ministro Fouché. Solo ad Acapulco ricominceremo tutto da capo. Si è esaurita la nostra scorta di bende, fiammiferi, argomenti, amigdale e acqua. Non abbiamo camion, né il sostegno dei Ming. Con questo ronzino non corromperemo lo sceriffo. Niente nuove su quelli fatti schiavi dai Turchi. Ci manca una caverna più calda per i grandi freddi e qualcuno che conosca la lingua harari. Non sappiamo di chi fidarci a Ninive, quali condizioni porrà il principe-cardinale, quali nomi siano ancora nei cassetti di Berija. Dicono che Carlo Martello attaccherà all’alba. In questa situazione rabboniamo Cheope, presentiamoci spontaneamente, cambiamo religione, fingiamo di essere amici del doge e di non avere a che fare con la tribù Kwabe. Si approssima il tempo di accendere i fuochi. Telegrafiamo alla nonna che venga dal paese. Sciogliamo i nodi sulle corregge della yurta. Purché il parto sia lieve e il bimbo cresca sano. Possa essere talvolta felice e scavalcare gli abissi. Che abbia un cuore capace di resistere, e l’intelletto vigile e lungimirante. Ma non così lungimirante da vedere il futuro. Risparmiategli questo dono, o potenze celesti. Wislawa Szymborska

4.7.3 Nascimento ama nascondersi Lorenzo Pezzoli

Quando si pensa al seme nella terra, al bambino nel ventre ma- terno, all’embrione celato nel melmoso insieme delle uova anfibie, all’ovisacco che chiude e protegge nascondendo le uova dei piccoli aracnidi, si percorre il tema della sottrazione dello sguardo, del nascondimento, della mancanza di visibilità (o della mancata visi-

359 bilità) che ogni nascita presuppone e fa sperimentare: che fa spe- rimentare a chi nasce e a chi attende quella nascita, che sia nascita fisica o attesa del cambiamento e nascita ad una vita diversa. Non è sottratto agli sguardi il tossicodipendente che viene collocato in una comunità, o il vecchio depositato nelle moderne e attrezzate, ma celanti, case per anziani? Un mistero, quello del processo del nascere, che amplifica la dimensione immaginativa, che stimola l’interpretazione, che sol- lecita la trepidazione e l’attesa, ma a volte anche lo scoraggiamen- to e lo sconforto perché come nella gestazione, il momento della sottrazione allo sguardo è in bilico tra la vita e la morte, allo stesso modo ogni momento che consentirà poi la venuta alla luce è capa- ce di involvere e riportare il nascituro allo stato del non essere. La delicatezza dei momenti di passaggio e gestazione della nascita e dei cambiamenti nella vita è confermata dai naufragi frequenti che ci possono essere in questo periodo, avvenimenti possibili quando il soggetto è in questa fase dove la fragilità si accentua e con essa la vulnerabilità. Periodi come l’adolescenza ma anche il passaggio della mezza età o l’attraversamento del confine della vecchiaia rap- presentano tutti momenti di particolare attenzione. Come nella gravidanza, quelli citati, sono periodi delicati, un po’ sospesi, pur avendo anch’essi una loro consistenza e strutturazione. Le nascite, tutte, presuppongono un periodo preparatorio che corrisponde generalmente ad una invisibilità e ad un nascondi- mento. Fino a che il soggetto non ha una preparazione sufficien- te per venire alla luce, e il concetto stesso di “venire alla luce” è un’immagine bella e vera, del processo di disvelamento dopo la nascita, finché il soggetto non ha una preparazione adeguata “alla luce”, non nasce. Questo tempo è in relazione alla storia della spe- cie a cui appartiene il nascituro: un lasso che si è strutturato nel tempo in funzione del contesto, delle capacità genitoriali, delle risorse dell’individuo. Un venire alla luce che mi piace affiancare a un’immagine usata per descrivere l’adolescenza, come tempo dei molti debutti, dalle molte nascite. Vorrei iniziare questo excursus sul tema della nascita declinato attraverso le immagini delle grotte, del sottosuolo, della terra e del profondo, partendo dalla massima eraclitea tradotta in modo a

360 mio avviso mirabile da Giorgio Colli167 con “nascimento ama na- scondersi”168. Una traduzione che interpreta il greco, generalmente tradotto con “natura”. Colli lo rende con la parola piuttosto arcaica di “nascimento”, orientandolo in questo modo ad esprimere bene la condizione della gestazione: quel tempo sottratto agli sguardi, tempo di “maturazione a sufficienza”, dell’embrione nell’attesa che si formino le risorse minime affinché l’organismo possa affrontare il fuori, possa venire alla luce e incontrare la luce. Certo che oggi, con le tecniche di visione attraverso i tessuti organici, con una accentuata necessità clinica, voyeuristica, di con- trollo e previsione, ma anche necessità economica, assicurativa, ansiolitica: vedere diventa un fattore rassicurante, anche se poi la rassicurazione è in rapporto a ciò che si attende e a ciò che si vede oppure che ci viene detto essere visto; una necessità, quella di vede- re e di visibilità, che caratterizza il nostro tempo e che non sempre è motivata da logiche propriamente stringenti. La discrezione pu- dica che lo sviluppo al suo cominciare pretende, che l’origine delle cose chiede, l’intimità celata del nascere della vita che la natura ha disposto sottratta agli sguardi, conosce oggi un’esposizione agli oc- chi (non sempre discreti) che può diventare intrusiva, violatrice di un tempo che richiede affidamento all’invisibile, fiducia e attesa: un tempo attinente al buio, allo scuro, al mistero. Proprio l’erosio- ne della capacità di attesa ci fa tutti più voyeur, guardoni in ricerca di rassicurazione, conferma, controllo, si diventa tutti insofferenti perché, ostinati, pensiamo che il vedere è controllare e che il con- trollo garantisce il risultato. Ciò che nasce, dice il filosofo di feso,E ama nascondersi: ama non farsi vedere, celarsi, sottrarsi agli occhi altrui. Nascere è un’o- pera d’arte, a qualunque età avvenga, perché non si nasce solo dopo la propria generazione organica, e ogni nascimento ha un suo tempo embrionale dove ci si sottrae allo sguardo altrui come a ra- dunare i pensieri, a sistemare le percezioni, a ridefinirsi per arrivare

167 Giorgio Colli (1917-1979) studioso, filologo, pensatore, attivo a Pisa alla cattedra di filosofia antica, ha scritto numerosi testi e saggi.

168 Eraclito, frammento 123 DK. Traduzione proposta da Kirk e M. Mar- covich: la reale costituzione di ciascuna cosa ha l’abitudine di nascondersi. Tradu- zione proposta da G. Giannantoni: la natura delle cose ama celarsi. Traduzione proposta da G. Colli: nascimento ama nascondersi.

361 (o tornare) alla luce e alle relazioni, una volta pronti. Un processo che richiama la nigredo degli alchimisti: quella fase di oscurità dove la materia si dissolve putrefacendosi che consente successivamente di passare alla seconda fase alchemica che è rappresentata dall’al- bedo dove la sostanza si purifica e può infine accedere alla rube- do. Punto di partenza per la trasformazione è quindi il passaggio nella nigredo, nel nero, nel buio come quello del sepolcro, dove si cala il corpo del defunto, grembo simbolico di una nuova nascita, nella terra che lo copre sottraendolo alla vista; anche qui si tratta di un’uscita dallo sguardo dell’altro, come per la gravidanza, una perdita di visibilità che prelude (e spera) ad un’ulteriore e misterio- sa nascita. Se è vero con Eraclito che nascimento ama nascondersi, anche nel processo della deposizione del defunto nel grembo della terra si allude in qualche modo ad una nascita che ciascuno può interpretare come preferisce, ma che certo richiama la gestazione uterina del venire alla luce attraversando lo scuro della gravidanza. Vi è ancora una lettura della citazione del filosofo efesino, quella data dal francese Conche che aggiunge, a mio parere, un elemento di riflessione sul tema del nascere e dell’occultamento, specifican- do che la natura eraclitea è “una natura artista” e come l’artista la natura mostra la sua produzione celando le leggi della sua produ- zione, “c’est-à-dire la nature même en tant que naturante”169. La “natura” non è l’essenza ma “un processo essenzializzante, la cui dinamica resta nascosta, e che si manifesta solo negli effetti”170. Per cogliere le dimensioni del nascere dunque, per accostarsi con maggiore consapevolezza e comprensione a questi territori complessi e delicati, forse è di aiuto accingersi ad incontrare le dimensioni del profondo tellurico, quel luogo da dove, fin dall’an- tichità originano tutte le cose.

169 M. Conche, Heraclite. Fragments, Paris, 1986.

170 V. Ando, La physis ama nascondersi : la natura arendtiana di Eraclito.

362 4.7.4 Vivere sotto terra Graziano Martignoni

Sfondare la parete nera Rompere in alba la sera È il sogno del morituro? Il voto del nascituro? Giorgio Caproni

“Vivere sotto terra” potrebbe semplicisticamente richiamare il de- siderio di un ritorno verso la terra-madre delle origini o una risposta fantascientifica alla catastrofe imminente, tuttavia è forse necessario an- dare al di là di tutto ciò per comprendere ciò che ci attrae e ci spaventa nell’idea di buco, caverna, grotta. L’uomo è uno strano acrobata tra il cielo e la terra, abbagliato dalla luce che lo ha chiamato alla vita e ango- sciosamente sedotto dal buio che lo ha generato, esposto a quella che l’antropologo Ernesto de Martino ha chiamato l’“angoscia territoriale”, ovvero alla vertigine, all’angoscia di chi è continuamente sottratto al proprio stare. Uno stare sempre in bilico, scivoloso e sospeso. La nostra identità, abita così, soprattutto nei momenti di passaggio, nei momenti delle nostre innumerevoli “nascite”, tra la spinta al volo e la necessità di una sorta di miniaturizzazioine della realtà da poter facilmente con- trollare senza i rischi di esposizione all’inconsueto, una sorta di mondo ridotto alle misure di un piccolo spazio delimitato, come nelle Schne- ekügel, capace di racchiudere tutto il mondo. Come per Hölderlin la sola vera casa è il paese natale, non tanto la terra del padre, che è tempo del viaggio, ma quella della madre, di cui si vuole ricordare il tepore accogliente, quell’“heimliches Dunkel” che ricorda la tana dell’animale, evocato dal poeta e che ha il potere di curare tutti gli affanni del mondo e dell’esilio. Non è forse da scordare qui, ad esempio, quella che venne chiamata la “malattia degli svizzeri” che lo studioso basilese Johannes Hofer nel 1678 descrisse parlando dei disturbi che affliggevano i soldati merce- nari svizzeri mandati a combattere lontano dal paese. Una malattia che venne poi chiamata Heimweh, nostalgia. Una malattia dell’idea di spa- zio, di confine, di territorio oltre al quale diviene difficile mantenere a lungo un’identità, che è forte nella caverna-villaggio-patria, ma debole, sempre più debole nel vasto mondo, a meno di riprodurre nell’altrove tante piccole “case miniaturizzate”, che cancellano la lontananza, come nei villaggi vacanza, illusorie caverne del tempo libero, conchiglie pro-

363 tettive verso la incertezza e la ricchezza del mondo. La figura della caverna è antica quanto il mondo. È difficile dare conto delle sue molte significazioni, che attraversano tutta la storia di Occidente. Dalla grotta di Demetra, di Dioniso o di Mitra, luoghi dei culti segreti, delle pratiche iniziatiche, a quelle di preghiera eremitica, sino a quelle più vicine a noi raccontate dal Cervantes, da Hugo o da Virginia Wolf o ancora sino ai bunker antiatomici delle nostre case, la caverna è luogo di rifugio, di riposo tranquillo e nello stesso tempo di miste- ro, di stupore e di fascinazione. La caverna da sempre attrae e allo stesso tempo impaurisce. È luogo della reclusione, del segreto, della chiusura dal mondo da cui potere guardare senza essere guardati e contempo- raneamente pertugio verso un altro mondo. Come molti luoghi sin dalla antichità appartiene all’aura del sacro anche se la banalizzazione a cui è oggi sottoposta la riduce spesso a figura del kitsch.Eppure essa appartiene al destino dello stare dell’uomo nel mondo. Quando si dice che l’uomo abita il mondo oscillando tra il sentimento di proprietà e nello stesso tempo di esilio, si racconta in poche e quasi sin troppo ovvie pa- role il destino di noi tutti dalla “primitività” sino alla “modernità”. Un destino di estraneità, di non appartenenza, che obbliga l’uomo da sem- pre alla conquista e alla difesa rispetto a ciò che lo circonda e che segna una rottura radicale, che la metafora della “cacciata” dal Paradiso Ter- restre della Genesi o di molti altri simili racconti, narra. L’evocazione della caverna si coniugava allora a quella del deserto, fondanti sul piano individuale e collettivo una sorta di geografia immaginaria dell’anima, che perdura in varie forme lungo tutta la storia di occidente e abita il mondo psichico dell’uomo ieri come oggi. Una geografia capace di segnalare quella lacerazione iniziale, quella necessità ineludibile di tro- vare “casa”, un “chez-soi” in cui, come scrive Michel Harr, “demeurer veut dire aussi durer”. Non per nulla nei momenti in cui sembra che il durare di un individuo o di un popolo sia messo a rischio, il richiamo della caverna, del ridotto, della chiusura che costruisce confini, norme di inclusione-esclusione, forme di eterofobia torna forte sulla scena po- litica e sociale. Vi sono allora tempi della storia e forse società più aperte alla luce e alla immensità perturbante del deserto, che è anche luogo di incontri, di contaminazioni e di mescolamenti e al contrario società più preoccupate del rifugio, del luogo segreto ove conservare la propria fragile ricchezza, la propria paura di fronte al mondo con la separatezza e la illusione della incontaminazione. Che ne è in questo nostro tempo

364 di migrazioni e di nomadismo dell’idea di “casa”? L’immaginario collettivo, ad esempio, che sino a poco tempo fa nu- triva l’identità nazionale non era fatto solo dalla seduzione del segreto, forma estrema della privatezza, o dalla paura ma pure da quel senti- mento di superiorità, che animava e proteggeva lo svizzero di fronte al mondo nell’illusione di essere un ammirato “Sonderfall”. I “sogni” di una nazione, non dimentichiamolo, sono racchiusi spesso nella sua mitologia quotidiana e tra questa certo un posto particolare occupa la figura della caverna-rifugio. Ma non solo. La Svizzera immaginaria è anche la ricerca quasi maniacale della pulizia (il verde più verde dei prati) e dell’ordine, la puntualità (la patria degli orologi) o ancora del- la miniatura. Sintomi di un rapporto difficile tra la nostra “casa” e il mondo, in cui si nasconde e si coltiva il “sogno” di un paese che vuole rimanere nello stesso tempo il “centro del mondo” e così mantene- re l’illusione dell’assoluta controllabilità della vita e in ultima analisi dell’estrema controllabilità della morte. E se la Svizzera attraverso il suo immaginario che perdura oltre la realtà fosse proprio un tentativo di “tenere a bada” la morte e le tante caverne, bunker, caveau del nostro paesaggio quotidiano l’ultimo rifugio?

4.7.5 Grotte e acque dormienti come metafore del vivere e del morire Graziella Corti Acqua silenziosa, acqua oscura, acqua dormiente, acqua insondabile altrettanti esempi materiali per una meditazione sulla morte. G. Bachelard

Riflettendo sull’incontro fra immaginario e materia, Bachelard ci parla dell’acqua171 che occupa un posto centrale nelle nostre preoc- cupazioni e con la quale, come esseri umani, intratteniamo una rela- zione inscindibile. In ogni orizzonte culturale il contatto con l’acqua è di tipo reale e quotidiano, ma anche immaginario; creiamo dei simboli e dei significati attorno all’acqua, pensati nella loro relazione

171 G. Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, Red, Como, 1992.

365 con la vita e la morte, con i bisogni dell’anima e con i riti di passag- gio che accompagnano la nostra esistenza. Il modo di nominare e di rappresentare l’acqua rispecchia una molteplicità di preoccupazioni e di credenze. Si tratta di un imma- ginario complesso perché l’acqua ci appare sotto aspetti multiformi (corrente, dormiente, dirompente, purificante, nascosta) e il suo carattere liquido costituisce un segno di ambivalenza, di metafora fragile: può raffigurare il movimento o la staticità, il gioco e lo spec- chio, la purezza e l’oscurità, la vita e la catastrofe. L’acqua è forse un simbolo di totalità nella frammentarietà del mondo odierno? L’acqua degli stagni, delle paludi o delle grotte suggerisce l’idea dell’oscurità, di fondo melmoso, dove si nascondono piante o ani- mali in putrefazione. È luogo inesplorato, maleodorante, talvolta profondo, insidioso, dominio del mondo naturale e del mistero. Queste acque, sulle quali galleggiano le foglie cadute dagli alberi, sono dette “acque morte” e suggeriscono un senso di malinconia. Sono rappresentate come acque sterili, in contrapposizione a quelle vive dei fiumi e delle correnti. Sul fondo di un’acqua tranquilla s’intravedono, però, segni di vita: un pullulare di insetti, pesci, piante acquatiche e talvolta fiori e radici. Queste acque richiamano allora anche l’idea della densità e della fecondità. Le conoscenze attuali della paleontologia permet- tono, infatti, di pensare l’apparizione della vita, alcuni miliardi di anni fa, nel fondo degli oceani e questi primi esseri viventi vegetali occuparono in seguito le terre emerse. L’origine della vita è quindi da pensare nel suo legame con la presenza dell’acqua sulla terra. Le nostre vite singole iniziano pure nell’acqua; durante la gestazione navighiamo verso la nascita immersi per nove mesi nel liquido am- niotico, che ci protegge e ci nutre. L’acqua ci riconduce alla figura della madre che accoglie la vita, ma anche a quella del padre nella sua forza creatrice. Nell’immaginario dell’acqua dormiente si intreccia un legame tra la vita e la morte fortemente marcato anche in altri periodi storici e in altri spazi culturali. Confronteremo rappresentazioni di epoche lontane - osservando le immagini dei riti preistorici delle grotte di Lascaux - o di altri ambienti sociali - come quello dell’etnia Bamanan (Africa centro set- tentrionale) dove si tingono i tessuti bògòlan con la terra delle acque

366 degli stagni e l’immagine delle figure degli antenati. Scopriremo come attraverso l’immaginario legato all’acqua e alla profondità delle grotte, si possa ricostruire la metafora della nascita, della morte, dei legami con la società e con gli antenati. Questo testo evoca con il linguaggio della poesia aspetti che in- contreremo parlando delle metafore dell’acqua.

L’acqua Sulla mano mi è caduta una goccia di pioggia, attinta dal Gange e dal Nilo, dalla brina ascesa in cielo sui baffi ’unad foca, dalle brocche rotte nelle città di Ys e Tiro. Sul mio dito indice il mar Caspio è un mare aperto, e il Pacifico affluisce docile nella Rudawa, la stessa che svolazzava come nuvoletta su Parigi nell’anno settecentosessantaquattro il sette maggio alle tre del mattino. Non bastano le bocche per pronunciare tutti i tuoi fuggevoli nomi, acqua. Dovrei darti un nome in tutte le lingue pronunciando tutte le vocali insieme e al tempo stesso tacere - per il lago che non è riuscito ad avere un nome e non esiste in terra - come in cielo non esiste la stella che si rifletta in esso. Qualcuno annegava, qualcuno ti invocava morendo. È accaduto tanto tempo fa, ed è accaduto ieri. Spegnevi case in fiamme, trascinavi via case come alberi, foreste come città. Eri in battisteri e in vasche di cortigiane. Nei baci, nei sudari. A scavar pietre, a nutrire arcobaleni. Nel sudore e nella rugiada di piramidi e lillà. Quanto è leggero tutto questo in una goccia di pioggia. Con che delicatezza il mondo mi tocca. Qualunque cosa ogniqualvolta ovunque sia accaduta, è scritta sull’acqua di babele. Wislawa Szymborska

367 4.7.6 La Terra e le sue aperture Lorenzo Pezzoli

La grotta è la maggior parte delle volte la realizzazione di un paesaggio, il ricovero più misterioso verso cui conducono le foreste e le montagne. Ludwig Tieek

Ci sono realtà che hanno una loro forza naturale, scenari che si impongono all’indifferenza dello sguardo poiché guardano a loro volta interpellando l’osservatore. Forse perché l’occhio vede il mondo in quanto ne percepisce la minaccia172, o perché il vedere stesso diventa una minaccia poiché fa conoscere e la conoscenza è emblema del processo mentale della chiarificazione”173. Dal giar- dino dell’Eden il peccato provoca una visione, quella della nudità, ma anche la percezione di uno sguardo, quello divino, “aprendo gli occhi l’uomo vede uno Sguardo che lo guarda”174. Questi luoghi, fascinatori dell’uomo arcaico così come dell’uomo moderno, di- ventano punti di incontro e spazi di ascolto affinché l’anima abbia ancora voce e orecchio. Molte cose parlano alla testa, altre inter- loquiscono con frammenti della persona con suoi aspetti parziali, poche cose catturano interamente l’interlocutore come le cavità della terra che in un bosco si aprono improvvise realizzando, come scrive il romantico Tieck, un paesaggio. Bachelard immaginava la caverna fissare il sognatore “con il proprio occhio nero”: Loti, nei Vers Ispahan è ugualmente evocativo, “…a mano mano che ci al- lontaniamo i buchi neri degli ipogei sembrano perseguitarci come sguardi di morti”. Succede dai racconti più antichi della storia: lo sprofondamento fa mutare sguardo, un’operazione che si perpetua anche nei rac- conti più recenti, come il citato Viaggio al centro della terra, ma anche presente in uno dei libri de Le cronache di Narnia. Nella sedia d’argento infatti i due ragazzi protagonisti per la prima volta

172 J. Clair, Medusa, Abscondita, Milano 2013.

173 Ibidem, p. 27.

174 Ibidem, p. 26.

368 non compaiono più i fratelli Pevensie, devono liberare il principe Rilian rapito da una strega che lo ha ammaliato e, neanche a dirlo, con lei sprofondato nel sottosuolo. È qui che i due ragazzi scende- ranno a liberarlo, scoprendo un universo popolato da varie creatu- re. Sottoterra si scende anche nella saga tolkiana, più volte a partire da lo Hobbit, dove il sottosuolo è luogo di Orchi e tana di Gollum ma anche, sotto la Montagna solitaria, di draghi e tesori; scavando nella terra si trovano ricchezze e meraviglie ma ugualmente si pos- sono scatenare demoni antichi e pericolosi, risvegliandoli dal loro riposo. Nel Signore degli anelli se ne avranno esempi significativi. Avvicinarsi all’universo ipogeo può dunque essere fonte di ric- chezza e riflessione ma anche motivo di cura e attenzione; il sot- tosuolo è scrigno di tesori ma anche di demoni che un visitatore incauto potrebbe risvegliare ma che solo un accompagnatore esper- to, o una preparazione adeguata, sarebbe poi in grado di domare. Contenute le difficoltà e ammansiti i demoni si apre uno scrigno di sorprese che solo il sottosuolo (fisico e psicologico) garantisce al visitatore che, al ritorno dal suo viaggio, non può che fare questa constatazione: “…gli incerti della (…) spedizione ci avevano con- dotto a una delle più belle contrade del globo”175!

Scendere sottoterra e guardare dentro

επι γαν μελαιναν (sulla nera terra) Saffo, Ad Afrodite

“Lo spirito delle profondità è imperituro: lo si chiama la Femmina misteriosa…” Tao-Te-Ching, IV

La curiosità infantile di guardare cosa sta dentro le cose, a volte arrivando a smontare oggetti o a romperli nella tipica maldestrìa dei bambini, l’interesse nel cercare di vedere quali meccanismi li muovono, è immagine e segno di continuità con quello spirito di ricerca e curiosità che anima successivamente l’uomo che si rivolge alla realtà ma, ancora di più, dell’uomo che si orienta con curiosità a ciò che gli sta dentro, alla sua interiorità. Per Gaston Bachelard

175 J. Verne, Viaggio al centro della terra, radici Bur, 2008.

369 la volontà di guardare dentro le cose rende la vista acuta176 perché acuta la vista deve diventare quando la luce si affievolisce, quando incontra scenari sconosciuti, e deve familiarizzare con ciò che è nuovo e diverso da quanto percepito come familiare e consueto.177 Guardare dentro è dunque un atteggiamento che appartiene all’u- niverso dell’inconsueto, guardare dentro costringe all’inevitabilità di vedere in modo diverso ciò che sta fuori all’interno esplorato178. La speleologia, l’andare sottoterra attraverso le cavità che si aprono sulla superficie, contribuisce a questo incontro e a questa esperienza con l’interno della terra che, in qualche modo, riorienta lo sguardo dei panorami geografici della superficie, sguardi oramai contaminati con l’esperienza del “di sotto”. Un’esperienza che cer- to non svela tutto ma fa intuire e ridefinisce dimensioni, percezio- ni di spazi, forme altrimenti familiari e consuete. Si capisce forse meglio la considerazione di G. Bachelard per il quale “la volontà di guardare dentro le cose rende la vista acuta e penetrante”, ma Bachelard aggiungeva anche che questa volontà di guardare “fa della visione una violenza, scopre la fenditura, la crepa attraverso la quale si può violare il segreto delle cose nascoste”179. Ci sono richiami continui quindi tra il procedere introspettivo dell’uomo e la discesa nelle “viscere” della terra, un isomorfismo tra lo scendere e il sapere che si arricchirà di elementi e suggestioni se si considera- no anche le attribuzioni femminili richiamate dalla “madre terra”:

176 G. Bachelard, La terra e il riposo, ed. Red.

177 Platone, nel Simposio, fa dire a Socrate, rivolgendosi ad Alcibiade: “Certo la vista della mente comincia a vedere piú acutamente quando quella degli occhi tende a declinare” Platone, Simposio, 215a-222b in Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 712-720.

178 Credo che l’immagine costodita nel Museo di Anatomia umana “ Luigi Rolando ” di Torino, tra l’altro vicino a quello di antropologia criminale di Cesare Lombroso con il quale i richiami non sono pochi, museo citato come esempio di museo scientifico di fine Ottocento, ha un che di sconvolgente. Racchiude il tentativo di dare grazia al corpo aperto, letteralmente spalancato, della giovane ragazza, accentuando in questo modo il contrasto tra l’eviscerazione didattica e la grazia del volto e dello sguardo. Elementi che possono aiutare a riflettere su ogni “ viaggio all’interno ” e su ogni ingresso nel profondo, in qualunque interiorità, in questo caso corporea, incontro che colpisce e a volte sconvolge, dando a chi vede elementi differenti nell’osservazione e nella considerazione dell’esterno. 179 G. Bachelard, La terra e il riposo, Red, Como, 1994.

370 madre da cui originerebbe ogni cosa secondo molte teogonie. Ri- salire alla luce diventerebbe così un tornare alla vita, o venire alla vita, portando con sé l’esperienza delle profondità, come ricorda con chiarezza e sintesi J. Brun: “…l’alpinismo e la speleologia co- stituiscono molto più che semplici sport, infatti l’ascensione di una montagna o l’esplorazione di un baratro rappresentano altrettanti viaggi iniziatici nel corso dei quali si lancia una sfida alla morte per sollevarsi fino a un panorama del mondo e per sprofondarsi nelle viscere della terra dove germogliano tutti i semi”180. Costruire una didattica ipogea rappresenta la possibilità di richiamare questi iso- morfismi tra i significati della terra e delle sue aperture (scendere, nascere, generare, morire, penetrare, perdersi, ma anche custodire e proteggere), e l’atto del riflettere, dell’andare in profondità con il pensiero, dell’accettare il buio disorientante che la ricerca e la riflessione fanno incontrare prima della luce dell’intuizione. Un incontro con il mistero che poi accomuna il percorso ipogeo, in un ulteriore richiamo isomorfico, al nascere, rimando che lo unirebbe appunto al ventre materno, così come alla tomba e alla cavità. Se la Terra è madre, il fuoriuscire dalla terra è immagine del venire alla luce: “…sprofondarsi nelle viscere della terra dove germogliano tutti i semi”, poiché ciò che precede la nascita e che accomuna la morte, è una dimensione di invisibilità e di cecità.

“Sprofondarsi nelle viscere della terra dove germogliano tutti i semi”181

Dimorare nella grotta significa cominciare una meditazione terrestre, significa partecipare alla vita della terra nel senso stesso della terra materna. Gaston Bachelard

Il suolo, il sottosuolo, lo scendere e l’emergere, sono binomi che richiamano tematiche antiche e frequentate sia nei miti che nelle ritualità (anche in quelle di passaggio), come pure nelle fiabe e nelle evocazioni popolari che guardano alla terra, al suolo e al sottosuolo con un occhio particolare, attribuendo a queste dimen- sioni valenze complesse sia nel vettore dello scendere che in quello 180 J. Brun, in Il vertice e l’abisso, quaderni di Eranos, la simbologia dell’asce- sa e della discesa, Red, Como, 1994.

181 J. Brun, ibidem.

371 dell’emergere. Va anticipato da subito che la densità della terra è ben diversa da quella del mare, dell’acqua in genere e difatti si trat- ta di due forme differenti di materia la cui costituzione ha portato anche a modificare il concetto stesso di discesa e salita (o emersio- ne). Se nell’acqua si puo’ facilmente sprofondare, anche nell’acqua apparentemente familiare della fonte o del laghetto silvestre come è capitato a Narciso, la terra porta ad un concetto differente. Una dimensione in cui è la terra ad aprirsi all’accoglienza, a disporre la penetrazione. Nell’acqua si può sempre scendere (meno scon- tato salire o riemergere), nella terra occorre trovare i passaggi di accesso (caverne, spelonche, crepe e gole), o forzare l’apertura con buche, scavi, che antropizzano il sottosuolo almeno in parte. In tempi remoti, lo ricorda bene Gilbert Durand nel suo saggio sulle strutture antropologiche dell’immaginario, “la terra come l’acqua è la primordiale materia del mistero, quella che si penetra, si scava e si differenzia semplicemente per una resistenza più grande alla penetrazione”182. Nelle due vie del sapere evocate da Platone viene distinta una dialettica ascendente e una discendente, un vertice e un abisso come descritto nei quaderni di Eranos e vertice e abisso sono estre- mità che sia la terra che l’acqua conoscono. Penetrare nella terra attraverso le sue fenditure porta a incontri dell’altro mondo, ov- vero di quel mondo sommerso e misterioso che trova collocazione “al di sotto” in opposizione “al di sopra” che conduce invece alla rarefazione dell’aria. La terra non è rarefatta come l’aria, non è scivolosa come l’acqua che non è abbastanza densa per sorreggere; la terra sostiene, certo, ma è anche pesante, porta giù, seppellisce. L’acqua restituisce, rende, riporta a galla, non trattiene il corpo; l’anima forse sì. La terra no, rende il corpo in un’altra forma, non più riconoscibile e decifrabile. Ciò che la terra inghiotte, che vi è seppellito, viene assorbito: la terra lo (ri)tramuta in sé stessa (si torna terra), lo fa proprio corpo, lo scompone e lo ridistribuisce, così lo rimette in ciclo. Da qui la necessità degli antichi, ben rap- presentata nell’Eneide proprio nella contingenza del viaggio infero del protagonista, del seppellire il corpo nella terra. La turba mi- sera e insepolta, cioè non restituita alla madre terra dopo la mor-

182 G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari, 1996, p. 231.

372 te, descritta da Virgilio nel canto VI, rappresenta coloro che non possono essere traghettati dal nocchiero Caronte e che dovranno attendere fino a quando “le loro ossa avranno riposo nei sepol- cri”183. Fra questi Palinuro, nocchiero di Enea, che ricorda bene la differente sepoltura che offre l’acqua rispetto alla terra, acqua che non è in grado di dare pace. Palinuro viene ucciso mentre naufrago cerca di approdare attaccato a uno scoglio. Abbandonato al mare dice che “ora mi tiene l’onda e mi rivoltano i venti sul lido” e per questo, visto che la “sepoltura” dell’acqua non dà pace ma conti- nuo rivolgimento e strazio, chiede a Enea la sepoltura: “ricoprimi di terra” è l’inevitabile invocazione di Palinuro184. L’acqua dunque evoca dimensioni differenti di quelle della terra che offre al defun- to la pace garantendone il ritorno in un ciclo naturale. Una resti- tutio che permette anche all’anima di poter compiere il percorso nel profondo della terra, fino là dove risiedono i morti. Il ritorno all’indistinto, al ciclo cosmico, è stato oggetto di attenzione e ri- flessione nell’abito psicoanalitico da parte dello stesso Freud, che svilupperà in età avanzata questo aspetto concettualizzando negli anni ‘20 l’Istinto di morte. L’istinto di morte risiederebbe nel desiderio che ha ogni vivente di ritornare all’inorganico, all’indifferenziato185 e quindi alla terra. Senza enfatizzare con Freud i due principi libidici fondamentali (Eros e Thanatos)186, vale la pena conservare l’unità ambigua del- la libido così come proposto da Marie Bonaparte187 e ripresa da Marcel Durant: un’ambiguità data dal mutevole dispiegarsi dalla dimensione erotica a quella sadica o masochistica. E Marie Bona- pate, ricorda proprio in questo testo come le ultime sedute con Freud portarono alla discussione sul tema dell’ambivalenza dell’a- more. Un’ambiguità che contraddistingue anche la terra che non

183 Virgilio, Eneide, canto IV - traduzione di G. Bonghi http://www.classicitaliani.it/dante1/eneide6_trad.htm

184 Ibidem.

185 M. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, p. 196.

186 S. Freud, Al di là del principio del piacere, Bollati Boringhieri, 1920.

187 M. Bonaparte, L’amore la morte il tempo - Saggi psicoanalitici su Eros, Thanatos, Chronos, Guaraldi, 1973.

373 è solo il luogo della nascita, della Madre terra, ma anche il luogo della depositio, della morte e del ritorno all’indistinto; luogo dell’E- ros ma anche del Thanatos. Non si può che evocare, ancora una volta e non per l’ultima, Gaston Bachelard il quale scriveva pro- prio che “la grotta è una dimora, questa è l’immagine più chiara, tuttavia proprio grazie all’invito a sogni terrestri, questa dimora è allo stesso tempo la prima e l’ultima, essa diviene l’immagine della maternità e della morte.”188. La terra è il luogo del riposo189 e mi piace pensare al riposo come legato al tema del “nero”, dell’oscurità, il buio che placa l’a- nimo; quando cala l’oscuro si può accendere la luce interiore e, accettando il buio della terra, si accoglie la luce interna. Sempre Bachelard riferiva che al loro ingresso, sulla loro soglia, tutte le grotte attivano l’immaginazione delle voci profonde e sotterranee, “tutte le grotte parlano” dal loro interno, capaci di suggestionare coi loro suoni dall’interno della terra, siano gorgoglii di acque che attraversano le rocce ed emergono alla superficie, sia il vento che produce vibrazioni sonore e correnti: sia lo stillicidio interno che intermittente evoca universi temporali irregolari, o lo smuoversi di sedimenti che rammentano la dimensione non statica della ter- ra. Questa “dimora senza porta” come la chiama Masson Oursel, discepolo di É. Durkheim e L. Lévy-Bruhl, attende il visitatore e lo confronta con il misterioso mondo dell’altrove sotterraneo, che è spesso vissuto come un altrove psichico, descritto in molteplici modi nei viaggi nell’oltretomba dove i protagonisti si introducono attraverso questi anfratti e pertugi nel “mondo di sotto” che è, ap- punto, un mondo altro in senso geografico ma anche psicologico. La catabasi agli inferi di Enea, descritta da Virgilio nell’Eneide, parte per un viaggio che, oltre che fisico, è psicologico. Un itine- rario in un luogo altro che è pure un tempo altro dove si incontra ciò che è stato e si annuncia o si prefigura in qualche modo ciò che sarà, il futuro, con una curiosa sospensione del presente. L’ingres- so, neanche a dirlo, è da una grotta: “C’era una grotta profonda e mostruosamente slabbrata / sulla roccia, difesa da un lago nero e dal

188 G. Bachelard, La terra e il riposo, Red.

189 Ibidem.

374 buio dei boschi…”190. Che il viaggio nel mondo dei morti sia un passaggio chiave del poema virgiliano lo si capisce sia per il conte- nuto che per la posizione centrale nell’economia dell’opera, posi- zione che marca un punto di contatto tra una prima parte, legata alle vicende dell’arrivo in Italia, e una seconda inerente all’arrivo dei troiani superstiti nel Lazio, con le relative vicissitudini. Il pe- regrinare sotterraneo di Enea lo porta prima di tutto a incontrare il Lutto, gli Affanni, le “pallide Malattie” e con esse la “triste Vec- chiaia”. Quindi la Paura e la Fame con la Miseria, la Morte e il Dolore in un catalogo evangelico del male che sta dentro piuttosto che fuori: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono inve- ce le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, ingan- no, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”. (Marco 7.1-8.14-15.21-23). È l’incontro con il proprio interno che evoca la discesa dell’oscurità tellurica, ed è in questo “inter- no” che abitano i mali che possono minacciare l’uomo. Come le personificazioni Virgiliane della catabasi di Enea, gli interlocutori del profondo dell’animo umano non lasciano indifferenti e sono da incontrare per attraversare e poter acquisire una conoscenza più consapevole del proprio mondo interno. Che sull’esempio di Or- feo si scenda agli inferi, personali prima che collettivi e teologici, per ritrovare la compagna rapita dalla morte o che si affronti la Nekia per assolvere all’ultima delle prove come nel caso di Eracle che deve catturare Cerbero, il cane a tre teste guardiano del mondo infero, oppure che si sprofondi agli inferi perché solo lì si potrà consultare il futuro attraverso l’indovino Tiresia e quindi avere un’indicazione per ritornare a casa come farà Odisseo, o ancora che si proceda nella catabasi per avere ancora una volta un contatto con il proprio genitore che la morte ha allontanato, qualunque sia il motivo del viaggio la via d’accesso è sempre la terra e il percorso si snoda nel sottosuolo. In questa collocazione tellurica dei morti, li sentiamo come

190 Virgilio, Eneide, Libro IV.

375 riaccolti in un grembo materno che le rappresentazioni dell’ol- tretomba del mondo classico rievocano con tratti di continuità e richiamo. Quasi a evocare la parentela tra la morte e il sonno, anticamente creduti fratelli, figli della nera Notte191 (nera come la terra di Saffo e generatrice anch’essa). Così come il luogo della morte sono gli inferi tellurici, anche il sonno viene collocato in una grotta, al di sotto della terra. Le relazioni tra la morte e il son- no sono molte, non solo perché il sonno è immagine e richiamo della morte e, in parte, sua memoria continua nell’abbandono del soggetto ad esso, ma nel sonno si entra, così come negli ingressi ipogei ricordati dai viaggi classici nell’oltretomba, in un al di là che può essere anch’esso contatto con i trapassati. Nel sonno vi è come un accesso possibile (e quindi un contatto) con il mondo dei defunti. In esso, come dai viaggi nell’oltretomba, ci si può sveglia- re profondamente turbati e mutati. Il sonno abita, come rievoca Ovidio al libro undicesimo nelle Metamorfosi192, in una “spelonca dai profondi recessi”, sotto una montagna. Una caverna “nasconde il Sonno pigro”, luogo impenetrabile dal sole e dalla luce, luogo silenzioso dove “muta quiete domina”. Il richiamo al silenzio come premessa per l’atto creativo viene ugualmente evocato dal riferi- mento classico del dipinto di Dosso Dossi193 dove si assiste a Giove che è intento a dipingere delle farfalle, essere leggero e di breve vita, che richiama fragilità e volatilità, un po’ come i pensieri. Un atto creativo che prende tutto il protagonista che è accompagnato

191 Hypnos, dio greco del sonno, e suo fratello, Thanatos, dio della mor- te, in un dipinto di John William Waterhouse (1849-1917)

192 Ovidio, Metamorfosi, XI, 592 - 649: Nei confini dei cimmeri vi è in un cavo monte una scura grotta, casa e santuario del pigro dio sonno. Qui il sole non può mai entrare con i suoi raggi, nè gli uomini con alcun percorso giungono in quei luoghi; le nubi mescolate alla nebbia sono esalate dalla terra e incerti (sono) i crepuscoli della luce. Qui gli uccelli crestati non cantano, nè i cani agitati o le oche rompono con la voce i silenzi: non vi sono greggi, nè ovini con buoi e maiali. Non i rami mossi dal vento, non le grida della lingua umana invitano al sonno. Molta tranquillità abita sempre i luoghi. Tuttavia dalla roccia in campagna scorre un corso di acqua, il Lete, le cui onde invitano al sonno con il mormorio. Da ogni parte floridi papaveri e numerosi fiori e erbe verdeggiano. Nelle case non vi è alcuna porta, nessun custode sulla soglia. Ma nel mezzo della grotta vi è un grande letto con toro eburneo, ricoperto di piume e da una coperta bruna: qui riposa il dio sonno, vicino al grande Giove. Senza distinzione giacciono i vani sonni. 193 Dosso Dossi, Giove pittore di farfalle - Kunsthistorisches Museum Vienna.

376 nel quadro da altre due divinità. Il personaggio che arriva trafe- lato viene solitamente identificato come Iride194, anch’essa a suo modo una messaggera come il Mercurio centrale, in questo caso una messaggera loquace, al servizio di Giunone, divinità dell’e- loquenza che viene zittita da Mercurio con un gesto esplicito e chiaro. Oltre all’interpretazione alchemica del dipinto, ambito di interesse alla corte ferrarese degli Este all’epoca dell’esecuzione del quadro che raffigurerebbe il volto, in Giove, del duca Alfonso d’E- ste. Mercurio si appoggia sul cadduceo dorato con il quale poteva addormentare e ridestare i viventi, potere ben in relazione con il silenzio. Mercurio, intermediario per antonomasia, è qui tramite e collegamento, tramite e mediatore tra il personaggio di destra, l’Eloquenza e il silenzio che prelude la creazione di sinistra. Dunque il silenzio, come se l’atto creativo che da vita accomu- na, con un rimando continuo e costante, al tacere del lutto. Mo- mento che accoglie un ulteriore mistero di attesa e rimpianto, ma anche di speranza di una nascita nuova e differente. Dove abita il Sonno si sente solo il rumore provocato dallo scorrere dell’acqua del rivolo del Lete, “la cui acqua scivola via mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno”. Ovidio non vuole lasciare dubbi sulla dimora del sonno e colloca all’ingresso dell’antro “un manto di rigogliosi papaveri e innumerevoli erbe da cui la Notte (ecco il richiamo alla comune madre di Sonno e Morte), spreme il so- pore per spargerlo, umida, sulle terre immerse nel buio.”. Il Sonno dorme in mezzo alla grotta su un alto letto d’ebano ed intorno a lui giacciono i “Sogni vani”. Ogni personaggio del mito che ha attraversato e visitato il mon- do infero è tornato alla superficie con uno sguardo nuovo sulla vita, il proprio destino, sul passato ma anche il futuro che hanno risuonato diversamente perché lo sguardo dell’osservatore si è ba- gnato gli occhi con le acque della morte. Ritornare alla superficie è un rinascere o meglio, un tornare alla vita con il bagaglio della consapevolezza della morte. Come da certi sogni che marcano il passaggio ad una consapevolezza nuova, mutata dall’incontro con il proprio profondo e le intimità recondite del proprio animo. Il mondo dell’oltretomba è posto dove vengono deposti i corpi dei

194 L’attribuzione a Iride del personaggio femminile in arrivo alla destra del dipinto è di Giorgia Biasini che, a sua volta, intera ipotesi precedenti di Be- renson (1907: 211) e di Chastel (1984:152-153).

377 defunti, nella terra, sotto la terra, ed è lì che si deve andare per in- contrarli ancora. Tuttavia, è anche vero che i propri cari li si incon- tra nel proprio profondo, nell’intimità del mondo interno. Interno come le viscere della terra. Nella terra si depongono i morti ma si spargono anche le sementi affinché possano nascere e germogliare. Il mondo di Ade è quello anche di Persefone, il luogo dell’ombra ma anche del sonno, come il sonno del seme che attende di ger- mogliare a cui il mito di Persefone allude e richiama con il suo permanere nel sottosuolo per tre mesi e per i restanti affiorare in superficie. Una duplicità di esistenza risolta a livello mitico con lo sdoppiamento della divinità. Da un lato Persefone (Proserpina), immagine del grano come semente e dall’altro Demetra (Cerere), madre di Persefone, immagine del grano maturo195. Come per al- tri miti, da Iside e Osiride ad Afrodite e Adone anche nel mito di Persefone il cliché è il medesimo: “una dea piange la morte di un essere amato che simboleggia la vegetazione, particolarmente il grano il quale muore in inverno per rinascere in primavera”196. Quando si scende nella nera terra avviene una sottrazione allo sguardo altrui, si entra nella dimensione dell’intimità. Il seme che se ne sta sottoterra, nella nera terra appunto perché sottratta alla luce: non deve essere visto, non può essere visto altrimenti non ger- moglierà. Una sottrazione agli sguardi che presuppone il germo- gliare e che genera trepidazione, fiducia e attesa. Come nel mito di Euridice che, finita nell’oltretomba per un morso di serpente, vi rimane proprio perché vista nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato da Orfeo, che contravviene la consegna di non voltarsi fino al di fuori dell’Averno, fino al ritorno in superficie. Fuori dalla nera terra. La capacità di attendere, attendere l’altro, rispettarlo nel momento della sua “germinazione”, quando ancora sta nella “nera terra” trepidando per la sua resurrezione, dando fiducia che questa ci sarà, è un esercizio difficile, delicato, denso. Saper aspet- tare senza disperare, forse questa è la più grande sfida che attende i professionisti delle relazioni d’aiuto o, più semplicemente, che ci attende come uomini. Allora il seme che se ne è stato per tutto l’in-

195 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Grandi tascabili economici Newton, Roma 2006.

196 Ibidem, p. 448.

378 verno nel nero della terra incontra la primavera e germoglia, come i Non ti scordar di me che in primavera cominciano a occhieggiare nei prati. Piccoli fiori che nel loro nome raccontano la stessa storia di Euridice: “non ti scordare di me” anche quando non mi vedi, perché non essere visti non coincide con il non esserci. Forse non è propriamente vero che il seme muoia per dar vita alla pianta ma si trasforma per diventare pianta facendo cessare (e dunque morire) una forma di esistenza per darne vita ad un’altra.

La terra e la vita: venire alla luce

O dei che avete il dominio sulle anime, ombre silenziose e Caos e Flegetonte, vasti luoghi silenziosi nella notte, concedetemi di raccontare quel che udii e col vostro consenso rivelare le cose sepolte nella terra profonda e nell’oscurità. Eneide, vv. 264 - 267

La cavità per la psicoanalisi è innanzitutto l’organo femmini- le197, ma la psicoanalisi ritrova nel mondo onirico quello che la storia ha sedimentato, ritrova una corrispondenza antica tra le aperture, gli ingressi e la femminilità. Una corrispondenza, quella tra cavità, porta, fessura e organo femminile, che è ben evocata nell’istallazione di Duchamp dove si gioca tra l’apertura del muro, lo scuro che c’è in primo piano e la luce della lampada da un lato, l’acqua e il chiaro roseo della pelle della donna distesa dall’altro. Un’opera su cui l’artista aveva lavo- rato in segreto, negli ultimi vent’anni di vita, e che aveva colpito una volta scoperta, ma che alla luce del pensiero dell’autore, non sorprende visto che aveva dichiarato che a lui interessavano le idee e non solo i prodotti visivi. E di idee l’opera ne ispira, soprattutto nella relazione tra l’apertura del muro e l’“apertura” femminile198. Un percorso di corrispondenza che Jung ha tentato a livello etimo- logico cominciando dalle lingue indoeuropee il significato parte

197 G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari 1972.

198 Proprio dall’istallazione di Duchamp, e non a caso, si apre il saggio di Jean Clair su Medusa evocando gli aspetti perturbanti della mortale tra le Gorgo- nidi, perturbanti come quello che i latini chiamavano turpia visa su cui Duchamp lavorava: J. Clair, Medusa, Ascondita, 2013.

379 dalla cavità profonda e arriva fino alla coppa toccando tematiche femminili. In greco Kurathos significa cavità, il grembo, mentre Keuthos indicherebbe il seno della terra; l’armeno Kust ed il vedico Kostha hanno come traduzione bassoventre. A questa radice si uni- scono Kutos, la volta, la cantina, Kutis il cofanetto e infineKuathos il bicchiere, il calice. Jung, non si limita al percorso etimologico abbozzato, quanto tenta un passaggio più ardito che è quello di interpretare il termine Kurios, cioè il signore, nel senso di tesoro strappato all’antro. Si intenda bene, non solo l’apertura richiama il femminile quanto la fessura, l’apertura che introduce in uno spa- zio circolare contenitivo, circolare per lo più con un riferimento alla prima forma sacra quale è il cerchio, “un’immagine archeti- pica di rotondità senza spigoli, senza angoli, simile a quella che il bambino potrebbe percepire quando si trova ancora nell’utero materno, e simile a quella rotondità che si osserva dall’esterno, quando si vede il grembo nudo di una donna in stato di avanzata gravidanza”199. E spazio contenitivo le grotte lo sono: grotte che, per le loro caratteristiche e per gli elementi riscontati risalenti alla preistoria, sono state considerate da uno studioso di religioni della preistoria e di arte paleolitica del calibro di André Leroi-Gourhan, una rappresentazione del corpo femminile. O meglio, ci terrei ad aggiungere, dell’interno del corpo femminile facendo risultare poi la terra come il corpo esterno della Tellus Mater. Un’altra suggestione che richiama il femminile e l’apertura vagi- nale, la si trova in un luogo inaspettato e a suo modo sorprendente, ma con isomorfismi che richiamano le aperture nella terra come fa la stessa opera di Duchamp. Mi riferisco alla Sheela na Gig: nome che viene usato per indicare un filone specifico di sculture femmi- nili che mostrano, a volte tenendo aperta, una vagina ingrossata. Opere di fattura medievale poste sopra alle aperture e agli ingres- si di chiese, a volte castelli, note e diffuse nell’area dell’Irlanda e dei paesi nordici più in genere. Presenze che segnavano, nella loro controversa determinazione, protezione dal male o dalla morte. Isomorfe anch’esse con le aperture che proteggevano e che intro- ducevano all’interno di ambiti sacri. Segnando in questo modo, o rimarcando, il concetto di passaggio: ma non un passaggio neutro,

199 T. Giani Gallino, La ferita e il re, gli archetipi femminili della cultura maschile, Raffaello Cortina Editore, 1986, pp. 134-135.

380 quanto piuttosto un passaggio che riconduce ad un interno, ad un chiuso, che ha valenze uterine, di protezione e generatività. La caverna, la spelonca, la grotta, sono fenditure nella terra, aperture che dall’antichità hanno richiamato al tema del femmini- le, del materno in particolare, sottolineando e rafforzando il con- cetto di madre terra, di terra come archetipo dell’utero materno e, dunque, con un’identificazione della grotta con il femminile. Vi è un rafforzamento non di secondo piano di questa associazione ed è il fatto che le grotte e le caverne sono spesso scaturigini di sor- genti, torrenti sotterranei che vedono la luce, fiumi o stillicidi che ancora richiamano, da un lato, l’universo materno e, dall’altro, si associano a figure femminili come Anguane, Fade, Strie o Donne beate come ricorda Enrico Gleria200 nella sua incursione nelle figu- re e personaggi che popolano gli ambiti cavernicoli, ma che senza difficoltà evocano anche sacerdotesse e sibille piuttosto che maghe o veggenti dell’antichità classica. È come se queste aperture fossero un punto di contatto, di manifestazione, di incontro non sempre pacifico e sereno con il femminile. La terra è femmina prima che madre, come nell’opera di Du- champ, e la femminilità precede certo la maternità, con quelle fun- zioni insite nella fisiologia femminile dell’accogliere, fare spazio, generare che marcano le dimensioni psicologiche rendendo pos- sibile la maternità. Come ricorda Miricea Eliade201 nelle religioni mediterranee la madre terra (Terra Mater) è Tellus Mater ed è lei che genera e origina ogni essere: dà alla luce, ovvero fa fuoriuscire dal suo seno che è nero, buio come il sottosuolo o come il ventre materno della donna gravida. La terra è nera come ricordava Saffo e che non potrà che essere rievocata per il tema della morte e del riposo. Ma comunque il “nero” della terra, quando si arriva a ma- turazione, apre alla luce e si fuoriesce dalla madre incontrando un universo nuovo. L’uomo è chiamato “nato dalla terra”, e la terra diventerà alla sua fine il luogo del ritorno in una dimensione di continuità e coincidenza tra il punto di origine e quello di arrivo. Ancora Mircea Eliade insiste sulla credenza che le donne diventa-

200 E. Gleria, Tradizione popolare e grotte nel Veneto: tra realtà e leggenda, in Orchi Anguane Fade in grotte e caverne, Curatorium Cimbricum Veronese 1992.

201 M. Eliade, Miti, sogni, misteri, Lindau 2007, Torino.

381 no gravide nell’avvicinarsi a determinati luoghi come rocce, caver- ne, alberi e fiumi in quanto le anime dei bambini penetrerebbero nel loro ventre. Anime di antenati che ritornano alla luce da un altrove buio, di attesa, sottratto alla vista, un altrove che custodisce nel profondo e quindi rigenera. La grotta garantisce l’esperienza tra un dentro e un fuori, tra un interno attraverso il quale si svilup- pa qualcosa che poi, una volta pronto, potrà uscire ed affrontare il fuori. È la pancia della mamma che contiene e che garantisce la maturazione sufficiente affinché la persona possa uscire. La cor- rispondenza tra l’apertura nella terra e la vagina richiama questo attraversamento tra il dentro e il fuori, e la terra è madre in quanto permette la fuoriuscita all’esterno.

382 383 384 5. Excipit

385 386 5. Excipit 5.1 Alla scoperta della metafora dell’operatore sociale Ornella Manzocchi

Nel corso del mio primo anno di attività di docenza presso il Di- partimento di Scienze Aziendali e Sociali della SUPSI, che allora era denominato Dipartimento di Lavoro Sociale, mi sono ritrovata a riflettere con alcuni cari colleghi202 sul buon modo per dare avvio ad un laboratorio di pratica professionale. Quell’anno avevo anche ricevuto l’incarico della conduzione di un modulo di approfondimento sull’infanzia. Mi chiedevo da dove venisse il desiderio di occuparsi della cura dell’Altro, come riconoscerlo e come valorizzarlo eleggendolo a vettore trainante nella formazione prima e nella professione poi. Durante quei mesi mi capitava sovente di riflettere attorno a questi miei impegni di docenza, con amici e colleghi e durante una di queste serate conviviali animate dal desiderio di arrivare al cuo- re della vocazione dell’operatore sociale, una collega mi segnalò il testo Osservazione e gioco di Maria Maddalena Bisogni. È a que- sta autrice che sono debitrice dell’idea di avvicinare il tema del- la motivazione e della identità professionale attraverso l’uso della metafora. Nel primo capitolo del suo testo afferma “In generale si può affermare che la percezione del mondo esterno dipende dall’orga- nizzazione del mondo interno e che l’Io maturo sa distinguere ciò che è reale nel mondo esterno da ciò che è proiettato dall’interno. Per tale motivo chi si accinge a svolgere una professione che lo mette a stretto contatto con i problemi altrui, …, ha l’obbligo professionale, scienti- fico ed etico, di interrogarsi continuamente sul proprio modo di agire

202 Graziano Martignoni, Eleonora Gambardella e Luigi Romeo

387 nella relazione con l’utente.” 203 Al fine di affrontare questo tema Anna Maria Bisogni cita poi bra- ni scritti da alcuni studenti, futuri operatori sociali, attraverso i quali parlano delle loro fantasie sulla figura e sul ruolo dell’educa- tore professionale. Così è nata in me l’idea di avvicinare non solo la dimensione razio- nale e ragionata, ma anche quella interiore, vissuta e non ragiona- ta, della scelta professionale dei nostri studenti. Quale strumento poteva venirmi in soccorso? La narrazione, ma una narrazione breve, sintetica, portatrice di emozioni e idealizza- zioni, mediata il meno possibile dalla ragione. Ecco allora prendere forma la possibilità di usare la forma metaforica. Con i colleghi abbiamo così deciso di aprire il laboratorio di prati- ca professionale invitando gli studenti a scrivere una metafora che illustrasse l’operatore sociale e le sue peculiarità. La stessa cosa la feci con gli studenti che seguivano un modulo di specializzazione sull’infanzia, ma chiedendo loro di produrre una metafora sull’infanzia e una sull’operatore sociale che lavora con l’infanzia. Due parole vanno ora dedicate all’approfondimento della metafo- ra in sé, in modo tale da meglio comprendere la scelta formativa che in questi anni non abbiamo più abbandonato, tanto si è di- mostrata foriera di buone indicazioni nonché di apertura riflessiva con gli studenti stessi.

Metafora etimologicamente deriva dal latino “metàphoram” e dal greco “metaphorà”= mutamento - derivato da metapheérein = tra- sferire = portare/phérein oltre/metà.

Si tratta di una retorica grazie alla quale si esprime, sulla base di una similitudine, una cosa diversa da quella nominata trasferendo il concetto che questa esprime al di fuori del suo significato reale: ad esempio “sei un fulmine”, che sta al posto di sei velocissimo come un fulmine; o ancora “Achille è un leone”, ove leone sostitu- isce guerriero audace. La metafora indica il trasferimento di un termine, al quale pro-

203 Bisogni Maria Maddalena, Osservazione e gioco, Borla, Roma, 1999, pag 21

388 priamente si applica, ad un altro che con il primo condivide una somiglianza. È imparentata con l’analogia, con l’esempio, con il paragone, ma si distingue da essi. Egli è forte come un leone, è una similitudine; egli è un leone, è una metafora. Ecco alcune differenziazioni fra figure linguistiche che ci aiutano nella costruzione della conoscenza: la metafora è una sostituzione di un termine proprio con uno figurato grazie ad una trasposizione simbolica di immagini “le spighe ondeggiano” (si muovono come se fossero il mare); la sineddoche invece è quella figura linguistica per la quale una parte sta per il tutto, il contenuto sta per il conteni- tore, la materia sta per l’oggetto “bere un bicchiere”; la similitudine si basa sulla somiglianza di forma o di pensiero, come …, così …

La metafora è definita, come afferma Ricoeur, in termini di mo- vimento, di cambiamento di posizione, come indicano il prefisso “meta “e il termine “fora”. In latino era detta anche traslatio, la Retorica classica la considerò una “smilitudo brevior”, oggi direm- mo una similitudine condensata o ellittica, in cui è sottaciuto l’e- lemento di comparazione. L’uso della metafora è essenziale al linguaggio umano in quanto consente di trasmettere pensieri e concetti altrimenti difficili da comunicare. Lo stato d’animo di un ospite depresso si visualizza in metafore comuni quali: “sono giù”, “il mio morale è basso”, “mi sento a terra”, ecc. La metafora è nata, come elemento di studio, d’approfondimen- to e d’uso, all’interno della Retorica, l’arte antica del bel parlare e della capacità di persuadere. Il suo uso, inizialmente poetico e persuasivo, si è esteso nel tempo a tutte le discipline, da quelle filosofiche a quelle politiche a quelle scientifiche, all’arte poetica, alla Religione, all’arte dell’insegnamento ed all’uso più o meno si- stematico nella cura dei disturbi psichiatrici. Le metafore che resistono al tempo sono ad esempio le grandi me- tafore religiose, le metafore ontologiche che riguardano l’Essere, e le metafore che rinviano agli archetipi. Nella Bibbia troviamo un linguaggio spiccatamente metaforico. I concetti del Bene e del Male sono posti secondo una narrazione metaforica. Dicasi altresì

389 dei grandi poemi epici, dell’Iliade e dell’Odissea, della Divina Commedia, solo per citarne alcuni. La forza della metafora si è via via amplificata e ad essa sono stati riconosciuti nuovi attributi e nuove funzioni. Si è così convenuto che essa non è solo un ornamento del discorso, ma un elemento essenziale del linguaggio. Le metafore aprono nuove possibilità alla conoscenza, esse non solo aderiscono alla realtà - e pertanto non sono prive di senso - ma ne dilatano gli orizzonti, permettendo di accedere a nuovi significati. Nella relazione di aiuto e di cura la metafora può essere utilizzata come strumento, come mezzo di comunicazione fra l’operatore sociale e l’ospite, nella misura in cui la sofferenza o la malattia o la patologia dell’ospite lo permettono.

La metafora è fortemente legata all’apprendimento, già Aristotele ci insegna che essa attira l’attenzione nel suo andare oltre l’uso retorico, assumendo subitaneamente e con forza un valore forte- mente didattico e cognitivo. La metafora è dunque legata alla conoscenza e con il passar del tempo viene vista sempre più come una caratteristica della cul- tura e del pensiero evoluto. Come a sottolineare che si tratta di un modo necessario per comunicare e rappresentare la conoscenza prima del sorgere di nuovi termini astratti. L’uso della metafora ci permette di superare la contingenza dell’e- vento per arrivare ad una partecipazione intellettuale più estesa. Essa funziona come una valida strategia conoscitiva che permette di rappresentare, riflettere e ragionare sulla realtà. Potremmo dun- que affermare che la metafora ha valore emblematico. Essa attiva processi cognitivi e mentali, nonché emotivo-affettivi, grazie alle trasgressioni e agli spostamenti semantici e stimola ad affrontare la conoscenza come un processo di rielaborazione critica e di rielabo- razione di vissuti. È degno di nota il fatto che Piaget ritiene che la metafora non sia una conquista culturale ed evolutiva bensì un atteggiamento cono- scitivo e comunicativo originario del bambino. Le trasgressioni lessicali della metafora favoriscono l’autonomia, l’autostima e non da ultimo la competenza linguistica.

390 Grazie alla metafora sia il bambino che l’adulto percepiscono la realtà linguistica come qualcosa di essenzialmente dinamico e ri- negoziabile, in quanto essa ha il potere di cambiare i rapporti fra le cose e modificare il rapporto con il sapere. La metafora è un’alternativa personale, nuova, rispetto al modo “giusto” e consolidato di dire le cose, è improntata alla creatività, all’autonomia, alla responsabilità. La metafora permette di parlare delle proprie concezioni del mon- do, permette di affrontare i problemi connessi alla propria identità personale. Potremmo affermare che la metafora è un atteggiamento nei con- fronti della vita, della conoscenza, del nostro esistere. Grazie alla metafora abbiamo esperienza di un allargamento, di un’apertura di significato e di senso. Infatti la metafora permette un margine di interpretazione e induce un atteggiamento critico. In buona sostanza la metafora equivale ad un modo attivo di co- struire e di accrescere la propria conoscenza.

5.1.1 La metafora e l’identità dell’operatore sociale Ora andremo a condividere alcuni pensieri che definirei “pensieri fragili” che meritano la nostra attenzione per essere coltivati raffi- nati, ripensati. Questi “pensieri fragili” sono riferiti all’esperienza umana e specificatamente a quella professionale dell’operatore so- ciale e sono frutto di una rilettura delle lezioni passate, riguardan- ti la metodologia della umana presenza dell’operatore sociale. Ci permettiamo di sottolineare “metodologia della umana presenza dell’operatore sociale”204 volutamente scelto in luogo del modo di dire assai più usato “metodologia dell’intervento dell’operatore so- ciale”. Come a voler sottolineare che l’operatore sociale che amia- mo immaginare è chiamato primariamente ad esistere, a dar prova a sé stesso e di seguito all’Altro, della qualità della propria presenza e solo in seguito a dar prova della propria capacità di intervenire. L’operatore sociale a cui ci riferiamo è dunque colui che sa coniu-

204 Questo lavoro si riferisce all’apertura del laboratorio di pratica pro- fessionale e a quella del modulo sull’infanzia, che ho avuto modo di condurre, congiuntamente ad alcuni cari colleghi, presso la SUPSI, DSAS, a partire dal suo anno di fondazione sino ad ora.

391 gare capacità riflessive, meditative e capacità di intervento fattivo.

Pensare all’identità significa chiedersi: cosa faccio, come faccio ciò che faccio, in definitiva chi sono. Ciò porta ad interrogarci riguar- do alla metodologia che ci sorregge quando affrontiamo l’esperien- za che in questo caso è professionale, riguardante nello specifico la relazione di aiuto e di cura.

La specificità della relazione di aiuto e di cura, altrimenti detto, la specificità dell’esperienza professionale in ambito sociale, è quel- la di avvenire attraverso una “piegatura” che la sottopone a due principi regolatori. Da un lato il principio della doxa, o altrimenti detto della ovvietà. Lasciare che l’incontro con l’Altro sia un’espe- rienza attraversata dalla dimensione della doxa significa incontrare l’esperienza nella sua ovvietà, nel suo senso comune, significa dun- que esporsi “comprendendo e facendo” nell’ordine della familiari- tà. Ogni incontro di aiuto e cura avviene dunque primariamente nell’ordine della vicinanza, della somiglianza. Il secondo principio che guida l’incontro di aiuto e cura è quello dell’interpretazione o altrimenti detto dell’ermeneutica. Ogni esperienza professionale ci chiama alla responsabilità di offrire la nostra presenza, il nostro sguardo, il nostro ascolto e di dire ciò che pensiamo. Il nostro pensiero altro non è che una interpretazione, una costruzione che avviene nella contaminazione fra la mia interiorità e la realtà cir- costante, mediate attraverso un modello teorico di sapere, foriero di conoscenza.

L’operatore sociale è dunque chiamato ad interpretare il dato ovvio dell’esperienza umana, il mondo sociale, e per far ciò ha a sua di- sposizione tre vie. La prima via di comprensione e interpretazione è quella che ci offre la fenomenologia che ci permette di incontrare l’Altro come mio simile. Si tratta di un modo di conoscere la realtà che rende esplicita la relazione nell’ordine della familiarità con le cose. Questa consapevolezza richiede vicinanza, partecipazione. La seconda via è quella che ci offre la possibilità di costruire una com- prensione attraverso la conoscenza oggettivistica. Questo strumen- to ci permette di incontrare l’Altro come diverso da me. Si tratta di un modo di conoscere la realtà che rende esplicite le fratture,

392 le rotture dell’ovvietà delle cose. Questa consapevolezza richiede la distanza. La terza via di costruzione di comprensione ci viene offerta dalla modalità prassiologica. Questo strumento permette di conoscere, modificare, trasformare se possibile, il mondo sociale attraverso il fare. Un fare che non è mera appendice procedurale ma appartiene intimamente alla costruzione del mondo sociale.

L’esperienza di aiuto e cura che abbiamo qui tratteggiato appartie- ne all’avventura del pensiero e del cuore e può essere riassunta nella metafora del “viaggio partecipante”.

Alla luce di quanto detto proponiamo ora alcune metafore scritte da nostri studenti al primo anno di formazione. Sono state scelte andando alla ricerca delle accentuazioni soggettive che essi hanno esplicitato quale chiaro segnale delle tracce del lavoro della mente e del cuore, del lavorio che si sviluppa nella cesura fra mondo inter- no e mondo esterno, del contrabbando che dall’inconscio permet- te l’affiorare al conscio attraverso le maglie larghe del pre-conscio delle fantasmatizzazioni e delle rappresentazioni personali riguar- do al tema dell’identità professionale.

Scopriamo così che alcuni di questi studenti coltivano l’immagi- ne di un viaggio assai partecipante durante il quale si “sporcano” nell’incontro con l’esperienza, ne sono contaminati e in questa contaminazione risiede la possibilità di mantenere in vita l’espe- rienza senza farsene travolgere e senza a propria volta soffocarla. Di questa attitudine ci dà prova la seguente metafora:

Gli argini del fiume L’operatore sociale è gli argini di un fiume, dove l’acqua scorre libera nella sua esistenza, ma sempre accompagnata e sostenuta nel bisogno, affinché non si smarrisca durante il viaggio che passo passo la porta verso il mare. A volte questi argini sono leggeri e ampi, così l’acqua può prendersi tutto lo spazio che ritiene necessario, rallentare a volte fermarsi per un po’ a riposare in una pozza. Quando necessario però quegli stessi argini divengono imponenti e fer- mi, perché la sopravvivenza del fiume stesso e anche dell’ambiente che

393 lo circonda è necessario che le acque siano contenute nella loro foga.

L’argine del fiume si “sporca” diviene molle, poi duro, poi di nuo- vo molle, l’incontro con l’acqua, l’Altro, lo modifica, così come lui modifica l’acqua sporcandola con il proprio fango, rendendola cristallina con le proprie pietre ecc. siamo al cospetto di un viaggio partecipante, acqua e argine formano un tutt’uno, tanto che non è possibile parlare dell’uno se non in relazione all’altro. Sono di- stinti e separati ma intimamente connessi tanto che a tratti non si distingue dove finisce l’uno e inizia l’altro, a fronte di altri tratti in cui la demarcazione si fa chiara e netta.

Per altri studenti invece affiora alla mente l’immagine di un viaggio durante il quale prevale la dimensione della distanza, della tecnica messa al servizio di chi ne ha bisogno. Una distanza che pare ga- rantire la sopravvivenza dell’esperienza stessa. Eccone un esempio:

L’ oceano Il mare della vita, questo immenso oceano in cui veniamo gettati an- cor prima di venire al mondo e di vederne l’intensa luce. In questo oceano ci siamo noi: le barche, vi sono le nazioni: i traghetti, gli animali, la natura, la società, tutti con le loro passioni, emozioni, legami e relazioni. Tutte queste barche, navi, scogli e gocce d’acqua racchiudono un unico elemento: la vita. In questo oceano vi sono navi a motore perfettamente e completamente autonome, nessuna tempesta può cappottarle, nessuno scoglio danneg- giarle, se usate correttamente. Esistono poi anche zattere, barche a vela e gommoni che sono più fra- gili, più vulnerabili: l’oceano può far loro tremendamente male. Può esserci una soluzione a questi mali: l’ancora, chiamata anche ope- ratore sociale, essa può trattenerci, stabilizzarci e ci consente di trovare un maggior equilibrio per poi ridisegnare una rotta che dovrebbe essere l’ideale per raggiungere, per es., le spiagge californiane dove cavalcare dolcemente le onde. L’ancora deve essere affidabile, sicura, rodata, in salute, deve sapere dove agganciarsi per cercare di aiutare le barche in difficoltà. Spero di diventare un’ancora sufficientemente buona e affidabile…

394 Qui siamo al cospetto di un viaggio poco partecipante, l’ancora è dura, resta quel che è per tutta la durata del viaggio. È il barcaiolo, l’Altro, che osserva, che pensa, che decide quale tipo di ancora usa- re a seconda del bisogno (per ogni tipo di fondale occorre usarne un diverso tipo). L’ancora di per sé non partecipa, non si sporca. Resta quel che è.

Soffermiamoci ora su di un ultimo esempio che ci sollecita riguar- do alla messa in scena della capacità di essere intrisi di un pensiero oscillatorio che imprime alla nostra mente ed al nostro cuore un continuo va e vieni da distanza a vicinanza, da narcisismo e onni- potenza a limite e impotenza, dalla dimensione della doxa a quella dell’’ermeneutica, dalla dimensione del pensare a quella del fare. La capacità di vivere in una dimensione oscillatoria è certamente una condizione indispensabile, una attitudine alla quale l’opera- tore sociale non può abdicare, ma della quale deve essere il più possibile consapevole.

Il pesce e la sua arte L’arte di saper ascoltare, l’arte di saper cogliere i cambiamenti insiti in una persona bisognosa, l’arte di parlare e consigliare questa persona, l’arte di sapere quando dare sostegno, l’arte di tentare di far ritrovare la strada persa, … tutte queste arti sono bisogni che un educatore sente di avere. Esso è colui che si tuffa in un mare pieno di pesci, dove trova l’ossigeno per respirare grazie ad essi, dove trova la luce che fa splendere il cuore e il sentimento che sente in esso. I pesci sono coloro che lo tengono in vita, grazie a loro la sua vita ha un significato, grazie ad essi si sente utile e soddisfatto. Se in un momento tutto si fa buio, la profondità del mare sprofonda nell’oscurità … uno di quei pesci accorrerà in aiuto di quel pesce-e- ducatore che, sentendosi ormai sconfitto, troverà di nuovo un senso di vita ritornando a nuotare con esso e con tutti gli altri pesci.

Il termine “arte” può significare capacità inventiva, o abilità, de- strezza, ma pure astuzia, accorgimento, artificio, e ancora sortile- gio, incantesimo. L’uso di questo termine richiama dunque alla mente la distanza, la

395 rottura, il diverso, chi possiede l’arte è Altro e non Simile. Questa dimensione metaforica aiuta l’operatore sociale ed è indispensabi- le nel momento in cui egli oscilla dalla dimensione della ovvietà a quella dell’interpretazione, del pensiero. Ma questo pensiero, questa ermeneutica, ha valore conoscitivo solo nella misura in cui nasce dentro l’alveo della ovvietà, della familiarità. E allora questa “arte” si trasforma e potrebbe essere definita “capacità” che riman- da alla dimensione più umile ma pure meno collusiva e controver- sa di idoneità. In questo esempio sono messi in evidenza pure i due poli dell’on- nipotenza rappresentata dal narcisismo “I pesci sono coloro che lo tengono in vita, grazie a loro la sua vita ha un significato, grazie ad essi si sente utile e soddisfatto” e dell’impotenza posta in campo dal limite “Se in un momento tutto si fa buio, la profondità del mare sprofonda nell’oscurità … uno di quei pesci accorrerà in aiuto di quel pesce-educatore che, sentendosi ormai sconfitto, troverà di nuovo un senso di vita ritornando a nuotare con esso e con tutti gli altri pesci”.

In conclusione possiamo affermare che l’operatore sociale deve es- sere anche un buon trapezista, sapere oscillare sopra una rete di protezione intessuta di buona identità professionale e di lavoro d’équipe.

396

5.2 Per un’etica del quotidiano o dell’incontro tra la Cura e la solidarietà205 Graziano Martignoni

Plus puissant et plus vieux que tout oui et que tout non, que nous prononcons, l’inquiétant nous plonge, dès le début, dans son milieu P. Sloterdijk

Le quotidien, ce qu’il y a de plus difficile à découvrir M. Blanchot Enigme du quotidien qui tient à son auto-dissimulation M. Haar

5.2.1 La perdita del quotidiano Quotidiano, dal latino quotidie, parla del giorno, della vita resa visibile dalla luce, di ciò che appare ordinario, di ciò che si oppone al notturno e allo straordinario. Non è però riducibile ad una “regione del mondo” o alle cose che ci circondano, essa è soprattutto una tona- lità affettiva, un modo di rapportarsi al mondo caratterizzato dal ba- nale, dell’ordinario, dal rassicurante206. Il quotidiano e la quotidianità sono così, come suggerisce Merleau-Ponty, “la prosa del mondo”. “Le quotidien, scrive Michel de Certeau207, est tout ce qui parle, bruit, passe, effleure, rencontre”. Il quotidiano è là proprio per non farsi

205 Questo testo è apparso nella Rivista per le Medical Humanities, no. 9, 2008, Casagrande Editore, Bellinzona.

206 Su questi temi cfr. il lavoro di B. Bégout, La découverte du quotidien, Allia, Paris, 2005 e inoltre M. Blanchot (1969) “La parola quotidiana” in L’infi- nito intrattenimento, Einaudi, Torino, 1977.

207 M. De Certeau, L’invention du quotidien, Union Générale d’Editions, 10/18, Paris, 1975.

397 notare, per auto-dissimularsi e come ci ricorda Michel Haar, “est comme le motif dans le tapis de la nouvelle éponyme d’Henri James: si manifeste partout qu’il en devient invisibile”208. Solo la sua fragili- zazzione o la sua perdita ne mostrano la sua profondità, la sua inelu- dibile necessità. La malattia come malattia della presenza a se stessi, al proprio corpo e al mondo è testimone di questo inabissamento. La malattia è la messa in crisi o in catastrofe proprio di questa familiarità con il quotidiano del nostro corpo, della nostra anima e del mondo. La Cura è il viaggio accompagnato non tanto per guarire da questo rischio esistenziale e ineludibile ma per ritrovare un dialogo con la quotidianità ferita e dolorosa. In questo sta quel “fare anima “ che appartiene alla Cura di cui parla Keats. Le Medical humanities sono qui un modo per pensare e nello stesso tempo uno sguardo e un gesto di quel “fare anima “ che deve abitare, al di là di ogni gesto tecnico, l’incontro con la sofferenza dell’ uomo. “Contro la minaccia della contingenza del mondo, il là, contro inverosimile e la dismisura, il quotidiano costruisce un rifugio familiare, reconfortante con il valore della necessità”. Le strategie di addomesticamento del mondo con i suoi dispositivi e codici di comportamento cercano infatti di proteg- gerci contro le irruzioni dell’indeterminato, dell’incontrollato e dello straordinario. Il processo di “quotidianizzazione” del mondo ha infat- ti come scopo quello di produrre un mondo sicuro e familiare e per questo contiene in sé il confronto, come scrive Patocka209, tra domi- cilio e terra straniera, tra familiarità ed estraneità. Vi è come una sorta di disequilibrio tra l’indeterminazione e l’incommensurabile del mondo e la non stabilità dell’essere, da cui sorge l’inquietudine dell’e- sistere. Il quotidiano è la difesa nel suo apparire a prima vista abituale, ovvio, ripetitivo, conosciuto proprio contro quel non potersi garanti- re una stabilità nell’apertura al mondo. “Le fait de n’être fixé à aucun monde de l’a priori matériel, de n’être réglé sur aucun monde, de n’avoir aucune déternimation prévue, donc d’être indéterminé, déf- init l’homme essentiellement”. Lo stare al mondo si caratterizza dall’esitazione e dall’istabilità, che è la tonalità affettiva fondamentale di quel “quasi e mai del tutto” della condizione umana. Quando que-

208 M. Haar, “L’énigme du quotidien” in Sein und Zeit de Heidegger, Sud, pag. 214, 1989.

209 J. Patocka, Le Monde naturel comme problème philosophique, coll. “Phaenomenologica”, 68, pag.76, Martinus Nijhoff, La Haye, 1976

398 sta esitazione diviene incontrollata allora l’uomo sente la prossimità della catastrofe, che è sprofondamento del quotidiano come un terre- no sismico, fissurato in cui cadere, come soglia al di là della quale abita il nulla. Il quotidiano è una sorta di maschera che è insieme difesa contro l’illimitato e l’inatteso e “prise sur le monde dans le mon- de”. La sua destrutturazione nella malattia del corpo e della mente fa irrompere nella vita l’angoscia umana e sin troppo umana della fine. Il quotidiano è l’esperienza dell’ovvio, del banale, del già vissuto, è la casa familiare del nostro essere-nel-mondo eppure contiene qualcosa di inquietante, che rinvia all’instabilità originaria e annuncia che qual- cosa nella sua illusoria stabilità si può spezzare, sgretolarsi dislocarsi verso l’ignoto trasformando il familiare in estraneità e a volte in alie- nità. La dove la “domesticazione” dei corpi, del Sé e del mondo falli- sce e appare incontrollata la “selvaggità” delle pulsioni inconsce e il vuoto che nessun senso può più colmare, l’uomo rischia di cadere nel puro quotidiano, nel là, nell’inumano. La fenomenologia di questa crisi e/o catastrofe di significato dell’esperienza della quotidianità può manifestarsi come dissolvenza di significato, come congelamento, come sospensione o come radicale perdita. In tutte queste forme l’uo- mo è rinviato alla condizione originaria di esitazione e di incertezza. “Avant l’opération de quotidianisation, l’être n’etait qu’un peut-être, une hésitation, une vacillation, una vague aspiration à la fermêté”. Il mantenimento del confine di Sé permette, attraverso i processi di soggettivazione e di socializzazione, di sottrarsi all’ illimitato, il lento processo di formazione della quotidianità210. Ma il quotidiano po- trebbe essere come il tempo agostiniano, so bene che cosa sia sino a quando non ne chiedi una definizione! È il banale, l’ovvio, il norma- le, là dove sembra non accadere nulla. La malattia come la morte è allora indicatore antropologico oltre che ontologico di questa condi- zione basale dell’uomo fatta di esitazione, dubbio, non fissità, inde- terminatezza, apertura a ciò che non ci è proprio, di quel “può essere” e dunque alla fragilità esistenziale della sua stessa conditio humana, che è il rischio della follia. Noi siamo nel mondo ma il mondo non ci è proprio. Ogni relazione d’aiuto infatti nasce da una lacerazione e da

210 Si veda a questo proposito A. Schütz e T. Luckmann “The structures of the life-world” (1073) : “Par le monde de la vie quotidienne il faut comprendere cette région de la réalité que l’adulte éveillé et normal prend simplement comme allant de soi dans l’attitude du sens commun”

399 un abbandono. “Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me ?”, evoca il Salmo biblico. “Eli, eli, lamà sabactani”! A che cosa mi hai abbandonato, traduce Mechonnic211. L’essere abbandonato, che noi viviamo nelle vicinanze della follia e del suo sfondamento nel regno del pollakòs, nell’abbondanza e nell’eccesso dei possibili o nell’esauri- mento dei possibili. Nell’esperienza estrema, là dove l’agitazione, la violenza, l’incontrollabile, il pericolo si scatena, il soggetto perde la capacità di dire “Io sono”, ma solo “é”. (es gibt, il y a), L’identità spro- fonda e il suo normale tremore si cancella nell’agitazione, che è per- dita di ogni intermediario, di ogni luogo di contenimento e di presa, come nella esperienza tragica dell’uomo demente. Non vi è più presa ma solo abisso, che non è il nulla ma l’abbandono ad un’altra legge. La legge delle tenebre, di cui il re Lear di Shakespeare dice, con una stupenda definizione della malattia mentale,“Questo palazzo di tene- bre che è il mondo di qualcuno che sente il suo spirito perdersi, smarrirsi”, e che nessuna classificazione semplicistica riesce a saturare. Il quoti- diano richiede un’etica senza la quale è destinato ad inabissarsi nelle tenebre. Etica rinvia a oikos, casa, dimora, abitudine, ed è intima- mente legato alla quotidianità, al personale, al proprio (idios) ma an- che alla polis, ad ogni relazione d’alterità. Vi è come una tensione tra comunità e idios. L’etica è un appartenere e un appartenersi, è un abitare in una prossimità e nello stesso tempo in una distanza da sé, dal corpo, dal mondo. La perdita di questo ethos sprofonda l’uomo nella condizione basale e tragica dell’esistenza. L’uomo è qui conse- gnato all’apeiron, all’illimitato, al senza forma. Impossibile è allora lo “stare” nel mondo, la difesa contro il puro accadere. Questo è il quo- tidiano e il farsi esperienza nella nostra individuale quotidianità. Smarrire il quotidiano e il sentimento oscillante della quotidianità è entrare nella alienante esperienza della “perdita dell’evidenza natura- le”, di cui scrive Blankenburg212 parlando della psicosi, o nel crepu- scolo delle cose e dei nomi della demenza e nell’oscuramento del “contatto vitale” con il mondo e i suoi oggetti (Minkowski), che da ordine alle cose. Ma è anche nell’esperienza siderante in cui si rinun- cia o ci si difende dal rischio di incertezza esistenziale, che il quotidia-

211 H. Meschonnic, Gloires, Desclée de Brouwer, Paris, 2002

212 W. Blankenburg, La perdita dell’evidenza naturale, Raffaello Cortina, Milano, 1998.

400 no contiene, nella sua immobilizzazione ossessiva, nella sua “glacia- zione”, di cui parla Resnik213, o nella troppa leggerezza divenuta evanescenza214. Nei percorsi di soggettivazione e di socializzazione dell’uomo appaiono processi di “quotidianizzazione” e di “de-quoti- dianizzazione”, che assomigliano a veri e propri seismi. La malattia è qui la scena nel corpo, nella mente e nei rapporti con il mondo di questo alternarsi a volte burrascoso, altre silenzioso tra momenti in cui predomina la “domesticazione” pulsionale, il governo dei corpi, la messa in ordine delle cose, che i dispositivi simbolici e socio-politici permettono, e la loro catastrofe. Una catastrofe, una sorta di seisma, che racconta una fenomenologia delle rovine. Un seisma del tempo vissuto e del tempo vitale, in cui il prima e il dopo verranno catturati dal mero adesso; un seisma del corpo nella dissociazione, nella perdi- ta dei confini o nel sentirsi abitato dal Male; un seisma dello spazio, in cui si andranno a confondere il qui e il là, il sotto e il sopra e infine un seisma del mondo in cui si smarrirrà quella fiducia di base, che può prendere, come scrive Zutt215, la dimensione dell’atrofia della fiducia o di una vera e propria sua definitivarottura .

5.2.2 Stare tra i tempi, “une paix armée” “Il n’y a pas de synthèse, scrive Bruce Bégout, dans la vie quotidien- ne, il n’y a que des combines, des arrangements, des ajustements, qui ne perviennent jamais à une concorde finale. La paix quotidienne est une paix armée”216. Vi è un attimo d’incanto sul finire di una notte stel- lata, quando l’oscurità lentamente si incontra con i colori dell’alba appena accennata, quando i neri della notte battagliano con i rosa e i bianchi per il predominio del cielo. Nell’indeterminatezza di quel combattimento, nella strana sensazione d’inquietudine e nello stesso

213 S. Resnik, Glaciazioni. Viaggio nel mondo della follia, Bollati Borin- ghieri, Torino, 2001.

214 A questo proposito cfr. il mio lavoro “Perdita di peso, mancanza di peso : il paesaggio interno dell’inconsistenza” in Ponzio Pilato o del giusto giudice“ a cura di C. Bonvecchio e D. Coccopalmerio, Cedam, Padova, 1998.

215 J. Zutt, “Ueber verstechende Anthropologie. Versuch einer anthro- pologischen Grundlegung der psychiatrischer Erfahrung”, in H.W. Gruhle, R. Jung, et alii, Psychiatrie der Gegenwart, vol. ½, Springer, Berlin, 1963.

216 B. Bégout, op. cit

401 tempo di felicità di quei momenti di attesa è come se stessimo “fra i tempi”, a volte con gli occhi già attratti da ciò che avverrà, altre con la nostalgia per le figure della notte oramai trascorsa e irripetibile, altre ancora con l’anima desiderosa di sfuggire a quelle tenebre, ma timorosa per la troppa luce che si sta annunciando. È il momento di fragilità del quotidiano, quando all’alba gli uccelli si fanno muti im- mobili in attesa. “Noi stiamo tra i tempi”, scriveva negli anni Venti il teologo tedesco Friedrich Gogarten, parlando del disagio epocale già in atto. “Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tempi. Noi non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla fine. Forse non apparterremo una volta al tempo che verrà? … Così ci troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto … Noi ci troviamo fra i tempi”. Una condizione che appartiene anche all’ esperienza interiore di ogni uomo, errante tra i cicli della vita, il mutare delle stagioni, le mutevolezze delle sue emozioni. Stare tra i tempi significa infatti vi- vere la quotidianità e nello stesso tempo il suo mutamento. Il nuovo e il diverso, che accade dentro il quotidiano e turba il sentimento di fa- miliarità con le cose, giunge nello spazio vuoto della nostra “dimora” come un ospite inquietante, inatteso e spesso nemmeno invitato alla nostra tavola, apparecchiata secondo le regole di sempre, si mostra animato da giovanile irruenza, ma anche spesso del tutto indifferen- te nei confronti di ciò che viene a cambiare. Abbiamo almeno tre modalità di “navigare tra queste incertezze”. Nella prima il “diver- so” e l’individuo riescono a non incontrarsi, anzi si ignorano senza apparentemente influenzarsi a vicenda. Ogni confronto è evitato o posticipato a un “domani” infinito per impedire che il mutamento avvenga. È il tempo di una inerte quotidianità-routine. Nella seconda al contrario vi è contrasto e confronto, ma animato da paura, aggres- sività e inibizione: è il tempo di una quotidianità spezzata, ferita e spesso sanguinante. Una terza possibilità è invece data da un incontro generativo, dalla capacità di fare quella “rivoluzione creativa”, quella rinascita psicologica, di stile di vita, di sensibilità, che ogni diversità dona. Quale di queste tre possibilità sta attraversando il nostro tempo e le nostre anime? Quando “si sta tra i tempi” è necessario assumere il “principio di incertezza” come condizione dello stesso “atto creativo”. La sfida della quotidianità creativa vive in una tensione radicale tra fondamento e rinnovamento, tra obbedienza (che non è altro che il “mettersi in ascolto”) e ribellione. La quotidianità ha un rapporto

402 stretto con l’idea di tradizione. Chi la vive come un porto certo e sicuro, la ritroverà dopo un pò ripetitiva e polverosa e non ne capirà la sua forza rigenerativa. Sono ancora gli antichi a raccontarci questa sua forza dirompente. La tradizione, la “turat” è “come l’insistenza infinita dell’onda sulla spiaggia”, il ritorno e la ripetizione della stessa onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto il senso si rinnova e si arricchisce allargando il campo della nostra esperienza della vita. Il rinnovamento, il “nuovo” abita così nella profondità della tradizio- ne. Lo sforzo sta nel riuscire e non smarrirla nel rumore assordante delle effimere pseudo-novità di cui è riempita oramai la nostra vita quotidiana, nella paccottiglia retorica di una tradizione banalizzata e trasformata in gaget turistico o peggio nel fanatismo di chi non sa guardare alla “metamorfosi dell’onda” e crede più all’eternità della pietra che alla leggerezza del soffio di vento. Rinnovare la tradizione vuole dire ascoltare i segni del nuovo giorno con l’attitudine di quel “giardiniere”, che ogni giorno sa di dovere separare nel suo giardino le “buone piante” dalle erbacce. Qui la quotidianità, come esperienza vissuta, sa navigare tra le onde e nelle burrasche, ma anche sa evitare di incagliarsi nelle paludi della calma piatta. Rinnovare la tradizione rinvia a ciò che ha scritto il teologo ortodosso Pavel Evdokimov, “tra il brusio della piazza e gli incensi del tempio non ci deve essere un portale sbarrato ma una soglia aperta perché vi scorra il respiro della vita”. “Stare fra i tempi” nell’anima come nella vita vuole ascolto, attenzione e accoglienza attiva di quel respiro, vuole dire sentire la forza generativa e non solo protettiva della quotidianità. La quotidia- nità vive oramai nel tempo dell’inquietudine. Qualcosa nel sistema della paura e dunque nelle strategie di difesa individuali e collettive, che appartengono alla modernità sembra cambiare. Se il sistema della paura (che è nella società e nello stesso tempo dentro il nostro più intimo paesaggio interiore) aveva un suo oggetto più o meno delimi- tato in grado di permettere una frontiera tra il luogo del pericolo e quello della sicurezza, quello dell’inquietudine, che oggi ci attraversa come l’aria che respiriamo e a cui sembra dobbiamo abituarci come fosse un fenomeno naturale, è pervasivo, contagioso, senza limiti o frontiere. Assomiglia al tetro e sottile rumore di fondo dei passi delle antiche Parche che mietevano le loro vittime senza ordine, senza pos- sibilità di fuggire. È ovunque e da nessuna parte come quelle bombe che sul normalissimo treno dei pendolari madrileni ha fatto centinaia

403 di morti. È qualcosa che si nutre della nostra stessa quotidianità, che vi appartiene pronto al segnale di risveglio a travolgerla, a spietata- mente sfigurarla, lasciandoci storditi nella sua apparente insensatezza. Uno stordimento che oscilla tra frenesia mass-mediatica, che spesso fa più buio dell’oscurità stessa, e l’indifferenza di qualcosa che sembra appartenere già all’inevitabile. Se la paura esige nel mondo psichico individuale così come nella comunità strategie difensive (a volte an- che patologiche), l’inquietudine impregna silenziosamente la nostra anima e la nostra vita indifesa e vuota di parole. Prima di sconfiggerci definitivamente (nella fatica psichica o nel rischio di sfarinamento del senso stesso della libertà) ci lascia psicologicamente e socialmen- te nudi e balbuzienti. Il tempo dell’inquietudine svela drammatica- mente la vulnerabilità più profonda dell’uomo, la fragilità del suo quotidiano, che spesso l’arroganza dei nostri tempi di benessere ci ha fatto lungamente sottovalutare. Abbiamo pensato che la Ricchezza, la Tecnologia e persino la Democrazia ci avrebbero oramai protetto dall’inquietudine del Terrore senza Nome. Un Terrore che dissolve e distrugge dal di dentro il nostro territorio sociale e che tanto assomi- glia al terrore delle aggressioni virali, che distruggono le nostre difese immunitarie dopo averle “sedotte”. La minaccia nel tempo dell’in- quietudine infatti penetra, al di là della barriera costruita dall’ovvietà del quotidiano, l’intimo, colpendo il corpo, la salute, l’alimentazione, la sessualità, dissolve l’identità, aggredisce l’ambiente e le sue dimen- sioni più essenziali, come l’aria, l’acqua, la terra stessa, in una parola vive e sfigura progressivamente la nostra stessa quotidianità. È capace di usare la stessa familiare quotidanità per farla divenire straniera a se stessa e ucciderla. Da qui prendono origine i seismi, di cui ogni malattia individuale e sociale è testimone.

5.2.3 L’etica della quotidianità: per una quotidianità solidale Di fronte alle sfide della quotidianità, stretta tra il tempo dell’in- quietudine e l’illusione di una felicità a basso costo, vi è una parola che assume sempre più la forza di un indicatore di percorso. Questa parola è solidarietà che lascia pensare ad una sorta di terapeutica della vita. Molti equivoci però la attraversano. Solidarietà è oramai termine tanto abusato da arrischiare di perdere progressivamente il suo signi- ficato. Ma bisogna essere “anime belle” per essere solidali? La scena

404 politica e sociale di questi anni con il ritorno del fenomeno della po- vertà su larga scala e con la espansione delle “regioni” della solitudine e della sofferenza quotidiana di molti uomini, non fa che richiamarne con forza la sua attualità. Ma di che cosa veramente parliamo quando parliamo di solidarietà? La solidarietà è solamente disponibilità verso l’Altro, cancellazione di Sé o è contemporaneamente segreta realizza- zione di se stessi, a volte persino delle proprie mancanze? La solida- rietà non è allora idealizzazione delle “anime belle”, ma soprattutto riconoscimento della ambivalenza dell’uomo e delle sue parti anche oscure. Le parti oscure capaci di creare luce, vera solidarietà? Un pa- radosso a cui è inquietante ma anche utile pensare. Qui sta la sua ambivalenza che rinvia al paradosso di ogni atto di amore, che non si abbeveri alla illusione balsamica dei “buoni sentimenti”. “Colui che ama, scrive Nicole Jeammet217, non ama innanzitutto occupandosi degli altri, ma realizzando l’opera per la quale si è sentito destinato in una apparente indifferenza verso chi gli sta attorno”. Occuparsi degli altri serve sovente a nascondere che non ci si ama abbastanza, che una colpa irreparabile ci abita, a non riconoscere l’aggressività che ci appartiene, invelenendo e manipolando il dono che si offre con troppa disponibilità all’Altro. A volte si è solidali con l’Altro non per amore dell’Altro, ma per debito, per colpa, persino per odio verso se stessi. Una solidarietà autentica si fonderebbe così su una sorta di “buon uso dell’egoismo”? Se ogni atto solidale si nutre di responsa- bilità, di libertà, di gratuità, di ospitalità, ad esso appartiene pure il riconoscimento della propria aggressività e della funzione che svolge chi è aiutato per acquietare le proprie mancanze. L’amore non è qui solo un dolcificante sociale ma il costante “campo di battaglia” delle ambivalenze, che non può espellere il suo Altro (poi da salvare, da aiutare…). L’essenziale della solidarietà tra gli uomini non sta tan- to infatti nella bontà dell’ aiutare, ma nel riconoscimento che anche l’Altro, il bisognoso, colui che soffre, è nello stesso tempo colui che ci aiuta in una reciproca interdipendenza. Senza questa interdipenden- za, questo soccorrersi a vicenda, questo “amore mutuale” vissuto pro- fondamente e realizzato negli atti non vi è solidarietà ma altruismo “colonizzatore”. Qui sta il senso più profondo della gratuità, che da valore ad ogni gesto quotidiano e soprattutto ad ogni gesto di cura.

217 N. Jeammet, La haine nécessaire, Puf, Paris, 1989.

405

406 Per ricominciare

407 408 Per ricominciare

Negli studi vengono sempre sviluppate le facoltà discorsive e rappresentative, mai la facoltà intuitiva. E tuttavia anche questa deve essere sviluppata. La si sviluppa mediante la contemplazione faccia a faccia dell’intelligibile - ma dell’intelligibile che è al di sopra del significato, non di quello che è al di sotto. Simone Weil, Quaderni, III Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende Blaise Pascal, Pensieri

Questa pubblicazione collettanea esce in un momento di profonda trasformazione del nostro dipartimento. Coincide con la fusione dello stesso con il Dipartimento Sanità in una nuova entità che prenderà il nome di Dipartimento di Econo- mia Aziendale, Sanità e Sociale (DEASS). Al di là del cambiamento di nome, l’unione delle tre parti del Di- partimento, quella economico-aziendale, quella sociale e quella sanitaria, coniuga tre vertici fondamentali dell’esistenza umana, quello dell’aiuto, quello della cura e quello della dimensione eco- nomico-istituzionale. Per noi in modo particolare si situa nel momento della partenza della nostra direttrice Wilma Minoggio, che ci ha guidato sino ad ora. Tutto ciò significa che la navigazione fin qui affrontata si confron- terà con nuove avventure, perché non c’è vera esperienza, anche didattica e formativa, sia per gli studenti che per i docenti, se non vi è incontro con il nuovo, con qualcosa che abbia sempre a che fare con la dimensione dello stupore. Un buon progetto di navigazione, soprattutto quando vuole af-

409 frontare viaggi in terre ancora sconosciute, deve però dotarsi di uno strumento di memoria di ciò che è stato sino a qui fatto. Una sorta di diario di bordo che valorizzi le esperienze già vissute, che ne mostri i punti di criticità e che sappia accogliere nella pro- pria mappa di bordo, nuove idee e nuovi progetti. Questo nostro libro vuole modestamente essere questo diario di bordo e di memoria. Questo libro non pone il progetto formativo in una forma chiusa, non offre ricette didattiche, è soprattutto lontano da ogni “inge- gneria” pedagogica, ma sosta nel piacere comune di vedere le vele del nostro “vascello” prendere il vento e correre lungo l’orizzonte del mare. Come non ricordare qui le parole di Saint Exupéry nel suo racconto Cittadella del 1948 “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”.

Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, Lorenzo Pezzoli Comano, 28 luglio 2014

410 411 412 Per una bibliografia possibile

413 414 Per una bibliografia possibile Mappe di navigazione 3.1 Individuo, identità e vita affettiva

Testi di base

PALMIERI C., La cura educativa: riflessioni ed esperienze tra le pie- ghe dell’educare. Milano, 2001. Testi di riflessione sulle “isole” (distribuiti durante il corso)

Testi d’approfondimento

ANOLLI, L., Psicologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 2004. BETTELHEIM, B., Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1993. BOELLA, L., Sentire l’altro, Raffaello Cortina, Milano, 2006. BORGNA, E., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001. ———, Le emozioni ferite, Feltrinelli, Milano, 2009. DE MONTICELLI, R., L’ordine del cuore, Garzanti, Milano, 2003. ———, La novità di ognuno, Garzanti, Milano, 2008. DEMETRIO, D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina, Milano, 2005. ———, Raccontarsi, Raffaello Cortina, Milano, 1996. DESTRO, A., Antropologia dello spazio. Luoghi e riti dei vivi e dei morti. Pàtron editore, Bologna, 2002. DOUGLAS, M., Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contami- nazione e tabù. Il Mulino, Bologna, 1996. FABIETTI, U., L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivo- co. Roma, Carocci, 2005. KAUFMANN, J.C., L’invention de soi. Une théorie de l’identité, Ar- mand Colin, Paris, 2004. LE BRETON, D., Antropologia del corpo e modernità. Milano, 2007.

415 ———, La saveur du monde. Une anthropologie des sens, Métailié, Pa- ris, 2006. LEDOUX, J., Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare ciò che siamo, Cortina, Milano, 2002. LEVINAS, E., Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova, 1985. MARTIGNONI, G., A chi parlerò oggi, Ritter Edizioni, Lugano, 2004. ———, (ed), L’odio, Passione e furore, Edizioni Alice, Lugano, 1997. ———, (ed.), Navigare l’incertezza, Edizioni Alice, Lugano, 1988. PLATONE, “Simposio”, in Opere complete, vol. 3, Laterza, Bari, 1971. SCHELER, M., Il valore della vita emotiva, Guerini e Associati, Mi- lano, 1999 (con introduzione di BOELLA, L., Il paesaggio interiore e le sue profondità). SROUFE, A. L., Lo sviluppo delle emozioni, Raffaello Cortina, Mila- no, 2000. VAN GENNEP, A., I riti di passaggio. Bollati Boringhieri, 1996.

Inoltre:

La Bibbia, Genesi; il Vangelo di Luca (la parabola del samaritano). ALIGHIERI, D., La Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI. ESIODO, le Opere e i Giorni, (il vaso di Pandora). JOYCE, J., Ulysses, 1922. PLATONE, X libro della Repubblica. SANDARS, N. K. (ed.), L’Epopea di Gilgamesh, Adelphi, Milano, 1994.

416 3.3 Identità e alienità

Bibliografia obbligatoria:

Libri:

CAVIGLIA, G. - IULIANO, C. - PERRELLA, R., Il disturbo border- line di personalità, Carocci (Le Bussole), Roma, 2005. FALABELLA, M., ABC della psicopatologia. Esplorazione, individua- zione e cura dei disturbi mentali, Edizioni Maggi, Roma, 2011. JASPERS, K., Scritti psicopatologici. Esplorazione, individuazione e cura dei disturbi mentali, Alfredo Guida Editori, 2004. PEWZNER, E., Introduzione alla psicopatologia dell’adulto, Einaudi, Torino, 2002.

Dossier:

MANZOCCHI, O. (ed.), Le nevrosi, SUPSI-DSAS, 2013/14. MARTIGNONI, G. (ed.), Letture psicopatologiche, Epistemologia e clinica, SUPSI - DSAS, 2013/14. ——— (ed.), Le psicosi, SUPSI-DSAS, 2013/14. ———, La parola, l’ascolto e la follia, SUPSI-DSAS, 2009. MANZOCCHI, O. - MARTIGNONI G. - MILANI E., Il teatro della follia, DSAS, 2014. MILANI, E. (ed.), Le organizzazioni limite, SUPSI-DSAS, 2013/14.

Bibliografia generale:

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417 BORGNA, E., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizo- frenica, Feltrinelli, 2002. ———, Noi siamo un colloquio. Gli orizzonti della conoscenza e della cura in psichiatria. Feltrinelli, Milano, 2000. ———, Che cos’è la follia?, con CD Audio, Luca Sossella editore, 2008. ———, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 2002. BOURDIN, D., Les jeux du normal et du pathologique. Paris: Armand Colin, 2002. Brusset, B. - Brelet-Foulard, F. - Chabert, C., Névroses et fonctionne- ments limites, Dunod (Psycho Sup), 2006. Chabert, C, Les psychoses. Traité de psychopathologie de l’adulte, Dunod (Psycho Sup), 2010. CIVITA, A., Introduzione alla storia e all’epistemologia della psichiatria. Milano: Guerini, 1996. EHRENBERG, A. S. - LOVELL A. M, La maladie mentale en muta- tion. Psychiatrie e société, Odile Jacob, Paris, 2001. FOUCAULT, M., Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Raffael- lo Cortina Editore, Milano, 2006. GABBARD, G.O., Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina Edito- re, Milano, 1994. GOZZETTI, G. - CAPPELLARI, L. - BALLERINI, A., Psicopatologia fenomenologica della psicosi. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999. GREEN, A., Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata, Cortina Raf- faello, Milano, 1991. JASPERS, K., Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico (Temi di neurologia e psichiatria), 2000. LANTÉRI-LAURA, G., “Evolution du champ de la psychiatrie mo- derne: frontière set contenu”, in L’Evolution psychiatrique, 68, 1, 2003, 27-38. MARTIGNONI, G., L’archivio della follia. DOS/OSC, 1997, 1-17. ———, La parola, l’ascolto e la follia, DSAS, 2009. MINKOWSKI E., Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Ei- naudi, Torino, 2004. ———, Traité de psychopathologie, Empecheurs Penser en Rond, 1999. PEWZNER, E., Introduzione alla psicopatologia dell’adulto, Einaudi, To- rino, 2002. SCHARFETTER, C., Psicopatologia generale. Una introduzione, Fioriti Editore, Roma, 2004. SECHEHAYE, M., Diario di una schizofrenica, Giunti, 2000. SIMS, A. Introduzione alla psicopatologia descrittiva, aggiornato da F.

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Testi narrativi:

AUSTER, P., Follie di Brooklyn, Einaudi, Torino, 2005. Bauby, J.-D., Lo scafandro e la farfalla, Ponte alle Grazie, Milano, 1997. BEN JELLOUN, T., Lo scrivano, Einaudi, Torino, 1992. BERTO, G., Il male oscuro, Collana: La scala, Rizzoli, Milano, 1964. BRULOTTE, G., Doppia esposizione, Il Sirente (Fuori), L’Aquila, 2008. CAMUS, A., Lo straniero, Bompiani, Milano, 2002. CARDINAL, M., Le parole per dirlo, Bompiani, Milano, 2001. CARRÈRE, E., Vite che non sono la mia, Einaudi (Supercoralli), To- rino, 2011. CECHOV, A., Reparto n. 6., Einaudi, Torino, 1972. CUNNINGHAM, M., Le ore, Bompiani, Milano, 2002. DI STEFANO, P., Baci da non ripetere, Feltrinelli, Milano, 1998. Diffenbaugh, V., Il linguaggio segreto dei fiori, Garzanti Libri, Milano, 2011. DOSTOEVSKIJ, F. M., Delitto e castigo, Mondadori, Milano, 2005. ———, Il giocatore, Giunti, Roma, 2007. ———, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino, 2005. FLAUBERT, G., Memorie di un pazzo, Passigli, Firenze, 2007. FRISCH, M., Stiller, Mondadori, Milano, 2001. GOETHE, J. W., I dolori del giovane Werther, Garzanti Libri, Torino, 2008. GUIBERT, H., Citomegalievirus. Diario d’ospedale, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. HASLETT, A., I Il principio del dolore, Einaudi, Torino, 2003. HESSE, H., Il lupo della steppa, Mondadori, Milano, 1993. KAFKA, F., Il castello, Mondadori, Milano, 1998. ———, Il processo, Giunti, Roma, 2006. ———, La metamorfosi, Einaudi, Torino, 2008. MÁRAI, S., L’isola, Adelphi, Milano, 2007. ———, Le Braci, Adelphi, Milano, 1998. MASSON, R., Anime alla deriva, Einaudi, Torino, 2005. MASTRETTA, A., Strappami la vita, Giunti, Roma, 2008.

419 McEwan, I., Espiazione, Einaudi, Torino, 2005. ———, Sabato, Einaudi, Tornio, 2005. MCGRATH, P., Follia, Adelphi, Milano, 1998. ———, Spider, Bompiani, Milano, 2004. ———, Trauma, Bompiani, Milano, 2007. MOLIÈRE, Il malato immaginario, Giunti, Roma, 2004. MURAKAMI, H., A sud del confine, a ovest del sole, Feltrinelli, Mila- no, 2000. MURGIA, M., Accabadora, Einaudi, Torino, 2009. MUSIL, R., I turbamenti del giovane Törless, Mondadori, Milano, 1992. NOTHOMB A., Biografia della fame, Voland, Roma, 2005. ———, Cosmetica del nemico, Voland, Roma, 2003. ———, Igiene dell’assassino, Voland, Roma, 2001. ———, Metafisica dei tubi, Voland, Roma, 2002. PIRANDELLO, L., Il fu Mattia Pascal, Feltrinelli, Milano, 2007. PLATH, S., La campana di vetro, Mondadori, Milano, 2005. RAMONDINO, F., Passaggio a Trieste, Einaudi, Torino, 2000. ROHDE, K., La ragazza porcospino, Corbaccio, Milano, 2001. ROTH, J., La leggenda del santo bevitore, Adelphi, Milano, 1975. SACKS, O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano, 2001. ———, Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano, 2005. SARAMAGO, J., Cecità, Einaudi, Torino, 1996. ———, Tutti i nomi, Einaudi, Torino, 1996. SARTRE, J.P, La nausea, Einaudi, Torino, 2005. SCARPA, T., Stabat Mater, Einaudi, Torino, 2008. SCHNITZLER, A., Fuga nelle tenebre, Adelphi, Milano, 1981. SERRANO, M., Il tempo di Blanca, Feltrinelli, Milano, 2003. SIMENON, G., La finestra dei Rouet, Adelphi, Milano, 2009. ———, Memorie intime, Adelphi (La collana dei casi, n° 54), Mila- no, 2003. SVEVO, I., La coscienza di Zeno, La biblioteca di Repubblica, Mila- no, 2002. SZABÓ, M., La ballata di Iza; Einaudi, Torino, 2006. ———, L’altra Eszter; Einaudi, Torino, 2009. TOBINO M., Le libere donne di Magliano, 9 ed., Mondadori, Mila- no, 2001. ———, Per le antiche scale, Mondadori, Milano, 2001. TOLSTOJ, L., La morte di Ivan Il’ic, Garzanti Libri, Torino, 2008.

420 WERNER, M., A presto, Casagrande, Bellinzona, 2006. ———, Di spalle, Casagrande, Bellinzona, 2003. WILDE, O., Il ritratto di Dorian Gray, Garzanti Libri, Torino, 2007. Winckler, M., La malattia di Sachs, Feltrinelli, Milano, 1999. WOLF V., Gita al faro, Garzanti Libri, Tornio, 2007. ———, La signora Dalloway, Feltrinelli, Milano, 2005. ———, Le Onde, Einaudi, Torino, 2005. ZORN, F., Marte - Il cavaliere, la morte e il diavolo, Capelli Editore, Mendrisio, 2007.

Filmografia:

Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) Diario di una schizofrenica (Nelo Risi, 1968) Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971) Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975) Qualcosa è cambiato (James L. Brooks, 1997) Rain Man (Barry Levinson, 1998) Ragazze interrotte (James Mangold, 1999) A beautiful mind (Ron Howard, 2001) Spider (David Cronenberg, 2002) Sybil (Joseph Sargent, 2007) C’era una volta la città dei matti (Marco Turco, 2010) Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) Inception (Christopher Nolan, 2010) A dangerous method (David Cronenberg, 2011)

421 3.4 Fenomenologia del gesto di “cura (psico)-educativa” nelle vicinanze della “follia”

DI MARCO G./NOSÉ F., La clinica istituzionale in Italia. Origine, fondamento e sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2010. PALMIERI C., La cura educativa, Franco Angeli, Milano, 2000. MARTIGNONI, G., La parola, l’ascolto e la follia, DSAS, 2004. ——— (ed.), Spazi di cura del disagio psichico, letture, DSAS, 2009-10. ——— (ed.), Spazi di cura del disagio psichico, letture, prima e secon- da parte, DSAS, 2008. ——— ( a cura ) Il mondo psicotico, Letture, DSAS, 2013. CALLEA, G., Psicosi e pratica istituzionale, Franco Angeli, Milano, 2000. ROULOT D., L’avec schizophrénique, Hermann, Paris , 2014. PANKOW G., L’homme et sa psychose, Aubier-Montaigne, Paris, 1969. PANKOW G., Structuration dynamique dans la psychose, Editions Campagne Première, 2010. PEZZOLI L., Le psicosi, Dossier, DSAS, 2014. SEARLE H., Le Contre-transfert, Gallimard, Paris, 1979. SCHOTTE J., Le contact, De Boeck-Wesmael, Bruxelles, 1990. KIMURA B., L’entre. Une approche phénoménologique de la psychose, Jérôme Million, Grenoble, 2000.

422 3.5 L’origine

Bibliografia obbligatoria per la frequenza al modulo

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L’infanzia e le sue problematiche

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Il triangolo identitario

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424 BOELLA, L., Buttarelli A., Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000. BRUNORI, P., Peirone M., Poffa F., Ronda L., La professione di edu- catore, Roma, Carocci editore, 2001. JOLLIEN, A., Eloge de la faiblesse, Paris, Les Editions du Cerf, 1999. MARTIGNONI, G. (ed.), Navigare l’incertezza, Comano, Edizioni Alice, 1988. PONTALIS, J-B., Limbo - Un piccolo inferno più dolce, Milano, Raf- faello Cortina editore, 2000. VAN GENNEP, A., I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1981.

L’asse della temporalità

CAMPBELL, J., Il potere del mito, Milano, TEA, 1994. ELIAS, N., Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986. GALIMBERTI, U., Gli equivoci dell’anima, Milano, Feltrinelli, 2001. GRAVES, R., I miti greci, Milano, Longanesi, 1983. JABES, E., Il libro dell’ospitalità, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1991. LUBAN PLOZZA, B. - MARTIGNONI, G., Inventare il presente, Torino, Centro Scientifico Editore, 2000. SEIWERT, L. J., Elogio della lentezza, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 2003. VIORST, J., Distacchi, s.l., Edizioni Frassinelli, 1987.

Opere da consultare, utili al professionista della cura dell’Altro

A.A.V.V., Psiche, Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoa- nalisi, neuroscienze, Firenze, Einaudi, 2007. A.A.V.V., Tra femminile e materno: l’invenzione della madre, Franco Angeli, 2009. A.A.V.V., Sognare a libro aperto, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. ABBOTT, E. A., Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi, Milano, 1984. ARENDT, H., L’umanità in tempi bui, Milano, Raffaello Cortina edi- tore, 2006. ———, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. BERMAN, L., La fototerapia in psicologia clinica, Trento, Centro stu- di Ercikson, 1996.

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435 Mappe d’esplorazione 4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto

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436 4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona

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437 4.4 Al Cimitero di Lugano

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438 4.5 Al Teatro Sociale Arogno

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439 MARTIGNONI, G., Dalla vocazione al ruolo. Itinerari attorno all’i- dentità, DSAS, Manno, 2012/2013. MINKOWSKI, E., Traité de psychopatologie, Les empêcheurs de pen- ser en rond, Le Pleissis-Roninson, 1999. MORTARI, L., Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Milano, 2002. ———, Aver cura si sé, Mondadori, Milano, 2009. MUNARI, B., Arte come mestiere, Laterza, Bari-Roma, 2006. PALMIERI, C., La cura educativa, Franco Angeli, Milano, 2000. PARMENTOLA, C., Prendersi cura, Giuffrè editore, Milano, 2003. RUSTIN, M. - RUSTIN, M., Passioni in scena, Mondadori, Milano, 2005. SMORTI, A., Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, Firenze, 1994. STEIN, E., Il problema dell’empatia, ed. Studium, Roma, 1985. WINNICOTT, D., Gioco e realtà, Armando editore, Roma, 1974.

440 4.7 Alle grotte della Valle Imagna

AA.VV., Il vertice e l’abisso, Quaderni di Eranos, Red Edizioni, Mila- no, 1994. BACHELARD, G., La terra e il riposo, le immagini dell’intimità, Red Edizioni, Milano, 1994. ———, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, Red, Como, 1992. BION, W. R., Seminari clinici, 1987, Raffaello Cortina editore, Mi- lano, 1989. FREUD, S., Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, vol. 10, Borin- ghieri, Torino, 1978. GIANI GALLINO, T., La ferita e il re, gli archetipi femminili della cultura maschile, Raffaello Cortina editore, Milano, 1994. HOFFMANN, E. T. W., Racconti, Istituto geografico De Agostini, Novara, 1983. JUNG, C. G., Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhie- ri, Torino, 1997. PLATONE, La Repubblica, Libro settimo, in Opere, vol. 6, Laterza, Roma, 1984. TETI, V. (ed), Storia dell’acqua, mondi materiali e universi simbolici, Donzelli, Roma, 2003. WINNICOTT, D., Gioco e realtà, Armando editore, Roma, 1974.

441 442 Utilità

443

444 Utilità

Ornella Manzocchi - psicoterapeuta, insegna alla Scuola uni- versitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) presso il Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS) e presso la Fondazione Istituto Ricerche di Gruppo (IRG) di Lugano per la formazione in Arteterapia, formazione di cui è co-responsabile. Studia Filosofia con indirizzo scienze dell’educazione e teorie della personalità, si specializza in Psicoterapia, attività che tutt’ora svol- ge, è membro dell’Associazione Svizzera di Psicoterapia (ASP); è membro dell’Accademia di psicoterapia psicoanalitca della Svizze- ra Italiana (APPSI); è membro fondatore dell’Associazione di Psi- cologia Generativa (APGSI) della Svizzera Italiana.

Graziano Martignoni - medico, specialista in psichiatria e psicoterapia FMH, psicoanalista, professore al Dipartimento di Scienze aziendali e sociali (DSAS) della Scuola universitaria pro- fessionale della Svizzera Italiana (SUSPSI); insegna psicopatolo- gia al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Friborgo. Ha insegnato come professore invitato e a contratto alle Università di Palermo, Bilbao e dell’Insubria. Responsabile dell’Osservatorio per le Medical Humanities della SUPSI; vice-direttore della Rivista per le Medical Humanities dell’Ente Ospedaliero cantonale (EOC); vi- ce-presidente della Fondazione Sasso Corbaro. Collabora da anni con il Giornale del Popolo di Lugano con una sua rubrica quin- dicinale dal titolo “Educando”. Interessato agli intrecci e intrighi psico-antropologici della nostra tarda-modernità e ai fenomeni di mutazione della soggettività (attraverso il filtro dell’educare e del curare), oltre alle questioni epistemologiche ed etiche relative alla Cura.

445 Lorenzo Pezzoli - Psicologo e psicoterapeuta, insegna ed è ri- cercatore presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) al Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS) e Dipartimento Sanità (DSAN); membro della Federa- zione svizzera degli psicologi (FSP) e già vicepresidente dell’Asso- ciazione ticinese degli psicologi (ATP), esercita la professione in studio dal 2000. Ha diretto per 15 anni i Servizi ambulatoriali per tossicodipendenti prima gestiti dall’Associazione Alice poi dalla Fondazione Ingrado coordinando le équipe multidisciplinari.

Claudio Mustacchi - docente ricercatore di pedagogia e anima- zione socioculturale presso il Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS) della Scuola universitaria professionale della Sviz- zera Italiana (SUPSI). Studia filosofia ad indirizzo psicologico e pedagogico all’Univer- sità degli Studi di Milano dove si laurea con una tesi sulle dinami- che di gruppo nella formazione internazionale. A Milano consegue la specializzazione in animazione teatrale alla scuola del Piccolo Teatro e la qualifica di terapeuta della psicomotricità all’Istituto Anne Marie Ville. Ha esercitato le professioni di psicomotricista e animatore e ha collaborato con l’Ufficio Franco Tedesco per la Gioventù fino al 1991. È poi entrato nel gruppo di ricerca europeo sulla creatività della facoltà di pedagogia sociale della FHS Amburgo, attività che lo ha portato a insegnare fra il 1993 e 1995 pedagogia del teatro nella FHS di Merseburg in Germania dell’Est e a collaborare alle ricerche promosse dall’Unione Europea. Fra il 2001 e il 2010 è stato professore a contratto di pedagogia sociale all’Università de- gli Studi di Milano e di pedagogia dell’animazione all’Università di Milano Bicocca.

Lorenzo Pellandini - nfermiere psichiatrico, docente presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) al Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS), coordinatore Villa Ortensia - unità abitativa del Centro abitativo ricreativo e di lavoro (CARL) dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC).

446 Guenda Bernegger - Laureata in Filosofia (Università di Lo- sanna), Master in Medical Humanities (Università dell’Insubria) e in Teatro Sociale e di Comunità (Università di Torino). Ha svolto attività di ricerca grazie a finanziamenti del FNS, dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e del Canton Ticino. È vice-presi- dente della European Society of Aesthetics and Medicine, che ha co-fondato nel 2005. Attualmente, insegna etica presso il Dipartimento Sanità (DSAN) della Scuola universitaria professionale della Svizzera Ita- liana (SUPSI), collabora con l’Osservatorio per le Medical Huma- nities della SUPSI ed è caporedattrice della rivista per le Medical Humanities edita dall’Ente Ospedaliero Cantonale.

Graziella Corti - insegnante, studia antropologia all’Università di Neuchâtel, dove ha ottenuto un diploma DEA con un Mémoire sulle riformulazioni identitarie dei migranti senegalesi attraverso le pratiche alimentari. Insegna storia alla Scuola Media di Breganzo- na e collabora come consulente scientifico per il Museo Etnografi- co della Valle di Muggio. Ha ideato due mostre: Parole di terra, parole di ferro (Losanna/ Balerna, 1999) sulle simbologie dei tessuti bogolan del Mali e For- me d’acqua (Cabbio, 2003), uno sguardo antropologico sull’im- maginario dell’acqua, curando il testo del catalogo della mostra; ha collaborato con un articolo al catalogo della mostra L’albero monumentale (Cabbio, 2007).

447 Finito di stampare nel mese di Settembre 2014 Realizzazione grafica e stampa: Diemme srl - Ghiffa

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